Come nasce la Costituzione

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POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 11 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxv.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 11 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

Indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Faralli

Presidente

Cappa, Ministro della marina mercantile

Commemorazione:

Tonello

Grilli

Cappa, Ministro della marina mercantile

Presidente

Sostituzione di deputati:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica

italiana (Seguito della discussione):

Preti

Clerici

Jacometti

Risposta ad una interrogazione urgente:

Presidente

Sforza, Ministro degli affari esteri

Sereni

Su di una votazione a scrutinio segreto:

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

CAPPELLETTI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

FARALLI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FARALLI. Ho chiesto di parlare, onorevoli colleghi, per fare alcune precisazioni, affinché la mia replica di ieri alla risposta data dal Ministro della marina mercantile non sia fraintesa.

Ho voluto affermare che non esiste e non deve esistere alcun contrasto fra i lavoratori di Trieste e i lavoratori di Genova. Noi, specialmente di questa parte dell’Assemblea, siamo pensosi e preoccupati sia per l’interesse dei lavoratori di Genova, sia per l’interesse dei lavoratori di Trieste, ma soprattutto siamo pensosi e preoccupati per l’interesse di tutta la collettività italiana.

Desidero anche che rimanga ben precisato che il piroscafo Conte Biancamano è sempre appartenuto al compartimento di Genova, è sempre stato armato e amministrato dal compartimento di Genova.

Desidero inoltre precisare, a proposito del mio accenno alla «ribellione» dell’equipaggio, che ho usato questa parola non nel senso di rivolta; ma in quello di non rispondere ad un ordine, che era stato trasmesso, ma non dalle autorità, di trasferire la nave a Trieste.

Posso infatti precisare che in data 28 agosto, alle ore 12.10, il Ministero della marina mercantile non sapeva ancora che il Direttore generale della compagnia Cosulich – mentre il Conte Biancamano, partito da Orano, si trovava all’altezza delle Baleari, cioè a sei ore a nord di Messina – impartì alla nave l’ordine di dirottare verso Messina. Di fronte a questo ordine, l’equipaggio della nave inviava un telegramma alla sede del «Lloyd Triestino» di Genova, così concepito: «Ufficiali ed equipaggio indignati dirottamento Messina protestano energicamente presso Federazione e si rifiutano proseguire Trieste».

Altro telegramma alla stessa sera venne inviato ai giornali Lavoro e Unità di Genova, così concepito: «Equipaggio Conte Biancamano, composto marittimi compartimento Genova, consci immane lavoro e sacrifici rimessa condizione rientrare Genova, tradite legittime aspirazioni denunciano alla marineria italiana iniqua maniera e chiedono ecc.».

Soltanto in questo senso io intendevo dire che l’equipaggio del Conte Biancamano si è ribellato a un ordine ricevuto. D’altra parte devo anche precisare che mentre l’onorevole Ministro della marina mercantile ha affermato ieri che l’ordine di dirottamento a Messina era stato dato direttamente dal suo Ministero, viceversa l’equipaggio afferma che, mentre la nave si stava dirigendo verso Genova, il Direttore generale del «Lloyd Triestino», comandante Cosulich, dette l’ordine del dirottamento verso Messina. Questo avveniva il giorno 28 agosto alle ore 12. Il Ministero della marina mercantile confermava l’ordine soltanto il giorno 29.

Desidero infine precisare che gli uomini i quali possono rimanere a bordo per la cosiddetta tenuta della nave non sono una quantità così scarsa come quella accennata dall’onorevole Ministro. In una nave come il Conte Biancamano, di 24.000 tonnellate, uno dei pochi transatlantici che la tragedia della guerra ha permesso rimanga all’Italia, il personale che deve comunque rimanere a bordo è di circa 250.

PRESIDENTE. Onorevole Faralli, ella sta nuovamente svolgendo un’interrogazione già svolta. Ella ha rettificato alcuni punti ai fini del processo verbale; ma in questo momento mi sembra che riprenda la questione ex novo; le sarei grato se volesse concludere.

FARALLI. Ha perfettamente ragione, ma poiché si tratta di una questione che potrebbe ingenerare dei malintesi fra Genova e Trieste, desidero precisare.

PRESIDENTE. Ella entra però in questioni di ordine tecnico, interessantissime sì, ma trattate in questo momento non nella sede opportuna.

FARALLI. Comunque desidero rimangia ben chiaro che, quando abbiamo sollevato la questione del Conte Biancamano, abbiamo inteso rispondere a due esigenze: una di carattere sindacale relativa al fatto che detta nave rimanga alla sua sede naturale del compartimento di Genova; l’altra, di politica nazionale, per segnalare l’opportunità che il Conte Biancamano rimanga a Genova anche per sfuggire alle eventualità che possono derivare come conseguenza di una probabile costituenda società di navigazione internazionale a Trieste. A questo punto, con la discrezione necessaria, desidero che nel verbale rimanga precisato che noi intendiamo con questo nostro accenno difendere quello che è il diritto ad un bene strumentale appartenente alla collettività italiana per evitare che domani ci si possa trovare di fronte a qualche sorpresa. In questo senso insisto perché la questione del Conte Biancamano sia esaminata obiettivamente, da un punto di vista strettamente nazionale, dall’onorevole Ministro della marina mercantile, prescindendo da quelli che possono essere gli interessi particolari sia dell’armamento triestino che di quello genovese. (Applausi).

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GA.PPA, Ministro della marina mercantile. Mi pare che la questione sia stata ieri da me chiarita senza nessun preconcetto né partito preso. Ho fatto presente che il Conte Biancamano è iscritto, come è noto, nel compartimento di Genova e che il dirottamento a Messina e il disarmo non compromettono né poco né tanto la sua appartenenza. In secondo luogo ho precisato che il dirottamento a Messina e l’ordine di porsi in disarmo in questo porto non impegnano le future decisioni che potranno essere prese quando saranno determinati i lavori da compiersi e sul Conte Biancamano e sul Conte Grande e quando sarà effettuata la gara fra i cantieri concorrenti. Nel contrasto fra i marittimi genovesi del «Lloyd Triestino» i quali reclamavano a Genova per il loro turno d’impiego il piroscafo Conte Biancamano e la richiesta assillante di tutte le organizzazioni commerciali e sindacali del porto di Trieste e del cantiere di Monfalcone – perché il Conte Biancamano, pur essendo iscritto nel compartimento di Genova, in quanto in passato apparteneva al «Lloyd Sabaudo», società di Genova, è però nave del «Lloyd Triestino» di Trieste – nel contrasto di queste due domande, tutte due degne della maggiore considerazione perché vengono e l’una e l’altra da disoccupati che desiderano lavoro e pane per le loro famiglie, non ho compromesso nulla con la decisione presa. L’avviamento a Messina, dove non vi è possibilità di cantieri che possano rimettere in pristino il Conte Biancamano, fa sì che, quale sia per essere la decisione futura, l’attuale destinazione del Conte Biancamano non impedirà che sia ritornato a Genova se saranno i cantieri di Genova ad essere favoriti dall’asta, o che sia inviato nel settore di Trieste, ove i cantieri di Monfalcone riescano vincitori dell’asta.

Tutte le altre preoccupazioni che ancora oggi ha ripetuto l’onorevole interrogante sono fuori posto. L’onorevole Faralli ha portato la discussione fuori del testo dell’interrogazione. Io avevo risposto attenendomi a questa. Egli ha evaso per portare qui un problema che dovrebbe essere, se mai, occasione di notizie che personalmente potrò dargli o, se egli lo crede opportuno, potrà essere oggetto di discussione davanti all’Assemblea, attraverso un’altra interrogazione.

Ma sulle nuove sue affermazioni devo fare altre precisazioni. Per me ha una importanza molto secondaria che l’ordine di dirottamento a Messina, sia stato dato dalla società armatrice o sia stato dato dal Ministero della marina mercantile. Devesi riconoscere alla società armatrice il diritto pieno e completo di ordinare al comandante di portare la nave dove essa l’ha destinata. Indipendentemente da ciò l’onorevole Faralli è in errore quando afferma che l’ordine è stato dato dal «Lloyd Triestino». L’ordine di fare scalo a Messina è stato fatto dare da me, dopo matura considerazione, ed è stato trasmesso dal Capo del mio Gabinetto per telefono a nome mio, alla sede di Roma del «Lloyd Triestino». Qui forse è sorto l’equivoco in cui è caduto l’interrogante essendo l’ordine del Ministero al «Lloyd» stato poi ritrasmesso dal «Lloyd» stesso. Ma in realtà l’ordine partiva dal Ministero. Ciò è comprovato da una lettera del «Lloyd Triestino» che dice: «In conformità alla richiesta da lei rivoltami, comunico che in data 29 agosto, in seguito alle istruzioni di cotesto Gabinetto, abbiamo telegrafato alla nostra Direzione generale e sede marittima di Genova: «Ministero telegrafato impartire istruzioni Conte Biancamano perché approdi Messina in attesa di ordini».

FARALLI. L’ordine venne dato il 28 agosto.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Successivamente fu spedito un telegramma a mia firma.: «Autorizzasi disarmo Conte Biancamano lasciando a bordo personale per sicurezza nave, particolarmente pericolo incendi stop possibilmente la nave sia ormeggiata in porto».

Riguardo alla considerazione sul numero dei componenti l’equipaggio, è molto strano che l’onorevole Faralli, il quale come me è rappresentante di una regione e di una città marittima, venga qui a dire che per tenere in disarmo una nave di quel tipo ci vogliono almeno 250 persone. Il Conte Grande in disarmo a Genova occupa attualmente 123 persone, che sono un numero assolutamente superiore alla bisogna, perché si è dovuto cedere alle insistenze della Federazione della gente del mare per un maggiore impiego di disoccupati. In realtà, per un piroscafo in disarmo, nelle condizioni del Conte Biancamano, che è stato completamente spogliato di ogni suo contenuto – in quanto, dovendo esso servire per trasporto militare durante la guerra, le autorità americane hanno tolto tutto ciò che poteva essere causa di incendio – bastano una quarantina di persone al massimo.

Quindi, la questione si riduce a piccola cosa: non avremmo alleviato che minimamente la disoccupazione dei marittimi a Genova, anche perché deve considerarsi che coloro i quali sarebbero stati sbarcati a Genova per essere sostituiti sarebbero indubbiamente passati fra i disoccupati.

COSATTINI. Dovevate mandare la nave a Trieste.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. A Trieste non possiamo mandarla, anche per le considerazioni esposte ieri dall’onorevole Faralli.

Circa la minaccia di non obbedire agli ordini di dirottamento e di disarmo, a me spiace che sia stato in quest’Aula accennato alla possibilità che l’equipaggio di una nave italiana si rifiuti di obbedire ad un ordine ricevuto. Non è ammissibile, sotto qualsiasi Governo, che l’equipaggio di una nave mercantile si rifiuti di obbedire; e questo non soltanto perché ciò cadrebbe sotto le sanzioni del Codice della navigazione che contempla il fatto sotto il profilo di ammutinamento grave, ma anche perché in questo momento, in cui si tratta di ricostruire la marina mercantile italiana, che è parte essenziale e vitale della nostra ricostruzione economica, in questo momento in cui abbiamo bisogno di acquistare all’estero navi, anche col concorso di capitale straniero, non possiamo concepire che un equipaggio si rifiuti di obbedire agli ordini. Questo non è stato mai fatto e sono convinto che non sarà fatto!

È deplorevole che la commissione aziendale interna – non so da chi rappresentata – dei marittimi genovesi del Lloyd abbia telegrafato nei termini che leggo, giacché la cosa è stata annunciata dall’onorevole Faralli: «Appresa comunicazione ministeriale disarmo Conte Biancamano abbiamo telegrafato equipaggio rifiutarsi di sbarcare (questo è proprio un incitamento al reato). Telegrafiamo a Giulietti perché protesti presso Ministero. Informate subito onorevole Faralli che domani farà una interrogazione alla Camera».

Giacché l’onorevole Faralli è in così buoni rapporti con la commissione interna genovese dei marittimi del «Lloyd Triestino», vorrei appellarmi a suo senso di patriottismo e di civismo per pregarlo di far presente che non è assolutamente possibile ammettere in nessun modo che un equipaggio si rifiuti di ubbidire. Esso potrà far valere le sue ragioni in tutti i modi consentiti; ma bisogna tener presente che distruggeremmo la possibilità di rinascita della nostra marina mercantile se consentissimo uno stato di anarchia di questo genere, per cui un equipaggio si rifiuti di obbedire agli ordini ricevuti. (Vivi applausi).

Per fortuna, e questo torna ad onore dell’equipaggio del Conte Biancamano e della nostra gente di mare, questo non è avvenuto e sono sicuro non avverrà. Mi pare di aver sufficientemente dimostrato quali siano i miei veri sentimenti verso la gente di mare. Nel momento in cui mi insediai al Ministero della marina mercantile, trovai insolute due grosse questioni: quella del premio di avvicendamento ai marittimi disoccupati e quella del contratto di lavoro per la gente di mare. Ed è stato riconosciuto anche dai rappresentanti più autorevoli dell’organizzazione marinara che il mio intervento è valso in poche settimane a risolvere le questioni pendenti, assicurando ai marittimi disoccupati, a tutto carico degli armatori, un sussidio di 300 lire quotidiane in aggiunta al normale sussidio di disoccupazione. Posso affermare inoltre che il contratto di lavoro che è stato concluso pei marittimi è il migliore dei contratti di lavoro che esistono attualmente in Italia. Questo dimostra quali siano i miei sentimenti verso la gente di mare, di qualunque regione essa sia. Io ritengo che in questa ricostruzione della marina mercantile occorre l’accordo pieno, completo e disciplinato della gente di mare e degli armatori. Questo abbiamo raggiunto. Cerchiamo di mantenerlo. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Commemorazione.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Sia a me concesso rievocare la nobile figura di un combattente della vecchia guardia socialista, e di evocarla a nome del Partito socialista italiano: Lorenzo Ventavoli.

Fu deputato nella 25a e 26a Legislatura e fu anche Consultore nazionale. Era di umile origine: fu un muratore e venne al socialismo, nei tempi eroici del socialismo, quando essere socialista voleva dire avere contro di sé tutto l’odio della borghesia e della reazione.

Si dedicò subito alla organizzazione dei lavoratori; intelligente, osservatore acuto, analizzatore paziente dei fenomeni economici, non si abbandonò mai ai romanticismi ed alle illusioni, facili in ognuno di noi negli anni della giovinezza.

Guidò la classe proletaria alle prime battaglie con senno e con fermezza, e fu perseguitato anche prima della reazione fascista. Quando il fascismo si abbatté sul nostro infelice Paese, Lorenzo Ventavoli fu una delle vittime prime e più segnate, e fu, dai fascisti, ferito ad una gamba.

Rammento il suo coraggio e la sua serenità nei momenti difficili. Dopo la marcia su Roma, con Giacomo Matteotti e con lui ci recammo, per dir così, in giro clandestino di propaganda attraverso la Sicilia.

Sempre sereno, anche nel pericolo, non smentì mai la sua fede e mai si piegò. Era buono, profondamente buono, ed amava la causa santa dei lavoratori perché sentiva che la civiltà italiana avrebbe potuto soltanto compiersi mediante l’elevazione delle classi lavoratrici. E bisogna considerare quali erano le masse lavoratrici italiane un mezzo secolo fa! Povere folle abbrutite dalla miseria, dalla fame e dall’ignoranza; povere folle che non avevano ancora un senso di dignità e che vivevano rassegnate, sotto la frusta del padrone.

Lorenzo Ventavoli fece parte di questa audace minoranza proletaria, e, accanto ai primi gloriosi assertori del movimento socialista italiano, portò quel grande movimento nelle classi lavoratrici e preparò l’avvento di un’Italia democratica e repubblicana.

A questo combattente modesto, a questo muratore che seppe elevarsi con la propria volontà e con la propria coscienza, e seppe assurgere ad alte cariche nel suo Paese, e non mutare mai, anche nelle ore più tristi e nelle ore di miseria, a questo combattente buono e generoso vada, onorevoli colleghi, a nome di tutti noi, un saluto reverente e commosso. (Applausi).

GRILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRILLI. A nome mio e del mio Gruppo mi associo alle nobilissime parole del collega Tonello in ricordo di Lorenzo Ventavoli.

Era un operaio e dedicò la sua intelligenza e la sua attività ad aiutare le organizzazioni operaie nelle zone della Lunigiana e della Lucchesia. I suoi compagni lo vollero deputato al Parlamento nel 1919 e nel 1921. Ma la sua fortuna politica non lo inorgoglì, e non tentò mai di trarre vantaggi personali dalla sua posizione di deputato.

Rimase operaio modesto e semplice e subì la persecuzione fascista con dignitosa fermezza.

Emigrato in Piemonte, conquistò la simpatia e la stima di tutti quelli che lo conobbero e poterono apprezzare le sue doti di intelligenza e di onestà.

Lorenzo Ventavoli può essere ricordato come uno di quegli italiani di mente e di cuore, di cui oggi sentiamo tanto bisogno per la nostra ricostruzione morale. (Applausi).

CAPPA, Ministro della Marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della Marina mercantile. Mi associo, a nome del Governo, alla commemorazione dell’onorevole Ventavoli.

PRESIDENTE. A nome dell’Assemblea Costituente mi dichiaro partecipe del ricordo commosso dell’onorevole Lorenzo Ventavoli, di cui gli onorevoli Tonello e Grilli si sono fatti in questo momento interpreti dinanzi a noi.

Sostituzione di deputati.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, avendo cessato di vivere, il 6 agosto 1947, l’onorevole Diego D’Amico, deputato nella lista della Democrazia cristiana per la circoscrizione di Palermo (XXX), a termini dell’articolo 64 della vigente legge elettorale politica la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha deliberato di proporne la sostituzione con il candidato Francesco Restivo, primo dei non eletti nella lista medesima.

In seguito alla morte, avvenuta l’11 agosto, dell’onorevole Aldo Caprani, deputato nella lista del Partito comunista italiano per la circoscrizione di Brescia (VI), la Giunta stessa ha deliberato di proporne la sostituzione con il candidato Gaetano Chiarini, primo dei non eletti nella lista medesima.

Per l’improvvisa morte, avvenuta ieri, dell’onorevole Carlo Bassano, è rimasto vacante il seggio assegnato alla lista dell’Unione democratica nazionale nella circoscrizione dell’Aquila (XXI). In sua sostituzione la Giunta delle elezioni ha deliberato di proporre la proclamazione dell’onorevole Donati Antigono, che lo seguiva nella graduatoria dei candidati della lista medesima.

Pongo ai voti queste proposte della Giunta.

(Sono approvate).

Ricordo che da oggi decorre il termine di venti giorni previsto dall’articolo 65 della vigente legge elettorale politica, per la presentazione di eventuali reclami.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare onorevole Preti. Ne ha facoltà.

PRETI. Sono rimasto ieri assai meravigliato, quando l’onorevole Codacci Pisanelli, parlando – come egli ha dichiarato – a nome della Democrazia cristiana, ha nuovamente proposto di costituire il Senato sulla base della rappresentanza di categoria. Io proprio credevo che di un simile Senato non se ne sarebbe mai più parlato, dopo che la Commissione dei Settantacinque già l’aveva respinto.

Potrei comprendere questa proposta, se qui si trattasse di creare un Senato che fosse semplicemente un organo consultivo. Ma quando si sostiene, almeno inlinea di diritto, la parità del Senato e della Camera dei deputati, proporre poi che il Senato venga formato sulla base della rappresentanza di categoria significa ispirarsi a un criterio assai scarsamente democratico, anzi addirittura antidemocratico.

Nella moderna democrazia non si può ammettere che una Camera, la quale sia effettivamente partecipe della sovranità, attinga la sua autorità – per via diretta o indiretta – da una fonte diversa dal suffragio popolare universale. Se da quasi 40 anni la Camera dei Pari ha perso ogni potere effettivo, è proprio perché anche nella tradizionale Inghilterra questo principio democratico si è inequivocabilmente imposto.

Vorrei che l’onorevole Codacci Pisanelli fosse qui per chiedergli come, nel caso in cui dovessimo accettare la proposta sua e del suo partito, egli ci potrebbe garantire che le categorie del suo Senato corporativo rappresentino veramente il popolo. In base a quale criterio si può stabilire, putacaso, che la categoria dei meccanici abbia trenta rappresentanti in Senato e la categoria dei tessili venti, anziché magari trenta quelli dei tessili e venti quella dei meccanici? Forse con l’anagrafe professionale degli Uffici del lavoro, che oltre a riuscire sempre approssimativa, darebbe luogo a insanabili e sostanziali divergenze di interpretazione?!

E in seno ad ogni singola categoria, in base a quali criteri assegneremmo i posti rispettivamente ai rappresentanti del capitale, della tecnica e del lavoro?

Non credo si vorrebbe giungere alla rappresentanza paritetica di fascistica memoria. D’altronde, se domani l’onorevole Di Vittorio, segretario della Confederazione generale italiana del lavoro, pretendesse che in seno ad ogni singola categoria, in relazione al numero degli aderenti, i rappresentanti dei lavoratori fossero nove su dieci, non so cosa ex adverso gli si potrebbe rispondere.

Mi sembra che, sostenendo questa tesi del Senato corporativo, si voglia prescindere per forza dai partiti, i quali costituiscono le forze vive della democrazia moderna. Ma oltre a tutto si finisce per conseguire, adottando tali criteri, una rappresentanza degli interessi costruita a casaccio, non essendo rintracciabile, come ho dimostrato, nessun criterio obiettivo per assegnare un numero o un altro di senatori alle singole categorie economiche, e per suddividere i posti di rappresentanza in seno alle categorie stesse.

Il risultato sicuro, a mio parere, sarebbe uno solo: quello di ottenere una Camera conservatrice, cioè una Camera più a destra di quella Camera dei deputati che è l’espressione diretta del suffragio universale. Ed io trovo strano che un partito, come il democristiano, faccia queste proposte; sembra quasi – il che non dovrebbe essere – che esso abbia timore del suffragio universale, dopo che, pure, il 2 giugno del 1946 ha conseguito un risultato superiore, probabilmente, alle sue stesse aspettative. Perciò fanno male – a mio avviso – i rappresentanti del partito democristiano ad insistere su tali proposte non «squisitamente» democratiche. A questo riguardo io vorrei ricordare loro che, alla seconda Costituente francese, il Rapporteur général Coste Floret, rappresentante del Movimento repubblicano popolare, dichiarò, a nome del suo partito – che è anch’esso essenzialmente cattolico – e di tutti i partiti francesi, che non si poteva concepire che la sovranità risiedesse in una Camera o in Camere che non fossero diretta espressione del suffragio universale. Se di questo suffragio i cattolici italiani mostrano di diffidare, essi vengono a dare implicitamente ragione all’onorevole Nenni, il quale appunto sostiene sui giornali e sulle piazze che essi hanno paura delle elezioni!

Questa proposta del Senato corporativo il nostro partito non può naturalmente prendere nemmanco in considerazione. Non solo: ma il Partito socialista dei lavoratori italiani neppure è disposto ad accettare, in tema di Senato, il testo del progetto, di cui verrò ora a parlare.

In seno alla Commissione dei Settantacinque, dopo molte discussioni, si è finito per accettare, per la formazione del Senato, il principio del suffragio universale; ma, essendosi rivelato nel contempo il pericolo – non so poi se sia proprio un pericolo – di fare del Senato un doppione della Camera dei deputati, dando così ragione a quei partiti che sostenevano l’inutilità del primo, allora si è fatto ricorso a correttivi. Orbene, questi correttivi non ci convincono, perché ci sembrano di un evidente sapore antidemocratico.

Comincerò dall’elettorato attivo e osserverò che ne sono esclusi, in base al Progetto, in ordine alle elezioni del Senato, i cittadini di età inferiore agli anni venticinque. Questo significa negare il pieno godimento dei diritti politici a qualche milione di cittadini, i quali hanno già compiuto il servizio militare di leva, e con ciò adempiuto anche al più gravoso dei doveri nei confronti dello Stato. Né si potrà certo loro attribuire una incompleta maturità civile e politica!

Una simile limitazione viene manifestamente a contradire ai più elementari principî della moderna democrazia; senza contare poi che, in questa maniera, vengono avvantaggiati certi partiti a danno di altri, e in particolare di quelli che hanno un maggior seguito nella gioventù e che spesso meglio rappresentano l’avvenire della Nazione. La Repubblica non deve, a mio modo di vedere, trasformarsi in una gerontocrazia.

Quanto poi alle categorie dei cittadini eleggibili, esse non convincono assolutamente nessuno; al punto che credo sia inutile starle a discutere ad una ad una. Si tratta, oltre a tutto, anche di categorie eterogenee; sono posti, per esempio, gli uni a fianco degli altri i decorati della guerra di liberazione e i professori di università, mentre è evidente che gli uni sono presi in considerazione per meriti di carattere puramente politico – giacché potrebbero essere anche analfabeti – mentre gli altri sono presi in considerazione per meriti esclusivamente scientifici, posto che, per quanto concerne il piano politico, essi potrebbero anche risultare ex-militanti del partito fascista repubblicano…

A norma dell’articolo 56, intanto, alcuni partiti si potrebbero trovare nell’impossibilità di mandare alla Camera Alta persone che pure ne sarebbero degnissime, in quanto non rientrano in nessuna delle categorie previste. Né si può, d’altra parte, allungare l’elenco delle categorie stesse, sino a farlo diventare lungo come il testo della Costituzione!

Anche il criterio della parziale rappresentanza delle Regioni nella Camera Alta convince ben poco, perché, o lo Stato è federale, e allora è concepibile che i senatori siano i rappresentanti delle singole Regioni; o lo Stato invece è unitario – e la Repubblica italiana rimane tale – e allora mi sembra assolutamente illogico ricorrere a questa parziale rappresentanza delle Regioni. Comunque, un effetto certo dell’adozione di un tale criterio è questo: che, essendo assegnata a ciascuna la stessa rappresentanza, vengono favorite le Regioni meno popolate e più arretrate, quali, ad esempio, la Lucania o il Molise (se dovesse venire confermata la sua erezione a Regione) a danno di quelle più progredite e con popolazione maggiore, quali, ad esempio, la Lombardia ed il Veneto. Ed anche qui, naturalmente, il risultato non sarebbe che quello di favorire partiti che hanno una tendenza politica conservatrice a danno di altri partiti più di sinistra.

Posto dunque che, sul piano della coerenza democratica, si dovrebbero respingere tutti questi correttivi, si finisce necessariamente, per questa via, per cadere nel doppione esatto della Camera dei deputati. Io credo, peraltro, che abbandonando i criteri seguiti dal Progetto, si possa tentar di battere una via più democratica, senza per questo correre il pericolo di fare del Senato una mala copia della Camera che siede a Montecitorio.

Si possono prendere in esame diversi sistemi: per esempio, il sistema del suffragio universale abbinato al collegio uninominale. Se non erro, dinanzi alla Commissione dei Settantacinque, l’onorevole Einaudi, all’ultimo momento, ebbe a fare questa proposta: eleggere il Senato attraverso il collegio uninominale, senza ballottaggio. La proposta fu accolta favorevolmente dall’onorevole Togliatti, il quale osservò che in questa maniera si poteva anche andare incontro ai desideri di larghi strati del popolo italiano, i quali erano rimasti delusi nella loro aspettativa di vedere eletta la prima Camera sulla base del collegio uninominale, anche per meglio valo-rizzare le singole personalità. Questa proposta, che allora fu rigettata per pochi voti – forse solo perché escludeva il ballottaggio – credo che potrebbe essere ripresa ora in esame, a patto di non escludere il ballottaggio stesso. Infatti essa mi sembra più conseguentemente democratica. Si potrà obiettare che ne verrebbero avvantaggiati i due partiti più forti in Italia, il democristiano e il comunista, i quali finirebbero quasi sempre per essere i rivali in sede di ballottaggio. Ma, quando si tratta di redigere la Carta costituzionale, non si deve dare peso eccessivo a queste considerazioni contingenti: si deve cercar di guardare un po’ più lontano.

Si potrebbe anche riprendere in esame il sistema della elezione indiretta attraverso i Consigli comunali, se si riesce a trovare un congegno che ci garantisca contro la prevalenza dei Consigli dei piccoli Comuni di campagna rispetto ai Consigli comunali delle città: inconveniente che caratterizzò il Senato della III Repubblica francese. Mi si dice che sia molto difficile, quasi impossibile. Comunque, perché non ristudiare la cosa?

C’è poi anche il sistema della filiazione diretta, che forse ha il difetto – per me può essere un pregio – di essere troppo crudamente sincero. È certo un sistema che accentua la supremazia dei partiti e che perciò dovrebbe incontrare le simpatie di chi crede sia nell’interesse della moderna democrazia sanzionare sempre meglio il ruolo preminente delle organizzazioni di partito – al contrario del sistema proposto dall’onorevole Einaudi che tende ad attenuare questa preponderanza – sicché è prevedibile che chi si orienta con simpatia verso l’uno debba istintivamente diffidare dell’altro.

Con il sistema in questione si chiama la Camera dei deputati – in pratica, perciò, i singoli partiti – ad eleggere il Senato. È un sistema che presenta alcuni innegabili vantaggi: prima di tutto si opera una scelta più meditata, in quanto i partiti possono ben ponderare prima di designare l’uno o l’altro, dei loro aderenti al Senato; in secondo luogo si possono designare dei tecnici, i quali alle elezioni – salvo che nella lista nazionale – non la spunterebbero mai, data la mancanza di qualità vuoi oratorie vuoi demagogiche.

Vi sarebbe inoltre la possibilità di portare al Senato quelle personalità politiche che – si dice – non possono scendere, vuoi per l’età veneranda, vuoi per essere au dessus de la mêlée, nell’agone elettorale; perché io credo che domani tutti i partiti sarebbero disposti ad eleggere, magari all’unanimità, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti o altre grandi personalità della vita politica italiana. (Interruzioni). Sì, anche Benedetto Croce, si capisce! Con tale sistema infine i partiti – in armonia con i canoni di una vera democrazia parlamentare – verrebbero rappresentati al Senato suppergiù nelle stesse proporzioni che nella Camera dei deputati.

La Democrazia cristiana obietterà che per questa via verrebbe certamente sanzionata l’inferiorità di fatto del Senato rispetto alla Camera dei deputati, perché una volta stabilito che una Camera nomina l’altra, è evidente che, anche se la Costituzione dice diversamente, la prima Camera eserciterà, di fatto, i poteri maggiori della seconda. Ma, d’altra parte, la subordinazione di fatto esisteva anche per il Senato del regno; e io sono convinto che nessuno dei deputati qui presenti osa pensare che domani, in linea di fatto, il Senato, con qualunque sistema sia por essere eletto, finisca per esercitare la stessa autorità della Camera dei deputati. Ciò non può essere e ciò non sarà, checché possa dire il testo della Costituzione.

D’altronde, o il Senato rappresenta delle forze diverse rispetto alla Camera dei deputati, e cioè, grazie a un sistema elettorale poco democratico, riesce a porsi come rappresentante di forze più conservatrici, e allora si potrà pensare ad una contrapposizione del Senato alla Camera dei deputati sul piano politico; ma quando anche la Camera cosiddetta alta è rappresentativa della volontà popolare perché, o direttamente o indirettamente, anche essa trae origine dal suffragio universale, allora la maggioranza nel Senato appartiene ai medesimi partiti che la posseggono nella Camera dei deputati: nel qual caso riesce assolutamente inconcepibile una opposizione fra Senato e Camera sul piano politico.

La democrazia moderna infatti non è una democrazia atomistica, poggiata sugli individui, come quella di ottant’anni fa, quando il gabinetto lo costituiva il Ministro X o il Ministro Y sulla base di amicizie personali: la democrazia moderna è essenzialmente di partito. Piaccia o non piaccia, oggi sono gli esecutivi dei partiti che tengono le fila dell’attività politica. Sono essi, perciò, che indirizzano oggi e indirizzeranno domani l’attività dei loro rappresentanti nelle due Camere. Pertanto, nel caso in cui entrambe poggino sul suffragio popolare, non essendo concepibili divergenze di ordine politico, non potranno sorgere che divergenze di carattere tecnico per il caso che i senatori studino più meditatamente, ovvero con maggiore competenza specifica, ciò che magari la Camera dei deputati abbia troppo rapidamente approvato.

In conclusione, adottando il sistema che ho ora illustrato, non si farebbe che riconoscere ufficialmente quella che è la realtà dei fatti: e cioè, che la democrazia-parlamentare moderna poggia essenzialmente sul pilastro dei partiti.

Una cosa che noi non discutiamo comunque, è la seconda Camera come tale. Una seconda Camera ci sarà, non fosse altro che per rendere omaggio alle tradizioni o, come molti dicono scherzosamente, per accontentare i così numerosi aspiranti al Senato. Sarebbe impolitico voler rimettere in discussione questo dato ormai acquisito.

L’esistenza della seconda Camera garantirà così, con assoluta certezza, quella maggiore ponderazione nella formazione delle leggi, di cui certi settori tanto si preoccupano. Ed è per questo che a mio avviso non occorreva, sempre in funzione di questa maggiore ponderazione, complicare in sovrappiù il meccanismo della formazione delle leggi.

Bisogna infatti rendersi conto che lo Stato moderno, il quale giorno per giorno allarga la sfera delle sue funzioni, specialmente nel campo economico, ha bisogno di una legislazione rapida, aderente alle contingenze quotidiane; le quali mutano continuamente in relazione al fatto che oggi il mondo procede assai più velocemente che non ai tempi della democrazia strettamente borghese.

Perciò è inutile che i nostalgici rimpiangano i tempi in cui la Camera approvava quaranta leggi all’anno, e affermino che oggi ci troviamo su piano della degenerazione parlamentare. Egli è che il mondo va avanti e forse essi stanno troppo fermi!

Orbene, bisogna decidersi a riconoscere che l’Assemblea plenaria, nella democrazia moderna, non può fungere se non da organo di controllo politico. Del resto lo riconoscono anche gli inglesi, i quali non sono affatto entusiasti del funzionamento della Camera dei Comuni, e per bocca di molti trattatisti affermano la necessità di riformarne il regolamento, di guisa che le Commissioni si sostituiscano all’Assemblea plenaria nella normale procedura legislativa. Cinquecento uomini o più, riuniti in quest’Aula riusciranno sempre a fare pochissime leggi, perché troppi vorranno intervenire e dire la loro parola talvolta neppure autorevole e, queste leggi, finiremo anche per farle male, grazie agli emendamenti improvvisati, approvati – come capita – a tambur battente, senza una sufficiente meditazione. E se, in materia di Costituzione, possiamo stare tranquilli, contando sull’opera della Commissione di revisione che riparerà a più di un errore, non si potrà per altro contare su un analogo esame di appello per la legislazione normale.

Abbiamo visto quel che è successo nelle discussioni di quest’anno: leggi di un’importanza molto relativa, come quella «leggina» che modificava il testo unico della legge comunale e provinciale, hanno richiesto un numero iperbolico di sedute. Se è ammissibile dunque, impiegare molto tempo per discutere la Costituzione, che è la legge fondamentale della Repubblica, non è serio perdere altrettanto tempo per leggi che potrebbero essere sbrigate con modesto impiego di tempo e di energie. È triste constatare come pochi deputati stiano a discutere fiaccamente in quest’Aula, mentre i più, se non sono addirittura nel «salone dei passi perduti» a fumare e ad oziare, stanno seduti al loro scanno, intenti a scrivere lettere alla moglie o al sindaco del paese.

Orbene, dinanzi a noi si pone un’alternativa. Possiamo da un lato prendere onestamente atto di questo stato di cose; ed allora si decide senz’altro di addossare il peso della legislazione ordinaria alle Commissioni, riservando all’Assemblea semplicemente le leggi costituzionali, quelle di approvazione dei trattati, e quelle sul bilancio, le leggi insomma che implicano una discussione politica. Nel quale caso bisogna modificare la norma del regolamento che riferisce al metodo di discussione, facendo dell’attuale procedura d’urgenza la procedura normale e viceversa. Oppure ci ostiniamo ad ignorare la realtà; ed allora, lasciando noi oggi le cose così come sono, potremo domani constatare che, di fronte all’irrimediabile lentezza del Parlamento, il quale non riuscirà nei termini dovuti a esplicare le sue funzioni, il Governo assumerà di fatto la funzione legislativa, come del resto da parecchi lustri va accadendo in Italia e nell’Europa in genere.

Ed allora, checché dica il testo della Costituzione – giacché anche lo Statuto albertino certe cose non le prevedeva! – noi continueremo a procedere avanti per via di decreti legislativi e di decreti-legge.

Tale eventuale conclusione non ci deve certo spaventare per la violazione che ne verrebbe del principio della divisione dei poteri. È, infatti, pacifico che questo vecchio principio costituzionale è ormai più che superato dal punto di vista della dottrina oltre che sul piano della prassi. Il dogma della divisione dei poteri in Europa, era fondato sul presupposto di due diverse fonti del potere sovrano, il popolo e la monarchia; è morto perciò con la monarchia costituzionale. In un sistema moderno di democrazia parlamentare, qual è quello che noi abbiamo stabilito di adottare, l’autorità dello Stato ha una unica fonte di legittimazione: il corpo elettorale. Il corpo elettorale nomina il Parlamento; e il partito o la coalizione di partiti che in esso possiede la maggioranza acquistano il diritto di formare il Governo. In pratica il partito o i partiti dominanti delegano il Governo a dirigere la maggioranza parlamentare. Esso Governo perciò, di fatto, promuove anche l’attività legislativa, esercitando pure in questa sfera una funzione preminente. Prescindiamo, infatti, dall’involucro giuridico e guardiamo come funziona il meccanismo della democrazia parlamentare moderna! Basterà allora constatare che i progetti, salvo eccezioni rarissime, sono presentati dal Governo e che essi diventano leggi perché votati da quella maggioranza di cui il Governo è il comitato direttivo. Di qui è facile trarre le conclusioni.

In pratica, pertanto, la differenza fra il procedimento legislativo ed il procedimento per decreto è una sola. Quando si ricorre al procedimento per decreto, la minoranza non è messa nella condizione di discutere e di emendare; quando si ricorre per contro alla procedura legislativa, la minoranza può discutere i progetti ed ottenere, se non altro degli emendamenti. Ed è assurdo perciò considerare ancora come un conflitto di poteri – cioè una contrapposizione tra un potere esecutivo ed un potere legislativo che, come tali, non esistono – quella che è semplicemente una contrapposizione tra la maggioranza parlamentare, la quale è nello stesso tempo anche Governo, e la minoranza la quale, non avendo parte nel Governo, può far sentire la sua voce semplicemente in seno all’Assemblea legislativa.

Orbene, noi siamo per la procedura legislativa, non in ossequio alla teoria della divisione dei poteri – che va accettata con molte riserve anche nella sua veste moderna di teoria della divisione delle funzioni – ma, dicevo, siamo per la procedura legislativa, in quanto, come democratici, intendiamo tutelare i diritti della minoranza, la cui azione risulterebbe necessariamente menomata se il Governo procedesse normalmente per via di decreti.

Ripeto, però, che la procedura legislativa non deve risultare troppo pesante, se si vuole evitare che il Governo sia forzato, anche contro la sua volontà, a ricorrere ai decreti legge e ai decreti legislativi.

Posto però che il Governo è arbitro della maggioranza parlamentare, trovo esagerata la diffidenza del progetto di Costituzione verso i decreti-legge ed i decreti legislativi. Non dobbiamo ignorare che ciò che stabilisce per decreto il Governo riuscirebbe sempre ad imporlo anche al Parlamento attraverso la sua maggioranza, salvo qualche eventuale emendamento.

So che in sede di Commissione si è citato spesso l’esempio di Benito Mussolini: si è detto in sostanza che Mussolini ha stabilito la dittatura a colpi di decreto-legge. Questo è assolutamente inesatto! Mussolini, fino alle elezioni del 1924 ha fatto molti decreti-legge ma, vivaddio, allora vi era una Camera la quale, se non fosse stata d’accordo con Mussolini, avrebbe potuto provocare quel voto di sfiducia che non ha mai provocato; e dopo le elezioni del 1924, le quali hanno avuto l’esito noto proprio perché quel Parlamento aveva votato quella legge elettorale che tutti conoscono, Mussolini aveva la sua maggioranza in Parlamento. La minoranza avrebbe potuto protestare, ma io credo…

FUSCHINI. Lei dimentica una cosa: il delitto Matteotti e le sue conseguenze.

PRETI. Qui c’è un equivoco. Intendo infatti dire questo: che Mussolini dopo le elezioni del 1924 non aveva bisogno di procedere per via di decreti-legge, perché rappresentando qui l’opposizione una piccola minoranza parlamentare, egli con la sua maggioranza avrebbe potuto ottenere con l’ordinaria legislazione quello stesso che otteneva attraverso i decreti-legge. E questo anche nel caso che avesse permesso alle minoranze di esercitare qualche funzione di critica parlamentare.

Solamente questo intendevo dire.

BUFFONI. Il Parlamento era una farsa.

PRETI. Appunto, siamo d’accordo. Mussolini aveva qui le sue comparse.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non è problema, questo, di tanto interesse, da perdere ancora del tempo.

PRIOLO. Si tratta di precisazioni su di un periodo della nostra storia parlamentare.

PRETI. Dato che il rapporto reale tra legge e decreti-legge è quello che io ho messo in luce, non dobbiamo aver timore di riconoscere che vi sono delle particolari situazioni nelle quali può essere necessario il ricorso sia al decreto-legge, sia ad un’ampia delega legislativa.

Per esempio, io concordo con quello che ha detto ieri l’onorevole Crispo, per quanto riguarda lo stato di guerra. Mi sembra infatti che, in caso di guerra, la delega non debba farsi caso per caso e sia opportuno, invece, ricorrere a una delega più generale per i provvedimenti resi necessari dallo stato di guerra. D’altra parte, anche la democratica Inghilterra, durante l’ultima guerra, si è attenuta suppergiù a questi criteri.

Concordo anche con le considerazioni dell’onorevole Crispo e dell’onorevole Codacci Pisanelli in merito ai decreti-legge e in particolare sulla opportunità del decreto-catenaccio. Posto, comunque, che decreti-legge vi saranno sempre, checché dovesse stabilire la Costituzione, meglio è disciplinarne fin d’ora l’uso attraverso la Carta costituzionale.

Non è dunque, onorevoli colleghi, per difetto di spirito democratico, ma perché siamo realisti, che noi siamo disposti a riconoscere, entro certi limiti, al Governo la facoltà di legiferare. E a riprova del fatto che noi vogliamo una Costituzione democratica, vi dirò che una innovazione della Carta costituzionale, che incontra la piena approvazione del nostro Partito, è quella relativa al referendum popolare. Il referendum popolare è uno strumento di educazione politica e, nello stesso tempo, un antidoto contro il monopolio dei partiti; perché, se è vero, come molti sostengono, che, attraverso il Parlamento, i partiti monopolizzano la volontà popolare, quasi che essa dovesse necessariamente passare attraverso il loro canale, noi, adottando il referendum, abbiamo trovato la via per rivolgerci direttamente al corpo elettorale, passando sopra ai partiti. D’altronde, se si deve ricorrere a correttivi del suffragio universale, esplicantesi attraverso le elezioni del Parlamento, l’unico correttivo moderno e democratico è quello del referendum.

Per non appesantire però troppo la procedura legislativa bisognerà, in tema di referendum, ricorrere a qualche snellimento, come ha osservato assai propriamente nel discorso del 5 marzo l’onorevole Laconi.

Mi resta ora da fare alcune osservazioni, non dirò sul Potere esecutivo, che a mio avviso è solo un’astrazione, ma più concretamente sul Presidente della Repubblica e sul Governo.

In complesso, mi sembra che la Presidenza della Repubblica ed il Governo, come istituti, siano ben disciplinati dal progetto di Costituzione. Avverto però la tendenza a prendere in considerazione, anziché i due distinti organi costituzionali, il cosiddetto potere esecutivo nella sua immaginaria unità, comprensivo, come tale, del Presidente della Repubblica e del Governo. È per questo che non si distingue, anche là dove si dovrebbe, la funzione propria dei due organi.

L’articolo 83, ad esempio, stabilisce che il Presidente della Repubblica «nomina, ai gradi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato». Orbene, è assolutamente pacifico che il Presidente della Repubblica solo formalmente è partecipe di questa funzione. Non si vede, quindi, perché, allo scopo di meglio distinguere le funzioni del Presidente della Repubblica da quelle del Governo, non si possa adottare lo stesso criterio che, se non erro, è stato adottato dalla Costituzione francese, quello cioè di riservare al Presidente della Repubblica solo la nomina degli alti funzionari.

D’altro lato nell’articolo 84 non si specifica sufficientemente se il Presidente della Repubblica, quando deve sciogliere le Camere, debba o non debba essere d’accordo con il Capo del Governo. A me pare che questo potere debba essere esclusivamente proprio del Presidente della Repubblica, alla stessa stregua della scelta del Primo Ministro. Se è questo che si vuole, precisiamolo meglio, tenendo presente che Presidente della Repubblica e Governo sono due organi costituzionali distinti.

In conclusione io credo che la democrazia parlamentare moderna, quale è la nostra, ci debba dare degli organi costituzionali con funzioni ben definite, capaci di reggere lo Stato con energia e con continuità d’azione e, d’altro lato, con competenza tecnica. Per questo bisogna tra l’altro, passar sopra alle preoccupazioni di coloro che difendono i principî legati al dogma della separazione dei poteri.

Non credo assolutamente, invece, che questo fine di una più efficace azione degli organi costituzionali, si possa raggiungere applicando correttivi al principio della sovranità popolare, quali il già menzionato senato corporativo. Il 2 giugno il popolo italiano ha saputo far ottimo uso del suffragio universale, e credo che indietro non si possa e non si debba più tornare. Il 2 giugno il popolo italiano ha conquistato il diritto di escludere dalla Costituzione futura una fonte di autorità sovrana diversa dal suffragio universale. Orbene, se si vogliono correggere, come ha detto ieri, mi pare, l’onorevole Codacci Pisanelli, gli effetti del suffragio universale per il fatto che esso darebbe luogo alle incontrastate supremazie dei partiti, non lo si deve fare andando indietro, verso il passato, ma procedendo più innanzi. Ed è quello che appunto si è fatto, come già dissi, nel progetto di Costituzione, ricorrendo al procedimento della democrazia diretta, attraverso quel referendum popolare il quale – non lo dobbiamo dimenticare – ci ha dato la grande vittoria repubblicana del 2 giugno.

Più la democrazia diventerà diretta, più la Repubblica italiana diventerà popolare. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Clerici. Ne ha facoltà.

CLERICI. Onorevoli colleghi, trascuro le questioni particolari che saranno oggetto anche di qualche mio emendamento, con quel metodo che ci ha suggerito ieri il nostro onorevole Presidente, invitando a trattare piuttosto in questa sede problemi di carattere generale. Mi fermerò invece su qualche questione di indole generale: sul Capo dello Stato e specialmente sulla sua nomina; sulla attività e composizione del Governo di Gabinetto; sulla formazione, origine e struttura del Senato. Infine dirò qualche cosa in aggiunta ed in parte a conferma della tesi sostenuta, mi pare, dal collega Preti, in merito alla formazione delle leggi.

Il progetto di Costituzione, onorevoli colleghi, propone, per la nomina del Capo dello Stato, l’elezione da parte dell’Assemblea formata dalle due Camere, con l’aggiunta di due rappresentanti per ciascuna Regione. Ma sarà certamente oggetto di discussione la proposta, già avanzata nelle diverse Sottocommissioni, che la nomina sia invece affidata al popolo, sia attraverso il voto diretto – tipo Costituzione di Weimar – sia attraverso il voto indiretto, di cui rimane prototipo la Costituzione degli Stati Uniti d’America, seguita dalle Costituzioni di quasi tutti gli Stati di quel continente.

Ritengo che nonostante molte ragioni stiano a favore della tesi dell’elezione popolare, sia preferibile la soluzione che è stata adottata a maggioranza dalla Commissione dei Settantacinque, ancorché non posso nascondere (la Camera lo vede da sé) che questo istituto non è in sostanza che la copia, quasi pedissequa, del disposto della Costituzione francese del 1875, riprodotto anche nell’attuale Costituzione repubblicana francese. Strano fatto, perché, come tutti sanno, la Costituzione francese del 1875 fu concepita e redatta da monarchici e con lo scopo di preparare, attraverso una Costituzione ambigua, il ritorno della monarchia, che allora non si era potuto effettuare, non già perché l’Assemblea nazionale a Bordeaux, a Versailles ed a Parigi non avesse una maggioranza monarchica e conservatrice, ma perché le frazioni monarchiche non riuscirono mai ad accordarsi per i contrasti fra i principi, fra l’ultimo rappresentante dei Borboni ed i principi della casa d’Orléans o almeno tra gli entourages dell’uno e degli altri. Una maggioranza di quasi quattro quinti monarchica, preparò allora, come è noto, quasi per disperazione una Costituzione repubblicana, vergognosa quasi di esserlo, tanto che la repubblica fu votata con un solo voto di maggioranza, e proprio per preparare il ritorno ad una monarchia di carattere costituzionale sul tipo di quella di Luigi Filippo o di quell’inglese; e tutto era predisposto perché si potesse sostituire nella Carta la parola re a quella di presidente. Eppure, strano a dirsi, quello Statuto non solo ha funzionato egregiamente per oltre mezzo secolo, ma è diventato il prototipo anche di quelli di altre nazioni; prima del 1914 fu imitato soltanto dal Portogallo; ma dopo il 1919 fu imitato da diversi Stati come la Turchia, la Grecia, e ora è imitato da noi.

È certo una Costituzione irrazionale, perché fu il frutto di un trucco; però in se stessa mi sembra efficiente se questa Costituente, come già la Commissione dei Settantacinque, resterà dell’avviso che la nuova Repubblica italiana dev’essere una Repubblica di carattere parlamentare. Perché, onorevoli colleghi, bisogna che noi stabiliamo chiaramente il baricentro di quello che sarà il nuovo Stato repubblicano italiano. Ogni regime ha il suo centro di equilibrio. Nella monarchia cosiddetta legittima, tutti sanno che un principio, quanto mai equivoco, era quello della legittimità, perché si faceva intervenire Dio, mentre in realtà si ratificava il fatto compiuto, e si gabellava per cristiana una dottrina ben diversa da quella genuina della Chiesa, circa l’origine e la natura del potere.

Nella Repubblica nostra il baricentro sarà, come avviene in tutti i regimi parlamentari, siano repubbliche o monarchie (naturalmente monarchie che abbiano, come in Inghilterra, in Belgio, in Olanda, nei paesi nordici, il carattere di repubbliche coronate) invece il Parlamento, dal quale deriva ogni potere politico; sì la sovranità è nel popolo, ma l’esercizio della sovranità è nel Parlamento.

Avendo noi ammesso questo principio come principio fondamentale, io penso, del nuovo Stato italiano, non credo che, per quanto suggestivo, l’esempio degli Stati Uniti d’America possa avere valore per noi. Perché? Perché il sistema degli Stati Uniti d’America ha un’origine storica e specifica ed ha soprattutto come postulato un popolo sostanzialmente democratico; un popolo rispetto al quale sarebbe assurda qualsiasi forma di cesarismo. Invece in Europa le elezioni popolari del Capo dello Stato hanno costantemente significato, se la storia ha un valore, un fenomeno tipico di cesarismo: la reazione e la protesta, cioè, contro le Assemblee e l’elezione di un uomo, al quale gettarsi in braccio. Non occorre che ricordi come lo stesso Cesare fu il rappresentante della più spinta democrazia di Roma, e il nemico del Senato, non meno del suo predecessore sfortunato, Catilina, del quale in gioventù egli stesso era stato un seguace. Basti pensare ai giorni nostri, all’epoca moderna: Napoleone I è stato, attraverso le sue diverse elezioni, sempre più accentratore di poteri fino a diventare imperatore della Repubblica francese, e fu inteso come il contrasto della democrazia che aveva, d’altronde, deviato, durante la rivoluzione francese, straripando nell’epoca del Terrore.

E gli storici recenti più avveduti, basta ricordare il Madelin, ci hanno dimostrato che tale dittatura era indipendente dalla persona, malgrado il genio di Napoleone; e che ad essa si sarebbe arrivati ugualmente anche se non ci fosse stato Napoleone.

Tutto era maturo, perché i ceti e le condizioni sociali francesi chiedevano un Cesare, un imperatore, un dittatore. In sua vece la sorte sarebbe toccata ad Hoche, se non fosse morto così giovine, o a Moreau il rivale sfortunato. Ed uguale è stato poi per il molto minore nepote, Luigi Napoleone nel 1850 e nel 1852; nel 1850 quale Principe Presidente; nel 1852 quale imperatore a sua volta. Se non fosse stato lui, sarebbe stato Cadillac.

Dunque un Presidente eletto dal popolo ha sempre in se stesso, in Europa (e Weimar ce l’ha confermato), il pericolo di un cesarismo, che negli Stati Uniti d’America non sarebbe concepibile, sarebbe fuori clima. Ho letto di recente in un giornale per la penna di uno scrittore brillante queste osservazioni: che ben diversi saranno in futuro i risultati delle elezioni presidenziali da noi se di persone elette dal popolo o elette dall’Assemblea. Certamente noi, per fortuna, non abbiamo un De Gaulle, non abbiamo più un D’Annunzio, né, guardandomi in giro, vedo nessuno ora che possa assumere ruoli simili; però vi è sempre il pericolo, attraverso l’elezione popolare, del successo di una persona, e dell’abuso poi che questa persona possa fare di uno straordinario potere contro quella che è la legittima, permanente, democratica rappresentanza della Repubblica popolare.

Ricordo, poi, una acuta osservazione, che non è del Tocqueville, che fu il più grande studioso della prima metà del secolo scorso degli Stati Uniti d’America, ma di quello che è il maggior conoscitore di essi ai nostri giorni, James Bryce, una acutissima osservazione circa l’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America. Quei coloni, ribellatisi alla madre Patria, nient’altro ebbero in mente di fare che sostituire la carica e le funzioni del Viceré, cioè dare alle Colonie un capo con gli stessi poteri che aveva già il Viceré inglese; il quale Viceré conservava oltre Oceano, nelle colonie poteri assai maggiori di quelli che erano in quei tempi rimasti al Re stesso in patria. Perché proprio in quei decenni la monarchia a Londra era divenuta parlamentare.

Tutti sanno la curiosa storia della monarchia parlamentare inglese, cioè di quel regime di Gabinetto nel quale ogni potere sovrano è assunto di fatto da esso e dal suo Presidente. Fu un caso; è il caso che molte volte interviene nella storia: i due primi re della Casa Hannoveriana, Giorgio I e Giorgio II, si disinteressarono delle sedute di Gabinetto, non presiedettero più il Consiglio dei Ministri, non per altro, perché erano due tedeschi che non conoscevano l’inglese, e preferirono evitare quelle noie per più piacevoli occupazioni. Così fu conquistato il principio di un Governo ministeriale autonomo ed indipendente dal re. Ma nelle colonie il Viceré, invece, continuava ad avere tutta quella autorità che aveva avuto il re precedentemente in Inghilterra sino a mezzo secolo prima. E il Presidente negli Stati Uniti ebbe così un potere veramente sovrano. Ma noi non potremmo assolutamente concepire un Presidente della nostra repubblica che avesse quei straordinari poteri, che ha il Presidente degli Stati Uniti d’America.

Certo il potere del Presidente degli Stati Uniti è ben superiore al potere che aveva un Guglielmo I o un Francesco Giuseppe, quasi pari a quello di un Nicolò di Russia. È un potere enorme, che ha come presupposto uno hiatus incolmabile tra Parlamento e Governo. Il Presidente governa lui direttamente e personalmente, nomina, lui, col consenso del Senato, i suoi Ministri, ma li revoca senza il consenso del Senato; risponde non davanti al Parlamento, ma soltanto davanti al popolo, che l’ha eletto. Le Camere hanno funzioni strettamente legislative, dalle quali sono tenuti lontani e Presidente e Ministri.

Ora, tutto questo è in contrasto con quello che è il regime costituzionale parlamentare, che si vuole instaurare in Italia, e al quale si è richiamato testé il collega onorevole Preti.

In America si arriva persino a questa enormità, per noi, naturalmente: che gli elettori di primo grado, quelli che sono eletti in un primo tempo per nominare il Presidente della Confederazione, non possono essere parlamentari dei due rami del Parlamento americano, tanto è assoluta da separazione tra potere legislativo e potere esecutivo.

Allora, si pone la questione; è possibile in Italia adottare il sistema americano, che è un sistema che è la negazione della collaborazione tra Governo e Assemblee, della responsabilità ministeriale, che è il sistema di due parallele che non s’incontrano mai, del Governo col suo Presidente e i suoi Ministri da una parte e le Camere dall’altra? Ma noi vogliamo adottare invece un sistema dove il legame tra Ministri e Camere è intimo e continuo, secondo la grande tradizione occidentale europea. Ed allora potremo avere un Presidente della Repubblica che un giorno – anche se molto in futuro; ma dobbiamo legiferare anche per un lontano avvenire – potrebbe opporre al Parlamento la sua origine sovrana, derivata e consacrata dal consenso popolare; ed allora in uno di quei momenti di smarrimento, di entusiasmo, che hanno tutti i popoli, e specialmente i latini, potrebbe sorgere grave l’antagonismo del Presidente con la permanente autorità delle Camere, del Parlamento, e del Governo che del Parlamento è l’espressione e il mandatario. E allora ricordo a me stesso più che ai colleghi che hanno la bontà di ascoltarmi con tanta cortese attenzione, una disposizione del progetto di Costituzione, sulla quale noi siamo tutti d’accordo, quella dell’articolo 85:

«Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal Primo Ministro e dai Ministri competenti, che ne assumono la responsabilità. Il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e per violazione della Costituzione».

La disposizione è tale e quale quella contenuta nella Costituzione di Carlo Alberto; è tale e quale quella contenuta nella Costituzione spagnola del 1806, in quella di Luigi Filippo e simili, in tutte quelle Carte cioè, che statuivano il principio formatosi nella prassi inglese e che fu espressa nel 1830 dal Thiers in Francia: «il re regna ma non governa».

Quando poc’anzi l’onorevole Preti diceva, ad esempio, che la nomina del Presidente del Consiglio è opera personale del Presidente della Repubblica, egli cadeva in un equivoco; perché, come è noto, anche quel provvedimento, in qualsiasi regime parlamentare, non è valido se non vi è un Ministro responsabile che ne assuma la paternità; se non porta cioè la firma di un Primo Ministro, sia di quello che si congeda che di quello che entra in carica. Altrimenti la nomina è nulla.

Appunto in forza di questo principio poté costituzionalmente Vittorio Emanuele III operare il passaggio da Mussolini a Badoglio; fu lo stesso Mussolini ad offrire, anzi, l’artificio per il quale, con la firma del Badoglio, egli poté prendere in quel bellissimo gioco Mussolini stesso: prima la firma del decreto di nomina del nuovo Primo Ministro era quella del Ministro uscente; Mussolini volle che fosse del subentrante e così fu giocato!

Il Capo dello Stato, re o presidente della Repubblica che sia, non ha in qualsiasi regime parlamentare alcuna responsabilità; ma appunto per ciò egli non può non ascoltare il consiglio dei Ministri responsabili, che firmano e rispondono per lui. Altrimenti si esce dalla normalità e si entra nel dispotismo; si entra nel colpo di Stato. Tutto diverso, invece, logicamente avviene per il Capo dello Stato eletto dal popolo stesso. Non sarebbe, quindi, concepibile, sarebbe anzi un assurdo, un Capo dello Stato eletto dal popolo, il quale si riducesse ad essere, non dico un fantasma, ma di certo un Capo che non può far nulla senza l’assenso, senza la firma dei suoi Ministri responsabili e che, d’altra parte, non può rifiutare il consiglio dei suoi Ministri, negare la sua firma a un decreto che essi gli sottopongono.

Se mi fosse dato di sostenere delle idee mie personali – non so con quale successo – direi che forse si poteva andare anche oltre; direi che forse si poteva anche arrivare al Governo direttoriale – Governo direttoriale al quale si arriverà forse nei decenni venturi – in cui la figura del Capo dello Stato è praticamente annullata. In fondo, il Capo dello Stato distinto dal Capo del Governo ha sempre, se vogliamo, qualche cosa del re. Dice Tito Livio che il segno dell’abolizione della monarchia in Roma fu che non vi era più nessuna autorità individuale: per ciò due furono voluti i consoli, sempre molteplice ogni magistratura.

In Isvizzera si ha l’esempio tipico del regime direttoriale, e colà il Capo dello Stato si confonde e si identifica con il Presidente del Consiglio; esso non ha alcuna prerogativa particolare, tranne forse qualche migliaio di franchi di più all’anno di stipendio, non ha alcuna residenza ufficiale, alcun apparato; sta a casa sua e paga il tram e il treno quando viaggia, come ogni altro cittadino.

Ma da qualcuno si è detto che il Governo direttoriale va bene per la Svizzera, in quanto essa non fa politica, ma fa solo amministrazione. Ebbene, io non credo che ciò sia esatto. Qui, fra noi, siamo in parecchi ad essere stati, e lungamente, in Isvizzera: fra gli altri l’amico onorevole Gasparotto che è qui vicino: orbene, noi tutti sappiamo che in realtà la Svizzera fa anch’essa della politica; fa della squisita e continua politica, non fosse che per quella sua abile attività per cercare di accontentare tutti, o almeno non scontentare nessuno dei vicini e delle grandi potenze, specie nelle terribili traversie delle due ultime guerre.

Ora in Isvizzera si è abolito, in certo senso, l’istituto del Capo dello Stato, o, per dir più esattamente, di un Capo dello Stato distinto e diverso dal capo del Governo. Né si è mai sentito, dal 1848 ad oggi, il bisogno di un istituto considerato superato e superfluo. Ed io credo che tale sarà il regime delle future repubbliche. Questa in ogni modo è una preferenza, è una opinione mia personale; e considero il problema ancora immaturo. Quello che deve però evitarsi è di dare un rilievo eccessivo al Presidente della Repubblica, ed evitare velleità possibili sempre di governi personali. Fu detto che se eletto dall’Assemblea, non si vedranno nella Presidenza della Repubblica spiccate personalità; ed è poco probabile che saranno eletti all’alta carica sia leaders dei vari partiti, sia uomini di eccezionale valore e di eccezionale autorità personale. Ciò avverrà di sicuro nella Repubblica italiana come accadde costantemente in quella francese.

Infatti è noto che non poterono mai accedere alla suprema magistratura francese né Leone Gambetta, né Jules Ferry, che pur furono i fondatori della Repubblica così detta laica, come abbiamo visto nei nostri giorni a Clemenceau, l’indomani della vittoria, anteposto Deschanel, uomo già finito, uomo che era già all’alba della pazzia (qualche mese dopo si sarebbe arrampicato sugli alberi dell’Eliseo, sarebbe caduto in pigiama dal treno e si sarebbe presentato così a un capo stazione arrischiando di finire al manicomio o in prigione); e poi a Briand, reduce dei successi di Locarno, anteporre Doumergue. Una Assemblea ha sempre diffidenza verso le troppo grandi personalità, e d’istinto si rivolge a personalità meno vistose, meno combattive.

È avvenuto persino così – se passiamo ad un altro sistema di elezione ben diverso, ma che ha qualche analogia con quello parlamentare – nelle elezioni dei Papi. Se leggete – ed è una lettura molto interessante – le ampie, minuziose descrizioni dei conclavi dal XV al XVIII secolo fatte da Pastor, vedrete che in quelle elezioni, che duravano talvolta molti mesi e non un giorno solo come quelle di Versailles, mai o quasi mai è scelta la spiccata personalità, ma quello che rappresenta la tendenza media. Il Cardinale Bentivoglio (che ha onorevole posto nella storia della Chiesa come in quella delle lettere italiane, che è l’autore della Storia della guerra di Fiandra, a cui assistette come Nunzio, e di quella del Concilio di Trento in contrasto con quella di Paolo Sarpi) dice nelle sue Memorie – così interessanti – che i cardinali si distinguono in tre categorie: santi, politici e – la categoria era per quei tempi non per i nostri – in mondani; e guai se il Papa viene eletto dalla terza categoria; ma guai anche se è scelto dalla prima, perché è utile che appartenga alla mediana.

Questa è la caratteristica dei regimi, di tutti i regimi nei quali una assemblea qualificata ed eletta scelga un capo; questa sarà la caratteristica del nostro Capo dello Stato: esso deve rispondere alla media dei suoi elettori. Noi vedremo nell’avvenire probabilmente qualche difficoltà; avremo, come ha avuto la Francia, qualche Presidente che dopo l’esperienza, breve o lunga del potere, dice: «Ma valeva la spesa di esser nominato Presidente?». Il quinto presidente francese, Casimiro Perier, rinunciò alla Presidenza, dopo un anno e protestando in una lettera al paese contro una situazione che faceva che il Presidente non contasse di fatto niente. Avremo dei casi come quelli di Grevy e di Millerand, ai quali – contro la Costituzione – le maggioranze hanno imposto le dimissioni, come già erano state imposte a MacMahon. Avremo forse anche dei casi come quello di Lebrun, fattosi eleggere una seconda volta, per fare poi, al momento della prova, una figura così meschina. Avremo questi ed altri inconvenienti. Ma tutto sommato, sarà sempre meglio di un regime con il Capo di Stato di troppa autorità. Sì signori; io ritengo un regime di un Capo dello Stato con troppa autorità un pericolo per il Paese. Così penso anche che i re troppo grandi furono un danno pei loro popoli; alla Francia giovò assai più che un Luigi XIV, che un Enrico IV, che un Francesco I, la saggezza di un Luigi XVIII. Guai ai popoli guidati dal superuomo, dall’eroe! Né mi preoccupo se il nostro Presidente della Repubblica potrà essere scherzosamente indicato come una specie di Regina Madre, che inaugura ponti ed esposizioni, e che distribuisce premi agli scolari, perché resterà sempre un uomo saggio, moderatore, anche di secondo piano rispetto al Capo del Governo. E il Governo deve essere l’emanazione, il mandatario, e come dice il principio inglese, il comitato esecutivo delle Camere, del Parlamento.

Ritengo perciò che su questo primo punto sia saggio quanto è stato proposto dalla Commissione dei Settantacinque.

E passo al Governo. Per quanto riguarda il Governo, il progetto di Costituzione all’articolo 87, fra l’altro, dispone: «Il primo Ministro e i Ministri debbono avere la fiducia del Parlamento». È dunque il sistema parlamentare che qui è stato codificato, e nulla vi è di nuovo, perché da Cesare Balbo a Facta fu il nostro sistema della monarchia parlamentare. «Entro otto giorni dalla sua formazione – continua l’articolo – il Governo si presenta all’Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia. La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale, ed a maggioranza assoluta dei componenti la Assemblea». Questa ultima disposizione è presa di peso dalla Costituzione turca. Questo Progetto di Costituzione è un’opera certo egregia, è stata fatta da uomini di grande valore, ma (e non si offendano tutti costoro; non si offendano fra costoro quegli amici carissimi, così vicini al mio cuore, che sedettero con tanta autorità tra i Settantacinque) è un’opera un po’ troppo di professori: è, non dirò certo un centone, ma un po’ troppo un florilegio, un’antologia, un insieme di disposizioni, che – telles quelles – si trovano o nella Costituzione della Turchia, o in quelle della Finlandia, dell’Estonia o in altre di paesi anche meno importanti ed autorevoli nella storia del diritto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Beato lei che inventa delle cose nuove!

CLERICI. Non si offenda del mio rilievo, di cui credo non sia facile contestare l’esattezza. Io stavo per dire che è bene che si sia fatto così, perché ci si è tenuti ad una media, che corrisponde, io credo, a quella che è la media della nostra situazione politica e giuridica in Europa. E ci si è attenuti, soprattutto nella questione che ora ci occupa, a una procedura che è non nuova, che è stata codificata soltanto nelle più recenti Costituzioni, quella, intendo dire, delle Costituzioni del 1919 in poi; e che si legge particolarmente nelle Costituzioni del 1919 e degli anni successivi della Baviera, della Prussia, dell’Austria, dell’Estonia., della Turchia e via dicendo. La disposizione è, a mio avviso, ottima e migliore di quella della legge del 25 giugno 1944, n. 151, che ci regge, e che è la nostra Costituzione provvisoria. Sia in questa che nel Progetto di Costituzione è giustamente stabilito che il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblea non porta di per sé alle dimissioni del Governo, ma che queste sono obbligatorie solamente in seguito a votazione di una apposita mozione di sfiducia, motivata. Ma a prescindere da altre condizioni, tale mozione, ora, cioè secondo la legge 1944, n. 151, deve essere votata a maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea. È ben diverso quindi l’attuale sistema da quello proposto nel Progetto di Costituzione. Adesso è la mozione di sfiducia che deve avere la maggioranza assoluta dei voti. Con la nuova Costituzione, invece, è il Governo che deve presentarsi otto giorni dalla nomina all’Assemblea Nazionale, e deve ottenere la maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea.

La differenza è ben notevole, e lo vedremo tra pochi giorni, il 23, allorché sarà posta in discussione la mozione di sfiducia dell’onorevole Nenni; giacché sarà questa che per trionfare dovrà raccogliere la maggioranza dei Costituenti, mentre a Costituzione votata sarà il Governo futuro che dovrà preoccuparsi di raggiungere siffatte maggioranze contro anche gli assenti e gli squagliati. Tale disposizione renderà sempre più necessarie ed obbligatorie, e sarà poco male, quelle forme di coalizione, che sono più corrispondenti alla situazione politica del Paese.

Circa la figura del Governo di Gabinetto, come delineato nel Progetto di Costituzione, mi permetto di accennare all’attenzione e alla saggezza dei colleghi che mi ascoltano tanto benevolmente questi due punti che mi sembrano fondamentali. Da un lato (e coloro che hanno pratica di Governo, mi diranno forse che ho ragione) mi pare sempre più necessario per il retto funzionamento dell’amministrazione pubblica che il numero dei Ministri aumenti, se si vuole che essi possano seriamente attendere alle amministrazioni delle quali rispondono. E io non so come faranno i Ministri nella nuova situazione, quando dovranno stare per ore ed ore non solo alla Camera, ma anche al Senato. Perché oramai il lavoro amministrativo è così complicato che tutte le volte che si è voluto riunire dei Dicasteri, il risultato non è stato soddisfacente. Di recente avevamo sentito invocare la riunione dei Ministeri delle finanze e del tesoro: l’esperimento mi pare non sia stato felice, né so come un Ministro in siffatta situazione possa trovare menomamente il tempo da dedicare, anche una sola ora alla settimana, a sentire i direttori generali dei due Dicasteri riuniti. Ritengo, quindi, che dovremo arrivare in Italia rapidamente a una situazione tale quale si riscontra in Inghilterra, in Francia ed altrove, e cioè, aboliti forse i Sottosegretariati, si dovrà arrivare a stabilire tante distinte responsabilità politiche quante volte si riscontra un accentramento, un complesso di distinte e insieme complesse responsabilità amministrative. Accenno solo a qualche esempio; non mi pare ragionevole che in un Paese come il nostro non vi sia neanche un Sottosegretariato alle belle arti; dicastero che hanno tutti i paesi, anche con Ministro; né vi sia quello per l’emigrazione; né quello per la sanità, che riunisce uffici e funzioni sparse e suddivise fra tanti dicasteri; né quello per lo sport, e via dicendo. Dovremo presto o tardi per tutte queste materie creare propri dicasteri, con un Ministro responsabile.

Ma allora si avrà questo grave inconveniente: come si potrà allungare ancora quel famoso tavolo del Consiglio dei Ministri e rendere le sedute del Consiglio stesso efficienti, sollecite, ben diverse da una Assemblea, la quale come ha natura e finalità diverse, ha ben diverse caratteristiche e funzionalità?

Si dovrà, a mio avviso, arrivare definitivamente e direi costituzionalmente (e mi auguro che concreti emendamenti siano a tale proposito presentati) alla distinzione tra Ministero e Gabinetto, tra consiglio del Ministero e consiglio del Gabinetto; si dovrà cioè stabilire anche in Italia un Gabinetto, accanto, o, per dir meglio in seno al Consiglio dei Ministri come è praticato stabilmente in Inghilterra, e di quando in quando in Francia, come lo fu in Francia, e nel Belgio e in Italia durante la guerra del 1914-1918, e come fu, per la necessità dei sei partiti, in Italia dopo Salerno e sino al secondo Ministero De Gasperi. Non tutti i Ministri hanno evidentemente una ragione politica da far valere continuamente. Quelli che hanno tale funzione si riducono a quattro o cinque, e questi, evidentemente, debbono formare una entità diversa dal generico Ministero, il Gabinetto per le ordinarie e insieme più importanti questioni politiche di indole generale.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. C’è anche l’esperimento Briand dell’altra guerra.

CLERICI. Concordo con lei e mi auguro che a tale proposito l’Assemblea sia investita di emendamenti specifici, che stabiliscano questo nuovo principio costituzionale. Penseranno poi i nuovi legislatori alle necessarie applicazioni.

Vengo, invece, onorevoli colleghi, ora alla questione del Senato; e può darsi che io dica cose che a prima vista sembrino ostiche a qualcuno; ma io chiedo alla saggezza, alla liberalità, alla democrazia di tutti di volere ascoltare le modeste osservazioni che mi accingo a farvi.

Io non condivido affatto le critiche che ha fatto testé l’onorevole Preti a un sistema di Senato eletto, almeno in parte, dalle diverse e specifiche categorie, e formato, quindi, anche, non dico, per ora, solamente, di rappresentanti di interessi. Anzi io sostengo che il Senato debba in parte costituire tale rappresentanza organica degli interessi. L’articolo 55 del progetto di Costituzione dice che i senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale e diretto, dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età. Quindi in pratica i due terzi del Senato sarebbero eletti su per giù dallo stesso corpo elettorale di quello che elegge la Camera dei deputati! Allora non valeva meglio stabilire che gli eletti si dividessero in due, seguissero l’esempio norvegese, che è tutt’altro che recente, ma anzi risale al 1804 (allorquando la Norvegia era ancora unita personalmente sotto lo stesso monarca alla Svezia), ed ha funzionato fino ad ora, e quindi presuntivamente deve essere un buon sistema. Io non sono di certo uno studioso di diritto norvegese né ho pratica di quel paese, ma da quello che ho letto in proposito è un sistema che ha funzionato benissimo. La Camera eletta nomina un quinto dei propri membri a formare il Senato, e questo siede esclusivamente per quello che è il lavoro legislativo, come seconda Camera; Camera cioè di esperti, di pratici, i quali riesaminano, uno contro quattro, il lavoro dei loro colleghi. Ma Senato e Camera siedono insieme per tutte le questioni politiche.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

CLERICI. Un Senato come quello proposto dalla Commissione dei Settantacinque, mi sembra un assurdo e un doppione; così da poter dire che è perfettamente inutile costituirlo.

Io invece ritengo che un Senato abbia ragione d’essere se rappresenti diversamente dalla Camera il paese, il popolo. Io ritengo che accanto alla Camera, che rappresenta, e deve rappresentare, le idee, le opinioni, i sentimenti diversi e spesso opposti delle correnti politiche, cioè dei partiti, occorre un Senato che rappresenti gli interessi. Quali? Innanzi tutto gli interessi territoriali. Abbiamo un bel nasconderlo, ma con la istituzione delle Regioni, se non abbiamo certamente fatto uno Stato federale, abbiamo certamente fatto qualche cosa che non è sotto certi aspetti molto diverso. Lo Stato federale svizzero è da un secolo in qua divenuto sempre meno federale, e da qualche decennio sta diventando sempre più unitario; così che in fondo, a parte il nome da esso non si differenzierà in molto, quello che sarà il nostro Stato quale sta per sorgere da questa Costituzione. Analogamente potrei riferirmi alla storia dello Stato federale degli Stati Uniti d’America. Ed allora, evidentemente, nel Senato dovranno sedere dei rappresentanti specifici delle Regioni, ed io dico anche delle Provincie, dal momento che le provincie sono state mantenute, ed io dico anche delle maggiori città – da Milano a Roma, fino a Bari e Bologna ad esempio –; e tali rappresentanti saranno eletti dai diversi Consigli regionali, provinciali o comunali, col sistema proporzionale, col voto di lista, col sistema maggioritario, secondo quanto sarà possibile e sarà conveniente.

Avremo così dei rappresentanti specifici delle Regioni singole, delle Provincie singole, e anche delle grandi singole città, i quali verranno a dire al Parlamento ed anche alla Assemblea Nazionale quali sono gli specifici interessi di Milano, di Bologna, della Sicilia o degli Abruzzi e via dicendo. Ciò corrisponde alla logica, ciò avviene di già. L’onorevole Greppi, eletto con votazione così lusinghiera in questa Assemblea, ha subito dato le dimissioni da deputato; ciò nondimeno quante volte non viene a Roma per far presente al Governo le necessità di Milano, di cui è preclaro sindaco! Eppure siedono qui, eletti a Milano, una trentina di deputati di tutti i partiti, deputati che fanno parte del Consiglio comunale e persino della Giunta comunale di Milano. La realtà è questa: il sindaco ha una funzione di diretta rappresentanza della città e come portavoce di questa è insostituibile. Ed allora, perché non trovare una forma che dia una rappresentanza effettiva, diretta, una voce qualificata a quelli che sono gli interessi locali? A un rappresentante dei diversi Consigli amministrativi locali? Ma accanto a queste rappresentanze non si devono scartare a priori quelle che dovrebbero rappresentare quelli che non esito a chiamare «gli interessi corporativi». Perché, onorevoli colleghi, il fascismo non deve costituire un impedimento a noi per fare quello che crediamo sia bene di fare, sol perché esso lo ha fatto prima ai noi. Non porteremo più, grazie a Dio, non porteranno più (perché io non ho mai sognato di portarla) una camicia nera; ma non potremo portare le mutande al posto della camicia per timore delle usanze del fascismo. È ben noto del resto che il fascismo ha accattato, ha rubato dappertutto, istituti e concetti, che non erano suoi, e nel campo economico e nel campo sindacale e nel campo politico. Ora abbiamo visto persino alcuni istituti, alcune disposizioni della repubblica di Salò rivendicate e rivelate proprio dai partiti di estrema sinistra, o dalle organizzazioni sindacali. Fra tanti mali il fascismo non conservi anche il maleficio, postumo, di impedirci, che noi si possa far bene quelle cose che esso faceva male. Come Mida trasformava in oro qualunque cosa toccasse, così il fascismo avvelenava ogni cosa a cui poneva mano. Noi dobbiamo oggi non rifare, ma fare da capo un vero autentico corporativismo. Non dobbiamo fermarci nel coraggioso compito di istituire uno Stato italiano democratico da ostacoli di carta o di cartapesta.

Ora vi è un fenomeno moderno, e questo lo dico soprattutto ai rappresentanti dell’estrema sinistra, un fenomeno tipico, il più tipico della nostra età, e queste sono le classi organizzate.

Da centocinquanta anni in qua che cosa è accaduto? Nel 1766, Turgot, ministro di Luigi XVI, abolisce le corporazioni, che però risorgono parzialmente qualche anno dopo, per poi essere abolite definitivamente nella rivoluzione francese dalla famosa legge Chapelier del marzo e del giugno 1791. Il primo Stato che le abolisce in Italia, è quello del Papa; è Piò VII nel 1801, mentre nel Piemonte durano fino al 1844. Tutta la prima metà del secolo scorso vede estendersi da Stato a Stato l’abolizione delle corporazioni; forme vecchie di un principio che però era vitale; ed infatti gli ultimi decenni del secolo scorso e il primo di questo secolo che cosa hanno portato? Il riconoscimento delle organizzazioni di classe. Si è nella seconda metà del secolo rifatto quello che nella prima si era disfatto, dopo tante discussioni, dopo tante lotte. Ed ora l’uomo organizzato è una realtà che si va attuando sempre più nella nostra epoca. Io ricorderò una pagina di Vilfredo Pareto, la quale rileva che in fin dei conti lo spirito di classe è la caratteristica dell’uomo moderno come e più che in altri secoli, che tutti agiscono nella pratica secondo lo spirito della loro classe indipendentemente dalla organizzazione di classe, che può anche non esistere, indipendentemente persino dalla coscienza di appartenenza a una data classe. Dunque, questo istinto di classe così naturale, questo fenomeno grandioso che è la moderna organizzazione delle classi – anche di quelle che sembrano meno suscettibili ad organizzarsi (pensiamo ai magistrati che hanno fatto sciopero per tanto tempo ed hanno mandato qui al Governo ed a noi dei loro membri quali veri e propri rappresentanti di una organizzazione) – è un fenomeno che non possiamo ignorare, che non possiamo disconoscere.

Signori, è il grande fatto moderno che io vi invito a considerare ai fini di tenerne conto nella opera che stiamo compiendo.

Io comprendo la posizione dei liberali; comprendo come l’onorevole Einaudi (parlo naturalmente non del Ministro, ma del costituente) possa battersi, ultimo paladino generoso e magnifico rappresentante di una dottrina al tramonto o tramontata, almeno temporaneamente, della dottrina che riconosce solo l’individuo; e trovo logico che egli non accetti il mio punto di vista. Ma io, sinceramente, non riesco a capire le ragioni dell’onorevole Preti, e di tutti quei socialisti che con lui non riconoscono la possibilità di rappresentanze politiche alle classi, a tutte le classi; e quasi che tra queste non vi fossero, imponenti, tutte le categorie dei lavoratori, giungono a considerare, a dichiarare conservatrice e reazionaria questa mia proposta!

Signori, vi è di più a favore della tesi che sostengo: vi è un problema politico, che io pongo con crudezza; e credo che l’Assemblea debba avere il coraggio di guardarlo in faccia. Lo Stato moderno, lo Stato parlamentare, la nostra Repubblica parlamentare, hanno veramente una corrispondenza nella coscienza dei cittadini, di tutti e dei più umili cittadini? Ha essa quella considerazione che le compete e che il nostro Presidente, onorevole Terracini, nel discorso avanti l’inizio delle ferie, ha ribadito, rivendicando nobilmente, contro l’opinione diffusa, questa funzione altissima, questa nobile fatica, questa delicata procedura del Parlamento? Ebbene, abbiamo il coraggio di dirlo: tutto ciò non ha corrispondenza nella coscienza dei cittadini. O almeno la grande maggioranza non comprende, non apprezza l’opera nostra.

Noi, alle volte, siamo dei sacerdoti che comprendiamo dei riti che gli estranei non comprendono o addirittura, denigrano. Questa è la realtà. Mi pare che in ciò stia un problema politico, che debba interessare tutti coloro, che si preoccupano della democrazia parlamentare, anzi della democrazia senz’altro, tenera pianticella nel nostro suolo, e quelli soprattutto fra noi che hanno come bandiera e insieme come compito il repubblicanesimo storico. Tutti costoro, tutti noi democratici e repubblicani, dobbiamo preoccuparci e far sì che le nostre istituzioni abbiano il consenso del popolo; che esse gettino nella coscienza italiana salde e profonde radici. Noi dobbiamo desiderare per il nostro regime quel favore che ebbero tanti altri pur così immeritevoli.

Se i Borboni riuscivano ad avere con loro i lazzari di Napoli, perché mai la Repubblica nostra non deve riuscire ad imporsi nella coscienza popolare? Perché dobbiamo alle volte evitare a manifestare e persino considerare se non convenga sottacere (specialmente nelle carrozze ferroviarie!) la nostra qualità di deputati? come mai dobbiamo temere di essere meno graditi al pubblico perché siamo i rappresentanti della nazione? È inutile nascondercelo: la nostra funzione è considerata, persino nelle classi più colte, molto, troppo spesso, come quella o di mezzi matti o di interessati e profittatori. I grandi scienziati, i grandi professori, i grandi banchieri ed industriali dichiarano di non degnarsi di scendere a questa nostra professione. Può darsi che per molti sia l’uva della volpe esopiana: ma per molti è vero disdegno. Ora, io ricordo una frase di Montesquieu, che mi pare indichi una condizione fondamentale per quella che è la vita degli Stati: «Non vi è cosa più potente – dice in quel piccolo superbo saggio sulle fortune dell’antica Roma – di una repubblica, nella quale i cittadini osservino le leggi, non per ragione, ma per passione; come furono Roma e Sparta; poiché si unisce alla sapienza di un buon governo tutte le forze, che potrebbe avere una fazione». Ecco il problema, problema squisitamente politico: ridare allo Stato nelle coscienze dei cittadini il posto che gli compete, ristabilire i vincoli di solidarietà politica e quelli della solidarietà sociale; ridare ai cittadini una fiducia, una fede nel regime nostro, nel Governo parlamentare! Far sorgere nei cittadini la passione dello Stato! Tale sarebbe stata la ragione del successo degli eserciti della Repubblica sovietica; la difesa dello Stato sentita come una passione, come un misticismo.

Se vogliamo creare sul serio una stabile repubblica democratica, occorre che la basiamo sulla e nella coscienza dei popolo italiano.

Permettetemi che citi ancora quello che ha detto Aristotele: «Perché uno Stato duri è necessario che i più siano interessati alla sua conservazione e la desiderino»; occorre cioè che sempre un maggior numero di cittadini confonda i propri cogli interessi pubblici, senta gli istituti politici come cosa propria.

Ora, abbiamo il coraggio di dirlo: tutte le sfumature della borghesia, che è un ceto così vasto, sono in Italia, rispetto alle nostre istituzioni parlamentari, in una posizione strana, tra la diffidenza sospettosa e l’indifferenza la meno commendevole. Guardate ora le classi popolari; esse pure non amano questa nostra Repubblica, questo nostro regime come esso è in concreto; altro essi amano, comunisti o socialisti o democratici cristiani, essi amano le nostre idealità come loro bandiera, loro entusiasmo, loro passione. Essi amano, perché la concepiscono, la nostra o la vostra bandiera, ma non riescono a concepire e ad amare lo Stato neppure sotto la forma di una Repubblica popolare e democratica. Né si può fare di ciò loro una colpa, ove si pensi che le classi intellettuali – i professori universitari ed i grandi professionisti – la concepiscono ancor meno.

Orbene, tutto ciò è un pericolo, un grave pericolo, perché il fascismo, il nazismo e le altre forme di Governi autoritari – sino il Governo Pétain-Laval (l’ultima e più impensata incarnazione, che sorse proprio in quella Francia dove era apparsa, tanto più dopo la guerra 1915-18, ormai consolidata definitivamente la libertà e la democrazia) – da che sono sorti, se non dalla convinzione, sempre più diffusa del iato tra quello che gli scrittori francesi chiamarono pays légal rispetto al pays réel?

Hanno sempre detto costoro esagerando alcune condizioni anche anormali del fenomeno parlamentare, alcuni difetti patologici, inevitabili forse, nel Parlamento – giacché ogni istituto umano ha lati buoni e cattivi, il pro e il contro – hanno esagerato tutti i difetti, i vizi, gli episodi sciagurati e, purtroppo, bisogna riconoscerlo, sono riusciti a creare quell’opinione diffusa che sta contro i Parlamenti, o, almeno, contro i parlamentari. L’abbiamo visto in un episodio recente. Ho scorso con grande attenzione le cariche denunziate dai colleghi in seguito alla nota decisione nostra, nell’elenco pubblicato in questi giorni. Mi chiedo: valeva la pena, allora, di far tanto fracasso, di dare al Paese l’impressione di chissà quali scandali? Ciò malgrado il Paese crederà sempre che almeno metà di noi abbia chissà quali prebende e chissà quali cariche amministrative, mentre dall’elenco risulta quanti pochi di noi abbiano cariche di tal genere e quanto esse siano, comunque, per la massima parte di noi, modeste.

Vi sono professioni diffamate per abitudine: presso determinati ceti, i preti, presso tutti, gli avvocati; presso molti, i giudici, gli impiegati statali ed i medici (spesso, anche le persone colte preferiscono andare dai «medicozzi», e diffidano dei medici, e parecchi medici presentano le diagnosi e le terapeutiche in forme apparentemente nuove ed ermetiche, evidentemente per rispondere al gusto del pubblico!). Ma indubbiamente la nostra tiene il primato tra le più diffamate professioni, la nostra, che Tardieu ha creduto appunto bollare nel noto suo libro come «professione parlamentare». Contro di questa, contro il parlamentarismo e non da ieri, ma da mezzo secolo e più, vi è tutta una letteratura, tante opere da farne una biblioteca. E tra essi persone d’alto ingegno, serie, studiosi, politici: basti ricordare il Prins e il De Greef, per il Belgio, uomini politici, professori, alla Università di Bruxelles, il primo dei quali iniziò la campagna con un libro uscito nel 1887 e la condusse avanti per tanti anni; il secondo fu il paladino del referendum e della proporzionale, che riuscì a veder trionfare nel suo paese e, con maggior ardore, proprio della rappresentanza organica professionale; basti ricordare in Francia il Benoist (è del 1895 l’opera sua famosa: La crisi dello Stato moderno), il Duguit, il Duthoit, e accanto a loro tutta una scuola francese (non parlo di quella dell’estrema destra, di quella dell’Action Française, del Maurras e compagni, ma di una scuola obiettiva e scientifica); tutta una scuola di pubblicisti che in Francia, in Italia poi, e altrove, hanno sottoposto a critica spietata il sistema parlamentare. Ricordo che il Benoist, che è stato uno dei più moderati, ha un giudizio che non ritengo si possa rifiutare: «l’opinion politique n’est pas tout l’homme». E cioè l’opinione politica, sulla quale si fondano partiti e Parlamenti, è importantissima ma non esaurisce tutte le caratteristiche individuali e sociali dell’uomo. Ciascun cittadino cioè si individua non soltanto per le sue idee, le sue convinzioni, i suoi sentimenti, che lo determinano ad una svolta politica, ma ha anche altri interessi e convinzioni che non hanno adeguata rappresentanza nei partiti politici e negli uomini che egli è chiamato ad eleggere. Di qui quel singolare distacco della fiducia pubblica dal sistema parlamentare.

Ricordiamo il sintomatico fenomeno Tardieu (uomo da cui si poteva dissentire, ma a cui nessuno contesterà la buona fede e l’assoluta rispettabilità, confermata poi dal suo dignitoso rifiuto e dal suo contegno verso il Governo Pétain-Laval). Eppure Tardieu, che era uno dei principali politici del suo paese, deputato, ministro, due o tre volte Presidente del Consiglio, a un certo momento divorzia dalla vita parlamentare, si ritira a vita privata e conduce, attraverso anni di lavoro, e quasi una decina di libri, una radicale campagna contro il sistema parlamentare, definitivamente da lui condannato. Per lui esso non solo era un sistema inefficiente, ma marcio, irrimediabilmente. E con lui un altro grande parlamentare, Doumergue, non solo ex Primo Ministro, ma ex Presidente della Repubblica, che, dopo l’ultimo suo Ministero, coi libri, con la radio si fa l’accusatore spietato del sistema parlamentare, e, come Tardieu, invoca il «nuovo». E poiché l’arte ha più efficacia della scienza e della politica, ricordo ancora il grande romanzo Les morts qui parlent di Melchior De Vogüe; egli pure uomo politico, ambasciatore, deputato, e insieme letterato notevole (fu accademico di Francia, ed ebbe il merito di far conoscere, con il suo celebre saggio sul romanzo russo, la letteratura russa a tutto il mondo europeo). Quel suo bel romanzo resta una insuperata descrizione dell’ambiente e della vita parlamentari. Ma tutta l’opera, che è verso il 1905, è ispirata al più sconfortante pessimismo, alla più amara convinzione: il fallimento del regime parlamentare, e sfocia nella più terribile delle conclusioni: occorre l’uomo; un uomo che ripensi un nuovo regime. L’uomo! Mussolini, Hitler, Laval! Quel gentiluomo moderato e onesto repubblicano avrebbe inorridito a vedere quali uomini avrebbero dovuto spazzare e spazzarono via il regime parlamentare!

Eppure egli era l’interprete di uno stato d’animo diffuso ai suoi tempi. E diffuso, purtroppo, ancor oggi. Di esso non possiamo non preoccuparci, perché potrebbero sorgere nuovi terribili guai.

Ma, onorevoli colleghi, in fondo a tutte codeste accuse al parlamentarismo, trovate, tra le altre critiche, queste: il mondo parlamentare è un mondo a sé, artificiale, avulso dalla vita; e tutti i parlamentari in fondo, qualunque professione di fede politica si abbia, appartengono ad una classe ristretta, solidale fra loro, miope e sorda. Peggio! I parlamentari sono reclutati in stretti ceti, e la maggior parte delle classi, delle professioni e dei mestieri non si curano neppure di ricercare un mandato parlamentare.

Adesso è uscito un libro di un giornalista di valore – intitolato I moribondi di Montecitorio; ma esso ha un antico precedente nel famoso libro di quel singolare, sebbene disordinato ingegno, che fu il Petruccelli della Gattina, letterato, patriota e politico.

Ebbene in quel libro famoso, che è del 1861, il Petruccelli della Gattina fa la statistica dei deputati del Parlamento di Torino sotto l’aspetto della loro condizione sociale, delle loro professioni, e rileva che tra tanti deputati, non vi era neanche un operaio, non vi era neanche un contadino, neanche un impiegato privato e che i funzionari pubblici invece abbondavano. Da tale constatazione (che non doveva stupire dato il sistema elettorale estremamente ristretto basato sul censo), dalla constatazione che la grande maggioranza dei deputati appartenevano alle categorie dei professori universitari, degli avvocati, l’autore trae la conclusione che il Parlamento fosse riservato ai professionisti della politica. E da allora quante volte si è ripetuto quel rilievo. Un giornalista ha detto che nel partito, anzi nei due partiti socialisti, non vi è neanche un operaio, neanche un contadino. Non so se sia esatto; quanto al partito, al quale ho l’altissimo onore di appartenere, posso dire che vi sono due autentici contadini ed alcuni che furono operai. E noi stessi, quando andiamo in mezzo alle masse, quante volte non abbiamo sentito dirci: perché mai tra voi alla Camera non vi sono che professori ed avvocati? È diffusa questa critica, è diffuso questo stato d’animo; non possiamo disconoscerlo.

Ed allora, davanti a queste constatazioni credo che valga la pena di riesaminare se, almeno parzialmente, almeno in via di esperimento, non si possa dare al popolo nel futuro Senato la rappresentanza degli interessi, accanto alle rappresentanze locali, cioè delle Regioni, delle provincie e dei comuni. Risorgerebbero così antichi sistemi di elezione, ma rinnovati secondo i bisogni dei tempi nuovi, nel nuovo spirito della nostra attuale democrazia. A proposito di quei sistemi, io ricordo una frase di uno dei nostri maestri, del migliore nostro maestro, dell’illustre uomo che abbiamo ancora la fortuna di avere per collega, dopo la seduta di ieri, di Vittorio Emanuele Orlando, che pur è sempre stato nemico della rappresentanza politica degli interessi. Egli ha scritto: «Tutti gli antichi sistemi di elezione per classe e rappresentativi degli interessi muovono dal concetto, così fecondo (sono le testuali parole di Orlando), della natura organica dello. Stato», cioè dalla concezione che lo Stato è e deve essere un organismo vivente con ogni organo e ogni funzione in armonia con tutti gli altri. La storia è lì a confermarci come spontaneamente i popoli hanno, in ogni tempo, fatto ricorso alle rappresentanze degli interessi. Trascuro onorevoli colleghi, e il sistema di Solone e le classi di Servio Tullio, trascuro le forme di rappresentanza del mondo antico; neppure voglio citarvi le corporazioni di arti e mestieri del Medio Evo, i paratici, le credenze della mia Milano, le glorie di tutti i nostri comuni. Consentite che vi ricordi i sistemi introdotti da noi, in un secondo tempo, a Milano ed altrove, dalla Rivoluzione francese, nelle repubbliche napoleoniche. Nel 1802 a Lione fu stabilito nella Costituzione della Repubblica Cisalpina la rappresentanza a mezzo di tre collegi, i possidenti, i dotti, i commercianti (è ad essi che allude il Foscolo col suo verso famoso «il dotto, il ricco ed il patrizio volgo»). Tale sistema fu copiato da tutti gli Stati napoleonici d’Italia e fuori Italia. Io vi ricordo appena le lodi che ha scritto Cesare Correnti, grande patriota e illustre liberale, parlamentare e Ministro dopo il 1859, su quelli che erano i convocati, cioè le rappresentanze elettive comunali (di uomini e di donne si noti!) nella Lombardia austriaca, rappresentanze basate sulle categorie sociali e professionali.

E perché non dovrei ricordare, malgrado il pericolo di qualche Don Basilio, che mi tacci di «austriacante», l’esempio austriaco delle quattro curie austriache, del sistema elettorale del 1867 durato sino al 1907, e alle quali quell’impero aggiunse una quinta curia, quella del suffragio universale, nel 1856 (mentre in Italia Giolitti stentò ad introdurre il suffragio universale nel 1912)? Antiquato, di certo, era tuttavia un sistema elettorale che rispondeva al bisogno della rappresentanza degli interessi. Ricordo, infine, che a Weimar fu istituito costituzionalmente accanto al Parlamento del Reich un «Consiglio economico dell’impero», pur privo di vera autorità politica, e che comprendeva una serie di minori Consigli economici particolari o locali. Persino lo Statuto albertino, e gli altri dell’800, di cui esso fu una copia pedissequa, con le sue note categorie, si era preoccupato di una certa rappresentanza di ceti e di categorie.

Tutti questi fatti hanno certamente un qualche significato storico; il ripetersi, in tempi diversi, e in forme diverse, di sistemi, anche imperfetti, di rappresentanza degli interessi dimostra un bisogno vasto e quasi universale. Un bisogno, quindi, che noi dobbiamo sodisfare, sia pure con prudenza e con ponderazione.

Tanto è vero che alla rappresentanza degli interessi si è pensato da molti illustri politici e parlamentari dell’epoca liberale nei diversi progetti di riforma del Senato regio. Se si esaminano quelli che sono i precedenti della riforma del Senato in Italia, riscontriamo cioè uomini di tutte le opinioni politiche che sostengono, sotto forme diverse, questo principio; per i liberali ricordo Giorgio Arcoleo, uno dei più grandi pensatori, il Tittoni, che era un studioso notevole di problemi costituzionali, oltreché un eminente uomo politico, il Ruffini, uno degli spiriti più liberi della resistenza antifascista, Emanuele Greppi, altro studioso di problemi politici e storici di chiara fama; fra i socialisti il Della Torre, amico di Filippo Turati, e il Loria, eminente economista; così come mi viene alla mente un altro grande economista, Maffeo Pantaleoni. Non ricordo, di proposito, progetti degli uomini della mia parte.

In tutti questi progetti, che si possono consultare anche qui, in biblioteca, uomini di ogni partito hanno, in fin dei conti, creduto far ricorso al principio che io sostengo per rinnovare il Senato regio. E tra i non parlamentari, come non potrei ricordare la tesi di Sturzo, la tesi di tutta la sua vita, da giovanissimo sino all’esilio, e che egli trasfuse nel programma del Partito popolare italiano? Più suggestivi ancora gli esempi di Parlamenti esteri. Io ricordo che la Camera ed il Senato belga hanno discusso per diversi mesi su un progetto del senatore Helleputte, nel 1892; i discorsi di quell’eminente studioso e di altri parlamentari sono stati pubblicati ed illustrati in un antico volume della casa Desclée. Ne ho una copia, a me tanto cara perché è piena di postille personali di Giuseppe Toniolo; e quell’eminente Uomo, al quale tutti noi guardiamo come a caro Maestro, del sistema da me qui sostenuto fu sempre un aperto ed entusiasta sostenitore. Ricordo che nel 1896 sono state fatte proposte in Francia, in Parlamento e fuori, di rappresentanza degli interessi per quel Senato, da uomini eminenti, dal liberale Dechanel, al celebre Abbé Lemire, che fra i primi propose ai cattolici europei l’esempio della democrazia americana, al celeberrimo socialista Jaurès. Non cito altri esempi, altre autorità; ma certo è che, se tutti questi studiosi e politici hanno prospettata l’ipotesi di una possibile rappresentanza politica ed organica degli interessi, non mi pare ipotesi da potere essere trascurata o disdegnata con tanta facilità e con tanta leggerezza come ha fatto il collega Preti, che forse è un po’troppo filosofo più che giurista.

Conosco le obiezioni, antiche anche esse, numerose ed autorevoli. L’onorevole Salandra contestando, appunto, la tesi della rappresentanza degli interessi, ebbe a scrivere che la Camera degli interessi sarebbe stata la Camera degli egoismi. Ma, siamo sinceri, credete voi che tra di noi, in ogni Parlamento politico, non entrino gli egoismi? Cacciati dalla porta essi entreranno sempre dalla finestra! Ma guardate lo spettacolo quotidiano di quest’Aula: il Presidente del Consiglio, i Ministri quante volte sono costretti, a lasciare il loro banco, a correre di là, perché devono ricevere le più varie rappresentanze delle più varie organizzazioni sindacali e di categoria. Dunque, ecco delle forze che hanno un valore politico, che hanno anzi maggiore importanza di noi tutti messi insieme! E perché non volete aprire le porte del Parlamento a tali rappresentanti del popolo organizzato in sindacati e in categorie?

Non ci vedo un qualsiasi pericolo per la democrazia, per il suffragio universale. Ripeto, non si tratta che di un esperimento parziale. Si tratta di dare agli interessi una parte, modesta, in quel Senato, che a sua volta sarà meno numeroso della Camera dei Deputati, e quindi nell’Assemblea Nazionale i rappresentanti delle categorie, degli interessi, saranno numericamente trascurabili.

Che cosa importerà, in fin dei conti se forse, dico forse, la rappresentanza degli interessi potrà portare qualche nota a destra? Che cosa importerà siffatto minimo spostamento, se potremo vincere questa grande diffusa diffidenza, questa grande obiezione: non soltanto noi parlamentari, non solo una classe politica fanno le leggi e interloquiscono nei pubblici affari; ma nei pubblici consessi hanno voce, peso, i diretti rappresentanti dei banchieri, degli industriali, degli operai, dei contadini, dei tecnici e dei magistrati, di tutte le classi e di tutte le categorie sociali?

Obietta l’onorevole Nobile, come si legge in un resoconto della Commissione dei Settantacinque, che la rappresentanza degli interessi, delle categorie sociali spontaneamente riescono ad avere voce e rappresentanza in qualsiasi Parlamento politico, come l’hanno in questa Camera Costituente. È vero, ma è vero solo in parte. Ed è vero solo in parte perché si tratta di rappresentanze indirette, non dirette. Siamo parecchi deputati qui avvocati del foro di Milano: Targetti, Gasparotto, Marazza, Jacini, Castelli, Meda, Vigorelli, io e forse altri. Ma è probabile, anzi certo, che se il foro di Milano dovesse eleggere dei suoi diretti rappresentanti, eleggerebbe non noi, almeno tutti noi, come unici suoi rappresentanti.

Alle eventuali, caotiche ed occasionali rappresentanze si deve preferire una rappresentanza professionale sistematica ed organica.

Si obietta ancora che la proposta rappresentanza degli interessi ferirebbe il principio della eguaglianza dei cittadini. Ora, anche qui, guardiamo senza viltà le cose come sono, e soprattutto prescindendo dalle concezioni filosofiche (per noi cristiani l’eguaglianza politica, civile e giuridica si basa sulla eguaglianza morale, l’identica posizione di figli di Dio, e di riscattati dal sacrificio del Cristo, per voi socialisti sulla solidarietà del lavoro e dei lavoratori, per altri su ideali nazionali o civili); prescindendo, persino, dalle astrazioni giuridiche. Guardiamo alla realtà di fatto. Sotto la eguaglianza giuridica persistono le diversità di fatto. In questa Camera vi sembra che io abbia lo stesso peso di Nitti oppure di Orlando? Abbiamo qui tra i nostri colleghi parecchie coppie di sposi, che sono pari qui; ma lo sono sempre altrove? Il figlio di Orlando è deputato come suo padre, ma nell’intimità della famiglia restano pari? Dunque vi sono aspetti molteplici della realtà; come una fotografia varia secondo il punto da cui il soggetto viene fotografato. La realtà è complessa ed è difficile riprodurla, fotografarla.

Abbiamo del resto il coraggio di dire: il progetto di Costituzione viene già a stabilire nell’elezione dei senatori delle disparità. Regioni piccole come il Friuli o il Trentino manderanno senatori in numero presso a poco pari a quelli che manderà il Veneto o la Lombardia.

In Isvizzera le piccole regioni (cioè i piccoli cantoni) mandano lo stesso numero di senatori, due ciascuna, stabiliti per Berna o Zurigo, che rappresentano ciascuno un quinto o un quarto del territorio e della popolazione svizzera. E lo stesso è stabilito per Stati tanto diversi demograficamente e geograficamente degli Stati Uniti d’America. Si dirà, ma questa è la caratteristica degli Stati confederali, nei quali si viene necessariamente a violare il principio dell’eguaglianza dei cittadini per il principio dell’eguaglianza dei singoli Stati. Ma questo avverrà anche per il nostro progetto di Costituzione; e se accetteremo l’Emilia Lunense tanto cara all’ottimo collega mio ed illustre maestro, onorevole Micheli, avremo che il cittadino dell’una e dell’altra Emilia verrà a contare il doppio che se la Regione restasse unita. Quindi, già secondo il progetto attuale è violato, per l’elezione al Senato, il principio rigido ed assoluto della parità fra i cittadini elettori. Se non vogliamo violarle dobbiamo essere logici come Siéyès e gli altri costituenti francesi dell’89 e volere una sola Camera, come vi è un solo popolo, un solo Paese, senza preoccuparci degli svantaggi, dei pericoli che la storia costantemente ci denuncia del sistema unicamerale, e che, da Cesare Balbo in poi, le mille volte vennero messi in evidenza.

Razionalmente ne teniamo conto; ma la storia è questa.

Ma quale è, onorevoli colleghi, la natura del regime nostro, indicata dallo stesso termine di regime rappresentativo? Rappresentare politicamente un paese è cosa molto difficile, molto più difficile di quello che sia per il geografo rappresentare un Paese fisico in una mappa, in una carta.

L’immagine è del resto stata ripetuta tante volte: il Parlamento sta al Paese come la carta geografica sta al paese fisico. Ma in geografia c’è la carta geografica politica e c’è la carta geografica fisica naturale. Sono due diversi aspetti che rappresentano la stessa realtà complessa; sono due riproduzioni dello stesso soggetto. Così il parlamento politico rappresenta i partiti, i sentimenti, le opinioni, ma, è vero e già l’ho detto, essi ed esse non esauriscono completamente l’uomo.

Io sono un democratico cristiano, ma sono anche un avvocato; come potrei essere un medico, ingegnere. E uomini di partiti diversi ed opposti si ricercano qui, si riuniscono, naturalmente, sotto il riguardo della comune identifica professione. Così i medici, di ogni partito politico, hanno costituito il loro gruppo.

Ecco dunque che noi dobbiamo fare del Senato yn’Assemblea che abbia la sua particolare essenza, che abbia una sua inconfondibile natura; che non sia un doppione della Camera dei deputati. E soltanto così avremo il grande vantaggio di cercare, per quel che sta in noi, di venire incontro a tanti malcontenti, a tanti scettici del regime parlamentare, e di rendere salda nella coscienza popolare italiana la Repubblica democratica.

Passo ora brevissimamente al quarto punto. L’onorevole Preti ha fatto alcune osservazioni cui aderisco, in merito alla seconda sezione del Titolo primo della parte seconda del progetto di Costituzione, cioè in merito alla formazione delle leggi. L’articolo 69 del progetto di Costituzione, al penultimo capoverso dice: «Su richiesta del Governo o del proponente, ciascuna Camera può deliberare che l’esame di un disegno di legge sia deferito ad una Commissione composta in modo da rispettare la proporzione dei gruppi alla Camera, e che, su relazione della Commissione, si proceda alla votazione senza discutere, salve le dichiarazioni di voto». È già un notevole passo avanti, ma non sufficiente data la realtà legislativa. Aggiungerò alle osservazioni dell’onorevole Preti alcune altre, a suffragio di quanto egli ci ha detto, se ben ho capito il suo discorso: lo Stato moderno – tutti ne convengono da molte leggi, ne fa a centinaia, ne fa a migliaia. Ma non può fare diversamente perché è uno Stato complicato; tutto è complicato nella vita moderna. È una regola generale che si osserva in qualsiasi paese, perché ovunque è l’identico stato delle cose. Ma un’altra osservazione si impone. A qualsiasi Assemblea manca, non dirò la competenza, ma il tempo di esaminare tutte queste leggi. Abbiamo visto noi stessi qui quello che accade quando si vuole procedere a fare una legge con attenzione: abbiamo impiegato dieci o dodici giornate per la legge sulla cinematografia ed un mese per approvare la patrimoniale.

Come faranno i nostri successori avanti a centinaia e migliaia di progetti di legge da fare o da approvare in conferma dei decreti legislativi del Governo in questi due o tre anni di attività legislativa delegata? Si dice che molta parte della materia legislativa verrà scaricata sulle Assemblee delle Regioni. Ma io convengo che, ciò malgrado, il lavoro per le nuove Camere sarà sempre almeno dieci volte superiore ad ogni possibilità umana.

Richiamo poi la vostra attenzione su di un fenomeno incontestabile, che gli anziani di questa Assemblea potranno confermarci; che cioè da quasi un quarantennio in Italia, assai prima del fascismo, quindi, la funzione legislativa veniva per la massima parte scaricata dal Parlamento sul Governo. È stata questa – diranno gli storici futuri – una fatalità. Ricordo brevemente qualche fatto e qualche dato.

Nel 1915, alla vigilia della nostra entrata in guerra, il 22 del mese di maggio fu deferita al Governo una così ampia facoltà legislativa, che praticamente si può affermare aver da allora tutti i Governi legiferato senza controllo parlamentare. È questo un fatto storico, che non si potrà rimproverare ad alcuno, ma che è incontestabile e che perciò s’impone alla nostra meditazione.

Nella XXV legislatura, su 826 decreti legislativi mandati dal Governo per la convalida, ne furono convalidati dal Parlamento appena 9. Nella XXIV, che va dal 1913 al 1919, furono approvati 396 disegni di legge sui 1181 che il Governo aveva trasmesso all’Assemblea. Nella XXV, che era Camera rinnovata e popolare, con 200 deputati della sinistra e 100 deputati del partito popolare, furono approvati solo 166 progetti di legge sui 1139 presentati. Nella XXVI, che andò dal giugno al dicembre 1921, 106 su 1185. Ed il Tittoni, nel noto suo saggio pubblicato dall’editore Zanichelli, dice che se nel 1922 si pensò di riparare all’inconveniente istituendo le sedute mattutine, accanto a quelle pomeridiane, si poté però constatare allora che le sedute mattutine erano disertate e che i deputati presenti nell’Aula non superarono mai il centinaio. (Questa mattina credo che non fossimo neanche cinquanta!).

Insomma, è difficile che una Camera possa lavorare più di quello che noi lavoriamo ora. E se si guarda alla media delle leggi che si dovrà invece fare ogni anno, è chiaro che si creerà una situazione inestricabile, e che non basterebbe, per smaltire il lavoro, votare quattro, cinque, sei leggi al giorno!

Quindi, bisognerà risolvere il problema, io credo, ancora più radicalmente di quanto non abbia già fatto il progetto di Costituzione, che qui è piuttosto incerto.

Ma vi è un’altra osservazione, sempre statistica e sempre sconfortante (e mi riferisco ancora al regime prefascista); cioè che il Governo in pratica è stato sempre più incontrollato in quella che è la sua tipica responsabilità verso le Camere, cioè per quanto riguarda i bilanci consuntivi, il che vuol dire che il Parlamento ha praticamente rinunziato alla sua precipua funzione, al suo tipico dovere, abdicando al controllo finanziario. Infatti i consuntivi 1905-1906 sono stati approvati con la legge 27 giugno 1909, n. 385; quelli dal 1906 al 1911 in blocco con la legge 14 marzo 1913; quelli del 1910-11 con la legge 19 giugno 1913; quello del 1911-12 con la legge 21 dicembre 1912; e tutti in blocco quelli dal 1912 al 1918, soltanto nel 1922. Il 21 dicembre del 1921 disse alla Camera l’allora Ministro del tesoro onorevole De Nava, parlando per l’esercizio provvisorio: «Mi sia lecito constatare che colla giornata di oggi, discutendosi il bilancio del tesoro, tutti i bilanci sono pronti. E questo fatto, lasciatemelo dire, non si era verificato da parecchi anni, anche prima della guerra». E poi? Poi venne il fascismo!

Insomma la realtà è che neanche questa loro funzione fondamentale, l’approvazione dei bilanci, le Camere, sovraccariche di lavoro politico, hanno svolto.

Ora, io mi auguro una soluzione più radicale; e spero che i colleghi i quali parleranno dopo di me e con molta maggiore autorità di me, proporranno emendamenti atti a risolvere questo problema. Già in proposito venne presentato al Senato un progetto, mi pare nel 1922, dal senatore Scialoja e dal senatore Mortara e da altri 70 Senatori, al fine di temperare, se non di vietare del tutto, l’uso dei decreti-legge. Anzi l’abuso, quell’abuso (si pensi, in sette anni dal 1907 al 1913 il Governo emanò 30 decreti-legge ed invece 2800 dal 1914 al 1921) per cui la Corte di cassazione del Regno, allora a sezioni unite, emanò una memorabile sentenza, – il 24 gennaio 1922, Mortara estensore-presidente – che dichiarava illegale un decreto-legge. E vi fu allora l’inizio coraggioso di una revisione che il fascismo poi ha stroncato. Possiamo facilmente prevedere, dunque, da una parte una quantità enorme di progetti di legge, che dovranno essere sottoposti alle Camere future per essere approvati (e non parlo di tutti i decreti legislativi, rispetto ai quali le Camere future non potranno che arrivare a una convalida generale, così come si fece per la legislazione 1915-1919 dopo l’altra guerra); dall’altra parte la impossibilità per i nostri successori di funzionare più attivamente di quanto si fa ora da noi e si fece dai nostri predecessori. Credo perciò che noi dovremo vedere se lo spirito della democrazia parlamentare non abbia bisogno e opportunità di forme nuove. In fin dei conti, noi siamo ancora tutti presso a poco legati nelle forme a quel delicatissimo regime che è sorto tra il 1740 e il 1800 in Inghilterra, quando si andava in portantina e col guardinfante; a quello che è lo spirito del regime parlamentare di allora o tutt’al più del tempo di Luigi Filippo. Ma da allora il mondo ha camminato.

Io credo che proprio in questo capitolo della formazione delle leggi noi dovremo proporci questo problema, risolvere con nuove forme l’antico e venerato principio parlamentare.

Concludendo, non basta statuire (come statuisce il progetto di Costituzione): il Governo non potrà fare leggi. Ma le potranno fare le Camere? Se non si troverà modo di distinguere leggi da leggi, se non si potranno affrontare e risolvere i problemi cui ho accennato, noi rischieremo di avere scritto nello Statuto fondamentale norme impossibili. Se facciamo una Costituzione che sappiamo a priori che è impossibile applicare, evidentemente non facciamo opera saggia.

E allora, per la salvaguardia dello spirito della Repubblica, credo che, al di sopra delle ideologie di partito, dovremo guardare le cose concretamente, dovremo guardare alle possibilità obiettive e vedere se il progetto non possa essere notevolmente migliorato. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Jacometti. Ne ha facoltà.

JACOMETTI. Dopo il discorso-fiume, del resto molto interessante sotto parecchi punti di vista, del collega onorevole Clerici, io cercherò, onorevole Presidente, di aderire all’invito che molte volte venne dal seggio presidenziale e di essere non soltanto breve, ma scheletrico. Cercherò anche di essere chiaro.

D’altra parte, mi interesserò di un solo punto: quello della seconda Camera.

Il partito socialista fu sempre e continua ad essere (ed io penso che lo sarà anche per l’avvenire), in linea di principio, per una Camera unica. Perché? Perché noi riteniamo che una Camera che sia espressione del suffragio universale, sia la rappresentanza diretta, integrale e genuina della volontà popolare. L’aderenza fra Paese e Camera è così perfetta, la rispondenza è rapida, integrale e sensibilissima.

Contro questa concezione, contro questo nostro modo di pensare, si levano parecchie critiche. Io le raggrupperò in tre.

La prima è questa: proprio per l’aderenza fra Paese e Camera dei rappresentanti, si dice che la Camera può prendere sovente dei dirizzoni, può dare adito a delle svolte improvvise.

Credo che sia questo un modo non giusto di pensare, anzi credo di più: che ci sia in questo concetto qualcosa di eminentemente conservatore: si vuol impedire alla volontà popolare di esprimersi direttamente, naturalmente e genuinamente.

Che cosa si vuole in realtà? Si dice: sì, rappresentanza diretta, sì, suffragio universale; però con la palla di piombo al piede, però con dei freni. La seconda Camera, da questo punto di vista, potrebbe essere definita la Camera della paura. Si teme, cioè, che la prima Camera, espressione diretta del popolo, possa fare delle riforme troppo rapide, possa cioè realizzare, attuare, con grande immediatezza, la volontà della Nazione, del popolo. Ecco perché si vuole la seconda Camera e si tenta di impedire alle forze popolari di far valere il proprio pensiero; perché si ha paura della politica delle masse, della politica popolare.

La seconda critica che si fa alla Camera unica è di natura diversa; si dice: la Camera unica può diventare una Camera dittatoriale, può sfociare in una rappresentanza di interessi di partiti, in una dittatura di gruppi politici. È una critica che io non ho mai concepito, che io non ho mai capito. Ma perché si deve temere una dittatura, quando la prima Camera è la rappresentanza vera e propria del Paese e della maggioranza del Paese? Ma che cosa significa allora democrazia in questo caso? Perché mi pare, onorevoli colleghi, che il Governo democratico non si identifichi con un calderone in cui ci sia un po’ di tutto, il calderone che noi abbiamo avuto dalla liberazione in poi in Italia, in cui tutti i partiti o molti partiti siano rappresentati.

A questo punto permettetemi di aprire una parentesi, di dire che non sono in contraddizione con me stesso e col mio partito, quando affermo questo; perché se noi oggi siamo contro il Governo di colore, lo siamo perché oggi il potere legislativo non è affidato all’Assemblea, ma al Governo. Domani, quando il potere legislativo fosse ripassato alla Camera, noi saremmo per quella democrazia che riteniamo la vera e che si esprime con una maggioranza che governa e con una minoranza che critica e che controlla.

Una terza critica, che ho sentito fare da un uomo che oggi siede ai banchi del Governo, è quella che una Camera unica porta quasi inevitabilmente alla dittatura di un uomo, ed a conforto di questa tesi furono fatti i nomi del primo e del terzo Napoleone. La cosa avvenne in un contraddittorio che io sostenni alla vigilia del 2 giugno dell’anno scorso; potei allora facilmente rispondere che quando il 28 ottobre 1922 il fascismo si impadroniva del potere, non vi era una Camera unica in Italia, ma ve n’erano due di cui una di nomina regia.

Ma se per tutte queste ragioni noi siamo sempre stati per la Camera unica, comprendiamo però che nella situazione italiana di oggi, forse le simpatie, forse la volontà dei più va verso le due Camere, né noi vi siamo ostili per partito preso; ma poniamo una condizione, che cioè le due Camere siano espressione integrale, democratica, della volontà popolare. Ora, nel Progetto a noi presentato, si parla di Senato come della seconda Camera ed io vorrei esaminare rapidissimamente, nella forma e nella sostanza, la progettata istituzione. Non capisco innanzitutto, perché si sia adottato il nome di Senato. Oh! lo so che è vecchio di secoli, ma le impressioni che riceviamo sono sempre quelle più vicine a noi; e quando si dice «Senato» pensiamo soprattutto all’ultimo Senato, a quel fiacco, osceno, ultimo Senato che tanto male fece all’Italia, che si piegò al fascismo come forse nessun’altra forza d’Italia si piegò al fascismo. E non sarà certamente il giudizio della Corte di cassazione a farci mutare pensiero su questo argomento. Ma la cosa principale è la sostanza.

Ci sono due tipi di seconde Camere: quello dei paesi federali, in cui la seconda Camera rappresenta gli interessi dei singoli Stati, e non è il caso di parlarne; c’è poi il Senato che proviene dalla nomina regia. Che cosa era il Senato di nomina regia? Era un vero e proprio modo di protezione della monarchia. Quando la monarchia si trova di fronte all’incalzare delle classi popolari, essa cerca di proteggersi ed allora crea questa seconda Camera che dovrebbe fare da contrappeso ed impedire ogni vero progresso, forma cioè una trincea davanti all’istituto monarchico per impedire che possa essere travolto. Quando la corona poi passa da un uomo a una classe, dal re alla borghesia, abbiamo la stessa difesa fatta attraverso il Senato con forme diverse: con modi diversi si cerca di controbilanciare sempre la diretta volontà popolare, salvaguardando gli interessi di classe.

Comunque sia, noi siamo sul cammino della creazione di una seconda Camera. A me pare si debbano, a questo punto, tener presenti due concetti: quello della funzione della seconda Camera e quello del metodo di formazione di essa. Noi crediamo che una Camera sia tanto più operante e vitale quanto più precisa e utile ne è la funzione, crediamo che la seconda Camera debba avere una funzione distinta dalla prima, una funzione sua propria.

Ora, nel Progetto noi troviamo, salvo alcune differenze di cui parlerò subito, nella seconda Camera un doppione della prima! La seconda Camera dovrebbe fare esattamente quello che fa al prima Camera: e questo noi non lo concepiamo.

Si era parlato di un Consiglio superiore dell’economia, e noi dichiariamo che l’idea ci seduceva: un Consiglio superiore in cui tutte le forze produttive del Paese fossero rappresentate ci avrebbe trovato consenzienti. Fummo noi a lanciarne l’idea. Si trattava di vedere se questa seconda Camera avesse dovuto avere voto deliberativo o consultivo: ma insomma c’era qualche cosa di nuovo e di diverso, c’era una funzione specifica, c’era una collaborazione con la prima Camera che poteva diventare seriamente vitale.

Si poteva concepire anche una specializzazione tecnica della seconda Camera. Molte forme sarebbero state possibili, concepibili. Invece, no! Invece, si è andati a creare un doppione.

Se andiamo a vedere quale è il metodo di formazione della seconda Camera, noi – dopo aver detto e ripetuto che il principio democratico deve essere integrato e non alterato – ci troviamo di fronte a qualcosa di incongruente, direi di assurdo: il principio democratico non è mantenuto.

Intanto, la seconda Camera è eletta a base regionale. Si ha un frazionamento dello Stato. Quelle forze centrifughe, che tendono a spezzettare lo Stato repubblicano italiano, si manifestano anche qui. Ma c’è di peggio. È detto nel Progetto che ogni Regione deve avere un numero fisso di cinque senatori più un senatore per 200 mila abitanti. Qui andiamo veramente contro il principio democratico, perché c’è una disuguaglianza fondamentale tra Regione e Regione. Una Regione con un milione di abitanti verrebbe ad avere 10 senatori; una Regione con 5 milioni, invece di avere 50 senatori, verrebbe ad averne soltanto 30. Vi è una differenza che va oltre i due terzi, quasi uguale alla metà.

I senatori sono eletti per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi a suffragio universale. Anche qui la libera espressione della volontà popolare viene alterata.

Ma vi è di più. Per essere elettori del Senato bisogna aver compiuto i 25 anni di età. Questa è una delle incongruenze, delle cose illogiche ed assurde, escogitate soltanto per capriccio e per poter affermare che fra le due Camere una differenza esiste. Non si capisce perché mentre la Camera dei deputati è eletta da elettori di 21 anni, gli elettori fra 21 e 25 siano scartati per il Senato. Essi sono capaci per una elezione, ma non per l’altra. La cosa ha i suoi riflessi e le sue conseguenze logiche. Si tende, attraverso questo metodo, ad avere un corpo elettorale scelto, di élite. Non è più il grande corpo elettorale comune, è un corpo selezionato. Ma, se si seleziona il corpo elettorale, la conseguenza che ne deriva è questa: che gli eletti della seconda Camera vengono ad essere messi al disopra di quelli della prima, considerati, ragionevolmente, un’élite. E. questo significa svalutare la prima Camera nei confronti della seconda.

Questo concetto della svalutazione lo ritroviamo ancora, quando passiamo dagli elettori agli eleggibili. Si dice nel progetto che gli eleggibili devono essere domiciliati o nati nella Regione. Anche questo è un criterio poco logico, che porta al frazionamento del Paese. Perché un uomo, che per caso è nato a Genova e che è domiciliato momentaneamente a Napoli o a Salerno, ma che ha svolto tutta la propria attività in Piemonte, non deve poter essere senatore piemontese? Non deve poter rappresentare quella Regione nella quale ha abitato ed ha lavorato?

Poi: i candidati devono aver compiuto i 35 anni di età. Sono esclusi gli uomini dai 25 ai 35 anni. Essi sono buoni per la prima Camera, ma non per il Senato; e ancora una volta si cerca di degradare la prima Camera nei confronti alla seconda, perché si fa una selezione per la seconda.

Ma la cosa veramente assurda, e in un certo modo anche tendenziosa, sta nelle categorie degli eleggibili al Senato. Quali sono esse dunque? «Decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-1945» e questo va bene. «Capi di formazioni regolari o partigiane». Perché «capi»? Se l’essere stato combattente della libertà è un requisito per essere eletto senatore perché scegliere i capi e non scegliere tutti coloro i quali hanno combattuto per la libertà? E la cosa si aggrava quando si legge: «Con grado non inferiore a comandante di divisione». Questo significa che la maggior parte dei combattenti di questa parte, che pure ha dato tanti uomini alle formazioni dei partigiani e dei liberatori, non potrà domani essere candidato per il Senato: pochissimi infatti hanno raggiunto il grado di comandante di divisione od un grado equiparato.

La stessa osservazione deve essere fatta per altre categorie: «Presidenti della Repubblica, Ministri, ecc.» e va bene, «Membri per quattro anni, complessivi di Consigli regionali o comunali».

Lasciamo stare i Consigli regionali, che non ci sono ancora, e vediamo i Consigli comunali. Se si riflette un momento, si constata che la gran massa dei Consigli comunali conquistati dai partiti di sinistra, più di 2400, fu conquistata solo nel 1920; due anni dopo tutta questa gente fu defenestrata. In sostanza questa gente fu ai Consigli comunali soltanto per due anni ed adesso, se lo è ancora (fra le due elezioni, vi è una frattura di più di vent’anni), lo è da poco tempo. Noi avremo questo risultato: che quasi tutti i consiglieri comunali socialisti e comunisti saranno esclusi dalla candidatura al Senato. Troviamo poi: «Professori ordinari di Università e di Istituti superiori, membri dell’Accademia dei Licei e di corpi assimilati; magistrati e funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni, ecc.; membri elettivi per quattro anni di Consigli superiori presso le amministrazioni centrali; di Consigli di ordini professionali; di Consigli di Camere di commercio, industria ed agricoltura, di Consigli direttivi nazionali, ecc.; membri per quattro anni di Consigli di amministrazione o di gestione (questi legalmente non ci sono ancora) di aziende private o cooperative con almeno cento dipendenti o soci; imprenditori individuali; proprietari conduttori; dirigenti tecnici ed amministratori di aziende di eguale importanza».

Esaminate con ponderazione tutte queste categorie; tengo a farvi osservare che è stato fatto un calcolo dal quale è risultato che vi è una differenza e una sproporzione tra partiti di destra e di sinistra di uno a dieci. Abbiamo, con la stessa massa, una quantità di possibili candidati uguale ad un decimo dei partiti di destra.

Ebbene, onorevoli colleghi, per tutte queste ragioni noi voteremo contro questo Progetto e presenteremo degli emendamenti, perché ci pare che effettivamente se dessimo vita ad un Senato del tipo progettato, noi creeremmo una Camera antidemocratica, in contraddizione completa con le nostre aspirazioni. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.

Risposta ad una interrogazione urgente.

PRESIDENTE. È stata presentata una interrogazione con richiesta di urgenza dagli onorevoli Sereni e Laconi:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri, per sapere che cosa risulti esattamente al Governo intorno alle dichiarazioni attribuite dalla stampa all’ammiraglio Bieri della flotta americana del Mediterraneo, e quale atteggiamento esso abbia preso o intenda prendere dinanzi alle dichiarazioni stesse e particolarmente a quella parte di esse che si riferisce al carattere permanente della presenza della flotta statunitense nelle acque italiane».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Posso rispondere anche subito.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro degli affari esteri ha facoltà di parlare.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Risponderò subito all’interrogazione degli onorevoli Sereni e Laconi, ma sono certo che essi mi comprenderanno se risponderò con estrema brevità. Sono certo che mi comprenderanno perché non dubito che essi hanno a cuore il decoro nazionale quanto l’ho io.

Quando io lessi l’intervista dell’Ammiraglio americano, non me ne occupai affatto, perché capii immediatamente e sentii non solo come Ministro degli esteri, ma come italiano e come uomo di buon senso, che ci trovavamo di fronte ad una delle troppo numerose prove di mancanza di responsabilità politica, nazionale e patriottica di certi giornali. L’intervista Bieri è un falso. Ho ricevuto or ora, per rispondere all’interrogazione dei miei colleghi, il testo che fu dato, e non vi è una parola sulla permanenza, più o meno prolungata, della squadra. Niente, assolutamente niente. L’intervista fu onestamente redatta; ma gli scribi che la riprodussero pensarono forse che falsandola si sarebbero vendute più copie di certi giornali; ma quando si tratta di argomenti che concernono l’indipendenza e la sovranità italiana, non si dovrebbe scherzare a questo modo. Punto e basta. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Sereni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SERENI. Io potrei dichiararmi sodisfatto della risposta che l’onorevole Ministro degli esteri ha dato alla nostra interrogazione se si trattasse effettivamente di un falso. Ho potuto constatare, dal confronto dei testi pubblicati da differenti giornali, che le dichiarazioni esplicite di basi a Napoli od altre città non apparivano nel testo dell’intervista. Tuttavia ho letto nel testo dell’intervista, che finora non è stata smentita da nessuno, dichiarazioni che non sono meno preoccupanti, in quanto si parla di una permanenza della flotta americana nel Mediterraneo. Ora, una flotta ha bisogno di determinate basi, e la flotta americana non ha basi nel Medi terraneo. Quando si dice «qui», e la parola viene pronunciata ih Italia, io credo che le basi siano quelle italiane. In ogni caso, a quanto mi risulta, ieri, in una conferenza stampa al Ministero degli esteri, si è detto che appunto non si intendeva occuparsi dell’intervista. Non so se questo atteggiamento possa costituire una garanzia degli interessi nazionali. Un esponente elevato della politica, dell’esercito e della flotta americana ha fatto delle dichiarazioni che sarebbero lesive per l’indipendenza del nostro Paese. Penso che il compito del Ministero degli esteri, del Governo, sia quello di prendere, di fronte ad una dichiarazione di questo genere, immediata posizione, tanto è vero che non il nostro Governo, ma il Governo americano ha sentito il bisogno di prendere immediatamente posizione in proposito. Mi meraviglio – non posso non meravigliarmi – che si sia dimostrato in questa occasione più sollecito della difesa dell’indipendenza del nostro Paese il Governo degli Stati Uniti d’America che il nostro.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. L’onorevole Sereni sa, dalla lunga permanenza insieme nel Governo, quanto ho sempre apprezzato la sottigliezza del suo spirito e la rapidità delle sue percezioni. Mi meraviglio questa volta che non sia pienamente d’accordo con me nel sentire quanto è più bello, quanto è più alto che di fronte ad una notizia che è considerata inammissibile dal Governo italiano, il Governo stesso non si sia degnato di smentire e che le più alte autorità americane lo abbiano invece fatto di loro libera volontà. Questo è il mio sentimento, sentimento della dignità italiana, e tale che mai ammetterei con aria sospettosa, con aria intimidita che certe cose possono accadere quando so che mai accadranno fino a che quanti pensano come me saranno a questo posto. (Applausi).

Su di una votazione a scrutinio segreto.

PRESIDENTE. Stamane l’Assemblea è stata investita dell’esame del disegno di legge relativo agli Accordi commerciali e di pagamento tra l’Italia e la Svezia e si sarebbe potuto passare e qualcuno ha pensato che si passasse alla sua votazione a scrutinio segreto. Invece, a norma dell’articolo 106 del regolamento, faremo la votazione a scrutinio segreto nella seduta di domani, e questo preannunzio implica evidentemente l’augurio e la speranza che nella prossima seduta vi sia il numero sufficiente perché la votazione sia valida.

Domani, nella mattinata dovranno riunirsi le Commissioni legislative; pertanto è opportuno non tenere seduta. Si terrà la seduta alle 16 per il seguito della discussione sul Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana.

Vorrei ancora una volta pregare i colleghi presenti – ma la preghiera va essenzialmente agli assenti – di venire alla seduta pronti a prendere la parola quando essa fosse in qualunque momento loro data.

Se in questi primi giorni è ancora comprensibile che si sia usata indulgenza verso gli assenti, dobbiamo mettere ora fine alle tolleranti attese e riprendere il corso normale della discussione. (Approvazioni).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere per quali ragioni ai contadini della Valle Bormida non siano ancora stati pagati, per parte degli enti competenti della provincia di Asti, i saldi delle nocciole conferite agli ammassi negli anni 1941-42. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere per quale motivo non si sia ancora provveduto a regolare lo stato di cittadinanza degli abitanti delle Valli atesine, sconvolto dagli insani accordi Mussolini-Hitler del 1939; e quale provvedimento abbia in animo il Governo di adottare in proposito, per pacificare quella contrada e per il buon nome della democrazia e della Repubblica italiana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Jacometti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere che cosa intende fare in merito all’olivicoltura e all’elaiotecnia italiane che rischiano, per il disinteressamento governativo, di rimanere prive di tecnici, per i quali non c’è adeguata sistemazione negli uffici statali o parastatali, relativi alla suddetta branca di agricoltura. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere quando e come intende provvedere alla soluzione dei problemi che riflettono i ciechi civili, con particolare riguardo all’assistenza continuativa, secondo i voti formulati a suo tempo dalle sezioni U.I.C. di tutta l’Italia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non ravvisi l’opportunità di aggiornare le indennità di trasferta a favore di tutti i funzionari, che per ragioni di servizio debbono stare molto tempo fuori sede. Le diarie attuali sono veramente irrisorie e (perché no?) inumane. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere a che punto sono giunti i lavori per l’emanazione dei nuovi Codici penali e di procedura penale e se è possibile affrettarne la conclusione; in quanto sembra quasi incredibile che la giustizia penale continui ad essere amministrata dalle leggi fasciste, sia pure con le lievi attenuazioni introdotte col decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.15.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 11 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXIV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 11 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Pastore Raffaele

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Bruni

Brusasca, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri

Ghidetti

Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale

Vernocchi

Disegno di legge: Approvazione degli Accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945 (Discussione):

Presidente

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali (Discussione):

Presidente

Uberti, Relatore

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Perassi

Cosattini

Micheli, Presidente della commissione

Caldera

Fabbri

Fuschini

De Michelis

Caroleo

Veroni

Cevolotto

La seduta comincia alle 10.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 31 luglio 1947.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Restagno.

(È concesso).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici prega che sia anticipato lo svolgimento delle interrogazioni a lui rivolte dovendo egli poi assentarsi per motivi del suo ufficio.

Perciò, cominciamo dalla interrogazione dell’onorevole Pastore Raffaele, diretta appunto al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se non creda opportuno procedere a una inchiesta per il crollo delle volte delle case dei senza-tetto di Foggia, onde assodare le responsabilità ed evitare possibili salvataggi».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Subito dopo il mio insediamento al Ministero dei lavori pubblici, in data 6 giugno, mi pervenne una lettera del prefetto di Foggia, colla quale si richiamava l’attenzione del Ministero su alcuni crolli in un complesso di alloggi per ricovero dei senza-tetto, avvenuti nella località Borgo Croci di Foggia; si trattava di sessantaquattro piccoli appartamenti.

Immediatamente feci telegrafare e scrivere al Genio civile, il quale mi diede conferma di quanto era avvenuto, secondo la informazione precedente del prefetto di Foggia. Ma non rimasi sodisfatto di quelle informazioni e in data 26 giugno disposi senz’altro un’inchiesta ministeriale. Nel frattempo perveniva al Ministero, in data 20 giugno, il testo della interrogazione dell’onorevole Pastore.

L’inchiesta ministeriale ha avuto il suo svolgimento ed i risultati mi sono stati presentati a fine di agosto. Li ho esaminati e devo dire che il primo ad esserne insoddisfatto sono stato io; perché, nell’ordinare l’inchiesta (di cui conoscevo la grande importanza, per il fatto che si trattava di non potere disporre, all’indomani del compimento di sessantaquattro alloggi, della integralità di essi, ai fini così urgenti del ricovero di senza-tetto) io stabilivo – scrivendo di mio pugno – che essa avesse questi limiti: adottare sul posto provvedimenti urgenti e adeguati, comprese eventuali denunce all’autorità giudiziaria a carico dei responsabili, chiunque essi fossero, funzionari od impresari.

Nella inchiesta che ha condotto, il rappresentante del mio Ministero non ha creduto di trovare elementi tali di responsabilità che potessero dar luogo a denunce o ad altri provvedimenti immediati che io intendo invece debbano essere adottati perché il fatto comunque è grave. Si tratterà della impresa, si tratterà del Genio civile, si tratterà del Provveditorato: quel che sarà, sarà. L’importante è che io assicuro l’onorevole Pastore e l’Assemblea che questa inchiesta, i cui dati sono recentissimi e per i quali si individua specialmente la responsabilità di un ingegnere del Genio civile, che nel frattempo, poveretto, è morto, per me non è sufficiente: e quindi ho disposto immediatamente un’altra inchiesta affidandola ad altre persone che esaminino la cosa con quel senso di responsabilità che io avevo indicato fin dal momento in cui ho ordinato le prime indagini. Di questo nuovo risultato, che darà modo al Ministro di adottare adeguati provvedimenti a carico di tutti i responsabili, darò rendiconto all’onorevole Pastore ed all’Assemblea, se lo vorrà.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all’onorevole Pastore, mi permetto di ricordare all’Assemblea la necessità che le repliche degli interroganti siano mantenute nei limiti regolamentari, e questo nell’interesse di tutti, cioè per avere modo di svolgere il maggior numero di interrogazioni possibile. Il Regolamento stabilisce che l’interrogante ha diritto di parlare per cinque minuti.

L’onorevole Pastore Raffaele ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PASTORE RAFFAELE. Prendo atto delle dichiarazioni del Ministro, ma voglio richiamare la sua attenzione su tutto ciò che avviene nel Provveditorato di Bari. Oggi si vuole attribuire la colpa del crollo delle volte delle casette a un ingegnere che è morto; ma invece occorre andare più in fondo, perché il Ministro deve anche conoscere – ed è bene che l’Assemblea sappia ciò – che le casette costruite dalle cooperative non sono crollate. Allora dobbiamo domandarci: perché? Perché le imprese, quando concorrono alle aste, offrono ribassi effimeri per far credere che si preoccupano dell’interesse dello Stato, salvo poi a mettersi d’accordo con coloro che dirigono i lavori e cambiarne la struttura.

Le volte furono sostituite con voltini di gesso, che naturalmente, anche a detta dei tecnici, dovevano assolutamente crollare. E di questo era consapevole il provveditore di Bari, che aveva dato il suo assenso. C’è stato un periodo in cui si diceva che il provveditore era stato trasferito e che alcuni funzionari erano stati accantonati. Ma oggi, non so perché, il. provveditore è stato rimesso al suo posto e naturalmente l’inchiesta sarà sempre più difficile.

Prego l’onorevole Ministro di voler indagare a fondo. Si vorrebbero salvare le imprese, imprese che dovrebbero ricostruire le case, e si vorrebbe far cadere tutta la responsabilità sull’ingegnere capo del Genio civile, persona che più non esiste.

Attendo quindi i risultati dell’inchiesta finale per poter esprimere il mio parere.

PRESIDENTE. Fa piacere constatare come il primo degli interroganti si sia mantenuto nei limiti, anche più ristretti, del tempo concesso. Questo esempio potrebbe essere salutare.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Corsi al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se non creda di comunicare i risultati dell’inchiesta eseguita a carico degli uffici del Genio civile di Cagliari, relativa alla abusiva assegnazione di alloggi ricostruiti; per conoscere, altresì, se e quali adeguati provvedimenti sono stati adottati a carico dei funzionari responsabili e come sia stata possibile la lunga e larga frode senza che gli organi dirigenti e centrali intervenissero».

Non essendo presente l’onorevole Corsi, si intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Camangi al Ministro delle finanze, «per sapere se ha esaminato, e in tal caso come intenda risolvere, il problema di fronte al quale si trovano le Amministrazioni comunali nella applicazione dell’imposta di famiglia. Le Amministrazioni stesse, infatti, pure avendo a disposizione tutti i mezzi per procedere ad accertamenti dei redditi molto vicini alla realtà – e ciò nell’interesse delle finanze comunali – sono indotte invece ad accertare i redditi stessi in cifre notevolmente inferiori alla realtà per evitare che degli accertamenti stessi, ove esatti, si serva poi il fisco applicando agli stessi le aliquote erariali, che, sproporzionatamente elevate, determinerebbero una tassazione assolutamente insostenibile per i contribuenti. Tale stato di cose si risolve, d’altra parte, non soltanto in un danno per le finanze locali, ma anche per quelle dello Stato, che attraverso la integrazione dei bilanci è costretto ad esborsi sempre maggiori».

Poiché l’onorevole Camangi non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Paris, Persico, Mazzoni, Bordon, Canepa, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, «per sapere se non ritengano opportuno sospendere l’entrata in vigore del decreto legislativo 24 maggio 1947, n. 589, oppure apportarvi delle sostanziali modifiche, tali da non pregiudicare la ripresa e lo sviluppo del turismo nel nostro Paese».

Poiché nessuno degli onorevoli interroganti è presente, tranne l’onorevole Bordon, che rinuncia allo svolgimento dell’interrogazione, s’intende che tutti gli interroganti vi abbiano rinunciato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Schiratti, al Ministro delle finanze e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se il frutto tributario e la limitazione o disciplina dei consumi, che si vogliono perseguire col decreto legislativo 24 maggio 1947, n. 589, compensino il grave turbamento che la prossima applicazione di tale decreto porterà in un vasto settore dell’attività commerciale con evidenti riflessi nocivi e per il turismo e per la categoria di prestatori di opera; e se di conseguenza non credano di sospenderne l’applicazione o, se mai, di apportarvi quelle radicali modifiche che valgano ad evitarne i prospettati inconvenienti».

Poiché l’onorevole Schiratti non è presente, s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Bruni, al Ministro dell’interno, «per conoscere se non intenda rimediare all’errata interpretazione data al decreto 1° aprile 1947, n. 221, del Ministero dell’interno, con cui si intese alleviare le gravi condizioni di disagio nelle quali versano i funzionari di pubblica sicurezza e gli appartenenti al Corpo degli agenti di pubblica sicurezza, stabilendo per essi una indennità giornaliera di ordine pubblico con decorrenza dal 1° gennaio. La indennità in parola teneva conto anche di rischi e di sacrifici eccezionali ai quali è sottoposto, attualmente, il personale di pubblica sicurezza. Ora la Ragioneria centrale del Ministero dell’interno, con interpretazione inesplicabile, ha disposto che tale indennità non sia accumulabile con i compensi per lavoro straordinario in certi casi rimessi all’arbitrio dei ragionieri della questura, e non cumulabile perfino con la indennità giornaliera di pubblica sicurezza. Cosicché si è reso inutile il provvedimento di cui sopra, aggravando il vivo malcontento di tutto il personale di pubblica sicurezza che si ritiene vittima di una autentica beffa».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Con provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri il 18 luglio ultimo scorso, su proposta del Ministro dell’interno, in corso di pubblicazione, viene disposta l’abolizione del divieto del cumulo delle indennità di ordine pubblico con i compensi per lavoro straordinario, mentre già con la legislazione precedente era ammesso il cumulo di detta indennità di ordine pubblico con quella giornaliera di pubblica sicurezza.

PRESIDENTE. L’onorevole Bruni ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

BRUNI. Mi dichiaro soddisfatto ed esprimo la speranza che il cumulo entri subito in vigore.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Sì, subito.

PRESIDENTE. L’onorevole Mancini ha chiesto il rinvio dello svolgimento di questa sua interrogazione al Ministro del lavoro e della previdenza sociale: «per conoscere la ragione per la quale il preventorio di Cosenza rimane ermeticamente chiuso».

Lo svolgimento di questa interrogazione è pertanto rinviato ad altra seduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Ghidetti, ai Ministri delle finanze, del tesoro, e degli affari esteri, «per sapere se non riconoscono urgente la necessità di intervenire a favore degli infortunati nel lavoro fruenti di rendita dall’Istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni. Alcune migliaia di famiglie italiane potrebbero liberarsi dalla miseria se il Governo italiano si decidesse a prendere la determinazione che l’Istituto svizzero attende per dar corso al pagamento delle rendite in Italia e degli arretrati dal 1° ottobre 1946, determinazione che il Governo italiano non deve ritardare oltre, per quanto sta nelle sue possibilità, senza assumere grave responsabilità».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per gli affari esteri ha facoltà di rispondere.

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. La questione del pagamento delle rendite correnti e degli arretrati dal 1° ottobre 1946 da parte dell’Istituto nazionale svizzero d’assicurazione contro gli infortuni è stata regolata in base all’accordo italo-svizzero firmato a Berna il 9 luglio.

L’articolo 9 dell’accordo stabilisce, infatti, che esso entra in vigore il giorno della firma con effetto però anche sulle obbligazioni scadute dopo il 30 settembre 1946 e non ancora regolate. L’applicazione sollecita di tale accordo, di cui il Ministero degli affari esteri sta curando l’attuazione perché entri in vigore, consentirà quanto prima agli infortunati di riscuotere quanto è di loro spettanza.

PRESIDENTE. L’onorevole Ghidetti ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GHIDETTI. La risposta che l’onorevole Sottosegretario Brusasca ha testé comunicato non è sodisfacente; benché assicuri che si presterà, d’ora in avanti, maggiore attenzione di quanto non sia avvenuto fino ad oggi per la stipulazione di accordi del genere. Sta di fatto che da un anno, dico da un anno, i nostri infortunati sul lavoro in Svizzera attendono di potere avere le loro indennità, le rendite, alle quali hanno diritto; la cosa va messa tanto più in rilievo poiché si tratta di preziosa valuta estera che dovrebbe entrare in Italia, e che noi lasciamo fuori, perdendo così anche la possibilità di utilizzarla vantaggiosamente. E giusto ieri, conversando con vari colleghi dell’Assemblea, dei più diversi settori, ho sentito che in molte provincie d’Italia c’è del malcontento, sia pure limitato – per questo fatto – ad alcune migliaia di italiani, malcontento determinato da un modo di procedere che non si riesce a spiegare. Con la Svezia si è stabilito felicemente un accordo commerciale e di pagamento, del quale ci occuperemo questa mattina. Non capisco perché non si riesca a concludere un accordo con la Svizzera su questa materia. Va tenuto conto che dalla Svizzera giungono in Italia comunicazioni ufficiali dell’Istituto assicuratore svizzero in risposta a lettere scritte dagli interessati, cioè dagli infortunati, che certo non fanno piacere ai poteri costituiti. Dice appunto una comunicazione di qualche mese, fa, da Lucerna, ad un infortunato italiano: «Vi diremo che le trattative in corso fra i due Stati per regolare la questione del pagamento di rendite d’assicurazione non tendono a sfociare ad una conclusione, per il fatto che il rispettivo Ministero del Governo italiano, che assume la responsabilità del ritardo, tarda a prendere una determinazione». Ora è evidente che…

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Di quale data è quella lettera?

GHIDETTI. È in data del 10 giugno 1947. Un mese dopo io presentavo appunto questa interrogazione, prendendo come rigorosa motivazione la comunicazione ufficiale, giunta dalla Svizzera che ho letto poc’anzi. Diffondendosi in Italia queste notizie, si screditano le nostre istituzioni che noi abbiamo il dovere di sostenere e di difendere; ma bisogna anche poter dimostrare che ogni mezzo è stato offerto per ottenere la stipulazione di un accordo.

Dopo quanto ha dichiarato l’onorevole Sottosegretario Brusasca io sono certo che per l’avvenire si presterà maggiore attenzione; ma vorrei si prendesse impegno fin d’ora in modo che, a non oltre un mese di distanza, o mediante un accordo provvisorio, o sulla base di acconti, si riesca finalmente ad andare incontro a questi infelici. Colgo l’occasione per ricordare che sono già più di sei mesi che un’analoga situazione si è imposta all’attenzione nostra a proposito degli infortunati sul lavoro in Germania, questione che attende ancora una soluzione e per la quale, pur non riguardandolo direttamente, era stato interessato anche il Ministero degli esteri. Vi sono infortunati sul lavoro e vedove di infortunati sul lavoro negli anni scorsi in Germania, o da dieci, venti anni fa, che dal 1944 non ricevono più la rendita perché ne è stato sospeso il pagamento.

Se pertanto anche questa volta dovesse accadere come allora quando, nonostante l’assicurazione che io ebbi, secondo la quale entro pochi giorni, entro al più qualche settimana, si sarebbe provveduto, mentre, come ripeto, a tutt’oggi la situazione è rimasta insoluta, vuol dire allora che a causa di negligenza si opera a screditare le istituzioni ed è evidente che, di fronte a ciò, bisognerà provvedere in modo diverso.

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BRUSASCA, Sottosegretario di Stato per gli affari esteri. Prendo atto della dichiarazione dell’onorevole Ghidetti, al quale però debbo far presente la circostanza che il Ministero, in tema di rapporti con l’estero, non sempre può agire in conformità dei suoi desideri e della sua volontà. Posso comunque comunicare all’onorevole Ghidetti che l’accordo è stato realizzato in data 9 luglio e che in questi giorni il Ministero sta affrettando le pratiche perché esso entri in vigore e perché di conseguenza i beneficiari possano ricevere le rendite.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Desidero fornire un chiarimento per quanto riguarda l’ultimo accenno dell’onorevole Ghidetti a proposito degli infortunati sul lavoro in Germania. Posso assicurare l’onorevole Ghidetti che il provvedimento relativo è stato già approvato dal Consiglio dei Ministri e che in questi giorni sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Tale provvedimento è stato preso nel senso che i lavoratori di cui si tratta ricevano le loro competenze dagli istituti italiani in attesa che questi istituti possano rivalersi sui corrispondenti istituti germanici.

Il problema quindi si può considerare risolto.

GHIDETTI. Prendo atto, ma la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale non è ancora avvenuta.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ho detto che sta avvenendo in questi giorni.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Vernocchi, al Ministro dell’interno, «per sapere quali relazioni esistano tra l’inchiesta condotta sull’amministrazione degli Ospedali riuniti di Perugia e la disastrosa alienazione di un vasto tenimento agricolo, di antichissima proprietà dell’Istituto, intorno alla quale pende una grave causa avanti al Consiglio di Stato».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Assicuro l’onorevole interrogante che nessuna relazione sussiste tra l’inchiesta condotta sull’amministrazione degli Ospedali riuniti di Perugia e l’alienazione delle tenute Collestrada e Ospedalicchio, stipulata nel 1942 e annullata con decreto del Capo dello Stato, e per la quale pende un giudizio, su ricorso presentato dagli acquirenti, dinanzi al Consiglio di Stato con l’intervento dell’Avvocatura dello Stato la quale, in rappresentanza del Ministero dell’interno, insieme con il difensore dell’ente, resiste al ricorso.

L’inchiesta fu determinata da denunzie di stampa, cui si interessò vivamente la cittadinanza, riguardanti l’amministrazione interna degli Ospedali riuniti di Perugia, denunzie che determinarono anche una discussione sul funzionamento dell’Opera Pia in seno al Consiglio comunale di quella città.

PRESIDENTE. L’onorevole Vernocchi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

VERNOCCHI. Non posso evidentemente dichiararmi soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario per l’interno. L’onorevole Sottosegretario ha preso visione soltanto dell’inchiesta amministrativa, che non è mai stata pubblicata, e della quale non mi è stato possibile prendere visione, nonostante il mio interessamento presso il suo predecessore, il quale, in mia presenza, ebbe a telefonare al Capo di Gabinetto del Ministro per averne copia ed ebbe la riposta evasiva che era stata inviata al prefetto di Perugia. E quando il Sottosegretario Carpano replicò che, indubbiamente, ci dovevano essere altre copie, rispose che non ve ne erano altre, che ne esisteva una sola e questa era stata inviata al prefetto di Perugia.

Esistono però altre relazioni, perché non soltanto vi è una inchiesta amministrativa, ma ne fu fatta anche una tecnico-sanitaria ordinata dall’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità, e ne fu fatta una dal Ministero della pubblica istruzione. Ora, io conosco tutte e due queste relazioni e ne conosco particolarmente le conclusioni; ed è per questo che io ho presentato l’interrogazione nei termini scritti perché il nesso tra la campagna iniziatasi contro gli amministratori dell’Opera pia di Perugia, le relazioni d’inchiesta e la vendita scandalosa di due proprietà dell’Opera pia stessa è evidente.

Onorevole Sottosegretario, io ho qui dinanzi agli occhi un codicillo riassuntivo di una delle due inchieste; e questo codicillo dice proprio così:

«Sulla base delle dichiarazioni dei rappresentanti dei vari partiti, della stampa cittadina, nonché delle personalità più in vista, si risale alle cause più o meno oscure della campagna stessa, il cui animatore è stato l’avvocato Mignini, tipo di mistico esaltato, ambizioso e facilmente suggestionabile.

«Tali causa si riassumono: 1°) nell’interesse degli acquirenti della tenuta dell’ospedale alienata nel 1942; e l’attuale amministrazione ha perseguito la rivendicazione di tali beni di grande valore, ed ha ottenuto il decreto del Capo dello Stato di annullamento dell’atto di compra-vendita; 2°) altra causa è l’ostilità dei direttori della clinica, i quali avevano sperato, con la nomina di un collega, il professore Severi, a Presidente del Consiglio di amministrazione dell’ospedale, di trarre maggiori vantaggi (dichiarazione del professor Borrino), mentre invece il Severi si è solo preoccupato di rimettere in ordine l’amministrazione e i servizi ospedalieri, eliminando ogni spreco e abuso, da qualunque parte venisse perpetrato».

È evidente, onorevole Sottosegretario, che qui c’è sotto qualche cosa che non è chiara; oppure che è troppo chiara. Se ella mi avesse risposto prima, io forse sarei stato in grado di darle anche allora gli elementi che posso esporre adesso all’Assemblea, e di impedire che si prendesse un provvedimento che non esito a definire scandaloso: lo scioglimento dell’amministrazione degli Ospedali riuniti di Perugia.

Come spiega lei, onorevole Sottosegretario, che la mia interrogazione è del 1° luglio, le mie sollecitazioni sono del 14 luglio – ed ella mi disse allora che non era in grado di rispondere perché non conosceva la relazione che non era ancora ultimata (mentre era compiuta fin dal marzo precedente) – e il fatto che il 12 luglio, forse a sua insaputa – perché se ne fosse stato a conoscenza il 14 me lo avrebbe detto – è stato emanato il decreto ministeriale di scioglimento dell’amministrazione degli ospedali, comunicato soltanto l’11 agosto dal prefetto di Perugia al Presidente dell’amministrazione predetta? Come spiega questo fatto così strano? Appare strano a noi, e deve apparire ancora più strano a lei, che non è stato informato a tempo dai suoi uffici, che questo decreto ministeriale era già stato deciso ed era stato già deliberato.

E allora, se io avessi potuto parlare prima, se avessi potuto prima esporre all’Assemblea che cosa c’è sotto la campagna contro gli amministratori dell’Opera pia di Perugia, io sono certo che ella, nella sua onestà (che io riconosco), avrebbe impedito che fosse stato preso un provvedimento di questo genere, che getta il sospetto su persone di probità indiscutibile e su scienziati noti e valorosi.

Onorevole Sottosegretario, lei certo sa che l’Opera pia di Perugia era proprietaria (e fortunatamente lo è ancora) – ed io prendo atto della sua dichiarazione di assistere il difensore dell’Ente – di due grandi tenute di circa 820 ettari appoderati in 50 colonie, sulla piana del Tevere. Queste due tenute si riallacciano alla tradizione francescana, perché furono donate da San Francesco all’Opera pia di Perugia perché fossero dedicate a luogo di ricovero per i lebbrosi di sovente visitati dal Santo. Orbene, queste due tenute costituiscono l’unica proprietà e l’unica risorsa dell’Opera pia di Perugia. Sa ella che, ad un determinato momento, nel 1942, ancora in regime fascista, queste due tenute di 820 ettari furono vendute per appena 19 milioni? Dopo vari interventi governativi, prima attraverso il famigerato Trinca Armati, fucilato al Nord, poi attraverso la società Silta del gruppo Vaselli-Ciano, esse furono acquistate, senza alcun sopraluogo (mentre il sopraluogo era stato fatto precedentemente da Vaselli) dal gruppo Caniati-Sonnino delle Bonifiche ferraresi.

Orbene, chi è uno di coloro che, particolarmente, hanno iniziato la campagna di diffamazione e di denigrazione contro gli amministratori dell’ospedale di Perugia? L’avvocato Fausto Andreani, che è uno dei difensori del gruppo Caniati-Sonnino.

Ecco la relazione, onorevole Sottosegretario, che esiste fra l’una e l’altra cosa!

Chi è l’altro che ha presentato un’interpellanza al Consiglio comunale per chiedere le dimissioni dell’amministrazione, che ha promosso un’agitazione popolare e che sui giornali ha iniziato contro gli stessi amministratori una campagna denigratoria?

L’avvocato Mignini di cui ho parlato prima, e che disgraziatamente è iscritto al suo partito, onorevole Sottosegretario.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Ve ne è di peggio, in tutti i partiti!

PRESIDENTE. Onorevole Vernocchi, cerchi di concludere.

VERNOCCHI. E bisognerebbe andare in fondo per vedere certi addentellati di parentele che esistono e che servono come filo conduttore per dimostrare come vi sia relazione fra la campagna denigratoria contro gli amministratori del pio Ente e la causa che pende presso il Consiglio di Stato, in opposizione al decreto del Capo dello Stato che riconsegna all’Opera pia le due tenute vendute nella maniera che io ho denunciata.

Io non voglio insistere maggiormente perché ella non ha elementi per rispondermi, mentre io ne ho molti a mia disposizione. Ma le voglio dire solo che nell’opera di diffamazione dei consiglieri di amministrazione dell’Opera pia hanno contribuito anche quei clinici e quei medici contro i quali si è espressa in maniera molto decisiva e avversa la relazione fatta per conto del Ministero della pubblica istruzione. E perché? Perché gli amministratori dell’Ospedale di Perugia volevano reprimere abusi e impedire il prolungarsi di disordini amministrativi. Alcuni clinici ed alcuni medici (non tutti) erano insofferenti di questa disciplina imposta e dei controlli che l’amministrazione aveva stabilito. Oh! se io dovessi leggervi le parti delle inchieste che trattano questo particolare argomento vedremmo come e quanto questi signori clinici e medici ne escono male! Ecco perché io ho presentato un’altra interrogazione al Ministro della pubblica istruzione; perché è necessario conoscere i provvedimenti che si intende adottare nei confronti di quei signori che hanno abusato della pubblica amministrazione.

Ma sapete cosa dice la relazione nei riguardi degli attuali amministratori che sono stati defenestrati nel modo da me denunciato? Ecco: «Conviene peraltro rilevare che dopo i disordini lasciati dagli eventi bellici nell’ospedale, l’attuale amministrazione ha cercato di organizzare i servizi anche se il programma non è stato completato nel breve periodo proposto».

Ora, io nego che si dovesse sciogliere l’amministrazione dell’ospedale, perché non c’era nessun elemento di accusa contro gli amministratori; ed io non mi dolgo con lei, ma mi dolgo con il suo Ministro che ha aderito al giuoco; perché si dice a Perugia che sia persino venuta una delegazione della Democrazia cristiana, capeggiata dal segretario locale, per impedire la pubblicazione dell’inchiesta amministrativa, allo scopo di salvare il prestigio politico del Partito! Si dicono molte cose ancora a Perugia ed il Ministro dell’interno avrebbe dovuto rendersi conto, prima, della verità dei fatti e poi provvedere; se così avesse fatto, io sono certo che avrebbe provveduto non contro gli onesti amministratori degli ospedali di Perugia, ma contro coloro che effettivamente hanno male amministrato la pubblica cosa.

Signori, perché non si è pubblicata la relazione? Perché si è trasferito il prefetto Peano che era favorevole alla pubblicazione? Perché il prefetto ispettore Tranchida, che ha fatto la relazione sanitaria, è stato collocato a riposo? Sono tutti interrogativi, onorevole Sottosegretario, che in questo momento vengono alla mia mente e che io espongo a lei. Fate luce fino in fondo, perché fino in fondo bisogna andare in questa faccenda che non è chiara e non è onesta.

Onorevole Sottosegretario, dica al suo Ministro che non si eleva il costume morale gettando il sospetto su uomini probi che hanno dato esempio di onestà in tutta la loro vita. Si fa il contrario anzi, perché si vengono a premiare indirettamente coloro che devono essere colpiti e che, invece, rimangono impuniti.

Orbene, io mi rivolgo alla sua personale onestà, da tutti noi conosciuta, perché il vento della calunnia che striscia e rimbalza, e non abbatte, no, ma col suo passaggio solleva la polvere della strada che si posa sugli animi e sulle coscienze, non cristallizzi la iniquità delle coscienze stesse. Questo chiedono gli onesti amministratori dell’ospedale di Perugia, questo chiede la cittadinanza di Perugia, questo vuole il popolo italiano. (Applausi a sinistra).

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Una semplice precisazione, anzitutto, sul ritardo della risposta; l’onorevole collega sa che il 14 luglio io ero pronto a rispondere. La risposta non ha potuto essere data semplicemente perché era trascorso il tempo destinato alle interrogazioni ed io sono stato lasciato in libertà come poc’anzi il Ministro dei lavori pubblici. Nell’uscire ho avuto il piacere d’incontrare l’onorevole Vernocchi che era più sorpreso di me dell’inclusione improvvisa di questa interrogazione nell’ordine del giorno. L’onorevole Vernocchi mi vorrà dare atto, quindi, che non ho proprio esercitato nessuna arte insidiosa per rispondere a settembre.

VERNOCCHI. Gliene do atto subito, perché riconosco la sua onestà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Quanto al testo della mia risposta, esso è perfettamente aderente al testo dell’interrogazione. Tutto quello che, ad illustrazione dell’interrogazione, l’onorevole interrogante ha creduto di poter dire, poteva formare oggetto di un’altra interrogazione alla quale io avrei risposto fornendo tutti quegli altri elementi che l’onorevole interrogante lamenta di non aver ricevuto oggi.

Ad ogni modo: quod differtur non aufertur. Onorevole interrogante, sono a sua disposizione.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Discussione del disegno di legge: Approvazione degli accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945. (18).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Approvazione degli accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945.

Dichiaro aperta la discussione generale. Non essendovi nessuno iscritto a parlare e nessuno chiedendo di parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.

Questo disegno di legge consta del seguente articolo unico:

«Piena ed intera esecuzione è data agli accordi commerciali e di pagamento stipulati in Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945.

«La presente legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed ha effetto dal 1° dicembre 1945».

Sarà votato a scrutinio segreto nella seduta pomeridiana di domani.

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del seguente disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

Apro la discussione generale sopra questo disegno di legge.

Non essendovi nessuno iscritto a parlare e nessuno chiedendo di parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.

Passiamo all’esame dei singoli articoli, che sarà fatto sul testo della Commissione.

Faccio presente che, dopo che la Commissione ebbe presentato la sua relazione ed i suoi emendamenti, il Governo ha presentato una serie di emendamenti che sono stati regolarmente sottoposti all’esame della Commissione. Io devo quindi chiedere alla Commissione, e per essa al Relatore, il parere sopra i singoli emendamenti.

L’articolo 1 è del seguente tenore:

«Sono elettori tutti i cittadini italiani che abbiano il godimento dei diritti civili e politici, abbiano compiuto il 21° anno di età e non si trovino in alcuna delle condizioni previste dall’articolo 2».

Il Governo ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Sono elettori tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto il 21° anno di età e non si trovino in alcuna delle condizioni previste dall’articolo 2».

Invito il Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta l’emendamento proposto dal Governo. La nuova formulazione è più esatta. Non porta modificazioni di sostanza.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 1 nella nuova formula proposta dal Governo.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 2:

«Non sono elettori:

1°) gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente;

2°) i commercianti falliti, finché dura lo stato di fallimento, ma non oltre cinque anni dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento;

3°) coloro che sono sottoposti alle misure di polizia del confino o dell’ammonizione, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi;

4°) coloro che sonò sottoposti a misure di sicurezza detentive a norma dell’articolo 215 del Codice penale o a libertà vigilata, finché durano gli effetti del provvedimento;

5°) i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici;

6°) coloro che sono sottoposti all’interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata;

7°) in ogni caso i condannati per peculato, malversazione a danno di privati, concussione, corruzione, turbata libertà degli incanti, calunnia, falsa testimonianza, falso giuramento, falsa perizia o interpretazione, frode processuale, subornazione, patrocinio o consulenza infedele o altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, millantato credito del patrocinatore, associazione per delinquere, devastazione e saccheggio, per delitti contro la incolumità pubblica, esclusi i colposi, per falsità in moneta, in carte di pubblico credito e in valori di bollo, falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento, falsità in atti, per delitti contro la libertà sessuale, esclusi quelli preveduti dagli articoli 522 e 526 del Codice penale, per offese al pudore e all’onore sessuale, per delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, escluso quello preveduto dall’articolo 553, per il delitto d’incesto, per omicidio, lesioni personali non colpose gravi o gravissime, furto, eccettuati i casi previsti dall’articolo 626, primo comma, del Codice penale, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, per danneggiamento o appropriazione indebita nei casi pei quali si procede d’ufficio, truffa, fraudolenta distruzione della cosa propria e mutilazione fraudolenta della propria persona, circonvenzione di persone incapaci, per usura, frode in emigrazione, ricettazione e bancarotta fraudolenta, per i giuochi d’azzardo; per le contravvenzioni previste dal Titolo VII del testo unico della legge di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e dalle disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 12 ottobre 1944, n. 323;

8°) i condannati per i reati previsti nel Titolo I del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, sulle sanzioni contro il fascismo e di cui all’articolo 1 del decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142, nonché i condannati per i reati previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 26 aprile 1945, n. 195, sulla punizione dell’attività fascista;

9°) i titolari dei locali di meretricio e i titolari di case da giuoco.

«Le disposizioni dei numeri 5, 6, 7 e 8 non si applicano se la sentenza di condanna è stata annullata o dichiarata priva di effetti giuridici, in base a disposizioni legislative di carattere generale, o se il reato è estinto per effetto di amnistia, o se i condannati sono stati riabilitati. Nel caso di amnistia, non può farsi luogo alla iscrizione nelle liste elettorali se non è intervenuta la declaratoria della competente Autorità giudiziaria».

Il Governo ha proposto di sostituire, al primo comma, il numero 9 col seguente:

«9°) i titolari dei locali di meretricio e i concessionari di case da giuoco».

Invito il Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta l’emendamento.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo, nel suo progetto, non aveva incluso né i titolari, né i concessionari delle case da giuoco. Infatti, era sembrato al Governo di non potere istituire una identità morale tra i titolari delle case di meretricio ed i titolari delle case da giuoco, autorizzate. È noto quanta preoccupazione vi sia in ordine alle qualità personali di costoro; e la preoccupazione derivava anzitutto dalla considerazione che si tratta dell’unica figura di contravvenzione a tutta la materia disciplinata dal libro III del Codice penale, dalla quale si faccia discendere una sanzione di tanta gravità, ma soprattutto dallo scrupolo che non poteva non derivare al Governo per il fatto che questi concessionari, i quali dovrebbero essere esclusi dal diritto di voto, in realtà ripetono la concessione direttamente dallo Stato; dico direttamente, anche se sono i Comuni a darla; i Comuni la dànno, in quanto sono autorizzati espressamente da disposizioni tassative. Ad ogni modo, gli atti di concessione devono essere ratificati dal Ministero dell’interno.

Per queste ragioni era sembrato che il Ministero non potesse, da una parte, concedere una autorizzazione e, dall’altra, punire il concessionario, privandolo del diritto di voto, cioè classificandolo in una categoria di indegnità morale.

Questo viene detto per debito di coscienza.

Nel merito il Governo si rimette completamente alla decisione dell’Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato il seguente emendamento:

«Al n. 4 sostituire le parole: sottoposti a misure di sicurezza detentive, a norma dell’articolo 215 del Codice penale, o a libertà vigilata» con le seguenti: «sottoposti a misure di sicurezza detentive o a libertà vigilata a norma dell’articolo 215 del Codice penale».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERASSI. Si tratta di un semplice spostamento di un’espressione, che ritengo sarà accolto dalla Commissione, perché risponde allo spirito col quale la stessa Commissione ha leggermente modificato il testo del Governo, inserendovi il richiamo all’articolo 215 del Codice penale. La Commissione ha inserito la frase: «a norma dell’articolo 215 del Codice penale», dopo le parole: «a misure di sicurezza detentive». Siccome la libertà vigilata, di cui si parla, è pure una misura di sicurezza, sia pure non detentiva, preveduta dall’articolo 215, ed è a questa soltanto che la legge vuol riferirsi, mi pare opportuno che il richiamo «a norma dell’articolo 215» segua le parole «libertà vigilata» in modo da riferirsi ad entrambe: le misure di sicurezza detentive e la libertà vigilata, evitando qualsiasi pericolo di estensione o di interpretazione abusiva.

PRESIDENTE. Prego il Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Trattasi di un perfezionamento tecnico che la Commissione accetta.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Al numero 9, per metterci in accordo con la legge di pubblica sicurezza, in luogo delle parole: «titolari dei locali di meretricio» si dovrebbe dire: «tenutari di case di meretricio».

PRESIDENTE. Onorevole Relatore, quale è il parere della Commissione?

UBERTI, Relatore. Per la Commissione l’emendamento non ha rilevanza.

PRESIDENTE. A differenza della parola «titolari», quella «tenutari» mantiene la loro figura al livello dovuto. Cosa ha da dire il Governo?

MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Nessuna difficoltà.

MICHELI, Presidente della Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI, Presidente della Commissione. Mi rincresce per i proprietari di tenute agricole. (Si ride). Si confonde un po’ la cosa e si dà importanza particolare ad una frase che effettivamente non mi pare l’abbia. Nessuna difficoltà, peraltro, ad accettare la proposta fatta.

PRESIDENTE. L’emendamento al numero 9 dell’articolo 2 è del seguente tenore: «I tenutari dei locali di meretricio e i concessionari di case da giuoco».

CALDERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALDERA. Mi pare in sostanza che, moralmente, gli uni valgano gli altri, ma, dal punto di vista eminentemente soggettivo, differenza vi è ed io ritengo che sia bene non metterli tutti e due sotto il numero 9, ma fare due numeri: 9 e 10: nel primo si includerebbero i tenutari di case di tolleranza e nel secondo i concessionari di case da giuoco. Così si possono distinguere.

UBERTI, Relatore. Possiamo accettare.

PRESIDENTE. Allora pongo in votazione la proposta Caldera di formulare due numeri distinti:

(È approvata).

Pongo ai voti l’emendamento del Governo che risulta così modificato:

9°) «i tenutari dei locali di meretricio»; 10°) «i concessionari di case da gioco». (È approvato).

Pongo in votazione ora l’emendamento sostitutivo Perassi, al n. 4, che è del seguente tenore:

«sottoposti a misure di sicurezza detentive o a libertà vigilata, a norma dell’articolo 215 del Codice penale».

In sostanza, la nuova formula Perassi salva dal pericolo che questa libertà vigilata sia contemplata come ostativa del diritto elettorale anche in casi diversi da quelli dell’articolo 215 del Codice penale.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 2, che con gli emendamenti testé approvati, risulta così concepito:

«Non sono elettori:

1°) gli interdetti e gli inabilitati per infermità di mente;

2°) i commercianti falliti, finché dura lo stato di fallimento, ma non oltre cinque anni dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento;

3°) coloro che sono sottoposti alle misure di polizia del confino o dell’ammonizione, finché durano gli effetti dei provvedimenti stessi;

4°) coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza detentive o a libertà vigilata, a norma dell’articolo 215 del Codice penale;

5°) i condannati a pena che importa la interdizione perpetua dai pubblici uffici;

6°) coloro che sono sottoposti all’interdizione temporanea dai pubblici uffici, per tutto il tempo della sua durata;

7°) in ogni caso i condannati per peculato, malversazione a danno di privati, concussione, corruzione, turbata libertà degli incanti, calunnia, falsa testimonianza, falso giuramento, falsa perizia o interpretazione, frode processuale, subornazione, patrocinio o consulenza infedele o altre infedeltà del patrocinatore o del consulente tecnico, millantato credito del patrocinatore, associazione per delinquere, devastazione e saccheggio, per delitti contro la incolumità pubblica, esclusi i colposi, per falsità in moneta, in carte di pubblico credito e in valori di bollo, falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento, falsità in atti, per delitti contro la libertà sessuale, esclusi quelli preveduti dagli articoli 522 e 526 del Codice penale, per offese al pudore e all’onore sessuale, per delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, escluso quello preveduto dall’articolo 553, per il delitto d’incesto, per omicidio, lesioni personali non colpose gravi o gravissime, furto, eccettuati i casi previsti dall’articolo 626, primo comma, del Codice penale, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, per danneggiamento o appropriazione indebita nei casi pei quali si procede d’ufficio, truffa, fraudolenta distruzione della cosa propria e mutilazione fraudolenta della propria persona, circonvenzione di persone incapaci, per usura, frode in emigrazione, ricettazione e bancarotta fraudolenta, per i giuochi d’azzardo; per le contravvenzioni previste dal Titolo VII del testo unico della legge di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e dalle disposizioni del decreto legislativo luogotenenziale 12 ottobre 1944, n. 323;

8°) i condannati, per i reati previsti nel titolo I del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, sulle sanzioni contro il fascismo e di cui all’articolo 1 del decreto legislativo luogotenenziale 22 aprile 1945, n. 142, nonché i condannati per i reati previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 26 aprile 1945, n. 195, sulla punizione dell’attività fascista;

9°) i tenutari dei locali di meretricio;

10°) i concessionari di case da gioco.

«Le disposizioni dei numeri 5, 6, 7 e 8 non si applicano se la sentenza di condanna è stata annullata o dichiarata priva di effetti giuridici, in base a disposizioni legislative di carattere generale, o se il reato è estinto per effetto di amnistia, o se i condannati sono stati riabilitati. Nel caso di amnistia, non può farsi luogo alla iscrizione nelle liste elettorali se non è intervenuta la declaratoria della competente Autorità giudiziaria».

(È approvato).

Passiamo al Titolo II:

DELLE LISTE ELETTORALI

Art. 3.

«Sono iscritti d’ufficio nelle liste elettorali i cittadini che, possedendo i requisiti per essere elettori e non essendo incorsi nella perdita definitiva o temporanea del diritto elettorale attivo, sono compresi nel registro della popolazione stabile del comune.

«Sono iscritti, altresì, coloro i quali compiano il 21° anno di età entro il 30 aprile dell’anno successivo a quello in cui hanno inizio le operazioni di revisione annuale delle liste e si trovino nelle condizioni di cui al comma precedente».

Lo metto in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 4:

«Le liste elettorali, distinte per uomini e donne, sono compilate in ordine alfabetico, in doppio esemplare ed indicano per ogni elettore:

  1. a) il cognome e nome e, per le donne coniugate o vedove, anche il cognome del marito;
  2. b) la paternità;
  3. c) il luogo e la data di nascita;

c-bis) il titolo di studio;

  1. d) la professione o il mestiere;
  2. e) l’abitazione o, quando l’elettore sia iscritto nelle liste a termini dell’articolo 10, il comune di residenza.

«Esse debbono essere autenticate, mediante sottoscrizione, dal presidente della Commissione elettorale comunale e dal segretario.

«Le liste elettorali sono permanenti. Salvo il disposto degli articoli 24 e 49, le liste non possono essere modificate se non per effetto della revisione annuale, alla quale si procede in conformità delle disposizioni del presente titolo».

All’articolo 4 il Governo ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma, sostituire la lettera e) con la seguente:

  1. e) l’abitazione e, quando l’elettore sia iscritto nelle liste a termini dell’articolo 10, anche il comune di residenza».

Prego l’onorevole Relatore di volere esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione lo accetta, perché si rende più agevole il recapito del certificato elettorale.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 4 che, nel suo complesso, risulta così formulato:

«Le liste elettorali, distinte per uomini e donne, sono compilate in ordine alfabetico, in doppio esemplare, ed indicano per ogni elettore:

  1. a) il cognome e nome e, per le donne coniugate o vedove, anche il cognome del marito;
  2. b) la paternità;
  3. c) il luogo e la data di nascita;

c-bis) il titolo di studio;

  1. d) la professione o il mestiere;
  2. e) l’abitazione e, quando l’elettore sia iscritto nelle liste a termini dell’articolo 10, anche il comune di residenza.

«Esse debbono essere autenticate, mediante sottoscrizione, dal presidente della Commissione elettorale comunale e dal segretario.

«Le liste elettorali sono permanenti. Salvo il disposto degli articoli 24 e 49, le liste non possono essere modificate se non per effetto della revisione annuale, alla quale si procede in conformità delle disposizioni del presente titolo».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 5:

«Presso ogni comune è istituito lo schedario elettorale, che è formato di una parte principale e di due compartimenti ed è tenuto in ordine alfabetico.

«Nella parte principale sono raccolte le schede degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune: i due compartimenti comprendono rispettivamente le schede di coloro che debbono essere cancellati dalle liste e quelle di coloro che debbono esservi iscritti.

«I due compartimenti dello schedario forniscono gli elementi per la revisione annuale delle liste e per le variazioni periodiche previste dall’articolo 24. Essi devono essere tenuti continuamente aggiornati sulla base delle risultanze dei registri dello stato civile, dell’anagrafe e degli atti e documenti della pubblica autorità inerenti alla capacità elettorale dei cittadini.

«Le schede eliminate dallo schedario elettorale devono essere conservate, previa stampigliatura, nell’archivio comunale per un periodo di cinque anni.

«La Giunta municipale verifica, almeno ogni tre mesi, ed in ogni caso nella prima quindicina di ottobre, la regolare tenuta dello schedario elettorale.

«Con decreto del Ministro per l’interno saranno emanate le norme per l’impianto e la tenuta dello schedario elettorale.

«Le spese per l’impianto dello schedario sono a carico dello Stato».

Chiedo al Governo se accetta il testo della Commissione.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Accetta.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 5.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 6:

«Entro il mese di ottobre di ciascun anno il sindaco, in base ai registri dello stato civile e dell’anagrafe e sulla scorta dello schedario elettorale, provvede alla compilazione di un elenco, in ordine alfabetico, distinto per uomini e donne, di coloro che sono o verranno a trovarsi nelle condizioni di cui all’articolo 3.

«In caso di distruzione totale o parziale o d’irregolare tenuta del registro di popolazione, vi suppliscono le indicazioni fornite dagli atti dello stato civile, dalle liste di leva e dai ruoli matricolari depositati nell’archivio comunale.

«Ove manchino anche tali indicazioni, può farsi ricorso a registri, atti e documenti in possesso di altri enti od uffici».

Il Governo ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Entro il mese di ottobre di ciascun anno il sindaco, in base ai registri dello stato civile e dell’anagrafe e sulla scorta dello schedario elettorale, provvede alla compilazione di un elenco, in ordine alfabetico, distinto per uomini e donne, di coloro che sono o verranno a trovarsi nelle condizioni di cui all’articolo 3 e che risultano compresi nel registro della popolazione stabile del comune alla data del 15 ottobre».

Chiedo il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione lo accetta, perché è necessario stabilire un termine, fissato al 15 ottobre, uguale per tutti i comuni, in modo che le varie Commissioni non prendano date diverse.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 6 nel suo complesso, con l’emendamento approvato:

«Entro il mese di ottobre di ciascun anno il sindaco, in base ai registri dello stato civile e dell’anagrafe e sulla scorta dello schedario elettorale, provvede alla compilazione di un elenco, in ordine alfabetico, distinto per uomini e donne, di coloro che sono o verranno a trovarsi nelle condizioni di cui all’articolo 3 e che risultano compresi nel registro della popolazione stabile del comune alla data del 15 ottobre.

«In caso di distruzione totale o parziale o d’irregolare tenuta del registro di popolazione, vi suppliscono le indicazioni fornite dagli atti dello stato civile, dalle liste di leva e dai ruoli matricolari depositati nell’archivio comunale.

«Ove manchino anche tali indicazioni, può farsi ricorso a registri, atti e documenti in possesso di altri enti od uffici».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 7:

«Entro il termine previsto dal primo comma dell’articolo precedente, il sindaco trasmette un estratto dell’elenco di cui al medesimo articolo, comprendente i nati nella circoscrizione di ciascun tribunale, al rispettivo ufficio del casellario giudiziale.

«Per coloro che abbiano ottenuto la cittadinanza italiana e per i cittadini italiani nati all’estero, l’estratto dell’elenco è trasmesso all’ufficio del casellario giudiziale presso il tribunale di Roma.

«L’ufficio del casellario, entro il mese di novembre, restituisce al comune l’estratto dell’elenco, previa apposizione dell’annotazione «Nulla» a fianco di ciascun nominativo per il quale non sussista alcuna iscrizione per reati che comportino la perdita della qualità di elettore ed allega, per gli altri nominativi, il certificato delle iscrizioni esistenti, osservato il disposto dell’articolo 609 del Codice di procedura penale».

Il Governo ha presentato i seguenti due emendamenti:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Entro il termine stabilito dal primo comma dell’articolo precedente, il sindaco trasmette un estratto dell’elenco ivi previsto, comprendente i nati nella circoscrizione di ciascun tribunale, all’ufficio del casellario giudiziale competente. Nell’elenco non sono compresi gli elettori immigrati da altri comuni».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«L’ufficio del casellario, entro il mese di novembre, restituisce al comune l’estratto dell’elenco, previa apposizione dell’annotazione «Nulla» per ciascun nominativo nei cui confronti non sussista alcuna iscrizione per reati che comportino la perdita della qualità di elettore ed allega, per gli altri nominativi, il certificato delle iscrizioni esistenti, osservato il disposto dell’articolo 609 del Codice di procedura penale».

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Domandiamo al Governo un chiarimento: quale è stato il motivo per cui alle parole: «all’ufficio del casellario giudiziario» si è aggiunta la parola: «competente»?

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di parlare.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. È sembrato che la formulazione fosse più precisa. Non esiste una ragione specifica, diversa da questa. È stato soltanto allo scopo di precisare. Si capisce che è il casellario giudiziario che deve avere la possibilità di rilasciare questi certificati.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Il Governo ha anche aggiunto, alla fine del primo comma: «Nell’elenco non sono compresi gli elettori immigrati da altri comuni».

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Questo emendamento avrebbe lo scopo di evitare che l’attestazione del casellario giudiziario venga nuovamente richiesta dagli elettori che si siano trasferiti dal comune. È per non fare due rilasci.

UBERTI, Relatore. Dopo questi chiarimenti, la Commissione accetta i due emendamenti.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i due emendamenti presentati dal Governo.

(Sono approvati).

Pongo in votazione l’articolo 7 così modificato:

«Entro il termine stabilito dal primo comma dell’articolo precedente, il sindaco trasmette un estratto dell’elenco ivi previsto, comprendente i nati nella circoscrizione di ciascun tribunale, all’ufficio del casellario giudiziale competente. Nell’elenco non sono compresi gli elettori immigranti da altri comuni.

«Per coloro che abbiano ottenuto la cittadinanza italiana e per i cittadini italiani nati all’estero, l’estratto dell’elenco è trasmesso all’ufficio del casellario giudiziale presso il tribunale di Roma.

«L’ufficio del casellario, entro il mese di novembre, restituisce al comune l’estratto dell’elenco, previa apposizione dell’annotazione «Nulla» per ciascun nominativo nei cui confronti non sussista alcuna iscrizione per reati che comportino la perdita della qualità di elettore ed allega, per gli altri nominativi, il certificato delle iscrizioni esistenti, osservato il disposto dell’articolo 609 del Codice di procedura penale».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 8:

«Entro il mese di novembre l’autorità provinciale di pubblica sicurezza trasmette alla segreteria del comune l’elenco dei cittadini italiani che si trovino sottoposti alle misure del confino o della ammonizione, nonché l’elenco dei titolari dei locali di meretricio.

«Tale disposizione si applica per coloro che abbiano compiuto il 21° anno di età o lo compiano entro il 30 aprile dell’anno successivo».

Il Governo ha proposto il seguente emendamento sostitutivo dal primo comma:

«Entro il mese di novembre l’autorità provinciale di pubblica sicurezza trasmette al comune l’elenco dei cittadini, che si trovino sottoposti alle misure del confino o della ammonizione, nonché l’elenco dei titolari dei locali di meretricio e dei concessionari di case da giuoco».

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Questa dizione deve essere riveduta in seguito alle modificazioni apportate all’articolo 2. Quindi si dovrà dire: «l’elenco dei tenutari dei locali di meretricio e dei concessionari delle case da giuoco».

PRESIDENTE. Poiché all’articolo 2 si è fatta una distinzione tra le due categorie, sarebbe opportuno dire: «l’elenco dei tenutari dei locali di meretricio e quello dei concessionari di case da giuoco».

UBERTI, Relatore. La Commissione è d’accordo.

PRESIDENTE. L’articolo 8 risulta pertanto così modificato:

«Entro il mese di novembre l’autorità provinciale di pubblica sicurezza trasmette al Comune l’elenco dei cittadini che si trovino sottoposti alle misure del confino o della ammonizione, nonché l’elenco dei tenutari dei locali di meretricio e quello dei concessionari di case da giuoco.

«Tale disposizione si applica per coloro che abbiano compito il 21° anno di età o lo compiano entro il 30 aprile dell’anno successivo».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 9:

«Il primo novembre il sindaco, con avviso da affiggersi all’albo comunale ed in altri luoghi pubblici, invita tutti coloro che siano in possesso dei requisiti per ottenere la iscrizione nelle liste elettorali a farne domanda, entro il giorno 15 dello stesso mese.

«Nella domanda vanno indicati la paternità, il luogo e la data di nascita, la professione e l’abitazione; ad essa devono essere allegati i documenti comprovanti nel richiedente il possesso dei requisiti per essere elettore nel comune. Se il richiedente non ha l’abitazione nel comune, può indicare altresì in quale sezione elettorale intende essere iscritto. Se non è nato nel comune deve allegare il certificato di nascita.

«La domanda è sottoscritta dal richiedente. Nel caso che egli non sappia o non sia in grado di sottoscriverla per fisico impedimento, può fare la domanda in forma verbale, alla presenza di due testimoni, innanzi ad un notaio, o al segretario comunale o ad altro impiegato all’uopo delegato dal sindaco. Dell’atto è rilasciata attestazione al richiedente».

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Poiché all’articolo 4 si è aggiunto il titolo di studio, sarebbe bene aggiungerlo anche qui, dicendo: «la paternità, il titolo di studio, ecc.». Così pure alla «professione» bisognerebbe aggiungere: «mestiere».

PRESIDENTE. Sta bene; il secondo comma risulterebbe allora così modificato:

«Nella domanda vanno indicati la paternità, il luogo e la data di nascita, il titolo di studio, la professione o mestiere e l’abitazione; ad essa devono essere allegati i documenti comprovanti nel richiedente il possesso dei requisiti per essere elettore nel Comune. Se il richiedente non ha l’abitazione nel Comune deve indicare altresì in quale sezione elettorale intenda essere iscritto. Se non è nato nel Comune deve allegare il certificalo di nascita».

Lo metto in votazione.

(È approvato – Si approva l’articolo così modificato).

Passiamo all’articolo 10:

«Chi è iscritto nelle liste elettorali di un Comune può chiedere di rimanervi, nonostante abbia trasferito la propria residenza in altro Comune ed ottenuto la iscrizione nel relativo registro della popolazione stabile. A tal fine, entro 15 giorni dal trasferimento della residenza, invia al sindaco del Comune nelle cui liste intende di mantenere l’iscrizione, apposita domanda della quale il sindaco stesso dà immediata notizia al sindaco dell’altro Comune.

«Chi, pur non avendovi la residenza, intenda essere iscritto nelle liste elettorali del Comune di nascita o del Comune dove ha la sede principale dei propri affari od interessi deve, entro il termine previsto dal primo comma dell’articolo precedente, presentare domanda al sindaco unendovi la dichiarazione del Comune di residenza attestante l’avvenuta rinuncia alla iscrizione nelle liste di quel Comune.

«Alle domande di cui sopra si applica il disposto dell’ultimo comma dell’articolo precedente.

«Le domande ed i documenti annessi devono essere presentati nella segreteria comunale ed il segretario, all’atto della presentazione, ne rilascia ricevuta con l’indicazione dei documenti allegati.

«Per i cittadini di cui al presente articolo ed a quello precedente, non compresi nell’elenco di cui all’articolo 6, il Comune richiede il certificato del casellario giudiziale, a norma dell’articolo 7, entro il 20 novembre. Il casellario provvede al relativo rilascio entro il 10 dicembre».

Il Governo ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire l’ultimo comma col seguente: «Per i cittadini di cui al presente articolo ed a quello precedente, non compresi nell’elenco prescritto dall’articolo 6, il sindaco richiede, entro il 20 novembre, tranne per coloro che siano già elettori, il certificato dell’ufficio del casellario giudiziale, che provvede al rilascio non oltre il 10 dicembre».

Invito l’onorevole Relatore a pronunciarsi al riguardo.

UBERTI, Relatore. La Commissione lo accetta perché è un perfezionamento di forma.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 10 con questo emendamento.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 11:

«I cittadini emigrati all’estero, purché in possesso dei requisiti di cui all’articolo 1, possono chiedere di essere iscritti nelle liste elettorali o di esservi reiscritti se già cancellati o di conservare la iscrizione se ancora compresi nelle liste, anche quando siano stati cancellati dal registro della popolazione stabile.

«La domanda, da inoltrare per tramite della competente autorità consolare, deve pervenire, entro il 15 novembre, al sindaco del comune di nascita o del comune nelle cui liste il richiedente risultava iscritto all’atto della partenza. Della ricezione della domanda e della decisione della Commissione elettorale mandamentale il comune dà notizia all’interessato per mezzo della predetta autorità.

«Per gli emigrati che domandano la iscrizione o la reiscrizione nelle liste, il comune richiede il certificato del casellario giudiziale entro il termine di cui all’ultimo comma dell’articolo precedente.

«Della qualità di emigrato è fatta apposita annotazione nelle liste generali e sezionali e nello schedario elettorale».

Il Governo ha presentato il seguente emendamento.

«Sostituire il secondo comma col seguente:

La domanda, da inoltrare per tramite della competente autorità consolare, deve pervenire, entro il 15 novembre, al sindaco del comune di nascita o del comune nelle cui liste il richiedente risultava iscritto all’atto della partenza. Della ricezione della domanda il sindaco dà notizia all’interessato, per mezzo della predetta autorità. Per lo stesso tramite notifica all’interessato le decisioni delle Commissioni elettorali comunale e mandamentale».

Chiedo il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta anche questo emendamento, in quanto che si tratta anche qui di un perfezionamento formale consistente nella sostituzione della parola «comune» con quella di «sindaco».

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emenda del Governo.

(È approvato).

Metto in votazione l’articolo 11 con quest’emendamento.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 12:

«Entro il mese di ottobre di ciascun anno il Consiglio comunale elegge, nel proprio seno, una Commissione per la revisione delle liste elettorali. L’elezione non è valida se non interviene la metà del numero dei consiglieri.

«La Commissione è costituita di quattro componenti effettivi e quattro supplenti nei comuni il cui Consiglio ha da 15 a 30 membri, di sei componenti effettivi e sei supplenti in quelli il cui Consiglio ha da 40 a 50 membri, di otto componenti effettivi ed otto supplenti negli altri comuni.

«Nella Commissione deve essere rappresentata la minoranza.

«A tale effetto, per la elezione dei componenti effettivi nei comuni il cui Consiglio non ha più di 30 membri, ciascun consigliere scrive nella propria scheda un nome e sono proclamati eletti coloro che hanno raccolto il maggior numero di voti, purché non inferiore a tre.

«Nei comuni il cui Consiglio ha da 40 a 50 membri, ogni consigliere dispone di quattro voti che può assegnare a quattro candidati diversi ovvero ad un numero inferiore di candidati o concentrarli anche su uno solo. Sono proclamati eletti coloro che hanno raccolto il maggior numero di voti, purché non inferiore ad otto.

«Nei comuni il cui Consiglio ha da 60 ad 80 membri ogni consigliere dispone di sei voti e la elezione si effettua con le modalità di cui al precedente comma. Sono proclamati eletti coloro che hanno raccolto il maggior numero di voti, purché non inferiore a dodici.

«A parità di voti è proclamato eletto l’anziano di età.

«Il sindaco non prende parte alla votazione.

«Con votazione separata e con le stesse modalità, si procede alla elezione dei membri supplenti. Questi prendono parte alle operazioni della Commissione soltanto se mancano i componenti effettivi, e in corrispondenza delle votazioni con le quali gli uni e gli altri sono risultati eletti dal Consiglio comunale.

«La Commissione è presieduta dal sindaco.

«Per la validità delle riunioni della Commissione è richiesto l’intervento della metà più uno dei componenti.

«Le funzioni di segretario della Commissione sono esercitate dal segretario comunale.

«Se il Consiglio comunale, nell’epoca indicata nel primo comma, è sciolto, i componenti eletti per l’anno precedente restano in carica sotto la presidenza del Commissario prefettizio e, avvenuta la nomina del sindaco, sotto la presidenza di questo».

A questo articolo il Governo ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Entro il mese di ottobre di ogni biennio il Consiglio comunale elegge, nel proprio seno, una Commissione per la revisione delle liste elettorali. L’elezione non è valida se non interviene la metà del numero dei consiglieri».

Invito l’onorevole Relatore a pronunciarsi a nome della Commissione.

UBERTI, Relatore. Alla Commissione l’emendamento sembra opportuno, in quanto che si arriva in questo modo ad utilizzare meglio le esperienze già fatte nel primo anno di attività da parte dei membri della Commissione.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. L’ultima parte del primo comma: «L’elezione non è valida se non interviene la metà del numero dei consiglieri», mi sembra superflua e proporrei di toglierla.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Sembra a prima vista dizione superflua. Ma in realtà non lo è, perché ci sono delle situazioni nelle quali, in caso di seconda convocazione, la seduta può esser valida anche con un minor numero di presenti. La formula rappresenta una garanzia maggiore per tutte le parti politiche. Non vedo che vi sia alcun male a lasciare l’inciso.

PRESIDENTE. Il suo emendamento, onorevole Cosattini, mi sembra che porterebbe a questo: che questa nomina non si potrebbe far altro che in sedute valide di prima convocazione, e non potrebbe mai avvenire in sedute di seconda convocazione.

MICHELI, Presidente della Commissione. Questo non è detto: quindi c’è la necessità di lasciare il testo come proposto.

PRESIDENTE. Non mi sono spiegato bene: io facevo presente all’onorevole Cosattini la portata del suo emendamento

COSATTINI. Ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. Pongo si voti l’emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 12 con quest’emendamento.

(È approvato).

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Desideravo sapere dalla Commissione se c’è qualche articolo che provveda per i cittadini nati all’estero, perché qui si parla con precisione dei cittadini emigrati all’estero; ma il figlio di padre italiano nato all’estero, i cittadini italiani tutti nati all’estero hanno diritto di essere elettori in Italia. Domando se la loro posizione è prevista e regolata in qualche parte del progetto di legge.

UBERTI, Relatore. È considerato emigrato, in quanto figlio di un emigrato.

PRESIDENTE. Senza entrare in merito a questo argomento, che non è attinente a questo articolo ormai approvato, se ella, onorevole Fabbri, volesse presentare degli emendamenti aggiuntivi, ha tutto il tempo a sua disposizione fino all’approvazione totale della legge.

Dobbiamo ora esaminare congiuntamente gli articoli 13 e 14, poiché il Governo ha proposto di fonderli in un solo articolo.

Art. 13.

«Trascorso il termine di cui al primo comma dell’articolo 9 e non oltre il 15 dicembre, la Commissione comunale procede alla formazione, in ordine alfabetico, dei tre elenchi separati per la revisione delle liste, previsti dall’articolo seguente.

«Gli elenchi, in duplice copia, devono essere distinti per uomini e donne».

Art. 14.

«Nel primo elenco la Commissione comunale propone l’iscrizione di coloro i quali risultino in possesso dei requisiti per ottenere l’iscrizione nelle liste elettorali, tanto se siano compresi nell’elenco di cui all’articolo 6, quanto se abbiano presentato domanda a termini degli articoli 9, 10 e 11. Accanto a ciascun nominativo va apposta un’annotazione indicante il titolo ed i documenti per i quali l’iscrizione è proposta, e se per domanda dell’interessato o d’ufficio.

«Nel secondo elenco la Commissione propone la cancellazione di coloro che sono incorsi nelle incapacità di cui ai nn. 3 e 9 dell’articolo 2 e di coloro che hanno rinunziato all’iscrizione nelle liste del comune a norma del secondo comma dell’articolo 10.

«Nel terzo elenco sono segnati i nominativi di coloro le cui domande d’iscrizione non sono state accolte, con l’indicazione a fianco dei motivi del diniego».

L’emendamento proposto dal Governo è il seguente:

Art. 13.

«Fonderlo con l’articolo 14 nel testo seguente:

«Non oltre il 15 dicembre, la Commissione comunale procede alla formazione, in ordine alfabetico, di tre elenchi separati per la revisione delle liste.

«Gli elenchi, in duplice copia, devono essere distinti per uomini e donne.

«Nel primo elenco la Commissione comunale propone l’iscrizione di coloro i quali risultino in possesso dei requisiti per ottenere la iscrizione nelle liste elettorali, tanto se siano compresi nell’elenco di cui all’articolo 6, quanto se abbiano presentato domanda ai termini degli articoli 9, 10 e 11. Accanto a ciascun nominativo va apposta un’annotazione indicante il titolo ed i documenti per i quali l’iscrizione è proposta, e se per domanda dell’interessato o d’ufficio.

«Nel secondo elenco la Commissione propone la cancellazione di coloro che sono incorsi nelle incapacità di cui ai nn. 3 e 9 dell’articolo 2 e di coloro che hanno rinunziato all’iscrizione nelle liste del comune a norma del secondo comma dell’articolo 10.

«Nel terzo elenco sono segnati i nominativi di coloro le cui domande d’iscrizione non sono state accolte, con l’indicazione a fianco dei motivi del diniego».

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta l’emendamento, perché i termini sono tutti collegati l’uno con l’altro.

PRESIDENTE. Metto in votazione il nuovo articolo 13, che risulta dalla fusione dei due articoli 13 e 14.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 15:

«Di tutte le operazioni compiute dalla Commissione comunale per la revisione delle liste elettorali il segretario redige, su apposito registro, il verbale che è sottoscritto dai membri della Commissione presenti alla seduta e dal segretario. Quando le deliberazioni della Commissione non siano concordi, il verbale deve recare l’indicazione del voto di ciascuno dei componenti e delle ragioni addotte anche dai dissenzienti».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 16:

«Entro il 31 dicembre il sindaco invita, con manifesti da affiggersi all’albo comunale e in altri luoghi pubblici, chiunque intenda proporre ricorsi contro gli elenchi, a presentarli non oltre il 15 gennaio con le modalità di cui al successivo articolo 18.

«Durante questo periodo, un esemplare di ciascuno degli elenchi firmato dal presidente della Commissione comunale e dal segretario, deve rimanere depositato nell’ufficio comunale, insieme con i titoli e documenti relativi a ciascun nominativo e con le liste elettorali dell’anno precedente. Ogni cittadino ha diritto di prenderne visione.

«Il sindaco notifica al prefetto della provincia l’avvenuta affissione del manifesto».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 17:

«La pubblicazione prescritta dall’articolo precedente tiene luogo di notificazione nei confronti di coloro dei quali la Commissione comunale ha proposto l’iscrizione nelle liste elettorali.

«A coloro la cui domanda d’iscrizione non sia stata accolta, o che non siano stati inclusi nel primo elenco di cui all’articolo 14 per essere incorsi in una delle incapacità previste dall’articolo 2, il sindaco notifica per iscritto la decisione della Commissione comunale, indicandone i motivi, non oltre dieci giorni dalla pubblicazione degli elenchi. La decisione della Commissione è notificata anche a coloro dei quali sia stata proposta la cancellazione dalle liste.

«La notificazione è eseguita per mezzo degli agenti comunali, che devono chiedere il rilascio di apposita ricevuta. In mancanza di ricevuta, l’attestazione degli agenti circa l’avvenuta notificazione fa fede fino a prova in contrario».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 18:

«Ogni cittadino, nel termine indicato nell’articolo 16, può ricorrere alla Commissione elettorale mandamentale contro qualsiasi iscrizione, cancellazione, diniego di iscrizione od omissione di cancellazione negli elenchi proposti dalla Commissione comunale.

«I ricorsi possono essere anche presentati nello stesso termine al sindaco che, per mezzo del segretario comunale, ne rilascia ricevuta e li trasmette alla Commissione elettorale mandamentale.

«Il ricorrente che impugna un’iscrizione deve dimostrare di aver fatto eseguire la notificazione del ricorso alla parte interessata, entro i cinque giorni successivi alla presentazione, per mezzo di ufficiale giudiziario di pretura o di usciere dell’ufficio di conciliazione.

«La parte interessata può, entro cinque giorni dall’avvenuta notificazione, presentare un contro-ricorso, eventualmente corredato da documenti, alla stessa Commissione elettorale mandamentale, che ne rilascia ricevuta».

Il Governo ha proposto il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«I ricorsi possono essere anche presentati nello stesso termine al comune, che ne rilascia ricevuta».

Chiedo il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Accettiamo le nuove proposte del Governo: però la Commissione chiede che rimanga l’ultima frase: «e li trasmette alla Commissione elettorale mandamentale». È una norma implicita, ma la Commissione ritiene opportuno che sia mantenuta esplicitamente per maggiore chiarezza.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Accetto di mantenere questa ultima indicazione.

PRESIDENTE. L’emendamento del Governo viene quindi completato dalle parole: «e li trasmette alla Commissione elettorale mandamentale».

Pongo in votazione l’emendamento nella formula testé letta.

(È approvato).

Il Governo ha presentato inoltre il seguente emendamento:

«Aggiungere, in fine, i seguenti commi:

«Per i cittadini emigrati all’estero il ricorso dev’essere presentato, non oltre il trentesimo giorno dalla data della notificazione della decisione della Commissione comunale.

«Se la presentazione del ricorso avviene per mezzo dell’autorità consolare, questa ne cura l’immediato inoltro alla Commissione mandamentale competente».

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Io confesso di non avere esaminato il tecnicismo del progetto di legge e quindi avevo chiesto una spiegazione alla Commissione. Ma faccio presente che in una seduta quasi plenaria della Costituente fu dibattuta lungamente la questione se i cittadini residenti all’estero potessero addirittura aver diritto di votare all’estero, e solo per ragioni di opportunità fu escluso; ma risultò essere desiderio di tutti, e fu formulato il voto generale del mantenimento di questo collegamento fra i cittadini italiani all’estero e gli organi politici italiani, nel senso che i cittadini tutti, residenti all’estero, potessero recarsi in Italia per esercitare di fatto il loro diritto di voto.

Ora mi pare che questa precisa condizione che l’italiano emigrato all’estero, per essere iscritto nelle liste degli elettori, debba indicare il Comune da dove emigrò, porti alla conseguenza che tutti i nati all’estero – cittadini italiani o perché di padre italiano o per tutti gli altri motivi per cui viene attribuita dalla nostra legge in materia la cittadinanza italiana – non hanno la possibilità di trovare il Comune dove possono presentare questa documentazione per conservare l’elettorato attivo quale manifestazione ed estrinsecazione del loro diritto di cittadini italiani, tuttora permanente.

PRESIDENTE. La discussione a cui ella si riferisce mi sembra che sia avvenuta in tema di diritto elettorale politico, non amministrativo.

FABBRI. Ma questo progetto di legge concerne tutto l’elettorato attivo; assorbe l’uno e l’altro.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. La questione sollevata in sede di discussione della nuova Costituzione, in materia di diritti politici, era un’altra; si trattava di dare a tutti i cittadini italiani all’estero il diritto di voto e che questo voto potesse essere dato all’estero, senza rientrare in patria. Il problema non è stato possibile risolverlo in tali termini. Ora invece la questione fatta dall’onorevole Fabbri è che non solo gli emigrati, ma anche i figli degli emigrati, possano chiedere l’iscrizione nelle liste elettorali del Comune di origine in patria. Mi sembra che la soluzione sia indubbia; solo è necessario che i cittadini emigrati, ed in questi sono compresi anche i figli di emigrati, perché seguono per la legge civile la condizione dei loro padri, facciano una domanda, che si iscrivano, non in una lista all’estero, ma nella lista del paese da cui provengono.

L’onorevole Fabbri vuol esser tranquillo che i figli degli emigrati all’estero abbiano gli stessi diritti dei cittadini italiani nati in Italia. A me sembra evidente, fino a che siano cittadini italiani, che la Costituzione pone solo questo requisito.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà..

FABBRI, Io trovo che il primo articolo della legge è chiarissimo e non sollevo il dubbio che suppone l’onorevole Uberti. Io mi preoccupo che nelle modalità esecutive, per tradurre in atto l’esercizio di questo diritto astratto, si parli sempre del cittadino emigrato all’estero. L’onorevole Uberti completa dicendo che il figlio segue la condizione del padre. Ora io mi chiedo se un figlio o nipote di italiano, residente da anni negli Stati Uniti, può presentare il certificato di emigrazione che si riferisca a suo padre o a suo nonno per essere egli iscritto nelle liste in Italia. L’affermativa è un’opinione personale dell’onorevole Uberti. Il certificato è personale e quindi mi rimetto alla Commissione per il chiarimento più opportuno da introdurre nel progetto di legge.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Qui si tratta solo del problema di come organizzare il voto dell’emigrato all’estero, non si tratta cioè di stabilire se il figlio del cittadino emigrato all’estero è cittadino italiano. Si segue quella che è la legge della cittadinanza italiana e noi non siamo qui in tema di modifica di questa legge.

MICHELI, Presidente della Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI, Presidente della Commissione. La questione che propone l’onorevole Fabbri è importante sotto l’aspetto delle particolari modalità occorrenti, le quali, se non sono specificate chiaramente, possono effettivamente domani portare qualche remora nel raggiungimento di questo diritto particolare. Io, pur essendo d’accordo col Relatore nella tesi esposta, che in fondo il figlio del cittadino italiano nato all’estero è italiano e quindi ha i medesimi diritti, trovo però opportuno per tante ragioni ed anche per la risonanza che può avere una doverosa nostra preoccupazione di facilitare coloro che volessero restare elettori nella patria d’origine, che questo sia chiarito. Quindi io proporrei di sospendere momentaneamente questa parte, ed in sede di coordinamento dei vari articoli che a questa questione si riferiscono, cercheremo di proporre una particolare formulazione la quale tenga presente le argomentazioni dell’onorevole Fabbri, sia pure tenendo ferma la tesi sostenuta dal nostro Relatore.

PRESIDENTE. Ella propone di tenere in sospeso l’approvazione dell’articolo?

MICHELI, Presidente della Commissione. Accordiamoci intanto ad un criterio di riserva, di sospensione, in modo che in sede di coordinamento ci sia il modo di potere accontentare l’onorevole Fabbri con qualche disposizione aggiuntiva che non è bene adesso improvvisare, perché improvvisare in questo caso è evidentemente non opportuno e certo non consigliabile.

Noi nella discussione di domani potremmo avere qualche maggiore elemento. Diamo una occhiata alla situazione magari insieme all’onorevole Fabbri e potremmo presentare, se del caso, un emendamento o fare una dichiarazione che possa consentire alla legge quella interpretazione che sia conforme al principio sostenuto dall’onorevole Fabbri.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Avevo chiesto di parlare prima che parlasse l’onorevole Presidente della Commissione. Avendo egli proposto che su questo punto vi sia una sospensione per modo che il problema sia esaminato, non ho ragione d’insistere. Mi limito ad aderire all’osservazione dell’onorevole Fabbri. In realtà qui c’è una lacuna perché le disposizioni del progetto di legge non prevedono l’ipotesi del cittadino italiano nato e residente all’estero. Questi cittadini, secondo il sistema attuale, non sarebbero iscritti di ufficio perché non hanno la residenza stabile in Italia, né nella legge è indicato a quale Comune essi potrebbero far domanda d’iscrizione. Esiste quindi il problema. Ritengo, perciò, molto opportuna la proposta del Presidente della Commissione di riesaminare la questione in modo da poter formulare proposte concrete.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Siamo all’articolo 18. Qui si parla soltanto dei ricorsi; ma secondo me oltre che tenere sospeso questo comma, – anzi bisognerebbe riordinare tutto l’articolo – occorre tener presente l’articolo 11, perché quella è la sede nella quale si dovrà inserire la richiesta fatta dall’onorevole Fabbri. È nell’articolo 11 che si deve fare l’aggiunta oltre che farla nell’articolo 18 che parla dei ricorsi.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Riterrei opportuno approvare ugualmente l’articolo, salvo studiare una aggiunta, se si rivelasse necessaria.

PRESIDENTE. Allora non occorre prendere in questo momento nessuna deliberazione. La questione si potrà ripresentare e risolvere con norme da coordinarsi con l’articolo 11.

MICHELI, Presidente della Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Presidente della Commissione. L’onorevole Relatore dice: «Approvare salvo». Va bene: quando c’è un «salvo» è evidente che c’è una sospensione, una riserva nel testo che si approva. È quindi la medesima cosa. Se l’Assemblea crede di rinviare si avrà maggiore libertà di manovra; diversamente è lo stesso. Noi possiamo approvare colla riserva di poter esaminare la questione alla quale ha dato origine l’osservazione dell’onorevole Fabbri, cui si è associato l’onorevole Perassi, che esso pure ha messo in rilievo la particolare importanza che effettivamente essa può rivestire. Questo lo faremo in modo che prima della chiusura della discussione, la Commissione porti, o d’accordo con gli onorevoli proponenti, un testo il quale consenta l’eventuale riforma dell’articolo 11 e degli altri articoli che a questo hanno riferimento, oppure, se andrà in diversa sentenza, ne esporrà le ragioni ed allora l’Assemblea deciderà.

In questa forma non mi oppongo perché si tratta di un’approvazione condizionata. L’Assemblea stabilisce il riesame della questione.

PRESIDENTE. Il testo si approva così come è, con l’intesa che al momento opportuno si tornerà sulla proposta dell’onorevole Fabbri in base alle proposte della Commissione.

DE MICHELIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE MICHELIS. Si tratta di una precisazione: vale addire, nell’articolo 11 dove si dice: «I cittadini emigrati all’estero», propongo che si aggiunga: «e i loro figli che hanno conservato il diritto di cui all’articolo 1».

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente della Commissione ha detto: si approvi l’articolo nella formula attuale, intendendo che questa approvazione non chiude la strada all’inclusione della norma suggerita dall’onorevole Fabbri, anzi dichiarando che la Commissione è la prima a riconoscere la necessità di esaminare la questione.

Onorevole Fabbri, è soddisfatto di questa soluzione?

FABBRI. Io sono soddisfattissimo; ma vorrei precisare che non ho mai dubitato della tesi principale, cui si riferiscono le risposte che mi sono state date.

All’articolo 1 si riconosce il diritto a tutti i cittadini; ma, quando si regola il modo in cui i cittadini possono farsi inscrivere nelle liste elettorali, si stabiliscono tali modalità, per cui i cittadini nati all’estero non hanno nessun modo di inscriversi in nessun Comune o lista.

CALDERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALDERA. Si potrebbe giungere senza altro ad una soluzione dicendo: «i cittadini residenti all’estero»; così superiamo le difficoltà derivanti dalla dizione «nati da genitori italiani residenti all’estero».

La locuzione «emigrati» comporta una valutazione diversa, vale a dire la condizione degli italiani che risiedono fuori del confine. Adoperando la dizione «i cittadini residenti all’estero» superiamo tutte le difficoltà. Vi entrano non solo i genitori, ma anche i figli di coloro, che hanno facoltà di dichiarare che conservano la cittadinanza italiana.

PRESIDENTE. L’onorevole Caldera propone di risolvere la questione sin da ora, sostituendo alla parola «emigrati» la parola «residenti all’estero».

Il Presidente della Commissione ha facoltà di esprimere il proprio parere.

MICHELI, Presidente della Commissione. La proposta dell’onorevole Caldera è importantissima, più di quello che non risulti dalla parola stessa, inquantoché può avere anche delle interferenze di ben altro genere. Abbiamo già sentito questo accenno in altre discussioni e ne abbiamo anche discusso nella Commissione. Quindi, teoricamente, io accederei alla proposta Caldera, che è semplice e precisa; però, non è scevra di difficoltà. Ad ogni modo anche per questo, rinasce l’opportunità di rinviare l’esame della questione, nel senso detto prima; cioè: approviamo, riservandoci il riesame, nel quale, se del caso, riprenderemo tutti i punti relativi alla questione. Si capisce che, se noi entriamo nel concetto espresso dall’onorevole Caldera, e questo mi pare possa essere, allora cominceremo col proporre l’emendamento dell’articolo 1, poi all’articolo 11 ed agli altri che all’articolo in discussione hanno riferimento. Sarà tutto un lavoro di coordinamento che la Commissione farà. Ma essa in questo momento non si sente di improvvisare, perché l’argomento ha evidenti interferenze la cui importanza ci può momentaneamente anche sfuggire.

Pertanto la Commissione chiede il rinvio alla prossima seduta, alla quale faremo una proposta concreta. Così saremo più sicuri di dettare norme chiare e sicure, come è necessario sempre, ma particolarmente in una materia di questo genere.

PRESIDENTE. Quindi la proposta confermata dall’onorevole Presidente della Commissione è di procedere alla votazione di questo articolo, con la riserva che la Commissione ripresenterà la questione all’Assemblea, in sede di coordinamento.

CALDERA. Nell’occasione prego di togliere quel «Per», con cui inizia il comma; è orribile.

PRESIDENTE. La forma si potrà rivedere in sede di coordinamento, senza bisogno di ricorrere alla revisione da parte di un letterato.

MICHELI, Presidente della Commissione. Basterà che il nostro Presidente la risciacqui in Arno. (Si ride).

PRESIDENTE. Pongo ai voti il secondo emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 18 con le modificazioni del Governo e con la riserva illustrata dal Presidente della Commissione:

«Ogni cittadino, nel termine indicato nell’articolo 16, può ricorrere alla Commissione elettorale mandamentale contro qualsiasi iscrizione, cancellazione, diniego di iscrizione od omissione di cancellazione negli elenchi proposti dalla Commissione comunale.

«I ricorsi possono essere anche presentati nello stesso termine al Comune, che ne rilascia ricevuta.

«Il ricorrente che impugna un’iscrizione deve dimostrare di aver fatto eseguire la notificazione del ricorso alla parte interessata, entro i cinque giorni successivi alla presentazione, per mezzo di ufficiale giudiziario di pretura o di usciere dell’ufficio di conciliazione.

«La parte interessata può, entro cinque giorni dall’avvenuta notificazione, presentare un contro-ricorso, eventualmente corredato da documenti, alla stessa Commissione elettorale mandamentale, che ne rilascia ricevuta.

«Per i cittadini emigrati all’estero il ricorso dev’essere presentato, non oltre il trentesimo giorno dalla detta notificazione della decisione della Commissione comunale.

«Se la presentazione del ricorso avviene per mezzo dell’autorità consolare, questa ne cura l’immediato inoltro alla Commissione mandamentale competente.

(È approvato)

Passiamo all’articolo 19:

«In ogni comune capoluogo di mandamento giudiziario è istituita una Commissione elettorale mandamentale, presieduta dal presidente del tribunale, nelle sedi ove esista, o dal pretore nelle altre sedi e composta di quattro commissari, di cui uno nominato dal prefetto e tre dalla Deputazione provinciale. Il commissario di nomina prefettizia è scelto tra i dipendenti dello Stato di gruppo A o, in mancanza, di gruppo B, in attività di servizio o a riposo; nel capoluogo della Provincia la nomina è fatta tra i funzionari di prefettura di grado non inferiore all’VIII.

«I commissari, la cui nomina spetta alla Deputazione provinciale, sono scelti fra gli elettori dei comuni del mandamento estranei all’amministrazione dei comuni medesimi, sempreché abbiano adempiuto almeno all’obbligo dell’istruzione elementare e non siano dipendenti civili o militari dello Stato, né dipendenti della provincia, dei comuni e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza in attività di servizio.

«La Deputazione provinciale nomina, altresì, tre commissari supplenti, che sostituiscono quelli effettivi in caso di assenza o di legittimo impedimento.

«Qualora la circoscrizione di un mandamento giudiziario comprenda comuni di più provincie, i prefetti delle provincie interessate possono determinare, con propri decreti, la competenza territoriale delle Commissioni elettorali in maniera che essa sia esercitata nell’ambito di una sola provincia.

«Analogamente i prefetti, quando la situazione dei luoghi lo consigli, hanno facoltà di determinare, con proprio decreto, la competenza territoriale della Commissione elettorale mandamentale in difformità della circoscrizione giudiziaria.

«I provvedimenti di cui ai due comma precedenti son adottati d’intesa con i primi presidenti delle Corti d’appello competenti per territorio.

«Nei mandamenti che abbiano una popolazione superiore ai 50.000 abitanti possono essere costituite Sottocommissioni elettorali in proporzione di una per ogni 50.000 abitanti o frazione di 50.000. Possono essere egualmente costituite ove esistano sezioni di pretura. Le Sottocommissioni sono presiedute da magistrati in attività di servizio, a riposo od onorari, nominati dal presidente del tribunale, ed hanno la stessa composizione prevista per la Commissione elettorale mandamentale. Il presidente della Commissione mandamentale ripartisce i compiti fra questa e le Sottocommissioni e ne coordina e vigila l’attività.

«I componenti della Commissione e della Sottocommissione, ad eccezione dei rispettivi presidenti, durano in carica due anni e non possono essere confermati nel biennio successivo.

«Ai componenti delle Commissioni e Sottocommissioni elettorali mandamentali è concessa, oltre il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute, una medaglia di presenza nella stessa misura determinata dalle disposizioni in vigore per i componenti delle Commissioni costituite presso le amministrazioni dello Stato».

Questo articolo ha dato luogo alla proposta del Governo di ripartirlo in tre articoli, il 19, il 19-bis, il 19-ter, di cui do lettura.

Art. 19.

«In ogni comune capoluogo di mandamento giudiziario è costituita entro il mese di ottobre di ciascun biennio, con decreto del Primo Presidente della Corte d’Appello, una Commissione elettorale mandamentale, presieduta dal Presidente del Tribunale, nelle sedi ove esista, o dal pretore nelle altre sedi e composta di quattro membri di cui uno designato dal prefetto e tre dal Consiglio provinciale. Il componente designato dal prefetto è scelto tra i dipendenti dello Stato di gruppo A o, in mancanza, di gruppo B, in attività di servizio o a riposo; nel capoluogo della provincia la nomina è fatta tra i funzionari di Prefettura di grado non inferiore all’VIII.

«I componenti, la cui designazione spetta al Consiglio provinciale, sono scelti fra gli elettori dei comuni del mandamento estranei all’amministrazione dei comuni medesimi, sempreché abbiano adempiuto almeno all’obbligo dell’istruzione elementare, e non siano dipendenti civili o militari dello Stato, né dipendenti della provincia, dei comuni, e delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza in attività di servizio.

«Il Consiglio provinciale designa, altresì, tre componenti supplenti, che sostituiscono quelli effettivi in caso di assenza o di legittimo impedimento.

«I componenti della Commissione, ad eccezione dei rispettivi presidenti, durano in carica due anni e possono essere confermati nel biennio successivo.

«1 componenti delle Commissioni che, senza, giustificato motivo, non prendano parte a tre sedute consecutive, sono dichiarati decaduti. Il Primo Presidente della Corte d’Appello provvede alla loro sostituzione, promuovendo le necessarie designazioni dagli organi competenti.

«Ai componenti delle Commissioni elettorali mandamentali è concessa, oltre il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute, una medaglia di presenza nella stessa misura determinata dalle disposizioni in vigore per i componenti delle Commissioni costituite presso le Amministrazioni dello Stato».

Art. 19-bis.

«Nei mandamenti che abbiano una popolazione superiore ai 50.000 abitanti possono essere costituite, su proposta del presidente della Commissione mandamentale, Sottocommissioni elettorali in proporzione di una per ogni 50.000 abitanti o frazione di 50.000. Le Sottocommissioni sono presiedute da magistrati in attività di servizio, a riposo od onorari ed hanno la stessa composizione prevista per la Commissione elettorale mandamentale. Il presidente della Commissione mandamentale ripartisce i compiti fra questa e le Sottocommissioni e ne coordina e vigila l’attività.

«Per la costituzione ed il funzionamento delle Sottocommissioni e per il trattamento economico spettante ai singoli componenti si applicano le disposizioni dell’articolo precedente.

Art. 19-ter.

«Qualora la circoscrizione di un mandamento giudiziario comprenda comuni di più provincie, il Primo Presidente della Corte d’Appello può determinare, con proprio decreto, la competenza territoriale delle Commissioni elettorali in maniera che essa sia esercitata nell’ambito di una sola Provincia.

«Analogamente il Primo Presidente della Corte d’Appello, quando la situazione dei luoghi lo consigli, ha facoltà di determinare, con proprio decreto, la competenza territoriale della Commissione elettorale mandamentale in difformità della circoscrizione giudiziaria».

Come gli onorevoli colleghi avranno potuto constatare, oltre a questa diversa distribuzione della materia, si propongono anche delle modificazioni, ma più di forma che di sostanza.

Chiedo il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione approva la suddivisione in tre articoli perché si tratta di tre argomenti diversi; ma prega il Governo di voler mantenere un punto del testo della Commissione, laddove si dice nel primo capoverso: «possono essere ugualmente istituiti ove esistono sezioni di Pretura». Poiché si tratta solo di una facoltà e poiché ci può essere qualche caso rarissimo in cui ci siano tali distanze per cui sia opportuno dividere la Commissione mandamentale in due fissando le sedi ove siano sezioni di Pretura, la Commissione ritiene che tale possibilità possa essere mantenuta. Riconosco che v’è la difficoltà estrema della scarsezza nel numero dei magistrati. Ma in qualche caso eccezionale potrebbe essere superata. Vorremmo pertanto pregare il Governo di accettare il punto di vista della Commissione.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA. Sottosegretario di Stato all’interno. Il Governo si rimette alla decisione dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Allora l’articolo 19-bis sarebbe integrato da questa aggiunta, dopo il primo periodo del primo comma:

«Possono essere ugualmente costituite ove esistano sezioni di Pretura».

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Nel primo comma è prevista la presidenza della Commissione da parte del presidente del Tribunale.

UBERTI, Relatore. No! Da parte di un Presidente della Corte di Appello!

PRESIDENTE. Onorevole Caroleo! L’articolo 19, così come era stato presentato dal Governo, è stato successivamente tripartito!

CAROLEO. Circa la presidenza delle Commissioni date a Presidenti di Tribunali e di Corti d’Appello, praticamente può essere opportuno aggiungere: «O da un consigliere delegato o da un giudice delegato», perché molto spesso le Commissioni non potranno funzionare per impedimento dei Presidenti di Tribunali o delle Corti d’Appello. È un suggerimento di indole pratica.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Caroleo, ma il Primo Presidente, quando lo ritenga opportuno, può delegare un giudice, anche se non vi sia nessuna esplicita dichiarazione di legge in proposito.

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. A mio parere ha ragione il Presidente quando osserva che il Presidente del Tribunale, senza che la legge lo dica espressamente, può delegare un giudice. Vi è, per esempio, la legge attualmente in vigore per l’assegnazione delle terre incolte, la quale prevede una Commissione presieduta dal Presidente del Tribunale, che ha la facoltà di delegare un giudice.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Una cosa è la legge per l’assegnazione delle terre incolte, ed altra cosa è la legge elettorale, in cui i poteri conferiti ad un titolare di Corte d’Appello o ad un titolare di Tribunale, sono poteri conferiti in via esclusiva. D’altra parte, se la Commissione chiarisce nel senso indicato dall’onorevole Veroni, io non insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 19, testé letto.

(È approvato).

Pongo ora in votazione l’articolo 19-bis, con l’aggiunta testé letta: «possono essere ugualmente costituite ove esistano sezioni di Pretura».

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 19-ter sul quale non è stata fatta nessuna obiezione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 20:

«La Commissione elettorale mandamentale e le Sottocommissioni compiono le proprie operazioni con l’intervento del presidente e di almeno due commissari.

«Le decisioni sono adottate a maggioranza di voti; in caso di parità prevale il voto del presidente.

«Il segretario del Comune capoluogo del mandamento giudiziario od altro funzionario di ruolo del Comune designato dal sindaco, esercita le funzioni di segretario della Commissione elettorale mandamentale; le funzioni di segretario delle Sottocommissioni sono esercitate da impiegati del Comune, designati dal sindaco.

«Di tutte le operazioni il segretario redige processi verbali che sono sottoscritti da lui e da ciascuno dei membri presente alle sedute.

«Le decisioni devono essere motivate; quando esse non siano concordi, nel verbale deve essere indicato il voto di ciascuno dei commissari e le ragioni addotte anche dai dissenzienti.

«Copia dei verbali è trasmessa, entro il termine di giorni cinque, al prefetto ed al procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente per territorio».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 21.

«Decorso il termine di cui all’articolo 16, e non più tardi del 25 gennaio, il sindaco deve trasmettere al presidente della Commissione elettorale mandamentale:

1°) i tre elenchi di cui all’articolo 14 corredati di tutti i documenti relativi;

2°) i reclami presentati contro detti elenchi, con tutti i documenti che vi si riferiscono;

3°) i verbali delle operazioni e deliberazioni della Commissione comunale.

«L’altro esemplare degli elenchi suddetti rimane conservato nella segreteria del Comune.

«Il presidente della Commissione elettorale mandamentale invia ricevuta degli atti al sindaco, entro tre giorni dalla data della loro ricezione, della quale viene presa nota in apposito registro firmato in ciascun foglio dal presidente della Commissione.

«Qualora il comune non provveda all’invio degli atti nel termine prescritto, il presidente della Commissione elettorale mandamentale ne dà immediato avviso al prefetto, agli effetti dell’articolo 40».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 22:

«La Commissione elettorale mandamentale:

1°) esamina le operazioni compiute dalla Commissione comunale e decide sui ricorsi presentati contro di esse;

2°) cancella dagli elenchi formati dalla Commissione comunale i cittadini indebitamente proposti per l’iscrizione o per la cancellazione, anche quando non vi sia reclamo;

3°) decide sulle nuove domande d’iscrizione o di cancellazione che possono esserle pervenute direttamente.

«La Commissione, prima di iscrivere, su domanda o di ufficio, coloro che da nuovi documenti risultino in possesso dei requisiti necessari, deve sempre richiedere il certificato del casellario giudiziale.

«La Commissione si raduna entro i dieci giorni successivi a quello nel quale ha ricevuto gli atti».

Il Governo ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere in fine, il seguente comma:

«I ricorsi presentati, a termini dell’ultimo comma dell’articolo 18, dai cittadini emigrati all’estero sono decisi dalla Commissione elettorale mandamentale nella prima riunione dopo la loro ricezione e le conseguenti eventuali variazioni alle liste elettorali sono effettuate in occasione delle operazioni previste dall’articolo 24».

Chiedo il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. In questo articolo 22 si dà facoltà alla Commissione mandamentale di rivedere totalmente le operazioni compiute dalla Commissione comunale, perché al numero 2° si stabilisce che la Commissione elettorale mandamentale «cancella dagli elenchi formati dalla Commissione comunale i cittadini indebitamente proposti per l’iscrizione o per la cancellazione, anche quando non vi sia reclamo. Ora, questa funzione data alla Commissione mandamentale, è meramente platonica, perché non è concepibile che le Commissioni mandamentali abbiano il tempo, la capacità e la possibilità di poter rivedere l’operato di tutte le Commissioni comunali.

Quindi a me pare che sarebbe sufficiente riservare alla Commissione mandamentale di decidere sui reclami, sulle contestazioni che si sollevano, altrimenti in questo modo si attribuirà a queste Commissioni un compito che non potranno mai praticamente svolgere.

PRESIDENTE. Questo suo concetto sarebbe già espresso nel numerò 1. Quindi ella propone di sopprimere il numero 2.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. La Commissione non può accettare l’emendamento dell’onorevole Cosattini, perché sarebbe una grave limitazione alla Commissione mandamentale, di dovere cioè agire soltanto in base ai ricorsi e non avere un diritto di intervento diretto. È una garanzia maggiore per tutti che la Commissione abbia la facoltà di agire anche di propria iniziativa.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Mi associo alle ragioni espresse dall’onorevole Relatore.

PRESIDENTE. Onorevole Cosattini, insiste?

COSATTINI. Se la Commissione non accetta, non insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento del Governo.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 22, con questo emendamento.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 23:

«Entro il 31 marzo la Commissione elettorale mandamentale deve avere provveduto all’approvazione degli elenchi ed alle relative variazioni da effettuare sull’esemplare delle liste generali depositate presso la Commissione stessa. Nel medesimo termine gli elenchi devono essere restituiti al Comune insieme con tutti i documenti. Il segretario comunale ne invia immediatamente ricevuta al presidente della Commissione.

«Nei quindici giorni successivi la Commissione comunale, con l’assistenza del segretario, apporta, in conformità degli elenchi approvati, le conseguenti variazioni alle liste generali, aggiungendo i nomi compresi nell’elenco dei nuovi elettori iscritti ed eliminando i nomi di quelli compresi nell’elenco dei cancellati.

«Delle rettificazioni eseguite, il segretario comunale redige verbale che, firmato dal presidente della Commissione elettorale comunale e dal segretario, è immediatamente trasmesso al prefetto, al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente per territorio ed al presidente della Commissione elettorale mandamentale.

«Entro lo stesso termine di cui al secondo comma, le decisioni della Commissione elettorale mandamentale sono, a cura del sindaco, notificate agli interessati con le modalità di cui all’ultimo comma dell’articolo 17.

«Le liste rettificate, insieme con gli elenchi approvati, debbono rimanere depositate nella segreteria comunale dal 15 al 30 aprile, ed ogni cittadino ha diritto di prenderne visione. Dell’avvenuto deposito il sindaco dà pubblico avviso».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 24:

«Alle liste elettorali, rettificate in conformità dei precedenti articoli, non possono apportarsi, sino alla revisione dell’anno successivo, altre variazioni se non in conseguenza:

1°) della morte dell’elettore;

2°) della perdita della cittadinanza italiana.

Le circostanze di cui al presente ed al precedente numero debbono risultare da documento autentico;

3°) della perdita del diritto elettorale, che risulti da sentenza passata in giudicato o da altro provvedimento definitivo dell’autorità giudiziaria, nonché dalle sentenze di cui all’articolo 46, primo comma. A tale scopo, il cancelliere che provvede alla compilazione delle schede per il casellario giudiziale ai sensi degli articoli 9 e 11 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 778, e dei nn. 6 e 11 del decreto ministeriale 6 ottobre 1931, deve inviare notizia della sentenza o del provvedimento al comune del luogo dove è stata pronunciata la sentenza od emanato il provvedimento. Se la persona alla quale si riferisce la sentenza od il provvedimento non risulti domiciliata in detto comune, il sindaco trasmette la comunicazione della cancelleria giudiziaria al comune di residenza, da accertare a mezzo degli organi di pubblica sicurezza;

4°) del trasferimento della residenza. Gli elettori che hanno perduto la residenza nel comune sono cancellati dalle relative liste, in base al certificato dell’ufficio anagrafico attestante l’avvenuta cancellazione dal registro di popolazione, se non hanno espressamente dichiarato, con le modalità stabilite dal primo comma dell’articolo 10, di volervi rimanere iscritti. Gli elettori che hanno acquistato la residenza nel comune, sono iscritti nelle relative liste, in base alla dichiarazione del sindaco del comune di provenienza, attestante l’avvenuta cancellazione da quelle liste. La dichiarazione è richiesta d’ufficio dal comune di nuova iscrizione anagrafica.

«Le variazioni alle liste sono apportate, con l’assistenza del segretario, dalla Commissione elettorale comunale che vi allega copia dei suindicati documenti; le stesse variazioni sono apportate alle liste di sezione. Copia del verbale relativo a tali operazioni è trasmessa al prefetto, al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente per territorio ed al presidente della Commissione elettorale mandamentale.

«La Commissione elettorale mandamentale apporta le variazioni risultanti dagli anzidetti verbali nelle liste generali e nelle liste di sezione depositate presso di essa ed ha la facoltà di richiedere gli atti al comune.

«Alle operazioni previste dal presente articolo la Commissione comunale è tenuta a provvedere almeno ogni tre mesi a decorrere dalla data in cui le liste sono state rettificate in conseguenza della revisione annuale, ma, in ogni caso, non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali per le variazioni di cui al n. 4 e non oltre il quindicesimo giorno anteriore alla data delle elezioni, per le altre.

 «Le deliberazioni della Commissione comunale relative alle variazioni di cui ai nn. 2 e 4 devono essere notificate agli interessati con le modalità di cui all’articolo 17, ultimo comma; avverso lo deliberazioni predette è ammesso ricorso alla Commissione elettorale mandamentale nel termine di dieci giorni dalla data della notificazione.

«La Commissione mandamentale decide sui ricorsi nel termine di 15 giorni dalla loro ricezione e dispone le conseguenti eventuali variazioni. Le decisioni sono notificate agli interessati, a cura del sindaco, con le stesse modalità di cui al comma precedente».

Il Governo ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al primo comma, sostituire il n. 3°) col seguente:

3°) della perdita del diritto elettorale, che risulti da sentenza passata in giudicato o da altro provvedimento definitivo dell’autorità giudiziaria, nonché dalle sentenze di cui all’articolo 46, primo comma. A tale scopo, il cancelliere che provvede alla compilazione delle schede per il casellario giudiziale ai sensi degli articoli 9 e 11 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 778, e dei nn. 6 e 11 del decreto ministeriale 6 ottobre 1931, deve inviare notizia della sentenza o del provvedimento al comune di residenza dell’interessato o, ove il luogo di residenza non sia conosciuto, a quello di nascita. Se la persona alla quale si riferisce la sentenza od il provvedimento non risulti iscritta nelle liste elettorali del comune al quale è stata comunicata la notizia, il sindaco, previ eventuali accertamenti per mezzo degli organi di pubblica sicurezza, la partecipa al comune nelle cui liste l’elettore è compreso».

«Sostituire il quarto e il quinto comma con i seguenti:

«Alle operazioni previste dal presente articolo la Commissione comunale è tenuta a provvedere almeno ogni tre mesi e, in ogni caso, non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali per le variazioni di cui ai nn. 2, 3 e 4, e non oltre il quindicesimo giorno anteriore alla data delle elezioni, per le variazioni di cui al n. 1.

«Le deliberazioni della Commissione comunale relative alle variazioni di cui ai nn. 2, 3 e 4 devono essere notificate agli interessati entro dieci giorni: avverso le deliberazioni predette è ammesso ricorso alla Commissione elettorale mandamentale nel termine di dieci giorni dalla data della notificazione».

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«Per i cittadini emigrati all’estero si osservano le disposizioni degli articoli 11, 18 e 22».

Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta questa ultima aggiunta proposta dal Governo, come pure quell’altra al quarto e all’ultimo comma riguardante gli emigrati all’estero. Per la prima aggiunta al numero 3 si tratta di sollecitare la notificazione delle sentenze penali incaricandone l’organo all’uopo deputato: il cancelliere. È un perfezionamento tecnico che la Commissiono accetta volentieri.

Quanto al concetto di fissare una data per bloccare le liste (primo comma dell’art. 24) è certamente anche questo opportuno, perché bisogna arrivare ad un momento in cui le liste sono quelle che sono e non possano più essere modificate. Dare una certezza alle liste.

PRESIDENTE. Pongo ai voti gli emendamenti del Governo.

(Sono approvati).

Pongo in votazione l’articolo 24 con questi emendamenti.

(È approvato).

Passiamo al

Titolo III.

Della ripartizione dei comuni in sezioni elettorali e della compilazione delle liste di sezione.

Art. 25.

«Ogni comune è diviso in sezioni elettorali.

«La divisione in sezioni è fatta indistintamente per elettori di sesso maschile e femminile ed in guisa che in ogni sezione il numero di elettori non sia di regola superiore a 800 né inferiore a 100 iscritti.

«Quando particolari condizioni di lontananza o di viabilità rendano difficile l’esercizio del diritto elettorale, si possono costituire sezioni con un numero minore di 100 iscritti, ma non inferiore a 50».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 26:

«Entro il 31 dicembre di ciascun anno la Commissione elettorale comunale provvede, con un’unica deliberazione, alla revisione della ripartizione del comune in sezioni elettorali, della circoscrizione delle sezioni e del luogo di riunione di ciascuna di esse e dell’assegnazione degli elettori alle singole sezioni, nonché alla compilazione della lista degli elettori per ogni nuova sezione e alla revisione delle liste per le sezioni già esistenti».

Il Governo ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Entro il 31 dicembre di ciascun anno la Commissione elettorale comunale provvede, con un’unica deliberazione, alla revisione della ripartizione del comune in sezioni elettorali, della circoscrizione delle sezioni e del luogo di riunione di ciascuna di esse e dell’assegnazione degli elettori alle singole sezioni, nonché alla revisione delle liste per le sezioni già esistenti ed alla compilazione delle liste degli elettori per ogni nuova sezione».

Il Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Si tratta solamente di una inversione nelle disposizioni, rispondente maggiormente al procedimento logico dell’operazione, che è quindi accettabile.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 26 del testo proposto dal Governo.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 27:

«L’elettore è assegnato alla sezione nella cui circoscrizione ha, secondo l’indicazione della lista generale, la propria abitazione. È data tuttavia facoltà alla Commissione elettorale mandamentale di autorizzare, nei comuni aventi popolazione agglomerata inferiore a 10.000 abitanti e che non siano capoluoghi di provincia, che l’assegnazione sia effettuata secondo l’ordine alfabetico delle liste elettorali.

«Gli elettori che non hanno l’abitazione nel comune e che non hanno presentato la dichiarazione di cui al secondo comma dell’articolo 9, sono ripartiti nelle singole sezioni secondo l’ordine alfabetico, salvo che il numero degli elettori richieda l’istituzione di apposite sezioni.

«L’elettore che trasferisce la propria abitazione nella circoscrizione di altra sezione del comune deve essere compreso nella lista degli elettori di quest’ultima. La domanda, sottoscritta dall’elettore, deve essere presentata alla Commissione comunale entro il 15 novembre. La Commissione apporta le occorrenti variazioni allegando la domanda al verbale della relativa deliberazione.

«Se il trasferimento di abitazione è stato regolarmente notificato all’anagrafe entro il 31 ottobre, la variazione è fatta d’ufficio dalla Commissione.

«Il segretario comunale apporta le necessarie variazioni allo schedario elettorale».

A questo testo il Governo ha proposto i seguenti emendamenti:

«Sostituire il primo e il secondo comma con i seguenti:

«L’elettore è assegnato alla sezione nella cui circoscrizione ha, secondo l’indicazione della lista generale, la propria abitazione. È data tuttavia facoltà alla Commissione elettorale mandamentale di autorizzare, nei comuni aventi popolazione agglomerata inferiore a 10.000 abitanti, che l’assegnazione sia effettuata secondo l’ordine alfabetico delle liste elettorali.

«Gli elettori che, non avendo l’abitazione nel comune, abbiano omesso di indicare, a termine dell’articolo 9, comma secondo, la sezione alla quale intendono essere iscritti e gli elettori emigrati all’estero, sono ripartiti nelle singole liste di sezione secondo l’ordine alfabetico, salvo che, per la loro entità numerica, si renda necessaria la istituzione di apposite sezioni».

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«Se il trasferimento di abitazione è stato regolarmente notificato all’anagrafe entro il 15 ottobre, la variazione è fatta d’ufficio dalla Commissione».

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta gli emendamenti.

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Non crede la Commissione che all’articolo 27 si debba tener conto di quella riserva fatta all’articolo 11?.

PRESIDENTE. È pacifico che della riserva beneficiano tutte queste disposizioni.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Io domando alla Commissione se ha esaminato questo criterio dell’assegnazione secondo l’ordine alfabetico, perché credo che potrebbe creare una confusione nelle sezioni fra i cittadini provenienti da tutte le parti della città, che renderebbe più difficile il funzionamento delle sezioni stesse.

Potrebbe darsi che una sezione fosse composta tutta di individui che non sono dimoranti nella località. Mi pare che questo sia un criterio illogico.

Che ci possa essere una deviazione dal criterio strettamente territoriale per i comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti sta bene, ma sostituirvi, sia pure per i comuni inferiori ai 10.000 abitanti, l’altro criterio dell’ordine alfabetico mi pare non sia opportuno.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. È solamente per i comuni che hanno meno di 10.000 abitanti che è stato disposto di valersi del metodo alfabetico. Per gli altri invece si segue il criterio dell’abitazione. È quindi nei grossi centri che il problema sollevato dal collega ha ragion d’essere e quindi la sua preoccupazione è già risolta dal testo dell’articolo.

CEVOLOTTO. Non insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti gli emendamenti del Governo.

(È approvato).

Metto in votazione l’articolo 27 con questi emendamenti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 28:

«Le liste di sezione devono essere compilate distintamente per sesso, in triplice esemplare, e contenere due colonne rispettivamente per le firme di identificazione degli elettori e per le firme di riscontro per l’accertamento dei votanti; le liste vanno sottoscritte dai componenti della Commissione comunale e dal segretario e devono recare il bollo dell’ufficio comunale.

«Gli elettori emigrati all’estero, di cui all’articolo 11, sono ripartiti nelle liste di sezione per ordine alfabetico ed iscritti in fogli susseguenti a quelli in cui sono compresi gli altri elettori».

A questo articolo il Governo ha proposto di sopprimere il secondo comma. Invito l’onorevole Relatore a pronunciarsi su questo emendamento soppressivo.

UBERTI, Relatore. La Commissione accetta la soppressione del comma perché si tratta di materia che è stata regolata in altro articolo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento soppressivo proposto dal Governo.

(È approvato).

Metto allora in votazione l’articolo 28 così modificato.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 29:

«Possono avere sede nello stesso fabbricato sino a quattro sezioni; ma l’accesso dalla strada alla sala deve condurre solo a due sezioni e non più di due sezioni possono avere l’accesso dalla medesima strada.

«Tuttavia, per comprovate necessità, i comuni possono essere, caso per caso, autorizzati dal prefetto a riunire nello stesso fabbricato un numero di sezioni superiore a quattro, ma mai maggiore di dodici, ed a prescindere dalle limitazioni, previste dal comma precedente, circa il numero di sezioni che possono avere il medesimo accesso o l’accesso dalla medesima strada, purché, in ogni caso, un medesimo accesso dalla strada alla sala non serva più di sei sezioni.

«Quando, per sopravvenute gravi circostanze, sorga la necessità di variare i luoghi di riunione degli elettori, la Commissione comunale deve farne proposta alla Commissione elettorale mandamentale non oltre il decimo giorno antecedente alla data di convocazione degli elettori, informando contemporaneamente il prefetto. La Commissione mandamentale, premesse le indagini che reputi necessarie, provvede inappellabilmente in via di urgenza e non più tardi del quinto giorno antecedente alla data predetta.

«Qualora la variazione sia approvata, il presidente della Commissione mandamentale ne dà immediato avviso al prefetto e al sindaco, il quale deve portarla a conoscenza del pubblico con manifesto da affiggersi due giorni prima del giorno delle elezioni».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 12.10.

MERCOLEDÌ 10 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXIII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 10 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Commemorazioni:

Presidente

Cevolotto

Castelli Avolio

Persico

Cianca

Rodi

Crispo

Corbi

Targetti

Sforza, Ministro degli affari esteri

Chiostergi

Cifaldi

Congedi:

Presidente

Messaggio del Presidente del Praesidium del Soviet Supremo:

Presidente

Per le dimissioni presentate dall’onorevole Orlando:

Presidente

Per la pubblicazione dei resoconti stenografici dell’Assemblea:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Codacci Pisanelli

Crispo

Preziosi

Per la discussione di una mozione e di una interpellanza:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Nenni

Presidente

Cevolotto

Capua

Fuschini

Togliatti

Risposta ad una interrogazione:

Faralli

Cappa, Ministro della marina mercantile

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Commemorazioni.

PRESIDENTE. Non ancora si è spenta in quest’Aula l’eco delle parole con cui ieri si era espresso il comune profondo commosso cordoglio dell’Assemblea per la morte improvvisa di due nostri valenti colleghi, che una nuova notizia di lutto ci sorprende e ci rattrista.

Stamane, alle prime luci, lontano dalla famiglia, dalla sua città natale e da quella di elezione, lontano dall’Italia, a Losanna, è morto l’onorevole Carlo Bassano, per subita crisi di angina pectoris. Lo aveva recato laggiù quel mai raffrenato amore di pace fra i popoli che, in vita, lo spingeva sempre a volgersi con simpatia verso ogni iniziativa che facesse appello ai sensi di fraternità spirituale e di solidarietà fra gli uomini. Egli aveva voluto infatti rendersi conto di persona del valore e degli intendimenti del Convegno che in questi giorni raggruppa a Gstaad rappresentanti delle varie correnti del federalismo europeo. Forse la fatica del viaggio aprì più facile il varco al malore letale; certo la fibra, già così robusta, accusava da qualche tempo le conseguenze delle fatiche e delle profonde emozioni che l’onorevole Bassano aveva lietamente incontrate nella sua tenace opposizione al fascismo e nella lotta coraggiosa che aveva condotto contro l’oppressione tedesca.

Tutti coloro che qui, in Roma, sono stati in quel tempo attivi sul fronte della liberazione possono dirci di lui ben più di quanto occorra per celebrarlo fra i più degni di onoranza e di ricordo. E meritatamente, fino dal primo tempo del riscatto di Roma dalla occupazione nemica, fu chiamato a posti di alta responsabilità nel Governo e nella pubblica amministrazione.

Deputato all’Assemblea Costituente per il collegio di Aquila, noi abbiamo udito frequentemente la sua serena voce pacata parlarci con dottrina dei nostri problemi costituzionali. Ma questa voce si levò invece fremente ed appassionata quando la ratifica delle condizioni di pace propose recentemente all’Assemblea un compito di tragica ma irrinunciabile responsabilità.

Così, tra l’affetto per le più larghe masse del nostro popolo e la dedizione alla Patria, Carlo Bassano è trascorso, recandoci al di sopra del lungo abisso della nostra rovina nazionale un vivido insegnamento di tenace fedeltà agli alti ideali cui si era consacrato. (Segni di generale consenso).

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. La commozione per la perdita improvvisa, inaspettata, dell’amico fraterno mi impedisce di commemorato degnamente. Ma io voglio ricordare qui quest’uomo buono, pacato, tranquillo, affabile, cortese con tutti, ma che, proprio per questi suoi caratteri, pochi conoscevano, se non ne avevano la consuetudine di lunghi anni, nella fermezza delle sue idee, nella dedizione completa al suo ideale.

Giovanissimo, nato da una famiglia ricca di censo e di nobile prosapia, Egli si era iscritto a militare in quei partiti radicale e della democrazia sociale che allora rappresentavano le correnti estremiste; e parve quasi in quell’ambiente un reprobo.

Ed egli fin da allora tenacemente sostenne le sue idee, perché la sua mente lo portava ad una visione democratica della vita sociale italiana. E quando, dopo la guerra, alla quale partecipò sebbene un difetto della vista gli avrebbe permesso di non entrare nella battaglia, venne il fascismo, Carlo Bassano, con la stessa tranquillità con cui aveva aderito alle idee democratiche, mantenne fermo il suo punto, non si iscrisse né a sindacati né al partito; e, quando poté e come poté, sempre manifestò la sua fede antifascista con coraggio sereno.

Quando venne il momento della cospirazione, quando i tedeschi occuparono Roma, quando cominciarono le segrete adunanze dei comitati antifascisti, la casa di Carlo Bassano fu il punto di ritrovo di tutti questi comitati. Quando non si sapeva dove riunirci, dove andiamo? ci si chiedeva: andiamo da Bassano. Bassano accoglieva tutti con quella semplicità che gli era propria. Una volta erano radunati tre comitati in casa di Bassano con tale manifesta imprudenza che non so come non ne siano venuti tristi effetti. Vennero i repubblichini a domandare dove era Carlo Bassano; furono fatti sparire immediatamente i segni delle adunanze e ci nascondemmo come potemmo. Fortunatamente la polizia non insistette e se ne andò, altrimenti avrebbe fatto una retata clamorosa.

Poi, quando vennero i nazisti a cercarlo, perché troppo imprudente era questo suo contegno, per un favore del destino egli non era in casa e poté essere avvertito; e si allontanò allora e continuò la sua azione con la stessa tranquillità coraggiosa, con la stessa calma imperturbabile, come se nulla fosse successo, con un coraggio tanto aperto e spontaneo che non parve nemmeno coraggio e che pochi conobbero o riconobbero. Perciò, quando venne la liberazione, non sembrò a nessuno illogico che Bassano, avvocato di valore, che esercitava con fortuna presso la Cassazione civile, fosse chiamato al Sottosegretariato del Ministero della giustizia e poi al Sottosegretariato per la marina e poi ancora alla carica di prefetto di Roma, che egli tenne con una equanimità, con una imparzialità, con una tolleranza, ma allo stesso tempo con un vigore di azione, che gli valsero il rispetto e la considerazione di tutti.

Egli non aveva nemici; aveva forse degli avversari; aveva amici dappertutto, perché tutti sapevano quanto era buono, quanto era onesto.

Noi lo abbiamo avuto compagno, lo abbiamo avuto segretario generale del nostro partito e lo abbiamo apprezzato perché in tutto, nei consensi e nei dissensi, che egli manteneva sempre in una linea aderente alla disciplina di partito, era così leale, così aperto, così sincero, che non poteva non cattivarsi l’amicizia di chi lo avvicinava e anche di chi lo contrastava.

Oggi, noi, purtroppo, qui lo commemoriamo; e resta in noi soltanto, col grande dolore, il rammarico per la sua scomparsa, e resta una cara memoria che ci servirà di esempio, di monito e di sprone nelle battaglie di domani. (Applausi).

CASTELLI AVOLIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTELLI AVOLIO. A nome del Gruppo parlamentare della Democrazia cristiana, quale deputato del collegio d’Abruzzo e a nome mio personale, mi associo alle nobili parole pronunziate dall’onorevole Presidente dell’Assemblea e dall’onorevole Cevolotto per esprimere il cordoglio di noi tutti per l’immatura morte dell’onorevole Carlo Bassano.

Carlo Bassano ha sempre portato, in tutte le manifestazioni della sua vita operosa, nella esplicazione della sua attività professionale – egli era valente avvocato – nelle stesse lotte politiche da lui sostenute, quell’equilibrio e quella obiettività che gli provenivano dal suo sentimento profondamente e sinceramente democratico, disposato ad una innata, squisita signorilità.

Queste doti del suo carattere, del suo animo, unite ad un ingegno non comune, gli permisero di servire fedelmente e, aggiungo, utilmente il Paese e, nello stesso tempo, le idee politiche che egli professava, dapprima, come ha ricordato testé l’onorevole Cevolotto, quale Sottosegretario di Stato per la giustizia nel primo Gabinetto Bonomi, poi quale Sottosegretario per la marina nel secondo Gabinetto dello stesso onorevole Bonomi, poi quale prefetto di Roma in un periodo veramente difficile e, infine, quale segretario generale del Partito democratico del lavoro.

Non è questo il momento, onorevoli colleghi, di soffermarci sull’opera compiuta da Carlo Bassano. In quest’ora, in cui noi tutti siamo pervasi da mestizia profonda per la dipartita del collega, avvenuta in terra lontana, fuori dei confini d’Italia, nell’esplicazione di un’attività che strettamente si ricongiunge al mandato parlamentare, giungano alla sua Famiglia, così duramente provata, l’espressione del nostro cordoglio e i sentimenti della solidarietà che noi prendiamo al suo grande dolore. (Applausi).

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi! Non mi riesce possibile, in questo momento, commemorare Carlo Bassano. A suo tempo dovremo fare una degna commemorazione di questo nostro collega. Oggi il mio animo è percosso da un’angoscia indicibile: è un amico fraterno che sparisce, un amico buono, leale, intelligente.

Egli aveva una sua cifra: la lealtà e la signorilità. Profondamente democratico, e non in contradizione con la nobiltà del suo lignaggio, egli ha sempre difeso la causa della libertà. Nelle ore oscure si è esposto in prima linea, senza temere i pericoli. Venuta la sua ora, ha assunto responsabilità di Governo con coscienza e dignità; ha tenuto alti uffici facendo valere, per il valore della sua persona, la carica che ricopriva.

Entrato in quest’Aula, ha portato sempre la sua serena parola, efficace, suadente, precisa, dimostrando doti non comuni di uomo di Governo e di parlamentare illustre.

Egli lascia in noi un ricordo incancellabile ed imperituro.

Vadano alla sua memoria il reverente cordoglio e il commosso saluto della nostra Assemblea. (Applausi).

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Mi associo con sincero dolore alla commemorazione del collega Carlo Bassano. Ricordo di aver conosciuto Carlo Bassano negli anni della lontana comune giovinezza nel suo Abruzzo nativo. Fui poi sempre legato a lui da un sentimento di sincera amicizia, perché in lui riconobbi ed apprezzai un combattente fedele e strenuo della causa antifascista, un uomo il quale nascondeva, sotto la sua gentilezza quel coraggio fermo che è stato poc’anzi ricordato dal collega Cevolotto.

Il Presidente ha giustamente detto che Carlo Bassano è morto sul campo del dovere. Inchiniamoci alla memoria di Carlo Bassano perché Egli ci lascia non soltanto un vivo ricordo ma anche un nobilissimo esempio. (Applausi).

RODI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODI. A nome del Gruppo parlamentare qualunquista, mi associo alla manifestazione di cordoglio per la scomparsa dell’onorevole Carlo Bastano. Sono stato dolorosamente colpito dalla notizia, anche perché l’onorevole Bassano, uomo affabilissimo, mi aveva onorato della sua amicizia e, nei corridoi di Montecitorio, mi aveva parlato a lungo dei doveri del cittadino italiano.

Io desidero, per maggiormente onorare la sua memoria, promettere a me stesso di seguire i suoi consigli e i suoi insegnamenti. (Applausi).

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Il Gruppo liberale si associa alla rievocazione di Carlo Bassano, ed a me rincresce vivamente di non poterne parlare come converrebbe ne parlassi, perché purtroppo non ebbi la ventura di alcuna consuetudine con lui. Intendo, non di meno, ricordare il tratto che più mi colpì nei brevi, rapidi conversari che ebbi con lui: la nota della sua signorilità: che non voleva essere già l’espressione di una sdegnosa individualità aristocratica, ma che era piuttosto come il riflesso di una squisita spiritualità che si effondeva in sorrisi di indulgenza e in espressioni di bontà.

E questo ricordo che è vivo in me mi piace ora di rievocare come il miglior tributo che si possa rendere alla memoria di Carlo Bassano. (Applausi).

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Mi riesce difficile e doloroso il dover parlare commemorando il collega Bassano, per due ragioni: in primo luogo, perché ad esso io era legato da vincoli di sincera, profonda amicizia; in secondo luogo, perché io e tutti gli altri colleghi che qui hanno l’onore di rappresentare la mia regione, l’Abruzzo, contavamo sul collega Bassano come su un uomo il quale, per il suo passato, per le sue doti d’ingegno, per la sua squisita sensibilità fatta di umanità vissuta e sofferta, era un uomo il quale alla nostra regione avrebbe potuto dare, e certamente avrebbe dato, ancora la parte migliore di se stesso, tutte le sue energie. Era un uomo, in altri termini, sul quale l’Abruzzo poteva contare per poter più facilmente ricostruire le proprie città, i propri villaggi, per avviare le sue popolazioni ad una vita più degna di essere vissuta.

Con Carlo Bassano è scomparsa una delle più belle figure che questa Aula abbia conosciuto; ed è certo che con Carlo Bassano è scomparso uno degli uomini più stimati e più cari a tutti gli abruzzesi sinceramente devoti alla libertà e alla causa della democrazia. (Applausi).

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Poiché la parola del nostro Presidente, come quella, dei colleghi che lo hanno seguito, ha fatto rivivere l’onorevole Bassano quale egli fu, senza che occorresse, per rendergli onore, innalzarne o abbellirne la figura, perché egli fu quale è stato rievocato, noi socialisti ci associamo sinceramente al lutto per la sua dipartita.

Egli non militava certamente fra noi; ma noi lo abbiamo sentito a noi molto vicino. Si sapeva che egli aveva operato fervidamente, lottato, rischiato, per la riconquista della libertà, che è pregiudiziale alla conquista di qualsiasi altro bene politico o sociale. Egli era un signore, nel pensiero, nel sentimento, nei modi; egli sapeva unire alla fermezza e alla fierezza del carattere, alla sincerità e alla tenacia delle proprie idee, la tolleranza verso idee opposte. Nei contrasti che, per quanto buon volere si metta per evitare ogni asprezza, nei nostri contrasti che fatalmente in alcune ore possono, e forse debbono, essere aspri, egli ci ha insegnato come si possa sempre accompagnare alla fierezza del combattente la lealtà, la cortesia. (Vivi applausi).

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Il Governo si associa alle parole nobilissime pronunciate dall’onorevole Presidente e da altri colleghi, di ogni parte di questa Assemblea sul lutto che ci ha colpiti con la perdita subitanea del collega Carlo Bassano. E poiché il caso vuole che nell’attuale Gabinetto vi sono taluni che furono intimi di Carlo Bassano prima del fascismo, durante la bufera fascista e dopo, mi sia permesso, a nome di questi amici di Carlo Bassano, dire, echeggiando un’espressione che taluni oratori hanno tracciata, che il carattere essenziale di Carlo Bassano fu una specie di nativo pudico orgoglio che lo obbligava ad essere modestissimo. E se Carlo Bassano ebbe come uomo politico un difetto, fu di essere eccessivamente modesto, fu di non pretender mai niente. Ma da questo difetto coloro che lo conobbero traggono ragione per venerarne ed averne cara più che mai la memoria. (Applausi).

CHIOSTERGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CHIOSTERGI. Col cuore angosciato, più che con le parole, io mi associo alla commemorazione di Carlo Bassano. L’ho conosciuto poco, ma l’ho conosciuto abbastanza per ricordarlo come uno degli uomini migliori che io abbia incontrato tornando in Italia. La sua amicizia è stata per me un onore e un incitamento; sarà per l’avvenire l’indicazione della via che noi tutti dobbiamo seguire: servire il Paese, servire la libertà prima di ogni altra cosa! (Applausi).

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Onorevoli colleghi, mi sia consentito, dopo la commemorazione del nostro caro ed illustre collega onorevole Carlo Bassano, di ricordare in quest’Aula Aldobrando Medici Tornaquinci, il quale, se non ebbe l’onore di far parte di questa Assemblea, fu tuttavia consultore nazionale e fu anche Sottosegretario di Stato per le terre invase, in quel Ministero che ebbe a titolare l’onorevole Scoccimarro.

Egli, Aldobrando Medici Tornaquinci, ha lasciato, in coloro che lo conobbero, un ricordo durevole e un insegnamento profondo. E non è senza, viva emozione che si può parlare di lui, oggi, dappoiché la sorte ha voluto che egli morisse ad appena trentanove anni, quando più forte era la vigoria della sua esistenza, quando tanti doveri ancora egli doveva compiere verso la sua famiglia e verso la sua fede.

Egli, morto di tifo quando centinaia di volte aveva guardato la morte negli occhi, con quei suoi occhi freddi e calmi che incutevano un certo rispetto anche ai suoi più cari amici; egli che la morte ha affrontato in mille rischi – perché Medici Tornaquinci fu il capo di quelle organizzazioni liberali partigiane di Firenze e combatté con fermissimo cuore e con grande audacia per conquistare e ridare la libertà al nostro Paese – e che contribuì non poco col suo coraggio e con la sua azione a creare quell’insieme di ricordi, di eroismi, di valori che rappresentano, con la gloria partigiana, uno dei pilastri della nuova storia d’Italia, uno dei ricordi più gloriosi di questo Risorgimento.

Quando, per questi meriti, andò al Governo e fu Sottosegretario per le terre invase, fu autore e protagonista d’una gesta memorabile, d’un avvenimento veramente degno di essere ricordato, perché volle, dalla parte già liberata d’Italia, portare il saluto alla parte ancora occupata dai nazi-fascisti: volle, con due compagni coraggiosi, farsi calare col paracadute oltre la linea gotica, e da lì, con raro ardimento e con fermissimo sangue freddo, prendere contatto coi componenti del Comitato di liberazione Alta Italia. Ebbe anche l’audacia e – lasciatemi dire la parola – l’eroismo di parlare alle maestranze della Fiat, e poté sfuggire appena all’inseguimento delle guardie nazi-fasciste, che seppero della di lui presenza e del di lui discorso, quando questo stava per finire.

Imperterrito, continuò la sua missione e la sua dimostrazione di eroismo e di coraggio, perché parlò ancora alle maestranze di alcuni stabilimenti di Milano e poté sfuggire alla tenaglia che lo stringeva con rischio mortale solo per miracolo, tornando sereno e tranquillo come se quello che aveva compiuto fosse la più normale delle azioni.

Egli con quell’episodio diede un insegnamento assai importante a coloro i quali ci impedirono di poterci armare sufficientemente, a coloro che non consentirono che le nostre possibilità di ripresa fossero sviluppate e potenziate, in modo da dare al nostro Paese un titolo maggiore per poterci proclamare liberi ed indipendenti, principalmente per merito nostro.

Alla memoria di Medici Tornaquinci, il quale si è visto sempre contrastato nel suo animo fra l’affetto fortissimo per la famiglia (lascia sette figli e la sposa) ed il sentimento patrio; alla memoria di Medici Tornaquinci vada il ricordo di questa Assemblea, e, mi si consenta, nasca dalla sua tomba, nasca dalla sua memoria un insegnamento ed un ammonimento per tutti quelli che vogliono servire il Paese senza personale ambizione, ma con sentimento di dedizione al bene comune. (Applausi).

PRESIDENTE. Fin dal primo momento, in cui era pervenuta alla Presidenza la notizia della morte di Aldobrando Medici Tornaquinci, a nome dell’Assemblea mi ero affrettato a far pervenire alla famiglia l’espressione del nostro cordoglio.

Oggi nuovamente mi associo a nome dell’Assemblea alle espressioni di cordoglio e di onoranza che l’onorevole Cifaldi ha voluto pronunciare.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Il Governo si associa alle parole di lutto così nobilmente pronunciate dall’onorevole Cifaldi e dà atto al Paese e alla famiglia che in Medici Tornaquinci la Consulta Nazionale ebbe uno dei suoi membri più attivi e più intelligenti e che il Paese ha perduto, con la sua scomparsa, un cittadino da cui molto potevamo aspettarci. (Applausi).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati La Malfa e Ceso.

(Sono concessi).

Messaggio del Presidente del Praesidium del Soviet Supremo.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea di aver ricevuto dal Presidente del Praesidium del Soviet Supremo il seguente telegramma:

Al Presidente dell’Assemblea Costituente d’Italia

Roma

«Caro Presidente,

ringrazio l’Assemblea Costituente d’Italia e Lei personalmente per il cortese saluto contenuto nel messaggio consegnato alla delegazione delle donne democratiche italiane, che io ho ricevuto con piacere durante la loro permanenza nell’U.R.S.S.

«Condivido pienamente la Sua opinione circa la grande importanza dello scambio di delegazioni per rafforzare la conoscenza reciproca fra i nostri Paesi e, in particolare, delle delegazioni delle donne democratiche d’Italia e delle donne dell’U.R.S.S., che hanno stabilito nuovi legami di simpatia fra i nostri Paesi.

«Quanto ai rilievi, contenuti nella Sua lettera, come nel precedente messaggio, circa la preoccupazione per le conseguenze che l’applicazione delle clausole del Trattato può determinare sulla pacifica e feconda ricostruzione democratica dell’Italia, devo dire che non posso completamente concordare con una tale valutazione del Trattato di pace. Il Trattato di pace rappresenta di per sé, a nostro avviso, un serio apporto allo stabilirsi di una pacifica collaborazione fra i Paesi europei, a prescindere dagli errori che vi si trovano, e che furono a suo tempo oggetto di obiezioni anche da parte dell’unione Sovietica.

«La prego, signor Presidente, di trasmettere all’Assemblea Costituente d’Italia e di gradire personalmente il saluto del Praesidium del Soviet Supremo dell’U.R.S.S. e mio personale.

«Con sincera considerazione

«Scvernik».

Per le dimissioni presentate dall’onorevole Vittorio Emanuele Orlando.

PRESIDENTE. Dopo la sospensione dei nostri lavori a fine del luglio ultimo scorso avevo ricevuto dall’onorevole Orlando una lettera con cui egli – ritenendo cessata, con l’approvazione della legge di ratifica del Trattato di pace, la ragione della sua partecipazione alla vita politica – mi presentava le dimissioni da deputato. L’atto non mi colse di sorpresa. Infatti, in occasione della discussione sulla ratifica delle condizioni di pace, l’onorevole Orlando aveva dichiarato (e tutti lo avevano udito) che il discorso, che egli allora teneva, sarebbe stato l’ultimo della sua vita parlamentare, preannunciando così il passo che, infatti, subito dopo effettuò.

È saggia e deferente norma del nostro Parlamento che, dinanzi ad atti di dimissione, il Presidente opportunamente rivolga invito al deputato di recedere dalla risoluzione o quanto meno di riconsiderarla prima ch’essa divenga definitiva, in tal modo da non deludere gli elettori che lo avevano a ragion veduta investito del mandato e da non privare il Parlamento del suo contributo di pensiero e di volontà.

Data la personalità dell’onorevole Orlando ho avvertito il bisogno, prima di rivolgergli tale preghiera, di essere confortato nel mio passo dal prezioso consiglio dell’Ufficio di Presidenza; e questo, infatti, pure apprezzando gli alti motivi ideali che avevano indotto l’onorevole Orlando a presentare le sue dimissioni, ha ritenuto unanimemente – sicuro di interpretare il sentimento di tutti i deputati – che la partecipazione dell’illustre decano della nostra Camera alla vita parlamentare italiana sia più che mai preziosa ed indispensabile nell’attuale momento e mi ha incaricato di chiedere all’onorevole Orlando di recedere dalla sua determinazione.

L’onorevole Orlando, con alto senso di civismo e con comprensione commossa dei motivi che gli addussi a convincerlo, ha pertanto accettato di ritirare la sua lettera di dimissioni. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Di tutto ciò do con particolare soddisfazione notizia all’Assemblea. (Vivissimi, generali applausi).

Per la pubblicazione dei resoconti stenografici dell’Assemblea.

PRESIDENTE. E stato rilevato, e non solo dall’Ufficio di Presidenza, ma anche dagli onorevoli colleghi, un ritardo abbastanza notevole nella pubblicazione dei resoconti stenografici dell’Assemblea. Ma occorre dire che una delle ragioni principali di questo ritardo è costituito dal ritardo col quale gli onorevoli colleghi procedono alla correzione delle bozze nella sala adibita a questo scopo. E necessario, evidentemente, che la pubblicazione riprenda il suo ritmo normale.

Desidero ricordare ai colleghi che essi possono procedere a loro volta alla correzione delle bozze stenografiche nel termine di tre giorni da quello nel quale hanno pronunciato i loro discorsi, compreso in questo termine il giorno in cui il discorso è pronunciato. E volevo anche rammentare, ad evitare piccoli screzi coi funzionari addetti all’ufficio, che le bozze stenografiche non devono essere assolutamente asportate dalla sala di correzione.

D’ora innanzi mi sono permesso disporre che la pubblicazione dei resoconti stenografici avvenga anche se la correzione delle bozze non sia stata eseguita nel termine stabilito. Ciò porterà come conseguenza forse qualche amarezza. Per evitarla prego i colleghi di voler osservare il termine che è stato fissato.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Secondo l’intesa che è stata fra noi raggiunta ieri, dobbiamo ora iniziare la discussione generale sui primi tre Titoli della Parte seconda, che saranno discussi congiuntamente per la connessione della materia. Gli iscritti a parlare, dei quali avevamo raccolto in precedenza i nomi, separatamente, Titolo per Titolo, sono stati naturalmente raggruppati in un unico elenco che è stato affisso stamani negli ambulacri dell’Aula.

E pertanto do la parola al primo iscritto, che è l’onorevole Codacci Pisanelli, il quale ha preso il posto dell’onorevole Riccio, che a sua volta parlerà al turno già spettante all’onorevole Codacci.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Codacci Pisanelli.

CODACCI PISANELLI. Onorevoli colleghi! Secondo gli accordi assunti ieri, abbiamo stabilito di occuparci in maniera organica e sintetica dei primi tre Titoli della seconda Parte del progetto di Costituzione, e precisamente del Parlamento, del Capo dello Stato, del Governo.

Per quanto riguarda questi tre Titoli, prego i colleghi di non meravigliarsi se, pur essendo uno dei membri della Commissione dei Settantacinque, assumerò un atteggiamento critico, specialmente per quanto riguarda la formazione della seconda Camera, in quanto che, proprio su questo punto, fu presa da noi posizione netta e benché la maggioranza sia stata favorevole alla redazione dell’attuale progetto, tuttavia noi rimaniamo fermi alla tesi già da noi sostenuta nei lavori per la redazione del progetto.

Ma, per procedere con ordine, ritengo opportuno, essendo il primo ad occuparmi della questione, riassumere brevemente il sistema accolto nel progetto e accennare agli argomenti più controversi in seno alla Commissione dei Settantacinque.

Per quanto riguarda il Parlamento, questione fondamentale fu quella se le Assemblee legislative dovessero essere una o due. Si trovarono di fronte, in altri termini, anche nella nostra Assemblea Costituente, i due principî che già si erano trovati di fronte in altre Assemblee Costituenti, e fu ampiamente dibattuta la questione se si dovesse accedere al monocameralismo od al bicameralismo.

La votazione, seguita al dibattito, portò all’approvazione del sistema bicamerale. È interessante, però, rilevare che, accettato in linea di principio il sistema bicamerale, successivi espedienti, come la formazione della seconda Camera in maniera quasi analoga alla prima, hanno fatto rientrare dalla finestra il monocameralismo clamorosamente cacciato dalla porta. Questa è la ragione per cui noi intendiamo riprendere il nostro primitivo progetto: intendiamo, cioè, che il sistema bicamerale venga integralmente applicato.

Per quanto riguarda la prima delle due Assemblee legislative non vi è stata particolare difficoltà ad intendersi. Stabilito il principio del suffragio universale integrato dalla rappresentanza proporzionale, e dopo aver accennato ai vari requisiti che si richiedevano, sia per l’elettorato attivo che per l’elettorato passivo, si è concluso per una Camera dei deputati non dissimile dalle ultime forme assunte da essa nel sistema parlamentare italiano. A differenza, però, da quanto avveniva nella nostra precedente Costituzione, il Progetto prevede, almeno formalmente, una completa parità tra le due Assemblee.

Mentre in passato, dal fatto che le leggi tributarie dovevano essere presentate prima alla Camera dei deputati e successivamente al Senato, mentre dalla consuetudine, secondo cui la seconda Camera doveva tenere un atteggiamento di remissività nei confronti della prima, poteva desumersi una certa supremazia della prima Camera nei confronti della seconda, il Progetto attuale tende a introdurre una parità, almeno formale, fra le due Assemblee, anche se praticamente essa non può trovare completa applicazione.

Per quanto riguarda, viceversa, la formazione della seconda Camera, i dissidî sono stati gravi nella Commissione dei Settantacinque. Il Progetto prevede che la seconda Camera venga formata, per due terzi, dall’elezione che viene attribuita ad un corpo elettorale ristretto, in quanto si richiede una età superiore a quella prevista per far parte del corpo elettorale che deve dare luogo alla prima Camera, e per un terzo dall’elezione dei vari Consigli regionali. Nell’un caso e nell’altro si hanno elezioni, nell’un caso e nell’altro si dà la possibilità di far rispecchiare nella seconda Camera, in maniera quasi identica, le stesse tendenze che hanno dato luogo alla formazione della prima. Ecco perché, come sostenevo in precedenza, in questa maniera, essendo le due Assemblee praticamente formate nello stesso modo, si finisce col respingere il principio del bicameralismo, perché quando alla formale distinzione delle due Assemblee non corrisponde una sostanziale distinzione, in quanto vengono formate in maniera quasi identica, è meglio riconoscere che, nonostante le contrarie dichiarazioni verbali, si accoglie in sostanza il sistema unicamerale.

Si aggiunga che, per gli atti di principale importanza, come la votazione della fiducia al Governo, l’elezione del Capo dello Stato e la dichiarazione di guerra, le deliberazioni vengono prese dalle due Camere riunite nell’Assemblea Nazionale, cioè praticamente da un’Assemblea unica.

È da ritenere che non si possa giungere a queste conclusioni, che peccano di incoerenza, in quanto, dopo aver affermato il principio del bicameralismo, non è logico attribuire ad una Assemblea unica tutti gli atti di principale importanza, non è logico fare in maniera che l’identica formazione delle due Camere ci riporti al monocameralismo.

Ed altri rilievi sono da fare, in relazione alle diverse categorie di coloro che sono eleggibili alla seconda Camera. In particolare, ha destato impressione nel Paese il fatto che, fra i decorati al valore, siano stati scelti soltanto coloro che hanno ottenuto decorazioni nella guerra di liberazione. Questo non sembra giusto, perché anche coloro i quali nel 1915-18 ottennero decorazioni, che non si ottenevano certo con maggiore facilità di quelle ottenute successivamente, dovrebbero essere ammessi fra gli eleggibili alla seconda Camera.

D’altra parte, l’essersi limitati al principio elettivo può portare a taluni inconvenienti non lievi, in quanto, specialmente per coloro i quali si trovano in determinate posizioni, il desiderio di popolarità può essere davvero pericoloso. Si pensi ai militari, ai magistrati, i quali vogliano crearsi un’aureola di popolarità per essere poi eletti nella seconda Camera, e si consideri se persone, mosse da simili preoccupazioni, possano effettivamente compiere, con la dovuta obiettività, il loro dovere.

Questa è una delle critiche più comuni che vengono mosse alle categorie, così come sono elencate nel progetto. Ma il nostro punto di vista è ben diverso. Mi limito per ora a criticare, anche perché tra noi si è visto come ancora le idee non siano chiare e come ci si riprometta dalla discussione, che mi auguro molto feconda, un risultato che porti alla chiarificazione delle posizioni, che porti ad esaminare a fondo il problema e a risolverlo in maniera corrispondente alle nostre aspirazioni.

Il principio affermato in relazione alla seconda Camera dalla scuola sociale cristiana, e da noi ripreso ed affermato nella Commissione dei Settantacinque, è quello che sostiene la necessità di formare la seconda Assemblea legislativa in base al criterio della rappresentanza delle categorie e degli interessi.

Ed è singolare che, mentre noi riuscimmo ad ottenere una deliberazione di principio in tal senso nella Commissione dei Settantacinque, viceversa l’affermazione di principio da noi ottenuta fu, ancora una volta, successivamente abbandonata e si venne ad una conclusione che non è certo rispondente alla deliberazione approvata dalla Commissione stessa.

Sosteniamo la necessità della formazione della seconda Camera in base alla rappresentanza di categoria. Lo sosteniamo nell’interesse dei lavoratori, perché siamo convinti che l’elezione sia, senza dubbio, il migliore fra i mezzi per scegliere i rappresentanti del popolo, ma siamo ugualmente convinti che non sia un sistema perfetto.

Ha anch’esso i suoi difetti, che è bene vengano corretti e integrati da un diverso modo di formazione della seconda Camera.

Si dirà: ma anche per la formazione della seconda Camera come rappresentanza di categoria, voi, in fondo, vi basate sopra il sistema elettorale. Diverso sarebbe in ogni modo il corpo elettorale, perché verrebbero chiamati ad eleggere, a scegliere, solo coloro i quali si trovano in determinate condizioni dal punto di vista professionale, solo coloro i quali abbiano un determinato status professionale.

D’altra parte, siccome non escludiamo che, oltre a coloro i quali siano stati eletti, vi siano alcuni i quali, per l’ufficio che rivestono, entrino a far parte della seconda Camera, ne viene come conseguenza che si giunge a costituire tale Assemblea in maniera completamente diversa da quella seguita per la formazione della prima Camera.

Spiego meglio quest’ultimo concetto: oltre a coloro i quali entrerebbero, secondo il nostro progetto, a far parte della seconda Camera, perché eletti dagli appartenenti alle diverse categorie, vi dovrebbero essere anche altri, i quali, in relazione all’ufficio rivestito, dovrebbero entrare automaticamente a far parte della seconda Assemblea.

E ciò allo scopo di eliminare quell’inconveniente a cui accennavo, l’inconveniente che deriverebbe, per esempio, dal fatto prima ricordato di magistrati, di ammiragli e di generali in cerca di popolarità. Per dare a questa seconda Camera quel carattere di maggiore riflessione che in fondo è fra le più pregiate caratteristiche della seconda Assemblea nei vari sistemi bicamerali, è necessario che di essa facciano parte anche coloro i quali possono portare il prezioso contributo della loro lunga esperienza e quindi possono giovare soprattutto alla formazione di leggi di carattere tecnico, relative a particolari rami della pubblica amministrazione.

Occorre, senza dubbio, distinguere le diverse categorie e bisogna fronteggiare le difficoltà iniziali, derivanti dal fatto che la nostra organizzazione sindacale lascia ancora molto a desiderare: lascia a desiderare perché l’anagrafe sindacale non è ancora costituita, e quindi non sarebbe facile giungere alla formazione di un corpo elettorale sicuro, senza possibilità di irregolarità nelle elezioni. Ma queste difficoltà, che sono soltanto di carattere temporaneo e che saranno eliminate da una migliore organizzazione nei prossimi anni, potrebbero essere superate facendo in maniera che, per quanto riguarda la prima formazione della seconda Camera, si seguissero sistemi diversi, non esclusi quelli proposti dal nostro progetto, non escluso il ricorso ai Consigli comunali, di cui altri parlerà nelle prossime sedute.

Ma quello che a noi interessa affermare è il principio che, se effettivamente vogliamo giungere ad una seconda Camera diversa dalla prima, se effettivamente vogliamo mantenere il principio del bicameralismo, l’unica via è quella di costituire una seconda Assemblea legislativa basata sopra la rappresentanza di categorie e di interessi.

Quanto agli argomenti addotti in favore del bicameralismo, possiamo ricordare, non ultimo, quello delle statistiche relative ai diversi Stati, ai diversi sistemi parlamentari moderni, dalle quali si desume la prevalenza del sistema bicamerale. E se è necessario che gli ordinamenti si adeguino ai tempi, noi pensiamo che, come in passato la seconda Camera aveva una base rispondente ad una concezione dello Stato essenzialmente conservatrice, con una seconda Camera formata principalmente da coloro che avevano quasi un diritto ereditario a farne parte; così oggi, che ai privilegi si sostituisce, invece, la dignità del lavoro, e la posizione del cittadino risulta principalmente dal grado raggiunto mediante il lavoro, riteniamo che, appunto, effetto e segno di tale sostituzione possa essere la formazione della seconda Camera, non più in base a criteri ereditari, ma in base alla rappresentanza delle diverse categorie della produzione, in base alla organica rappresentanza delle diverse manifestazioni del lavoro.

Queste le ragioni per le quali intendiamo che venga formata la seconda Camera, non in base ai principî stabiliti nel progetto di Costituzione, ma in base a quel principio, da noi sempre tenacemente affermato, della rappresentanza di categorie e della rappresentanza di interessi. Intendiamo, cioè, che nella Costituzione vengano determinate le categorie di coloro i quali possono essere eletti dagli appartenenti alle categorie stesse a far parte della seconda Camera; intendiamo che nella Costituzione vengano indicati coloro i quali, per l’ufficio che rivestono, devono far parte della seconda Camera.

Ho sempre parlato di «seconda Camera» e mi sia consentito ravvivare un momento la vostra attenzione, ricordando le discussioni che sono sorte a proposito della denominazione da dare a questa seconda Assemblea. Si è parlato di «Camera dei senatori»; ma non si è voluto parlare di «Senato». È sembrata quasi una nuova applicazione del principio:; senatores boni viri, senatus autem mala bestia. Non si vuol più neppure nominare il Senato!

Ma questo orrore per la parola, che, specialmente per chi sta a Roma, sembra strano, in quanto l’S.P.Q.R. che si legge in tutte le cantonate ricorda come si tratti di un nome di storica rilevanza, questo orrore fa pensare all’orrore che si aveva in passato per alcune parole, a quell’orrore che faceva vietare i banchetti, ma che rendeva leciti i ranci, che faceva vietare le vacanze ma consentiva le ferie. (Si ride – Approvazioni).

L’altro punto sul quale non possiamo concordare con quanto viene disposto nel progetto è l’eccessiva quantità di deliberazioni di fondamentale importanza che debbono essere prese dall’Assemblea Nazionale. Le due Camere, riunendosi, formano questa Assemblea unica, alla quale vengono attribuiti compiti fondamentali: si può dire quasi che si sia voluto fare una scissione fra le attribuzioni legislative e le attribuzioni politiche delle Assemblee legislative. Pur trattandosi, infatti, di organi legislativi destinati principalmente e peculiarmente a svolgere funzioni legislative, tuttavia, attraverso l’attività di controllo che sono chiamate a svolgere sulla funzione di Governo, queste Assemblee legislative finiscono per partecipare anche all’attività di governo. Sembra quasi, cioè, che si sia voluto attribuire la funzione legislativa propriamente detta alle due Assemblee singole, mentre si sarebbe voluto riservare la funzione del controllo politico alla Assemblea Nazionale, alle due Camere, cioè, riunite insieme.

Se, però, una tale scissione potrebbe anche, da un punto di vista assolutamente astratto e teorico, sembrare in certo modo sodisfacente, non altrettanto sodisfacente può apparire alla mente di chi vuole, soprattutto, che si faccia tesoro dell’esperienza del passato e di chi desidera che siano le Assemblee legislative come tali ad esercitare quella funzione di controllo sull’azione di Governo che si è in ogni tempo dimostrata sommamente efficace. Si vuole, in altri termini, che sia il Parlamento, inteso come azione concomitante delle due Assemblee, a continuare ad esercitare la funzione di controllo sull’attività di Governo, senza che tale funzione venga attribuita ad un organo particolare, quale deve considerarsi quello risultante dalle due Camere riunite.

Noi non possiamo ammettere, cioè, che l’Assemblea Nazionale finisca con il compiere tutti gli atti di maggiore importanza nel campo politico: sarebbe questo un ritorno al monocameralismo, cui ci siamo opposti.

A tale proposito ricordo, a titolo, direi, ricreativo, che nel Progetto si attribuisce all’Assemblea Nazionale la deliberazione relativa alla mobilitazione generale. Rispetto ai tempi, rispetto ai sistemi di guerra, parlare oggi ancora di mobilitazione generale può ritenersi, penso, un anacronismo. Che dire, poi, del fatto che una simile deliberazione dovrebbe essere presa da un’Assemblea legislativa, per trovare poi applicazione soltanto dopo la dichiarazione del Capo dello Stato! Ciò verrebbe, come è evidente, a ritardare l’azione delle nostre forze armate e ad avvantaggiare non poco l’eventuale nemico.

Accennerò ora ad un’altra questione: quella della formazione delle leggi. Mentre, a questo proposito, noi avevamo in passato la deliberazione delle due Assemblee, la sanzione da parte del Capo dello Stato, la promulgazione e la pubblicazione, è interessante osservare che, nell’attuale Progetto, non si parla di sanzione. Si è ritenuto che la sanzione sia una caratteristica dei sistemi monarchici, inaccettabile in altri sistemi. Si salta quindi questo atto della partecipazione del Capo dello Stato alla formazione della legge; e la legge ordinaria avrà così questo itinerario: deliberazione da parte di una delle due Camere; trasmissione all’altra; deliberazione da parte di questa entro i termini stabiliti e, finalmente, promulgazione da parte del Capo dello Stato.

Risorge qui la questione annosa sulla natura della promulgazione. Si è molto discusso se la promulgazione sia un atto legislativo, se faccia cioè parte della funzione legislativa, o se rientri invece nell’altra funzione, che veniva chiamata esecutiva: si riteneva cioè che la promulgazione non fosse altro che il primo atto con cui il così detto potere esecutivo dava esecuzione, dava attuazione alla legge. Altri hanno risposto che, in questa maniera, si faceva in modo che proprio la legge mancasse di una sua forma, perché mancava in fondo un documento redatto dagli organi legislativi stessi in cui fosse concretata la legge. In altri termini, come quando si fa un contratto occorre un notaio che lo rediga, così quando viene emanata una legge, è necessario che si proceda alla materiale documentazione di essa, è necessario che si offra un testo ufficiale di essa.

Questa è la ragione per cui alcuni, forse più giustamente, hanno ritenuto che in fondo la promulgazione rientri anch’essa nella funzione legislativa. E d’altra parte, quando noi affermiamo che il Capo dello Stato rappresenta l’unità della Nazione, quando noi affermiamo che esso unifica le diverse funzioni sovrane, non si riesce a comprendere come mai vi possano essere alcuni i quali si preoccupano di impedire la partecipazione del Capo dello Stato alla legislazione.

Ecco la ragione per cui forse non sarebbe inopportuno introdurre anche nel nuovo sistema costituzionale la sanzione della legge da parte del Capo dello Stato. La partecipazione del Capo dello Stato all’esercizio della funzione legislativa si riscontra, del resto, anche in sistemi completamente diversi da quelli monarchici, sia pure sotto forma diversa, sia pure limitata ad interventi puramente negativi del Capo dello Stato nell’esercizio della funzione legislativa, come quando gli è soltanto attribuito il potere di veto.

Sarebbe viceversa più opportuno conservare questa unificazione delle diverse funzioni nel Capo dello Stato e consentirgli un intervento, che d’altra parte avviene in ogni modo, perché è soltanto il Capo dello Stato che può procedere alla promulgazione. E questa promulgazione, secondo la concezione per me più convincente, è appunto una manifestazione della funzione legislativa, in quanto rivolta a rendere noto il testo ufficiale della legge.

In ogni modo, il Progetto si occupa giustamente della formazione delle leggi, e tra l’altro risolve in senso assolutamente negativo la grave e discussa questione dei decreti legge, cioè dei provvedimenti legislativi di urgenza. In base al nostro progetto di Costituzione, cioè, non saranno più possibili i decreti-legge. Sono consentiti i decreti legislativi, ossia quelli che implicano una delega da parte degli organi legislativi agli organi di Governo; ma non saranno invece ammessi quei provvedimenti legislativi che vengono emanati, in caso di necessità e di urgenza, dagli organi governativi, senza preventiva delega da parte degli organi legislativi.

E stato molto discusso in seno alla Commissione dei Settantacinque se fosse opportuna o meno questa soppressione della potestà di emanare decreti-legge. Le discussioni sono state particolarmente attraenti, ma – e qui parlo a titolo personale – ritengo che in fondo non si possa fare a meno di questa potestà, sempre esercitata dai Governi, di emanare atti con forza di legge quando la necessità e l’urgenza lo richiedano.

Si è detto: in fondo, escludendo la possibilità dei decreti-legge, noi accogliamo il sistema anglosassone, sistema che non prevede la possibilità di atti legislativi d’urgenza emanati dal Governo, ma che tuttavia non ignora l’istituto, in quanto, coi famosi «Bills» d’indennità, vengono esonerati dalla responsabilità i membri del Governo che siano stati costretti ad emanare simili atti legislativi, così che viene sanata la violazione della Costituzione, compiuta in casi di necessità e urgenza.

Ma nel nostro sistema, raccogliere un principio del genere, il volersi riferire al sistema anglosassone, non sarebbe opportuno, perché in quel sistema non funziona quella Corte costituzionale che funzionerà invece – perché è desiderata da tutti – nel nostro sistema. La Corte costituzionale, di fronte ad un decreto-legge, di fronte ad un atto legislativo emanato dal Governo in caso di necessità e d’urgenza, non potrebbe fare altro che dichiararlo incostituzionale ed invalidarlo, quindi, fin dall’inizio.

E allora, che cosa avverrebbe di tutto quello che si è compiuto in applicazione del decreto-legge? Meglio quindi, siccome non è possibile escludere praticamente l’esercizio da parte del Governo della potestà legislativa in caso di necessità e urgenza, meglio prevedere questa possibilità e contenerla entro limiti ben precisi.

Non si deve pensare che i decreti-legge abbiano avuto origine e trovato applicazione solo nel 1923 e nel periodo successivo. Fin dalla formazione dell’Italia riscontriamo l’uso di questa potestà, benché in maniera, molto più limitata di quanto non fu fatto successivamente.

Ma, appunto, un’opportuna disciplina costituzionale, la necessità di presentare questi provvedimenti alle Assemblee legislative per la conversione in legge, potrebbero costituire una garanzia sufficiente, una garanzia integrata dalla possibilità di controllo della Corte costituzionale, che potrebbe assicurarci la giustizia nella legislazione alla quale aspiriamo, dopo la buona prova dei congegni predisposti per attuare la giustizia nell’amministrazione,

Delineata in questa maniera la formazione delle leggi, dopo avere accennato all’esclusione dei decreti-legge, necessari, per esempio, come i cosiddetti decreti-catenaccio, indispensabili allorché si debbano elevare tariffe doganali, per i casi di particolari necessità (si pensi alle catastrofi che purtroppo si verificano sempre e che richiedono provvedimenti di eccezione); dopo avere accennato a questa opportunità di non escludere la possibilità della decretazione di urgenza; dopo avere accennato alla necessità di prevederla e di regolarla per evitare abusi, è bene richiamare l’attenzione dell’Assemblea sull’opportunità di una disciplina costituzionale della potestà regolamentare.

La legge non può dare che disposizioni di carattere generale. Deve, perciò, essere integrata dai regolamenti. I regolamenti sono leggi in senso sostanziale, che nella nostra Costituzione trovavano una sufficiente disciplina, mentre nell’attuale Progetto vi è al riguardo una grave lacuna. Vi si trova un semplice accenno allorché viene affermato che il Capo dello Stato emana i regolamenti.

Non si accenna invece, per esempio, a quella distinzione che oggi viene ammessa fra i regolamenti detti esecutivi, i regolamenti di organizzazione, che provvedono alla formazione dei diversi uffici, e i regolamenti autonomi e indipendenti, che si riferiscono a campi non disciplinati dalla legge formale.

Per la disciplina di questa attività legislativa, che spetta necessariamente al potere governativo, è importante ed è opportuno che, con emendamenti, si provveda ad integrare questa lacuna, già rilevata da parecchi studiosi di diritto.

Per quanto riguarda l’Assemblea Nazionale, potrà senza dubbio essere importante attribuire ad essa determinati atti, come per esempio la nomina del Capo dello Stato, ove si voglia lasciare questo compito alle Assemblee legislative, ed a questo scopo non sarebbe inopportuno far partecipare i presidenti delle varie Regioni all’Assemblea Nazionale che deve procedere alla scelta del Capo dello Stato; ma attribuire a questa Assemblea tutte le competenze che ad essa spettano secondo il Progetto è, secondo noi, in contrasto con il principio del bicameralismo, che dovrebbe essere fondamentale nella nostra Costituzione.

Passo ad accennare all’elezione del Capo dello Stato. Il sistema previsto dal Progetto fa che siano le due Camere riunite nell’Assemblea Nazionale, opportunamente integrate appunto dai membri delle Assemblee regionali che ho precedentemente ricordato, a scegliere il Capo dello Stato. Anche a questo proposito non sono mancate le discussioni e, data la necessità di dare al Capo dello Stato un certo prestigio, una certa rispondenza con le aspirazioni del popolo, non sembra imprudente sottoporre a questa Assemblea ancora una volta l’opportunità di fare in modo che il Capo dello Stato venga scelto da tutto il corpo elettorale. Per lo meno, se non si può arrivare a questo punto, ritengo che le due Camere riunite nell’Assemblea Nazionale – sia pure integrate da componenti dei vari Consigli regionali – non costituirebbero un corpo elettorale sufficiente agli scopi che si vogliono raggiungere. In relazione alla tesi che il Capo dello Stato debba essere eletto da tutto il corpo elettorale, vi è un argomento di carattere storico-politico che non dobbiamo dimenticare. In fondo, quando una elezione è di secondo grado, quando avviene da parte di persone elette a loro volta dal corpo elettorale, questo corpo elettorale si sente un po’ lontano dalla persona singola che viene finalmente prescelta. Perché il Capo dello Stato abbia prestigio sufficiente, perché proprio trovi rispondenza nelle diverse aspirazioni del popolo, mi sembra più opportuno che esso venga eletto direttamente dal corpo elettorale. Ritengo che si debba tener conto delle aspirazioni del nostro popolo. Non va trascurata la grande realtà di cui dobbiamo occuparci, costituita precisamente dal popolo italiano. Ora, se guardiamo alla storia del nostro Risorgimento, noi vediamo come il desiderio che il Capo dello Stato sia una emanazione del popolo abbia trovato riscontro nelle formule dei diversi plebisciti. Lo stesso fatto che, ad un certo momento, accanto alla formula «per grazia di Dio» si sia aggiunto «e per volontà della Nazione» dimostra come il nostro popolo voleva in sostanza che il Capo dello Stato fosse emanazione sua, fosse quasi il simbolo delle sue aspirazioni; anche se non si intendeva sopprimere l’originaria formula, tanto più che altrimenti si sarebbe avuto un Capo dello Stato fuori della grazia di Dio!

Ritengo che, cambiata la forma dell’organo supremo dello Stato, non sarebbe inopportuno fare in modo che il popolo si sentisse rappresentato direttamente dal Capo dello Stato; e d’altra parte ciò potrebbe essere molto opportuno. In un Paese come il nostro, il quale ci tiene in fondo a vedersi simboleggiato da una persona, questa persona raggiungerebbe tanto meglio il suo compito quando risultasse emanazione diretta del corpo elettorale.

Si risponde che vi sono precedenti presso altre nazioni, i quali debbono farci dubitare dell’opportunità di un simile sistema, in quanto che si è detto che in Germania – per esempio – si è giunti, in questa maniera, al dispotismo ed alla tirannia.

Ma, mentre sarebbe opportuno fare in modo che il Capo dello Stato avesse sufficienti poteri, così da non ridurlo a figura di secondo piano, si deve tener conto d’altra parte che nel nostro sistema funzionerà quella Corte costituzionale che non vi era negli altri ordinamenti è che può costituire effettivamente una garanzia non indifferente contro gli abusi di potere. Vi saranno le Assemblee legislative, alle quali sarà possibile dare sufficienti poteri di controllo nei confronti del Capo dello Stato; ma vi sarà soprattutto questo organo giurisdizionale, in grado di opporsi a tentativi di dittatura o di tirannia.

Questa è la ragione per cui mi permetto di proporre all’Assemblea, ancora una volta, di stabilire nella Costituzione che il Capo dello Stato venga scelto direttamente dal corpo elettorale e non dalla sola Assemblea Nazionale; o, per lo meno, che questa Assemblea Nazionale venga opportunamente integrata, in modo da costituire un corpo elettorale più ampio di quello limitatissimo che altrimenti verrebbe ad aversi.

Quanto alle attribuzioni del Capo dello Stato, mi permetto di fare osservare come, nella redazione del progetto di Costituzione, si sia andati alle volte un po’ rapidamente. Per esempio, si dice che il Capo dello Stato presiede il Consiglio supremo di difesa, il quale sarà forse nei progetti di qualcuno, ma per ora non risulta costituito.

Per quanto riguarda le forze armate, salvo qualche modificazione di forma che non sarà affatto inopportuna, si può ritenere che quanto il progetto stabilisce possa essere approvato.

Finalmente, accenno al problema relativo al Governo. Ci si è preoccupati di fare in modo che coloro che si occupano di una fondamentale funzione dello Stato siano garantiti dal punto di vista della stabilità. Troppo abbiamo sofferto per le frequenti cadute dei vari Ministeri. L’esperienza passata ci dimostra come sia indispensabile assicurare al Governo una certa stabilità; ed a questo scopo mirano quegli espedienti che sono stati tradotti nel Progetto.

Il principio, già accolto nella legislazione vigente, secondo cui la semplice disapprovazione di un progetto di legge non equivale a voto di sfiducia, trova conferma nel nostro progetto di Costituzione, in quanto si ritiene che la sfiducia non possa essere votata se non mediante forme speciali, cioè mediante una espressa mozione in tal senso, che non può essere subito sottoposta a votazione, ma deve essere discussa e posta in votazione soltanto dopo un congruo termine.

La stabilità del Governo – si è detto – non dipende dal sistema, ma dagli uomini; perché, quando vi sono stati uomini all’altezza della situazione, i Governi si sono retti anche in passato ed hanno potuto compiere il loro dovere.

L’esperienza storica, però, dimostra come anche coloro i quali vengono ormai riconosciuti come i nostri migliori uomini politici, si sono trovati spesso in condizione di difficoltà, appunto perché troppo instabile era la loro posizione; e l’azione di Governo, interrotta ogni tre o quattro mesi, non può raggiungere quegli scopi, che essa potrebbe invece ottenere, quando, sia pure attuata in base a principî non perfetti, venga, però, svolta in maniera continua.

Questo è lo scopo che ci siamo proposti istituendo particolari forme per la votazione della fiducia al Governo.

È interessante poi occuparsi della particolare posizione prevista per il Primo Ministro e della posizione dei diversi Ministri. Anche qui si è cercato di attuare il principio del Primo Ministro primus inter pares, cioè persona la quale non ha possibilità di imporre la propria volontà ai colleghi del Ministero. Non si tratta d’un superiore gerarchico; ma nello stesso tempo la sua posizione di preminenza è garantita, in quanto che egli ha responsabilità completa ed i Ministri possono essere da lui spinti a svolgere una determinata azione, appunto perché egli è Presidente del Consiglio, responsabile dell’attività collegialmente svolta.

Altro particolare interessante è quello della posizione riservata ai diversi Ministri.

Ogni Ministro è collegialmente responsabile dell’azione di Governo e ciò impedisce di esimersi dall’assumere la responsabilità dell’azione collettiva; d’altra parte, il Ministro è responsabile per l’attività svolta nel suo ramo di amministrazione.

Tali i principî fondamentali, relativi alla posizione del Governo; tali le misure previste nel nostro Progetto per impedire il ripetersi di Governi instabili, che ci hanno portato a risultati molto insoddisfacenti.

Le mie critiche al Progetto riguardano, dunque, il fatto che il bicameralismo, principio accolto come fondamentale a parole, viene di fatto abbandonato per cedere il posto al sistema unicamerale.

Per quanto riguarda l’elezione del Capo dello Stato, ripeto che sarebbe preferibile sostituire alla formula del Progetto quella della elezione diretta da parte del corpo elettorale, che non sia costituito dalle sole Assemblee legislative.

Finalmente, per quanto riguarda il Governo, ritengo che il Progetto, rivolto ad assicurarne la stabilità, possa essere accolto e facilmente migliorato. Noi concepiamo la funzione governativa non come semplice esecuzione di quanto le leggi stabiliscono, ma come attività concreta, svolta giorno per giorno, nei limiti delle leggi, rispettando le leggi, ma senza limitarsi a eseguirle soltanto. Ecco la differenza che passa fra la nostra concezione del Governo e l’altrui concezione del semplice potere esecutivo. Vogliamo che coloro, i quali hanno la responsabilità della cosa pubblica, siano muniti di sufficienti poteri. Vogliamo che siano sottoposti a controllo, in maniera tale che non possano passare ad usi arbitrari dei poteri discrezionali loro conferiti; ma vogliamo, nello stesso tempo, che il Governo governi. (Applausi’).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, parlerò brevemente sul modo in cui il progetto di Costituzione contempla l’attività legislativa del Governo, argomento del quale, a mio avviso, non si rileva mai abbastanza la gravità, per i pericoli enormi che può produrre una legislazione che taluni scrittori definirono una vera e propria usurpazione del potere legislativo da parte del potere esecutivo.

E mi occupo esclusivamente di questo tema, perché mi pare che questa parte del Progetto presenti le maggiori manchevolezze, come mi sarà facile dimostrare.

Come è noto, l’attività legislativa del potere esecutivo si esplica in una duplice forma: attraverso la delega del potere legislativo; attraverso la forma autonoma del decreto-legge.

Il progetto di Costituzione, mentre si occupa dell’attività legislativa delegata, tace del tutto dell’attività legislativa autonoma, quella, cioè, determinata da un vero e proprio stato di necessità e di urgenza.

È stato or ora affermato dall’onorevole Codacci Pisanelli che si volle così abolire questa forma di attività legislativa. Non mi sembra che tale opinione sia da accogliersi essendo, ormai, da tutti riconosciuto che la necessità di fatto possa tramutarsi e si tramuti in una fonte di diritto, e che il decreto-legge ha il suo fondamento e la sua legittimità in uno stato di necessità. Basterebbe in proposito ricordare il decreto-catenaccio, tipico esempio di decreto-legge, determinato da opportunità ed esigenze fiscali o finanziarie. Il silenzio del progetto è, dunque, una lacuna che bisognerà colmare.

Per quanto attiene all’attività delegata, non si discute più, ormai, il principio della legittimità della delega: si discute soltanto, come è noto, se l’esercizio della delega debba essere circoscritto, vale a dire disciplinato e contenuto in una norma che ne stabilisca i limiti e determini la materia, quale oggetto dell’attività legislativa delegata, e prestabilisca eventualmente anche il tempo entro il quale questa attività legislativa sia destinata ad aver vigore.

Ed, infatti, nel Progetto l’articolo 74, lungi dal contemplare una delega generale, un trasferimento, cioè, di competenza legislativa dal potere legislativo al potere esecutivo, precisa che l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato se non previa determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.

A mio avviso, non può non approvarsi il divieto della concessione dei così detti pieni poteri; ma, d’altra parte, deve rilevarsi che la norma dell’articolo 74 obbedisce soltanto alle esigenze del tempo normale, e non a quelle straordinarie che possono presentarsi, per esempio, in tempo di guerra. Io ebbi già modo di fare lo stesso rilievo in rapporto alla sospensione eventuale dei diritti individuali, e ricordo che molto cortesemente l’onorevole Presidente della Commissione dei Settantacinque promise di tener conto delle osservazioni da me fatte in quella sede. Ora, anche a proposito dell’articolo 74, il rilievo ha la sua importanza. Perché non è possibile che in tempo di guerra si possa dare al Governo una delega, caso per caso, per gli eventuali provvedimenti che la condotta della guerra esige. È evidente, per altro, che quando mi riferisco alla delega generale per il tempo di guerra, essa debba trovare la sua limitazione nella natura dei provvedimenti da emanarsi, nel senso che la delega generale deve essere concessa esclusivamente per i provvedimenti resi necessari dalla condotta della guerra, e non potrà estendersi a provvedimenti estranei alla condotta della guerra.

Si può, adunque, concludere che, fermo restando il principio di una delega circoscritta, così come è stabilito nell’articolo 74, occorrerà aggiungere una norma nella quale si preveda la delega generale per il tempo di guerra in rapporto a quei provvedimenti che fossero resi necessari dalla condotta della guerra, provvedimenti la cui competenza non potrebbe essere se non del potere esecutivo.

Seconda manchevolezza del Progetto. In tema di attività legislativa delegata, è evidente che il potere delegato debba contenersi nei limiti della delega conferita. Ora, il Progetto non contempla alcun controllo per il caso di eccesso o di infedeltà nell’adempimento della delega. E non mi pare che si possa fare richiamo al capoverso dell’articolo 74, laddove è detto che per i decreti legislativi valgono le norme stabilite in ordine alla Corte costituzionale.

Nel senso, cioè, che se la Corte Costituzionale, a norma dell’articolo 126 del Progetto, giudica della incostituzionalità di tutte le leggi, secondo il richiamo del capoverso dell’articolo 74, dovrebbe poter giudicare anche eventualmente della incostituzionalità dei decreti legislativi; ma altra cosa è la incostituzionalità della legge, la quale innegabilmente si riferisce a quei requisiti formali ed esteriori che i vari ordinamenti costituzionali stabiliscono perché un provvedimento acquisti la forma e la forza di legge, ed altra cosa è la mancata corrispondenza del contenuto del decreto alla delega, ossia il mancato rispetto da parte del potere delegato dei limiti della delega. In tale caso, non può esservi altro controllo che non sia quello del potere delegante, epperò manca nel progetto la norma che contempli tale controllo e lo disciplini.

Mi sembra, inoltre, che anche inopportunamente si sia fatto richiamo, a proposito dei decreti legislativi, alle norme sul referendum nell’ultimo capoverso dell’articolo 74, dove è detto che per i decreti legislativi valgono le norme stabilite per le leggi in ordine al referendum.

Difatti, nel caso di legge vera e propria, l’applicazione del referendum è subordinata a determinate condizioni, quale, per esempio, quella che la legge sia stata approvata con una maggioranza inferiore ai due terzi; mentre ciò non può avvenire nel caso di un decreto legislativo che è un provvedimento che rientra esclusivamente, per effetto della delega, nella competenza del potere delegato. Pertanto, se anche si dovesse ritenere applicabile il referendum ai decreti legislativi, dovrebbe farsi un opportuno emendamento, prescindendosi dalle condizioni per le quali si applica il referendum a proposito delle norme legislative vere e proprie.

Concludendo questa prima parte delle mie osservazioni, io rilevo, e presenterò un opportuno emendamento, che occorre aggiungere alla norma dell’articolo 74 un comma che preveda una delega generale in rapporto a provvedimenti contingenti ed urgenti, determinati dal tempo di guerra, e occorre stabilire una norma che preveda un controllo da parte del potere legislativo che permetta di verificare se il potere delegato si sia mantenuto nei limiti della delega conferita.

Osservavo or ora che l’articolo 74 non fa cenno del decreto-legge. Io ripeto ancora una volta che il silenzio del progetto di Costituzione non può interpretarsi nel senso che si è voluta vietare questa forma di attività legislativa, pur necessaria e inevitabile in determinate contingenze.

Peraltro, mi permetto ricordare che questa materia è interamente regolata da una legge che, per quanto io sappia, non è stata ancora abrogata: la legge del 31 gennaio 1926, n. 100, la quale disciplina il modo ed il funzionamento dell’attività legislativa del potere esecutivo per mezzo dei decreti-legge. Si devono, adunque, trasferire dal terreno propriamente legislativo al terreno costituzionale le norme in proposito, perché non sia aperto l’adito a maggiori e più pericolosi abusi.

Si ritiene che, durante il ventennio fascista, ammontarono a ben 30 mila i decreti-legge emessi dal Governo, alcuni dei quali perfino per la nomina di qualche impiegato. Né farebbe sorpresa che l’abuso continuasse in regime democratico: di qui la necessità di norme atte a stabilire che il decreto-legge può essere emanato esclusivamente nei casi di urgenza e di necessità, ed a precisare che tali casi non sono mai ammissibili, quando le Camere legislative sono in funzione. Tali norme dovrebbero essere integrate con quelle relative alla conversione in legge, al termine di presentazione per la conversione, e a quello entro il quale la conversione debba aver luogo.

Occorrerebbe, infine, stabilire la necessità di delegazioni legislative anche per i decreti-catenaccio, come avviene in Francia, in Belgio, in Svizzera.

Osservo finalmente che nel progetto di Costituzione non è cenno alcuno delle così dette «ordinanze di necessità», le quali, pur avendo comune il principio sul quale si fonda il decreto-legge, obbediscono a ben altre esigenze.

L’ordinanza di necessità è quella che si emette nei casi di allarme, di pericolo pubblico, di guerra, o di stato d’assedio, quando, cioè, le libertà individuali corrono pericolo di essere limitate o sospese: è, quindi, necessario stabilire rigorose garanzie sull’uso della potestà, ad impedire eccessi e trasmodanze da parte del potere esecutivo.

Anche per quanto si riferisce alla potestà regolamentare, il progetto è del tutto manchevole. Difatti, nell’articolo 83 è detto che il Presidente della Repubblica promulga le leggi, ed emana i decreti legislativi ed i regolamenti. Quali regolamenti? Quelli per la esecuzione delle leggi, quelli delegati, quelli detti indipendenti, o quei regolamenti di indole generale, cosiddetti esterni, che possono valere erga omnes e per i quali occorrono le opportune riserve circa la materia che potrà formare oggetto di regolamento? Ora, il progetto di Costituzione tace del tutto, e non v’è alcuno che non intenda la necessità di norme in proposito.

Queste mie osservazioni, onorevoli colleghi, non hanno alcuna pretesa. Vogliono essere modesti rilievi di buon senso, intesi esclusivamente a richiamare l’attenzione della onorevole Commissione, nella fiducia che essa vorrà compiacersi di rivedere questa parte del Progetto, integrandola, se lo crederà, con le disposizioni di cui ho fatto cenno. (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Russo Perez, Nobile e Perrone Capano, iscritti a parlare, si trovano a Gstaad, col gruppo dei membri di questa Assemblea che si è recato a quel convegno, e sebbene non abbiano un congedo regolare, possiamo considerare che si trovino assenti per una funzione che interessa direttamente anche l’Assemblea.

Non essendo presenti gli onorevoli De Michelis, Vinciguerra, Piccioni, Fuschini e Fusco, si intende che abbiano rinunziato a parlare.

È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. Onorevoli colleghi, io dirò poche parole soltanto su un argomento, che credo possa interessare molto l’Assemblea e soprattutto alcuni membri di essa. Parlerò brevemente del progettato metodo di formazione del futuro Senato.

Comincio con raffermare una mia opinione: il terzo dei componenti del futuro Senato non dovrebbe essere eletto, come è previsto nel progetto di Costituzione, dai membri dei Consigli regionali. A me pare gravissimo errore dire ai membri dei Consigli regionali la facoltà di eleggere un terzo dei senatori. È un errore perché l’elezione di questo terzo dei membri della seconda Camera, che nel loro complesso pare dovrebbero assommare a 311 o 315, affidata ai Consigli regionali, darebbe adito alla possibilità che una maggioranza, formatasi occasionalmente in seno ad essi, possa eleggere coloro i quali meglio potrebbero essere scelti direttamente dalla massa elettorale.

Insomma, noi avremmo questa situazione di fatto: che cioè i Consigli regionali, con una maggioranza di due, tre o quattro membri, eleggerebbero il terzo dei componenti del futuro Senato. Insomma, ad esempio, in una assemblea regionale come la siciliana – non voglio fare riferimento a nessuna situazione politica, ma solo ad una situazione di fatto – nell’assemblea regionale siciliana in cui c’è una maggioranza di 46-47 membri contro, non so, 38, 39 membri dall’altra parte, questi 46 o 47 membri soltanto eleggerebbero un determinato numero di senatori.

A me pare, onorevoli colleghi, che questo punto del progetto di Costituzione vada senz’altro modificato. Facciamo in modo che anche i membri della seconda Camera possano essere eletti a suffragio universale direttamente dagli elettori. Credo che si avrebbe un risultato migliore: si avrebbe cioè una seconda Camera espressione diretta della volontà popolare.

Ho finito per questa parte e passo a quella che si può considerare la parte più delicata, riguardante la composizione del futuro Senato.

Secondo il progetto, noi avremmo dunque un terzo di senatori eletti dai Consigli regionali, due terzi eletti dalla massa elettorale. Ora, a me pare che sia un gravissimo errore non costituire nella futura Camera alta, nel futuro Senato, un nucleo iniziale di senatori i quali possano davvero considerarsi come l’ossatura del Senato stesso.

Noi sappiamo – lo sentiamo già attraverso i discorsi che si fanno fra colleghi – che un po’ tutti considerano necessario porre la propria candidatura alla Camera dei deputati, un po’ tutti escludono la possibilità di porre la loro candidatura al Senato.

Quindi noi avremmo già questa specie di assurdo: che i candidati al Senato sarebbero coloro che, comunque, non avessero potuto essere eletti deputati. Avremmo insomma una massa nuova la quale non so come si regolerebbe inizialmente di fronte ai problemi importanti dei quali sarà investito il futuro Senato.

Insomma, noi non dobbiamo dimenticare che il Senato, così come è contemplato nel Progetto di Costituzione, avrebbe le stesse prerogative della Camera dei deputati, su per giù le stesse, se non superiori. Comunque, il Senato avrebbe le stesse alte funzioni della Camera in alcuni momenti gravi per la Nazione; come nel momento dell’elezione del Capo dello Stato.

Mi sembra, pertanto, giusto creare un nucleo iniziale di senatori con uomini democratici, con uomini degnissimi, che abbiano portato il loro contributo di intelligenza, di onore e di devozione alla Patria.

Quali dunque dovrebbero essere gli uomini i quali dovrebbero formare, secondo la mia modesta opinione, il nucleo iniziale del Senato? Gli ex deputati, gli ex membri del Parlamento che abbiano almeno un determinato numero di legislature.

Voi sapete benissimo (basta scorrere l’elenco alfabetico dei deputati, là dove si parla dell’anzianità dei deputati dell’Assemblea Costituente) che di deputati con cinque legislature ve ne sono appena otto e di deputati con quattro legislature ve ne sono appena 19. Perché, onorevoli colleghi, noi vogliamo escludere questi uomini che hanno dato per lungo tempo il loro contributo alle fortune della Patria dalla vita politica attiva?

Perché qui sorge un problema di indole concreta. Tutti sappiamo che le future elezioni saranno durissime. Si parla di circoscrizioni ristrette, ma sotto altri punti di vista ci si accorge che le circocoscrizioni sono allargate. Come si può pretendere, insomma, che uomini che hanno superato i 70 anni, che hanno dedicato la loro vita alla politica, che hanno onoratamente seduto su questi banchi per quattro o cinque legislature debbano fare una dura campagna elettorale, debbano girare così come può girare un giovane di 30-40 anni o un uomo di 50-60? Il problema bisogna guardarlo non solo da un punto di vista giuridico, ma anche da un punto di vista concreto e pratico. Insomma questi uomini dovrebbero deliberatamente ritirarsi dalla vita politica quando possono invece portare alla vita politica rinnovata del nostro Paese il loro contributo e la loro competenza. Fermiamoci su questo punto, onorevoli colleghi, ed io penso che non cascherà il mondo, che non si lamenteranno, ad esempio, gli amici socialisti, se in questa Assemblea passerà un emendamento il quale stabilisca che coloro che hanno quattro o cinque legislature possono essere nominati di diritto senatori con decreto del Capo dello Stato, salvo che, pur avendo quattro o cinque legislature, preferiscano fare ancora i giovanissimi o allontanarsi dalla politica attiva; in modo che, ad esempio, se c’è un deputato il quale ha già quattro o cinque legislature ed è ancora giovane di animo ed è nominato di diritto senatore, possa, se lo voglia, presentarsi candidato alla prima Camera. Per essere nominati senatori di diritto basterebbe avere un’anzianità parlamentare di quattro o cinque legislature; però è naturale che la nomina sarebbe subordinata all’accettazione dai prescelti.

A me pare che non si potrebbero lamentare di una simile regolamentazione, ad esempio, i colleghi socialisti se si pensa che su 19 membri di questa Camera che si trovano con quattro legislature, vi sono 5 socialisti. Ai fini statistici è interessante sapere che, su otto membri di questa Camera che si trovano con cinque legislature, vi sono tre socialisti, un comunista, un liberale, due demo-laburisti ed un socialista indipendente, Labriola. Come vedete, non si urterebbe la suscettibilità di nessuno e poi non è qui il caso di fare questioni di partito o questioni politiche.

Si tratta di affermare un principio generale, un doveroso riconoscimento per coloro che hanno servito devotamente, fedelmente e democraticamente il Paese.

Quindi io penso che si possa votare un simile emendamento. Così si eviterebbe di avere un Senato – perdonatemi l’espressione un po’ dura – raffazzonato; si avrebbe una seconda Camera con uomini che con la loro esperienza e competenza potrebbero insegnare molte cose ai nuovi arrivati pure degni; potrebbero insegnare molte cose a coloro che per la prima volta comincerebbero a servire in alto luogo il loro Paese. Io penso che così noi potremmo finalmente dare un riconoscimento a coloro che hanno sempre servito democraticamente il Paese; e non faremmo una cosa eccezionale. Oserei dire che compiremmo un dovere di riconoscimento verso gli anziani che ci sono stati maestri di vita, maestri di democrazia, maestri di onestà politica. In questo senso concludo le mie modeste parole e presenterò a parte un emendamento in relazione a quanto ho detto. (Applausi).

PRESIDENTE. È forse opportuno sospendere a questo punto la discussione, ad evitare troppe decadenze di iscrizioni per l’assenza di tanti colleghi. Io penso che nella giornata odierna abbiamo dato l’abbrivio alla ripresa dei lavori. A cominciare da domani, con regolarità normale, chiamerò a parlare gli iscritti e non arretrerò dinanzi alla triste prospettiva che molti di essi, per assenza, non parlino.

Una osservazione: dagli interventi di quest’oggi mi è parso di constatare che ogni oratore parla in genere su questioni definite che dànno sostanza a determinati articoli del testo del progetto. Da questo punto di vista molti dei colleghi iscritti a parlare nella discussione generale potrebbero forse più opportunamente intervenire in sede di emendamenti. Ciò darebbe al nostro lavoro un ritmo più rapido, evitandosi così che il necessario rigore da applicarsi in sede di discussione generale tolga a troppi la possibilità di esprimere il loro avviso.

Rinvio, comunque, il seguito della discussione alla seduta pomeridiana di domani.

Per la discussione di una mozione e di un’interpellanza.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Permetta l’Assemblea che io faccia una dichiarazione a proposito della mozione Nenni ed altri. Il Governo non ha nessuna difficoltà ad affrontare il dibattito sui problemi economico-finanziari. Crede però più conveniente e più utile che sia presente anche il Vicepresidente, Ministro del bilancio, onorevole Einaudi, il quale è stato inviato in missione ufficiale a Londra.

Passeranno probabilmente otto giorni circa, prima del suo ritorno. Credo che l’Assemblea consenta che sarebbe conveniente e più utile che il dibattito su questi problemi avvenisse in presenza sua; senza aggiungere che disgraziatamente, proprio oggi, è stato portato in clinica il Ministro dell’industria, che è Presidente del Comitato prezzi.

Non so se il proponente acceda a questo mio suggerimento.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Per quanto io sia deferente al desiderio espresso dall’onorevole Presidente del Consiglio, che il dibattito, da noi desiderato, avvenga con la presenza del Vicepresidente del Consiglio, il quale certamente ha una parte notevole di responsabilità nella politica che il Governo segue attualmente, pure desidererei che sin da ora si fissasse la data per l’inizio della discussione sulla mozione di sfiducia.

Mi sembra che si possa conciliare il legittimo desiderio dell’onorevole Presidente del Consiglio di avere a suo fianco l’onorevole Vicepresidente del Consiglio, e mi auguro anche l’onorevole Ministro dell’industria, col desiderio, altrettanto legittimo, che la discussione non sia troppo ritardata.

Ritengo che esistono nel Paese sufficienti motivi di allarme, perché l’Assemblea affronti il tema da noi proposto.

In queste condizioni, se l’onorevole Presidente del Consiglio è d’accordo, potremmo fin da ora fissare per mercoledì o giovedì prossimo l’inizio della discussione.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quando è partito l’onorevole Einaudi, insieme all’onorevole Presidente della Commissione di finanze e tesoro, era previsto, fra l’andare e il venire, un periodo di dieci giorni. Ora, mercoledì evidentemente sarebbe troppo vicino; bisognerebbe fissare giovedì o venerdì.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Accettiamo giovedì.

PRESIDENTE. Hanno ancora diritto di parlare su questo argomento due deputati. Invito gli onorevoli colleghi a rinunciare ad esprimere con confusi mormorii la loro opinione, ed a chiedere invece la parola per fare eventuali proposte o controproposte.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Propongo lunedì, 22.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il giorno 22 è certissimo, perché è la fine dei lavori della Banca Internazionale.

CAPUA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPUA. Dato che la discussione sulla mozione è subordinata al ritorno dell’onorevole Einaudi, propongo di stabilire la data di 48 ore dopo il ritorno dell’onorevole Einaudi.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Modificherei la mia proposta nel senso che la discussione della mozione sia fissata per il giorno 23.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, vi sono, dunque, tre proposte, naturalmente se l’onorevole Capua conserva la sua.

C’è la proposta del Presidente del Consiglio, accettata dall’onorevole Nenni, di fissare la discussione per giovedì 18.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No. Io ritiro la mia proposta ed accetto la proposta dell’onorevole Cevolotto. (Commenti). Se vogliamo sul serio fare una discussione che non abbia semplicemente lo scopo politico (beninteso, lo scopo politico, è evidente, è un diritto dell’Assemblea), ma sia anche un dibattito che oltre alle critiche contenga suggerimenti utili e costruttivi, è necessario che vi sia presente il responsabile del Ministero del bilancio. Io, per parte mia, farò tutto per affrettare la sua venuta, ma non posso mettere evidentemente un consesso internazionale di fronte ad una data così prossima.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Se per giovedì 18 il Vice-presidente del Consiglio non fosse presente, noi non grideremmo allo scandalo ove ci si chiedesse un breve rinvio.

PRESIDENTE. Prego coloro i quali hanno formulato proposte, di fissarle in termini definitivi. Più nessun altro ha diritto di prendere la parola. Poi passeremo al voto delle singole proposte concrete, a meno che non si giunga ad una proposta unificata.

La sua proposta, onorevole Nenni, è un po’ elastica: essa fissa il giorno 18, a meno che il Ministro del bilancio non sia presente. In questo caso la data del 18 non sarebbe più valida. Mi pare quindi che la sua proposta venga quasi a coincidere con quella dell’onorevole Capua che parte dalla premessa della presenza del Ministro del bilancio dandogli un termine congruo perché possa prepararsi alla discussione.

FUSCHINI. Chiedo di parlare per proporre un emendamento alla proposta dell’onorevole Cevolotto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Io faccio un emendamento alla proposta dell’onorevole Cevolotto, in questo senso: vorrei fare osservare che il 22 è lunedì per cui sarebbe opportuno portare la data al 23 (Approvazioni), e si potrebbe iniziare in tal modo la discussione con la sicurezza di poterla finire. L’onorevole Nenni può essere soddisfatto egualmente di questa data, perché essa mi pare sufficientemente vicina ai suoi desideri.

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, l’onorevole Cevolotto ha già proposto di stabilire la data del 23.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. L’onorevole Nenni potrebbe essere soddisfatto della data del 23, ma non capisce perché non ci si debba attenere alla data del 18 indicata dal Presidente del Consiglio.

FUSCHINI. Per non avere interruzioni nella discussione.

NENNI. Comunque la questione non è di sapere se arriveremo alla discussione tre giorni prima o tre giorni dopo; direi che tutto si riduce all’apprezzamento della situazione attuale del Paese. Se ci sono colleghi che in buona fede credono che la situazione economica, sociale e politica attuale si riduca tutta al fatto che ci sarebbero in Italia un certo numero di agitatori e di sobillatori (Commenti al centro), allora si può benissimo rinviare la discussione anche di due o tre mesi.

Se invece si è convinti, come noi siamo convinti, che la situazione attuale deriva da elementi obiettivi, aggravati da una politica sbagliata, allora si potrà affrettare al massimo la discussione.

Ciò detto, mi rimetto all’opinione del Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Devo una spiegazione. Avevo detto prima otto o dieci giorni; poi il Ministro del tesoro mi ha fatto osservare che le sedute della Banca Internazionale finiscono il 22. Allora, mi sono affrettato ad associarmi alla proposta del 23.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta che la mozione presentata dall’onorevole Nenni e altri colleghi sia posta all’ordine del giorno della seduta pomeridiana del giorno 23 di questo mese.

(È approvata).

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Per quale motivo, onorevole Togliatti?

TOGLIATTI. Per questa ragione: prima della chiusura dei lavori parlamentari avevo presentato una interpellanza di urgenza al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’interno, relativa a determinate questioni della politica interna del Governo, particolarmente alla difesa della libertà di propaganda e delle libertà democratiche in genere. Dato che la mozione dell’onorevole Nenni investe non soltanto la politica economica, ma un po’ tutta la politica generale del Governo, io vorrei riservarmi, se l’onorevole Presidente del Consiglio non ha nulla in contrario, di trasformare la mia interpellanza di urgenza in mozione e discuterla insieme alla mozione dell’onorevole Nenni.

Vorrei sapere se l’onorevole Presidente del Consiglio ha qualche cosa contro questo mio desiderio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ho da fare che una obiezione di carattere estetico, perché problemi di tale natura, cioè di politica interna, di polizia, ecc., sono meno atti a far trovare la soluzione dei problemi economici. Per il resto sono d’accordo e non ho nulla in contrario.

PRESIDENTE. La mozione dell’onorevole Nenni suona: «La politica generale del Governo ed in particolare quella economica e finanziaria». Comunque, poiché mi pare che l’onorevole De Gasperi non abbia invocato argomenti politici o di procedura, ma argomenti estetici e formali, credo che la richiesta dell’onorevole Togliatti possa essere accolta.

TOGLIATTI. Allora, mi riservo di trasformare la mia interpellanza in mozione.

Risposta ad una interrogazione.

FARALLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FARALLI. Poiché è presente il Ministro della marina mercantile vorrei domandargli se a quella interrogazione che ho presentata unitamente ai colleghi Barbareschi e Pertini a proposito del dirottamento del piroscafo Conte Biancamano, data la natura particolare di questa interrogazione, può rispondere domani.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Sono disposto a rispondere anche subito.

PRESIDENTE. Penso che sia opportuno procedere allo svolgimento dell’interrogazione. Abbrevieremo così il tempo da dedicare alle interrogazioni nelle prossime sedute.

L’interrogazione è del seguente tenore:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali inoppugnabili ragioni hanno consigliato il dirottamento verso altro porto del piroscafo Conte Biancamano appartenente di fatto e di diritto al compartimento di Genova, dove avrebbe dovuto arrivare fin dal giorno 30 agosto».

L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Come è noto anche agli onorevoli interroganti, i piroscafi Conte Grande e Conte Biancamano, dopo le vicende della guerra, sono stati restituiti dal Governo degli Stati Uniti d’America a quello italiano con determinate condizioni circa il servizio loro fino al 31 dicembre 1948.

Il Conte Grande, appartenendo in origine alla Società Italiana di Genova, è stato avviato al porto di Genova dove già si trova da parecchie settimane.

Il Conte Biancamano, pur essendo iscritto alle matricole del Compartimento marittimo di Genova, perché in origine di pertinenza della società «Lloyd Sabaudo», aveva la sua sede naturale a Trieste essendo passato in proprietà del «Lloyd Triestino» di Trieste.

Entrambi i piroscafi, che durante la guerra furono adibiti dagli americani come trasporti militari, hanno ora bisogno di ingenti lavori di ripristino per i quali occorre predisporre il relativo finanziamento di rilevante entità da parte dello Stato.

Le previsioni si aggirano sui tre miliardi di lire per ciascuno. Una volta che siano stati decisi in senso affermativo tali lavori, sarà necessario indire una gara fra i vari cantieri nazionali per determinare la migliore offerta sotto il punto di vista tecnico e finanziario. Intanto, mentre il Biancamano era ancora in viaggio di ritorno in Italia, sono sorte contestazioni fra Genova e Trieste circa la definitiva destinazione della nave. Da parte di Genova la contestazione è stata promossa soltanto dai marittimi iscritti al turno particolare di Genova del «Lloyd Triestino», che si sono messi in agitazione perché, da lungo tempo disoccupati, speravano con l’arrivo del Conte Biancamano in Genova di poter usufruire di un turno di imbarco.

A tale riguardo è da tenere presente che, perché la nave possa riprendere il servizio di linea e quindi imbarcare un equipaggio completo, cioè tale da alleviare l’attuale crisi di disoccupazione di quei marittimi genovesi del «Lloyd Triestino», dovrà forzatamente passare un lungo periodo. È da premettere ancora che sopra una nave in lavori di riparazioni viene di regola imbarcato un piccolo numero di marittimi che non partecipa ai lavori stessi, che sono di esclusiva competenza degli operai dei cantieri, ma effettua le cosiddette «comandate» per sorveglianza interna, pulizia, difesa antincendi. Quindi passando il Conte Biancamano in lavori di ripristino quando saranno finanziati e decisi, solamente poche decine di marittimi potrebbero trovare in tal modo occupazione. Ma va tenuto conto che nel frattempo, in attesa di ogni decisione, la nave dovrebbe mettersi in disarmo, restando a bordo soltanto il nucleo essenziale per la custodia e la sicurezza della nave. E pertanto il numero dei marittimi del «Lloyd Triestino» dimoranti a Genova, che potrebbe avvicendarsi, sarebbe pur sempre minimo e tale, comunque, da non influire effettivamente sulla attuale dolorosa loro disoccupazione.

D’altra parte, invece, onorevoli colleghi, nel settore di Trieste le maestranze di quei cantieri e quei marittimi, che contano larghe masse di disoccupati, considerando che sono stati affidati a Genova i lavori di grandi unità appartenenti a Trieste – come il Vulcania e il Gerusalemme – e che a Genova si trova il Conte Grande, hanno reclamato perché il Conte Biancamano sia inviato a Trieste.

In vista di tali contrastanti richieste, il Ministero della Marina mercantile, tenendo presente soprattutto che nulla è stato ancora deciso per i lavori di ripristino delle due navi, onde lasciare impregiudicata la questione, ha ritenuto di ordinare che il Conte Biancamano facesse scalo a Messina e lì si mettesse in disarmo in attesa delle definitive decisioni circa il cantiere che assumerà i lavori di ripristino. E ciò tenuto anche presente che recenti esperienze ammoniscono che, una volta che una nave approdi in un porto per riparazioni e che tale porto disponga di cantieri capaci di effettuarle, è molto difficile inviarla altrove, date le proteste e le agitazioni delle maestranze locali.

I marittimi di Genova del «Lloyd Triestino», insistendo nella loro richiesta che il Conte Biancamano sia inviato a Genova, hanno proposto che in sostituzione del Conte Biancamano venga da Genova inviato a Trieste il Conte Grande. La proposta non può essere presa in considerazione perché, per dare occupazione a poche decine di persone, in sostituzione di altre della medesima società, si dovrebbe, in modo antieconomico ed illogico, disporre lo spostamento di due grandi navi dalle loro sedi naturali.

Concludendo, l’agitazione dei marittimi del «Lloyd Triestino» dei turni di Genova, non ha consistenza materiale, per la limitatissima entità dello spostamento della disoccupazione e della occupazione che il reclamato invio a Genova del Conte Biancamano potrebbe produrre.

Per quanto riguarda personalmente me, considerino gli onorevoli colleghi interroganti, che io debbo astrarre, come Ministro della marina mercantile, dalla mia qualità di ligure e non posso lasciarmi influenzare da pressioni locali che provengono dalla Regione che tanto mi è cara.

D’altra parte, mai come in questo momento potrei prescindere dal considerare la situazione dei lavoratori del settore di Trieste, togliendo ad essi la speranza che, in una gara per i lavori del Conte Biancamano, possano questi venire affidati agli impianti della loro Regione.

Sono, del resto, confortato dall’adesione al mio punto di vista della Confederazione Generale del Lavoro, la quale, comunicando un telegramma della Camera del lavoro di Trieste per l’assegnazione a quel settore del Conte Biancamano, mi ha pregato di tenere in tutta considerazione le aspirazioni dei lavoratori triestini.

PRESIDENTE. L’onorevole Faralli ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

FARALLI. Le spiegazioni che ha date l’onorevole Ministro della marina mercantile, se possono apparentemente essere soddisfacenti, nella loro realtà non lo sono. Non lo sono per due ragioni: prima di tutto – me lo permetta l’onorevole Ministro – si erra quando si afferma che il Conte Biancamano appartiene al Compartimento di Tieste, perché il Conte Biancamano è stato passato al compartimento di Genova nel gennaio 1937, quindi il Conte Biancamano – di fatto e di diritto – appartiene al Compartimento di Genova.

Ora, è anche da rilevare che la Società «Lloyd Triestino» – che fa parte del gruppo Finmare, e quindi dovrebbe essere di interesse generale e collettivo, interesse cioè di tutta la Nazione potenziare, come le altre società che sono state potenziate nei modi che lo Stato ha potuto – il «Lloyd Triestino» che ha sede a Genova, non ha avuto nessuna nave; mentre alla sede di Trieste sono state trasferite tutte le navi finora affidate al «Lloyd» stesso, sia per i lavori che per l’armamento, dal che deriva che la sede di Genova del «Lloyd Triestino» ha una larga aliquota di disoccupati che non ha potuto in alcun modo sistemare presso nessuna nave.

Ma il Ministro della marina mercantile ci avverte che il Conte Biancamano deve trovare il suo naturale posto di adattamento a Trieste; ora noi possiamo replicargli che, secondo la legge, il suo posto naturale è Genova e non Trieste, perché se è vero che i lavoratori triestini hanno pur diritto alla nostra considerazione – voi comprendete bene che io non sono qui né per difendere in particolare i diritti dei lavoratori triestini né in particolare i diritti dei lavoratori di Genova, ma sono qui per difendere unicamente gli interessi di tutta la comunità italiana e quindi di tutti i lavoratori – noi dobbiamo però obbiettivamente considerare che tutte le navi assegnate fino a questo momento al Lloyd Triestino sono state sempre dirottate, sono sempre state riparate e armate a Trieste, il che significa, per i colleghi che non hanno conoscenza di tal genere di cose… (Commenti)

Voci. Lo sappiamo.

FARALLI. …significa provvederle di tutto il necessario in fatto di rifornimenti e di equipaggio.

Ora, l’unico piroscafo del «Lloyd Triestino» che era stato destinato a Genova, si vede, invece, all’ultimo momento, in seguito ad una decisione non del Governo, ma ad una decisione del direttore generale, che è uno dei tanti fratelli Cosulich che tutti conosciamo – mentre il comandante del piroscafo aveva già telefonato al dipartimento di Genova di preparare anche i mezzi necessari per pagare l’equipaggio – all’altezza di una isola che si trova non molto a nord della Sicilia, si vede invece, dicevo, in seguito a una decisione del capitano Cosulich, dirottato per Trieste.

L’equipaggio si ribellò, non già per senso di insubordinazione, ma perché era già stato stabilito che la nave dovesse far rotta per Genova. Attualmente la nave si trova in disarmo a Messina. Ora io faccio presente all’onorevole Ministro della marina mercantile che le ragioni di lavoro da lui addotte non possono sussistere quando gli stessi lavoratori di Genova e gli stessi impiegati del «Lloyd Triestino» dicono che, al posto del Conte Biancamano, potrebbe essere trasferito a Trieste il Conte Grande.

È ben vero che il Ministro afferma esser difficili ad effettuarsi tali spostamenti; ma vi è un’altra considerazione cui l’onorevole Ministro non ha fatto cenno e che mi sembra non poco grave anche dal punto di vista politico, ed è che a Trieste si sta costituendo una società di navigazione internazionale per iniziativa del direttore generale del «Lloyd Triestino», capitano Cosulich. Questa società internazionale dovrebbe sostituire l’organizzazione del «Lloyd Triestino» e quindi accaparrarsi le navi che ad esso appartengono.

Ora, tutte le quattordici navi del «Lloyd Triestino» sono oggi a Trieste; il solo transatlantico Conte Biancamano non è a Trieste. Il Conte Biancamano avrebbe dovuto andare a Genova. Ebbene, se noi permettiamo che anche il Conte Biancamano sia dirottato alla volta di Trieste, noi commettiamo due ingiustizie. La prima ingiustizia è quella di trascurare completamente il compartimento di Genova; la seconda ingiustizia, che domani potrebbe nuocere non poco all’Italia, è quello di far sì che la società internazionale, che si sta costituendo a Trieste per iniziativa del capitano Cosulich e che dovrà assorbire il «Lloyd Triestino», potrà domani, attraverso una delle tante interferenze di carattere internazionale, rimanere a Trieste a disposizione della nuova compagnia; se invece noi a Trieste trasferiamo il Conte Grande che appartiene ad una società completamente italiana, con sede a Genova, qualunque possano essere gli eventi di questa costituenda società internazionale, il Conte Grande dovrebbe egualmente essere restituito.

Questa è una ragione politica che l’Assemblea, onorevoli colleghi, non può trascurare, e di cui non può non tener conto. Ed è per questo che rinnovo, a nome dei colleghi interroganti, la preghiera all’onorevole Ministro di voler considerare la situazione non soltanto dal punto di vista sotto il quale egli l’ha considerata, ma da un punto di vista più generale, tenendo conto delle esigenze del personale del «Lloyd Triestino»; tenendo conto delle esigenze che ha il porto di Genova anche nei riflessi, onorevoli colleghi, del movimento passeggeri per l’America. Oggi questo movimento in gran parte è fatto con navi che hanno altre bandiere che non la bandiera italiana, anche se gli armatori sono italiani. Non entro nel merito; in altra occasione l’argomento verrà esaminato a fondo. Ma, se noi abbiamo sottomano ora un transatlantico, che è una delle nostre migliori navi, un transatlantico che, riparato opportunamente – e bisogna ripararlo, bisogna che il Governo faccia questo sacrificio, altrimenti noi andiamo soltanto ad arricchire quei famosi armatori liberi che sotto l’usbergo delle bandiere americane delle repubbliche del Sud, stanno trasferendo tutto il nostro lavoro di trasporti con le Americhe sotto altre bandiere che non sono la bandiera italiana – sarà un bene strumentale di grande valore pratico e morale; perché fargli correre dei rischi, fargli correre dei pericoli? Il Conte Biancamano, trasferito a Genova – sua sede naturale – può rappresentare un elemento di ravvivamento dei nostri rapporti con le Americhe; ma soprattutto il Conte Biancamano, tenuto a Genova, ci dà l’assicurazione che nessuna compagnia internazionale, qualunque siano gli interferimenti dei Governi stranieri, potrà sottrarlo alla marineria italiana, che in questo momento, onorevole Ministro, è marineria della collettività italiana, in quanto la «Finmare» non è uno strumento privato ma è un bene strumentale della collettività italiana: e noi abbiamo il dovere di difenderla, non soltanto da questo banco come socialisti, ma abbiamo il dovere di difenderla soprattutto come italiani. (Applausi a sinistra).

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Mi sembra che l’onorevole interrogante stia battendosi contro i mulini a vento.

FARALLI. Tutt’altro!

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Assicuro l’onorevole Faralli, che la situazione è stata esaminata dal Ministero della marina mercantile non sotto un ristretto punto di vista, ma da un punto di vista generale, come egli ha invocato. D’accordo con lui, non ho negato che il Conte Biancamano appartenga al Compartimento marittimo di Genova; anzi, ho detto che è iscritto a detto Compartimento, perché originariamente era del «Lloyd Sabaudo», e quando fu costituita la «Finmare», il Conte Biancamano è stato attribuito al «Lloyd Triestino» di Trieste mentre il Conte Grande è rimasto alla Società «Italia» di Genova.

Non è nemmeno esatto – e questo desidero che sia affermato e rilevato – che l’equipaggio si sia ribellato.

FARALLI. Non si è ribellato…

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Lo ha detto lei! Ma io nego che l’equipaggio del Conte Biancamano si sia ribellato ai suoi superiori. (Interruzioni a sinistra).

FARALLI. Non l’ho detto; ho chiarito il significato. (Interruzioni dell’onorevole Malagugini).

PRESIDENTE. Onorevole Malagugini, lasci che parli l’onorevole Faralli.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Ha affermato l’onorevole Faralli che una compagnia di navigazione di carattere internazionale si starebbe costituendo a Trieste, per accaparrare le navi del «Lloyd Triestino». Un riserbo naturale e doveroso mi impedisce qui di precisare quale potrà essere la condizione della nostra marina e dei nostri marittimi dello Stato libero di Trieste, e quali saranno per essere le nostre decisioni nell’interesse della marina mercantile nazionale. Posso da questo punto di vista tranquillare, sotto la mia responsabilità, l’Assemblea Costituente.

Del resto, replicando in tema del preteso pericolo che l’onorevole Faralli ha richiamato all’attenzione dell’Assemblea, che cioè, andando a Trieste, il Conte Biancamano possa essere accaparrato da questa ipotetica e fantomatica compagnia di navigazione internazionale, osserverò semplicemente che io non l’ho mandato a Trieste e non lo manderò a Trieste finché non sia chiarita la situazione eventuale. Io l’ho fermato a Messina e l’ho messo in disarmo a Messina.

FARALLI. L’ha fermato il capitano Cosulich a Messina e non il Governo!

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Ripeto che sono stato io a mandarlo a Messina; e che è stato ivi fermato per ordine del Ministero della marina mercantile! E l’ho fermato a Messina anche in considerazione di non pregiudicare in nessun modo la risoluzione del contrasto che è sorto fra i marittimi di Genova e gli operai del settore triestino.

Faccio in proposito presente che oltre ai Cantieri di Trieste esistono in quel settore anche i Cantieri di Monfalcone, che restano compresi nella zona italiana al di qua dei confini stabiliti dal Trattato.

Mi sembra ingiusto e devo rettificare quello che ha affermato l’onorevole Faralli a carico di armatori liberi italiani. Egli ha affermato che gli armatori liberi – o una parte di questi – stanno trasferendo il nostro naviglio sotto bandiera estera. È questa una accusa veramente ingiusta che l’onorevole Faralli, il quale vive a Genova, non avrebbe dovuto portare dinanzi a questa Assemblea.

Io affermo che gli armatori liberi italiani stanno facendo uno sforzo magnifico, tenace, generoso per ricostruire la nostra marina mercantile. Essi hanno diritto al rispetto di tutti, anche di coloro che politicamente possono essere loro avversari.

La verità è che oggi non abbiamo navi di linea sufficienti per il trasporto dei passeggeri e quindi dobbiamo utilizzare tutte le navi che possono essere a nostra disposizione. Vi sono navi straniere che effettuano il trasporto passeggeri dal Sud-America, ma tutte quelle navi che è stato possibile utilizzare sono state rapidamente restituite in efficienza, ed altre stanno restituendosi in efficienza per lo sforzo di questi armatori e dei nostri cantieri grandi e piccoli. Naturalmente, vi sono anche navi estere che eseguono questo traffico, come del resto facevano in passato. Io dico all’onorevole Faralli e vorrei dire ai marittimi che risiedono a Genova una parola di tranquillità e di calma. Il Governo non vuole usare ingiustizia a nessuno, e tanto meno personalmente io che sono ligure di nascita, di consuetudine e di affetti; ma in realtà è mio dovere, quando agisco come Ministro della marina mercantile, trattare la questione dal punto di vista degli interessi nazionali: e non posso pertanto obliterare quelle che sono le aspirazioni delle masse lavoratrici di Trieste e di Monfalcone, sulle quali la disoccupazione grava oggi certamente non meno che su quelle di Genova, come del resto l’invito della Confederazione generale del lavoro – rivolto a me – ne fa attestazione. (Applausi).

FARALLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Per quale ragione? L’interrogante può dire se è soddisfatto oppur no. Non c’è possibilità di aggiungere altro. Se mai lei ha sempre la possibilità di presentare nuove interrogazioni, o, informa più drastica, di presentare un’interpellanza al Governo.

Se lei chiede di parlare per chiarire parole o frasi da lei pronunciate, e che diedero luogo ad interpretazioni a suo giudizio non esatte nell’intervento del Ministro della marina mercantile, per questo scopo preciso posso darle ancora di parlare.

FARALLI. Io intendo chiarire di tutto quanto ho precisato, che cioè l’equipaggio si era ribellato all’ordine di trasferirsi a Trieste, ma non ho inteso dire che la ribellione voleva significare quello che normalmente questa parola significa, e cioè rivolta. Volevo dire che il Comandante ha telegrafato alla sede del «Lloyd Triestino» precisando che se il piroscafo non si fosse fermato a Messina e avesse dovuto proseguire per Trieste, l’equipaggio non lo avrebbe trasferito a Trieste. Ci sono telegrammi che lo confermano e l’onorevole Ministro della prima marina non lo può contestare.

D’altra parte io intendo precisare che la cosiddetta fantomatica «Società di navigazione internazionale» si sta costituendo a Trieste sotto gli auspici del capitano Cosulich, direttore generale del «Lloyd Triestino», il quale «Lloyd Triestino» è un bene italiano perché fa parte della «Finmare».

Ora, per quanto si riferisce alla mia affermazione, che molto lavoro di trasferimento da Genova all’America viene fatto sotto bandiera straniera, questo è un fatto e l’onorevole Ministro della marina non mi può contestare che armatori genovesi e non genovesi hanno comprato delle navi dando loro bandiera panamense. Ciò può rispondere ad un piano di opportunità nei confronti degli alleati; sarà fatto per ragioni fiscali; io non lo so: la realtà è questa e nessun Ministro della marina mercantile può contestarla o smentirla. (Commenti al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Faralli, la prego di concludere. Ho detto poco fa che se lei intendeva chiarire un equivoco sorto a proposito di una sua frase, le davo la parola. Ma non le posso concedere di rientrare nel merito.

FARALLI. Allora in sede di processo verbale completerò il mio pensiero.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Avverto che domani si terranno due sedute, alle 10 e alle 16.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se è nelle intenzioni del Governo emanare provvedimenti di legge per riparare il danno economico sofferto dagli impiegati statali, nonché da quelli degli Enti locali, dispensati dall’impiego per motivi politici durante il regime fascista e poscia riassunti in servizio. E ciò anche in considerazione che agli ex-fascisti prima epurati e poi riammessi negli impieghi, viene corrisposto l’intero trattamento economico per il periodo di tempo durante il quale sono stati assenti dal servizio.

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e degli affari esteri, sull’azione che si intende svolgere a protezione delle flottiglie pescherecce italiane, che vengono – secondo notizie raccolte dalla stampa – arbitrariamente sequestrate e rapinate da mezzi armati della marina jugoslava dentro il limite delle nostre acque territoriali ed in ispregio del diritto delle genti.

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere so non ritenga opportuno accogliere il voto formulato dall’Associazione inquilini dell’Istituto nazionale case economiche e popolari di Messina:

  1. a) perché sia revocato il disposto dell’articolo 2 del regio decreto-legge 21 agosto 1940, n. 1289, col quale venne annullato il beneficio già concesso ai messinesi disastrati dal terremoto del 1908 di acquistare a scomputo gli appartamenti ad essi assegnati;
  2. b) perché sia ammesso nel Consiglio di amministrazione un rappresentante della suddetta Associazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere i motivi per i quali le ferriere non hanno ancora consegnato al Genio civile ed all’Istituto delle case popolari di Messina il quantitativo di ferro tondino per cemento armato, già assegnato dal Ministero competente; e per conoscere altresì quali provvedimenti il Ministro intende disporre per impedire che la sospensione dei lavori, già in atto in molti cantieri per mancanza di ferro, si estenda a tutti i cantieri della città e della provincia con gravissimo danno della ricostruzione e della maestranza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Fiore».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le cause che ritardano la ricostruzione del tronco ferroviario Pergola-Fermignano della linea Fabriano-Urbino, e quali provvedimenti siano in corso o si intenda sollecitamente adottare per rimuoverle. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Molinelli, Ruggeri Luigi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga giusto e opportuno di prorogare il termine della presentazione delle domande per il concorso per titoli a posti di preside e direttore di istituti medi, termine che dovrebbe scadere il 10 ottobre prossimo.

«Sembra giusto che tale termine sia prorogato sino all’espletamento del concorso per soli titoli a cattedre di istituti medi, perché, per ovvii criteri di equità, possano parteciparvi anche coloro che, pur appartenendo al ruolo inferiore, sono stati presidi reggenti di istituti medi di secondo grado e che, per idoneità precedentemente conseguita, hanno partecipato all’accennato concorso testé bandito per soli titoli a cattedre di istituti medi di secondo grado.

«Questo per i seguenti motivi:

1°) perché il concorso per capo d’istituto non potrà essere espletato subito e, conseguentemente, i vincitori non potranno essere sistemati all’inizio del prossimo anno scolastico;

2°) perché si verrebbero a danneggiare coloro che essendo stati presidi reggenti, e non incaricati, in momenti difficili della vita nazionale, ed avendo sopportato non lievi sacrifici di ordine morale e materiale, si vedrebbero preclusa la possibilità attuale di partecipare al concorso per soli titoli a posti di capi di istituto, e la possibilità di essere in seguito sistemati, dato il numero rilevante di posti direttivi messi a concorso. (L’interrogante chiede la risposta Scritta).

«Schiavetti».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. Discussione dei seguenti disegni di legge:

Approvazione degli accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945. (18).

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MARTEDÌ 9 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXII.

SEDUTA DI MARTEDÌ 9 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Commemorazioni:

Presidente

Caronia

Pieri

Nasi

La Rocca

Mastrojanni

Bernamonti

Bonomelli

Bellavista

Persico

Bulloni

Cianca

Scelba, Ministro dell’interno

Congedi:

Presidente

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Fuschini

Scelba, Ministro dell’interno

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Lussu

La Rocca

Annunzio di una mozione:

Presidente

Scelba, Ministro dell’interno

Nenni

Mazza

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.10.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana del 30 luglio 1947.

(È approvato).

Commemorazioni.

PRESIDENTE. Ben due nomi, devo oggi, a triste inizio della, ripresa dei nostri lavori, pronunciare, poiché due colleghi nostri sono stati, per morte improvvisa, sottratti in uno e per sempre alla dolce intimità dei loro focolari ed al fervido pulsare della nostra vita nazionale.

Il 6 agosto si spegneva infatti a Roma, dopo una brevissima violenta infermità, il collega onorevole professore Diego D’Amico, Alto Commissario aggiunto per l’igiene e la sanità pubblica. Pervenuto all’esercizio della funzione parlamentare da una attività scientifica e professionale, che aveva dato già chiara fama al suo nome come valente studioso e pubblicista e come apprezzato docente universitario, egli rappresentava nella Costituente il collegio della Sicilia occidentale. Pieno di fervore appassionato per la medicina in genere e la scienza oculistica in particolare, aveva fatto del più valido ordinamento sanitario del Paese il tema di una assidua, perseverante indagine che per più di un venticinquennio diede fra l’altro frutto di numerosi scritti anche polemici, e di utili iniziative. La sua particolare formazione spirituale e morale lo aveva poi sospinto a ricerche più difficili e sottili in rami connessi oltre che alla medicina, e cioè ai fenomeni più direttamente legati alla vita materiale, anche ai più misteriosi processi della psicologia.

La stessa passione operosa l’onorevole D’Amico portò nell’Assemblea Costituente, facendosi fra l’altro promotore del Gruppo parlamentare medico, del quale era autorevole Segretario; e la imprevedibile immaturità della sua scomparsa (era nato nel 1895) rende più vivo il nostro compianto e più doloroso il lutto dell’Assemblea.

Non meno profondi il rammarico ed il cordoglio per la scomparsa del collega onorevole avvocato Aldo Caprani, anch’egli – appena quarantottenne – abbattuto con crudele repentinità dalla morte nella notte dell’11 agosto a Brescia. Dopo essere stato nella guerra 1915-18 soldato valoroso, sospinto poi dal maturare dei tempi e dal suo vivo sentimento di umana comprensione verso le classi diseredate, non poteva non essere e fu nobile combattente della libertà e della giustizia sociale. Per questo, nei tempi del trionfo pieno del regime obbrobrioso, egli conobbe i rigori polizieschi, l’esilio, l’internamento in terra straniera. La guerra di liberazione lo trovò fra le schiere della resistenza, nei primi gruppi partigiani del bresciano, tra i valorosi combattenti della 54a Brigata Garibaldi, Commissario interdivisionale di guerra.

Uomo dagli entusiasmi generosi ed oratore appassionante, anche per queste sue doti era stato prescelto dagli elettori di Brescia quale loro rappresentante nell’Assemblea Costituente. E questa si unisce oggi ad ogni altro che lo ebbe caro per compiangerne la scomparsa ed onorarne il ricordo. (Segni di generale consenso).

CARONIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARONIA. Onorevoli colleghi, a nome del Gruppo parlamentare della Democrazia Cristiana e del Gruppo parlamentare siciliano, dirò brevemente di Diego D’Amico, così immaturamente ed improvvisamente scomparso.

È assai triste per i più vecchi commemorare i più giovani, ed è specialmente penoso per me, che ebbi il D’Amico allievo, collega, collaboratore prezioso, amico fraterno.

Tutti noi ricordiamo Diego D’Amico, sempre presente in quest’Aula, sempre pronto ad intervenire in tutte le questioni di carattere sanitario, sempre giovialmente accogliente verso i colleghi, che a lui ricorrevano per consigli o per favori. E lo ricordiamo specialmente noi del Gruppo medico-parlamentare, che lo abbiamo avuto attivissimo segretario ed animatore.

Non dirò per brevità della sua promettente giovinezza. Egli, dopo avere compiuto brillantemente gli studi classici, si indirizzò verso la scienza medica, attrattovi dal suo amore per la ricerca scientifica e dal suo alto senso umanitario. Nel 1915 entrò come studente di medicina nell’Università di Palermo. Ma gravi eventi distolsero ben presto il D’Amico dagli studi. L’Italia entrava in guerra per la difesa delle idealità democratiche e per la riconquista dei suoi territori ancora in mano allo straniero. Il D’Amico accorse a dare l’opera sua, non nelle comode retrovie della sanità, ma tra i combattenti, volontario come ufficiale di fanteria. Fu ferito nel maggio del 1916 davanti a Gorizia e per il suo valore fu decorato della Croce di guerra al merito.         .

Compiuto questo suo primo dovere verso la Patria, il D’Amico riprese con ardore i suoi studi prediletti e nel 1920 conseguì brillantemente la laurea in medicina presso l’Università di Roma. Entrò immediatamente nella scuola del grande Maestro dell’oculistica Giuseppe Cirincione, che del giovane D’Amico aveva già apprezzato le doti non comuni. In quella vera fucina di studi, sotto la guida di tanto Maestro, il D’Amico ben presto ebbe a distinguersi e rapidamente da semplice assistente assurse nel 1925 al grado di aiuto, conseguendo nello stesso tempo la libera docenza per titoli ed il grande premio nazionale di oculistica. In quel periodo la sua produzione scientifica fu varia e notevole, facendo prevedere in lui uno dei futuri maestri dell’oculistica. Purtroppo in quel momento avvenne qualche cosa che doveva stroncare la carriera del giovane studioso e la vita del suo Maestro. Eravamo, come ricordate, in un triste periodo, eravamo nel periodo torbido del delitto Matteotti, quando il fascismo, buttata la maschera, procedeva inesorabilmente alla soppressione sistematica dei suoi avversari, non più materialmente, perché la prova Matteotti si era dimostrata pericolosa, ma moralmente; gli uomini d’intelletto furono l’obiettivo preferito.

L’Università, fino a quel momento, aveva resistito alla dittatura. Bisognava flettere la resistenza degli universitari. Un numero trascurabile di professori aveva piegato ai servizi della dittatura. Alla Minerva, alla dura ma per lo meno intelligente dittatura del Gentile, era subentrata la vile servitù del Fedele, che aveva chiesto l’onore di occupare nel fascismo il posto lasciato vacante dalla morte del povero Casalini. Imperava nel partito Farinacci, che dava gli ordini di colpire senza pietà gli universitari, e Fedele colpiva.

Tra i designati alla soppressione morale erano in prima linea il Cirincione e chi vi parla. L’ordine era di colpire a qualunque costo questi due professori che non piegavano. Ripeto, non potendo procedere alla soppressione materiale e nemmeno alla soppressione legale – perché vigeva ancora la legge sulla inamovibilità dei professori – si tentò di sopprimerci moralmente. Quindi denunzie, inchieste, sospensioni ed altro. Figuratevi che il Cirincione era accusato di essersi appropriato dei fondi della clinica, dei miseri fondi della clinica (allora la dotazione era di poche migliaia di lire!) per la quale egli aveva profuso non soltanto i tesori della sua intelligenza, ma anche quelli del suo ben fornito portafoglio.

Il sottoscritto era accusato anch’egli di peculato per aver permesso ai suoi assistenti di guardia di prender parte ai pasti nella clinica a loro spese!

Queste erano le accuse, che funzionari e giudici e ministri non ebbero vergogna di prendere in considerazione perché bisognava dimostrare che eravamo ladri, assassini, incapaci, per evitare la reazione del mondo culturale.

In questo triste frangente il giovane D’Amico restò vicino ai suoi Maestri. Mi permetto qui rivelare un episodio che ancora ci dirà quale fosse il cuore di questo giovane collega che ci è venuto oggi a mancare.

Egli, di spirito veramente antifascista, pensò di iscriversi al fascismo per cercare di conoscere i piani che si preparavano per colpire i suoi Maestri, per tentare di sventarli, per esplicare più efficace opera di difesa dei suoi Maestri. Tra le carte del povero D’Amico probabilmente si troverà una mia dichiarazione nella quale, venuto a conoscenza del suo gesto, scrivevo che il D’Amico, conservando il suo spirito nettamente ribelle alla dittatura, era ricorso alla finzione di inchinarsi alla dittatura per poter difendere i valori morali che si tentava offuscare.

Certamente l’opera generosa fino al sacrificio dovette essere di giovamento ai suoi calunniati Maestri, i quali riuscirono a dimostrare la loro integrità morale, la loro dirittura scientifica, e vinsero contro la forza bruta del fascismo. Ma vinsero soltanto moralmente, perché la dittatura non rinunziò alla sua preda. Fallito il tentativo di soppressione morale, la lotta assunse il suo vero carattere politico ed, in mio onore, venne abrogata la legge della inamovibilità dei professori, per cui chi vi parla fu colpito dal trasferimento e privato per lungo tempo della sua attività scientifica e morale con la distruzione di una fiorente scuola, ed il Cirincione, prima che dal trasferimento, venne colpito dalla morte, contro la quale non volle difendersi. Alla memoria del grande Maestro vada un riverente pensiero in quest’Aula, che Egli per molti anni onorò della sua presenza, in cui spesso risuonò la sua sapiente parola. (Approvazioni).

Dopo questo tristissimo episodio, il D’Amico, privato del suo Maestro, allontanato dalla sua scuola, espulso dal fascismo che non doveva tardare a scoprire la sua manovra, non si perdette di animo, e sostenuto dalla sua fede nel bene e dalla sua passione scientifica, lasciò Roma ed andò a prestare il suo servizio nell’Ospedale psichiatrico di Palermo. Qui intraprese altra opera. Il D’Amico, non era solamente un valoroso ricercatore, ed un provetto clinico, era anche un cultore di scienze sociali, economiche e storiche. Assunse in quel periodò la redazione della rivista Cultura medica moderna e dalle pagine di questa rivista condusse un’attiva campagna di indole sanitaria e sociale, che doveva preludere all’attività dell’ultimo recente periodo.

Quando avvenne il crollo del fascismo il D’Amico, che intanto era rientrato a Roma, uscì dall’ombra in campo aperto per mettersi a servizio del Paese.

Fu tra i primi ad accorrere nelle file della Democrazia cristiana e gli elettori di Sicilia, che ben conoscevano i suoi meriti, lo mandarono a questa Assemblea.

Della Sua attività in questa Assemblea io non vi dirò, perché tutti ne siete testimoni. Vi dirò soltanto che, come ha detto il nostro Presidente, Egli volle, fin dal primo giorno, che sorgesse un Gruppo medico parlamentare, Gruppo che ben presto con la cordiale adesione di tutti i colleghi, venne formato, diventando la vera espressione del corpo sanitario italiano in seno alla Costituente.

Del Gruppo, per unanime volontà dei suoi componenti, Egli divenne il segretario e fu il vero animatore. Una sola voglio citare delle iniziative del Gruppo sotto la spinta del D’Amico, quella del referendum presso tutta la classe medica italiana per preparare la riforma sanitaria, referendum che ha dato veramente risultati preziosi e che è la prima dimostrazione di quanto si possa fare con una stretta collaborazione fra il centro e la periferia. Un materiale preziosissimo, fatto di esperienza e di scienza, è stato in brevissimo tempo raccolto, materiale che riuscirà certamente di grande vantaggio per raggiungere quella sana organizzazione sanitaria che attende il nostro Paese. Per compiere in breve tempo questa impresa, per venire incontro ai bisogni della classe sanitaria, per meglio studiare le condizioni sanitarie del Paese, il D’Amico percorse in breve tempo quasi tutta l’Italia, senza risparmiarsi fatiche e sacrifici e certamente questa sua eccessiva attività non deve essere estranea al precipitare delle sue condizioni di salute, all’affrettare la sua fine, che possiamo considerare la morte sul campo.

Egli, da poco, per questa sua grande attività, per le prove di capacità e competenza, era stato chiamato all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità, dove, insieme al collega dottor Perrotti, aveva intrapreso un’opera assai proficua in servizio del Paese, e si cominciava già a sentire l’influenza benefica dell’opera sua, quando la triste Parca, che infierisce sui migliori, recideva il filo della sua vita.

Oggi la classe sanitaria italiana piange unanimemente la sua dipartita, perché vede scomparire dall’agone uno dei suoi più validi campioni, uno dei più valorosi militi della difesa sanitaria del Paese.

Ma la fiamma accesa dal D’Amico è ancora viva. I colleghi, pur sbigottiti ed affranti, raccolti intorno alla sua memoria, sono fermamente decisi a continuare e completare l’opera con lui iniziata facendo proprio il motto che un giovane artista scrisse un giorno sotto l’immagine marmorea del D’Amico: «L’uomo vale per quel che sa rendere all’umanità». Per quello che il D’Amico ha reso all’umanità il suo ricordo resterà imperituro fra di noi. (Applausi).

PIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIERI. Onorevoli colleghi! L’onorevole Diego D’Amico, che con calda e commossa eloquenza hanno commemorato il Presidente Terracini ed il professor Caronia, era Segretario del Gruppo medico parlamentare, che ha designato me a rievocarne il ricordo.

Diego D’Amico era l’anima del Gruppo medico parlamentare ed aveva la mentalità del costruttore: ne aveva l’originalità e l’entusiasmo, la sagacia e la tenacia. Sua fu l’idea, sua e del collega Giuseppe Alberti (che, eletto alla Costituente, poi si dimise) di riunire i medici in un Gruppo parlamentare, in modo che, spogliandosi di ogni spirito di parte, dessero il loro contributo alla soluzione del problema grave e indilazionabile della riforma sanitaria.

Diego D’Amico analizzò gli elementi di questo problema e li affidò per lo studio alle commissioni in cui aveva suddiviso il Gruppo medico parlamentare.

Egli percorse per un anno in lungo e largo tutta l’Italia, per poter portare la parola del Gruppo medico parlamentare tra i medici e rinunziò anche al suo riposo domenicale, per poter convocare i medici nei capoluoghi di provincia, sottoporre loro problemi della riforma sanitaria e spronarli a studiarli.

Nel marzo scorso, essendosi reso libero il posto di Alto Commissario aggiunto alla sanità, fu nominato Diego D’Amico. Mai scelta fu più indovinata. Egli era veramente, come dice una frase inglese, «l’uomo adatto nel posto adatto».

Appena insediato – e in ciò è la riprova del suo talento di organizzatore – egli creò una commissione di studio che sceverasse tutti gli elementi del referendum indetto tra i medici italiani, li coordinasse e ne estraesse la soluzione per i singoli problemi.

Il mese scorso il Pensiero Medico pubblicò la prima parte del referendum indetto fra i medici italiani. Il nostro Collega non poté vedere pubblicata la seconda parte, perché la sera del 6 agosto la morte lo ghermì e lo atterrò a tradimento.

Davanti alla sua Salma, composta nell’augusta maestà della morte, l’animo nostro si ribellava all’idea che fosse spenta quella fiamma d’intelligenza, quell’ansia inesausta di azione, quell’ardore di generosità.

Nessuno di noi si sente degno di raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di Diego D’Amico; ma tutti noi ci sentiamo impegnati a continuare ed a perfezionare l’opera sua. Ecco: il Corpus di principî, di direttive e d’azione è pronto e la prossima Assemblea Legislativa dovrà tradurlo in provvide leggi che porteranno l’Italia all’avanguardia delle conquiste igieniche e sanitarie.

Questa sarà la più efficace commemorazione che Diego D’Amico avrebbe potuto desiderare; sarà il monumento ideale che l’Assemblea Legislativa dedicherà alla memoria del collega così immaturamente scomparso. (Applausi).

NASI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NASI. A nome dei demolaburisti e quale rappresentante della circoscrizione occidentale della Sicilia, alla quale apparteneva Diego D’Amico, mi unisco alle parole commosse che sono state pronunciate alla memoria del Collega scomparso.

Ho visto Diego D’Amico sul suo letto di morte: conservava la stessa serenità che gli era consueta in tutti i momenti della sua vita privata e politica, di scienziato e di uomo, sicché il suo carattere gli faceva vedere molte miserie, anche politiche, con senso di obiettività e di serenità.

Ricordo i lunghi discorsi che egli mi faceva in tema di politica e in tema di costume politico; egli era veramente un uomo superiore. L’ho ammirato e l’ho amato; ora, in questo momento, rivolgo a lui un reverente saluto, al quale credo si associ unanime il sentimento della Camera, poiché egli fu, soprattutto, un amico di tutti. (Applausi).

LA ROCCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. A nome del Gruppo parlamentare comunista, mi associo al rimpianto e al cordoglio espresso per la perdita dell’onorevole D’Amico. Ricordo, qui, soprattutto, lo spirito che lo condusse nella lotta per la conquista delle libertà democratiche; l’amore che lo guidò nel consacrarsi alla causa di tutta l’umanità, per difenderla con la sua attività scientifica, dalle insidie e dalle percosse della sorte e del caso.

Credo che l’Assemblea Costituente onorerà in maniera degna la memoria di lui, cercando di tradurre in opere concrete lo spirito e l’amore del collega scomparso. (Applausi).

MASTROJANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. A nome del Gruppo parlamentare del Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque e mio particolare, mi associo alle nobili espressioni di esaltazione e di cordoglio che l’onorevole Presidente di questa Assemblea ha testé pronunziato per degnamente commemorare gli onorevoli colleghi D’Amico e Caprani, recentemente scomparsi.

Noi ricordiamo la loro vita breve, ma intensamente ed operosamente vissuta nel culto per la patria, nell’amore per la scienza, nel dovere per l’esercizio del mandato parlamentare. Ci inchiniamo reverenti per la loro scomparsa e conserviamo nel nostro cuore commosso il ricordo della loro vita illustre ed operosa. (Applausi).

BERNAMONTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERNAMONTI. A nome del Partito comunista, mi associo alle nobili parole del Presidente per la memoria del compagno e collega avvocato Aldo Caprani.

Egli, nato da una famiglia di piccoli proprietari, nella Val Camonica, nel 1899, non perseguì miraggio di maggiore ricchezza. La sua vita fu tutta improntata a disinteresse, a rinuncia, a modestia. Si può dire che egli ebbe l’amore, il culto della povertà, perché donò, e si lasciò persino spogliare, senza resistenza, di quelli che erano i suoi pochi beni. Questa sua profonda umanità ebbe senza dubbio una parte notevole nella sua attività politica. Egli, dopo aver partecipato valorosamente alla prima guerra mondiale e averne visto gli orrori, e dopo aver vissuto le sofferenze del popolo, si orientò verso il Partito socialista, a cui si iscrisse nel 1919. E nel 1924, durante il periodo successivo all’assassinio di Giacomo Matteotti, egli venne al Partito comunista. Egli intendeva combattere, insieme con tutti i compagni di questo partito, insieme con la classe lavoratrice italiana, senza alcuna rinuncia, senza alcun riguardo alle difficoltà del momento; e scelse quel partito che, anche nell’Aula parlamentare, in condizioni particolarmente difficili, contrastò al fascismo la sua albagia e gli rinfacciò i suoi delitti.

All’Università di Pavia Caprani fu compagno di studi di Ferruccio Ghinaglia, un grande martire della nostra idea; lo vide combattere in mezzo ai lavoratori della città e della campagna, con quell’ardore da apostolo che lo distingueva, e lo vide cadere a pochi passi da lui, sul ponte del Ticino, assassinato dai fascisti.

La violenza del fascismo imperante si abbatté anche fisicamente sopra di lui: fu più volte percosso, e nel 1926, dopo l’attentato di Bologna, fu ferito a Brescia. Nel 1931 assunse la responsabilità del partito per la provincia di Brescia. Sopravvennero le immancabili persecuzioni, per cui egli dovette emigrare, ed il suo esilio fu in Francia. Là sofferse la fame. Privo di quei mezzi che egli aveva largamente donato, dovette sottoporsi alle fatiche manuali più umili, ed il suo esilio in Francia si concluse poi, sotto il Governo di Pétain, col campo di concentramento.

Quando la giovane repubblica democratica spagnola fu attaccata dalla concentrazione fascista nazionale e internazionale, con la compiacenza di alcuni paesi, o per lo meno delle classi capitalistiche di alcuni paesi sedicenti democratici, Caprani varcò i Pirenei, perché voleva andare a combattere nelle file del popolo spagnolo, nelle file delle brigate internazionali; ma egli era già ammalato, il suo cuore era già assai debole, e la visita medica gli impedì di essere arruolato.

Dopo il 25 luglio 1943 rientrò in Italia, raccolse le prime file dei partigiani della sua provincia, divenne Commissario politico della 54a Brigata garibaldina e poi Commissario interdivisionale.

Svolse la sua opera specialmente in Valcamonica, in mezzo ai suoi contadini, in mezzo a quei montanari che, pur dissentendo da lui generalmente per le sue idee politiche, lo apprezzavano per il suo cuore e per la sua sincerità.

Nella vita egli fu solo, e fu solo anche per l’abbandono di persone vicine che preferirono lasciarlo isolato, allo sbaraglio, nella lotta.

Come avvocato egli fu valente, e fu soprattutto l’avvocato dei poveri e dei perseguitati.

Qui alla Camera fu un deputato taciturno. Io credo che la maggioranza di voi non l’abbia nemmeno conosciuto personalmente, malgrado che egli fosse qui a tutte le sedute. Parlò una volta sola dal suo banco, quando avverti i pericoli che il decreto-legge, che aboliva la disciplina sugli alloggi, costituiva per i meno abbienti, i quali, senza quella disciplina, sarebbero stati impossibilitati a trovarsi una casa; e l’esperienza immediata ha confermato la realtà delle sue previsioni.

La sua dedizione alla propria idea fu completa, totale. Egli non risparmiò nulla di se stesso. Ancora il 10 agosto egli tenne un grande comizio a Vestone e parlò per un’ora e mezza, entusiasmando una numerosa folla di ascoltatori. Quel comizio (mi è stato detto da chi vi assistette) fu veramente il suo canto del cigno. Egli si sentì male dopo aver terminato il discorso e voleva tornare immediatamente a Brescia; ma volle il caso che un bambino che stava per affogare, salvato in quel momento, avesse bisogno di essere trasportato d’urgenza all’ospedale vicino. Egli diede la sua macchina. Fu un’ora e mezza di ritardo nel suo ritorno a Brescia. Il bambino fu salvo, ma forse quel ritardo influì sulla morte del nostro carissimo compagno.

Ed egli tornò a casa. La mattina dopo, contrariamente alle sue abitudini mattiniere, non si alzò e fu trovato morto tranquillamente nel suo letto.

La costernazione della sua gente fu grande. In Valcamonica io ho parlato con sacerdoti, con insegnanti, con contadini, con uomini di qualsiasi pensiero politico: tutti unanimemente avevano un compianto ed un rimpianto per la triste ed improvvisa fine di Aldo Caprani. Il funerale fu una apoteosi: il popolo, dalle montagne, dalle valli, dalle città accorse unanime a dare l’ultimo saluto ad Aldo Caprani.

Il suo ricordo vive d’una vita attiva ancora e vivrà imperituro in mezzo alla sua gente. Egli fu uno di quei capi che sono capi per essersi fatti amare. Infatti seppe farsi amare da tutto il suo popolo.

Ebbe un grande rispetto per la religione della sua gente. Egli sostenne sempre quello che è anche nella linea politica del nostro partito, lealmente osservato: il rispetto delle coscienze, il rispetto della libertà dell’esercizio del culto in tutta la più larga espressione del termine, il rispetto per la religione.

Si è detto in questi giorni, da voce altamente autorevole che questa è un’ora di prova. Ciò solitamente coincide con l’ora del maggiore pericolo; l’ora di coloro che accorrono a combattere, per salvare una fede, per salvare qualche cosa che è prezioso all’umanità.

Il nostro partito, Caprani in prima fila, avverti già l’ora della prova, per la difesa della libertà, della dignità stessa della persona umana, per la difesa della libertà e dell’indipendenza della nostra Nazione; sentì l’ora della prova quando il fascismo, imperante con tutte le sue forze, soverchiava ogni anelito di libertà e combatté con tutto il suo fervore per vincere la prova. Riconosciamo tuttavia che ogni giorno della vita dei popoli ha la sua ora di prova; e anche oggi può essere l’ora della prova per il popolo italiano.

Io ritengo che questa sia l’ora della prova della buonafede democratica dei vari raggruppamenti politici che siedono in quest’Aula e che vivono la vita del nostro popolo. (Applausi).

BONOMELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BONOMELLI. Il Partito socialista italiano si associa alle nobili parole di rievocazione della figura di Aldo Caprani, fatta dal Presidente di questa Assemblea e dal collega Bernamonti per il Partito comunista.

Ma, sicuro interprete di quel popolo bresciano e bergamasco che ci ama e che ci segue, io porto qui il cordoglio della ferrea Brescia operaia e della paziente Bergamo laboriosa.

Intendo far riecheggiare in quest’Aula, per l’immatura perdita del collega Caprani, l’intimo, doloroso stupore delle migliaia di operai dei nostri cantieri, dei lavoratori tutti delle officine e degli stabilimenti, delle operaie dei molti opifici, dei contadini chinati sulle feconde zolle delle nostre due provincie.

Aldo Caprani ci è stato rapito alla vita ed alla lotta, ancora giovane se non giovanissimo, orbando il popolo nostro lavoratore d’uno dei suoi più tenaci difensori.

Figlio di autentici popolani, fin da fanciullo si era nutrito di quei sani principî della democrazia socialista che lo indussero alle battaglie politiche in difesa del proletariato.

Presente sempre ed ovunque si accendesse la lotta per la emancipazione dei lavoratori, entrò nella mischia negli anni più duri, allorquando il regime fascista si palesò feroce dittatura.

Ma la sua tempra di alfiere dei diritti del popolo, il suo cuore generoso ed altruista, malgrado la sua malferma salute, non gli concessero alcuna, tregua.

Lo troviamo irriducibile oppositore al dispotismo fascista; instancabile organizzatore della resistenza alla dittatura, pervicace propagandista delle moderne dottrine sociali, capo e gregario nella lotta clandestina per la vittoria della democrazia.

Inseguito, spiato, perseguitato, imprigionato, torturato, esiliato.

Il giorno della tanto attesa liberazione nazionale, rientrò finalmente nella sua Brescia a capo della 54a brigata garibaldina, di cui era commissario.

Tutta la sua vita testimonia la grande sua anima di vero amico del popolo, ed egli si consacrò, con la più completa dedizione, alla lotta diuturna per la redenzione delle classi lavoratrici.

Unico deputato bresciano del Partito di sua elezione, lascia un cumulo di eredità d’amore e di riconoscenza nella mente e nel cuore di tutto il popolo bresciano.

Noi deputati socialisti, suoi concittadini, mandiamo alla sua memoria l’estremo, fraterno omaggio di cordoglio e di fede. (Applausi).

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. A nome dei colleghi di parte liberale, mi associo alle nobili parole pronunciate per i colleghi Aldo Caprani e Diego D’Amico. Del primo, ricorderò quella pagina fulgida che fu il suo volontario esilio di Verné, in Francia, scelto per non sottostare a un regime che aveva lottato e che continuò a lottare con implacabile e cosciente tenacia. Del secondo, dirò che egli appariva a tutti noi, specie a quelli che più vicino gli erano, come il rappresentante tipico di quella che è stata detta la poesia dell’azione, perché Diego D’Amico era veramente un uomo che non sapeva rinunciare ad una intelligente ed ordinata attività, spesa alle opere del bene. Anche quando dovette trasferirsi per motivi professionali ed universitari a Roma (qui svolgeva la massima parte della sua attività professionale) tornava spesso all’isola natia e alla nativa Bagheria, ma non era questo l’excursus rapido del medico, diventato celebre nel campo nazionale, che veniva a drenare una clientela attirata dal nome e dalla celebrità, perché queste rapide visite erano svolte ad esclusivo vantaggio dei più umili e dei meno abbienti ai quali Diego D’Amico prestò sempre costantemente e gratuitamente la sua opera professionale. (Applausi).

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, a nome del Gruppo parlamentare socialista dei lavoratori italiani, mi associo, con animo reverente e commosso, alle nobili parole che in questa Aula hanno rievocato la memoria dei colleghi Aldo Caprani e Diego D’Amico.

Il collega Caprani era a noi quasi ignoto e se il collega Bernamonti non ce ne avesse tracciato oggi la nobile figura, noi avremmo ignorato di avere accanto a noi un’anima così buona, così semplice e così devota alla causa della umanità e del popolo. Ci rincresce di aver appreso tutto ciò troppo tardi, ma tuttavia ci riconforta, perché dimostra come in mezzo a noi ci siano delle gemme ignorate, come era la figura di Aldo Caprani, alla quale inviamo un commosso saluto.

Diego D’Amico era in mezzo a noi come un fratello. Tutti gli volevamo bene. Egli spandeva intorno a sé un sorriso di bontà e di cordialità e chiunque di noi si è rivolto a lui per un’opera buona, ha trovato sempre il suo cuore leale, aperto e pronto a dare tutto quanto era possibile dare. Il ricordo di Diego D’Amico e di Aldo Caprani resterà indelebile nella nostra memoria. (Applausi).

BULLONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BULLONI, A nome del Gruppo parlamentare democristiano, e quale deputato di Brescia, mi associo alle espressioni di cordoglio per la scomparsa del collega onorevole Aldo Caprani, che la morte ha improvvisamente ghermito durante il sonno ristoratore della fatica spesa il giorno precedente nel lavoro tra i suoi fedeli amici delle valli bresciane.

La sorte vuole che si associ all’unanime compianto chi da lunghissimi anni aveva stretto cordiali rapporti professionali e di amicizia con Aldo Caprani, consolidatisi quando, sopravvenuta la bufera, la persecuzione poliziesca e la violenza ci colpirono entrambi. Caprani fu modesto e generoso sempre: si esaltava nella difesa dei suoi ideali, che servì sempre con grande dignità e disinteresse. La causa della libertà lo volle, infine, sui monti della sua Valle Camonica, al comando di formazioni garibaldine, dove profuse l’ardore della sua fede, del suo slancio e del suo coraggio. Quanti gli vollero bene e lo apprezzarono, ne onorano la memoria. (Applausi).

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Anche a nome dei colleghi del mio Gruppo, rendo omaggio con reverente dolore alla memoria dei colleghi Caprani e D’Amico. Conobbi il collega Caprani in esilio, ed ebbi subito modo di apprezzare la sincerità della sua fede. Egli fu un uomo che seppe affrontare, per la difesa delle proprie idee, tutte le prove e tutti i sacrifici.

Il collega D’Amico era un grande scienziato ed un altissimo spirito, il quale traeva dal suo generoso senso di umanità l’ispirazione e la forza necessaria a respingere qualunque motivo o qualunque sentimento settario e di bassa polemica politica.

Mi permetta la Camera di ricordare con speciale riconoscenza l’iniziativa di D’Amico perché una borsa di studio fosse intitolata al nome di un altro giovane scienziato immaturamente scomparso: Federico Nitti.

Io penso che noi dobbiamo essere grati a questi nostri colleghi morti, perché essi ci dànno modo d’innalzarci spiritualmente nel momento stesso in cui ricordiamo i loro nomi che hanno dato e dànno prestigio a questa Assemblea. (Applausi).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. A nome del Governo mi associo al tributo di omaggio reso dall’Assemblea Costituente alla memoria di Diego D’Amico e di Aldo Caprani, così immaturamente scomparsi e perduti alla causa della scienza e della Nazione. Alle desolate famiglie dei colleghi scomparsi i sensi del più vivo e sentito cordoglio. (Applausi).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Bassano, Canepa, Pallastrelli e Parri.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Adempio all’incarico gradito di comunicare il seguente telegramma pervenuto alla Presidenza dell’Assemblea:

«Rappresentanti Unione Parlamentare europea pregano comunicare Assemblea Costituente avvenuto inizio lavori scopo assicurare libera pacifica convivenza popoli nel quadro unità europea. Comitato direttivo: Giacchero, Macrelli, Badini, La Gravinese, Colonnetti».

Comunico che la seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge (finanze e tesoro), nella riunione di stamane, ha eletto all’unanimità suo Vice presidente l’onorevole Paratore.

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso le seguenti domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

contro i deputati Li Causi e Meda per il reato di cui all’articolo 595, primo e secondo comma, del Codice penale (diffamazione a mezzo della stampa), e contro il deputato Patrissi, per il reato dell’articolo 341, Codice penale (oltraggio ad un pubblico ufficiale).

Saranno stampate, distribuite e inviate alla Commissione competente.

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte alle interrogazioni presentate da onorevoli deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. È iscritto all’ordine del giorno il disegno di legge per la disciplina dell’elettorato attivo. Il Governo ha trasmesso ieri numerosi emendamenti al testo elaborato dalla Commissione, che ha preso in esame il primitivo progetto, al quale aveva già apportato modificazioni.

Questi emendamenti agli emendamenti saranno stampati, in modo che tutti gli onorevoli colleghi abbiano la possibilità di averne conoscenza prima che si inizi la discussione del provvedimento.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. La presentazione di emendamenti così numerosi da parte del Governo ad un disegno di legge, su cui la Commissione ha già presentato la sua relazione, rende, direi, quasi impossibile l’inizio della discussione, dato che la Commissione deve esaminare gli emendamenti proposti dal Governo e giudicare se possano essere accolti prima della discussione in seduta pubblica.

Quindi, ritengo che, oltre al distribuire gli emendamenti agli onorevoli colleghi, sia necessario che gli emendamenti stessi vengano esaminati dalla Commissione prima che il disegno di legge venga iscritto all’ordine del giorno.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo non si oppone a che sia rinviata la discussione sul disegno di legge, in attesa che la Commissione esamini gli emendamenti da esso proposti, benché si tratti di emendamenti di carattere formale e non sostanziale.

PRESIDENTE. Questo disegno di legge, che era iscritto, per la discussione, all’ordine del giorno della seduta di oggi, molto probabilmente, se lo svolgimento dei lavori andasse con una certa correntezza e senza gli inconvenienti rilevati dalle giustificate osservazioni fatte dall’onorevole Fuschini, sarebbe necessario esaminarlo nella seduta di domani. Rendendomi conto della validità di quanto ha detto l’onorevole Fuschini, penso che possiamo evitare di rimettere il provvedimento all’ordine del giorno della seduta di domani. Ma vorrei pregare la Commissione di volere domani dedicarsi a questo esame, in modo che dopodomani si possa iniziare la discussione in seduta pubblica. Se no, si corre il pericolo di trascinare troppo a lungo l’esame di questo disegno di legge, quando sovrasta la necessità dell’esame successivo della legge elettorale; se ne potrebbe avere grave nocumento. In questo senso, se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così rimane stabilito).

L’ordine del giorno reca lo svolgimento di interrogazioni.

Ritengo, tuttavia, opportuno non iniziare oggi l’esame delle interrogazioni, rinviandolo invece alla seduta di domani. Possiamo, piuttosto, intrattenerci oggi brevemente sopra il nostro piano di lavoro.

Noi avevamo al proposito fatto ottimi progetti prima dell’inizio delle ferie. Ma certamente ciascuno di noi li ha riesaminati e rielaborati durante le ferie stesse. Si tratterebbe ora di vedere come le singole conclusioni coincidono per quindi stabilire concretamente il da fare.

Dopo che avremo su di ciò concluso, darò lettura di una mozione presentata da alcuni colleghi sull’attività del Governo, e per la quale si dovrà stabilire la data di discussione, dopo che il Governo stesso avrà espresso il suo avviso.

Se non vi sono proposte in contrario, e, cioè, se nessuno propone di affrontare lo svolgimento delle interrogazioni, intratteniamoci dunque del modo e del ritmo dei lavori, del loro calendario e del loro programma.

L’Assemblea Costituente aveva deciso, ed in effetti ha dato corso prima delle ferie a questa sua decisione, di mutare l’ordine di discussione dei titoli della seconda parte del progetto di Costituzione, esaminando appunto per primo il titolo relativo alle Regioni. Ciò è stato fatto; ma abbiamo lasciato in sospeso alcuni articoli di questo titolo per i quali, con giustificazioni di ordine vario, è stato chiesto ed approvato il rinvio.

Ci si pone ora il problema se dobbiamo subito riaffrontare quei punti lasciati in sospeso o se si debba invece iniziare l’esame della seconda parte del progetto di Costituzione incominciando dal titolo primo, salvo poi, giunti che fossimo al titolo sulla Regione, esaminare gli articoli rinviati.

In tal senso ci consiglia il fatto che mentre per alcuni articoli la ragione del rinvio è stata data dalla necessità di decidere dapprima altre questioni che ne condizionavano i termini, queste questioni ancora stanno insolute dinanzi a noi.

L’unico articolo che potremmo subito affrontare è quello che comprende l’elencazione nominativa delle regioni. Ma anche per esso è forse meglio lasciare trascorrere qualche tempo ancora, affinché i pensieri si orientino e si maturi qualche decisione comune, riprendendo il suo esame quando, nello svolgimento ordinato dei nostri lavori, sarà giunto il suo turno numerico.

Se nessuno fa obiezione, possiamo restare dunque intesi che riprenderemo domani, nella seduta pomeridiana, la discussione sul progetto di Costituzione, iniziando dal titolo relativo al potere legislativo. A questo proposito l’onorevole La Rocca mi ha fatto pervenire la seguente richiesta scritta: «Chiedo che la discussione generale sul titolo primo e sul titolo terzo del progetto di Costituzione, in merito all’ordinamento dello Stato, cioè sul Parlamento e sul Governo, avvengano non in due tempi separati, ma congiuntamente per una trattazione organica dei due argomenti intimamente legati e connessi tra di loro».

La richiesta dell’onorevole La Rocca echeggia considerazioni che l’onorevole La Rocca aveva già fatto, assieme a tutti noi, in seno alla seconda Sottocommissione della Commissione costituzionale, quando, affrontando questa materia, ci trovammo nella necessità di parlare anche dei problemi relativi al potere esecutivo mentre discutevamo quelli pertinenti al potere legislativo e viceversa. Tempestivamente l’onorevole La Rocca ci offre ora il prezioso contributo della sua esperienza, ed io credo – se non vi sono proposte in contrario – che possiamo accettare la sua proposta, nel senso appunto che congiuntamente esamineremo, nella discussione generale, i titoli relativi al legislativo e quelli relativi all’esecutivo, intendendo per esecutivo solo il Governo, e non il Capo dello Stato.

Naturalmente, per ciò che si riferisce all’articolazione, ogni articolo dovrà poi essere esaminato e votato a sé, tornandosi a dividere, nella trattazione analitica, ciò che compete al legislativo da ciò che compete all’esecutivo. Se non vi sono obiezioni – e prego i colleghi che fossero di avviso contrario di farlo subito presente – restiamo intesi che domani incominceremo la discussione generale relativa ai due primi titoli della seconda parte del progetto costituzionale.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Questa mattina il Comitato di redazione del progetto di Costituzione si è riunito ed ha deciso di accogliere la proposta che era già stata fatta e che era stata svolta dal Presidente della Costituente, di rinviare, al momento in cui saranno discussi gli altri articoli sulla Regione che sono rimasti sospesi, anche il tema dell’elenco delle Regioni ed il modo di modificare la struttura delle Regioni stesse. Non entro nell’argomento perché mi pare che vi sia un diffuso consenso, dato che alcuni dubbi sono stati superati.

Sulla proposta dell’onorevole La Rocca, il Comitato non ha potuto pronunciarsi, perché la proposta è stata avanzata ora per la prima volta. Io esprimerò il mio punto di vista personale. Penso che potrebbe essere opportuna la discussione unitaria dei problemi attinenti al potere legislativo ed al Governo; dubito però che si possa lasciare da parte, in questo caso, il tema del Capo dello Stato, per alcune ragioni molto ovvie. La Commissione è convinta per ciò che riguarda la posizione del Capo dello Stato; per quanto riguarda il potere legislativo vi è, per esempio, il caso del dissenso fra i due rami del Parlamento, che può essere risolto in maniera diversa, ma che nel progetto di Costituzione è stato risolto dando al Capo dello Stato la facoltà di intervenire, di indire un referendum. D’altra parte, avverrebbe che si discuterebbero, in via generale, i titoli I e III, lasciando sospeso il II. Che cosa avverrebbe? Si farebbe, subito dopo la votazione del I e del III, la discussione del titolo II, in via generale, e poi si discuterebbe articolo per articolo. Non mi pare che questo sia simmetrico; quindi farei questa sommessa proposta: personalmente, non sono contrario ad accettare la proposta dell’onorevole La Rocca, anche perché semplifica ed armonizza la discussione, ma io pregherei di discutere il I, il II e il III titolo, cioè tanto il potere legislativo, quanto il Capo dello Stato ed il Governo, e poi procedere alla votazione articolo per articolo. In caso diverso, dovrei insistere sulle riserve che ho fatto e che mi paiono molto ovvie, perché, diversamente, vi sarebbe una specie di disordine nella discussione.

Quindi, faccio questa proposta: o di mantenere la discussione separata, o di unire tutti e tre i titoli in una discussione generale – il che è un risparmio di tempo – salvo poi a procedere alla singola discussione degli articoli.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. A me pare che sia necessario precisare oggi che questa impostazione dell’ordine dei lavori debba considerarsi in linea generale, ma non come un sistema rigido, perché ricordo all’onorevole Presidente ed all’Assemblea che il Comitato delle autonomie – la cui prima riunione effettiva è quella di domani – deve al più presto riferire all’Assemblea (e l’Assemblea deciderà) sullo Statuto della Regione sarda. Il che significa che ad un certo momento dovremo fermare i lavori e discutere questo problema. Mi pare che qualora venga accettato l’ordine dei lavori, esso debba considerarsi in linea generale, salva la possibilità di discutere anche altri problemi.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Credo che sia opportuno che l’Assemblea si convinca della necessità di accelerare, nel miglior modo possibile, i lavori della Costituente stessa, in riferimento ai compiti specifici che ha la Costituente, cioè di mettere in prima linea, avanti ad ogni cosa, la discussione del progetto di Costituzione, e che ognuno di noi tenga presente la necessità di attendere a questa discussione in limiti prudenti ed in limiti che rispecchino veramente la situazione in cui oggi noi ci troviamo.

L’articolo 3 del famoso decreto del 16 marzo 1946 aveva dato alla Costituente il compito di approvare la nuova Costituzione, le leggi elettorali ed i trattati internazionali. Ora, di questi compiti uno solo, per ora, è stato esaurito, l’approvazione di trattati internazionali, e potrà essere ancora completato con la discussione di altri trattati che dovranno essere approvati dalla Costituente.

Ma credo che sia necessario affrettarsi – questa è una breve premessa che mi permetto di fare all’Assemblea – perché non ritengo molto lato il tempo disponibile per la discussione: abbiamo dinanzi a noi non molte sedute, in confronto al lavoro che dobbiamo compiere, non solo per i molti articoli che ci rimangono da discutere, ma soprattutto per la discussione delle leggi elettorali che la Costituente deve approvare.

Non parlo della legge elettorale per la elezione della Camera dei Deputati, ma mi riferisco soprattutto ad una legge elettorale nuovissima che noi dovremo approntare e discutere, vale a dire la legge elettorale che dovrà servire di base per la nomina dei membri della seconda Camera.

Ora, dato il breve tempo che sta dinanzi a noi, breve in raffronto al lavoro che dobbiamo compiere, è necessario restringere le discussioni il massimo possibile. E mi permetto di fare appello all’onorevole Presidente, perché nelle discussioni sia di carattere generale, che nelle discussioni particolari degli articoli, si applichi rigorosamente il Regolamento, senza eccezioni di sorta, e non si creino dei precedenti che hanno dato luogo a perdita di tempo nel precedente periodo dei lavori di questa Assemblea.

Per quanto si riferisce al modo di discutere, ai temi da discutere, credo che sia giusta l’osservazione che ha fatto l’onorevole Ruini, a proposito della proposta dell’onorevole La Rocca. Non è possibile scindere il capitolo che si riferisce al Capo dello Stato dai titoli che si riferiscono alle due Camere legislative ed al Governo, perché il Capo dello Stato è collegato al Governo come è collegato alle Assemblee legislative. Vi sono interferenze negli stessi articoli e non è possibile dividere questa discussione in due tempi. Si deve fare, cioè, una discussione unica per tutto quello che si riferisce alla struttura politica dello Stato, che ancora non abbiamo potuto discutere e sulla quale vi sono molte cose che abbiamo bisogno di discutere chiaramente ed esplicitamente, perché vi sono lacune, ombre, imprecisioni e non vi è fra noi una concezione precisa che rispecchi la possibilità di risolvere con chiarezza i problemi relativi a questi punti fondamentali della Costituzione.

Egregi colleghi, finora abbiamo discusso dei principî, abbiamo posto le basi filosofiche, sociali, morali del nuovo Stato italiano; ma ancora non abbiamo discusso il meccanismo di funzionamento di questo nuovo Stato, eccetto la parte che si riferisce alla Regione, che è la parte più nuova della nostra Costituzione.

Quindi, io, signor Presidente, credo che sia opportuno modificare – se l’amico La Rocca vi accede – modificare la proposta La Rocca: si faccia, cioè, una discussione generale unica sui primi tre titoli della seconda parte, passando poi, alla parte che si riferisce all’organizzazione della Magistratura e della Suprema Corte.

Insisto quindi, tornando al punto iniziale del mio discorso, nell’affermare che tutte le discussioni le quali non si riferiscano alla Costituzione debbono essere senz’altro bandite perché, se noi inserissimo discussioni di altro genere, come disegni di legge che hanno pure, sì, notevole importanza se volete, ma non quanta ne ha la Costituzione, dato che da troppo tempo ormai viviamo in uno stato di provvisorietà costituzionale che è tempo di chiudere – noi correremmo veramente il rischio di non condurre a termine la nostra opera.

Non portiamo dunque più all’Assemblea disegni di legge che possono essere ampiamente e liberamente discussi in sede di Commissione. Certamente io non sono qui per proporvi di eliminare le discussioni politiche che sono contemplate nel famoso articolo 3 del decreto del 16 marzo; non vi chiedo cioè di bandire dai nostri lavori quelle discussioni politiche che investono la fiducia o la sfiducia al Governo: queste sono tassativamente indicate e ogni parte della Camera può provocarle quando creda. Ma, all’infuori di queste, tralasciamo di recare in Assemblea tutte quelle altre leggi che non farebbero se non distrarre l’Assemblea stessa da quelle che sono, in definitiva, le sue peculiari funzioni.

Questo noi dobbiamo fare se vogliamo che il 31 dicembre il nostro dovere sia compiuto di fronte al popolo. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Vi è allora la proposta degli onorevoli Ruini e Fuschini di allargare l’ambito della discussione generale che inizieremo domani.

LA ROCCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. Sono d’accordo con quanto hanno detto i colleghi onorevoli Ruini e Fuschini circa l’opportunità e l’utilità di trattare unitariamente i tre titoli. Mi ero astenuto dal far menzione precisa del Titolo III perché, nel progetto di Costituzione, si è dato praticamente al Capo dello Stato un rilievo particolare. Ecco perché avrei desiderato che si fosse fatta una trattazione separata intorno ai primi due titoli, unicamente allo scopo di fermare la discussione, in un primo momento, su quelli che possono considerarsi i rapporti essenziali fra Parlamento e Governo, che costituiscono l’essenza della vita politica del Paese.

Ero animato, in altre parole, dall’intento di realizzare una economia della discussione, senza che essa ne restasse mutilata: ma intendevo soprattutto di dare una trattazione organica ad argomenti intimamente connessi e legati tra loro.

Sono tuttavia persuaso che, per una più ampia comprensione, ci si debba logicamente occupare anche del titolo relativo alle prerogative e alle funzioni del Capo dello Stato, salvo poi, si intende, a trattare minutamente le varie questioni quando si passerà alla discussione degli emendamenti e all’approvazione degli articoli.

PRESIDENTE. Mi pare allora che non vi sia disaccordo, sostanzialmente, tra il punto di vista dell’onorevole La Rocca e quello degli onorevoli Ruini e Fuschini: possiamo quindi senz’altro restare d’intesa che la discussione generale che inizieremo domani si riferirà a tutti e tre i Titoli iniziali della II parte del progetto.

All’onorevole Lussu risponderò che è perfettamente naturale che, ove nuove materie di discussione insorgano nel corso dei nostri lavori, esse dovranno venire inserite nei nostri ordini del giorno.

Concordo poi pienamente con l’onorevole Fuschini circa l’esigenza da lui sottolineata di imprimere ai nostri lavori un ritmo che sia della maggior possibile speditezza, liberandoli da quanto non si ravvisi strettamente necessario ai loro fini.

Ed una delle norme che dovremo osservare – ciò mi è suggerito proprio dal decorso di questa nostra attuale discussione – sarà quella di non accavallare i temi dei dibattiti.

Le questioni si sovrappongono ad altre questioni, si complica lo svolgimento dei lavori, e là dove si crede di guadagnare tempo, se ne impiega di più e malamente.

Io stavo parlando del modo con cui procedere nella discussione, proposto dall’onorevole la Rocca; ma, mentre le osservazioni dell’onorevole Fuschini erano assolutamente pertinenti, non così mi pare lo fossero quelle dell’onorevole Lussu. Per finire debbo aggiungere che io vedo il nostro calendario in questo schema: nel mese attuale, di settembre, e in quello di ottobre noi porteremo a fine ciò che si riferisce al potere legislativo ed esecutivo, cioè concluderemo sui primi tre Titoli della seconda parte, e nel mese di novembre esamineremo e voteremo ciò che si riferisce al potere giudiziario ed alla Corte costituzionale. Nella prima decade di dicembre affronteremo poi e concluderemo la discussione sugli articoli transitori, in maniera che verso la metà del mese di dicembre avremo completato l’esame e l’approvazione del testo intero della Costituzione. Tengano presente, gli onorevoli colleghi, che gli articoli votati dovranno poi subire ancora un coordinamento definitivo e quel perfezionamento stilistico e letterario, del quale tutti avvertono, o hanno già avvertita, la necessità. E dovremo poi ancora trovarci per pochissime sedute allo scopo di approvare il testo definitivo, che abbia subito già cioè queste operazioni di rettifica e di coordinamento che lo renderanno più elegante nella forma e nello stile.

Credo che, volendolo, – e non dubito che noi tutti lo vogliamo – questo programma, questo calendario può essere perfettamente osservato. Ma forse, ad aiutarci, sarebbe bene che noi non dicessimo troppo frequentemente, fra noi, che il tempo che ci resta è breve e la strada da percorrere, invece, molto lunga. Da oggi al 31 dicembre, tenuto conto delle domeniche e di tutte le feste in calendario, comprese le natalizie, noi disporremo ancora di 82 giorni. Calcolando che solo per metà di questi 82 giorni noi terremo sedute mattutine, giungiamo ad una disponibilità di 123 sedute. 123 sedute sono molte; e se saranno sedute di quattro ore avremo modo di svolgere un ampio lavoro. Non suggestioniamoci, dunque, da noi stessi asserendo la precarietà del tempo in relazione alla vastità del compito! Il compito è vasto, certamente, ma il tempo sufficiente. L’importante è il saggio impiego di queste 123 sedute. Io ritengo che noi dovremmo dedicare tutte quelle pomeridiane al lavoro costituzionale. Naturalmente, se intervenissero ad un certo momento discussioni di natura squisitamente o esclusivamente politica – e i colleghi intendono ciò a cui io alludo – queste discussioni non potranno essere fatte solo la mattina né essere spezzettate. Allora noi saremmo obbligati ad aprire una parentesi nei nostri lavori costituzionali. Ma, in mancanza di queste interruzioni, o anche con queste interruzioni, per tutti i giorni che saranno disponibili, noi dedicheremo le mattine ai provvedimenti legislativi: a quelli che abbiamo già dinanzi a noi e agli altri che potrebbero ancora eventualmente esserci sottoposti. Nel pomeriggio: lavoro costituzionale.

E con questa amministrazione del tempo noi abbiamo tutta la possibilità di portare a conclusione il lavoro principale che, come l’onorevole Fuschini giustamente ricordava, è quello costituzionale, al quale spetteranno, fino a dicembre, 82 sedute. Quali sono le leggi ordinarie non di testo costituzionale che abbiamo ancora da votare? Vi sono i Trattati di commercio già stretti con varie Nazioni. A questi potranno forse ancora altri aggiungersene, ed io me lo auguro, come tutti ve lo augurate. Poi, vi è il progetto di legge per l’elettorato attivo; e poi le leggi elettorali, delle quali quella per la prima Camera è già stata depositata all’Assemblea Costituente, ed esaminata in parte dalla Commissione apposita. Può essere che il Governo vi abbia da apportare alcune modifiche, ma, lo spero, senza procrastinare così l’inizio dell’esame in seduta plenaria. Poi avremo la legge elettorale per la seconda Camera, alla quale l’onorevole Fuschini ha accennato, ma che sino a questo momento non è stata ancora naturalmente redatta né presentata all’Assemblea Costituente.

Ed infine ricordo i progetti di legge per il consolidamento della Repubblica ed il progetto di legge sulla stampa. Tutta questa materia legislativa sarà posta all’ordine del giorno delle sedute mattutine.

Io sono intenzionato di dedicare i primi quaranta minuti di tutte le sedute mattutine allo svolgimento delle interrogazioni, in maniera che queste abbiano una certa tempestività di svolgimento. Invito i colleghi, però, ad attenersi al Regolamento per i limiti di tempo concessi per la replica degli interroganti alla risposta del Ministro competente; ed insieme a rinunciare alla consuetudine degli ultimi tempi per la quale ogni interrogazione viene presentata con carattere di urgenza, ciò che praticamente toglie questo carattere a tutte le interrogazioni.

Le interrogazioni con carattere di urgenza non devono essere evidentemente soppresse; ma ricordo che, in definitiva, l’urgenza è affidata, per la sua valutazione, al Governo, e l’impazienza dell’interrogante non fa legge in proposito.

Infine non si trascurino le interrogazioni che richiedono risposta scritta, le quali hanno trovato ormai un loro ritmo abbastanza normale di svolgimento da parte dei Ministeri.

Ho così delineato, nel suo quadro generale, il programma dei nostri lavori. C’è possibilità di applicare alcune norme particolari che ci consentano di accelerarli?

L’onorevole Fuschini ha chiesto che la Presidenza applichi senza eccezione e severamente il Regolamento. Ma l’onorevole Fuschini sa per esperienza che il Regolamento della Camera legislativa, fatto proprio dalla Costituente, si è dimostrato, in mancanza di una spontanea collaborazione nell’applicarlo da parte dei colleghi, forse non sufficientemente idoneo a questa maggiore snellezza di lavoro che da noi si esige.

Io credo quindi che l’invito rivolto dall’onorevole Fuschini alla Presidenza, e che la Presidenza con gratitudine accetta, sia da considerare anche come un invito che i membri dell’Assemblea si rivolgono reciprocamente e che cercheranno reciprocamente di osservare e di fare osservare.

Se qualche collega ha qualcosa da aggiungere o qualche questione da porre chieda di parlare; altrimenti a questo proposito possiamo fare punto. (Approvazioni).

Annunzio di una mozione.

PRESIDENTE. Comunico che è stata presentata la seguente mozione:

«L’Assemblea Costituente, di fronte ai risultati della politica generale del Governo ed in particolare di quella economico-finanziaria che compromette lo sforzo solidale della ricostruzione del Paese, l’ordine interno e il tenore di vita delle masse popolari, nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno.

«Nenni, Basso, Romita, Cosattini, Faralli, Giacometti, Giua, Jacometti, Lizzadri, Morandi, Nobili Tito Oro, Cacciatore, Stampacchia, Tonello, Vernocchi».

Questa mozione evidentemente è presentata in base al capoverso terzo dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946.

Secondo questo capoverso, il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblea non comporta le dimissioni del Governo. Ma queste conseguono all’approvazione di una apposita mozione di sfiducia, approvazione intervenuta non prima di due giorni dalla presentazione della mozione e adottata a maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea. È certo che però la disposizione di questo articolo 3 non si sovrappone e non annulla le disposizioni contenute nel Regolamento della Camera, che l’Assemblea Costituente ha fatto proprio, in tema di mozione.

Orbene, a tenore dell’articolo 125 del Regolamento: «Dopo la lettura di una mozione presentata a norma degli articoli 123 e 124, la Camera, udito il Governo ed il proponente, e non più di due deputati, determinerà il giorno in cui dovrà essere svolta e discussa secondo le norme del Capitolo XIII».

L’articolo 3 del decreto che ho ricordato interviene in questo senso: che la data di discussione deve essere fissata in modo tale che, comunque, la votazione non intervenga prima di 48 ore dalla presentazione della mozione stessa.

In questo momento ci troviamo di fronte a una mozione depositata.

Si tratta di stabilire quando debba essere esaminata, discussa e votata. Pongo pertanto innanzitutto il quesito al Governo.

SCELBA, Ministro dell’interno. Stante l’assenza del Presidente del Consiglio, il Governo si riserva di precisare, salvo il diverso avviso dell’Assemblea, in una delle prossime sedute la data che esso propone per la discussione di questa mozione.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, sono sorpreso delle precauzioni con le quali il Governo chiede non so quanti giorni, per dare una risposta circa la data di discussione della mozione del Gruppo parlamentare socialista. Nel presentare questa mozione il Gruppo socialista non presumeva di poter contare sul consenso del Governo, circa il fondo del problema.

Ciò non era nelle nostre aspettative e nelle nostre speranze. Siamo però convinti che ci deve essere il pieno consenso del Governo sulla necessità che la discussione si faccia. Non voglio qui entrare nel merito, ma ritengo di essere interprete del pensiero, forse unanime, dell’Assemblea se dico che il Paese è turbato, che il Paese è inquieto, che il Paese soffre, e che su questo turbamento, su questa inquietudine, su questa sofferenza il Governo ha certamente qualche cosa da dire.

In tali condizioni, il Presidente del Consiglio avrebbe potuto muoversi dal Viminale per venire a Montecitorio e sacrificare qualche istante del suo tempo, certamente prezioso, al desiderio non soltanto del Gruppo socialista, ma di tutta l’Assemblea di avere delle spiegazioni sulla situazione.

Comunque, ricordo al Governo che la légge alla quale si è riferito l’onorevole Presidente della Costituente, del 16 marzo 1946, se non ha annullato il Regolamento interno dell’Assemblea, ha però inteso di fissare un principio al quale il Governo avrebbe torto di sottrarsi. Quando abbiamo discusso quella legge in Consiglio dei Ministri abbiamo inteso di offrire alle minoranze in particolare, e comunque a uno qualsiasi dei Gruppi dell’Assemblea, la possibilità di provocare, quando lo ritenesse opportuno, una discussione sulla politica generale del Governo.

Abbiamo pensato allora di ricorrere alla procedura eccezionale della mozione di sfiducia da discutere non prima di 48 ore dal momento del suo deposito, per garantire ad un tempo i diritti dell’Assemblea e quelli del Governo.

Vorrei perciò pregare il Governo di fissare una data prossima per la discussione della nostra mozione senza sottrarsi all’obbligo morale di accettare la discussione da noi sollecitata.

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

MAZZA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZA. A me pare che sia necessario, per il rispetto che noi dobbiamo all’Assemblea ed ai nostri colleghi – circa cinquanta – che sono fuori d’Italia, in Isvizzera, a rappresentare la Costituente italiana, che questa mozione di carattere eccezionale e vitale per la Nazione sia discussa per lo meno non prima del ritorno di tutti i colleghi che possono considerarsi comandati in Svizzera. (Commenti).

Insisto perché l’assenza di moltissimi colleghi faccia rimandare la discussione, in attesa del loro ritorno. Ricordo benissimo che nell’ultima seduta, da qualche parte di questa Assemblea si chiese la riapertura proprio dopo il ritorno dei deputati che dovevano recarsi in Svizzera.

PRESIDENTE. Onorevole Mazza, non ha il dubbio di essere un po’ fuori argomento?

MAZZA. Non credo, perché ho voluto fare osservare che in questo momento mancano ben cinquanta deputati. (Commenti a sinistra).

Presidenza del Presidente TERRACINI

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Forse non sono stato sufficientemente chiaro. Non intendevo affermare che il Governo voglia sfuggire alla discussione; d’altronde, non sarebbe nei suoi poteri, perché spetta all’Assemblea di discutere sempre, in ogni momento, la politica generale del Governo. Intendevo, data l’assenza del Presidente del Consiglio, pregare il proponente di attendere una delle prossime sedute, anche quella di domani, per dar modo al Presidente stesso di dire il sub pensiero in ordine alla data della discussione della mozione.

NENNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Se si tratta di un rinvio a domani, non abbiamo nessuna obiezione da fare.

PRESIDENTE. Sta bene. Se non vi sono altre osservazioni, resta inteso che domani, salvo che sopravvengano impedimenti imprevisti, il Governo farà conoscere il suo pensiero circa la data di discussione della mozione. Resta salvo il diritto dell’Assemblea di decidere in proposito.

(Così rimane stabilito).

In ordine alla seduta di domani, poiché la Commissione che deve esaminare il progetto di legge per l’elettorato attivo, secondo quanto fu detto in principio di seduta, avrà a disposizione la giornata di domani per l’esame degli emendamenti presentati dal Governo, penso sia bene non tener seduta domattina, per lasciare alla Commissione la possibilità di svolgere i suoi lavori.

Quindi, domani terremo solo la seduta pomeridiana, alle ore 16, per il seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Si inizierà la discussione generale sui primi tre Titoli della seconda parte.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Durante la sospensione dei lavori parlamentari sono state presentate numerose interrogazioni e interpellanze.

Alcune di queste interrogazioni sono state presentate con carattere di urgenza. Con ciò esse denunciano una comprensibile preoccupazione degli interroganti, ma insieme una non giusta considerazione del valore relativo dei vari problemi.

Faccio ancora una volta notare che l’urgenza delle interrogazioni deve essere, a norma del Regolamento, valutata dal Governo. Gli interroganti possono proporla, ma non la fissano senz’altro. E pertanto, prima di assegnare alle proprie interrogazioni il carattere di urgenza, sarebbe opportuno che gli interessati ascoltassero l’avviso del Ministro competente, in maniera da non venire poi delusi dal ritardo eventuale della risposta. Comunque, i membri del Governo presenti, dopo aver udito il contenuto di queste interrogazioni, mi faranno sapere quando intendono rispondere.

Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale utilità reale e alla stregua di quale criterio di opportunità, si consente, in una città come Napoli, colpita, forse, come nessun’altra città italiana dalla crisi delle abitazioni, l’abolizione del Commissariato degli alloggi.

«Anche ad ammettere che tale Commissariato, per colpa o per debolezza di dirigenti, non abbia funzionato sino ad oggi come sarebbe stato desiderabile, resta sempre il fatto, certissimo, che l’abolizione del Commissariato non significa e non può significare altro se non il dare mano libera agli speculatori, i quali, profittando delle circostanze, fanno salire alle stelle i prezzi di un qualsiasi piccolo appartamento e provvedono di un alloggio, sia pure a condizioni usuraie, i ricchissimi, cioè quelli che hanno rubato e rubano al mercato nero, e condannano a rimanere sul lastrico i lavoratori onesti e senza casa che, nonostante la migliore loro volontà, non hanno modo di alimentare lo strozzinaggio e soddisfare l’ingordigia insaziata di taluni proprietari, affittuari, mediatori e speculatori d’immobili urbani.

«La Rocca».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se, vista la continua diminuzione delle superfici coltivate a grano e l’insufficienza delle assegnazioni di concimi chimici (circa 13 chilogrammi per ettaro) non ritenga di dovere urgentemente stabilire, prima degli inizi dei lavori di semina, il prezzo del grano per il futuro raccolto del 1948 e impegnarsi ad assegnare ad ogni comune, ed a prezzo ragionevolmente proporzionale a quello del grano e tempestivamente, un quantitativo sufficiente di concimi chimici.

«Giacchero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere come intenda sistemare giuridicamente la posizione di alcuni insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro, i quali, non essendo di ruolo, non godono dei benefici di legge pur prestando a volte per decenni il loro incondizionato servizio allo Stato; e se non ritenga opera di giustizia promuovere un decreto legislativo che parifichi agli altri funzionari statali il trattamento da farsi doverosamente agli insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro.

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:

  1. a) quali risultati positivi abbia dato l’inchiesta su quanto è accaduto nel carcere giudiziario di Poggio Reale di Napoli e quali provvedimenti siano stati presi al riguardo. Ciò anche in relazione alle pubblicazioni fatte sul giornale L’Umanità, e sul n. 32 del 10 agosto della rivista L’Europeo;
  2. b) se si sia indagato sulla sussistenza dei gravi fatti denunciati dal giornale Avanti! del 7 agosto, come avvenuti nel carcere giudiziario di «Regina Coeli» di Roma.

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga opportuno assumere l’integrale assistenza degli emigrati all’estero, mandando presso le nostre rappresentanze consolari funzionari dello stesso Ministero, affinché l’operaio italiano in terra straniera abbia a ricevere ogni migliore cura per l’opera di personale tecnicamente preparato e particolarmente esperto.

«Carpano Maglioli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda adottare contro coloro che abusando delle proprie funzioni, si sono resi responsabili dell’arresto di un valoroso comandante partigiano capitano della polizia ausiliaria di Genova, e poiché il fatto ha generato un grave malessere d’ordine morale e civico, l’interrogante invoca una rigorosa inchiesta per chiarire le penombre che gli organi del Governo proiettano da qualche tempo sul movimento partigiano e sulle persone dei suoi eroici esponenti.

«Faralli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare rispettivamente nei confronti degli organi di polizia di Vittoria e del pretore di Vittoria, in relazione al loro passivo ed ostruzionistico comportamento di fronte alla esplicita ed insistente richiesta dei dirigenti la sezione del Partito socialista lavoratori italiani di Vittoria, diretta a conseguire la immediata reintegra nel possesso del locale della sezione, dal quale sono stati spogliati con violenza e nottetempo dal barone Antonio Paternò di Vittoria, che ciò facendo ha commesso reato.

«Sta di fatto che il barone Paternò, locante del vano adibito a sede della sezione del Partito socialista dei lavoratori italiani in Vittoria, pretendeva il rilascio del locale entro fine luglio e, anziché rivolgersi all’autorità giudiziaria, con la tradizionale mentalità baronale siciliana, provvide con suoi uomini (i non tramontati armigeri feudali) all’occupazione violenta dei locali.

«I dirigenti della sezione del Partito socialista dei lavoratori italiani, rispettosi della legalità democratica, desistendo dal primo impulso di farsi ragione direttamente, si sono rivolti alle autorità provinciali e locali, sollecitando l’immediato intervento della pubblica sicurezza per la reintegrazione del possesso delittuosamente violato, salvi in seguito gli apprezzamenti giudiziari di merito, e la pubblica sicurezza si è limitata a svolgere una inutile pratica burocratica, senza intervenire nei confronti del barone violatore della legge.

«Il pretore dal suo canto, investito del caso con regolare ricorso, mentre in un primo tempo, di fronte alla clamorosa notorietà del fatto delittuoso, disponeva la reintegrazione infra le ventiquattro ore nel possesso, successivamente e senza disporre nemmeno notifica, accettando un motivo di peregrina formalità inerente al contratto di locazione, e se mai discutibile in sede di merito, disponeva la sospensiva del precedente giusto ed opportuno provvedimento, in base al quale intanto, essendo trascorso invano il termine in esso fissato, gli iscritti alla sezione procedevano alla diretta immissione in possesso.

«I fatti vanno apprezzati politicamente in relazione all’ambiente, perché la conclusione sostanziale che se ne trae è che in Sicilia ai baroni riesce sempre possibile usare prepotenze e violenze senza che contro di esse vi siano tempestivi ed opportuni interventi delle autorità, per quelle rapide riparazioni di giustizia, che sono essenziali alla fiducia nella democrazia.

«Cartia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intenda provvedere allo stanziamento dei fondi occorrenti per la costruzione dell’Asilo d’infanzia in comune di Agropoli (Salerno), ove attualmente circa duecento bambini si raccolgono in locali angusti, inadatti ed insalubri. L’urgenza della nuova sede è stata già fatta presente all’ufficio del Genio civile di Salerno dall’amministrazione comunale con l’accordo di tutti i partiti.

«Cacciatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se, in vista del primo Festival internazionale e della Mostra internazionale del cinema a passo ridotto, che si svolgeranno in Salerno nella seconda decade del prossimo settembre, considerata l’importanza delle due manifestazioni, di cui un gruppo di giovani volenterosi, con scarse disponibilità finanziarie, ha preso l’iniziativa, non ritenga opportuno erogare un adeguato contributo dello Stato, onde garantire il regolare e decoroso svolgimento delle manifestazioni stesse.

«Cacciatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’industria e commercio, di grazia e giustizia e dell’interno, per chiedere che l’Assemblea Costituente sia – appena possibile – ampiamente informata delle direttive e delle conclusioni dell’inchiesta relativa allo scandalo delle gomme, in quanto la criminale speculazione investe con l’A.T.A.C. uno dei più vitali servizi della Capitale.

«La pubblica opinione, stanca della sistematica impunità e delle risibili penalità generalmente inflitte per reati contro l’interesse generale, esige sanzioni esemplari pronte ed adeguate.

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non intenda emanare opportune disposizioni perché l’articolo 283 del Regolamento per gl’Istituti di prevenzione e di pena 18 giugno 1931, n. 787, venga opportunamente modificato, o almeno interpretato cum grano salis, onde impedire la possibilità del ripetersi di casi che – come quello del pazzo omicida Bruno Strolighi – offendono la morale e mettono in serio pericolo la tranquillità pubblica e privata.

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare in ordine alla necessaria ed urgente ricostruzione della ferrovia Isernia-Vairano, reclamata da gravi ed evidenti ragioni di comunicazione e di traffico tra il Molise e l’Abruzzo coi grandi centri di Napoli e di Roma, e non più dilazionabile, specie ora che per le ricostruzioni e le riparazioni delle reti ferroviarie è stata fatta una nuova assegnazione di fondi per oltre 175 miliardi.

«Mentre si è provveduto e si continua a provvedere alla ricostruzione ferroviaria dell’Italia del Nord e in quella Centrale, anche nei tronchi di scarsa importanza, si trascura la ricostruzione del tratto Isernia-Vairano, che per la sua eccezionale importanza avrebbe dovuto avere un’assoluta precedenza.

«Il collegamento della rete Adriatica con quella Tirrenica, attraverso il Molise, non può essere effettuato se non col tronco della Isernia-Vairano.

«Ed enormi sono gl’interessi che vengono danneggiati, in ogni settore, dall’ingiustificato ritardo della invocata ricostruzione, per le popolazioni del Molise che più delle altre la guerra ha colpito e funestato.

«Ciampitti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni che hanno indotto l’Alto Commissario per l’alimentazione a rifornire l’Italia meridionale, ed in particolare la città di Messina, di pasta alimentare (fabbricata nei pastifici dell’Italia settentrionale) piuttosto che di grano, arrecando così un grave danno alle maestranze ed alle industrie locali.

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le cause del grave disastro sulla linea ferroviaria Camigliatello-Cosenza, gestita dalla Società Calabro-Lucana, nel quale hanno incontrato la morte cinque padri di famiglia, e si lamentano numerosi feriti.

«Si chiede se sia consentito su queste linee a forte pendenza, il movimento di automotrici, logorate dal tempo e dall’uso, e per giunta sottoposte quotidianamente ad un sovraccarico di viaggiatori. I quali non lasciano nemmeno libero – con evidente e continuo pericolo – lo spazio riservato al conducente, di cui limitano vigilanza e possibilità di movimento e di immediata e provvida manovra.

«Mancini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del tesoro e del commercio con l’estero, per conoscere le ragioni di carattere economico e monetario, le esigenze tecniche e pratiche che hanno determinato il recente provvedimento che stabilisce la parità legale del dollaro a lire 350.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per chiedere se, dinanzi alla persistente campagna avversa alle nuove direttive per un più razionale ed aggiornato completamento della stazione di Roma, non ravvisi l’opportunità di riesumare le molteplici responsabilità legate al progetto iniziale e sommerse nella catastrofe della Nazione.

«Quel progetto, non movendo da presupposti essenzialmente tecnici e logici, non poteva non riassumersi che in un orrore architettonico ed in un errore funzionale.

«E se il recente intervento di organi responsabili migliorerà la situazione, non risanerà però l’enorme danno finanziario la cui responsabilità deve essere individuata, per l’evidente colposo consenso portato ad una realizzazione, nella quale la tecnica ha sistematicamente ceduto a pretese direttive politiche (se tali possono chiamarsi la megalomania ed il cafonismo veramente tipici in quell’opera) dietro le quali, comunque, agiva quella organizzazione di interessi, che trova ancora eco nella stampa.

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non creda opportuno di accogliere l’invito che l’interrogante gli rivolge, di voler effettuare una breve visita al porto di Civitavecchia durante l’imbarco dei viaggiatori diretti in Sardegna. In tal modo, l’onorevole Ministro potrà accertare come, a causa dell’enorme ed inqualificabile ritardo col quale procedono i lavori di ricostruzione delle banchine di quel porto, l’imbarco e lo sbarco delle molte centinaia di viaggiatori si svolga in condizioni di disagio e di pericolo attraverso una banchina ristretta, inidonea, fangosa o polverosa, dove sostano carri ferroviari, dove si caricano merci voluminose e sulle persone assiepate premono in disordine carriaggi di ogni specie. Soprattutto, l’onorevole Ministro potrà rilevare come, a causa del predetto ritardo nella esecuzione dei lavori, non sia possibile destinare al servizio Civitavecchia-Olbia un piroscafo più capace, per cui sono necessari fondali più alti. Da questo fatto consegue che ogni giorno, dopo scenate indecorose e fatti dolorosi, centinaia di viaggiatori, per lo più sprovvisti di mezzi di soggiorno, vengono respinti perché non possono essere imbarcati; e ciò mentre il piroscafo denominato Città di Tunisi, che potrebbe soddisfare le esigenze dei traffico sardo se fossero apprestati adatti fondali, viaggia quasi vuoto fra Napoli e Palermo con un deficit di dieci milioni di lire al mese, altro autentico sperpero e disservizio da reprimere al più presto.

«Corsi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere i criteri che hanno presieduto alla distribuzione ed assegnazione del «Premio della ricostruzione» fra il personale delle ferrovie dello Stato.

«Morini»..

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e dell’interno, per conoscere se non si ritiene urgente ed indispensabile – in rapporto e riferimento al decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 177 – emanare disposizioni le quali:

  1. a) permettano anche ai comuni interessati il controllo sui cinematografi, contemplato nell’articolo 62 del testo unico 30 dicembre 1933, n. 3276;
  2. b) modifichino radicalmente l’attuale procedura di versamento dei contributi ai comuni; procedura che attualmente rende utilizzabili i proventi spettacoli solo a distanza di anni.

«Morini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno, delle finanze e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se siano a cognizione delle furiose grandinate e conseguenti piene che hanno devastato nel corrente mese ed in alcuni territori ripetutamente in giorni diversi le già fiorenti campagne di Lanciano (frazione Sant’Onofrio), Atessa, Casalbordino, Vasto, Ortona a Mare, Villalfonsina, Fossacesia, Rocca San Giovanni, il dorsale collinoso di Chieti, San Giovanni Teatino, Torrevecchia Teatina, Pizzoferrato, Pennapiedimonte, Tollo, Ganosa Sannita, Poggiofiorito, Crecchio e di numerose altre località della provincia di Teramo, distruggendo il raccolto totalmente per migliaia di ettari ed arrecando danni per centinaia e centinaia di milioni, con la conseguente miseria di quelle laboriose popolazioni; e quali provvedimenti intendano adottare per almeno attenuare la loro iattura, avvalendosi dei decreti-legge 28 settembre 1930, e 30 marzo 1933, o adottando – di urgenza, come è suggerito dalla gravità eccezionale del caso – speciali ed adeguati provvedimenti.

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere – dopo che inutilmente si è rivolto, allo stesso fine, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla Direzione Generale dell’assistenza post-bellica – i motivi per i quali sono stati, nel luglio scorso, ritirati dagli Istituti di educazione ed istruzione in cui erano ricoverati, e restituiti alle macerie, alla fame, alle malattie, 256 bambini dei 23 comuni della Maiella terribilmente sinistrati dalla guerra e nei quali si vive ancora una vita di inferno.

«Si chiede che l’inumano provvedimento – che, non potendo essere validamente giustificato da esigenze di bilancio, inconcepibili in questa materia, ha provocato enorme, preoccupante risentimento in quelle martoriate popolazioni di montagna fin troppo esasperate per lo stato di completo abbandono in cui sono lasciate dagli organi responsabili del Governo – venga revocato d’urgenza almeno per quelli (circa 120) dei predetti, disgraziati bambini che sono orfani di militari e partigiani caduti in combattimento o dispersi o di vittime civili, tanto più che ad essi non può provvedere, per mancanza di fondi, l’Opera nazionale orfani di guerra.

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se, di fronte alla palese e riconosciuta imperfezione delle disposizioni di legge vigenti in tema di procedimenti a carico di ex fascisti imputati di collaborazionismo, alla quale imperfezione è dovuto il costante susseguirsi di decisioni giudiziarie disformi e contraddittorie, le quali commuovono sfavorevolmente l’opinione pubblica e pregiudicano il prestigio della giustizia, non ravvisi la necessità urgente di un provvedimento legislativo che, eliminando e correggendo le deviazioni e le anomalie delle vigenti norme di legge, limiti l’intervento della giustizia punitiva ai soli casi di delinquenza comune occasionati da motivi politici.

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale, delle finanze e del tesoro, per stabilire l’esattezza della notizia, diffusa negli ambienti politici di Bologna, secondo la quale l’ex Stabilimento poligrafico editore del Resto del Carlino, già centro di propaganda delle teorie fasciste e cassa di risonanza degli interessi dei maggiori esponenti del passato regime e dopo la liberazione affidato ad una cooperativa – detta S.T.E.B. – forte di 400 tipografi, che hanno durante due anni compiuto opera lodevole sotto tutti i punti di vista, dimostrando l’attitudine della loro classe all’autogoverno, sarebbe stato riscattato per un pugno di moneta svalutata dai rappresentanti di correnti politiche, che l’opinione pubblica dell’Emilia ha già ripetutamente con indubbie prove elettorali sconfessato.

«In caso affermativo il sottoscritto domanda se il riscatto dell’importante istituto, con il consenso del Governo, non sia contrario alle premesse fondamentali dell’Italia democratica e repubblicana, che nel suo progetto di Costituzione riconosce la funzione sociale della cooperazione (articolo 42) e proibisce la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista (articolo 1 delle disposizioni transitorie).

«Zanardi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere quali provvedimenti intenda prendere nei confronti del Procuratore generale della Repubblica di Napoli, il quale, durante la discussione del processo Basile, conclusosi in modo tanto offensivo per la giustizia, ha dichiarato che le leggi eccezionali per le sanzioni contro i fascisti sono una mostruosità ed ha insinuato che la Magistratura del Nord nel giudicare i fascisti ha subito interferenze estranee ed ha perciò compiuto non opera di giustizia, bensì di vendetta; affermazioni queste che non sono assolutamente compatibili con la qualità di magistrato e che suonano aperta sconfessione delle leggi dello Stato da parte di chi dovrebbe sentire solo il dovere di applicarle.

«Barbareschi, Faralli, Pertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda di dare opportune istruzioni ai Commissari regionali per gli usi civici, di restringere la loro azione agli atti di pura amministrazione ordinaria, posto che la materia – per deliberazione dell’Assemblea Costituente – sarà in breve di dominio legislativo dell’ente Regione.

«Un tale provvedimento appare tanto più necessario in quanto da parte di tali organi esecutivi si insiste sull’applicazione della legge fascista sul riordinamento degli usi civici del 16 giugno 1927, n. 1766, la quale nelle zone montane dell’Alta Italia e in particolare in Friuli, non avrebbe altro esito di quello di determinare grave disordine e sconvolgimento dell’economia locale.

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se, tenuto conto:

  1. a) che gravi errori ed ingiustificate sperequazioni si lamentano in ordine agli accertamenti compiuti dai funzionari dell’Amministrazione finanziaria ai fini dell’applicazione dell’imposta generale sull’entrata a carico dei negozi di vendita al dettaglio, dei pubblici esercizi, degli artigiani; dei professionisti ed agenti di cambio, degli spedizionieri ed agenti di viaggio, degli esercenti trasporti di persone con mezzi di trasporti da piazza e da noleggio: errori e sperequazioni dovute ai criteri di verifica e di accertamento sbrigativi e puramente congetturali che sono adottati nei confronti di alcuni singoli contribuenti, e i cui risultati vengono arbitrariamente estasi agli appartenenti alla medesima categoria, senza la necessaria identificazione della effettiva importanza di ogni singola attività;
  2. b) che la Commissione provinciale istituita col decreto legislativo 27 dicembre 1946, n. 469, non offre, per la sua composizione, seria garanzia di un esatto ed imparziale giudizio: circostanza tanto più deprecabile ove si tenga conto del carattere definitivo attribuito alle decisioni di detta Commissione, ed alla comminatoria di sanzioni pecuniarie irrevocabili a carico dei contribuenti, anche quando l’applicazione di tali sanzioni in concreto sia del tutto ingiustificabile;
  3. c) che il sovra lamentato metodo di accertamento e di tassazione non soltanto determina un grave stato di disagio e di malcontento nei riguardi delle categorie colpite, ma è destinato a risolversi in un ulteriore aumento dei prezzi a danno dei consumatori;

non ravvisi la necessità urgente di apportare alle vigenti disposizioni opportuni ritocchi e modifiche, diretti ad assicurare un più razionale ed equo sistema di accertamento, che si ritiene di poter proporre come segue:

1°) comunicazione obbligatoria al contribuente del referto della polizia tributaria, o di ogni altro organo inquirente, in modo di consentire al contribuente stesso un effettivo e tempestivo esercizio del suo diritto di difesa;

2°) formulazione degli accertamenti da effettuarsi in collaborazione tra gli Uffici delle imposte dirette e gli Uffici del registro, con il concorso di Commissioni qualificate appartenenti alle singole categorie interessate;

3°) istituzione di un nuovo organo giurisdizionale di primo grado, rappresentato da una Commissione presieduta da un magistrato in servizio od a riposo, e composta di membri designati dalle varie categorie: attribuendo alla Commissione provinciale funzioni giurisdizionali di secondo grado;

4°) esenzione da qualunque sopratassa e pena pecuniaria nei casi di concordato concluso avanti la Commissione di primo grado.

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se il Governo intende mettere finalmente un termine alla vita della A.R.A.R., che occupa da anni impianti dell’industria privata con pregiudizio dell’economia nazionale e con aggravamento del problema della disoccupazione.

«De Martino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere:

1°) se gli consti che taluni uffici distrettuali delle imposte dirette – e segnatamente quello di Sant’Angelo dei Lombardi – stiano dando prova di eccessivo ed inconsulto zelo, avendo proceduto e continuando a procedere solo dopo la pubblicazione del decreto legislativo presidenziale 29 marzo 1947, n. 143, alla notifica di numerosi accertamenti per l’imposta ordinaria sul patrimonio, con effetto dal 1° gennaio 1943, in confronto di modestissimi proprietari od esercenti, i quali finora erano rimasti indisturbati, pur essendo l’imposta in vigore dal 1940, ingenerando così il sospetto che la procedura, formalmente avviata per un tributo che viene a cessare, sia in realtà preordinata ad acquisire contribuenti alla straordinaria proporzionale; e se non creda di dare disposizioni perché gli Uffici – fatta eccezione per i rari casi di gravi ed evidenti erronee omissioni – si astengano dal notificare nuovi avvisi di accertamento per l’imposta ordinaria sul patrimonio e revochino quelli già notificati;

2°) se gli consti che taluni uffici siano riluttanti ad accogliere il principio della legge che gli imponibili della straordinaria proporzionale devono essere stabiliti in base ai valori del triennio 1937-39 moltiplicati per i coefficienti fissi di 10 (terreni) e 5 (fabbricati) e se non creda, ad evitare fastidi per i contribuenti più modesti e meno attrezzati alla difesa dei loro interessi, di dare istruzioni perché siano rettificati, sulla base dei detti coefficienti, tutti gli imponibili per i quali vi sia stata variazione in aumento dell’imposta ordinaria sul patrimonio dopo la prima applicazione di essa;

3°) se, per quanto concerne le piccole aziende industriali e commerciali, agli effetti della determinazione dei valori assoggettabili alla straordinaria proporzionale, non creda che si debbano adottare criteri analoghi a quelli stabiliti per i terreni ed i fabbricati, che sostanzialmente riescono a stabilire valori imponibili medi inferiori a quelli correnti, onde stabilire criteri uniformi e perequati nell’applicazione dello stesso tributo.

«Scoca».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali inoppugnabili ragioni hanno consigliato il dirottamento verso altro porto del piroscafo Conte Biancamano appartenente di fatto e di diritto al compartimento di Genova, dove avrebbe dovuto arrivare fin dal giorno 30 agosto.

«Faralli, Barbareschi, Pertini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, sulle ragioni per le quali la polizia di Terni non è intervenuta, in occasione di una recente dimostrazione, contro quei dimostranti colpevoli del reato di cui all’articolo 297 Codice penale, e nella flagranza di esso, per aver scritto ed esposto cartelli offensivi della dignità del Sovrano Pontefice.

«Bellavista, Condorelli, Mazza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare al fine di risolvere l’intollerabile situazione per la quale, quantunque siano stati stanziati i fondi necessari ed appaltati i relativi lavori, onde venire incontro con 180 alloggi agli urgenti bisogni di una popolazione come quella della città di Benevento, distrutta per metà in conseguenza della guerra, non si ottiene ancora, dopo un anno di interruzione, che venga fornito il ferro necessario all’impresa, dopo che sono stati anche rilasciati dal competente ufficio del Genio civile i relativi buoni di assegnazione.

«E per conoscere, inoltre, se, in vista della tragica situazione di centinaia di famiglie che tutt’ora vivono in fetide baracche o in oscuri antri, situazione personalmente constatata dall’onorevole Ministro in una sua visita alla predetta città, non intenda il Governo intervenire in maniera più pronta ed efficace con lo stanziamento di adeguati fondi e la rapida costruzione di opportuni alloggi.

«Cifaldi, De Caro Raffaele, Bosco Lucarelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non reputi opportuno revocare la disposizione in base alla quale è fatto obbligo alle amministrazioni universitarie di versare al Tesoro, a partire dal prossimo anno accademico, l’importo della sopratassa speciale di iscrizione, incamerata negli anni passati dalle stesse università in virtù dell’articolo 30 del decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 238: disposizione che aggrava ulteriormente le già gravi condizioni finanziarie degli istituti di cultura superiore.

«Martino Gaetano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Governo, per sapere quali provvedimenti di urgenza intenda adottare per far fronte alla grave e allarmante disoccupazione di Napoli e della ragione campana.

«Salerno, Persico, Ruggiero Carlo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere come mai non si sia ancora provveduto all’approvazione dei sottoelencati progetti concernenti la sistemazione di Altino (Chieti): 1°) riparazione acquedotto; 2°) riparazione cimitero; 3°) pavimentazione e fognature al paese; 4°) scuole elementari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Venditti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non intenda estendere, seguendo ampio criterio di equità, alle vedove ed ai figli e figlie nubili minorenni dei pensionati civili e militari e dell’Amministrazione delle ferrovie dello Stato (anche se il matrimonio fu contratto durante lo stato di quiescenza, oppure nel biennio precedente al collocamento a riposo) e alle figlie nubili maggiorenni del pensionato, rimaste orfane, le disposizioni contenute nel capo I del titolo IV del testo unico delle leggi sulle pensioni civili e militari, approvato con regio decreto 21 febbraio 1895, n. 70, e dell’articolo 15 del testo unico delle disposizioni per le pensioni del personale delle ferrovie dello Stato, approvato con regio decreto 22 aprile 1909, n. 229, colle successive rispettive modificazioni, e nei limiti propri di ciascuna; subordinando il godimento del detto beneficio alle seguenti circostanze:

1°) che si tratti di vedova o di figli di pensionato rimasto vedovo prima o dopo la cessazione del servizio attivo e passato a seconde nozze dopo la messa in quiescenza oppure nel biennio precedente ad essa;

2°) che dalla data del matrimonio del pensionato a quella del suo decesso sia trascorso il termine non minore di 18 mesi compiuti;

3°) che le orfane maggiorenni del pensionato siano nubili, inabili a qualsiasi lavoro redditizio e non godano altra pensione od assegno a carico dello Stato, come già previsto dalla legge per le pensioni del personale delle ferrovie dello Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Selvaggi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se gli risulta che il Comando generale dell’Arma dei carabinieri non ha ancora dato esecuzione al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 maggio 1947, n. 500, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 giugno 1947. Poiché sembra che quel Comando generale, assumendo deficienze organiche, abbia intenzione di avanzare proposte per rendere inapplicabile all’Arma il decreto stesso, l’interrogante si permette di far rilevare all’onorevole Ministro che alle paventate deficienze si potrebbe ovviare potenziando l’arruolamento, anziché trattenendo coloro che aspirano al collocamento a riposo, su domanda, e coloro che eventualmente avessero demeritato dopo la proclamazione dell’armistizio.

«E pertanto chiede all’onorevole Ministro se non ritenga opportuno respingere eventuali proposte tendenti a non far applicare all’Arma il predetto decreto, e dare nel contempo urgenti disposizioni per l’immediata esecuzione dello stesso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Coppa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per richiamare la sua attenzione sul regio decreto 6 gennaio 1942, n. 47, che riservava a favore dei reduci e categorie similari il 50 per cento delle cattedre d’insegnamento che si sarebbero rese vacanti fino a sei mesi dopo la fine dello stato di guerra. Nell’articolo 7 si faceva speciale menzione di coloro che, dopo aver superato favorevolmente la prova scritta, non hanno potuto prendere parte a quelle orali, perché impossibilitati da cause di guerra.

«Un recente provvedimento stabilisce che metà di detti posti venga conferita in base alla sola valutazione dei titoli a coloro che abbiano precedentemente conseguita un’abilitazione. L’interrogante domanda se non si ritenga giusto aprire tale concorso per titoli anche a coloro che, ai sensi del surriferito articolo 7, avendo già favorevolmente superato le prove scritte, non abbiano poi potuto partecipare agli orali o per sopravvenuta prigionia, o per altre riconosciute cause di guerra.

«Con ciò, infatti, non si verrebbe meno al criterio fondamentale cui il recente provvedimento è ispirato, cioè che non si possa conseguire la nomina in ruolo senza aver sostenuto un esame. D’altra parte, mentre coloro che sono in possesso di una completa abilitazione, o l’hanno conseguita prima della guerra, non riuscendo in condizioni normali a vincere il concorso, hanno potuto sostenere regolarmente esami durante la guerra stessa, non riportando quindi da essa quei danni, cui lo spirito del regio decreto 6 gennaio 1942 mira a porre rimedio; con il provvedimento di cui sopra si viene a stornare una metà dei posti loro riservati a coloro che dalla guerra sono stati impossibilitati a completare gli esami di concorso già da essi iniziati con buone probabilità di riuscita, ledendo così uno stato giuridicamente già acquisito da una categoria cui con minori possibilità di dubbi si deve riconoscere un effettivo danno subito a causa di servizio di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Macrelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se il Governo non intende con esplicito provvedimento stabilire quale sia la precisa data in cui si deve ritenere proclamata la pseudo repubblica sociale italiana, ad evitare contestazioni in linea di ricorso da parte di funzionari lesi nei loro diritti, tenendo presente: 1°) che il decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 249, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 ottobre 1944, n. 70, relativo all’assetto della legislazione nei territori liberati, all’articolo 2 dichiara, tra l’altro, la inefficacia giuridica dei provvedimenti adottati «sotto l’impero del sedicente governo della repubblica sociale italiana», concernenti «la nomina, la carriera e la cessazione dal servizio dei dipendenti dello Stato, degli enti pubblici e degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e rispetto ai quali lo Stato abbia, comunque, partecipato alla formazione del capitale o, sotto qualunque forma, al finanziamento»;

2°) che in base a questo decreto, alcune amministrazioni dell’Italia non liberata all’8 settembre hanno dichiarato privi di ogni efficacia giuridica tutti i provvedimenti adottati dopo l’8 settembre 1943.

«Ora, poiché fino al 24 settembre 1943 non intervenne alcuna innovazione nell’ordinamento giuridico dello Stato e poiché solo dopo questa data si delinea la costituzione nei territori occupati dai nazisti di uno pseudo governo fascista repubblicano, appare arbitrario il provvedimento adottato da tali enti con la pronuncia di nullità dei provvedimenti indicati all’articolo 2 del decreto legislativo del 5 ottobre 1944, n. 249, anche anteriori al 24 settembre 1943, presi da amministrazioni non repubblichine di enti pubblici o parastatali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cevolotto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e della marina mercantile, per conoscere per quale motivo è cessato, dopo solo due viaggi, il servizio di trasporto dei prigionieri di guerra e degli internati civili dall’Eritrea, pel quale servizio il Governo americano ha posto a disposizione di quello italiano fin dal novembre 1946 le navi Vulcania e Saturnia; e ciò mentre numerosi ex militari e civili anelano di rimpatriare. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze e di grazia e giustizia, per conoscere se non ritengano opportuno, per ragioni di giustizia ed equità, emanare un provvedimento che sancisca l’efficacia retroattiva del decreto legislativo luogotenenziale 20 marzo 1945, n. 212, in tema di abrogazione della sanzione di nullità degli atti privati non registrati aventi per oggetto trasferimenti di beni immobili e di diritti immobiliari, stabilita con decreto-legge 27 settembre 1941, n. 1015, ovviando, in tal modo, alle ben note storture pratiche che in realtà derivano dalla mancanza di tale retroattività che, convalidando la nullità delle scritture private in data anteriore al suddetto decreto-legislativo luogotenenziale 20 marzo 1945, n. 212, e privandole di ogni azionabilità, favorisce in conseguenza la mala fede dei contribuenti inadempienti, mentre reca danno non indifferente ai moltissimi cittadini che acquistarono beni immobili e diritti immobiliari nel periodo intercorrente tra i due decreti, con piena e provabile buona fede. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere quello che ha fatto per eliminare la incresciosa situazione che si è verificata fra i dipendenti dell’Arsenale militare marittimo di Taranto, in seguito alle elezioni recentemente avvenute per la nomina delle Commissioni interne. Per tali elezioni gli organi direttivi della F.N.D.S., dopo aver preteso che la lista dell’Uomo qualunque dovesse avere 1200 firme, mentre tale condizione non era fatta per gli altri Partiti, successivamente, dopo cioè che la lista aveva raccolto le firme richieste, hanno escluso con arbitraria quanto faziosa decisione la lista qualunquista dalle elezioni. In tale circostanza i rappresentanti dell’Uomo qualunque in seno al Comitato elettorale della F.N.D.S. sono stati aggrediti e malmenati, mentre sono stati minacciati i firmatari stessi della lista qualunquista. Ciò premesso, l’interrogante reputa opportuno chiedere se l’autorità militare intende riconoscere valide le elezioni suddette, i cui risultati vanno considerati non rispondenti alla volontà degli arsenalotti, molti dei quali, dopo aver sottoscritto la lista dell’Uomo qualunque, si sono astenuti dal voto, deplorando l’atteggiamento delle autorità militari marittime, le quali benché richieste di intervenire per prevenire gli accennati abusi, non hanno ritenuto opportuno evitare tempestivamente gli incresciosi incidenti lamentati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se sia tollerabile che in regime di democrazia si possa tentare d’imporre ad un cittadino o a diversi cittadini di lasciare il luogo di loro abituale residenza e le loro normali occupazioni.

«Ciò con riferimento a quanto si è verificato o si vorrebbe fare verificare in comune di Bomporto (provincia di Modena), ove da parte della locale Camera del lavoro si esige che il signor Piccinini Gaetano con i suoi familiari abbandoni il paese e conseguentemente anche la abituale professione di fattore di campagna. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Coppi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, in relazione con l’immane tragedia avvenuta a Cefalonia negli infausti giorni del settembre 1943, in cui perirono oltre 5000 soldati e 500 ufficiali italiani, ed i superstiti furono deportati in Germania, dove trovarono quasi tutti una lenta morte; tragedia causata da insipienza e incoscienza di capi lontani e da spietata ferocia dei barbari tedeschi-nazisti, l’interrogante chiede di sapere, prescindendo dalla questione delle responsabilità alte e basse, quali provvedimenti siano stati adottati o si trovino allo studio per onorare degnamente le vittime e dare allo loro famiglie quel conforto morale e materiale che è anche una doverosa riparazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bernamonti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti si intendono adottare per ovviare alla difficile situazione in cui vengono a trovarsi i proprietari di alberghi requisiti per le truppe e i servizi alleati, specialmente nelle stazioni balneari e di cura come Viareggio ed altre.

«Ai detti proprietari vengono corrisposte, a titolo di indennizzo per la requisizione, delle somme assolutamente inadeguate ai costi attuali, e appare urgentissimo, fra l’altro, un provvedimento per una sollecita revisione dei prezzi-letto, che si confaccia alle esigenze odierne, essendo inconcepibile che si possa far fronte alle spese di gestione con sole 17 lire giornaliere per letto, cifra attualmente fissata.

«Provvedimenti di estrema urgenza si impongono anche per il rimborso mensile dei consumi, come acqua, luce, legna, ecc. e per la liquidazione totale che dovrebbe essere fatta ogni trimestre per poter mettere l’albergatore in condizione di far fronte ai propri impegni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non intenda emanare norme integrative al decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 134, per rendere più facile e più sollecita la riscossione dei profitti di regime, determinando una data fissa alla quale debba riferirsi la valutazione dei profitti avocabili e stabilendo criteri di valutazione quanto più è possibile automatici, in analogia a ciò che si è fatto per l’avocazione dei profitti di guerra e di speculazione e per l’imposta straordinaria sul patrimonio. (L’interrogante. chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se trova corretto che il Direttore generale addetto all’emigrazione non risponda alle lettere dei deputati alla Costituente che prospettano casi di speciale rilievo per l’inclusione nella quota negli S.U.A., o se creda di dare disposizioni precise per evitare, perché il grave inconveniente non debba ripetersi e sia invece consentito, attraverso queste segnalazioni e richieste, il costante controllo sull’operato di quella direzione generale, ed il rilascio di passaporti, per accertare che siano rilasciati secondo l’ordine di precedenza e secondo un criterio non di favore, ma di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Reale Vito».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se crede di intensificare i lavori per la ricostruzione della Manifattura tabacchi «San Pietro Martire», sezione Scafati, in vista delle gravi condizioni della disoccupazione locale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Falco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere i motivi per i quali l’Istituto sperimentale dei tabacchi di Scafati, che ha avuto vita gloriosa dal 1865, è stato soppresso e le ragioni per cui si è creduto di sistemare i servizi relativi ponendoli alla dipendenza di una sezione dell’agenzia di Cava dei Tirreni.

«Evidenti ragioni logiche, tecniche, ambientali consigliano invece di dare sede proprio in Scafati, giovandosi delle attrezzature colà esistenti, all’Istituto scientifico sperimentale dei tabacchi di nuova creazione, in perfetta autonomia.

«Tutto questo a prescindere dalla legittima e doverosa tutela dei diritti dei funzionari e del personale, da anni stabilitosi in Scafati, e che non sarebbe giusto sottoporre, nei gravi momenti attuali, alle enormi e gravi difficoltà di un trasferimento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Falco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se per motivi etici ed economici non intenda estendere, nei riguardi di tutti i concedenti, il provvido decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato (4 dicembre 1946, numero 671) riflettente la temporanea sospensione dell’esercizio del diritto di affrancazione dei canoni enfiteutici, censi ed altre prestazioni perpetue, nei riguardi dei comuni, provincie ed istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Falco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali ragioni ostacolino l’accoglimento della istanza di erezione in ente morale dell’Associazione volontari del sangue di Milano.

«L’istanza, corredata di tutti i documenti rituali, presentata da oltre un anno all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, rimane inevasa per ragioni incomprensibili.

«L’interrogante ritiene legittima e giusta l’aspirazione della benemerita Associazione milanese dei donatori del sangue costituita alla data del 30 giugno 1947 da 9983 volontari con ben 59.714 donazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se intende emanare un provvedimento legislativo, per il quale possano partecipare ai concorsi per direttore didattico tutti gli insegnanti elementari forniti di laurea e non solo quelli forniti del diploma di vigilanza scolastica rilasciato dalla facoltà di magistero, come previsto dall’articolo 2 della legge 31 maggio 1943, n. 570.

«L’interrogante ritiene giustificato il desiderio dei maestri che si trovano nelle condizioni predette, perché con un tale provvedimento si verrebbe a sanare la lacuna, per cui con un titolo superiore detti insegnanti non potrebbero partecipare ad un concorso aperto ai loro colleghi non laureati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri della difesa e della pubblica istruzione, per conoscere quali ragioni hanno ispirato il provvedimento di adibire a casa di svago e divertimento del soldato l’edificio scolastico della ex scuola Martignoni di Milano, mentre istituti scolastici governativi sono sopraffollati di alunni e debbono alternare nelle stesse aule anche tre turni al giorno di insegnamento per carenza di locali e impossibilità di ottenere dall’autorità provinciale nuovi edifici.

«In modo particolare appare ingiustificato e inopportuno l’uso che si vuole fare della ex scuola Martignoni (un edificio scolastico moderno con sessanta o settanta aule) mentre c’è un liceo scientifico governativo con circa duemila scolari senza sede, accampato alla men peggio, presso due scuole già per conto proprio sovraccariche di scolari.

«È pertanto urgente disporre che la sede dell’ex scuola Martignoni sia messa a disposizione dell’autorità scolastica milanese perché possa sistemarvi il secondo liceo scientifico governativo, provvedendo diversamente per la casa di svago del soldato, che non presenta lo stesso carattere di urgenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se ritenga o meno opportuno emanare un provvedimento legislativo per l’assicurazione obbligatoria contro i danni prodotti dalla grandine nella coltivazione del tabacco per conto dello Stato.

«In proposito l’interrogante ebbe a presentare, di sua iniziativa, una proposta di legge che fu svolta e presa in considerazione nella seduta del 3 giugno 1922 (Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXVI, sessione 1921-22, Documento n. 1599) e che non poté aver seguito per i successivi eventi politici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere se sia in corso l’equiparazione dei cantonieri statali ai cantonieri ferroviari e se con tale provvedimento stiano per essere concretate anche le altre richieste presentate dalla Associazione nazionale di categoria nell’interesse dei cantonieri statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chieffi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se non ritiene opportuno, per eliminare la incresciosa situazione che si è verificata tra i dipendenti dell’Arsenale militare marittimo di Taranto, in seguito alle elezioni recentemente avvenute per la nomina delle Commissioni interne, disporre l’annullamento delle elezioni stesse, i cui risultati vanno considerati non rispondenti alla volontà degli arsenalotti, molti dei quali, dopo aver sottoscritto la lista dell’Uomo qualunque, si sono astenuti dal voto.

«Infatti per tali elezioni gli organi direttivi della F.N.D.S., dopo aver preteso che la lista dell’Uomo qualunque doveva avere 1200 firme, mentre tale condizione non era fatta per gli altri partiti, successivamente, dopo cioè che la lista aveva raccolto le firme richieste, hanno escluso con arbitraria quanto faziosa decisione la lista qualunquista dalle elezioni. In tale circostanza i rappresentanti dell’Uomo qualunque in seno al Comitato elettorale della F.N.D.S. sono stati aggrediti e malmenati, mentre sono stati minacciati i firmatari stessi della lista qualunquista. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«La Gravinese Nicola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per conoscere se risponda a verità la notizia pubblicata dai giornali che una Corte alleata avrebbe, a Livorno, condannato a morte per impiccagione un cittadino italiano reo di aver ucciso un paracadutista calatosi in borghese in territorio italiano in istato di guerra; e, ove la notizia fosse vera, come il Governo intenda reagire a questa patente offesa ai principî di giustizia e a quella sovranità italiana di cui tanto si è parlato durante la discussione per la ratifica anticipata del «Trattato». (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Russo Perez».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se non ritiene opportuno estendere la concessione di tradotte per il trasporto di legna da ardere anche alle stazioni ferroviarie situate al sud della linea Battipaglia-Potenza-Metaponto-Brindisi.

«Sta di fatto che l’esclusione dal beneficio dell’intera regione calabrese, mentre ha suscitato vivo malcontento fra i numerosi industriali boschivi, i quali hanno visto perduta ogni possibilità di commercio con ditte ed enti del Settentrione, ove la legna da ardere, mancando il carbone fossile, è insistentemente richiesta, ha provocato nei più importanti scali ferroviari della Calabria l’affardellamento di enormi montagne di legna da tempo in attesa di carico.

«Tale incresciosa situazione ha causato gravissimi danni agli industriali i quali, dopo aver impiegato cospicui capitali per l’acquisto dei boschi, la lavorazione in loco ed il trasporto agli scali, hanno dovuto subire gravissime crisi economiche e sono stati costretti a sospendere la lavorazione, mettendo in stato di disoccupazione un considerevole numero di lavoratori, che nella produzione e nel commercio della legna in quella regione trova largo impiego. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto fa presente al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro degli affari esteri, che in data 16 giugno 1947 presentò la seguente interrogazione:

«Per sapere se consti della esistenza in Albania, e precisamente a Korce, di circa settecento lavoratori italiani cui non è stato finora consentito di rientrare in patria, e per conoscere quali provvedimenti siano stati presi o siano in corso di adozione allo scopo suddetto, tenuto presente che gli stessi prigionieri di guerra sono rientrati da tempo in famiglia.

«L’onorevole Presidente del Consiglio, presente alla seduta del 16 giugno 1947 dell’Assemblea, dichiarò di riconoscere l’urgenza dell’interrogazione.

«Soltanto però nella seduta del 28 luglio 1947, l’onorevole Ministro degli affari esteri, come risulta dal relativo resoconto, diede, sollecitato dall’interrogante, una risposta incompleta ed assai vaga.

«L’interrogante ripete, pertanto, l’interrogazione, soprattutto al fine di sapere quali provvedimenti intenda attuare il Governo onde ottenere l’immediato rimpatrio dei nostri connazionali, i quali non possono continuare ad essere trattati con dispregio delle più elementari norme del diritto internazionale e della libertà e dignità dell’uomo civile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quale attività il Governo abbia svolto e intenda svolgere per rendere possibile alle varie migliaia di ex prigionieri, residenti prima della guerra coi loro familiari all’estero o nei territori coloniali italiani, di ricongiungersi con le loro famiglie, facendo finalmente ritorno alle loro case o alle sedi del loro lavoro.

«Non può, infatti, non apparire degna del maggiore interessamento da parte del Governo la dolorosa situazione in cui si trovano questi nostri connazionali che dopo avere servito la Patria in guerra e dopo avere trascorso lunghi anni in prigionia, trattenuti ancora oggi nei centri di raccolta, versano in condizioni materiali e morali di estremo disagio; costretti all’ozio e sottoposti ad un trattamento di quasi prigionia in patria, sono ancora tenuti lontani dai loro cari, che non vedono da oltre sei anni, e, preoccupati delle condizioni di indigenza in cui versano i loro familiari, assistono con crescente sconforto al costante rinvio della soluzione del loro problema. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cortese».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per conoscere se, dopo quattro anni di ritardo, la direzione generale degli italiani all’estero (ufficio scuole) abbia intenzione di corrispondere al professore Vincenzo Forti, profugo dalla Tunisia, gli stipendi di maggio e giugno 1943. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Vita».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e della pubblica istruzione, per conoscere se sia fondata la notizia della rimozione degli uffici dell’Ispettorato regionale del lavoro nonché di quelli della Deputazione di storia patria dalla città di Reggio Calabria, dove hanno sede; ed in caso affermativo quali motivi abbiano determinato tali provvedimenti, di cui la sola notizia – che è da augurarsi infondata – ha già suscitato vivissima agitazione nella popolazione ed unanimi manifestazioni di protesta in seno alle rappresentanze cittadine e provinciali di Reggio Calabria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri dei lavori pubblici, delle finanze e del tesoro, per sapere quali provvedimenti intendano adottare, in linea d’urgenza, a favore delle 40 famiglie duramente colpite dal disastroso incendio sviluppatosi il 7 agosto 1947 a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in seguito al quale ben 40 abitazioni furono compietamente distrutte. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali provvedimenti ha preso o intenda prendere ai fini della sistemazione e riattivazione del campo di aviazione di Comiso.

«Detto campo, per la sua ubicazione e per le sue condizioni di vasta attrezzatura, suscettibili di essere ripristinate nella efficienza che ebbero durante la guerra, si presta a diventare uno dei più importanti aeroporti civili mediterranei e ciò va tenuto presente nelle concessioni di linee aeree ai fini di più ampio sviluppo della nostra aeronautica civile.

«Inoltre detto campo è al centro di una estesa zona agraria a cultura intensiva, rinomata in Italia e all’estero per la produzione ed esportazione di primaticci e prodotti ortofrutticoli in genere, che con grande vantaggio dell’economia collettiva potrebbero essere aviotrasportati nei lontani centri di consumo.

«Infine i lavori di sistemazione per ripristinare il campo nella primitiva efficienza sarebbero immediatamente opportuni per fronteggiare la grave disoccupazione che affligge la provincia di Ragusa, specie nel campo edile, e che ha dato luogo a recenti scioperi.

«Non ultima considerazione che si impone, e di natura schiettamente politica, è che la Sicilia non è soltanto il trinomio Palermo, Messina, Catania, ma vi è anche non ultima, ma purtroppo negletta e trascurata, tutta la zona sud-orientale, che rappresenta una popolazione di circa mezzo milione e un centro di intensa produzione agricola pregiata e di attività commerciale nonché di solerte avviamento industriale, per cui si impone di andare incontro al bisogno dei nuovi tempi relativo ad un collegamento aereo coi grandi mercati, alla quale esigenza risponde pienamente l’aeroporto di Comiso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cartia ».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della difesa, per sapere se, di fronte alla situazione che si è creata colla proroga dei lavori dell’Assemblea e il conseguente ritardo nella convocazione di un regolare Parlamento, di fronte alla gravità del problema del riordinamento delle Forze armate sulla base imposta dall’ingiusto trattato di pace, ed all’evidente malumore derivante dalla sistemazione dei quadri:

non si ritenga opportuno portare la questione dinanzi all’Assemblea per una esauriente discussione;

o, qualora altre esigenze vi si oppongano, provocare dall’Assemblea la nomina di una Commissione parlamentare, assistita da elementi tecnici delle singole Forze armate, per gettare le basi del definitivo ordinamento e risolvere con equità i gravi problemi della sistemazione del personale, evitando il diffondersi e l’aggravarsi di quello stato di malessere nato dai vari provvedimenti; che, da coloro, che si ritengono danneggiati, vengono attribuiti a criteri ingiusti e settari, con grave danno di quel cameratismo che deve esistere tra i quadri dell’esercito permanente e quello in congedo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bencivenga».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere i motivi pei quali in data 1° agosto è stata data disposizione che non sia applicato alcun aumento alla misura dei contributi previsti dall’articolo 1279, primo e secondo comma, del Codice della navigazione, sospendendo così l’applicazione del decreto presidenziale 26 aprile 1947, n. 547, il quale dispone sia decuplicata la misura dei contributi predetti, decreto già entrato in vigore il giorno 3 luglio 1947, ed in base al quale le Capitanerie di porto avevano già dato le disposizioni del caso; ed altresì per conoscere come si intenda provvedere a normalizzare il regime dei contributi in questione, nell’interesse dei lavoratori portuali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

se è a conoscenza della pubblicazione, da parte di un giornale romano della sera, del diario scritto da una detenuta responsabile di un orrendo crimine che ebbe a commuovere profondamente l’anima del popolo;

e come tale pubblicazione – a parte le ovvie considerazioni morali che la deplorano – sia stata possibile, dal momento che le norme regolamentari vigenti nelle carceri giudiziarie non consentono ai detenuti d’inviare all’esterno manoscritti senza il consenso dell’autorità giudiziaria;

e per conoscere inoltre quali provvedimenti s’intendano prendere contro i responsabili dell’avvenuta infrazione alle norme suddette. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Minio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se nel piano generale di ricostruzione e di potenziamento delle linee ferroviarie italiane non possa essere compresa la costruzione del tratto Roccasecca-Formia, che completerebbe il congiungimento trasversale tra l’Adriatico e il Tirreno, con enorme vantaggio di tutta l’economia nazionale.

«Il sottoscritto desidera ricordare che, nella seconda tornata di sabato 6 agosto 1921 della Camera dei Deputati (Legislatura XXVI, prima sessione, Discussioni n. XXXIII, pagina 1547) ad una sua esplicita richiesta, il Ministro dei lavori pubblici dell’epoca, onorevole Micheli, ebbe a rispondere che avrebbe tenuto «nella massima considerazione la linea Roccasecca-Formia per la grande importanza che effettivamente riveste». Da allora (e sono passati ben 26 anni!) non se n’è fatto più nulla! (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere le ragioni che inducono le Intendenze di finanza e gli uffici distrettuali delle imposte dirette a non dare immediata comunicazione alle rispettive esattorie delle imposte stesse degli avvenuti riscatti dell’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio, onde ne derivano sì il pericolo di ingiusti atti coattivi contro contribuenti che hanno effettuato l’intero pagamento e sì affievolimento nella volontà di molti altri a determinarsi al riscatto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cifaldi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere:

se gli è noto che alcuni comandi della Guardia di finanza ed, in particolare, quello di Caserta, non dànno alcun valore alle norme esecutive, emesse dal Ministero dell’agricoltura e confermate dall’Alto Commissariato dell’alimentazione (circolari 20255 e 20303 del 7 dicembre 1946 e 9 dicembre 1946), allo scopo di regolare le modalità e la procedura per l’ammasso dell’olio disposto con il decreto ministeriale 31 ottobre 1946, n. 252. Ciò, mentre dette norme hanno avuto dovunque in Italia piena esecuzione e completo riconoscimento di legalità e sono state, poi, confermate e convalidate dal decreto ministeriale 11 maggio 1947, n. 120, che fa espresso richiamo ad esse;

quali provvedimenti intenda di prendere con l’urgenza richiesta dal caso, dato che il detto comando della Guardia di finanza di Caserta arresta, denunzia e sequestra i prodotti, come in questi giorni è avvenuto a Teano, di coloro che disciplinatamente si sono attenuti a dette norme e disposizioni, cosa che risulta dalle dichiarazioni scritte della UCSEA e degli altri organi locali preposti al controllo, dichiarando esso Comando di ritenere le norme stesse incapaci di modificare la esecutorietà di quanto prescritto dal succitato ed iniziale decreto 31 ottobre 1946.

«Si fa presente che la posizione va chiarita e regolarizzata con ogni urgenza, dato che anche la magistratura del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che è in possesso delle denunzie presentate dal comando della Guardia di finanza di Caserta contro i presunti trasgressori, ha dimostrato di non avere una precisa opinione in proposito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere quali difficoltà si frappongono alla promulgazione dei provvedimenti legislativi, già da tempo predisposti, circa l’allineamento del sistema e dell’entità delle prestazioni all’assicurazione di malattia per i lavoratori rispettivamente dell’agricoltura, del commercio e del credito ed assicurazione.

«Chiede inoltre di conoscere le ragioni del ritardo nella determinazione dell’adeguamento delle aliquote contributive per il settore dell’agricoltura per l’anno 1947, riferito all’assicurazione di malattia, ritardo che toglie all’Istituto assicuratore ogni possibilità funzionale in tale campo, con grave pregiudizio degli interessi dei lavoratori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bibolotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quanto già chiesto con altra interrogazione presentata nella seduta dell’Assemblea del 30 luglio 1947 (sin oggi senza risposta) e cioè i motivi che ritardano la sanzione dell’accordo «già intervenuto» fra il comune di Reggio Calabria ed il Ministero della pubblica istruzione per la nazionalizzazione del Museo di Reggio Calabria.

«La pratica si trova dal dicembre 1946 all’esame del Ministero dell’interno e già quello della pubblica istruzione ne ha fatto presente l’urgenza, segnalando anche «eventuali resistenze al provvedimento da parte di elementi locali, per ragioni personali», come dalla risposta ad analoga interrogazione del sottoscritto data dal Ministro della pubblica istruzione il 28 luglio 1947. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che sinora hanno impedito, nonostante l’assicurazione data dal Ministero con foglio n. 17500 dell’8 gennaio 1947 diretto al prefetto di Roma, di adottare i provvedimenti ripetutamente invocati dalla deputazione provinciale della Capitale per eliminare l’anormale situazione determinatasi nell’ufficio di segretario generale dell’Amministrazione provinciale, ricoperto nominalmente dall’avvocato Giovanni Lorenzo Imbriaco, il quale però non presta servizio essendosi ritenuto inopportuno ch’egli riprenda le funzioni esercitate durante tutto il periodo fascista, ed effettivamente disimpegnato dal dottor Pasquale Catarinella, designato alla carica dalla deputazione provinciale; per conoscere altresì se non ritenga che sia ora di porre fine agl’indugi, liberando l’Amministrazione provinciale dall’aggravio di un doppio stipendio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carboni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali criteri vennero adottati dalla Commissione costituita in seno al Ministero per lo sfollamento degli ufficiali in base al decreto 20 maggio 1946, n. 384, essendosi verificato il caso di allontanamento dall’esercito di giovani ufficiali superiori, con brillante passato militare, internati nei campi di concentramento e che hanno compiuto tutto e intero il loro dovere, mentre vennero richiamati dalla posizione di «attesa di reimpiego» ufficiali che aderirono e giurarono fedeltà alla infausta repubblica di Salò. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze, dell’agricoltura e foreste e l’Alto Commissario per l’alimentazione, per sapere quali provvedimenti intendano adottare per alleviare almeno in parte i gravissimi danni del violento uragano che si è abbattuto nei giorni scorsi sul territorio del comune di San Giovanni Lipioni (Chieti) distruggendo completamente i raccolti dell’ulivo e dell’uva, le piante da frutta e gli ortaggi e danneggiando persino l’abitato mercé la rottura di tegole e vetri.

«Si chiede innanzi tutto l’esenzione da tutte le imposte e la concessione di speciali beneficî nel campo dell’agricoltura e dell’alimentazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dell’interno, per sapere se siano a conoscenza che il piccolo comune di Lentella (Chieti) di mille anime, che ha dato ai granai del popolo, pur avendo un agro poverissimo, ben 1200 quintali di grano, il doppio dello scorso anno, è tra i paesi più trascurati d’Italia e attende da anni che siano riparati l’unica strada di accesso al paese, l’acquedotto che è in fin di vita ed è in parte franato, il cimitero e la strada che vi conduce, nonché le fognature.

«Si chiede che si provveda d’urgenza a tali lavori, mai effettuati nonostante le promesse delle autorità comunali e provinciali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze, del tesoro, dell’agricoltura, dei lavori pubblici e l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare, nei limiti della rispettiva competenza, per alleviare in qualche modo i gravissimi danni (valutati a circa un miliardo di lire) della terribile grandinata che, con chicchi di eccezionale grandezza (del peso di mezzo chilo) si è abbattuta il 12 agosto 1947 su una vasta zona della campagna di Ortona distruggendo completamente il raccolto della pregiata uva da tavola di esportazione «Pergolone», del vino e dell’ulivo, nonché tutti gli ortaggi.

«Si chiede, per quei disgraziati agricoltori, che con sacrifizi sovrumani e con la perdita di centinaia di loro congiunti erano riusciti a far rinascere e prosperare i loro campi già schiantati dalla furia devastatrice della guerra e insidiati da innumerevoli mine, oltre all’esenzione da ogni genere di tributi, la concessione dei seguenti benefici che valgano ad attenuare le condizioni di angosciosa miseria in cui sono nuovamente piombati per effetto di questo secondo flagello:

1°) versamento immediato di un altro anticipo sui danni di guerra per la perdita di beni mobili domestici;

2°) versamento cumulativo di due acconti a quelli che non hanno ancora riscosso alcun anticipo;

3°) liquidazione e pagamento dei danni di guerra subiti dalle loro aziende agricole;

4°) pronta liquidazione del contributo statale a quelli tra loro che hanno riparato o ricostruito le case di abitazione danneggiate o distrutte dagli eventi bellici;

5°) speciali provvidenze nel campo alimentare e dell’agricoltura. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se e quando cesserà il monopolio dei pubblici servizi automobilistici, tuttora detenuto da grosse imprese privilegiate ed inamovibili che riescono sempre ad impedire il sorgere di altre libere ed oneste iniziative di società minori od a soffocarle appena nate, per eliminare senza scrupoli la concorrenza e dominare senza contrasti in un campo che involge, tra gli altri e soprattutto, gli interessi di intere popolazioni, specie nelle zone che sono ancora prive di comunicazioni ferroviarie.

«Si chiede, in concreto – citandosi uno dei tanti episodi incresciosi – perché è stato soppresso il servizio (ottimo sotto tutti gli aspetti) – che veniva effettuato dalla Società italiana riparazioni e trasporti (S.I.R.E.T.) tra Lanciano e Roma e Lanciano e Napoli e che non solo collegava tra loro importanti centri intermedi come Ortona, Francavilla, San Vito, ecc., ma aveva ridata la vita a quelle ampie zone dell’Aventino e del Sangro, martoriate dalla guerra, tuttora tagliate dal mondo per la mancata e tanto attesa ricostruzione della ferrovia Sangritana che prima le attraversava.

«Si impone il ripristino immediato di tale servizio, la cui ingiustificata soppressione ha provocato energiche proteste unanimi dei comuni, dei partiti, delle associazioni ed altri enti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga opportuno, al fine di evitare eventuali casi di corruzione e per rassicurare il pubblico interessato, di disporre l’affissione nei locali dei Distretti militari degli elenchi dei cittadini esonerati dal servizio militare con la specificazione del motivo dell’esonero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scarpa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e foreste, sulla opportunità di prorogare la scadenza del premio di sollecito conferimento del grano agli ammassi almeno fino al 31 agosto in favore dei produttori della provincia di Potenza, i quali, pur essendo animati da spirito di solidarietà e di premura, non sono in grado di godere del premio stesso, non essendo per la maggior parte forniti di trebbie e di altri attrezzi necessari per il compimento dei lavori di raccolta del grano e debbono perciò attendere lungo tempo prima che sia giunto il loro turno per usufruire delle pochissime trebbie esistenti in provincia.

«Tale condizione di svantaggio di fronte ai produttori delle altre zone determina gravissimo malumore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zotta».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri del tesoro, delle finanze e dell’industria e commercio, per conoscere esattamente, tenuto conto degli stanziamenti originari e di quelli successivi, l’importo dei fondi finora erogati per la ricostruzione ed il ripristino degli impianti industriali, in dipendenza del decreto legislativo luogotenenziale 1° novembre 1944, n. 367, e di quello 8 maggio 1946, n. 449, fondi che l’opinione pubblica ritiene, in complesso, ammontanti a circa 35 miliardi. E perché sia precisato in che modo l’importo stesso è stato ripartito tra l’Italia settentrionale e quella centrale e meridionale.

«Ciò allo scopo di verificare se all’Italia meridionale, che ha il triste privilegio di aver sopportato il più alto onere di distruzioni – onere che nel suo maggior centro, Napoli, ha raggiunto il 70 per cento circa della consistenza degli impianti – è stata assegnata o, quanto meno, riservata su detti fondi, come prescritto da ogni più elementare criterio di equità e di giustizia, una quota proporzionata all’importo dei danni subiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quali provvedimenti in via d’urgenza intenda adottare in favore degli agricoltori (piccoli proprietari e coltivatori diretti) di Soligo, frazione del comune di Farra di Soligo in provincia di Treviso, che si trovano in condizioni pietose causa la distruzione delle case, mobilia e bestiame avvenuta nel periodo nazi-fascista. Lamentano infatti detti agricoltori che la situazione è notevolmente aggravata in seguito all’aumento della pressione fiscale, che non tiene conto di tante rovine consumate, di reddito notevolmente diminuito, delle condizioni pietose in cui versano centinaia di famiglie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese».

Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti in via del tutto straordinaria intenda adottare per la ricostruzione di 12 case di abitazione e 25 stalle, distrutte in rappresaglie nazi-fasciste nel disgraziatissimo Soligo, frazione del comune di Farra di Soligo, provincia di Treviso.

«La miseria di quella popolazione è spaventosa e non si può chiedere alla stessa alcun ulteriore sacrificio. Si invocano, pertanto, provvedimenti urgenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se, considerata la gravissima situazione granaria verificatasi nel corrente anno non solo a causa dell’annata sfavorevole, ma anche per la ridotta superficie investita e per le minori cure dedicate alle culture cerealicole, e tenuto conto che nell’ambiente agricolo è diffuso un preoccupante fermento, dovuto a convinzione e propaganda, che lascia prevedere per la nuova campagna un investimento ancor più ridotto, non ritengano urgentissimo che il Governo si pronunci subito con precisione sulla futura disciplina granaria per il fatto che gli agricoltori, nel breve volgere di pochi giorni, debbono predisporre i lavori per la semina. E per sapere in particolare a qual punto sia la preparazione delle norme per le nuove forme di ammasso per contingente previste per il nuovo anno, per le quali sarà bene aver cura che:

1°) per incoraggiare le colture cerealicole le nuove norme da emanarsi siano note almeno entro la prima quindicina di settembre;

2°) la disciplina si basi su quantitativi fissati indistintamente per ettaro in coltivazione, in modo che all’ammasso per contingente contribuiscano tutti gli agricoltori, siano o no produttori di cereali;

3°) siano fissate le quote pro capite per uso famigliare, quelle per semina e usi aziendali considerandole come facenti parte del conferimento all’ammasso per contingente;

4°) sia prevista l’esclusione delle piccolissime aziende;

5°) il decreto sull’ammasso per contingente fissi delle norme di carattere generale lasciando che l’attuazione pratica sia regolata da disposizioni provinciali in quanto in ogni provincia ci sono situazioni ambientali e sistemi di lavoro (menda, cottimo, ecc.) che sarebbe impossibile prevedere con un unico decreto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Guariento».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Governo, per sapere se non sia giunta l’ora di liquidare l’abbondante serie di Commissari e Commissariati che, a più di due anni dalla liberazione, detengono come un’arbitraria e vantaggiosa sinecura la rappresentanza di Associazioni e di Istituti pubblici, di cui è doveroso nei congrui casi ristabilire la legittima rappresentanza, mediante la libera elezione degli aventi diritto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non credano addivenire prontamente alla liquidazione dell’Ente nazionale di previdenza avvocati, e ciò conforme ai ripetuti voti della classe forense, giacché l’Istituto stesso è mancato completamente ai suoi scopi e la sua gestione continua ad impinguarsi inutilmente dei gravosi contributi degli interessati e delle tasse giudiziarie, esatte con grave imbarazzo della stessa Amministrazione giudiziaria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della difesa e della pubblica istruzione, per sapere:

  1. a) se è a loro conoscenza che un grande edificio dell’ex scuola Martignoni a Milano sia dedicato a casa di svago e divertimento per il soldato, mentre il secondo Liceo scientifico milanese manca di una sede propria e deve ospitare una crescente popolazione scolastica;
  2. b) se, in caso in cui la notizia sia vera, non ritengano di adottare d’urgenza il provvedimento di restituire all’autorità scolastica l’edificio in parola, che consentirebbe la disponibilità di 60 o 70 aule, e quindi risolverebbe il grave problema che si affaccia nel veniente anno scolastico per gli studenti del Liceo scientifico milanese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tremelloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se intenda provvedere a sollecitare le promozioni dei sergenti maggiori dell’Esercito, da tempo bloccate, e all’assegnazione di alloggi ai sottufficiali ammogliati; se non creda di subordinare il trasferimento di detti sottufficiali alla disponibilità di alloggio nella nuova sede di destinazione: le quali provvidenze costituirebbero una prova che il Dicastero della difesa cerca di adeguare le condizioni economico-morali di questi suoi dipendenti a quelle, indubbiamente migliori, di ogni altro dipendente statale e parastatale di parità di grado se non di funzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Filippini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi a favore degli studenti che si iscrissero e frequentarono i corsi della scuola di medicina e chirurgia che si istituì in Asmara nel 1941 a seguito delle cessate relazioni con la Madre patria, e vi sostennero regolari esami alla fine di ogni corso.

«La Facoltà di medicina di Roma, interessata dal Ministero della pubblica istruzione, nella seduta del 25 febbraio 1945 esprimeva parere favorevole al riconoscimento degli studi compiuti, non autorizzando per altro la Scuola al conferimento della laurea. Riconfermava tale parere favorevole nella seduta dell’11 aprile 1946.

«Oggi molti studenti sono in grado di conseguire la laurea in Patria, solo a seguito delle opportune decisioni del Ministero della pubblica istruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«La Gravinese Nicola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se è vero che l’ispettore agrario compartimentale di Catanzaro, dottor Berna, valendosi della sua carica e con mezzi illeciti, sia venuto in possesso di terreni tratti dai relitti di bonifica nel comprensorio di Brancaleone (Reggio Calabria), sfera di sua competenza, intestandoli alla moglie e alla figlia, alle quali ha erogato sussidi per miglioramenti agricoli.

«In caso affermativo quali provvedimenti intenda prendere a carico del suddetto funzionario, che, fra l’altro, è un epurato fascista, affinché la scandalosa speculazione, oggetto di vivaci commenti, sia severamente repressa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della marina mercantile, per sapere quali provvedimenti intendano adottare affinché venga distribuito equamente – secondo le attrezzature di cui sono forniti i porti d’Italia ed il numero dei componenti le compagnie – l’arrivo dei piroscafi di grano, carbone ed altro, e ciò perché tutte le città marinare abbiano eguale possibilità di lavoro. Se intendano espletare un’azione per accertare il funzionamento della Commissione di coordinamento trasporti e se, accertata la inefficienza o la mancanza di detta Commissione che avrebbe il compito di coordinare il lavoro dei porti con obiettività ed unicità d’indirizzo, quali provvedimenti verranno adottati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità), per sapere se non ritenga opportuno ed utile attrezzare un padiglione degli Ospedali riuniti di Reggio Calabria, oggi disponibile, come sanatorio antitubercolare, indispensabile a questa città, dove non esiste istituzione del genere e dove il diffondersi, in questi ultimi tempi, della tubercolosi nelle classi popolari, ha acuito in modo preoccupante la situazione generale, rendendo difficile l’assistenza agli ammalati e la profilassi sanitaria per carenza di sanatori.

«L’interrogante fa rilevare che fin’oggi gli ammalati di questa provincia sono costretti ad essere ricoverati in altre provincie con grande disagio delle famiglie povere, ragion per cui la richiesta in oggetto si appalesa maggiormente necessaria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere le ragioni della ritardata emanazione del provvedimento di estensione agli agenti di custodia dei benefici che loro competono a mente di quanto è disposto dall’articolo 2, terzo capoverso, del decreto legislativo luogotenenziale 21 novembre 1945, n. 722, e ciò a partire dalla data in cui sono stati chiamati per legge a far parte delle Forze armate dello Stato; provvedimento che, oltre ad eliminare la disuguaglianza di trattamento tra il personale di custodia e gli appartenenti agli altri corpi di polizia, varrà a sollevare le condizioni di grave disagio economico e morale, in cui gli agenti si trovano a vivere attualmente, tenuto presente il delicato servizio cui devono assolvere. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga opportuno dare al Commissario dell’Ente edilizio di Reggio Calabria, integrato da una Commissione consultiva, la facoltà di regolare gli alloggi dei complessi edilizi di sua competenza, mediante redistribuzione ai concessionari, in quei casi che l’alloggio risulti eccedente al fabbisogno familiare, secondo lo stato di famiglia, documentato dall’ufficio anagrafe della città.

«Ciò per evitare nella crisi attuale, come in effetti si verifica, la speculazione di subaffitti simulati, da una parte, e la privazione di un tetto ad aventi diritto, in conseguenza della guerra, dall’altra.

«L’interrogante fa osservare che la concessione, da parte dell’Ente edilizio, degli alloggi agli aventi diritto non deve avere il carattere di contratto privato per il motivo che tale carattere non consente all’organo concedente di eliminare la sperequazione e la speculazione. Ragion per cui è desiderabile dare alla concessione il carattere pubblico e regolabile secondo la necessità, specie dopo lo scioglimento dei Commissariati degli alloggi, che ha sensibilmente aggravato la situazione dei senzatetto, in condizioni economiche non sufficienti a procurarsi un’abitazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere:

  1. a) se non ritenga urgente sospendere il taglio di piante forestali nella zona dell’Aspromonte in Calabria, dove ditte industriali, venute dal Nord e spinte da criteri speculativi, compiacentemente favorite dagli agenti forestali, spogliano la foresta delle piante utili, anzi indispensabili alla sistemazione montana idrico-forestale ed alla bonifica delle zone vallive in via di programmazione e di attuazione;
  2. b) se non riconosca, invece, necessario procedere al rimboschimento continuo, oggi sospeso per mancanza dei fondi occorrenti, della suddetta zona mediante un programma razionale, in breve tempo eseguibile e concordato con gli enti tecnici di bonifica valliva, al fine di valorizzare tutte le opere fin qui eseguite a valle, che costarono milioni all’erario e che ancora sono sotto il pericolo continuo di alluvioni, per mancato coordinamento di azione tra il Ministero dell’agricoltura e quello dei lavori pubblici;
  3. c) se, al fine di cui sopra, non ritenga procedere al riordinamento del corpo forestale, non ancora sistemato e rispondente alle immediate necessità, tenendo presente che la Calabria per la sua speciale costituzione orografica è la regione che ha immediato bisogno del servizio forestale, competente per tecnica ed adeguato alle esigenze della vigilanza e della disciplina delle foreste. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga giusto provvedere d’urgenza a che l’importante nodo stradale Cesena-Cesenatico venga classificato statale, accogliendo così i voti delle amministrazioni e popolazioni interessate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non crede necessario revocare prontamente un enorme errore verso il sergente Brunati Ermelindo di Carlo e di Fumagalli Rosalia, nato il 26 ottobre 1916 a Lentate sul Seveso ed ivi abitante in via Verdi, 5.

«Risulta all’interrogante, come del resto è palese dagli atti, che il 23 marzo 1943 il nominato Brunati ebbe ad apostrofare il colonnello Gambassi, il quale commemorava la fondazione dei fasci nella caserma «Giacomo Medici» a Roma con la frase: «Piantala, buffone!», esprimendo in tal modo la sua avversione al fascismo che il detto colonnello si apprestava a commemorare.

«Per questo fatto il sergente Brunati venne condannato in data 23 luglio 1943 a 12 anni di reclusione militare. Scontati 15 mesi il coraggioso sergente, avvenuta la liberazione di Roma, venne liberato dal capitano Palma. Se non che, attualmente il sergente in parola è stato nuovamente arrestato per scontare la pena inflittagli sotto il Governo fascista.

«Il sergente in parola è riuscito a rendersi latitante.

«L’interrogante chiede che l’onorevole Ministro di grazia e giustizia intervenga prontamente a revocare l’arresto, in quanto l’atto del sergente Brunati fa parte dei tanti episodi di eroismo e di resistenza al fascismo, di cui si sono resi responsabili centinaia di migliaia di soldati, civili e militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non ritenga opportuno e necessario che l’amnistia, di cui all’articolo 1 del decreto 5 aprile 1944, n. 96, sia applicata d’ufficio ai condannati dell’ex tribunale speciale per la difesa dello Stato di fascista memoria per reati contro il cessato regime fascista.

«Ciò per evitare lungaggini procedurali a danno di tali condannati che debbono provvedere alla richiesta di applicazione della citata amnistia a loro spese, per di più col danno che può derivare dal non ottenere subito il certificato penale senza l’annotazione del reato, commesso appunto, come previsto dall’articolo 1 del citato decreto, per ridare al popolo italiano le libertà soppresse. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni che consigliarono la sospensione dei lavori di ricostruzione della stazione ferroviaria di Mortara, e per chiedere se non sia d’avviso che debbano essere ripresi al più presto, al fine di ripristinare il normale funzionamento di tutti gli uffici tutt’ora sistemati, in parte, in ambienti di fortuna.

«È superfluo aggiungere che alla stazione di Mortara convergono, e fanno capo, diverse linee con enorme affluenza di viaggiatori, per cui si rende necessario il sollecito riassesto della medesima. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pistoia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze, del tesoro, dei lavori pubblici, dei trasporti e dell’industria e commercio, per sapere se ritengano – anche per dimostrare, coi fatti, che il Governo non intende trascurare gli interessi vitali dell’Italia centro-meridionale – che sussista la imprescindibile, urgente necessità di proporre che la legge 5 dicembre 1941, n. 1572, sul decentramento degli stabilimenti industriali in connessione coi nuovi impianti idroelettrici dell’Italia centro-meridionale ed insulare, riprenda il proprio vigore e ne venga prorogata l’efficacia almeno pel decennio 1947-56.

«Tale necessità è stata dimostrata con ragioni inoppugnabili dalla Camera di commercio, industria ed agricoltura di Teramo in una mozione, allegata alla presente interrogazione e già comunicata direttamente ai predetti Ministri, con la quale si confutano ampiamente i rilievi, vaghi, inesatti ed incompleti, formulati nella risposta negativa dell’ex Ministro Morandi ad una precedente interrogazione del sottoscritto sullo stesso argomento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere se non creda urgente disporre per la pronta ricostruzione della stazione ferroviaria di Codroipo, la quale, in seguito agli eventi di guerra, è stata ridotta nel suo corpo centrale  a tale esiguo numero di ambienti da rendere penoso e difficile il lavoro del personale e il traffico viaggiatori, mentre i depositi merci sono così ridotti che la maggior parte delle merci in sosta sono lasciate all’aperto, con continuo e grave pericolo di deterioramento per intemperie e moltiplicate ed incerte le cautele di custodia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle finanze, del tesoro, dell’agricoltura, dei lavori pubblici e l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare, nei limiti della rispettiva competenza, per alleviare in qualche modo i gravissimi danni delle terribili, eccezionali grandinate che si sono abbattute, distruggendo tutti i raccolti, sulle campagne dei comuni, già sinistrati dalla guerra, di Ari, Arielli, Canosa Sannita, Crecchio, Filetto, Giuliano Teatino, Lanciano, Orsogna, Poggiofiorito, Ripateatina, Vacri, Villamagna ed altri viciniori.

Si chiede, per quei disgraziati agricoltori, oltre all’esenzione da ogni genere di tributi, la concessione dei seguenti benefici che valgano ad attenuare le condizioni di angosciosa miseria in cui sono nuovamente piombati per effetto di questo secondo flagello:

1°) versamento immediato di un altro anticipo sui danni di guerra per la perdita di beni mobili domestici;

2°) versamento cumulativo di due acconti a quelli che non hanno ancora riscosso alcun anticipo;

3°) liquidazione e pagamento dei danni di guerra subiti dalle loro aziende agricole;

4°) pronta liquidazione del contributo statale a quelli tra loro che hanno riparato o ricostruito le case di abitazione danneggiate o distrutte dagli eventi bellici;

5°) speciali provvidenze nel campo alimentare e dell’agricoltura. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non ritenga opportuno e doveroso un sollecito e definitivo esame della situazione critica, e talvolta tragica, di quei cittadini italiani che svolgevano in Africa Orientale Italiana una libera attività e sono stati duramente colpiti nei loro interessi, senza che sia stato finora adottato alcun provvedimento per il risarcimento dei danni industriali o commerciali da essi subiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«de Martino Carmine».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga di dover includere nei concorsi banditi con decreto ministeriale pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14 luglio 1947 tra ex combattenti, mutilati ed invalidi per la lotta di liberazione, partigiani combattenti e reduci dalla prigionia e dalla deportazione, per la nomina ad insegnanti negli istituti governativi d’istruzione media, anche gli orfani di ex combattenti, di mutilati ed invalidi per la lotta di liberazione, di partigiani combattenti e di reduci dalla prigionia o dalla deportazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carboni Angelo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se gli organi responsabili del patrimonio di Arte sono al corrente dei propositi dell’Amministrazione di Milano – rivelati dalla stampa – circa l’alienazione di oggetti e di opere appartenenti a gallerie e musei di proprietà di quel Comune, e come – nel caso affermativo – si pensi di provvedere alla tutela dell’interesse nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno e degli affari esteri, per conoscere quali provvedimenti si intenda adottare – ai fini del non più prorogabile ravvio alla normalità – per la graduale eliminazione di tutte le organizzazioni a carico del bilancio statale, le quali, sorte nell’immediato tragico dopoguerra, oggi, a distanza di vari anni, non dovrebbero avere più ragione di essere.

«Più particolarmente chiede se sia nota la esistenza in Roma di un Centro di assistenza per i figli degli italiani all’estero, abusivamente installatosi, da oltre quattro anni, nella proprietà privata denominata Villa Stuart sulla via Trionfale; che i componenti di detto Centro, i quali vivono a carico dello Stato, sono nella maggioranza impiegati a stipendio fisso o comunque addetti ad attività redditizie; che alcuni di questi, in convivenza promiscua, compiono anche atti vandalici contro la proprietà illegittimamente occupata, commettendo atti di violenza privata che nemmeno gli organi di pubblica sicurezza hanno potuto contenere, evocando in piena Roma i fasti della zona di Tombolo.

«La pronta eliminazione di questa situazione intollerabile determinerà l’impostazione di un vasto programma edilizio, che iniziative private straniere sollecitano di poter realizzare con evidente maggior decoro di Roma e con apporto effettivo alla soluzione dell’angoscioso problema della disoccupazione operaia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, perché, con la nomina di una Commissione idonea, si provveda, appena possibile, al riordinamento della Galleria nazionale d’arte moderna in Roma, restituendole con l’indirizzo di origine – compromesso da facile inclinazione a gusti polemici ed a mode anche straniere – l’importanza internazionale che le spetta.

«Collocate che siano le pitture e le sculture che hanno sicuramente varcato le soglie del temporaneo successo, o che rappresentino documentazione significativa di correnti costruttive, le tendenze nuove, dopo obiettiva selezione, troveranno la loro sede provvisoria in un apposito reparto della Galleria stessa, in attesa di quel collaudo del tempo che manifesta infallibilmente la caducità delle opere che non siano pervase dal divino afflato dell’arte. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda sollecitare il decreto di approvazione e di finanziamento, in base alla legge 13 febbraio 1933, n. 215, dei lavori di sistemazione dei pascoli alpini Fossa di Stevenà, Coda di Bosco, Pizzoch di proprietà del comune di Caneva di Sacile il cui progetto per un importo di 2.440.000 lire è stato preparato ancora il 26 aprile 1947.

«I lavori in corso devono esser in breve sospesi per mancanza del contributo governativo, con pericolo dei lavori eseguiti e con aumento della già impressionante disoccupazione locale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali sono le ragioni del differente trattamento – relativamente alla corresponsione della razione viveri in natura od in contanti – tra i sottufficiali dell’Aeronautica militare, non effettivamente impiegati ma considerati in «attesa di destinazione», e quelli della Marina militare, pure considerati nella medesima posizione.

«Ciò perché consta che, mentre ai primi non sono state – a tutt’oggi – corrisposte le razioni viveri in natura od in contanti, a quelli della Marina militare – come da dispaccio del Ministero della marina, Direzione generale C.E.M.M., Direzione generale di Commissariato, protocollo n. 2000548 del 30 gennaio 1947 – è stato disposto di corrispondere tale razione viveri in natura od in contanti, rispettivamente se residenti in sede ove esistano magazzini viveri o se residenti in sede ove non esistano tali magazzini.

«Ora, considerato il caso di una forte aliquota di sottufficiali dell’Aviazione militare, trovantisi nella identica posizione dei sottufficiali della Marina militare, si ritiene che le disposizioni intese a regolare il trattamento economico ed amministrativo per i dipendenti della Marina debbano essere identiche – come per il passato – a quelle per i dipendenti dell’Aviazione, perché se uno stato di disagio economico esiste per i primi, è vero che lo stesso stato di disagio esiste per i secondi.

«Si chiede pertanto che venga, con urgenza, esaminata la situazione dei sottufficiali dell’Aviazione militare nella posizione di «attesa di destinazione» e che venga quindi esteso a questi ultimi il trattamento che è goduto dai loro colleghi della Marina militare. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rognoni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se, presso i depositi dell’U.N.R.R.A. di Livorno e di Mestre, esistano giacenze di macchine agricole di probabile distribuzione ai Consorzi agrari provinciali per soddisfare le richieste di assegnazione, espresse dai vari centri di motoaratura.

«Ciò perché, tra le altre, nella provincia di Padova sono state assegnate – da parte del locale Consorzio agrario provinciale – macchine agricole ai centri di motoaratura dei comuni di Montagnana, Este e Campodarsego, mentre non è stata data evasione alla richiesta di assegnazione presentata dal nuovo centro di motoaratura del comune di Rubano – recentemente costituitosi – avendo, il predetto Consorzio agrario, esaurite le scorte. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rognoni».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro del tesoro, sui gravissimi fatti dichiarati da un comunicato della Questura di Roma e che dimostrano come esista in Italia la possibilità – incontrastata ed incontrollata – di fabbricare ed emettere moneta dello Stato senza il concorso dello Stato medesimo.

«Se non ritenga urgente ed indispensabile una severa inchiesta su tutta la gestione del Poligrafico per colpire inesorabilmente i responsabili di fatti che gettano luce sinistra sulla vita amministrativa, tecnica e finanziaria dello Stato italiano.

«Se non ritenga, infine, evidente la necessità che si sappia finalmente, attraverso la stampigliatura o il cambio della moneta, quale è il suo effettivo volume – lecito od illecito – in libera circolazione, allo scopo di dare alla nostra sventurata moneta almeno un elemento di concretezza e restituendo così allo Stato quella serietà, di propositi e di sistemi, che costituisce base essenziale ed inderogabile di ogni sistema monetario.

«Santi».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e dell’agricoltura e foreste, per conoscere quali provvedimenti si siano adottati per far cessare le già segnalate persecuzioni contro i coltivatori della terra in Calabria, che vivono nelle tradizionali condizioni di fame e sono scambiati per affamatori. Essi si trovano oggi esposti a vessatorie perquisizioni domiciliari ad opera di incaricati di enti parassitari dello Stato, che girano in lussuose macchine e in abiti sportivi, e, agendo per lo più in base a denunzie anonime, con audace offesa alla libertà individuale, provocano facili mandati di cattura e iniqui sequestri di tutto il misero frutto del lavoro, in danno di chi ha sudato un’intera annata per un pezzo di pane.

«Caroleo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 18.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

GIOVEDÌ 31 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXI.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 31 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Damiani

Jacini

Giannini

Caroleo

Badini Confalonieri

Sforza, Ministro degli affari esteri

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Nenni

Gronchi, Relatore della maggioranza

Ruini

Orlando Vittorio Emanuele

Selvaggi

Corbino

Scotti Alessandro

Perassi

Bassano

Patricolo

Togliatti

Laconi

Condorelli

Votazione segreta:

Presidente

Chiusura della votazione segreta:

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Micheli

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni, interpellanze e mozione (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 9.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lombardi Riccardo.

(È concesso).

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte ad interrogazioni presentate da onorevoli deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.

Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

Restano da svolgere alcuni degli ordini del giorno presentati. L’onorevole Damiani ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, certa della rinascita dell’Italia nel nuovo clima di solidarietà internazionale, delibera di ratificare il Trattato per chiudere un triste periodo di errori, cui tutto il mondo concorse».

Ha facoltà di svolgerlo.

DAMIANI. Onorevoli colleghi, io sarò brevissimo; non parlerò più di dieci minuti.

PRESIDENTE. Sarà un esempio per gli altri.

DAMIANI. L’onorevole Sforza ha dichiarato che se entro il 10 agosto l’Italia non avrà ratificato il Trattato, corriamo il rischio di vedere ritardato di un anno il nostro ingresso all’O.N.U.

Chi ha sostenuto l’indipendenza dei due fatti non ha potuto dimostrare matematicamente il suo asserto. Tanto più che oggi i giornali pubblicano due nuove notizie che confortano la tesi favorevole alla ratifica. La prima ci fa sapere, secondo un portavoce del Foreign Office, che l’Unione sovietica subordina la ratifica dei trattati a quella preventiva degli Stati ex-nemici; la seconda riguarda il veto russo all’ammissione fra le Nazioni Unite degli Stati vinti che non hanno ratificato il rispettivo Trattato di pace. Quindi, di fronte a questa situazione, l’Italia non può assumersi gravi responsabilità verso il suo popolo, essendo per noi assolutamente necessario rientrare nella catena della piena e viva collaborazione internazionale.

Questa settimana di dibattito, che chiamerei settimana di passione e di dolore nazionale, ha rivelato al mondo l’alto senso di dignità e di realtà del popolo italiano. Le mutilazioni che ci impone il duro Trattato dobbiamo subirle come una imposizione che non possiamo respingere, ma il dolore dà al popolo italiano la forza di risollevarsi fidando nelle sue grandi risorse morali e di lavoro.

La revisione non potrà essere negata.

Noi non possiamo isolarci dal mondo, ma nemmeno il mondo può fare a meno dell’Italia.

Un russo, Giacomo Novicow, pubblicò nel 1902 un volume sulla missione dell’Italia. L’eminente sociologo, obiettivo analizzatore della fisiologia dei popoli, fu ardente amico dell’Italia, ne conobbe l’alto potenziale umanistico, scientifico, artistico, civile e sociale e nel quadro armonico che egli si fece di un mondo concepito a razionale e naturale unità di forze, disciplinate ed equilibrate al fine del bene comune, egli vide ed esaltò la nobile e feconda missione dell’Italia sia nel campo intellettuale, dato che essa fu madre del diritto, delle scienze e delle arti, ed è sempre nuova generatrice di alte e forti energie, di genio e di lavoro, sia nel campo internazionale per le sue possibilità di iniziativa per unire i popoli.

Il fervente federalista Novicow, venendo sulla strada già tracciata da Mazzini, fin dal 1900 si fece sostenitore di quella chiara, giusta e naturale teoria che oggi, rifiorita nel cuore di milioni di uomini, costituisce la più grande forza che lo spirito possa opporre al disordine e ad una miope politica di astuzie e di egoismi, che rinverdendo i decrepiti e anacronistici nazionalismi e imperialismi, condurrebbe il mondo a morte.

L’Italia – col Trattato o senza Trattato – è viva, vigorosa ed eterna.

Essa, non soltanto per il mutato clima dei tempi, ma per la sua debolezza militare, non ha più possibilità di intervenire con la forza in una politica che sulla forza fosse basata.

Noi siamo il popolo che più sentiamo l’attuale fase evolutiva verso un mondo ascendente all’unità, perché Iddio ci ha dotato di alto senso storico, politico, etico e sociale. Siamo il popolo più internazionalista. Noi abbiamo preso la via giusta delle due che sul bivio della storia invitano e tentano l’umanità alla salvezza o alla distruzione. Questa alta missione storica di fattore riequilibratore, di combattente per la pace, di sollecitatore di soluzioni armoniche tra le forze contrapposte, di avvicinatore delle parti divise da un complesso di malintesi di carattere ideologico ed economico, questo alto compito umano di suscitatore di un sano ottimismo, mentre rauche e livide si fanno le lingue pessimistiche che annunciano un nuovo cataclisma, proprio dall’Italia deve essere esplicata con la virtù del suo spirito vibrante di ideale e di saggezza.

Cosa rimane a noi se non la forza della nostra volontà, della nostra energia, capacità, intelletto, sensibilità, lavoro?

Questo oscuro trattato segnerà il limite di una triste epoca, limite fino al quale la mentalità di un cupo medioevo ha potuto spingersi.

Esso sarà superato certamente dall’avvento delle forze del bene che stanno fiorendo e germogliando in tutti i continenti.

Occorre aver fede in un avvenire migliore. I popoli tendono a unirsi e si uniranno, e i dettagli della situazione presente, che oggi tanto ci affliggono, saranno le briciole di un triste passato che la nuova era di luce disperderà definitivamente.

A Londra, nel febbraio scorso, 72 membri del Parlamento britannico si pronunciarono a favore di una federazione mondiale.

Truman, il 4 luglio, invita e sospinge alla solidarietà internazionale.

«Noi dobbiamo mirare – egli afferma – non ad assicurare la pace per il nostro tempo, bensì la pace per tutti i tempi a venire».

Perón, nel suo discorso del 6 luglio, rivolge un caldo appello a tutti i popoli perché la nuova fede federalista mondiale li illumini e li guidi.

Marshall sollecita la ricostruzione economica dell’Europa su un piano di generale concorso di tutte le forze europee per l’instaurazione di un nuovo ordine continentale.

Ai Paesi che ancora non hanno partecipato ai lavori preliminari per la definizione del piano sarà incessantemente ripetuto l’invito e tutti si augurano la collaborazione dell’Oriente europeo alla formazione della nuova struttura comune per tutti i popoli civili.

Coudenhove-Kalergi ha riunito, il 4 luglio, i parlamentari di quasi tutti i Paesi europei a Gstaad per la costituzione di un libero Parlamento europeo, e l’8 settembre i deputati di molte nazioni torneranno a riunirsi in un grande congresso nella stessa Gstaad.

L’Italia ha dato il maggior numero di adesioni all’iniziativa di Coudenhove-Kalergi: 310 sono stati i deputati italiani che hanno risposto sì al suo primo quesito se erano favorevoli ad una Federazione europea.

Oltre 200 sono i deputati italiani che costituiscono il gruppo parlamentare per la Unione Europea.

Dal 17 al 24 agosto, con la partecipazione di oltre 20 nazioni, di tutti i continenti, avrà luogo a Montreux un congresso per l’Unione Mondiale e dal 27 al 30 agosto un secondo congresso per l’Unione Europea.

All’Università internazionale di Lugano dal 31 agosto al 28 settembre avrà luogo un corso di «Educazione alla pace e alla cooperazione dei popoli».

In tutto il mondo fioriscono movimenti federalisti e se ne incontrano decine in ogni Paese. Recentemente in America, è stata calcolata al 67 percento la popolazione favorevole ad un Governo Mondiale. In tutto il mondo si pubblicano libri sulle possibilità reali di una Federazione mondiale.

Reves, nella sua «Anatomia della pace» scrive:

«La credenza diffusa che sia impossibile qualsiasi ordine legale unificato tra l’Unione Sovietica e le Democrazie occidentali a causa delle differenze fondamentali nei loro sistemi economici, non è più valida del pregiudizio vecchio di secoli che cattolici e protestanti non possano vivere pacificamente nella stessa comunità.

«I conflitti tra Stati sovrani sono inevitabili non a causa di differenze nei loro sistemi sociali-economici, ma a causa del potere sovrano non integrato delle unità sociali divise».

L’onorevole Nobile, nel suo recente libro L’Umanità al bivio, conclude che il sistema delle sovranità nazionali è oggi il nostro peggiore nemico: «Occorre lottare strenuamente contro esso e il disordine economico, che ne è conseguenza, per far trionfare sullo spirito dei gretti, malefici, feroci nazionalismi quello della solidarietà fra tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, religione, cultura».

L’O.N.U. e le organizzazioni internazionali derivate: U.N.E.S.C.O., F.A.O., U.N.R.R.A., e tante altre per il potenziamento sul piano mondiale delle più sane forze culturali sociali ed economiche, sono il preludio della nuova storia.

Se in ogni paese si indicesse un referendum sulla Federazione Mondiale, il risultato sarebbe senz’altro positivo. I popoli debbono essere coscienti della loro qualità di protagonisti della storia e devono determinare i fatti positivi che generano la pace e l’armonia. Noi dobbiamo credere, fermamente credere nel valore e nella forza dello spirito, che Dio ha dotato di virtù sublimi, se vogliamo risollevarci dal dolore ed operare in pro dell’umanità umiliata ed affronta, che soffre e che spera.

Il sospetto, l’ipocrisia e l’egoismo immiseriscono e distruggono; essi debbono esser vinti dalla comprensione e dalla fede.

Roosevelt disse: «Le Nazioni Unite vogliono lavorare all’instaurazione di un ordine internazionale nel quale lo spirito di Cristo guidi i cuori degli uomini e delle Nazioni». L’Italia vuole entrare nell’O.N.U. appunto per adempiere, alla luce di quel principio, l’alta missione cui è particolarmente chiamata. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Jacini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, mentre rinnova la più viva protesta contro le clausole del Trattato di pace, che disconoscono l’apporto decisivo recato dal Corpo di liberazione e dai Partigiani italiani alla causa comune, delibera di autorizzare il Governo a dar piena esecuzione ai Trattato medesimo, non appena esso entri in vigore a termini dell’articolo 90».

Ha facoltà di svolgerlo.

JACINI. Onorevoli colleghi, il doloroso episodio che ha chiuso la seduta di ieri ha confermato quella che era in me opinione già radicata; e cioè che tutta questa discussione avrebbe dovuto, per carità di patria, essere impostata diversamente. Noi non potevamo certo pretendere che una parte dei nostri colleghi si adagiasse all’opinione dell’altra per amore di unità esteriore, per formare una specie di fronte unico dinanzi allo straniero; ma ben potevamo imporre a noi stessi un contegno così sobrio, un’argomentazione così contenuta e castigata, una manifestazione così moderata dei nostri dissensi, da dare a tutto il mondo una manifestazione di quella sostanziale solidarietà di idee che è pure in noi quando, di comune accordo, riteniamo tutti ingiusto e difficilmente sopportabile questo Trattato che ci viene imposto.

Purtroppo non è stato così. Purtroppo i dissensi si sono manifestati con una violenza e con una incoerenza davvero deplorevoli; onde a me non resta che trarne per mio conto questo proposito, di mantenere le mie brevi parole entro limiti tali, da non riaccendere un nuovo contrasto, da non offrire di nuovo uno spettacolo, alla Nazione e al mondo, così diverso da quello che la Camera italiana avrebbe pur dovuto presentare.

Io noto, con qualche stupore, una certa diversità di impostazione fra coloro che sostengono una stessa tesi, e cioè la tesi della non ratifica o della non immediata ratifica del Trattato.

Tra le parole del senatore Croce e quelle di altri colleghi, specie di questa parte dell’Assemblea (Accenna a destra), mi è parso infatti di notare un sostanziale e profondo divario, anche se le conclusioni erano in apparenza uguali. Nelle parole di Benedetto Croce vibrava una contenuta passione, una protesta fondata su ragioni morali; protesta alla quale tutti i settori di questa Assemblea non possono che aderire, anche se molti di noi non ne traggono quelle conseguenze politiche che al senatore Croce è piaciuto di trarne. Ma, sull’insieme della sua argomentazione, ripeto, non poteva esservi dissenso.

Invece, da qualche altra parte dell’Assemblea hanno riecheggiato rimpianti, che non mi sembrava dovessero udirsi in quest’Aula. Mi è sembrato, cioè, che da alcuni si rimpiangesse, non tanto o non soltanto il prezzo troppo duro pagato per la sconfitta, l’ingiustizia della pace che ci viene imposta, ma proprio la sconfitta medesima; quasi che fosse pensabile, quasi che fosse sopportabile alla mente di un Italiano che il conflitto potesse avere un esito diverso da quello che effettivamente ha avuto.

Onorevoli colleghi, io sono stato due volte, durante l’ultima guerra, richiamato in servizio militare, ed ho fatto il mio dovere di soldato, di ufficiale e di gentiluomo. Ma non è mai venuta meno in fondo al mio animo la convinzione che la guerra era perduta, che la sconfitta era inevitabile, che la sconfitta era necessaria; necessaria per quella fatalità, per quella giustizia immanente della storia, la quale non è se non l’estrinsecazione della giustizia trascendente di Dio.

Vi sarebbe stato, o signori, qualcosa di assai più grave della sconfitta; la situazione sarebbe oggi assai più grave di quella davanti alla quale ci troviamo, se, anziché la sconfitta noi avessimo avuto la vittoria delle potenze del male, e se a quella vittoria noi fossimo rimasti, in qualche misura, associati. (Applausi). Quando da parte di qualcuno si dice che la nostra cobelligeranza doveva essere negoziata, ciò può corrispondere ad una esatta, se pur miope visione della contingenza momentanea; ma non dimentichiamo che la cobelligeranza era per noi un diritto prima che un dovere, e soddisfaceva ad una nostra profonda aspirazione. Tutto quello che possiamo rimpiangere è che essa ci sia stata concessa troppo tardi ed in misura troppo ristretta. Moralmente la cobelligeranza non poteva essere negoziata, perché rispondeva ad un postulato fondamentale della coscienza italiana. E quando l’onorevole Patrissi dice che la guerra del 1915 e la guerra del 1939 sono sostanzialmente una cosa sola e rispondono ad un medesimo piano nazionale, egli – mi pendoni la parola forse un po’ forte – pronuncia una bestemmia, perché la guerra del 1939, nello spirito che l’ha animata come nei risultati che ha conseguito, è stata l’antitesi e la distruzione della guerra del 1915. La guerra del 1915 è guerra alla quale tutto il popolo italiano ha partecipato con le più profonde radici del proprio spirito; la guerra del 1939 è guerra che il popolo italiano ha condotto per un semplice concetto di onore militare, ha subito come una dolorosa necessità, e che ha profondamente rimpianto di dover condurre; onde i risultati sono stati quelli che dovevano necessariamente corrispondere ad uno stato d’animo siffatto.

Comunque, i vincitori ci obbligano oggi a pagare per questa guerra uno scotto che è indubbiamente sproporzionato, perché non tiene conto dell’apporto considerevole e concreto che alla risoluzione finale del conflitto hanno dato le nostre forze militari organizzate ed i nostri partigiani.

Onorevoli colleghi, se lo scotto è così alto, gli è perché i nostri nemici di ieri sentono ancora nelle carni il danno positivo che noi abbiamo loro inflitto; è perché il nostro esercito, trascinato in una guerra che non voleva, si è tuttavia battuto con strenua abnegazione; le nostre fanterie, accompagnate da carri armati di modello antiquato, hanno fatto tutto il loro dovere; le nostre artiglierie, con un armamento anacronistico, hanno sparato giusto; la nostra marina, cieca, priva di una propria aviazione, priva di porta-aerei, si è tuttavia battuta su tutti i mari; la nostra aviazione, alla deficienza di materiali ha supplito con la mirabile abnegazione dei suoi uomini. Io vorrei che sulle tombe ignorate dei nostri soldati caduti, dalle sabbie infuocate dell’Egitto alle steppe gelate della Russia, fiorisse la riconoscenza della Patria; che si potesse incidere su quelle tombe ciò che Luigi I di Baviera volle scolpito sulla stele, che a Monaco ricorda il sacrificio dei bavaresi caduti combattendo nelle schiere napoleoniche nella campagna di Russia: «Auch sie starben für’s Vaterland»: «anch’essi sono morti per la Patria». (Approvazioni).

Questo valore del nostro esercito, questa efficienza della nostra offesa, è stata riconosciuta dal maresciallo Alexander, dal generale Clark, dall’ammiraglio Cunningham e da molti altri; e noi possiamo ben accontentarci di queste testimonianze di ex nemici divenuti amici, e respingere come immonda, con la punta dei nostri stivali, l’oscena accusa formulata in un noto discorso del signor Wischinski, camuffata ed edulcorata poi dalle interpretazioni di una ufficiosa agenzia; la quale peraltro si è dimenticata di includere nella smentita la prima frase, che io non voglio ripetervi qui per carità di Patria e per rispetto di me medesimo; frase che crea fra noi e l’amico popolo jugoslavo un diaframma, che non sarà allontanato se non il giorno in cui la frase stessa verrà ritirata o smentita.

Questo debito che gli alleati ci impongono di pagare, noi l’abbiamo riconosciuto. La necessità della ratifica è stata, su proposta dell’onorevole Nitti, votata all’unanimità dalla Commissione dei Trattati. Noi abbiamo, in un primo tempo, autorizzato l’ambasciatore di Soragna ad apporre la propria firma al Trattato di pace; successivamente abbiamo votato a maggioranza in seno alla Commissione dei Trattati in favore della ratifica, e abbiamo consegnato tale voto, e guisa di viatico, nelle mani del nostro Ministro che si recava a Parigi. Che cosa dovrebbe ora spingerci a non ratificare? Quali vantaggi possiamo riprometterci da una non ratifica?

Il solo fatto che secondo alcuni può consigliarci a non ratificare è questo, che la Russia sinora non ha ratificato: la Russia, notate bene, cioè la sola fra le Potenze vincitrici, che alla nostra domanda di revisione abbia risposto con un no secco ed assoluto, ammonendoci che bisognava sottostare in qualsiasi modo alle condizioni imposteci, perché il Trattato, così com’era, rappresentava quanto di meglio l’Italia potesse attendersi in ogni caso.

Ed è proprio per aspettare la ratifica della Russia che noi dovremmo sospendere un atto libero della nostra volontà? (Commenti a sinistra).

La ratifica che cosa significa? Significa uscire dalle condizioni precarie in cui ci troviamo oggi; liquidare, sia pure a prezzo caro ed ingiusto, il nostro debito; sederci dall’altra parte del tavolo, entrare nel novero dei popoli creditori.

Perché dovremmo rimandare dunque la ratifica?

Non per ragioni giuridiche, perché il carattere coatto di questa pattuizione è nella sua stessa natura; trattato viene da trattare, e questa pattuizione non è stata trattata, quindi il Trattato è di per sé stesso coatto, indipendentemente dalla ratifica che noi possiamo o non possiamo apportarvi.

Non per ragioni pratiche, perché la clausole alle quali il Governo sottopone la ratifica fanno sì che essa non divenga operante se non il giorno in cui vi sia il concorso da parte di tutte le potenze vincitrici. Quindi quelli che potrebbero essere i temuti inconvenienti di una ratifica data in anticipo sono a priori eliminati dalla cautela di tale formula.

Non, infine, in attesa di non so quale sperabile evento: ma quale evento? Si dice che vi sia una probabilità su un milione che esso si verifichi. Ma io anche questa probabilità non la vedo e, per la natura stessa dell’atteggiamento che andiamo ad adottare, ove una simile ipotesi si verificasse, ebbene, noi saremmo ancora in tempo a tornare a discutere sull’argomento; questa nostra ratifica in realtà non è tale ma si riduce ad un’autorizzazione, data al Governo, di procedere alla ratifica quando si siano verificate determinate circostanze.

Si parla infine di fierezza nazionale: in questi giorni si è molto abusato di questo motivo. Ma io domando se vi sembri che vi sia da parte nostra maggior fierezza nel pagare, nel gettare sul tavolo il prezzo del nostro debito, o se ve ne sia una maggiore ne1 piatire indefinitamente, per qualche mese o per qualche anno, in attesa di un indeterminato evento o di un supposto mutamento di spirito da parte di taluno dei nostri vincitori.

Io ritengo che la fierezza stia in questo caso, nel porre la parola fine sotto i nostri debiti e nel portarci dall’altra parte della barriera.

La verità è che tutti quanti – e non soltanto da quei banchi (Accenna a sinistra)tutti aspettano la parola di Mosca. Non hanno impressionato l’onorevole Orlando gli applausi scroscianti che hanno da quel settore accompagnato le sue più accese formulazioni nazionalistiche? Ha pensato l’onorevole Orlando se quegli applausi vi sarebbero stati, e quali sarebbero stati, ove invece della ratifica della Russia si attendesse, poniamo, la ratifica dell’Inghilterra o quella degli Stati Uniti? Molto probabilmente i consensi sarebbero diventati dissensi, e la situazione in quest’aula sarebbe stata completamente cambiata. (Approvazioni al centro).

Io voglio ricordare qui un episodio, che farà piacere molto probabilmente ai miei amici comunisti, in quanto è tratto da quella storia della Russia zarista che la storiografia ufficiale sovietica ha completamente incorporata e fatta propria. Nel cosiddetto periodo «dei disordini», che va dalla morte di Ivan il Terribile all’assunzione del potere da parte di Pietro il Grande, un’ambasceria moscovita venne in Italia e si fermò anche a Firenze, nella Firenze medicea del secolo XVII. Ebbene, il più grande stupore – ci dicono le cronache – il più grande stupore che quei barbuti ambasciatori abbiano provato, proveniva dal vedere come il Granduca mediceo non si prosternasse a terra e non battesse la fronte sul tappeto al solo udir pronunciare il nome dello zar. Amici, ho paura che vi sia molta gente in Italia che, in ritardo di tre secoli, pensa ancora come quegli ambasciatori moscoviti! (Commenti a sinistra). È un’opinione, basata su un dato storico; ci sono dei curiosi ricorsi nella storia!

Onorevoli colleghi, io non voglio abusare del tempo vostro e dell’Assemblea; voglio dire soltanto questo: l’Italia oggi chiude la partita per iniziare la sua faticosa ascesa. Nella storia millenaria del nostro Paese ricorrono gli episodi di questo genere; cadute alle quali succedono lunghi periodi di ricostruzione e di palingenesi. Se qualcuno di voi vorrà prendersi la briga di sfogliare gli annali del Parlamento subalpino dopo la sconfitta di Novara, dopo il 1849, troverà una situazione psicologica molto vicina alla nostra attuale. Anche allora erano forti i dissensi, anche allora vi erano alcuni che non volevano accettare il fatto compiuto a nessun patto, che avrebbero voluto una resistenza senza scopo e senza contenuto. Anche allora vi furono uomini cauti e prudenti che vollero invece accettare il fatto compiuto; e badate: il fatto compiuto significava allora consegnare all’Austria le chiavi di casa – le chiavi della fortezza di Alessandria – consegnare allo straniero – come purtroppo oggi avviene – alcuni punti vitali della nostra frontiera; ma da quel momento era pur possibile intraprendere, in un’atmosfera di serenità austera e di concentrata volontà, la ricostruzione morale e materiale del Paese.

Questa è la situazione in cui l’Italia si trova attualmente, questa è l’opera alla quale ci accingiamo; per attendere alla quale abbiamo bisogno di porre la parola fine a questo disgraziato e deprecato conflitto, in cui la frenetica volontà di un uomo ci ha spinti, e avviarci a quella lenta e faticosa ricostruzione che darà al nostro Paese un avvenire, non certo roseo né florido, ma un avvenire degno delle nostre grandi e millenarie tradizioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Giannini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, ritenendo non urgente la discussione sulla ratifica del Trattato di pace, la rinvia a data da destinarsi».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi avevamo chiesto di non discutere la ratifica del Trattato di pace. Alla prima proposta fatta in questo senso dall’onorevole Orlando noi ci associammo facendo nostra quella proposta e chiedendo che su di essa si svolgesse con urgenza la votazione. Avemmo il consenso di altri partiti coi quali di solito non ci troviamo d’accordo.

Sventuratamente, quella proposta non fu approvata e ciò che noi avevamo previsto è accaduto. Avevamo previsto che la discussione sul Trattato di pace non si poteva fare, e non si poteva fare perché è una discussione nella quale tutti possono avere ragione, nella quale tutti possono portare ragioni valide a sostegno della propria tesi. È un discussione che si fa mentre ancora le ferite da ogni parte riportate bruciano, mentre i rancori sono ancora recenti, mentre le delusioni e i dolori ancora stringono il nostro cuore forse più della miseria che ci opprime.

In queste condizioni di spirito, le quali non sono soltanto quelle dell’Assemblea ma quelle dell’intero Paese, non era possibile, e non è stato possibile, condurre una discussione serena sul Trattato di pace. Ciò che è avvenuto lo prova. Noi prendiamo amaramente atto del fatto di avere avuto ragione a proporre quanto avevamo proposto.

Che la discussione sulla ratifica del Trattato fosse difficile e dovesse necessariamente trascendere, ne abbiamo avuto le prove durante tutta la discussione, alla quale io personalmente ho invano tentato di sottrarmi, andando perfino a curare le avventure e le sventure di una crisi comunale di una grande città italiana, quasi a provare che ritenevo più importante la soluzione di un problema amministrativo locale che non quella che – senza offesa per nessuno – mi permetto di chiamare logomachia intorno ad un fatto che può essere modificato solamente da circostanze e da forze che sono estranee a noi; e non da noi, né dalle nostre parole né dai nostri rancori né, soprattutto, dalle nostre lotte che ci fanno assomigliare ai polli di Renzo che si beccavano l’un l’altro credendosi scambievolmente autori del proprio martirio.

Noi abbiamo avuto una prova della pericolosità di questa discussione ieri, ascoltando un grande parlamentare verso il quale la nostra reverenza non è mai mancata; ne abbiamo una prova oggi ascoltando l’onorevole Jacini, il quale è arrivato al punto di dire che la sconfitta dell’Italia era necessaria. Onorevole Jacini, mi onoro di non essere della sua opinione; e, per quanto mi costi, e per quanto io abbia pagato, tengo a dire a lei e agli altri colleghi di questa Assemblea che a qualunque costo io avrei preferito la vittoria dell’Italia alla sconfitta.

Mi rendo conto che da tutte le parti della Assemblea possono essere lanciate accuse e tutte con fondamento. Possono esserci accuse alla borghesia. Onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, fate bene ad accusare la borghesia. Noi facciamo bene a difenderla e a ricordare che le cause che hanno travolto spiritualmente la borghesia italiana hanno trovato anche nel vostro disorientamento dei fondati motivi. C’è chi accusa la monarchia: a ragione, perché la monarchia ha commesso gravissimi errori; ma i monarchici hanno anche essi ragione, quando oppongono circostanze, uomini, fatti a suffragio della loro tesi. In queste condizioni, noi non dovevamo discutere il Trattato di pace il quale, onorevole Sforza – lei sa la deferenza che ho per lei – non è la condanna di un regime, ma è solo la sconfitta di un popolo militarmente più debole: e niente altro che questo.

Ci si parla di collaborazione internazionale che potremmo esercitare ratificando, e non esercitare non ratificando. Io mi permetto di ritenere che la collaborazione internazionale, se noi non la volessimo, dovremmo fornirla lo stesso; e se la volessimo e non la volessero gli altri, noi non la otterremmo.

Mi sembra opportuno che si rettifichi in quest’Aula, almeno dalla mia povera voce, un’affermazione dell’onorevole Conte Sforza, cioè che noi ci siamo estraniati dalla vita internazionale, che abbiamo voluto essere soli in un superbo isolamento diplomatico, durante 22 anni.

No, onorevole Sforza! Noi abbiamo aderito a un altro blocco. Questo blocco ha perduto; noi ne paghiamo le conseguenze. Non si può dire che un popolo era isolato, unicamente perché non andava con certi paesi. Isolamento c’è quando si è soli, non quando si è in compagnie che possono non essere gradite a una parte del mondo, la quale ha ragione unicamente perché ha vinto e non perché sia depositaria della virtù, della giustizia e di tutta la somma degli altri lucenti valori umani.

Mi basta ricordare un solo fatto: noi abbiamo avuto durante il periodo della dittatura nazista una ignobile persecuzione contro un popolo: il popolo ebreo. Oggi questa persecuzione continua nelle medesime forme, con la medesima mancanza di pietà, con il medesimo ritmo: esercitata semplicemente da altri uomini, da altri popoli, i quali fino a pochi anni fa condannavano quella persecuzione, combattevano per essa e hanno fatto combattere per essa tutto il mondo.

Ciò vi prova, onorevoli colleghi, che non esiste un gruppo di Nazioni che si sia battuto per la civiltà e per il progresso contro un gruppo di nazioni che si siano battute per l’anticiviltà e per l’antiprogresso.

Non esiste, onorevole Jacini, un gruppo di nazioni che rappresenti il bene, e un gruppo di nazioni che rappresenti il male; esistono gruppi di nazioni che hanno contrastanti interessi, e in questo contrasto i più forti vincono. Noi abbiamo perduto; accettiamo la sconfitta, ma al di sopra della nostra sconfitta deve risplendere la nostra dignità e il nostro onore, a cui noi non rinunceremo mai.

Questo è quello che io ed i miei amici sentiamo il bisogno di dire. (Applausi a destra).

A noi non interessa la revisione del Trattato di pace che ci si promette come un premio. Noi non ci lasciamo illudere da questi specchietti per allodole assonnate. Noi vogliamo sapere in che cosa consiste la revisione.

Che cosa è questa revisione? Quali diritti ci darà questa revisione? Ci restituiranno le nostre colonie? Ci restituiranno la nostra flotta? Ci daranno che cosa? Noi vogliamo sapere che cosa è la revisione, perché siamo stati già ingannati sulle libertà che hanno detto ci avrebbero date e non ci hanno date, sulla libertà di stampa, di pensiero, sulla democrazia che ci hanno promessa! Tutte le promesse che ci hanno fatto si sono rivelate in pratica nient’altro che trucchi, nient’altro che turlupinature. Noi non vogliamo essere turlupinati anche sulla revisione e chiediamo ci si dica in che cosa consiste questa revisione.

A questo punto, m’incombe l’obbligo di accennare a quella che è effettivamente la ratifica del Trattato di pace, secondo la mia interpretazione personale, interpretazione che non deve compromettere nessuno, se non me.

Io la darei questa ratifica e la darei perché non ha nessuna importanza. Il Trattato di pace, onorevoli colleghi, non è una conclusione, come molti ritengono. Il Trattato di pace, così come è concepito, così come è fatto, così come appare, è un punto di partenza non un punto di arrivo.

La conclusione noi l’abbiamo avuta con la catastrofe militare, perché solamente quella conta. Se avessimo vinto, altro sarebbe stato il linguaggio che si sarebbe sentito in questa Assemblea, altre sarebbero state le opinioni in tutti i Paesi del mondo. Ma probabilmente uguali sarebbero state le infamie e le sopraffazioni che si compiono oggi a opera dei più forti contro i più deboli, degli armati contro gli inermi.

Il Trattato di pace, per me, non significa niente.

Io non mi sarei degnato di discuterlo. Non ritengo necessario incomodare un maestro come Vittorio Emanuele Orlando per dimostrarci che questo Trattato è sballato ed ineseguibile, che non sarà eseguito, non solamente perché noi non lo eseguiremo, ma perché gli altri contraenti non saranno in condizioni di imporcene l’esecuzione.

Non c’era bisogno di incomodare Vittorio Emanuele Orlando per dimostrare l’antigiuridicità del Trattato, tutto il suo assurdo concettuale, e mi permetto di dire anche letterario. Sarebbe bastato l’ultimo mozzorecchi delle nostre Preture, il meno diligente fra gli allievi dei nostri Licei, per trovare in quel miserabile documento di rancore e di odio tutti i difetti che le nostre menti più elevate vi hanno trovato.

Senonché, la ratifica di questo Trattato si è posta come un problema d’una gravità tale che l’approvazione o non approvazione di esso involge gravissime responsabilità politiche. Ed è qui che io desidero dire al Presidente del Consiglio qualche parola, oserei dire, quasi in segreto, a quattr’occhi: perché è stato presentato nel modo come è stato presentato il decreto sulla ratifica del Trattato? L’onorevole Presidente del Consiglio sapeva di poter contare su amici sicuri che nulla gli hanno chiesto e nulla gli chiederanno mai, salvo il piacere di poter collaborare con lui da lontano e senza splendore alla sua opera politica. Ma si è reso conto l’onorevole De Gasperi che egli ha messo in imbarazzo i suoi amici, ed i suoi amici migliori, in questa discussione sulla ratifica: perché anche i partiti politici sono composti di uomini, e dietro i partiti politici c’è una Nazione, e in questa Nazione c’è gente che soffre non solamente la fame materiale, ma la fame spirituale, che ha dei rancori, che ha degli odî, che avrebbe delle vendette da compiere? Come ha fatto l’onorevole De Gasperi – lui così accorto in politica – a non rendersi conto che non avrebbe potuto avere l’appoggio di chi avrebbe voluto anche darglielo in questa sua impresa? Egli, rispondendo ieri all’onorevole Orlando, ha parlato della sua buona fede, della buona fede dell’onorevole Sforza. Chi ha messo in dubbio questa buona fede? C’è stato forse qualcuno che ha accusato gli onorevoli De Gasperi e Sforza di ritrarre vantaggi personali dalla ratifica? Non ho udito queste parole, e se le avessi udite avrei protestato. Si tratta di buona fede politica, caro onorevole De Gasperi, ed è veramente strano, paradossale addirittura, che l’ultimo venuto nella politica come me, debba dire a lei, che è un consumato politico, che non basta essere in buona fede: bisogna anche smembrarlo.

L’onorevole Orlando ha detto ieri una frase che ha rinfocolato le passioni che si riflettono in quest’Assemblea. Ripeto la sua frase perché è necessario spiegarne l’intimo significato. Io non ho avuto il piacere di vedere l’onorevole Orlando da ieri sera; parlo quindi a nome esclusivamente mio, e non desidero si pensi che io voglia spiegare quello che egli ha detto e che non ha bisogno di interpretazioni. Ma darò la mia personale interpretazione. Egli ha parlato di cupidigia del servilismo, di cui sarebbero affetti gli uomini i quali vogliono andare incontro senza nessuna necessità al desiderio degli stranieri. Bene, in tutto quello che questa frase non ha di ingiurioso e di personale – e non può averlo, perché l’onorevole Orlando è innanzitutto un avversario cavalleresco – io voglio dire che in qualche parte di questa frase io vorrei solidarizzare; in quella parte che vuol dire non cupidigia del servilismo – forse letterariamente non è una delle frasi più felici – bensì quella «voluttà del martirio» che ha esaltato molti e grandi uomini politici italiani, una «mentalità di colpa». Noi ci siamo presentati non soltanto nelle assise internazionali, ma anche nelle nostre intime riunioni, come dei colpevoli; abbiamo tenuto ad avere la corda al collo.

Siamo arrivati all’assurdo, liquidato alcuni giorni fa, d’accusare un funzionario italiano, un tal Cortese, d’aver fatto assassinare re Alessandro di Serbia ed il Ministro Barthou a Marsiglia alcuni anni fa! Per questo peccato, che non ha commesso, il funzionario è rimasto in prigione alcuni anni. Non è del funzionario che mi preoccupa, perché isolatamente noi possiamo sempre essere chiamati al martirio, e c’è anche chi è pronto a questa eventualità. Voglio dire che noi abbiamo messo sotto processo l’Italia, mettendo sotto processo questo signor Cortese, del quale era la prima volta che io sentivo fare il nome. Noi abbiamo coinvolto l’Italia in questo assassinio. Perché? Per voluttà di martirio, per mentalità di colpa; perché noi non abbiamo potuto e saputo liberarci di quella maledetta mentalità di Guelfi e di Ghibellini, di Palleschi e di Piagnoni, di Pazzi e di Barbi, i quali da secoli dividono gli animi e i cuori degli italiani. Ed anche oggi, di fronte al nemico (il quale non ci considera, non ha paura di noi, il quale ci calcola semplicemente come una pedina nel suo giuoco, da muovere come gli pare, quando gli pare, secondo il suo interesse, non il nostro, non guidato da nessun sentimentalismo, ma unicamente dal senso dei suoi affari) noi anche oggi diamo lo spettacolo di questa divisione; e anche nella discussione del Trattato di Pace abbiamo ancora combattuto tra fascismo e antifascismo, i due eterni termini antitetici, che, da quando è caduto l’impero Romano, si ripetono in Italia sotto nomi sempre diversi, ma che sono sempre espressione di quella nostra maledetta mentalità settaria, della quale non riusciamo a liberarci.

Ora, se un rimprovero io devo fare al Governo – non solo a questo ma anche a quelli che lo hanno preceduto; ed il mio rimprovero risale al 1914 – questo rimprovero è la voluttà di martirio, è la mentalità della colpa, della quale ci accusiamo sempre, al cospetto degli stranieri, che sono tutti nemici e lo saranno sempre, principalmente perché essi non potranno mai dimenticare di avere avuto in noi i loro maestri e i loro padroni.

Voglio dire che a questa colpevolezza che parte da noi, vuole attribuirsi, a questo martirio, che parte di noi vuole volontariamente abbracciare, in cambio di nulla, perché non abbiamo nemmeno la speranza del Paradiso – per i martiri politici non c’è Paradiso – noi ci opponiamo con tutta la nostra forza di uomini nuovi che respingono ogni responsabilità col passato. Noi dobbiamo affermare che in Italia non c’è nessuna colpa da purgare, non c’è nessun onore da riconquistare; non c’è che un errore da pagare, una sconfitta di cui subire le conseguenze.

Non c’è altro che questo. Noi non abbiamo mandato né abbiamo finanziato in Russia le spedizioni dei Gramschwell, di Denikin, di Wrangel, di Koltciak, di Iudenick. Noi, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, non abbiamo fatto lo sbarco ad Arcangelo per strozzare in fasce la rivoluzione bolscevica. Noi siamo stati il primo Paese del mondo che ha riconosciuto la Russia Sovietica e se la Russia Sovietica è stato il primo Paese del mondo che ha riconosciuto il Governo Badoglio, onorevole Togliatti, ha compiuto un gesto, un simpatico gesto di restituzione. Noi non abbiamo responsabilità, oltre quelle che ci sono state imposte dalle necessità.

Si parla dell’autarchia. Io credo che tutti in questa Assemblea sanno cosa ho fatto io sotto il fascismo per non fare politica. Ho fatto canzonette e ho scritto commedie gialle: ho avvilito la mia penna, che pur valeva qualcosa, come si è dimostrato in seguito, in fatiche ancora più mercantili, perché non sapevo capire, non riuscivo a capire quella politica. Spero che non mi sarà rivolta una accusa di filofascismo, e se mi sarà rivolta risponderò come potrò. Noi abbiamo avuto un’autarchia fascista, che è stata la vera causa determinante della guerra. I popoli produttori se ne infischiano di come si saluta in Italia. Non hanno alcun interesse a farci salutare col braccio teso o col pugno chiuso, a farci portare la camicia nera o azzurra, la camicia rossa o grigia: essi, al massimo, sperano di venderci quelle camicie e di farcele pagare a caro prezzo. (Commenti).

L’autarchia è stata voluta dal fascismo; ma perché? Chi ci ha imposto l’autarchia se non i paesi ricchi, che hanno chiuso le porte alla nostra emigrazione di poveri, ai nostri operai che andavano in cerca di lavoro perché in Italia non ne trovavano? I paesi ricchi hanno sprangato le loro porte a questa fiumana di lavoratori, che pure nel secolo scorso accolsero e sfruttarono per creare la loro civiltà. E li hanno respinti con questa scusa magnifica: noi non possiamo abbassare il nostro regime interno ed il nostro tenore di vita. Hanno tenuto alti i tenori, e hanno cantato finché hanno voluto. Poi hanno dovuto entrare nella guerra, e hanno dovuto rimetterci quello che ci hanno rimesso, e che ci rimetteranno ancora di più in futuro perché, essi, che hanno distrutto il mondo col loro egoismo, oggi debbono ricostruirlo, perché altrimenti morranno anch’essi di fame. (Commenti).

Questo avrei voluto sentire e non ho sentito in questa discussione, che non volevo e che mi è costata lotte anche con i più cari amici ai quali ho invano tentato di spiegare che noi non dovevamo immischiarcene. Avrei voluto almeno sentire una voce contro la continua truffa che ci è stata fatta in nome delle «Carte Atlantiche» e su tante altre promesse sballate, vili e menzognere, con le quali si è avvelenata l’opinione pubblica italiana e mondiale. Questo era il compito della nostra politica estera, perché quando si perde una battaglia, come quando si perde una partita, non si perde mai tutto, rimane sempre qualche cosa.

Oh! Se ci fossimo costituiti come i difensori, gli avvocati degli sconfitti, se avessimo gridato ogni giorno i nostri diritti e avessimo ogni giorno e ogni minuto richiamato i vincitori alle loro promesse e detto: Voi avete vinto perché ci avete promesso le quattro libertà, che ora non ci date; voi avete vinto perché ci avete promesso l’indipendenza che oggi ci negate; voi avete vinto perché ci avete promesso le materie prime che ora non ci volete dare! Ogni giorno, ogni minuto avrebbero potuto essere ripetute queste accuse. E queste accuse non sono state fatte, perché noi abbiamo avuto uomini che non hanno avuto il coraggio di rimanere un giorno solo Ministri, il tempo strettamente necessario per pronunciare questa protesta, e quindi esser cacciati dagli alleati. Questo è quello che non è successo e che avrebbe dovuto succedere. (Applausi).

Onorevoli colleghi, io sono profondamente rattristato di dover dire questo; profondamente rattristato, perché sono convinto che la discussione di un Trattato di pace non è un affare di famiglia. È un affare che la famiglia fa in presenza dello straniero, il quale è sempre e spiritualmente presente. In presenza degli estranei le famiglie per bene non si strappano i capelli e non lavano i panni sporchi. È questo purtroppo che noi abbiamo fatto e che continueremo a fare, se non rinvieremo questa discussione e non aspetteremo un giorno, una settimana, un mese, un anno (che importa) che si creino le condizioni più favorevoli all’approvazione del Trattato di pace, che può essere fatta, come ho già avuto l’onore di proporre, da undici deputati, uno per Gruppo, senza discutere, dando a questa approvazione il significato che deve avere, e non facendo a coloro che si sono macchiati di vergogna nell’imporci questo Trattato, l’onore di una discussione che noi giuristi, anche se non abbiamo compiuto gli studi regolari di giurisprudenza, siamo in grado di demolire, come si demolisce un castello di carte.

Questo è quello che avevo chiesto, questo è quello che vi chiedo oggi. Per cui, onorevole signor Presidente, io mi permetto di chiederle di mettere in votazione subito il mio ordine del giorno che rinvia la discussione, anche per riflesso alle notizie che sono apparse stamane sui giornali, e che lasciano una volta ancora di più intendere quale valore abbiano le parole vociferate di libertà, di civiltà, di progresso, e quale sia il freddo e spietato interesse che si nasconde dietro quelle parole.

Onorevoli colleghi, io di solito non faccio discorsi melanconici, ma oggi sento vicino a me la presenza di qualcosa che mi impedisce di continuare. Noi dobbiamo parlare anche di questi italiani che non ci sono più, e non fermarci a fare un miserabile calcolo sul perché essi siano caduti. Essi sono stati tutti indistintamente assassinati, assassinati da coloro che hanno fatto prevalere il loro freddo egoismo monetario, economico, finanziario, commerciale, marittimo, ed hanno, in nome di questi interessi, scatenato una guerra e sono pronti a scatenarne un’altra.

Noi abbiamo modo – noi che siamo depositari di una superiore genialità politica – di mettere in imbarazzo tutto il mondo, vittorioso che sia, semplicemente richiamandolo alle sue promesse, agli impegni che ha liberamente assunti, alle carte che ha firmate, e che non si possono lacerare senza offendere suscettibilità e pudori che anche nelle popolazioni nemiche si sentono: perché noi non dobbiamo solamente considerare quelle che sono le classi dirigenti dei paesi nemici ed ex nemici; ma anche quello che c’è nel cuore dei loro popoli, i quali sono stati tutti indistintamente colpiti dalla sventura.

Noi dobbiamo rinunciare a quella impossibile utopia che è ormai lo stato nazionale: troppo debole per difendersi, troppo ristretto per vivere da solo, troppo povero per essere indipendente; e contribuire a formare le grandi agglomerazioni continentali, la prima delle quali dovrà essere quella degli Stati Uniti d’Europa, di una Unione Europea nella quale noi potremo e dovremo comporre tutti i nostri dissidi.

Io non sono mai stato comunista o socialista, mai fascista o nazionalista; non sono mai stato niente. Voglio dirvi però che in questo concetto degli Stati Uniti d’Europa io non vedo che differenza c’è fra me ed un padre jugoslavo che ha perduto il figlio, un padre tedesco, un padre russo, un padre inglese, che hanno perduto il figlio. Non c’è nessuna differenza, siamo tutti fratelli, così come mi sento fratello di Gasparotto, di Benedetti, di chiunque altro abbia sofferto ed abbia pianto.

È per questo, onorevoli colleghi, di qualsiasi parte dell’Assemblea, che io vi invito, invoco, scongiuro (come ha detto il nostro illustre maestro Orlando) di rinviare questa discussione che ci avvilisce e ci disonora, e principalmente ci diminuisce. Cogliamo almeno questa possibilità di dimostrare la nostra grandezza d’animo, la nostra intelligenza, che supera di milioni di cubiti quella dei giuristi avversari.        

Per concludere, voglio ricordarvi un solo fatto – e speriamo che riesca a dirlo meglio, per non finire in tristezza anche quest’altro punto. Ci è stato parlato, da parte dell’onorevole Orlando, d’un possibile intervento del Lussemburgo, dell’Etiopia, dell’Albania, in base agli articoli del Trattato di pace che non mi sono degnato di leggere, perché avevo cose molto più importanti da fare che leggere quelle sciocchezze.

Vorrei proprio vedere, il giorno in cui ci fosse un Ministro degli esteri capace di discutere con uno di questi vincitori quali il Lussemburgo, l’Albania, l’Abissinia o altri che venissero a dirci: voi avete violato l’articolo 15 o l’articolo 16; questo ministro degli esteri risponderebbe: «Ah sì? Vediamo; nominiamo una Commissione, studiamo un po’ il caso». È quando si vincono le cause in Cassazione che deve incominciare la liquidazione dei danni. Vorrei rassicurare l’onorevole Orlando di questo: che il Trattato di pace, che questo articolo 15, questo articolo 16 e non so qual altro articolo 17, 31, 46 non saranno mai applicati, e che verrà il momento in cui quel Trattato di pace si potrà mettere in una busta e rinviarlo come si rinviano i documenti che si denunciano unilateralmente dalla parte che non li accetta.

L’importante è togliere da questa discussione tutto il suo contenuto sentimentale, tutto il suo contenuto passionale. L’onorevole Sforza, in una non dimenticata occasione, affermò che la politica estera non è fatta né di sentimenti né di risentimenti. Ebbene, anche in questa occasione vale la sua dottissima frase di allora; noi non possiamo continuare a discutere di questo Trattato di pace senza ingiuriarci, senza vilipenderci. E non so come ieri non siamo finiti a pugni nell’emiciclo, facendo pesare, su questo Trattato di pace, una tale atmosfera di tristezza che è meglio io non la rievochi qui oggi, altrimenti non sappiamo come andremo a finire.

Signor Presidente, io reitero la mia richiesta rispettosa, di mettere ai voti il mio ordine del giorno, per modesto che sia, con il quale si chiede di rinviare questa discussione a un giorno da determinarsi. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle conclusioni della Commissione dei Trattati e udito il Ministro degli affari esteri, ritiene doversi convalidare, per quanto necessario, la firma apposta per l’Italia al Trattato di pace il 10 febbraio 1947, e autorizza il Governo a prestare acquiescenza alle condizioni imposte dalle Potenze vincitrici, nel senso di non opporsi all’attuazione dei duri patti, per servire la pace del mondo con fede nel definitivo trionfo del senso di giustizia di tutti i popoli».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, assistendo all’elevato dibattito da questa solitaria tribuna, che non conta nulla, ma di cui non è minore, rispetto alle altre, la commozione di partecipare a questo rito celebrativo del più grave lutto della Patria, io mi sono spesso domandato e mi domando ancora se esista un vero e profondo dissenso fra le tante opinioni e tendenze manifestate dagli oratori che mi hanno autorevolmente preceduto, e se lo sdegnoso monito del filosofo onorevole Croce, e le fiere espressioni del giurista onorevole Ruini e la proposta di rinvio del venerando rappresentante del valore e dell’onore dell’esercito italiano e l’attesa prudente dell’onorevole Togliatti e la vibrante, se pur doverosamente diplomatica protesta, del nostro Ministro degli esteri e la tesi conciliatrice del maestro onorevole Nitti e l’emendamento del Governo, non siano se non i volti diversi di una stessa passione, di uno stesso affanno: la difesa della dignità della nazione.

Ed io non dispero che in questa nobile Assemblea, la quale rappresenta il popolo italiano unito nel dolore delle mutilazioni e nella fede della rinascita e non diviso in questo momento e su codesto assorbente tema da ideologie di partito e neppure, me lo consenta l’onorevole Pacciardi, dai futili pretesti istituzionali, si trovi alfine la formula che raccolga l’unanime consenso di tutti i nostri cuori, di tutti i cuori italiani; e vorrei che questa formula ci venisse dall’italiano più degno, o meglio ancora dalla concordia di tutti i maggiori esponenti di tutti i partiti politici, i quali non possono e non debbono offrire al Paese in ansia l’amaro spettacolo del contrasto, dopo che su tanti altri meno gravi problemi si sono sempre studiati di trovare una via di intesa attraverso l’emendamento o l’articolo aggiuntivo, ora per le norme della Carta costituzionale, ora per quelle sull’imposta sul patrimonio.

È vero che l’anomala compagine ministeriale (per me l’anomalia consiste nel mancato rispetto di quel principio di rappresentanza proporzionale dei partiti, ch’è il fondamento della legge elettorale, applicata in Italia il 2 giugno) può rendere difficile questo compito; ma ha detto lo stesso onorevole Togliatti che la coscienza di ognuno di noi riacquista in questa grave ora l’indipendenza da ogni tirannia di aggruppamento politico; e d’altro lato è vero che i partiti fuori del Governo sono una grande parte, oltre la metà, del popolo nostro ed essi rappresentano per di più quelle categorie lavoratrici e proletarie, che anche per la santa causa di Trieste hanno dato il maggior contributo di purissimo sangue italiano.

Il Trattato è iniquo; sbiadisce al confronto la condanna morale inflitta dalla storia alla leggenda di Brenno, ricordata da molti colleghi; il condottiero Gallo chiedeva oro ai romani; qui, accanto all’abbondante moneta, si è voluto ferire a morte la potenza, il prestigio, l’onore dell’Italia!

In relazione ai tempi, in riferimento a quel grande, universale, naturale principio del rispetto della personalità umana, che tanti progressi ha fatto dalle predicazioni di Cristo alla rivoluzione francese, riaffermato nella Carta atlantica e di cui è pure menzione nell’articolo 15 del Trattato, si può dire che non sia stato scritto durante i secoli documento più ingiusto. Non c’è articolo, non c’è clausola in cui non si contenga una cessione, una rinunzia del popolo italiano; e sono brandelli di carne viva, che si staccano da noi. Avrebbe potuto essere peggiore? Poteva essere migliore? Io non intendo fare recriminazioni e critiche a chicchessia. Riconosco invece lealmente che i nostri governanti, i nostri uomini politici, di qualunque partito, hanno fatto del loro meglio per rendere meno duri i patti, superando anche i rancori del passato.

Dare una colpa agli appassionati, se pure sfortunati difensori dei diritti dell’Italia, significa attenuare di fronte alla storia la responsabilità dei vincitori, ugualmente decisi, ugualmente spietati, per la nostra rovina.

Chi non ha chiesto per sé, ha disposto per altri delle nostre cose, e non certo per fine altruistico. Tutti concordi e implacabili i vincitori nello spogliarci, nel lasciarci inermi accanto a vicini, che, per l’altrui forza, hanno abusato di noi. Perfino nelle clausole finali del Trattato si è voluto dimenticare che noi siamo un popolo di 46 milioni di uomini civili e liberi e ci si è imposta l’onta di una specie di consiglio di tutela, il cui funzionamento potrà anche oltrepassare il termine dei 18 mesi previsti per l’applicazione e l’interpretazione della volontà dei vincitori.

Ma, una volta detto e riconosciuto tutto questo col nodo alla gola, occorre guardare in faccia alla realtà, sia pure a denti stretti, con le savie considerazioni pratiche del collega onorevole Bastianetto. Questo Trattato è una sentenza, egli dice, ed è purtroppo nel vero, perché la sentenza altro non è che la legge applicata al caso concreto.

Il Trattato è una legge internazionale, che si elabora e si forma su per giù con procedimenti quasi analoghi a quelli in uso presso i singoli popoli per le leggi interne nazionali.

La base del diritto, di qualunque diritto umano, è la forza. Questa si traduce in maggioranza più o meno democratica nelle ordinarie Assemblee legislative, nelle quali molto spesso restano, anche travolte notevoli ragioni delle minoranze, forse degne di poziore tutela. Si ricorre poi all’impiego degli organi di polizia, quando la legge passa, all’interno, nella fase esecutiva. Questa stessa forza si traduce in potenza militare per i trattati dei vincitori, per le leggi internazionali di qualunque specie, e l’esecuzione di esse è affidata alla minaccia o all’uso delle armi.

Può un cittadino, può una qualsiasi minoranza durare a lungo fuori della convivenza politica nazionale, fuori dell’osservanza delle leggi del proprio paese? Che cosa è avvenuto in Italia dei diversi milioni di monarchici dopo il 2 giugno? È anche inutile creare contro di essi delle antidemocratiche leggi repressive. Vivono pacificamente nel suolo patrio e anche quelli fra loro, che non hanno fatto molti inchini alla Repubblica, dopo il sovrano responso popolare del 2 giugno, sono in linea – e molti hanno anche giurato – per servire con dignità e con fede (sì, anche con fede, onorevoli colleghi del partito repubblicano storico) le nuove istituzioni democratiche di questo nostro libero Paese.

Può un’intera nazione rimanere a lungo staccata dal consorzio dei paesi civili, dalla convivenza internazionale, fuori del rispetto delle tante leggi che, bene o male, rappresentano, sia pure in nome del comune principio della forza, tutto un sistema di diritto dei popoli, per le molteplici indispensabili relazioni tra loro? Possiamo, in altri termini, essere e rimanere dei fuori-legge, dei soggetti incapaci nella sfera del diritto internazionale?

Ecco che il problema diventa squisitamente giuridico, oltre che morale, e qualunque problema di tal natura, nel campo internazionale, è anche e soprattutto un problema politico. Si giunge così a quello stato di necessità, che è diffuso nella coscienza di tutto il nostro popolo, e che ha finito col costituire qui dentro il minimo comune denominatore di ogni opinione e di ogni tendenza.

Dobbiamo ubbidire alla legge internazionale, che questa volta è per noi, sventuratamente, dura e ingiusta sentenza.

Ma, intendiamoci bene: non al di là della misura dei nostri obblighi; non al di là di quanto ci è strettamente richiesto da questa condanna; niente di più di quanto può essere necessario perché la sanzione si adempia, salvo revisione, in tutto il suo contenuto, senza inutile e intollerabile sacrifizio del nostro onore.

Il Trattato, a cui siamo ineluttabilmente rassegnati a dare piena e incondizionata esecuzione, non ci chiede nessuna ratifica per il suo perfezionamento e ancor meno per la sua efficacia esecutiva. Lo scheletrico, incidentale, sforzato accenno di ratifica fatto anche per noi nell’articolo 90, è solo un pudico riguardo, dal quale vogliamo spontaneamente dispensare i nostri vincitori, anche perché questa loro concessione, in apparenza generosa, non è meno offensiva di tutto il resto: «Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».

Il Trattato, come appare dal suo contesto, come si desume dal complesso procedimento di elaborazione, dalle enunciazioni della Carta atlantica ai patti di armistizio, alle deliberazioni del Consiglio dei ministri degli esteri e della Conferenza di Parigi, è perfetto con la firma delle due parti: del popolo vinto e delle Potenze vincitrici. Per le altre nazioni, alleate e associate, è ammesso un potere di adesione, che, se non espresso attraverso la firma contestuale, può anche esercitarsi successivamente, a mezzo di separato atto. La ratifica (che, nell’ordinaria prassi internazionale, può anche essere indispensabile elemento di conferma di patti liberamente stipulati tra due o più nazioni, a mezzo di rispettivi plenipotenziari, il cui operato, per l’importanza degli impegni che possono discenderne, esige sempre la convalida del Paese interessato) nel caso attuale, cioè nel caso del nostro Trattato – sentenza, ha solo funzione di clausola esecutiva, e tale efficacia è espressamente riconosciuta soltanto agli strumenti di ratifica dell’Unione Sovietica, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, e della Francia.

Vi è anche un potere di esecutorietà accordato alle successive ratifiche delle altre Potenze alleate ed associate e solo per quanto riguarda il momento di entrata in vigore del Trattato nei rispettivi confronti. Dell’Italia nessun cenno più in questo stadio finale dell’elaborato, e il congegno manifestamente risponde a quel minimo di rispetto umano accentuato dal nostro grande filosofo. Non si può costringere l’impiccato a gridare: muoio contento. Dal Trattato ciò non poteva esserci richiesto, e per la verità, è l’unica cosa che non ci è stata imposta.

Siamo però tenuti ancora ad un adempimento, che indubbiamente rientra fra gli elementi costitutivi delle stipulazioni del Trattato e di cui dobbiamo pure preoccuparci per la serietà del nostro Paese, se non vogliamo essere tacciati di cosiddetto machiavellismo.

Dobbiamo firmare validamente, dobbiamo cioè confermare la sottoscrizione apposta dal nostro Governo, con le riserve che vi sono note.

L’ordine del giorno, che ho l’onore di sottoporvi, soddisfa a questa esigenza, con l’aggiunta della piena assicurazione della nostra fedeltà ad ogni vincolo. A quando l’inevitabile convalida? Subito, senza frapporre il menomo dubbio, perché abbiamo svariate ragioni per accelerare come meglio ci sarà possibile il ripristino della nostra sovranità. Il Trattato è da tempo perfetto per chi ce lo ha imposto, e qualcuno lo ha già parzialmente eseguito in nostro danno, anche prima dell’entrata in vigore.

Chi mai possiamo voler servire, inserendoci il più rapidamente possibile nei binari della legge internazionale? Tutti e nessuno, la pace del mondo e noi stessi, che degnamente, gloriosamente abbiamo fatto parte nei secoli della grande famiglia umana. Nessuna preoccupazione di operare contro questa o quella Potenza; e, ora che la questione è sorta, la convalida come il rinvio ci esporrebbero ugualmente al sospetto di aver voluto cedere alle sollecitazioni dell’una o dell’altra parte. Ma la convalida ci è richiesta dalla lettera del Trattato e chi opera secondo il dettato della legge non fa ingiuria ad alcuno; nel caso obbediamo alla volontà di chi ha vinto.

Nudi e inermi, come ci hanno lasciati, non potremo servire in guerra né l’occidente né l’oriente; ma non ci lasceremo indebolire nello spirito né dalla fame, né dalla bomba atomica, e non cederemo alle lusinghe, alle elemosine o alle minacce per essere armati contro un popolo o contro l’altro. Ne abbiamo assunto solenne impegno nella nostra Carta fondamentale. Avremo soltanto fede nel lavoro, unica e grande forza creatrice di ricchezza, e ci stringeremo, ci aiuteremo tra i ridotti confini ormai aperti al mondo, e formeremo in Italia un blocco di cuori, che nutrisca di amore cristiano e preservi dall’odio qualunque coalizione di popoli.

E per i nostri fratelli della Venezia Giulia che attendono trepidanti le decisioni di questa Assemblea? Trieste, ardente sogno della nostra giovinezza, meta ultima della nostra unità, oggi spasimo lacerante di tutti gli italiani e di quanti combattemmo per la sua liberazione, sarà perduta per sempre per questa Madre Italia?

No! Se è vero che la giustizia non è solo fondamento di regni o di repubbliche; ma è anche e soprattutto la più salda base dell’universo. (Applausi).

PRESIDENTE. È stato presentato il seguente ordine del giorno:

«La Costituente italiana,

preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;

ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;

ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;

rivolge

a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai principî della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace, indicare al mondo vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».

«Badini Confalonieri, Villabruna, Morelli Renato, Cifaldi, Porzio, Rubilli, Cavalli, Belotti, Perrone Capano, Morelli Luigi, Caroleo, Bovetti, Del Curto, De Caro Raffaele, Roselli, Codacci Pisanelli, Valmarana, Foresi, Mazzei, Rodi, La Pira, Arata, Pallastrelli, Lami Starnuti, Tozzi Condivi, Bubbio, Bergamini, Benedettini, Marzarotto, Condorelli, Perugi, Perassi, Venditti, Quintieri Adolfo, Nasi, Fresa, Cevolotto, De Unterrichter Jervolino Maria, Scotti Alessandro, Conci Elisabetta, Carboni Enrico, Nicotra Maria, Carbonari, Chatrian, Castelli Avolio, Corsanego, Cappelletti, Pecorari, Dugoni, Togni, Corsi, Giolitti, Iotti Leonilde, Cremaschi Olindo, Fiore, Gavina, Ferrari, Pollastrini Elettra, Fedeli Aldo, Treves, Camposarcuno, Bulloni, Coppi, Bertola, Corbino, Scalfaro, Martino Gaetano, Coccia, Geuna, Bonino, Fabbri, Zerbi, Cassiani, Caccuri, Chiaramello, Crispo, Grilli, Bosco Lucarelli, Canevari, Faccio, Cappi, Einaudi, Romano, Martinelli, Canepa, Ruini, Nitti, Magrini, Colitto, Coppa, Gasparotto, Medi, Miccolis, Recca, Rodinò Mario, Rodinò Ugo, Jacini, Bencivenga, Garlato, Saggin, Fusco, Petrilli, Titomanlio Vittoria, Mazza, Murdaca, Zuccarini, Clerici, Cannizzo, Merighi, Montini, Mortati, De Vita, Rescigno, Mastino Gesumino, De Palma, Carboni Angelo, Segala, Bennani, Corbi, Lozza, Platone, Gullo Fausto, Laconi, Bozzi, Di Giovanni, Lombardi Carlo, Vicentini, Bertone, Preziosi, Nobile, Cartia, Veroni, Micheli, Tosi, Rossi Paolo, Viale, Pignatari, Bastianetto, Ermini, Quarello, Gullo Rocco, Bocconi, Cappugi, Cimenti, Bonomi Paolo, Stampacchia, De Michelis, Scarpa, Nobili Tito Oro, Arcaini, Biagioni, Mattarella, Tega, Persico, Trimarchi, Rapelli, Cairo, Caporali, Franceschini, Piemonte, Sampietro, Pella, De Mercurio, Penna Ottavia, Arcangeli, Macrelli, Binni, Giacchero, Zanardi, Guidi Cingolani Angela Maria, Restagno, Uberti, Spallicci, Delli Castelli Filomena, Cremaschi Carlo, Taviani, Tonello, Valenti, Bettiol, Pera, Angelini, La Malfa, Pellizzari, Grassi, Vanoni, Tessitori, MenTasti, Priolo, Longhena, Lazzati, Giannini, Giordani, Lizier, Germano, Guariento, Gatta, Pat, Moro, Fantoni, Mastrojanni, Gui, Ciccolungo, Froggio, Russo Perez, Motolese, Gabrieli, Proia, Sartor, Gonella, Colonnetti, Paratore, Avanzini, Cappa, Castelli Edgardo, Balduzzi, Caristia, Zaccagnini, Gotelli Angela, Federici Maria, Azzi, Di Vittorio, Spataro, Ghiostergi, Bellusci, Morini, Paolucci, Foa, Finocchiaro Aprile, Cianca, Carmagnola, Parri, Monticelli, Lussu, Caiati, Pastore Giulio, Codignola, Siles, Filippini, Preti, Moranino, Villani, Bassano, Scoccimarro, Vischioni, Damiani, Togliatti, Sicignano, Barontini Anelito, Silipo, Farina Giovanni, Merlin Angelina, Ghidini, Sapienza, Moscatelli, Allegato, Caprani, Imperiale, Santi, Cavallotti, Grieco, Bolognesi, Assennato, Li Causi, Saccenti, Sullo, Musolino, Montagnana Rita, Marconi, Capua, Pesenti, Cavallari, Reale Eugenio, Magnani, Cacciatore, Noce Teresa, Carpano Maglioli, Fedeli Armando, Barbareschi, Lopardi, Farini Carlo, Grazia Verenin, Calosso, Vernocchi, Faralli, Colombo, Ferreri, Gortani, Romita, Orlando Camillo, Baracco, Viale».

L’onorevole Badini Confalonieri ha facoltà di svolgerlo.

BADINI CONFALONIERI. Onorevoli colleghi, il fatto – unico nella storia dell’Assemblea Costituente italiana – di un ordine del giorno che viene sottoposto alla vostra approvazione dopo essere stato sottoscritto da circa 300 deputati, dirò meglio da tutti i deputati presenti all’atto della raccolta delle firme, mi esime da un particolareggiato svolgimento dell’ordine del giorno stesso.

Non uno solo dei deputati presenti rifiutò la propria sottoscrizione, a qualunque parte dell’Assemblea egli appartenesse, perché tutti vollero essere fedeli al mandato ricevuto e tutti sapevano l’unanimità degli spiriti che animava ed anima il popolo italiano.

Non è qui mestieri di dimostrare il nostro buon diritto, che per la verità non è se non può essere misconosciuto.

Occorre piuttosto porre l’accento sul fatto che questa Italia – una nelle sue molte storie, una nei suoi molti errori, una nei suoi troppi dolori – è una ancora nell’offrire – gli occhi negli occhi, il cuore nel cuore – la sua amicizia alla sorella latina. Una amicizia sincera, solida; non contingente, perché si fonda non soltanto sopra quella fraternità d’armi che fiammeggiò dalle Argonne a Vittorio Veneto e che si rinnovellò – all’ombra del proclama di Paul Reynaud – nella guerra partigiana insieme combattuta, ma ancora in una più intima e più continua fraternità di lavoro, che indusse molte braccia italiane a trovare in Francia la loro seconda Patria, consce che se nel passato ci unisce una comune civiltà, latina e cristiana, nel presente e nel futuro è una comune necessità che ci vuole avvinti.

Ricordando una celebre frase di Jaurès, l’onorevole De Moro-Giafferi disse alla Camera francese, all’atto della ratifica, che codesto Trattato è uno di quegli atti che per un giorno si felicitano e in seguito si deplorano, perché la Francia e l’Italia sono due popoli complementari ed egli non poteva ammettere che due popoli viventi l’uno a lato dell’altro restassero coi loro rancori. Noi domandiamo, domandiamo esplicitamente, domandiamo solennemente al popolo francese e ai suoi liberi rappresentanti di poter superare questi rancori e – parafrasando il discorso che il loro Presidente Ramadier pronunciò nella scorsa settimana – la mano tesa nella mano, diciamo che l’amicizia italo-francese «è un fatto naturale e non si può andare contro le leggi naturali della vita».

Voglia Iddio che codesto appello, che non ambizione di rivincita, ma desiderio profondo di solidarietà umana ed europea ha stillato, non cada nel vuoto di inutili tardive recriminazioni, ma trasformi il dolore nostro di oggi in un sereno, sicuro pegno di vera pace tra due popoli, che la storia ha chiamato ad amarsi e non ad odiarsi!

Ed è tale l’identità dei sentimenti che nel difficile storico momento che attraversiamo ci lega al popolo francese, che possiamo concludere con le identiche parole con le quali concludeva – or sono due giorni – il suo discorso alla Camera francese Paul Reynaud: «L’ora è giunta di dominare i nazionalismi esasperati da qualunque parte provengano e di essere semplicemente umani».

Non altro noi chiediamo al popolo francese. (Applausi).

PRESIDENTE. Si è concluso lo svolgimento degli ordini del giorno presentati in sede di questa discussione.

Ha facoltà di parlare, pertanto, il Ministro degli affari esteri, onorevole Sforza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, qui si tratta di compiere tutto il nostro dovere di fronte al popolo italiano ed al suo avvenire. Devo quindi esprimermi chiaramente e senza nessun lenocinio retorico, del quale, per mia fortuna, sono incapace. Comincerò col rispondere partitamente ai vari colleghi, che esposero all’Assemblea dei dubbi e delle domande di carattere specifico, cioè, mi pare, all’onorevole Ruini, all’onorevole Russo Perez, all’onorevole Valiani, agli onorevoli Togliatti, Nenni ed altri. Risponderò invece sinteticamente alle varie questioni di carattere generale, riaffermando così quello che rimane, dopo matura considerazione, il mio pensiero.

L’onorevole Ruini, in un discorso estremamente interessante – ed a proposito del quale non mi lagno che egli abbia cercato di temperare quello che ha chiamato il mio ottimismo – sottolineava alcuni punti che, secondo lui, dovevano mostrare un suo realismo più completo del mio, come quando parlò di una prossima probabile crisi economica americana.

Questo è un argomento che può, da un celato lato, non toccarci; ma, di fronte alle speranze, agli atteggiamenti o alla politica che noi dobbiamo seguire circa la Conferenza di Parigi e circa il piano Marshall, è chiaro che dei dubbi sulla stabilità economica degli Stati Uniti possono avere una certa influenza.

È, per ciò, che io vorrei sottoporre all’onorevole Ruini un paio di punti che, a mio avviso, possono rassicurarci sulla solidità della situazione economica americana e quindi sulle possibilità feconde per l’avvenire che il piano Marshall presenta.

RUINI. Io non ho mai sollevato dubbi sulla solidità americana. Ho detto che forse, per evitare una crisi futura, non basta il piano Marshall, ma sarà necessario l’adeguamento fra importazioni ed esportazioni.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Ad ogni modo, queste sono le ragioni pratiche, che, non degli americani, ma dei profondi conoscitori stranieri della situazione americana portano per farci credere in una permanente solidità economica degli Stati Uniti.

Le ragioni sono essenzialmente due.

Primo: esiste oggi in America una tale sorveglianza del credito, che è impossibile che la speculazione determini una sovraproduzione, come quella che provocò la crisi del 1929.

Oggi nessuno può lavorare in borsa in America, se non deposita in contanti il 90 per cento dell’operazione – e fu la mancanza di queste misure che provocò la grave crisi del 1929.

Secondo: le tasse in America sono altissime. Vi è un movimento demagogico naturale per farle abbassare. Ma il Governo ha dichiarato che le tasse saranno mantenute altissime. Perché? Perché, solamente in caso di contrazione del credito esso abbasserebbe le tasse. E così avrebbe un formidabile riflusso di capitali verso l’industria privata, il che eviterebbe quella crisi, che, nel 1929, ebbe la sua principale causa nella diminuzione dei crediti.

Ma dovevo anche rispondere all’onorevole Ruini su un punto, in cui il mio dovere di Ministro è profondamente impegnato. Egli fece una critica molto vivace all’Ufficio Economico del Ministero degli affari esteri ed al suo direttore generale, dottor Grazzi. A questo proposito io potrei dirvi che, contrariamente a lui, ho una stima profonda del valore tecnico e professionale del Grazzi.

Ma la mia opinione può valere poco. Vi darò dunque dei fatti. Da quando il Grazzi è stato nominato Direttore generale degli affari economici si sono completati o creati ex novo degli accordi economici con i paesi seguenti: Svezia, Polonia, Francia, Paesi Bassi, Grecia, Turchia, Uruguay, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Germania (Germania vuol qui dire, le autorità di occupazione), Cecoslovacchia (accordo, questo, difficilissimo del quale è per me grato dire in questa Assemblea che il nostro collega Chiostergi fu veramente lo spirito animatore, assistito da un altro nostro collega, l’onorevole Novella, che a Praga si occupò esclusivamente degli interessi della patria, senza nessuna idea preconcetta di partito). Ieri abbiamo firmato un accordo con la Cina; abbiamo firmato l’altro giorno un accordo con le Filippine. Sono in corso gli «accordi Lombardo» con gli Stati Uniti; altri accordi sono in fattura coll’Argentina. I fatti provano che attivo e fecondo agente sia Grazzi. Anche se fosse un men buono agente dovrei deplorare che qui si critichino dei funzionari. I Ministri sono qui per essere criticati, essi. Del resto, l’onorevole Ruini sarebbe stato molto probabilmente più nel vero, se avesse espresso dubbi sulla mia competenza economica piuttosto che su quella del dottor Grazzi.

RUINI. Io ho dichiarato soltanto che non eravamo ben preparati…

PRESIDENTE. Onorevole Ruini, la prego di non interrompere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Rimango in argomento ricordando che giorni fa l’onorevole Nitti parlò in termini sarcastici dell’Ambasciatore Brosio. L’onorevole Nitti ha troppa esperienza degli affari di Stato, come ex Primo Ministro, per non dolersi dopo, riflettendo, di aver gettato un’ombra di sarcasmo e di ridicolo su un ambasciatore in carica in un posto difficilissimo. Ma io glie ne sono grato se ciò, per poco che valga, mi permette di affermare all’Assemblea che l’Ambasciatore Brosio è uno dei nostri agenti più operosi, più leali e più consci del loro dovere: che è profondamente rispettato dal Governo presso il quale è accreditato e dai suoi colleghi delle potenze estere.

Vengo all’onorevole Russo Perez.

Vi sono tre punti che l’onorevole Russo Perez ha sollevato nel suo discorso: uno, l’oro della Banca d’Italia asportato dai tedeschi; l’altro, una pretesa mia lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942; terzo, il rapporto fra gli accordi economici e finanziari, già conclusi o in corso e la ratifica del Trattato.

Per la questione dell’oro, la tesi italiana è per la restituzione integrale dell’oro italiano, appoggiandola al fatto che detto oro è stato ben individuato e rinvenuto integralmente. Gli alleati, invece, sosterrebbero la tesi di ammettere l’Italia alla partizione dell’oro monetario rinvenuto in Germania. L’azione a sostegno della tesi italiana è stata svolta alla Commissione Tripartita per la restituzione dell’oro. L’azione è tuttora in corso.

Circa una mia pretesa lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942, lettera cui ha fatto allusione anche l’onorevole Selvaggi ieri, debbo confermare quello che già chiarii scrivendo al Corriere della Nazione, che pubblicò il 7 febbraio la mia smentita; cioè che tal lettera era un falso completo, senza la più lontana ombra di verità; tocca al Corriere della Nazione di dolersi con l’onorevole Russo Perez e con l’onorevole Selvaggi, se essi non leggono quel giornale. Del resto, come potrei io aver scritta quella lettera? Basta il più modesto senso storico per rendersene conto; infatti un’autentica mia lettera all’ex re, lettera che ebbe larga circolazione clandestina in Italia negli anni della guerra, diceva così verso la fine:

«So bene che intorno a Vostra Maestà si dice con sicurezza che gli Stati Uniti sono divisi tra isolazionisti e interventisti, che l’America è antimilitare, che l’America non sarà pronta in tempo, che l’Inghilterra sarà sconfitta prima che Washington si sia preparata.

«Non creda a queste fole. Io conosco gli Stati Uniti; vi sono stato dieci volte durante questi ultimi fascistici anni. L’America stupirà il mondo con una preparazione militare ed economica, davanti a cui tutto finirà per piegarsi.

«Se Vostra Maestà darà il suo nome e la sua firma a questa guerra insensata, bisogna che ella sappia che ciò finirà per significare la più terribile delle rovine per l’Italia.

«Pensi per lo meno all’esercito, se, come me, ella ne ha a cuore la fama e il prestigio. Pensi a quanto potrà accadere in una guerra che sarà lunga, lunghissima, con tutte le nostre risorse già sperperate dal fascismo e con un Paese che non sentirà mai un conflitto combattuto al lato dei tedeschi.

«E se quanto sto per aggiungere l’interessa più dell’esercito e della nostra Italia, comprenda bene che il disastro sarà così spaventevole e la perdita dell’onore nazionale sarà così cocente che finiranno per distruggere alla lunga ogni legame di fedeltà e di affetto fra il popolo e la Corona».

Questa lettera la scrissi il 30 maggio del 1940. Era concepibile che gli scrivessi un’altra lunga lettera di avvertimenti e di consigli nel 1942? Era una impossibilità assoluta, a parte la mia smentita più formale. E spero che di questa fola non si parli più.

Terzo punto di Russo Perez: accordi economici. Ho già risposto all’onorevole Ruini, ma per lei aggiungerò che stiamo trattando con molti paesi una serie di accordi finanziari che regolano il problema delle riparazioni e quello dei beni italiani all’estero. Per alcuni di questi Paesi la ratifica agisce come sospensiva, per altri essa rappresenta un elemento importante per il maggior successo dei negoziati in corso. Si tratta, in sostanza, di una azione politica che tende al superamento ed alla attenuazione di certe clausole del trattato. Il rinvio e il rigetto della ratifica ne pregiudicherebbe la definizione.

All’onorevole Spano, che parlò con accoramento della situazione degli italiani che vivono in Tunisia, io dirò che in un certo senso sono d’accordo con lui quando egli lamentò che in casi dolorosi come questo sono sempre i cenci che vanno all’aria, per usare un vecchio sconsolato proverbio. Ma quello che è certo è che noi facciamo quanto possiamo perché ciò non sia. Anche a Parigi, in conversazioni intime che ebbi durante la Conferenza l’altro giorno, ricordai, spiegai, parlai degli interessi degli italiani, modesti e grandi, in Tunisia. E ne parlai anche in un senso che oserei dire francese, perché la Francia deve sapere che se si allontanano gli elementi italiani dalla Tunisia, chi ne soffrirà saranno tutti gli interessi europei ma prima quelli della Francia stessa. Senza una forte base demografica italiana nell’Africa del Nord, si può dire addio per sempre ad ogni speranza di interessi europei nell’Africa del Nord. (Applausi al centro).

Circa le espulsioni, devo dire però che noi abbiamo ottenuto la revoca di un grande numero di esse, persino per italiani che si erano arruolati nell’esercito italiano in Tunisia durante la guerra. Non si può dunque negare che con queste misure recenti, si ha una certa diminuzione di quelle asperità, che erano probabilmente una delle conseguenze degli odii della guerra, anche perché, lo ripeto, è profondamente un interesse francese che gli interessi italiani siano salvaguardati nell’Africa del Nord.

All’onorevole Valiani vorrei rispondere in modo preciso, perché egli ha sollevato un punto importante: egli si è posto il problema della ratifica jugoslava. Noi non dobbiamo ratificare, egli ha detto, perché verremmo a trovarci, nel caso che la Jugoslavia non ratificasse, ad avere rinunciato alla sovranità su Trieste, senza la contropartita di un impegno jugoslavo.

Ma, onorevole Valiani, lei capovolge la situazione. Come non vedere che l’unica nostra garanzia, proprio su questo punto, è che il trattato porti la firma delle quattro grandi Potenze? A queste firme sono seguite tre ratifiche. (Interruzione del deputato Valiani).

Quando la Russia avrà ratificato, non so se la Jugoslavia vorrà non ratificare, ma, se dovesse avvenire che pure la Jugoslavia non volesse ratificare, pensa l’onorevole Valiani che essa farebbe ciò per migliorare il confine a nostro favore? E, nel caso opposto, non è questa proprio la ragione per noi di ratificare, cooperare, per quanto possibile, ad una distensione internazionale in una zona così sensibile? Oppure vede l’onorevole Valiani un altro modo più energico, più efficace… (Interruzione del deputato Valiani).

PRESIDENTE. È una figura retorica, la domanda dell’onorevole Sforza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. In verità, l’onorevole Valiani ha portato un argomento a favore di chi pensa che a noi convenga uscire da questa perenne incertezza.

Resta bene inteso, tuttavia – e sono grato all’onorevole Valiani che mi permetta di affermarlo qui – che il Governo italiano, nei riguardi delle clausole relative agli italiani della Venezia Giulia, considera che esse rappresentano un tutto inscindibile, il che vuol dire che il Governo italiano non ritiene nemmeno possibile il dubbio che alla rinunzia della nostra sovranità su Trieste non si accompagni la contemporanea creazione dello Stato libero quale è previsto dal trattato.

L’onorevole Valiani ha parlato anche delle Colonie. Per quanto riguarda le Colonie, non posso che ripetere quello che già dissi venerdì scorso: cioè che il Trattato niente decide sulle Colonie. Ammette solo che se ne cominci a discutere. Ora, l’atto della ratifica incide anche su questo nostro fondamentale interesse. È bensì vero che affidamenti precisi non possiamo dire onestamente di averne, ma possiamo riconoscere che, impostare questi problemi rinviando la ratifica, significherebbe non avere nemmeno la possibilità di chiedere e lottare in una atmosfera di maggiore fiducia e simpatia.

L’onorevole Nitti mi scuserà se, per risparmio di tempo, io risponderò solo a una domanda precisa che egli mi pose circa l’O.N.U., di cui ha parlato con un pessimismo che spero esagerato. Ecco dunque come sta questa questione dell’O.N.U. Le disposizioni statutarie fissano, per l’ammissione di nuovi membri, le seguenti condizioni: 1° che lo Stato sia «amante della pace»; 2° che esso accetti gli obblighi contenuti nello Statuto e, a giudizio dell’organizzazione, sia capace e disposto ad adempiere a tali obblighi. Inoltre l’articolo 2, al paragrafo primo, afferma che «l’organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza dei suoi membri».

Non vedo dunque perché l’onorevole Nitti non abbia trovato in queste forme un espresso richiamo alla nostra ratifica. Pure, per quanto riguarda la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite, è evidente che se l’Italia è pronta alla ratifica del Trattato potrà allora soltanto sostenere di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per trovarsi nelle condizioni richieste dallo Statuto.

Vi sono poi pur sempre, in questo trattato ingiusto, iniquo e, soprattutto miope, quale tutti noi lo consideriamo, delle affermazioni che sono a nostro favore. Ve n’è più di una in questo trattato di affermazioni a nostro favore, tanto che si direbbe sia stato compiuto da una maggioranza ostile e, insieme, da qualcuno che di tanto in tanto intravedeva l’avvenire e cercava di fare entrare un raggio di luce alfine di conferire un po’ di nobiltà allo sciagurato strumento.

Al quarto capoverso del preambolo del Trattato si legge infatti: «Premesso che le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia desiderano concludere un trattato di pace che, conformandosi ai principî di giustizia, regoli le questioni che ancora sono pendenti a seguito degli avvenimenti di cui nelle premesse che precedono, e che costituisca la base di amichevoli relazioni fra di esse, permettendo così alle Potenze Alleate ed Associate di appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche per aderire a qualsiasi convenzione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni Unite». Questo non si può negare che non sia un impegno solenne dei Quattro, nei confronti del quale abbiamo diritto di pretendere piena conferma dei fatti.

Chiarito quanto precede, non vorrei, anche per rispetto del tempo dei colleghi, e per la maggior gravità che ha assunto la discussione, seguire l’onorevole Nitti nelle acide polemiche che egli svolse; forse la sua intenzione fu ottima, come quando cercò attaccare certe eccessive posizioni nazionalistiche. Fu certo a fin di bene che egli affermò che, anche da parte nostra e da molti decenni, i vari Ministri degli esteri d’Italia si eran resi colpevoli di trucchi machiavellici.

Io non voglio qui riprendere la discussione dal Nitti qui iniziata sul machiavellismo, discussione cui altri colleghi han poi dato in quest’Aula il loro contributo: se lo dovessi fare, direi una cosa semplicissima, che da parte di tutti si è dimenticata; direi, cioè, che il machiavellismo non fu affatto l’idea infernale, satanica con cui il Segretario fiorentino ci avrebbe diffamati, come ha preteso l’onorevole Nitti. In verità, quanto il Machiavelli scrisse fu semplicemente la descrizione obiettiva di ciò che si pensava in tutta l’Europa alla fine del secolo XV e all’inizio del secolo XVI. Dire che il Machiavelli è stato «machiavellico» nel senso che questa parola ha preso, equivarrebbe a dire che un grande scienziato che scrive un libro sul cancro o sulla sifilide, è partigiano del cancro e della sifilide. (Approvazioni al centro). Nient’altro.

Checché ne sia di ciò, quello che volevo dire all’onorevole Nitti – e sono certo che in cuor suo egli finirà per essere d’accordo meco – è che bisogna fare una distinzione. A me duole doverla fare, perché so che bisogna guardare avanti e non indietro e che bisogna finirla con una serie di odî che altrimenti avveleneranno la nostra vita. Ma bisogna pur riconoscere che, finché il fascismo non venne, l’insieme della politica estera italiana fu degno della perfetta lealtà dei nostri Governi. E Nitti ha torto quando cita, per esempio, a proposito dei nostri contemporanei contatti con la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza, la famosa, insultante frase di Bülov contro il «giro di valzer». Perché dobbiamo prendere come Vangelo l’opinione di uno straniero? In realtà, non vi fu niente di più perfetto, di più leale, di più corretto della politica della diplomazia italiana fino alla guerra mondiale. Uomini come Robilant, come Visconti Venosta, come Prinetti sono stati modelli insuperati di specchiata onestà ed è assurdo che sia proprio un italiano che tenti abbassarli. Certo, so quello che l’onorevole Nitti pensa sull’onorevole Sonnino; anch’io gli ho mosso molte critiche; ma quelli di Sonnino furono errori di scarsa immaginazione; mai ci fu in lui la menoma idea morbosa e malefica di creare il male, di creare l’intrigo.

No, onorevole Nitti, questa fama di scarsa fede politica noi la dobbiamo solo alla politica dei vent’anni di fascismo, che fu amico prima della Jugoslavia – seguendo Mussolini nei primi anni del suo governo la mia politica – e poi diventò nemico; che dette appoggio incondizionato a Dollfuss, e poi l’abbandonò a Hitler; che finse di appoggiare la politica europeistica stabilita a Locarno; e poi vantò in scritti pubblici di essere andato a Locarno per pugnalare la politica di Locarno, perché a Stresa promise una cosa che poi fu smentita dall’avventura etiopica; perché presentò l’Etiopia con entusiasmo alla Società delle Nazioni come un grande Stato civilizzato e poi assalì l’Etiopia; perché coll’Albania prima fece un patto di amicizia eterna, e poi, un tragico giorno di venerdì santo la occupò senza nessuna preventiva azione o spiegazione; perché fu il primo a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica, e poi si alleò con la Germania contro l’Unione Sovietica; e dappertutto fu così: in Cina, Ciano per lunghi anni fece una politica sinofila, e poi la attaccò e le dichiarò guerra. Così fu per la Grecia; prima una lunga politica di amicizia, e poi, in sei ore, il più insensato, il più sleale, il più brutale ultimatum.

Di questo dobbiamo renderci conto, quando si sente che si parla attraverso il mondo di una scarsa fede diplomatica dell’Italia. Non insultiamo il nostro passato! La politica italiana, dal 1860 al 1922, può stare alla pari, come cristallina onestà, come buona volontà internazionale, come lealtà verso gli interessi superiori della pace, può stare alla pari, dico, di quella di qualunque altra Potenza, e per parte mia credo che è molto al di sopra. (Applausi al centro).

Vengo ora al discorso dell’onorevole Togliatti. Il suo discorso è in parte di politica estera e in parte, nel fondo, di politica interna; per quest’ultima, lascio al Presidente del Consiglio di parlarne.

Sul fondo del discorso concernente la politica estera in generale, risponderò più in là, quando parlerò dei problemi generali, cioè specialmente dei nostri rapporti con l’Unione Sovietica.

Qui – poiché in questa parte voglio trattare solo di singole fasi del dibattito – vorrei solo sollevare e chiarire alcuni punti, non dirò personali, perché le persone sono nulla e non ne parlerò un sol momento, ma perché mi pare che sia meglio chiarire la situazione su certi episodi.

Perché l’onorevole Togliatti, quando accennò alla partenza dell’onorevole Nenni dal Ministero, fece delle allusioni agli oscuri raggiri e ai tenebrosi intrighi che obbligarono l’onorevole Nenni ad uscire dal Governo?

Signori, in quest’Aula, la dignità personale di ognuno di noi, il valore personale di ognuno di noi è un patrimonio comune di tutti, ed io credo che sarebbe stato bene ricordare che, quando l’onorevole Nenni offrì all’onorevole De Gasperi le sue dimissioni da Ministro degli esteri, egli ciò fece per una ragione sola, la quale mostra che, qualche volta almeno, il livello della vita politica italiana resta altissimo; egli si dimise perché sentì che, essendo andato al Governo come rappresentante di un partilo di tanti membri, non aveva più diritto di rimanere quando il suo partito era stato dimezzato. Questo fu atto di cavalleresca lealtà politica, ed era meglio riconoscerlo anziché andare a creare, in odio all’onorevole De Gasperi, non so quale misterioso intrigo da romanzo. (Applausi al centro).

Un’altra osservazione vorrei fare all’onorevole Togliatti circa le critiche che fece alla mia azione a Parigi. Ma non creda l’onorevole Togliatti che io non mi renda conto della profonda sincerità interiore del suo pensiero; egli temeva e teme, egli sospettava e sospetta; e, dando troppo corpo ai suoi timori e sospetti, vede prove contrarie a suoi rispettabilissimi sentimenti anche là dove non esistono affatto. Per esempio, egli, spulciando il mio primo discorso alla Conferenza di Parigi per cercarvi prove di uno sbandamento della nostra politica estera, citò un frammento del mio discorso, aggrottò le sopracciglia e di che, mio Dio, mi rimproverò? Di aver nientemeno detto che per un’unione europea io ero pronto – ma qui cito fra virgolette – «ad accettare, l’Italia, non lui (cioè Sforza), tutti i sacrifici».

Personalmente son grato all’onorevole Togliatti; delle varie leggende intorno a me, questa mi piace; poco mi cale si rida del mio amore per l’universalismo, della mia fede nell’unione europea, della mia fede persino (scusate, se qualcuno vuol sogghignare sogghigni pure) della mia fede, dico, che i nostri figli abbiano un giorno a non più vedere la guerra.

Per sorridere di questo mio umanitarismo, l’onorevole Togliatti citò la frase che vi ho detta. Ma debbo fare all’onorevole Togliatti una osservazione semplicissima: che il fare una citazione tronca equivale a falsare il pensiero di qualcuno. Se lei, onorevole Togliatti, avesse letto qualche parola di più avrebbe trovato che nella mia frase non vi era nulla da criticare neppure dal punto di vista del più duro degli egoismi nazionali, che sembra le stiano tanto a cuore. Io dissi infatti: «Noi desideriamo assicurarvi che siamo pronti a tutte le intese, a tutti gli accordi, affinché l’economia dell’Europa si sviluppi, si armonizzi, diventi un insieme fecondo»; cioè noi siamo pronti a tutti i sacrifici, a tutti gli accordi che ci permetteranno di guadagnare il cento per cento sui nostri pretesi sacrifici perché in una Europa in pace e organizzata l’Italia con la sua attività, con il suo talento troverebbe mille modi di essere più ricca che non lo sia in una Europa divisa, in un’Europa autarchica, separata da troppe barriere doganali.

Ma vi è un altro punto in cui sono certo che l’onorevole Togliatti, ripensandoci, sarà completamente d’accordo meco. Egli temeva (ma perché non so) ch’io fossi compartecipe di chi sa quale segreto misterioso complotto per ignorare o allontanare l’Unione Sovietica, per riprendere il folle tentativo dei reazionari del 1919-20 che vollero circondare l’Unione Sovietica di un filo di ferro spinato. Anzi, questa frase andava ripetuta in francese, perché l’inventò Clemenceau: «Le fil de fer barbelé autour de la Russie». Togliatti, nella sua tema, certo sbagliatissima per ciò che mi concerne, che io fossi, sia pur lontanamente, compartecipe di una simile politica; che questo Governo, sia pur lontanamente, fosse compartecipe di tali piani, ne andò a cercare la prova in un innocente finale letterario del mio discorso; finale di cui mi pento solamente perché è un finale letterario. Già; perché comincio a persuadermi che la letteratura e la retorica sono il veleno più orribile degli italiani nella politica. Mi permetta, onorevole Togliatti, che io parli con tutta franchezza a lei che è un uomo di cui, nelle nostre conversazioni di letteratura, di problemi storici, di problemi filosofici, ho constatato l’alta cultura umanistica. Come mai lei semplicemente non si è accorto che alla fine del mio discorso avevo fatto un plagio, come se ne fanno così spesso, perché è impossibile non ripetere cose che sono state dette da altri?

Io dissi: «Stiamo attenti, si sappia che dobbiamo riuscire e che nessun sacrificio nazionale sarà troppo grande, nonostante il compito non sia facile. Noi dobbiamo sormontare gli egoismi nazionali ed augurarci che i tedeschi, moralmente guariti, rientrino nella nostra comunità di produzione e di lavoro. Noi dobbiamo tentare ancora di ricondurre al nostro fianco i Paesi assenti; noi dobbiamo riuscire. Se noi non riuscissimo, potrebbe darsi che questa gloriosa Europa che ha guidato il mondo con la forza dello spirito ridivenga ciò che essa fu diecimila anni fa: una povera, piccola insignificante penisola dell’Asia».

È proprio strano che un uomo di alta cultura come l’onorevole Togliatti si sia tanto allarmato per questa frase. Lo avete tutti sentito in quest’Aula: «Che cosa ha voluto dire con ciò Sforza? Ha egli pensato che la Russia è in Asia? Che all’infuori, dunque, di questa Russia e di questa Asia l’Europa diventi quella piccola penisola, ecc., ecc.». No, no, onorevole Togliatti, ecco la modesta verità. Io arrivai a Parigi ammalato. La mattina della seduta solenne dovetti scrivere rapidamente il mio discorso. Forse non ero in vena di immaginazione soggettiva molto grande; e questa ultima frase mi tornò in mente da una mia lettura di gioventù. È una frase famosa di Ernesto Renan pronunciata prima del 1870 quando la Russia era europeissima, quando la frase Euro-Asia non era stata neppure coniata e nessuno supponeva che qualcuno sorgerebbe un giorno a dire che la Russia fosse un continente a parte, metà Europa e metà Asia. Sia dunque ben inteso che io credo profondamente all’unità europea, compresa la Russia, tal quale come il grande scrittore francese da cui io ripetei l’immagine non concepiva neppure una Europa senza la Russia.

Vede, onorevole Togliatti, a che cosa si arriva quando si vive in eccessivo timore, quando si vive in eccessiva sfiducia, in eccessivi sospetti.

Ma veniamo a cose più serie.

L’onorevole Togliatti si è lamentato che da me e dal Ministero degli affari esteri non si siano usate sufficienti prove di energia per venire ad una intesa con la Jugoslavia. Io devo dirgli che sono stato molto sorpreso di questa sua critica, ma in un certo senso ho anche ammirato, perché mi son detto che il mio antico e caro collaboratore Eugenio Reale ha spinto veramente troppo oltre il dovere professionale del segreto di Stato. Sia ben inteso che io lo autorizzo a dire al suo amico e capo Togliatti tutto quello che sa. Eugenio Reale, essendo stato accanto a me a Palazzo Chigi, sa che non è quasi passato giorno in quei mesi di collaborazione in cui non abbia insistito presso gli Jugoslavi o presso i negoziatori italiani, prima presso Merzagora, che fu un entusiastico fautore di un’intesa economica con la Jugoslavia, poi col dottor Mattioli, che ha portato a fine un’ottima intesa economica coi nostri vicini, perché le trattative fossero condotte al più presto a termine, e nel modo più favorevole ad una collaborazione duratura e profonda. Ma dopo lunghi anni di silenzio, dopo abissi di ire e dolori, che c’è di strano se ogni tanto si deve notare che quello che si sperava di fare in quindici giorni non si può fare, ohimè, che in un tempo più lungo? Ho avuto ieri nuove assicurazioni e da parte jugoslava e da parte del negoziatore economico italiano che le cose si avviano ad una sodisfacente soluzione, come è naturale che sia, se non siamo pazzi, perché non ci sono al mondo due paesi che siano economicamente così perfettamente complementari come l’Italia e la Jugoslavia.

Io sono impaziente di firmare l’accordo con la Jugoslavia; sarei felicissimo di firmarlo stasera e debbo dire che tanto ci ha guidato il sentimento dell’urgenza di questo accordo, che, per troppa fretta, abbiamo commesso uno sbaglio – il tempo degli uomini infallibili è passato – uno sbaglio di cui mi pento e mi dolgo. Noi non tenemmo in abbastanza considerazione gli interessi essenziali dei pescatori italiani dell’Adriatico. Il collega Bastianetto ha scritto, a questo proposito, una memoria che è un piccolo capolavoro.

Ebbene, onorevole Togliatti, lei è certamente d’accordo nel riconoscere che le cose non si fanno senza tempo, fatica ed errori; ed è certamente d’accordo, anche se ora cerchiamo di creare un codicillo, una appendice, uno scambio di lettere che completi il trattato, e che renda sicuri i pescatori dell’Adriatico i quali, ridotti alla rovina, sarebbero in Italia un elemento di lotta e di rancori contro quella intesa italo-jugoslava, che è per me una delle basi necessarie alla resurrezione economica e politica dell’Italia. (Applausi).

Molti qui, per fortuna, Jacini, Giannini con commosse parole, poco fa Caroleo, hanno parlato della necessità di addivenire ad una unione europea; ma, signori, guardiamo la realtà in faccia: quando si vogliono le unioni, quando si vogliono le intimità, bisogna cominciare da chi ci sta accanto. Per questo io diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea» e poi gettano oltraggi alla Francia, e diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea», ma dicono che gli jugoslavi sono nostri nemici naturali e che non si può perdonare il passato. La prova del nostro buon volere consisterà nel volere l’intesa con i vicini immediati.

E agli jugoslavi ed ai francesi dico sempre: badate, se non lo fate per amore, fatelo per interesse, perché il solo modo per l’Italia e la Francia, il solo modo per l’Italia e la Jugoslavia di essere più forti e più rispettate è di non essere più incatenate a passatistici rancori. Se ci saranno buoni rapporti fra noi e gli jugoslavi, l’Italia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale, ma anche la Jugoslavia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale. Questi sono i miei costanti pensieri; sono pensieri del resto, onorevole Togliatti, per i quali io ho sofferto venticinque anni di persecuzioni fasciste, e mi stupisco molto che ciò almeno non basti per lei ad assicurarla dell’onestà del mio pensiero. (Applausi al centro).

Spero di non essere indiscreto se faccio un’altra osservazione. Lei, onorevole Togliatti, non è solamente uno scrittore ed un politico, ma è lo voglia o no, un’alta autorità dello Stato, come capo di un grande partito e come membro influentissimo di passati Governi. Questo crea dei doveri. Ora, c’è un fatto. Tutti i popoli hanno delle qualità e dei difetti. Noi italiani abbiamo qualità e difetti, i francesi hanno qualità e difetti, gli slavi hanno qualità e difetti; non credo di offendere gli slavi che hanno tanti mirabili pregi dicendo che – e da zaristici prima e da sovietici ora – il loro difetto, piccolo forse in sé, ma grave in politica, è questo: sono sospettosi. (Commenti a sinistra).

Che l’onorevole Togliatti, cui sta a cuore (ma forse non più che a molti altri in quest’Aula) l’intesa e l’amicizia più profonda fra l’Italia e l’Unione Sovietica, critichi duramente il Governo, quando ha fatti precisi da portare qui per smascherare una politica che possa portare a pericolose relazioni fra l’Italia c l’Unione Sovietica: egli non ha solamente il diritto, ma il dovere di farlo. Ma io credo che, data l’alta autorità che possiede, egli non serve gli stessi interessi dei buoni rapporti fra l’Italia ed il mondo sovietico, che come lui noi desideriamo altamente, quando dà corpo alle ombre, quando crea dei sospetti, quando inventa dei timori per i quali non c’è nessuna base.

TOGLIATTI. Non ho inventato nulla. Ho citato fatti!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Anche sulla mia azione verso la Jugoslavia ha citato fatti?

L’onorevole Togliatti ha poi sollevato due altre questioni.: la prima è il Trattato di commercio con gli Stati Uniti. Voglio rassicurare lui, e l’Assemblea sulla situazione. L’onorevole Lombardo prosegue i suoi lavori, il Governo degli Stati Uniti ci ha consegnato un progetto che venticinque amministrazioni italiane hanno studiato a Roma; le conversazioni preliminari si inizieranno a Roma in agosto, al ritorno della missione Lombardo. Il negoziato ufficiale sarà aperto a Roma in settembre. Spero che una prossima discussione di politica estera – che questa stessa nostra discussione ha mostrato tanto utile e necessaria – permetta a tutti di dare consigli. E certissimo che fra due Potenze dalla situazione economica così disparata, come l’Italia da un lato e gli Stati Uniti dall’altro, non sarà sempre facile creare un perfetto parallelismo ed una perfetta perequazione; ma è quello che vogliamo fare e che tenteremo di fare; e saremo contentissimi di avvertimenti e consigli che ci mettano sull’avviso, quando questo sarà necessario.

TOGLIATTI. Devo dire, anche a questo proposito, che non ho inventato.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Infatti in questo mio appunto che scrissi mentre l’onorevole Togliatti parlava, leggo: «Ha ragione quando pone in guardia contro certe formulazioni».

Vengo all’onorevole Nenni. L’onorevole Nenni, nel suo discorso di ieri, ha sollevato una o due questioni, cui mi pare di dovere rispondere.

Egli ha detto che io chiesi il voto dell’Assemblea, perché l’Italia potesse andare a Parigi. No; credo che ella sia in errore, onorevole Nenni. Io chiesi solo un succedaneo, un Ersatz che permettesse alle Potenze di riceverci con parità di posizione; e perciò chiesi un voto della Commissione dei trattati; tanto più che era chiaro il desiderio delle Potenze di avere un Paese dell’importanza dell’Italia alla conferenza. Ed il voto della Commissione dei trattati calmò gli scrupoli giuridici dei loro tecnici e ci permise quella piena ammissione che tutti conosciamo. L’onorevole Nenni fece poi questa precisa questione, in cui sento gli stessi dubbi e gli stessi sospetti, che ho riscontrato nell’onorevole Togliatti. L’onorevole Nenni ha domandato: «Se invece della ratifica russa, mancasse la ratifica americana, vorreste voi ratificare?».

Ma, insomma, certamente no, non vorremmo ratificare; ma non è perché si tenga all’America più che all’Unione Sovietica, in questo campo; ma perché l’America era il solo grande paese, dove c’era un forte movimento comprendente anche membri del Congresso, che erano contrari al Trattato ed alla ratifica; era chiaro, quindi, che se l’America non avesse ratificato, era per noi un interesse supremo non ratificare, perché il nostro principale propugnatore, il più entusiastico difensore dei nostri diritti era l’America. Invece, con la Russia era un’altra cosa; e di ciò non ne dobbiamo volere affatto alla Russia.

NENNI. La Russia ha sostenuto a Parigi delle tesi a noi favorevoli; su altre è stata sfavorevole. (Commenti al centro).

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Sul fondo della questione bisogna ragionare con una parola che odio, e che uso forse per la prima volta in vita mia: realismo. Perché odio la parola «realismo»? Perché il realismo è cosa bella e completa solamente se sa che anche l’idealismo fa parte del realismo, sia pure per il trenta o quaranta per cento. E chi dice solo realismo, senza pensare all’idealismo, è falso realista, perché non sa cos’è il realismo completo.

Ma, venendo al punto, è con perfetto realismo che osservo all’onorevole Nenni che, sull’insieme globale del Trattato, quando la sera del 10 febbraio 1947 inviai a tutte le Potenze firmatarie la nota di cui detti lettura al principio del mio discorso dell’altro giorno, ricevetti o silenzio o parole di simpatia. La sola risposta fredda definitiva, senza ombre, fu la risposta sovietica: «Perché vi lamentate? Il Trattato è giustissimo e non vi è nessuna ragione che voi non lo ratifichiate, né che voi ne chiediate mai la revisione».

Non avevo mai detto ciò; ma debbo aggiungere, poiché odio i volgari discorsi antisovietici che cercano di creare delle leggende là dove non ce ne è nessun bisogno, che in questa risposta di Molotov non c’è nulla di particolarmente ostile all’Italia: esso è un fatto di realistica politica estera. La Russia, che ha sofferto orribilmente come perdite di uomini e distruzioni di città, è però dal punto di vista territoriale, la potenza che ha più guadagnato. Ed ora, dappoiché mondo è mondo, quando ci sono dei Trattati collettivi (lo si vide nel 1815 col Trattato di Vienna) le potenze che hanno avuto i maggiori guadagni territoriali sono contrarissime e nemicissime delle potenze che parlano di revisione. L’odio dell’impero austriaco dopo il 1815 verso l’Italia, non ebbe che questa ragione: non tanto l’odio per il liberalismo italiano, non tanto, in seguito, l’odio e la suspicione per quella che fu l’azione meravigliosa di Cavour, ma semplicemente perché l’impero austriaco era un «beato possidente» e noi volevamo diminuire quel «beato possidente».

Questa fu la ragione della risposta di Molotov. (Applausi a destra). Io non voglio criticarla, ma è un fatto che ciò sia. Questo spiega, in risposta a quanto ha detto l’onorevole Nenni, perché se gli Stati Uniti fossero stati contrari alla ratifica, noi saremmo stati ugualmente contrari.

L’amico Nenni mi ha lanciato un’accusa che, quando penso alla mia travagliata esistenza per difendere i miei principî politici, mi ha fatto sorridere. L’accusa che io sono stato tentato da «una via di comodità». Caro Nenni, se noi non fossimo dei servitori fedeli dell’Italia, la via della comodità per noi era di andare su un viale circondato da festoni e da frasi retoriche di cui fra due o tre anni si vedrebbe che non erano che fango e idiozia. (Applausi al centro). La comodità era di andare lungo la via della non ratifica perché quella è la via che da soggetti di storia che volevamo divenire, ci avrebbe ridotti a oggetti di storia; saremmo diventati forse come la Repubblica di Venezia dieci anni prima del Trattato di Campoformio, prima che il disonore e la rovina cadessero su di lei: quella era la via comoda.

L’onorevole Nenni fece anche una critica in cui sentii un’ombra di solidarietà interiore meco, tanto sono stati, in questo momento, intrecciati indissolubilmente, sentimenti opposti che, se non ci fossero state idee di «assalto alla diligenza», questa discussione avrebbe potuto diventare un esempio meraviglioso al mondo, perché avremmo potuto mostrare all’Europa degli italiani divisi da motivi ideali e da motivi teorici, ma profondamente d’accordo su alcuni concetti morali essenziali. (Applausi prolungati al centro – Rumori – Commenti).

Ed io voglio qui dire una delle ragioni intime per le quali ieri mi trovai perfettamente d’accordo con Nenni, quando Nenni fece una allusione lontana, ma per noi, che sappiamo le cose, chiarissima.

Una voce a sinistra. Non basta saperle. Bisogna capirle!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Verrò a lezione da lei. (Applausi al centro).

Una voce a sinistra. Si sta così comodi nella diligenza!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Nenni fece un’allusione, a mio avviso, profonda e verissima quando pose in guardia contro il rinnovarsi di certi miti, di certe malattie xenofobe che possono avvelenare il Paese. Io sento questo così profondamente, anche dal punto di vista dei successi diplomatici futuri dell’Italia, che questa è una delle ragioni, che, dopo molto esitare, dopo aver visto i lati di una politica e poi i lati di un’altra politica, finirono per decidermi che la ratifica con tutti i suoi dolori e con tutte le sue tristezze era ancora il minor male. Nenni conosce bene i miti del 1919; avevamo vinto, ma ci si impediva di saperlo e la stampa gialla trasformò quasi in sconfitta la vittoria.

Questa volta, certo, non abbiamo avuto vittoria, ma chi ha profonda fede nell’Italia, come noi l’abbiamo, sa che un punto fermo, un capitolo nuovo, una ratifica che ci prepari nuove vie dell’avvenire, può spazzar via quei miti pazzeschi e ingannatori di xenofobia e di nazionalismo esaltato, che fecero tanto danno a noi nel 1919. Nenni è stato in Francia, Pacciardi è stato in Francia (e dal suo soggiorno in Francia ha tratto qualche motivo per quel nobilissimo suo discorso che resterà a onore eterno del Partito repubblicano) ed essi sanno che tutti i nazionalismi più sciocchi, furono in parte eliminati dalla vita della Francia, per l’azione di un grande patriota francese, che, come è naturale, non ricevette che insulti e contumelie dai superpatrioti, Jules Ferry. Il Ferry, ai francesi che parlavano di Strasburgo, ai francesi che parlavano di «blessures éternelles» disse: «Creiamo una Francia più ricca, più forte, più prospera, più grande, ed in questo modo ci rispetteranno ancora di più in Alsazia; invece così siamo un Paese diviso da rancori nazionalisti che fanno di noi una potenza del passato». Così Ferry diede alla Francia il più grande impero coloniale che la Francia abbia posseduto e così per la grandezza della Francia venne un rinnovato amore negli alsaziani per la Francia che si faceva onore e mostrava vita, non pergamene del passato e vieti archi di trionfo. Questo vogliamo per l’Italia, e quando diciamo «ratifica», lo diciamo perché così daremo nuova vita e nuova forza anche ai fratelli che soffrono ma non si allontaneranno da noi, perché se vedranno un’Italia grande e prospera e non avvelenata dalla retorica, sapranno che l’Italia è una cosa viva nella quale credere sempre. (Applausi).

Mi si permetta ora di esaminare nel loro complesso le argomentazioni di carattere più generale.

La discussione ora conclusa mi è parsa utile, se non altro perché ha confermato che tutto il popolo italiano ritiene questo Trattato ingiusto e crudele e – vorrei aggiungere – miope. Le numerose argomentazioni a favore della ratifica sono state sempre legate all’urgenza della ratifica, e questo lo dico per coloro che tentano ad ogni costo di distinguere due questioni che non esistono, perché la questione è una sola: ratificare o no. Il dilemma è questo: o ratificare per riacquistare la sovranità del nostro territorio, per uscire dall’armistizio, per raggiungere la libertà di decisione sulle cose nostre e metterci in condizioni di far sentire la nostra voce fra le Nazioni; oppure non ratificare, sperando di conseguire i medesimi risultati in un altro modo.

Ma quelli che sono per la seconda soluzione, avrebbero dovuto precisare quale sia, secondo loro, questo modo. Io non ne vedo che uno, e non mi sento di avallarlo: speculare sulle discordie, sulle avventure, sui pericoli internazionali. Io spero che all’Italia sia risparmiato tutto quello che precederebbe e seguirebbe il verificarsi di simili eventualità. E se nessuno qui ha veramente pensato a qualche cosa di simile, allora è necessario non perdersi in frasi e guardare la realtà.

Se la seconda alternativa non è nei propositi di nessuno, non c’è che la prima: ratificare per tornare ad avere quella autonomia che la realtà ci consente; ratificare per poter cominciare a lottare per l’avvenire d’Italia.

Il Trattato è quello che è, ma non ci si prospetta la scelta d’altro trattato. L’alternativa è: o questo trattato o nessuno; cioè niente su cui fondare una politica, nessuna certezza circa i limiti delle altrui possibilità o velleità di disporre ancora delle cose nostre.

La ratifica è dunque necessaria, perché l’Italia vuole riacquistare al più presto la sua indipendenza nazionale, e nello stesso tempo abbandonare il fatale indirizzo isolazionista, sul piano internazionale, che, cominciato col fascismo, si concluse con la violenza e il sangue della guerra del 1940.

L’isolazionismo si abbandona offrendo e chiedendo delle garanzie, giocando la carta della collaborazione internazionale; certo senza troppe ottimistiche illusioni, ma anche senza quelle diffidenze preconcette e ostinate colle quali nessuna direttiva e nessun calcolo si possono fondare. La democrazia italiana vuole, in nome della pace, collaborare con gli Alleati; e per questo accettiamo di subire un trattato ingiusto ed iniquo per l’Italia, ma che fu l’unico compromesso fra le varie ambizioni e passioni alleate, nei nostri confronti.

Un compromesso raggiunto costituisce pur sempre una garanzia anche per gli sconfitti, una garanzia che, come bene ha spiegato l’onorevole Adonnino, limita l’arbitrio e le possibilità dei vincitori, di incrudelire, magari a dispetto l’uno dell’altro, e di aggravare il Trattato, addossandoci sacrifici ulteriori.

«Da che mondo è mondo – e qui cito le parole testuali dell’onorevole Adonnino – da che mondo è mondo, da che storia è storia, tutti gli sconfitti hanno sempre firmato i trattati di pace, anche i più gravi. Perché? Perché, è naturale, non l’hanno fatto certo con l’animo lieto di benedire la gravezza che i trattati imponevano loro, ma l’hanno fatto per limitare questi sacrifici; l’hanno fatto per impedire che il nemico andasse ancora oltre».

Infatti, onorevoli colleghi, a stretto rigore, è necessario ammettere che le conseguenze del disastro fascista, se noi non ratifichiamo, possono essere peggiorate, non certo migliorate. Vi fu bene a Parigi chi propose soluzioni ancora più gravi di quelle che sono state adottate e nulla impedisce di credere che, di fronte ad una nostra non escludibile situazione difficile, si verifichino pericolose resipiscenze, non già per quello spirito di vendetta a cui si accennò da taluni oratori, ma come conseguenza di ulteriori e differenti compromessi.

L’attuale momento internazionale è più delicato di quello in cui si svolse la Conferenza di Parigi: di fuori dal Trattato qual è, non ci si prospettano compromessi più favorevoli. La ratifica, insomma, rappresenta un baluardo che se ci impedirà, in ogni caso, di cadere più in basso, ci permetterà in molti casi di marciare avanti.

Ma veniamo ai punti essenziali. Che vi chiediamo noi? Vi chiediamo di autorizzare il Governo a depositare la ratifica con tutte le altre quattro Potenze, cioè anche con la Russia. L’Italia deve ratificare, l’Italia non ha libertà di altra scelta; ma la sua ratifica sarà depositata subito prima, insieme, o subito dopo quella dei Quattro.

Badate bene, io mi rifiuto di vedere in qualsiasi oppositore un desiderio nascosto di manovre parlamentari e elettorali; l’argomento è troppo grave per l’Italia per essere utilizzato a tali fini. Ma vi è piuttosto un’incomprensione. Coloro i quali ci dicono: noi non ratificheremo mai, finisca come finisca, io posso capire che respingano l’odierna proposta del Governo. In un certo senso, io mi inchino ad essi. Dopo tutto, non c’è fra essi una persona che ho fraternamente amato per tanti anni, Benedetto Croce?

Ma se ci si dice: noi vogliamo ratificare solo dopo i Quattro e quindi rinviamo la nostra ratifica, allora io rispondo: ma, con la formula che noi vi proponiamo, l’Italia consacra questo punto: che il Trattato, nei confronti di tutte o di una sola delle grandi Potenze, entra in vigore – o no, se la situazione diplomatica cambia – in pieno accordo coi Quattro. Noi appunto in questo modo ci leghiamo definitivamente le mani, diciamo cioè una volta per tutte: questo Trattato o marcia con tutti o non marcia con nessuno.

Se supponete che noi, speculando su un preteso desiderio della Russia di non ratificare, volessimo fare entrare questo Trattato in vigore soltanto verso la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, e la Francia, vi avremmo detto: non ratifichiamo oggi il Trattato; rinviamo tutto a settembre o dopo; forse allora l’America, l’Inghilterra, o che so io, ci proporranno un altro Trattato. Ma questo sarebbe stato furbesco machiavellismo, e noi non vogliamo niente di ciò.

A destra e all’estrema sinistra si è parlato molto dell’articolo 90. È una questione procedurale di cui fra breve non resterà alcuna traccia. Ma poiché ora se ne discute, sarà bene chiarire due punti che sono stati sollevati:

1°) si è detto che non conviene controfirmare una sentenza, che secondo l’articolo 90 non è ancora perfetta, aggiungendo che il Trattato, finché non sarà reso perfetto dalla ratifica dei Quattro, è addirittura giuridicamente inesistente;

2°) che, per chi ben consideri l’articolo 90, la nostra ratifica prematura non rappresenterebbe altro che una adesione politica a guelli dei Quattro che hanno già ratificato, e non avrebbe nessun valore giuridico in sé e per sé.

La verità è, per entrambi i punti, diversa.

Con la firma dei loro plenipotenziari, i vari Governi si sono già impegnati internazionalmente alla esecuzione delle clausole del Trattato.

La ratifica è un atto soprattutto interno con il quale si dà esecuzione nell’ordinamento interno di uno Stato ad un valido impegno internazionale.

Ma per noi italiani, e qui replico al secondo punto, la ratifica ha un valore giuridico superiore a quello che ha per tutti gli altri, e non ha nessun colore politico particolare; tutt’altro. Perché questo? Perché, come ben sapete, il 10 febbraio, a Parigi, all’atto della firma del Trattato, noi abbiamo depositato la formale dichiarazione che la firma rimaneva subordinata alla ratifica che spetta alla somma decisione di codesta Assemblea.

Per concludere, il Trattato esiste giuridicamente dopo che è stato firmato e la nostra ratifica è essenziale al Trattato, soprattutto in nome della riserva da noi depositata all’atto della firma. Ma non per questo il Trattato entra ancora in vigore, giacché, sempre per l’articolo 90, occorre il deposito delle raffiche da parte dei Quattro. A questo riguardo, debbo ricordarvi due cose: per quanto riguarda noi, la formula dell’onorevole Ruini garantisce l’assoluta identità della posizione italiana verso ciascuno dei Quattro, e che cioè la nostra ratifica sarà fatta valida solo col deposito delle ratifiche di tutti i Quattro.

Per quanto riguarda poi i Quattro, essi sono tuttora legati dall’intesa per cui il deposito delle rispettive ratifiche a Parigi sarà fatto contemporaneamente. Quindi essi, internazionalmente, sono tutti allo stesso punto. Quanto al piano interno di ciascun Paese, bisogna tener presente che, mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra, ed in Francia la procedura costituzionale per la ratifica è complessa e lunga, nell’Unione Sovietica essa è semplicissima, poiché è di competenza dello stesso Presidente del Soviet Supremo che ha autorizzato la firma. Ora, se è possibile che il potere legislativo sconfessi quello esecutivo, è azzardato ammettere che lo stesso organo si sconfessi da sé. Del resto, come ho più volte detto e ripetuto, tutte le informazioni, anche le più recenti, ci fan credere che la ratifica russa sia quanto mai prossima e così il deposito dei Quattro a Parigi. Anzi, per quanto riguarda l’atteggiamento dell’Unione sovietica nei nostri confronti, ho una precisa ragione di ritenere che il pensiero russo al riguardo sia che il deposito delle ratifiche dei Quattro debba suggellare e non precedere un concreto atto da parte italiana che dia già per scontata la nostra ratifica.

Tutto ciò ribadisce, evidentemente, l’assurdità di una interpretazione antirussa della nostra ratifica. Ho mostrato poc’anzi l’infondatezza politica e ora l’infondatezza giuridica di tale interpretazione.

Lasciatemi adesso passare ad un altro argomento, che altrettanto e più è stato discusso a destra e all’estrema sinistra.

Si è detto che la pronta adesione del Governo italiano alla Conferenza di Parigi per il piano Marshall non sarebbe che una prova di più per dimostrare una nostra pretesa eccessiva condiscendenza verso il mondo occidentale.

Consentitemi di lumeggiare una volta ancora tale atteggiamento e dimostrarvi che quelle critiche sono del tutto infondate. Si è detto che il piano Marshall non è un piano; ma questo è vero solo in quanto esso deve tuttora essere tradotto in cifre e volumi, in bilanci ed annualità che rappresentino la media solidale delle esigenze fondamentali della ricostruzione europea. No: il piano Marshall è in senso concreto e sostanziale un piano, poiché costituisce un’impostazione fondamentale, e, soggiungo, l’unica possibile, per la soluzione dei problemi europei del dopoguerra: lo sforzo solidale dei popoli europei per raggiungere un più alto tenore di produzione e di vita, ridonando pienamente all’Europa la sua funzione nel mondo. Il finanziamento e l’aiuto americano sono subordinati a tale sforzo. Gli Stati rappresentati a Parigi hanno unanimemente riconosciuto che un piano di ricostruzione europea non poteva impostarsi senza l’Italia, senza la piena collaborazione di un popolo di 46 milioni di uomini sobri, attivissimi, intelligenti, di un popolo che in questi pochi anni del dopoguerra, nonostante difficoltà enormi, ha già dato all’Europa la prova della sua strenua volontà di vita e di lavoro. È perciò che, malgrado le speciali ancora vigenti condizioni della posizione internazionale del nostro Paese, l’Italia doveva essere chiamata a partecipare alla Conferenza di Parigi.

Taluno ha detto che la linea di condotta del Governo italiano alla Conferenza di Parigi si sarebbe troppo esercitata in schermaglie di prestigio. Niente di più inesatto. Se per prestigio si intende il riconoscimento dell’importanza del fattore italiano nel piano di ricostruzione europea, esso era già conseguito di fatto della nostra partecipazione di uguali fra uguali alla Conferenza. Se poi si vuol confondere le questioni di prestigio con la nostra presenza in tale o tal altra delle Commissioni della Conferenza, a cominciare dalla suprema, quella esecutiva, si tenga ben presente che la Conferenza di Parigi è una conferenza tecnica e che la nostra presenza era pertanto necessaria a noi e agli altri appunto in quelle Commissioni nelle quali particolarmente si svolgono lavori su cui abbiamo qualche cosa da dire a vantaggio dell’Italia e a vantaggio di quella unità economica e politica europea che per me si confonde cogli interessi dell’Italia. Nella Commissione suprema dei Cinque già si rileva un principio di solidarietà di due grandi da una parte e di due piccoli dall’altra. L’Italia in mezzo, fra questi due grandi e questi due piccoli, può esercitare un’azione di saggezza e di armonia che mi auguro e spero ed ho ragione di sperare che sarà conseguita.

Chi teme che la nostra azione sul piano di collaborazione europea possa portarci ad una politica di dipendenza confonde la dipendenza con la interdipendenza, che è ormai condizione e caratteristica di ogni rapporto economico nel mondo moderno. Solo gente con la testa indietro, come certi dannati dell’inferno di Dante, può immaginare una politica italiana di assoluta indipendenza. Una politica italiana di assoluta indipendenza è una politica di suicidio. Non vi sarebbe produzione senza mercati di materie prime e di consumo. Interdipendenza nel piano di collaborazione europea significa coordinamento di sforzi per un maggior benessere ed una più alta civiltà di tutti noi italiani e francesi e britannici e russi e così via.

Ed io vorrei che all’estero su questo punto si rendessero conto di quanto la maggioranza di questa Assemblea è stata d’accordo in questo principio. L’onorevole Giannini stesso, in un discorso, sulla cui prima parte avrei riserve da fare, mi trova pienamente consenziente con l’ultima, perché è solamente colla concezione di interdipendenza che noi possiamo sperare nella grandezza futura dell’Italia!

L’Italia si presenta di fronte al piano di collaborazione europea con un suo principalissimo elemento: il proprio inesausto potenziale d’ingegno e di lavoro. Il nobilissimo primato italiano nel campo del lavoro caratterizza il nostro apporto e ne costituisce l’aspetto sociale. Dire quindi che abbiamo imprudentemente promesso questo o quello, che ci siamo impegnati a tale o tal altro apporto (come ho sentito ripetere) è falsissimo. Falso oltre tutto, perché il lavoro dei Comitati tecnici di Parigi, dal punto di vista serio e costruttivo, comincerà solamente in agosto, cioè quando giungeranno le risposte ai questionari. Finora si è alle prese di contatto e si saprà come giudicare, criticare e approvare solo dopo l’arrivo delle risposte.

Vorrei dire una parola (perché un’esposizione non sarebbe completa senza un accenno a questo problema) su ciò che noi pensiamo circa la Germania. Circa il problema dell’area politica germanica nei confronti del piano di collaborazione, il nostro atteggiamento si è affermato fin dal principio nel senso che l’area germanica non possa essere esclusa dal piano, sia in generale per la sua importanza nel quadro della produzione e del consumo continentale, sia in particolare per quanto concerne noi italiani.

E per mostrare a tutti, critici e non critici, l’assoluta continuità del nostro pensiero, credo di non rubarvi troppo tempo se vi leggo il passaggio essenziale delle istruzioni che io stesso scrissi per la Conferenza di Mosca circa il problema germanico. Questo dissi e questo mantengo. Cito e leggo il documento di allora: «Il Governo italiano ritiene che un grave errore verrebbe commesso ove si ritenesse che la pacificazione definitiva dell’Europa possa essere il risultato di un semplice rapporto di forze senza riferimento ad un superiore principio di carattere morale e politico.

«È evidente che dopo questa orribile guerra occorrono dalla Germania riparazioni e garanzie efficaci, ma esse non saranno date che se guidate da principî che riflettano gli interessi, anzi le idealità di tutti e non da punti di vista particolaristici. La Germania deve riparare i danni ed i lutti causati dalla sua selvaggia aggressione, deve dare per l’avvenire garanzie affinché si raggiunga lo stroncamento di quelle forze che nel giro di trenta anni hanno due volte gettato il mondo nel. baratro. Ma appunto per questo il popolo germanico non deve essere messo fuori della comunità europea. Esso deve essere guadagnato alla democrazia ed allo spirito di collaborazione economica internazionale. Non dimentichiamoci che più ci allontaniamo dall’antico concetto di una comunità cristiana dei popoli e più dobbiamo riconoscere che la colpa mostruosa dei tedeschi diventa quasi un monito e simbolo di un male che in forma meno selvaggia potrebbe in un dato momento ripetersi presso altri popoli».

Questo dissi nel marzo, lo ripeto ora.

Nessuno ha pensato o pensa a Parigi a costituire un blocco occidentale, cioè un ordigno di guerra. L’Italia non si è allineata ciecamente dietro nessuno. Ha pensato solo a se stessa. Soltanto, lo dichiaro altamente, essa sa che il miglior modo di pensare a se stessa è di armonizzare i propri interessi con quel nascente panorama internazionale economico di cui ha parlato avant’ieri così nobilmente Luigi Einaudi.

A parte le disquisizioni giuridiche, di cui non resterà traccia, che cosa è scaturito da questo dibattito? Che due sono le concezioni per l’avvenire. Una fidente nell’Italia e nel concetto mazziniano del nostro divenire, e questa politica, questo programma sono quelli che l’onorevole Einaudi ha formulato così onestamente, così luminosamente e, con altrettanta fermezza se pur con minore autorità, io stesso.

L’altra è un’atmosfera di sospetti, di timori, di diffidenze, di perplessità. Di queste diffidenze, di questi timori, colui che se ne è quasi fatto araldo con maggiore pessimismo, un pessimismo senza speranze, è stato l’onorevole Nitti. Io, a questo concetto dell’onorevole Nitti sento di non avere autorità sufficiente per replicare. Ma gli vorrei citare qualcuno cui egli forse risparmia i suoi sarcasmi e le sue ironie ed è l’onorevole Nitti stesso. (Ilarità).

Io ricordo – e ricordo con affetto e con simpatia – quando nel lontano 1919 egli era Presidente del Consiglio, ed io ero un semplice modestissimo giovane Sottosegretario di Stato agli esteri. Ricordo un suo discorso che forse è uscito dalla memoria di molti, ma che a me fece molta impressione. Fu in questa Aula che egli disse, descrivendo gli orrori, gli odi, le antipatie, le gelosie dell’Europa di allora – che pure era un paradiso terrestre in confronto dell’Europa odierna – egli disse che bisognava fare di tutto per cercare di eliminare tali odi, tali rancori, che questo era possibile; che questa era una necessità ed una missione bellissima dell’Italia. E finì con una frase che fece sorridere molti praticoni e molti realisti di quest’Aula (parlo di quella del 1919); la frase fu: «L’Uomo di Stato che avrà più fortemente cooperato alla sanità dell’Europa e alla salute dell’Italia sarà colui che riuscirà finalmente a far nascere un sorriso su tutti i volti della gente straziata dell’Europa».

Ebbene, onorevole Nitti, mi permetta di non essere d’accordo col Nitti del 1947, perché sono d’accordo col Nitti del 1919. Forse sono la stessa cosa, con questa piccola differenza: che si è ottimisti se si è nel Governo e pessimisti se si è fuori del Governo. (Applausi al centro).

Ho finito. Io credo, onorevoli colleghi, che potete e dovete sentire che noi possiamo sbagliarci, ma che siamo arrivati alla tesi che sosteniamo dopo penosi momenti di studio, di meditazioni, di ansietà. È chiaro che noi non abbiamo altro interesse che quello dell’Italia e quello della pace europea che per me si identifica assolutamente coll’interesse dell’Italia. Quando queste polemiche, quando questi episodi saranno usciti dalla memoria, io vi assicuro – e questo sarà il solo accenno personale che mi sarò permesso durante il mio dire – che conserverò un ricordo commosso e rispettoso di un fatto che sto per dirvi, e che vi dico perché taluno in questa discussione ha a volte voluto distinguere Sforza da De Gasperi. Io vi dico con verità profonda – e perdonatemi se vi faccio una confidenza di carattere così intimo – che quando tutto questo sarà nebbia del passato, sarà per me un sacro ricordo di essere stato accanto per giorni e giorni al pensiero di De Gasperi, di averlo visto esitante in un senso e poi in un altro, di averlo visto soffrire perché non vedeva chiaro quale era il suo dovere; ma poi, al mio ritorno da Parigi, dopo una conversazione di lunghe ore, mi disse: «Durante la tua assenza, ho pensato, ho riflettuto, mi sono reso conto che se non vogliamo fare dell’Italia una navicella in balìa del vento, se vogliamo dare all’Italia dei fondamenti sicuri per l’avvenire, dobbiamo ratificare, accada quello che vuol accadere; non mi importa niente di essere Presidente del Consiglio, non mi importa niente di rimanere al potere, ma voglio servire la mia coscienza». Fu a quel momento che io mi dissi: «Tanto meglio per l’Italia, se ogni tanto ci sono degli uomini che preferiscono la coscienza al potere». (Vivissimi applausi – Il Presidente del Consiglio si leva in piedi e abbraccia l’oratore).

Questa, o signori, è la nostra cupidigia di servilità: servire l’Italia! Servirla nella pace! (Vivissimi prolungati applausi – Moltissime congratulazioni– Grida di Viva l’Italia!).

(La seduta, sospesa alle 13, è ripresa alle 14.15).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, tenterò di riassumere il significato di questo dibattito; soprattutto, richiamerò però l’attenzione vostra sul senso vero del voto che l’Assemblea è chiamata a dare.

Permettete che vi rilegga la dichiarazione che ho fatta all’Assemblea, quando comunicai che il Governo aveva deciso di firmare il Trattato:

«Potrà la firma avere carattere consensuale?

«Gli Alleati non ci faranno il torto di credere che la nostra resistenza al Trattato sia stata una meschina ed ipocrita manovra. Dalla più profonda intimità del mio spirito ho espresso io stesso nelle solenni conferenze internazionali, in forma pacata ma ferma, la nostra convinzione di uomini liberi e democratici; il modo con cui fu combinato questo Trattato e i termini nei quali fu imposto non ne fanno uno strumento atto a realizzare un nuovo assetto internazionale del mondo.

«A noi non è stata concessa nessuna partecipazione né alla negoziazione, né alle deliberazioni; del Trattato non abbiamo, quindi, né davanti alla nostra Nazione, né innanzi al mondo internazionale, corresponsabilità veruna.

«La nostra firma non può mutare la realtà, come si è svolta e quale fu denunziata in ogni fase della Conferenza.

«Essa non può cancellare il fatto che, nonostante la Carta Atlantica e la stessa recente costituzione francese, il Trattato dispone dei popoli senza consultarli, né può eliminare il fatto, purtroppo incontrovertibile, che la nostra economia da sola, nonostante ogni buon volere, non può portare il peso di cui il Trattato la grava.

«Mancheremmo alla lealtà, se intendessimo avallare con la nostra firma l’immeritata umiliazione imposta alla flotta – nonostante la sua efficace e riconosciuta partecipazione alla guerra accanto agli Alleati – l’insufficiente considerazione del nostro contributo alla lotta per la liberazione, e se lasciassimo credere che ci acquieteremo alla totale eliminazione delle Colonie e alla rinuncia a qualsiasi rivendicazione nei confronti della Germania.

«Non rifiutare la firma richiesta vuol dire, dunque, che il Governo italiano non intende pregiudizialmente fare atto di resistenza contro l’esecuzione del Trattato nell’eventualità che esso, perfezionato dal consesso dei parlamenti, in forza delle prevedute ratifiche, entrasse in vigore; significa che l’Italia vuole dare prova di buona volontà e di ogni sforzo ragionevole possibile per liquidare la guerra; vuol dire che l’Italia, nonostante il contenuto del Trattato, non dispera, non vuole disperare del suo avvenire e dell’avvenire del mondo».

Queste le dichiarazioni, che abbiamo qui pronunciate all’atto della firma. Queste le dichiarazioni, che bisogna premettere ad ogni conclusione del nostro dibattito.

Il significato del voto, dunque, per quanto riguarda le clausole, è questo: il voto non può implicare una adesione intrinseca, ma solo un impegno ad eseguire lealmente.

È in fondo, considerate bene, anche la formula di Benedetto Croce. Quando Benedetto Croce dice: non possiamo approvare questo documento; quando aggiunge: il Governo italiano non si opporrà all’esecuzione del dettato e se sarà necessario con i suoi decreti e con qualche singolo provvedimento legislativo lo perfezionerà, ma questo non importa approvazione; quando afferma: non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta; che cosa fa se non ripetere con altre parole, forse più indovinate, il senso ed il significato che io stesso qui attribuivo alla nostra firma?

Non dimenticate, amici miei – e già l’onorevole Sforza l’ha accennato nel suo discorso – che cosa è il Trattato.

Il relatore alla Camera francese, Gorse, disse chiaro: «Più che di fare la pace dei vincitori con l’Italia, si trattò di fare la pace fra i vincitori».

Ed il relatore al Senato americano Vanderberg, che, come sapete, partecipò a tutti i negoziati e alla compilazione del Trattato, dichiarò: «Vi sono molte obiezioni contro le clausole del Trattato, ma è quanto di meglio si è potuto negoziare nelle presenti circostanze. E una volta consumato il Trattato (mi piace quella parola «consumato») il Governo italiano potrà lavorare per la revisione delle clausole criticabili».

Nella relazione al Senato americano è detto: «Se molte delle clausole del Trattato sembrano eccessivamente dure per l’Italia, il Trattato stesso costituisce un punto di incontro (il che vuol dire un compromesso) fra quei Paesi che in passato hanno sofferto l’aggressione fascista e gli altri, fra cui gli Stati Uniti, i quali ritengono che il contributo dato dalla nuova Italia alla sconfitta della Germania debba avere il suo peso nel controbilanciare le richieste più gravi».

Eccovi nei documenti ufficiali fissato il significato vero del compromesso internazionale. Quando il Presidente degli Stati Uniti dice: «Alcuni termini del Trattato non sono in pieno accordo con i nostri desideri, ma il ristabilimento della pace fornisce le basi per la costruzione di una Italia forte, libera e democratica, e quando l’Italia sarà entrata nell’O.N.U. sarà possibile apportare al Trattato quelle modifiche, che potranno essere necessarie in base all’esperienza futura», egli conferma questo concetto di compromesso, dinanzi al quale non si precludono le speranze dell’avvenire.

Noi siamo stati durante tutta questa discussione perplessi: abbiamo avuto delle esitazioni ed abbiamo dovuto pesare il pro ed il contro nelle nostre coscienze, ma non noi soli. Uomini imparziali, che hanno assistito alla elaborazione del Trattato ed hanno avuto parte nelle negoziazioni del Trattato stesso, hanno avuta la medesima impressione. Vi cito Spaak che nell’ottobre del 1946 diceva: «Confesso che parecchie volte ho votato contro la mia coscienza. Dovetti ogni volta affrontare il dilemma, che mi si sarebbe dovuto risparmiare o respingere una soluzione che avevano accettata i «Quattro», e che non erano disposti a modificare colla prospettiva di demolire un edificio di cui i costruttori proclamavano la fragilità, o dar torto ad uomini che, secondo la mia coscienza, avevano ragione».

Questa relatività del compromesso internazionale, questa costrizione in cui le coscienze stesse sono state forzate per arrivare ad una conclusione ed evitare il peggio, è la caratteristica fondamentale di questo Trattato e questa caratteristica si impone anche alla nostra considerazione.

Il Governo russo, in seguito alla nostra campagna per la revisione, iniziata dal Ministro Nenni e proseguita dal Ministro Sforza dopo la nota del 10 febbraio, accentuò – e lo ha detto stamattina il Ministro stesso – la definitività del Trattato, respingendo la valutazione italiana, che esso fosse iniquo. Anche il Governo russo, come l’inglese, ammise che modificazioni sarebbero potute intervenire circa le clausole, che stabilissero diritti particolari a favore di una sola o di più Potenze, ma che – leggo il telegramma di Mosca del 19 febbraio – «le disposizioni del Trattato potevano essere modificate solo dietro accordo di tutti gli altri interessati». Ecco di nuovo il carattere di ferreo compromesso.

Dunque, ad un anno di distanza – ricordo la Conferenza di Parigi dei «Quattro» ove parlai il 10 agosto – la nostra posizione internazionale è ancora quella del «Lussemburgo».

Ora permettetemi, onorevoli colleghi, di richiamare la vostra attenzione sulla strana relatività dei casi e delle fortune di questa nostra evoluzione. Quando parlai a Parigi, feci fra l’altro la proposta di un modesto rinvio di un anno per la questione adriatica. Non rinvio del Trattato, come fu poi falsamente inteso, ma rinvio delle formule che riguardavano la questione adriatica, come si erano rinviate quelle sulla questione delle Colonie, dicendo: «Il Trattato entra in vigore e l’Italia lo approverà; ma lasciamo libera ancora alla elaborazione ed alla discussione, soprattutto fra italiani e slavi, la questione adriatica». Si alzò allora Molotov per farmi questa accusa: «Evidentemente c’è chi spera che, se non adesso, sarà prima o poi possibile annullare la decisione di compromesso raggiunto dal Consiglio dei Ministri degli esteri riguardo a Trieste. Se ne può concludere che taluno, rilevando le divergenze manifestatesi alla Conferenza di Parigi, progetta di sfruttare tali divergenze per scopi egoistici».

Alle dichiarazioni di Molotov fecero eco altre dichiarazioni sulla stampa italiana, sulle quali voglio sorvolare, per non accendere troppo la polemica. Ma debbo pur rilevare, che io mai avrei potuto immaginare che da quella parte (indica la sinistra) potesse essere sostenuto un rinvio, che un anno fa veniva interpretato come un tentativo di mettere discordia fra le grandi Potenze. (Applausi al centro –Commenti e interruzioni a sinistra).

Mi si rimproverava allora di non insistere abbastanza, perché «tutti i problemi legati alla pace, allo sgombero del nostro territorio ed alla nostra ammissione all’O.N.U., venissero risolti al più presto».

De Gasperi – si scriveva – ha chiesto invece che la questione di Trieste venisse rinviata. E l’uomo più autorevole di quel settore, in una intervista del 20 agosto all’Unità diceva: «Ritengo la proposta di rinvio sbagliata, e non solo per il motivo accennato da De Gasperi stesso, che ogni rinvio significa prolungamento dell’occupazione straniera, del suo schiacciante carico finanziario, e così via. L’essenziale è che se ci stanno a cuore le sorti del nostro Paese e vogliamo lavorare sul serio a migliorarne la posizione internazionale, dobbiamo mettere fine al più presto alla situazione in cui l’Italia è diventata lo zimbello dei gruppi reazionari che speculano sui suoi problemi e sulle sue miserie per gli scopi della loro politica imperialistica e per seminare discordia fra gli italiani, come se si trattasse di popoli coloniali dell’India o dell’Africa. (Commenti a sinistra). Un rinvio prolunga questa situazione in modo pericoloso e la porta verso la putrefazione. (Commenti). A meno che non si voglia speculare noi stessi su una probabilità di guerra. Ma questo sarebbe assurdo e criminale ed in contrasto con ogni sana concezione della funzione dell’Italia nel mondo».

Amici miei, perché cito queste parole? Forse perché non ammetto che nella vita politica, mutando le circostanze, si possano mutare opinioni? Mi aspettavo però di tutto da quella parte, fuorché si sostenesse il rinvio dopo che nei momenti più solenni dei nostri rapporti internazionali si era preso tale atteggiamento.

Ci sono delle manchettes che certe volte bisognerebbe fotografare.

Diceva l’Unità del 15 agosto: «Ogni rinvio della conclusione del nostro Trattato di pace è una minaccia per la nostra indipendenza. Una politica estera deve difendere innanzi tutto l’Italia da questa minaccia».

Ed è quello che noi stiamo facendo.

Allora Pacciardi, in un articolo del 18 agosto, prese un altro atteggiamento corrispondente al nobile e disinteressato discorso che egli ha qui ripetuto e del quale io, come italiano, e non come Presidente del Consiglio (perché nessun impegno c’è fra lui e me, nessun contratto né da una parte né dall’altra, nessuna speculazione politica), onestamente lo ringrazio. (Applausi).

Devo dire che anche Nenni (mi si permetta che io ora dica bene di lui, in contrapposto al molto male che dovrò dire poi), anche l’amico Nenni in una intervista allora diceva: «Comunque sia, quanto avviene alla Conferenza di Parigi, mi conferma l’impressione che riportai dal mio recente viaggio (vi ricorderete che fece un viaggio nei paesi nordici) e cioè che il Trattato è il risultato di un compromesso raggiunto in condizioni talmente difficili che nessuno dei Quattro osa rimetterlo in discussione. Questo, naturalmente, nulla toglie al dolore della protesta elevata con tanta dignità dal Presidente del Consiglio, che riceverà dalla storia, anche la più immediata, la sua consacrazione, poiché a Parigi nessuno può illudersi, ritengo, di costruire per l’eternità. Non sarà ancora asciugato l’inchiostro col quale saranno stati redatti i Trattati, che già si sarà iniziata la fase della revisione».

Come potevo pensare, amico Nenni, che in questo momento avreste votato per il rinvio?

NENNI. E come potevo pensare io che l’Unione Sovietica non avrebbe ancora ratificato?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E come potevo pensare che anche da parte degli amici di Togliatti si subisca la tentazione di votare per il rinvio, quando, non più tardi del 7 giugno, in un articolo di critica all’azione e all’opera dell’Ambasciatore Tarchiani in America si concludeva: «Per gli Stati Uniti, così come per l’Inghilterra, che lo ha già ratificato, così come per la Francia e per l’Unione Sovietica che si accingono a farlo, la ratifica del Trattato con l’Italia significa un impegno preso e che sarà mantenuto: ma significa anche, per noi, la possibilità dell’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite, la fine del regime armistiziale e dell’occupazione straniera, la nuova vita del nostro paese su un piede di stabilità e di eguaglianza internazionale. Entro questi limiti la ratifica del Trattato (ingiusto ed eccessivo, ma inevitabile) è ormai un fatto scontato, e rappresenta un doloroso capitolo definitivamente chiuso: deve essere posto perciò su un piano superiore alle meschinità». (Approvazioni al centro).

Io vi domando soltanto una cosa: per quanto accorto io possa essere, come prevedere che la campagna contro il Trattato sarebbe venuta da quella parte, dopo tutti questi precedenti?

Egregi colleghi, parlo con la benevola e amichevole intenzione di dimostrarvi che voi, votando contro il rinvio, non fareste logicamente che attenervi alla linea di condotta precedentemente presa.

Ed ora parliamo della formula della ratifica o meno del Trattato. Mi si dice: hai cambiato atteggiamento anche tu. Se fosse vero, non avrei nessuna esitazione a confessarlo. Finché si è in guerra e in battaglia si usano tutti i mezzi, e se a un certo momento può giovare il dire che qui si troverà una resistenza disperata, anche se si sa poi di non poterla fare, lo si dice e lo si fa per vedere, se questo giovi a demolire certe obiezioni e certe ragioni. (Approvazioni al centro).

Io richiamo l’attenzione dell’Assemblea su questa questione che è molto seria; parlo a nome di un Governo italiano costretto a proporre deliberazioni sul Trattato. Siamo in un momento, che veramente supera le nostre forze e le questioni di Governo o di settore. È una questione italiana, storica, ed io voglio richiamare la vostra attenzione sulla formula che ho usato a Parigi evitando le parole «accettare o non accettare, firmare o non firmare» perché non c’era soltanto questa alternativa, ma c’è anche l’altra di dover firmare o subire. Ed allora ho scelto la parola, che storicamente vale di più: «corresponsabilità».

Rileggo le parole che ho detto a Parigi: «Per mesi e mesi ho inteso la necessità di potervi esprimere, in una sintesi generale, il pensiero d’Italia, ed oggi ancora, comparendo qui nella veste di ex nemico – veste che non fu mai quella del popolo italiano – dinanzi a voi affaticati dal lungo travaglio, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal volere intralciare, mentre intendiamo favorire la vostra opera, in quanto essa contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.

«Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri contrastanti: da una parte abbiamo l’ansia, il dolore angoscioso, la preoccupazione per le conseguenze che derivano dal Trattato; dall’altra bisogna riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.

«Tale fede è pure la mia ed io sono venuto a proclamarla qui al vostro cospetto; e sono venuti a proclamarla qui, con me, due autorevoli colleghi: l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione democratica dell’altro dopoguerra, l’altro Presidente dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, entrambi degni interpreti di questa Assemblea, cui spetterà di decidere se sia il Trattato tale, da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano».

Noi oggi dichiariamo – e già da tutte le manifestazioni dei diversi settori dell’Assemblea risulta questa concordia – che non possiamo assumere la corresponsabilità del Trattato, in quanto esso contiene soluzioni ingiuste ed inaccettabili dall’Italia. Tuttavia nulla faremo per ostacolare l’attuazione dell’accordo raggiunto tra i vincitori e qualora tale accordo fosse mantenuto, daremo la nostra ratifica e coopereremo lealmente all’applicazione del Trattato con tutte le nostre possibilità.

Dunque il Trattato non è che un compromesso fra i Quattro che noi applicheremo per amor di pace. Ma esso è anche un edificio composito dal quale nessun contraente può immaginare di ricavare semplicemente quel tanto che può essergli utile e, in particolare, riferendomi ad un’obiezione sollevata dall’onorevole Valiani, il Governo dichiara – l’onorevole Sforza lo ha già detto stamattina – di considerare le clausole territoriali del Trattato che riguardano la Venezia Giulia un tutto inscindibile, per cui – non è male che lo ripetiamo – mancando, ad esempio, la ratifica jugoslava, tutte le clausole di ordine territoriale sono perente, compresa quella relativa al territorio libero della città di Trieste.

Questo è il significato dell’autorizzazione, che noi chiediamo alla Costituente; e noi siamo contrari a rinvii e a sospensioni, perché un simile atteggiamento ci attirerebbe il sospetto di non essere leali e di voler mercanteggiare con uno dei Quattro, o con due dei Quattro e accrescerebbe il turbamento in quest’ora così fluida, che noi speriamo venga fra poco superata.

Il nostro voto significa fede nella pace; il nostro voto significa fede nell’opera ricostruttiva della cooperazione internazionale, significa orrore contro ogni voce, ogni possibilità di guerra: l’Italia, una volta rientrata nei consessi internazionali, non parlerà solo per patrocinare la causa sua, ma parlerà anche in pro di tutte le Nazioni che si inspirano al diritto, di tutte le Nazioni che hanno fede nella libertà e ripudiano il ricorso alla forza per la risoluzione dei problemi di politica internazionale. (Applausi al centro).

L’onorevole Togliatti mi ha accusato di politica unilaterale, anzi di politica di partito nelle questioni che riguardano i nostri rapporti con l’estero. Io dubito che mai vi sia stato un Governo, cosiddetto di colore, il quale, nella collaborazione e nei suoi organi di politica estera, sia stato così largo come è stato il nostro; infatti non vi sono oggi, fra tutti gli Ambasciatori e i Capi missione, se non due soli che appartengono al gruppo della Democrazia cristiana. Tutti gli altri appartengono a partiti di sinistra o di centro (Rumori a sinistra), indipendentemente se questi siano dentro o fuori il Governo. (Rumori a sinistra). E reclamo per me questa larghezza di spirito, perché quando si tratta di interessi pubblici non si può guardare semplicemente a provenienze di partito! (Applausi al centro).

E non parlo solo degli Ambasciatori. Parliamo anche delle missioni particolari: della missione in Jugoslavia, della missione in America, della missione per la Cecoslovacchia e di quella per l’Argentina. In queste missioni le persone direttive non appartengono né al mio indirizzo, né al partito liberale. Abbiamo scelto le persone migliori, le abbiamo pregate di collaborare con noi, ci hanno dato la loro collaborazione e ne siamo loro grati e riconoscenti, perché intendiamo così collaborare, all’infuori delle contese di partito, per la grandezza d’Italia e per fare uscire il popolo dalle immense difficoltà in cui si dibatte! (Applausi al centro).

Voi non avete fiducia in me (Commenti), perché dite che io sono l’uomo dell’America, l’uomo della destra, l’uomo del capitale e dei dollari. Per i dollari vi confesso che ho un certo debole! (Si ride). Infatti penso tutti i giorni: potessi avere un po’ di dollari per comprare il pane e per acquistare il carbone per le nostre industrie! (Applausi al centro).

Però l’amico Nenni mi ha reso un grande servigio, come spesso egli fa. (Si ride). Quando ha lasciato il Governo ha scritto un articolo in cui ha fissato ben chiare le ragioni della sua dipartita. Così questa non si può attribuire ad un urto di politica estera tra me e lui, come si è voluto insinuare, ma a ragioni, direi, di carattere interno di gruppo. «Aggiungerò – egli ha scritto sull’Avanti – che ad attenuare l’inquietudine legittima che ha sollevato la nostra rinuncia ad una delle posizioni chiave del Governo, ha molto influito la personalità dell’uomo chiamato a dirigere la politica estera della Repubblica. Il conte Sforza, per i servigi eminenti che ha resi alla democrazia europea durante il suo volontario esilio, per le sue vaste relazioni internazionali, per l’esperienza che tutti gli riconoscono, è quant’altri mai in grado di rappresentare e di far valere nel mondo le esigenze di giustizia, di indipendenza, di autonomia della Nazione italiana. Non c’è da temere che egli compia l’errore di prendere sul serio i politici da strapazzo e gli strateghi da caffè, per i quali, oltre l’Adriatico ed oltre la linea Trieste-Stettino si stenderebbe un immenso territorio nemico, nei cui confronti la nostra funzione sarebbe di costituirci in avanguardia della cosiddetta civiltà cristiana o, per parlare più chiaramente e realisticamente, costituirci mercenari del capitalismo occidentale».

Se non vi fidate di me, fidatevi del conte Sforza, presentatovi con tali credenziali. (Applausi al centro).

L’amico Nenni, nominato Ministro degli esteri, forse anche perché poteva scrivere di meno, era divenuto una persona molto saggia. (Si ride). Egli aveva fatto molta esperienza e, alla fine delle sue esperienze, pronunciava nel discorso di Canzo le seguenti parole, che cito perché, quando si ascolta l’onorevole Togliatti sembra che tutte le colpe siano nostre e che quando si tratta di rapporti col mondo slavo tutte le colpe siano dell’Italia; possibile che non ce ne sia qualcuna anche dall’altra parte? Diceva dunque Nenni, forte delle sue esperienze: «È mancato in questo campo come in quello della delimitazione della frontiera la collaborazione italo-jugoslava. Noi non possiamo che deplorarlo ed augurarci che non sia più così nell’avvenire, ma lo deplorerà anche Belgrado che in questo campo si è lasciata guidare da propositi di intransigenza incompatibili cogli interessi dei nostri due popoli».

Ebbene, questo è il punto di vista che, almeno quando si vuol giudicare il proprio Governo o i propri mandatari, bisogna tener presente. Perché si fa quello che si può. Ma attribuire a noi tutte le colpe sarebbe ripetere l’errore di un discorso di ieri, che ha cominciato con l’attribuire il Trattato soprattutto alla responsabilità di tre anni di politica estera, quasi il Trattato non fosse una conseguenza diretta del ventennio fascista. (Applausi al centro).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Non ho detto questo!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E allora faccio ammenda. Ma siccome si tratta ora di responsabilità del Governo italiano e in modo particolare dell’onorevole Bonomi, io mi rimetto a quello che egli crederà di dichiarare.

Ma l’onorevole Togliatti ha fatto un’altra accusa a prova della mia unilateralità: «Volete scommettere – dice – che l’onorevole De Gasperi non conosce nemmeno il testo esatto dell’intervista tra me e Tito nell’occasione del mio viaggio a Belgrado?». Ed io dico: No, il testo preciso non lo conosco; ma avevo un Ministro degli esteri, che si chiamava Nenni e che era in migliori rapporti di me con Togliatti; egli ha avuto comunicazioni da lui e queste comunicazioni sono state riferite anche in seno al Consiglio dei Ministri. Si seppe quindi cosa fu detto nei colloqui e il Consiglio dei Ministri prese l’atteggiamento fissato nel noto ordine del giorno in cui è detto: «Il Consiglio dei Ministri è stato informato di un colloquio avuto dal Ministro degli esteri in mattinata con l’onorevole Togliatti di ritorno da Belgrado, dove a titolo strettamente privato, egli ha esaminato con il Maresciallo Tito le questioni della pace tra l’Italia e la Jugoslavia, attualmente all’ordine del giorno davanti alla Conferenza dei Quattro a New York. Il Governo ravvisa nella rinuncia jugoslava alla rivendicazione su Trieste, nell’annuncio dell’imminente rimpatrio dei prigionieri italiani dalla Jugoslavia, nel proposito di negoziare un trattato di commercio tra i due Paesi, degli elementi nuovi che facilitano la possibilità di negoziati diretti nel quadro delle trattative generali per la conclusione della pace. Esso però non può prendere in considerazione la cessione alla Jugoslavia di Gorizia, parte integrante del territorio italiano, come tale dai Quattro unanimemente riconosciuta all’Italia, e richiamandosi alla sua ultima nota ai «Quattro» riafferma il principio che la frontiera debba essere tracciata seguendo la linea etnica e ricorrendo al plebiscito quando la applicazione di essa sollevi contestazioni».

Questa fu la decisione del Consiglio dei Ministri, formulata con molta abilità da Nenni e con minore abilità da me.

Ora voglio completare quello cui l’onorevole Nenni ha già accennato. Non è vero, che la cosa sia stata messa a dormire.

Nenni, d’accordo con me, a mezzo degli Ambasciatori che stavano a New York per la formulazione definitiva del Trattato dinanzi ai «Quattro», ha cercato di arrivare al sodo di questa intervista, di arrivare a vedere, all’infuori delle confidenze che erano state personali fra il Maresciallo Tito e Togliatti, quale posizione ufficiale venisse assunta da parte degli slavi. Ed una lunga serie di telegrammi del Ministro e di risposte dei nostri rappresentanti, riferiscono sui colloqui intervenuti con l’Ambasciatore Simic e con il Delegato Bebler e mettono in risalto quello che si può considerare il succo ufficiale di queste trattative.

Nell’ultimo colloquio, senza essere arrivati a nessuna conclusione precisa, si diceva che si sarebbe visto volentieri l’invio a Belgrado di una missione italiana, la quale, benché di carattere soprattutto economico, servisse a creare quella atmosfera di avvicinamento, che potesse poi portare a qualche conclusione anche nella questione territoriale. Ed ecco qui che l’attività di Nenni si è rivolta a preparare questa missione, e l’attività del nuovo Ministro degli esteri Sforza, ha continuato a svolgersi su questa linea, tanto che ne è venuta fuori la missione Merzagora-Mattioli, e finalmente siamo arrivati alla ripresa ufficiale dei rapporti jugoslavi ed italiani con la nomina di un nostro Ministro a Belgrado e del Ministro di Belgrado a Roma.

Ora, se ci fosse bisogno di una nuova dichiarazione (non ce ne sarebbe perché le prove le abbiamo date), se ci fosse bisogno di ricalcare la dichiarazione fatta oggi dal Ministro degli esteri, sono qui a dirvi che siamo pronti in qualunque momento a riprendere le trattative anche sulla questione territoriale, anche su arrangiamenti che si manifestassero necessari, di carattere economico, di carattere politico, ecc. All’atto della attuazione, anche se si dovrà applicare il Trattato come è, noi riconosciamo che per il territorio libero di Trieste, come per la soluzione di altri problemi, abbiamo bisogno di cooperazione, affinché non soffrano troppo i loro e i nostri conterranei; siamo sempre disposti a trattare, purché non ci si voglia esporre alle accuse di doppio gioco. Tutto quello che si fa deve essere fatto in pubblico, nel quadro delle Nazioni Unite, nel quadro a cui ci obbliga il Trattato. Non vogliamo si dica, che contemporaneamente trattiamo in un senso e nell’altro.

Siamo insomma pronti a qualunque trattativa, che porti il consenso dei Quattro maggiori responsabili del Trattato. E faccio appello di nuovo alla Jugoslavia di non credere a quello che si stampa nei giornali, cioè che il presente Governo sarebbe antislavo. Il presente Governo è italiano, agisce nell’interesse dell’Italia, vuole un accordo colla Jugoslavia, vuole una amicizia con la Jugoslavia anche per la difesa delle minoranze. E lì la situazione è così tesa, che abbiamo visto una città intera, nonostante le nostre obiezioni, partire; esiliarsi volontariamente dalla Patria antica. Ed io mi domando, quando ho visto questi profughi, e li vedo tutti i giorni, se ci può essere ancora per gli Alleati e per il mondo intero una prova più palmare dell’ingiustizia di un Trattato, che porta all’esilio volontario e fa sì che uomini, che avevano una casa, una.officina, un campo, tutto abbandonano ed emigrano con vecchi e bambini. (Vivi, prolungati generali applausi – Il Presidente della Assemblea, i deputati ed i membri del Governo si levano in piedi – Interruzione dell’onorevole Scoccimarro).

Amico Scoccimarro, siamo d’accordo in questo momento; se in questo momento siamo d’accordo, perché turbare questa concordia e questa manifestazione?

L’Italia non può guardare ad una sola frontiera. Voltiamoci dall’altra parte e diciamo nella stessa forma che noi siamo disposti ad ogni trattativa, che possa trovare, finalmente, una soluzione umana e moderna del problema coloniale. Nel Trattato c’è la rinuncia alla nostra sovranità sotto il titolo antico. Ma noi non abbiamo rinunciato alla cooperazione del nostro lavoro, alla amministrazione fiduciaria di territori, che dovranno essere affidati a qualcuno. E nelle colonie prefasciste a chi meglio potrebbe essere affidata l’Amministrazione, sotto il controllo delle Nazioni Unite, se non a chi vi ha profuso tanti uomini, tanti mezzi, tanto lavoro e che ha braccia pronte a riprendere questo lavoro?

Parlavo ieri con un colonizzatore della Somalia arrivato in questi giorni e che mi riferiva del lavoro che si sta facendo, e come, nella disgrazia comune, colonizzatori italiani e somali si sono affratellati, e gli uni hanno sentito che dovevano trattare i somali come li trattavano prima del fascismo, e gli altri hanno capito che gli italiani sono diventati un altro popolo, una vera democrazia pronta a ricostruire assieme a loro la prosperità di quelle colonie. (Applausi al centro – Interruzione del deputato Scoccimarro).

Ora, amico Nenni, vi voglio portare un’altra prova della mia ingenuità. Non potevo pensare che l’onorevole Nenni sarebbe stato avversario della nostra tesi in questo momento, quando nell’Assemblea Costituente del 18 febbraio, trattandosi della firma, diceva: «Noi mancheremmo al nostro dovere verso il Paese, se lasciassimo credere che l’atteggiamento del Governo e del Paese poteva essere diverso da quello che è stato e noi commetteremmo una grave colpa non solo nei confronti della generazione attuale, ma delle generazioni future, se lasciassimo sussistere il dubbio che potevamo sottrarci all’obbligo della esecuzione. La verità, signori, è che la situazione creata dalla disfatta è tale che, se anche le condizioni del Trattato fossero state per evenienza peggiori di quelle che sono, noi non avremmo potuto che eseguirle».

Onorevole Nenni, allora vedevate la situazione con alto senso di responsabilità. Provatevi a fare un certo sforzo e a vederla così anche al presente. In questo momento lasciamo da parte le piccole differenze, che ci possono dividere…

NENNI. Fra qualche settimana, se lei aspetta le condizioni.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Si creano le condizioni. Vengo a questo.

Ed ora vengo ai quattro punti di Togliatti, che mi sono apparsi come quattro condizioni, per prendere una decisione qualunque. Non voglio, naturalmente, speculare su questa decisione. Io non faccio appello qui a nessun sentimento, né antigovernativo, né governativo. Dico che la questione è assolutamente superiore a qualsiasi questione di favore o di opposizione al Ministero.

Quelle che io dico sono parole sacrosante, come ha accennato Sforza, uscite dall’animo mio nella confidenza di un colloquio segreto. Dissi e dico che non m’importa niente né della formazione del Ministero, né della sua costituzione, né se abbiamo un Ministero A o un Ministero B: quello che importa sapere è quello che ho il dovere di fare in questo momento storico per la mia Nazione e a servizio del mio popolo. (Applausi al centro).

Allora vengo ai quattro punti dell’onorevole Togliatti. Egli ci ha detto anzitutto che dobbiamo aver cura dell’indipendenza del nostro Paese. Evidentemente intendeva parlare dell’indipendenza politica, perché poi accenna alla costituzione dei Governi.

Ed è vero. Nel passato abbiamo avuto una situazione armistiziale avvilente. Dovemmo, ogni volta che entravamo in un Ministero, controfirmare tutti l’armistizio, assumere la responsabilità dell’armistizio, che era stato firmato fuori di noi a conclusione di una tragedia, in cui non avevamo avuto che una parte passiva. Dovevamo firmare: potevamo anche non firmare. Ma, quando penso all’amico Bonomi, che dall’inizio ha dovuto rifarsi un dicastero, una polizia, dei carabinieri, ricorrendo ai minimi mezzi; sviluppando faticosamente ciò che a Salerno era appena iniziato…! Abbiamo avuto un’illusione, autorevole amico Orlando; forse abbiamo avuto una illusione di più. Abbiamo pensato che, se il Governo, che ci avrebbe rappresentati alla Conferenza internazionale, fosse stato un Governo, che avesse lavorato per l’antifascismo e nel senso della cooperazione cogli Alleati fin dal primo inizio, avrebbe trovato più facile ascolto di un Governo come quello del Maresciallo Badoglio, che ci fosse andato con tutte le responsabilità della guerra precedente.

Ci siamo sbagliati? Non lo so. Bisognerebbe fare la prova del contrario. Ma so che questo fu il nostro proposito e il significato del nostro sacrificio.

Ora lo straniero…, onorevole Orlando, non si può, in una guerra europea che ha un significato, direi, di guerra civile in tutto il mondo, oltre che di guerra tra le singole Nazioni, non si può spiegare tutto semplicemente, nel senso antico: patria e straniero. Vi sono degli stranieri per i quali è lecito, doveroso collaborare; vi sono altri, contro i quali bisogna combattere. Quindi, non è che noi in quel momento potevamo mettere sullo stesso livello lo straniero tedesco, che bisognava ricacciare, e lo straniero, che veniva – anche per i suoi interessi – ma anche nell’intima convinzione, credo, di liberare l’Italia da una dittatura pericolosa.

Se la guerra fosse finita diversamente, se quell’altro straniero avesse potuto mettere radici in Italia, cosa sarebbe avvenuto della nostra libertà? Come chiamare indiscriminatamente straniero quello che ci è venuto in aiuto? Si è detto tanto male degli Alleati in questi giorni, ed in parte a ragione, specialmente dei giuristi, che hanno compilato il Trattato. È doveroso, però, un segno di gratitudine per quelli che sono venuti a battersi e sono morti in terra italiana. (Applausi generali).

Se poi l’onorevole Togliatti intendeva alludere alla formazione del presente Governo, qui siamo proprio nel campo della suspicione.

A questo riguardo Togliatti assomiglia molto agli slavi, se è vera la caratteristica che ha dato di loro stamattina il Ministro Sforza, di essere particolarmente sospettosi (Si ride); ciò che sarebbe consono, a tutta la tradizione di Bisanzio. (Interruzione a sinistra). Io dico: l’ultima crisi – torniamo sempre al dente che duole (Si ride) venne fatta per problemi interni, economici e finanziari ed il Capo dello Stato liberamente incaricò prima Nitti, non so se d’accordo con gli slavi o con gli inglesi (Ilarità), poi Orlando, non so se d’accordo con lo straniero americano, infine me. Dunque, su basi parlamentari, libere, si è formato il Ministero attuale. Non riconosco altra origine, e respingo come un’accusa infondata quella di favorire in qualunque maniera lo straniero o chicchessia che non rappresenti collaborazione utile o non venga incontro agli interessi dell’Italia. (Applausi al centro).

Con ciò, amico Togliatti, credo (per quel che possono valere le mie parole, perché se alle mie parole non si presta fiducia, è inutile parlare) di aver fatto dichiarazioni tali, che vi possono liberare dal sospetto che questo possa essere un Governo il quale subisca l’influenza di una delle grandi Potenze.

Nel secondo punto Togliatti dice: parliamo di esclusione di un intervento economico straniero. Qui, evidentemente, così come l’ho ricavato dall’Unità, voleva dire intromissione e ingerenza indebita. Togliatti molto bene ha distinto tra aiuti e crediti. Ha detto che bisogna finirla con gli aiuti ed insistere per i crediti. È proprio ciò che stiamo facendo. Credo che gli aiuti, quelli post U.N.R.R.A., siano gli ultimi che riceviamo. Ma abbiamo bisogno, di questi 130 milioni di dollari (possiamo domandarlo al Ministro del commercio estero) per comperare il pane per i prossimi mesi, ed il carbone. Non è umiliazione questa, perché chi ce li deve dare se non chi li ha, e chi li deve chiedere se non chi ne ha bisogno? (Applausi prolungati al centro).

Per il resto, trattiamo per ottenere i crediti e tutto il camminare che si è fatto nel viaggio in America non è stato certo il viaggio di un mendicante. È uscito, proprio in questi giorni un libro, in cui si espone veridicamente il diario di tutto quanto io ho fatto in America. Invito i colleghi a leggerlo, specie quelli che dubitano: dicano se l’atteggiamento di un uomo che si è comportato come me, che ha parlato come ho parlato, che ha detto quello che ho detto, che a Cleveland ha citato, per farla sua, una espressione del Presidente Cleveland: «L’indipendenza dei popoli è legata al loro onore, e guai a chi lo dimentica»; dicano se tale uomo abbia mancato di provvedere alla dignità di un delegato del popolo italiano (Applausi prolungati al centro). Su vari banchi si è espressa la facile, ma perniciosa immaginazione che l’America abbia una gran voglia di regalare prestiti e soprattutto all’Italia, anzi che ne abbia urgente bisogno per i suoi stessi interessi; io vi dico invece che il chiedere e l’ottenere è faticoso, che bisogna meritare questi crediti e che vengono richieste tutte le garanzie possibili e la garanzia maggiore (Rumori a sinistra) è la potenzialità delle industrie e la forza del nostro popolo lavoratore. A queste garanzie ci siamo richiamati in America, non in ginocchio e non a testa bassa, ma in piedi e francamente, come uomini che sanno che domani potranno restituire. Questa è la seconda questione, e mi pare di aver risposto in modo sodisfacente.

Mi sono molto affaticato per trovare una risposta sodisfacente a Togliatti perché ci tengo molto, a parte qualsiasi questione di voto, che se dobbiamo essere avversari, in lui ci sia l’opinione che quando dico qualcosa e lo affermo perentoriamente, questo corrisponde alla verità, almeno alla verità come la vede la mia coscienza. (Commenti a sinistra).

La terza questione riguarda i blocchi. Si è detto: nessun blocco, nessuna partecipazione a blocchi contro la Russia con lo scopo di isolarla. Ora devo dire, che anche questo è un discorso vecchio. In tutti i miei discorsi ho rilevato, sia in quelli di politica interna, che in quelli di politica internazionale, l’importanza meritoria del contributo alla guerra della Russia. Ho rilevato il contributo della sua esperienza sociale, perché non sono abbastanza cieco da non vedere che vi possono essere dei difetti anche nella democrazia americana, per mancanza di certe leggi sociali, e da non vedere, viceversa, i vantaggi che vi possono essere nel sistema di un paese in cui la ricchezza è minore, il tenore di vita dei lavoratori è più basso, ma dove si tenta un grande sforzo verso la giustizia sociale.

Mai si distoglie il mio sguardo da questa diversità di contributi, che possono confluire e spingere innanzi il carro del progresso nel mondo, e mai l’ho celato anche a Molotov, ogni volta che mi sono incontrato a Parigi e a Londra con lui. Ho creduto mio dovere di tentare di persuaderlo (peccato che io non conosca bene il russo!) che in me cristiano cattolico tale convinzione sociale e religiosa allargava, anziché restringere il mio sguardo su quello che può essere progresso, su quello che può essere anelito verso la giustizia, sia pure accanto alle obiezioni che si possono avere contro questo o quel sistema.

Togliatti dice: «Ma siete andati in tutte le direzioni; Nenni è andato nei Paesi settentrionali, Sforza nell’America del Sud e poi De Gasperi nell’America del Nord». Ma io in America fui invitato da un organismo internazionale, non ufficiale, dal quale si sviluppò poi un viaggio di carattere ufficioso e poi ufficiale. E potevo io, in un momento in cui mi presentavo per la prima volta ad una Nazione che era stata la più generosa verso di noi, non soltanto di aiuti materiali, ma anche di riconoscimenti dal punto di vista politico, della libertà, della democrazia, rinunciare di mettermi a contatto coll’opinione pubblica americana e con migliaia e migliaia di italiani, ai quali dobbiamo tanto per gli aiuti che ci hanno dato durante questo periodo, ed ai quali dovremo ancora tanto se quegli americani si manterranno fermi nel loro proposito verso di noi come hanno promesso? E non può essere diversamente, perché gli americani, che sono di origine italiana, se sono leali cittadini della loro nuova patria, non dimenticano e non dimenticheranno mai di essere di sangue e di stirpe italiana.

È vero che in questa discussione ed in queste relazioni ho ammesso che credo alla esistenza anche di un lievito idealistico nella fermentazione ideale e spirituale tra Italia e America, appunto perché non è sempre un problema di cifre od un problema economico quello che si considera. Naturalmente il problema economico e finanziario esiste; ma chi credesse che il problema sia esclusivamente economico ripeterebbe l’errore di Mussolini e di Hitler, i quali hanno creduto che ci fosse soltanto un interesse economico da regolare. Ma l’America ha speso in questa guerra 400 miliardi di dollari per aiutare quei Paesi che tentavano di crearsi una vita veramente democratica, ha dato 14 miliardi di dollari di merci alla Russia, con molta generosità, pur di vincere contro il nazismo e il fascismo.

Volete voi che noi neghiamo questo contributo ideale? Volete che lo addebitiamo alle semplici speculazioni economiche, e volete che crediamo che tutto quello che si fa in America si faccia soltanto per evitare una crisi americana?

Non sarebbe spiegabile tutto quanto l’America ha fatto fin qui, tutti i sacrifici sostenuti con la massima generosità, se nel suo dinamismo non ci fosse anche un lievito morale e spirituale. Qui non entro nel dettaglio della esegesi che ha fatto l’onorevole Togliatti alle parole e ai discorsi di Truman, che si possono e si debbono interpretare anche un po’ diversamente da quanto egli non abbia fatto; ma è certo che esiste un fattore spirituale di cui dobbiamo tener conto in considerazione anche dei problemi di altra natura.

Io a questo riguardo debbo dire di desiderare vivamente che, appena il Trattato sarà definito, si riprendano le relazioni più amichevoli anche con la Russia, lo desidero pure per gli altri Paesi orientali e lo desidero non soltanto per la pace del mondo, ma anche per gli interessi dell’Italia, per gli interessi della nostra zona economica che costituisce, in parte, un complemento di quella orientale e soprattutto perché sarà grande fortuna per noi, popolo di frontiera, se a noi riuscirà di essere, tra le due civiltà, come un ponte di conciliazione. Certamente siamo nati e sorti nella civiltà occidentale, la quale, per dire meglio, non è occidentale né orientale, ma è civiltà italica ed è civiltà che viene da Roma. (Applausi al centro).

Ad ogni modo, non certo io ho preso il partito per un blocco, come ha detto l’onorevole Nenni, e non ho, in questo senso, cambiato fronte. L’anno scorso, il 15 agosto, in un’intervista, rispondendo a Molotov, io dicevo: «Noi non intendiamo partecipare a blocchi; diamo la massima importanza alle relazioni economiche con la Russia, ma è naturale che, nella nostra situazione, i nostri rapporti con l’America siano più intensi. Si pensi al grano, al carbone, all’U.N.R.R.A., al prestito, alla ripresa industriale dei tessuti e si dica se questo punto di vista non sia comprensibile e ragionevole».

Questo era il mio punto di vista del 15 agosto dello scorso anno, questo è il mio punto di vista di oggi. Ma se vi è bisogno di affermare che noi non prendiamo parte in alcuna forma, in alcuna misura, ad eventuali tentativi – posto che se ne facciano – di isolamento della Russia, o a tentativi che potessero portare a blocchi più tardi, io torno a fare questa dichiarazione, con il senso di responsabilità che mi incombe, con il desiderio e la volontà che ho oggi di rappresentare l’opinione e gli interessi del Paese.

Le osservazioni dell’onorevole Nenni sul piano Marshall non sono contradittorie con ciò che si è fatto da noi. Anche noi abbiamo trattato con la Jugoslavia, con la Cecoslovacchia e con la Polonia; noi cerchiamo la ricostruzione della unità produttiva ed economica tedesca; noi abbiamo la coscienza della necessità di alimentare la nostra cerealicoltura, ma anche di difendere la nostra industria; noi sappiamo che le esigenze più vitali sono quelle del lavoro che debbono superare quelle della materia e della macchina.

Ma ho udito delle dichiarazioni dell’onorevole Nenni secondo cui i socialisti, qualora venisse respinto il rinvio, si asterrebbero: perché, onorevoli socialisti, quando si tratterà di votare un testo che è stato modificato, per tenere conto anche dei vostri desideri, voi vorreste tenere un atteggiamento di questo genere?

Il Governo sapeva bene in qual forma avrebbe dovuto dare la ratifica, come era prescritto anche dall’articolo 90; ma, sentite le obiezioni formulate in seno alla Commissione dei Trattati ed anche quelle che sono emerse da alcuni colloqui privati con lo stesso onorevole Nenni, noi abbiamo elaborato un’altra formula la quale poi disgraziatamente ha assunto il nome di formula «democristiana», perché essa era nata in una discussione del mio Gruppo con qualche variazione rispetto a quella originaria proposta dall’onorevole Nenni; ma se questa è la condizione perché sia votata e approvata, ebbene riconosciamo i diritti d’autore e diciamola pure formula di Nenni. (Ilarità al centro – Commenti a sinistra).

NENNI. Né il Ministro degli esteri, né il Presidente del Consiglio ci hanno ancora detto che cosa pensano di fronte alla nuova nota sovietica di stamane.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Neanche lei conosce il testo della nuova nota sovietica. (Ilarità).

Verrò subito a questo argomento ma intanto ho bisogno, scusate, di una piccola parentesi, per una questione particolare che mi sta – ed è naturale – specialmente a cuore. L’amico Ruini è un po’ preoccupato per la formula dell’accordo per l’Alto Adige, là dove si parla di un potere autonomo regionale. Badate che già a Parigi, prima ancora che l’accordo che era stato ufficiosamente concluso fosse ufficialmente firmato, già a Parigi io ho dichiarato: «È stato raggiunto – questo è il discorso del Lussemburgo – un accordo su un’ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente». Quindi, è chiaro che è riservata alla Costituente l’approvazione dell’estensione di questa autonomia, e quindi il contenuto specifico del potere autonomo. Con ciò credo di averlo tranquillizzato, a meno che la Costituente non faccia come con la Sicilia, si che trascini talmente il coordinamento da mettere il Governo in grave imbarazzo.

L’accordo venne firmato a Parigi il 5 settembre, badate, nel solo testo inglese. Mentre il Trattato fa legge nei testi francese, inglese e russo, il testo che fa legge per l’accordo è solo l’inglese, perché così è stato stabilito tra Grüber e me dopo che l’elaborazione dell’abbozzo era stata fatta in inglese dall’ambasciatore Carandini. Di qui l’origine di questo testo ufficiale. È stato, comunque, allegato al Trattato con questa formula: che è il testo inglese quello che vale.

Questo devo dire e constatare, perché non sorgano dubbi sulla interpretazione, anche perché alcuni interessati circoli dell’Alto Adige hanno tentato di modificare quello che dell’accordo è il vero significato.

Ed ora cerchiamo di riassumere; e se non dovessi dire tutto, prego l’onorevole Nenni di avvertirmi di ciò su cui desidera una più precisa risposta.

NENNI. Desidero sapere quello che né il Ministro degli affari esteri né il Presidente del Consiglio ci hanno detto: che cosa è – secondo le informazioni diplomatiche che il Governo certamente deve avere e che io semplice deputato non posso avere – che cosa è e quali conseguenze giuridiche e politiche ha sul Trattato l’ultimo atteggiamento dell’Unione Sovietica?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Noi non abbiamo né conosciamo la nota sovietica, perché è un testo confidenziale fra la Russia e l’Inghilterra; potremo sapere solo quello che ci verrà trasmesso dai nostri ambasciatori; sappiamo però che la Russia non dichiara affatto di non ratificare, anzi dice il contrario, ma fa questione di tempo e di procedura.

Una voce a sinistra. Allora aspettiamo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La vostra conclusione non è logica, perché noi affermiamo che noi dobbiamo decidere in modo autonomo, secondo quelli che riteniamo gli interessi del nostro Paese.(Commenti a sinistra).

Il Governo non ritiene che l’Assemblea possa e debba assumersi la responsabilità di respingere e di non eseguire il Trattato. L’enorme maggioranza della Commissione per i Trattati ha condiviso questo punto di vista.

E tale è il pensiero espresso dalla maggioranza degli oratori dell’Assemblea. L’annullamento del compromesso dei Quattro porterebbe ad un grave turbamento internazionale e riaprirebbe la questione italiana esponendoci a pericoli di intimazioni perentorie e di azioni coercitive. Data la nostra situazione economica, noi saremmo esposti o ad un unilaterale servilismo aggrappandoci all’uno o all’altro dei Quattro o ad una totale umiliazione, quando questi Quattro facessero tutti fronte contro di noi. (Commenti a sinistra). È facile prevedere che il turbamento si propagherebbe agli altri paesi in posizione analoga. Noi correremmo, inoltre, il rischio di perdere le concessioni assicurate o previste negli accordi recenti circa le navi sequestrate, i beni italiani all’estero, ecc. Si riaprirebbero le questioni territoriali e quelle delle riparazioni, non forse per parte della Russia, ma per parte di quegli Stati che solo la pressione della Russia ha ridotto a minori richieste, come ricorderete. Si ritarderebbe ogni decisione sulle nostre colonie, e continuando il regime armistiziale, verremmo esclusi da ogni collaborazione internazionale.

La pace mondiale, l’interesse del popolo italiano, che al di là di ogni formula giuridica sta riprendendo la sua vita economica col concorso dei popoli amici, esigono questo sacrificio. Noi questo sacrificio compiamo per parte nostra, ed ora tocca a voi decidere. Noi del Governo lo compiamo, con coraggio e con fierezza assolvendo un duro compito del destino, quale è quello di pagare per colpe non nostre e per le conseguenze di una guerra che abbiamo invano deprecato.

Il popolo sa che le nostre mani sono pure del sangue versato, e che i nostri propositi sono puri e disinteressati, e che mettiamo sull’altare della Patria quale olocausto, la nostra reputazione, il nostro credito politico e ogni calcolo elettorale!

Noi non crediamo alle collere del popolo contro di noi (come ci si è minacciato), perché abbiamo fede che esso si è maturato, che esso alberga nel suo animo il senso della realtà e della giustizia.

Certo sarebbe stato più facile il nostro compito, se avessimo potuto servire il popolo nei tempi della vittoria, ma il coraggio civile più alto e disinteressato è quello di chi serve nel momento della sconfitta! (Applausi al centro). E sa affrontare l’impopolarità per trarlo dall’abisso in cui un nazionalismo orgoglioso e sentimentale, aggiunto ad uno spirito di aggressione, lo ha precipitato.

Io sento in questo momento che i combattenti, i veri combattenti, che i morti di queste due guerre non sono contro di me, combattente io pure per la pace, perché essi sono morti per la libertà e l’indipendenza dell’Italia, e questa è la nostra meta comune!

Si è parlato dei marinai e delle navi. Ogni sforzo è stato fatto durante le trattative pubbliche e private; in molte ripetute conferenze, ogni sforzo è stato fatto per ottenere mutamenti di formule, mutamenti di esecuzione.

Abbiamo ottenuto soltanto degli addolcimenti pratici per cui continuiamo anche oggi a lavorare, affinché non ci sia lo scandalo a cui ha accennato l’onorevole Orlando. Questa è la nostra posizione. I marinai d’Italia sono tornati a navigare liberamente nei nostri mari, e nei porti toccati si è levato verso di essi il plauso riconoscente di tutto il popolo d’Italia. È stata ed è preoccupazione costante del Ministro e del Governo di tutelare la dignità di quella Marina italiana che nella lotta di liberazione ha sacrificato eletti, eroici equipaggi e centosettantacinquemila tonnellate di navi. (Vivissimi, generali, prolungati applausi – L’Assemblea si leva in piedi – Si grida: Viva la Marina!). Oggi ho sentito con sincera commozione l’onorevole Giannini, quando ha ricordato la vittima che gli è vicina e quanti altri deputati hanno avuto i loro figli o parenti rimasti vittime di questa guerra. Ma oggi sento che noi combattiamo per la stessa mèta, per una Italia indipendente e per una Italia prospera che possa risalire ancora alla gloria del servizio per la Patria.

La comprensione di tanti eroismi, di tante volontà è completa nei compagni d’arme delle Grandi Potenze. Noi oggi operiamo perché questa comprensione sia completa anche in coloro che devono interpretare ed applicare l’articolo 57 del Trattato di pace.

Avendo avvicinato i profughi di Pola ed i cittadini di Trieste e di Gorizia con i quali ho combattuto tutto questo periodo, trasfondendo il mio sentimento nel loro, posso dire che, pur piangendo sopra questa orrenda ed iniqua mutilazione, essi condividono la speranza che l’avvenire non sia precluso all’Italia ed alla nostra civiltà italica. (Applausi al centro). Vedano gli Alleati, ai quali, invano, in molte conferenze private ho cercato di far comprendere la valutazione che di questo Trattato faceva il popolo italiano; vedano gli Alleati dalle dichiarazioni che sono state fatte qui, dallo stesso sdegno del maggiore fra noi, onorevole Orlando, vedano quanto io avessi ragione di insistere; vedano quanto sia difficile poter spiegare al popolo italiano che un Trattato così ingiusto debba avere la sua attuazione nell’interesse della pace del mondo; vedano quanto siano stati ingiusti a presentarci un Trattato quasi che su questi banchi sedesse un Governo responsabile dell’aggressione e della guerra contro vari paesi.

Ebbene noi dimostreremo loro, di essere noi – non loro – all’avanguardia di un mondo nuovo che non dispera della fratellanza fra i popoli; e, lasciatemelo dire, quando ho sentito la alata esposizione dell’onorevole Einaudi, che dovrebbe essere il rappresentante tipico di quella, che indiscriminatamente si dice reazione, ed ho sentito poi le combinazioni complicate e le cautele esecutive dell’onorevole Togliatti, mi sono chiesto: quale dei due uomini guarda più in avanti e quale si attarda all’indietro?

Quale di questi due uomini rappresenta l’avvenire dei rapporti internazionali? Può essere che Einaudi si illuda, ma sua è la gioventù e sua è la speranza in un mondo migliore. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

No, dimostreremo ai nostri contraenti che siamo noi, l’Italia, piccolo paese, ma grande Paese, non loro, i Grandi, all’avanguardia di un mondo nuovo per la fratellanza dei popoli.

L’Italia democratica, onorevole Orlando, non è in ginocchio, non è prona: è in piedi. Ratificherà il Trattato come è previsto dall’articolo 90; cioè prenderà atto del Trattato imposto, e lo eseguirà lealmente entro i limiti delle sue possibilità; ma di questo Trattato, essa proclama, dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose, e dinanzi agli uomini, che non assume nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo. (Applausi – Commenti a sinistra).

Una parola ancora.

Ho parlato finora del subire o non subire il Trattato. Ora parlo del rinvio. Si sarebbe potuto rinviare. Credete davvero che il Governo non troverebbe comodo di rinviare?

Ma voi non pensate che rinviando non rinviate il vostro problema di coscienza? No, non lo potete fare. Non fate che prolungare lo spasimo, riprodurre lo stesso martirio delle vostre indecisioni. Domando a coloro i quali sono per approvare o meglio per subire, per concedere la ratifica: che cosa credete di guadagnare rinviando di 15 giorni, di un mese? Oggi, ormai, dopo quanto è stato detto, il rinvio non potrebbe avere altro significato che di rifiuto, o per lo meno autorizzerebbe un gravissimo dubbio e sospetto sulla nostra volontà di chiudere questo periodo di guerra e di armistizio. Noi non vogliamo aumentare le ragioni di turbamento: non vogliamo lasciarci prendere dall’ingranaggio, caro Nenni, dei contrasti fra i Grandi, che forse non sono originati nemmeno dal caso italiano. Vogliamo dare subito la sensazione che noi automaticamente, per la visione che abbiamo dei nostri interessi, siamo disposti a ratificare, e precisamente ratificare nel modo previsto dall’articolo 90. Questa non è la tesi inglese, non è la tesi russa; questa è la tesi dei Quattro ed è l’atteggiamento più neutrale, più imparziale che possiamo prendere, e anche il più reale, realistico.

E da principio abbiamo presentato una proposta semplicemente per ratificare; poi, per tener conto delle obiezioni fatte da parecchi membri tra cui molti autorevoli, di un ex Ministro come Nenni, abbiamo accettato, una formula credendo di raggiungere quella maggioranza che tutti auspicavamo, la diminuzione di un dibattito, che tutti dicevano fosse meglio non affrontare. Ebbene, io vi dico: abbiamo affrontato questo dibattito, abbiamo detto tutto il nostro pensiero e, tolto qualche raro incidente, lo abbiamo detto senza offenderci e, mi pare, avvicinandoci a maggiore e mutua comprensione.

Io vi domando se a questo momento, procedendo con questo spirito ed in tali termini ciò non significhi scegliere la procedura più comune prevista dai Quattro, e quindi la più oggettiva che noi possiamo pensare.

Dirò poi il mio pensiero sopra i singoli ordini del giorno e sopra i testi e gli emendamenti.

Mi basta concludere; ed io vorrei che questa conclusione ci ravvicinasse tutti e ci desse la sensazione di quell’unità dell’Assemblea, di quella unità della rappresentanza di cui il Paese ha sete, per poter non disperare della triste avventura che ha fatto.

In questa ora agitata l’Italia riafferma la sua fede nella pace e nella collaborazione internazionale. Sarebbe ideale se una simile affermazione fosse dell’intera Assemblea, ma quello che importa soprattutto è che essa sia un’affermazione chiara, onesta, senza riserve e senza equivoci, e che dimostri in noi una volontà nazionale autonoma che, sulla via del sacrificio, ci incammini verso la nuova dignità e indipendenza della Nazione. (Applausi prolungati al centro e a destra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Relatore della maggioranza, onorevole Gronchi.

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Onorevoli colleghi, viviamo certamente in una strana atmosfera in questa Assemblea.

Un avvenimento di questa gravità, per il presente e sovra tutto per il futuro del nostro Paese, trova in quest’aula rissose divisioni piuttosto che concorde serenità di valutazioni, trova i rappresentanti del popolo italiano più preoccupati delle proprie posizioni politiche che non della posizione dell’Italia, nel momento che attraversiamo. Tanto che, anche le voci, nelle quali ha risuonato l’eco delle nostre sofferenze di uomini, di cittadini, di padri, sono parse più inspirate a una retorica convenzionale che non ad una espressione di sentimenti profondi.

La decisione che noi stiamo per prendere voglio augurarmi che ci accomuni in una visione più alta del nostro dovere e della nostra responsabilità.

Si è fatto in questo momento e durante questa discussione ripetuta allusione alla opportunità di rinvii, di protrazioni, che, facendoci soprassedere alla decisione definitiva, potessero meglio rispondere a questo senso di responsabilità.

Io voglio ricordare un precedente storico, senza avere, con ciò, la pretesa di ravvicinare, con stretta analogia, due momenti così diversi. Non ci sono nella storia di un popolo né in quella dell’umanità due momenti che si somiglino identicamente. Ma vi sono analogie e rispondenze, che valgono la pena di essere meditate.

Il 6 agosto 1849 fu firmato a Milano il Trattato di pace, dopo la sciagurata campagna che culminò a Novara, ed il 24 settembre Cesare Balbo, nella sua qualità di presidente della Commissione, che riferiva sulle condizioni del Trattato di pace, propose alla Camera di approvare il Trattato medesimo, senza discussioni, con la protesta del silenzio. Altri si oppose vivacemente; altri ancora proposero un rinvio sotto le più diverse motivazioni, come diverse sono le motivazioni che ora si accampano, per chiedere, giustificare e sostenere un rinvio.

Si ebbe, quindi, un certo periodo, durante il quale, anche per una crisi ministeriale, il Trattato di pace non venne in discussione più nella Camera Subalpina.

Il 13 novembre la discussione si riprese. Allora Balbo invitò nuovamente la Camera a votare, protestando col silenzio contro la durezza e l’iniquità del Trattato.

Ma, contro la nuova proposta di rinvio, si alzò l’uomo, che ha rappresentato in quell’epoca storica quanto di fede, di speranza, di volontà di resurrezione l’Italia aveva, Camillo di Cavour.

«Io credo – egli disse – che questa discussione tenga gli animi nostri angosciati e sospesi. Io sono persuaso che i lavori parlamentari, che pur sono così folti, non possono procedere con quella regolarità, con quella sperabile rapidità, finché questo vitale argomento non sia sciolto.

«Questo è per la considerazione interna.

«In quanto all’estero, io credo che la sospensione della discussione del Trattato abbia gravissimi danni e che prendendo lo stato dell’Europa qual è e non quale potremmo desiderare che sia, non si può disconoscere che questa eccessiva difficoltà, che da varie parti si oppone all’adozione del Trattato, questo continuo rimandarlo non possono che avere risultati fatali per la nostra diplomazia e per i nostri rapporti internazionali». E concludeva: «Questa non è una questione tra il Ministero e noi. La questione del Trattato è una questione tra noi e la fatalità e quando anche non vi fosse più questo Ministero e se ve ne fosse un altro, scelto da qualsiasi parte della Camera, saremmo costretti ugualmente a riconoscere questa legge fatale. Si parla molto di onore e di dignità. Io per me non credo che la dignità e l’onore nostro ci guadagnino molto nel protrarre più a lungo questa discussione, perché noi siamo tutti ugualmente convinti che le parole, anche nobilissime, che qui pronunciamo in nulla possano modificare questa nostra dolorosa situazione».

Io credo che anche i colleghi siano colpiti dalla notevole analogia del momento che noi attraversiamo e che l’augurio che io facevo, che si dimenticasse la situazione interna che si è venuta determinando, nell’assumere questa tremenda e dolorosa responsabilità di fronte al Paese, trovi eco e rispondenza in ogni parte dell’Assemblea. Ed è singolare che da ogni parte dell’Assemblea per arrivare alle più opposte conclusioni si sia partiti dal punto di vista di una esigenza comunemente riconosciuta, cioè quella di serbare intatta, lucente direi, l’indipendenza, l’autonomia e l’integrità morale e politica del nostro Paese.

Su questo terreno è comprensibile più la posizione di coloro che si schierano in linea di principio contro il Trattato che non la posizione degli altri che si schierano per un rinvio del Trattato medesimo. Per lo meno, la posizione di non tutti è così chiara, tranne quella dei colleghi socialisti e comunisti per i quali i motivi del dissenso sono evidenti ed innegabili: motivi ideologici, determinati dalla non ancora avvenuta ratifica della Russia, motivi interni determinati dalla fisionomia attuale del Ministero.

Ma tutte le ragioni valide sono per la non ratifica del Trattato in linea di principio. Nessuna, mi perdonino i colleghi, io ne trovo per il rinvio della discussione sulla ratifica del Trattato stesso. Anche l’onorevole Orlando – e mi duole di non vederlo in questo momento fra di noi – che ha così appassionatamente parlato di dignità, di tutela del nostro onore, che si è rammaricato così vivacemente ed anche in larga parte inopportunamente che questo atteggiamento somigliasse troppo ad una «cupidigia di servilismo», anche l’onorevole Orlando si è rifatto a questo concetto della indipendenza. Ma il dissenso non è su questo punto sul quale, dicevo, unanimemente si fa riconoscimento di una tale necessità: è sul modo di mantenere tale indipendenza. Ed è lecito chiederci, anche di fronte a lui, se la protesta che involontariamente – io lo dico senza mancanza di rispetto né al suo passato né alla sua canizie – assume talvolta l’eco un po’ teatrale ed orpellata di una retorica di maniera, se questo suo atteggiamento non abbia per avventura in passato costato assai caro al nostro Paese (Approvazioni al centro); se non debbo ricordare come un atto, che egli chiamerebbe di coraggio contro un atto di servilismo, la protesta parigina contro quel tale atteggiamento della Conferenza di Versailles che produsse il suo ritorno in Italia, con le accoglienze deliranti e trionfali, non privò l’Italia di tutti i mandati su tutte le colonie e non trovò gli alleati poco sensibili a questa nobilissima manifestazione di protesta e intenti, invece, curvi sul realismo egoistico di interessi che si andavano in quel momento determinando e risolvendo. (Applausi al centro).

E quando io sento che egli stesso, per giustificare la convenienza e l’opportunità della ratifica, parla di scusa della necessità, io dico che siamo più lineari, coraggiosi e forniti di senso di responsabilità noi che nessuna scusa intendiamo trovare a questo nostro atteggiamento e che ci sentiamo di assumere con coraggio, con fierezza, con convinzione, dinanzi al popolo e dinanzi all’Europa, questa responsabilità di proporvi, onorevoli colleghi, la ratifica del Trattato.

Anche il collega Russo Perez, che ha allineato una serie di ragioni su questo dibattito, lo ha fatto più per il Trattato in sé medesimo che per il rinvio. Ce ne sono talune che illuminano il suo punto di vista alquanto differente, mi pare, da quello del suo maggior collega, onorevole Giannini. Egli ha detto: «Dell’O.N.U. non ci interessa niente. Non c’è nessun segno di rinascita cristiana. Gronchi ha l’ottimismo di Candide, quando nella sua relazione scrive che il mondo va indirizzandosi verso concezioni nuove sotto la duplice spinta dell’idealismo delle classi operaie e del tradizionale idealismo cristiano».

Sono ragioni certo le quali militano però contro la ratifica del Trattato e non contro la tempestività di questa ratifica ed io non gliele invidio, perché un mondo nel quale non trovassero più posto la speranza di una civiltà migliore, che non può essere formata e consolidata su equilibri di interessi ma soltanto sulla maggiore profondità, nell’animo collettivo, di ragioni ideali e spirituali, è un mondo nel quale noi dobbiamo disperare di vedere non dico scomparire, ma anche diradarsi quei terribili bagni di sangue, che sono le guerre. (Applausi al centro).

Noi vogliamo credere a questo e diciamo che riterremmo di mancare ad una nostra missione se non insistessimo su questa propaganda.

O colleghi socialisti e comunisti, che avete avuto in passato assai più vivo che oggi (oggi è una strana involuzione la vostra) il senso dell’internazionalismo e che avete veduto attraverso il manifestarsi della inutilità o della inefficienza delle varie internazionali, dalla prima alla quarta, che non hanno impedito alcuna guerra, anzi non dico non hanno impedito, ma non hanno allontanato, non hanno creato all’interno dei paesi nessuna barriera contro nessuna guerra, perché ciascuno di questi organismi è finito per sentirsi più immerso nel senso, non nazionale, ma nazionalistico che non librato in questo superiore senso di solidarietà universale e internazionale; o colleghi socialisti e comunisti, voi dovreste accentuare, in questo vostro momento, questo vostro senso dell’internazionalità e della solidarietà europea, e dovreste essere al nostro fianco, su diversi terreni, ma verso una finalità convergente, perché se non saranno le forze popolari a creare barriere a nazionalismi risorgenti, non vi sarà nessuna classe intellettuale, borghese o non, che crei questa atmosfera di civiltà nuova. (Applausi di centro).

Le ragioni che si portano contro la tempestività della ratifica del Trattato sono inficiate, secondo me, da questa considerazione: che nessuno di coloro che oggi parlano contro la tempestività della ratifica ha parlato contro la nostra partecipazione alla conferenza di Parigi.

Ora, onorevoli colleghi, se c’è un atto di unilateralità, un atto che può mostrarci parteggianti per un blocco europeo rispetto ad un altro blocco, questo fatto è proprio la nostra partecipazione alla Conferenza di Parigi, perché noi abbiamo di fronte non una Russia che la nega, ma abbiamo soltanto di fronte una Russia che non ha ancora adempiuto a questo suo atto.

Di fronte alla Conferenza di Parigi, noi siamo dinanzi ad una Nazione che ha manifestato la sua decisa opposizione. Come mai, onorevoli colleghi, che riconoscete opportuna, necessaria ed indispensabile la nostra presenza a Parigi, non sentite che proprio lì vi sarebbe il pericolo di uno schieramento in due blocchi, e che a questa presenza avreste dovuto opporvi tempestivamente senza che questo pericolo si possa ravvisare nella nostra ratifica, come oggi vi chiediamo?

Anche l’onorevole Valiani, che pure ha fatto un sostanzioso discorso su questo argomento, ha fondato tutte le sue argomentazioni sulla necessità di una nostra posizione neutrale, o almeno superiore alla contesa fra le Nazioni; ma il problema anche qui si riferisce non tanto alla tempestività della ratifica, che non vi ha ancora influenza, ma contro, forse, il suo stesso pensiero, all’atto della ratifica in sé medesima. (Interruzione del deputato Valiani).

Togliatti è poi dilaniato da tremende perplessità: quali sono le ragioni nascoste che determinano la necessità di una ratifica così frettolosa? Quali sono le ragioni del voltafaccia del partito democratico cristiano che, con la disinvoltura che ognuno gli riconosce, ha mutato fronte e marcia da qualche tempo in così opposta direzione?

L’una e l’altra cosa, onorevoli colleghi comunisti, se ha un valore polemico nella dialettica del vostro maggiore collega, non ha certamente fondamento concreto nella realtà, poiché le ragioni dell’attuale proposta di ratifica credo che ora possano dirsi palesi dopo che ha parlato l’onorevole Sforza, dopo che ha parlato l’onorevole De Gasperi, dopo che io avrò aggiunto qualche modesta, supplementare argomentazione.

E quanto al misterioso voltafaccia del nostro partito, ma volete voi inchiodarci, attraverso il succedersi di avvenimenti così diversi, ad una posizione stabile consolidata e considerare contraddittorio, o peggio speculatorio, ogni adeguamento del nostro atteggiamento alla realtà? Io rileggevo in questi giorni un libro di Clemenceau «Grandeur et misère d’une victoire» che – Clemenceau se ne intendeva, da quel mirabile e tenace costruttore della grandezza della Francia che egli era – reca questa osservazione: C’è forse un uomo sulla terra il quale sia in grado di formulare una raccomandazione o un indirizzo di politica estera non dico per l’eternità, ma anche solo per sei mesi o per un anno?

Ed è naturale, onorevoli colleghi; quando noi facemmo la nostra prima manifestazione contro l’accettazione del Trattato di pace, noi uscivamo proprio dalla finale formulazione di questo Trattato medesimo, ma speravamo ancora di potere influire sui Parlamenti e sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi perché il dettato dei Quattro a New York potesse essere modificato e, sperando, noi avevamo il dovere di accentuare questa posizione di opposizione che oggi non smentiamo né ritiriamo, ma alla quale noi sovrapponiamo una visione realistica di certe necessità sopravvenute.

E non è da meravigliarsi se noi, in quel momento, ci arrestavamo a quella prima parte e dicevamo che non ci saremmo sentiti, allo stato attuale delle cose, di assumerci la responsabilità di proporre l’accettazione del Trattato. Molte cose sono sopravvenute dopo e poiché la storia cammina nonostante ì partiti e nonostante le loro formule, i loro calcoli, le loro speculazioni elettorali, la storia ci ha posto di fronte ad una situazione dalla quale abbiamo acquisito la persuasione che occorre uscirne.

È quindi in una questione di tanta complessità e di tanta altezza che noi ci sentiamo un po’ come gli uomini che dirigono un’azienda la quale abbia un suo settore che ha proceduto disastrosamente ed ha messo in pericolo la vitalità di tutta intiera l’azienda; e noi abbiamo ragionato così, come ragionano i saggi amministratori: tutto questo è perduto, per quanto non per nostra colpa, ed ora si ricomincia da capo, purché l’azienda – perdonate la banalità del paragone – purché l’azienda viva.

Purché dunque l’Italia viva, purché dunque l’Italia riprenda il suo posto fra le Nazioni, noi le offriamo il sacrificio di questa umiliazione.

Ma l’onorevole Nenni dice: qualche probabilità – forse una su un milione – che questo Trattato venga modificato esiste alfine e, se esiste, noi dobbiamo tenerne conto, per quanto difficile questa probabilità possa reputarsi. Onorevoli colleghi, la fantasia può giocare dei brutti tiri, e li giocheremmo a noi, se noi pensassimo ad una possibilità di miglioramento su questa via. Per noi la via attraverso la quale il Trattato, che già si comincia a svuotare, può trovare più radicali revisioni, è una via che non esce da questo dilemma: o la forza che sia capace di imporla, o la creazione di rapporti internazionali, che gradualmente la rendano possibile. (Approvazioni al centro).

Nessuno di noi può pensare oggi che la forza sia lo strumento della nostra revisione, poiché noi per lungo tempo saremo un popolo militarmente debole e non atto ad incutere timori ai grandissimi o della bomba atomica o della guerra biologica. Ma possiamo fin da ora – e non c’è tempo da perdere, onorevoli colleghi – possiamo e dobbiamo creare i rapporti internazionali che ci diano la possibilità di creare le condizioni le più rapide possibili di una revisione. Ecco perché noi sentiamo di dover chiudere questa pagina, per conquistare la nostra libertà e la nostra autonomia, per ristabilire rapporti nuovi su un grado di eguaglianza e preparare le possibilità di questa revisione. (Applausi al centro).

Ora, chi nega la ratifica e chi nega la tempestività della ratifica difende certamente con fondate ragioni degli argomenti giuridici, ma compromette seriamente, se non irrimediabilmente, il lato politico della questione; poiché di questo si tratta.

Ma, si dice: la ratifica è un atto di accettazione implicita; anzi, da molte parti si è insistito sullo stato di necessità che deve essere palese, evidentissimo, innegabile; stato di ineluttabilità, poiché altrimenti come ci giudicherà – si è detto – il popolo italiano, con le sue collere minacciate?

Il Governo è andato incontro con una formula ai desideri di varie parti dell’Assemblea. Noi, della maggioranza della Commissione, ed io personalmente, ci saremmo meno preoccupati di dimostrare questo stato di ineluttabilità o di necessità, perché secondo noi la ratifica non è una accettazione; e non è un’accettazione, perché – e non so qui, per lealtà, se esprimo il pensiero di molti o il pensiero mio personale in una materia così opinabile, perché così controversa – secondo me, la ratifica non è un elemento di validità del Trattato. Noi non abbiamo partecipato in nulla determinatamente alla formulazione del Trattato: è mancata, quindi, ogni efficacia giuridica ai nostri interventi, così come sono stati ammessi o tollerati. La ratifica, perciò – se voi leggete l’articolo 89 – è soltanto il mezzo attraverso il quale noi e gli altri Paesi ex-nemici diventiamo parte del Trattato, cioè siamo ammessi a godere i cosiddetti – Dio ci liberi! – benefici del Trattato. Cosicché si può dire che la ratifica non pregiudica un giudizio sul Trattato ma è soltanto una delle condizioni di pace, perché è la condizione attraverso la quale il Trattato può entrare in vigore nei nostri confronti.

PATRICOLO. Non è una condizione essenziale!

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Sì che lo è; è essenziale, in quanto noi non godremmo dei vantaggi se non lo abbiamo ratificato. Quindi, per quanto riguarda almeno il lato attivo, la ratifica è essenziale per noi, e, ripeto, non implicando nessun giudizio sul Trattato, non implica, non pregiudica nessuna libera accettazione del Trattato medesimo, ed è da considerare un puro e semplice adempimento di una delle clausole o di una delle condizioni.

Se questo è vero, l’attuazione di tale condizione diventa soltanto un problema politico, diventa, cioè, il problema della scelta del momento nel quale adempiere questa condizione, perché è legittimo che noi cerchiamo che da tale adempimento venga il maggior numero di benefici per il nostro Paese. Quindi ogni giudizio giuridico, a nostro modesto avviso, deve cedere terreno ad un giudizio più largamente politico.

È questo il momento? È questo il problema al quale si deve rispondere e sul quale si sarebbe dovuta concentrare maggiormente la nostra attenzione. È questo il momento più favorevole per l’Italia perché essa adempia a questa condizione di pace? Io rispondo di sì; e non vi sembri un paradosso se io rispondo di sì proprio per questo stato di latente tensione che esiste fra i potenti della storia contemporanea. Ché, se questi potenti avessero trovato il minimo denominatore comune sul quale adagiare le loro inquietudini o le loro reciproche diffidenze, sul quale costituire la speranza di qualche anno di lavoro comune, noi avremmo ben poco da fare, miseri e disarmati come siamo. Noi non avremmo altro che da fare proteste colorite e vibranti, quali piacciono all’animo di taluni di noi, oppure assoggettarci a seguire la volontà irresistibile dei più potenti.

Ma appunto perché questa situazione non esiste, appunto perché esiste invece questa tensione che potrebbe (non è vano pessimismo né pessimismo di maniera) diventare pericolosa, questo è il momento in cui l’Italia può, entrando da uguale nel consesso internazionale, adempiere una sua determinante funzione.

E il piano Marshall medesimo risponde ad una esigenza parallela, sia pure in un campo più ristretto, ma che obbedisce alle stesse leggi e alle stesse esigenze.

Ma con quale posizione ritorna qui quello che io dicevo essere il punto di vista comune a tutti? Esigenza di autonomia e di indipendenza. Ma chi più di noi vuole e sente questa necessità?

Guardate, non soltanto per ragioni d’interesse. Io ho sentito l’amico Nenni il quale ha detto cose sane e giuste circa la complementarietà delle economie dell’Europa sudorientale e la nostra necessità di espansione verso quei Paesi, la necessità di non creare delle barriere. Ma queste che sono sane e fondate ragioni non sono sufficienti. Tu, amico Nenni, che cercavi in questi fatti una dimostrazione la più irrefutabile del valore anche attuale del determinismo o materialismo storico, lasciati dire che in questo caso tu ti metti sullo stesso terreno e sulla stessa logica del capitalismo, perché dai come forze operanti nella storia dei popoli solo gli interessi materiali, i quali, sì, valgono anch’essi, ma guai quando predominano e restano soli a determinare l’indirizzo dei popoli! (Applausi al centro).

Quindi, autonomia e indipendenza. E non ho aspettato questa discussione per affermarla. I colleghi che hanno avuto la benevolenza di ascoltarmi quando io feci quelle scandalose dichiarazioni in sede dell’ultimo voto di fiducia al Governo, si ricorderanno che io toccai anche questo punto e, definendo quest’abusata e calunniata posizione di centro del nostro partito, io allargai lo sguardo per un momento, sia pure di scorcio, sul problema internazionale al di sopra del problema interno e dissi che, come nella politica interna noi interpretavamo la nostra funzione di attrarre i partiti cosiddetti rivoluzionari, cioè quelli che, almeno ideologicamente, preferirebbero la violenza non liberatrice al progressivismo più lento e naturalmente meno popolare della democrazia, la quale realizza solo a gradi le varie forme di ascesa delle masse popolari, così sul terreno internazionale noi sentivamo che non esisterà nessun equilibrio europeo, se noi non riusciamo a reinserire nella vita europea il popolo russo rispettando le sue ideologie e le sue forme, ma facendogli sentire questa solidarietà inevitabile, ineluttabile, che non è soltanto materiale ma che risponde ad un concetto più elevato di convivenza umana che si identifica con la civiltà. Se questo popolo non rientra nella convivenza europea, figuriamoci se pensiamo di rendere più spessa la resistente cortina di ferro e se pensiamo al di là di Stettino e di Trieste: hic sunt leones, come dicevano i geografi antichi per le terre che non conoscevano.

Il piano Marshall offre certo dei grossi pericoli; ed è per questo che la nostra presenza è tempestiva e necessaria; e tutto quello che si può fare per renderla operante è tempestivo e necessario.

Io non credo ad una grande volontà di predominio del popolo americano. Quanto al popolo inglese, sebbene esso sia soprattutto inglese prima che laburista – e lo dico senza ironia, perché un popolo ha la psicologia collettiva che le sue tradizioni gli creano – il popolo inglese pesa da lungo tempo sul piano mondiale, sul piano imperiale, perché la sua lunga esperienza ha come sedimentato più o meno oscuramente sulla coscienza collettiva ed ha determinato un certo indirizzo morale e intellettuale.

Ma esso è temperato oggi da una fervida concezione sociale e socialista, per cui non dovreste essere proprio voi a temere che la presenza di Bevin nella Conferenza possa essere identificata come la presenza di un astuto predone che specula sulla povertà e difficoltà degli altri.

Ma anche il popolo americano, io dicevo, ha un qualche fervore idealistico che non esclude una retta e vigile difesa degli interessi materiali. Non lo insegnerò a voi, se avete tempo – ne abbiamo purtroppo molto poco – di leggere la letteratura amena ed i romanzi di questi ultimi tempi. Voi avete sentito in talune manifestazioni, il fervore di qualcosa di nuovo: e di solito la letteratura annuncia le forme nuove del pensiero, è come la foriera dei grandi orientamenti che mutano nell’anima collettiva di un popolo. Ma comunque va riconosciuto con estremo senso di oggettività che nella sua formulazione quale la immaginò Marshall stesso nel suo ormai famoso discorso, niente aveva il piano che potesse far dubitare in una volontà assoluta di predominio. Egli diceva: «Non sarebbe né opportuno né efficace che il nostro Governo cominciasse ad elaborare unilateralmente un programma destinato a rimettere in piedi economicamente l’Europa. Questo compito spetta agli europei. L’iniziativa, a mio parere, deve venire dall’Europa perché il compito del nostro Paese dovrebbe consistere nel contribuire amichevolmente con quello che secondo, ecc. ecc.».

Se poi osservate, alla Conferenza di Parigi furono invitate 22 Nazioni (scusatemi questo accenno statistico che è significativo, per me) e di queste 22 nazioni otto appartengono alla costellazione rossa: l’Albania, la Finlandia, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, la Jugoslavia, l’Ungheria – tre sono Stati neutrali che non hanno mai avuto soverchie tenerezze per il mondo inglese: Svizzera, Svezia, Norvegia – e se aggiungete la Russia avreste avuto la maggioranza degli Stati invitati alla Conferenza di Parigi. Il che può avere un valore relativo, naturalmente; ma significa che nessuno si era preoccupato di crearsi una maggioranza predeterminata per imprimere alla Conferenza un determinato e decisivo atteggiamento; significa che questa parola della «porta aperta» lasciata anche agli altri non era una frase ma una possibilità di cui tutti potevano profittare e se la rottura è avvenuta, è avvenuta su un terreno di suspicione, sul terreno ideologico. Naturalmente ciascun Paese provvede alle proprie direttive, ai propri interessi, come crede. Perciò questo non ha carattere di biasimo; ma io crederei che avrebbero provveduto meglio ai propri interessi quei Paesi che avessero partecipato alla Conferenza di Parigi, per discutere in concreto i dettagli del programma, le linee direttive concrete, attraverso le quali questo programma si sarebbe realizzato. E solo su constatate divergenze effettivamente esistenti su queste direttive, una rottura, una frattura avrebbe potuto avvenire ed essere giustificata. Ecco perché è necessaria la nostra presenza e la nostra presenza con quello spirito del quale io vi parlavo e del quale nessuno ha il diritto di dubitare in questo momento. Se poi si vuole spingere il nostro sospetto alla politica americana, la quale sarebbe animata, attraverso possibili trattati di commercio, da mire egemoniche che rovinano non so quali delle nostre industrie, se le pesanti o le leggere, se le siderurgiche o le tessili, che dire amico Nenni, del fatto che questo trattato di commercio è discusso proprio da uno dei vostri, dall’amico Ivan Matteo Lombardo, dell’invio del quale taluni hanno piuttosto severamente biasimato il Presidente del Consiglio non ritenendolo, non per le sue qualità personali al di sopra di ogni discussione, ma per la sua colorazione politica come il non più adatto a negoziare accordi nello stato psicologico attuale dell’America?

Ora la nostra posizione è quindi chiara. Quelli i quali pensano che noi, senza una profonda convinzione ci siamo schierati per questa utilità ai fini nazionali della immediata ratifica del Trattato, dovrebbero pensare che essi ci attribuiscono o una caratteristica di avventatezza, o una specie di spirito esagerato di sacrificio per una infatuazione non sufficientemente matura, perché tutti converranno che l’atteggiamento è il più lontano possibile dalla comodità. Le elezioni non sono lontane. Noi non siamo di quelli che dispregiano, onorevole Giannini, i fattori spirituali e morali della vita di un popolo; noi li rispettiamo altamente e non solo alludo ai fattori religiosi, ma ai fattori più larghi per la vita dello spirito e per l’amore del proprio Paese. Noi ne sentiamo la immensa importanza per la vita di un popolo. Anche se non ne fossimo convinti, l’esperienza del fascismo alla sua nascita dovrebbe darcene la più irrefutabile dimostrazione. Ricordiamo come il fascismo fermentò sul mito della vittoria mutilata e come su questo stato d’animo d’ingenua dedizione al proprio Paese, su questo senso di umiliazione che invocava la sensazione della giustizia e provocava legittima reazione dell’animo, si insinuò il fascismo primigenio, il rivendicatore della dignità dei combattenti, di coloro che portando i nastrini azzurri – non vi dispiaccia, il fatto è accaduto a me – si sentivano sputare addosso col grido: sei macchiato di sangue! Su uno stato di reazione che una larga parte dell’opinione pubblica credette di ravvisare come interpretato da questo fascismo nascente. Pericoloso sarebbe se ci dimenticassimo di questo.

GIANNINI. Giusto, è giusto, ma perché lo racconta proprio a me?

GRONCHI, Relatore della maggioranza. No, le do ragione.

TONELLO. Era lei Ministro. Sono ancora vivo.

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Non dica della banalità, altrimenti identifico nelle sue file dei fascisti del 1937-38, non dei collaboratori del 1922. (Commenti).

Noi non dimentichiamo questi valori ed è perciò che la nostra posizione di fautori della ratifica del Trattato non è la più comoda, né elettoralmente la più producente.

Noi sappiamo che saremo anche mal compresi, noi sappiamo – perdonatemi – che la non buona fede di qualche avversario speculerà su questa situazione e ci arrecherà forse danno non lieve, ma rispettate almeno la posizione di uomini che pur sapendo le difficoltà della loro situazione, sentono che devono mettere in seconda linea i propri interessi personali e di parte per servire quelli che essi in buona fede credono gli interessi del Paese. Questa è la sola testimonianza a cui noi teniamo. E, concludendo, lasciate che io dica: in questa infuocata discussione cerchiamo di trovare i toni della misura, dell’equilibrio e della consapevolezza. Il popolo italiano è uno di quelli che, com’è facile al subitaneo e avvampante entusiasmo, così è facile a immediata depressione. Oggi si è sentito, sulle labbra di qualcuno, il tono di questa ribellione eroica o romantica che non può essere identificata con la dignità e con l’onore, perché la dignità e l’onore sono ancora in coloro che questi accenti non sentono o non possono adoperare. Cerchiamo di dare al nostro popolo la sensazione precisa, perché questo è il nostro dovere, del momento che attraversiamo e delle sue esigenze.

Se noi vogliamo tener fede al metodo democratico, noi dobbiamo rivolgerci direttamente a quest’animo popolare non soltanto con l’emotività delle parole, ma con la fredda considerazione dei fatti, con quel realismo che, ben diceva Sforza, non comprenda visioni idealistiche, ma con quel realismo che ci fa curvare sui problemi e vederli quali essi sono, al di sopra di ogni deformazione partigiana.

Questa è la nostra posizione, che vi preghiamo non di condividere, se la vostra persuasione è diversa, ma di rispettare. E rispettandola, noi eleveremo il nostro dibattito a quella altezza che dimostrerà veramente come, primi fra tutti, i rappresentanti del popolo italiano in questa Assemblea, si rendono conto che qua non vi è una questione misera di politica interna o di politica elettorale, o di parte, ma vi è soltanto se mai, una diversa, ma egualmente rispettabile, valutazione degli interessi del Paese. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta per alcuni minuti.

(La seduta sospesa alle 16.45, è ripresa alle 17.15).

PRESIDENTE. Prima di invitare il Presidente del Consiglio ad esprimere il suo avviso sugli ordini del giorno che sono stati presentati, do lettura dell’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, al quale l’onorevole Nitti ha dato la sua firma. Quest’ordine del giorno ha subito alcune modificazioni. Lo leggo nel suo nuovo testo:

«L’Assemblea Costituente

esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.

«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale e durissime per un popolo che ha dato un inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa, ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.

«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».

L’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha facoltà di parlare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Accetto senz’altro quest’ordine del giorno. Mi permetto peraltro di suggerire che al posto delle parole «Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, ecc.», al fine di non disconoscere quanto è stato strappato, dopo lunghe trattative, per il preambolo, nel quale in realtà si ricorda l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano, si dica: «Né il Trattato tiene adeguato conto, ecc.».

RUINI. Sta bene.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quanto agli altri ordini del giorno, posso accettare come raccomandazione quello dell’onorevole Caroleo. Così pure accetto senz’altro l’ordine del giorno dell’onorevole Gasparotto, che riguarda soprattutto la Marina da guerra. Non posso, invece, accettare l’ordine del giorno dell’onorevole Benedettini.

L’ordine del giorno dell’onorevole Labriola è accettabile, per quanto l’espressione: «sia pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico», svaluti troppo il nostro spirito di sacrificio.

Posso accettare anche l’ordine del giorno dell’onorevole Jacini, nonché quello dell’onorevole Saragat per quanto abbia una dizione generica.

Non posso accettare, naturalmente, né l’ordine del giorno dell’onorevole Orlando, né quello dell’onorevole Selvaggi e nemmeno quelli proposti dagli onorevoli Corbino e Giannini.

L’ordine del giorno Damiani è pure accettabile.

Accetto infine pienamente l’ordine del giorno degli onorevoli Badini Confalonieri ed altri.

PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha accettato gli ordini del giorno Nitti-Ruini, Caroleo, Gasparotto, Jacini, Saragat, Damiani e Badini Confalonieri. Quanto agli altri ordini del giorno quello dell’onorevole Giannini giunge, forse, con alquanto ritardo, perché afferma di non ritenere urgente la discussione che è già avvenuta. Ad ogni modo esso coincide con l’ordine del giorno Corbino che propone puramente e semplicemente il rinvio della votazione. Quest’ordine del giorno ha quindi la precedenza. Ora interpellerò gli altri presentatori di ordini del giorno non accettati dal Governo, perché dichiarino se intendono mantenerli o meno.

Onorevole Orlando?

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Selvaggi?

SELVAGGI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini?

GIANNINI. Il mio ordine del giorno è stato presentato come un accorgimento per poter parlare; comunque lo ritiro, associandomi all’ordine del giorno dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino?

CORBINO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora voteremo per primo l’ordine del giorno dell’onorevole Corbino. Per questa votazione è pervenuta richiesta di scrutinio segreto dagli onorevoli Giannini, Puoti, Bencivenga, Miccolis, Colitto, Nasi, Perugi, Rodi, Condorelli, Lucifero, Tumminelli, Perrone Capano, Coppa, Marinaro, Mazza, Benedetti, Penna Ottavia, Capua, Mastrojanni, Rodinò Mario, Patricolo, De Falco, Musotto, Fusco, Maltagliati, Fiorentino, Cevolotto, Corbino, Lombardi Riccardo, Costantini, Schiavetti, Vernocchi, Tega, Merighi, Romita, De Michelis, Malagugini, Lopardi, Veroni, Lucifero, Fioritto, Fogagnolo, Tomba, Gullo Fausto, Preziosi, Quintieri Quinto, D’Amico, Nobile, Merlin Angelina, Carpano Maglioli, Dugoni, Nenni, Vischioni, Sansone, Cacciatore, Fornara, Jacometti, Morandi e Faralli.

Nel caso che questa votazione si concludesse con il rigetto dell’ordine del giorno, passeremo agli emendamenti proposti all’unico articolo del disegno di legge.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini.

(Segue la votazione).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione, e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE: Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini:

Presenti e votanti   456

Maggioranza         229

Voti favorevoli      204

Voti contrari         252

(L’Assemblea non approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Badini Confaloneri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffì – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Cortese – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo – Croce.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao –Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschi – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Pellegrini – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Segni – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani  – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Dovendosi ritenere assorbito – dato il risultato della votazione – l’ordine del giorno Selvaggi, procediamo alla votazione degli ordini del giorno accettati dal Governo.

Il primo è quello degli onorevoli Nitti e Ruini, che rileggo con la modificazione suggerita dall’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri:

«L’Assemblea Costituente

esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.

«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione, non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale, e durissime per un popolo che ha dato inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene adeguato conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile, insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.

«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».

Pongo ai voti l’ordine del giorno testé letto. Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Segue la votazione).

Data l’imponente maggioranza che si manifesta nella votazione, non è necessario procedere a controprova. Dichiaro, quindi, approvato l’ordine del giorno Nitti-Ruini.

Gli altri ordini del giorno accettati dal Governo possono considerarsi assorbiti.

Secondo l’ordine del giorno Nitti-Ruini, testé approvato, passiamo all’esame dell’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo presentato dal Governo.

Se ne dia lettura.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

PRESIDENTE. Sono stati presentati quattro emendamenti. Gli onorevoli Bassano e Patricolo hanno già svolto i rispettivi seguenti emendamenti sostitutivi:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a dare esecuzione alle clausole contenute nell’Atto di Parigi del 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

L’onorevole Scotti Alessandro ha presentato il seguente emendamento sostitutivo:

«Il Governo è autorizzato a non opporsi all’esecuzione del Trattato, quando entrerà in vigore a norma dell’articolo 90, ed a dichiarare alle Potenze alleate ed associate, firmatarie del Trattato, che la Repubblica italiana considera la loro ratifica quale formale atto restaurativo dello stato di pace».

Onorevole Scotti, lo mantiene?

SCOTTI. Lo ritiro. Dichiaro peraltro di astenermi dalla votazione del disegno di legge, dando a questa astensione il preciso significato che deriva dal contenuto del mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire le parole: dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90, con le seguenti: condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze nominativamente menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo fa suo l’emendamento dell’onorevole Perassi, con la soppressione della parola «nominativamente».

PERASSI. Sta bene.

PRESIDENTE. Onorevole Bassano, mantiene il suo emendamento?

BASSANO. Il mio emendamento si ispira agli stessi criteri giuridici dell’emendamento dell’onorevole Perassi, il quale peraltro, lascia maggiori possibilità al Governo. Perciò non ho difficoltà a ritirare il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Patricolo, mantiene il suo emendamento?

PATRICOLO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Patriocolo, del quale ho già dato lettura. Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Non è approvato).

Resta dunque da votare l’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo del Governo, che, dopo la dichiarazione dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, risulta così formulato:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».

Trattandosi di un articolo unico la sua votazione equivale alla votazione del disegno di legge; pertanto procederemo senz’altro alla votazione a scrutinio segreto, a norma del Regolamento.

TOGLIATTI. Non possono più aver luogo dichiarazioni di voto?

PRESIDENTE. No, poiché si tratta di votazione a scrutinio segreto.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Desidererei qualche chiarimento su questa procedura.

PRESIDENTE. È la procedura prevista dall’articolo 105 del Regolamento: il disegno di legge constando di un articolo unico, si procede senz’altro alla votazione per scrutinio segreto. Avverto, piuttosto, dato che da qualche collega mi si è affacciata analoga richiesta, che si può dichiarare l’astensione dal voto. Passando dinanzi ai Segretari che registrano i votanti, chi vuole astenersi ne fa prender nota, a norma degli articoli 107 e 108 del Regolamento.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Mi pare che si debba discutere l’emendamento Perassi.

PRESIDENTE. L’emendamento Perassi è stato fatto proprio dal Governo. Esso quindi è ormai incorporato nell’articolo unico del disegno di legge.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione segreta sull’emendamento Perassi.

(Segue la votazione).

Le urne resteranno aperte.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Procediamo intanto alla votazione dell’ordine del giorno che porta la firma dell’onorevole Badini Confalonieri e di diverse centinaia di membri di quest’Assemblea, e che rileggo:

«La Costituente italiana,

preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;

ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;

ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;

rivolge

a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai princìpi della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace indicare al mondo le vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».

Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Dichiaro approvato l’ordine del giorno all’unanimità.

Auspico e mi attendo che questa voce, che parte dall’Assemblea Costituente ed interpreta il pensiero di tutti gli italiani, sia ascoltata e più ancora compresa, dai francesi, e che rappresenti un impulso irresistibile alla ricostituzione integrale di quei rapporti di fraternità e di collaborazione feconda che sono esistiti per tanto tempo nel passato fra le due Nazioni e devono necessariamente ristabilirsi; e che nello stesso tempo sia sentita come un saluto dagli abitanti del confine, i quali devono essere sicuri che il popolo italiano, nei suoi rappresentanti ed in ogni singolo suo componente, non può dimenticarli e non li dimenticherà mai. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Sui lavori dell’Assemblea.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Consenta l’Assemblea che io possa presentare in questo momento finalmente una proposta di rinvio, con la sicurezza che essa volentieri sarà accolta. Nella proposta io vorrei far rivivere qui quella che era la consuetudine dell’antico Parlamento libero, in cui al termine delle sessioni di lavori, meno faticosi di quelli, certo, che abbiamo fatto noi, l’onorevole Cavagnari e prima di lui altri e dopo di lui altri ancora, chiedevano al Presidente che volesse fare esso la proposta delle vacanze. E con l’applauso generale di tutti allora venivano chiuse le sedute ed altri lunghi applausi al Presidente venivano dalla tribuna della stampa: erano i nostri collaboratori della stampa che lo salutavano, dopo aver mandato un ventaglio con tutte le firme. Non so se questo sia predisposto anche ora; certo che oggi, dato il caldo enorme, ci vorrebbe un mulino a vento. (Si ride).

Signor Presidente! Onorevoli colleghi! Oggi possiamo dire, oramai, di «esser usciti fuor del pelago alla riva». (Approvazioni). Primo pelago, perché ce ne aspetta un altro, dopo, io spero, settembre avanzato (Commenti), periodo che mi auguro, signor Presidente, sia meno intenso e meno faticoso per lei e per tutti noi di quello che abbiamo attraversato.

C’è un po’ l’abitudine, fuori di qui, di far la critica dell’opera dell’Assemblea Costituente, come prima la si faceva del Parlamento; infatti dicono: questa brava gente non conclude niente, non fa che delle ciarle e delle chiacchiere, come se noi avessimo potuto diversamente esplicare quella che è l’opera nostra se non discutendo e quindi, discorrendo. Ma io osservo che gli elettori ci hanno mandato qui per fare la Costituzione ed altre leggi minori, il che non si può esplicare in altro modo, se non attraverso discorsi più o meno apprezzati od apprezzabili, ma che rappresentavano discussioni necessarie nel contrasto fra le varie tendenze che dividono la nostra Assemblea.

Io ho voluto farmi dare un modesto saggio statistico, che ella potrà integrare, dei nostri lavori. Da esso risulta che dal 6 febbraio ad oggi abbiamo tenuto 182 sedute: per la Costituzione, 91 e per la patrimoniale, 21, le altre per altri argomenti. Purtroppo vi sono state 29 sedute notturne delle quali – il signor Presidente lo sa – io sono stato costante oppositore e tale mi sono confermato perché ho visto che nelle sedute notturne un po’ per la stanchezza, o per la luce artificiale o per altro, questa riscalda gli ambienti e finisce poi per riscaldare più facilmente anche gli animi; così tutti gli incidenti più clamorosi – Dio mio! non gravi cose, si capisce – sono avvenuti nelle sedute notturne.

Abbiamo svolto 224 interrogazioni e ben 11 interpellanze. Di troppe forse ci siamo dichiarati insoddisfatti. Ma l’importante è che per un po’ di mesi – un paio, io spero – avremo la soddisfazione di non sentirne più parlare.

Ad ogni modo questa chiusura dei nostri lavori, questo taglio netto, per usare parole meno drastiche, per andare a riposare era, mi pare, oramai necessario e urgente, signor Presidente, perché in questi ultimi tempi abbiamo visto, non poche cose inconsuete: quando l’amico Tonello è arrivato ad interrompere in materia internazionale (Si ride), cosa tanto lontana dalle sue consuetudini, ed un altro buon collega si è argomentato di trasformare in versi più o meno asclepiadei e spesso zoppicanti, una discussione dell’Assemblea, ed ho visto altri colleghi, che avevano l’abitudine d’intervenire su quasi tutti gli argomenti, da due o tre giorni, tacere, io ho detto: è segno che ormai il caldo dominatore è tale che, per superarlo, non c’è che un po’ di riposo. Bisogna ritemprarci tornando ciascuno alla libera aria delle natie case, del mare, dei monti.

 

Anche per questo ho creduto opportuno di fare questa proposta che con piacere vedo ottenere il consenso di tutti. A questo punto allora credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea presentando al Signor Presidente i nostri ringraziamenti per averci così valorosamente guidati nella bisogna per molti di noi nuova e inusitata, e particolarmente per lei difficile ed aspra. (I componenti del Governo e tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, generali, prolungati applausi all’indirizzo del Presidente – Ad essi si associano le tribune della stampa). Si comprende come nell’animosità del dibattito, fra tante vivaci persone, ciascuna delle quali riteneva di aver in suo saldo possesso la verità politica e sociale, non era possibile astrarre da quello che si discute per rimanere in una sfera quasi trascendentale. È umano. Diversamente, avremmo avuto un Presidente gelido, e quasi assente, quale certo non occorreva per dibattiti come sono stati i nostri. (Approvazioni).

Noi abbiamo ammirato, signor Presidente, i di lei sforzi per restare sempre al di sopra della mischia. Qualche volta, quando le più tumultuose contestazioni venivano da qualche parte che poteva essere meno distante dal suo cuore (Si ride), maggiore sforzo vi è stato non sempre agevolato, e alle volte con qualche ritardo, dalla comprensione dei colleghi (Approvazioni).

E con lei ringrazio e saluto i colleghi tutti della Presidenza; compresi anche gli zelanti Segretari. Ma per primo il nostro ottimo amico Conti (Vivissimi, generali applausi) che abbiamo visto con tanto piacere oggi ritornare, in mezzo a noi, come prima, anche perché l’Assemblea era desiderosa di tributargli questo plauso finale come riconoscimento della faticosa opera di aver condotto in porto questa nostra difficile e contrastata legge sopra la imposta patrimoniale, diventata nella discussione ancor più straordinaria, la quale, disse il nostro collega Corbino ieri, abbiamo visto con gioia terminare. Ora, effettivamente la gioia ci sarà stata per noi che finalmente avevamo finito, ma gioia per i contribuenti io temo che ne sia stata molto poca o niuna, e peggio ancora quando comincerà ad applicarsi. (Si ride). Ed infatti, quando io votai l’altro giorno, dissi al Ministro delle finanze, nel deporre con disciplina di gregario il mio voto, che non corrispondeva colla mia convinzione dissi: «Poca gioia è nell’urna» (Si ride).

E così, io saluto gli altri colleghi alla Vicepresidenza, gli amici che sono i più vicini al mio cuore: Pecorari e Bosco Lucarelli, perché rappresentano, nella Presidenza, Trieste ed il Mezzogiorno; ed in modo particolare l’onorevole Targetti, il quale fa parte a buon diritto del gruppo di quei sottili toscani, cui ha accennato ieri con tante vivaci parole l’onorevole Orlando. Egli rappresenta lassù, nell’alto seggio, il dolce stil novo (Vivissimi generali applausi), ed ha l’impegno di risciacquare in Arno il nostro dire, qualche volta allobrogo o peggio.

Ricordiamo tutti insieme il triplice collegio dei nostri Questori vigilanti e diligenti che, con tanta cura, dirigono tutte le cose nostre in questa grande azienda della Assemblea e che, con prudente circospezione, si aggirano tra i nostri banchi, a portar pace nei momenti più difficili; e per questo noi possiamo perdonare loro se i telefoni talvolta non funzionano, se talune lampadine non si accendono, o se mancano addirittura… (Si ride) e tante altre cose ancora che discrimineremo meglio in Comitato segreto.

Ma io non posso dimenticare in questa mia rapida scorsa il personale della Camera (Vivi applausi), che ci ha donato sempre tutta la sua operosa, zelante e continua collaborazione. A cominciare dal Segretario generale, così abile e rapido nel pescare i precedenti, da trovarne qualcuno anche se non c’è, perché al postutto servirà da precedente per la prossima volta. (Ilarità – Applausi).

Ed, andando innanzi, gli stenografi, che facciamo impazzire attraverso il tono dei nostri discorsi, così spesso interrotti da noi stessi. E dove metto i resocontisti? Io ricordo sempre, con grande simpatia, quel meraviglioso resoconto sommario nel quale, a qualunque ora l’Assemblea si chiuda, ogni mattina, leggiamo, pubblicato con molta grazia, quanto avevamo avuto intenzione di dire (Si ride – Applausi); ed il personale d’Aula e fuori di essa, quello di tutto interno il complesso organismo della nostra antica Camera dei deputati, comprese le ultime reclute; l’antica gloriosa Camera che è rimasta con la sua bella tradizione e tramutata, quasi migliorandosi, al servigio di questa nostra Assemblea Costituente. (Applausi).

Per ultimo, permettetemi di inviare, – ed anche qui io credo di poter interpretare il sentimento di tutta l’Assemblea senza distinzione di parte – un saluto riconoscente ai diciotto nostri colleghi del Comitato coordinatore ed anche ai Settantacinque – ed io credo di poterlo fare anche quest’ultimo, per quanto io appartenga ad esso, per il fatto che non sono mai stato convocato, e quindi non vi ebbi nessun merito. Essi ci hanno preparato, attraverso pazienti e lunghi studi e dibattiti, risultanti da verbali diligentissimi, quelle relazioni che hanno poi servito di guida alle nostre discussioni sul progetto di Costituzione; ai Vicepresidenti delle Sottocommissioni, ai Relatori, valorosissimi tutti, e all’onorevole Ambrosini in ispecie, meraviglioso creatore e uomo di sagace pensiero, ed è giustificato il rammarico per le sostituzioni talvolta perpetrate nel suo progetto, in alcuna delle quali per vero ebbe luogo una vera e propria sostituzione d’infante (Ilarità), attraverso l’indiscussa ed eloquente attività del Presidente onorevole Ruini, verso il quale io debbo pure oggi fare onorevole ammenda se qualche cosa mi fosse sfuggito di men che riguardoso verso di lui…

RUINI. No, no!

MICHELI. …quando, in una seduta nella quale mi sono visto davanti non un emendamento sostitutivo ma un testo completamente nuovo, io avevo la necessità di investirlo da ogni parte per poterne rinviare la discussione… (Si ride) e così fu infatti.

E al signor Presidente io chiedo venia ed ai colleghi di avere così a lungo indugiato in questo mandato che volonterosamente ho assunto; di averlo adempiuto forse in forma non sufficientemente austera, come era forse opportuno in un’Assemblea che sempre aveva discusso di cose così gravi e così importanti e dopo che il Presidente, con le sue parole ispirate e vigorose, aveva oggi sollevato l’entusiasmo dell’Assemblea nei riguardi dei nostri confini orientali. Ed io ho creduto di aggiungere qualche «sorrisa paroletta breve», perché, andando via di qui, dopo tante battaglie lo facessimo con l’animo pieno di serenità, con l’intenzione di ritrovarci più sereni ancora presto sì, ma non tanto presto (Ilarità), in modo da poter continuare, sotto così esperte guide, in feconda e concorde attività, quella Costituzione che il popolo italiano ha il diritto di domandarci. (Vivissimi applausi).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi associo, a nome del Governo, come promotore delle leggi, ai sensi di ringraziamento rivolti in modo particolare al Presidente e ai Vicepresidenti per la preziosa, benevola collaborazione che è stata da loro prestata, a tutti i funzionari e al personale in genere della Camera, e in modo speciale ai relatori e membri della Commissione che così intelligentemente hanno collaborato all’opera legislativa della Costituente. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Mentre ancora si procede al computo dei voti dello scrutinio segreto, chiudiamo intanto, onorevoli colleghi, le nostre vele. L’onorevole Micheli ha già detto, in modo veramente brioso, quanto io avrei voluto dire, tanto che non c’è necessità che io ripeta quanto egli ha già esposto. Posso soltanto esporre, in maniera sintetica, qualche dato statistico inerente ai nostri lavori. Io non nutro per le statistiche quella sfiducia che mostra di sentire l’onorevole Micheli: non la nutro per lo meno per quello che riguarda le statistiche nostre; perché, se è logico non fidarsi degli altri, possiamo e dobbiamo almeno fidarci di quelli che sono i risultati del lavoro nostro.

L’onorevole Micheli ha già ricordato che abbiamo tenuto, dal 6 febbraio ad oggi, 182 sedute, in 176 giorni, di cui 146 lavorativi. Possiamo di conseguenza constatare che, in realtà, non soltanto abbiamo avuto una seduta ogni giorno, ma spesso due e alcune volte anche tre. Di queste, alcune si sono spinte, come l’onorevole Micheli poc’anzi ricordava, nelle ore notturne, e sei al di là delle 24.

Di queste sedute plenarie, 91 sono state dedicate al progetto di Costituzione; 28 alla discussione di comunicazioni del Governo: è da ricordare infatti che due volte il Governo è mutato e si è dovuto discutere intorno al suo nuovo programma. Otto sedute sono state poi ancora dedicate all’esame della legge comunale e provinciale, 6 all’esame del disegno di legge relativo all’industria cinematografica, 4 all’approvazione di Trattati internazionali, 2 infine alla discussione intorno alla proroga della durata della nostra Assemblea.

Non debbo ricordare le sedute consacrate all’esame del progetto di legge relativo alla ratifica del Trattato. Credo che nessuno di noi, che vi abbiamo assistito e partecipato con ansia e dolore, in alcuni momenti anche con una certa ira repressa, non verso di noi, ma contro altri, potrà mai dimenticare queste sedute; e non è quindi necessario che io mi ci soffermi in modo particolare.

In 40 sedute, poi, si sono svolte le discussioni per interpellanze, mozioni e interrogazioni. E abbiate pazienza se ricordo così pedissequamente il nostro lavoro. Bene ha detto l’onorevole Micheli: è bene che si sappia nel Paese non soltanto ciò che non abbiamo potuto fare, ma ciò che in realtà abbiamo fatto.

L’Assemblea plenaria ha esaminato 24 disegni di legge di iniziativa governativa e uno di iniziativa della Presidenza: quello per la prima proroga dei poteri dell’Assemblea Costituente.

Le Commissioni legislative hanno tenuto 126 riunioni; ed anzi, i Presidenti di queste Commissioni esprimono il desiderio che anche se questa sera l’Assemblea inizia il suo periodo di riposo, i membri delle Commissioni, o alcuni di essi, per un paio di giorni almeno si ritrovino, per portare a termine un certo lavoro urgente che tuttora sta sul tavolo delle Commissioni.

Le Commissioni legislative hanno esaminato 278 schemi di provvedimenti: di questi, 271 sono stati rinviati al Governo, perché vi desse corso; 3 sono stati rimessi all’Assemblea Costituente; 4 sono stati ritirati dal Governo.

Per il progetto di Costituzione, che è il nostro lavoro fondamentale, rammento che fino adesso abbiamo approvato le disposizioni generali, i tre Titoli della parte prima: quelli relativi ai rapporti civili, ai rapporti etico-sociali, ai rapporti economici; il Titolo V della seconda parte relativo alle Regioni, di cui, però, abbiamo approvato soltanto undici articoli; cinque ce li ritroveremo nel mese di settembre. Complessivamente, abbiamo già approvato 64 articoli della Costituzione; ma ne restano ancora, egregi colleghi, nel progetto che abbiamo sott’occhio, 65, che concernono tutta la struttura, l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, e in più 9 articoli di disposizioni transitorie.

L’Assemblea ha esplicato anche con una notevole minuzia il sindacato politico sull’attività del Governo. Sono state svolte e discusse: 2 mozioni, 11 interpellanze e 224 interrogazioni orali. Questo per i colleghi, i quali frequentemente si lamentano che alle interrogazioni non si dia corso. Il fatto è che più ne esaminano, e più ne affluiscono; e anche per quelle che richiedono risposta scritta, su 882 ben 601 hanno avuto risposta dai Ministri competenti.

Infine, sono state molto numerose le votazioni: ne abbiamo fatto, fra l’altro, 25 per appello nominale e 28 a scrutinio segreto. Noi adoperiamo largamente strumenti molto delicati di consultazione delle nostre opinioni.

In questa maniera, onorevoli colleghi, ho fatto il bilancio materiale dei nostri lavori, quello che si può misurare a numeri, giorni, ore, articoli, testi legislativi e voti. Non farò il bilancio morale; non dirò di quanto l’Assemblea abbia potuto contribuire con la propria attività collegiale, ma più ancora con l’opera singola di ogni deputato, al superamento spirituale del nostro passato di sciagure; di quanto l’Assemblea abbia immesso nella coscienza democratica della Nazione; di quanto abbia fatto per affermare l’idea repubblicana; come abbia posto e se abbia posto riparo ai propositi, sia pure non ben definiti, delle forze anti-democratiche. Non lo faccio, perché forse, nel fare questo bilancio, non ci si troverebbe tutti così d’accordo come nel fare il bilancio dei dati puramente materiali. D’altra parte, dato il regime provvisorio nel quale sta oggi la Repubblica italiana, non è forse compito immediato dell’Assemblea quello di realizzare gli scopi ai quali ora ho accennato. La Camera legislativa, quando avremo ultimata la Costituzione, darà essa il ritmo nuovo allo Stato italiano e sarà investita completamente di questi impegni. Ma credo di poter egualmente affermare che la stragrande maggioranza dell’Assemblea sta fermamente sul terreno repubblicano, per le libertà democratiche, secondo la volontà popolare, come si è espressa nelle elezioni del 2 di giugno.

La sessione che riapriremo il 9 settembre avrà qualche cosa di preciso da fare, tuttavia, a questo proposito.

Mi basta ricordare i disegni di legge per il consolidamento della Repubblica, che non sono ancora usciti dalla fase dell’esame dei lavori in Commissione, ma che certamente, alla ripresa dei nostri lavori, verranno all’Assemblea per la loro ultima decisione.

Non voglio tuttavia più rubare neanche un minuto ai colleghi che sono giustamente impazienti di poter mettere un punto fermo a questa lunga sessione dei nostri lavori. Credo che potremo ritrovarci il 9 settembre. Lo spazio è abbastanza lungo e la temperatura a quell’epoca si sarà un poco rinfrescata. Non dovremo più sopportare i duri sacrifici fisici che in queste ultime settimane abbiamo dovuto affrontare e che abbiamo abbastanza coraggiosamente affrontati.

Io propongo di ritrovarci il 9 settembre: sono 40 giorni di riposo e penso che siano sufficienti per potere tornare ai nostri lavori.

E per concludere, io adesso non mi rimetterò sulle tracce dell’onorevole Micheli per ringraziare partitamente tutti coloro che fra noi, e siamo in fondo tutti, hanno dato contributo alla migliore utilità del nostro lavoro, dai membri della Presidenza ai membri dell’Assemblea, ai rappresentati della stampa, ai collaboratori a qualunque titolo al lavoro dell’Assemblea Costituente, che non si svolge tutto nella solennità dell’Aula, ma che largamente si riparte negli studi, negli uffici e anche nei corridoi, dove i collaboratori che l’onorevole Micheli ha ricordato stanno diuturnamente ad attendere che noi completiamo il lavoro svolto qui nell’Aula.

E pertanto, senza dilungarmi, a lei, onorevole Micheli, porgo vivi ringraziamenti per le parole buone che ha avuto per me e per il suo plauso. Faccio quanto più posso; facciamo tutti quanto più possiamo; forse faremo di più man mano che avremo acquistato una maggiore esperienza nel manovrare il complicato e difficile strumento della vita parlamentare, che appare soltanto ai facili e ai leggeri un giuoco qualsiasi, ma che è in realtà, invece, uno degli strumenti più raffinati della vita moderna di un popolo civile. (Applausi prolungati e generali).

Onorevoli colleghi, l’onorevole Micheli, con estrema delicatezza, ha voluto lasciare a me il compito di pronunciare quest’ultimo saluto: a nome di tutta l’Assemblea rivolgo il mio pensiero reverente ed affettuoso al Presidente della Repubblica (Vivissimi, generali e prolungati applausi. Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi) che, avendo accettato di restare ancora al posto più alto del nuovo Stato democratico italiano, deve – e noi glielo chiediamo insistentemente – temprare anche lui le sue forze in questo periodo di pausa dei nostri lavori, che non sarà pausa completa per i suoi, ma che tuttavia gli permetterà di ritrovare quel refrigerio e quella tranquillità che noi gli auguriamo e gli desideriamo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Onorevole Presidente, volevo ricordare solo questo. Io non mi oppongo alla sua proposta, ma forse lei non ha ricordato che il giorno 8 settembre partiranno per il Congresso interparlamentare europeo 45 o 50 nostri colleghi, che resteranno via otto giorni. Fra essi vi sono molti di noi interessati a fondo nello svolgimento dei lavori. Volevo fare solamente questa osservazione e niente altro. Non neghi, onorevole Presidente, la possibilità ad alcuno di noi di aprirsi una carriera internazionale. (Si ride).

Siccome poi mi è stato accennato a qualche dimenticanza nella quale sarei incorso, avverto che ciò è avvenuto perché mi son voluto mantenere fedele alla consuetudine lasciando al Presidente il compito di un più augusto saluto, perché la proposta partisse dalla fonte più autorevole ed alta. (Applausi vivissimi).

Così sono lieto di terminare augurando alle gentili colleghe nostre che con tanta comprensione hanno preso parte, pur nuove all’arringo, ai nostri lavori ed a voi, colleghi tutti, buone vacanze. (Vivissimi applausi).

Risultato della votazione segreta

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge:

«Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, Armato a Parigi il 10 febbraio 1947»:

Presenti                 410

Votanti                 330

Astenuti                80

Maggioranza         166

Voti favorevoli      262

Voti contrari         68

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Basile – Bassano – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bocconi – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Croce.

Damiani – D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Dominedò – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Firrao – Foa  – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Garlato – Gasparotto – Gatta – Germano – Geuna – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Jacini – Jervolino.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Longhena – Lozza – Lucifero – Lussu.

Macrelli – Magrassi – Magrini – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Molè – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Motolese – Mùrdaca – Murgia.

Nasi – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Ponti – Porzio – Preti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Paolo – Ruini – Rumor.

Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segala – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Silone  – Simonini – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togni – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi  – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zagari – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Allegato – Amendola – Assennato.

Baldassari – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bernamonti – Bianchi Bruno – Bibolotti – Bitossi – Bosi – Bucci.

Caprani – Cavallotti – Cerreti – Colombi Arturo – Corbi – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – Di Vittorio – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fiore.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giolitti – Gorreri – Grieco – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Laconi – Landi – Leone Francesco – Lombardi Carlo – Longo.        

Maffi – Magnani – Maltagliati – Marchesi – Massini – Massola – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Moranino – Musolino.

Negro – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Pastore Raffaele – Pellegrini – Perlingieri – Pesenti – Platone – Pratolongo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Santi – Scarpa – Scoccimarro – Sereni – Sicignano – Silipo – Spano. Togliatti.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca.

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Interrogazioni, interpellanze e mozione.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze e di una mozione pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere quale azione abbia svolta o intenda svolgere ulteriormente per ottenere la liberazione degli italiani deportati in Jugoslavia, «la cui sorte tristamente ignota – come dice il recente messaggio ricevuto dall’interrogante – da ventisei mesi cagiona lutti e miserie indicibili».

«Gasparotto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e delle finanze, per conoscere le ragioni per le quali, nel procedimento per avocazione di profitti di regime promosso dall’Intendenza di finanza di Roma a carico del noto profittatore e sostenitore del regime fascista, Giorgio Berlutti, editore dell’altrettanto nota «Libreria del Littorio» e di altri organismi di propaganda, che vivevano parassitariamente a carico del contribuente e dello Stato:

1°) non sia stato assoggettato a sequestro conservativo anche il giornale Il Globo, di cui il Berlutti è proprietario insieme con la Federazione dei dirigenti industriali, per cui si assiste oggi allo spettacolo che il più diffuso organo economico-finanziario italiano si trova nelle mani dell’editore ufficiale del partito fascista e di uno degli scrittori di propaganda più attivi dello stesso partito;

2°) l’Avvocatura generale dello Stato non abbia validamente tutelato gli interessi dello Stato, impedendo che il sequestro già dato dal Presidente del Tribunale di Roma il 1° marzo 1947 venisse revocato – limitatamente alla Casa editrice R. Carabba di Lanciano – come invece è avvenuto il 3 aprile successivo;

3°) sia stato nominato sequestratario dei beni del Berlutti il professore Alfonso Linguiti, il quale, per i suoi trascorsi politici, meriterebbe egli stesso di essere sottoposto a procedimento per avocazione; e, infine, le ragioni per le quali il medesimo professore Linguiti non sia stato almeno sostituito in conseguenza del fatto che non ha dato la minima esecuzione al detto sequestro, durante i 34 giorni in cui tale provvedimento è rimasto in vita, limitatamente alla Casa editrice R. Carabba.

«Pesenti, Foa, Dugoni, Cevolotto, Sapienza, De Vita».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali siano i criteri seguiti dal Commissariato degli alloggi di Roma nell’esprimere alla locale Prefettura il proprio parere sul termine di tempo da assegnarsi agli impiegati statali per cercarsi altro alloggio, nel caso in cui essi siano costretti a lasciare quello attualmente occupato in seguito a sentenza di sfratto emessa dall’autorità giudiziaria su richiesta dei proprietari di casa, che intendano occupare essi stessi l’alloggio; se gli risulti, come risulta agli interroganti, che molto spesso il Commissariato degli alloggi esprima il parere di assegnare un termine breve, pur sapendo che oggi, a Roma, un impiegato dello Stato che sia onesto, in nessun modo è in grado di trovarsi altra abitazione; quali provvedimenti ritenga opportuno emanare per risolvere il grave, urgente problema riferentesi agli impiegati statali, che, risiedendo a Roma già da anni e trovandosi nelle condizioni anzidette, sono nella necessità di procurarsi un alloggio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Nobile, Bozzi, De Vita, Pacciardi, Di Vittorio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere per quali motivi sul tratto ferroviario Campobasso-Benevento non viene istituito un servizio di automotrice – specialmente in coincidenza con i rapidi per Roma – già promesso da tempo.

«Il tratto Campobasso-Benevento è di chilometri 84 e si impiegano ore 3.31 a percorrerlo con l’attuale servizio di treni.

«Il Molise è privo di comunicazioni ferroviarie con Roma a causa della distruzione della ferrovia, operata dai tedeschi.

«Il servizio di autocorriera che è stato istituito è costosissimo ed insufficiente.

«Le comunicazioni con Napoli sono lente e impongono sacrifici di tempo e di danaro.

«Il Molise, avendo sofferto danni incalcolabili a causa della guerra, esige che gli siano ridati i mezzi che consentano di riprendere con rapidità i suoi traffici e le sue comunicazioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Camposarcuno, Ciampitti, Colitto, Morelli Luigi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere le ragioni per le quali per la fissazione del prezzo del citrato di calcio è stato richiamato in vigore il vecchio decreto del 1929, mentre è evidente la necessità e la giustizia che il prezzo fosse sottoposto al Comitato interministeriale dei prezzi, il quale l’anno scorso ne fissò la misura in modo meno irrisorio di quello stabilito per la campagna in corso (1946-47).

«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali sono i criteri per ritenere che le richieste delle categorie agrumarie sarebbero in contrasto con il decreto-legge 10 ottobre 1929, n. 1942, e se non crede opportuno di aumentare il prezzo fissato che non ha tenuto presente, in confronto del prezzo fissato per l’anno scorso, né il cresciuto costo della mano d’opera, né l’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla produzione del citrato di calcio, né le condizioni del mercato valutario, infliggendo una falcidia ingiustificata al compenso dovuto alla fatica e alle spese degli agrumicoltori, dei piccoli produttori di citrato di calcio, dei lavoratori manuali e delle altre categorie interessate, che in Sicilia, e specialmente nella provincia di Messina, da questo cespite traggono la loro sola fonte di vita, e anziché ottenere tutela e protezione, hanno avuto da questa arbitraria decisione gravi e immeritati danni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per conoscere se non siasi potuto ottenere alcuna ufficiale conferma della presenza in varie regioni dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche di italiani prigionieri di guerra, e quale esito abbiano avuto per ottenere di essi il sollecito rimpatrio.

«Micheli».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che hanno determinato l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica a disporre che siano senz’altro indetti in tutti i comuni i concorsi per medici condotti, veterinari ed ostetriche sulla base della legge sanitaria del 1935 mortificatrice di ogni autonomia comunale e se non creda di far revocare le disposizioni come sopra impartite e sollecitare quelle provvidenze legislative che salvaguardino i diritti degli enti locali e vengano incontro ai legittimi desideri delle categorie interessate.

«Tessitori, Fantoni, Schiratti, Garlato, Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga opportuno – attraverso ad un attento riesame della questione – di disporre per l’esonero dal pagamento del tributo sugli utili di guerra a carico degli agenti e rappresentanti di commercio a far tempo dal 1° gennaio 1939 (o, in via subordinata, dal 1° gennaio 1945), come già attuato nei confronti dei piccoli affittuari agricoli, degli esercenti piccole attività industriali e commerciali e degli artigiani, a tal fine trasferiti dalla categoria B alla categoria C-1.

«Militano a favore degli agenti e rappresentanti di commercio validi argomenti che l’interrogante sintetizza:

1°) gli agenti e rappresentanti non sono «intermediari», ma bensì «ausiliari» del commercio;

2°) la legge 1° luglio 1940 fu emanata imperante l’abrogato Codice di commercio, che considerava commercianti appunto gli «intermediari» (mediatori, commissionari, numeri 21 e 22 dell’articolo 4);

3°) la legge comune e quella tributaria hanno sempre disconosciuto la qualifica di «commercianti» negli agenti e rappresentanti;

4°) la legge fondamentale tributaria iscrive gli agenti e rappresentanti in categoria C-1 e non in categoria B;

5°) gli agenti e rappresentanti sono gli unici iscritti alla categoria C-1 che siano soggetti all’imposta sugli utili di congiuntura; non sono infatti tassati gli altri professionisti aventi reddito di puro lavoro di natura incerta e variabile;

6°) agenti e rappresentanti non hanno da ricostruire monte merci né da ammortizzare impianti e pertanto appare iniquo l’accantonamento della così detta quota indispensabile.

«Chiabamello»

«L’Assemblea Costituente,

considerato che nella decisione presa dal Ministro delle finanze in merito alla concessione in uso del Villaggio Alpino denominato Colonia Valgrande di Comelico (Belluno) si riscontra un grave difetto di valutazione, essendosi trascurato:

1°) che la Colonia in parola è stata costruita con i mezzi finanziari offerti da operai, impiegati, industriali e Istituti bancari della provincia di Treviso fin dal 1929, allo scopo di assicurare ai figli più bisognosi dei lavoratori di quella provincia svago e ristoro durante le stagioni estiva ed invernale;

2°) di prendere in considerazione la proposta dell’Intendenza di finanza di Belluno – competente per territorio – al superiore Ministero delle finanze, nell’aprile 1947, con la quale – a conclusione dell’esame della pratica avviata durante sedici mesi con l’E.N.A.L. di Treviso – la Colonia di cui trattasi, si proponeva venisse concessa in affitto all’E.N.A.L. di Treviso;

invita, il Governo a revocare la decisione presa dal Ministro delle finanze in ordine alla concessione in affitto della Colonia di Valgrande di Comelico, e riconosce che per ragioni di equità e di giustizia essa debba venire assegnata in uso all’E.N.A.L. provinciale di Treviso.

«Ghidetti, Pellegrini, Costantini, Bellusci, Tonello, Nobile, Zanardi, Montemartini, Crispo, Foa, Cevolotto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze e la mozione saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

E con ciò, cari colleghi, a rivederci al 9 settembre.

La seduta termina alle 19.30.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccx.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Votazione segreta del disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Commemorazione di Camillo Prampolini:

Simonini

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Nenni

Selvaggi

Saragat

Orlando

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Chiusura della votazione segreta:

Presidente

Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente:

Presidente

Gronchi

Vernocchi

Corbino

Scoccimarro

Crispo

Colitto

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Votazione segreta del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Ricordo che nella seduta di stamane è stata ultimata la discussione sul disegno di legge per la convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria sul patrimonio.

Indico la votazione a scrutinio segreto su questo disegno di legge.

(Segue la votazione).

Avverto che le urne rimarranno aperte.

Commemorazione di Camillo Prampolini.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Esattamente 17 anni or sono, il 30 luglio 1930, a Milano, povero, come povero era sempre vissuto, pochi giorni dopo aver preso possesso di una modesta casetta che l’affetto, l’amicizia, la solidarietà dei suoi compagni gli avevano offerto, moriva in Milano Camillo Prampolini. È difficile dire in poche parole di Camillo Prampolini. La sua opera, la sua azione sono soprattutto legate allo sviluppo economico sociale e politico della Valle Padana. Ma egli fu anche, sotto certi aspetti, e come lo fu, benché modesto e schivo degli onori, per il suo valore, per la sua capacità, uomo politico nazionale.

Egli onorò anche questa Assemblea e lungamente la onorò, come ebbe a riconoscere e dichiarare un grande illustre Presidente della Camera dei Deputati che un giorno lo invitava a continuare un discorso nel quale egli denunciava le condizioni delle classi lavoratrici della terra di quel tempo, della Valle Padana, e lo invitava a continuare quel suo discorso appellandolo apostolo di pace che con le sue parole «onorava il Parlamento e il Paese».

Camillo Prampolini è stato della generazione eroica del movimento socialista uno degli apostoli. Forse un giorno, quando saranno superate le attuali contingenze e gli uomini potranno dedicarsi con maggiore tranquillità e passione allo studio degli avvenimenti e degli sviluppi politici e sociali del nostro Paese, forse allora potrà rifulgere in pieno quella che è stata e resta la figura nobile di questo onesto, modesto, grande uomo del quale si onora e per il quale si onora il movimento socialista. Ed io sono lieto che in questa occasione socialisti di tutte le correnti e di tutte le sponde, fra loro certamente non opposte, se pur diverse, si siano trovati uniti nel volerlo ricordare.

Al ricordo di Prampolini permettetemi di associare anche, perché proprio il 30 luglio ricorre l’anniversario della sua morte, quello di un altro uomo, che accanto a Prampolini, nella nostra terra padana e qui in Parlamento, onorò il movimento socialista: Giovanni Zibordi. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo di potere – a nome dell’Assemblea intera – far eco e dare la mia adesione alle parole pronunciate dall’onorevole Simonini. Il nome di Camillo Prampolini sta all’alba del movimento socialista italiano. Ma per trascorrere di tempo e volger di vicende, con l’affermarsi di altri uomini – gareggianti in spirito di sacrificio e profondità di loro studi e capacità pratiche di organizzazione nel quadro dell’azione sociale e politica dei lavoratori – il suo nome non si è mai offuscato. Ed anche oggi, pronunciandolo, noi sentiamo che non tanto rievochiamo, così, un’ombra venerata ma di tempi lontani e superati, quanto un’energia spirituale, che ancora oggi ci sospinge, conforta ed ammaestra.

Né vi è contesa né vi può essere contesa fra le diverse correnti nelle quali purtroppo il grande fiume del socialismo, allontanandosi nel tempo dalla sua prima modesta sorgente, si è suddiviso. Poiché nel grande e generoso patrimonio di pensieri e di affetti che Camillo Prampolini ha lasciato, ognuno trova da attingere per nutrire nel bene e migliorare la propria opera.

L’Assemblea Costituente, che sta redigendo una legge fondamentale per la Repubblica italiana, assidendola sui diritti del lavoro, si unisce nel ricordo di Camillo Prampolini che ai lavoratori aprì le vie dell’ascesa e delle civili conquiste. (Vivissimi, generali applausi).

Ha chiesto di parlare il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASP ERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo si associa con reverenza e con commozione alla rievocazione delle nobili figure di Camillo Prampolini e di Giovanni Zibordi. (Applausi).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, giunti ormai alla fine di questa discussione, credo si possa dire che il solo punto acquisito è che non esistevano e non esistono ragioni di carattere internazionale, e di carattere nazionale, tali da giustificare l’iniziativa presa dal Governo circa la anticipata ratifica del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio scorso.

Non esistono ragioni di carattere internazionale in quanto la dimostrazione è stata data che la mancanza della firma di uno degli Stati promotori del Trattato rende il Trattato stesso ineseguibile in condizioni tali che il nostro voto non gli dà la vita che ancora non ha, né gliela toglierebbe se l’avesse. Non esistono le condizioni di politica interna, nelle quali noi pensavamo che questa discussione dovesse farsi; perché il Governo che l’ha promossa non è rappresentativo dei settori popolari e repubblicani del Paese, ed è legato, per la sua origine, a particolari interessi internazionali.

Vorrei aggiungere che con la ratifica anticipata del trattato, ci si domanda di accettare uno stato di diritto e di fatto, che non corrisponde più alla situazione che vi dette origine, la quale si è trasformata proprio a causa del piano Marshall e delle conseguenze che il piano ha avuto nei rapporti tra gli autori del Trattato che oggi dovremmo ratificare.

Credo anche di poter dire che è mancata da parte del Governo la piena coscienza della sua responsabilità, di fronte alla quale esso avrebbe dovuto accettare la proposta del collega Valiani di convocare l’Assemblea in seduta segreta. Penso che se la seduta segreta non c’è stata, è perché il Governo non aveva niente da dire di eccezionalmente importante, come non ha avuto niente da dire in seduta di Commissione dei trattati, dove non c’erano né una tribuna diplomatica, né una tribuna dei giornalisti e dove quindi era possibile abbandonarsi alle comunicazioni più confidenziali. La verità è che il Governo si è avventurato in questa discussione, senza misurarne le conseguenze, senza rendersi conto che esercitava un vero e proprio ricatto sull’Assemblea e sul Paese (Commenti al centro – Applausi a sinistra). Signori, la prova della mancanza di serietà del Governo sta nel fatto che esso è venuto davanti alla Commissione dei trattati a sostenere l’urgenza della ratifica per potere andare alla conferenza di Parigi, per ripiegare in seguito su una posizione analoga alla nostra, accettando la subordinazione della nostra ratifica a quella delle quattro Potenze e chiedendoci in definitiva un voto che potrebbe restare privo di conseguenze.

Infatti, ammettiamo per un momento l’ipotesi – da non scartarsi a priori – che l’Unione Sovietica non firmi o non ratifichi più il Trattato; avremo allora discusso per quindici giorni ed avremo rischiato di lacerare spiritualmente la Nazione, per dare un voto privo di conseguenze giuridiche e politiche, un voto nella notte e nel buio. (Rumori al centro).

Vedremo più tardi che cosa si può dire dell’atteggiamento delle Quattro Potenze davanti al Trattato, ma reputo che siamo tutti d’accordo nel pensiero che, se ci fosse una possibilità su un milione di vedere il Trattato, a seguito della mancata ratifica di una delle Quattro Potenze che l’hanno promosso, restare lettera morta o ridursi a carta straccia, mancheremmo al dovere verso noi stessi e verso il Paese, se tale possibilità non secondassimo rinviando la nostra ratifica al momento in cui le condizioni previste dall’articolo 90 si saranno verificate ed il Trattato sarà diventato definitivo ed eseguibile.

In tali condizioni, onorevoli membri del Governo, io considero un mistero il fatto che voi non abbiate accettato la proposta dell’onorevole Orlando, nelle condizioni in cui fu formulata, un mistero che diventerebbe ancora più impenetrabile se la proposta di rinvio fosse di nuovo respinta. (Commenti).

Prima di chiarire questo mistero o di cercare di chiarirlo, desidero ripetere che il Gruppo parlamentare socialista, come ha votato, nello spirito in cui essa fu presentata, la sospensiva dell’onorevole Orlando all’inizio della discussione, così la rivoterà ove sia ripresentata, pronto a prendere l’iniziativa se altri non lo facessero e ad insistervi, ponga o no il Governo la questione di fiducia.

Ci sono, signori, due fatti nuovi ed una situazione nuova. Il primo fatto nuovo – l’ho già detto – è la mancata ratifica di una potenza che, al pari dell’onorevole Orlando, vorrei poter chiamare «x», per non accendere attorno ad essa discussioni e passioni di carattere ideologico e politico.

L’altro fatto nuovo è il cambiamento di fronte del Presidente del Consiglio, di alcuni dei suoi più autorevoli Ministri e del Gruppo della democrazia cristiana (Commenti al centro), cambiamento di fronte del quale, fino a questo momento, non ci è stata data nessuna spiegazione.

Un anno fa l’onorevole De Gasperi voleva dimettersi dal Governo per non arrendersi alla decisione dei Ventuno a Parigi, ed alcune settimane or sono noi lo abbiamo visto prendere su di sé personalmente la responsabilità della firma, senza neppure coprirsi con un voto dell’Assemblea, che eravamo ponti a dargli.

Il 23 ottobre scorso, mentre un socialista stava per andare al Ministero degli esteri, il Gruppo della democrazia cristiana votava un ordine del giorno contro la firma e la ratifica del Trattato. Oggi, questo medesimo Gruppo ci domanda la ratifica del Trattato in condizioni del tutto eccezionali, allorché il Trattato non ha vita e addirittura non esiste come strumento esecutivo.

Signori, noi socialisti abbiamo una certa dimestichezza col metodo dialettico, che consiste nell’adoperare le parole non nel loro senso assoluto ed astratto, come ce ne offriva un esempio commovente, l’altro giorno, il nostro amico Canepa, quando con virgiliano candore parlava del disarmo universale o dell’esercito internazionale di cui si dovrebbe occupare fra qualche settimana l’O.N.U. Il metodo dialettico insegna ad adoperare le parole nel loro riferimento coi fatti concreti e positivi. Da questo punto di vista, riconosco che le parole «ratificare», «ratificare subito», «non ratificare», «non ratificare subito» acquistano, in rapporto alla concreta situazione di alcune settimane or sono e di oggi, un senso preciso che m’induce a riconoscere la logica dell’onorevole De Gasperi e quella del Gruppo parlamentare democristiano.

Che cosa ha sempre pensato l’onorevole De Gasperi del Trattato? Non parlo dell’apprezzamento morale e politico ma della sua esecuzione. Il Gruppo democristiano, l’onorevole De Gasperi, i suoi Ministri in materia più autorevoli (per esempio l’onorevole Gonella, che non è al banco del Governo, ciò che è naturale dopo una certa indicazione dell’Assemblea… (Applausi a sinistra – Rumori al centro) e che vedrei volentieri al suo banco di deputato (Commenti – Vivaci proteste al centro), potrebbe spiegarci perché egli giudica con animo così diverso un problema sul quale, in Consiglio dei Ministri fu sempre così intransigente.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Citeremo la sua logica: citeremo qualche cosa! (Applausi al centro).

Una voce al centro. Lui è dialettico! (Commenti).

NENNI. Io sono meno misterioso di De Gasperi, e non seguirò l’esempio di De Gasperi il quale non ha dato nessuna spiegazione…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le darò domani!

NENNI. …nessuna spiegazione dei suoi voltafaccia. Io indicherò invece quali sono state e sono le nostre perplessità.

Dicevo dunque, onorevoli colleghi, che il Presidente del Consiglio, i suoi più autorevoli Ministri democristiani, anche Don Luigi Sturzo – il quale di fronte al Trattato ha avuto una posizione di assoluta intransigenza mossa da considerazioni di ordine morale e storico, piuttosto che politico – hanno sempre sperato che il Senato americano non avrebbe ratificato il Trattato; ipotesi questa che secondo le nostre affermazioni era da scartarsi, per quanto meritasse tutta la nostra attenzione.

Senonché, quando De Gasperi è andato in America, egli si è trovato al famoso banchetto dove il ministro segretario al dipartimento di Stato, signor Byrnes, lo ha salutato non precisamente come l’uomo della provvidenza (Proteste al centro) ma in ogni modo come colui che avrebbe ratificato il Trattato contro gli estremismi di destra e di sinistra…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ha letto lei, il testo.

NENNI. Ho letto ciò che è stato pubblicato.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io l’ho smentito già allora!

NENNI. Così è stato pubblicato e non è stato smentito. (Rumori – Proteste al centro). È da questo momento e dal ritorno del Presidente del Consiglio dall’America che data il voltafaccia del Presidente del Consiglio e della democrazia cristiana di fronte al Trattato, né gliene faccio carico essendo naturale che venuta a mancare l’ipotesi della non ratifica americana anche l’atteggiamento di coloro che su di essa avevano contato doveva modificarsi.

Senonché, fra l’uno atteggiamento e l’altro, ci sono anche altre cose: c’è la presa di posizione del Presidente Truman, col messaggio del 12 marzo, che ha avuto tanta importanza anche nella recente crisi ministeriale; c’è l’evoluzione subita dalla politica mondiale in rapporto al messaggio del 12 marzo. Ieri Togliatti diceva che uno degli elementi negativi della politica estera di De Gasperi è che essa è stata unilaterale. Signori, la prova più evidente dell’unilateralità di questa politica l’abbiamo in codesta discussione.

Io domando all’onorevole De Gasperi: se sotto il Trattato mancasse la ratifica americana, chiederebbe egli all’Assemblea Costituente italiana di ratificare? (Commenti al centro). Se mancassero la ratifica inglese o quella francese, verrebbe in mente ad uno solo dei nostri Ministri, ad uno solo dei Gruppi dell’Assemblea, di domandare la ratifica anticipata del Parlamento italiano ad un testo senza vita e senza valore esecutivo?

Signori, sono sicuro che, nella vostra buona fede tutti, a questo quesito, rispondete «no». E siamo allora al punto dolente della questione. Io condivido l’impressione, già espressa da altri, che per De Gasperi l’Europa finisce alla linea Trieste-Stettino. Mi sono perfino domandato se le sue naturali preoccupazioni di cattolico militante non contribuivano a fargli dimenticare che l’Europa finisce agli Urali; se, intravedendo, al di là di quello che i giornalisti chiamano le rideau de fer, la rossastra figura del Maligno (Si ride), egli non sia portato ad esorcizzare il nemico con un vade retro Satana.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono vissuto venti anni al di là di quella linea, onorevole Nenni! (Approvazioni al centro).

NENNI. Può darsi, ma ella onorevole De Gasperi dimostra oggi, con la sua politica, la parzialità della sua comprensione del mondo, e dà la prova che mentre era disposto, ed aveva ragione, a considerare la mancata ratifica del Senato americano come un avvenimento fondamentale, considera invece che la mancata ratifica sovietica non ha nessuna importanza, non altera i termini del problema, non modifica la situazione giuridica politica.

Ebbene, onorevole De Gasperi, una gran parte del Paese, non per ragioni ideologiche, ma per una concreta visione degli interessi della Nazione, non è affatto disposta a considerare come trascurabile tutto ciò che avviene all’est.

Certo, onorevole De Gasperi, noi siamo molto sensibili, specialmente in questi banchi socialisti, all’opinione espressa dai nostri amici inglesi e francesi; siamo molto sensibili, soprattutto in questi banchi, all’opinione del Ministro Bevin, ma io credo di non sorprendere i nostri amici inglesi se dico che in questa questione non ci può essere coincidenza fra gli interessi inglesi e quelli italiani e il nostro dovere è di attenerci all’interesse italiano. (Applausi a sinistra).

Onorevole De Gasperi, eccomi a dire quale è stata e quale è la nostra posizione nei confronti del Trattato. Prima di tutto, come lo abbiamo giudicato? Il Ministro Sforza ha espresso l’opinione di tutta l’Assemblea allorché nel suo discorso ha detto che il Trattato è una pace degli alleati fra di loro. Qualche cosa del genere abbiamo sempre detto noi, sostenendo che il Trattato è un compromesso fra gli alleati, del quale noi abbiamo fatto le spese. Il nostro giudizio, sul Trattato, è stato sempre di un realismo brutale, non turbato da considerazioni sentimentali, non appesantito da valutazioni morali o storiche. Fino dall’inizio, abbiamo detto che il problema non era quello di firmare o ratificare, non firmare o non ratificare, ma eseguire o non eseguire, e siccome consideravamo e consideriamo che il nostro Paese sia in condizioni di non eseguire, così abbiamo sempre detto e diciamo che quando il Trattato ci sia presentato perfetto giuridicamente e politicamente in tutte le disposizioni dell’articolo 90, non resta a noi nazione italiana, che firmare (e l’abbiamo fatto); o ratificare, e lo dovremo fare non appena il Trattato abbia acquistato il carattere esecutivo che oggi non ha.

Si è parlato del mio discorso di Canzo e si è creduto di trovare una contraddizione fra l’atteggiamento che assumiamo oggi (di fronte a un Trattato che consideriamo – non mi stancherò di ripeterlo – senza valore esecutivo) e quanto io dicevo nell’ottobre scorso.

Mi scusi l’Assemblea se, contrariamente all’onorevole De Gasperi il quale non ci ha dato nessuna spiegazione dell’evoluzione del suo pensiero, io mi richiamo al discorso di Canzo per dimostrare la perfetta logica del nostro atteggiamento. S’era all’indomani dell’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno. Ed io mi ponevo il quesito «che fare adesso?» e rispondevo così:

«Prima di tutto, ripresentare il problema ai Quattro nella sua complessità. E poi, come lo abbiamo fatto per venticinque anni contro il fascismo, anche quando pareva che urtassimo al granito o all’acciaio, non rinunciare mai alla difesa del nostro diritto e inscrivere la nostra integrità territoriale e la nostra indipendenza nazionale politica ed economica fra gli obiettivi permanenti della nostra politica estera e della nostra politica generale.

«Niente isterismi, ma neppure niente rinunzie. L’Europa si troverà, da ora in poi, davanti ad una Italia che vuole collaborare all’opera comune di progresso, che vuole vivere in pace coi suoi vicini, che fonda la sua azione sul principio della solidarietà internazionale, che non punta sugli anglo-americani contro l’Unione Sovietica o Sull’Unione Sovietica contro gli anglo-americani, ma sull’unione di tutte le forze democratiche dell’Europa e del mondo, che rinunzia ai miti insanguinati dell’impero e della potenza militare, ma che mantiene aperte le sue sacrosante rivendicazioni, decisa a farle trionfare appellandosi al diritto ed alla ragione».

Ciò voleva dire che finché fosse esistita la possibilità di trattare sul Trattato, noi lo avremmo fatto.

E, signori, qual è stato il mio atteggiamento come Ministro degli esteri, dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Quattro? Io inviavo allora, d’accordo naturalmente con il mio Presidente del Consiglio, ai Quattro ministri degli esteri la nota seguente: «Il Ministro degli esteri della Repubblica italiana ha preso conoscenza del Trattato di pace quale è stato definitivamente redatto nella riunione di New York dei Ministri degli esteri della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il Ministro degli esteri constata che non è stata accolta nessuna delle richieste di modifica delle primitive clausole del Trattato presentate dal Governo italiano alla Conferenza di Parigi. Il Trattato urta la coscienza nazionale, specie per le clausole territoriali. In queste condizioni il Ministro degli esteri si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di chiedere che sia riconosciuto il principio della revisione del Trattato sulla base di accordi bilaterali con gli stati interessati sotto il controllo e nell’ambito dell’O.N.U.».

Signori, è forse questo l’atteggiamento di qualcuno, deciso come che sia a firmare e ratificare? Dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno, io avevo annunciato il nostro ricorso ai Quattro; dopo la decisione dei Quattro, preannunciavo il ricorso all’O.N.U., mentre cercavo, attraverso accordi bilaterali, di iniziare la revisione del Trattato.

 Se non ci fossero state le mie dimissioni, sarei andato il 21 gennaio a Londra (Commenti) e malgrado la riluttanza del Foreign Office avevo pregato il Ministro Bevin di mettere all’ordine del giorno delle nostre discussioni il problema del ritorno degli italiani in Africa come mandatari dell’O.N.U., e in una posizione non di conquistatori ma di collaboratori del movimento di indipendenza degli arabi.

Avevo pregato il Ministro degli esteri francese dell’epoca, Léon Blum, di ricevermi al ritorno da Londra e lo avevo pregato di ricercare con me se non ci fosse una formula la quale consentisse all’Italia e alla Francia di risolvere direttamente la questione di Briga e di Tenda.

Avevo fatto presente al Ministro Molotov il mio desiderio di andare a Mosca al più presto possibile, per iniziare le discussioni e le trattative per il trattato di commercio e per dare alla Repubblica sovietica la prova dell’interesse profondo che la diplomazia e la Nazione italiana attribuiscono a questo grande Paese dalle infinite possibilità nel campo che ci interessa, quello degli scambi commerciali.

E debbo dire, a rettifica parziale di ciò che affermò ieri il mio amico Togliatti, che cercai di approfondire col Ministro jugoslavo Simic e col Governo di Belgrado tutte le possibilità concrete offerte dall’incontro Tito-Togliatti, di arrivare ad un accordo diretto fra l’Italia e la Jugoslavia su una linea etnica di confine accettabile per entrambi, oppure sull’estensione del territorio libero di Trieste fino a Pola, in modo da comprendervi la maggior parte degli italiani dell’Istria.

Quando lasciai il Ministero il Governo jugoslavo era riluttante ad una discussione sulla questione territoriale; ma aveva accettato di normalizzare i nostri rapporti con la nomina di un rappresentante jugoslavo in Italia e quella di un rappresentante italiano a Belgrado. Né io sono in grado di dire gli sviluppi ulteriori di tale questione.

Mi sembra così di aver dimostrato che, nei limiti delle possibilità di allora, io feci quanto era possibile per porre la questione della revisione in termini concreti e nel solo modo possibile, non l’eventuale e problematica discussione all’O.N.U., ma le trattative con i Governi ed i Paesi interessati a stabilire buone relazioni con noi, liquidando gli errori del Trattato di pace.

Signori, quando il terzo Ministero De Gasperi si è presentato davanti all’Assemblea, ho avuto occasione di fare delle riserve sulla procedura del Governo di firmare senza consultare l’Assemblea, ed ho annunciato che se fossimo stati consultati noi socialisti avremmo dato parere favorevole alla firma. Similmente se oggi il Trattato fosse perfetto, noi saremmo favorevoli alla ratifica, senonché un tale stato di necessità non esiste e io dico che se ci fosse una possibilità su un milione che il Trattato divenga un pezzo di carta straccia, sarebbe deplorevole che sotto quel pezzo di carta ci fosse anche la firma della Repubblica italiana. (Applausi).

Tutta la questione è qui, onorevole De Gasperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La firma c’è già e col suo consenso. (Commenti).

NENNI. La firma c’è già, ma impegna il Governo. Ella stessa, onorevole De Gasperi, e il Ministro Sforza con la dichiarazione con la quale accompagnò la firma, vollero salvaguardare il diritto dell’Assemblea di ratificare o meno, né credo di interpretare male il pensiero del Governo di allora se dico che non impegnando l’Assemblea per la firma, esso intendeva di preservare la nostra libertà di ratificare nel momento giudicato il più opportuno. Perciò capisco l’onorevole De Gasperi e non capisco l’onorevole Sforza. Capisco l’onorevole De Gasperi perché egli lega la anticipata ratifica alla sua politica generale ed interna. Capisco l’onorevole De Gasperi perché per lui la ratifica, nelle attuali condizioni, significa accettazione a priori della divisione dell’Europa in due blocchi e presa di posizione in favore di uno dei blocchi. (Applausi a sinistra – Commenti al centro).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. È il contrario!

NENNI. Non capisco l’onorevole Sforza perché sono sicuro che egli ed i suoi collaboratori valutano l’importanza di mantenere aperta ancora per qualche settimana o qualche mese la questione della ratifica. Non capisco l’onorevole Sforza perché penso che nel dissidio europeo e mondiale, egli non ha preso finora nessuna posizione definitiva.

Quando io cerco le ragioni del Ministro degli esteri, e tengo naturalmente conto di quanto egli ci ha detto in Commissione dei trattati, non trovo un motivo, una spiegazione al suo atteggiamento se non quella della comodità, che non mi pare degna né del Ministro né dei suoi collaboratori a Palazzo Chigi.

Concludendo su questa questione, in perfetta coerenza col nostro costante atteggiamento, noi socialisti diciamo:

1°) che la ratifica è una dolorosa necessità ed è anche allo stato delle cose un obbligo di lealtà, ma solo quando siano state adempiute le condizioni poste dagli alleati per dare validità al Trattato;

2°) che nelle condizioni attuali la ratifica anticipata è un errore tecnico, politico e morale, in rapporto alla generazione presente ed alle generazioni di domani;

3°) che noi consideriamo il Trattato ingiusto, senza perciò abbandonarci al pessimismo di coloro che, ripetendo l’errore del 1919, gridano alla inutilità e al tradimento dei sacrifici e del sangue versato dal settembre 1943 all’aprile 1945 dai marinai, aviatori, soldati del Corpo italiano di liberazione e dai partigiani.

Signori, se la guerra si fosse conclusa nel settembre del 1943, con la capitolazione senza condizioni, oggi il nostro Paese non discuterebbe, in una relativa condizione di libertà, se ratificare o non ratificare il Trattato di pace, ma sarebbe diviso, come la Germania, in quattro zone di occupazione, con gli angloamericani che occuperebbero le isole e la penisola fino alla Valle Padana, i sovietici sul Tagliamento, la Francia in Liguria ed in Piemonte.

Avere impedito ciò, torna ad onore imperituro dei Comitati di Liberazione Nazionale e dei partigiani. (Applausi a sinistra).

Signori, codesta parte del dibattito, alla quale ho portato il mio modesto contributo, a nostro giudizio era inutile e pericolosa; utile invece è la discussione sul piano Marshall e la Conferenza di Parigi.

Della Conferenza di Parigi e del piano Marshall si sono prospettate tesi, delle quali, a mio giudizio, talune hanno peccato di eccessivo ottimismo, talune di eccessivo pessimismo.

Non c’è ancora nessuna ragione perché possiamo attenderci un miglioramento rapido e sensibile delle condizioni del nostro Paese, in rapporto con le trattative internazionali in corso, né c’è motivo di considerare tutto morto e fallito.

Pare a me che nella fase attuale delle trattative internazionali, piuttosto che ad un piano Marshall siamo di fronte ad un piano Bevin. (Commenti).

Il Ministro britannico degli esteri, spinto dalla grave situazione economica del suo Paese e dal suo idealismo socialista, ha colto a volo l’accenno, contenuto in un discorso del Ministro Marshall circa la opportunità che l’Europa si metta d’accordo e proceda senz’altro ad una intesa per presentare una domanda cumulativa di aiuti all’America.

Credo che quando gli Americani parlano di paesi europei, si riferiscano ai paesi fuori della influenza sovietica, agli stati della seconda zona, dove per combattere l’influenza della Russia e del comunismo, l’America è disposta ad intervenire economicamente per arrestare lo sviluppo del «comunismo della miseria».

Il Ministro Bevin ha probabilmente data un’altra interpretazione al discorso Marshall, allorché, mosso dall’ardente desiderio di realizzare l’unità dell’Europa, ha convocato a Parigi per il 27 giugno i «Tre Grandi». Purtroppo i fatti non hanno corrisposto alle speranze del Ministro Bevin. Non solo l’unità dell’Europa non si è fatta, ma si è creata una divisione che, se dovesse approfondirsi, condurrebbe l’Europa e il mondo verso un disastro.

Di chi la colpa? Signori, per parte mia, ammiro coloro che, su dati sommari, elementari, sono arrivati a delle conclusioni definitive.

Luigi Salvatorelli, storico emerito, uomo di principî democratici, in un articolo recente nel Messaggero ha emesso senz’altro la sua sentenza. Ai suoi occhi, è l’Unione Sovietica che avrebbe, con le sue mani, creato il blocco occidentale.

Altri hanno emesso giudizi radicalmente contrari. Non mi fido né degli uni né degli altri.

Molti avvenimenti devono ancora prodursi perché noi possiamo renderci conto dei motivi profondi della rottura del 27 giugno a Parigi.

Secondo me, la rottura ha una delle sue cause nel fatto che il Ministro Bevin ha interpretato il discorso Marshall come un superamento del piano Truman; il Ministro Molotov ha visto nel discorso e nel piano Marshall un tentativo di trasferire il piano Truman dalla politica all’economia.

Signori, chi ha ragione, chi ha torto? Noi cominceremo a capire quando vedremo come funzionerà il patronato economico dell’America sull’Europa. Se sarà un patronato politico, tipo Grecia, allora vorrà dire che il piano Marshall è una applicazione di quello Truman: se avremo un intervento economico, senza pretese di egemonia politica, allora vorrà dire che il piano Truman non è destinato a generalizzarsi a tutta l’Europa. Allo stato attuale delle cose, ogni giudizio appare avventato.

D’altra parte, per noi Assemblea Costituente, per voi Governo, la ricerca delle responsabilità è meno importante del fatto. Ora il fatto esiste, brutale, inquietante. C’è una rottura, c’è una lacerazione dell’Europa. Dire in queste condizioni che a Parigi è nata una grande speranza, è contrario alla verità delle cose. La Conferenza di Parigi è stata la più grave delusione dalla fine della guerra ad oggi, una delusione che pertanto non comporta soltanto le conclusioni negative di chi pensa e dice: non interessiamoci più della Conferenza di Parigi, non occupiamoci più dell’idea Marshall, né del piano Marshall. Occupiamocene, onorevole Ministro degli esteri, ma valutando i pericoli insiti nella situazione che è grave per il mondo, per l’Europa e gravissima per noi. Occupiamocene sapendo che se l’Europa dovesse restare divisa in due blocchi opposti, essa sarebbe rovinata.

I paesi dell’Europa occidentale hanno delle economie concorrenti e non complementari. Ognuno di essi produce le cose, le macchine che gli altri producono o vorrebbero produrre. L’economia occidentale è quella che il mio vecchio amico Vandervelde chiamava du cheval vapeur in contrapposto all’economia orientale du cheval animal. La complementarietà è fra le due economie occidentale e orientale.

Se abbiamo coscienza di ciò, allora dobbiamo stare a Parigi, per concorrere modestamente a superare la divisione fra ovest ed est e non cedere alla vanità di vedere nelle conferenze internazionali delle tribune di propaganda. Abbiamo bisogno di ben altro.

Tutto il dramma della moderna politica estera – credo che Sforza sarà d’accordo con me – è nelle parole che ha pronunziato l’altro giorno il Ministro Bevin, rispondendo ai suoi critici, che lo rimproveravano di non aver abbastanza iniziativa, con parole che sarebbero naturali sulle labbra del Ministro dell’industria e commercio e sembrano straordinarie – e non lo sono – su quelle del Ministro degli esteri: «che cosa volete che faccia se non ho una tonnellata di carbone da offrire a nessuno?!».

Questa è la politica estera moderna! Le tonnellate di carbone, le tonnellate di grano, le materie prime, da mettere in competizione: questa la politica estera dei tempi nostri! Noi non abbiamo carbone, non abbiamo materie prime, né grano ma soltanto la forza del nostro lavoro, che dobbiamo cercare di valorizzare al massimo.

Fare una buona politica estera di trattati di commercio, di trattati di emigrazione: ecco ciò che noi vogliamo; capire che l’indipendenza e il prestigio del paese non sono in rapporto con la posizione della poltrona del nostro Ministro al tavolo della Conferenza di Parigi, ma con la rinascita economica del paese. Il materialismo storico non si era mai presa una tale rivincita, in questo campo della politica estera che pareva quello della politica pura!

Ecco, signori, le ragioni della nostra angoscia di fronte alla Conferenza di Parigi. Vera angoscia di socialisti, di europei, soprattutto di italiani, che sanno che il problema dell’Italia non si risolve in occidente, come – del resto – non si risolve in oriente, ma si risolve soltanto se, con i nostri modesti sforzi, possiamo contribuire ad unire l’occidente con l’oriente.

Vorrei adesso richiamare l’attenzione del Governo su cinque problemi.

Il primo è che esso non deve perdere di vista alla Conferenza di Parigi la connessione fra i crediti e il grano americano e i mercati orientali. Non possiamo fare a meno dei crediti americani; non possiamo fare a meno del grano americano; ma non possiamo nemmeno fare a meno dei mercati orientali, perché, coi crediti che ci verranno, o che speriamo ci vengano dall’America, continueremo ad indebitarci rischiando di diventare una Nazione vassalla, mentre è soltanto riconquistando i mercati orientali che possiamo sperare di risanare la nostra economia, comprando non con delle valute, ma con delle macchine, dei tessuti, coi prodotti della nostra industria e del nostro artigianato.

Il secondo è che il Governo deve tener conto degli interessi della nostra industria meccanica e della nostra industria tessile. Si è smentito – lo ha smentito il collega Tremelloni – che esista a Parigi un piano di limitazioni della nostra produzione meccanica, siderurgica e tessile. Però il fatto solo che di ciò si parli dimostra che c’è una tendenza naturale in questo senso.

Non paghi il Governo effimere promesse con la contrazione della nostra produzione industriale e con la rinuncia alla industrializzazione del Mezzogiorno. In questo caso, gli interessi dell’industria sono gli interessi non solo di coloro che amministrano e sfruttano le aziende, ma di milioni di operai. Noi pensiamo alla socializzazione prossima o futura delle industrie, ma si socializza soltanto ciò che esiste. Non si socializza la miseria.

Terzo punto. A Parigi c’è un piano di valorizzazione economica dell’Africa. Ne ha parlato il Ministro Morrison alla Camera dei Comuni, esponendo in questa materia il piano del Governo laburista britannico. Tutta una sezione del piano francese Monnet è consacrata alla valorizzazione dell’Africa. Signori, mi pare venuto il momento di dire che da un piano di valorizzazione dell’Africa, l’Italia e gli Italiani non possono essere esclusi. Ci sono 180 mila famiglie italiane reduci dall’Africa che conoscono nelle nostre città la più nera miseria, che come coloni, come commercianti, come artigiani, come operai hanno dato un contributo insostituibile alla organizzazione della vita economica delle ex colonie italiane. Nessuno, su questi banchi, pensa che l’Italia possa tornare in Africa come potenza conquistatrice, oppressiva, sfruttatrice…

CONDORELLI. Non l’ha mai voluto nessuno!

NENNI. …tutti pensiamo che l’Italia può e deve tornare in Africa come elemento di progresso e di civiltà, come alleata naturale del mondo arabo nello sforzo teso verso l’indipendenza del continente nero.

Il quarto problema è quello tedesco, non nel suo complesso, ma sotto l’aspetto particolare del carbone della Ruhr. Sul carbone della Ruhr ci sono piani di ogni genere: c’è il piano americano, che affida la soluzione alla libera iniziativa, e cioè ai magnati che finanziarono l’hitlerismo e sarebbero felici di ricominciare a farlo; c’è il piano britannico della socializzazione del sottosuolo renano e dei complessi industriali della Ruhr; c’è il piano francese della internazionalizzazione; c’è il piano sovietico dell’unità economica della Germania.

Non c’è un piano italiano, né io ne chiedo uno, visto che i nostri interessi sono limitati. L’Italia non può però rimanere esclusa dalla distribuzione del carbone della Ruhr: sia pure per via di compensazioni interne fra i paesi europei, l’Italia deve avere la sua quota parte, senza di che la ricostruzione italiana resterebbe esclusivamente affidata alle importazioni del carbone americano troppo caro e troppo lontano.

Signori, mi rimane da parlare di un ultimo punto, il più essenziale, quello del nostro avvenire come Paese indipendente. Se noi mettiamo un dito nell’ingranaggio dei blocchi contrapposti, finiremo per essere trascinati. La difesa di un popolo povero e la difesa di un Paese disarmato è nella sua neutralità politica. Noi domandiamo al Governo una politica di neutralità. Noi domandiamo al Governo di non assumere impegni politici all’ovest; noi gli domanderemmo, se fosse necessario, di non assumerne all’est. Noi domandiamo una strenua difesa della neutralità che ci è imposta dalla storia e dalla geografia, Posti al limite di due civiltà, noi non possiamo interamente identificarci né nell’una né nell’altra.

Negli ultimi cinquant’anni, il destino del nostro popolo e della nostra Nazione è stato tradito e fuorviato dalle classi dirigenti tutte le volte che hanno voluto incorporarci in un sistema di alleanza contro un altro.

L’onorevole De Gasperi parlava recentemente, nel suo discorso di Trento, della fama di machiavellismo che ci siamo fatti in Europa e nel mondo. Da che deriva? Da una duplicità dei nostri ideali, da una perversità dei nostri costumi, dalla malafede dei nostri uomini politici? No, deriva dalle contradizioni in mezzo alle quali ci siamo dibattuti e che non abbiamo mai potuto risolvere in un sistema politico determinato di alleanze.

Ci fecero aderire alla Triplice alleanza, e nel 1900 dovemmo correggere la Triplice con giri di valzer a Parigi e a Londra, per poi nel 1914-15 passare, in piena guerra, ad altre alleanze.

Mussolini ci condusse all’Asse e per uscirne dovemmo, in piena guerra e in piena disfatta, cercare protezione ed aiuto presso le Potenze stesse contro le quali il nostro Paese era stato trascinato in guerra.

Sono abbastanza obiettivo per dire che una politica contraria avrebbe dato gli stessi risultati. E allora domando: onorevoli colleghi, vogliamo ricominciare fra occidente ed oriente le oscillazioni che la nostra politica ha conosciuto fra la Triplice alleanza e l’Intesa cordiale, fra l’Asse e gli Alleati della grande guerra?

Se noi facessimo questo, ci condanneremmo a divisioni interne che paralizzerebbero i nostri sforzi di rinascita e torneremmo ad essere sul piano internazionale una foglia sbattuta una volta verso un blocco, una volta verso l’altro blocco. Da un simile tragico destino ci può salvare soltanto una politica che porti il suo modesto contributo al tentativo della pacificazione europea e che non prenda impegni politici nel conflitto fra le grandi Potenze.

Signori, ho letto un discorso attribuito al signor Eden. In esso si dice che se la guerra scoppiasse, i primi paesi a farne le spese sarebbero la Finlandia e l’Italia. Credo che nel pensiero dell’ex ministro Eden ciò significhi che noi saremmo immediatamente occupati dalle potenze occidentali per diventare un campo di battaglia, una pista di lancio della guerra aerea, un deposito di bombe atomiche e quindi un bersaglio di bombe atomiche. Basta affacciare una simile ipotesi per diffidare di ogni atto della nostra politica interna ed estera il quale dia un’impressione di parzialità o di presa di posizione per gli uni contro gli altri. Ecco perché noi riteniamo che non è possibile ratificare, oggi, il Trattato di pace, quando la nostra ratifica può dar luogo al sospetto che prendiamo posizione nell’urto fra le potenze. Ecco perché alla fine, come all’inizio del mio discorso, a nome del gruppo socialista ripeto: Saremmo grati al Governo se accettasse la sospensiva. Voteremo la sospensiva. Ma se il Governo non l’accettasse, gli lasceremo allora la responsabilità di una decisione che, presa in un momento propizio, poteva e potrebbe unire tutti gli italiani nella coscienza della ingiustizia patita e nella volontà della rinascita; ma che, presa oggi, ci divide all’interno e ci rende sospetti all’estero. (Vivissimi applausi a sinistra – Congratulazioni).

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che gli onorevoli Bennani, Grilli, Vigorelli, Moscatelli, Ghidini, Canevari, Treves, Bocconi, Badini Confalonieri e Cifaldi hanno chiesto la chiusura della discussione. (Applausi).

Pongo ai voti tale proposta, avvertendo che, ove sia approvata, tutti gli oratori iscritti decadono dal diritto; potranno solo parlare, per un tempo massimo di venti minuti, i presentatori degli ordini del giorno non svolti, salvo le repliche della Commissione e del Governo.

Pongo ai voti la proposta di chiusura.

(È approvata).

Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che mi è pervenuta la seguente lettera:

«Onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente, La prego di comunicare all’Assemblea le mie dimissioni dall’ufficio di Vicepresidente. Con osservanza. – Giovanni Conti».

Voci. No, No!

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Questa mattina l’onorevole Corbino ha avuto occasione di invitare la Assemblea, e l’Assemblea gli ha dato immediatamente cordiale consenso, a far sì che l’onorevole Conti non mettesse in atto il proposito che aveva manifestato.

Oggi, di fronte alla lettera formale di dimissioni, noi desideriamo esprimere il rammarico che il nostro collega abbia voluto trarre tali conseguenze da un incidente che vorrei chiamare quasi banale, perché non ha comunque l’importanza che può essergli stata attribuita in un momento di eccitazione. E preghiamo il Presidente della Assemblea di farsi interprete presso l’onorevole Conti del nostro voto unanime che egli rimanga al posto finora da lui tenuto con tanta imparzialità e capacità e con senso così vivo del decoro di questo consesso. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. Mi associo, a nome del Gruppo parlamentare socialista, alle parole pronunciate dall’onorevole Gronchi.

Vorrei proporre all’Assemblea di respingere le dimissioni presentate, come manifestazione della nostra solidarietà e come affermazione di quella stima che abbiamo per l’onorevole Conti. (Vivissimi applausi).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Devo ripetere quanto ho avuto occasione di dire questa mattina a proposito del nostro collega Conti e pregarlo, a nome di questo settore, di recedere dal suo proposito, continuando a rimanere nel suo ufficio. (Applausi).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. II Gruppo comunista si associa alle parole espresse all’indirizzo dell’onorevole Conti e dichiara che, se le dimissioni venissero mantenute, nella nomina per un nuovo Vicepresidente, voterebbe ancora il nome dell’onorevole Conti. (Vivissimi, generali applausi).

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Anche a nome del Gruppo liberale, esprimo lo stesso desiderio e lo stesso invito. (Applausi).

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. A nome del mio Gruppo, mi associo alle parole espresse dai precedenti colleghi. (Applausi).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta formulata dai vari oratori, che le dimissioni presentate con questa lettera dall’onorevole Conti non vengano accettate e che l’onorevole Conti sia riconfermato al posto che ha tenuto finora con così piena approvazione da parte dell’Assemblea.

(La proposta è approvata all’unanimità – Vivissimi, generali, prolungati applausi).

La seduta è sospesa per alcuni minuti.

(La seduta, sospesa alle 19.25, è ripresa alle 19.45).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio:

Presenti e votanti   439

Maggioranza         220

Voti favorevoli      358

Voti contrari            81

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Beffato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Costa – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo –Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Germano – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Vererin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzatto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo– Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sapienza – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti– Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Vinciguerra – Vischioni.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zappetti – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca.

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’onorevole Selvaggi ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente italiana, di fronte al Trattato imposto e alle sue iniquità, eleva una solenne protesta nel nome dei morti, dei nostri figli, di questa Italia la cui vita esuberante e le cui forze di ripresa sapranno dimostrare al mondo di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito».

Ha facoltà di svolgerlo.

SELVAGGI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho aderito volentieri alla richiesta di chiusura della discussione, perché mi è parso che tutti gli argomenti possibili siano stati sufficientemente trattati.

Questo dibattito non è stata una discussione sul Trattato di pace, poiché la tesi sostenuta da tutti noi è stata sempre che si trattava d’un Trattato imposto e che pertanto non poteva essere discusso, ma, se mai, subito e non accettato, ma è stata una discussione sulla politica estera; sulla politica estera di un triennio, poiché noi dobbiamo partire dalla data dell’8 settembre, per vedere quale politica estera è stata fatta, per domandarci se era possibile ottenere un Trattato migliore.

Noi dovevamo scontare e pagare una sconfitta militare, ma dovevamo anche domandarci se, coi sacrifici fatti dal popolo italiano dopo l’8 settembre, si poteva ottenere qualcosa di meglio, qualcosa che meno offendesse la dignità della nostra Nazione.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, ci furono due fatti importanti: la dichiarazione di guerra alla Germania e la cobelligeranza, e poi l’accordo Prunas-Russia.

Il primo fu un atto positivo autonomo, la prima iniziativa che l’Italia prendeva dopo l’armistizio-capitolazione; ed infatti fu seguito da una dichiarazione, anzi, dall’impegno di Quebec, fra Roosevelt e Churchill, che l’armistizio sarebbe stato modificato in relazione all’apporto italiano alla guerra contro la Germania.

Il secondo atto, il riconoscimento da parte della Russia del Governo italiano, anch’esso atto autonomo, fu negativo e influì sulla successiva politica estera italiana, perché insospettì l’altra parte, gli anglo-americani.

A questo punto s’inserirono i Comitati di liberazione nazionale ed i Governi che ne furono l’espressione.

La prima dichiarazione di politica estera l’abbiamo nel settembre del 1945, quando l’onorevole De Gasperi tornò da Londra e da Parigi. Egli disse allora: «Nulla è pregiudicato». Ed il popolo italiano si mise nella euforica aspettativa che ben poco gli sarebbe stato tolto. Questo fu errore grave di impostazione della nostra politica estera e dei nostri contatti diplomatici; infatti nel gennaio del 1946 l’onorevole De Gasperi doveva dichiarare che egli non aveva carte. Noi ci eravamo messi nella nostra azione di politica estera su di un piano, che era stato un piano della propaganda dei vincitori, piano che voleva dividere l’Italia dal fascismo, e non ci eravamo accorti che i nostri vincitori erano passati, appena ottenuta la vittoria, sul piano cinico della realtà, sul piano del Vae victis!. Noi ci battevamo: mea culpa, ci accusavamo di colpe non nostre, dimostravamo di rassegnarci a dover subire ogni qualsiasi imposizione.

La difesa della nostra politica estera non è stata unilaterale. L’onorevole Togliatti ieri e l’onorevole Nenni oggi hanno detto che è stata unilaterale. Se fosse stata unilaterale, sarebbe stata una politica nazionale nell’interesse dell’Italia, mentre non ha potuto essere nazionale, proprio perché i Governi non erano uniformi; erano discordi i partiti al Governo ed hanno impedito una politica nazionale e lineare. È molto facile oggi esprimere delle critiche, dire che la colpa è dell’onorevole Bonomi e dei circoli che gli erano intorno. Ma se i Comitati di liberazione nazionale avevano tutto in mano, quali altri circoli potevano impedire una politica nazionale? Anche nel settore diplomatico, non si è stati sufficientemente efficaci. Cosa si è controbattuto alla propaganda slava, che ha riempito e, direi, letteralmente inondato i circoli politici inglesi ed americani di pubblicazioni sulla Jugoslavia? Noi abbiamo contrapposto un modestissimo «Libro bianco» e non ci siamo accorti che la propaganda slava – che ancor oggi è forte proprio in Inghilterra – è riuscita a far entrare nella testa di molti che la Venezia Giulia non è territorio italiano ma è territorio slavo.

Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il 25 luglio, che cosa ha significato l’8 settembre, cioè l’apertura di quella fortezza europea che gli stessi americani credevano impossibile ad effettuare.

Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il contributo di sangue versato dagli italiani dopo l’8 settembre, da parte delle truppe dell’esercito regolare, della marina, della aeronautica, da parte dei patrioti, i quali non hanno fatto il giuoco del cavallo vincente, perché non si affrontano i plotoni di esecuzione se non per ideali altissimi, quali quello della libertà e quello della patria. Si continuò a recitare il mea culpa dinanzi a Tito, la cui vittoria era costata il sangue di ventimila soldati italiani.

Contemporaneamente, a Vienna, un Governo messo a capo di un popolo che ha fatto fino in fondo la guerra nazista, avanzava pretese territoriali nei nostri confronti e manovrava tra le contrastanti forze d’Europa. Ma non si era nemmeno tentato di fare quello che altri popoli hanno fatto: un Governo in esilio al quale tutti gli italiani avessero potuto appellarsi ed avvicinarsi. Questo chiedo in modo particolare all’onorevole Sforza, che ancora nel 1942 dava garanzia a nome altrui.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Mai!

SELVAGGI. Sì, e la lettera al Re d’Italia?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È un falso!

SELVAGGI. Ne prendo atto. L’onorevole De Gasperi dunque disse: non abbiamo carte! Ma in quella tremenda partita di poker che è la politica internazionale, dichiarare prima ancora d’iniziare il giuoco una cosa come questa è, a mio giudizio, estremamente grave. Soprattutto quando si ha a che fare con dei carnivori dalle mandibole possenti quali erano coloro che volevano assidersi a nostri giudici. Credo che mai un Governo si sia trovato da vinto in posizione più favorevole di quella in cui si è trovato il Governo italiano, fra potenze divise da ambizioni antitetiche ed inconciliabili, tra le quali – ripeto la frase pronunciata nel suo discorso dell’altro giorno dall’onorevole Sforza – «il nostro Trattato costituiva un compromesso ed un atto di pace». Eravamo cioè soggetto e non oggetto: eravamo elemento indispensabile per questo compromesso e per questo atto di pace. Riconosco e do atto che l’eredità, che è stata assunta dai Governi che hanno preceduto l’attuale, è stata dura, ma ciò nonostante resta il fatto che noi siamo andati a Londra e a Parigi con il saio dei penitenti, mentre avremmo potuto additare con l’indice molti di quelli che si erigevano a nostri giudici e che potevano essere al banco degli accusati come noi, perché essi avevano civettato con il fascismo e con il nazismo. Basti il ricordo di Monaco del 1938, quando fu tradita l’Europa intera.

Ma, a parte il 25 luglio, la cobelligeranza e la dichiarazione di guerra, due carte c’erano: la promessa fatta durante la guerra dalle nazioni alleate ed associate, e la dichiarazione di Quebec che erano un vero e proprio patto, un do ut des, perché da parte nostra si entrava in guerra contro la Germania e ci si disponeva a versare dell’altro sangue; dall’altra parte si prendeva l’impegno di modificare gradualmente le clausole dell’armistizio in relazione al nostro sacrificio. Ma vi sono anche dei dati precisi.

Dopo l’8 settembre, i tedeschi hanno fatto 600.000 prigionieri italiani; di questi 30.000 sono morti in campi di concentramento e soltanto 23.000 hanno aderito ai nazisti. Per contro, dei 700.000 prigionieri in mano inglese, 578.000 hanno chiesto, dopo l’8 settembre, di poter collaborare e cooperare alla guerra. Questo era l’indice dell’orientamento di un popolo.

Non esistette praticamente una politica estera, perché le lotte interne, perché quella politique d’abord di Nenni, avevano la preminenza di fronte agli interessi nazionali verso l’estero.

E così siamo giunti a quel fatale giorno della firma; ma dobbiamo domandarci se dal punto di vista della politica interna, se dal punto di vista degli strumenti diplomatici, siamo stati all’altezza della situazione. Indubbiamente, un nesso vi è fra politica interna e politica estera, se non così stretto come lo si vuol fare apparire. Troppo ci si è fidati che il democratico cristiano Bidault potesse favorire il democratico cristiano De Gasperi e il laburista Bevin il socialista Nenni. Signori, questi uomini, prima di essere uomini di parte, sono uomini del loro Paese. Bevin è prima inglese e poi laburista. Dobbiamo imparare anche noi ad essere prima di tutto italiani e poi uomini di parte.

JACINI. Non abbiamo niente da imparare.

SELVAGGI. Abbiamo da imparare, onorevole Jacini.

Al momento della firma, l’onorevole De Gasperi si assunse una gravissima responsabilità, della quale gliene ho dato e gliene do atto: fu un atto di coraggio. Non so però se in quest’atto di coraggio non ci sia stato anche un certo senso di paura, che non arrivassero aiuti e rifornimenti.

E poi vi era una speranza: la speranza della revisione. Lo disse egli stesso nelle dichiarazioni che fece in quel momento, che nel lasso di tempo che sarebbe intercorso fra la firma e la ratifica qualcosa avrebbe potuto modificare le clausole dell’armistizio. Non mi pare che molto si sia modificato. Viceversa, temo che se la ratifica viene presentata sotto lo stesso aspetto, con la stessa speranza, avremo delle forti disillusioni, e le disillusioni sono molto, molto pericolose.

E siamo al punto della ratifica. Sono state analizzate un po’ da tutti le ragioni addotte dal Governo il quale chiedeva con urgenza, con immediatezza che si procedesse alla ratifica. Si chiedeva questo per un complesso di ragioni che vanno dal piano Marshall, che era imminente, all’O.N.U., ad una politica autonoma, ad un fatto politico e non ad un fatto giuridico. Mi sembra che tutti questi argomenti siano un po’ caduti e la riprova è data dalla nuova formula che ci viene presentata per la ratifica. Non si tratta più di ratificare, quindi di eseguire, ma si tratta di prendere un impegno di eseguire ad una data, che non sappiamo quando sarà. Cioè, non c’è più l’urgenza, non c’è più l’immediatezza.

Due soli aspetti degli argomenti presentati dal Governo vorrei chiarire. Il primo è quello che si riferisce alle pressioni che possono essere venute per questa ratifica nostra. Ma, a questo proposito, io vorrei domandare: di fronte a queste pressioni, è stato chiesto se veramente chi ce le faceva riteneva che la ratifica fosse nel nostro interesse o non riteneva, invece, che fosse precisamente nell’interesse proprio?

E se così era, dovevamo contrattare qualche garanzia. Dovevamo, cioè, per esempio, chiedere una interpretazione di quel famoso articolo 90: dovevamo chiedere che ci fosse accordato un termine dalla ratifica russa dopo del quale poter trattare direttamente. Allora sì che io avrei capito un principio, un inizio di revisione.

Certo, può darsi benissimo che ci siano delle ragioni segrete, riservate che noi non conosciamo. L’onorevole Sforza ne ha fatto anche un vago accenno. Ma, se ci sono, l’onorevole Sforza avrebbe dovuto chiedere una seduta segreta per riferircene. C’è un precedente poi che mi autorizza a formulare una ipotesi di questo genere; ed è il precedente del Trattato di Rapallo, con la clausola segreta su Porto Barros che fu conosciuta soltanto dopo che l’onorevole Sforza l’aveva smentita.

L’altro punto riguarda la nostra entrata nell’O.N.U. In verità, onorevoli colleghi, troppe illusioni noi ci facciamo a proposito di questa entrata nell’O.N.U. Prima di tutto è da osservare che, per i due articoli 53 e 107 dello Statuto dell’O.N.U., noi siamo in condizioni di potervi entrare soltanto in una patente condizione di inferiorità, perché vi possiamo entrare soltanto come Stato nemico, neppure come ex nemico. In secondo luogo, l’O.N.U. non è fatta, come si crede, per la revisione o – come dice l’onorevole De Gasperi – per lo svuotamento dei Trattati; essa è invece fatta proprio, tutto al contrario, per il mantenimento dello status quo.

L’O.N.U. esclude quindi per statuto ogni possibilità revisionistica per quello che concerne questo nostro infausto Trattato. Forse l’onorevole Sforza, quando ci ha parlato di questo, ha pensato allo statuto della Società delle Nazioni; all’articolo 141, se non erro, che prevedeva la revisione dei Trattati che fossero risultati non applicabili.

Si è poi parlato anche del discorso di Truman: ma, onorevoli colleghi, il discorso di Truman non è che un’opinione personale del medesimo. Si afferma solo un principio che i vincitori, specie se soddisfatti, non comprendono. E allora che cosa resta? Non restano che delle speranze e delle prospettive. C’è un solo punto che, a mio parere, è fondamentale a sostegno della tesi che l’onorevole De Gasperi ci presenta ed è il nesso logico tra la firma del Trattato e la ratifica del Trattato. Se infatti la firma del Trattato, da parte del Governo, è stata un atto sostanziale – ed è per questo che noi a suo tempo ci siamo dichiarati contrari – la ratifica non costituisce che un atto complementare e formale in quanto ci siamo già impegnati.

Ma la nostra ratifica non rende ancora perfetto il Trattato. Non lo rende perfetto, perché esso deve essere anche ratificato da tutte e quattro le grandi Potenze. Ora, ci si è domandato perché la Russia non abbia ancora ratificato; la Russia, come ebbe a dichiarare Molotov, ha considerato il nostro Trattato come il migliore che l’Italia potesse avere. Quindi questo significa che è anche passibile di peggioramento.

Quali problemi si sono aperti oggi per la Russia, e che impongono ad una diplomazia esperta, come quella russa, di avere delle carte in mano? C’è ancora il problema austriaco, il problema tedesco, il problema di Trieste che si regge soltanto sull’accordo Tito-Morgan, che lascia quella zona aperta all’infiltrazione slava e chiusa all’italianità.

L’onorevole Nenni ha domandato – se per caso gli Stati Uniti non avessero firmato – se l’onorevole De Gasperi ci avrebbe chiesto la ratifica del Trattato. Io sono contro la ratifica, in ogni caso, ma vorrei chiarire questo punto. Se si tratta dell’interesse italiano, se si tratta, cioè, di fare qualche cosa che sia utile al Paese, se, cioè, proprio la mancata ratifica russa – e quindi un rinvio o una nostra mancata ratifica – possa significare un danno per il nostro Paese, allora, la tesi dell’onorevole De Gasperi è esattissima, cioè la ratifica è necessaria.

E ciò, in relazione alla situazione che si è verificata col piano Marshall. Il piano Marshall è stato definito dall’onorevole Sforza una improvvisazione anglosassone. Effettivamente, dal modo come si sono svolte le cose, si è trattato di una improvvisazione tecnica – per lo meno – ma non credo politica.

Che cosa è questo piano Marshall o che cosa dovrebbe essere?

A mio parere, esso ha due aspetti, uno squisitamente economico, e risponde ad una frase che è stata abbastanza usata: aiutati che il ciel ti aiuta. L’America ci ha detto: «Io posso venirvi incontro e darvi quello che vi serve, ma mettetevi d’accordo». Ma questo l’America l’ha detto a tutta l’Europa, compresa la Russia. Se un disaccordo c’è stato a Parigi per questo piano Marshall, per cui questo si è limitato ad una parte dei paesi europei, questo è stato un disaccordo su un problema politico.

Ma, allora, noi abbiamo un compito che possiamo bene eseguire, proprio fra questi due blocchi che si sono formati fra l’occidente e l’oriente; ma sia chiaro che il blocco occidentale si è formato perché preesisteva un blocco orientale slavo, che si era formato già da tempo e che non è di oggi.

Non dimentichiamo che questa situazione è molto analoga a quella del 1912, quando il panslavismo intendeva formare il blocco di tutti i popoli slavi.

Di fronte a questa situazione, noi abbiamo un problema, ed è quello di far sì che questo piano si mantenga sul terreno economico, che è quello al quale possiamo contribuire col nostro lavoro ed è quello dal quale possiamo avere quegli aiuti che ci sono indispensabili, perché, quello che ha impressionato favorevolmente a Parigi, è stata la Fiera di Milano e la Mostra ferroviaria di Roma, che sono stati gli indici della capacità di ripresa del nostro popolo, capacità che molti ci invidiano.

Dobbiamo inserirci in questo piano ed essere presenti in questo programma economico, insistere perché esso sia aperto a tutti, perché se tutti potranno entrare in questo programma economico generale, anche i problemi politici saranno superati e forse allora soltanto il nostro contributo sarà decisivo e potremo conciliare un’antitesi fra i due blocchi, che noi soprattutto dobbiamo temere. Perché noi la revisione l’avremo, perché i vincitori dovranno rendersi conto, di fronte alla storia, che hanno assunto una terribile responsabilità, quella di privare un popolo di territori che sono entro i confini che Dio ha dato a questo popolo, e che sono stati conquistati col sangue di 700.000 figli!

Oggi, mi pare che il problema si ponga in termini molto chiari. Se, prima che questa discussione si fosse iniziata, si poteva ancora parlare di rinviare la questione della ratifica, non mi pare che questo problema possa sussistere oggi. Abbiamo discusso per una settimana sulla politica estera; abbiamo anche discusso sulla ratifica o meno o sul rinvio della ratifica; oggi il problema di un rinvio, a mio parere, non si pone più: oggi ognuno deve assumere di fronte alla propria coscienza, per coerenza politica, la propria responsabilità, per un «sì» o un «no», si ratifica o non si ratifica. Non è più il caso di rinviare; non faremmo una figura seria di fronte all’estero – e questo dibattito ha valore di fronte al mondo più ancora che di fronte al nostro Paese – se noi ancora rinviassimo questa discussione o la decisione su di essa.

Appunto perché il Trattato è un Trattato imposto, che noi subiamo, non dobbiamo dubitare della buona fede di chi si assume la responsabilità della ratifica o di chi si assume la responsabilità di dire «no» alla ratifica. È per tutti, credo, il più doloroso sacrificio che si possa fare; sacrificio dal quale, però, dobbiamo augurarci che sorga una nuova era di pace all’interno e nel mondo intiero.

Questa responsabilità di un «sì» o di un «no» spetta all’Assemblea per diritto suo: è nella sua legge istitutiva. Non è un problema politico, non è un problema di Governo; è un diritto dell’Assemblea; è una responsabilità nostra, di fronte alla quale noi ci troviamo individualmente, un problema di coerenza, un problema morale.

Di fronte a questo problema morale, io dichiaro che non posso ratificare, che sono contro la ratifica, perché ritengo che la revisione potrebbe venire soltanto non ratificando, perché ci sono due articoli che offendono la dignità degli italiani, la dignità dei nostri morti: l’articolo 15 e l’articolo 16 che riguardano coloro che hanno tradito mentre i nostri soldati combattevano e morivano.

Tuttavia io credo che, di fronte all’interesse generale del Paese, di fronte alla dignità nostra, noi possiamo, noi dobbiamo, al di sopra delle fazioni che ci dividono, trovare un denominatore comune; e su questo denominatore comune che è l’oggetto dell’ordine del giorno da me presentato, elevare la nostra protesta contro tanta iniquità che è stata perpetrata ai danni del popolo italiano: una protesta nel nome dei nostri morti, dei nostri figli, di questa Italia, la cui vita esuberante e la cui forza di ripresa sapranno dimostrare al mondo intero di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Saragat ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, subendo lo stato di necessità e in considerazione dei superiori interessi solidali della Patria e della pace, approva il testo dell’articolo unico presentato dal Governo.

L’onorevole Saragat ha facoltà di svolgerlo.

SARAGAT. Signor Presidente, non mi è possibile riassumere in venti minuti gli argomenti a sostegno dell’ordine del giorno che ho presentato. Sono quindi costretto a rinunciare a parlare, riservandomi di chiedere la parola in sede di dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente, non essendo ancora il Trattato diventato esecutivo per il difetto delle condizioni richieste dall’articolo 90, delibera di rinviare l’approvazione del disegno di legge».

L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha facoltà di svolgerlo.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. La dichiarazione fatta dall’onorevole Saragat mi crea un caso di coscienza, perché l’onorevole Saragat ha detto che, non potendo osservare il limite dei venti minuti, preferisce rinunciare ora alla parola e parlar dopo per dichiarazione di voto: il che fa supporre che la dichiarazione di voto non abbia limiti di tempo. (Commenti).

Ora, io mi trovo in condizioni perfettamente simmetriche: quindi, o rinuncio alla parola, riservandomi di parlare in sede di dichiarazione di voto…

Voci. No! No!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …oppure parlo ora, ma non in venti minuti.

Voci. Parli! parli!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io mi permetto di fare alcune osservazioni. Problemi di questo genere si risolvono in via di consenso; ma evidentemente non in via di un accordo di carattere personale, a meno che non restiamo d’intesa che il Regolamento non vale per nessuno. È evidente che io non desidero – e l’ho dimostrato – restare nell’orbita del tempo rigidamente stabilito, ma suppongo che, se la chiusura è stata chiesta e votata, ognuno che l’ha chiesta e specialmente ognuno che l’ha votata sapeva ciò che essa avrebbe significato.

Di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat, l’onorevole Orlando a sua volta ha tratto delle conseguenze. Se l’onorevole Orlando parlasse – come egli ha diritto di parlare – ma molto al di fuori di quell’ambito di comprensione che ognuno di noi ha sempre dimostrato, specialmente nei confronti dei nostri colleghi che chiamerò maggiori, è evidente che si porrebbe a me personalmente il problema di coscienza di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat.

E vorrei precisare a questo proposito che è evidente che non si può fare, in sede di dichiarazione di voto, ciò che non si può fare in sede di svolgimento di un ordine del giorno. La dichiarazione di voto è ancor più stringata e riassuntiva che non lo svolgimento di ordini del giorno. È evidente che la dichiarazione di voto è uno svolgimento che ha altro tipo di struttura che non lo svolgimento dell’ordine del giorno, ma proprio quel suo tipo di svolgimento dev’essere contenuto in un limite minore che non lo svolgimento dell’ordine del giorno.

Ciò ho voluto dire perché – l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele me lo insegna – la legge che il Parlamento si dà per il suo funzionamento ha una sua ragion d’essere e, come ogni legge più ampia, ha un valore impegnativo.

Detto questo, do facoltà di parlare all’onorevole Orlando Vittorio Emanuele per svolgere il suo ordine del giorno.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Da parte mia, prendo impegno di contenermi entro quel tempo in cui si usa o si tollera che si vada al di là dei limiti fissati. (Si ride – Applausi).

E allora, secondo il titolo di un famoso monologo, condensiamo.

Argomenti di esordio ne avrei parecchi.

Per esempio, vorrei spiegare come, a proposito del Trattato di Versaglia, avesse ragione Nitti quando diceva che poteva firmarlo e non volle, e avevo ragione io quando, alla mia volta, dicevo che potevo firmarlo e non volli. Ed ecco. Io, come Presidente del Consiglio, provochi la crisi il 19 giugno del 1919 e mi succedette il Ministero Nitti, costituitosi il 23 giugno o il 29 giugno, a Parigi si firmava il Trattato di pace colla Germania. Io avrei dovuto firmarlo come Presidente della Delegazione, poiché rappresentavo l’Italia alla Conferenza, non per la mia qualità di Presidente del Consiglio, ma per le credenziali che mi affidavano la Presidenza della Delegazione. Nitti, nuovo Presidente del Consiglio, poteva, e normalmente avrebbe dovuto, esonerarmi senz’altro da questo mandato specifico per assumerlo egli stesso col suo Ministro degli esteri. Preferì correttamente di lasciare a noi il compito della firma conclusiva, dato che noi avevamo operato e, direi, sofferto, durante tutto il periodo della preparazione; la sostituzione come delegati avvenne subito dopo la firma. In questo senso, dunque, è giusto dire che egli preferì di non firmare. In conseguenza di ciò, io, alla mia volta, avrei dovuto firmare come Presidente della Delegazione, qualità che avevo serbata sia pure per quei pochi giorni. Or io ero a Roma, dove ero venuto per la crisi; ma l’apporre la firma a un documento storico di così enorme importanza avrebbe indotto a sacrifici di gran lunga maggiori del viaggio che sarebbe occorso per recarmi a Parigi. Invece, io preferii non muovermi da Roma e in questo senso può dirsi che non volli firmare quel Trattato. Il che indica pure che non l’ammiravo affatto; ma se, a questo punto, spontanea viene la suggestione del confronto di esso con l’attuale documento, di quanto si avvantaggia il primo! Non sarebbe però questo un momento adeguato per tali discussioni. Meglio è parlarne in altra sede.

Avrei pure voluto, in questa occasione, parlare a proposito di quella famosa frase «la guerra continua» del manifesto badogliano, la cui origine mi è stata attribuita, dapprima in maniera obiettiva, poi con commenti estensivi di una disapprovazione, necessariamente vaga, perché dietro quelle tre parole non c’era altro. Or io riconosco alla stampa, in tutte le sue forme, come giornale, come diario, come storia, come politica, riconosco il diritto di ricostruire fatti e di esprimere giudizi come meglio o peggio creda. Non riconosco però il diritto di chiamare davanti a sé l’uomo politico come un incolpato che debba giustificarsi. Di fronte a tutto quanto si è potuto dire a proposito di tutta la grande storia cui ho partecipato, io rispondo, se lo credo, quando lo credo, e, soprattutto, in quella sede che mi appare legittima. Nel caso attuale, il momento storico cui si riferiva quel mio intervento era estremamente delicato; complessi e formidabili erano gli argomenti che vi si collegavano. Posso oggi, ma solo oggi, discorrerne qui, al cospetto di un’Assemblea che rappresenta il Paese e in una discussione attinente al tema. Non altrove, né altrimenti.

Con quella brevità imposta dall’ora, dirò dunque che, in sostanza, io che non ebbi più rapporti politici col Re dopo quello che fu il vero colpo di Stato del 3 gennaio 1925; avevo mandato l’ultima avvertenza, nel dicembre del 1924. E diceva quel mio messaggio: finora può il Re riprendere la situazione in mano, e dominarla; d’ora in poi non lo potrà più; prima d’ora sentivo che del mio consiglio si sarebbe fatto a meno, ma senza danno irreparabile; dopo di ora, il consiglio non sarebbe più utile poiché l’autorità della Corona verrà a cessare costituzionalmente, col cessare dell’autorità del Parlamento. Tutti sanno quel che seguì. Non ebbi altri rapporti politici col Capo dello Stato. Con le mie dimissioni nel 1925, dopo la magnifica battaglia antifascista di Palermo, dichiarai di ritirarmi da ogni forma di attività politica, poiché, dissi, la forma di regime non consentiva ad un uomo della mia fede di restare nella vita pubblica, neanche all’opposizione.

Questa lunghissima interruzione dei miei rapporti con la Corona ebbe una parentesi quando si preparava il 25 luglio 1943. Allora fui richiesto di consiglio. In generale, chi dà un consiglio per accondiscendere ad una richiesta, dovrebbe aspirare a questa garanzia minima: che non si cerchi, dopo gli eventi, di riversare sul consigliere una quota di responsabilità di un’azione cui questi non ha partecipato; il che vale tanto più, quando il dare un consiglio costituisce un dovere verso il rappresentante della sovranità dello Stato. Ci fu chi non osservò questo dovere. Comunque, i consigli che diedi non furono seguiti. Non furono seguiti, nel modo con cui l’intervento ebbe luogo. Poiché il trionfo del fascismo si era affermato con un colpo di Stato contro il Parlamento, contro la libertà e contro gli organi costituzionali, io pensavo che vi dovesse corrispondere un colpo di Stato inverso, diretto alla reintegrazione dello stato giuridico violato, e quindi attraverso un intervento della Corona, che sotto la sua esclusiva iniziativa e responsabilità restituisse al Paese quelle garanzie parlamentari e quella libertà statutaria che gli erano state tolte.

Non mi fu detto, né io pensavo, che si sarebbe ricorso ad una forma pseudo-parlamentare di un voto di sfiducia, come sarebbe stata la votazione del 24 luglio in Gran Consiglio, famosa votazione, poi tragica. Gli eventi dimostrarono come l’uso di una tal forma fosse un grave errore, anche a parte ogni riflesso interno, soprattutto nei rapporti internazionali, poiché si determinò un dubbio sulla sincerità della rottura definitiva con il fascismo, essendo il mutamento avvenuto sulla base di un voto dato dai gerarchi e che poteva supporsi derivato da una loro persistente autorità.

Or per l’appunto, in quel momento, la questione più essenziale, questione di vita o di morte, e nel tempo stesso la più delicata e la più pericolosa, era di sciogliersi dall’alleanza nazista e di liberarsi da quella guerra sciagurata: il quale argomento, dunque, era compreso ed anzi dominava nelle conversazioni cui presi parte e per cui preparai, sempre richiesto, bozze di atti o proclami che sarebbero potuti occorrere. Or su quel punto il mio consiglio fu questo: prima fase, prima dichiarazione: la guerra continua e l’Italia non manca agli impegni contratti. Come poteva essere diversamente? Era una questione di onore, che si poneva al di sopra di tutti gli interessi politici e di tutti i pericoli paventati; era anche una questione di tecnica militare, a causa della impossibilità materiale di una immediata separazione fra due eserciti, che avevano combattuto e combattevano insieme. Pensate! In quel momento, combattevano fianco e fianco, proprio nella mia Sicilia, truppe tedesche e truppe italiane. Come potevano, immediatamente, rompersi l’unità del fronte e l’unità del comando?

Prima dichiarazione, dunque: la guerra continua. Ma questa prima fase doveva superarsi rapidissimamente, nelle prime 24 ore. Nelle seconde 24 ore, doveva iniziarsi una seconda fase con questa comunicazione all’Ambasciatore tedesco: «L’Italia non è in condizione di andare avanti; l’Italia deve chiedere l’armistizio. Lo chiederà per voi, non per sé, sacrificando, se occorre, se stessa per tener fede all’alleanza contratta». Come? Chiedendo agli alleati di concedere il tempo tecnicamente necessario, alle truppe tedesche, per ritirarsi: lealtà elementare, necessità militare. Ricordo che indicai un precedente da me vissuto, per dimostrare che gli alleati non potevano rifiutare il loro consenso, poiché l’avevano già dato un’altra volta in condizioni eguali: il precedente dell’armistizio chiesto dall’esercito bulgaro nel settembre del 1919, in cui la Bulgaria aveva curato di stipulare un termine di 15 giorni per dar modo alle due divisioni austriache e tedesche, impegnate nel fronte macedone, di ritirarsi. Termine che fu accordato, proprio da quelle medesime nazioni cui ora si doveva chiedere. Vi era poi un’altra questione, che doveva trattarsi nelle condizioni dell’armistizio: l’occupazione interalleata avvenuta. Noi tenevamo dei territori anche per conto della Germania e così reciprocamente. Questa comunicazione costituiva la seconda fase nelle seconde 24 ore.

Doveva poi seguire la terza fase, con la stessa rapidità. A queste dichiarazioni del Governo italiano doveva darsi pubblicità e diffusione larghissime. Con l’aiuto della radio tutto il mondo doveva conoscerle. Si determinava così per l’Italia una situazione di una lealtà perfetta e, in pratica, la più favorevole, relativamente alle formidabili difficoltà. La Germania, infatti, o poteva aderire, e noi ci saremmo trovati nella più onorevole maniera a trattare con gli alleati un armistizio in quelle chiare condizioni; o la Germania, come per verità io pensavo, si sarebbe orgogliosamente rifiutata, ed allora era la guerra immediata fra noi e la Germania, per una causa nobilissima di perfetta lealtà italiana. E questa guerra noi avremmo combattuta quando in Italia le divisioni tedesche erano cinque o sei, in luogo delle 27, che Hitler vi concentrò, poi, fra luglio e settembre! E ci saremmo trovati spontaneamente accanto agli Alleati; e non avremmo avuto la vergogna e la rovina dell’armistizio!

Questo era il contenuto della mia frase: «la guerra continua». Beninteso: io non intendo trarre da questi ricordi alcuna gloria o semplicemente alcun merito: so bene che altro è un consiglio astratto, altro un’azione concreta. E ne avrei taciuto certamente, come è mio costume, se non fossi stato costretto da una pubblicazione proveniente da una fonte che ignoro e che riferiva quelle parole in forma tronca, interpretata poi da altri in un senso diverso ed anzi difforme dal mio pensiero.

Ma lasciamo stare queste vecchie storie e veniamo al solenne tema odierno.

L’onorevole Togliatti, ieri, nel considerare la situazione italiana, diceva: «dove andiamo?». È un problema angoscioso. Poi egli rispose che andare bisogna con la visione di una politica estera da fare, con un sistema di politica estera da seguire. Vi corrisponde il discorso di oggi dell’onorevole Nenni. «Dove andiamo?». Onorevoli colleghi, è certamente un problema, questo, che può essere di vita o di morte per l’Italia nostra, ma è problema che io non mi pongo; mi giova in ciò la mia vecchiezza, poiché mi mancherà il tempo di godere del meglio o di soffrire del peggio.

Ma la questione del «dove andiamo»? è preceduta da quest’altra: «dove siamo?». E la questione «dove siamo?» è preceduta da quest’altra: «come ci siamo arrivati?». Problemi non scindibili; quando sapremo bene «dove siamo?» avremo necessariamente conosciuto «come ci siamo arrivati?».

Questo secondo problema è per se stesso storico, ma in un certo senso si collega con tutta la politica attuale; però, in questo secondo senso, quando alludo ai nessi della politica passata con quella attuale, vogliate credere, colleghi tutti, in qualunque settore sediate, e voi particolarmente che siete al banco del Governo e che non avete mai potuto concepire dubbi sulla mia lealtà politica e oso aggiungere anche sul mio perfetto disinteresse, vogliate credere che io non intendo menomamente ricercare le colpe o i torti di questo o quel Gabinetto, o Partito, o Ministro, né sollevare dai ricordi delle azioni od omissioni nella storia politica di questo triennio, il problema delle responsabilità. Io penso che sia un ben piccolo argomento, in confronto di così grande tragedia, l’attribuire questa o quella colpa all’onorevole Tizio o all’onorevole Caio. Ma l’esame di tali questioni, se si eleva dalle persone alle cose, ha un’importanza che non si può trascurare senza una leggerezza imperdonabile, e questa importanza si pone sotto due aspetti: 1°) per trarre dal passato il più realistico insegnamento per il futuro; 2°) per servire di guida nella giusta comprensione della situazione attuale. Come ci siamo arrivati?

Sono tre anni di vita vissuti, e quali anni! Per il 1870-71, la Francia trovò e mantiene l’espressione: l’année terrible; per noi sono, invece ben tre questi anni terribili. Cos’è avvenuto in questo periodo così denso di storia, come mai, incomparabilmente, alcun altro periodo? E più particolarmente, cos’è successo che ci riguarda, che ci tocca?

Ahimè! Per varie ragioni, vere e proprie discussioni di politica estera non sono mai in questa Assemblea avvenute. Tutti gli eventi che si sono seguiti, tutti i problemi che vi si collegano – e son tanti e così complessi e così formidabili! – possono dirsi affatto nuovi – non voglio dire ignoti – in questa Assemblea in cui dovrebbe manifestarsi la massima espressione del pensiero politico d’Italia. Ognuno intende come sia impossibile l’esaminare oggi quei problemi anche di sfuggita. E allora ho pensato di trattarne uno solo, semplicemente come un esempio, cioè come mezzo di dimostrazione di un assunto, come un caso che serve ad una dimostrazione. Non ho assolutamente nessun secondo fine, che mi abbia indotto a scegliere questo fra i vari momenti storici attraversati. Non so e non m’importa di sapere chi fosse il Presidente del Consiglio e chi il Ministro degli esteri: mi potrebbero solo interessare quei chiarimenti di fatto, che potesse darmi l’attuale Ministro, non come persona, che non c’entra, ma come capo dell’ufficio rappresentativo della diplomazia italiana. Purtroppo però vi è da ritenere che nulla gli risulti, come implicitamente apparirà dalla stessa esposizione del precedente.

Or, dunque, il 27 luglio 1944 il New York Times (voi sapete l’autorità di questo giornale, il quale non pubblicherebbe notizie di questa importanza senza un sicuro controllo) riprodusse una notizia che proveniva dall’Associateti Press, fonte per se stessa autorevole, che diceva:

«Washington, 26 luglio. Si è appresa oggi una proposta britannica nel senso che gli Alleati stipulino una pace provvisoria con l’Italia, la quale ha ora la condizione combinata di nemica sconfitta e di cobelligerante. Questa proposta è nelle mani delle autorità militari. Il piano prevede la discussione con la Russia e con gli altri Paesi interessati alla sistemazione italiana. Ciò servirebbe a regolare le relazioni dell’Italia con le Nazioni Unite e a chiarire la posizione dei prigionieri di guerra italiani, che furono tanto tempo e così ingiustamente trattenuti.

«Il Governo d’Italia ha chiesto che l’armistizio degli Alleati con l’Italia sia pubblicato, presumibilmente in vista del fatto che la reazione pubblica ai suoi termini forzerebbe una revisione».

Su questa notizia sopravvenne un articolo pubblicato nei giornali del tempo (credo nel Giornale d’Italia) da Don Luigi Sturzo, che si trovava allora in America, nel quale egli diceva: «Mi ricordai allora che alla fine di giugno o al principio di luglio era stato riferito da Londra che il Gabinetto britannico aveva discusso la richiesta del Governo italiano del riconoscimento dell’Italia come alleata, e questo formava il substrato di quella proposta».

Volli profittare della presenza qui dell’insigne uomo ed ho avuto con lui un lungo colloquio proprio in questi giorni. Egli mi ha dato tutti i particolari dei passi da lui allora fatti, recandosi espressamente a Washington, ricorrendo a fonti della cui autorità nessuno vorrà dubitare. La conclusione cui si perviene è sicura: vi fu quella proposta britannica e fu accolta dal dipartimento di Stato americano. E badate alla coincidenza cronologica con altri eventi, onde si può risalire alle cause determinanti. La notizia è data dall’Associated Press il 27 luglio; il 5 giugno 1944 avviene lo sbarco a Cherbourg; il 15 agosto lo sbarco in Provenza; nella stessa estate coincide il risoluto inizio della marcia in avanti degli eserciti sovietici per la cacciata dei Tedeschi dal territorio nazionale.

Quale il rapporto causale fra questi eventi coincidenti nel tempo? Evidente. Quegli sbarchi in Francia erano stati richiesti dalla Russia, che faceva valere verso gli Alleati gli impegni da essi assunti dell’apertura di un secondo fronte in Europa. Il nuovo ingente sforzo militare richiesto dagli Alleati doveva determinare quel rallentamento delle operazioni militari in Italia, il quale culminò nel famoso arresto dell’autunno del 1944, sulla linea gotica. Il fronte italiano era in certo senso abbandonato a se stesso: tragica situazione, cui corrisposero le dichiarazioni di Alexander, tremende, quando disse che la campagna d’Italia aveva ormai il solo scopo di attirare e mantenere in Italia truppe tedesche. Tremende parole, per le quali facilmente poteva prevedersi la sensazione di dolore e di pena, che doveva destare in Italia l’attribuire al nostro fronte la missione di trattenere qui quanti più tedeschi fosse possibile, con un prolungamento, presentato come indefinito, di quella crudele separazione delle due Italie, che virtualmente era guerra civile. Sempre con quel suo proclama, Alexander dichiarò che i partigiani dovevano considerarsi in stato di «smobilitazione». Come si smobilita il partigiano sulla montagna, che è il suo fronte di battaglia? Come può egli tornare a casa se non per consegnarsi al plotone di esecuzione? Tremendo proclama, che dava il senso immediato di un sacrificio immane, che si chiedeva all’Italia, a quell’Italia in cui pur si combatteva, in cui pur sostavano corpi d’armata alleati, che non potevano restare indifesi, tanto più quanto meno potevano essere protetti dall’invio di altre truppe.

Ecco, dunque, il nesso causale che lega quegli eventi: il bisogno, avvertito dagli Alleati, di dare un compenso all’Italia in un momento in cui essa doveva sopportare un così immane sacrificio per una causa che, per ciò solo, diventava più che mai comune. Questo compenso, che spontaneamente prendeva le mosse dalla concessione dell’inestimabile beneficio dell’alleanza, si concretò alla fine nel comunicato di Hyde Park del 26 settembre 1944, dopo un incontro Roosevelt-Churchill, che faceva all’Italia le seguenti concessioni:

1°) la Commissione alleata di controllo si sarebbe chiamata semplicemente «Commissione alleata». Si levava la parola «controllo». Questo fu il primo beneficio. Cospicuo, come ognun vede;

2°) uno scambio di rappresentanti diretti sarebbe avvenuto tra Roma, Londra e Washington; Mosca non aveva aspettato e aveva consentito reciprocità di rappresentanza diplomatica, gratuitamente, sin dal 14 marzo. In ottobre avvenne, con Inghilterra e Stati Uniti, lo scambio degli ambasciatori, che non presentarono però credenziali, come del resto non le hanno presentate sinora;

3°) aiuti sanitari e rifornimenti essenziali all’Italia, mediante l’U.N.R.R.A.;

4°) modifica della legge per il commercio col nemico, in guisa da permettere all’Italia la ripresa dei rapporti commerciali con gli Alleati.

Si aggiungeva che tutti questi provvedimenti avevano lo scopo essenziale di «gettare nella lotta – parole testuali – tutte le risorse dell’Italia e del popolo italiano per la sconfitta della Germania e del Giappone». Quale abisso fra la prima forma (l’alleanza conteneva tutto) e quella finale! Dalla montagna quale piccolo topo era nato! Come avvenne un mutamento così disastrosamente radicale? Temo che di questa storia si siano perdute le tracce e che lo stesso Ministro degli esteri ed il Presidente del Consiglio non ne siano informati. Ma, a parte l’enigma che tormenterà gli storici futuri, vi è una materia viva che qui interessa, come lezione da trarre dalle cose; e a tal fine può bastare un semplice processo induttivo. È certo che la situazione dianzi descritta determinava negli alleati la spontanea suggestione di dare all’Italia un compenso, e quello cui pensarono pure spontaneamente era di un valore inestimabile. Dunque, essi, in quel momento avevano bisogno dell’Italia. Questo proposito in seguito svanisce; dunque, un’altra forza si oppose e prevalse. Ma come si può non pensare che, se da parte dell’Italia fosse stata opposta una resistenza più risoluta, più energica, più decisa a tutto (per esempio, le dimissioni in massa dei Governo, con conseguente impossibilità di sostituirlo), la forza che si oppose a quella prima proposta sarebbe potuta essere superata? Ecco l’utilità dell’insegnamento che deve trarsi dalle stesse delusioni sofferte: la nostra politica è stata sempre quella di accondiscendere; è stata politica di assoluta remissività. Il motto, per cui il rispetto verso un’autorità si circonda di misticismo: Parum de principe, nihil de deo, si rovesciò: parum de deo, nihil de principe… alleato! Se in quel momento si fosse osato e si fosse detto: non possiamo restare in questa condizione di abbandono militare senza che la solidarietà del popolo non ne resti turbata e scossa; occorre una concessione che sia di conforto e di incitamento insomma, se si fosse mostrata allora la decisione energica di chi non vuol soffrire un torto, proprio in un momento in cui gli stessi alleati lo ammettevano spontaneamente, si deve riconoscere che le cose sarebbero potute andare altrimenti. Invece, si è ceduto e questa è stata la politica dell’Italia per tre anni. (Commenti al centro).

Venne assunta e mantenuta un’aria di umiltà sino a vedere i Ministri d’Italia deferire a funzionari relativamente modesti. Del resto, e da un punto di vista più generale, governare sotto il controllo dello straniero, mai! (Commenti e interruzioni al centro). Eh! sì, lo so che c’era l’armistizio, ma non è pensabile una clausola che obbligasse i Ministri italiani ad essere organi sovrani ed uffici subordinati nel tempo stesso! (Rumori al centro). Resistere si poteva e si doveva, anche sotto l’aspetto dell’utilità. Io non escludo, che la politica in una grande storia imponga, nell’interesse dello Stato, atti di remissione, e persino di umiliazione. Per ciò ho detto che non intendo qui far questione di responsabilità contro alcuno. Ci sono momenti in cui l’uomo di Stato si deve umiliare e se obbedisce a questo imperativo, è quello un momento di grandezza per lui. Il verso il mio paese non ho nessun titolo che sia di credito da parte mia… (Interruzioni al centro). Ripeto: non ho verso il mio Paese nessun credito, perché la Patria ha tutti i diritti sopra i suoi figli sino al sacrificio della vita. Eppure, poiché l’onore vale più della vita, per una sola cosa, dico la verità, mi sento creditore verso il mio Paese: l’umiliazione, che consapevolmente dovetti soffrire quando tornai a Parigi dopo la partenza determinata dal famoso proclama di Wilson…

Voci al centro. Eravamo vincitori allora!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Eravamo vincitori; ma quando si tratta di accettare un’umiliazione, vuol dire che le condizioni, in quell’atto stesso, sono simili a quelle dei vinti, non dubitate! (Vivi commenti al centro). Se con queste interruzioni dimostrate di non aver il senso di quella fierezza e di quella dignità, che, soprattutto in certi momenti, un uomo di Stato, rappresentante di un grande Paese, deve imporsi, il resto del mio discorso non è per voi. (Applausi prolungati a sinistra e a destra). Or questa politica di continua remissione… (Interruzione del deputato Aldisio).

GIANNINI. Ma non si può più parlare in questa Assemblea! (Commenti e rumori a sinistra).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io ho il diritto e il dovere di denunziarla. (Interruzioni del deputato Villani). Ho detto e ripeto che non cerco di accusare alcuno né di fare questioni di responsabilità. Aggiungo che considero come un’offesa fatta a me stesso credere che io, per la vita spesa al servizio dello Stato, pretenda di crearmi una situazione di privilegio fra voi. No, interrompete pure quanto volete, ma, almeno, interrompete con intelligenza! (Applausi a sinistra e a destra).

PRESIDENTE. Penso che la cosa migliore sia che nessuno più interrompa né con intelligenza né senza. Prosegua, onorevole Orlando.

VERNOCCHI. Non lo dica a noi.

PRESIDENTE. Lo dico a tutti.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta, come si mantiene tutt’ora nella forma e nel tempo e nel modo con cui si chiede questa ratifica. Badate, ogni spirito o intento di partito è da me ben lontano. Sono politicamente un solo; ma nel tempo stesso nessuno più di me anela all’unione di tutti gli italiani. Nella mia opera, nei miei discorsi, purtroppo inascoltati, ho sempre detto: verso lo straniero, unione; la divisione in partiti è privilegio di un popolo libero. Il mio attuale dissenso con molti di voi non infrange questa unità, poiché dopo la discussione, dopo il contrasto, e la critica, indispensabili ad un giusto giudizio, l’unità si ricompone nell’unità della coscienza collettiva, come avviene nell’unità della coscienza individuale, dopo l’urto di motivi contrastanti nell’individuo stesso. In un certo senso, si può dire che, in ognuno di noi, nel suo foro interno, esista ed agisca un’assemblea parlamentare simile a questa nostra. Di fronte ad una decisione individuale da prendere, noi abbiamo interiormente partiti in contrasto, si agitano discussioni, vi sono perplessità, incertezze; infine, le decisioni di un uomo si prendono per la prevalenza dei motivi, come qui con un voto di maggioranza. Io vi prego di ritenere che in questo momento io sono una parte di voi, così come voi, che mi interrompete, siete una parte di me; qui discutiamo insieme perché dai nostri contrasti sorga una decisione la quale ritrovi la sua unità nella comunione dell’intento: che questa decisione sia la migliore possibile per la salvezza del nostro Paese, per la resurrezione, per la grandezza di esso. Dicevo che vi è questo senso di pavidità quando si parla… de principe, cioè degli alleati. Io non so se Nitti se ne sia andato. (Voci: È qua). Ebbene, quando egli parlava, l’altro giorno, io avvertii un particolare stato d’animo in una parte dell’Assemblea che l’ascoltava; lo avvertii con quella specie di sesto senso, che l’oratore acquista nei rapporti col pubblico: e fra gli oratori mi classifico per quel lungo corso della mia vita che mi ha fatto parlare tante volte a pubblici così diversi e da così varie tribune. Ed io, dunque, avvertii che quando egli fece delle allusioni alla sconfitta francese, vi fu un bisbiglio sommesso, come in un’assemblea di religiosi una frase che desse scandalo. Sì, una sconfitta ci sarà stata, ma il dirlo è un’indiscrezione; si tratta di vincitori e bisogna usare forme riguardose. Badate, i francesi che sono gente di spirito sono essi stessi i primi a riconoscere la gravità di quella loro disfatta e a dedicare tutta una ricca bibliografia sulle cause di essa. Riprendendo il tema di Nitti, dirò anche io che, insomma, i nostri soldati si sono battuti in una guerra ingiusta, infame quanto volete, ma per l’onore della bandiera si sono battuti e sono caduti da valorosi, cui va tutta l’ammirazione e tutto il rispetto, anche dell’avversario. (Applausi a destra).

E il nostro collaborazionismo, effetto puro della coazione nazista, fu molto più limitato per tempo e per spazio; e in quanto ai personaggi più rappresentativi, al nostro Farinacci si contrappone un cardinale Baudrillart, membro dell’Accademia, grande storico o grande patriota, e a Starace si contrappone Charles Maurras, anch’egli della Accademia, uno dei più grandi scrittori francesi contemporanei. Lasciamo stare; la Francia è vittoriosa e noi abbiamo tradito la causa della libertà e dobbiamo essere rieducati alla scuola della democrazia. Cosa volete? La storia ha di questi paradossi. Ma egli è che una vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese. Nessuno, e tanto meno io, contesterà la opportunità dell’adesione nostra all’invito di concorrere al piano Marshall; ma il «sì» pronunciato dall’onorevole Ministro Sforza a Parigi fu, con il colore e il calore della sua parola, aleggiato dallo stesso conte Sforza come pronto, fervido, immediato. È sempre così: nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e di essere ripresi in grazia. Ebbene, in quell’occasione dell’invito a Parigi, l’onorevole Sforza, in sede di Commissione dei Trattati, pronunciò una frase particolarmente felice e giusta, a proposito della quale si verificò uno di quelli che io chiamo plagi involontari, e cioè quando due persone, indipendentemente l’una dall’altra, e reciprocamente ignorandosi, coincidano in un medesimo pensiero e lo esprimano con una medesima frase. Io, infatti, onorevole Sforza, avevo per l’appunto pensato ciò che lei disse e nella forma stessa. Ella disse: ma insomma, a Parigi, valsero assai più che qualunque mia parola, a darmi autorità come Ministro d’Italia, l’Esposizione ferroviaria di Roma e la Fiera Campionaria di Milano. Perfettamente! Ma che cosa significa ciò? Significa che l’Italia vale per quel che è, non per le finezze, le astuzie, l’abilità di una diplomazia flessibile. Or l’Italia è grande, perché è l’Italia: quia nominor leo. Ma bisogna averne il sentimento.

Così, io mi avvicino al problema che per l’abito della remissività pesa su molti qua dentro come un incubo: cosa succederebbe se non si ratificasse? Or la migliore risposta a questa domanda consiste nel ritorcerla: cosa credete che possa succedere di peggio della ratifica stessa?

Riconosco spontaneamente che a questa maniera di considerare la politica estera corrisponde un sentimento che sembra di scarso interesse nel Paese: corrispondenza che giustifica in parte l’Assemblea in quanto organo rappresentativo di questo stesso Paese. In questo momento, si riscontra nel popolo nostro come uno squilibrio, fra il senso che l’italiano ha di sé stesso come individuo in rapporto ad altri individui e il senso che egli ha dello stato della sua Patria come unità collettiva, di cui sente di esser parte. Normalmente tra quei due sensi si stabilisce un equilibrio, come liquidi che si livellano in vasi comunicanti. L’individuo comprende, nel suo complesso psicologico, il senso di grandezza o di miseria dello Stato cui appartiene. Il romano antico, anche se era un proletario, avvertiva con fierezza la potenza della sua Patria: civis romanus sum. L’Italiano del 1943 aveva la tragica visione della disfatta e come rovina individuale e come disfacimento dello Stato. Ma in questi anni successivi questa correlazione è venuta man mano scomparendo. Per le sue qualità, onde nei secoli è stato educato a lottare contro le avversità, l’italiano è venuto migliorando il complesso delle sue condizioni di vita, mentre quelle del Paese, come unità di Stato, son rimaste le stesse: cioè senza effettiva indipendenza e con autorità quasi nulla; e sono precisamente le condizioni che questa cosiddetta ratifica riassume, riconosce e consacra. È umano il desiderio di non esser turbati da ammonimenti penosi e così l’italiano preferisce ignorare in quali condizioni questo orrendo Trattato ponga l’Italia. Da parte sua, il Governo fa il possibile per nasconderle. Da ciò la relativa indifferenza che il popolo dimostra verso questo epilogo della sua tragedia, onde i giornali, che sono i termometri dell’interesse del pubblico verso i vari argomenti, riservano il maggiore spazio della loro prima pagina (e non ne hanno che due) a qualche delitto o processo celebre, al campionato di calcio o al giro ciclistico di Francia. Ma in verità vi dico, o colleghi: diffidate di questa apparente indifferenza, diffidate. Il cervello di questo nostro organismo collettivo è ancora «schoccato», per usare un neologismo brutto, ma espressivo, degli psichiatri; è ancora sotto il colpo tremendo della catastrofe sofferta. Ma guai se si risveglia. Le collere del popolo, quando ha attraversato vicende così atroci, possono essere terribili, specie perché il fondo dell’anima italiana è profondamente patriottico e l’esasperazione di questo sentimento può dar vita a quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo. Ne soffrimmo per ventidue anni e i mali attuali ne sono la conseguenza.

Badate, ripeto. Il popolo attualmente non ha l’idea giusta delle condizioni cui è ridotta l’Italia da questo Trattato, che stiamo discutendo, per ratificarlo senza necessità! E bisogna illuminarlo e soprattutto non fargli credere (e non credere voi stessi) che il resistere all’ingiustizia ci esponga a chissà quali oscuri pericoli, poiché oltre i danni estremi che ci sono stati inflitti, non si potrebbe andare, senza destare l’opposizione invincibile delle stesse gelosie e rivalità internazionali. Anche di ciò posso portare un esempio di un’efficacia incomparabile, di cui dirò le fonti a tutti accessibili, senza che occorra che io le convalidi con altre da me raccolte in Sicilia, che non derivano dalla pubblica sicurezza e che anzi con essa non han nulla di comune, ma che come valore di informazioni non lasciano nulla a desiderare.

Or, nell’Umanità dell’11 luglio 1947, recentissimo dunque, c’era un articolo non firmato – in generale gli articoli vi sono firmati – non firmato, ma scritto da persona di primo piano, che sapeva bene quello che diceva.

Ebbene, questo articolo conteneva un singolare ricordo storico – ripeto che l’autore aveva tutta l’aria di essere bene informato, specialmente di cose inglesi – diceva ad un certo punto: «L’abbandono di parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria…». Notate il significato profondo di questo ravvicinamento della Sicilia con Pantelleria. Piccola isola questa, cara al mio cuore ed a quello di Maffi, che vi fu relegato – ma ne parla con memore ammirazione ed affetto – cara bella isola, ma pur piccola isola in confronto della massima isola mediterranea. Che, dunque, si parli di un controllo sopra Pantelleria, abbinandolo con uno sulla Sicilia, ha un significato eufemistico che fa fremere.

Bene, l’articolo diceva: «L’abbandono da parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria fu dovuto sostanzialmente ad un’azione informativa condotta sull’opinione pubblica, quando a Londra non esisteva ancora ombra di diplomazia italiana».

Dunque, stando a questo autorevole scrittore, ci sarebbe stata quell’intenzione, sì; però una indagine condotta sull’opinione pubblica, persuase che era meglio abbandonarla. Quale opinione pubblica? Quella dell’Italia no, perché l’Italia era divisa in quattro o cinque compartimenti fra loro non comunicanti. L’eufemismo è trasparente, lo si vede come attraverso un vetro, anche per quanto riguarda questa curiosa «azione informativa» condotta su di un’opinione pubblica non altrimenti identificata, che poteva anche essere quella… americana, francese, russa; e allora l’eufemismo significa che questo «controllo» che si sarebbe esteso su tutto il Mediterraneo, non piaceva alle altre… opinioni pubbliche! Fu grazie a questa azione informativa che l’Italia sfuggì ad una minaccia: che sarebbe stata la più grave fra quante hanno pesato su di noi. Ecco, dunque, dove sta una garanzia, forse più forte di tutte e che sostituisce le carte che mancano. Ecco la risposta alla domanda: che cosa succede se rifiutiamo la ratifica? Succede che resta l’Italia, alla quale ben può dirsi che sia capitato il peggio sotto forma di questo Trattato, che è feroce, ma che segna pur tuttavia un limite al di là del quale ogni ulteriore pretesa straniera viene contenuta dallo stesso gioco delle aspirazioni, delle gelosie, delle rivalità internazionali.

Ma, riprendendo nei suoi sviluppi l’accennato episodio così significativo, esso ha pure delle coincidenze con un articolo, di cui non ho conservato la data, ma è qui presente l’autore. È un mirabile articolo nella Voce Repubblicana di Randolfo Pacciardi, il quale articolo cominciava così: «Un membro della Commissione Alleata di controllo – si chiamava ancora di controllo, non c’era venuta come concessione graziosa la soppressione di queste parole, il che riporta l’articolo ad una data anteriore al settembre del 1944 – ha affermato pubblicamente che la Sicilia non è matura per un regime democratico». Io vorrei conoscerlo questo membro, dico la verità (Ilarità), e avere con lui un contraddittorio davanti a dei neutrali, perché io lo devo convincere che o è un ignorante o è uno sciocco! (Applausi generali).

PACCIARDI. Non ricordo bene.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ma guardi che c’è. L’articolo continua: «Molti hanno rilevato l’errore di questa affermazione. Ma che cosa significa essa dal punto di vista internazionale? – diceva giustamente Pacciardi – La Sicilia è parte integrante dello Stato italiano, e quando lo straniero stacca una regione italiana dal complesso nazionale e ci dice che quella regione non è matura per un regime democratico, abbiamo diritto di domandarci che cosa significa. Il Texas non ha lo stesso sviluppo politico dello Stato di Nuova York, ma gli Americani troverebbero assai curioso che noi dicessimo che il Texas non è maturo per la democrazia». E continua (è molto bello tutto l’articolo, ma io debbo qui limitarmi a citarne solo quest’altra parte): «I nostri confini meridionali non si discutono; bisognerebbe occupare militarmente non soltanto la Sicilia, ma tutta l’Italia per un secolo, per impedire che la generosa isola, da cui partì la falange garibaldina per l’unità nazionale, sia unita nella forma che gli Italiani stessi desidereranno di dare alla Nazione italiana».

Per un secolo avrebbero dovuto occupare l’Italia! Non poteva dirsi né più energicamente, né più nobilmente. Ma oggi, per evitare la firma spontanea di un Trattato disonorante, io non le chiedo che di aspettare soltanto un mese, onorevole Pacciardi! (Applausi a destra e a sinistra).

Occorrerebbe ora considerare – io la prego, signor Presidente, di scusarmi se mi dilungo…

ROMITA. Non glielo ricordi!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, verso l’autorità del Presidente io sono sempre disciplinato; se egli trova che io troppo ecceda, desisto.

Occorrerebbe dunque considerare come sia venuto formandosi questo singolare Trattato, del quale, pur sempre con esclusione rigorosa, quando non fu anche scortese, dell’Italia da ogni negoziato, le condizioni nei nostri riguardi ebbero questo carattere: di diventare sempre più dure. Soprattutto a Parigi, dove era avvenuta la effettiva definizione di tutte le clausole per la volontà assoluta dei quattro Grandi, ricordate in qual modo? Il pubblico italiano veniva a conoscere attraverso indiscrezioni di stampa, sapientemente manovrate, che si era discussa una data questione e, dopo varie alternative di timore e di speranza, veniva a sapere che fra le varie tesi era prevalsa la peggiore. Ma dopo qualche tempo apprendeva che la questione era stata ripresa e che la soluzione finale era… ancora peggiore. All’italiano, col solito sistema ottimistico, si era fatto vagamente sperare, dopo il disastro di Parigi, che a Nuova York qualcuna delle più dure clausole fosse potuta essere migliorata. Nessun miglioramento avvenne; ma le modificazioni non mancarono del tutto: alcune ne furono introdotte, ma tutte in senso peggiorativo per noi! Insomma tutto questo lungo procedimento è stato per l’Italia una via crucis; sempre di male in peggio.

Questa constatazione paradossale ha trovato non solo una conferma ma una espressione particolarmente incisiva proprio nella relazione della maggioranza della Commissione, affidata (Rivolgendosi al centro) ad uno dei vostri migliori, a quell’onorevole Gronchi, verso cui io provo una simpatia particolare, perché egli è un Toscano intellettualmente fine come i Toscani sanno essere, anche se la finezza è qualche volta sottigliezza. Or fra i Toscani egli è forse il più sottile di tutti; e la frase di cui si è servito questa volta, si risolve in un tale epigramma che vien fatto di domandarsi: «Ma l’ha fatto apposta?». (Ilarità). Non lo credo; sinceramente, non lo credo. Ma direi quasi che quanto più quel senso dell’espressione non fosse stato voluto ma gli fosse stato invece suggerito dal subcosciente, tanto maggior valore acquisterebbe, perché tanto più spontaneo. Nella relazione, dunque, della maggioranza della Commissione, l’onorevole Gronchi ha avuto cura di enumerare in forma sistematica le ragioni per cui convenga ratificare subito. E viene così un numero 2° in cui si dice: «Lontana è da noi ogni idea di speculare sui dissensi altrui od ogni speranza di trarne qualche profitto…».

Consentite, onorevoli colleghi, che a proposito di quest’ultima frase, io apra qui una parentesi. Il tempo stringe è posso accennare solo per incidenza ad un argomento di una tale autonomia logica e politica che si dovrebbe considerarlo adeguatamente in una sede propria: si tratta infatti, dello spirito generale che dovrebbe animare la nostra politica estera. Io qui mi pongo all’estremo, in una posizione intransigente, poiché dissento profondamente dai mezzi con cui è stata sinora condotta questa nostra politica, la quale culmina nell’atto che oggi ci si richiede: di accettare un Trattato disonorante senza almeno la scusa della necessità. Ma non dissento sugli scopi essenziali. Assicurare la pace: ma chi è quel pazzo delinquente che in Italia possa in questo momento non desiderare la pace? Io più di ogni altro, perché nessuno più di me ha presenti i tremendi lutti, che sarebbero riserbati al Paese proprio per questo Trattato costruito appositamente in vista di un’Italia destinata ad essere il campo di battaglia di una guerra futura. Ed è pure il mio augurio più fervido, se anche affidato ad una opera pur troppo modesta, che si raggiunga l’unione, l’accordo fra Oriente e Occidente, che si crei una salda unione internazionale per la pace; tutte queste cose sono anche per me sommamente desiderabili, ed hanno, se mai, questo solo difetto: che tendono a divenire degli slogan ripetuti in maniera automatica senza più penetrarne il profondo significato.

Ma chiudiamo la parentesi.

Continua la relazione della maggioranza: «Se un simile modo di concepire il ruolo dell’Italia non dovesse essere respinto per molte e validissime ragioni morali e politiche, sarebbe pur sempre contro di esso una constatazione amara: che cioè la nostra pace, da Potsdam in poi» (e Potsdam – osservo io – succede al famoso periodo che si concluse così ironicamente, ad Hyde Park) «la nostra pace, da Potsdam in poi, ha conosciuto soltanto peggioramenti e aggravamenti, e che ogni transazione successiva fra i Grandi si è risolta con un ulteriore crescente nostro danno. Il ratificare, dunque, vale a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».

Una voce a destra. È un bell’elogio per il vostro Ministro degli esteri!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Per carità, ratifichiamo subito! Guai se si ritarda, guai! Chissà dove ci porta ogni nuova attesa! È una rovina di più che ci aspetta! Questo dice Gronchi con spietata chiarezza. Perciò io vi dicevo che questo giudizio, pronunziato in sede così solenne, si risolve in un epigramma, sia pure involontario. E tanto più s’impone la ricerca del modo con cui si è pervenuti a questo incomparabile paradosso storico, la quale ricerca, come ho detto e ripeto, non serve per attribuire responsabilità politiche ma per trarre insegnamenti che ci proteggano dalla persistenza in un sistema fallito, così miseramente fallito. Se, per riferirmi a quanto diceva ieri Togliatti, fu sempre fatto difetto nell’azione di Governo una decisione ferma e risoluta, un senso di fierezza e di dignità, non dovrebbe esser questa una ragione sufficiente per la condanna del sistema? Per raggiungere questo scopo io, nel silenzio degli altri, mi sono dovuto assumere il compito duro e amaro di precisare con franchezza, anche se dovesse sembrare brutale, come il Trattato cui siamo pervenuti, attraverso un triennio di questa politica, ferisca la libertà, l’indipendenza e l’onore stesso dell’Italia.

Nell’accingermi a questa dimostrazione, necessariamente rapida, non mi soffermerò sull’angoscia delle mutilazioni sofferte. Esse aprono nel corpo della Patria ferite che non potranno mai rimarginarsi senza una restaurazione. Trieste, travestita in uno Stato ridicolo, se non fosse anche tragico, che manca di tutto, a cominciare dalla sovranità per finire con l’acqua da bere, e Pola e Fiume e Zara: nomi di città che ricapitolano tutte le ansie e tutte le speranze, tutti i dolori e tutte le gioie della storia d’Italia dal 1860 al 1919, redente dal sangue di seicentomila caduti, fiore della giovinezza italiana; città, che dànno al mondo la lezione eroica di un plebiscito in cui il voto è espresso col sacrificio supremo dell’abbandono in massa della propria terra e di ogni cosa diletta più caramente; la feroce amputazione di questa Venezia Giulia, che da secoli difende la sua italianità contro tutte le invasioni di tutti i barbari calati in Italia in tutti i tempi, onde, fucinata in queste prove, è quella, fra tutte le altre Regioni, dove l’italianità è più profonda, più intima, più pura. Questa inaudita violenza contro una giustizia, che pure gli stessi Alleati avevano riconosciuta e proclamata, superò le peggiori aspettative, e tuttavia non bastò; anche al confine di occidente è stata imposta una mutilazione in cui l’arbitrio prescinde da ogni ipocrisia con cui giustificarsi. Sia pure per un ingiusto, crudele destino, l’Istria nei secoli è stata la posta di un gioco tremendo. Perduta, ripresa, riperduta; auguriamo, speriamo, di riprenderla. Ma il Moncenisio? Ma la Val di Roja? Chi ne ha mai contestata l’italianità nel nostro versante? e il Col di Tenda? L’Alpe, questa cintura che separa l’Italia, ma nel tempo stesso la protegge contro l’invasione, tende, attraverso quel colle ad addolcirsi verso l’Appennino, così puramente, così esclusivamente italiano. Con pensiero commovente quei due sindaci montanari, e per ciò incorruttibili, il sindaco di Tenda e il sindaco di Briga, issavano la bandiera tricolore sul loro Municipio; ed è proprio notizia di ieri l’altro quella del reclutamento militare: si sono presentati alla leva tutti gli iscritti, quasi tutti validi. Bella, brava gente! È magnifico! Onde oggi il dolore e le proteste del vecchio Piemonte, pilone dell’estremo Nord, trovano la loro espressione accorata in una voce di Sicilia, pilone dell’estremo Sud, congiunto all’altro, attraverso il grande ponte d’Italia.

Ma ogni rimpianto per questi brani di carne, anzi di organi vitali, strappati alla Patria, viene dai cinici, che si dicono realisti, qualificato come rettorica nazionalista. Procediamo oltre.

Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia quella indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15, il quale dice:

«L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ecc.».

Questo articolo si collega con quella rieducazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità. Voi capite che qualunque degli Stati che figurano vincitori – anche l’Etiopia, che è compresa tra questi ed è tra i firmatari del Trattato – può sollevare la questione se le libertà fondamentali siano state rispettate a proposito di una qualsiasi legge italiana, per esempio di una legge per l’istruzione, come quella che potrebbe presentare l’onorevole Gonella (Si ride – Commenti) e che fosse da alcuni, anche in Italia, considerata come lesiva della libertà di coscienza, che è libertà fondamentale. Un Paese che nell’esercizio del più sovrano dei diritti, che è il potere legislativo, sia soggetto a tali controlli, non è più un Paese indipendente! Qualche cosa di simile poteva forse avvenire nell’antico impero Ottomano, la vecchia Turchia; ma la nuova Turchia ha superato questa possibilità d’interventi. L’Italia l’ammette con questo articolo 15, che vorreste approvare d’urgenza, senza necessità, ma bensì come un’accettazione, sia pure rassegnata, ma pur sempre volontaria.

Poi c’è l’articolo 16, il quale si presenta a prima vista semplicemente privo di senso, perché dice:

«L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle Forze armate, pel solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia o d’aver agito in favore della causa delle Potenze alleate od associate».

Salvo l’oscura allusione agli «appartenenti alle Forze armate», l’articolo manca di serietà quando dispone che l’onorevole De Gasperi non potrebbe incriminare me o l’onorevole Pacciardi o – persino – se stesso, per avere espresso simpatia alla causa degli alleati! E c’è poi l’articolo 17 che dice:

«L’Italia, la quale, in conformità dell’articolo 30 della Convenzione di armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici».

Or ecco. Non c’è nessuno che sia stato più intransigente di me contro il fascismo. Nessuno più di me avverte l’inesorabile nesso causale, che lega la nostra presente catastrofe a quel terribile fenomeno verso cui non abbiamo neanche il conforto di una immunizzazione, come c’è stata negli altri Paesi. Perché non è vero che il fascismo sia stato un fenomeno esclusivamente italiano. Gli stessi Inglesi hanno avuto qualche anticipazione di metodi fascisti verso la fine del Governo di Cromwell: lord Protettore è affine, anche nel significato della parola, a Duce o a Führer. Certamente egli fu un grand’uomo; e fu fortuna dell’Inghilterra che quella parentesi nella grande storia delle libertà di essa non abbia nociuto ma giovato alla sua potenza. Eppure il ricordo di questo Protettore fu così esecrato da arrivare sino alla profanazione di una tomba e ad atti feroci contro un cadavere. La Francia ebbe il suo secondo Impero, che rassomiglia al fascismo come due gocce d’acqua. E finì nel disastro, come fu per l’Italia. Il ricordo però, direi l’orrore per quel regime, per quel periodo si perpetuò talmente che a Milano, dove si era preparata una statua equestre per Napoleone III, artisticamente assai bella, non si poté farla uscire dal magazzino dov’era custodita, perché discretamente il Governo italiano era avvertito che l’impressione in Francia sarebbe stata penosa…

Il fascismo è come il vaiolo: chi lo ha avuto ha almeno il vantaggio che non lo avrà più. (Ilarità). In Italia, purtroppo, dobbiamo sentir parlare di neofascismo; temo che in gran parte ciò si debba agli errori dell’immediato antifascismo.

Non è già, dunque, che l’articolo 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo all’accusa della violazione dell’articolo 17. Intanto, tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata; e del resto, le organizzazioni di cui si vieta la rinascita sono anche quelle politiche: ogni associazione, la stessa organizzazione dei partiti può esservi compresa. Che cosa sono, poi, questi «diritti democratici», la cui privazione violerebbe l’articolo 17? Vorrei conoscere il collega che ha inventato frasi così bislacche. Certo è che vi è qui un vastissimo campo, a proposito del quale il nostro Ministero degli esteri potrà bruscamente ricevere da parte di un diplomatico etiopico o lussemburghese una protesta formale perché un qualsiasi provvedimento avrebbe violato l’articolo 17. E badate che le censure contro provvedimenti od atti accusati aver carattere fascistico, sono continue e reciproche anche in questa Aula: in discussioni di politica interna sono forme polemiche quasi ordinarie. Quante volte non abbiamo inteso noi un deputato di quei settori (Accenna all’estrema sinistra) accusare di fascismo questo o quell’atto di Governo, questa o quell’altra opinione e quante volte la stessa accusa è stata ritorta dai settori opposti! Lo straniero, pertanto, che vorrà sollevare una questione di quel genere, potrà sempre fondarsi sull’autorità di ammissioni italiane, ed anche autorevoli, a favore del suo assunto!

E non mi sento di andare oltre. C’è tutta una collezione di articoli, mortificanti quando non sono umilianti. Quelli sul disarmo sono orribili. Si potrà entrare in ogni casa italiana per vedere se c’è nascosto un ordigno più progredito, utile all’offesa e difesa militare. Le poche truppe che ci lasciano devono avere un armamento ridotto, che può dirsi primitivo in questa epoca dei carri armati e dei cannoni a grande portata. Al Paese di Galileo, di Volta, di Marconi è vietato persino di fare scoperte che valorizzino di più il proprio esercito. È già una prepotenza odiosa; ma chi può dire se e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!

Or questa non è più indipendenza. La sovranità italiana non è più completa, e, in questa materia delicatissima, un limite qualunque si pone per sé come una negazione totale. Anche grammaticalmente, sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativo, lo si annulla.

L’indipendenza sovrana del nostro Stato vien dunque meno formalmente, cioè come diritto. Ma che dire dell’indipendenza come fatto? Argomento forse ancor più doloroso. Non è più un segreto l’intervento degli stati maggiori e degli ammiragliati nella formazione di questa camicia di forza, che toglie all’Italia ogni possibilità di difendersi. Questa imposizione di pace è fatta in maniera da trasformare immediatamente l’Italia nel campo di battaglia della guerra futura, fra Occidente ed Oriente, se questo orrore non sarà evitato. Peggio ancora, l’Italia è stata considerata come un territorio alla mercé degli eserciti combattenti, tanto di oriente che di occidente.

Tutto ciò è stato fatto consapevolmente, con quello scopo preordinato. Aperta la frontiera orientale, dove avevamo la chiusura delle Alpi culminante al monte Nevoso, l’eventuale esercito dall’oriente è già in territorio italiano e si è assicurata la demolizione delle nostre fortificazioni per venti chilometri. Quindi il giorno – Dio non voglia – (nessuno più di me può presentirne l’angoscia) in cui avvenisse l’irruzione, noi sappiamo che essa non potrà essere arrestata ma solo contenuta ritardandone l’afflusso in quella Valle Padana che è stata nei secoli, e tornerebbe ora ad essere, campo di battaglia in tutte le guerre europee. Si ripeterà quella che è stata la storia dei mille cinquecento anni seguiti alla caduta di Roma. E gli stati maggiori dell’altra parte han facilmente previsto l’evento di un insuccesso in pianura ed han pensato alle Alpi. Così si arriva alla frontiera occidentale: Briga e Tenda.

Appena si intese parlare di Briga e Tenda, nessuno poté credere che lo scopo fosse di annettersi quelle poche migliaia di montanari italianissimi. Vero è che vi è un tesoro di energia elettrica. Non so a questo proposito se l’onorevole Ministro Sforza, quando mise a disposizione del piano Marshall tutta la forza derivante dalle acque delle nostre Alpi, si sia astenuto per cortesia verso il collega Bidault, dall’includervi anche quelle della Roja e quelle del Moncenisio. Ad ogni modo prescindiamo dal lato economico; a titolo di riparazioni si potevano dare le ore di energia desiderate. Ma il passo del Col di Tenda dato alla Francia significa il punto di arresto delle invasioni orientali. Le Alpi non servono più a difendere l’Italia; ma gli altri paesi, dopo il sacrificio dell’Italia!

Quello che accadde poi, a proposito del disarmo navale, rappresenta un mistero inspiegabile o, peggio, profondamente conturbante, quando si pensa alle spiegazioni possibili, poiché qui l’incredibile è che le limitazioni sarebbero state richieste proprio dagli Stati che hanno rispetto a noi una schiacciante superiorità navale. Perché ci hanno portato via tutte le motosiluranti e tutti i sommergibili e qui hanno vietato di costruirne o di acquistarne? Non sono queste per eccellenza armi difensive? Chi dunque poteva avere interesse che l’Italia non potesse neanche difendersi? Si dice che siano stati gli Inglesi. Ma, almeno, a Parigi si erano salvati gli antisommergibili. A Nuova York però, davanti ai 21, sarebbe stata la Francia a rilevare che una tale concessione fosse eccessiva. E fu così che ci furono definitivamente negati anche gli antisommergibili!

Questo è l’atto che per beffarda antifrasi si chiama Trattato di pace, con cui l’Italia perde l’indipendenza in diritto, la perde in fatto, perché non può più difenderla; e perde l’onore. Perde l’onore! Tutto il testo e tutto il contesto, ma soprattutto lo spirito del Trattato consiste in questo, o signori: nel dare il più duro, il più inesorabile rilievo a questo punto: che durante la guerra e dopo, sinora, sempre, noi siamo stati considerati come nemici. Ce l’hanno detto in tutti i toni: nemici! Ed allora i partigiani che si sono battuti ed il corpo di liberazione e gli aviatori veramente eroici che hanno volato con i loro apparecchi vecchi, logori e stanchi, perché non davano loro quelli nuovi e buoni e partivano senza sapere se avrebbero fatto ritorno, tutti questi per chi si sono dunque battuti? Per un nemico?

Quale maggiore offesa? E noi dobbiamo tollerarla: intendo non in quanto ci venga imposta per legge di necessità, ma per atto volontario e in certo senso spontaneo? Quei nostri soldati, partigiani, aviatori, marinai sarebbero considerati peggio dei mercenari guidati dai condottieri, da un Alberigo da Barbiano o da un Muzio Attendolo Sforza (Ilarità) o da un Giovanni delle Bande Nere, perché quelli almeno si battevano per un compenso; onestamente e, in generale, valorosamente si battevano per colui che li aveva ingaggiati. Ma questi nostri, secondo la definizione del Trattato, si sarebbero battuti per un nemico!

E ancora ancora, minore sarebbe l’offesa rapporto agli uomini. Ordinati essi in unità militari, di queste, quando sono disciolte, non rimane che un nome; e l’onore dei morti e dei vivi dipende dalla causa per cui si sono battuti, giudicata secondo quella giustizia ideale, che è ben più grande di tutti i quattro Grandi messi insieme.

Ma la questione dell’onore rimane invece ed è ardente per la marina. Qui, l’uomo si fonde con la cosa: la nave. E la nave continua ad esistere con la sua bandiera e voi intendete quel che ciò significhi per il marinaio, il quale deve morire, prima della sua nave o con essa. E si sono battute queste navi, infaticabilmente, in tutti i mari, ed hanno corso tutti i rischi; hanno tutta la legione eroica dei loro morti. Ed ora si viene a dir loro: queste vostre navi debbono esserci consegnate come bottino di guerra, cioè come navi nemiche come quelle che battendosi per noi, alleati, si sarebbero battute per un nemico. Si può dare ingratitudine più atroce?

Queste navi si trovavano nel porto di Spezia o altrove; ricevono l’ordine di sottrarsi ai Tedeschi, di raggiungere Malta per mettersi a disposizione dell’Ammiragliato inglese. La flotta francese si trovò in una situazione simile, quando il 27 novembre 1940 Tolone fu occupata dai Tedeschi; le navi furono autoaffondate: bel gesto, in quanto imposto dalla impossibilità dei movimenti. Ma la nostra uscì senza alcuna protezione aerea e sapendo a quali rischi si esponeva. E la nave ammiraglia, la bella corazzata Roma, affondò sotto bombe di aeroplani tedeschi col suo Ammiraglio, coi suoi 1800 marinai. Queste navi, dicevo, hanno continuato a battersi ed ora sono bottino di guerra, e debbono ora esser consegnate come se fossero state vinte e prese! E noi, per secondare il piano Marshall o per contendere alla Bulgaria l’onore di entrar prima nell’O.N.U., approviamo tali iniquità, senza almeno la scusa di una urgenza improrogabile.

Badate! non domandate ai nostri marinai – i quali hanno fatto prodigi di disciplina, che è coraggio morale, oltre che di coraggio fisico – non domandate loro di ammainare la loro bandiera, per farla sostituire da un’altra, come dei vinti. Essi non lo tollererebbero, non potrebbero tollerarlo; vi è qualcuno, qua dentro, che darebbe loro torto? Evitatelo. Non so; credo che ci siano forme da studiare capaci di togliere alla nave la sua qualità di militare e di combattente. Credo che si dica: rendere le navi borghesi. Tra le altre cose, il Trattato impone all’Italia non solo la consegna delle navi, ma anche che esse siano rimesse in efficienza, cosa che non si chiese alla Germania, nel 1919. Il Trattato di pace con la Germania fu allora incomparabilmente più mite di questo nostro attuale. L’Italia deve spendere alcuni miliardi per mettere in efficienza le navi danneggiate nella lunga campagna fatta a favore degli stessi alleati. Così perdiamo le nostre navi migliori: le ammirabili Italia e Vittorio Veneto; nomi così cari ad ogni cuore d’italiano. Pensateci! I nostri marinai han meritato che il loro onore, per quanto possibile, sia salvo.

Ma è ormai tempo di avviarmi alla conclusione. La critica da me fatta al cosiddetto Trattato, per quanto prolungata anche troppo, resta sempre inferiore a tutto quello che si potrebbe e dovrebbe dire per un’analisi appena adeguata. Ma l’ora non lo consente. Or la conclusione è in forma di questo dilemma: dare o negare l’approvazione? Parecchi oratori, l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Corbino ed altri hanno avuto per me un pensiero affettuoso e deferente, quando hanno riconosciuto che la storia da me vissuta, l’avere avuto la fortuna e l’onore di legare il mio nome alla vittoria della Patria, vittoria che ci diede quello che ora perdiamo, costituiscono per me un titolo quasi personale, che mi consenta di rifiutare l’approvazione. In altri termini, l’approvazione per sé è cosa amarissima, ma a cui non ci si può sottrarre; a me questa esenzione è consentita. Ringrazio del pensiero, ripeto, affettuoso e deferente; ma dico subito che se pure avessi questo titolo di immunità non vorrei servirmene in via pregiudiziale.

Un’umiliazione che io riconoscessi necessaria alla salvezza del Paese dovrebbe essere accettata da me come dagli altri: nel rifiuto a priori io troverei i segni di quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo, e di esserne immune io lo dimostrai in memorandi eventi. Ché se lo storico futuro volesse riconoscere in quegli eventi un titolo, di merito per me, penso che dovrebbe riscontrarlo nell’essere io stato sempre al centro di due estremi, esposto al fuoco incrociato dell’una parte e dell’altra, in questa Italia sulla quale – o almeno su alcune regioni di essa – pesa la sciagurata tradizione delle divisioni estreme ed irriconciliabili: Guelfi e Ghibellini. Così io ebbi contro, con pari veemenza, non meno i rinunciatari che i nazionalisti. Quanto a questi ultimi, se qualcuno pensasse che io con il mio atteggiamento di intransigenza contro il Trattato, riveli tendenze nazionaliste, lo pregherei di andare alla Biblioteca della Camera e consultare il giornale, organo di quel partito: L’Idea Nazionale. Se mai vi fu un uomo cui nessun oltraggio fu risparmiato, fui io quello. Ci fu un famoso articolo che aveva questo titolo abbastanza significativo: «Tagliategli la lingua». Se quindi gli antinazionalisti vogliono tagliarmi qualche altro organo, mi rimetto alla loro discrezione. (Ilarità). Per ciò, ho detto e ripeto che se ritenessi necessario un atto di umiltà per la salvezza della Patria, chiederei di essere io stesso il primo a compierlo. Ma, per l’appunto, mi sono soffermato sulla storia di questa politica triennale fatta di sottomissione e di umiltà, perché sia a tutti presente il rapporto con lo stato cui quella politica ci ha ridotti: stato di così estrema miseria da giustificare l’atto inverso, cioè di una ribellione che si ponga, non foss’altro, come una sfida al destino, quando tutto è perduto e non resti che salvare l’onore. Ringrazio vivamente l’onorevole Gasparotto del pensiero che ha avuto, di citare oggi qui quel mio telegramma a proposito della decisione di quella che fu la battaglia di Vittorio Veneto. Or mi importa di precisare che la copia di quel telegramma egli non la ebbe da me; io non me ne sono mai vantato, ed anzi di quel mio intervento non ho mai parlato…

GASPAROTTO. Ho ben il diritto di farlo sapere.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Certamente; voglio solo dire che la rivelazione di quello storico episodio non proviene da me. Ma una volta che essa è avvenuta, ho bene il diritto di metterne in rilievo il significato, in quanto abbia rapporto col solenne momento storico attuale. E il significato è questo: che come ci sono momenti in cui bisogna umiliarsi e sottomettersi, ci sono pure i momenti in cui bisogna osare. L’uomo di Stato si rivela proprio in questi momenti, quando si tratta di assumere le grandi responsabilità dell’azione, e non già di abbandonarsi a quella sostanziale fuga da ogni responsabilità che è la sopportazione. Ed io dissi che l’episodio di quel mio telegramma dell’ottobre del 1918 poteva avere un rapporto con la discussione odierna, sotto questo aspetto: che la responsabilità da me allora assunta fu così grave che se Vittorio Veneto fosse stato una sconfitta, io avrei dovuto essere mandato in Alta Corte di Giustizia e condannato forse anche alla fucilazione. Certamente, io ritenevo e continuo a ritenere che il Capo del governo civile, nelle guerre di popolo e non solo di eserciti, come le due recenti, ha il diritto ed il dovere di ingerirsi in ciò che riguarda l’andamento della guerra anche dal lato puramente militare; da qui il mio insanabile dissenso con il Generale Cadorna. Ma non è men vero che anche quel diritto ha dei limiti ed io confesso che con quel telegramma avevo quei limiti sorpassati, esponendomi con ciò a quelle estreme conseguenze, che, qualora l’evento fosse stato avverso, avrebbero comportato un giudizio ed una severa condanna.

Per ciò, dunque, pur rinnovando i miei ringraziamenti ai colleghi che han voluto attribuire a me una specie di asilo spirituale per sottrarmi ad un voto amarissimo, dico che non intendo servirmi di questo titolo. Se io sono risolutamente, irriducibilmente ostile all’approvazione che ci si chiede, egli è perché sento come una morale impossibilità, superiore ad ogni utilità (se pure ci fosse!) di dare un consenso, sia pure coatto, ad un documento che, in fatto di iniquità e di ingiustizia, raggiunge una delle vette più elevate fra le tante prepotenze ed arbitrî onde è contaminata la storia dei rapporti internazionali. Ma tanto più poi e tanto peggio per il momento e per il modo onde il voto ci si chiede, pregiudicando dinanzi alla storia l’unica scusa e cioè di aver ceduto ed una legge di necessità. Questo sentimento ha carattere ideale; ma trova altresì conforto in una ragione d’ordine pratico, la quale avverte di essere ormai venuto il momento di interrompere il sistema di cedere ed accondiscendere finora seguito e di compiere finalmente un atto di fierezza e di dignità. Per tre anni ci siamo sottomessi continuamente, e ne vedete i risultati. Ora, basta.

Non mi soffermo sulla causa specifica della ratifica che manca. Per me basta l’articolo 90, così brutale per noi, poiché quanto all’esecuzione dell’atto prescinde totalmente dalla nostra volontà; ma, per ciò stesso, ci fa sapere che sino a quando le quattro ratifiche non siano depositate, l’atto non entra in vigore e noi non siamo obbligati a subirlo e tanto meno a riconoscerlo. Se dunque quella condizione manca, il nostro consenso si presenta libero e volontario e ciò determina la mia ribellione. Che poi la potenza la cui ratifica sinora manchi, sia la Russia o l’America o la Gran Bretagna o la Francia, mi è perfettamente indifferente. I colleghi Nenni e Togliatti, che mi furono compagni nella Commissione dei Trattati, mi han dato atto di ciò ed uno di essi ha ripetuto una mia frase detta allora, e cioè che per me la ratifica che manca basta che sia attribuita ad una potenza X.

Quanto alla Russia, peraltro, vi fu un curioso documento che l’A.N.S.A. diramò come proveniente da un portavoce di Palazzo Chigi, e secondo il quale la ratifica della Russia era lì lì per venire e sarebbe arrivata fra pochi giorni. Sono ora invece passate varie settimane e non se ne vede il principio. Ah, questi portavoce! Ad ogni modo, ripeto, a me che sia la Russia a non ratificare non importa nulla e si dovrebbe aggiungere che anche per la Russia non vi è nessun rapporto fra la sua astensione e la ratifica, che pur hanno fatta alcuni degli Stati che si dicono satelliti di essa. Il mio intento è puramente obbiettivo: il Trattato per ora è ineseguibile. Perché, dunque, questa fretta di approvarlo spontaneamente, proprio noi, i sacrificati e gli offesi?

Tutto ciò assorbe la questione della utilità poiché la soverchia di gran lunga. Ma, ad ogni modo, in che consisterebbe questa utilità? Prima ci si disse, in Commissione dei Trattati, che occorreva la ratifica per l’ammissione dell’Italia al convegno di Parigi per il piano Marshall: l’evento dimostrò che non era così. Ora ci si dice che occorre per l’ammissione all’O.N.U. Ma dove è la disposizione che subordina l’ingresso nell’O.N.U. alla ratifica? Dove è? Ho qui lo Statuto, dove si parla dell’ammissione dei nuovi membri e se ne stabiliscono le condizioni; nulla, in esse, che si colleghi con la ratifica. Se sbaglio, mi si interrompa e mi si dica quale sia l’articolo, il capoverso, la parola che importi una tale conseguenza. Dunque, questa ragione non sussiste.

Non è vero nemmeno – l’hanno ingannata, onorevole Ministro – quando si dice che se passa il 10 agosto non potremo avere questa fortuna di essere ammessi e perdiamo l’anno. Neanche ciò è vero, perché l’anno scorso il Siam fu ammesso a novembre. La procedura è la seguente. In agosto avviene un esame preliminare da parte di una Commissione, che nei suoi membri riproduce le undici potenze del Consiglio di sicurezza. Quando si trattò del Siam, siccome pendeva una contestazione con la Francia per i confini con l’Indocina, la Francia chiese ed ottenne che la domanda del Siam non fosse ammessa. Senz’altro. In seguito, il dissidio si compose e il Siam fu ammesso, come ho detto, in novembre.

A voler chiamare le cose col loro nome e senza ipocriti infingimenti, la verità è che per l’ammissione all’O.N.U. tutto dipende dall’accordo delle cinque Potenze che hanno il seggio permanente e quindi il diritto di veto. L’opposizione di una sola di esse basta a fermare l’ammissione. Dall’altro lato, per il noto contrasto tra i due gruppi di Potenze, avviene che se non si arriva ad un compromesso, l’uno impedirà l’ammissione favorita dall’altro, e reciprocamente. Così, l’anno scorso, la Russia ha messo il veto all’ammissione del Portogallo e dell’Irlanda dando per ragione che non avevano curato di avere rappresentanza diplomatica a Mosca e quindi non davano nessuna garanzia di essere amici della pace. Allora, per evidente contraccambio, gli Stati anglosassoni misero il veto all’ammissione dell’Albania voluta dai Sovieti. Il Governo britannico ha ora fatto sapere che non darà l’assenso neppure alla Romania, per i recenti episodi che voi conoscete. Quindi, è tutto un gioco di veti. Lascio poi stare, per l’ora che urge, un’altra indagine più sostanziale per cui si pretende che l’ammissione nell’O.N.U. sia un così grande beneficio da valere come una giustificazione di questa sciagurata ratifica. Io non solo contesto risolutamente che vi sia un vantaggio qualsiasi, ma ritengo invece che si tratti di cosa non desiderabile e mi asterrei, nonché dal chiederla, dall’accettarla, considerandola come un’altra mortificazione inflitta al nostro Paese. Il posto che esso prenderebbe lo graduerebbe dopo Stati minuscoli; diciamolo francamente: sarebbe come una firma apposta alla nostra rinuncia alla qualità di grande Potenza. Ammetto che questa sia purtroppo la situazione attuale; ma perché andare verso il riconoscimento di questa nostra decadenza con così premurosa e soddisfatta sollecitudine? Ma anche a parte tutto ciò, lo Statuto dell’O.N.U. contiene quei due famosi articoli, 53 e 57, che non leggo, ma il cui senso, per quanto poco chiaro, importa che, mentre la garanzia essenziale per i membri dell’O.N.U. è che nessuno possa essere aggredito senza violare solenni impegni dando luogo all’immediato soccorso di tutte le nazioni unite, a questa regola si introduce con quegli articoli un’eccezione pel caso che l’iniziativa provenga da uno degli Stati alleati ed associati contro uno Stato ex nemico. In altri termini, la Jugoslavia o l’Etiopia potrebbero aggredirci senza che noi fossimo protetti dalle garanzie che proteggono gli altri Stati dell’O.N.U.!

Il Ministro si rende conto della enormità di queste disposizioni e dice di aver avuto l’affidamento che saranno soppresse, poiché tutte le repubbliche del Sud America si son dichiarate contrarie. Sì, ma gli debbo ricordare il veto che, da solo, annulla tutte le maggioranze. In ogni caso io vorrei che quei due articoli fossero già soppressi, prima di accettare la situazione che ne deriva, la quale ci mette in uno stato di inferiorità verso gli altri membri dell’associazione, sin dal momento in cui entreremmo a farne parte.

Nessuno, dunque, dei vantaggi che si fanno sperare come conseguenza di questa approvazione anticipata può dirsi sussistente ed effettivo; la stessa condizione armistiziale continua formalmente immutata, perché il termine dei 90 giorni fissato per la cessazione di essa, non comincia a decorrere se non dal deposito delle quattro ratifiche. Ma ci fossero pure dei vantaggi, nulla essi varrebbero, per me, in confronto dei sacrifici estremi che ci si vogliono imporre, come ho dimostrato in questo mio discorso, incompleto se pur lungo. Perciò io sono, in ogni caso e in ogni tempo, contrario all’approvazione, perché non vale vivere quando si perdono le ragioni di vivere. L’Italia non può opporre al disfacimento cui l’atto la vorrebbe condannare che il fatto della sua esistenza come grande e gloriosa Nazione; e questo fatto è insopprimibile, malgrado ogni iniquità. Che se, però, questa mia decisione estrema la maggioranza di voi non crede di consentire, io posso rispettare codesta perplessità. Ma considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più caro, di più prezioso, di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria. Vi prego, vi scongiuro, onorevoli colleghi, al di là e di sopra di qualunque sentimento di parte – quale stolto potrebbe attribuirmelo? – non mettete i vostri partiti, non mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità. Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future; si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità. (Vivissimi applausi a sinistra e a destra – Proteste vivaci al centro e al banco del Governo – Rumori vivissimi – Scambio di epiteti fra sinistra e centro – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi prolungati applausi a sinistra e a destra – Proteste e rumori vivissimi al centro – Scambio di apostrofi fra il centro e le sinistre – Viva agitazione).

PRESIDENTE. Prego i colleghi di prendere posto ai loro banchi.

Voci al centro. Deve ritirare! Deve ritirare!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Suppongo che non sia possibile chiarire nulla, finché loro non vorranno tacere. Onorevole Coccia, lei ritiene con il suo chiasso di aiutare a chiarire la situazione?

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Onorevoli colleghi, io non avevo alcuna intenzione… (Prolungati rumori al centro). Queste sono le ultime parole che pronunzierò qui dentro!

PRESIDENTE. Attenda un attimo, onorevole Orlando: la prego. Onorevoli colleghi, basta!

Ogni manifestazione, anche se di giusta reazione, perde il suo valore, quando cessa di stare nei limiti di un certo ordine. Permettano dunque all’onorevole Orlando di riprendere la parola e allora, da ciò che egli dirà a chiarimento di quanto ha detto prima, risulterà il valore del suo pensiero e, se sarà quello che si è ritenuto che fosse, qualcuno potrà replicare all’oratore.

Onorevole Orlando, la prego di parlare e di tener presente che, forse, sta spirando quel limite al quale Ella stesso accennava un’ora e tre quarti fa.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Mi dispiace di dover dare spiegazioni, e le do solo per rispetto a lei! (Vivi applausi a sinistra – Commenti e vivaci proteste al centro).

GUERRIERI FILIPPO. Ricordatevi che avete davanti l’uomo di Vittorio Veneto! (Applausi – Rumori al centro).

BENEDETTINI. È il Presidente della Vittoria! (Applausi a sinistra e a destra – Rumori al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Orlando, mi perdoni, io le sono grato della deferenza particolare che mi vuole dimostrare, ma sarei lieto che le sue parole fossero non soltanto udite da tutta l’Assemblea, ma fossero dirette a tutta l’Assemblea.

La prego di parlare.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io, rispettando il Presidente, rispetto l’Assemblea! (Commenti al centro).

La parola «servilità» qualifica l’atto, e non le persone. Io stesso, proprio in questo mio discorso, ho detto di me di aver compiuto un atto di umiliazione, che credetti necessario, nell’interesse del Paese. L’atto in sé è servile, ma poiché non vi risponde l’intenzione di compierlo come tale, nessuno può restarne offeso. Ma, ad ogni modo, poiché come vi dicevo, ritengo che questo sia l’ultimo discorso che io pronunzio in quest’Aula…

Voci No. No!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io voglio che, come mi è sempre accaduto nella mia lunga vita parlamentare, il mio appello sia per la concordia o, almeno, contro l’esasperazione dei contrasti inevitabili e riunisca l’animo di tutti. E dico ai colleghi di tutte le partì dell’Assemblea: Convenite con me, obiettivamente, indipendentemente da ogni giudizio politico, indipendentemente da ogni preferenza verso questa o quella linea di condotta, convenite con me, tutti, che questo Trattato di pace è una solenne ingiustizia?

Voci da molti banchi. Si!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ed allora non ho null’altro da aggiungere. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra e a destra – Molte congratulazioni – Commenti prolungati al centro).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. (Applausi al centro – Rumori a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, il rispetto, l’ammirazione che io ho sempre nutrito per lei, la devozione che le ho sempre dimostrato, mi permettono di dire una parola franca anche in questo momento molto agitato.

Io sono stato colpito nel profondo dell’anima dalle ultime frasi, che dovevano essere un giudizio, mentre ella dichiarava che la proposta di ratifica era un’abiezione fatta per mancanza di coraggio e per cupidigia di servilità. No! onorevole Orlando: si tratta di concezione diversa degli interessi del Paese in questo momento. Domani mi riservo di dimostrare tutte le ragioni che militano per la mia concezione; e lo farò senza offendere nessuno. (Approvazioni al centro).

 Però le devo dire che sono profondamente offeso e con me sono offesi tutti coloro che hanno affrontato il nemico non soltanto come combattenti sui campi di battaglia, ma hanno affrontato il fascismo con coraggio, soffrendo giorno per giorno. (Vivissimi applausi al centro – Rumori e commenti a sinistra e a destra).

Ho anche la coscienza e la consapevolezza, nei momenti tristi, nei consessi internazionali, d’aver rappresentato degnamente, fieramente il mio Paese. (Interruzioni a sinistra – Vivissimi applausi al centro – Scambio di apostrofi fra la sinistra e il centro). Questo è stato constatato da tutti, da molti giornali, anche avversi.

Una voce a sinistra. Avete i fascisti nel Governo! (Rumori al centro).

Una voce a destra. Li avete voi i fascisti! mettete fuori i vostri fascisti, prima di parlare! (Proteste a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A coloro che ci chiedono un rinvio in nome dell’unità nazionale, si può dire, però, che la premessa indispensabile per qualsiasi… (Rumori e interruzioni a sinistra – Ripetute interruzioni del deputato Farini – Richiami del Presidente) la premessa… (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Desidero sapere se devo sospendere la seduta.

FARINE Sì! sì!

PRESIDENTE. Onorevole Farini, mi pare che lei, nel suo entusiasmo, non si renda conto di quello che significa la sospensione della seduta. (Interruzione del deputato Farini).

Onorevole Farini, non mi costringa ad applicare il Regolamento nei suoi confronti! (Commenti).

Posso comprendere tutti gli impeti di passione, ma non le forme di vana petulanza. Capisco perfettamente tutto, ma non le grida che non hanno alcuna giustificazione, da qualunque parte vengano. E prego specialmente i colleghi più autorevoli, che in certi momenti mi pare adoperino la loro autorevolezza a suscitare maggiore tumulto, di ricordarsi che io mi attendo da loro un contributo a questa mia opera di dirigere i lavori dell’Assemblea. (Approvazioni).

Continui, onorevole Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, avrei aspettato dalla sua lealtà che ella avesse dichiarato che le parole «cupidigia di servilità» non si riferivano a coloro che propongono in buona fede e con retta coscienza di ratificare il Trattato. Avrei preferito che lo avesse dichiarato.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. L’ho detto.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se questa è la sua dichiarazione, io sono lieto di accettarla, quantunque il linguaggio altrimenti doveva essere interpretato. Tuttavia sono lieto di accettarla, per questo: perché la situazione è molto difficile, la tensione degli animi è grave, senza dubbio; ma quello che non si può negare all’avversario è il coraggio, e molto meno si può negare a chi come me e il Governo sostiene in questa difficile situazione una posizione che esige maggior coraggio civile di qualsiasi rinvio e la sostiene perché crede di doverla sostenere nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione internazionale! (Vivissimi, prolungati applausi al centro – Commenti).

PRESIDENTE. Suppongo che l’Assemblea sia concorde con me sull’opportunità di rinviare il seguito della discussione a domani.

Vorrei però ricordare che per impegno non tacito, ma esplicito, preso ieri sera, dovremo finire questa discussione domani insieme con gli ordini del giorno relativi.

L’Assemblea è dunque convocata per domani mattina alle 9.30 per il seguito della discussione sul Trattato di pace.

Dovranno ancora parlare i presentatori degli ordini del giorno, onorevoli Jacini, Damiani, Giannini e Caroleo.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno soprassedere alla costituzione del Consorzio nazionale canapa, se pure con la sola partecipazione degli agricoltori, essendo tale provvedimento in contrasto con la volontà dei canapicoltori, i quali chiedono la libera disponibilità del loro prodotto. L’ammasso obbligatorio della canapa avrebbe, quale risultato, un’ulteriore riduzione di tale coltura, con grave danno dell’economia nazionale.

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quale fondamento di verità abbia la notizia, apparsa sui giornali, che in Sicilia è stata abolita la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. E per sapere, nel caso in cui la notizia sia esatta, quale atteggiamento intende prendere il Governo.

«Tremelloni, Segala, Ghidini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se sia a conoscenza del grave malcontento che serpeggia nel Corpo forestale a causa del ritardo a concretare le sue aspirazioni manifestata nel Convegno di Firenze del maggio scorso; ed in particolare per conoscere le ragioni per le quali, mentre si tolgono dal servizio attivo sottufficiali e guardie forestali provenienti dalla posizione ausiliaria, per il solo periodo di guerra, con provvedimenti anteriori al 9 dicembre 1943, uguale trattamento non si faccia agli ufficiali superiori, il che inceppa ed impedisce lo sviluppo normale degli avanzamenti e promozioni di ben 400 funzionari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria circa la distribuzione ed assegnazione dei concimi per favorire la ripresa della produzione agrumaria, tenendo presente specialmente le deplorevoli condizioni degli agrumeti della penisola sorrentina e della costiera amalfitana. Tali agrumeti si trovano in stato di preoccupante deterioramento per il lungo periodo di mancata fertilizzazione dovuta ai criteri seguiti dalle associazioni agrarie preposte alla distribuzione, le quali hanno trascurato l’agrumicoltura che rappresenta importantissima ricchezza di quelle zone ed ha il suo grande peso sulla bilancia economica del nostro Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’industria e commercio e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se è esatta la notizia secondo la quale la società generale «Montecatini» non consegna da oltre un mese perfosfato minerale agli agricoltori, che ne hanno urgente bisogno, solo per il fatto che non è stato ancora approvato un ulteriore aumento del prezzo di tale prodotto. In caso affermativo quali provvedimenti intende proporre il Ministro dell’agricoltura e delle foreste per eliminare detto arbitrario provvedimento che danneggia notevolmente la produzione agricola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente deli Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sollecitare il finanziamento della ricostruzione delle fogne di Diano Marina, secondo il progetto già approvato.

«Perché non si rinnovi l’epidemia di tifo, che l’anno scorso decimò quella cittadina, l’autorità sanitaria dichiarò indispensabili due provvedimenti: un acquedotto e le fogne.

«Il primo è in corso d’esecuzione (senza peraltro le diramazioni alle frazioni che pur vi hanno diritto; per il secondo si dice che mancano i fondi.

«Ma è assurdo che non si trovino i fondi per un’opera assolutamente necessaria a prevenire il ripetersi di una mortale epidemia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canepa, Pera, Rossi Paolo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per chiedere – in considerazione che il Ministero della difesa ha aderito alla domanda della provincia di Imperia di cederle il possesso delle caserme di Diano Marina per adibirle ad ospedale psichiatrico (di cui essa è priva) – che si provveda senza indugio a riparare i danni che il tempo e l’incuria hanno cagionato a detti edifici abbandonati, salvo poi naturalmente alla provincia sostenere le spese per il nuovo uso.

«Ogni giorno che passa senza che si metta mano ai lavori aggrava la rovina d’un ingente capitale dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canepa, Pera, Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che ritardano la sanzione dell’accordo già intervenuto fra il comune di Reggio Calabria ed il Ministero della pubblica istruzione per la nazionalizzazione del Museo civico di Reggio Calabria; sanzione in vista della quale l’Amministrazione dello Stato sta già sostenendo le spese pei lavori di adattamento dell’edificio.

«La pratica relativa, trovasi da oltre sette mesi all’esame del Ministero dell’interno e già quello della pubblica istruzione ha fatto presente la necessità che la pratica sia definita con sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e della marina mercantile, per conoscere che cosa si aspetti per concedere, in base ad esigenze di giustizia sociale, la libertà di lavoro e di organizzazione anche nei porti, la sola che potrà garantire un regime di concorrenza, pur mantenendo fermi i diritti e le conquiste dei lavoratori portuali e serbando anche in vita, con le adeguate e opportune riforme, gli Uffici di lavoro dei porti sotto la diretta dipendenza e responsabilità del Ministero della marina mercantile. Si chiede che le imprese e le cooperative possano liberamente funzionare nei porti e intrattenere i loro rapporti diretti, come tutte le imprese industriali, con i lavoratori, pur servendosi esclusivamente delle maestranze iscritte nei ruoli delle capitanerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Finocchiaro Aprile».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non creda debba il Governo della Repubblica provvedere finalmente ad accelerare quei lavori delle strade di serie rimaste incomprensibilmente allo stato di indicazione o poco meno, il cui elenco è stato stabilito nella provvida legge che il Ministro Baccarini propose e che porta il numero 337 del 23 luglio 1881, in modo che nel più breve termine venga assolto l’impegno che lo Stato ha assunto verso le popolazioni interessate; e questo per le strade di valico appenninico particolarmente, come quelle del Bratello, del Lagastrello, del Pradenena, ed in specie per la più urgentemente attesa – la seconda numero 161 – la quale interessa quattro provincie (Massa Carrara, Spezia, Parma e Reggio Emilia) e sarà per divenire una fra le più importanti arterie dell’Alta Italia, abbreviando notevolmente il percorso dalla Toscana a Milano. In essa, dopo gli appalti del 1922, non si continuò che un solo chilometro, giacché le complesse burocrazie statali non seppero in tanti anni risolvere un cambiamento di tracciato modificatore della legge e che non ebbe mai alcun fondamento.

«Micheli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si richiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà inscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 22.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Pesenti

Scoca

Cappi

Micheli

Scoccimarro

Dugoni

Cimenti

Piemonte

Perassi

Jacini

Corbino

Marinaro

Condorelli

Mortati

Paris

Crispo

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Codacci Pisanelli

La seduta comincia alle 9.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Russo Perez.

(È concesso).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Onorevoli colleghi, si riprende l’esame della lettera c) del secondo articolo degli emendamenti aggiuntivi, concernenti gli enti collettivi, formulati dalla Commissione.

Ricordo che il testo proposto era del seguente tenore:

«c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i benefici ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Ieri sera si era rimasti d’intesa che la Commissione avrebbe presentato questa mattina un nuovo testo che, tenendo conto della lettera c) del primo articolo, sfrondasse tutte le indicazioni superflue, in maniera da avere l’elenco di quegli altri enti i quali possono usufruire dell’esenzione.

Onorevole La Malfa, è stato preparato il nuovo testo?

LA MALFA, Relatore. Vi è un emendamento dell’onorevole Pesenti che può essere preso a base della discussione.

SCOCA. Anche noi abbiamo preparato un emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene.

Do lettura dell’emendamento proposto dall’onorevole Pesenti:

«c) le aziende autonome dello Stato, le aziende municipalizzate ed enti autonomi che esercitino pubblici servizi, le partecipanze e le università agrarie».

Nell’emendamento Pesenti restano così assorbiti tanto l’emendamento Assennato, il quale citava soltanto gli enti autonomi che esercitano pubblici servizi, quanto l’emendamento Dugoni, salvo, quest’ultimo, per la parte che propone il mantenimento nell’elencazione dei consorzi e degli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori.

Resta sempre la proposta dell’onorevole Quintieri di eliminare l’indicazione relativa alle aziende municipalizzate.

Gli onorevoli Scoca, Carbonari ed altri, presentano a loro volta il seguente emendamento sostitutivo della prima parte della lettera c) sino alle parole «aziende municipalizzate»:

«c) le aziende dello Stato delle province e dei comuni e gli enti autonomi esercenti un pubblico servizio».

Invito il Governo ad esprimere il suo avviso su questi due emendamenti.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo accetta la formula, dell’emendamento proposto dall’onorevole Scoca che assorbe parzialmente l’emendamento dell’onorevole Pesenti. Il Governo accoglie quindi l’emendamento Scoca, mentre non accoglie l’emendamento Pesenti. Chiedo scusa agli onorevoli colleghi se, per semplificazione e per brevità, ridurrò al minimo la motivazione del pensiero del Governo.

LA MALFA, Relatore. Desidererei avere un chiarimento sull’emendamento Scoca. Chiedo cioè se egli intende mantenere il resto dell’alinea c) dalle parole: «i Consorzi e gli altri enti autorizzati» in poi.

SCOCA. Sì, lo mantengo.

LA MALFA, Relatore. Mi pare allora che ci troviamo nell’identica situazione di ieri sera: non ci comprendiamo affatto. Avendo modificato la lettera c) dell’articolo 1, non possiamo conservare ora questa lettera c).

PRESIDENTE. Cominciamo con il votare la prima parte dell’alinea c); poi esamineremo la parte successiva. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Scoca.

(È approvato).

Passiamo ora alla seconda parte della lettera c). Dopo la votazione avvenuta, dell’emendamento dell’onorevole Pesenti rimane il finale tendente a mantenere le parole: «le partecipanze e le università agrarie».

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze per esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è d’accordo nel concedere l’esenzione anche per le partecipanze e le università agrarie; per quanto sia molto improbabile che le partecipanze ed università agrarie posseggano un reddito di categoria B.

Vorrei, in proposito, soggiungere che tutti gli enti elencati nella categoria c) difficilmente posseggono un reddito di categoria B; ma, la semplice possibilità che questi enti posseggano un reddito di categoria B, basta per giustificare l’elencazione che il Governo chiede di mantenere. Il fatto che si tratti di ipotesi più teoriche che pratiche serva a tranquillizzare gli onorevoli colleghi in ordine alla ripercussione di queste esenzioni sul gettito del tributo straordinario. Si tratta effettivamente di una rinuncia molto limitata al tributo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Proporrei che per le partecipanze agrarie restasse convenuto che, se possono cadere nella categoria B, si includono; se no, non si includono nel decreto. Se sono escluse, come io penso, commettiamo un’incongruenza formale e giuridica. Quindi, se l’onorevole Pesenti accetta, faremmo a priori un accertamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi pare, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, che l’elencazione degli enti considerati nella lettera c) presupponga l’esistenza di un eventuale reddito di categoria B. Per chiarire meglio il concetto, si potrebbe far precedere o seguire la lettera c) dal riferimento al reddito di categoria B. Ciò non mi sembra però necessario, perché l’esistenza di un reddito di categoria B è il presupposto indispensabile per la soggezione alla imposizione, e pertanto anche un’elencazione di esenzioni soggettive dall’imposizione stessa deve presupporre la esistenza di redditi di categoria B.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. È meglio parlare chiaro, perché ho l’impressione che qui si giochi attorno alle parole.

La lettera b) dell’articolo 1 esenta gli enti, salvo per quella parte di patrimonio che è destinata ad attività produttiva tassabile in categoria B. L’articolo 2 stabilisce delle esenzioni assolute, cioè anche se vi fosse un reddito tassabile in categoria B. Ed allora, che cosa significa la proposta di alcuni colleghi di mantenere, oltre quelle aziende che effettivamente dovrebbero essere tassate, e anzi sono tassate, in categoria B, come le aziende municipalizzate e altre – perché svolgono un’attività produttiva – che cosa significa mantenere anche, per esempio, tutti gli enti religiosi e sopprimere l’ultima parte del comma c) del secondo articolo? Significa che vi è l’intenzione di non colpire, per esempio, un convento, se questo convento ha una scuola, nella quale fa pagare delle rette; significa non voler colpire una clinica privata, se gestita da suore o da religiosi. Ora, questo, in parole chiare, è quello che vorrebbe essere sostenuto dall’emendamento che propone il mantenimento di tutte queste indicazioni.

UBERTI. Ma non è un emendamento della Commissione?

PESENTI. Io desidero che l’Assemblea sia al corrente di questi fatti, perché, appunto, girando attorno alle parole, non si venga a cadere in errore.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti, noi abbiamo fatto già una prima votazione, che assorbe una parte delle sue proposte. Rimane da decidere in ordine alla sua proposta relativa alle partecipanze ed università agrarie. Decidiamo ora su questa. Mantiene il suo emendamento, onorevole Pesenti?

PESENTI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora, poiché la votazione di poco fa ha assorbito una parte dell’emendamento dell’onorevole Pesenti, rimane la parte relativa alle partecipanze ed università agrarie. Pongo in votazione quest’ultima parte.

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Voterò per questa parte dell’emendamento Pesenti in quanto è inclusa nel seguito dell’articolo che intendiamo mantenere fermo. Ciò non implica perciò l’esclusione del resto dell’articolo stesso.

PRESIDENTE. Questo lo vedremo dopo. L’Assemblea lo potrà anche escludere. Pongo dunque ai voti le parole: «le partecipanze e le università agrarie».

(Sono approvate).

Ricordo ora che nell’emendamento presentato dall’onorevole Dugoni si conservava l’altro inciso del testo della Commissione (che in realtà nel testo precede l’indicazione delle partecipanze ed università agrarie) e cioè: «i consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Io non sono in grado di riferire su questi emendamenti il pensiero della Commissione, ma come relatore mi oppongo alla inclusione di questa categoria.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. La portata dell’emendamento è molto limitata, l’urgenza dei lavori ci porta ad abbreviare la discussione. In considerazione delle limitate dimensioni del problema, il Governo accetta che siano esenti i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Faccio notare all’Assemblea che con questa dizione verrebbe ad essere esente l’Istituto cotoniero, che impone tributi obbligatori.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Devo – e mi dispiace – ricordare quanto al riguardo è stato detto in forma impegnativa dal Governo ieri, in sede di discussione dell’emendamento dell’onorevole Pesenti, che aveva postulato il problema di questi enti. È un problema che è stato risolto con l’impegno del Governo a rivedere le disposizioni concernenti la tassazione dei redditi mobiliari di categoria B.

LA MALFA, Relatore. Prendo atto della dichiarazione del Ministro; ma qualsiasi autorità giudiziaria che dovesse decidere sull’interpretazione della dizione «consorzi ed altri enti autorizzati», nonostante la dichiarazione dei Governo, metterebbe l’Istituto cotoniero fra gli enti esenti dalla tassazione straordinaria.

SCOCA. Se sorgesse qualche dubbio circa la estensione della formula usata dal testo che abbiamo sott’occhio, si potrebbe precisare il concetto dei consorzi qui contemplati, specificando che sono compresi nella esenzione solo i consorzi di bonifica, di miglioramento e di irrigazione.

LA MALFA, Relatore. Accetto.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto anch’io.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti la formulazione:

«i consorzi di bonifica, di miglioramento e di irrigazione».

(È approvata).

Segue l’altra elencazione che, a tenore della proposta dell’onorevole Scoca, dovrebbe restare.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Faccio presente che la lettera c) aveva un significato in quanto prima elencava tutte le esclusioni, e poi, in un ultimo comma, stabiliva che queste esenzioni dall’imposta non vi erano per la parte di patrimonio destinata ad una attività produttiva.

Oggi vi è la proposta dell’onorevole Scoca di mantenere la lettera c) nonostante la diversa dizione dell’articolo 1; e di togliere anche l’ultima limitazione col preciso scopo di rendere non tassabili quelle attività strettamente economiche svolte da enti religiosi. Allora, sicuro di interpretare il pensiero di almeno una parte dell’Assemblea, ripeto che è comprensibile che una tipografia di artigianelli sia retta da enti religiosi oppure da privati cittadini; e che un collegio di rieducazione dei traviati, di reduci del carcere o simili, che sono enti particolari di assistenza che non hanno fini di lucro, debbano essere esenti (e questa è una interpretazione che può dare direttamente l’amministrazione finanziaria); ma non è giusto che sia esente una clinica, sia pure retta da suore, la quale faccia pagare delle rette, faccia concorrenza alle cliniche private e si avvalga di quegli stessi medici che prestano la loro opera in cliniche private; non è giusto che sia esente un liceo-ginnasio che faccia la concorrenza a collegi e convitti di carattere privato. Perciò propongo che la seconda parte dell’alinea sia tolta in quanto essa, o è in contrasto con l’articolo 1 già approvato, oppure stabilisce delle esenzioni più larghe che non sono giustificate.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. L’onorevole Pesenti ha creduto di interpretare il mio pensiero, ma non so su quali basi, perché io non ho ancora avuto occasione di parlare.

La ragione per cui io richiedo che il resto dell’articolo rimanga così come è, è molto chiara ed ispirata a criteri molto più ampi che non quelli indicati dall’onorevole Pesenti.

Noi abbiamo tutta una elencazione, cominciando dalle Opere Pie, gli Istituti ed Enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; poi abbiamo le società di mutuo occorso; poi abbiamo le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli, indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani, ecc.

La ragione per cui ritengo che convenga conservare queste esenzioni di carattere soggettivo è semplice. Con l’articolo 1, lettera c), abbiamo sottoposto a tassazione gli enti morali soltanto per quella parte del patrimonio la quale è destinata alla produzione di un reddito tassabile in categoria B dell’imposta di ricchezza mobile.

Vi sono degli enti, come gli enti di assistenza e di beneficenza, che per vivere, per raggiungere il loro scopo benefico, esercitano una qualche modesta attività produttiva non con lo scopo di lucro, ma unicamente per alimentare questa opera di beneficenza ed assistenza.

Ora, io dico che sarebbe un errore sottoporre all’imposta sul patrimonio questa parte del patrimonio, una volta che è accertato che l’attività di questi enti è volta al raggiungimento di scopi di alto benessere sociale, quali sono l’assistenza e la beneficenza.

Già in base alla norma approvata questi enti sarebbero esenti, e solo sarebbero soggetti per quella parte del loro patrimonio che rientra in qualche modo nell’ingranaggio delle leggi normali, nell’ambito della ricchezza mobile. Ma qui ci troviamo di fronte ad una imposta straordinaria che tassa il patrimonio e porta via una parte di esso.

Ora, se questi enti devono raggiungere scopi di beneficenza ed assistenza e per raggiungere questi scopi svolgono una certa attività soggetta a ricchezza mobile, non è giusto che una parte qualsiasi dei beni da essi posseduti venga loro sottratta perché ciò impedirebbe il raggiungimento dei fini che si propongono.

Ecco quale era il significato della mia proposta.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea mi scusi se io devo riprendere la questione dall’inizio.

Ieri, l’emendamento del Governo ha ristretto la categoria di tassazione degli enti morali disponendo che si tassino solo gli enti morali che esercitano una attività produttiva di reddito tassabile in categoria B. Questo emendamento del Governo ha ristretto enormemente la base di imposizione e, direi, ha tolto qualsiasi ragion d’essere al provvedimento. Questo si chiama provvedimento sugli enti collettivi in quanto stabilisce la tassazione della generalità di questi enti.

Oggi con l’emendamento Scoca noi diciamo all’articolo 1: non tassiamo gli enti morali. Badate che gli enti morali, le istituzioni sono in genere fondazioni di beneficenza non aventi scopo di lucro. Quindi quando diciamo all’articolo 1, lettera c): enti morali tassabili in categoria B, vogliamo dire enti non aventi scopo di lucro che esercitano, per una parte della loro attività, una attività di lucro. Guardate allora le conseguenze dell’emendamento Scoca: nel primo articolo diciamo che se questi enti, che sono senza scopo di lucro, hanno una parte di attività a scopo di lucro, li tassiamo. Nell’altro articolo diciamo che se questi enti senza scopo di lucro hanno una parte di attività a scopo di lucro, non li tassiamo. Ora, da un punto di vista formale, questa è una assurdità. Prima tassiamo la parte produttiva avente lo scopo di lucro, poi non la tassiamo. Perché? Perché quando restringiamo la categoria dell’articolo 1, diciamo: Noi tassiamo gli enti di beneficenza, che non abbiano una finalità di lucro. Quando andiamo all’articolo 2, diciamo: Ma siccome sono enti di beneficenza, anche se hanno scopo di lucro, non li tassiamo.

Ecco l’assurdità. Ma qual è la sostanza di questa questione? Mi dispiace di dover ricordare, ai colleghi democristiani, il discorso di ieri.

UBERTI. L’abbiamo sentito.

LA MALFA, Relatore. Lo ripeto, e lo porto alla conclusione.

UBERTI. A nome personale.

LA MALFA, Relatore. Sì, a nome personale; mi basta.

Come dico, quando noi escludiamo dalla tassazione straordinaria. gli enti morali in sé, senza preoccuparci dei fini che essi hanno, noi in definitiva alla tassazione degli enti collettivi togliamo gran parte delle sue ragioni. Noi possiamo fare, rispetto alla categoria «Istituzioni, enti morali, fondazioni», delle esenzioni specifiche, ben determinate. Ma con questo sistema dei due articoli che si intrecciano fra loro, noi evidentemente la categoria c) la possiamo considerare soppressa praticamente dalla legge perché io domando quali enti rimangono sotto la categoria c) quando noi escludiamo tutti gli enti elencati alla categoria c-2 – enti di beneficenza, istruzione, società di mutuo soccorso – anche se esercitano una attività produttiva. Noi prendiamo solo pochi enti: l’Istituto mobiliare e l’Istituto delle assicurazioni, e, quest’ultimo se l’onorevole Micheli ce lo permette, perché ha presentato un emendamento per cui anche l’Istituto delle assicurazioni non dovrebbe pagare…

MICHELI. L’ho ritirato.

LA MALFA, Relatore. Non troveremo più di quattro o cinque enti da classificare nella categoria c). Ora io pregherei di rilevare anche una questione di giustizia tributaria in questo campo. Giustamente diceva l’onorevole Pesenti: o noi vogliamo far prevalere il concetto di fine di beneficenza, ed allora estendiamo la categoria c) dell’articolo 1 ed esentiamo gli istituti di beneficenza, o noi vogliamo far prevalere il concetto di tassabilità in categoria B ed allora manteniamolo fermo perché, con il sistema dell’emendamento Scoca, qualsiasi attività avente attinenza agli scopi della Chiesa, qualsiasi istituto ecclesiastico che rientra in quella sfera che interessa il cattolicesimo in Italia, non sarà tassabile. (Commenti – Proteste al centro). Non sarà tassabile né nella categoria B né fuori della categoria B.

Questo ho detto, onorevoli colleghi, per la mia responsabilità di relatore e, come dicevo ieri, la Commissione nella discussione di questo problema è stata di una equanimità e di una imparzialità assoluta.

Nella redazione originale del progetto presentato dalla Commissione si facevano esenzioni che, nella legge del 1922, rispetto ai patrimoni ecclesiastici, non erano previste. Lo spirito con cui la Commissione ha considerato questo problema degli enti ecclesiastici e delle attività connesse, è stato largo. Ma, con gli emendamenti che si propongono, si va alle esenzioni totali. Ripeto che veramente qui si viene a stabilire un privilegio assoluto per una categoria. (Interruzioni al centro).

Per queste ragioni, non solo da un punto di vista formale le lettere c) degli articoli 1 e 2 non hanno più senso comune, ma dal punto di vista di giustizia tributaria determinano l’impressione che altre decisioni gravi, che abbiamo preso, di tassazione rigida, non abbiano più fondamento. Se siamo stati rigidi per quelli che hanno 100.000 lire d’imponibile, dobbiamo mantenere la stessa rigidità in altri campi.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. È inesatto il rilievo dell’onorevole La Malfa, secondo il quale, se noi manteniamo l’elencazione della lettera c) dell’articolo 2, viene meno ogni zona tassabile ai sensi dell’articolo 1.

L’onorevole La Malfa non ha osservato che, secondo la lettera c), non tutte le attività svolte – per esemplificare, come ha fatto l’onorevole Pesenti – da suore o da istituti religiosi sono esenti, ma solo quelle attività svolte da suore o da altri, i cui enti abbiano scopi di assistenza o di educazione di indigenti, di infermi, orfani, fanciulli bisognosi, combattenti e reduci.

Cosicché, se vi sono suore o conventi, che non hanno questi scopi specifici di assistenza ed esercitano attività produttive, saranno tassabili.

Per una seconda osservazione, mi rivolgo all’onorevole Scoccimarro per questa ragione: l’altra sera, per un dovere di lealtà politica, io e il mio Gruppo abbiamo mantenuto un emendamento contro il parere del Governo; mi permetto, forte di questo precedente di richiamare allo stesso dovere di lealtà politica l’onorevole Scoccimarro, perché a me consta che ieri, quando si concordò l’emendamento circa le società cooperative, e noi, Gruppo democristiano, abbandonammo una certa tesi per aderire a quella delle sinistre, ci si era detto, in persona degli onorevoli Scoccimarro e Pesenti, che si aderiva a mantenere tutta l’elencazione della lettera c), meno i benefici, maggiori o minori, sui quali ci si riservava di dare battaglia.

Invito le sinistre, per coerenza e lealtà politica, a tener fede al loro impegno.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Chiedo scusa al signor Presidente; ma debbo anzitutto rilevare che la Commissione di finanza non ha potuto riunirsi da ieri sera a stamane, di modo che tutto quanto oggi dice a questo proposito l’onorevole La Malfa è espressione del suo pensiero personale, non della Commissione.

LA MALFA, Relatore. No!

SCOCA. Ciò premesso, debbo fare alcune osservazioni su quanto ha detto l’onorevole La Malfa, ed anzitutto sulla sua affermazione che il mantenimento delle esenzioni soggettive previste nella lettera c) dell’articolo 2 svuoterebbe di contenuto la lettera c) dell’articolo 1.

È argomento impressionistico, che non ha nessuna base e nessuna consistenza. La lettera c) dell’articolo 1 contempla genericamente le istituzioni, le fondazioni e gli enti morali in genere, per la parte di patrimonio la quale sia investita nella produzione di un reddito soggetto alla imposta di ricchezza mobile. Ma, evidentemente, quando abbiamo votato questa lettera c), ci siamo riferiti a quegli enti morali che effettivamente hanno funzione produttiva nel Paese e che non hanno forma di società. Così, per esempio, vi sono istituti bancari e creditizi che non hanno forma di società anonima ed è con riferimento a questi, principalmente, che ha contenuto la lettera c) dell’articolo 1, oltre che con riferimento ad altri organismi produttivi che non hanno la forma dell’anonima o delle altre società contemplate nelle lettere a) e b).

Poi debbo rilevare l’infondatezza di un’altra pretesa contraddizione. Dice l’onorevole La Malfa che, mentre nella lettera c) dell’articolo 1 abbiamo contemplato il fine di lucro per la tassazione, nella lettera c) dell’articolo 2 contempliamo lo stesso fine di lucro per l’esenzione. Ora, intendiamoci bene. La dizione che noi approvammo non parla di fini di lucro: la dizione della lettera c) è in questi termini: «istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere che esplicano attività produttiva di reddito tassabile, ai fini della imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Di modo che prescindemmo dalla considerazione dello specifico fine di lucro e considerammo il presupposto obiettivo dell’assoggettamento alla imposta di ricchezza mobile. Occorre ora considerare quegli enti che, avendo uno scopo che li fa ritenere degni dell’esenzione dal pagamento della imposta straordinaria sul patrimonio, vadano viceversa a cadere sotto la disposizione della lettera c) dell’articolo 1.

Nella lettera c) dell’articolo 2 poi, l’assenza di fini di lucro è esplicitamente contemplata, in quanto ivi si parla di enti «senza fini di lucro». Cosicché non vi è affatto la contraddizione rilevata dall’onorevole La Malfa. Qui, debbo aggiungere che la portata delle esenzioni è molto modesta: l’ha ripetuto più volte il Ministro, il quale ha detto che la zona che va esente per effetto della lettera c) dell’articolo 2 è di limitatissime proporzioni. Si tratta di sottrarre alla imposta sul patrimonio quelle modeste attività che esercitano taluni enti di assistenza e di beneficenza, che sono soggetti alla imposta ordinaria di ricchezza mobile in virtù di norme generali, ma non possono essere soggetti alla imposta straordinaria sul patrimonio, perché il fine ultimo ed essenziale di tali enti è quello di assistenza e di beneficenza.

È quanto meno esagerato riferirsi sempre e solo ad enti religiosi mentre ci sono molti altri enti che cadono sotto la lettera c) dell’articolo 2, i quali col carattere religioso nulla hanno a che vedere. Cito, ad esempio, talune attività esercitate dall’Associazione combattenti, da quella per i liberati dal carcere ecc.

Mi richiamo – e finisco – ad un precedente affine, che abbiamo votato di recente, cioè l’esenzione che abbiamo concessa alle cooperative aventi fini mutualistici. Benché le cooperative siano soggette alla imposta sul patrimonio in base alla norma generale, abbiamo deliberato che il fine di mutualità le esonera dal pagamento della imposta sul patrimonio. Non sono sullo stesso piano il fine mutualistico e i fini di beneficenza e di assistenza? Questo domando all’Assemblea.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Farò una brevissima dichiarazione, signor Presidente. Io ho ritirato ieri il mio emendamento per le ragioni che ho brevissimamente esposto. Ma siccome il Relatore, onorevole La Malfa, ha voluto accennare ad una particolarità, che cioè la tassazione si potesse applicare all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, io devo avvertirlo che esso Istituto si trova nelle condizioni di esenzioni già stabilite unanimemente dall’Assemblea e sopra le quali non si può più ritornare. Infatti l’Istituto non è tassato in categoria B, sia perché se vi sono utili essi vanno allo Stato sia perché tutti i proventi passano alle riserve unicamente per garanzia degli assicurati.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Micheli ha risposto alle argomentazioni dell’onorevole Scoca circa gli enti di lucro.

L’onorevole Scoca ha citato alcuni istituti di credito; ma se noi parliamo di fini di lucro, allora, anche il Banco di Napoli andrebbe esentato, perché, essendo una fondazione, non ha fine di lucro, anche se esercita una attività economica.

Ad ogni modo, alle argomentazioni dell’onorevole Cappi, per cui ieri c’è stato un accordo per questa esenzione specifica e per la esenzione delle cooperative, io devo rispondere che qui non possiamo fare una sorta di camera di compensazione delle esenzioni. (Approvazioni a sinistra). Questa sarebbe una maniera poco corretta di trattare i problemi fiscali, onorevole Cappi. Si deve discutere di far pagare i cittadini, non di fare accordi reciproci sulla esenzione di questa o quella categoria.

D’altra parte, nel testo originario, in cui si parlava, nell’articolo 1 lettera c), degli enti morali che esplicano attività produttive, non c’erano le esenzioni dell’articolo 2 lettera c). E giustamente, nel disegno di legge, non c’erano perché in quel provvedimento non potevano essere ammesse. Queste esenzioni sono state prese dal progetto della Commissione; quindi, si sono sommati due emendamenti. Il progetto del Governo non contempla nessuna esenzione per l’articolo 2; stabilisce tre categorie di imposizioni e le mantiene ferme. Questo è il progetto governativo.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero rispondere all’onorevole Cappi per il richiamo fatto ad una intesa che ieri sarebbe avvenuta a proposito di quest’articolo e della questione che si discuteva sulla cooperazione. È vero che ad un certo momento l’onorevole Cappi, riferendosi personalmente a me disse: «Se noi modificassimo il nostro atteggiamento, sul problema della cooperazione, sareste voi d’accordo nel mantenere la lettera c) dell’articolo 2?». Io dissi sì, ma vorrei spiegare all’onorevole Cappi che qui c’è stato uno strano equivoco. Siccome io parlando avevo annunciato che mi proponevo di avanzare la proposta di togliere l’esenzione per gli enti di assistenza e beneficenza per porre il problema del contributo allo Stato (problema che ho trattato diverse volte in sede di discussione generale), io pensavo che la sua richiesta fosse questa: se votando in quel modo sulla cooperazione, noi lasciavamo stare l’esenzione degli enti di assistenza e beneficenza. E su questo siamo d’accordo e manteniamo quanto abbiamo detto: non dico l’impegno, perché impegno non c’è stato, dato che era una conversazione; però mi accorgo adesso che lei, onorevole Cappi, ha dato una interpretazione eccessivamente estensiva. (Commenti al centro).

CAPPI. Lei ha parlato con l’onorevole Tosi, non con me.

SCOCCIMARRO. Comunque, io qui ho fatto un discorso per sostenere che a mio giudizio – e non posso cambiare opinione su questo argomento – qualunque ente svolga una attività economica lucrativa è tenuto a corrispondere il pagamento di questa imposta. È un concetto che ho sostenuto da lungo tempo anche nella discussione generale sul provvedimento.

La tesi che io ho sempre sostenuto è che bisognava togliere dalle esenzioni anche gli enti di assistenza e beneficenza, ed ammettere il principio, invece, del contributo dello Stato, che potrebbe essere anche superiore a quella parte di imposta patrimoniale.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Volevo precisare che ieri mattina, dopo la votazione della lettera c) dell’articolo 1, io dissi che la lettera c) dell’articolo 2 avrebbe dovuto essere soppressa, o ridotta a due o tre voci. E su questo si sono trovati d’accordo anche gli onorevoli Tosi, Vicentini ed altri. Quindi, tutta la lettera c) dell’articolo 2 avrebbe dovuto cadere secondo quanto si è detto. Questo era il preciso accordo intervenuto, tanto è vero che l’onorevole Conti non lesse tutta la parte dell’articolo 2 riferentesi alla lettera c) poiché eravamo d’accordo che in grandissima parte doveva cadere.

PRESIDENTE. Desidero chiarire che, per tutto ciò che è stato detto in Aula nelle sedute precedenti, vi sono i resoconti stenografici ed i verbali che fanno testo; per quanto riguarda le discussioni fatte fuori dall’Aula, desidererei che a queste non ci si richiamasse, perché non hanno nessuna importanza agli effetti del lavoro legislativo che si svolge in Aula.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi si permetta di manifestare il mio personale rammarico per l’aspetto polemico che ha assunto questa discussione, che deve restare sul piano evidentemente tecnico, nel quadro, naturalmente, della discussione di un orientamento politico tributario. Non posso condividere l’affermazione dell’onorevole La Malfa, il quale, non soltanto ha detto che, se entrasse in vigore il proposto sistema di esenzioni, il disposto dell’articolo 1, lettera c), diverrebbe praticamente inefficace; egli ha detto che verrebbero addirittura meno le ragioni di essere del provvedimento.

Il Governo non è di questo parere, perché il più esteso campo di applicazione del provvedimento che si discute è quello delimitato dalla lettera a) relativa alle società per azioni, e dalla lettera b) relativa alle società in accomandita semplice ed in nome collettivo.

Per quanto riguarda la lettera c), il Governo ha espresso chiaramente il proprio pensiero: desidera che siano mantenute le proposte esenzioni a favore di quegli istituti ed enti che svolgono un’attività di elevatissimo interesse sociale. Questo è il significato delle esenzioni: esse riguardano istituti che possono appartenere a tutti i settori, al settore ecclesiastico come al settore laico, al settore cattolico come a quello acattolico; se poi queste attività filantropiche prevalgono in determinati settori non credo sia questa una ragione per negare un’agevolazione che il Governo intende accordare. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione della rimanente parte dell’alinea c).

Pongo ai voti la formulazione:

«le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti».

(Dopo prova e controprova è approvata).

Pongo ai voti le parole:

«le società di mutuo soccorso».

(Sono approvate).

Pongo ai voti le parole:

«le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fini di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli».

(Sono approvate).

«gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti».

(Sono approvate).

«gli istituti pubblici di istruzione».

(Sono approvate).

«i corpi scientifici, le Accademie e società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali».

(Sono approvate).

Avverto che all’ultimo inciso è proposto questo emendamento dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro ed altri:

«Sostituire alle parole: i benefici ecclesiastici maggiori o minori, le altre: i benefici ecclesiastici aventi diritto a congrua».

Quale è il parere del Ministro delle finanze?

PELLA, Ministro delle finanze. Per le ragioni esposte su questo concetto in sede di discussione dell’imposta straordinaria progressiva, il Governo respinge l’emendamento proposto e chiede sia mantenuta ferma la formula più ampia: «i benefici ecclesiastici maggiori o minori».

Il Governo desidera aggiungere che, parlando di benefici ecclesiastici maggiori o minori, dopo aver parlato di enti equiparati a norma dell’articolo 29 del Concordato, non intende che ciò possa essere interpretato nel senso che i benefici ecclesiastici maggiori e minori non siano da ritenersi compresi nell’articolo 29 del Concordato. (Interruzione del deputato Scoccimarro).

È una questione su cui il Governo può avere una sua opinione, ma non è questa la sede perché questa possa essere discussa. Desidero semplicemente, agli effetti della legge che si discute, affermare che l’aggiunta degli enti ecclesiastici maggiori e minori, dopo aver parlato dell’articolo 29, non può significare adesione al concetto di ritenere estranei all’articolo stesso i benefici ecclesiastici maggiori e minori.

Questa è la portata della dichiarazione che credo avere il dovere di fare a nome del Governo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento degli onorevoli Pesenti e Scoccimarro.

(Dopo prova e controprova non è approvato).

Pongo ai voti il testo della Commissione:

«i beni ecclesiastici maggiori o minori».

(È approvato).

Passiamo ora all’ultimo comma:

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Vi è una proposta del Governo di soppressione del comma. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. La proposta di sopprimere l’ultimo comma è conseguenza della modificazione apportata all’articolo 1 delle esenzioni che sono state comprese nell’articolo 2 lettera c). Quindi, mantengo fermo l’emendamento governativo per la soppressione di questo ultimo comma.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Ho chiesto di parlare per affermare che l’ultimo comma dell’articolo 8 è in contrasto con l’articolo 1, allo stesso modo in cui può essere in contrasto tutta la lettera c) del 2° articolo. Se non si è trovato il contrasto nella lettera c) del 2° articolo, non può esservi contrasto nemmeno all’ultimo comma.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta del Governo di sopprimere l’ultimo comma di questo articolo.

(È approvata).

Passiamo al successivo terzo articolo:

«Per le cooperative la condizione relativa ai principî ed alle discipline della mutualità, di cui all’articolo precedente, s’intende sodisfatta quando, nello statuto della società cooperativa, legalmente costituita, siano espressamente stabilite le clausole seguenti:

1°) divieto, in caso di distribuzione di dividendi, di superare la ragione dell’interesse legale, ragguagliato al capitale effettivamente versato;

2°) divieto di ogni riparto delle riserve fra i soci, durante l’esistenza della società;

3°) devoluzione, in caso di cessazione della società, dell’intero patrimonio sociale, previo rimborso del solo capitale effettivamente versato dai soci, a fini di pubblica utilità, riconosciuti tali dall’Amministrazione finanziaria.

«L’esenzione non si applica quando l’Amministrazione finanziaria constati che le clausole indicate ai numeri 1°) e 2°) non sono state, in fatto, osservate negli ultimi cinque anni».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che dopo l’emendamento che abbiamo accettato alla lettera b, dell’articolo 2, questo articolo sia inutile, perché le condizioni per il riconoscimento delle cooperative sono implicite in quell’emendamento.

PRESIDENTE. Lei, perciò, propone di sopprimere questo articolo?

LA MALFA, Relatore. Sì.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io non sono d’accordo sulla soppressione proposta dall’onorevole La Malfa. Deve essere ben chiaramente stabilito quale è il limite entro cui può operare l’Amministrazione finanziaria nei confronti delle cooperative. Non possiamo lasciare le cooperative alla mercé di questo o quell’ufficio. Quindi io chiedo che il presente articolo sia coordinato col comma b) dell’articolo precedente, ma che sia mantenuto nel suo complesso.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. L’emendamento all’articolo 2 parla di una decisione dell’Amministrazione sentito il Ministero del lavoro, che istituirà un registro delle cooperative. Quindi, dal momento che il Ministero del lavoro riconosce le cooperative in quanto le iscrive nel registro, l’articolo 3 è inutile. L’accertamento dovrebbe farlo il Ministero del lavoro, non il Ministero delle finanze.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Vorrei associarmi a quanto ha detto l’onorevole Dugoni, perché occorre porre limiti precisi e stabilire le condizioni in base alle quali avviene il riconoscimento delle cooperative.

PRESIDENTE. Prego il Ministro di esprimere il suo parere in merito.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo che rimanga fermo l’emendamento proposto dalla Commissione, perché riguarda la enunciazione di tre requisiti obiettivi, indispensabili per completare la nozione delle cooperative.

L’enunciazione stessa potrà riuscire utile anche per il Ministero del lavoro, quando dovrà dare il parere di sua competenza.

Ricordo, d’altra parte, che il Governo aveva dato parere favorevole all’emendamento votato ieri in connessione a questo emendamento n. 3. Chiedo quindi che sia mantenuto fermo l’emendamento.

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Chiedo che all’articolo 3 anziché dire «ai fini di pubblica utilità» si dica: «all’incremento di attività e di istituzioni cooperativistiche».

Noi pensiamo che tutto quello che si riferisce al movimento cooperativistico debba rimanere al movimento stesso. La dizione «ai fini di pubblica utilità» è generica, mentre in un momento nel quale si vuol valorizzare la cooperazione è giusto che le cooperative traggano beneficio da quello che viene loro dal movimento cooperativistico.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Pregherei i colleghi e l’onorevole Ministro di non insistere.

Noi abbiamo scelto quella formula alla lettera b) dell’articolo 2, perché pensavamo che garanzie sul carattere vero delle cooperative potessero esser date dall’indagine affidata al Ministero del lavoro, il quale, istituendo un registro delle cooperative, farà un accertamento non soltanto sui dati formali, ma anche sulla natura cooperativistica. Quindi, in un certo senso, l’amministrazione finanziaria ha la sua garanzia sul carattere delle cooperative dal fatto che il Ministero del lavoro deve dare il suo parere favorevole.

Se formuliamo questo articolo 3, mettiamo con esso delle condizioni obiettive all’indagine del Ministero del lavoro, che di conseguenza viene limitata, e le poniamo preventivamente, mentre non conosciamo i criteri che il Ministero vorrà seguire.

Richiamo l’attenzione sulla pericolosità di creare condizioni che, così formalmente espresse, possono prestarsi all’inclusione anche di cooperative spurie; mentre il Ministero del lavoro, facendo un accertamento concreto e diretto dirà: questa cooperativa non è una cooperativa, e lo dirà in base ad elementi di indagine, seri e concreti.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Vorrei proporre un emendamento, perché quello che dice l’onorevole La Malfa è effettivamente esatto, se si pone in relazione con la dizione letterale dell’articolo. Se si dice che «la condizione relativa ai principî e alle discipline della mutualità si intende soddisfatta quando ecc.», si pongono delle condizioni, ricorrendo le quali si deve riconoscere senz’altro che esiste il requisito della mutualità.

A me pare che occorra mutare la formula; cioè bisogna esigere che nello Statuto delle cooperative queste clausole siano inserite, ma è necessario che concorra anche il giudizio del Ministero. Tale inclusione è il minimum richiesto perché sia riconosciuto il fine di mutualità, ma ciò non basta; occorre che le disposizioni siano seriamente osservate. Da ciò il mio emendamento:

«Dopo le parole: all’articolo precedente, aggiungere le altre: è in ogni caso subordinata all’esistenza nello statuto delle seguenti clausole, sopprimendo il testo del comma».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Aderisco all’emendamento dell’emendamento.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Cimenti, pur non escludendo che la destinazione a scopo cooperativo rappresenti una forma di destinazione a fini di pubblica utilità, non posso accettare l’emendamento proposto.

Chiedo che resti ferma l’espressione «fini di pubblica utilità».

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Io voterò l’emendamento dell’onorevole Cimenti e credo che si possa aggiungere anche «o di pubblica utilità».

Effettivamente dicendo semplicemente «di pubblica utilità» potrebbe essere limitato il diritto di una cooperativa che si scioglie a rimandare il suo capitale ad un’altra cooperativa che si è ricostituita.

Ecco perché credo che l’una cosa possa non escludere l’altra.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei osservare che inserendosi la formula dei «fini cooperativistici» si escluderebbe, in forza di legge, il principio che lo scopo cooperativo rientra nel concetto di «pubblica utilità», mentre tutte queste esenzioni, compresa quella a favore delle cooperative, si inquadrano nel concetto di agevolare gli enti che svolgono fini di «pubblica utilità».

Vorrei pregare l’onorevole Piemonte di accontentarsi dell’assicurazione che il Ministero, in sede di istruzioni, definendo il concetto di «pubblica utilità», vi farà rientrare anche la destinazione a scopo cooperativistico.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte dell’articolo che, in base all’emendamento Scoca, dovrebbe essere così formulata: «Per le cooperative la condizione relativa ai principî ed alle discipline della mutualità di cui all’articolo precedente, è in ogni caso subordinata all’esistenza nello statuto delle seguenti clausole».

(È approvata).

Pongo ai voti le clausole:

«1°) divieto, in caso di distribuzione di dividendi, di superare la ragione dell’interesse legale, ragguagliato al capitale effettivamente versato».

(È approvata).

 

«2°) divieto di ogni riparto delle riserve fra i soci, durante l’esistenza della società».

(È approvata).

Sulla terza clausola vi sono gli emendamenti presentati dagli onorevoli Cimenti e Piemonte.

Onorevole Cimenti, mantiene il suo emendamento?

CIMENTI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Piemonte?

PIEMONTE. Anch’io lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti la terza clausola che è del seguente tenore:

«3°) devoluzione, in caso di cessazione della società, dell’intero patrimonio sociale, previo rimborso del solo capitale effettivamente versato dai soci, a fini di pubblica utilità, riconosciuti tali dall’Amministrazione finanziaria».

(È approvata).

Passiamo all’ultimo comma:

«L’esenzione non si applica quando l’Amministrazione finanziaria constati che le clausole indicate ai numeri 1°) e 2°) non sono state, in fatto, osservate negli ultimi cinque anni».

(È approvato).

Vi è ora una proposta di articolo aggiuntivo presentata dagli onorevoli Perassi e De Vita, del seguente tenore:

«Le esenzioni stabilite dai numeri 4, 5 e 6 dell’articolo 8 si applicano al patrimonio dei soggetti indicati nell’articolo 1 del Titolo III».

L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

PERASSI. L’articolo aggiuntivo è motivato dalla necessità di armonizzare, su un punto, le disposizioni relative all’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi con quelle, già approvate, dell’imposta progressiva sul patrimonio delle persone fisiche.

Gli articoli 3 e 4, che abbiamo già approvato, stabiliscono delle esenzioni soggettive, indicando cioè alcuni enti collettivi nei riguardi dei quali vi sono ragioni per escluderli dalla tassazione. Essi trovano il loro parallelo nell’articolo 7 del titolo relativo all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio delle persone fisiche che stabilisce pure delle esenzioni soggettive. Ma nella legge concernente l’imposta sul patrimonio delle persone fisiche vi è anche un articolo 8, il quale contiene delle esenzioni oggettive, indica cioè alcuni cespiti i quali non vengono considerati ai fini dell’applicazione dell’imposta.

Ora, a noi pare che talune esenzioni oggettive, che sono indicate nell’articolo 8 agli effetti dell’imposta concernente le persone fisiche, devono essere estese per evidenti ragioni, anche all’imposta straordinaria proporzionale che è stata istituita a carico degli enti collettivi.

Nell’articolo 8 si è accordata l’esenzione per i seguenti cespiti: le chiese ed ogni altro edificio destinato al culto, con il mobilio, gli arredi sacri e qualunque altro oggetto di spettanza della chiesa. A questo riguardo vorrei aprire una parentesi e fare una raccomandazione alla Commissione: in sede di coordinamento formale, sarebbe opportuno, anziché «di spettanza della chiesa», perché i beni in questo caso si suppone non siano della chiesa, come soggetto, ma di un privato, dire, come del resto era stato proposto dall’onorevole Costa, «inservienti al culto» oppure «di compendio della chiesa».

La seconda esenzione concerne i titoli del prestito della ricostruzione. Questa esenzione è prevista dall’articolo 4, ma verrebbe assorbita dall’articolo aggiuntivo da me proposto.

Infine, all’articolo 8, si prevede l’esenzione per le cose mobili che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, ecc.

A me pare che queste tre categorie di cespiti debbano avere il medesimo trattamento agli effetti dell’una e dell’altra imposta, poiché le differenze fra queste due imposte sul patrimonio non giustificherebbero un’esenzione per l’uno e non per l’altra.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta.

PRESIDENTE. E il Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto per quanto, forse, qualcuna di queste voci non potrà trovare ingresso nei patrimoni che saranno tassabili ai sensi dell’articolo 3.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo aggiuntivo 3-bis proposto dagli onorevoli Perassi e De Vita.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 4, proposto della Commissione:

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è quello risultante dalla valutazione effettuata a norma dell’articolo 18.    

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni non sono quotate in borsa, e delle società non per azioni è quello risultante dalla valutazione effettuata a norma dell’articolo 19.

«Per tutti gli altri soggetti il patrimonio è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti del presente decreto.

«Dall’imponibile, valutato come sopra, è detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato.

«I titoli del prestito della Ricostruzione, autorizzato con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 26 ottobre 1946, n. 262, che non siano stati convertiti in titoli 5 per cento, sono detratti integralmente, al prezzo di emissione».

Sui primi tre commi non sono stati presentati emendamenti. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto il testo proposto dalla Commissione.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i primi tre commi nel testo proposto dalla Commissione.

(Sono approvati).

Passiamo al quarto comma:

«Dall’imponibile, valutato come sopra, è detratta una percentuale del valore delle azioni delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

Su questo comma, vi sono emendamenti soppressi degli onorevoli Dugoni, Pesenti e Maltagliati.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione, a maggiore chiarimento del concetto di detrazione, vorrebbe che, al quarto comma, anziché «rispetto» alle altre passività, si dicesse «rispetto al loro ammontare aumentato delle passività».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro per le finanze. Il Governo non è sempre d’accordo con l’onorevole relatore; e ciascuno, in omaggio al proprio senso di responsabilità, deve, in determinati momenti, difendere quella che ritiene la soluzione più equa, più opportuna, più confacente agli scopi che questa legge vuole raggiungere. Ciò però non mi esonera dall’obbligo di felicitarmi con l’onorevole Commissione ed in particolare con l’onorevole relatore, a cui si deve personalmente la formula adottata per la risoluzione dello spinoso problema dei titoli azionari posseduti da altre società.

La formula che viene proposta, di detrazione in funzione di un certo rapporto proporzionale – che si vede nell’emendamento – forse non sarà di pieno soddisfacimento per i teorici puri e per gli amanti delle soluzioni esatte al cento per cento.

Naturalmente non soddisferà coloro che avrebbero desiderato una detrazione totale, come non soddisferà coloro che avrebbero desiderato il rigetto di qualsiasi detrazione. Ma la formula proposta è una intelligente formula di transazione, che, in sede empirica, mi sembra raggiunga quell’optimum di cui si era alla ricerca.

Per questo il Governo accetta la formula per le azioni e le quote di partecipazione; mentre per determinati titoli, deve avanzare qualche eccezione; e precisamente sui titoli di Stato. Di questi il Governo deve richiedere la detrazione dall’imponibile dei diversi enti per il loro intero valore e non solo per una quota proporzionale. Ciò per due considerazioni: la prima è di ordine generale, giacché non solo a parole, ma in forma tangibile il Governo e l’Assemblea debbono manifestare le loro intenzioni di cordialità nei confronti di quanti hanno avuto fiducia nello Stato, sottoscrivendo ai diversi prestiti.

I portatori dei titoli di Stato hanno sofferto abbondantemente in seguito alla svalutazione, che una corrente dottrinaria vede in funzione di vera e propria imposta che, volontariamente od involontariamente, lo Stato, finisce per imporre ai portatori dei titoli. Né varrebbe obbiettare che i titoli passano da un portatore all’altro, per cui l’attuale portatore non è più quello che originariamente ha sottoscritto in moneta non svalutata. Negli ultimi sei mesi si è verificato uno slittamento dei prezzi, che ha inevitabilmente inciso il portatore attuale del titolo.

Vi è poi una seconda ragione per cui il Governo ritiene d’insistere per la detrazione totale. Qualunque sia l’inquadramento che avrà questo tributo, di cui si sta discutendo, nel sistema tributario italiano ed anche se esso sarà considerato come tributo personale in largo senso – modestamente ritengo invece che debba essere collocato tra i tributi reali – è evidente che esso può considerarsi come un tributo che raggiunge i singoli elementi costitutivi del patrimonio. Un tributo, quindi, che, non ammettendosi la detrazione dei titoli di Stato, colpirebbe in primo quei titoli che, al momento dell’emissione, sono stati dichiarati esenti da qualsiasi imposta presente e futura.

Se l’opinione pubblica, fino ad un certo punto, ha dovuto prendere atto della esattezza della distinzione fra imposte personali vere e proprie ed imposte reali, per giustificare l’assoggettamento dei titoli di Stato all’imposta complementare sul reddito o all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, malamente si convincerebbe che la clausola di esenzione non operi nei confronti dell’imposta straordinaria di cui si discute.

Per questo, vorrei pregare l’onorevole Commissione di non dolersi se il Governo chiede che l’emendamento all’articolo 4 sia rettificato, nel senso di ammettere la detrazione totale dei titoli di Stato e di quegli altri titoli che, all’atto dell’emissione, siano stati dichiarati esenti da qualsiasi imposta presente e futura. Per tutti gli altri titoli il Governo aderisce alla formula della detrazione proporzionale, di cui all’emendamento della Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Ministro delle finanze formula così il suo emendamento:

«Dopo le parole: valutato come sopra, sostituire alle parole: è detratta, fino a: soggetto, le seguenti: è detratto l’ammontare dei titoli di Stato e degli altri titoli dichiarati esenti da imposta all’atto dell’emissione. Inoltre, è detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione e degli altri titoli, che già non siano detratti per intero, posseduti dal soggetto».

JACINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

JACINI. Aderisco interamente al punto di vista svolto dal Ministro delle finanze, anche per un’altra considerazione. Io ho già avuto l’onore di fare notare all’Assemblea le condizioni particolarmente delicate in cui si trova oggi il risparmio italiano e la scarsa attrattiva che il risparmio rappresenta per i cittadini. Ora, è notorio che le Casse di risparmio sono obbligate dallo Stato a tenere nei loro forzieri enormi quantità di titoli di Stato, i quali per il solo fatto che rimangono in quelle Casse rappresentano una perdita, una detrazione del valore patrimoniale detenuto dalle Casse medesime. Perciò, se noi volessimo caricarle anche di questo tributo arrecheremmo un ulteriore gravame, che certo andrebbe a tutto danno del risparmiatore.

Per questi motivi, io aderisco toto corde alla proposta di esenzione formulata dal Ministro delle finanze.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Il criterio che la Commissione ha adottato circa la detrazione di titoli per impedire la doppia imposizione è un criterio nuovo nella legislazione italiana. I criteri adottati nelle precedenti leggi patrimoniali sono stati del tutto empirici, e, direi, talmente irrazionali da portare a certi assurdi di applicazione.

In sostanza, e mi riferisco alla proposta del Ministro delle finanze, il problema di fronte a cui si è trovata la Commissione è questo: se si ammette la detrazione dei titoli al di fuori della valutazione di quello che è il patrimonio netto di un’azienda, spesso si arriva all’assurdo che lo Stato, rispetto a quest’azienda, quando il valore di quei titoli sia superiore al patrimonio netto, deve dare una quota di imposta all’azienda e non la può prendere. Faccio un esempio concreto che riguarda appunto le Casse di risparmio e i titoli di Stato. Supponiamo che all’attivo di una Cassa di risparmio i titoli di Stato siano tali che superino il patrimonio netto della Cassa stessa. Ciò può avvenire perché dato che una Cassa di risparmio è alimentata da depositi di terzi, essa può avere impiegato in titoli di Stato più del suo patrimonio. In questo caso, la Cassa di risparmio non solo non paga nessuna imposta, ma a rigore dovrebbe avere diritto a prendere imposte, cioè cessa del tutto la materia imponibile.

Ora, questo è l’assurdo a cui si arriverebbe. Ecco perché, anche nei rispetti dei titoli di Stato, la Commissione deve mantenere la sua proposta, perché razionale. Che cosa dice la proposta della Commissione? La Cassa di risparmio è esente per quanto riguarda i titoli di Stato, in quanto il suo patrimonio netto sia investito in titoli di Stato. Ma se l’investimento in titoli di Stato è corrispettivo al deposito dei terzi, la Cassa di risparmio non può essere esente, per i titoli di Stato. Ci può essere una questione: quella dell’esenzione dei titoli dalle imposte reali.

Ora, se questa fosse una imposta come le altre, la Commissione potrebbe prendere in considerazione tutte le esenzioni; ma voi sapete che nell’imposta progressiva il contribuente è tenuto a dichiarare anche i titoli di Stato. Probabilmente il contribuente cercherà di non dichiararli, ma l’obbligo c’è, e c’è al punto che i titoli nominativi sono tassabili anche se esenti da imposta.

Ora, se noi facessimo un trattamento di favore in questa sede, faremmo un trattamento diverso agli enti e più favorevole di quello che facciamo ai privati. Il criterio è perciò quello della equità rispetto a tutti gli istituti; e quindi, se l’onorevole Ministro crede, manteniamo un criterio che può avere anche una applicazione generale in seguito, perché dà la misura di una giustizia contributiva riferendola al patrimonio netto delle aziende.

PRESIDENTE. Vi è una proposta dell’onorevole Pesenti di sopprimere il comma.

PESENTI. È la stessa proposta che fa l’onorevole Dugoni ed a cui mi associo.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Il quarto comma dell’articolo che stiamo esaminando prevede che: «Dall’imponibile, valutato come sopra, sia detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

Il testo è estremamente confuso. Questa impostazione si presta a due interpretazioni diverse, che danno un risultato completamente opposto, ma su questo, se del caso, ritorneremo successivamente.

Bisogna cercare, secondo me, di capire tutta l’economia dell’articolo. Al primo comma è stabilito che la tassazione delle società anonime, i cui titoli sono quotati in Borsa, si fa moltiplicando per il valore di Borsa il numero delle azioni che costituiscono il capitale sociale. Cioè, il patrimonio è tassato attraverso un’operazione meccanica, che è semplicissima: tanto il valore in Borsa, tanto il numero delle azioni, tanto di imposta. Cioè, non interessa affatto la composizione del patrimonio, la quale è un elemento che è fuori della valutazione. Noi possiamo anche supporre che ci siano delle miniere d’oro le quali esistono solo nella fantasia di un gentiluomo che ne abbia inventato l’esistenza, ed abbia creato una società, abbia fatto ammettere le azioni in Borsa, le abbia fatte quotare – non è la prima volta che ciò succede, è successo cento volte. Ebbene, anche se queste miniere non esistono, anche se questa azienda, non ha nessun patrimonio, dovrà corrispondere l’imposta in dipendenza della valutazione di queste azioni.

Questa è la posizione.

Quando, invece, si è trattato di tassare le azioni che erano all’interno del patrimonio, allora si è fatto un altro ragionamento. Si è detto: «No, non ci interessa più la valutazione in Borsa, ci interessa la composizione del patrimonio». Cioè, si sono messi insieme due elementi completamente eterogenei.

Ora, vediamo un poco come ragiona l’operatore di Borsa. L’operatore di Borsa, presso a poco, fa un ragionamento di questo genere: «Il bilancio è questo, cioè vi sono delle attività; da queste attività detraggo le passività verso terzi: questo mi dà il patrimonio netto. Divido questo valore netto per il numero delle azioni; compero queste azioni a questo valore, se me le vendono; se non me le vendono a questo valore, non le compero».

Questa è la valutazione dell’operatore di Borsa; cioè l’operatore di Borsa ha già detratto, nella sua valutazione, le passività della azienda, grosso modo. Aggiunge poi altri elementi di previsione. Ma, sostanzialmente, la base è il bilancio dell’azienda.

Invece, il testo della Commissione fa una proposta di ulteriore deduzione. Il patrimonio in Borsa è già valutato al suo valore netto: la Commissione propone che dalla valutazione così effettuata dalla Borsa si attui una detrazione, cioè quella dei titoli esistenti in portafoglio, per una parte che sarà calcolata secondo un determinato modo. E questo modo di determinazione della parte da dedurre è veramente strano, perché è una percentuale dei titoli posseduti dalla società, pari al rapporto in cui si trovano il capitale, le riserve e i fondi di rivalutazione monetaria rispetto al totale del passivo della società.

Con questo sistema, noi arriviamo, prima di tutto, a colpire di più le aziende passive e meno le aziende attive; cioè, una azienda la quale abbia già dei gravami importanti per debiti verso terzi, quell’azienda ha ancora da pagare una maggiore imposta, mentre un’altra azienda che non abbia nessun debito, si vede detratta la totalità del suo patrimonio azionario.

In secondo luogo, noi siamo in questa disgraziata situazione: che, se noi approviamo l’emendamento quale è proposto qui, noi avremo come risultato di premiare tutte le costituzioni di aziende fittizie, destinate dall’origine a frodare il Fisco, cioè si costituirà un premio alla frode per sistema.

Quindi, resti ben chiaro che noi eleviamo una protesta contro un sistema che costituisce un premio verso quelle aziende che, dal giorno della loro esistenza, cioè dal gennaio 1926 – parlo delle holdings e delle società finanziarie – non fanno altro che sistematicamente sottrarsi alle leggi fiscali. E questa, del resto, è la ragione principale della costituzione di queste società a catena.

In secondo luogo, faccio osservare che la detrazione, come è proposta dall’emendamento della Commissione, è un premio alle aziende che hanno rivalutato. Cioè, prendiamo due aziende che abbiano la stessa situazione al 1° gennaio 1946: l’una nel corso dell’annata ha rivalutato; l’altra non ha rivalutato. Che cosa succede? Che la proporzione fra le riserve e gli altri fondi rispettosi totale della passività è aumentata enormemente, perché, rivalutando, avrà moltiplicato per dieci, per otto, per quello che sarà, il suo capitale e le sue riserve: e in queste condizioni le passività vengono ad essere solo il 10 o 15 per cento del totale delle passività. Un esempio tipico è quello delle aziende elettriche, le quali, avendo tutte rivalutato, hanno praticamente ridotto ad una percentuale insignificante i debiti obbligazionari e gli altri debiti che avevano verso terzi, i quali, essendo espressi in moneta corrente, in lire, non subiscono nessuna variazione in seguito alla operazione di rivalutazione.

Infine, farò osservare che le aziende le quali sono costituite allo scopo di comperare azioni dalla Società-madre, vengono a costituire una vera e propria doppia esenzione. E mi spiego con un esempio: ammettiamo che la «Montecatini» abbia – come ha – delle società anonime, le quali abbiano per scopo di comperare azioni dalla Società anonimia «Montecatini». La «Montecatini» cede un certo numero di azioni proprie, che ha nel proprio portafoglio, a una di queste nuove società. Questa anonima, in cambio, cede le proprie azioni costitutive alla «Montecatini»; di modo che noi abbiamo questa posizione: movimento di denaro, zero. Si scambiano le azioni che costituiscono l’apporto in costituzione della società fittizia da una parte, e dall’altra, le azioni della società costituita che entrano nel portafoglio della «Montecatini». In questo momento, la società così costituita ha un grosso pacchetto azionario e non ha un centesimo di debito, perché tutto il suo capitale consiste nell’aver messo in una cassaforte queste azioni della «Montecatini». Allora si detraggono dal patrimonio della società fittizia tutti i titoli della «Montecatini», perché non ci sono passività. Dal patrimonio della «Montecatini» si deducono poi proporzionalmente per il 20, per il 30 per cento, i valori dei titoli che sono rappresentativi di questa società fittizia, in modo che si esonera in realtà la «Montecatini» da una parte dell’imposta, la società fittizia dalla totalità della sua imposta straordinaria. Questo è quello che noi otteniamo con questo sistema.

D’altra parte, io ho esaminato alcuni bilanci di holdings, di aziende finanziarie. Del resto, non ci sarebbe bisogno di dare degli esempi molto numerosi. Prendiamo ad esempio la Società Adriatica di elettricità. Questa società ha un rapporto fra capitale sociale, riserve legali, riserve diverse, residui sugli attivi di rivalutazione, del 30 per cento rispetto alla totalità del passivo; ha nel suo portafoglio circa 3 miliardi e 900 milioni di azioni. Questo significa che da 7 miliardi 800 milioni di azioni, valore di Borsa del periodo 1° gennaio-28 marzo, noi dovremo detrarre il 30 per cento delle azioni possedute, cioè oltre un miliardo: precisamente un miliardo e 300 milioni. Dal bilancio della S.T.E.T. noi ricaviamo che dobbiamo togliere ben il 47 per cento al valore fissato per il suo patrimonio dalla Borsa nel periodo 1° gennaio 28 marzo, che era all’incirca 6 miliardi. Da questi 6 miliardi dovremo togliere circa 3 miliardi 500 milioni. Dalla Società meridionale elettricità noi dobbiamo togliere il 30 per cento, cioè circa 1 miliardo 500 milioni su 4 miliardi e 500 milioni di capitale valutato alla Borsa.

Con questo noi attuiamo una vera e propria imposta degressiva perché alle Società la cui valutazione in borsa è fatta in quel determinato modo noi togliamo (caso della Società meridionale elettricità) circa un terzo dell’imposta, mentre le piccole società che non sono fittizie, che non hanno frodato il fisco e che hanno solo investito danaro per comprare macchine per dar lavoro agli operai, queste pagheranno completamente la loro imposta di modo che assisteremo al fatto che l’imposta per la Società meridionale di elettricità si ridurrà dal 5 per cento ai 3 e mezzo per cento, mentre altre aziende che dànno lavoro agli operai e non si occupano di operazioni borsistiche pagheranno intero il 5 per cento!

Quindi, avremo una imposta degressiva a favore dei grandi capitali, dei grandi sistemi di combinazioni di società a catena e di società verticali e orizzontali, di modo che, avendo l’una nel portafoglio dell’altra miliardi di azioni, noi arriveremo in realtà ad esentare una parte di questo patrimonio dall’imposta che dovrebbe sacrosantamente colpirlo: che dovrebbe tanto più colpire questo tipo di azionariato delle holdings e delle società finanziarie così care al Ministro Merzagora (ricordo fra parentesi che il Ministro Merzagora è Presidente dell’Ente per i finanziamenti industriali, che appartenendo alla Pirelli, detiene azioni della Pirelli, quindi il Ministro Pella potrebbe farsi spiegare come funzionano questi sistemi di sgravi reciproci dal Ministro Merzagora che conosce bene queste cose per la sua carica). Ebbene, io dico che questo tipo di azionariato speculativo dovrebbe essere colpito da una sovrimposta, non solo da un’imposta, perché, se queste aziende creano delle società una in testa all’altra, ci sarà una ragione: non è per divertimento, non è per pagare notai, o per altri motivi. Lo fanno perché hanno un tornaconto diretto.

Quindi io chiedo che sia soppresso il quarto comma (a parte la questione dei titoli di Stato, di cui eventualmente parlerò successivamente); chiedo che sia tolta la detrazione prevista dal 4° comma perché non vi è nessuna doppia imposizione: vi è semplicemente il modo di colpire alcune aziende che da 10 o 20 anni, dal 1926, frodano il fisco, e sarebbe opportuno mettere la mano su questo tipo di finanza che è uno dei gravi guai della nazione italiana, perché è proprio attraverso queste aziende – che sono l’una nelle braccia dell’altra in modo che la Lancia appartiene alla Breda, un pezzo della Breda appartiene alla Falk, ecc. – che noi non arriviamo a sapere chi è il vero proprietario e chi deve pagare qualche cosa. Colpendo finalmente queste aziende con un’imposta che, attraverso questo sembiante di doppia imposizione, diverrà progressiva, noi avremo invece reso un servizio alla chiarificazione della finanza italiana.

PRESIDENTE. Su questo 4° comma dell’articolo 4 è stata dunque presentata dagli onorevoli Dugoni e Pesenti una proposta di soppressione integrale. Vi sono poi emendamenti che implicano la conservazione del comma, presentati uno dal Ministro delle finanze e un altro dal Relatore onorevole La Malfa.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Vorrei rispondere al collega Dugoni, le cui argomentazioni sono assolutamente inesatte, infondate, da cima a fondo. Questo problema della doppia imposizione la Commissione se l’è posto con spirito di assoluta imparzialità, con spirito di assoluto rigore. La formula propostaci dal Governo, che è tradizionale in materia di tassazione di società, era una formula che la Commissione ha ritenuto inapplicabile e troppo favorevole alle società finanziarie, alle holdings. La formula del Governo era che il valore delle azioni in portafoglio si detrae tutto quanto dall’imponibile. Ora, per una società finanziaria che ha solo titoli in portafoglio si avrebbe questo risultato: che se questa società avesse un capitale 100 – capitale netto perché il fisco tassa il patrimonio netto – e avesse in portafoglio 1000 di titoli (e una finanziaria può avere perfettamente 1000 di titoli e 100 di patrimonio netto perché si alimenta di azioni) noi avremmo questo, assurdo, che essendo 1000 i titoli in portafoglio, questi 1000 si dovrebbero detrarre da 100 di patrimonio netto, operazione evidentemente assurda. Non si può detrarre ai fini dell’imposta un valore maggiore da un valore minore. Quindi la Commissione ha scartato una formula tradizionale della Finanza italiana (Interruzione del deputato Dugoni).

L’imposta di cui parla l’onorevole Dugoni, che è una imposta del 1937, detraeva dall’imponibile il 75 per cento sul totale.

DUGONI. Il 50 per cento.

LA MALFA, Relatore. Il 75 per cento per le società: ella non ha visto la conversione in legge. Per le società finanziarie che avessero investito in valore più del 20 per cento del valore capitale, la detrazione era del 75 per cento del valore delle azioni. E anche così si arriverebbe all’assurdo di detrarre un valore di titoli superiori al patrimonio. Quindi la detrazione è del tutto favorevole alle società finanziarie e, perciò, iniqua.

Questo è il caso favorevole alle holdings. Ma l’onorevole Dugoni non ha spiegato che esiste un limite del problema. Se una società finanziaria ha investito tutto il suo patrimonio in titoli, c’è il caso tipico della doppia imposizione. Perché? Perché l’onorevole Dugoni dimentica che la Borsa, quando valuta una società, non la valuta soltanto per i suoi beni reali, per le case, per i fabbricati, per gli immobili, ma nella valutazione comprende tutti i diritti che la società ha su altre aziende. Quindi, quando una società finanziaria ha investito il proprio patrimonio in azioni, deve essere esente dall’imposta. Altrimenti l’imposta si applicherebbe due volte, una sulla società finanziaria, e l’altra sulla azienda presso cui essa ha fatto investimenti.

Ecco i due casi limite, cioè la soluzione governativa favorevole alle holdings e la soluzione dell’onorevole Dugoni che costituirebbe un arbitrio assoluto in materia finanziaria. Vi è una idea fissa nell’onorevole Dugoni che dove vede holdings, vede nero. Ora il problema del trattamento fiscale delle holdings è un problema di giustizia tributaria come in ogni altro campo.

La soluzione della Commissione dice questo: noi non diamo esenzioni ai titoli che una società ha in portafoglio; calcoliamo quale è il patrimonio netto di questa società; vediamo quale è il valore delle azioni, e attribuiamo come detrazione, quella parte del valore delle azioni che si può ritenere investimento di fondi patrimoniali diretti.

Se una società ha preso azioni facendo un debito, non ha diritto alla detrazione. Se la società ha investito i propri fondi in azioni, cioè si è creata con i propri mezzi patrimoniali un diritto su una società o una impresa all’infuori della propria, questa ammettiamo in detrazione.

Come vedete, la soluzione adottata dalla Commissione è di un rigore assoluto ed io sono lieto che questa imposta ci abbia dato la possibilità di trovare un mezzo di tassazione delle holdings che risponda a criteri di perfetta giustizia tributaria; e cioè colpisca le holdings come non sono mai state colpite in passato. Ma le colpisca in modo che nessuno possa dire fuori di questa Aula che abbiamo voluto colpire le holdings senza tener conto delle condizioni reali in cui queste società operano. La Commissione insiste perché l’Assemblea approvi questo nuovo concetto di tassazione rispetto ai titoli posseduti in portafoglio.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei unicamente confermare che il Governo aderisce alla formula della Commissione, che è transazionale, ferma restando la richiesta della detrazione integrale dei titoli di Stato, secondo l’emendamento che è stato presentato. Il Governo ha apprezzato le ragioni esposte dall’onorevole Dugoni. L’onorevole Dugoni sa che l’Amministrazione finanziaria ha sempre resistito alla detrazione in sede d’imposta di negoziazione. È vero però quanto ha accennato l’onorevole relatore che, per le imposte sul patrimonio, era stato prevalentemente accolto il principio della detrazione.

PRESIDENTE. Passiamo dunque innanzi tutto alla votazione della proposta degli onorevoli Dugoni e Pesenti, soppressiva il quarto comma.

PESENTI. Chiedo di parlare, per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Dichiaro che mantengo la proposta soppressiva, in accordo con l’onorevole Dugoni: perché, effettivamente, data la valutazione sintetica che viene fatta nel patrimonio delle società, penso che in questa valutazione sia calcolata tutta la situazione patrimoniale e sia scontata anche l’imposta che viene a colpire i titoli azionari.

Qui non colpiamo le azioni. Le azioni sono soltanto un sistema di valutazione. Se vi fosse valutazione analitica sarei d’accordo nella detrazione.

Essendovi una valutazione sintetica, sono contrario.

Per quanto riguarda il diverso trattamento dei titoli dello Stato rispetto ai titoli azionari, io affermo che, come parere personale, ero disposto ad accettare la detrazione dei titoli di Stato, non perché fosse logico, fosse coerente rispetto a questa valutazione sintetica fatta attraverso il corso dei titoli azionari, ma soltanto per una ragione di fatto, per favorire le Casse di risparmio, in modo particolare, e gli altri enti di credito che erano stati obbligati moralmente dallo Stato ad investire i loro attivi in titoli di Stato.

Ma la proposta della Commissione di concedere uno sconto percentuale ai titoli dello Stato, mi pare che sia sufficiente.

Voglio accennare ad un fatto che, per la Centrale, ad esempio, anche secondo la proposta dell’onorevole La Malfa, la detrazione sarebbe del 64 per cento dei titoli di Stato posseduti e dei titoli azionari.

Ora, siccome poi questi titoli azionari devono essere moltiplicati per il valore di quotazione di borsa, noi possiamo avere delle detrazioni eccessive che possono perfino superare il patrimonio imponibile.

LA MALFA, Relatore. No, è assolutamente impossibile.

PESENTI. Non è vero. Mantengo perciò l’emendamento soppressivo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Siamo in sede di votazione, onorevole La Malfa. Lei può soltanto dire se conserva o non conserva la sua proposta; se aderisce o meno alla proposta dell’onorevole Pesenti.

LA MALFA, Relatore. Io devo chiarire i termini di questo problema.

PRESIDENTE. Mi sembra che sia stato chiarito abbastanza. Ha parlato lei, hanno parlato l’onorevole Ministro e gli onorevoli Dugoni e Pesenti; si affidi alla votazione dell’Assemblea!

LA MALFA, Relatore. A me non sembra che il problema sia stato chiarito!

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Voterò a favore dell’emendamento proposto dal Governo; conseguentemente voterò contro l’emendamento dell’onorevole Dugoni.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Voterò contro l’emendamento soppressivo e voterò a favore dell’emendamento del Governo, qualora l’emendamento della Commissione dovesse essere respinto.

PRESIDENTE. Pongo dunque ai voti la proposta degli onorevoli Dugoni e Pesenti di soppressione del quarto comma dell’articolo 4.

(Dopo prova e controprova, l’emendamento soppressivo non è approvato).

Porrò ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Ministro. Preciso che, a tenore di questo emendamento, la prima parte del quarto comma risulterebbe così formulata:

«Dall’imponibile valutato come sopra è detratto l’ammontare dei titoli di Stato e degli altri titoli dichiarati esenti da imposta all’atto dell’emissione».

LA MALFA, Relatore. Faccio notare che per quanto riguarda i titoli di Stato, secondo una disposizione di legge, le società devono accantonare i titoli di Stato in conto fondo di liquidazione del personale e quindi questa esenzione a favore delle società per fondi che sono di proprietà di terzi non avrebbe ragion d’essere.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la formulazione di cui ho dato lettura che costituisce la prima parte del comma, in base all’emendamento proposto dall’onorevole Ministro delle finanze.

(È approvata).

Pongo ai voti la seconda parte quale risulta in base all’emendamento del Ministro:

«Inoltre è detratta, una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione e degli altri titoli che già non siano detratti per intero, posseduti dal soggetto».

(Dopo prova e controprova è approvata).

Segue l’ultima parte dell’articolo così modificato secondo la proposta del Relatore: «corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto al loro ammontare aumentato delle passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

(È approvata).

L’ultimo, comma, del testo proposto dalla Commissione si intende assorbito dopo l’approvazione dell’articolo 3-bis proposto dagli onorevoli Perassi e De Vita.

Passiamo al quinto articolo:

«L’imposta straordinaria è applicata con le seguenti aliquote:

5 per cento per i soggetti indicati nella lettera a) dell’articolo …;

2 per cento per i soggetti indicati, nella lettera b) dell’articolo suddetto;

3 per cento per i soggetti indicati nella lettera c) dell’articolo stesso».

Su questo articolo sono stati presentati alcuni emendamenti in relazione alla aliquota. Il primo è quello dell’onorevole Dugoni, il quale propone che l’aliquota fissata per i soggetti indicati alla lettera a) sia ridotta al 3,50 per cento.

DUGONI. Ritiro l’emendamento, perché collegato alla soppressione del quarto comma dell’articolo precedente, soppressione respinta dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Allora resta l’emendamento dell’onorevole Marinaro che porterebbe la percentuale al 4 per cento. Anche il Governo propone la riduzione al 4 per cento. Ha chiesto di parlare il Ministro delle finanze. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di illustrare le ragioni per cui il Governo propone la riduzione dell’aliquota dal 5 al 4 per cento.

La misura di questa, nel periodo di studio, era rimasta incerta e oscillava tra il 4 e il 5 per cento. Il Governo, nel suo ultimo schema, aveva proposto il 4 per cento, tenendo cioè conto che, consentendosi di ricorrere, entro certi limiti, alle rivalutazioni, queste avrebbero importato l’obbligo di corrispondere l’imposta di registro per gli eventuali trasferimenti a capitale.

La parte relativa alle rivalutazioni è stata stralciata dal progetto, dietro suggerimento della Commissione. Ma il Governo, naturalmente, non può dimenticare questo problema, quanto meno sotto il profilo di politica di tesoreria ed eventualmente sotto il profilo di diritto comune, in rapporto alla sincerità dei bilanci.

È evidente che, quando il Governo si riproporrà il problema delle rivalutazioni e sceglierà una determinata soluzione, entro limiti contenuti forse in una misura relativamente modesta, dovrà nuovamente ricorrere allo strumento fiscale. Ed è in relazione a questa possibilità che si ritiene opportuno per un ragionevole senso di equilibrio, di limitare al 4 per cento l’aliquota per le società azionarie.

Correlativamente il Governo propone di ridurre al 2 per cento l’aliquota degli enti morali.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Marinaro.

MARINARO. Mi associo alle considerazioni svolte dall’onorevole Ministro, aggiungendo che c’è un’altra sostanziale ragione per ridurre al 4 per cento: i patrimoni delle società azionarie sono stati sottoposti ad imposta straordinaria proporzionale, su un valore imponibile che risulta assai più elevato di quello stabilito per ogni singolo contribuente. Il valore imponibile, infatti, è il valore accertato ai fini dell’imposta di negoziazione per il 1947, che è più elevato di quello stabilito per gli altri contribuenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione si è già espressa nel senso che, a maggioranza, non può accettare l’emendamento proposto dall’onorevole Marinaro. Propongo pertanto che l’articolo si voti per divisione.

PRESIDENTE. È evidente.

Pongo ai voti la prima parte dell’articolo con la riduzione dell’aliquota al 4 per cento secondo l’emendamento Marinaro cui il Governo si è associato:

«L’imposta straordinaria è applicata con le seguenti aliquote: 4 per cento per i soggetti indicati nella lettera a) dell’articolo…».

(È approvata).

Pongo ai voti il comma successivo, su cui non vi sono emendamenti:

«2 per cento per i soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo suddetto.

(È approvato).

Passiamo all’ultima parte:

«3 per cento per i soggetti indicati nella lettera c) dell’articolo stesso».

L’onorevole Marinaro propone di ridurre l’aliquota al 2 per cento; all’emendamento ha aderito l’onorevole Ministro.

L’onorevole Marinaro ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MARINARO. Faccio presente che si tratta di enti che hanno fini di assistenza e beneficenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Dopo le innumerevoli esenzioni concesse a questa categoria, non mi pare che sia il caso di concedere altre agevolazioni.

PELLA, Ministro per le finanze. Mi associo alla considerazione fatta dall’onorevole relatore.

Il primitivo emendamento era anteriore alla discussione delle esenzioni. Ritengo che possa essere conservata l’aliquota del 3 per cento. Quindi, il Governo ritira l’emendamento per la categoria degli enti morali.

PRESIDENTE. Onorevole Marinaro, insiste nel suo emendamento?

MARINARO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’ultimo comma nel testo proposto dalla Commissione cioè conservando l’aliquota del 3 per cento.

(È approvato).

Passiamo al sesto articolo:

«Entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge di convalida del presente decreto, i soggetti tenuti a corrispondere l’imposta straordinaria prevista nell’articolo… devono presentare all’ufficio distrettuale delle imposte dirette, nella cui circoscrizione essi hanno la loro sede, la dichiarazione del loro patrimonio imponibile, in tutti i casi in cui detto patrimonio non debba essere accertato ai fini della imposta straordinaria progressiva.

«Quando si tratta di soggetti il cui patrimonio non cade sotto l’applicazione dell’imposta straordinaria progressiva, la dichiarazione deve essere fatta per un valore non inferiore a quello su cui è stata liquidata l’imposta ordinaria sul patrimonio per l’anno 1947.

«Per l’omessa od infedele dichiarazione, si applicano le sanzioni previste negli articoli 54, 56, 57 e 59».

Non essendo stati presentati emendamenti lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo al settimo articolo al quale pure non sono proposti emendamenti:

«L’imposta straordinaria, prevista nell’articolo…, è riscossa in 24 rate bimestrali uguali a partire dall’agosto 1948».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue l’ottavo articolo:

«L’Amministrazione finanziaria ha la facoltà di iscrivere a ruolo l’imposta straordinaria liquidata sull’imponibile dichiarato dal contribuente, o – quando la dichiarazione non è richiesta – sull’imponibile in base al quale è liquidata, a titolo provvisorio, l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, salvo conguaglio, in entrambi i casi, sulle risultanze dell’accertamento definitivo.

«L’imposta iscritta, a titolo provvisorio o definitivo, in ruoli, la cui riscossione si inizia dopo la rata dell’agosto 1948, è ripartita in quote uguali nelle rate residue a termini del precedente articolo.

«L’imposta iscritta in ruoli, la cui riscossione si inizia dopo la scadenza del termine fissato nell’articolo precedente, è riscossa in sei rate bimestrali uguali, con l’interesse del 2 per cento a favore dello Stato la decorrere dal 1° luglio 1952».

Anche su questo articolo non vi sono emendamenti. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue il nono articolo che è del seguente tenore:

«I ruoli dell’imposta straordinaria non sono soggetti a pubblicazione.

«Per la riscossione compete all’esattore l’aggio contrattuale, esclusa l’addizionale prevista negli articoli 5 e 8 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424».

Su questo articolo ha presentato un emendamento l’onorevole Dugoni, il quale propone di sopprimere il primo comma. Ha facoltà di svolgerlo.

DUGONI. Due brevi parole per illustrarlo. Chiedo che, data la particolare delicatezza del settore in cui noi operiamo in questo momento, sia data pubblicità ai risultati analitici della imposta, perché tutti possano controllare qual è l’effetto di questa legge e delle modificazioni che sono state proposte.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Aderisco senz’altro all’emendamento soppressivo dell’onorevole Dugoni; penso che la Commissione abbia proposto questo primo comma – e d’altra parte anche il Governo lo proponeva – per snellire il lavoro di formazione e pubblicazione dei ruoli.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di parlare.

LA MALFA, Relatore. Non comprendo le ragioni per cui si dovrebbe approvare questo emendamento.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di soppressione del primo comma formulata dall’onorevole Dugoni.

(È approvata).

Pongo ai voti il secondo comma.

(È approvato).

Passiamo al decimo articolo.

«Il credito dello Stato per l’intero ammontare del tributo ha privilegio speciale su tutti gli immobili facenti parte del patrimonio del contribuente alla data di pubblicazione della legge di convalida del presente decreto, salvi i diritti dei terzi, costituiti anteriormente alla data stessa.

«Si applicano per l’imposta straordinaria prevista nel presente titolo le disposizioni contenute nel secondo, terzo e quarto comma dell’articolo 60».

Non essendovi emendamenti, lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue l’articolo undicesimo sul quale pure non sono stati presentati emendamenti:

«Per la prescrizione dell’azione della finanza valgono le norme dell’articolo 61».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo dodicesimo, così formulato:

«I contribuenti possono versare in Tesoreria, in unica soluzione, con l’abbuono dell’interesse composto dell’8 per cento, in ragione d’anno, l’importo complessivo di tutte le rate d’imposta straordinaria ancora da scadere.

«Il riscatto può essere chiesto tanto per l’importo accertato in via provvisoria, quanto per quello accertato in via definitiva.

«Il riscatto dell’intero ammontare dell’imposta deve essere domandato al competente Ufficio distrettuale delle imposte dirette entro il giorno 10 del mese precedente a quello della scadenza della prima rata d’imposta ed il versamento in Tesoreria deve essere effettuato entro il mese di scadenza della rata stessa.

«I riscatti successivi devono essere domandati entro il 30 novembre di ciascun anno con effetto dalle rate a scadere dalla prima dell’anno successivo, ed il versamento in Tesoreria deve essere effettuato entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello in cui la domanda è presentata.

«Non è ammesso il riscatto delle sole ultime sei rate bimestrali.

«In tutti i casi di versamento diretto in Tesoreria non compete alcun aggio all’esattore ed al ricevitore provinciale.

«Sono altresì applicabili le norme degli articoli 52 e 53».

Non essendovi emendamenti, lo pongo di voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 13, che è del seguente tenore:

«Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali delle società ed enti, in relazione all’istituzione della presente imposta straordinaria e per eventuali emissioni di azioni od obbligazioni ai fini del pagamento dell’imposta».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. In adesione all’ordine di idee espresso dalla Commissione, di stralciare la materia delle rivalutazioni, perché materia estranea alla legge che stiamo discutendo, il Governo chiede la soppressione di questo emendamento, e dà alla richiesta il significato che il Governo provvederà a regolare la materia con proprio provvedimento. Voglio pregare gli onorevoli colleghi, di considerare che le ripercussioni di un provvedimento sulle rivalutazioni possono essere molteplici, ed è necessario, quindi, un complesso di cautele di cui il Governo si assumerà la responsabilità. Perciò, per ragioni di ordine pratico, prego l’Assemblea di affiancare col proprio voto la richiesta del Governo di sopprimere questo emendamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. La ragione di questo articolo era di allacciare questo provvedimento ad altri e dare una certa tranquillità di mercato, nel senso che tutta questa materia sarà sistemata. Però, non insisto.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Aderisco alla proposta del Ministro di sopprimere questo articolo. Desidero ricordare all’Assemblea che il provvedimento, a cui si riferisce quest’articolo, preso nell’agosto del 1946, non potrebbe essere messo in discussione senza gravissime ripercussioni nel mercato azionario. Devo poi fare espressa raccomandazione al Governo che non tolga dai suoi strumenti di controllo del mercato finanziario una disposizione che ha un carattere nettamente antinflazionistico, in un momento in cui stiamo conducendo una campagna per la stabilizzazione del potere di acquisto della moneta.

Ci sarà tempo per esaminare questo problema che, del resto, ha anche riflessi sulle conseguenze dei danni di guerra, perché in sostanza lo Stato può indirettamente agevolare coloro che hanno avuto danni di guerra, attraverso l’applicazione del congegno stabilito dal decreto dell’agosto del 1946.

Con questa intesa, io aderisco alla richiesta del Governo di sopprimere l’articolo 13.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINARO. Avevo proposto un emendamento a questo articolo. A seguito delle dichiarazioni fatte dall’onorevole Ministro, che considero come un impegno formale del Governo, ritiro il mio emendamento.

LA MALFA, Relatore. Pregherei il Governo di considerare l’opportunità di mantenere una dizione di questo genere: «Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina di eventuali emissioni di azioni o obbligazioni, ai fini del pagamento dell’imposta».

Credo che un provvedimento del genere sia necessario come provvedimento integrativo.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, può darsi, anzi è certamente fondata la ragione addotta dall’onorevole Relatore; però vi sono altre ragioni di maggiore portata che suggeriscono di non toccare, in nessun modo, questa materia così delicata e così scottante. La minima indicazione contenuta in un testo di legge può significare, per gli iniziatissimi della materia, la traccia di un orientamento. Il Governo desidera che questa materia, sia regolata indipendentemente da qualsiasi pregiudiziale e, soprattutto, indipendentemente da qualsiasi anticipo che l’opinione pubblica interessata possa desiderare di ottenere. Per questo, io pregherei di non insistere, sia pure soltanto per una parziale conservazione dell’emendamento. Le preoccupazioni dell’onorevole La Malfa sono anche preoccupazioni del Governo. Questa imposta dovrà essere pagata a partire dal 1948. Il Governo non dovrà aspettare il 1948 per regolare questa materia.

LA MALFA, Relatore. Mi rimetto al Governo.

PRESIDENTE. Pertanto, si può considerare che quest’articolo 13 sia ritirato dalla stessa Commissione.

LA MALFA, Relatore. D’accordo.

PRESIDENTE. Abbiamo così esaurito la materia relativa alla regolamentazione dell’imposta patrimoniale straordinaria proporzionale sul patrimonio degli enti collettivi. Resta ancora da esaminare qualche emendamento, residuo della discussione che si è già svolta.

Faccio presente all’Assemblea che tra gli emendamenti rinviati figuravano anche i seguenti:

Art. 29-bis.

«Il patrimonio imponibile dalle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è valutato in base alla media dei prezzi di compenso del trimestre indicata dall’articolo 18.

«In tale valore imponibile nessuna detrazione è consentita.

«Il patrimonio imponibile delle società ed enti diversi da quelli indicati nel comma precedente è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti della presente legge.

«In tale patrimonio imponibile sono detraibili soltanto le passività afferenti ai cespiti patrimoniali che formano oggetto imponibile.

«Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani, Lombardi Riccardo».

Art. 29-ter.

«Sono soggetti ad imposta gli enti collettivi il cui patrimonio, valutato a norma dell’articolo precedente, è superiore a cinque milioni.

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinata in base alle seguenti aliquote da applicarsi nel patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente:

fino a 5 milioni, esenti

 

da 5 a 20 milioni

1%

da 20 a 50

1,50%

da 50 a 100

2%

da 100 a 250

2,50%

da 250 a 500

3%

da 500 a 1000

3,50%

da 1 a 2 miliardi

4%

da 2 a

4,50%

da 5 a 10

5%

da 10 a 20

5,50%

oltre i 20 miliardi

6%

«Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani, Lombardi, Riccardo».

Art. 29-quater.

«Sono esenti dall’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio le società cooperative di consumo.

Recca, Caccuri, Siles, Sullo, Gabrieli, Monterisi, Dominedò, Cimenti, Clerici, Coccia».

Questi emendamenti debbono considerarsi assorbiti.

Vi è ora, tra gli emendamenti rinviati, un emendamento del Governo, proposto in sede di discussione dell’articolo 2, così formulato:

«Dal valore delle azioni o di quote di partecipazione in società costituite in Italia si detrae una quota-parte proporzionale al valore dei beni posseduti dalla società all’estero, ivi assoggettabili a tributi straordinari».

Si tratta di una questione rimasta in sospeso.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. L’emendamento che aveva proposto il Governo è stato presentato in occasione della trattazione dell’articolo 2 e l’Assemblea, in parte lo ritenne parzialmente superfluo, perché assorbito dal sistema delle valutazioni ecc.; per altro verso ritenne che un collocamento di esso fosse opportuno nel campo delle valutazioni. Nel complesso l’Assemblea rinviò l’emendamento, e ci troviamo oggi a ridiscuterlo.

Io lo mantengo perché risponde ad una norma di correttezza delle valutazioni nel quadro della sistemazione generale della legge, e proporrei che il suo esatto collocamento venisse affidato alla Commissione di coordinamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Dopo l’approvazione dell’articolo relativo alla detrazione dell’imponibile, probabilmente una parte di questo emendamento del Governo potrebbe cadere.

PELLA, Ministro delle finanze. Per la progressiva.

LA MALFA, Relatore. Non voterei l’emendamento formalmente, ma lascerei alla Commissione e al Governo il compito di esaminare quanto di questo emendamento può essere introdotto agli effetti della quota proporzionale relativa agli enti collettivi.

PRESIDENTE. In sede di coordinamento si potrà vedere quale parte sia implicita e quale parte debba essere considerata invece come parte nuova e tale che possa essere inserita.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Volevo pregare l’onorevole Presidente di mettere egualmente in votazione questo emendamento perché l’Assemblea abbia modo di dichiarare esplicitamente, che condivide lo spirito di questo emendamento; salvo poi al relatore la facoltà di esaminare la sede del collocamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento proposto del Governo, alle condizioni chiarite dall’onorevole relatore e dall’onorevole Ministro delle finanze.

(È approvato).

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Presidente, era rimasta in sospeso una questione relativa all’emendamento presentato dall’onorevole Condorelli, riguardante l’articolo 25 dell’imposta progressiva. Si è trovata una formulazione che in parte va incontro alle necessità dà lui fatte presenti

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli aveva effettivamente presentato due emendamenti, di cui uno risulta ritirato mentre l’altro, in votazione, è stato respinto.

LA MALFA, Relatore. Su uno degli emendamenti vi è stata però una richiesta di sospensiva, nel senso che il Governo e la Commissione avrebbero dovuto esaminare l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ritirò, infatti, l’emendamento dopo che il Governo si era impegnato di presentare una formulazione nel senso proposto dall’emendamento.

Viene ora comunicata alla Presidenza la seguente formulazione, concordata tra Commissione e Governo:

«I titoli nominativi dello Stato dichiarati dal contribuente sono computati nella quota presuntiva, fino alla concorrenza del 50 per cento della medesima».

PELLA, Ministro delle finanze. Per lealtà, siccome il Governo ha dato una assicurazione all’onorevole Condorelli, desidererei chiedere prima all’onorevole Condorelli, se ritiene sodisfatto l’impegno del Governo con la formulazione indicata precedentemente.

Mi raccomando al senso di misura e di moderazione dell’onorevole Condorelli.

CONDORELLI. Sono sodisfatto, perché il Governo ha aderito largamente, con cortesia, a quello che avevo richiesto, cioè che il problema fosse esaminato. La soluzione, tuttavia, non mi sodisfa appieno. Chiederei un chiarimento: fra i titoli di Stato nominativi sono compresi anche i buoni postali fruttiferi?

LA MALFA. Relatore. No.

PELLA, Ministro delle finanze. I buoni postali fruttiferi non sono compresi fra i titoli nominativi e l’assicurazione che avevo data era esplicitamente diretta ai titoli nominativi.

Riconosco all’onorevole Condorelli il diritto di non ritenersi sodisfatto di questo atteggiamento del Governo, rispetto ai buoni postali fruttiferi.

Ma il punto che preoccupa il Governo è questo: per quanto riguarda i titoli nominativi, nei confronti dei quali venne data una assicurazione, ritiene l’onorevole Condorelli che la formula presentata realizzi l’assicurazione data dal Governo?

Non vorrei, che, su questo punto, si considerasse il Governo inadempiente rispetto ad una promessa fatta.

CONDORELLI. Il Governo non aveva promesso altro che di esaminare il problema. Anche se avesse risposto negativamente, dal punto di vista formale, sarei sodisfatto ugualmente.

Io trovo che la soluzione non è pienamente sodisfacente, perché non mi rendo conto del diverso trattamento fatto ai titoli di Stato nominativi e ai buoni postali fruttiferi che sono anch’essi dei titoli di Stato nominativi, anzi, intrasferibili. Non vedo la ragione della differenza.

LA MALFA, Relatore. La ragione, a mio giudizio, consiste in questo: che i buoni postali rappresentano veri e propri depositi e l’estensione ai buoni postali di questa agevolazione potrebbe avere conseguenze anche nel campo dei depositi a risparmio nominativi.

Quindi, dovremmo riesaminare tutta una materia che è già, in una certa maniera, regolata.

CONDORELLI. Questa non è una ragione sufficiente per non fare giustizia.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo aderisce al concetto espresso dal Relatore.

CONDORELLI. Chiedo che all’emendamento proposto dalla Commissione e dal Governo si aggiungano le parole: «buoni postali fruttiferi».

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo ai voti anzitutto la formulazione proposta dalla Commissione e dal Governo come emendamento da inserirsi nell’articolo 25.

(È approvato).

Pongo ai voti l’emendamento aggiuntivo dall’onorevole Condorelli.

(Non è approvato).

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione dovrebbe presentare una proposta di emendamento all’emendamento Cappi all’articolo 72, già approvato. Si tratta di una questione di ordine tecnico che riguarda l’Amministrazione finanziaria facilitandone il lavoro, senza nulla mutare della sostanza del provvedimento. (Commenti al centro).

Coll’emendamento Cappi si stabilisce una data di rateazione che determinerebbe la necessità per l’Amministrazione finanziaria di rivedere tutte le cartelle esattoriali.

Con la proposta della Commissione si allunga di qualche mese la rateazione, ma si consente all’Amministrazione finanziaria, con un’operazione automatica, di riduzione ad un terzo delle rate, di non modificare per nulla le cartelle. L’Amministrazione finanziaria risparmierebbe così tre o quattro mesi di lavoro.

PRESIDENTE. Do lettura di questa proposta dell’onorevole La Malfa. Salvo il suo collocamento, noi possiamo considerarla in questo momento come un articolo aggiuntivo; che, se approvato, sarà inserito, all’articolo 72, alla cui materia si riferisce:

«Per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a lire 750 mila, fermo restando il pagamento delle rate di giugno e agosto 1947, il pagamento del residuo debito d’imposta è riscosso in ventidue rate trimestrali eguali fino all’aprile 1951».

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Come presentatore dell’emendamento, accetto la proposta della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro, vuole esprimere il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo accetta la proposta della Commissione.

PRESIDENTE. Allora, la pongo ai voti.

(È approvata).

Ricordo all’Assemblea che l’onorevole Mortati, ha presentato la proposta di un articolo aggiuntivo. Ha facoltà di svolgerla.

MORTATI. Ho presentato tre emendamenti inerenti alla stessa questione. Il primo è un emendamento sostitutivo all’articolo 77, così formulato:

«Sostituire l’articolo 77 col seguente:

«Il presente decreto sarà presentato per la revisione e l’approvazione all’Assemblea Costituente».

L’emendamento sostituisce questa formula all’altra: «Il presente decreto è convalidato ecc.».

In relazione a questo emendamento vi è una proposta di emendamento all’articolo unico del progetto di legge:

«In relazione all’emendamento proposto all’articolo 77, nell’articolo unico del disegno di legge, sostituire alle parole: È convalidato, le altre: È approvato».

Vi è infine la proposta di un articolo aggiuntivo così formulato:

«Il Governo provvederà a compilare un testo unico delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143 e delle modificazioni ad esso apportate, curandone il coordinamento».

Prego l’onorevole Presidente di consentirmi di svolgere brevemente i miei emendamenti.

PRESIDENTE. Faccio osservare che gli emendamenti dell’onorevole Mortati si riferiscono al testo dell’articolo unico del disegno di legge. Sarebbe pertanto opportuno che prima si concludesse la discussione anche sugli ordini del giorno che sono stati presentati.

Vi è un primo ordine del giorno così formulato:

«L’Assemblea Costituente,

considerato

che nei luoghi di cura e di villeggiatura si praticano affitti e subaffitti esorbitanti per periodi brevissimi, praticamente svincolati da tutte le norme limitatrici vigenti, senza neppure corresponsione di contribuzioni fiscali, non registrandosi i contratti e riscuotendosi gli affitti anticipatamente;

che ciò costituisce evidente ingiusto disquilibrio in confronto degli altri locatori di immobili urbani;

invita,

il Governo a dare opportune istruzioni all’Amministrazione finanziaria ed eventualmente a predisporre opportuni provvedimenti legislativi onde impedire tali straordinarie evasioni fiscali».

«Clerici, Saggin, Baracco, Cavalli, Alberti, Bovetti».

I firmatari di questo ordine del giorno non sono presenti; s’intende quindi che vi abbiano rinunciato.

Vi è poi il seguente ordine del giorno firmato dagli onorevoli: Paris, Cartia, De Vita, Corsi, Pera, Micheli, Carboni Angelo, Lami Starnuti, Simonini, Rossi Paolo, Vigorelli, Bianchi Bianca:

«L’Assemblea Costituente,

constatato che a causa degli eventi bellici il regio decreto-legge 24 giugno 1943, n. 543, non ebbe un’applicazione contemporanea in tutto il Paese, il che determinò la mancanza di un criterio unico nell’aggiornamento degli imponibili ai valori venali del triennio 1937-39 e, in seguito al diverso grado di svalutazione della moneta nelle parti in cui era divisa l’Italia, dava luogo a notevoli sperequazioni;

che le disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 31 ottobre 1946, n. 382, accentuarono delle sperequazioni nel confronto dei singoli contribuenti e di singole provincie, tanto da pregiudicare una equa distribuzione degli oneri fiscali;

che tali sperequazioni, per quando disposto dall’articolo 54, comma quinto, del disegno di legge sull’imposta patrimoniale progressiva già approvato, verrebbero ancor maggiormente aggravate;

chiede al governo che vengano riaperti i termini per la presentazione delle domande di rettifica degli imponibili a ruolo per l’imposta patrimoniale straordinaria proporzionale 4 per cento almeno nelle provincie dove il rapporto fra il gettito della patrimoniale ordinaria 1941 ( = 1) è quello del ruolo principale del 1947 supera del 150 per cento il rapporto medio nazionale, che è di 7,85».

L’onorevole Paris ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

PARIS. Sono stato indotto a presentare l’ordine del giorno dalla constatazione, attraverso rilievi statistici, di enormi sperequazioni tanto rispetto ai singoli contribuenti quanto alle singole regioni, sperequazioni dovute al tempo in cui venne applicata la legge del 24 giugno 1943 n. 543…

LA MALFA, Relatore. È già assorbita.

PARIS. …e la successiva del 31 ottobre 1946. L’Italia era divisa dalla «linea gotica». Queste disposizioni, applicate nel Mezzogiorno quando ancora non era venuto l’adeguamento della moneta, hanno dato delle differenze di rapporto veramente notevoli.

Io leggo soltanto qual è il rapporto, posto uno quale indice dell’imposta unitaria sul patrimonio nel 1941, in proporzione a quella del 1947. Nell’Italia settentrionale questo rapporto è di 1 a 7,85; nell’Italia centrale 6,63; nell’Italia meridionale 1 a 10,21.

Anche le singole province hanno dei rapporti la cui sproporzione è veramente notevole. Si va perfino dal 3,4 al 17,85 di Reggio Calabria e al 17,18 di Teramo.

Ma oltre alle sperequazioni per provincia vi sono quelle rispetto ai singoli contribuenti. Infatti, mentre la maggiorazione doveva essere di 10 volte per i beni immobili esclusi i fabbricati, detta maggiorazione supera delle volte perfino il 100 per cento.

Io porto qui casi relativi a contribuenti della provincia di Trento. Alcuni negozi di frutta – per esempio – hanno avuto l’imponibile maggiorato di 366 volte!

Questo è dovuto al fatto che l’aliquota dello 0,50 per cento è stata ridotta allo 0,40 per cento. Il piccolo contribuente, che non sa destreggiarsi in questo continuo rigurgito di leggi fiscali, ha soltanto guardato l’importo che doveva pagare per tasse. Poi, quando gli è stata recapitata la cartella del pagamento dell’imposta proporzionale straordinaria del 4 per cento, non è stato più in tempo a ricorrere perché i termini erano già scaduti perché tale notificazione non era prevista dalla legge. Ora, ci sono stati dei casi…

PRESIDENTE. Onorevole Paris, mi perdoni: durante la discussione di questo testo di disegno di legge il Governo ha già fatto replicate volte la dichiarazione di accettare la proposta contenuta nell’ordine del giorno che ella ha presentato insieme ad altri. Perciò la sua opera di convinzione, onorevole Paris, mira ad un risultato già raggiunto. L’onorevole Ministro delle finanze le può confermare ancora una volta queste dichiarazioni.

PARIS. Se l’onorevole Pella mi assicura che saranno riaperti i termini non soltanto per i fabbricati di cui alla circolare ministeriale, ma anche per i beni mobili, io mi terrò pago. Perché le sperequazioni vengono soprattutto in materia di tassazioni di beni immobili. Per l’Italia meridionale si verifica una sperequazione enorme per la sola imposta ordinaria del patrimonio. Il Meridione verrà a pagare 60 miliardi di più, oltre l’influenza che la cifra avrà sulla progressiva straordinaria patrimoniale. Mi pare giusto guardare, non soltanto a parole ma anche a fatti, a quelle posizioni economiche del Meridione che da tutti i partiti vengono ricordate al momento delle elezioni, ma che poi qui nessuno porta effettivamente. (Applausi).

PRESIDENTE. Prego il Ministro delle finanze di rispondere all’onorevole Paris.

PELLA, Ministro delle finanze. Comunico ancora una volta agli onorevoli colleghi ed in particolare all’onorevole Paris che:

1°) il Governo fin dal 19 giugno ha diramato una circolare a tutti gli uffici dipendenti con cui si comunicava che erano riaperti i termini fino al 31 dicembre 1947 affinché i proprietari di fabbricati potessero chiedere la rettifica dei loro imponibili. Ciò allo scopo di arrivare per tutti all’adeguamento a cinque volte l’imponibile del 1937-39;

2°) per quanto riguarda i proprietari di terreni, con successiva circolare di fine giugno – mi si perdoni se non ricordo esattamente la data – si è provveduto a disporre perché d’ufficio si proceda al lavoro di adeguamento, in quanto per i terreni, per la tecnica particolare dell’accertamento, è possibile procedere senza richiesta della parte. Quindi in questo particolare settore non c’è, da parte dei contribuenti, che da sollecitare gli uffici a procedere alla revisione.

Quali altri settori restano ancóra? Il settore delle aziende industriali e commerciali. Evidentemente, tenuto conto delle particolarità che il settore presenta, è difficile adottare un criterio generale in tema di revisione degli imponibili. Ma il Governo accoglie certamente i suggerimenti per la correzione di eventuali errori compiuti nel settore delle piccole e medie aziende.

Perciò, l’ordine del giorno dell’onorevole Paris è accettato dal Governo a titolo di raccomandazione.

PARIS. Se il Governo accetta soltanto a titolo di raccomandazione, devo insistere per la votazione.

Posso citare molti casi. Una ditta aveva un imponibile di un milione e 800.000 lire. Ha presentato ricorso entro i termini. C’è stato l’accertamento constatato in lire 55.000. Dunque, da un milione e 800,000 lire la polizia tributaria ha constatato 55.000, lire. Di questi casi ce ne sono a centinaia. Non dico che venga sospesa l’esazione: continui pure; ma almeno che il piccolo contribuente, che è il più colpito, possa avere la possibilità di presentare ricorso.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Paris chiede che venga posto in votazione il suo ordine del giorno mentre il Ministro Pella ha dichiarato di accettarlo come raccomandazione, pongo in votazione questo ordine del giorno.

(È approvato).

L’onorevole Mortati ha facoltà di illustrare gli emendamenti da lui presentati, dei quali ho dato prima lettura.

MORTATI. Mi pare che la questione sollevata dall’articolo 77 sia di notevole importanza perché attiene ai poteri normativi del Governo durante questo periodo provvisorio. Si domanda: il Governo ha pienezza di poteri normativi durante il vigore del decreto 16 marzo 1946? Si deve rispondere nel senso pienamente affermativo. Se è così, bisogna concludere per la inesattezza del termine «convalida» adoperato nel disegno di legge, articolo 77.

Perché «convalida» si riferisce a quegli atti che sono inizialmente invalidi, inficiati da qualche vizio, e che vengono sottoposti a sanatoria dall’organo competente che li risana, cioè dà loro quella validità che originariamente non avevano.

A noi interessa escludere che sugli atti normativi del Governo possa cadere il dubbio di invalidità. Quindi interessa escludere il termine «convalida» che sancirebbe questo significato di invalidità provvisoria. Ed allora si domanda con quale altro termine si potrebbe sostituire il termine «convalida» che è inesatto e politicamente pericoloso.

C’è l’onorevole Codacci Pisanelli che ha proposto le parole: «conversione in legge». Mi pare che questo termine anche sia improprio perché, riferendoci al significato tecnico-giuridico della parola «conversione», dobbiamo presupporre l’esistenza di un atto dotato di validità provvisoria, e quindi bisognoso di un atto successivo che sgravi di responsabilità chi lo ha emesso. Nella specie, mi pare che anche questa situazione non si verifichi perché l’atto del Governo è dotato di validità definitiva; e quindi la conversione dell’atto, che oggi compiamo, non ha significato costitutivo, ma semplicemente dichiarativo di una validità che già aveva.

Si domanda: Il Governo aveva i poteri di presentare dinanzi all’Assemblea una legge già in atto, una legge già completa, in tutti i suoi elementi perfetta? Io credo di sì. Aveva questi poteri in virtù dell’articolo 3 del decreto luogotenenziale 16 marzo 1946 in cui si stabilisce che il Governo dovrà sottoporre poi all’esame dell’Assemblea ogni argomento che venga dalle deliberazioni di esso.

In questo argomento, a mio avviso, può entrare tutto, anche un disegno di legge.

Quale è l’interesse del Governo a presentare un disegno di legge? È un interesse politico, cioè di far valere quella responsabilità del Governo verso l’Assemblea che è sancita dallo stesso articolo 3. Il Governo, maggiore responsabile dinanzi all’Assemblea, può avere interesse a chiedere all’Assemblea stessa una approvazione, che ha evidentemente carattere politico, di quello che ha fatto e nella specie mi pare che il Governo ha usufruito di questo potere, di questa facoltà e si è presentato dinanzi alla Assemblea per chiedere se l’Assemblea approvasse in linea politica quello che esso ha emesso. Quindi l’operazione compiuta dall’Assemblea su questa legge, già perfetta, già emanata, già entrata in vigore, è una approvazione di carattere politico. A questa approvazione di carattere politico si aggiunge un’opera di revisione chiesta dal Governo stesso ed eseguita dall’Assemblea attraverso gli emendamenti.

Quindi sostituire la parola «convalida», con la parola «approvazione» risponde a questa esigenza, che mi pare importante anche dal punto di vista politico oltre che giuridico.

Per quanto riguarda la proposta del testo unico, a me pare che questa proposta discenda dal fatto che essendosi seguita la procedura che ho esposto, noi formiamo due testi: uno il testo originario già pubblicato ed entrato in vigore; l’altro il testo che risulta dalle modificazioni. Di fatti, l’articolo unico del disegno di legge, che ci è stato sottoposto, dice: «È convalidato il decreto con le seguenti modifiche». Quindi che cosa succede? Che la pubblicazione di questa legge, una volta approvata dalla Assemblea, conterrà semplicemente l’elenco delle modifiche.

Quindi fondere in un testo unico, attraverso una coordinazione, che mi pare necessaria dato il modo con cui sono stati svolti questi emendamenti, mi sembra opportuno.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, con l’emendamento Mortati non si chiede soltanto che alla parola «convalida» sia sostituita la parola «approvazione», ma si chiede di modificare sostanzialmente l’articolo 77 in quanto si propone di dire: «Il presente decreto sarà presentato per la revisione e l’approvazione all’Assemblea Costituente».

Io dichiaro questo: che dal punto di vista giuridico non concepisco una legge di revisione, perché una legge o si applica espressamente o si applica implicitamente. Non esiste, che io sappia, l’istituto della revisione della legge.

Ma, badino i colleghi dell’Assemblea, questo emendamento significa mutare sostanzialmente l’articolo unico del disegno di legge. Il disegno di legge è un disegno col quale si chiede la convalida dell’Assemblea.

Già mi affretto a dire subito che convalidare ed emendare, dal punto di vista giuridico, sono termini antitetici ed evidentemente non si convalida laddove si emenda, perché quando si emenda, si modifica la legge. La convalida non consente possibilità di modificazione della legge o possibilità di emendarla, sicché non è possibile che oggi l’Assemblea si arroghi questo cosiddetto potere di revisione, vale a dire di trasformare la legge, sostituire alla legge un’altra legge, mutare i principî ed i criteri ai quali la legge è ispirata. Evidentemente noi supereremmo il compito che siamo chiamati ad adempiere, perché l’articolo unico del disegno di legge demanda a noi soltanto di convalidare la legge.

Io anticipo la mia dichiarazione di voto, e cioè dichiaro che voterò contro perché qui si tratta di una legge essenzialmente anticostituzionale, incostituzionale.

È stato, non a proposito, richiamato l’articolo 3 dal collega Mortati. L’articolo 3, come l’Assemblea sa, stabilisce i rapporti, e li regola, fra l’Assemblea Costituente ed il Governo e demanda al Governo la potestà legislativa, eccettuate le leggi di approvazione dei trattati internazionali e di approvazione della legge elettorale. Vero è che al capoverso è fatta facoltà al Governo di sottoporre eventualmente all’Assemblea qualunque argomento, e mi permetto di soggiungere che questa facoltà fu più tardi trasformata in obbligo per l’articolo aggiunto al Regolamento con il quale si stabilivano apposite Commissioni che ogni qual volta rilevassero l’importanza tecnica o politica di un argomento, avevano il dovere di chiedere la deliberazione dell’Assemblea…

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, nel corso della discussione, lei aveva presentato una proposta nella quale svolgeva appunto questo concetto. Non vorrei che adesso, al termine dei nostri lavori, ella volesse svolgere una questione che aveva carattere pregiudiziale.

CRISPO. Io mi occupo dell’emendamento Mortati col quale si chiede che l’Assemblea si arroghi il potere di rivedere la legge. E dichiaro che questo è assolutamente incostituzionale.

Io dichiaro che qui non è nemmeno luogo alla convalida, comunque si voglia interpretare la parola convalida.

PRESIDENTE. Le faccio osservare che, poiché la votazione sarà a scrutinio segreto, non vi è luogo a dichiarazione di voto. Il problema che lei pone doveva essere posto come pregiudiziale di tutta la votazione, perché, se eventualmente l’Assemblea avesse accettato il criterio che non poteva darsi convalida ad un disegno di legge di questo genere, non si sarebbe neppure fatta la discussione. La pregiudiziale va posta al principio e non alla fine della discussione.

CRISPO. Io mi occupo dell’articolo 77, così come viene proposto secondo l’emendamento dell’onorevole Mortati.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, non le pare superfluo voler dimostrare che questo articolo non ha validità se è già stato applicato? Credo che le sue considerazioni non abbiano fondamento per ragioni di carattere pratico. Comunque, la prego di svolgere rapidamente il suo concetto.

CRISPO. Poche parole per svolgere il mio concetto. (Commenti – Interruzioni).

Il mio concetto è questo, signor Presidente. Poiché stiamo discutendo non un disegno di legge, ma un testo di legge già pubblicato ed in corso di attuazione, è chiaro che se questo testo di legge rientrava nell’ambito della potestà legislativa delegata al potere esecutivo, come ella, signor Presidente, m’insegna, non c’è luogo a convalida perché il disegno di legge non è che l’esplicazione formale dell’attività legislativa delegata, né può parlarsi di convalida perché la convalida, nell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946, non è in alcuna guisa contemplata. Come l’Assemblea sa, quando si delega una funzione legislativa, il potere delegante può riservarsi la convalida e può riservarsi di controllare se il potere delegato si sia contenuto nei limiti della delegazione. Ecco quindi come io pongo la questione. Il testo è stato emesso dal Governo nell’esplicazione legittima della potestà legislativa delegata e non c’è bisogno quindi dell’intervento dell’Assemblea e della sua convalida.

Si è ritenuto che la materia regolata con un testo legislativo fosse d’importanza tecnica e politica tale da esigere la deliberazione dell’Assemblea. In questo caso ci troviamo dinanzi ad una legge incostituzionale, perché il potere esecutivo, pur riconoscendo, come ha riconosciuto, che la materia dovesse essere sottoposta a deliberazione dell’Assemblea, ha emesso la legge ed ha usato l’espediente di ricorrere alla convalida dell’Assemblea di una legge incostituzionale. Comunque la convalida è incostituzionale. (Commenti).

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Volevo portare questa modifica all’emendamento da me proposto: invece di «revisione» dire: «esame».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di parlare.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Io vorrei pregare l’onorevole Mortati, l’onorevole Crispo e tutta l’Assemblea, di considerare che l’articolo 77 fu posto nel testo della legge in quanto il Governo credette di dover presentare per la convalida all’Assemblea l’attuale legge, che è già entrata in esecuzione. In realtà questo impegno del Governo è stato mantenuto, quindi questa disposizione, inserita dallo stesso Governo nella legge presentata all’Assemblea, si è esaurita.

Proporrei quindi che l’articolo venisse soppresso, perché non ha più ragione di essere. Il Governo ha presentato la legge per la convalida e l’Assemblea ha fatto quel che doveva fare.

Non credo di dover rispondere all’osservazione dell’onorevole Crispo che questo procedimento è incostituzionale. La questione è superata dal fatto che la legge è stata discussa dall’Assemblea e la questione sulla costituzionalità del procedimento doveva sollevarsi in via pregiudiziale. Ma l’osservazione non è vera nel merito, perché per l’ultimo comma dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946 il Governo può sempre presentare alla Costituente altri disegni di legge, oltre quelli fissati tassativamente dalla legge.

In ogni modo, questo non ha importanza. Quello che è importante è che l’articolo 77, col fatto di essere venuta la legge dinanzi all’Assemblea e di averla l’Assemblea approvata e revisionata, si è esaurito. Quindi, ne proporrei la soppressione.

Invece, ha ragione di essere il secondo articolo aggiuntivo dell’onorevole Mortati, il quale vuole che il Governo provveda a compilare un testo unico per coordinare le disposizioni del decreto legislativo del 29 marzo 1946 con quelle riguardanti le aggiunte e modifiche apportate con l’attuale legge. Questo è un articolo necessario e ringrazio l’onorevole Mortati di aver pensato, con la sua grande competenza tecnica, ad introdurre questo articolo nel disegno di legge.

PRESIDENTE. Allora, vi è la proposta del Ministro onorevole Grassi di sopprimere l’articolo 77 perché ha perso ogni ragione di essere. Pongo ai voti questa proposta soppressiva.

(È approvata).

Debbo ora porre in votazione l’altra proposta dell’onorevole Mortati.

CODACCI PISANELLI. Prima di porre in votazione la proposta Mortati, la prego di darmi la parola per illustrare i miei emendamenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha presentato li seguente emendamento all’articolo unico:

«Sostituire l’espressione: È convalidato, con l’altra: È convertito in legge».

Ha poi presentato il seguente altro emendamento al titolo del disegno di legge:

«Sostituire le parole: Convalida, con l’espressione: Conversione in legge».

Ha facoltà di illustrare i suoi emendamenti.

CODACCI PISANELLI. Dopo che il problema è stato così profondamente esaminato, ritengo che innanzi tutto debba rispondersi alla questione circa la costituzionalità della legge, costituzionalità che secondo me è stata pienamente dimostrata dall’onorevole Mortati. (Interruzioni – Commenti).

Dissento invece dalla proposta di sottoporre il problema all’esame ed all’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Onorevole Codacci Pisanelli, è stata già votata la soppressione dell’articolo 77.

CODACCI PISANELLI. Sì, ma ora si tratta anche del testo unico. L’atto nuovo, che noi stiamo per emanare, secondo me, porta ad abrogare il provvedimento legislativo che il Governo ha emanato. In altri termini, come nel campo delle obbligazioni, noi abbiamo la possibilità di estinzione delle obbligazioni attraverso la novazione, così qui noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno di novazione di norma giuridica.

Con questa nuova legge, noi sostituiamo ed abroghiamo quella precedente. Ritengo perciò che non sia necessario pensare ad un testo unico in quanto dovrebbe essere la nostra stessa legge a sostituire completamente quella precedente.

Ecco la ragione per cui io parlo di conversione in legge del decreto, anche perché sono d’accordo con l’onorevole Mortati, che si tratti di una figura diversa da quella che normalmente portava alla convalida; si tratta cioè di una figura assai più vicina alla conversione in legge.

I provvedimenti legislativi che il Governo emana vengono chiamati decreti legislativi, ma in realtà non sono tali, poiché manca una vera e propria delega da parte degli organi legislativi competenti. Siccome non c’è questa delega, ci troviamo di fronte a decreti-legge, a quelli che si chiamavano decreti-legge, e che non hanno efficacia limitata, ma, anche in passato, potevano avere efficacia illimitata nel tempo. Ci troviamo di fronte a quel potere legislativo che il Governo ha sempre esercitato nei casi di necessità e di urgenza, e che ha portato come conseguenza all’intervento degli organi legislativi competenti. Quindi vi deve essere una conversione in legge. (Commenti).

Credo, ripeto, che sia più opportuno pensare ad una conversione in legge piuttosto che ad una approvazione. Questa conversione in legge, però, dovrebbe portare ad un riesame da parte della Commissione, perché, prima di sottoporre al nostro voto finale il testo del progetto, lo coordinasse in maniera organica.

Concludo affermando l’opportunità di non pensare ad una figura così complessa come quella dell’approvazione del successivo testo unico, ma di risolvere la questione nella maniera più semplice, che ha i suoi precedenti nella nostra storia parlamentare, cioè mediante la conversione in legge del progetto presentato dal Governo.

PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti.

Passiamo ora alle votazioni, iniziando dal testo aggiuntivo proposto dall’onorevole Mortati, così formulato:

«Il Governo provvederà a compilare un testo unico delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143, e delle modificazioni ad esso apportate, curandone il coordinamento».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo ora alle proposte di emendamento al testo dell’articolo unico del disegno di legge.

Vi è la proposta dell’onorevole Mortati del seguente tenore:

«In relazione all’emendamento proposto all’articolo 77, nell’articolo unico del disegno di legge, sostituire alle parole: È convalidato, le altre: È approvato».

LA MALFA, Relatore. La Commissione è contraria, perché la formula da usare nell’articolo 1 deve essere identica a quella dell’articolo 77 soppresso, altrimenti non potremmo realizzare la condizione posta nel decreto originario.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Veramente io sarei favorevole ad accettare l’emendamento Mortati, perché «approvazione» è più che «convalida». Non si è convalidato soltanto; l’Assemblea ha modificato, quindi «convalida» avrebbe un significato ristretto, mentre «approvazione» è un termine più ampio e per questa ragione credo che sia tecnicamente più esatto.

In ogni modo, tanto «convalidato» quanto «approvato» finisce con l’essere la stessa cosa e quindi potremmo accettare l’una o l’altra soluzione.

Non credo che valga la pena di insistere troppo.

LA MALFA, Relatore. Io credo che sia necessario usare all’articolo unico la stessa espressione usata nel decreto legislativo, perché si stabilisce la continuità dei due provvedimenti e il fatto che un provvedimento si lega all’altro. Usando «convalidato» ci atteniamo alla formula del decreto legislativo e questo non dà la possibilità di dire che, essendo il decreto in vigore, noi l’abbiamo tramutato in formula di approvazione.

L’articolo 77 può essere stato soppresso, perché abbiamo realizzato la condizione.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Volevo chiarire, tecnicamente, la questione.

In altri termini, l’Assemblea ha già soppresso l’articolo 77, mentre rimane adesso da approvare l’articolo unico della legge che dice: «È convalidato il decreto legislativo concernente l’istituzione ecc.».

Invece, la formula della Commissione aggiunge: «con le seguenti modificazioni».

Ora, le «seguenti modificazioni» spostano, secondo me, la formula della convalida. Una cosa sarebbe stata la convalida pura e semplice e un’altra cosa è l’approvazione con modificazioni ed aggiunte.

Quindi, penso che l’onorevole Mortati abbia presentato questa proposta per poter rendere più chiaro il concetto che l’approvazione dell’Assemblea non è una semplice convalida, ma è una approvazione «con le seguenti modificazioni».

È questione di tecnica, che non cambia niente della sostanza.

Mi rimetto in ogni modo all’Assemblea.

PRESIDENTE. A me pare che ciò che si può approvare da una Assemblea come la nostra, è un disegno di legge. Per mezzo dell’approvazione, il disegno diviene legge. Non è soltanto una proposta, ma acquista un potere impegnativo ed obbligatorio.

Il decreto legislativo sulla patrimoniale possedeva già questo potere; non possiamo compiere un atto che è destinato a dare un potere di tal genere, nei confronti di una misura che lo possiede già, tanto che le disposizioni sono entrate – per quanto possibile – in applicazione.

Mi pare, pertanto, che si debba parlare di convalida.

Per tener conto poi delle modificazioni anche profonde che sono state apportate al testo del decreto legislativo, si potrebbe, se mai, modificare la formula, dicendo: È convalidato il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, con le modificazioni e le aggiunte – perché in realtà si è trattato di aggiunte, non solo di modificazioni – di cui al testo degli articoli seguenti.

Poiché l’onorevole Grassi, per il Governo, ha dichiarato di rimettersi a proposito di questo testo all’Assemblea, propongo all’Assemblea di accettare questa formulazione. Qual è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione è d’accordo.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora pongo ai voti la seguente formulazione:

«È convalidato il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, con le modificazioni e le aggiunte di cui al testo degli articoli seguenti».

(È approvata).

Il disegno di legge, costituito soltanto da questo articolo unico, sarà posto in votazione a scrutinio segreto all’inizio della seduta pomeridiana. Le urne resteranno aperte anche durante lo svolgimento della discussione sul Trattato di pace.

La commissione procederà poi al coordinamento degli articoli emendati.

Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così rimane stabilito).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Ricordo che noi abbiamo discusso ed approvato gli articoli più importanti di questo disegno di legge sotto la presidenza del collega onorevole Conti. (Applausi).

Credo di interpretare il pensiero di tutti, rivolgendo a lui, nel momento in cui il disegno di legge è diventato legge, il nostro rincrescimento che, per un equivoco superficialissimo, egli non abbia potuto essere con noi a godere il piacere di aver gettato le basi della ricostruzione della nostra finanza. (Vivissimi generali applausi).

PRESIDENTE. Con questo plauso unanime l’Assemblea ha manifestato di condividere pienamente i sentimenti espressi dall’onorevole Corbino, alle cui parole non posso che dare la mia completa adesione. (Segni di assenso).

La seduta termina alle 13.20.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

Indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

 

Congedo:

Presidente

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23)

Presidente

Togliatti

Einaudi

Pacciardi

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Pella, Ministro delle finanze

Cappi

Cimenti

Caroleo

Canevari

Grazia

Dugoni

Adonnino

La Malfa, Relatore

Micheli

Pesenti

Bertone

Pallastrelli

Scoccimarro

Tosi

Pesenti

Quintieri Quinto

Corbino

Camangi

Chiostergi

Fabbri

Piemonte

Foa

Targetti

Vanoni

Gronchi

 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Marazza.

(È concesso).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi, da parecchi giorni dura questa nostra discussione sopra la proposta, presentataci dal nostro Governo, di essere autorizzato alla ratifica del Trattato di pace, preparato per l’Italia dalle quattro grandi Potenze e definitivamente redatto a Parigi alla Conferenza dei ventuno; trattato al quale già l’Italia, del resto, ha posto la propria firma, per decisione del Governo, nel mese di febbraio. Da parecchi giorni dura la discussione e nel corso di essa abbiamo sentito gli interventi di colleghi di tutte le parti, che abbiamo seguito con rispetto o per lo meno con sostenuta attenzione. Nonostante ciò, nonostante che tutte le opinioni siano ormai, credo, state espresse e nonostante l’ampia esposizione fatta dal nostro Ministro degli esteri, l’impressione nostra è che tuttora domini nell’Assemblea uno stato d’animo, se non di confusione, per lo meno di perplessità. La perplessità domina, oltre che nell’Assemblea come tale, nella coscienza di ciascuno di noi. Di fronte alla gravità dell’atto che ci viene chiesto, ciascuno di noi interroga se stesso ed è ancor oggi dubbioso.

Noi sentiamo infatti che in questo dibattito vi è qualche cosa che trascende le nostre persone, che trascende i partiti e la lotta dei partiti, che trascende l’Assemblea stessa, direi che trascende anche il presente politico del Paese con le sue incertezze, i suoi contrasti, le sue lotte, e con la sua fondamentale contraddizione, fra una spinta e una aspirazione unitaria, che fu essenziale nella vita politica italiana dalla vigilia della liberazione fino ad oggi e persiste tuttora nella maggioranza del popolo italiano, e dall’altra parte un Governo il quale invece ha voluto costituirsi come Governo di parte, e cioè forzatamente come Governo di una parte contro l’altra del Paese. La maggioranza di noi comprende come nel momento attuale, anche questo aspetto della situazione italiana sia superato dalla gravità del tema che ci è stato presentato. In sostanza, due cose dominano questo dibattito: il passato del nostro popolo prima di tutto, il passato di questa nazione italiana, la quale si è costituita ad unità attraverso sforzi durati secoli e secoli, che ha creato così tardi il proprio Stato unitario, lo ha difeso e miracolosamente è riuscita, all’ultimo momento, a salvarlo nel corso dell’ultima catastrofe che ne ha minacciato la esistenza stessa. Oltre al passato, l’avvenire della nazione italiana, il futuro che dobbiamo garantire a noi stessi e alle generazioni che verranno dopo di noi, a questo Stato unitario italiano e alla nazione unita, affinché essi possano continuare a progredire sulla via del loro destino.

Certo, di fronte alla gravità del tema che sta davanti a noi, un altro metodo di discussione e anche di ratifica avevamo pensato. Avevamo pensato a un dibattito rapido, limitato a un’espressione di pensiero da parte di alcuni elementi fra i più rappresentativi dell’Assemblea, forse di un solo oratore, il quale esprimesse quello che di comune c’è oggi nella coscienza di tutte le forze democratiche della nazione italiana e poi un voto: un voto il quale per il modo stesso come fosse dato esprimesse quell’elemento di necessità nazionale che sentiamo tutti presente quando parliamo del Trattato di pace e ne discutiamo.

In questo modo, l’atto di ratifica avrebbe potuto essere e sarebbe stato isolato dalle contingenze della nostra vita politica e forse anche dalle contingenze della nostra politica internazionale; sarebbe stato l’atto di coscienza compiuto dalla democrazia italiana nel momento in cui essa chiude un passato, registra quello che ha potuto essere salvato e si avvia verso l’avvenire.

Ad un simile metodo di discissione voi sapete, colleghi, che si era pensato: la proposta era sgorgata dalla mente di alcuni dei migliori uomini del nostro Paese, da qualcuno, anzi, che occupa un’altissima carica politica nello Stato repubblicano. Quel metodo però esigeva alcune cose. Esigeva una cosa, in particolare, che, oggi, purtroppo non abbiamo: un Governo il quale potesse dire di parlare, nel momento in cui ci propone l’atto della ratifica, a nome di tutte le parti del Paese, a nome di tutti i partiti democratici e repubblicani.

Siamo così costretti a seguire un metodo diverso e la cosa è stata condotta in modo tale che ci è impossibile stabilire un limite qualsiasi a questa nostra discussione. Noi ce ne doliamo, perché ci sembra che una ratifica fatta con quell’altro metodo meglio avrebbe corrisposto alle condizioni in cui si trova oggi il Paese, meglio avrebbe accentuato davanti a tutto il Paese che la Nazione italiana oggi, di fronte alle tragiche conseguenze della guerra, non ancora completamente liquidate, e di fronte ai compiti che si pongono per la sua rinascita, ha bisogno ancora e soprattutto di una solida sua unità, di un’unità politica la quale si rifletta prima di tutto e anzitutto nell’esecutivo della Nazione, nel Governo che ne dirige le sorti.

Le cose sono andate diversamente, e precisamente sono state condotte in modo tale che, invece di persuaderci ed unirci, ha accresciuto in tutti noi la perplessità di fronte all’atto che ci viene chiesto. Prima di tutto abbiamo diritto di essere perplessi per il modo, e vorrei dire anche per la persona che ci chiede la ratifica – uomo o partito che essa sia – per il fatto che la ratifica ci viene chiesta, e ci viene chiesta in forma urgente, precisamente dal capo e dagli uomini di quella Democrazia cristiana che prima di oggi condussero – e condussero largamente, in modo non opportuno – una campagna attorno al Trattato di pace, negando che esso potesse venir firmato e ratificato, gettando contro coloro i quali affermavano che si sarebbe anche potuto firmare e ratificare, per determinati motivi, le peggiori accuse: di non aver senso nazionale, di rinunciare alla difesa dei beni della Nazione, di capitolare di fronte alle esigenze della vita del Paese. Non voglio citare i documenti e gli scritti attraverso cui quella campagna venne fatta dagli uomini che stanno alla testa di quel partito; sta di fatto però che nel momento in cui vediamo questo stesso partito chiedere oggi la ratifica, abbiamo il diritto di essere perplessi: il voltafaccia è troppo grande. (Commenti al centro). Sono cambiate le condizioni, lo ammetto, però allora ci si disse che mai avrebbe dovuto il Trattato essere o firmato o ratificato; ho qui le citazioni e ve le risparmio. Quella campagna fu dunque grave errore dei dirigenti del Partito democratico cristiano, perché creò in seno alla Nazione una scissione che era inutile e dannosa, poiché la questione del Trattato era una di quelle che noi dovevamo avere la capacità e la forza di esaminare tutti insieme, superando ogni egoismo di partito, di Governo o di opposizione, e rifacendoci solo a quelli che sono i supremi sentimenti e interessi della Nazione.

Quel grave errore della Democrazia cristiana ne accompagnava del resto altri, e altrettanto gravi. Essa continuava una politica estera del partito democristiano profondamente sbagliata, e profondamente sbagliata perché invece di sapersi elevare alla coscienza delle necessità unitarie della vita nazionale, di ogni questione controversa inevitabilmente era tratta a fare una questione di speculazione e di lotta tra i partiti. Di questo ha sofferto tutto il Paese; e voi stessi ne avete sofferto, perché avete perduto il prestigio (Commenti al centro), che avreste invece potuto avere mostrandovi come un partito capace di tener conto di tutte le esigenze nazionali e di fare veramente una politica italiana. Ma l’Italia soprattutto ne ha sofferto, ed è quello che ci preoccupa di più. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Subiamo anche questo per amor di Patria!

TOGLIATTI. Ma la perplessità deriva anche dal momento in cui la ratifica ci viene chiesta e ci viene chiesta con urgenza, quando, secondo l’opinione degli uomini più competenti in diritto internazionale che siedono in questa Assemblea, essa non sarebbe in sé e per sé assolutamente necessaria, in quanto la necessità assoluta della ratifica sorgerà solo nel momento in cui il Trattato sarà perfetto, allo scopo di dimostrare che non facciamo resistenza alla sua esecuzione. Ma il Trattato non è perfetto ancora: manca una delle ratifiche principali, oltre a qualche ratifica secondaria. Di qui la nostra perplessità che deriva dal fatto che prima, quando mancavano parecchie delle ratifiche principali, ci si disse che bisognava attendere quello che avrebbero fatto la Commissione degli esteri del Senato americano e il Senato stesso. Va bene, se abbiamo atteso per gli uni è giusto che si attenda per gli altri. Di qui una seconda causa della nostra perplessità.

Ma credo che la causa fondamentale è che di fronte a queste due incongruenze, di cui la prima è la contraddizione, anzi il voltafaccia nella politica della Democrazia cristiana, la seconda è la richiesta della ratifica quando questa non è ancora assolutamente indispensabile, siamo inevitabilmente portati a connettere la richiesta che il Governo ci fa con tutti gli altri atti della sua politica estera.

La ratifica illogica, secondo le direttive di politica estera dei democristiani, non giustificata secondo le norme stesse del Trattato come atto di necessità nel momento presente, trova dovunque la sua giustificazione in qualche altra cosa? E in che cosa? È essa elemento necessario di una determinata politica estera? E di quale?

Siamo quindi tratti inevitabilmente al dibattito generale di politica estera, e affermo qui che questo dibattito lo abbiamo desiderato, l’abbiamo auspicato e voluto. Lo stesso nostro intervento la sera in cui si dette il precedente voto circa l’opportunità o meno di avere questa discussione in questo periodo dei nostri lavori parlamentari, fu volto a provocare questo dibattito, perché lo riteniamo non solo necessario ma indispensabile. Il Paese deve oggi sapere qual è la politica estera del suo Governo, e un’opposizione come noi siamo – insieme con voi, colleghi della sinistra – credo abbia non solo il diritto ma il dovere di parlare a questo proposito molto chiaramente, appunto per il grado di acutezza cui sono giunti i rapporti internazionali, e che avvertiamo non solo istintivamente ma per i documenti, gli atti, le discussioni che sono a nostra conoscenza.

Colleghi della Costituente, io dirò dunque senza riserva quello che noi pensiamo della politica estera di questo Governo e della situazione internazionale. Mi hanno detto che sarebbe bene che noi comunisti, ala estrema dell’opposizione al Governo, non esprimessimo in modo del tutto chiaro le nostre critiche, e ciò allo scopo di permettere che si formi un fronte più largo per il rinvio della ratifica. Vi confesso di non essere stato sensibile a questo suggerimento.

Signori della destra, se la vostra sensibilità nazionale è così piccola che voi siete disposti a modificare la vostra posizione che argomentate o cercate di argomentare con motivi profondi, unicamente perché temete questo o quell’altro schieramento parlamentare, vuol dire che le ragioni che portate sono ragioni in cui in realtà credete ben poco. Il dovere nostro è di parlare; e parleremo come parla una opposizione democratica la quale si propone, pur essendo fuori del Governo, ponendo le questioni con quella acutezza che la situazione richiede, d’influenzare il Governo stesso attraverso la opinione del Paese. Un Governo il quale voglia essere democratico, non può non tener conto di quanto una opposizione dice, soprattutto quando sa che questa opposizione rappresenta una parte così importante dell’opinione pubblica come noi rappresentiamo. In questo modo noi contribuiamo a determinare la politica estera italiana pur essendo fuori del Governo. Anche per questo gli schieramenti occasionali di Assemblea non sono il fattore determinante decisivo della nostra posizione.

Se partissimo da una visuale ristretta di partito forse potremmo anche essere soddisfatti che il partito che oggi è il partito dirigente della borghesia italiana, cioè il Partito democratico cristiano e i gruppi dell’estrema destra, diano il loro voto favorevole alla ratifica. Ricordiamo la recente storia italiana, e la recente storia tedesca. Ricordiamo quale arma terribile fu in Germania e da noi, nelle mani dei gruppi dell’estrema destra nella lotta contro la democrazia, la politica di rivincita. E in sostanza, se domani vedessimo i gruppi dell’estrema destra – come vediamo oggi il partito dirigente della borghesia italiana – votare per la ratifica, sollecitare la ratifica, dovremmo essere contenti. Quest’arma verrebbe, se non spezzata, per lo meno spuntata nelle mani dei gruppi più reazionari delle nostre classi dirigenti borghesi. Per questo consideriamo con animo diverso da quello di molti altri partiti gli schieramenti che si produrranno a questo proposito. Quello che ci interessa è di esprimere la nostra opinione davanti a questa Assemblea e davanti al popolo italiano, e perciò che il dibattito continui, che si sviluppi, fino a mettere in chiaro molte cose di più di quante non ne abbia messo sinora.

Che cosa è il Trattato? Che cosa significa il Trattato? Tutti lo sappiamo. Conosciamo la durezza di alcune delle sue clausole politiche, territoriali, economico-finanziarie, militari. Non ho bisogno di fermarmi sopra di esse. Tutti noi, quando ne parliamo, ne parliamo con amarezza, con dolore. Vi è in questo sentimento qualche cosa che è comune a tutti noi e a tutto il popolo italiano. Il nostro Paese è stato portato dalle sue classi dirigenti a un punto al quale noi speravamo e ci auguravamo che mai dovesse essere portato.

Però, quando da questo sentimento ci si sforza di passare a un giudizio storico-politico sulle cause della durezza di queste clausole, allora l’accordo non è più completo. Allora possiamo ascoltare con commozione l’onorevole Benedetto Croce esporci qui il motivo del proprio dolore ed alcune delle note da lui toccate possono suscitare anche nell’animo nostro una eco di simpatia. Non condividiamo però il suo giudizio fondamentale. Vi è qualche cosa che sfugge alla valutazione storico-politica di Benedetto Croce. Quello che gli sfugge è un elemento che è nel Trattato e non poteva non esserci: la sanzione. Dice Benedetto Croce che la sanzione è nei fatti, che il giudizio sulle guerre e sui popoli e sui loro dirigenti lo dà la storia. È vero. Terribile è la sanzione oggettiva caduta sul nostro popolo, e che si esprime con la distruzione delle nostre ricchezze, delle nostre città, delle nostre campagne. Tutto questo è già una sanzione. Però oggi le guerre non sono più quello che il senatore Croce ci dice. Esse sono diventate un’altra cosa, dal giorno in cui sono diventate guerre di popoli e di idee, che vivono nella coscienza dei popoli, si affermano attraverso conflitti armati, guerre civili dunque sempre, in sostanza. È quindi inevitabile il giudizio, la sanzione che ad esse tiene dietro. Questo infatti esige la coscienza dei popoli che teme nuove aggressioni, e per questo vuole condannato chi, aggredendo, ha scatenato la guerra. Il giudizio quindi investe tutto il nostro Paese per la politica da esso condotta negli ultimi venti anni e anche se ci addolora, non possiamo sottrarci ad esso. Questo giudizio colpisce l’Italia, tutta l’Italia così come essa è stata e la colpisce in un momento in cui si chiude un periodo della sua storia, in cui da parte delle classi dirigenti del Paese venne fatta una politica che non era una politica nazionale, ma profondamente contraria agli interessi della Nazione.

Io lo so, onorevole Nitti, la colpa non è soltanto di quelle classi dirigenti italiane che vollero il fascismo, perché esse trovarono nel mondo tutta la solidarietà di cui avevano bisogno; e oggi noi, come lei, rabbrividiamo nel vedere fra i giudici qualcuno di coloro che dovrebbe sedere invece sul banco dell’accusato. (Approvazioni).

Ma il problema dobbiamo vederlo nell’aspetto che riguarda noi come popolo italiano, come dirigenti della politica italiana. L’ho già detto: nessuno può sottrarsi alla responsabilità. Sento che non sarebbe giusto, per esempio, che io vi ricordassi come l’uomo che fondò questo nostro partito, Antonio Gramsci, nel 1928, quando davanti al Tribunale Speciale gli posero la domanda di quel che avrebbero fatto i comunisti in caso di guerra rispose una sola cosa con la sua voce esile: «Voi porterete l’Italia alla catastrofe». E poi tacque. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questo atto compiuto dal capo del nostro partito davanti a quei Tribunale, anche se quel grande con la sua vita doveva pagare quel suo giudizio. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questa grandiosa capacità di previsione per dire: la cosa non ci interessa; noi lo avevamo previsto. No, non si possono scindere le proprie responsabilità in nessun momento da quelle del proprio popolo, da quelle della Nazione. Facciamo parte di questa Nazione; con essa marciamo e condivideremo con essa tutte le sorti e il destino comune.

Certo è però che appunto perché sappiamo che vi fu colui che levò la voce per dire che si andava alla catastrofe, appunto per questo abbiamo il dovere di ricordare che vi furono anche quelli che non ebbero il coraggio di levare la voce, non ebbero il coraggio di dire che si andava alla catastrofe e avvertirne il popolo. Forse la posizione che essi avevano sulla scena politica, il fatto che erano espressioni di determinati gruppi sociali, economici e politici, impedì loro la chiarezza del giudizio e li rese complici del fascismo. Anche noi, democratici di tutti i partiti che hanno tenuto fede, sotto la tirannide, all’idea della libertà, e hanno combattuto per la redenzione della Patria dobbiamo però riconoscere che una parte di responsabilità è anche nostra, se non altro perché dovevamo essere più forti, più uniti nella lotta contro la tirannide, e allora forse saremmo riusciti a salvare il Paese dalla catastrofe, e oggi non saremmo qui a fare questa discussione dolorosa.

Dico questo perché a questa necessità fondamentale della nostra unità mi riferirò in tutto il resto della mia esposizione, prescindendo da quelle che sono le attuali posizioni di questo o quell’uomo politico, di questo o di quel partito.

Sento infatti che nel momento presente, ci troviamo in uno di quegli istanti in cui ancora una volta le sorti del nostro popolo possono decidersi in un modo o in un altro a seconda della via che sceglieremo, dell’impulso che daremo alla ricostruzione del nostro Paese, e in particolare a seconda della posizione che faremo prendere al nostro Paese nelle questioni internazionali, nella grande lotta che si svolge attorno al tema della pacifica ricostruzione del mondo intero. Evitiamo dunque errori finché siamo a tempo, e per evitarli cerchiamo di far rivivere in noi quel sentimento unitario e democratico che se più forte fosse stato nello spingerci alla lotta contro il fascismo ci avrebbe permesso di evitare al nostro Paese tante sciagure.

Il Trattato, ripeto, è quello che è, e noi oggi, non lo possiamo cambiare. Non possiamo cambiare in esso, credo, nemmeno una virgola. Però come avrebbe potuto essere il Trattato? Avrebbe potuto essere molto peggiore e avrebbe potuto essere un poco migliore. Molto peggiore sarebbe stato il nostro Trattato se non vi fosse stata la rivolta del popolo italiano contro la tirannide fascista, se non vi fosse stata la partecipazione alla guerra di liberazione voluta dal popolo, se non contro la volontà delle vecchie classi dirigenti, per lo meno spezzando la resistenza e la riluttanza di queste classi. Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se nella guerra di liberazione non fossimo riusciti, grazie alla volontà e all’entusiasmo del popolo e agli sforzi politici da noi fatti, a schierare in campo i resti di un esercito, di una marina, di una aviazione che hanno fatto il proprio dovere, nell’ultima fase della guerra, fino all’ultimo, senza chiedere nulla.

Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se non vi fosse stata la nostra guerra partigiana, se non vi fosse stata la nostra insurrezione nazionale liberatrice, la quale ci ha ridato un posto in mezzo alle Nazioni democratiche, sia pure un posto ancora limitato dove non si sta bene come si stava una volta, onorevole Orlando, ma che è ad ogni modo un posto.

Senza quella politica, la quale rese possibile la nostra partecipazione alla guerra e la nostra insurrezione e la quale fu voluta e fatta dal popolo e dai partiti popolari che hanno la grande maggioranza in questa Assemblea, il Trattato sarebbe stato molto peggiore e forse noi ci troveremmo oggi ancora nelle condizioni in cui si trova il popolo tedesco, che ignora quale sarà il proprio destino, non sa ancora se riuscirà a ricostituire l’unità della propria Nazione e a ricostruire il proprio Stato nazionale unito e indipendente.

Questo enorme vantaggio siamo riusciti a conquistarcelo attraverso il nostro lavoro, attraverso la nostra resistenza, la nostra lotta, la nostra insurrezione.

Questo io dico in particolare rivolgendomi a voi, colleghi della parte destra, che non siete capaci di aprire bocca, senza gettare contro queste, che sono state le glorie più grandi del popolo italiano in questo periodo della sua miseria, fango ed insulti; a voi che avete scritto che insurrezione nazionale non c’è mai stata; a voi che ogni giorno irridete a quello che è stato lo sforzo liberatore del popolo italiano (Applausi a sinistra); a voi che ancora oggi non avete capito che cosa abbia significato per l’Italia la politica dei Comitati di liberazione nazionale e quella unità dell’esecutivo nazionale, che avevamo creata attraverso quella politica, la sola che potesse darci la possibilità di risollevarci, di dar inizio alla redenzione del popolo italiano.

Il Trattato, dunque, avrebbe potuto essere molto peggiore. Ritengo, però, che avrebbe anche potuto essere alquanto migliore e precisamente avrebbe potuto essere migliore se dal momento in cui Roma fu liberata, lo sforzo unitaria, patriottico, nazionale, che animava le grandi masse del popolo, fosse riuscito a ispirare una differente politica estera: una politica estera la quale non fosse dominata da preoccupazioni ideologiche di parte o di classe, che dividevano il popolo e offuscavano l’interesse nazionale.

È verissimo; l’ultima guerra è stata combattuta e vinta da un’alleanza, e questa alleanza era di forze eterogenee: da un lato la democrazia socialista, l’Unione Sovietica, dall’altro grandi Paesi democratici, capitalistici ed imperialistici, uniti da una comunità di interessi, e in prima linea dall’interesse loro comune di sbarrare la strada alla barbarie nazista e fascista.

Da questa alleanza è uscita la vittoria. Se questa alleanza non ci fosse stata, vittoria per i popoli democratici e per la democrazia forse non vi sarebbe stata.

Ma poiché vi erano due forze, e queste due forze alleate erano eterogenee, immediatamente abbiamo visto alla fine della guerra, e anche prima di essa, contrasti, antagonismi, minacce di scissioni, e iniziarsi dannosissime speculazioni circa la loro possibilità.

L’errore della nostra politica estera, dal giorno della liberazione di Roma in poi, è stato di essere una politica estera eccessivamente unilaterale, orientata sopra una di queste forze, e non sopra l’unità di esse: badate, non dico sull’altra, ma su entrambe, anzi, sulla loro unità. Questo è stato l’errore della nostra politica estera.

L’atto più intelligente della nostra politica estera – permettetemi di dirlo, compagni comunisti e socialisti – è stato compiuto dal Maresciallo Badoglio nel periodo di Salerno…

CORBINO. Di Brindisi, prima.

TOGLIATTI. …o di Brindisi che fosse, quando egli ottenne il riconoscimento di un Governo italiano rappresentativo di tutta Italia da parte dell’unione Sovietica ed in quel modo riuscì a svincolare l’Italia, di fatto, dalla posizione di Stato nemico e metterla sulla strada che avrebbe potuto portarla, qualora fosse stata seguita con intelligenza, con abilità e accortezza, o ad una cobelligeranza trattata, quindi con dei corrispettivi, o per lo meno ad una differente posizione sin dall’inizio, subito dopo la liberazione.

Intervennero invece, dopo la liberazione di Roma, elementi e fattori antiunitari, fomentati al di fuori d’Italia e in Italia stessa fomentati da gruppi sociali e politici determinati, dai soliti gruppi reazionari incapaci di comprendere la necessità di una politica nazionale. In sostanza, lo dirò apertamente, onorevole Bonomi, credo che la responsabilità principale sia sua e dei circoli reazionari da cui ella lasciò che fosse ispirata la sua politica estera in quel primo periodo. Perdemmo allora ogni vantaggio già conquistato e le misere concessioni contenute nel famoso memoriale MacMillan, di cui già si parlava nel periodo salernitano, vennero nel momento in cui tutta l’Italia stava per essere liberata e in cui la guerra finiva.

Ripeto, tutti i vantaggi già acquistati furono perduti, e non si conquistarono, servendo i circoli reazionari d’Occidente, nuove posizioni. Rimanemmo nella posizione, che è quella che è sancita ancora oggi nel Trattato. Da quella politica non poteva uscire altro che questo Trattato ed io ritengo che gli storici futuri, quando con spirito di imparzialità giudicheranno quel periodo della nostra vita nazionale, riconosceranno che è stato per l’Italia uno dei periodi in cui veramente lo spirito di classe e di casta più ha danneggiato l’interesse della Nazione, perché tutte le premesse e tutte le condizioni esistevano per un’altra politica estera. Prima di tutto però occorreva che venissero liquidati i sospetti di classe, le diffidenze verso i partiti e verso le forze popolari che si orientavano in modo unitario e nazionale, occorreva fare una politica che non fosse di una delle parti, di una delle ideologie in contrasto, ma fosse di unità, veramente e soltanto nazionale e democratica, e non asservita a nessuna cricca reazionaria. Quella politica non venne fatta.

Oggi paghiamo le conseguenze, in parte, di quegli errori. Si dirà: ma voi eravate in quei Governi, perché siete stati zitti e non avete corretto quella politica estera? Non abbiamo potuto, onorevoli colleghi. Abbiamo criticato sempre, abbiamo fatto tutte le proposte che era necessario fare, ma non siamo riusciti a correggere quella politica estera, così come non siamo riusciti finora a correggere l’unilateralità dell’indirizzo della politica internazionale del nuovo Stato italiano. Questa impossibilità in cui ci siamo trovati di esercitare una influenza positiva e nazionale in questo campo decisivo della nostra vita politica, è stato del resto uno dei motivi del malcontento nostro relativamente all’azione dei successivi Governi cui partecipavamo. Non svelo nessun segreto dicendo che questo è uno dei motivi per cui a un determinato momento l’uomo più responsabile del nostro partito non volle più entrare nel Governo, per essere libero di dire che, in quel campo che è decisivo per la vita di uno Stato, il nostro Governo sbagliava.

Perché non avremmo dovuto, del resto, partecipare al Governo? In fondo la nostra partecipazione al Governo era il solo elemento che correggesse la politica estera unilaterale e non nazionale che si stava facendo, era il solo elemento che mantenesse carattere largo, unitario, al viso che la nuova Italia mostrava al mondo. Proprio a questo elemento si è voluto rinunciare alla vigilia del giorno in cui si chiedeva ratifica: ecco un altro dei motivi della nostra perplessità.

Abbiamo preso iniziative verso tutti gli Stati, abbiamo mandato delegazioni in tutte le parti del mondo, abbiamo fatto cortesie a tutti, perfino al Governo egiziano, a cui abbiamo dato parecchi miliardi, per danni di guerra in un momento in cui sapevamo benissimo che era imminente la rinuncia ai danni di guerra da parte di grandi Potenze. Nel far cortesie a tutti, ci siamo però dimenticati che vi è una delle Potenze vincitrici che si chiama l’Unione Sovietica; e mai un uomo politico nostro è andato da quella parte, allo scopo di far ivi conoscere l’Italia nuova e di trattare, di discutere, di ristabilire contatti e tenere una politica nazionale. Mai questo è avvenuto. Non potete negare, anche solo di fronte a questo fatto, che è stata fatta una politica unilaterale, e di questa politica dovevamo subire le conseguenze, e non perché da quella parte ci venisse una replica offensiva, quanto perché una politica unilaterale ha voluto dire essere alla mercé dell’altra parte.

Non parliamo poi delle nostre relazioni con la Jugoslavia, dove non soltanto vi fu deliberata ignoranza, ma ostilità. (Commenti al centro).

Se questa non vi fosse stata, probabilmente il problema delle nostre frontiere orientali avrebbe potuto essere risolto in modo diverso. (Commenti al centro). Mi rincresce di dare un dispiacere ai colleghi della Democrazia cristiana che protestano ad ogni mia parola; però, sono lieto di aver constatato che nel corso di questa discussione già da alcune parti è stata espressa una opinione che non solo mi fa piacere, ma mi sorprende perché implica un giudizio del tutto diverso da quelli che vennero espressi finora a proposito di quello che fu il contatto preso da me col-Capo del Governo di Belgrado, col Maresciallo Tito. Sono lieto di aver constatato che un simile giudizio è stato esposto anche da un collega di parte democratica cristiana; il che vuol dire che la verità si fa strada, anche se lentamente.

Oggi si parla di revisione, si parla di politica di iniziativa, si parla di migliorare le condizioni dell’Italia, riprendendo e ristabilendo relazioni normali e pacifiche con gli altri popoli. Credo di poter affermare che l’unica iniziativa concreta, seria, che è stata presa in questa direzione, allo scopo di migliorare il Trattato in una delle sue parti sostanziali, è quella che è stata presa dal nostro partito quando ha incaricato me di prendere contatto con il Governo di Belgrado. (Commenti al centro).

Voci al centro. Gorizia!

JACINI. Ci vuole un bel coraggio!

TOGLIATTI. Come andarono le cose in seguito, voi lo sapete. Purtroppo, non si riuscì a trovare un linguaggio comune per utilizzare quello che vi era di utilizzabile ai fini nazionali di quella iniziativa. Devo dire che lo steso Presidente del Consiglio De Gasperi, fino ad allora Ministro degli esteri, non conobbe mai, e tutt’ora ignora, onorevoli colleghi, quali furono i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito… (Commenti, interruzioni al centro).

Una voce al centro. Si vede che non gliel’ha comunicati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Allora, il Ministro degli esteri era l’onorevole Nenni.

TOGLIATTI. …ignora i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito e quali fossero le possibilità che quel colloquio e le cose dette in esso aprivano alla collaborazione tra i due Paesi.

E poiché è stato fatto il nome della città di Gorizia, mi si permetta di ricordare che elemento essenziale delle dichiarazioni che vennero fatte allora a me relativamente a quella frontiera, erano prima di tutto la concessione di un regime autonomo per la città di Trieste, concessione che del resto venne fatta a Parigi dall’onorevole De Gasperi al Ministro cattolico Gruber, austriaco, senza che ve ne fosse nessun bisogno; e quanto all’accenno alla città di Gorizia, ma, signori, quando si inizia una trattativa diplomatica – onorevole Sforza, lei me lo insegna – non si indicano mai le posizioni di arrivo, ma solo quelle di partenza.

Ma quella possibilità, che oggi un gran numero dei colleghi dell’Assemblea riconosce essere stata una possibilità concreta di migliorare in uno dei punti essenziali il nostro Trattato, facendo rimanere dentro alle nostre frontiere una città cara al cuore di tutti gli italiani (Commenti al centro), quella possibilità doveva essere sfruttata. Essa non lo fu e la via che da quei primi contatti era stata aperta, venne sbarrata, perché ciò contraddiceva a quello che era l’orientamento unilaterale della politica estera del nostro Paese in quel momento e lo contraddiceva in uno dei punti fondamentali.

Ed oggi l’impressione è che si perseveri in questo errore; ma in un momento in cui l’errore è molto più grave per le conseguenze stesse che ne derivano. La sostanza del Trattato infatti viene dalla guerra fascista. Miglioramenti potevano essere ottenuti attraverso una diversa politica, ma la sostanza rimane quella. Oggi invece si tratta di fare i primi passi su una strada nuova. Ebbene, qual è quella strada? Prima si poteva ancora pensare che dal momento che le due grandi forze, che hanno collaborato per la vittoria contro il fascismo e il nazismo erano alleate, facevano la guerra insieme, erano sullo stesso fronte, si poteva ancora dire che quando si parlava di rottura e conflitto tra di esse si trattasse di divergenze di opinioni, di modo diverso di pensare, di speculazioni, di rappresentazioni estranee alla realtà.

Oggi, purtroppo, incominciamo a vedere una frattura che si delinea in Europa e nel mondo. Quindi l’errore, oggi, è più grave di prima, perché i passi falsi fatti oggi possono compromettere il futuro del nostro Paese in un modo senza dubbio più grave.

E qui vengo al tema essenziale del nostro dibattito, al tema della politica estera nel momento presente, di cui la richiesta di ratifica immediata, urgente, è parte sostanziale, se ho ben compreso ciò che ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio e ciò che ha detto il nostro Ministro degli esteri all’inizio della discussione.

In questa situazione internazionale così intricata, nella quale vediamo delinearsi una frattura e agire forze che tendono a renderla permanente e ad approfondirla, facendone quasi una piaga, come ci orientiamo noi? Dove andiamo? Dove collochiamo l’Italia? Nel caso specifico si tratta della nostra adesione alla Conferenza di Parigi, del modo come essa è avvenuta e della nostra posizione verso determinate iniziative di politica estera prese dalle grandi Potenze occidentali.

Queste grandi Potenze occidentali, è vero, ci hanno aiutato e ci aiutano. Ci hanno aiutato, essenzialmente, in una cosa: a liberarci dal fascismo e dall’occupazione tedesca e per questo la nostra riconoscenza verso di loro deve essere, e sarà, imperitura.

Si è creata fra noi e le Nazioni che hanno combattuto per liberarci dal fascismo e dalla occupazione tedesca – siano esse Nazioni dell’oriente che dell’occidente – una fraternità saldata col sangue, che non dovrà mai essere smentita dalla nostra politica estera e non dovrà mai cancellarsi nella coscienza del Paese.

Ma il problema degli aiuti è un altro. E qui desidererei che noi dibattessimo la cosa sforzandoci di eliminare dal dibattito tutte quelle che sono rappresentazioni volgari di questo problema e che troppo si prestano alle speculazioni di parte.

Un aiuto c’è stato e non poteva non esserci, quando eravamo la retroguardia degli eserciti che combattevano sul nostro suolo per la liberazione: in una retroguardia non si può lasciare che la gente muoia di fame. Dovevamo essere aiutati.

Ma oggi questo periodo è finito, e ritengo sarebbe cosa molto buona per gli sviluppi della nostra politica nazionale e soprattutto per la psicologia del nostro popolo, se rinunziassimo a questo termine di «aiuti», perché esso è legato ad alcune rappresentazioni che non sono giuste. L’uso continuo di questo termine e l’abuso di esso, poi, nella polemica dei partiti – che spesso trascende e va al di là delle intenzioni di chi le dà il primo impulso – ci porta infatti a una impostazione sbagliata della politica estera italiana.

L’onorevole Ruini, nel discorso da lui fatto quando discutemmo delle dichiarazioni del Governo che sta oggi davanti a noi, cercò di svincolarsi da questo termine dicendo che vi è un conto di dare e di avere: tanto abbiamo dato, tanto abbiamo ricevuto. Egli concludeva, alla fine, che abbiamo ricevuto meno di quello che abbiamo dato.

Non so se i suoi dati fossero esatti: nessun dato di questo genere è stato, finora, pubblicato ed è male non lo si sia fatto. Se non erro, però, da parte del Governo degli Stati Uniti, la sfida è stata raccolta ed è stata raccolta in un modo abbastanza astuto, direi, perché, posti davanti al problema che l’Italia avrebbe un credito e non un debito, il Governo degli Stati Uniti ha proposto di andare ad esaminare tutto il libro del dare e dell’avere. Allora hanno trovato che al nostro passivo c’è molta roba, oltre quello che abbiamo avuto durante e subito dopo la guerra, mentre gli eserciti alleati combattevano nel nostro Paese; hanno trovato che al nostro passivo ci sono anche i crediti fatti ai precedenti Governi italiani, a differenti città italiane, a Mussolini e via dicendo.

Permettetemi di osservare che questo modo di porre il problema, anche se ha risultati immediati spiacevoli, non è del tutto sfavorevole a noi. È giusto infatti che nei rapporti economici e quindi anche nei rapporti politici con le grandi Potenze più forti di noi, noi incominciamo a svincolarci dall’idea della elemosina. Un conto di dare e di avere lo accettiamo e sta bene. Ma restare sotto l’incubo di non poter vivere se non di elemosina, questo no.

Siamo un popolo di 45 milioni di abitanti, abbiamo una nostra industria relativamente potente, abbiamo una nostra agricoltura, se pure con le sue deficienze, e, come tutti gli altri Paesi, come tutto il resto del mondo, abbiamo un conto di dare e di avere. Discutiamo dunque dei nostri debiti e dei nostri crediti, discutiamo dei vostri crediti e dei vostri debiti; ma liquidiamo quella falsa rappresentazione degli «aiuti», la quale scoraggia il popolo italiano, dandogli l’impressione che non può far niente se i potenti che siedono in qualche parte della terra non si degnano di muoversi verso di lui.

Noi abbiamo bisogno di questi potenti, ma – convinciamocene – anche loro hanno bisogno di noi e molto di più ne avranno quando saremo usciti dallo stato anormale del dopoguerra e saremo entrati nella fase normale in cui tutti i Paesi sono interdipendenti.

Ritengo quindi sia un bene che noi ci poniamo su questo terreno. Il volgare concetto di «aiuto» e quasi di elemosina, che viene diffuso particolarmente nella propaganda spicciola democristiana, per cui, quando qualcuno dice che bisogna salvaguardare la nostra indipendenza, c’è sempre qualcun’altro che risponde che noi abbiamo bisogno di «essere aiutati», è un concetto che deve essere sradicato una volta per sempre.

Da questo quanto mai errato punto di vista, deriva tutta una falsa concezione della nostra vita nazionale e della nostra politica estera, ed io sono lieto che differenti oratori, succedutisi a parlare da tutti i settori dell’Assemblea, abbiano, su questo argomento, alfine cominciato a porre le cose in modo giusto, con dignità e con fierezza, incominciando a comprendere che, pur con la nostra povertà, noi abbiamo ben dato qualche cosa al mondo, incominciando a comprendere che anche coloro che ci aiutano lo fanno forse perché ne ricavano un interesse.

Badate che se la falsa concezione dell’«aiuto» e dell’elemosina dovesse continuare a dominare fra gli uomini che ci governano, ciò potrebbe condurli a commettere fatali errori. Dobbiamo tornare ad avere trattati di commercio con tutto il mondo, a incominciare dagli Stati Uniti. Ma quali trattati di commercio faremo con questo grande Paese? Non certo trattati in cui si tenga conto soltanto della volontà di coloro che qualcuno vorrebbe considerare quasi come i padroni del nostro Paese.

A questo proposito, sono assai preoccupato circa il carattere dei trattati che sembra gli Stati Uniti abbiano proposto ad altri Paesi, è, secondo le mie informazioni, avrebbero proposto anche a noi. Non esito a dire che sono rimasto impressionato alla lettura di un progetto di questo genere. Ritengo, infatti, che un trattato di commercio il quale contenesse una clausola in cui fosse sancito che vi è libertà per i cittadini di ambo i Paesi di promuovere nell’altro Paese qualsiasi intrapresa di ordine commerciale o industriale, di acquistare, di alienare, di affittare, di edificare, ecc., che sancisse in questo campo una ampia libertà sedicente reciproca dunque, ma nel quale fosse poi inserita un’altra clausola in cui fosse detto che però, in ciascuno dei due Paesi contraenti, le norme che regolano la immigrazione e i divieti di immigrazione rimangono immutate, ritengo, ripeto, che un simile trattato sarebbe enormemente lesivo dei nostri interessi nazionali. Che cosa vorrebbe dire un simile trattato? Vorrebbe dire che i nostri imprenditori, commercianti, industriali, acquirenti di terreni, di fabbriche, ecc., sarebbero sottoposti alla concorrenza senza limiti degli imprenditori americani, molto più forti di loro. Ma il nostro lavoratore, il quale cerca e sogna di andare in America a lavorare, là troverebbe le porte sbarrate. È assurdo pensare che i nostri imprenditori vadano ad aprire delle imprese negli Stati Uniti; noi avremmo invece bisogno di ottenere dagli Stati Uniti libertà di immigrazione per la nostra mano d’opera. Questa non ci sarà data, ma l’imprenditore americano verrà liberamente da noi a schiacciare la nostra iniziativa!

Io credo che, se la riconoscenza che abbiamo per gli Stati Uniti, e se una concezione di politica estera legata all’idea degli «aiuti» e quindi del padrone che dispone di noi a suo talento, dovesse portarci all’accettazione di un simile trattato, onorevole conte Sforza, questo sarebbe un atto che andrebbe contro i nostri interessi nazionali.

Vi sono poi, sempre a questo proposito, problemi particolari molto gravi. Ritengo, per esempio, che le risorse minerarie di un Paese – e soprattutto di un Paese come il nostro – devono essere gelosamente custodite dallo Stato. Noi non sappiamo ancora quali sono le risorse minerarie del nostro suolo. Il fascismo aveva iniziato, sì, la ricerca di vene petrolifere; ma tutti noi sappiamo che le condusse con quella calma e quella tranquillità che erano necessarie affinché non venissero lesi gli interessi delle società le quali traevano enormi profitti dall’importazione e dalla lavorazione della nafta sul nostro territorio. Ma se domani, per fortuna, riuscissimo a scoprire che il nostro Paese è ricco anche di queste risorse, sarebbe una necessità essenziale, vitale per lo Stato italiano che esse rimanessero nelle mani nostre. Guai se questo non avvenisse! Se non avvenisse questo, se dovessimo, per esempio, cedere liberamente, in omaggio al principio della porta aperta, ad ogni iniziativa capitalistica straniera in questo campo; se dovessimo anche qui cedere agli stranieri piena libertà di ricerca e di sfruttamento, sappiamo che cosa diverrebbe l’Italia: qualche cosa come i piccoli staterelli del Medio Oriente, la cui indipendenza non esiste, di fatto, perché sono soltanto dei posti comandati dai grandi agenti delle compagnie petrolifere internazionali.

Anche a questo proposito, in guardia! Riconoscenza, sì; ma tutela dei nostri interessi, e tutela di quel tanto di indipendenza che anche da questo trattato ci viene ancora lasciata. Non concediamo di più di quello che ci hanno già preso; difendiamo quello che ci è rimasto, perché questa è la prima condizione per poter allargare a poco a poco il limite della nostra autonomia e della nostra indipendenza, per riuscire di nuovo a stare a fianco delle altre grandi Nazioni europee e mondiali.

Ci si dirà: Ma allora voi comunisti non volete gli aiuti degli Stati Uniti? Siete dunque dei suicidi? Volete morire di fame, quando quelli vi offrono di sfamarvi e di dissetarvi?

Non è così!

Noi vogliamo che la questione dei nostri rapporti con questa grande Potenza sia posta ed esaminata con la tranquillità e con la freddezza dell’uomo di Stato, che dirige la ripresa economica e politica di una Nazione, la quale è caduta in basso, ma non crede che questo sia eternamente il proprio destino, la quale sa e vuole risollevarsi e ridiventare un Paese indipendente, perché ne è capace.

Gli Stati Uniti hanno una formidabile forza economica, accresciutasi durante la guerra. L’onorevole Nitti già ne ha parlato qui e nella Commissione dei Trattati. Sta di fatto che mentre l’Asia e l’Europa, compresa l’Unione Sovietica, escono dalla guerra con una diminuzione dei 40 per cento della loro capacità produttiva, gli Stati Uniti ne escono con un aumento del 50 per cento dell’apparato produttivo e del 65 per cento della loro produzione industriale. È evidente: si tratta di un colosso; ma di un colosso il quale ha pure le sue contraddizioni. Questo enorme apparato industriale accresciutosi durante la guerra dovrà fra pochi mesi, per non essere scosso da una crisi tremenda, smerciare 205 miliardi di dollari di prodotti mentre il mercato interno americano va restringendosi, perché, mentre i profitti delle grandi compagnie monopolistiche sono aumentati, i salari e gli stipendi diminuiscono, il che è una legge del regime capitalistico.

Dove saranno collocati questi prodotti? Chi li comprerà se tutto il mondo è rovinato? È evidente che è nell’interesse degli Stati Uniti di piazzarne una parte all’estero e quindi è nell’interesse degli Stati Uniti di aiutare i Paesi i quali devono comperare questi prodotti. Credo che questo fatto sia ormai entrato nella coscienza comune perché l’ho sentito esprimere in forme diverse da quasi tutti gli oratori che, intervenendo nel nostro dibattito, si sono intrattenuti su questo problema.

Noi dobbiamo quindi comprendere che vi è un interesse reciproco: vi è un interesse nostro, ma noi siamo la parte debole, e vi è un interesse loro, ed essi sono la parte forte. Essi sono potenti colossi di fronte a questo piccolo Paese che oggi esce così rovinato dalla guerra.

Ebbene, che cosa dobbiamo fare, quale deve essere la nostra linea di condotta in questa situazione? Dev’essere di garantire all’Italia quei vantaggi che è possibile garantirle, senza metterci in condizione di perdere la disponibilità di noi stessi, intendo dire la disponibilità della nostra vita economica e del suo indirizzo e resistendo a quelle che possono essere – sulla base della potenza economica degli Stati Uniti – le pericolose tendenze a un dominio di tutto il mondo.

Onorevoli colleghi, da queste tendenze non è mai uscito niente di buono per l’umanità. Sono tendenze conquistatrici e devastatrici contro le quali i popoli sempre hanno saputo a un certo momento ribellarsi per difendere la loro indipendenza. L’unità del mondo non si crea imponendo a tutti i Paesi il predominio di una sola potenza strapotente, si crea attraverso la conquista e la garanzia della libertà e dell’indipendenza, direi attraverso la libera esplicazione del genio di ogni Nazione.

Noi dobbiamo stare attenti a tutte queste cose, e dobbiamo stare attenti anche se siamo oggi deboli e piccoli; direi che dobbiamo stare ancor più attenti appunto perché siamo deboli e piccoli.

E qui si colloca la posizione nostra a proposito del «piano» Marshall. Poteva l’Italia respingere l’invito alla Conferenza di Parigi? Onorevoli colleghi, non lo credo. Credo che nelle nostre condizioni quell’invito non poteva che essere accettato. Noi dovevamo andarvi; dovevamo andare a vedere di che si trattava e a trattare i nostri interessi. Ma come ci siamo andati? Con quale spirito ci siamo andati? Che cosa abbiamo fatto a Parigi e che cosa faremo? Ecco il problema!

Siamo andati a Parigi senza una consultazione né dell’Assemblea né della sua Commissione degli esteri.

Il nostro Ministro degli esteri ci è andato con quello spirito che l’onorevole Nitti chiamava afrodisiaco; ma che io, dal momento che si tratta del Ministro di un gabinetto democristiano, vorrei chiamare soltanto euforico (Ilarità); e questo spirito ha impedito al nostro Ministro degli esteri di misurare le sue parole e i suoi gesti.

Le sue dichiarazioni sono state tutte al di là della barriera di una corretta azione diplomatica corrispondente agli interessi della Nazione. Quello era il più bel giorno della sua vita; egli accettava tutto; era pronto (l’Italia, non lui) a tutti i sacrifici. Che cosa vuol dire tutto questo?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È una citazione inesatta.

TOGLIATTI. Leggemmo persino stranissime dichiarazioni del nostro Ministro degli esteri che proponeva i propri candidati alla carica di Ministro degli esteri dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche: aspirazione per lo meno esagerata da parte del Ministro degli esteri della Repubblica italiana non ancora ratificatrice del Trattato di pace, non ancora membro delle Nazioni Unite e non ancora parte, soprattutto, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. (Ilarità – Commenti). Comprendo questa vostra ilarità, onorevoli colleghi. È evidente però che quando l’onorevole Sforza discute e presenta le proprie candidature al posto di Ministro degli esteri dell’Unione Sovietica egli concepisce il proprio Paese come parte di quella grande comunità di Nazioni. La spiegazione non può essere che questa.

Ma – e la cosa è più grave – abbiamo letto persino una dichiarazione del nostro Ministro degli esteri la quale arieggiava certe posizioni pseudo dottrinarie che ci richiamavano a quell’anno 1937 in cui si riunì a Roma un Convegno che fu chiamato dai fascisti Convegno dell’Europa. Ivi si adunarono fascisti non solo italiani ma di tutti i paesi europei, convocati da Mussolini per l’occasione, e l’Europa uscì da quel convegno trasfigurata. Le sue frontiere erano spostate di alcune migliaia di chilometri, tutto allo scopo di stabilire che tutto ciò che stava al di là di quelle frontiere non era Europa, ma Asia. Le nuove frontiere d’Europa erano fissate proprio là dove comincia la terra del socialismo, dove comincia l’Unione Sovietica: tutto quello era Asia. No, onorevole Sforza, l’Unione Sovietica è parte dell’Europa.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Questa dichiarazione non l’ho mai detta!

TOGLIATTI. Perché non l’ha smentita? È troppo grave!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, perché era troppo sciocca!

TOGLIATTI. Se non erro – posso sbagliarmi – si tratta invece proprio del suo discorso alla riunione del Consiglio dei Ministri a Parigi in cui ella disse: «Se non facciamo questo, l’Europa diventerà una penisola asiatica». Si ricordi, onorevole Sforza, che non soltanto l’Unione Sovietica fa parte dell’Europa, ma che anche il socialismo fa parte dell’Europa, perché è una grande idea europea e mondiale, sorta dal cuore di tutti i popoli che sono soggetti al regime capitalistico; e perché ad essa vanno le speranze e le aspirazioni di decine, di centinaia di milioni di donne e di uomini e dell’Europa e del mondo intero. (Applausi a sinistra).

La cosa grave non è dunque che noi aderissimo a Parigi e accettassimo quell’invito che ritengo, d’altra parte, non potevamo non accettare. La gravità sta nel modo e nelle cose fatte a Parigi. Noi accettammo l’invito, inoltre, quando la rottura tra due gruppi di Potenze europee già si era realizzata.

Anche per questo motivo avremmo dovuto andare a Parigi non in quello stato euforico che si è detto, ma con preoccupazione, perché la preoccupazione, anche se non era dell’onorevole Sforza e dell’onorevole De Gasperi, era per lo meno della grandissima maggioranza del popolo italiano, il quale teme le conseguenze che può avere sul suo destino tale rottura.

Il Governo doveva spiegare all’Italia perché quella rottura fosse avvenuta e far vedere che essa non corrispondeva né a una nostra politica, né a una nostra aspirazione, né a un nostro interesse nazionale, ma che anzi essa è contraria ad ogni aspirazione e ad ogni interesse nazionale italiano.

Ecco quello che doveva risultare dal nostro intervento alla Conferenza di Parigi.

Anche quando abbiamo discusso di queste cose nella Commissione dei Trattati, invece, nulla di tutto questo si è saputo. Il conte Sforza è venuto a dirci che non sa perché quella rottura si sia verificata. Ci ha detto di aver rivolto una nota al Governo sovietico per avere spiegazioni, ma per conto suo non ha saputo spiegarci nulla. Se dovessimo credere soltanto alle dichiarazioni ufficiali, saremmo invero molto imbarazzati, perché in esse si parla soltanto, in modo molto generico, di «piano» di collaborazione internazionale, di aiuti reciproci fra gli Stati europei, ecc. Ebbene, nella mozione presentata da Molotov alla Conferenza di Parigi abbiamo trovato questi stessi concetti: necessità degli aiuti americani, saluto agli aiuti americani, necessità della collaborazione europea, necessità di un programma-bilancio comune stabilito insieme fra le varie Nazioni. Dov’è la differenza? E perché c’è stata dunque la rottura? Questo voi dovete spiegarci per farci capire la politica estera che fate seguire al nostro Paese.

Per spiegarci la rottura avvenuta alla riunione preliminare dei Ministri degli esteri, due sono, credo io, le questioni fondamentali da tenere presenti. Innanzi tutto si tratta del proposito di alcuni grandi paesi capitalistici di subordinare la ricostruzione d’Europa ai loro interessi, il che significa che questi paesi si vogliono servire degli aiuti americani e della loro ripartizione per «determinare lo sviluppo della produzione» degli altri paesi. E qui già è toccato il problema dell’indipendenza.

Sono d’accordo che una parte dell’indipendenza nazionale assoluta nei rapporti internazionali va perduta per entrambe le parti. Chi sogna l’autarchia? La sognarono i pazzi che portarono l’Italia alla rovina.

Però quando vediamo le grandi Potenze industriali rivendicare il diritto o per lo meno la facoltà di determinare la produzione dei paesi aderenti al blocco che riceve gli aiuti americani, abbiamo il diritto di essere perplessi. Che ne sarà della nostra industria? A quali interessi verrà subordinata? E saremo ancora liberi di commerciare in tutte le direzioni? Potremo concludere quei trattati di commercio che dobbiamo concludere con la Jugoslavia, con l’Ungheria, con la Bulgaria, con la Boemia, con tutta quella cerchia di Paesi le cui relazioni con noi sono essenziali per il nostro sviluppo industriale e forse anche per quello agricolo? Oppure ci troveremo di fronte una barriera?

Perché il trattato di commercio parafato or sono due mesi a Belgrado non è ancora stato firmato? Eppure se ne prevedeva la firma alla scadenza di un mese. È ciò in relazione con la nostra adesione a Parigi?

E le nostre relazioni con la Polonia per ottenere quel carbone che è indispensabile alle industrie settentrionali, perché non si sviluppano? È ciò in relazione a questioni tecnico economiche superabili o per un preciso indirizzo politico il nostro Ministro degli esteri ha trascurato queste relazioni e questi scambi internazionali?

A questo scopo è bene che il popolo italiano riceva delle assicurazioni, perché se assicurazioni a questo proposito non dovessimo ricevere vorrebbe dire che veramente voi state compromettendo seriamente l’avvenire economico d’Italia.

L’altra questione che sta al fondo della rottura realizzatasi alla riunione preliminare di Parigi è quella della Germania e del suo destino.

Anche a questo proposito non dobbiamo lasciarci trascinare da declamazioni umanitarie. Dobbiamo orientarci secondo l’interesse d’Italia e basta. Ora, l’interesse d’Italia è prima di tutto che la Germania sia una unità, perché una Germania divisa sarà una Germania con la quale noi non potremo più commerciare liberamente, né avere rapporti economici normali, perché i rapporti economici con la Germania sarebbero in questo caso regolati da altre Potenze e subordinati esclusivamente agli interessi di quelle Potenze che dominerebbero le singole zone.

Unità della Germania, quindi, ma in pari tempo democratizzazione della Germania e azione concorde degli Stati i quali sono tradizionalmente le vittime delle aggressioni tedesche, per impedire che ivi si ricostituiscano centri di forze reali i quali preparino nuove aggressioni.

Per questa ragione siamo esterrefatti della posizione assunta dai nostri delegati a Parigi quando si schierarono contro le richieste della Francia a questo proposito. Quando le forze popolari francesi chiedono che la Germania sia ricostituita in unità nazionale, ma in pari tempo sia messa in condizioni tali per cui non possa aggredire domani, di nuovo, i propri vicini, noi dobbiamo schierarci al loro fianco.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È il mio pensiero.

Una voce a sinistra. Meno male.

TOGLIATTI. Sono lieto che sia il suo pensiero e sarò ancora più lieto quando questo pensiero sarà quello espresso dai diplomatici che ella ha mandato a Parigi. Finora essi hanno espresso un pensiero diverso. (Interruzione del deputato Calosso).

In conclusione: l’invito a partecipare alla Conferenza di Parigi non poteva essere respinto e non doveva essere respinto, ma dovevamo andare a fare una politica determinata e dobbiamo rimanere per fare una politica determinata, ispirata dal solo nostro interesse nazionale. A chi ci chiede quale posizione abbiamo e quale posizione riteniamo debbasi prendere circa il «piano» Marshall, noi rispondiamo sottolineando alcune esigenze fondamentali della nostra vita nazionale.

La prima è che non ci siano interventi stranieri nella nostra politica interna.

Guai a noi, al punto in cui ci ha ridotti il Trattato, se dovessimo, oltre tutto, ammettere che i nostri Governi si facciano a seconda del beneplacito o della richiesta di una capitale straniera.

L’indipendenza del nostro Paese sarebbe per sempre perduta.

Seconda esigenza è quella della esclusione di un intervento economico straniero.

Dobbiamo organizzare la collaborazione economica, industriale e commerciale, con tutti i paesi dell’Europa e del mondo, ma in modo tale che ci permetta di sviluppare la nostra economia a seconda di quelle che sono le necessità fondamentali di sviluppo della nostra vita e forza nazionale.

In terzo luogo non dobbiamo né volere, né favorire in nessun modo la divisione dell’Europa in due blocchi, perché questo sarebbe per l’Italia, più che per qualsiasi altro Paese – perché dopo la Germania oggi noi siamo in Europa politicamente i più deboli – fonte di conseguenze estremamente gravi. Siamo veramente il vaso di coccio che andrebbe in pezzi fra i vasi di ferro. Infine, dobbiamo fare una politica estera la quale sia ostile, apertamente ostile, ad ogni tentativo di isolamento nell’Europa e nel mondo dell’Unione Sovietica e degli altri popoli liberi, democratici e civili dell’oriente europeo.

Guai a noi se aderissimo a una politica di questo genere, perché ciò vorrebbe dire che ci troveremmo alla mercé di quelli che diventerebbero gli incontrastati dominatori sia della nostra vita economica che della nostra vita politica.

Per tutti questi motivi oggi noi siamo preoccupati. Il popolo italiano è preoccupato. Andate, parlate con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, con i professionisti, con gli intellettuali: voi sentirete che questa preoccupazione oggi è generale. Nessuno comprende più che cosa sia questo piano di aiuti degli Stati Uniti. Vennero promessi una volta, e poi una volta ancora, e poi una terza volta.

Dovevano arrivare con il viaggio di De Gasperi, dovevano arrivare dopo l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal Governo, ma non arrivarono mai. Adesso c’è il «piano» Marshall e si comincia a vedere che la questione è più complicata che nei manifesti murali della Democrazia cristiana. La questione non si pone come voi l’avete posta. Si pone invece essenzialmente come esigenza di una politica estera che difenda la dignità del nostro Paese all’interno e all’estero. E mi sono portato a esaminare anche un’altra questione, di importanza non piccola. Vi è in questo famoso «piano» Marshall un elemento ideologico-politico, che è lecito discutere se noi dobbiamo accettarlo o respingerlo. E qui siamo costretti a rifarci agli autori dell’iniziativa.

In uno dei primi discorsi del Presidente Truman, questo elemento ideologico è posto in primo piano: «Noi siamo i giganti del mondo economico – diceva egli il 6 marzo – e, la cosa piaccia o non piaccia, da noi dipenderanno le relazioni economiche dell’avvenire. Il mondo attende e sorveglia ciò che faremo noi».

E quindi prosegue: «Vi è una cosa a cui gli Stati Uniti annettono più valore ancora che alla pace, ed è la libertà: libertà di culto, libertà di parola, libertà di impresa».

Che cosa è questa libertà di impresa? Vuol dire che la struttura economica del mondo dovrà essere decisa e vorrei dire imposta attraverso la forza economica gigantesca degli Stati Uniti. Che cosa dobbiamo pensare quando vediamo questo scatenarsi di ondate di articoli, di interviste, di campagne, non più soltanto contro il comunismo e contro il socialismo, ma contro ogni idea di intervento e di controllo dell’attività economica nell’interesse dei lavoratori e di lotta contro i monopoli, cioè contro quelle che sono le idee madri delle nuove democrazie europee, quali esse sorgono dopo questa seconda guerra mondiale? Che cosa dobbiamo dire di tutto ciò? Accettare, respingere, essere perplessi?

Questo elemento ideologico ci si presenta di continuo. Nelle ultime «dichiarazioni» fatte dall’autore stesso della proposta del «piano», dal signor Marshall, il 15 luglio, la cosa è sottolineata in modo anche più chiaro.

«Bisogna guardare i fatti nel viso – egli dice – Il nostro paese si trova ad un bivio nelle sue relazioni con gli amici tradizionali che esso conta fra le Nazioni del vecchio mondo.

«Esso deve adempiere il compito di aiutare questi paesi, adattarsi ai bisogni nuovi di una nuova era, oppure rassegnarsi a vederli prendere delle direzioni che non sono compatibili… con le tradizioni del nostro Paese».

Conclusione espressa apertamente dallo stesso Marshall: «In quest’ultimo caso, se le tradizioni (degli S.U.) non fossero seguite, gli Stati Uniti vedrebbe modificarsi radicalmente la loro posizione nel mondo.

«Io vi chiedo di considerare molto attentamente le conseguenze di una simile evoluzione degli avvenimenti per la prosperità e la sicurezza del nostro paese».

Queste sono le ultime dichiarazioni autentiche di commento al contenuto ideologico-politico del «piano» Marshall. Qui si parla dunque di tradizioni degli Stati Uniti alle quali si dovrebbe uniformare la vita di tutti i popoli se vogliono essere ritenuti dagli attuali «dirigenti» degli Stati Uniti popoli democratici. Qualora questo obiettivo non venga raggiunto, la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti sono messi in questione. Si tratta dunque di quella politica che gli attuali dirigenti americani ritengono utile di fare nel loro interesse. Ma cosa dobbiamo dire noi di questa politica?

Vi è senza dubbio una tradizione democratica degli Stati Uniti. È prima di tutto la tradizione di quei profughi coloni del Mayflower e dei loro discendenti che condussero una eroica guerra di indipendenza contro un paese, il quale voleva imporre loro un determinato regime economico-doganale, che era contrario allo sviluppo della loro società. Quella tradizione la capisco. Capisco la tradizione dei grandi democratici americani da Washington ad Abramo Lincoln, da Jefferson a Delano Roosevelt, l’ultimo soprattutto, che una ben diversa concezione ebbe del modo come dovevano foggiarsi i rapporti economici e politici tra i popoli dopo una seconda e così grave guerra mondiale. Anche questa tradizione, ripeto, la comprendo. Fa parte di ciò che possiamo e dobbiamo accettare. Non possiamo però accettare dagli Stati Uniti né la loro legge contro i Sindacati né il loro modo di intendere la libertà di stampa, come libertà di avvelenamento dell’opinione pubblica, attraverso le notizie della stampa gialla e delle Agenzie di informazioni vendute l’una e le altre al grande capitale. Non accettiamo le tradizioni degli Stati Uniti come vengono fatte valere in Ispagna e in Grecia, la prima che invano attende il necessario aiuto per liberarsi da una infame tirannide, la seconda dilaniata da una guerra civile scatenata per mantenere in piedi un regime fascista. (Interruzioni a destra).

Queste sono le tradizioni alle quali ci dobbiamo uniformare? Oppure accettare le tradizioni americane significa piegare il collo davanti al grande capitale monopolistico americano in lotta per instaurare il suo dominio sul mondo intiero?

Onorevoli colleghi, credo che questo non possa essere né nelle intenzioni nostre, né nelle vostre. Non è per questo che voi avete combattuto contro il fascismo, insieme con noi, per la libertà d’Italia, per dare all’Italia un regime… (Interruzione a destra).

Una voce. Per darla alla Russia.

TOGLIATTI. …un regime democratico nuovo… (Interruzioni – Rumori a destra).

Una voce a destra. Quello dell’Ungheria.

TOGLIATTI. …rinnovato nelle sue strutture economiche, allo scopo di impedire la prepotenza dei grandi monopoli industriali, finanziari, latifondistici…

Una voce. Politici.

TOGLIATTI. …politici, senza dubbio. Voi avete combattuto insieme con noi per un regime nel quale l’impiegato dello Stato possa appartenere a qualsiasi partito politico.

CAPPI. Come in Russia.

TOGLIATTI. Negli Stati Uniti oggi questo non è possibile.

CAPPI. In Russia sì.

TOGLIATTI. Noi siamo, quindi, giustamente preoccupati, perplessi; perplesso e preoccupato è oggi tutto il popolo italiano, perché da questo complesso di elementi già vediamo uscire alcuni dei motivi di quella particolare psicologia, che oggi è la psicologia con la quale si prepara la guerra. (Commenti)

Sì, o signori, noi leggiamo i giornali tutti i giorni, e vediamo su questi giornali articoli a firma di uomini politici americani, in cui si dice che gli Stati Uniti hanno fatto male finora a non fare la guerra, perché avevano la bomba atomica a loro disposizione e forse domani non ne avranno più il disgraziato monopolio esclusivo. Tutto questo abbiamo letto con ribrezzo e con orrore e a questo non possiamo non pensare quando sentiamo parlare di dominio mondiale del sistema economico americano e quando poi vediamo chiudersi con una rottura la conferenza preliminare di Parigi. Non tutti pensano che coloro i quali scrivono cose simili siano degli isterici o degli energumeni. La gran massa crede che quella sia l’opinione dei circoli dirigenti degli Stati Uniti e probabilmente quella è davvero l’opinione di determinati circoli dirigenti degli Stati Uniti, e sente paura di fronte alla tremenda minaccia di un nuovo conflitto mondiale sterminatore. Noi ci troviamo così oggi, a poco più di due anni dalla fine della guerra, di nuovo dinanzi allo stesso problema di prima, e cioè, a discutere se una nuova guerra potrà essere evitata.

Né siamo noi soli a discuterne. Pochi giorni or sono leggevo una serie di interessantissimi articoli sull’Osservatore Romano dove la questione veniva posta seriamente e seriamente veniva sostenuta la giusta tesi che, nonostante il tentativo che si fa per dividere il mondo in blocchi opposti, e nonostante i successi ottenuti da questa fatale politica di divisione in blocchi opposti, la guerra non è fatale.

Questo è giusto, e veramente quando ho letto questi articoli mi sono compiaciuto. (Rumori al centro e a destra). Me ne sono compiaciuto per un motivo quasi personale. Alcuni anni prima dello scoppio dell’ultima guerra, nel 1935 infatti, nei dibattiti che allora avevano luogo in seno al movimento operaio internazionale, ebbi a sostenere la stessa tesi contro le posizioni estremiste di quelli che dicevano che la guerra non poteva in nessun modo essere evitata. È vero, come socialisti sappiamo la grande verità di quelle parole di uno dei nostri grandi, di Giovanni Jaurès, quando disse che il capitalismo porta in sé la guerra come la nube porta in sé l’uragano.

Sappiamo che questo è vero, ma sappiamo pure che nel mondo esistono forze tali che, unendosi, possono impedire una guerra. Esse sono le grandi forze popolari e democratiche organizzate nei Sindacati e nei partiti, ma sono pure Nazioni e Stati intieri che in certi momenti possono non essere interessati ad una guerra. Tra questi Stati il nostro oggi è in prima fila: tra tutti gli Stati europei credo che quello che è meno interessato a che scoppi una nuova guerra, e quindi il più interessato a che venga fatta una politica di pace e venga evitato anche il minimo passo che porti ad una guerra è precisamente il nostro.

Voci al centro e a destra. Siamo d’accordo.

TOGLIATTI. Di qui la necessità di una politica determinata e di qui anche la necessità di una estrema prudenza nell’agitare determinati problemi in maniera tale da provocare in modo quasi inevitabile la divisione del mondo in due blocchi.

Lo stesso giornale, che testé citavo, l’Osservatore Romano sviluppando la sua tesi in successivi articoli, molto intelligentemente osservava che, affinché la guerra possa essere evitata, bisogna rinunciare a quella campagna che tende a contrapporre due ideologie, come se esse fossero inconciliabili fra di loro: l’una, la democrazia, l’altra, il socialismo e il comunismo.

Anche questo è giusto! Se si comincia a proclamare: noi siamo i colossi, da noi c’è «libertà di impresa» e dovete accettare la nostra ideologia e le nostre tradizioni altrimenti la sicurezza e il benessere degli Stati Uniti sono in pericolo, sappiamo bene cosa si vuol dire con queste parole, quando si ha una flotta, un esercito, una aviazione ed anche una riserva di bombe atomiche a disposizione. Quando si parla così si fa veramente un passo per rendere la guerra inevitabile.

Si dice: democrazia e socialismo sono forze inconciliabili. Non è vero! Tutta la lotta politica nell’Europa moderna, negli Stati che sono usciti da questo secondo conflitto mondiale si svolge proprio attorno a questa conciliazione. Democrazia e socialismo uniti debbono rinnovare l’Europa. E i nuovi Stati e regimi che si sono costituiti nei paesi dell’Europa orientale, in mezzo a contraddizioni e ad ostacoli, sono forse ili tentativo più serio che sinora sia stato fatto in questo senso.

Io non propongo al popolo italiano quella strada: gli propongo però di rimanere unito allo scopo di trovare la sua propria strada per la conciliazione dell’ideale democratico e dell’ideale del rinnovamento sociale e per la realizzazione di questi ideali. Concludendo, a breve distanza dalla catastrofe, ancora una volta la domanda che sta davanti a noi è questa: Dove andiamo? Dove va l’Italia? A questa domanda sentiamo che dobbiamo sforzarci di dare una risposta nella quale si trovi concorde il maggior numero possibile di italiani, una risposta la quale corrisponda alla coscienza e alle aspirazioni della grande maggioranza del popolo, anzi, lasciatemelo dire, trovi concorde tutta la Nazione italiana.

Questo vuol dire orientare la nostra politica estera sulla strada della collaborazione internazionale, della difesa della libertà e della indipendenza del nostro Paese, resistendo a ogni tentativo di dividere il mondo in due blocchi opposti, a ogni tentativo di isolare dal mondo le forze più avanzate del progresso sociale, a ogni tentativo di spezzare l’unità dell’Europa e del mondo perché da questo tentativo non può uscire che un primo passo verso nuovi conflitti e forse verso una nuova guerra.

Attenti, quindi, a questo pericolo.

Veramente questo è il momento in cui per dirigere la politica italiana nell’arena internazionale noi avremmo bisogno di un Governo che rappresentasse tutte le forze nazionali e democratiche. (Commenti al centro).

Una voce al centro. No: la lingua batte dove il dente duole!

TOGLIATTI. Lasciatemelo dire. Voi stessi, attraverso questa discussione, avete acquistato la consapevolezza che la nostra politica estera sarebbe stata più efficace, che altra risonanza essa avrebbe avuto nella Nazione se fosse stata la politica estera di tutto il Paese e non di una sola parte di esso. Voi stessi sentite che di ben altra autorità avete bisogno per dare rilievo e successo a una politica estera veramente democratica e nazionale!

Che cosa fare? Come voteremo noi? Che posizione prenderemo alla fine del dibattito? Avete il diritto di chiederlo. Certo, la posizione che più corrisponde alla perplessità che ho sentito prevalere nei discorsi di tutti gli oratori è quella espressa da una proposta di rinvio. Qualora questa proposta di rinvio non venisse accettata è certo che la posizione che più corrisponde ai desideri espressi dalla maggioranza degli oratori è quella che subordina la ratifica alla presenza della ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze.

Onorevoli colleghi, io sento però che questo problema del nostro voto, e del voto vostro e del voto di ciascuno dei partiti di questa Assemblea, è un piccolo problema di fronte alla ampiezza del dibattito che è stato sollevato, di fronte alla gravità estrema delle questioni che oggi stanno davanti a noi.

Decideremo del nostro voto e lo dichiareremo a seconda del modo come la discussione verrà chiusa. Ma sentiamo che questo problema per noi è di minore importanza. Non è questo che decide.

Quello che decide, onorevoli colleghi, è che attraverso a questo dibattito, attraverso a questa libera espressione di opinioni, in questa Assemblea che rappresenta tutto il popolo italiano, esca rafforzato qualcosa che è sostanziale per il nostro Paese, per la sua rinascita, per la lotta che dobbiamo condurre per la sua libertà, per la sua indipendenza, perché esso riprenda nel mondo il posto che gli spetta conformemente alle sue capacità e alle sue tradizioni, che esca rafforzata da questo dibattito, o signori, l’unità politica e morale della Nazione. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Chiedo a voi, onorevoli colleghi, venia di parlare dal banco di deputato invece che da quello del governo. Dal banco del governo si pronunciano discorsi politici, e si sostengono battaglie politiche. Queste mie parole vogliono invece essere un umile appendice di considerazioni storiche al grande discorso col quale Benedetto Croce pronunciò l’altro giorno un giudizio storico solenne sul trattato imposto a noi dalla volontà altrui.

Chiedo altresì il permesso di seguire coll’occhio il manoscritto all’uopo, contrariamente alle mie abitudini, approntato affinché la commozione del dire improvviso non turbi una espressione di pensiero, che oggi deve invece essere attentamente meditata.

Al par di voi, ho ascoltato con commozione ed ho riletto con ammirazione profonda il giudizio storico che Benedetto Croce ha pronunciato in quest’aula intorno alla ratifica del trattato di pace; giudizio che se l’autore intendesse dare un seguito alla sua storia d’Italia assai degnamente chiuderebbe quella grande opera sua. Il giudizio pronunciato in quel discorso chiude anche un’epoca nella storia d’Italia. Vorrei tentare qui a guisa, come dissi, di appendice, una ideale prosecuzione di esso, guardando non più al passato, ma all’avvenire. Invece di una magnifica pagina di storia conclusa, il mio sarà un informe tentativo di indovinare le logiche conseguenze odierne di quelli che furono i connotati essenziali delle due grandi guerre combattute in Europa nel secolo presente. Già quei connotati erano visibili nella prima guerra; ma parve allora ai più che soltanto si fosse riprodotto ancora una volta il tentativo egemonico di Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone I, contrastato ogni volta, a salvaguardia della libertà d’Europa, dalla potenza navale britannica; e furono alte le proteste fra gli storici tedeschi contro l’eterna seminatrice di discordia, contro la perfida Albione, la quale, applicando il romano detto divide et impera, si sforzava di mantenere discordi tra loro i popoli europei e di impedire avesse alfine nascimento quell’Europa una, che era stata, in varia maniera, l’ideale di poeti e pensatori, da Dante Alighieri ad Emanuele Kant ed a Giuseppe Mazzini. Sicché, vinta la Germania, distrutta la monarchia austro-ungarica e chiusasi la Russia in se stessa, parve rivivesse nel 1918 l’antica convivenza europea di stati indipendenti; ed anzi una nuova Santa alleanza, sotto le sembianze di Società delle nazioni, si costituì a garantire invano la indipendenza delle minori nazioni contro la egemonia della più potente e prepotente delle nazioni maggiori. Invano, ché la Società delle nazioni nasceva colpita a morte irrimediabilmente dallo stesso vizio capitale che aveva tolto valore alla Lega anfizionica greca, al Sacro romano impero ed alla Santa alleanza. Il vizio era chiaro: la Società delle nazioni era una lega di stati indipendenti ognuno dei quali serbava intatti un esercito proprio, un regime doganale autonomo ed una rappresentanza sovrana sia presso gli altri stati sia presso la lega medesima. Era facile prevedere, come a me accadde di prevedere nel 1917, quando la Società delle nazioni era un mero proposito di Wilson, e quando in Italia il più rumoroso promotore della sua fondazione era colui che, divenuto poscia dittatore, tanto operò per distruggere la costituita società; era facile, dico, prevedere che essa era nata morta. L’esperienza storica tante volte ripetuta dimostra, che le mere società di nazioni, le federazioni di stati sovrani sono impotenti ad impedire, anzi per lo più sono fomentatrici di guerre tra gli stessi stati sovrani federati; e presto diventano consessi vaniloquenti, alla cui ombra si tramano e si preparano guerre e si compiono le manovre necessarie ad addormentare il nemico ed a meglio opprimerlo. Sinché nella Svizzera non sorse un potere sovrano, signore unico dell’esercito e delle dogane, non fu possibile evitare le guerre civili, che erano guerre fra cantoni sovrani; e nel tempo volto dal 1776 al 1786 il pericolo di guerre fratricide fra le 13 antiche colonie nord-americane divenute stati sovrani fu sempre imminente; e solo il genio di Washington, confortato dal pensiero di Jay, di Jefferson e di Hamilton, trovò il rimedio quando sostituì alla vana ombra della federazione di stati sovrani l’idea feconda della confederazione, unica signora delle forze armate, delle dogane e della rappresentanza verso l’estero, fornita di un parlamento unico; rappresentante, in un ramo, degli stati confederati, ma nell’altro del popolo intero di tutta la confederazione.

La prima guerra mondiale fu dunque combattuta invano, perché non risolse il problema europeo. Ed un problema europeo esisteva. Scrivevo nel 1917 e ripeto ora a trenta anni di distanza: Gli stati europei sono divenuti un anacronismo storico. Così come nel secolo XVI le libere città e repubbliche ed i piccoli principati erano in Italia divenuti un anacronismo, perché l’Europa stava allora subendo un travaglio di ricostituzione territoriale e sorgevano le grandi monarchie spagnola e francese e si affacciava al nord la unificata nazione britannica, e l’indipendenza del consorzio dei piccoli principati tenuti in equilibrio dalla saggezza di Lorenzo il Magnifico, rovinò dinanzi all’urto contrastante di Spagna e di Francia, di Carlo V e di Francesco I, così sin dall’inizio del secolo presente, era divenuta anacronistica la permanenza dei tanti stati sovrani europei. A mano a mano che si perfezionavano le comunicazioni ferroviarie e la navigazione, a vapore ed a motore, prendeva il posto di quella a vela; ed i popoli erano avvicinati dal telefono, dal telegrafo con e senza fili e dalla navigazione aerea, questa nostra piccola aiuola europea apertamente palesava la sua inettitudine a sopportare tante sovranità diverse. Invano gli stati sovrani elevavano attorno a sé alte barriere doganali per mantenere la propria autosufficienza economica. Le barriere giovavano soltanto ad impoverire i popoli, ad inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare ad ognuno di essi uno strano incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche, ed a fare ad ognuno di essi pronunciare esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri, quasi essi fossero lebbrosi e quasi il restringersi feroce di ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza.

La prima guerra mondiale fu la manifestazione cruenta dell’aspirazione istintiva dell’Europa verso la sua unificazione; ma, poiché l’unità europea non si poteva ottenere attraverso una impotente Società delle nazioni, il problema si ripropose subito.

Esso non può essere risoluto se non in una di due maniere; o con la spada di Satana o con quella di Dio. (Applausi).

Questa volta Satana si chiamò Hitler, l’Attila moderno. Non val la pena di parlare del nostro dittatore di cartapesta, il quale non comprese mai la grandezza del problema. L’Attila moderno, il pazzo viennese, aveva invece, nelle sue escogitazioni frenetiche e sconnesse, visto il problema e la sua grandezza, ed aveva tentato di risolverlo. Il modo tenuto da lui e dal suo popolo fu quello della forza e del sangue. Il modo era riuscito ai romani, i quali colla forza avevano vinto uno dopo l’altro i cartaginesi, i greci e gli stati alessandrini, tutti più colti dei romani; ma questi si erano fatti perdonare poi il brutto cominciamento instaurando nel mondo mediterraneo l’impero del diritto. All’Attila redivivo il metodo della forza non riuscì; ché gli europei erano troppo amanti di libertà per non tentare ogni via per resistere al brutale dominio della forza; e troppi popoli al mondo discendono dagli europei e serbano il medesimo ideale cristiano del libero perfezionamento individuale e dell’elevazione autonoma di ogni uomo verso Dio per non sentire nell’animo profondo l’orrore verso chi alzava il grido inumano dell’ossequio verso ideali bestiali di razza, di sangue, di dominazione degli uomini eletti venuti su dalla terra generatrice di esseri autoctoni e dalla foresta primitiva.

Non è vero che le due grandi guerre mondiali siano state determinate da cause economiche. Nessuno che sappia compiere un ragionamento economico corretto può credere mai che dalla guerra alcun popolo, anche vincitore, possa trarre un qualsiasi risultato se non d’impoverimento, di miseria, di spirito di odio e di vendetta, generatori alla loro volta di miseria e di abiezione.

Vero è invece che le due grandi guerre recenti furono guerre civili, anzi guerre di religione e così sarà la terza, se, per nostra sventura, noi opereremo in guisa da provocare l’opera sua finale di distruzione. Le due guerre parvero guerre fra stati e fra propoli; ma la loro caratteristica fondamentale, quella che le distingue dalla più parte, non da tutte, le guerre passate, quella che le assimila alle più implacabili tra le guerre del passato, e queste furono le guerre di religione – ricordiamo la scomparsa della civiltà cristiana dall’Egitto a Gibilterra, la ferocia della guerra contro gli Albigesi e la distruzione operata dalla guerra dei trent’anni in Germania – sta in ciò: che quelle due grandi guerre furono combattute dentro di noi. Satana e Dio si combatterono nell’animo nostro, dentro le nostre famiglie e le nostre città. Dovunque divampò la lotta fra i devoti alla libertà e la gente pronta a servire. Se in tanta parte dell’Europa conquistata dai tedeschi, si ripeté l’esperienza che Tacito aveva scolpito con le parole solenni: Senatus, equites, populusque romanus ruere in servitium, ciò fu perché negli uomini lo spirito non è sempre pronto a vincere la materia. Non recriminiamo contro coloro che operarono male; perché la resistenza al male è sempre un miracolo, che umilmente dobbiamo riconoscere avrebbe potuto non aver luogo. Ma diciamo alto che noi riusciremo a salvarci dalla terza guerra mondiale solo se noi impugneremo per la salvezza e l’unificazione dell’Europa, invece della spada di Satana, la spada di Dio; e cioè, invece della idea della dominazione colla forza bruta, l’idea eterna dalla volontaria cooperazione per il bene comune.

Al par di ognuno di voi, il dolore per le amputazioni ai confini orientali ed occidentali è profondo nel mio cuore; e per quel che riguarda i confini occidentali, più che il dolore, viva in me l’indignazione e l’ira per la cecità con la quale uomini così fini ragionatori, cervelli così limpidi come sono i francesi si siano lasciati trascinare a ripetere i frusti argomenti che noi, cultori di storia piemontese, avevamo letto nelle istruzioni ai diplomatici ed ai generali di Luigi XIV per contrastare ai piemontesi la conquista del confine supremo delle Alpi, raggiunto finalmente, dopo secoli di lotte, nel 1713, e consacrato nel definitivo trattato dei confini del 1761.

Se ciechi furono i vincitori, non perciò dobbiamo noi essere ciechi e sperare di vedere ricostituita l’unità della patria a mezzo di nuove guerre o di nuove carneficine. Nella nuova era atomica, guerra vuol dire distruzione non forse della razza umana – ché nelle riarse pianure ridivenute paludi e foreste vergini, e nei monti selvaggi una razza che dell’uomo civile non avrà nulla, potrà salvarsi e lentamente, attraverso i secoli, risorgere a civiltà – ma certamente di quell’umanesimo per cui soltanto agli uomini è consentito di essere al mondo. Ma noi non ci salveremo dall’imbarbarimento scientifico, peggiore di gran lunga della barbarie primeva, col gareggiare con gli altri popoli nel preparare armi più micidiali di quelle da essi possedute. La sola speranza di salvare noi e gli altri sta nel farci, noi prima degli altri ed ove faccia d’uopo, noi soli, portatori di un’idea più alta di quella altrui. Solo facendoci portatori nel mondo della necessità di sostituire alla spada di Satana la spada di Dio, noi potremo riconquistare il perduto primato. Non il primato economico; che questo viene sempre dietro, umile ancella, al primato spirituale. Dico quel primato, che, nell’epoca feconda del Risorgimento, si attuava nella difesa delle idee di fratellanza, di cooperazione, di libertà, che diffuse dalla predicazione incessante di Giuseppe Mazzini e rese operanti, nei limiti della possibilità politiche, da Camillo di Cavour, avevano conquistato alla nuova Italia la simpatia, il rispetto e l’aiuto dell’Europa.

Non giova rinunciare a questa nostra tradizione del Risorgimento, pensando di poter trarre pro dalle discordie altrui. La politica dei giri di walzer, del «parecchio da guadagnare», del «sacro egoismo», che alla nostra generazione parve machiavellicamente utile, diede, quando fu recata dal dittatore alla logica conseguenza dell’autarchia economica, volta a cercar grandezza nel torbido delle sconvolte acque europee, amari frutti di bosco.

Rifacciamoci, dal Machiavelli, meditante solitario nel confino del suo rustico villaggio toscano sui teoremi della scienza politica pura, al Machiavelli uomo, al Machiavelli cittadino in Firenze, il quale non aveva, no, timore di rivolgersi al popolo, da lui reputato «capace della verità», capace cioè di apprendere il vero e di allontanarsi dai falsi profeti quando «surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei s’ingannino». Sì. Fa d’uopo che oggi nuovamente surgano gli uomini da bene, auspicati da Nicolò Machiavelli, a dimostrare ai popoli europei la via della salvezza e li persuadano ad infrangere gli idoli vani dell’onnipotenza di Stati impotenti, del totalitarismo, alleato al nazionalismo è nemico acerrimo della libertà e della indipendenza delle nazioni. (Applausi).

Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa d’oggi, smarrita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa. Esiste, in questo nostro vecchio continente, un vuoto ideale spaventoso. Quella bomba atomica, di cui tanto paventiamo, vive purtroppo in ognuno di noi. Non della bomba atomica dobbiamo sovra tutto aver timore, ma delle forze malvage le quali ne scatenarono l’uso. A questo scatenamento noi dobbiamo opporci; e la sola via d’azione che si apre dinnanzi è la predicazione della buona novella. Quale sia questa buona novella sappiamo: è l’idea di libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è un’Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell’intera comunità. Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità.

Scrivevo trent’anni fa e seguitai a ripetere invano, e ripeto oggi, spero, dopo le terribili esperienze sofferte, non più invano, che il nemico numero uno della civiltà, della prosperità, ed oggi si deve aggiungere della vita medesima dei popoli, è il mito della sovranità assoluta degli stati. Questo mito funesto è il vero generatore delle guerre; desso arma gli stati per la conquista dallo spazio vitale; desso pronuncia la scomunica contro gli emigranti dei paesi poveri; desso crea le barriere doganali e, impoverendo i popoli, li spinge ad immaginare che, ritornando all’economia predatoria dei selvaggi, essi possano conquistare ricchezza e potenza. In un’Europa in cui ogni dove si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici, in cui improvvisamente si scoprono passionali correnti patriottiche in chi sino a ieri professava idee internazionalistiche, in quest’Europa nella quale ad ogni piè sospinto si veggono con raccapriccio riformarsi tendenze bellicistiche, urge compiere un’opera di unificazione. Opera, dico, e non predicazione. Vano è predicare pace e concordia, quando alle porte urge Annibale, quando negli animi di troppi Europei tornano a fiammeggiare le passioni nazionalistiche. Non basta predicare gli Stati Uniti di Europa ed indire congressi di parlamentari. Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere doganali, nella limitazione dei sistemi ferroviari, fluviali, portuali, elettrici e simili al territorio nazionale, bensì nella scuola, nelle arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali, in tutto ciò che dà vita allo spirito e fa sì che ogni popolo sappia contribuire qualcosa alla vita spirituale degli altri popoli. Ma alla conquista di una ricca varietà di vite nazionali liberamente operanti nel quadro della unificata vita europea, noi non arriveremo mai se qualcuno dei popoli europei non se ne faccia banditore.

Auguro che questo popolo sia l’italiano. A conseguire il fine non si giungerà tuttavia mai se non ci decidiamo subito, sinché siamo in tempo, ed il tempo urge, ad entrare nei consessi internazionali oggi esistenti. Essi sono per fermo imperfetti come quelli della vecchia Società delle nazioni; ma giova farne parte per potere dentro essi bandire e spiegare la buona novella. Perciò io voterò, pur col cuore sanguinante per le Alpi violate, a favore della ratifica del trattato, come mezzo necessario per entrare a fronte alta nei consessi nelle nazioni col proposito di dare opera immediata, tenace, continua, alla creazione di un nuovo mondo europeo.

Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all’ideale della libertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l’utopia e la morte, fra l’utopia e la legge della giungla.

Che importa se noi entreremo nei consessi internazionali dopo essere stati vinti ed in condizioni di inferiorità economica! Se vogliamo mettere una pietra tombale sul passato; se vorremo non più essere costretti a chiedere aiuti ad altri, ma invece essere invitati a partecipare da paro a paro al godimento di quei beni del mondo alla cui creazione noi pure avremo contribuito, dobbiamo non aver timore di difendere le idee le quali soltanto potranno salvare l’Europa. La forza delle idee è ancora oggi – che l’Europa non è per fortuna del tutto imbarbarita e non è ancora adoratrice supina delle cose materiali – la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo. Non è nel momento in cui quattrocento milioni di indiani riconquistano, col consenso e con l’aiuto unanime del popolo britannico, la piena indipendenza, che noi vorremo negare la supremazia incoercibile dell’idea. Un uomo solo, il Mahatma Gandhi, ha dato al suo paese la libertà predicando il vangelo non della forza, ma della resistenza passiva, inerme al male.

Perché non dovremmo anche noi far trionfare in Europa gli ideali immortali, i quali hanno fatto l’Italia unita e si chiamano libertà spirituale degli uomini, elevazione di ogni uomo verso il divino, cooperazione tra i popoli, rinuncia alle pompe inutili, tra cui massima la pompa nefasta del mito della sovranità assoluta?

Difendendo i nostri ideali a viso aperto, rientrando, col proposito di difenderli a viso aperto, nella consociazione dei popoli liberi, e prendendo con quell’intendimento parte ai dibattiti fra i potenti della terra, noi avremo assolto il nostro dovere. Se, ciononostante, l’Europa vorrà rinselvatichire, non noi potremo essere rimproverati dalle generazioni venture degli italiani di non avere adempiuto sino all’ultimo al dovere di salvare quel che di divino e di umano esiste ancora nella travagliata società presente. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pacciardi. Ne ha facoltà.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, io non seguirò l’onorevole Togliatti nella interessante scorribanda di politica internazionale che ha fatto dinanzi a noi e nemmeno la fervida e commovente dichiarazione di principî dell’onorevole Einaudi; tenterò di riportare la discussione sull’oggetto del nostro ordine del giorno che è la ratifica del Trattato di pace.

Giunti a questo punto della discussione non si tratta più, ormai, io penso, che di fissare la posizione dei partiti, di andare incontro alle responsabilità. Io ho l’onore di parlare a nome del partito repubblicano, che ha preso collettivamente le sue responsabilità, rispettando, come è suo costume, sua tradizione, suo dovere, singoli casi di coscienza, rispettabili, che sono del resto un po’ in tutti i gruppi. Ha preso questa decisione di responsabilità dopo un complesso esame di coscienza, dopo una intensa e quasi lacerante elaborazione interiore che non cerchiamo di nascondere, che tutti i gruppi, del resto, conoscono, perché non si nasconde niente, e che si affida, io penso, alla vostra comprensione e al vostro rispetto.

Se c’era qualcuno in questa Assemblea che poteva quasi legittimamente esimersi dall’assumere le responsabilità, se c’era qualcuno che poteva assumere la parte bella, la parte senza rischi, la parte eroica ed altisonante, io credo che nessuno aveva maggiori titoli per recitare questa parte, del partito repubblicano italiano.

Siamo come tutti sanno, come tutti non hanno difficoltà a riconoscere, un partito di patrioti, siamo un partito la cui storia si confonde con la storia del nostro Paese e, permettetemi di dirlo poiché non riguarda me, non riguarda i miei colleghi presenti, ma riguarda le glorie d’un passato che ormai è comune, sono le pagine più belle, più pure per l’alone che le circonda, per il misticismo che le ispira, le pagine più belle della storia, del nostro Paese. Noi fummo tenacemente avversari della monarchia, sempre, e spesso solitari avversari; e per questa, starei per dire, fissazione antimonarchica, per diecine e diecine di anni noi ci siamo quasi isolati dalla vita pubblica dei nostro Paese, ci siamo quasi cinti di una specie di cintura di castità politica per ricordare agli italiani non solo cha sarebbero state sbarrate le vie del loro moderno progresso dalla presenza di questa istituzione medioevale, ma anche per ricordare loro che un regime, una famiglia allogena, un regime che non poteva essere veramente nazionale ci avrebbe condotto fatalmente ad un giorno nel quale, dovendo scegliere fra gli interessi della dinastia e gli interessi della nazione, avrebbe inesorabilmente sacrificato la nazione.

CONDORELLI. Infatti Cavour è un lazzarone

PACCIARDI. Vi dico le ragioni per cui noi, e non voi, potremmo recitare la parte bella. Per diecine e diecine di anni noi siamo stati soli o quasi nel nostro Paese a ricordare che l’unità nazionale non era ancora compiuta, i soli, o quasi, a fissare lo sguardo oltre i confini verso le balze del Trentino ed il Colle di San Giusto. E mentre nel 1914 il nazionalismo professionale era incerto se marciare con la triplice intesa o con la triplice alleanza, che era una alleanza di conservazione dinastica, noi lanciammo al Paese un manifesto che si concludeva con queste parole: «O sui campi delle Argonne con la sorella latina o a Trento e Trieste» indicando all’Italia per primi le vie del suo destino.

E siccome siamo usi a far seguire alle parole i fatti, un gruppo di nostri volontari andò a farsi massacrare in Serbia, in vista di Trieste, ed un gruppo molto più numeroso di italiani andò a profondere il suo sangue generoso nelle contrade di Francia.

Soltanto alla fine della guerra – l’onorevole Orlando spero me ne darà atto – noi ci ricordammo di essere uomini di parte, ma fin da allora ci levammo contro un vacuo, retorico, rumoroso, letterario nazionalismo, e vedemmo con infinita, con fervida simpatia il sorgere della Società delle Nazioni, come primo tentativo di costituire una Società internazionale; ideale che era stato vagheggiato concordemente da tutti i nostri apostoli del Risorgimento. E così noi fummo invisi agli interventisti ed ai neutralisti. Affrontiamo la incomprensione, la impopolarità, le defezioni; e prendemmo la nostra parte di fischi accanto ad uomini come Leonida Bissolati, come Gaetano Salvemini, come Carlo Sforza, e, ahimè, come Francesco Saverio Nitti, che era l’uomo più odiato e più insultato, in quei tempi, dai padri di coloro che oggi lo portano sugli altari.

Il resto, onorevoli colleghi, è storia che tutti sanno. Fummo, fin dall’inizio, tenacemente avversari, inconciliabilmente avversari del fascismo, quantunque esso ci offrisse l’offa, l’esca ingannevole di un tendenzialismo repubblicano, che però non ci ingannò.

Non abbiamo alcuna responsabilità, naturalmente, della guerra, che alle sorde e spesso complici democrazie europee indicammo sempre come lo sbocco sanguinante e fatale del regime di terrore che si era instaurato nel nostro Paese.

Non abbiamo alcuna responsabilità nell’armistizio, va da sé; ma non abbiamo alcuna responsabilità nemmeno nella controfirma dell’armistizio, che molti, quasi tutti i rappresentanti dei partiti di questa Assemblea hanno sottoscritto, perché noi non facevamo parte, non abbiamo mai fatto parte dei governi del Comitato di liberazione.

Non siamo legati, come ognuno sa, alla politica governativa, anzi ne siamo avversari. E consideriamo – siamo d’accordo con l’onorevole Togliatti – che questo Governo di parte non è il più adatto a risolvere i complessi problemi dell’ora.

Dunque, potremmo esimerci dall’assumere le responsabilità. Nessuno ci obbligherebbe a prendere questa posizione, se non il senso della nostra responsabilità nazionale, la nostra coscienza nazionale.

Se i monarchici avessero taciuto – ed era elegante che tacessero–, se i nazionalisti avessero taciuto, se i fascisti avessero taciuto…

Una voce a destra. Chi sono?

PACCIARDI. …noi avremmo potuto protestare anche per loro, perché avremmo saputo, io credo, trovare gli accenti della comune sofferenza, al di là degli stessi abissi di dolore, che ci hanno divisi, per elevare la comune protesta di tutti gli italiani, colpevoli e incolpevoli, che si trovano di fronte oggi ad uno stesso duro destino.

Tutti sanno che l’Italia sanguina ed espia le colpe che non sono del popolo italiano. Ho sentito con dispiacere, con meraviglia, dai banchi nazionalisti e dai banchi comunisti accomunare nella responsabilità il popolo italiano con la monarchia fascista. Io mi rifiuto di suggellare questa responsabilità.

Noi espiamo colpe che non sono nostre. Tutti sanno che quelle che stiamo oggi discutendo, discutendo talvolta in tono frivolo e leggero, in tono vorrei dire talvolta indegno della gravità dell’ora, sono le conseguenze visibili – non si deve dimenticarlo – le conseguenze visibili della politica di provocazione e di avventura della monarchia fascista…

BENEDETTINI. Ma che c’entra fascista? Lasciamo andare questo solito ritornello!

MACRELLI. Sono due termini che si identificano. Non c’è bisogno di dire monarchia fascista: basta dire monarchia.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano!

PACCIARDI. …sono le conseguenze visibili della disfatta, della resa a discrezione e dell’armistizio. E se volete andare più lontano, sono 16 conseguenze visibili di un regime che si era innestato sulla passione, sul martirio, sulla vibrazione popolare e repubblicana del Risorgimento, per sviare la istoria italiana dal suo corso.

Tutti sanno che questo regime – è inutile negarlo, non è nell’interesse nazionale negarlo – ha compiuto nel mondo un’opera nefanda e per compierla, per non avere giudici, ha dovuto prima strozzare la libertà degli italiani, onde esser libero di strozzare la libertà e l’indipendenza di alcuni popoli stranieri. Tutti sanno che contro il diritto internazionale, che si andava faticosamente elaborando dai triboli e dal martirio della prima guerra mondiale, il fascismo ha opposto – come diceva l’onorevole Einaudi – il diritto della giungla, il diritto della forza, il diritto della violenza.

E se è vero che questa infezione, questa malattia del fascismo fu malattia universale, non è meno vero – bisogna riconoscerlo – che il focolaio di infezione di questa malattia fu qui, disgraziatamente, nel nostro Paese che ebbe il triste onore di avere la «primogenitura», come si diceva, reazionaria, di essere alla testa della reazione internazionale.

Tutti conoscono la storia delle aggressioni: delle aggressioni in Etiopia, delle aggressioni alla Spagna repubblicana, delle aggressioni all’Albania, alla Grecia, alla Francia ed alla Jugoslavia e tutti sanno quale sarebbe stato il conto, l’assurdo conto che il fascismo vittorioso avrebbe presentato ai vittoriosi di oggi.

Quando si è accettata questa responsabilità, quando si è riconosciuta questa legge della forza, non si ha il diritto di dolersi se si è vittime della forza e se bisogna soggiacere alla prepotenza altrui. Per questo dico che era molto più elegante che i nostri nazionalisti e monarchici non parlassero. Noi repubblicani, noi antifascisti, avevamo ed abbiamo il diritto di protestare…

Voce a destra. E protesti, protesti!

PACCIARDI. …di protestare, perché mentre Churchill nel 1935 dichiarava agli italiani che se fosse stato italiano sarebbe stato fascista, e nel 1938, cioè proprio alla vigilia della conflagrazione europea, aveva il coraggio, in una rivista americana, di esaltare come due grandi figure universali Hitler e Mussolini, mentre Churchill faceva questo, gli antifascisti si battevano nella Spagna repubblicana contro il fascismo. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. Bella cosa! Combattete in Italia!

PACCIARDI. Voglio ancor più provocare le vostre interruzioni affermandovi che nel momento in cui l’Italia partecipava alla guerra universale aggredendo la Francia, noi non avremmo esitato un momento a contrastare, anche con le armi, il fascismo, come non esitò De Gaulle a contrastare la marcia del fascismo nel suo Paese, come non esitò il Maresciallo Tito, perché ogni paese ha avuto il suo fascismo.

Questa guerra (ecco la grande verità che dimenticano gli alleati, la grande verità che dimentica il Trattato di pace) questa guerra non è stata una guerra come tutte le altre; è stata una specie di guerra civile universale nella quale gli uomini e gli eserciti dei vari paesi si battevano gli uni contro gli altri, perché c’era una specie di fraternità che andava al di là delle frontiere, fra tutti i combattenti della democrazia e della libertà.

Il Trattato offende e vilipende soprattutto noi antifascisti.

BENEDETTINI. Offende gli italiani.

PACCIARDI. Ci offende insieme coi partigiani, insieme coi soldati, insieme coi marinai, che prima o poi si schierarono contro la gente del loro paese in favore della causa delle democrazie. Li offende e li insulta perché mentre essi credevano di combattere e di morire per gli interessi profondi e permanenti del loro proprio paese e per una visione di un mondo che fosse meno barbaro, meno ingiusto, meno caino, del mondo nel quale vivevano, sono stati considerati come una specie di quinta colonna al servizio degli eserciti stranieri.

Ecco che cosa veramente e profondamente ci offende. E se dovessimo reagire istintivamente a questo disconoscimento, se dovessimo reagire istintivamente a questa offesa, dovremmo, costi quel che costi, seguire la tesi morale di Benedetto Croce. Ci affamino pure, ci strangolino pure, continuino a considerare pure il nostro paese il bivacco degli eserciti internazionali, ma dovremmo non ratificare. E vi giuro che se si trattasse delle nostre persone, se si trattasse di noi, assumeremmo questo atteggiamento perché lo abbiamo già assunto. In venti anni di fascismo, non minacce, non lusinghe sono riuscite a farci piegare. Il nostro – non sufficientemente ricordato, sconosciuto agli stessi antifascisti – Umberto Ceva si svenava in carcere, come Jacopo Ruffini, per non rivelare i suoi complici in un momento di debolezza. Al nostro Luigi Delfini venivano strappate le unghie ad una ad una, ma non gli strapparono dalla gola strozzata una sola parola che fosse di sconfessione e di tradimento; e così tutti gli altri, appartenenti a tutti gli altri settori di questa Assemblea, come Rosselli, Matteotti, Amendola, Gramsci, tutti uomini che non avrebbero mai sottoscritto un atto non dignitoso, un atto di disonore.

Ma, onorevoli colleghi, non si tratta delle nostre persone, che non rischiano niente a protestare; anzi troverebbero sempre platee per applaudirle ed infiorarle; non si tratta delle nostre persone: si tratta della vita di un popolo.

E noi ci mettiamo moralmente, onorevoli signori del Governo, al vostro posto. Non vi abbiamo abbandonato quando alcuni di voi – di voi che provenivano dalle galere, che provenivano dalle lotte della resistenza – andarono a Parigi, introdotti dall’usciere e ricondotti dall’usciere dinnanzi a quella specie di tribunale come malfattori internazionali; non vi abbiamo abbandonato, perché abbiamo sentito che la vostra umiliazione era la nostra umiliazione nazionale. (Applausi al centro).

Abbiamo sentito che le vostre lacrime – perché so che qualcuno le ha versate davvero – erano le lacrime della nostra Nazione in catene. Non vi abbiamo abbandonato quando siete ritornati a Parigi a sottoscrivere questo Trattato ingiusto, che apriva le nostre frontiere, che apriva le porte di casa nostra, che smantellava le difese delle nostre coste e le faceva passibili di essere raggiunte da qualsiasi predone internazionale, che disperdeva la nostra flotta, che metteva sul popolo italiano, per generazioni e generazioni, taglie insopportabili.

Sapevamo che voi pagavate per noi, per tutti noi, le colpe che non erano vostre e che non sono vostre. Ecco perché, onorevoli colleghi (Si rivolge alla destra), avrei trovato nobile, per lo meno nobile, che voi non tentaste di profittare di questo atto di responsabilità che il Governo fa in buona fede, nella intenzione di servire la nostra Nazione, per speculare su un evento di questa natura.

Oggi tocca a noi, rappresentanti del popolo, rappresentanti della Nazione, tocca a noi di assumere la nostra responsabilità; tocca a noi di compiere l’ultimo gesto di contrizione nazionale.

Perché ratifichiamo? Ratifichiamo, onorevoli colleghi, perché bisogna chiudere al più presto – più presto è e meglio è – questa parentesi tragica della nostra lunga storia nazionale. Vogliamo uscire, per quanto dipende da noi, da questo stato miserando di minorità internazionale. Vogliamo al più presto ripartire da zero, magari da sotto zero, ma ripartire, per il nostro immancabile cammino di ascesa.

Perché ratifichiamo oggi e non domani, o non dopo domani? Perché non abbiamo nessun interesse ad aspettare, nessun interesse. Basta affermare solennemente che la nostra ratifica sarà esecutiva, operativa, il giorno in cui saranno depositate tutte le altre ratifiche.

Che cosa speriamo, aspettando? Speriamo in un nuovo conflitto? Disgraziati! Ma il Trattato stesso sembra congegnato apposta per delimitare fra i contendenti una striscia di terra disarmata, la terra senza padrone, dove avverrebbe l’incontro degli eserciti internazionali, e, quel che è peggio, l’incontro delle fortezze volanti internazionali, cariche, ormai, di ordigni apocalittici, per cui il nostro giardino diventerebbe una specie di voragine nell’Europa.

Non possiamo – ed anche qui sono d’accordo con l’amico Togliatti – non possiamo puntare sulla guerra, dobbiamo puntare sulla pace, perché è soltanto dalla pace che noi possiamo sperare la nostra rinascita.

Il nostro dovere, il nostro tentativo deve essere invece quello di creare una zona, la più vasta possibile, di pace. Quando si parla di due blocchi, io credo – posso sbagliarmi, ma lo credo fermamente – che se ne parli in modo non corretto e forse superficiale. Vediamo, per fortuna, delinearsi nell’Europa, che è stata schiantata dalla guerra e che non vuole una nuova guerra, vediamo delinearsi quasi distintamente una missione mediatrice: Né l’Inghilterra, né la Francia, né i paesi minori, l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la penisola Scandinava, e – tanto meno – l’Italia, nessuno di questi paesi che soffrono ancora delle sofferenze della guerra, che sanguinano ancora per la guerra, nessuno di questi paesi ha interesse ad acuire certe rivalità che sono, anch’esse, visibili. E le rivalità sono tra il Paese del grande capitalismo e il Paese del comunismo, i due colossi del mondo moderno; non tanto per i conflitti ideologici – amico Togliatti – che si possono sempre superare, piuttosto che fare la guerra, quanto perché questi due colossi hanno zone di interessi in tutti i continenti, interferenti, se non contrastanti.

Ma se noi volessimo far da soli, noi, poveri untorelli, paese disarmato, paese oggetto di storia e di politica internazionale, più che soggetto di politica internazionale, se noi dovessimo fare quest’opera di mediazione da soli, essa sarebbe inesorabilmente condannata al fallimento.

Chi non vede che qualche cosa di nuovo si delinea nel nostro continente? Io so che molti ridono del piano Marshall: noi in Italia ridiamo di tutto, con uno scetticismo che vorrebbe essere superiore e qualche volta non è se non goffo.

Abbiamo in questa Camera alcuni vecchi parlamentari che non sanno parlare come ha parlato testé l’onorevole Einaudi, vecchi parlamentari che noi rispettiamo profondamente perché ognuno di loro rappresenta una pagina di storia del nostro Paese; ma essi diffondono questo scetticismo all’acido prussico e non è bello, non è giusto, perché bisogna pure che questo popolo riabbia una fede, riabbia delle speranze. (Approvazioni).

Voi rischiate invece di avere una nazione senza idee, esposta a tutti i pericoli. In occasione del piano Marshall si sono ridestate queste speranze. L’Europa, questo nostro tribolato continente, nel giro di una sola generazione ha regalato all’umanità due guerre universali: vuol dire quindi che la sua malattia è costituzionale e profonda.

Chi vuol fare dunque opera di pace senza sanare questa malattia, senza guarire costituzionalmente l’Europa, fa un’opera infeconda. Forse da questa ispirazione, non soltanto per fini economici, è nato il cosiddetto piano Marshall. Gli è che i nostri tecnici oggi lavorano con i tecnici degli Stati occidentali dell’Europa su di un piano diverso dallo stretto piano nazionale. L’infausta politica monarchica – facciano il piacere adesso di non interrompermi l’onorevole Condorelli e soci – ci aveva crocefisso a questo dilemma: o avrebbero vinto gli Alleati, e allora avremmo probabilmente avuto, come abbiamo avuto, questo Trattato ingiusto che oggi critichiamo o avrebbe vinto Hitler e allora, la nostra situazione sarebbe stata di gran lunga più orrenda. (Applausi al centro e a sinistra).

Noi vogliamo uscire, la Repubblica sta per uscire dai corni tragici di questo dilemma.

L’Italia è per la prima volta, da pari a pari, a discutere in una conferenza internazionale. L’onorevole Togliatti diceva: Bisogna esserci. Ma – soggiungeva – bisogna esserci con una certa politica. Egli ha dato anche alcuni eccellenti consigli per la nostra politica estera. Ora, io mi permetto di osservargli che non si può ancora fare una politica estera, nessuna politica estera, né quella di Togliatti né quella di Sforza. È evidente che una politica italiana vera e propria non si può fare finché noi non avremo liquidato il passato, finché noi non potremo partecipare da pari a pari a tutti i consessi internazionali.

È per questo che io non mi sono meravigliato che la conclusione cui è pervenuto l’onorevole Togliatti sia la nostra stessa conclusione, che cioè sia necessario ratificare il Trattato. Io credo che egli, senza volerlo, sminuisca il valore di questa conclusione – mi scusi l’onorevole Togliatti – subordinandola ad un esame di politica estera che si può fare, che si deve fare, ma in altra sede e in modo più approfondito.

La Repubblica sta uscendo dunque da questo dilemma e, mentre trattiamo a Parigi con gli Stati occidentali – qui la preoccupazione dell’onorevole Togliatti è anche la nostra e credo che sia comune a tutta l’Assemblea mentre stiamo trattando con gli Stati occidentali dell’Europa, la nostra preoccupazione è – ed è certo anche quella del Ministro degli esteri – di non precluderci la strada per le trattative col mondo orientale.

Io non sono nei segreti della politica estera italiana, ma vi sono alcuni fatti visibili per tutti, oltre le dichiarazioni opportune, le riserve opportune in questo campo che ha fatto pubblicamente a Parigi, nella sede stessa della Conferenza, l’onorevole Sforza; ci sono alcuni fatti che sembrano di importanza minore ma sono molto significativi: il suo incontro a Parigi con l’ambasciatore sovietico, il suo incontro a Roma con l’ambasciatore sovietico. Non credo – io non so niente, ma non credo – che siano casuali, puramente casuali, che cioè il nostro Governo e il Ministro degli esteri non siano preoccupati, come noi siamo preoccupati, di salvaguardare la nostra libertà politica ed economica verso l’altra parte dell’Europa. E se ratificare significa affrettare soltanto la speranza di partecipare all’O.N.U. – e per carità, anche qui, non mi regalate la solita geremiade di scetticismi e di pessimismi – avremo almeno conquistato una tribuna, la più alta tribuna internazionale per difendere le ragioni del nostro Paese. E se ratificare significa anche cominciare a smobilitare, la pesante macchina dell’armistizio (pare che gli inglesi abbiano assicurato che se ne andranno il giorno della ratifica del Trattato – e noi siamo pronti ad infiorarli, come li abbiamo infiorati quando sono venuti), anche questo è certo un enorme vantaggio per il nostro Paese.

Insomma, finché rimarremo in questo stato di soggezione, finché rimarremo in questo stato di inferiorità, non si potrà nemmeno parlare di problemi di revisione. E voi, forse, conoscerete quel ch’io penso in questa materia: che le possibilità di revisione sono insite nel Trattato stesso; che, per esempio, alle nostre frontiere orientali c’è un cuneo di interessi stranieri posti fra noi e la Jugoslavia, che noi abbiamo interesse ad eliminare, ma che anche la Jugoslavia ha interesse ad eliminare. Queste ferite potranno essere sanate il giorno in cui potremo ristabilire auspicabili contatti di fraternità al di là degli odî recenti.

Ecco perché il Partito repubblicano non ha esitato a prendere queste responsabilità. Ed a chi ci dice che in questo modo noi diamo armi alla speculazione nazionalista, rispondiamo che due stesse esperienze nel giro della stessa generazione non si faranno; che ormai gli Italiani sono abbastanza maturi per capire che questa idra nazionalista, che schiacceremo o isoleremo, ha già prodotto conseguenze disastrose per il nostro povero Paese.

Signori del Governo, voi potete contare sempre sui nostri voti, tutte le volte che al di là dei nostri bisticci interni, anche onorevoli, sono in gioco i supremi interessi, le supreme ragioni dello Stato repubblicano. Noi sentiremmo di essere gli ultimi miserabili, i più bassi politicanti, se avessimo profittato, se profittassimo di questa occasione, nella quale alcuni dei vostri normali alleati giuocano al terno della popolarità il cadavere della Nazione (Applausi), per rovesciare il Governo.

Noi voteremo con vera tristezza nell’animo, lasciando a qualcuno di noi, che ha particolare posizione di coscienza, il diritto di votare in modo diverso dal nostro. Ma nei miei banchi tutti sanno che la storia d’Italia è fervida di queste dedizioni assolutamente disinteressate del partito di Mazzini alla causa nazionale! (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa fino alle 22.

A tale ora riprenderemo i lavori per continuare l’esame del disegno di legge sull’imposta patrimoniale.

Il seguito della discussione sul Trattato di pace è rinviato alla seduta di domani.

(La seduta sospesa alle 20.45 è ripresa alle 22).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947 n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Procediamo nella discussione del disegno di legge concernente l’istituzione dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Come l’Assemblea ricorda, la seduta di stamane è stata sospesa prima di procedere alla votazione dell’emendamento Cappi all’alinea b) del secondo degli articoli proposto dalla Commissione, emendamento tendente a stabilire in otto milioni il limite di esenzione per le società cooperative.

Comunico che, intanto, è pervenuto il seguente nuovo emendamento sostitutivo dell’alinea b), firmato dagli onorevoli Cerreti, Vicentini, Vanoni, Grazia e Dugoni, così formulato:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro, agricole ed i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane, che siano rette con i principî e con la disciplina della mutualità e che operino effettivamente secondo questi principî. L’esistenza di tali requisiti si deduce anche dal rapporto fra l’entità del patrimonio ed il numero dei soci ed è accertata, in caso di contestazione, dall’Amministrazione finanziaria d’intesa con il Ministero del lavoro».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Stamane l’Assemblea, la Commissione e il Governo erano alla ricerca di una formula che servisse a concedere l’esenzione là ove veramente si possono trovare le vere società cooperative.

A titolo cautelativo si era pensato di determinare un limite di cifra di capitale oppure un limite di patrimonio imponibile. È esatto che il titolo per fruire o meno di questa agevolazione non può derivare tanto da un limite di capitale o da un limite di patrimonio imponibile, quanto invece dalla esistenza dei requisiti della vera cooperativa.

Se l’emendamento testé comunicato può dal Governo essere messo in correlazione con l’emendamento di cui al successivo articolo, con cui la Commissione propone la sussistenza nella cooperativa di un triplice requisito, il Governo non ha difficoltà ad esprimere parere favorevole a questo emendamento.

PRESIDENTE. Quale è l’avviso della Commissione?

LA MALFA, Relatore. Mi rimetto al parere del Governo.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà,

CAPPI. Avevo proposto stamane un emendamento; poiché, però, è intervenuto un accordo non limitato (questo mi preme di dirlo all’Assemblea) a questo comma ed a questo punto che riguarda le cooperative ma anche ad altri punti dell’articolo 2, in base a questo accordo complessivo, dichiaro di ritirare il mio emendamento e votare per l’emendamento sostitutivo che il Presidente ha testé annunciato.

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Desidero, signor Presidente, richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi su un particolare settore della cooperazione che non può e non deve, in un articolo così essenziale ed importante, essere trascurato.

Intendo riferirmi particolarmente alle cooperative edificatrici – che non vanno confuse con le cooperative di lavoro edile – le quali recano e meglio potranno arrecare in avvenire un altissimo contributo alla ricostruzione ed alla pacificazione del Paese. Sì, anche alla pacificazione perché quando l’operaio o l’impiegato, attraverso il conferimento dei loro sudati risparmi, diventano i proprietari della loro piccola casa o del proprio modesto appartamento, essi cominciano ad acquisire il senso di quella personalità indipendente che li emancipa dalla loro condizione proletaria.

Questo capitale, dunque, apportato con tanti sacrifici e che è frutto del più sano spirito previdenziale, dovrà essere colpito dall’imposta?

Io non credo, in coscienza, che ciò possa avvenire. Come mi associo, nella mia qualità non solo di deputato ma anche di rappresentante di un vastissimo movimento cooperativo nazionale, alle proposte che portano all’esenzione a favore delle cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, ai loro consorzi, nonché delle Casse rurali ed artigiane, così debbo insistere perché le cooperative edificatrici trovino il loro posto in quella tassativa elencazione.

Non vi è dubbio che le cooperative debbono essere fornite dei particolari requisiti, citati all’articolo successivo, i quali garantiscono pienamente l’osservanza dei principî e delle discipline della mutualità: la nuova legge che è in corso di elaborazione presso il Ministero del lavoro ed alla cui nuova impostazione la Confederazione cooperativa italiana ha dato e desidera dare il proprio fattivo contributo di esperienza, garantirà ai competenti organi dello Stato, e quindi anche all’amministrazione finanziaria, che non saranno possibili speculazioni di sorta sul fatto e sul nome della vera cooperazione, fine a se stessa e, nel contempo, strumento di elevazione sociale del popolo.

PRESIDENTE. In quali termini sarebbe l’emendamento aggiuntivo?

CIMENTI. «Le società cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, edificatrici ed i loro consorzi».

PRESIDENTE. Prima di sentire il parere della Commissione sull’emendamento dell’onorevole Cimenti, domando all’onorevole Caroleo se mantiene il suo analogo emendamento.

CAROLEO. Il mio emendamento riproduce esattamente il pensiero del collega. Io ho precisato: cooperative per la costruzione di case economiche, che sono appunto le case operaie. Comunque, ritiro il mio emendamento, associandomi a quello dell’onorevole Cimenti.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei pregare gli onorevoli Cerreti e gli altri firmatari dell’emendamento nonché l’onorevole Cimenti di aggiungere all’elenco delle cooperative, così come risulta dal testo concordato, le cooperative dei pescatori, che in Italia hanno una importanza ed una tradizione notevole che non può essere dimenticata.

DUGONI. Le cooperative di lavoro comprendono anche quelle della pesca.

CANEVARI. Con la formulazione «cooperative di produzione e lavoro» si includevano tutte le cooperative che avevano lo scopo di produrre e lavorare. Ma quando avete fatta l’aggiunta «cooperative agricole», avete fatto un elenco, che reclama raggiunta delle altre cooperative.

O togliete tutte le altre e quindi anche le agricole, e allora non c’è bisogno di aggiungere altro; ma se mettete «agricole», bisogna fare l’aggiunta che dico io, vale a dire «cooperative di pescatori».

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Penso che noi possiamo accettare l’aggiunta dell’onorevole Cimenti, ma desidereremmo che fosse specificato che quando si parla di «cooperative edificatrici» si intende parlare di case popolari, poiché stiamo assistendo appunto a delle forme di cooperative spurie, le quali creano palazzi sontuosi, che nulla hanno a che vedere con le case economiche.

PRESIDENTE. Infatti, l’emendamento dell’onorevole Caroleo, su questo argomento, specificava «case economiche». Ed allora potremmo dire «edificatrici di case economiche».

GRAZIA. Sta bene raggiunta che abbiamo fatto per le cooperative agricole; perché vogliamo riferirci a determinate cooperative le quali pur avendo carattere di lavoro e non di consumo fanno soltanto affitto o servizio di macchine per lavoro, che non è propriamente di produzione, ma è ausilio a questa.

Però, riguardo a quello che dice l’onorevole Canevari, se si vuole aggiungere anche le «cooperative della pesca», nulla in contrario ad accettare il suo emendamento.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io sono d’opinione che noi non possiamo andare specificando tutti i generi di cooperative. Quindi sopprimiamo la parola «agricole» e diciamo: «Le società cooperative di consumo, produzione e lavoro, e i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane ecc.». Questo mi pare che sia il sistema più semplice e più comprensivo.

CAROLEO. Non si può comprendere nelle cooperative di produzione e lavoro le cooperative di case. Non si producono le case; le case si costruiscono.

CIMENTI. D’accordo.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento concordato che avrà luogo separatamente per le singole voci.

Pongo ai voti le parole:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro».

(Sono approvate).

«agricole».

(È approvata).

«edificatrici di case economiche».

(Sono approvate).

«della pesca».

(Sono approvate).

«e i loro consorzi».

(Sono approvate).

«nonché le casse rurali ed artigiane».

(Sono approvate).

A questo punto vi è l’emendamento dell’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

Onorevole Adonnino, insiste nel suo emendamento?

ADONNINO. Sì.

LA MALFA, Relatore. Ma continuando così non so che cosa voteremo!

ADONNINO. Sono state incluse tante altre specificazioni e non comprendo perché non ci possa essere anche quella proposta da me.

PELLA. Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Per rassicurare l’onorevole La Malfa e gli altri, che hanno qualche preoccupazione circa la perfezione forse formale più che sostanziale dell’emendamento che sta nascendo, credo che l’Assemblea sia d’accordo principalmente in questo punto: che debba essere compito, poi, della Amministrazione finanziaria compiere quel lavoro d’interpretazione della vera volontà della Assemblea coordinando il testo votato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Respingo nettamente l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino, perché con esso noi verremmo ad esentare – per esempio – la Banca cooperativa di Novara.

Pregherei poi di aggiungere, prima della parola «agricole», la parola «comprese»; così diamo un senso a questa votazione. Cioè, metterei dopo le parole «consumo, produzione e lavoro» le parole «comprese le cooperative di pesca, ecc.».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta del Relatore di premettere alla parola «agricole» già votata le parole «comprese le».

(È approvata).

Pongo ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

ADONNINO. Beninteso, si dovrà aggiungere: «fino al limite di 8 milioni di patrimonio». (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Sull’emendamento Adonnino il Governo e la Commissione hanno espresso parere contrario.

Lo pongo ai voti.

(Non è approvato). (Vivi rumori – Commenti – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi rumori – Il Presidente lascia il suo seggio).

(La seduta, sospesa alle 22.35, è ripresa alle 22.55).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Penso che nessuno si attendesse che questa ripresa serale della seduta dovesse essere interrotta dall’episodio spiacevole che si è verificato e credo che non vi sia nessuno tra di noi che non se ne rammarichi vivamente, anche e specialmente coloro che, involontariamente, ne sono stati la causa immediata.

Vi sono delle attenuanti, s’intende: la stanchezza, le sedute prolungate, la stagione, la difficoltà della materia. Tuttavia, onorevoli colleghi, penso che queste che sarebbero attenuanti per chiunque, non lo possono essere per dei deputati eletti dal popolo italiano i quali dovrebbero avere delle virtù connaturali, di cui la prima è l’autocontrollo.

Penso che il modo migliore per riparare alla innegabile spiacevolezza di questo episodio sia per l’appunto quello di riconoscere obiettivamente che l’esperienza di molti non ha ancora potuto essere completata (Commenti); e, con umiltà, lo riconosco per me stesso.

D’altra parte, è certo che il nostro collega Vicepresidente Conti non merita alcun atto men che deferente. (Si applaude a lungo vivamente all’indirizzo del Vicepresidente Conti).

Onorevoli colleghi! Noi siamo tutti stanchi ma, badate, vi è una stanchezza maggiore che si accumula in coloro che debbono dirigere le nostre discussioni e non hanno pause nella loro fatica.

Colui che presiede ha il diritto, in alcuni momenti, di essere particolarmente compreso. Il nostro collega onorevole Conti da diciotto sedute presiede una discussione faticosissima, oltremodo complicata.

Credo che tutti noi saremo unanimi nel volergli far giungere il desiderio che egli domani riprenda il suo posto. (Vivi applausi). Il modo migliore per dimostrarglielo è intanto quello di riprendere il lavoro interrotto, traendo dal piccolo incidente almeno l’ammaestramento di dare a questa discussione il carattere di una discussione parlamentare.

Forse si è trasferito un po’ troppo nell’aula il lavoro tipico della Commissione – degno e meritorio peraltro – ciò che ha un po’ stancato i colleghi, e contribuito a quello che è avvenuto poco fa.

Ma ormai è bene chiudere l’incidente e riprendere il nostro lavoro al punto in cui è stato spiacevolmente arrestato. (Vive approvazioni).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea nel manifestare l’unanime rammarico per l’incidente che è accaduto, incidente che credo abbia avuto origine più che altro da un equivoco, perché effettivamente il nostro collega Vice-Presidente Conti si è ben trovato, anche durante la discussione della patrimoniale, in altre situazioni più rumorose e, direi anche, più clamorose. Forse, il momento non era il più adatto per lui ed anche per qualcuno di quelli che in quel momento hanno forse dimostrato, verso di lui un risentimento certamente infondato, determinato più che altro dal fatto che ciascuno di noi anche in questa discussione della patrimoniale, che abbiamo dovuto esaminare per la funzione legislativa aggiunta alla Costituente, quella cioè di aver modo di interferire in questa legge, ciascuno si è un po’ appassionato ed alcuni possono essere andati al di là di quello che sarebbe opportuno in una Assemblea calma e serena, come teoricamente dovrebbe essere sempre, ed in pratica ancor più trattandosi di questioni più serie ancora, quali sono quelle finanziarie.

Ora, effettivamente i colleghi sanno che io pure, che sono quasi sempre tranquillo oltre ogni dire, qualche volta, nella discussione di questa legge patrimoniale, mi sono accalorato e mi sono appassionato particolarmente quando qualcuno dei colleghi, di pensiero diverso da quello che avevo l’onore di esprimere io, assumeva degli atteggiamenti piuttosto rumorosi nei miei riguardi. Ora, questo dico per ricordare come effettivamente la questione della legge patrimoniale, importantissima, che si è discussa qui per diciotto sedute, di giorno ed anche (ahimè!) di notte, effettivamente ha affaticato tutti gli spiriti nostri. Da notare che la fatica di noi deputati è sempre relativa – perché se siamo stanchi usciamo dall’aula – ma ha affaticato ancora di più coloro che avevano l’obbligo di presiedere per dirigere le nostre discussioni, discussioni spesso astruse e complesse, anche perché… (Commenti a sinistra).

I colleghi sono già tutti del mio parere e desiderano, mi pare, che io concluda: sono abbastanza intelligente per comprendere a volo. Questo dimostra, signor Presidente, come le sedute notturne, siano relativamente opportune, perché vede con quale spirito di inquietudine si accolgono queste mie serene parole.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Micheli!

MICHELI. Ho terminato di dir male delle sedute notturne, signor Presidente; non mi richiami perché non lo merito. Aggiungo solo che credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea, ringraziando lei di essere venuto a riassumere «ambo le chiavi del cor di Federico» non solo, ma anche di aver così autorevolmente trovato la forma per eliminare ogni equivoco che ci fosse stato fra noi, nel senso che il desiderio di tutti è che il Vicepresidente Conti ritorni ancora a presiederci in questa discussione (Vivi applausi all’indirizzo dell’onorevole Conti), in modo che questa benedetta patrimoniale sia finita, per merito suo, per merito nostro. Con maggiore o minore soddisfazione del contribuente italiano, sarà poi da vedere, ma l’onorevole Conti non c’entra.

PRESIDENTE. Procediamo dunque nell’esame degli emendamenti.

Era stata approvata poco fa la prima parte dell’emendamento presentato dall’onorevole Cerreti e da altri colleghi al comma b) del secondo articolo aggiuntivo.

Si tratta, ora, di porre ai voti la seconda parte.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Propongo che la seconda parte del testo, per ragioni formali, sia modificata nel modo seguente:

«L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazioni, spetta all’Amministrazione finanziaria d’intesa col Ministero del lavoro i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Io credo che il dire che l’amministrazione finanziaria deve procedere d’accordo con il Ministero del lavoro possa condurre a delle complicazioni. Per quanto riguarda l’indagine sulle casse rurali, sulle cooperative di consumo, che cosa c’entra il Ministero del lavoro? Sulle cooperative di lavoro, sta bene; ma è inutile dirlo: l’amministrazione finanziaria, quando crederà di servirsi degli elementi che può fornire il Ministero del lavoro, se ne servirà, ma non mi pare che si possa o si debba stabilire ciò a-priori.

In secondo luogo, osservo che, per quanto riguarda le cooperative di consumo, non basta tener conto del capitale e del modo di attività; bisogna tener conto anche del fatto se queste cooperative di consumo esercitino o meno la loro attività soltanto nell’ambito dei soci, o anche nei confronti di terzi. Ci sono infatti delle cooperative di consumo che sono enti di formidabile potenza, che hanno centinaia di milioni di patrimonio. Ora, è evidente che queste cooperative esercitano un’attività anche industriale perché hanno mattatoi, mulini, e servono il pubblico. Ve ne sono alcune – si conoscono benissimo – che servono intere città che hanno centinaia di migliaia di abitanti.

Tutte le volte, in cui noi diciamo di aiutare le cooperative, noi non alludiamo certo a quelle che entrano nell’ambito commerciale generale.

A me pare quindi che non sia assolutamente il caso di…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, mi perdoni: la cosa è superata, perché l’Assemblea ha approvato già il primo alinea in cui si parla di cooperative in modo indiscriminato.

BERTONE. Ma io mi riferisco ad altri elementi, onorevole Presidente. Penso che si dovrebbe avere anche riguardo al modo, alla natura, alla estensione dell’attività dell’ente, se limitata ai soci o estesa indiscriminatamente a tutti…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, lei pone qui la questione delle cooperative chiuse e delle cooperative aperte. Ritiene che quelle aperte debbano avere un trattamento diverso? Formuli allora un emendamento in questo senso.

PALLASTRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PALLASTRELLI. Io sono d’accordo con l’onorevole Bertone e cioè che non si dovrebbe fare alcuna specificazione circa i Ministeri che quello delle finanze dovrà sentire; ma se invece si insiste a dire che il Ministero delle finanze deve avere il parere di quello del lavoro, penso sia necessario, anzi doveroso, aggiungere che occorre pure interpellare il Ministero dell’agricoltura. So bene la ragione per la quale ci si è limitati al Ministero del lavoro, ossia perché esso è detentore del registro delle cooperative, e so anche che sotto il punto di vista strettamente giuridico si potrebbero opporre delle buone considerazioni alla mia proposta. Ma io non vorrei si escludesse il Ministero di agricoltura per tante ragioni che non mi indugio a esporre e anche per porre fine alla tendenza, se volete è motivo un po’ estraneo a ciò che stiamo trattando, a quella tendenza, ripeto, che mira a togliere al Ministero di agricoltura, ogni ingerenza nelle cooperative che agiscono nel suo settore. Io penso e mi auguro che possano sorgere molte cooperative agricole. Ed è da augurarsi anche che possano sorgere come fattore importante della auspicata riforma agraria per la quale dovremo avere un forte sviluppo di cooperative specie per i sistemi collettivi di conduzione della terra.

Perciò anche al Ministero dell’agricoltura quello delle finanze dovrebbe chiedere ciò che si vuole solo limitare al Ministero del lavoro.

PRESIDENTE. Sta bene. Vi sono dunque due proposte di emendamento: il primo è dell’onorevole Bertone, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti esclusivamente all’amministrazione finanziaria, senza il concorso di altre amministrazioni; il secondo emendamento è quello dell’onorevole Pallastrelli, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti all’Amministrazione finanziaria, d’intesa, non so se col Ministero del lavoro, ma comunque col Ministero dell’agricoltura.

PALLASTRELLI. O sia solo il Ministero delle finanze, e non si parli di altri Ministeri, oppure se si indica quello del lavoro si metta anche il Ministero dell’agricoltura.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che l’emendamento, nella sua dizione formale, sia stato concordato fra i vari gruppi nel presupposto che il Ministero del lavoro istituisca un registro delle cooperative, in cui si accerti la regolarità degli scopi delle cooperative medesime. Quindi, l’intesa col Ministero del lavoro presuppone questo registro presso il Ministero del lavoro stesso. Date questo presupposto, qualsiasi altro emendamento è inutile. Quindi pregherei il Governo di dichiarare se accetta o meno quella formulazione. È inutile una discussione che ci porta sempre fuori strada.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei far presente appunto che lo schema di disegno di legge già predisposto dal Ministro del lavoro del tempo, D’Aragona, successivamente accettato dal Ministro Romita, schema che è in attesa di essere portato davanti a questa Assemblea, prevede appunto la costituzione, per la vigilanza da esercitarsi sulle cooperative – vigilanza già richiesta da tutti i cooperatori italiani anche nei loro congressi nazionali, di un registro, che è di competenza del Ministero del lavoro.

Io, però, sono d’avviso che in luogo di mettere – come pare sia proposto nell’emendamento Pesenti – «il Ministero delle finanze, d’intesa col Ministero del lavoro», si metta che la competenza sia conferita al Ministero delle finanze, sentito il Ministero del lavoro, che ha una competenza specifica per la vigilanza da esercitarsi sul movimento delle cooperative.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Gli onorevoli colleghi avranno certamente pensato che se il Governo ha dato parere genericamente favorevole all’emendamento proposto dalla Commissione, ciò è stato soprattutto per portare un contributo di semplificazione e di acceleramento nei lavori.

Effettivamente, coll’emendamento proposto si viene a limitare la libertà dell’Amministrazione finanziaria in materia. Forse il sistema più appropriato sarebbe stato questo: dopo aver affermato che ai fini dell’accertamento del requisito della mutualità occorre anche tenere conto del rapporto tra capitale e soci, e dopo aver affermato che occorre tenere conto del parere del Ministero del lavoro, o sentire questo Ministero, sarebbe stato più opportuno mantenersi nel grande solco del normale contenzioso dell’imposta: che, cioè, in caso di contestazione, dovessero essere gli organi amministrativi a decidere anche su questo punto, tenendo conto e del parere del Ministero del lavoro, e di questo requisito obiettivo del rapporto tra capitale e soci, e degli altri requisiti contemplati dal successivo articolo. Questo sarebbe il sistema che preferirebbe il Ministero e che sembrerebbe più organico.

Se la Commissione in questo senso vuole correggere il suo emendamento, il Governo ne prenderà atto con piacere; se però non ritiene di modificare l’emendamento presentato, nessuna difficoltà ad accoglierlo da parte del Governo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Volevo far presente che il testo proposto non è della Commissione ma di gruppi vari dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Sta bene; ma la cosa non ha eccessiva importanza. Penso che l’Assemblea giudicherà in base al contenuto dell’emendamento, senza tener conto di chi precisamente ne sia l’autore.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Propongo che alle parole «d’intesa con» si sostituisca la parola «sentito».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la prima parte dell’emendamento: «L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazione, spetta all’Amministrazione finanziaria».

(È approvata).

Pongo ai voti – in base alla proposta Scoccimarro – le parole: «sentito il Ministero del lavoro».

(Sono approvate).

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pallastrelli di aggiungere le parole:

«e il Ministero dell’agricoltura».

(Non è approvata).

Pongo ora ai voti la seconda parte del comma:

«i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

(È approvata).

Si passa ora alla lettera c):

«c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i benefici ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Gli onorevoli Dugoni ed Assennato hanno proposto un emendamento per sostituire la lettera c) con la seguente formulazione: «Le aziende municipalizzate, le aziende autonome dello Stato, i consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre contributi obbligatori o esercenti pubblici servizi».

TOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSI. Ho chiesto di parlare solo per dire che voteremo contro l’emendamento Dugoni. Per accelerare la discussione abbiamo altresì preso accordi coll’onorevole Scoccimarro per approvare il testo della lettera c) fino alle parole: «aventi scopi esclusivamente culturali», lasciando le altre parole: «i benefici ecclesiastici maggiori o minori» su cui c’è un emendamento dello stesso deputato. E lì ci fermeremo per esaminare da questione. Vorremmo dunque che questo fosse noto al Governo. Quindi la lettera c) rimane tutta mantenuta fino alle parole «i benefici ecclesiastici maggiori e minori» per cui c’è un emendamento Scoccimarro.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Scoccimarro se per tutta la prima parte della lettera c) fino al punto indicato dall’onorevole Tosi c’è un accordo per conservarla.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’accordo era per conservarla. Naturalmente in sede di coordinamento, siccome è stata votata una diversa dizione dell’articolo 1 lettera c), evidentemente alcuni di questi enti ricordati devono cadere perché sono già esenti in base all’articolo 1 lettera c). Però l’onorevole Assennato fa osservare che nella lettera c) manca l’esenzione – per esempio – dell’Ente autonomo dell’acquedotto pugliese, cioè di certi enti autonomi che non sono ricordati perché non esistevano all’epoca della legge del 1922.

ASSENNATO. Si tratta di enti autonomi che svolgono pubblici servizi.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Assennato, allora il suo è un emendamento aggiuntivo.

ASSENNATO. Sì, aggiuntivo,

PRESIDENTE, Avverto che alla lettera c) l’onorevole Micheli propone di dire, oltre le amministrazioni di Stato, anche «gli istituti»; quindi: «amministrazioni e istituti di Stato».

Vi è poi un emendamento dell’onorevole Quintieri Quinto che propone che si tolgano dal comma c) le parole: «aziende municipalizzate».

L’onorevole Quintieri Quinto ha facoltà di parlare per illustrare il suo emendamento.

QUINTIERI QUINTO. Propongo da soppressione delle parole «aziende municipalizzate», prima di tutto per evitare di limitare troppo la materia su cui incide l’imposta. Le esenzioni sono già notevoli: estenderle significa gravare più ancora sulle restanti categorie che saranno colpite. Bisogna inoltre evitare un trattamento fiscale diverso per aziende che sostanzialmente hanno lo stesso campo di attività. Ci sono aziende non municipalizzate che eserciscono pubblici servizi, e non c’è ragione di stabilire fra queste due categorie una tassazione diversa. Bisogna evitare che le aziende, attraverso il differente trattamento fiscale, perdano la chiara ed esatta visione dei risultati economici raggiunti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, credo che noi andiamo da un equivoco all’altro, da una confusione all’altra, e così non so dove arriveremo. Non è possibile mantenere la lettera c) dell’articolo 2 se si modifica, come è stata modificata, la lettera c) dell’articolo 1.

Se definiamo la lettera c) dell’articolo 1 mettendovi le fondazioni e gli enti morali, non possiamo poi dire che sono esentati dall’imposta. Non possiamo parlare degli Stati esteri in categoria B di ricchezza mobile. E così via. Non so davvero che cosa significhi tutto questo pasticcio. Se manteniamo la lettera c) dell’articolo 1 dobbiamo togliere le esenzioni corrispondenti dal comma c) dell’articolo 2.

Fin da stamane ho dovuto criticare la facilità con cui stabiliamo delle categorie di privilegi e di esenzioni senza valutarne le conseguenze. Continuando con questo, metodo non so se l’Assemblea stia qui per curare gli interessi di coloro che vogliono essere esentati dall’imposta o curare gli interessi generali dello Stato. Credo che si debba deliberare la soppressione della lettera c) dell’articolo 2.

CORBINO. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei far notare che noi discutiamo di una materia estremamente complessa e nella quale è necessario conservare una armonia tra le linee generali, del disegno di legge e i dettagli che lo compongono. Vorrei perciò fare una proposta concreta. L’imposta sugli enti collettivi non era contemplata nel decreto con cui l’imposta sul patrimonio era stata già istituita dal Governo. L’abbiamo deliberata noi. La trasformazione della nostra deliberazione generica in dettagli di disposizioni tributarie, a mio giudizio, non potrebbe essere fatta se non con una calma ed una serenità che noi in questo momento abbiamo già dato prova di non avere. E allora io vorrei proporre che, approvato il principio generale dell’imposizione degli enti collettivi così come è stata stabilita dall’articolo 1, si aggiunga un altro articolo così formulato: «Con successivo provvedimento legislativo saranno emanate le norme per la riscossione dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi». Il Governo emanerà il provvedimento d’accordo con la Commissione di finanza e tenendo presenti le disposizioni generali che la Commissione di finanza ha già approvato in questa materia. E noi, nella mattinata di domani, potremo dare la convalida al provvedimento legislativo; mettere in pace i contribuenti che devono pagare, e metterci ih pace anche noi, terminando il nostro lavoro.

PRESIDENTE. La sua proposta formale è praticamente quella di chiudere la discussione a questo punto.

CORBINO. Nei dettagli sarebbe questa: che all’articolo 1 dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi, che è già stato approvato, si faccia seguire un articolo 2: «Con successivo provvedimento saranno dettate le norme per l’applicazione e la riscossione di questa imposta». Nella Commissione di finanza sono rappresentati tutti i gruppi, sono rappresentate tutte le tendenze; e quindi tutti gli interessi avranno modo di poter far sentire la loro voce; soprattutto, avrà modo di poter far sentire la sua voce il Governo che in questo momento mi pare sia sopraffatto da proposte di esenzione che ciascuno di noi avanza nell’intento di sgravare dell’imposta tutti quegli enti che prima abbiamo voluto colpire, svuotando di fatto il contenuto del capo XIV del disegno di legge.

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Avevo chiesto, veramente, di parlare prima del relatore e prima che l’onorevole Corbino facesse questa proposta di sospensiva. Ritengo opportuno esporre il mio pensiero anche se la proposta dell’onorevole Corbino dovesse essere accolta. Alla lettera c) si parla di consorzi ed altri enti autorizzati a imporre tributi obbligatori. Voglio chiedere questo chiarimento. I Consorzi di bonifica, che sono un’associazione di proprietari di terre, possono avere – ed hanno nella maggior parte dei casi – un patrimonio collettivo, alle volte anche cospicuo, di terreni e di stabili. Ora non riesco a vedere quale sarebbe la ragione dell’esenzione. Vorrei che mi si desse, per lo meno, questo chiarimento.

CHIOSTERGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.,

CHIOSTERGI. Mi oppongo alla proposta dell’onorevole Corbino. Io ritengo che – se è necessario – l’Assemblea non deve cedere in quello che è il diritto e il dovere di arrivare fino in fondo.

PRESIDENTE. L’onorevole Corbino non ha ancora presentato una proposta precisa.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Vorrei fare presente che questo progetto non è una improvvisazione dell’ultimo momento. È stato già attentamente elaborato dal Ministero delle finanze, poi è stato riesaminato a lungo dalla Commissione di finanza e viene qui dopo un attento esame.

Non è una cosa affrettata. Perciò io penso che siamo in grado di discuterlo e decidere in merito.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Devo fare osservare che la Commissione assume la completa responsabilità del progetto che ha presentato. Ma la responsabilità di quello che avviene da questa mattina deve essere assunta dal Governo, che apportando un emendamento alla lettera c), non ha tratto tutte le conseguenze ed ha messo in condizioni difficili la Commissione.

La Commissione assume la responsabilità della coerenza degli articoli che ha presentato, però quando il Governo alla lettera c) propone un emendamento che modifica la base delle proposte della Commissione, non deve essere il Presidente della Commissione a dire che la lettera c) non è più sostenibile rispetto alla lettera c) dell’articolo 1, ma deve essere il Governo ad assumere la responsabilità rispetto agli articoli 2 e seguenti.

Voce al centro. L’Assemblea ha votato!

LA MALFA, Relatore. Questo devo dire perché da qualcuno si vorrebbe dare l’impressione che nel presentare questo emendamento la Commissione ha esercitato un potere arbitrario ed ha fatto un lavoro frettoloso.

PRESIDENTE. Parliamo della questione specifica.

LA MALFA, Relatore. Tutto quanto avviene da questa mattina, deriva da questa precisa situazione in cui ci troviamo: il Governo ha presentato un emendamento che è stato approvato dall’Assemblea, esso deve guidare la discussione dell’Assemblea in maniera che dall’emendamento presentato si traggano tutte le logiche conseguenze.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Mi permetterei di aggiungere, relativamente a questo cosiddetto non esistente contrasto fra il Governo e la Commissione, nei modi come sono stati esposti dall’onorevole La Malfa, che con una dichiarazione molto precisa, (che quindi l’Assemblea poteva anche ritenere impegnativa) il Governo aveva dichiarato solennemente che, nel caso fosse stata introdotta l’imposta straordinaria proporzionale, avrebbe contemporaneamente, se non abrogato, perché non voglio alterare la portata delle sue dichiarazioni, modificato il regime delle imposte sulle rivalutazioni.

Ora, la fretta con cui questo disgraziatissimo progetto aggiuntivo è stato varato, al di fuori di ogni norma costituzionale e di ogni normale procedura, per cui io non ho che da richiamare le giustissime osservazioni che furono fatte dal nostro attuale Presidente alla fine di una recente seduta, ha portata la conseguenza che in questo progetto aggiuntivo è anche contenuto un articolo x il quale dice: «Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali delle società ed enti, ecc. ecc.».

Questa riserva incide sostanzialmente in quella tale alternativa di cui il Governo aveva fatto chiara ed esplicita ed impegnativa dichiarazione alla Costituente.

Quindi la proposta dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e coerente alle precedenti dichiarazioni del Governo in quanto se le modalità della seconda imposta proporzionale risulteranno da un successivo progetto meglio elaborato, tecnicamente non incongruente come questo, il progetto futuro del Governo, oltre ad essere sottoposto alla normale procedura dei disegni di legge, potrà contenere quella tale parte relativa alla revisione delle attuali imposte sulle rivalutazioni, senza la modificazione o abrogazione delle quali noi non teniamo conto che gli enti collettivi, una delle principali ossature dell’economia del Paese, finiranno in pratica per avere l’imposta ordinaria con quei tali multipli di imponibile e concentrazioni decennali di cui si è parlato, l’imposta straordinaria di cui stiamo parlando adesso con tutte le assunzioni della cosiddetta responsabilità da parte della Commissione, ma senza nessuna analoga assunzione di responsabilità da parte del Governo, ed avremo contemporaneamente l’esistenza dell’imposta sulle rivalutazioni la quale, sostanzialmente, ferma l’opera ricostruttiva del Paese…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, l’Assemblea ha già votato il primo di questi articoli; perciò la questione è risolta.

FABBRI. Io sono molto deferente alla sua logica, ma mi permetto dirle che la proposta dell’onorevole Corbino è di conferma del principio votato, e sta bene; ma è aggiuntiva di un progetto di legge che dia luogo da parte del Governo e della Commissione all’assetto tributario degli enti collettivi. Ora, in questo stesso progetto di legge – ed è inutile che io faccia la questione più tardi – è contenuta una riserva per la revisione di imposte che attualmente rimangono in atto. La proposta di sospensiva dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e tanto più ragionevole in quanto questa futura presentazione delle nuove norme potrà essere comprensiva anche del contenuto di questo articolo dove c’è una riserva (relativamente ad una anteriore e precisa dichiarazione del Governo) proprio a proposito della eventuale introduzione dell’imposta straordinaria…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, ma io ho già qui una proposta concreta dell’onorevole Corbino. Questo che lei dice si riferisce al testo dell’articolo 13.

FABBRI. Allora domando che questo articolo 13 sia aggiunto all’emendamento Corbino in quanto la ragione di sospensiva sarà comprensiva dell’argomento complesso che consta di due parti organiche, secondo la dichiarazione impegnativa del Governo, la quale, o rimane tale, e allora ho ragione io, o viene revocata, ed allora si vedrà l’opinione dell’Assemblea.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare che l’imposta straordinaria sugli enti collettivi è una questione diversa dell’imposta sulla rivalutazione degli impianti. Noi possiamo benissimo esaminare l’imposta straordinaria ed affrontare in seguito il problema delle rivalutazioni (sul quale sono d’accordo con lei, onorevole Fabbri, che il 25 per cento deve essere riveduto). Perciò non vediamo il motivo del rinvio che ora si chiede.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. È inutile che io dica agli onorevoli colleghi che, per il semplice fatto che il Governo è presente a questa discussione, il Governo si assume tutta la responsabilità dei suoi atteggiamenti. Vorrei però che si tenesse presente che forse si comincia ad intendere la portata di quella che era l’intenzione del Governo di deferire all’autorità dell’Assemblea la risoluzione dei problemi più importanti. Non ho che da rammaricarmi che possano essere state fraintese le intenzioni del Governo e di chi vi parla. Non desiderio di evadere la responsabilità, che anzi il Governo rivendica a se stesso nella totalità, ma atto di ossequio ed atto di omaggio all’Assemblea Costituente e nulla più.

Per quanto riguarda il merito delle osservazioni fatte, ho da tempo chiesto la parola per esprimere il pensiero del Governo in particolare modo sulla lettera c) dell’emendamento numero due, in correlazione all’emendamento dal Governo accettato stamani sull’emendamento numero uno.

È noto certamente alla Commissione, se non agli onorevoli colleghi dell’Assemblea, che il Governo aveva presentato, in via di contributo tecnico, un suo schema alla Commissione, nel quale era appunto introdotto il concetto di tassare gli enti morali per la zona del reddito di categoria B. Quindi, l’emendamento presentato stamani non ha alcun carattere di novità e di sorpresa; e la riaffermazione d’un concetto che esplicitamente era contenuto nel progetto presentato dinanzi alla Commissione. Ed ho spiegato stamani per quale ragione il Governo insisteva nel suo ordine di idee.

Resta in questo momento da chiedersi se abbia ancora ragion d’essere un sistema di esenzioni obiettive, quale quello contenuto nella elencazione di cui alla lettera c). Accantono in questo momento il problema secondario della revisione di questo elenco, perché io penso che qualcuno degli enti morali ivi indicati effettivamente potrebbe non avere più ragione di essere come può darsi che qualche altro ente – come giustamente propone l’onorevole Assennato – debba essere incluso.

Ed io ritengo – ed è qui che il Governo si assume veramente una responsabilità sul piano di un indirizzo di politica tributaria – ritengo veramente che un sistema di esenzioni soggettive debba essere anche, per quanto la portata all’atto pratico sia infinitamente piccola, di esenzione soggettiva per quegli enti morali che, nel quadro di una più ampia attività, possono svolgere episodicamente una qualche attività industriale o commerciale, che possa far nascere l’applicazione di un’imposta di ricchezza mobile in categoria B.

Onorevoli colleghi, per impostare esattamente il problema, teniamo conto che questa ipotesi vale e per il settore religioso e per il settore non religioso; e vorrei dire che la lettera c) esplicitamente parla di settori appartenenti a tutti i culti; quindi, un concetto molto largo e neutrale rispetto a quella che può essere una considerazione di ordine religioso.

Ora, il Governo non deve essere preoccupato soltanto di affastellare tributi su tributi e di cogliere soltanto l’esito tributario di gettito del tributo, ma, principalmente davanti a un tributo straordinario, quale quello di cui discutiamo, e di un tributo così contrastato nella sua stessa impostazione iniziale, il Governo, dico, deve tener conto d’un concetto fondamentale: se, in sede di applicazione del tributo mobiliare ordinario, il reddito è tassabile per il semplice fatto che si produce, indipendentemente dalla sua destinazione finale, analogo concetto il Governo non ritiene che si possa adottare ai fini dell’applicazione di questo tributo. Devesi tener conto di quella che è la destinazione finale del reddito: se la destinazione finale è scopo di beneficenza, di assistenza, filantropico, noi riteniamo che sussista il requisito per concedere una esenzione soggettiva. Ripeto, il settore su cui si estende questo sistema di applicazione è molto ridotto.

Il giorno in cui potremo fare una statistica e tradurre in cifre che cosa significa questa rinuncia, ritengo che ci troveremo davanti a cifre molto basse. Perciò il Governo, che stamattina aveva proposto un secondo emendamento, cioè di sopprimere l’ultimo periodo dell’emendamento n. 2, lasciando in piedi la lettera c), conferma in questo momento l’opportunità di lasciare in piedi la lettera c), integrata nel senso accennato dall’onorevole Assennato e depurata di qualche ente che effettivamente non riuscirebbe ad essere agganciato alle ipotesi pratiche di legame ad un reddito di categoria B.

Per quanto riguarda la proposta di rinvio dell’onorevole Corbino, veramente in questo caso il Governo deferisce la decisione all’Assemblea. lì Governo, se viene investito del problema di varare un separato provvedimento d’accordo con l’onorevole Commissione, non solo si impegna di vararlo, ma prega addirittura l’Assemblea di fissare un termine.

Se invece l’Assemblea preferisce che si continui stanotte per portare a termine l’esame del progetto, il Governo è a disposizione in tal senso.

CORBINO. Faccio osservare che il mio emendamento è nel senso indicato dall’onorevole Ministro: con successivo provvedimento da emanare, per esempio, entro un mese, o entro quel termine che vorrà fissare l’Assemblea, la legislazione avrà il suo seguito.

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Corbino pone una questione di procedura e di regolamento; essa avrebbe dovuto essere presentata prima che si iniziasse l’esame dell’articolo. Oramai la questione è stata toccata ed in parte risolta con le votazioni avvenute stasera. Se si accettasse la proposta dell’onorevole Corbino, bisognerebbe considerate come non avvenute queste votazioni e ricominciare da capo.

D’altra parte, è evidente che l’Assemblea, volendo, può sempre prendere in considerazione proposte di questo genere. Ma è necessario, evidentemente, che l’Assemblea deliberi di considerare come non avvenute le votazioni fatte.

L’Assemblea dovrà dunque decidere sulla proposta dell’onorevole Corbino di votare un articolo 2 con il quale si dichiari: «Con successivo provvedimento saranno dettate norme per l’applicazione e la riscossione dell’imposta di cui all’articolo 1».

Porrò ai voti tale proposta.

BERTONE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Il Gruppo per il quale ho l’onore di parlare accetta la proposta Corbino e voterà a favore. Il principio della tassabilità degli enti collettivi è acquisito e fermo e non si torna più indietro. Si tratta ora di stabilire i dettagli e le modalità della tassabilità e della tassazione. Evidentemente, poiché l’Assemblea ne è investita, potrebbe discutere e della tassazione e delle modalità della tassazione. Ma, onorevoli colleghi, rendiamoci conto del modo in cui avviene questa discussione. La verità è che se noi affrontiamo queste discussioni, non la finiremo né in due, né in tre, né in cinque giorni, perché basta vedere che per un articolo, che è stato già votato, e ora ci si ritorna su, c’è da ritenere che la discussione si protragga per un tempo che non possiamo definire. Perciò, l’affidare al Governo ed alla Commissione di stabilire un provvedimento definitivo con cui si dovrà procedere alla tassazione degli enti collettivi, mi pare che sia buona norma, conforme anche al principio costituzionale che il potere legislativo è delegato al Governo; e in verità noi qui stiamo varando un vero e proprio provvedimento legislativo.

Non aggiungo altro. Ritengo sia conveniente aderire alla proposta Corbino.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Dichiaro che avrei votato a favore dell’emendamento Corbino se il Governo si fosse impegnato a tener conto di quanto è già stato approvato dall’Assemblea su questo articolo. L’Assemblea su alcuni punti si è già pronunciata, e, credo, si è legalmente pronunciata.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Non ho esaminato dal punto di vista tecnico-formale come si possa o non si possa inserire formalmente quanto è stato già approvato; ma il Governo parte indubbiamente dal principio che quanto è stato già votato, da stamane fino a stasera, ha potere vincolante rispetto al nuovo provvedimento. Che poi tutto questo possa essere trasfuso nel nuovo provvedimento o non, è questione strettamente tecnica da esaminare.

FOA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Dichiaro che voterò contro la proposta Corbino perché ritengo che la sua accettazione costituirebbe una seria incrinatura nella fiducia che l’Assemblea Costituente deve avere in se stessa e nella capacità di svolgere i suoi lavori. Per la prima volta, essa si arresterebbe di fronte ad una complicazione di lavoro, quando questa complicazione non dipende in realtà da difetti o da colpe della Commissione da essa delegata, ma da una situazione nuova creata stamane da un emendamento proposto dal Governo e accettato, direi, con leggerezza dalla maggioranza dell’Assemblea. (Commenti – Proteste al centro). Con leggerezza, perché la Commissione… (Interruzione del deputato Fuschini).

Oltre tutto, io non vedo come si possa delegare al Governo di adottare questo provvedimento, di concerto con la Commissione di finanza, perché è evidente che qualunque conflitto sorga tra il Governo e la Commissione di finanza, non potrebbe essere in altro modo risolto se non rinviando all’Assemblea, cosa che non potrebbe avvenire prima della ripresa dei lavori.

Credo, perciò, che questo provvedimento, presentato come una delega al Governo, non sarebbe altro se non la rinunzia da parte dell’Assemblea di portare a termine un lavoro, che si trova già all’ordine del giorno.

Questa credo che sia una diminuzione gravissima del nostro mandato, e perciò dichiaro che voterò contro. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

Voci Ai voti!

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea, dopo l’articolo 2, dovrebbe affrontare – come discussione di una certa importanza – solo altri due articoli, l’articolo sulle detrazioni e l’articolo sulle aliquote, dopo di che dovrebbe esaminare il progetto per l’imposta sugli enti collettivi.

Credo, quindi, che la proposta degli onorevoli colleghi che vogliono sospendere la discussione di questo progetto indichi una stanchezza per lo meno prematura.

Noi, qui, siamo arrestati da un fatto di grande semplicità, cioè l’armonizzazione della lettera c) dell’articolo 2 con la lettera c) dell’articolo 1, che non presenta affatto difficoltà, tanto che la Commissione si sente di proporre la soppressione della lettera c) dell’articolo 2, ciò che non presenta alcun inconveniente, dopo che il Governo ha proposto l’emendamento alla lettera c) dell’articolo 1, che l’Assemblea ha approvato.

Aggiungo che le dichiarazioni dell’onorevole Pella sulla lettera c) dell’articolo 1 non sono ancora chiare.

Ma siccome c’è una proposta di sospensiva, mi riservo di discutere sulle dichiarazioni del Ministro Pella dopo la votazione circa la proposta dell’onorevole Corbino.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare all’Assemblea che su questo problema della tassazione degli enti collettivi già una volta è stata presentata proposta di sospensiva e di rinvio e l’Assemblea l’ha respinta. Ora è la seconda volta che si ripresenta la stessa proposta e mi parrebbe strano che l’Assemblea, arrivata a metà del suo lavoro, cambiasse opinione.

Devo poi far notare che non riesco a concepire come la Commissione, se fosse investita dal Governo di un provvedimento di questa natura, non lo rimandasse qui all’Assemblea, dovendo esso far parte dell’imposta straordinaria sul patrimonio…

MARINARO. La Commissione non è stata mai investita dal Governo!

SCOCCIMARRO. La Commissione si sentirebbe moralmente obbligata a rimandare all’Assemblea il provvedimento che il Governo presentasse, per cui questo vorrebbe dire che dovremmo riprendere la discussione dopo le vacanze.

Ancora una ultima osservazione: credo – sarà perché io non ho molta esperienza parlamentare – che sia la prima volta che nel nostro Parlamento, e forse anche in altri Parlamenti, si comincia a discutere una legge e ci si ferma, poi, a metà strada dicendo: «Il Governo la finisca lui».

Quindi, non possiamo accettare la proposta Corbino, e, se viene mantenuta, chiediamo l’appello nominale. (Applausi a sinistra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io non pensavo affatto di ledere i diritti dell’Assemblea proponendo quello che ho proposto; non c’era la più piccola intenzione in questo senso da parte mia. Desidero solo far rilevare che i poteri di emanare leggi li ha il Governo e, in materia fiscale, il Governo ha emanato in questi giorni provvedimenti che importano 80 miliardi di imposte da parte dei consumatori. Nessuno di noi si è sentito offeso nella sua dignità perché il Governo ha preso questi provvedimenti.

Io desidero invece che questo benedetto disegno di legge per l’imposta sul patrimonio sia varato al più presto possibile e non ho mai detto che debba essere rimandato. Non ho voluto quindi intendere che il suo esame vada, nel prosieguo, deferito al Governo. In questo caso, è il Governo che avrebbe dovuto fare questa legge. Il Governo l’ha portata qui per un riguardo all’Assemblea. Ma ora le questioni di massima le abbiamo esaminate e l’Assemblea si è pronunciata su di esse; non sono rimaste pertanto che le questioni di dettaglio.

Ora, su questo punto, chi sa quanto noi dovremmo discutere: dal momento quindi che gli elementi fondamentali, come ho già detto e come tutti noi sappiamo, sono ormai acquisiti e dal momento che la Commissione, la quale esprime tutte le correnti dell’Assemblea, ha già raggiunto un accordo, che cosa resta? Non restano che delle preoccupazioni concernenti il dettaglio.

E se io ho sollevato queste preoccupazioni nell’Assemblea, non le ho sollevate per tutelare i contribuenti, ma per impedire che, attraverso formule che noi qui talvolta improvvisiamo, si venga a determinare il fatto che dei contribuenti che dovrebbero pagare, non paghino. Ecco dunque lo scopo concreto, reale della mia proposta. Non c’è alcuna volontà di togliere all’Assemblea il più piccolo dei suoi poteri.

Se il progetto che il Governo preparerà entro un mese, da quando la Commissione avrà a sua volta adempiuto al proprio esame, non sarà trovato corrispondente a quelle che possono essere le esigenze politiche dell’Assemblea, la Commissione lo porterà all’Assemblea, ma porterà solo questo provvedimento, mentre il resto avrà già cominciato a camminare per conto proprio e sarà già andato in applicazione.

Quindi, onorevole Scoccimarro, tenga conto di queste buone mie disposizioni. Per dimostrarle del resto, come io intenda di pormi nella condizione più neutrale, le dirò che io stesso che ho fatto la proposta mi asterrò dalla votazione. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, lei si astiene dalla votazione, ma conserva la proposta?

CORBINO. Perfettamente. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. È evidente che una questione già decisa dall’Assemblea in un certo senso, non può essere riproposta. Debbo però precisare, per quanto riguarda l’eccezione posta dall’onorevole Scoccimarro, che l’onorevole Marinaro aveva già posto la questione di escludere in linea di principio la tassazione degli enti collettivi: la sua proposta è stata respinta, e l’Assemblea ha votato un articolo in cui questa imposizione è prevista.

La proposta dell’onorevole Corbino non può considerarsi la riproduzione della proposta dell’onorevole Marinaro, perché, una volta approvata la proposta Corbino, non verrebbe annullata la votazione di principio già avvenuta. L’onorevole Corbino propone che tutto lo sviluppo conseguente del meccanismo di applicazione e di riscossione di questa imposta, venga, se mai, rinviato ad un altro provvedimento.

Ritengo così risolta la questione di procedura che l’onorevole Scoccimarro ha presentato.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Debbo ricordare che noi abbiamo ancora in sospeso, nell’ambito dell’imposta patrimoniale, gli emendamenti agli articoli 29-bis, 29-ter, 29-quater.

Quindi, se anche approvassimo la proposta dell’onorevole Corbino, dovremmo dopo discutere questi emendamenti che fanno parte integrante della legge.

PRESIDENTE. Sta bene.

Avverto che sulla proposta dell’onorevole Corbino è stata chiesta dall’onorevole Scoccimarro ed altri la votazione per appello nominale.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Io non credo di potermi appellare a nessuna norma particolare del Regolamento, ma mi permetto di porre all’onorevole Presidente questo problema: se un deputato presenta una proposta, evidentemente, la presenta perché l’Assemblea si pronunci sulla proposta stessa e l’approvi. Ora, se il proponente di un emendamento dichiara che non lo voterà, io domando al signor Presidente se questo non equivalga ad un ritiro dell’emendamento stesso. (Commenti a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Targetti, il problema che lei pone, è un problema, in fondo, di tattica parlamentare.

Poiché l’onorevole Corbino non dichiara di ritirare la sua proposta, l’atteggiamento, personale, del proponente non può essere interpretato come un ritiro della proposta stessa.

È stato chiesto – ripeto – l’appello nominale sulla proposta dell’onorevole Corbino (Commenti prolungati).

CORBINO. Non voglio far perdere tempo, e ritiro la proposta.

MICHELI. Chiedo di parlare!

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io non ripeto la proposta della motivata sospensiva della discussione, che è stata ritirata, ma faccio la proposta pura e semplice di sospendere la seduta per rinviarla a domattina. Ciascuno è giudice della propria resistenza: io sono giudice ed interprete della mia, e dovrei andarmene!

PRESIDENTE. Desidero far presente la necessità che si affronti qualche ora di più di lavoro pur di giungere ad una conclusione. Occorre completare oggi l’esame dell’articolo ed impegnarsi a giungere domani alla conclusione (Approvazioni).

MICHELI. Onorevole Presidente, io non ho ritirato la mia proposta.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo dunque ai voti la proposta dell’onorevole Micheli di rinviare la seduta.

(Non è approvata – Commenti).

Onorevoli colleghi, faccio presente che il Relatore onorevole La Malfa ha dichiarato di ritenere che dopo approvata la lettera c) dell’articolo primo nella formulazione proposta dal Governo, deve cadere la lettera c) dell’articolo 2.

L’onorevole Ministro delle finanze ritiene invece che la lettera c) dell’articolo 2 possa essere conservata, salvo alcune modificazioni che servano a metterla in armonia con la votazione di stamane.

Dovremo allora passare alla votazione della lettera c) dell’articolo 2.

LA MALFA, Relatore. Non è possibile: c’è un assoluto contrasto con quanto è stato votato in precedenza!

Propongo di sopprimere la prima parte del comma e cioè le parole: «lo Stato per tutti i suoi beni».

PELLA, Ministro delle finanze. Sono d’accordo per la soppressione.

PRESIDENTE. La pongo ai voti.

(È approvata).

Seguono le parole: «le amministrazioni di Stato».

L’onorevole Micheli ha proposto si dica: «le amministrazioni e gli istituti di Stato».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Proporrei di cancellare anche le parole «le amministrazioni di Stato» e, naturalmente, di non aggiungere «gli istituti».

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con il relatore.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli, mantiene il suo emendamento?

MICHELI. Per la medesima ragione per la quale sono stati esclusi i «beni dello Stato, e le Amministrazioni dello Stato» restano esclusi anche gli «Istituti dello Stato» che io avevo proposto. Viene a cessare quella che era la ragione del mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta soppressiva presentata dal Relatore.

(È approvata).

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. Mi permetto di proporre alla Commissione di considerare analiticamente tutti i capitoli di questa lettera c): perché qui prendiamo decisioni che sono di estrema gravità. Faccio una proposta formale di sospensiva per il seguito della lettera c); perché non possiamo continuare ad esaminare una materia così delicata affrettatamente, nelle ore notturne.

PRESIDENTE. Faccio presente che questo testo è in discussione da ieri mattina. Ella, onorevole Vanoni, ha avuto 48 ore di tempo per fare delle proposte.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Ho l’impressione che convenga sottolineare ancora la limitata portata di questa lettera c) dopo che si è affermato che gli enti morali (decisione di questa mattina in ordine all’emendamento n. 1) sono tassabili soltanto per quella zona in cui producono redditi di categoria B. Si tratta ora di vedere se vi è qualche particolare ente che per le sue finalità altamente filantropiche meriti una maggiore agevolazione, cioè di non tassarlo anche se per avventura ha qualche modesto reddito di categoria B. Il pensiero del Governo è in questo senso: di abbandonare modeste zone di categoria B quando sono soverchiate da una superiore finalità filantropica dell’Ente. Questa è la limitata portata della lettera c) che stiamo discutendo, nello spirito con cui viene esaminata dal Governo.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Concordo pienamente con quanto ha detto il Ministro, che si tratta cioè esclusivamente di riconoscere alcuni enti che sono tassabili in categoria B) ma che per motivi particolari noi vogliamo esentare cioè enti che non siano di categoria B). Perciò faccio la proposta di passare all’articolo successivo. Vuol dire che ritorneremo all’esame di questa lettera c) domattina, dopo aver proceduto al coordinamento.

PRESIDENTE. Comunico che vi è una proposta dell’onorevole Tosi di sostituire l’intero alinea c) con la seguente dizione:

«Sono esenti i soggetti di cui alla lettera c) dell’articolo precedente quando l’attività produttiva di reddito tassabile di ricchezza mobile che essi esplicano è connessa con attività di educazione, istruzione, assistenza, beneficenza e avviamento professionale dei soggetti stessi».

Vi è inoltre la proposta dell’onorevole Vanoni che, salvo le votazioni già avvenute, la redazione del comma b) venga rimessa alla Commissione perché lo elabori in connessione con quanto questa sera è stato detto e lo ripresenti domani nel nuovo testo conseguente.

LA MALFA, Relatore. È il Governo che ha presentato l’emendamento all’articolo 2.

PELLA, Ministro delle finanze. Dichiaro, a scopo di maggiore semplificazione, che appunto in quella zona configurata dall’emendamento Tosi noi riteniamo che i modesti redditi di categorie B, di scuole artigiane e simili non possano dare luogo all’applicazione di questo straordinario tributo. Perciò, se si vuole ridurre la portata di questa lettera c) alla zona dell’emendamento Tosi, il Governo pur di semplificare, lo accetta.

PRESIDENTE. Vi è allora da votare l’emendamento sostitutivo proposto dall’onorevole Tosi.

PESENTI. Questo testo è insufficiente! Insisto perché la discussione sia rinviata a domattina in modo che sia possibile concordare un testo completo.

GRONCHI. Noi appoggiamo la proposta dell’onorevole Pesenti.

PRESIDENTE. Vi è dunque una proposta di rinvio dell’onorevole Pesenti. Prego però di tener presente che si tratta di rinvio a domani mattina. (Commenti).

Domattina perciò l’emendamento dovrà essere pronto in maniera che, riprendendo i nostri lavori, si possa continuare senz’altro nella discussione.

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pesenti, cui ha aderito anche l’onorevole Gronchi.

(È approvata).

Rinvio il seguito della discussione a domattina alle 9,30 e prego i colleghi di assumere l’impegno di votare entro le sedute di domani la legge nel suo complesso. (Segni di assenso).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Faccio la proposta formale che venga messo ai voti l’impegno che domani notte la seduta non si toglierà se tutta la legge non sarà approvata. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Non credo che questa votazione sia necessaria, dopo l’assenso con il quale l’Assemblea ha accolto il mio invito. Resta dunque inteso che entro domani, l’esame del progetto sulla patrimoniale dovrà essere completamente esaurito.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda di prendere a carico dei responsabili dell’arresto arbitrario di alcuni socialisti, comunisti ed organizzatori sindacali, avvenuto due giorni dopo la pacifica dimostrazione di solidarietà all’Amministrazione social-comunista di Caorle, fatta dalla grande maggioranza della popolazione, sdegnata per gli insulti proferiti contro la stessa, nella persona del sindaco, da pochi facinorosi, fra i quali vi era il noto fascista bastonatore, podestà del paese per molti anni, la mattina del 20 luglio, in occasione di un comizio socialista.

«Tonetti, Pellegrini, Costa, Giacometti, Tonello».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dei trasporti, del tesoro e dell’industria e commercio, per conoscere se non si ritiene necessario ed urgente disporre una inchiesta sulla gestione dell’A.R.A.R.

«L’opinione pubblica si preoccupa vivamente della regolarità e della onestà del funzionamento di questa organizzazione che, improvvisata dal Governo Parri in pochi giorni, da anni riceve e custodisce, tratta, transige ed aliena e vende nell’interesse del pubblico erario tutto un assortimento di beni, inventariati all’ingrosso, che hanno valore di centinaia di miliardi e ciò senza che finora sia mai stato esercitato, da persone estranee all’abituale ingranaggio dell’ente, un effettivo controllo sulla regolarità e sulla bontà dell’operato dell’ente stesso, sulla misura delle sue spese e sulla rispondenza dei risultati raggiunti con quelli che un’amministrazione sana ed oculata avrebbe dovuto ottenere.

«Sta di fatto che da tempo circolano, con riferimento all’A.R.A.R., voci di inauditi arricchimenti da parte di funzionari e di speculatori e la stampa ha in questi giorni pubblicato con chiari e violenti commenti, il testo di un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. e una azienda privata, con il quale tale privata azienda risulta messa in grado di realizzare, con sicurezza, senza impegno di denari e di rischio, utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi.

«Data l’importanza degli inconvenienti ed il groviglio degli interessi che è possibile vi si annidi intorno, si richiede che la Commissione per gli accertamenti necessari venga composta, per garantirle autorità ed indipendenza, con parlamentari in grado, per competenza tecnica ed amministrativa, di valutare la realtà della posizione.

«Rodinò Mario, Monticelli, Crispo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria 1947-48 in merito agli ammassi obbligatori dei cereali e se ritenga di accedere alle generali richieste dei contadini, abolendo i detti ammassi che si sono dimostrati di grave onere per il bilancio dello Stato e di gravissimo peso per i produttori, non dando, d’altra parte, per risultato che una sensibile contrazione della produzione.

«L’interrogante fa presente che l’abolizione degli ammassi, sia pure sostituita in via provvisoria con quegli accorgimenti che potranno rivelarsi opportuni, consentirà di provvedere con maggiore sicurezza al sostentamento dei meno abbienti, specie addivenendosi alla somministrazione di una parte del salario o stipendio in natura, a cura ed a carico, naturalmente, dei datori di lavoro.

«Ricorda che, essendo imminenti i lavori preparatori per la semina, questa, nell’ipotesi della persistenza del regime di ammasso, si attuerebbe – dato lo stato d’animo diffuso nelle campagne – su scala ridottissima.

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, della difesa e dell’interno, per chiedere se abbiano piena conoscenza della enorme lentezza con cui procede la liquidazione delle pensioni di guerra militari e civili, dirette e indirette, le quali si vanno trascinando per anni tra uffici comunali, distretti e ospedali militari e direzione generale prima, tra Commissioni e Comitati centrali poi, fino a perdersi in ultimo per altri mesi dalla firma del decreto di concessione all’inizio effettivo dei pagamenti; per chiedere se siano consapevoli della giustificata esasperazione che tale lentezza suscita nelle centinaia di migliaia di invalidi e di superstiti, che ormai da anni attendono il sollievo a cui hanno diritto, e di cui il lungo ritardo tende a scemare sempre più l’efficacia; per sapere se non ritengano necessario tentare di porre rimedio a tale stato di cose, superando le difficoltà derivanti dal numero grandissimo delle istruttorie in corso; e per conoscere il loro pensiero intorno ai provvedimenti più idonei allo scopo, e intesi sia a semplificare le procedure, sia a sveltire gli uffici centrali e quelli periferici, sia ad accelerare i pagamenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere quali provvedimenti intende prendere per la soluzione del problema siderurgico degli stabilimenti altiforni ILVA di Portoferraio, facendo presente che lo stato di incertezza, protraentesi da oltre tre anni su tale questione, oltre che apportare continui moventi di agitazione in tutta la zona elbana, è causa di grave sbilancio per lo Stato, il quale, continuando ad erogare sussidi, non dà al piano di ricostruzione nessun contributo concreto e, anziché ricondurre i lavoratori all’attaccamento al lavoro, li allontana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si richiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 24.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccvii.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Pella, Ministro delle finanze

La Malfa, Relatore

Pesenti

Dugoni

Bertone

Castelli Avolio

Assennato

Micheli

Cifaldi

Scoccimarro

Adonnino

Caroleo

Foresi

Grazia

Vanoni

Canevari

Cappi

Pastore Raffaele

La seduta comincia alle 9.30.

ASSENNATO, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Diamo inizio all’esame degli emendamenti proposti dalla Commissione, relativi all’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi.

L’emendamento che costituisce il primo articolo in materia è del seguente tenore:

«È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti:

  1. a) società per azioni ed in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata;
  2. b) società in accomandita semplice, società in nome collettivo, società di fatto;
  3. c) istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere.

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito o esistente nello Stato».

Su questo articolo è stato presentato dal Governo l’emendamento seguente:

«All’alinea b) sopprimere le parale: società di fatto; all’alinea c) dopo le parole: enti morali in genere, aggiungere le parole: che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile in categoria B per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Prego l’onorevole Ministro di volere illustrare l’emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Lo illustrerò brevemente.

Per quanto riguarda la proposta di sopprimere le parole «società di fatto» contenute nel terzo comma alla lettera b), il Governo si riporta al sistema del vigente Codice civile. Il Codice stesso non prevede più le società di fatto, le quali, se praticamente ancora sussistono, derivano da società in nome collettivo o da società in accomandita semplice o, infine, da società per azioni od in accomandita per azioni o a responsabilità limitata, le quali non hanno adempiuto a tutte le formalità di legge per la regolare costituzione; si tratta cioè, di società irregolari, per mancato adempimento delle formalità costitutive.

Orbene, è da ritenere che nella nozione – per esempio – di società in accomandita semplice o in nome collettivo, senza specificazione, siano implicitamente comprese anche le società che non abbiano adempiuto tutte le formalità di legge, e ciò è necessario ed opportuno per non arrivare all’assurdo di premiare con esenzioni quelle società che hanno omesso una delle formalità prescritte dal Codice.

Se l’Assemblea ritenesse che non basta sopprimere le tre parole «società di fatto» e lasciare le parole restanti, il Governo non avrebbe nulla in contrario – in via subordinata – di sostituire alle parole «società di fatto» le parole «anche se irregolarmente costituite».

Quest’aggiunta però – ripeto – sembra al Governo superflua: ed esprimendo questo pensiero il Governo implicitamente ritiene (ed esplicitamente lo dice in questo momento) che in sede di istruzioni ministeriali, certamente l’Amministrazione finanziaria affermerà che tutte le società, sia regolarmente che irregolarmente costituite, sono soggette al tributo.

Più importante mi sembra la seconda parte dell’emendamento.

Già in precedenza, quando gli uffici ministeriali hanno predisposto alcuni emendamenti che la bontà della Commissione ha assunto poi come prima base per i propri lavori, si era proposta una formula analoga a quella contenuta nell’emendamento ministeriale.

Ho già avuto l’onore di comunicare all’Assemblea, quando la informai che il Governo desiderava lasciarla completamente libera delle sue decisioni in ordine alla istituzione o meno di un tributo addizionale nel settore degli enti collettivi, che il Governo riteneva esistessero due soluzioni, ambedue positive, di questo problema. Esisteva o la possibilità della tassazione delle rivalutazioni, alla quale personalmente aderivo, poiché mi sembrava strumento tecnicamente più perfetto, o la possibilità della tassazione degli enti collettivi sull’intero patrimonio, ipotesi alternative, nel senso che l’una deve escludere l’altra.

Dicevo allora, a nome del Governo, che la struttura di questo tributo addizionale doveva informarsi al concetto di integrare, a titolo perequativo, le tassazioni esistenti nel settore dell’economia industriale e dell’economia commerciale, per correggere errori ed imperfezioni che gli strumenti tributari possono avere determinati in questo settore nel tempo recente e nel tempo meno recente.

Lo scopo di perequazione cui ho accennato, circoscritto al settore anzi detto, mi porta ad insistere perché la tassazione dipendente da questi emendamenti trovi un limite nell’esistenza, attuale o potenziale, di un reddito di categoria B.

Siccome so che qualche onorevole collega vorrebbe trasformare la formula di reddito tassabile in categoria B in formula di reddito tassato in categoria B dico fin da questo momento che non potrei aderire a tale variante, perché, ammesso pure che sussistano deficienze da parte degli uffici nella tassazione dei redditi mobiliari, sarebbe veramente ingiustificato che tali deficienze, e cioè, in concreto, la mancanza di un reddito tassato in categoria B, portassero all’esenzione dall’imposizione straordinaria.

Per queste ragioni prego gli onorevoli colleghi di voler benevolmente accogliere l’emendamento proposto dal Governo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione aderisce alla soppressione della dizione: «società di fatto», alla lettera b).

Per quanto riguarda invece l’emendamento alla lettera c) devo dire che la Commissione ha emendato il disegno del testo fornito dal Governo per queste ragioni: in definitiva, questa imposta viene a completare il sistema di tassazione straordinaria delle due imposte, progressiva e proporzionale sul patrimonio, per prendere tutti gli enti collettivi; non soltanto quelli che esercitano un’attività produttiva tassabile nella categoria B della ricchezza mobile. Esistono moltissimi enti collettivi che non sono tassabili in questa categoria, cioè, non esercitano un’attività commerciale vera e propria, ed hanno o proprietà fondiarie o proprietà immobiliari urbane. Poi vi sono enti collettivi nel campo civile con forti patrimoni, che non rientrerebbero probabilmente in nessuna delle categorie considerate dal punto di vista della tassazione in categoria B di ricchezza mobile. Ora, dato il principio di universalità di questa imposta straordinaria, noi faremmo una condizione di privilegio a un numero di enti che rappresentano un cospicuo patrimonio complessivo; e se è opinabile l’estensione dell’imposta proporzionale straordinaria sulle società – l’Assemblea si ricorderà che su questo punto molti critici di questa imposta si sono soffermati parlando di doppia tassazione – nel caso di istituzioni, fondazioni, enti morali in genere, non v’è doppia tassazione, cioè imposta progressiva che si applica alle persone fisiche ed imposta proporzionale che si applica alle società nonostante la tassazione degli azionisti, e si deve applicare a maggior ragione a quegli enti collettivi che non sono colpiti né dall’una né dall’altra imposta. Altrimenti la Commissione deve ribadire che si stabilirebbe un privilegio per determinati enti, che possono avere pingui patrimoni e che devono quindi dare un contributo a queste esigenze straordinarie del fisco.

Pregherei l’onorevole Ministro di considerare questo aspetto del problema. Bisogna che questa legge, se è dura e rigida dal punto di vista fiscale, colpisca tutte le sfere tassabili, si tratti di enti collettivi o di persone fisiche.

Come vedete, noi abbiamo cercato di portare il sistema di questa tassazione straordinaria ai limiti del possibile. Se non abbiamo potuto considerare di andare incontro a certe esigenze, come per esempio, la violazione del segreto bancario, lo abbiamo fatto per ragioni di politica contingente, per ragioni, direi, di opportunità, ma dove è possibile colpire attività patrimoniali senza che nasca qualsiasi turbamento, senza che sia controproducente, abbiamo il diritto di colpire. Non saprei come giustificare l’esenzione dall’imposta straordinaria di istituzioni, fondazioni, enti morali, che pur non essendo tassabili in categoria B, hanno un patrimonio notevole, di carattere terriero, mobiliare e possono dare un contributo allo Stato.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Vorrei fare una piccola osservazione formale, che sotto un certo aspetto non è nemmeno un emendamento.

PRESIDENTE. A quale testo?

PESENTI. Al testo della Commissione. Proporrei di aggiungere, dopo le parole: «È istituita», le altre «ai sensi dell’articolo 2», facendo cioè un richiamo all’articolo 2.

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo.

PESENTI. Per il resto mi rimetto alle osservazioni fatte dall’onorevole La Malfa.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Di fronte agli emendamenti proposti dal Governo e ad altri emendamenti che, mi risulta, sono già annunziati, chiederei una breve sospensione della seduta per esaminare questi emendamenti e poterne discutere con piena cognizione.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. A me pare che si dovrebbe, accostandosi al concetto espresso dal Ministro e venendo incontro ai giusti pensieri della Commissione, semplificare un poco in questa materia.

Mi pare che sia un concetto non troppo simpatico introdurre gli enti morali nella categoria degli enti che devono essere tassati; poi, viceversa, si viene alla lettera C dell’articolo successivo e si dice: «sono esenti gli istituti, opere pie, ecc.». In conclusione, all’articolo 1, lettera c), diciamo che sono tassabili tutte le fondazioni ed enti morali; all’articolo 2 diciamo che sono esenti tutti gli enti morali, istituti di beneficienza e all’ultima parte, finalmente, di questo articolo 2, si stabilisce in quale limite l’esenzione possa avvenire, e cioè che essa non avviene per la parte destinata ad attività produttive. Mi sembrerebbe molto più chiaro, facile e semplice radunare tutto nell’ultima parte dell’articolo 1, lettera c) e dire: «È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti: «a)… b)», ed infine: «c) istituzioni, fondazioni ed enti morali, ecc.», e poi proseguire: «in quanto esplicano o che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile categoria B».

PRESIDENTE. Ma questo – in fondo – è l’emendamento proposto dal Governo.

BERTONE. Sono entrato in ritardo nell’Aula e non ho seguito la discussione fin dal suo inizio. Comunque, faccio presente che con la mia proposta si va incontro ad un concetto che era stato affermato nella Commissione, con antiveggenza, dall’onorevole Dugoni, il quale aveva proposto una formula che aveva trovato consenso generale; prendere cioè, come base discriminante della tassabilità o meno, l’assoggettamento all’imposta di ricchezza mobile. Mi pare che quando noi diciamo una volta per tutte che gli enti morali come istituzioni, fondazioni ed opere pie sono tassabili solo in quanto esercitino un’attività tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, potremmo metterci tutti d’accordo.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Sono contrario alla proposta del Governo. Non avrei preso nuovamente la parola dopo le spiegazioni dell’onorevole La Malfa, ma poiché vedo che la questione è portata alla discussione ed ampiamente, credo di dover aggiungere qualche parola per spiegare la mia opposizione. In seno alla Commissione si è discusso ed all’inizio si era accettata anche la prima forma proposta, dal punto di vista tecnico, dal Governo, cioè tassazione degli enti per la parte del patrimonio destinato ad attività produttive tassabili in base alla categoria B.

Allora si è osservato che parecchi enti, specie i consorzi, hanno attività patrimoniali non tassabili in categoria B, per esempio gli enti cotonieri e gli enti serici, che pure sono importanti dal punto di vista economico e che non è giusto siano esenti. È per questo che allora si è accettato – secondo quanto stabilito nella legge del 1922 – di affermare il principio generale della tassabilità di tutti gli enti (istituzioni, fondazioni ed anche enti morali) stabilendo singolarmente le esenzioni all’articolo 2. In questo articolo, elencate le esenzioni, si è ripreso ancora il concetto della tassabilità ai fini dell’imposta di ricchezza mobile. Faccio presente che si è mantenuto il concetto di tassabilità anche di enti che svolgono attività di carattere, diciamo, filantropico e religioso (perché vi sono certi enti, anche di carattere religioso, come conventi od altro, che hanno parte del loro patrimonio destinato ad attività commerciali e con questa parte del patrimonio destinato ad attività commerciali fanno concorrenza a similari attività svolte da privati, per esempio, cliniche a pagamento, scuole a pagamento ed attività similari). E questa la ragione per cui si è voluto mantenere all’articolo 1 il criterio generale della tassabilità di questi enti: per non far sfuggire certi enti, che sono enti economici e tuttavia non sono tassabili in categoria B.

Successivamente, all’articolo 2, elencate le esenzioni, si può mantenere la limitazione posta dal Governo all’articolo l:

PRESIDENTE. Cominciamo con l’esaminare la materia del primo articolo. Pongo ai voti l’emendamento del Governo, cioè la soppressione all’alinea b) delle parole «società di fatto».

Avverto che la Commissione è d’accordo sulla soppressione di queste parole.

(La soppressione è approvata).

Pongo, ora, ai voti la proposta dell’onorevole Pesenti di aggiungere all’inizio le parole «ai sensi dell’articolo 2», dopo le parole «È istituito».

(È approvata).

Vi è ora l’altro emendamento del Governo all’alinea c) dell’articolo.

DUGONI. Pregherei di mettere in votazione quest’ultima parte in un secondo momento, per dar tempo di trovare un’intesa. Avevo chiesto la sospensiva; chiedo almeno che non si voti su questo punto.

CASTELLI AVOLIO. Se noi dobbiamo sospendere la seduta per trovare una formula che esprima l’accordo fra le varie parti, è un conto, ma se la sospensiva non è approvata, noi dobbiamo passare senz’altro alla votazione dell’intero articolo, perché non vi sarebbe nessuna ragione di sospendere.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Non so se l’Assemblea voglia votare la sospensiva o meno; però, prima che l’Assemblea passi alla votazione, io desidererei che il Ministro delle finanze desse una risposta alle argomentazioni della Commissione.

Per delucidazione dell’Assemblea ricordo che nella legge del 1922 gli enti che erano esplicitamente tassati come enti collettivi erano le istituzioni, le fondazioni e gli enti morali in genere. La legge del 1922 escludeva le società ed affermava il principio della tassazione straordinaria con una dizione generica: «istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere», affermando con ciò un principio di universalità dell’imposta straordinaria. L’esclusione delle società nella legge del 1922 era giustificata dal principio della doppia tassazione.

Facendo cadere la lettera c), in un certo senso, facciamo cadere tutto il significato dell’imposta straordinaria, che la legge del 1922 affermava in pieno. Anche nella relazione del Ministro Campilli la questione era posta in termini generali, cioè si diceva di escludere le fondazioni e gli enti morali per determinate ragioni, ma non si parlava mai di istituzioni, fondazioni ed enti morali tassabili in categoria B.

Ora, io mi permetto di insistere sull’importanza della questione e sulla responsabilità che l’Assemblea assume in questo problema. Noi abbiamo cercato di impedire che questa imposta non abbia carattere universale; lo abbiamo cercato in tutti i modi, rendendoci conto che questa è una imposta gravosa, che non fa piacere al contribuente. Abbiamo cercato di estenderla in maniera che il principio di universalità non venisse meno in nessun caso.

Cambiando questa dizione, non è affatto vero che noi, onorevole Bertone, con le esenzioni che stabiliamo, finiamo con il fare un’affermazione di principio. Le esenzioni sono state infatti riprese dalla legge del 1922, con la sola differenza di una maggiore facilitazione per quanto riguarda i benefici ecclesiastici. La legge del 1922, per quanto riguarda i benefici ecclesiastici, limitava l’esenzione a quelli che non avevano diritto di congrua. Ora invece noi li abbiamo esentati tutti. Ma dopo questo passo avanti, non crediate che, per il fatto di questa esenzione, la lettera c) non colpisca un numero notevole di enti. Li colpisce lo stesso, e se noi adottassimo la dizione del Governo, verremmo a restringere fortemente il numero di enti tassabili; non solo, ma verremmo meno a quel principio della universalità dell’imposta patrimoniale che noi abbiamo detto di affermare, che noi dobbiamo assolutamente affermare.

Ora, se l’onorevole Ministro mi potesse dire che tutti gli enti morali i quali esercitano un’attività economica sono tassabili in categoria B, è evidente che allora la Commissione sarebbe disposta a rivedere il suo giudizio; ma poiché ciò non è, questa non sarebbe se non la sola eccezione che in tutto il sistema della legge l’Assemblea verrebbe a fare. Chiedo pertanto che l’onorevole Ministro voglia compiacersi di fornire un chiarimento su questo punto essenziale. Non è questa, onorevoli colleghi, una questione di lana caprina, ma è una questione fondamentale che va assolutamente chiarita.

PRESIDENTE. Mi pare che non sia il caso di eccedere alla proposta di sospensiva dell’onorevole Dugoni, perché è bene che si addivenga ora ad un chiarimento su questa questione.

Invito l’onorevole Ministro delle finanze a fornire il chiarimento richiesto dall’onorevole Relatore.

PELLA, Ministro delle finanze. È una questione di impostazione fondamentale del problema e può darsi che i differenti ordini di idee dell’onorevole Relatore e del Governo non possano trovare un denominatore comune, in quanto l’impostazione è veramente diversa.

L’onorevole Relatore tende a far rientrare l’imposizione degli enti collettivi nel sistema dell’imposta progressiva personale, con riferimento al sistema adottato nel 1922.

A prescindere dalla bontà o meno di tale sistema, dato che nessuno può escludere che non sia stato il sistema più felice, resta fermo che per il Governo l’imposta cui ho accennato dianzi, rappresenta una imposta nuova che ha una sua fisionomia propria; tanto vero che si tratta di un’imposta proporzionale, la quale colpisce determinati settori che sono stati già colpiti dall’imposta progressiva sul patrimonio.

Il problema, quindi, non è tanto di estendere l’applicazione del tributo progressivo a un determinato settore, quanto di dare una legittimazione e una disciplina ad un nuovo tributo, che non si può confondere con l’altro.

Per respingere l’eccezione di duplicazione, che si verificherebbe per i tre quarti, forse, della zona di applicazione del nuovo tributo proporzionale, il Governo non vede che una sola soluzione; di configurare il tributo stesso come uno strumento di perequazione dell’onere fiscale nel settore dell’economia industriale e dell’economia commerciale, in modo da bilanciare il peso maggiore che l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio avrà nel settore terriero e nel settore edilizio, e in modo da integrare l’onere delle imposte che incidono sui redditi di categoria B, conseguiti nel corso della guerra e nell’immediato dopoguèrra.

Siccome la sola seria giustificazione della nuova imposizione è l’accennata funzione integrativa, il Governo non può decampare da tale ordine di idee, anche se, per avventura, marginalmente vi potesse essere qualche caso che rende perplessi. Ma i casi che rendono perplessi non sono, ad esempio, quelli dei consorzi, a cui ha accennato l’onorevole Pesenti, perché se si tratta di consorzi a sfondo economico è ben nota la prassi dell’Amministrazione finanziaria – fortunatamente affiancata dalla giurisprudenza prevalente – di colpire con l’imposta mobiliare di categoria B anche buona parte dei redditi propri di detti enti.

Per queste ragioni, pur non nascondendo la fondatezza di quanto espone l’onorevole La Malfa, almeno secondo il suo punto di vista, che non può però essere accolto dal Governo, devo insistere sull’emendamento proposto, anche dopo aver consultato i diversi Ministri tecnici interessati a questo problema.

PRESIDENTE. Possiamo allora passare alla votazione.

Pongo ai voti l’emendamento del Governo:

«All’alinea c) dopo le parole: enti morali in genere, aggiungere le parole: che esplicano un’attività produttiva di redditi tassabili ai fini dell’imposta di ricchezza mobile di categoria B, per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Ricordo che su questo emendamento del Governo, la Commissione ha espresso parere contrario.

(Dopo prova e controprova, è approvato – Commenti).

PESENTI. Chiedo la verifica del numero legale.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti, ormai la votazione è stata fatta.

Lei potrà chiedere la verifica del numero legale per la prossima votazione, ma quella ora avvenuta è perfettamente legittima e non è discutibile.

Dovrò ora porre in votazione l’ultimo comma dell’emendamento che va sotto il nome di articolo 1°:

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato».

ASSENNATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ASSENNATO. Prima che si passi alla votazione dell’ultimo comma, chiediamo di sospendere la seduta per pochi minuti onde sia possibile ai membri della Commissione di avere uno scambio di idee.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi dispiace di dover contraddire il collega onorevole Assennato, ma la Commissione era già d’accordo. Essa ha presentato un testo e rimane ferma su questo testo. Si è votato un emendamento del Governo, che è stato approvato a maggioranza.

Se l’Assemblea ritenesse di aderire alla sospensiva per trovare un accordo tra i vari Gruppi, sarebbe un’altra questione.

PRESIDENTE. Poiché la Commissione dichiara che non vede la necessità di una sospensiva, avendo già l’accordo sul progetto presentato, la richiesta dell’onorevole Assennato non può avere alcun seguito. Pongo quindi ai voti l’ultimo comma dell’emendamento.

(È approvato).

Il primo articolo si intende pertanto approvato nel seguente testo:

«È istituita ai sensi dell’articolo 2 una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti:

  1. a) società per azioni ed in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata;
  2. b) società in accomandita semplice, società in nome collettivo;
  3. c) istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B, per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività.

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato».

Gli onorevoli Pesenti, Scoccimarro e Dugoni propongono il seguente articolo 1-bis:

«Sono altresì soggetti di imposta gli enti di cui all’articolo precedente lettera c) quando sia chiara la loro natura di enti economici».

L’onorevole Pesenti ha facoltà di svolgere questo emendamento.

PESENTI. Con la proposta del Governo rimangono fuori (perché non si tratta né di società per azioni, né in accomandita, né di società a responsabilità limitata, né di società in nome collettivo) l’ente serico e l’ente cotoniero, enti cioè che hanno un patrimonio proprio ed una natura economica. Ora, se questa è la volontà del Governo e dell’Assemblea, io dico: non accettate il mio emendamento.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Desiderò che la Presidenza esamini, con la diligenza che le è propria, l’eccezione che parte da me in questo momento per il fatto che a me pare che il collega onorevole Pesenti abbia voluto, attraverso un emendamento, rimediare a quello che era stato l’esito della votazione passata sullo stesso argomento. Ora ci sono dei rimedi che in medicina sono permessi ed anche in altre cose, ma qui no: un emendamento non è permesso quando contraddice a quello che è stato il voto precedente dell’Assemblea. (Commenti). Io non pretendo in questo caso di insegnare a nessuno, solo avanzo un mio dubbio: a me pare che la proposta dell’onorevole Pesenti, per quanto bene architettata con quella pratica della questione ch’e egli ha, contrasti con il criterio antecedente, in modo che non si possa dar luogo ad una successiva votazione. La Presidenza vorrà dirimere il dubbio, con la competenza che io riconosco in essa.

PRESIDENTE. La Presidenza si rimetterà al giudizio dell’Assemblea.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Desideravo fare una proposta sospensiva in questo senso: se credono la Commissione ed il Governo di rinviare la votazione di questo articolo in prosieguo, per dar modo di fare quelle indagini in materia che sono opportune.

Mi pare, ad udire l’emendamento dell’onorevole Pesenti, che bisogna fare molta attenzione, in quanto quello che egli dice ha un contenuto che preoccupa. Penso che non ci possa essere intenzione di sottrarre dalla tassazione enti come quelli che egli ha suggerito. Quindi sarebbe opportuno che l’esame dell’articolo fosse fatto con un certo approfondimento. Perciò propongo la sospensiva.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prima di arrivare ad una eventuale sospensione, desidero si sappia che il Governo concorda nell’ordine di idee dell’onorevole Pesenti, se effettivamente si tratta di comprendere nella tassazione soltanto quegli enti a scopo esclusivamente economico, che rientrano nella zona marginale della categoria B.

Questa dichiarazione desidero fare immediatamente se con essa si viene a dare una interpretazione eccessivamente fiscale alla mozione dei redditi della categoria B; nella previsione, però, che la dichiarazione stessa possa servire come avviamento alla ricerca di una formula di transazione. Vorrei che l’onorevole Pesenti rivedesse la forma del suo emendamento, in vista di precisare lo scopo che con lo stesso intende raggiungere.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Sono d’avviso che al testo si possa aggiungere la parola «prevalente». Mi pare che questa potrebbe essere sufficiente per acquietare tutte le inquietudini. «Sono altresì soggetti di imposta gli enti di cui alla lettera c) quando sia chiara la loro prevalente natura di enti economici».

Se andiamo al concetto di esclusività esposto dal Ministro, noi abbiamo allora una configurazione che è strettamente affiancata a quella della tassazione in categoria B. Se invece mettiamo il «prevalente», lasciamo quella sufficiente elasticità di giudizio per escludere tutte quelle istituzioni e quelle fondazioni le quali abbiano carattere esclusivamente di sostegno di una attività morale o assistenziale e invece colpiamo quelle le quali di questa attività assistenziale o morale od organizzativa fanno soltanto una specie di schermo per una vera e propria attività prevalentemente economica.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Penso che ci dobbiamo preoccupare seriamente di coloro che dovranno interpretare ed applicare la legge e quindi non creare la possibilità di equivoci e di confusioni, in modo che l’ufficio finanziario che dovrà applicare la legge si trovi a non sapere se un ente compreso nella categoria c), da noi votata un momento fa, debba essere tassato sotto un altro aspetto.

Comprendo l’obiezione sollevata dall’onorevole Pesenti e cioè che vi sono degli enti (per esempio l’ente cotoniero, l’ente serico) i quali non sono enti morali, non rientrano in quella categoria e non sono soggetti a tassazione fiscale in categoria B. Io già non riesco a comprendere come mai questi enti, se esercitano un’attività commerciale ed industriale produttiva di redditi, debbano sfuggire alla tassazione. In verità questo mi riesce alquanto oscuro, perché mi sembra che se vi è un ente che esercita una attività commerciale o industriale, e se noi colpiamo di imposta gli enti morali, le opere pie, che per una parte della loro attività danno luogo a reddito commerciale, non vedo perché non dobbiamo colpirlo. Comunque, qui bisogna essere precisi. Noi abbiamo votato un testo un momento fa, il quale è così concepito: «È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio sui seguenti soggetti: c) istituzioni, fondazioni, enti morali in genere che esplicano una attività produttiva di reddito tassabile ai fini della ricchezza mobile in categoria B per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Ora, se l’onorevole Pesenti ha pensato che vi sia qualche ente morale che non possa essere colpito, mi pare che sia in errore, perché l’ente morale, in quanto esercita una attività industriale o commerciale produttiva di reddito, è tassabile. Se ha voluto alludere ad altri enti, come penso, che non siano né opere pie, né enti morali, né istituzioni, né fondazioni, ma che siano quegli enti cui ha accennato, allora io credo che qualche temperamento si potrebbe trovare, per cui anche questi enti non sfuggano all’onere cui sono sottoposti tutti gli enti morali.

Quindi basterebbe dire: Fermo restando quanto deliberato nella lettera c) gli altri enti economici che abbiano una chiara natura economica, possono essere soggetti di imposta ecc. Bisogna, comunque, che quanto abbiamo votato nella lettera c) non sia modificabile.

GRONCHI. L’emendamento mi pare superfluo: il concetto è affermato nella lettera c).

BERTONE. Il Ministro delle finanze può dare forse qualche spiegazione. Non riesco a comprendere come vi possano essere enti che esercitano una attività commerciale o industriale, che non siano ricercati per la tassazione.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prendendo la parola stamane, già ho accennato di scorcio che il Ministero intende insistere sulla formula «tassabile in categoria B» perché per tal modo è possibile, mediante un’attività particolarmente vigile dell’Amministrazione finanziaria, acquisire alla imposizione in categoria B, settori che finora, o per incertezza di giurisprudenza e per consuetudine invalsa, erano trascurati dagli organi preposti alla tassazione della categoria B. E non ho che da augurarmi che la giurisprudenza affianchi nel prossimo futuro l’amministrazione finanziaria nei suoi sforzi.

Vi sono delle zone di particolare incertezza. Gli onorevoli colleghi non mi perdonerebbero se scendessi a troppi dettagli o se facessi qui discussioni di orientamento giurisprudenziale in particolari questioni. Ma mi sia lecito richiamare, per esempio, tutta la materia dei consorzi, in cui l’amministrazione finanziaria continua a sostenere che tutto ciò che il Consorzio realizza, come eccedenza attiva alla fine dell’esercizio rispetto all’inizio, è materia tassabile e cioè costituisce reddito di categoria B.

Non sempre l’amministrazione finanziaria ha avuto il conforto della giurisprudenza in sede amministrativa e giudiziaria.

Sopratutto allo scopo di avere, in sede legislativa, lo strumento che risolva in senso affermativo il problema, quanto meno ai fini di questa particolare imposta, il Governo, accoglie lo spirito informativo dell’emendamento Pesenti.

Per quanto riguarda gli enti ai quali l’onorevole Pesenti ha accennato, ritengo che, a rigore, già nel quadro attuale della legislazione, sarebbe possibile farli entrare nella tassazione della categoria B, dato e non concesso che già non vi siano entrati.

Ma, se sussiste qualche perplessità in materia, tale emendamento permetterà di risolvere in sede legislativa il problema e con ciò credo di non essere in contraddizione col principio fondamentale che il Governo ha posto a base del suo emendamento: che cioè l’imposta deve incidere sul settore dell’attività industriale e commerciale.

PRESIDENTE. L’onorevole La Malfa ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Non credo che ci sia conciliabilità tra l’emendamento Pesenti e quello che l’Assemblea ha deliberato per la lettera c). Aveva effettivamente ragione il collega Micheli: non facciamo rientrare dalla finestra quello che abbiamo escluso dalla porta.

Io chiedo all’onorevole Ministro: o considera gli enti economici in categoria C o non li considera; o i casi sollevati dall’onorevole Pesenti rientrano in categoria C o non vi rientrano. Dal punto di vista finanziario – e do ragione all’onorevole Bertone – non si può creare una categoria, che non è definita. Allora bisogna votare alla lettera c): «Istituzione, fondazione ed enti morali, di carattere prevalentemente economico».

A mio giudizio, dal punto di vista della tecnica finanziaria siamo di fronte a una definizione del tutto generica, che non definisce gli enti secondo gli obiettivi del fisco, ma secondo una certa interpretazione di natura economica.

Ma, a questo punto, lascio la responsabilità al Governo, che ha assunto posizione ed ha valutato cosa importi per la esenzione la formula da esso presentata.

Tuttavia, come Relatore, ho l’obbligo di chiarire un punto. Sul problema degli enti collettivi, fin dalla prima relazione ministeriale, è sorto un equivoco molto grave. Ed io devo confessare che, quando ho visto la relazione ministeriale, ho cercato di capire la natura di questo equivoco. Qual è? È il trattamento che la legge fa agli enti di carattere religioso ed ecclesiastico. Questo è l’equivoco fondamentale esistente nella legge e contenuto nella prima relazione ministeriale. Mi dispiace dire all’Assemblea che io ho trattato questa questione con estremo senso di responsabilità; sia nella mia relazione sia in tutti i lavori nessuno ha sentito dal Relatore partire una voce, che volesse significare una posizione preconcetta o faziosa in questo problema.

A questo punto, però, mi è obbligo sottoporre all’Assemblea tutta la portata del problema: lo attesto come obbligo morale. Nella relazione ho esposto tutti i termini del problema, e se l’Assemblea non l’ha avuto chiaro dianzi, mi è d’obbligo chiarirlo adesso. C’è una disposizione all’articolo 29 del Concordato, lettera h), che esenta dai tributi tutti gli enti ecclesiastici equiparabili agli istituti di beneficienza e di assistenza, in quanto siano esentabili dai tributi. Mai, nella Commissione è sorta eccezione a questo proposito. Solo l’onorevole Scoccimarro, in una seduta della Commissione, aveva proposto di non esentare dall’imposta, gli istituti di beneficienza e di assistenza, evidentemente per non applicare la norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato. Se noi non esentiamo dall’imposta gli istituti di beneficienza e di assistenza non possiamo applicare l’articolo 29, lettera h) del Concordato e quindi tutti debbono pagare.

A questo giustamente la Commissione ha risposto che gli istituti di beneficienza e di assistenza non possono essere sottoposti all’imposta straordinaria per i loro scopi. Quindi bisogna mantener fede all’articolo 29 del Concordato. Poi viene una seconda questione: il trattamento dei benefici ecclesiastici che, secondo le valutazioni che ho potuto fare, non sono esenti dall’imposta straordinaria sul patrimonio e non sono, a mio giudizio, assimilabili. Il Governo potrà dare in proposito più ampi chiarimenti e dirci quali sono gli enti ecclesiastici compresi nell’articolo 29 del Concordato. La legge sull’imposta progressiva del 1922 tassava in effetti i benefici ecclesiastici, ma concedeva anche facilitazioni, esentando i benefici ecclesiastici che avevano diritto a congrua e sottoponendo a tributo solo i benefici ecclesiastici che non avevano diritto a congrua. Ma anche a questi ultimi faceva un trattamento di favore, perché distingueva tra nuda proprietà ed usufrutto. Stabiliva l’età di trenta anni per calcolare la rendita e l’usufrutto e tassava la nuda proprietà.

L’Assemblea può essere anche più larga della legge del 1922, però con conoscenza di causa. L’obbligo del Relatore è di porre i termini del problema. L’Assemblea deciderà poi nel suo sovrano giudizio.

Il problema si è trascinato ed i colleghi della Commissione sanno che esso è stato sempre nel sottosuolo di tutta la discussione.

Quando la Commissione ha presentato il progetto, che è frutto di un compromesso, ha compiuto – e debbo dirlo agli amici democratici cristiani – un atto di responsabilità e di coraggio, perché ha esentato benefici maggiori e minori, con e senza diritto a congrua: cioè è andata oltre la legge del 1922. Però, colleghi della Democrazia cristiana, oltre i benefici, oltre gli istituti previsti dall’articolo 29, lettera h) del Concordato, ci sono altri istituti che non rientrano nella categoria B dell’imposta di ricchezza mobile. Debbo dire, in coscienza di Relatore: tassiamo almeno questi istituti.

Con la norma oggi proposta dal Governo, si esentano, egregi colleghi, enti economici che non sono tassabili in categoria B, non so se il «Touring Club» sia tassabile in categoria B, ma anche molte attività civili non tassabili in categoria B e che possono avere forti patrimoni.

E diciamo francamente che vi sono anche istituti religiosi che non rientrano nell’articolo 29, che non rientrano fra i benefici ecclesiastici e che sono tassabili. Alcuni di noi pensano che questi istituti, non essendo dimostrato che abbiano fine di culto, perché il fine di culto è accertato dall’articolo 29, non avendo un patrimonio destinato ad un’attività ecclesiastica, alcuni di noi pensano che questi istituti debbano essere tassabili. Il Governo si assume le responsabilità di adottare, per la tassazione degli enti collettivi, un criterio diverso dalla legge del 1922. Non ho nulla da eccepire dal punto di vista di logica formale. Però devo dire che il Governo si è assunto la responsabilità di esentare da un’imposta straordinaria una quantità di enti che non rientrano nella categoria B, e che sono numerosi, perché fra la categoria B e l’esenzione di cui all’articolo 2, onorevole Bertone, c’è una quantità di enti che possono essere tassati e che il Governo non ha voluto tassare.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Dopo quanto ha detto l’onorevole Relatore, riterrei che sarebbe più che opportuno rinviare l’esame di questo articolo, in modo da trovare una soluzione che sodisfacesse le diverse opinioni.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Poiché il Relatore, onorevole La Malfa, ha ricordato un momento della discussione svoltosi in seno alla Commissione a proposito di una mia proposta di esclusione dall’esenzione degli enti di assistenza e beneficienza (e questo per correggere quello che poteva divenire un difetto della legge, per colmare una lacuna della legge stessa) io devo completare le cose dette dall’onorevole La Malfa e precisare gli obiettivi ai quali tendevo.

È vero che io ho chiesto che non venissero esentati gli enti di assistenza e beneficienza: di questo problema io ho già parlato anche in sede di discussione generale. In questo modo si evita di porre in discussione l’articolo 29 del Concordato, riservandoci la possibilità di esentare gli enti religiosi che svolgono opera di culto, di assistenza e beneficienza, ma anche di chiamarli a contribuire all’imposta nella misura in cui tali enti svolgono un’attività produttiva di reddito, anche se non tassabile in ricchezza mobile, categoria B. Al fondo di tutta la questione c’è questo problema: un ente religioso, che però svolge un’attività economica, deve pagare come gli altri enti economici che producono redditi, sì o no? Noi diciamo di sì, alcuni dicono di no; questo è il problema che si deve risolvere.

Ora, io avevo proposto e ripropongo adesso che dalle esenzioni siano cancellati gli enti di assistenza e di beneficienza e che nella legge si dica esplicitamente che il Governo, per tutti gli enti di assistenza e di beneficienza religiosi e non religiosi può assegnare, in tutto o in parte, un rimborso dell’imposta pagata ed eventualmente intervenire con un aiuto che sia anche maggiore.

Così si evita di esentare gli enti che svolgono un’attività produttrice di reddito. Tanto più è doveroso oggi insistere su questo punto, in quanto, contro il mio emendamento, si è ingiustamente voluto stabilire l’esenzione da questa imposta dei benefici ecclesiastici. Perciò io ripresenterò ora un emendamento a proposito di questo articolo, in cui sia detto che i benefici ecclesiastici esenti dall’imposta straordinaria sono quelli che hanno diritto a congrua.

Io desidero che se non si vuole questo, sia chiaro che cosa significa il voto che si dà e non si diano dei voti generici, in cui taluno vota una cosa credendo di votarne un’altra. Io non dico questo per ragioni di faziosità. (Commenti al centro). Io mi aspettavo anzi che quanto dico venisse detto proprio dai vostri banchi (Accenna al centro) per un principio di equità e di giustizia. Io non dico che gli enti di assistenza e di beneficienza debbano essere tenuti in non cale, debbano essere trascurati dalla legge o privati dell’aiuto dello Stato; ma io contesto che si stabiliscano dei privilegi che non hanno giustificazione.

Io propongo, pertanto, che la lettera c) del primo comma sia emendata nel senso che i benefici i quali godano dell’esenzione siano soltanto quelli che hanno diritto a congrua.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io desidero parlare perché è opportuno che, dopo le parole dell’onorevole Scoccimarro, mi riallacci al mio ordine del giorno che ebbe l’onore dell’approvazione anche del Presidente. Mi vi riallaccio perché l’onorevole Scoccimarro ha accennato al suo intendimento di presentare un emendamento al comma che si riferisce ai benefici ecclesiastici.

PRESIDENTE. Ne parleremo poi, onorevole Micheli.

MICHELI. No, perché è una cosa già votata e quindi l’eccezione che io ho fatto per l’onorevole Pesenti e che era venuta a cadere, in quanto il suo emendamento è stato così bene mutato e predisposto, che ha superato l’eccezione fatta da me prima, ritorna invece ora, perché si è venuta a ripetere la situazione, in seguito a quanto ha detto or ora l’onorevole Scoccimarro. È vero che io potrei insorgere quando egli lo presenterà. Ma, per economia di discussione, è meglio che io lo avverta di questo, perché egli, che è tanto intelligente e amante dell’economia della discussione, possa evitare di farmi parlare un’altra volta; il che è sempre vantaggioso per l’Assemblea, che non sempre mi ascolta con la cortese attenzione che mi ha concesso questa volta.

Signor Presidente, giacché ho la parola, debbo aggiungere una dichiarazione di indole generale, che mi è suggerita dalle parole che ha detto da una parte l’onorevole Ministro, il quale ha parlato riconoscendo che sono eccessivamente fiscali certe norme che si vengono ordinando e stabilendo ora, e dall’altra parte dall’onorevole Scoccimarro, il quale ha pure riconosciuto che si tratta di una legge dura, per la quale si devono limitare le esenzioni più che sia possibile; ma qualcheduna si deve pure concedere, in quanto ci troviamo in un momento, nel quale l’equità e la giustizia di fronte al contribuente devono essere sentite da tutti. Per questo io devo elevare una voce di protesta in quest’Aula contro lo spirito che domina in questa legge; capisco e comprendo le necessità dello Stato, che sono gravissime, per cui noi dobbiamo creare una legge eccezionale, ma dobbiamo dire chiaro e forte che sono criteri eccezionali.

PRESIDENTE. C’è già stata una discussione generale.

MICHELI. Sarò brevissimo, se lei crede; e sempre nell’interesse dell’economia della discussione.

PRESIDENTE. Queste sono divagazioni, assolutamente inutili in questo momento.

MICHELI. Per dichiarazione di voto, ho diritto di parlare, signor Presidente. Riconosco che in questo momento l’Assemblea non è Costituente; l’Assemblea nostra qui adempie ora una funzione legislativa. Di fronte a questo io debbo ricordare ai colleghi che i Parlamenti furono costituiti per approvare i tributi, in difesa del contribuente; lo Stato che li escogitava si supponeva fin da allora che fosse sufficientemente forte senza bisogno di tanti volontari aiuti.

Una voce. Ma qui siamo in condizioni opposte.

MICHELI. Me le spieghi queste condizioni opposte. (Rumori a sinistra). Permettete, o colleghi, che io vi dica (Interruzioni a sinistra) che voi non ricordate chi io sia…

Voce a sinistra. Ci parli dei piccoli proprietari!

MICHELI. Caro signore, lei non ignora che è cinquant’anni che io parlo in quest’Aula in difesa della piccola proprietà. (Rumori a sinistra).

Lei doveva ancora nascere! Ora io, per terminare in modo meno bellicoso, aggiungerò un pensiero che vorrei applicare al contribuente italiano. Io lo lessi una volta a proposito dei clienti nell’albo di un albergo svizzero: «Se agli uccelli di passaggio, voi togliete le piume, torneranno; ma se togliete loro le penne, specialmente le remiganti, non torneranno più». Così per i contribuenti: se togliamo loro tutto, essi scompariranno, ed il grave danno sarà per il nostro Paese. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Io credo che si sia in condizioni di passare alla votazione dell’articolo 1-bis.

Mi pare, onorevole Cifaldi, che ella possa rinunciare alla sua proposta di rinvio.

CIFALDI. Rinunzio.

PRESIDENTE. All’obiezione dell’onorevole Micheli sulla possibilità o meno di procedere alla votazione su questo articolo, credo si possa opporre la considerazione che noi ci troviamo di fronte all’opinione della Commissione, identica a quella dell’onorevole Micheli, e all’opinione dell’onorevole Ministro, che è contraria e condivide il punto di vista dell’onorevole Pesenti. Non facciamo due votazioni per stabilire se si possa procedere. Chi voterà contro questo emendamento voterà contro l’opinione del Ministro e dell’onorevole Pesenti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Ho l’obbligo di dichiarare che di fronte all’emendamento Pesenti io non ho che un’opinione personale. Per quanto riguarda la Commissione non posso dir nulla.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Il punto di parziale divergenza con l’onorevole Pesenti era questo; alla formula, che mi sembrava vaga, «abbiano carattere e natura di enti economici», io proponevo di aggiungere: «abbiano esclusivo carattere e natura di enti economici».

La soluzione di ripiegare su un semplice concetto di prevalenza non mi tranquillizza.

Per poter dare il definitivo parere favorevole del Governo, suggerisco di aggiungere: «abbiano in assoluta prevalenza carattere e natura di enti economici». Con questa aggiunta, il Governo dà parere favorevole.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Se effettivamente ci sono le parole «assoluta prevalenza» si potrebbe essere più tranquilli, quantunque sia molto strano che sia il Ministro delle finanze il quale, invece d’allargare la sfera dei soggetti dell’imposta, cerchi di restringerla. In ogni caso però, ripeto, se ci sono le parole «assoluta prevalenza», si può anche accettare, perché è un criterio che l’Amministrazione stabilirà di volta in volta. Non si parli però di «esclusività», perché anche un ente di carattere economico come un consorzio o una società di assicurazione ci potrebbe dire che non ha esclusivamente fine di lucro, ma ha il fine di migliorare le condizioni dei suoi associati.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. D’accordo sulla «assoluta prevalenza». Ma resta però da pregare l’onorevole Pesenti (che ha anche un’esperienza specifica di Governo) di considerare che non è esatto che il Ministro delle finanze debba preoccuparsi soltanto di allargare la zona dei contribuenti, perché, se ciò fosse esatto, gli sgravi, ad esempio, non sarebbero di sua competenza.

Avrei dovuto negare l’abolizione della C-2 agli statali, avrei dovuto negare l’elevazione del minimo imponibile a 240 mila lire per la categoria C-2 ed altri sgravi su cui non mi soffermo! (Applausi al centro).

Il Ministero delle finanze deve svolgere una sua politica tributaria diretta genericamente ad incrementare il gettito delle entrate.

Ma, in certi momenti, deve tener anche conto di determinate considerazioni di ordine sociale e di ordine sistematico che possono stabilire dei limiti all’attività tributaria.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Non per entrare in una discussione di carattere politico (Commenti) ma per una semplice dichiarazione, io do atto al Ministro che ha chiarito pienamente quali sono: soggetti che vuole esentare, perché, se è vero che gli sgravi sono stati concessi altre volte in seguito alle pressioni giuste delle masse lavoratrici, in questo caso si tratta invece di esentare certi particolari soggetti, che sono appunto gli enti ecclesiastici di cui abbiamo parlato.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti allora ella accetta la dizione: «in assoluta prevalenza»?

PESENTI. Sì, l’accetto.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea voti pure, ma a me sembra un’assoluta stortura mettere questo emendamento dopo la votazione dell’articolo. Accettiamo piuttosto la sospensiva, in modo che si possa raggiungere un accordo per rettificare la lettera c). È meglio dire: «enti di natura esclusivamente economica» e far sparire la lettera b). Altrimenti nessuno capirà nulla.

PRESIDENTE. Mettiamo le cose su questo terreno. Le osservazioni dell’onorevole La Malfa possono essere accolte. Credo che questo sia il momento nel quale possiamo deliberare di sospendere la votazione di questo articolo 1-bis, per rimetterla al momento nel quale la dizione possa essere armonizzata. Si potrebbe passare all’articolo 2.

LA, MALFA, Relatore. Non si può andare avanti perché l’articolo 2 è in relazione stretta con questo. Siccome tutte queste questioni nasceranno a proposito dell’articolo 2, insisto sulla sospensiva, senza passare all’articolo 2.

PRESIDENTE. Sta bene. Sospendo la seduta per alcuni minuti.

(La seduta, sospesa alle 11.20, è ripresa alle 12).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, l’emendamento proposto dall’onorevole Pesenti corrisponde allo scopo di acquisire al particolare tributo anche quegli enti che, pur svolgendo una attività in assoluta prevalenza lucrativa, e perseguendo finalità di natura economica, già non siano per insufficienza di norme o per incertezza di interpretazione, soggetti al tributo di ricchezza mobile in categoria B.

Il Governo ha già avuto occasione di manifestare il suo pensiero, nel senso che ritiene che gli enti della specie debbano essere soggetti alla nuova imposta, in quanto è suo fermo intendimento – eventualmente anche risolvendo in sede legislativa questioni controverse in ordine alla applicabilità dell’imposta mobiliare di categoria B – che ogni attività lucrativa, che comporti il conseguimento di un reddito, non sfugga al tributo mobiliare. Se, attraverso l’integrazione legislativa o attraverso la prassi della imposta mobiliare, si raggiunge questo risultato, evidentemente, per inevitabile conseguenza, si raggiunge anche il risultato di acquisire alla tassazione straordinaria gli enti contemplati dall’emendamento Pesenti.

Dichiaro, in modo formale, che il Governo provvederà immediatamente a riesaminare, anche in sede legislativa, il problema del regime dei redditi di questi enti, in modo che, quando sussistano i presupposti per l’applicazione del tributo mobiliare, le deficienze legislative e le incertezze giurisprudenziali non concedano esenzioni che non sarebbero giustificate.

Davanti a questa assicurazione, penso che l’onorevole Pesenti non dovrebbe avere difficoltà ad aderire all’invito che gli rivolgo di ritirare l’emendamento presentato.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti?

PESENTI. Accetto l’invito del Governo. Vorrei pregare però l’onorevole Pella di precisare che l’accertamento di tassabilità ai fini di ricchezza mobile in categoria B, così allargata, deve avere i suoi effetti, anche per coloro che eventualmente oggi non fossero tassabili in categoria B; cioè non si tratterebbe qui evidentemente di ammettere la retroattività della legge, ma soltanto di interpretazione inclusiva di questi enti, di queste attività tassabili di categoria B.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Assicuro l’onorevole Pesenti che – se dovranno essere emanate norme legislative – queste avranno carattere interpretativo e non innovativo; e appunto perché interpretative, con effetto, non dirò retroattivo, ma quanto meno, applicabile a tutti i casi per i quali è ancora possibile addivenire al riesame degli accertamenti, nei limiti imposti dai termini di prescrizione.

Vorrei anche rivolgere all’onorevole Pesenti la preghiera di dare il suo contributo allo studio di tali norme, appena il Governo metterà sul tappeto la questione.

PESENTI. Aderisco.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Noi saremmo stati contrari all’emendamento e quindi dichiaro, a nome del Gruppo cui appartengo, che mi compiaccio vivamente che si sia evitata questa questione, anche secondo il parere che poco fa io avevo manifestato, e cioè che non è con provvedimenti legislativi che si deve scendere ai dettagli nel risolvere la questione.

Noi abbiamo approvato con l’articolo 1 gli enti che sono sottoposti alla tassa; con l’articolo 2 approveremo le sanzioni. Se vi sarà qualche ente che sarà ricercato al di fuori delle categorie che sono state specificatamente accennate, farà la sua eccezione; l’ufficio dirà le sue ragioni; la procedura sarà salva e non avremo creato complicazioni inutili.

Le assicurazioni date dal Ministro, che cioè in via di interpretazione si vedrà di chiarire la questione che possa riguardare enti che sono specificatamente compresi nell’articolo 1 e nell’articolo 2, ci soddisfa pienamente.

PRESIDENTE. Si passa allora all’emendamento proposto dalla Commissione come secondo articolo:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria di cui all’articolo precedente:

  1. a) le società che, negli ultimi cinque anni, abbiano esercitato una attività limitata esclusivamente alla proprietà ed alla gestione di beni immobili urbani, anche se nell’atto costitutivo siano state previste operazioni di commercio;
  2. b) le società cooperative di consumo, produzione e lavoro, e i loro consorzi, che siano rette con i principî e con le discipline della mutualità e il cui capitale versato non superi le lire 300.000, salvo particolari disposizioni legislative;
  3. c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i beneficî ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile in categoria B».

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Mi sembra inutile porre in discussione la lettera c), in quanto essa deve essere soppressa in seguito alla modifica apportata alla lettera c) dell’articolo primo.

PRESIDENTE. D’accordo.

A questo testo sono stati proposti i seguenti emendamenti:

«Alla lettera b) sopprimere le parole: e il cui capitale versato non superi le lire 300.000.

«Dugoni, Scoccimarro».

«Alla lettera b), dopo le parole: e lavoro, aggiungere: e di credito e sostituire: 300.000 con 500.000.

«Adonnino».

«Sostituire la lettera b) con la seguente:

  1. b) le società cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, edilizie, della pesca, di trasporto e loro consorzi, che siano rette con i principî e con la disciplina della mutualità, secondo le leggi in vigore. Sono altresì esenti le società di mutuo soccorso legalmente costituite.

«Grazia, Cerreti».

«Alla lettera b) aggiungere: nonché le cooperative per la costruzione di case economiche.

«Caroleo».

«Alla fine della lettera c) alle parole: beneficî ecclesiastici maggiori e minori, sostituire: benefìcî ecclesiastici non aventi diritto a congrua.

«Pesenti, Scoccimarro».

Credo si possa rinunciare allo svolgimento degli emendamenti, che sono chiari nella loro dizione.

Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti alla lettera b).

LA MALFA, Relatore. Togliere del tutto la limitazione del capitale mi sembra eccessivo. Si potrebbe, eventualmente, discutere su un elevamento.

PRESIDENTE. Chiedo il pensiero del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo, per le ragioni che ha enunciate l’onorevole Relatore, che l’Assemblea voglia tener fermo il testo proposto dalla Commissione, anche perché si tratta di lire 300.000 di capitale nominale versato, e sappiamo in questa materia che le 300.000 lire lasciano intravedere una realtà patrimoniale molto più elevata.

Comunque, se l’onorevole Relatore ritiene che possa essere elevato il limite di lire 300 mila, il Governo potrebbe anche venire incontro.

Per quanto riguarda i consorzi, si potrebbe introdurre un limite di valutazione del patrimonio. Mentre per le cooperative esiste un capitale nominale a cui fare riferimento, per i consorzi, mancando un capitale, o, quando il capitale esiste, non risultando da un bilancio, si potrebbe configurare un limite di esenzione ragguagliato al patrimonio effettivo valutato in sede fiscale.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidererei far presente, a proposito del problema delle cooperative, che, se in via formale è giusto stabilire un limite di capitale, tuttavia devo ricordare che con il mutamento di valori avvenuto negli ultimi anni, anche se ci si richiama ai limiti posti dal Codice civile, quei valori non rispondono più alla realtà. E se noi oggi dovessimo escludere dalle esenzioni quelle cooperative il cui capitale versato non supera le 300.000 lire, io temo che lo scopo voluto dalla legge non venga raggiunto. È difficile che oggi esistano cooperative che abbiano versato meno di 300.000 lire, perciò qui si pone questa soluzione: o noi facciamo una rivalutazione in rapporto ai valori attuali o sopprimiamo ogni limite.

Nei limiti stabiliti dalla legge nessuna cooperativa resta esente dalla imposta straordinaria.

Sulla proposta delle 500.000 lire, non so come pronunciarmi: non so se questo è un limite giusto o no: ho l’impressione che sia troppo basso. Sono contrario alla inclusione delle cooperative di credito, che nulla hanno a che vedere con quelle di produzione, di consumo e di lavoro.

Voci al centro. Le Casse rurali!

SCOCCIMARRO. Perciò io manterrei l’emendamento di soppressione del limite di 300.000 lire. Lo scopo che il Governo si è proposto con la norma che regola le cooperative, non viene raggiunto, se viene mantenuto quel limite. Perché di cooperative che superano quel limite non ne troverete neppure una.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione propone il seguente emendamento: «…ed il cui patrimonio non superi i 2.000.000» in sostituzione della dizione: «ed il cui capitale versato non superi le lire 300.000».

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Credo che, a prescindere dal giudizio sulla cifra, l’onorevole Relatore abbia esattamente impostato il problema, in quanto la formula proposta inquadra l’esenzione che la Commissione ed il Governo intendono accordare alle cooperative, ai consorzi ed agli enti assimilabili, qualora abbiano una modesta capacità contributiva.

La tentazione di riferirsi ad un elemento automatico aveva portato l’onorevole Relatore a proporre, ed il Governo ad accogliere, il riferimento ad una cifra di capitale nominale.

Ma è esatto precisare che, mentre questa cifra di capitale nominale può avere un significato per le vecchie cooperative, ha un significato tutto diverso per le cooperative di recente costituzione.

Perciò le agevolazioni debbono essere stabilite in base a un minimo di esenzione ragguagliato ad un patrimonio effettivo.

Il limite di 2.000.000 ha il pregio della congruità per i risultati che vuol raggiungere. In siffatto ordine di idee, credo che debbano cadere le critiche formulate dall’onorevole Scoccimarro quanto alle esenzioni delle cooperative di credito, perché se è esatto che le 300 mila lire di capitale nominale versato potrebbero nascondere una realtà ben diversa, una volta limitata l’esenzione ai 2.000.000 di patrimonio effettivo, le cooperative, appartengano al settore del consumo, della produzione, della costruzione edilizia o del credito, meritano, a giudizio del Governo, di essere agevolate.

Per questo il Governo dà parere favorevole al nuovo emendamento proposto dalla Commissione.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Devo brevemente replicare, per dichiarare che non posso accettare la limitazione patrimoniale proposta dall’onorevole Relatore, per la semplice ragione che noi non conosciamo le conseguenze di questa limitazione. Se noi conoscessimo queste conseguenze, cioè quali percentuali di cooperative e quali possibilità di lavoro rimangono, noi saremmo anche disposti ad accettare una limitazione. In queste condizioni noi sappiamo che le cooperative, praticamente, solo dalla liberazione hanno ripreso una attività nel senso veramente cooperativistico. Esse hanno pertanto assunto una struttura tutta recente, che è stata creata a forza di crediti ed a forza di buona volontà, di braccia e di lavoro. Se noi oggi andiamo a colpire questi piccoli patrimoni, che si sono appena assestati, o che stanno ancora assestandosi, io credo che daremmo un colpo deciso allo sviluppo della cooperazione in Italia.

Per questa ragione, e proprio per la ragione della freschezza patrimoniale di queste aziende, io insisto che sia tolto ogni limite al capitale delle cooperative che devono essere esentate dall’applicazione dell’imposta.

ADONNINO. Riferendomi al nuovo concetto, che ci si debba riferire al patrimonio, osservo che i patrimoni fino a tre milioni, in linea generale, sono esentati.

PELLA, Ministro delle finanze. Il minimo di tre milioni riguarda l’imposta straordinaria progressiva.

ADONNINO. Chiederei che si andasse anche qui a tre milioni.

PRESIDENTE. Sicché, onorevole Adonnino, ritira la seconda parte del suo emendamento?

ADONNINO. Lo trasformo nel senso di stabilire la cifra di tre milioni di patrimonio anche per le cooperative.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. In sostanza, bisogna tener presente che la quota indice è minima, e quindi si vengono proprio a colpire dei piccoli possessori di capitale. Quindi, anche se questo si eleva di un milione o di due milioni, ci troviamo sempre nella stessa condizione: ripeto che non bisogna guardare il patrimonio della cooperativa, ma le singole quote che lo compongono.

Si sono costituite in Italia diverse piccole cooperative fra impiegati, specialmente per la costruzione di case economiche. Siccome nella dizione queste potrebbero non essere comprese tra le cooperative di consumo, di produzione e lavoro, crederei opportuno fare questa aggiunta all’emendamento dell’onorevole Cerreti.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidererei richiamare l’attenzione del Ministro su questo fatto: qual è il concetto che ispira l’esenzione delle cooperative? È forse il concetto dell’entità patrimoniale o la natura dell’organismo? Qui la legge parla chiaro, dicendo che deve trattarsi di cooperative per le quali deve essere chiaramente definito il carattere mutualistico. Ora, se questo è vero, non ha più nessun significato stabilire dei limiti quantitativi nel patrimonio, perché come noi esentiamo gli enti di assistenza e beneficienza indipendentemente dalla loro entità patrimoniale, così l’esenzione per le cooperative è giustificata dal loro carattere mutualistico e in esso trova il suo fondamento. L’esenzione è pertanto indipendente dall’entità patrimoniale della cooperativa.

FORESI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FORESI. Desideravo conoscere dalla Commissione se nelle esenzioni, di cui si parla nella lettera b), sono comprese anche le Casse rurali ed artigiane, perché esse, oltre a rientrare nella forma di cooperazione vera e propria, sono anche il motivo di essere della cooperazione.

Non vedo perché non si debbano comprendere anche queste benemerite istituzioni , che finora hanno alimentato il piccolo artigianato e la piccola agricoltura.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. Ritengo che nell’espressione letterale usata nella lettera b) dell’articolo in discussione difficilmente potrebbero rientrare le Casse rurali.

In linea di massima, siccome istituzionalmente esse svolgono la loro opera sul piano della mutualità, ritengo che le casse rurali – fermo restando il limite di esenzione accennate dall’onorevole Relatore – meriterebbero di essere incluse nell’esenzione.

Ma, a tale scopo, si rende necessario proporre un emendamento, che prego l’onorevole Foresi di presentare.

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Dichiaro di ritirare l’emendamento presentato unitamente all’onorevole Cerreti, associandomi a quello dell’onorevole Dugoni.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Nel mio emendamento ho parlato di costruzione di case economiche, nelle quali c’è naturalmente anche il fine mutualistico. Sarei grato se, su questo argomento, anche l’onorevole Ministro volesse dire qualche cosa.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ministro ad accogliere la preghiera dell’onorevole Caroleo.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi sembra, se non sbaglio, che tutte queste considerazioni siano assorbite dal concetto di un minimo di esenzione generale ragguagliato al valore imponibile.

Perciò non vedo ragioni sostanziali che giustifichino la discussione che stiamo facendo. Se si accoglie la proposta dell’onorevole Relatore, consenziente il Governo, di accordare la esenzione fino al limite di due milioni di imponibile… (Commenti a sinistra).

Il punto sostanziale è questo: decidere se si vuole mantenere fermo il principio originario delle 300 mila lire – e qualche onorevole collega vorrebbe sopprimere il limite – o se invece si vuole trasformare il sistema, facendo prevalere il concetto di subordinare la esenzione all’entità dell’imponibile.

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Desidero fare osservare, a proposito di limite nelle cooperative, che la cifra non ha alcun senso, perché se andiamo a parlare di un patrimonio di cooperativa noi veniamo a stroncare tutte le cooperative di lavoro, perché basta una macchina, basta un compressore stradale, basta un autocarro perché non siano più esentate.

Oggi, quindi, qualunque cifra noi consideriamo nelle cooperative di lavoro non può non costituire un limite che non possiamo in alcun modo tollerare. Reputo quindi quanto mai logico l’emendamento proposto dall’onorevole Dugoni, perché o una cooperativa ha fini mutualistici e allora si esenta, o non li ha, e allora si tassa: è semplice.

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. La definizione di cooperativa è così elastica nel nostro diritto privato, che permette in forma cooperativa anche l’esercizio di attività che i miei colleghi di sinistra chiamerebbero capitalistica. Difficilmente quindi, io credo, noi possiamo trovare un criterio giuridico atto a farci distinguere le vere cooperative da quelle spurie. Troviamo quindi una cifra, ma credo che sia pregiudizievole… (Rumori).

Una voce a sinistra. Nessuna cifra!

VANONI. Vorrei richiamare l’attenzione dei colleghi sul fatto che ci sono delle alleanze di cooperative che sono indiscutibilmente delle vere cooperative dal punto di vista legale, ma che sono società che hanno centinaia di milioni di capitale. È giusto che esse abbiano il vantaggio dell’esenzione? (Commenti).

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Sono favorevole alla proposta di togliere quel limite di capitale versato di 300 mila lire; e ciò per tante ragioni. Prima di tutto, non si può stabilire un limite per le cooperative, e contemporaneamente lo stesso limite per i consorzi di cooperative. Trecento mila lire oggi non sono niente. Hanno ragione gli onorevoli colleghi che hanno parlato prima di me: con 300 mila lire non si fa niente, non soltanto nelle cooperative di lavoro, ma meno ancora nelle cooperative edilizie e tanto meno nelle cooperative di consumo; oggi bisogna comperare tutto a contanti.

Faccio presente, perciò, che non si può mettere lo stesso limite di 300 mila lire di capitale versato sia per le cooperative che per i consorzi di cooperative.

Voglio ricordare all’onorevole Ministro – ed egli certo lo può ricordare a me – che nelle esenzioni stabilite, già in atto, ancora oggi per le cooperative c’è una differenza che si aggira ad un decimo circa rispetto ai consorzi. Se andate ad esaminare le norme di legge relative alle cooperative di lavoro, vedrete che il limite di assunzione di lavori per le cooperative è stato portato a 5 milioni; e la proposta del Ministro dei lavori pubblici, il quale non ha potuto fino ad ora varare il provvedimento, perché attende sempre il consenso degli altri Ministeri competenti interessati in proposito, l’ha portato a 20 milioni per l’assunzione di lavori pubblici da parte delle cooperative, e ad 80-100 milioni per i relativi consorzi. Quindi, una differenza c’è. Perciò, se mettete 300 mila lire per le cooperative di consumo, dovreste mettere almeno 3 milioni per i relativi consorzi.

Ma io sono contrario per le ragioni di principio che sono state così chiaramente esposte dal collega Scoccimarro; e vorrei cogliere questa occasione per ricordare agli onorevoli colleghi che siamo già impegnati in un certo senso, perché abbiamo riconosciuto nella Carta costituzionale la funzione sociale della cooperazione, e non possiamo dimenticarcene quando si tratta di applicare norme fiscali.

Perciò ripeto – e colgo l’occasione per fare anche una dichiarazione di voto – sono per la soppressione di ogni limite.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Ho chiesto di parlare per cercare di chiarire la questione, in modo che il voto dell’Assemblea risulti chiaro. Vorrei a tale proposito rispondere ad una giusta osservazione fatta dall’onorevole Vanoni, che merita di essere presa in considerazione.

Per me, fissare un limite quantitativo di patrimonio delle cooperative vuol dire seguire un criterio completamente diverso da quello che si dovrebbe seguire, per cui l’esenzione deriva dalla natura e dalla funzione dell’ente, e non dalla sua entità patrimoniale. Ma l’onorevole Vanoni ha posto un problema veramente attuale e scottante: cioè che bisogna distinguere fra cooperative vere e spurie. Cioè false cooperative che servono da maschera agli speculatori.

Mi permetto di ricordare a questo proposito all’onorevole Ministro delle finanze che da molto tempo c’era già un’intesa fra il Ministero delle finanze e il Ministro del lavoro per regolare legislativamente il problema del controllo delle cooperative. Il Ministero del lavoro ha già compiuto un censimento ed è stato istituito un registro presso la Direzione generale della cooperazione, per cui le cooperative riconosciute tali vengono ufficialmente registrate; e solo le cooperative ufficialmente registrate usufruiscono dei benefici fiscali. Io ricordo al Ministro delle finanze che al Ministero era già predisposto un provvedimento di agevolazioni fiscali per le cooperative, provvedimento che io ho lasciato sospeso, perché a quel tempo il Ministero del lavoro non aveva compiuto la necessaria opera di selezione. Ma penso che questa, ora, sia già condotta a termine e, togliendo il limite che si pone in questa legge, per quella via si risolve il problema posto dall’onorevole Vanoni, per cui noi aiuteremo veramente le cooperative, escludendo le cooperative fittizie, che non hanno diritto di chiamarsi tali.

Perciò prego ancora una volta di approvare l’emendamento che esclude ogni limitazione, perché così approveremo il concetto per cui diamo agevolazioni alle cooperative solo perché svolgono un’attività mutualistica e non perché hanno patrimonio al disopra e al disotto di un certo limite.

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. Qui il progetto indica già una definizione delle cooperative ponendo tre condizioni che sono adempiute tutte normalmente da queste cooperative, anche spurie: il fatto della limitazione in caso di distribuzione di dividendi; il divieto di ripartire le riserve; la devoluzione del patrimonio ai fini di pubblica utilità – dopo rimborsato il capitale sociale – in caso di scioglimento; soprattutto un’ultima condizione sta scritta in tutti gli statuti sociali delle cooperative. Restano quindi fissate le condizioni a cui le cooperative devono adempiere per godere del beneficio, ma, ripeto, queste condizioni sono adempiute anche dalle cooperative spurie.

E allora cosa dobbiamo fare? Rimandare ad un provvedimento futuro, come quello della registrazione di cui ha già detto l’onorevole Scoccimarro, oppure risolvere fin d’ora questo problema?

Mi permetto di ricordare che la questione della esenzione delle cooperative dalle imposte è una questione estremamente delicata e sottile. Basti ricordare l’esempio della Francia: la Camera francese discusse per tutta una legislatura il regime fiscale delle cooperative, perché, per trovare una linea di demarcazione fra cooperative vere e cooperative non vere, fra cooperative la cui forza economica merita di essere particolarmente sostenuta e cooperative che hanno tale forza da potere essere sottoposte ad imposizioni tributarie, il Parlamento francese ha discusso per un lungo periodo di tempo.

Noi oggi ci troviamo di fronte alla necessità di risolvere in pochi minuti una questione così estremamente importante, perché poche cose sono sentite dai nostri concittadini in modo così vivo come i problemi di giustizia tributaria; e se, attraverso una norma che vuole essere di incoraggiamento alle piccole forze a riunirsi in cooperative, noi arrivassimo invece ad accordare esenzioni e situazioni di privilegio a particolari forze economiche, certamente noi faremmo una cosa non giusta e che non sarebbe affatto apprezzata dai nostri concittadini.

E allora ritorno all’idea da cui sono partito e da cui è partito anche l’onorevole, La Malfa. Dovendo ora risolvere questo problema, in attesa della desiderata registrazione, che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo fermarci alla proposta della Commissione di cui all’articolo 3, eppure dobbiamo allinearci su una limitazione quantitativa?

Ritengo sia più conveniente la seconda forma: discutiamo la quantità. Ha perfettamente ragione il collega che ci ha ricordato che oggi un autocarro può essere valutato al limite di tassazione. Per me non ha importanza che si vada a 2, 3, 10 milioni, ma, per la certezza della legge, ritengo che sia molto meglio allo stato attuale fissare un limite quantitativo piuttosto che rimandare la soluzione.

E qui aggiungerò che vi è un problema delle cooperative di credito (di cui alcune hanno veramente bisogno di essere incoraggiate e sostenute) come vi è il problema delle Casse rurali di cui ha parlato l’amico Foresi un momento fa.

Anche qui il criterio di distinzione non può essere che un criterio quantitativo. Fra grandi e piccole banche cooperative non c’è nessuna differenza sostanziale: quindi bisogna ricorrere a questo criterio della quantità. Troviamo una cifra, per quanto elevata, e vedremo che essa darà luogo a minori inconvenienti.

PRESIDENTE. Ritengo che si possa innanzi tutto votare la prima parte dell’articolo 2 su cui non è stata fatta alcuna discussione. Essa ricordo, è così formulata:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria di cui all’articolo precedente:

  1. a) le società che, negli ultimi cinque anni, abbiano esercitato una attività limitata esclusivamente alla proprietà e alla gestione di beni immobili urbani, anche se nell’atto costitutivo siano state previste operazioni di commercio».

(È approvata).

Passiamo alla lettera b). Pongo ai voti la prima frase:

«b) le società cooperative di consumo produzione e lavoro».

(È approvata).

Vi sarebbe ora l’aggiunta «e di credito» secondo l’emendamento Adonnino.

CAPPI. Ma questa è legata al problema del limite! Se si pone un limite, io ed altri colleghi voteremmo per l’inclusione delle cooperative di credito; altrimenti no.

PRESIDENTE. Allora occorrerà risolvere prima la questione del limite.

Ricordo che il progetto della Commissione diceva inizialmente:

«Le società cooperative di consumo, produzione e lavoro e i loro consorzi, che siano rette con i principî e con le discipline della mutualità e il cui capitale versato non superi le lire 300 mila, salvo particolari disposizioni legislative».

La Commissione ha poi proposto di adottare il criterio di una limitazione del patrimonio a due milioni, mentre un emendamento Adonnino propone tre milioni.

Vi è però un emendamento soppressivo degli onorevoli Dugoni e Scoccimarro, che ha diritto alla precedenza nella votazione.

L’emendamento dice:

«Sopprimere le parole: il cui capitale versato non superi le lire 300 mila».

Lo pongo ai voti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La questione del trattamento delle cooperative e la questione del trattamento degli enti morali sono state trattate in sede di Commissione. Si è cercato di raggiungere un accordo per l’esenzione delle cooperative e di certi enti morali. Ho dichiarato in sede di Commissione che questa posizione del problema, io, come Presidente, non l’accettavo, perché le imposte non sono commerciabili esentando questa o quella categoria, ma devono essere applicate alla generalità dei cittadini. Ho votato contro l’emendamento del Governo, che secondo me ha costituito una categoria di enti privilegiati. Sono dolente di dover votare contro la soppressione di ogni limite per le cooperative; però dichiaro che, avendo il Governo stabilito una categoria di enti privilegiati, mi spiego come una parte dell’Assemblea pretenda un’altra categoria di privilegi.

CAPPI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.,

CAPPI. Anche noi voteremo contro la soppressione di quel limite, in quanto accettiamo l’emendamento della Commissione che al criterio del «capitale» sostituisce quello del «patrimonio»: patrimonio che noi vogliamo aumentare, da due a otto milioni.

PRESIDENTE. Vi è dunque ancora un altro emendamento: invece dei 2 milioni della Commissione e dei 3 milioni dell’onorevole Adonnino, l’onorevole Cappi propone 8 milioni. (Commenti a sinistra).

Pongo dunque ai voti l’emendamento soppressivo degli onorevoli Dugoni-Scoccimarro, facendo presente che in seguito all’eventuale soppressione del criterio «capitale» si passa, per forza, alla votazione sul criterio «patrimonio». È alternativo. (Commenti a sinistra).

(Dopo prova e controprova e dopo votazione per divisione, l’emendamento non è approvato – Rumori – Commenti).

Dovremo ora passare alla votazione degli emendamenti che adottano il criterio proposto dalla Commissione, del capitale cioè, anziché del patrimonio.

Vi è innanzi tutto l’emendamento Cappi:

«il cui patrimonio non superi gli otto milioni».

PASTORE RAFFAELE. Chiedo che la cifra sia portata a dieci milioni.

PRESIDENTE. Onorevole Pastore, gli emendamenti vanno presentati per iscritto, secondo le norme del Regolamento

Voci a sinistra. Chiediamo l’appello nominale!

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Vorrei un chiarimento: evidentemente per patrimonio di otto milioni si intende il patrimonio netto, dedotte tutte le passività.

CAPPI. Il patrimonio, per principio giuridico generale, si intende sempre dedotte tutte le passività. (Commenti – Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Data l’ora tarda, propongo di rinviare la votazione a questa sera. (Commenti).

Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Corbino

Patrissi

Treves

Patricolo

Pecorari

Lucifero

Rossi Maria Maddalena

Labriola

Bastianetto

Bertone

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Bulloni

Costantini

Sforza, Ministro degli affari esteri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Quando cinque mesi or sono, con le dichiarazioni del Governo relative al terzo Ministero De Gasperi, il Governo comunicò che avrebbe firmato il Trattato di pace a Parigi (mancavano allora poche ore alla cerimonia della firma), io fui il solo dei deputati di questa Assemblea che avesse avuto la possibilità di parlare perché il seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo fu poi rinviato ad una seduta posteriore all’atto della firma.

In quell’occasione io ribadii quella riserva dei diritti dell’Assemblea alla ratifica del Trattato, riserva che il Governo aveva solennemente confermato non solo nelle sue comunicazioni, ma anche in una nota speciale che il Ministro degli esteri aveva fatta pervenire ai rappresentanti dei Governi dei quattro Paesi principali che con noi dovevano firmare il Trattato.

Nessuno, credo, in quel momento, né fra noi, né fra i membri del Governo, pensava che si sarebbe presentata una situazione in cui sarebbe stato possibile discutere il problema, non dirò della ratifica o non ratifica, ma della sua intempestività. Noi eravamo convinti che le quattro Grandi Potenze, già pervenute ad un accordo di cui il nostro Paese pagava le spese, si sarebbero poi accordate su una procedura rapidissima di ratifica, in seguito alla quale anche noi avremmo potuto dare la nostra; ed eravamo tanto convinti che così sarebbe accaduto che erano state perfino intavolate delle trattative tra i rappresentanti dei vari Gruppi, perché la cerimonia della ratifica, da parte nostra, cioè da parte dell’Assemblea, avvenisse in forma solenne ed austera, corrispondente alla gravità del documento del quale noi avremmo accettato, con la nostra ratifica, la piena responsabilità. Nessuno, ripeto, pensava che si sarebbe prospettata una situazione di fronte alla quale sarebbe sorto il problema della tempestività della ratifica. Vi fu, è vero, un certo periodo nel quale parve che non fosse certa la ratifica da parte del Governo degli Stati Uniti d’America; ma poi anche questa è venuta. Nessuno credeva che la quarta ratifica, quella che oggi manca perché ai sensi dell’articolo 90 del Trattato il Trattato diventi esecutivo, fosse quella della Russia, e noi oggi siamo chiamati a pronunciarci su una ratifica che deve precedere la ratifica di una delle quattro Grandi Potenze; vi siamo chiamati sullo scorcio di una sessione che dura ormai da parecchi mesi, con una Assemblea stanca e di cui è indizio il fatto che i banchi dell’Assemblea, malgrado la gravità dell’argomento che si discute, non presentano quella compattezza e quella assiduità di presenti che pure sarebbero richieste dall’importanza delle deliberazioni che stiamo per prendere.

Perché accade tutto questo? Come mai accade tutto questo? Io vi confesso che non l’ho capito. Mi trovo un po’ come quel critico teatrale che, uscendo dalla prima rappresentazione del Parsifal in Italia, riferiva il suo giudizio dichiarando che egli era dolente che non aveva capito il fatto, perché l’opera si allontanava talmente da quelle comunemente rappresentate nei nostri teatri che per intenderne il significato bisognava conoscere l’antefatto, l’ante-antefatto, intendere le intuizioni, i leit-motif, o altro. Anche noi siamo posti di fronte ad un problema di fatti, di antefatti, di fatti dei quali qualcuno riferisce una gravità non perfettamente definita, qualche altro ci parla di vantaggi non esattamente identificati.

Ora, perché noi dovremmo mutare la posizione storica che di fronte al Trattato abbiamo assunto? La nostra posizione di fronte al Trattato è stata sempre questa: il Trattato ci è imposto; il Trattato è il risultato di un compromesso fra le quattro Grandi Potenze, in cui le ragioni dell’Italia, gli interessi dell’Italia non hanno avuto la più lieve, la più tenue considerazione. È frutto dell’accordo di quattro volontà a cui noi non abbiamo partecipato.

Di fronte alla ratifica vi sono alcuni, non molti veramente, i quali opinano che il Trattato debba essere respinto in qualunque caso, checché succeda dopo averlo respinto.

Vi è una grande maggioranza dei membri dell’Assemblea, e dei Gruppi, che pensano che di fronte ad una imposizione noi non possiamo sottrarci alla necessità dell’obbedienza, pur protestando.

Ma qualunque protesta rispetto al contenuto del Trattato verrebbe meno, perderebbe interamente qualunque valore, di fronte ad un’accettazione del Trattato prima ancora che esso diventi per noi obbligatorio, diventi una cosa alla quale il nostro paese non potrebbe sottrarsi, se non sotto la minaccia di chi sa quali complicazioni. Noi siamo come una nave che, avvistata da una nave da guerra nemica od alleata in tempo di guerra, ha l’obbligo di fermarsi: se non si ferma, si spara un colpo a salve e se al colpo a salve non si ferma, si spara decisamente.

Noi invece ci fermiamo così, per il gusto di fermarci. Perché? Per quali ragioni? Io non entro nel problema giuridico. Per me il problema che discutiamo è un problema morale ed è un problema politico, non è problema giuridico. Al problema giuridico, se mai, si arriverà quando ci saremo messi d’accordo sulla opportunità, sulla convenienza della ratifica anticipata. Vedremo dopo quale dovrebbe essere la formula più adatta. Io faccio una questione pregiudiziale: perché dobbiamo ratificare oggi quando non è necessario?

Si dice, se noi ora non ratifichiamo, chissà quali armeggi machiavellici stiamo pensando e preparando? Ora, se vogliamo entrare nel sospetto del machiavellismo, io credo che se ne possa destare di più con una ratificai anticipata, che non senza occuparci oggi della ratifica. Non siamo machiavellici quando diciamo che non vogliamo fare un atto che in questo momento non abbiamo il dovere di compiere. Potremmo essere machiavellici se lo facessimo, perché davvero si potrebbe pensare ad arcane ragioni, a non bene definiti vantaggi, che noi ci attendiamo dalla ratifica anticipata. Ci presteremmo veramente all’accusa di machiavellismo. Andiamo quindi per la nostra strada, senza preoccuparci dei sospetti, perché chi vuol sospettare su di noi e sulla nostra condotta, avrà sempre motivo di sospettare, sia che noi rinvieremo la ratifica al momento in cui essa sarà assolutamente necessaria, sia che noi oggi, accedendo all’altra tesi, voteremo la ratifica anticipata.

Pressioni, suggerimenti? Certo pressioni nel senso della ratifica non credo siano venute dalla Russia, né ne possono venire: la Russia ha un mezzo molto semplice per obbligarci a ratificare subito. Ratifichi anch’essa, depositi la sua ratifica ed immediatamente il Trattato andrà in esecuzione. La Russia è il Paese che direttamente – per quel che attiene alle riparazioni – indirettamente – per quel che attiene alle mutilazioni che ci sono imposte alla nostra frontiera orientale – avrebbe da trarre il maggior vantaggio immediato da una sua ratifica.

Pressioni degli alleati occidentali: in che senso? Per quali ragioni? In che cosa una nostra ratifica anticipata può giovare agli alleati occidentali? Saranno profondi i misteri della diplomazia, saranno non facilmente accessibili a tutti le prospettive dei vantaggi connessi a questo atto, che è contro la logica, ma non vedo in che cosa il nostro gesto potrebbe facilitare la posizione degli alleati occidentali, al punto da indurli a fare pressioni su di noi, perché noi si ratifichi anticipatamente.

Una pressione di questo genere, ove sortisse un effetto favorevole, non servirebbe neanche nei riguardi della Russia, perché gli alleati non hanno bisogno della nostra ratifica per chiedere alla Russia che provveda a dare la sua. La Russia potrà dare la sua quando vorrà, e in ogni caso la formula che ci è stata presentata è proprio la più adatta per consentire alla Russia di opporre un rifiuto. Non ci si può servire dunque della ratifica italiana per indurre la Russia a ratificare per conto suo, e, quindi, di pressioni in questo senso, non ne vedo. Non vedo neanche la possibilità di un collegamento fra quelle che possono essere le nostre necessità, rispetto a determinati problemi economici e la eventualità di pressioni da parte occidentale.

Gli aiuti americani ci sono venuti quando ancora il Trattato non era stato preparato; ci sono venuti dopo che il Trattato è stato firmato; ci sono venuti dopo che il Trattato è così, all’impiedi, allo stato latente. Perché, ad un certo istante, questi aiuti ci dovrebbero mancare, soltanto perché noi non vogliamo dare una ratifica anticipata al Trattato?

Ma allora, che cosa dobbiamo fare? Si dice da qualcuno che la nostra accettazione anticipata degli obblighi del Trattato potrebbe costituire in questo momento, nello scacchiere diplomatico, nel gioco delle influenze internazionali, una mossa avente significato antirusso. No, non posso aderire a questa tesi. Non avrebbe significato anti-russo neppure una nostra incondizionata ratifica, perché anche una nostra incondizionata ratifica (che poi sarebbe la sola posizione logica da prendere, se mai, in questo momento) potrebbe voler dire: l’Italia vuol chiudere la partita della guerra precedente; la chiude accettando un verdetto che essa sente di non dovere accettare dal punto di vista morale, ma la chiude. Non ha niente di anti-russo un gesto di questo genere; non potrebbe averlo; non dovrebbe averlo. Io dico che una ratifica fatta in questo senso non sarebbe anti-russa, come non sarebbe anti-americana se mancasse la ratifica americana. Sarebbe semplicemente anti-italiana.

Né possiamo pensare ad una negoziazione della ratifica anticipata. Che io mi sappia non c’è stato nulla che autorizzi a supporre che a corrispettivo di questo gesto da parte nostra vi siano non tanto dei vantaggi positivi, ma per lo meno l’attenuazione di tutti i pesi o di una parte dei pesi che il Trattato impone all’Italia.

Io potrei anche comprendere che, per esempio, noi fossimo posti di fronte a questa alternativa, cioè che la Francia ci dicesse: io rinuncio a Briga e Tenda. Allora potremmo discutere non soltanto perché Briga e Tenda rappresentano due Comuni rispetto ai quali il nostro sentimento per il loro distacco non è meno doloroso di quello per Comuni più grandi, ma perché Briga e Tenda hanno un significato che va oltre il numero degli abitanti. Briga e Tenda significano la porta di casa nostra ad Occidente, porta che ci si impone di aprire nello stesso momento in cui ci disarmano all’interno, facendo arretrare le nostre opere difensive e conservando intatto il potere di lancio di qualsiasi offensiva dal fronte occidentale.

Io capirei che da parte di qualche altro degli Stati firmatari ci si dicesse: anticipate la ratifica ed allora, per esempio, vi lasceremo le colonie, per lo meno quelle colonie la cui conquista era anteriore al periodo fascista. Io non sono un colonialista, sono anzi anti-africano; considero l’Africa uno dei continenti più inutili della terra, per lo menò nella parte che non si affaccia, sul Mediterraneo, credo che, politicamente, l’Africa abbia pesato sulla vita dei popoli in maniera negativa, in maniera tale cioè da compensare tutti i vantaggi di carattere naturale che possono essere venuti da quel continente. Ma, ad ogni modo, in quelle colonie noi abbiamo seminato sangue del nostro sangue, e non avremmo fatto del male a nessuno se, fra gli altri, in Africa ci fossimo rimasti, anche noi, senza velleità di imperialismo.

Io capisco che ci si possa dire: se voi accettate la ratifica anticipata sarete chiamati a difendere le vostre ragioni nei riguardi della Germania. Fra le tante condizioni inique del Trattato c’è anche quella; che noi, paese straziato dai tedeschi sia durante il periodo della guerra in cui eravamo con loro, sia dopo, cioè nel periodo in cui eravamo contro di loro, non abbiamo diritto a dire neppure una parola e in difesa dei nostri interessi e per la sistemazione della Germania quale elemento importante della sistemazione europea.

Io capirei che la Russia ci dicesse: anticipate la vostra ratifica e noi vi restituiremo o vi daremo Trieste, che non abbiamo avuto con manovre machiavelliche, ma che abbiamo pagato con 600.000 morti.

Io capirei che gli Stati Uniti ci dicessero: anticipate la vostra ratifica e noi cancelleremo quel preambolo che, fra tutte le pagine del Trattato, è la pagina più umiliante per noi, perché nega il contenuto spirituale della seconda guerra che noi abbiamo combattuto, e che è la vera guerra che noi abbiamo combattuto.

Queste sarebbero le possibilità di un compromesso, di fronte al quale la nostra coscienza potrebbe anche esitare e potrebbe accedere alla tesi della ratifica anticipata.

Poi vi sono i miraggi: c’è il miraggio dell’O.N.U. Certo, l’O.N.U. può e deve essere la speranza di tutti i popoli, e specialmente di un popolo come il nostro.

Ma oggi l’O.N.U. non è che una pedana su cui due schermidori, non molto esperti in materia diplomatica e, quindi, nel maneggio di questi ideali fioretti, si battono spesso con pericolo dei padrini e, in qualche caso, perfino di coloro che stanno a guardare. Non è così che l’O.N.U. potrà essere la base del sistema pacifico del mondo; l’O.N.U. avrà questa funzione, solo il giorno in cui i due grandi competitori di oggi saranno riusciti a mettersi d’accordo.

E speriamo che si possano mettere presto d’accordo nel nome della giustizia fra i popoli, senza imporci qualche altro sacrificio. Non si può infatti escludere che, dopo che noi avremo volontariamente accettato il Trattato che ci viene offerto, un ulteriore passo verso la pacificazione del mondo non debba essere compiuto a spese nostre, con il pretesto che, avendo noi accettato di nostra spontanea volontà il più, ci potremo rassegnare ad accettare per imposizione altrui quel poco che al più si aggiungerà per raggiungere l’accordo.

E veniamo al piano Marshall.

Bisogna intendersi sul piano Marshall: il piano Marshall è ancora niente dal punto di vista concreto, può diventare una cosa molto seria – ha detto il nostro Ministro degli esteri – e può essere il parto della montagna.

Andiamo al fondo del problema. L’Europa – lo diceva l’altro ieri l’onorevole Nitti – attraversa oggi una delle crisi più dure della sua storia. Questo continente, dal punto di vista economico, forma tutta una cosa con quella fascia africana mediterranea, della quale dianzi parlavo e che costituisce un complemento dell’economia europea: è un complemento il Marocco, che dà minerali di ferro e fosfati; è un complemento l’Algeria, che dà fosfati, cereali, vini e minerali di ferro; è un complemento la Tunisia, che dà vini e fosfati; è un complemento l’Egitto che dà cotone; è un complemento, fino a un certo punto, anche l’Asia, nella parte mediterranea vicina, che è tutt’uno con l’economia europea. Ora questo continente, questa economia che nel 1914 aveva realizzato una unità quasi perfetta, se non totale, uscì dalla guerra del 1914 in condizioni di minorità gravissime. L’onorevole Nitti vi ha accennato l’altro ieri alcune cifre; consentite che io brevissimamente ne riporti qualche altra.

Vi dirò, per esempio, che l’Europa viveva, in parte dei redditi dei suoi capitali investiti all’estero per oltre 1000 miliardi di lire oro del 1913. Sapete a quanto si sono ridotti dopo? Nel 1937, eravamo a poco più di 400 miliardi di lire-oro: il Regno Unito era a metà, la Francia era a un quarto, la Germania quasi a zero.

Dai suoi capitali investiti altrove l’Europa ricavava circa 70 miliardi di lire del 1913, cioè a dire che, in un periodo in cui il reddito nazionale dell’Italia era valutato a 35 miliardi di lire, i capitali investiti fuori d’Europa bastavano per mantenere due paesi grandi come l’Italia. Oggi siamo quasi a zero, anzi la Gran Bretagna è uscita dalla Seconda guerra mondiale con una perdita netta pari a circa 8 miliardi di dollari. Anche la Francia ha perduto quasi completamente i suoi investimenti all’estero e, per quanto riguarda i piccoli Paesi i cui investimenti erano quasi tutti di carattere coloniale, affinché essi possano considerarli nuovamente come fonte di reddito, dovranno superare delle guerre aspre contro il nazionalismo risorgente nell’Asia, nell’Africa, dappertutto.

Il commercio europeo è caduto a cifre piccolissime. Parlo senza fare riferimento alla Russia, che nel commercio europeo ha avuto sempre una parte piccolissima. Solo l’uno e mezzo per cento del commercio dell’Europa infatti si svolgeva con la Russia, sia per le importazioni europee in Russia, sia per le esportazioni russe in Europa. In sostanza l’economia russa è sempre stata un’economia prevalentemente autarchica per ragioni di carattere naturale, per ragioni di carattere politico, per ragioni di carattere economico.

Era l’Europa occidentale che formava un tutto organico, un tutto armonico che arricchiva il resto del mondo, e che vi collocava i suoi capitali, ne consentiva la messa in valore e facilitava quindi l’emigrazione della sua popolazione esuberante.

É accaduto così che, quando è venuta a cessare l’esportazione dei capitali, è finita in pari tempo l’emigrazione dall’Europa, ed è sorto quel conflitto di pressioni demografiche che sta alla base della Prima guerra mondiale e che probabilmente è stato la causa della Seconda guerra mondiale.

Questa Europa che era una meraviglia di costruzione economica, come oggi è divisa? C’è una fascia, da Nord a Sud, adiacente alla Russia, che fa parte dell’economia russa; ce n’è una parte, che era quella che si chiamava una volta Mittel-Europa, che è un po’ il regno di nessuno; e ce n’è una parte che è frantumata nei suoi rapporti internazionali ed è incapace di ricostituire un’unità economica organica. Incapace a ricostituire questa unità economica organica è l’Inghilterra, perché – come già ho accennato – esce stremata dalla guerra. Essa ha avuto, l’anno scorso, dagli Stati Uniti d’America un prestito di 937 milioni di sterline, che avrebbe dovuto bastare per quattro anni. Alla fine del primo anno 1550 milioni di sterline sono già stati assorbiti; ne restano disponibili 387 milioni, con i quali l’Inghilterra dovrebbe andare avanti per tre anni, mentre il suo disavanzo commerciale è pari a 700 milioni di sterline all’anno. Questa è la posizione inglese in questo momento.

Né è più allegra la posizione francese, sia dal punto di vista dell’economia generale, sia dal punto di vista della potenza produttiva, riferita alla sua popolazione. Il problema della mano d’opera in Francia, come del resto, anche in Gran Bretagna, è uno degli ostacoli più gravi per la loro ripresa; tanto ciò è vero che, contrariamente agli usi internazionali, che imporrebbero che, a guerra finita, i prigionieri siano restituiti alle loro case, Francia e Inghilterra detengono ancora sul loro territorio molte centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi che lavorano obbligatoriamente, per l’impossibilità di trovare sul mercato interno il mezzo di integrare o di utilizzare la totale capacità produttiva dell’attrezzatura industriale francese e inglese. Molti di più, di prigionieri, ne ha la Russia, cosicché, a due anni di distanza dalla fine delle ostilità in Europa, vi sono dei milioni di uomini lontani dalla loro patria, in una forma di schiavitù che non è, o per lo meno non sarebbe, compatibile con le nostre tanto vantate pretese di civiltà democratica.

In questa situazione si inserisce il piano Marshall, il quale non è un piano nel senso tecnico della parola, come qualcuno può aver pensato; non è un piano nel senso statistico della parola, come dalle prime manifestazioni della sua applicazione si potrebbe credere. No; è un piano di politica economica generale, che intende richiamare l’attenzione dei popoli europei su questa necessità fondamentale: ricostituire l’unità economica dell’Europa, come condizione indispensabile perché gli aiuti che fuori dell’Europa alcuni Paesi sono disposti a dare, siano efficaci, siano concretamente utilizzati.

Gli Stati Uniti d’America si rendono conto di questa specie di solidarietà super-continentale che li lega alle sorti del continente europeo. E se ne rendono conto non soltanto per ragioni di carattere economico, cioè a dire per evitare il ripetersi di una crisi paragonabile a quella del 1929, ma se ne rendono conto soprattutto per ragioni di carattere politico, perché un’Europa che non riuscirà a trovare il suo assetto economico sarà un perenne focolaio di guerra; sarà una polveriera incustodita, rispetto alla quale il primo che passi e lanci un mozzicone di sigaretta può determinare la conflagrazione più spaventosa.

E del resto, rispetto all’eventualità deprecata d’uno scoppio della guerra mondiale e del suo costo, il contributo necessario per sollevare le sorti economiche dell’Europa sarebbe modestissimo, ove lo si metta a confronto con i mezzi larghissimi, con la sterminata capacità di produzione del continente nordamericano in questo momento. Venti miliardi di dollari, distribuiti nel giro di tre o quattro anni, sarebbero sufficienti a mettere l’economia europea in condizione di andare avanti, dopo, per conto proprio, sia pure con gravi sacrifici da parte dei popoli europei.

Ora, venti miliardi in quattro anni, vale a dire cinque miliardi all’anno, non rappresentano che il 2 per cento della produzione economica degli Stati Uniti d’America. Un sacrificio così piccolo per assicurare la pace in Europa, e quindi nel mondo, io sono sicuro che gli americani lo farebbero volentieri, quando vedessero che da parte nostra non si sollevano difficoltà per creare quella unità economica europea che è necessaria, come elemento indispensabile, per la sua ricostruzione.

Ma, rispetto a questo piano, che cosa c’entra la ratifica del nostro Trattato? Io credo che non solo noi abbiamo il diritto di parteciparvi anche senza la ratifica, ma oserei dire che se non ci volessimo andare ci dovrebbero pregare, perché la nostra economia, in questo momento, è complementare dell’economia di tutti gli altri Paesi d’Europa e non si può pensare a creare un piano di organizzazione economica dell’Europa senza l’utilizzazione delle risorse che oggi l’Italia può offrire a tutti gli altri Paesi del Continente.

Ecco perché io non vedo – dal punto di vista strettamente economico – nessun nesso logico, non riconosco nessun rapporto di stretta necessità fra la nostra partecipazione all’O.N.U. e al piano Marshall, e la nostra anticipata ratifica; che, se per caso gli altri fossero così ciechi da voler creare questo stato di stretta interdipendenza, allora è inutile che insistano sul piano Marshall: possono anche abbandonarlo, perché un piano Marshall, che non tenga conto di tutti i Paesi d’Europa, è a priori destinato al fallimento!

E allora? Agl’inizi di questa discussione fu presentata all’Assemblea una proposta che era stata lungamente discussa in ripetute riunioni di capi-Gruppo; si trattava non di respingere la ratifica, ma di rinviarne la discussione; di rinviarla a quando si fosse presentato quello stato di necessità a cui tutti facciamo riferimento allorché accettiamo la tesi che alla ratifica si debba arrivare.

Questa proposta non ebbe fortuna ed una discussione di politica estera è sopravvenuta; ed è bene forse che sia sopravvenuta, perché abbiamo fatto un po’ il bucatino delle nostre coscienze, il bucatino dei nostri programmi, delle nostre intenzioni su questo che è il più angoscioso, il più assillante dei problemi che l’Assemblea deve affrontare.

Ma, fatto questo bucato, quando esso sarà esaurito con l’intervento di tutte le voci più autorevoli dell’Assemblea, perché non dobbiamo rinviare la decisione? Ci sono dei rischi a non rinviare o ci sono dei rischi a rinviare? Io vorrei che l’onorevole De Gasperi mi ascoltasse, come mi faceva l’onore di ascoltarmi quando l’anno scorso di questi tempi eravamo assieme a Parigi a difendere le ragioni dell’Italia.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Reciprocamente!

CORBINO. Sono lieto di questa sua affermazione. Non c’è in me, e credo non ci possa essere in nessuno di questa Assemblea, il pensiero di utilizzare questo tema angoscioso per una speculazione di carattere politico. Noi ci dobbiamo porre di fronte alla nostra coscienza nell’esame dei termini del problema e della decisione che si dovrà prendere dopo questo esame, tenendo conto di elementi del passato, di elementi del presente, di elementi del futuro.

L’Assemblea ha già espresso la sua volontà di ratifica, quando essa sarà necessaria. Nessuno potrà dubitare di questa volontà; nessun machiavellismo ci potrà essere attribuito. Facciamo soltanto una questione di morale politica, una questione di dignità nazionale e una questione di rischi rispetto a questi due problemi. Noi siamo posti in questa alternativa; e dobbiamo votare contro la ratifica anticipata, secondo la tesi dell’onorevole Croce, ispirata a una concezione storico-filosofica delle premesse del Trattato, o secondo la tesi dell’onorevole Orlando, che si dilata in una concezione politica che tutti noi, in lui, l’uomo di Vittorio Veneto, abbiamo il diritto ed il dovere di rispettare. Ma per gli altri si tratta di confondere un voto contro la ratifica in forma incondizionata, con un voto per la ratifica per il momento in cui questo voto ci viene richiesto. Io non voglio neppure contemplare l’ipotesi che, giungendo al voto, sommando tutte le fonti possibili dei «no», la ratifica debba essere respinta o possa essere respinta. Spero che non arriveremo ad una situazione di dubbio così tremenda, perché allora veramente si creerebbe per il Paese una situazione difficilmente afferrabile, sia dal punto di vista interno, sia del punto di vista internazionale.

Ma rinviando, nell’intesa di riconvocarci di urgenza se fosse necessario; rinviando, nell’intesa che daremo al Governo i poteri per la ratifica quando la Costituente sarà alla vigilia della scadenza dei suoi termini legali di esistenza, noi scansiamo tutti i pericoli e andiamo incontro ad un vantaggio inestimabile e certo, quello di raggiungere, di fronte a questo gesto, quella quasi unanimità di tutti i settori dell’Assemblea, che per me è un elemento essenziale per la normale, tranquilla esecuzione del Trattato, perché un Trattato così duro non potrà forse trovare consenso spontaneo e volonteroso negli organi che lo dovranno eseguire, se esso dovesse uscire dall’Assemblea Costituente con l’approvazione di una piccolissima maggioranza, se esso dovesse essere l’elemento per cui domani ci si potrà lanciare l’accusa reciproca di essere stati pro o contro la esecuzione capitale volontaria della dignità del nostro Paese o del taglio delle nostre carni che ci è imposto dal Trattato. Di fronte a questo vantaggio certo, per me non ci sono possibilità di paragoni con dei vantaggi incerti.

Noi respingiamo il Trattato come atto di nostra volontà, perché esso ci colpisce nella nostra anima, nel nostro sentimento, perché nega la storia d’Italia in una pagina che l’Italia crede di non avere scritto.

Orbene, onorevole De Gasperi, io ho due figli che fra qualche anno, se occorre, potrò offrire al Paese; ma oggi mi sentirei menomato nella mia qualità di padre, se volontariamente accettassi di sottoscrivere una pagina che in tutta coscienza, non sento di poter sottoscrivere. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Patrissi. Ne ha facoltà.

PATRISSI. Onorevoli colleghi, l’atmosfera di grande perplessità che è nel Paese e nella nostra coscienza, al di sopra delle divisioni per gruppo, al di sopra delle tendenze, è forse originata dal fatto che non siamo chiamati a decidere per informata coscienza e che questa materia della ratifica non è ancora sufficientemente assimilata da ciascuno di noi.

Parecchi discorsi ci sono stati. Si è parlato di ratifica perfetta o imperfetta, di Trattato perfetto o imperfetto, ma molti fra noi, uscendo dal palazzo di Montecitorio possono incontrare un elettore, come è capitato a parecchi, che gli abbia chiesto: «Ratificate o non ratificate? Come credete che sia meglio? Come pensate che sia opportuno regolarsi nell’interesse di tutti?». E molte volte la nostra risposta non ha avuto per conseguenza che un assentimento fatto di cortesia e non di convinzione, forse perché tutti noi, cittadini, prima che deputati, italiani, prima che uomini di partito, ci rendiamo conto che la disciplina dei gruppi, la disciplina delle nostre correnti politiche, questa volta, e forse soltanto questa volta, non è sufficiente a tranquillizzare la nostra coscienza.

Per decidere su questo problema grave della ratifica o della non ratifica, della ratifica ora o poi, è necessario però, come diceva poco fa l’onorevole Corbino autorevolmente, riferirsi al fatto, cioè al Trattato. Esaminiamone lo spirito, esaminiamone i propositi, esaminiamone le conclusioni, preveniamone gli effetti fatali per il nostro sventurato Paese e ne trarremo le conclusioni; perché, badate, un Trattato di pace non è un punto di arrivo soltanto, ma è anche e soprattutto un punto di partenza. Il Trattato che è sottoposto al nostro esame, il documento che noi stiamo esaminando per deciderne la ratifica o meno, chiude il periodo ultimo della nostra storia nazionale, ma ne apre uno nuovo. Badiamo di entrare nell’avvenire movendo con passo giusto.

Il Trattato consta di quattro categorie di clausole: territoriali, politiche, militari, navali, aeree, ed economiche. È logico che in seguito ad una guerra perduta il vincitore faccia maggiormente pesare la sua mano in materia territoriale e in materia militare. È logico quindi che determinate partite, aperte in altri tempi, per l’insuccesso ultimo delle armi debbano ora chiudersi sfavorevolmente. Ma è deplorevole però, constatare lo spirito di revanche che presiede a determinate clausole territoriali per rettifiche trascurabili, ma non per questo meno gravi, delle nostre posizioni di confine. Mi riferisco alla parte che riguarda il confine occidentale: il piccolo S. Bernardo, il Moncenisio, il Monte Thabor, il Monte Chaberton, le alte valli della Tinea, della Vesubia e della Roja. Piccoli tagli, ma che ci feriscono profondamente, forse perché sono la ritorsione, e la ritorsione soltanto, del coup de poignard del 10 giugno 1940. È vero, gli errori bisogna scontarli presto o tardi, ma che senso ha parlare oggi di quel cosiddetto «colpo di pugnale» quando noi allora eravamo autorizzati a credere, come italiani, che la grande tradizione militare francese, che l’orgoglio gallico, che la famosa Maginot non si sarebbero squagliati come neve al sole, in soli 11 giorni di combattimento? E si fa pesare la mano su noi, con maramaldesca tenacia, che siamo inermi, che siamo discordi, che siamo vinti, almeno materialmente.

Le partite, purtroppo, sono pareggiate e ce n’è d’avanzo per l’avvenire.

Confine orientale: molto c’è da dire su queste parti delle nostre mutilazioni orientali, ma quello che c’è da dire riguarda maggiormente noi che non coloro che ci succedono nella sovranità di quei territori, noi che demmo la stura allo slavo, perdendo senza batter ciglio Fiume e Zara italianissime. Trieste martire doveva fatalmente seguire.

Le clausole militari, navali ed aeree rispecchiano la mentalità di coloro che maggiormente hanno infierito contro di noi: Inghilterra e Francia. Badate, in materia territoriale, tre su quattro Grandi, meno l’America, hanno gravato la mano sul vinto. In materia politica tutti e quattro si sono distinti; in materia economica e militare, tre su quattro, meno ancora l’America sono stati ugualmente implacabili, coerentemente implacabili.

In fondo, ottenuta la soddisfazione territoriale oltre ad una determinata riparazione economica, tutti i Trattati di pace dettati da menti illuminate, da menti guidate da senso di umanità e di comprensione, vivificati da spirito politico, non hanno mai gravato la mano sul vinto più del necessario; ma questo nostro documento di pace, determinato da un solo proposito, da un solo intento, che è quello di cancellare tutte le realizzazioni del popolo italiano dalla unità della Patria in poi, rivela uno stato d’animo talmente deplorevole, implacabile ed infame, che solo un grido di sdegno può definirne l’entità e la portata.

L’atto finale di Pechino del 7 settembre 1901, le convenzioni di Shangai e di Hanoi, i Trattati di Losanna e di Algeciras, l’assetto giuridico del Bacino del Congo, le convenzioni di Bruxelles, di Berlino e di San Germano, sono tutti trattati in cui figurava il nome dell’Italia anche per questioni puramente formali; bisognava che fossero sterili di conseguenze, perché era deciso che finissimo in posizioni di infimo ordine.

L’Italia, questa Potenza audace, vigorosa, esuberante di vita, e di forza nazionalista, come tutti i popoli giovani, dava troppo fastidio; bisognava ad un certo momento mortificarne l’espansionismo e relegarne le forze migliori ad una inferiorità, che durerà forse delle generazioni.

Questo è il nostro «Trattato di pace», così come si ama definirlo, con deplorevole eufemismo, da parte di coloro che ce lo impongono.

Basta l’esame di questo documento, anche per quanto riguarda le clausole politiche, che ci mortificano nella nostra sovranità nazionale, che ci impongono determinati principî di tutela delle minoranze, che noi abbiamo, peraltro, sempre rispettato, che per poco non ci impongono un regime capitolare, per esser certi che da due anni ad oggi i movimenti della politica internazionale prescindono dalla morale e dispregiano il diritto.

Rileggete Tacito, quel punto degli «Annali» ove è ricordato il discorso di Ceriale al popolo di Treviri in rivolta: «L’oro e la ricchezza materiale sono le cause prime di ogni guerra».

Da duemila anni ad oggi nulla è cambiato. E più aggressivi, più fatalmente crudeli nei nostri confronti sono stati appunto coloro, che, per vicinanza o per complementarietà d’interessi, avevano il tornaconto più diretto, onde questa Italia giovane, audace, vigorosa, scomparisse dal novero delle potenze. (Commenti).

TREVES. La guerra l’abbiamo fatta noi o ce l’hanno fatta?

PATRISSI. Io non parlo dal microfono di radio Londra; onorevole Treves, abbia, almeno il buon gusto di tacere. (Interruzioni – Commenti).

TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Treves, ne prendo nota.

PATRISSI. Ora noi stiamo discutendo dell’atto conclusivo della nostra tragedia nazionale. Non intendo fare il processo a chicchessia. L’amore alla Patria esige che dinanzi all’enormità di questo dramma gli italiani si sentano tutti uniti. (Interruzioni – Commenti).

Onorevoli colleghi, procurate di comprendere i motivi che mi animano. (Interruzione del deputato Macrelli).

La conclusione alla quale intendo pervenire è questa: che il documento infame, che si presenta alla nostra indagine, dimostra che la guerra non fu fatta al fascismo, ma all’Italia. (Commenti).

MACRELLI. Non è vero niente: fu fatta dalla monarchia e dal fascismo.

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, la prego, non interrompa.

MACRELLI. Non si possono sentire queste eresie!

PATRISSI. Questa conclusione riveste carattere di estrema importanza per la concordia nazionale.

MACRELLI. Chiedete l’acquiescenza di altri in questo argomento.

PATRISSI. Durante la Conferenza di Parigi, difficile fu la posizione del nostro Ministro degli affari esteri ed in generale dei nostri rappresentanti diplomatici, che non ebbero modo di fare udire la nostra voce e di partecipare ai lavori e dovettero mendicare l’interessamento di questa o quella delegazione, per rappresentare i nostri giusti motivi o per suggerire i nostri emendamenti.

Ringraziamo la Delegazione brasiliana la Delegazione argentina, che si fecero interpreti delle nostre ragioni; ma, indipendentemente da questo ringraziamento postumo, ci sono delle considerazioni fondamentali da fare. Avevate creduto che per mitigare le conseguenze della guerra, secondo voi fatta al fascismo, fosse necessario capovolgere tutti i criteri della politica del fascismo: all’aggressività imperialista sostituire un pacifismo pecorile, assurdo in un mondo di lupi, all’espansionismo costruttivo finiste col sostituire una fregola di rinuncia che doveva logicamente autorizzare gli altri a mutilarci senza pietà. In un momento in cui le amicizie si apprezzano solo se rappresentano forza, e la concordia è il primo elemento della forza di una nazione, voi avete dato uno spettacolo inverecondo di contese civili (Rumori a sinistra) e di discordie continue, così che i motivi di parte hanno soverchiato il sentimento dell’italianità ed il dovere verso la Patria, in un momento in cui non ci era permesso di fare alcuna politica; vi siete consentiti il lusso di enunciare una formula, la formula della «equidistanza». Badate, è una formula nella quale io credo, ma fu enunciata intempestivamente, fu praticata male. L’equidistanza presuppone lealtà nei confronti dei due blocchi, presuppone parità di trattamento: nel praticare quel principio aveste l’abilità di riuscire sospetti al blocco degli occidentali e di diventare invisi al blocco degli orientali.

Sospetti agli occidentali per certe debolezze all’interno nei confronti del Partito comunista (Rumori a sinistra); invisi al blocco orientale per certi amori non contraccambiati o mal corrisposti nei confronti del blocco occidentale.

In quel periodo, quando quattro potenze dominavano la scena politica, quando quattro potenze dominavano a Parigi, il nostro interesse nazionale doveva spingerci e scegliere fra quei quattro un patrono, un sostenitore delle nostre ragioni; chiunque fosse stato, sarebbe stato ben accetto. Invece, per un motivo o per un altro, non potemmo disporre, ripeto, che dell’aiuto della Delegazione brasiliana e della Delegazione argentina, generoso quanto poco valido.

Onorevole De Gasperi, ricorderete che in una seduta della Commissione dei Trattati, dalla vostra relazione, ebbi modo di rilevare una vostra frase, quando, incerto per Trieste, ma sicuro per Pola, recatovi a Parigi aveste l’amara sorpresa di constatare che anche Pola era perduta. In quella circostanza, voi effettuaste visite, avviaste determinati contatti con due autorevoli ministri degli esteri, due dei «Quattro Grandi», che vi risposero: «Abbiamo fatto la guerra per liberarvi; non possiamo fare la guerra per darvi Pola». Frase significativa e rivelatrice di uno stato di fatto. Significava che in quel momento una potenza almeno voleva la guerra o la minacciava; e dall’altra parte due potenze la guerra deprecavano o paventavano. Quella potenza che la guerra minacciava aveva indubbiamente il controllo della situazione in quelle circostanze.

Tutti i colleghi sanno che non posso essere sospettato di tenerezza verso i comunisti. Sono stato io il solo che abbia fatto sempre pubblica professione di anti-comunismo. Ebbene, dico che in quella circostanza, potendo, bisognava distinguere diplomaticamente tra Russia e partito comunista, pur sapendo che sono la stessa cosa, e facendo una campagna anti-comunista bisognava evitare la speculazione antirussa. Questa speculazione, invece, fu fatta. Noi avevamo una situazione fortunata, in quanto determinati problemi di interesse russo erano contemporaneamente problemi di interesse americano, e non dovevamo consentire che i nostri rapporti diplomatici con la Russia subissero la ripercussione, il riflesso della situazione interna del Paese e delle polemiche fra i partiti.

In altri termini, noi dovevamo distinguere fra azione del partito comunista in Italia e Unione delle Repubbliche socialista sovietiche.

Onorevole De Gasperi, lei sa che questo concetto io l’ho espresso molti mesi fa alla Commissione dei Trattati. Dovevamo contemporaneamente, di fronte al pericolo che incombeva allora, come incombe adesso (anche se non è stato espresso dall’onorevole Ministro degli esteri) avviare trattative dirette con la Jugoslavia, per motivi evidenti. Avevamo, come abbiamo, delle minoranze da tutelare; avevamo, come abbiamo, interessi economici da tutelare; avevamo un interesse politico preminente: quello di stabilire un patto di non aggressione, che avrebbe consentito la immediata individuazione dell’aggressore il giorno in cui fosse mutato lo status quo ai nostri confini orientali.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma lei sa che lo abbiamo tentato.

PATRISSI. È stato tentato durante il suo viaggio a Parigi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Parecchie volte, durante la Conferenza.

PATRISSI. Ma questa riunione è avvenuta successivamente, onorevole De Gasperi. Ora, anche questa applicazione pratica del principio della equidistanza, nel momento in cui fervevano le trattative per il dettato di pace, non è stata rispondente ai nostri interessi.

Noi avremmo dovuto attuare una politica pendolare, machiavellica se vogliamo. Non ci facciamo impressionare dalle accuse che altrui ci rivolge per la pratica di questo machiavellismo, che gli altri, poi, attuano assai meglio di noi. Io non arrivo al punto dell’onorevole Nitti che, per scagionarci dalle accuse di machiavellismo, pensa di sminuire Machiavelli. Io ho profondo rispetto per questo probo uomo, che ha vissuto tutta la sua vita in povertà, senza riuscire a dare mai libero sfogo alle sue ambizioni, che erano molte, e vivendo castigatamente del frutto del suo lavoro. In fondo, questo Machiavelli ha fatto testo in ogni paese. Non vedo la ragione per la quale noi, che siamo i lontani epigoni di Machiavelli, non dovremmo applicare i suoi principî. Tanto più se si pensa che il documento di pace di cui ci occupiamo è documento sommo della pratica machiavellica più spudorata, più impudente, più infame.

Non ho bisogno di intrattenervi ancora su quelle che sono le parti sostanziali del Trattato di pace. Nella sua genesi e nella sua stesura, esso rivela un contrasto palese fra la premessa e il testo. La premessa, malgrado contenga notevoli falsificazioni storiche, può significare la possibilità di riunire, alla Patria, nell’interesse comune, le forze dell’antifascismo.

Badate, il documento che noi esaminiamo, chiude un periodo storico, ma ne apre un altro. Può avere un enorme significato il ratificarlo o meno, il ratificarlo prima o poi. Ratificarlo sic et simpliciter significa riconoscere la negazione della nostra dignità nazionale, significa accogliere in pieno l’umiliazione che è distillata in ogni parola del documento, significa precluderci praticamente ogni possibilità di revisione.

 Basta esanimare lo spirito con cui il trattato è stato redatto, per comprendere che di revisione, per molti anni, non ci sarà da parlare, almeno seriamente.

Ratificare, soprattutto subito, senza che siano cioè maturati i presupposti di quel famoso articolo 90, che riassume e compendia l’ipocrisia di coloro che hanno escogitato il documento (mentre si è detto che la guerra veniva combattuta in nome dei principî della Carta atlantica, di essi non vi è traccia che nel solo articolo 15, e nel Trattato, del resto, quei principî esulano da tutti gli altri articoli) significa assecondare gli scrupoli dei paesi del blocco occidentale che, retti da Governi democratici, non possono prescindere dal giudizio e dalla sanzione dell’opinione pubblica.

I soldati americani ed inglesi dicono ancora oggi che hanno combattuto per liberarci, essi che hanno captato tutte le ricchezze della terra per loro. Con l’articolo 90 si è tentato di togliere al Trattato il carattere di imposizione esosa, la caratteristica della coazione, e si è pensato, fra i tanti obblighi imposti all’Italia, di imporre anche quello della ratifica. Capolavoro di ipocrisia, che non ha alcun precedente nella storia dei trattati internazionali.

Ora, ratificare prima che siano maturati i presupposti della nostra ratifica significa oltre che colpevole arrendevolezza, imprimere una svolta alla nostra politica estera.

Io non sono d’accordo con l’onorevole Corbino, quando afferma che la ratifica non è un atto ostile nei confronti del blocco orientale. Ho già detto che avere praticato la formula politica della equidistanza è stato un errore durante i lavori della Conferenza di Parigi; ma oggi che questo documento conclusivo è redatto, oggi più che mai dobbiamo attenerci alla formula della equidistanza.

Onorevoli colleghi, i blocchi antagonisti esistono o non esistono. Purtroppo esistono ed esistono in funzione militare prima che in funzione economica. Noi abbiamo bisogno di modificare le linee della nostra politica estera. Badate che mentre in politica interna si rende qualche volta, non sempre, il tributo alla morale e al diritto, nel campo internazionale la politica è per così dire pura: si pensa e si fa in termini di interessi, di egoismo e di rapporti di forze.

In mezzo a questi blocchi, il nostro proposito deve essere, per il momento, uno solo: quello di mantenere una linea di assoluta neutralità; ma, perché la nostra amicizia possa essere sollecitata, il nostro appoggio possa assumere un qualche valore e il nostro pensiero possa essere richiesto su determinati problemi, è anche necessario che, dinanzi a questo zero che rappresenta ed esprime il nostro valore politico internazionale odierno, anteponiamo una cifra significativa. Invece, siamo arrivati all’assurdo di affermare che abbiamo bisogno di un esercito simbolico. A me si fa l’accusa di essere nazionalista. Se siete in buona fede, tenete conto che il nazionalismo odierno non è che un solo proposito in tre direzioni: vivere con dignità, lavorare con dignità, morire con dignità.

Noi non abbiamo propositi aggressivi di alcun genere, noi non abbiamo che una sola speranza: quella di rivedere possibilmente presto il nostro Paese nei consessi internazionali apportare la propria collaborazione democratica, costruttiva, sincera, onesta, alla risoluzione di tutti i problemi che travagliano attualmente la vita dell’umanità.

Ratificare quindi, secondo il mio punto di vista, è un tragico errore, perché ci preclude ogni possibilità di revisione. Ratificare ora sarebbe anche più grave errore, perché sposterebbe il baricentro della nostra politica a favore di uno dei due blocchi. Per amore di lealtà, sappiate che al blocco occidentale vanno tutte le mie personali simpatie per affinità ed orientamento culturale; ma l’interesse del Paese ci impone per ora di mantenerci sulla linea del giusto mezzo, senza compromissione da una parte o dall’altra, a destra o a sinistra.

Si presenta una grande occasione per l’antifascismo. L’antifascismo, in questi giorni, relativamente a questo problema, ha un’ultima grande possibilità per riscattare le sue colpe, perché se è vero – come è vero – che il fascismo ha perduto la guerra, non è men vero che, fino a questo punto, l’antifascismo non ha saputo vincere la pace.

C’è la premessa al «Trattato»; quella premessa consente agli antifascisti onesti di esprimere alta e sdegnosa la protesta degli italiani, senza distinzione di parte; (interruzione dell’onorevole Pacciardi) perché, onorevole Pacciardi, la guerra, la sconfitta, il Trattato di pace, ci colpiscono tutti, senza alcuna distinzione.

Purtroppo, ne escono colpiti i giusti e i reprobi, i buoni e i cattivi, coloro che sono degni di esaltazione e coloro che sono degni di rimprovero e di condanna. E ancora, che ne siano colpiti coloro che sono degni di condanna, sarebbe poco male; ma ne sono, soprattutto, e malauguratamente colpiti coloro che sono degni di esaltazione. È questo che duole ed è questo che ferisce l’anima nazionale.

Nell’attesa di questo Trattato, noi abbiamo dimenticato, per convenienza polemica o per eccessivo settarismo di parte, quello che è l’orgoglio del nostro valore militare; e l’averlo dimenticato non ci ha arrecato alcun vantaggio. Ogni parola del documento, suggerita dall’Inghilterra e dalla Francia, sta a ricordare l’olocausto di dedizione, di martirio e di eroismo fatto da tanti nostri fratelli, in terra, sul mare, nel cielo, su tutti i fronti di combattimento; e le grandi potenze, dinanzi al nostro fante scalzo, lacero, affamato, assetato, molto spesso pugnalato alle spalle, hanno tremato. Hanno tremato perché grande era il senso dell’italianità dei combattenti italiani.

Ratificare, significa staccarci da quella che è la radice dei vivi, che sono i nostri morti, coloro che con l’offerta suprema hanno testimoniato una idealità o hanno suggellato una fede.

Mentre verrà apposta la firma di ratifica a questo documento – poiché la maggioranza, ormai, è già costituita – consentite a me, che non ratificherò, di porgere un saluto a tutti i nostri Caduti. L’ultima pagina della loro tragica vicenda, anche più tragica perché sopravvive alla loro morte, sta per essere scritta e sta per concludersi. Consentitemi di rivolgere un saluto accorato e fraterno ai mutilati, agli invalidi, ai danneggiati, ai profughi, a tutti gli italiani che, avendo fecondato col loro sudore e col loro sangue la zolla straniera, sono costretti a ripiegare entro le mura delle Patria, martoriandosi e macerandosi, condannati, forse, a morire per inedia totale, perché non abbiamo sufficiente pane per sfamarli.

Il nostro Ministro degli esteri, nella sua relazione di accompagnamento alla legge, che ci propone la ratifica del Trattato di pace, ha detto che noi siamo un popolo eccessivamente congestionato, per densità numerica, su un territorio ristretto.

Anche per questo motivo, io mi rifiuto di dare il mio voto favorevole alla ratifica di questo documento, perché vivi ed attuali sono ancora i motivi che ci spinsero all’altra guerra del 1915 e all’ultima guerra del 1940. E noi dovremmo accettare la punizione, in nome di idealità che sono ancora praticate da coloro che fanno gravare il loro tallone sulla nostra cervice di vinti!

E c’è un altro motivo. Male ha fatto il Governo dell’esarchia a presentarsi innanzi alle assise dei vincitori, dichiarando che il popolo italiano non aveva alcuna responsabilità.

Il secondo delegato alla Conferenza di Parigi, con atteggiamento forse non gradito al ministro degli esteri del tempo, ma nell’empito della sua lealtà, ebbe a dichiarare che il popolo italiano ha anch’esso la responsabilità di tutta la tragedia che ha sconvolto il Paese.

Il popolo italiano non vi è grato, signori, di aver tentato di togliergli il peso di questa responsabilità. Un popolo colpito negli effetti, nella vita, nei beni, eroicamente si assume tutte le responsabilità. È mal disposto ad essere considerato un popolo di minori, di incapaci, di interdetti. E, presentandolo in questa veste, presentandolo come un popolo, siffatto, voi avete tolto al vostro gioco una delle carte migliori, perché un popolo come il nostro non rinnega la sua storia, fausta o infausta che sia.

Voi siete andati dunque a parlare dinanzi ai vincitori un linguaggio di togati accattoni, dinanzi a una tavola di paladini sterminatori di mostri, mentre rappresentavate un popolo meraviglioso, che subisce e attende, con umiltà francescana, il sorgere di un’alba migliore sull’orizzonte della Patria.

Respingere il Trattato significherà la nostra volontà di presentarci sul piano internazionale con consapevolezza; significherà affrontare i problemi della politica interna avvenire con spirito di concordia. Invito pertanto l’Assemblea Costituente ad assumere il volto dolorante della Patria, e ad interpretarne l’effettiva volontà sovrana, così da meritare un giudizio dei posteri che sia meno duro, meno severo, meno implacabile di quello dei contemporanei. (Applausi a destra – Congratulazioni).

TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà..

TREVES. Onorevoli colleghi, non mi aspettavo altre parole dall’onorevole Patrissi in risposta ad una mia interruzione che non aveva niente di personale. Non mi aspettavo altro dall’onorevole Patrissi, il quale già una volta in quest’Aula aveva adoperato delle parole, su un argomento molto simile, che avevano provocato le conseguenze che tutti sanno..

Io credo che sia impossibile, per l’onorevole Patrissi, di comprendere quella che è la posizione morale e politica di un antifascista da sempre, che si trovi, non per sua colpa, in terra straniera al dichiararsi di una guerra contro quel regime…

CONDORELLI. Non contro quel regime, contro l’Italia. (Rumori).

TREVES. Contro il fascismo, signori! (Interruzione del deputato Pacciardi).

PATRISSI. Anche l’onorevole Pacciardi ha qualche cosa da dire.

PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, ha potuto parlare fino ad ora: adesso non interrompa.

PATRISSI. Io ho il diritto…

PRESIDENTE. Lei ha il diritto di chiedere la parola, non di interrompere.

TREVES. Quanto alla mia attività a Radio Londra, l’Italia – lo so – è una terra di facili leggende, una terra in cui le leggende crescono una sull’altra, in cui la verità si distorce facilmente per passione di parte. Io non oso fare l’auto-réclame ad un mio volume, ma quello che ho detto a Radio Londra, giorno per giorno, è controllabile da qualsiasi persona di buona fede, perché è stato stampato a Roma nel 1945 in un volume che è posseduto anche – non voglio esitare delle copie del mio libro! – dalla Biblioteca di questa Camera: chiunque può controllare.

Aggiungo che non ritiro, non cambio, ma anzi mi onoro di ogni parola che ho detto da quel microfono, perché in ogni parola io sentivo intensissimamente e precisamente la mia responsabilità di italiano, di antifascista e di esule.

Signori, in quel momento un esule antifascista aveva un solo dovere: di partecipare comunque egli potesse, da qualunque luogo nel quale lo aveva gettato il destino, a quella che per noi antifascisti da sempre era una guerra civile internazionale contro il fascismo.

Questo io lo reputo un onore; e il più alto onore della mia vita è che molto spesso, in quei gloriosi giornali clandestini che stampavano i nostri patrioti durante la lotta contro il nazismo ed il fascismo, quello che io dicevo al microfono di Radio Londra è stato ripreso, pubblicato e diffuso, non dico ad incoraggiare, perché non ne avevano bisogno, ma a far sentire ai nostri combattenti che non erano soli nella lotta.

Al signor Patrissi non ho altro da dire. (Applausi a sinistra).

PATRISSI. Domando la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, non ho sentito dalla bocca dell’onorevole Treves alcuna cosa che le possa dare il diritto di parlare. Il fatto personale è esaurito.

È iscritto a parlare l’onorevole Patricolo. Ne ha facoltà.

PATRICOLO. Onorevoli colleghi, molti oratori prima di me hanno preso la parola per dare il loro contributo di scienza e di coscienza ad un dibattito che indubbiamente trascende il valore d’ogni precedente discussione, in quanto si svolge intorno ad un argomento di fondamentale importanza storica per il popolo italiano.

Tra gli oratori che mi hanno preceduto voglio ricordare Vittorio Emanuele Orlando, per la sua opportuna e sapiente proposta di rinvio della discussione, e Benedetto Croce, il quale in forma pura, nobile, scultorea, ha portato in quest’Aula la voce di tutti gli Italiani. E sarebbe stato forse desiderabile che questa triste discussione si fosse aperta e chiusa con lui. Purtroppo, mi pare che il dibattito non sia continuato sul piano degno del problema, né sia valso a porre nel migliore rilievo il vero orientamento del popolo italiano nei riguardi della decisione che noi siamo chiamati a prendere.

Il problema è stato esaminato da vari punti di vista, principalmente dal punto di vista giuridico e da quello politico. Da qualcuno è stato osservato che il punto di vista giuridico non è così importante come quello politico. È stato detto che la valutazione giuridica di questo spinoso problema ha un valore puramente formale. Io ritengo che così non sia: ritengo, invece, che un giudizio strettamente giuridico sul trattato potrà gettare una vivissima luce sulla situazione e dare a noi la chiave di quella che sarà la nostra decisione.

Si è detto che la ratifica non ha rilevanza giuridica, in quanto il trattato, all’articolo 90, ci impone l’esecuzione delle clausole di esso, indipendentemente dalla manifestazione della nostra volontà. Io penso, invece, che proprio l’articolo 90 – e su questo richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi e dei signori Ministri – esprima la complessa antigiuridicità del trattato stesso.

Il trattato che ci si vuole imporre, onorevole Sforza, è, secondo me, nullo; giuridicamente inesistente.

A giustificazione di questa affermazione Le ricordo quella che è stata la prassi internazionale e la storia dei rapporti fra gli Stati nell’epoca moderna. Tutte le convenzioni e i trattati, non esclusi quelli di pace, da molti secoli a questa parte sono stati conclusi ed eseguiti col consenso esplicito di tutte le parti contraenti, essendo considerata tale manifestazione di volontà come elemento indispensabile perché il Trattato potesse avere i suoi effetti giuridici.

Questa manifestazione di volontà per la prima volta nella storia dei trattati dell’epoca moderna non è richiesta allo Stato vinto, all’Italia, contraente e vittima di questo atto diplomatico di Parigi, cui si dà il nome di Trattato.

Qualcuno ha detto che nell’articolo 90 è prescritta la ratifica da parte dell’Italia. Ma, se noi esaminiamo la dizione dell’articolo 90, vediamo che la ratifica da parte dell’Italia è considerata alla stregua delle ratifiche di altre potenze associate, che possono aderire al Trattato, la cui ratifica non è, peraltro, indispensabile perché il Trattato abbia esecuzione.

A questo punto, io chiedo a voi, uomini di diritto, a voi, onorevoli colleghi, se si può affermare che questo trattato sia valido, questo patto in cui manca la manifestazione della nostra volontà.

Non mi si dica che le mie argomentazioni, partono da un cavillo giuridico, né mi si dica che derivano da una illecita trasposizione di concetti privatistici nel campo internazionale. Non si tratta di cavillo giuridico, perché noi sappiamo che la necessità della ratifica dei trattati è norma universalmente riconosciuta e che tutti gli stati vincitori di guerre hanno sempre chiesto al vinto la ratifica del Trattato di pace, ritenendola come elemento essenziale di esso.

Abbiamo visto che, perfino in occasione della ripartizione della Polonia del 1772, l’Austria, la Prussia, e la Russia occuparono la Dieta per obbligare – le armi alla mano – i deputati polacchi a ratificare il Trattato, perché già allora era matura la convinzione che il vincitore non può chiedere che le clausole del Trattato di pace abbiano effetto, se non interviene la ratifica del Trattato da parte del popolo vinto.

Ciò deve renderci pensosi sul valore e sulle conseguenze giuridiche della nostra ratifica: si consideri che i maggiori trattati di pace, in epoca più vicina a noi, non osarono contravvenire a questa regola internazionale. Dal trattato di Vienna al trattato di Versaglia, tutti hanno richiesto la ratifica del vinto.

Ma, a parte i trattati di pace, nessuna convenzione internazionale può prescindere dalla volontà dei contraenti, tanto che questa volontà fu spesso manifestata sotto pressioni e violenze di ogni sorta. Si ricordino, ad esempio, le minacce di Napoleone su Ferdinando di Borbone per imporgli la rinuncia alla successione al trono di Spagna. Il fatto è che in ogni epoca i vincitori hanno usato anche la violenza pur di indurre il vinto alla ratifica. Eppure essi potevano usare la forza per costringere lo Stato vinto ad eseguire le clausole del Trattato; e invece usavano la forza per obbligare alla ratifica, perché nella concezione, seppure spregiudicata, del vincitore, apparentemente rispettoso della volontà del vinto, rimane ferma questa convinzione: che, senza ratifica, il trattato non ha valore giuridico né politico né morale.

Tanto è vero, che la dottrina internazionale ci riporta il cinico motto del vincitore: Coactus voluit, sed tamen voluit.

Da questo che cosa dedurre? Che effettivamente questo articolo 90 vizia il Trattato, sì da renderlo nulla ed inesistente.

E d’altra parte – dicevo – non vi è una illecita trasposizione del pensiero privatistico nel campo internazionale, perché noi vediamo che perfino la Corte permanente di giustizia internazionale prescrive all’articolo 38 del suo statuto che i rapporti fra gli Stati siano regolati non solo dalle convenzioni e dalle consuetudini, ma anche dai principî generali del diritto. E fa parte dei principî generali del diritto la norma che non vi può essere negozio giuridico, patto bilaterale, in cui non appaia la espressa adesione delle parti contraenti all’obbligazione che esse contraggono.

E la ratifica non è se non l’approvazione autentica e solenne data da un potere sovrano ad un trattato, ed ha il valore giuridico di una inequivocabile manifestazione di volontà, manifestazione di volontà che è indispensabile perché un trattato sia valido e sia produttivo di effetti giuridici.

L’ordine del giorno che ha votato l’Assemblea Costituente il 25 febbraio ha sanzionato questo concetto. Qualche oratore – se non ricordo male, l’onorevole Bassano – traeva la conclusione che la Costituente aveva preso l’impegno di ratificare il Trattato attraverso il suo ordine del giorno.

Io ritengo che questo sia inesatto, onorevole Bassano. La Costituente non ha preso nessun impegno. Ha voluto soltanto affermare il principio giuridico per cui il Trattato non può avere validità, non può avere effetto se non con la nostra ratifica.

Quanto poi a ratificare o meno, lo giudicheremo sulla base degli elementi politici, oltre che giuridici, che saranno sottoposti alla nostra valutazione.

In base agli elementi giuridici noi dobbiamo considerare che, se il Trattato è nullo in se stesso, la nostra ratifica non servirebbe a perfezionarlo, ma a renderlo valido, cioè, a dire, la validità di questo Trattato non dipende dal fatto che la nostra ratifica sia uno degli elementi costitutivi del Trattato stesso. Ratificando, l’Italia darebbe spontaneamente esistenza ed effetti giuridici a un trattato che, senza tale ratifica, resterebbe nullo.

L’onorevole Corbino si chiedeva nel suo discorso perché gli alleati insistono o possono insistere sulla ratifica. Ritengo che la ragione sia precisamente questa, che essi si rendono conto del giudizio che darà di questo Trattato il mondo, che ne daranno i posteri, che ne darebbe eventualmente una Corte di giustizia internazionale. E ciò perché gli alleati si rendono conto della loro responsabilità di costituire un precedente così grave, antigiuridico ed iniquo, che non potrebbe resistere di fronte all’opinione pubblica mondiale e che potrebbe originare, in avvenire, un pericoloso declino di quella morale internazionale, cui tanto faticosamente siamo giunti attraverso secoli di progresso e di civiltà.

E, d’altra parte, noi ci troviamo di fronte a popoli che sono ben convinti del buon diritto dell’Italia. Quando ci si dice che essi hanno voluto affermare la loro forza e la loro supremazia, si dice qualcosa che non risponde, secondo me, al vero, perché, dalle dichiarazioni di uomini politici rappresentativi e responsabili negli Stati vincitori, noi sappiamo che i popoli alleati e associati sono convinti delle ragioni dell’Italia di rifiutare la sua adesione al Trattato. E nella stessa formula dell’articolo 90 noi dobbiamo vedere implicita la loro convinzione che l’Italia non avrebbe mai ratificato.

Ma non è da escludere che gli alleati siano tornati sulla loro decisione, rilevando che tale articolo 90 invalidava l’intero atto di Parigi. Ora se noi non ratifichiamo, il Trattato non acquisterà valore giuridico e noi, in qualunque momento, potremo far valere il nostro diritto alla revisione parziale o totale di esso.

Quindi ratificare o non ratificare ha una grandissima importanza. Se ratifichiamo noi compiamo un atto libero, spontaneo, volontario, un atto che non ci è imposto e, onorevole De Gasperi, qualsiasi protesta fatta da questa Assemblea non sortirebbe alcun effetto, quando noi giungessimo spontaneamente alla ratifica e sarebbe svalutata dalla nostra accettazione.

È inconcepibile che l’Assemblea Costituente, conscia della ingiustizia del Trattato, nello stesso momento in cui protesta contro la sua iniquità, autorizzi il Governo a ratificare quando la ratifica non è elemento indispensabile dello stesso Trattato. Né è a dire che, dopo la ratifica da parte della Russia, la nostra possa avere un effetto giuridico diverso, perché anche allora la nostra ratifica non sarà necessaria: anche allora sarà spontanea.

L’onorevole Croce, che ha sfiorato sapientemente il punto cruciale della questione, ha detto: Noi non dobbiamo ratificare, ma solamente eseguire. D’accordo, onorevole Croce, noi dobbiamo dare esclusivamente una accettazione che è imposta dalla minaccia di esecuzione diretta di quelle clausole da parte degli alleati, e che non ha valore di ratifica, neanche tacita. S’intende che anche in questo caso il Trattato rimane nullo. All’Italia vinta, se pur cobelligerante, non resta che piegarsi alla forza del nemico-alleato.

E noi potremo sempre così far valere la nullità del Trattato; e sappiamo che nel passato non poche sono state le revisioni dettate dal riconoscimento del vizio di volontà, nell’applicazione dei trattati di pace. Ci sono state molte istanze alla Società delle Nazioni, per l’annullamento dei Trattati imposti con la forza: ricordiamo fra le altre, quelle della Cina contro il Giappone per il Trattato sullo Shantung; della Russia e della Romania contro la Germania per la denuncia dei patti di Brest-Litovsk e di Bucarest.

Date queste considerazioni di carattere giuridico, passiamo alle considerazioni di ordine politico.

Quale può essere il significato politico di questa ratifica anticipata?

Una ratifica anticipata, spontanea, da parte della Repubblica Italiana, non può avere che due significati: o il riconoscimento della giustizia e della equità del Trattato, oppure il riconoscimento dell’opportunità che questo Trattato per quanto iniquo, venga ratificato nell’interesse del Paese.

 Questo è il dilemma che a noi si pone. Al primo quesito rispondiamo che tutto il popolo italiano è convinto dell’iniquità, dell’ingiustizia del Trattato. Non rimane che la seconda tesi. È opportuno per noi, malgrado il Trattato sia ingiusto, crudele e vessatorio, ratificarlo? Di fronte a questa eventualità vediamo quali sono gli elementi che possono spingere l’Assemblea Costituente ad un tale sacrificio della propria dignità, del proprio onore.

Questi elementi ci vengono forniti in maniera nebulosa dal Governo. Ci si è detto che noi dobbiamo andare incontro agli Alleati, che dobbiamo offrire qualche cosa, perché essi domani possano concederci una eventuale revisione, perché possano guardare il nostro ingresso nell’O.N.U. con una maggiore simpatia, perché possano aiutarci nella nostra ricostruzione interna e possano porci nel quadro della ricostruzione europea. Ma molti oratori hanno parlato, oratori che parteciparono alla Commissione dei Trattati; e questi ci hanno detto che tanto l’onorevole Sforza quanto il Presidente del Consiglio non hanno mai dato giustificazioni esaurienti onde poter orientare il Paese ad una ratifica anticipata.

Qualcuno ci ha detto che l’onorevole De Gasperi ha parlato di sensazioni, di convinzioni e lo stesso onorevole De Gasperi lo ha confermato a questa Assemblea. Ora mi domando se gli italiani, di fronte a un fatto così crudele come la firma di questo spietato documento, possano contentarsi delle sensazioni dell’onorevole De Gasperi. Io ho molto rispetto per l’onorevole De Gasperi, e ricordo le parole tristi da lui pronunciate il 28 giugno 1946 quando apprese la notizia che Briga, Tenda e il Moncenisio sarebbero passati alla Francia; egli ci disse in quel giorno: «notizia amara ed inattesa che vorrei supporre non ancora irrevocabile. L’Italia ha dimostrato con i fatti di ripudiare la politica di Mussolini e di volere una politica di amicizia verso la Francia. In concreto, l’Italia ha rinunciato, con spirito conciliativo, alle posizioni conquistate nel 1896 in Turchia, con effetti umilianti e disastrosi per molti nostri connazionali».

Seguiva una sintesi di altre rinunce, di altre concessioni.

Mi dispiace, onorevole De Gasperi, ricordarle questo episodio doloroso, ricordarle questa sua confessione. È evidente che quella volta le sue sensazioni erano errate, quella volta lei aveva pensato di potere giovare all’Italia facendo concessioni che sacrificavano interessi di nostri connazionali e il risultato è stato che la Francia non ha voluto intendere nessuna buona ragione nostra.

E allora mi consenta, onorevole De Gasperi, che io mi rifiuti di aderire alla proposta di ripetere lo stesso esperimento per la seconda volta.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Era peggio allora, perché c’erano assicurazioni.

PATRICOLO. Allora c’erano delle assicurazioni, eppure questi signori, i nostri nemici-alleati, non hanno concesso niente al suo spirito conciliativo!

Lei ha ceduto sugli interessi dei nostri fratelli tunisini ed essi potrebbero chiedere conto a lei di quelle rinunzie ed umiliazioni. Ed oggi che gli alleati nulla ci promettono, ella vuole che noi facciamo questo ulteriore passo conciliativo, firmando un atto così disonorevole per il popolo italiano?

Onorevole De Gasperi, se ho richiamato alla sua memoria quell’episodio è per giustificare il mio scetticismo nel suo ottimismo.

Se lei oggi ci chiede di firmare con l’assicurazione che noi otterremo un contraccambio per la nostra firma o sono costretto a chiederle, a mia volta, a nome di coloro che rappresento, che cosa avremo in cambio di questo sacrificio a cui ella ci chiama. Ma la sua. risposta è già nota: «Non posso assicurarvi niente, perché niente mi è stato assicurato».

In queste condizioni io non penso, come molta parte del popolo italiano non pensa, di potere aderire alla ratifica che ci viene richiesta.

Ho proprio ricevuto in questi giorni dalla Francia una copia del rapporto della Croce Rossa Italiana presentato al Governo di Parigi sulle spoliazioni che si fanno ai danni dei nostri connazionali di Tunisi in base all’articolo 79 del Trattato che ancora non è stato ratificato, che ancora non è in vigore. E queste spoliazioni, queste vessazioni continuano fin dal 1943.

La Croce Rossa Italiana (forse l’onorevole Sforza ha una copia del rapporto) ha inviato una vibrata protesta al Governo francese perché prenda in considerazione gli interessi dei nostri connazionali. La Francia è forse pronta a rivedere la sua posizione d’intransigenza? Si direbbe che no!

Anch’io devo chiedere, come l’oratore precedente: in cambio di questa ratifica ci si offre il benché minimo compenso di qualsiasi specie? Quando si è parlato di Briga e Tenda, un Deputato, del settore opposto al mio, disse con una scrollata di spalle, che per qualche metro quadrato di territorio non si muta il corso della storia d’Italia! È triste! Pure lo dico, onorevole Sforza, che anche in compenso di qualche metro quadrato di territorio io ratificherei il Trattato. Se l’onorevole Sforza affermasse: Ho ottenuto una piccola concessione, ho ottenuto che cento italiani rimangano italiani e non vadano esuli in terre straniere; io potrei rispondere: Ratifico. Se lei, onorevole Sforza, dicesse all’Assemblea: Per una ragione di riservatezza è correttezza diplomatica, non posso parlarvi delle promesse che ho ricevute, ma sul mio onore di italiano vi dichiaro che esse esistono; ratificate e vedrete che ne risulterà un bene per l’Italia, io accetterei di ratificare sulla sua parola; ma lei tace, onorevole Sforza, ed io arguisco che lei questo impegno non possa prenderlo, perché effettivamente gli alleati nulla hanno promesso. Né voglio pensare che gli alleati non abbiano neanche chiesto la ratifica, e che siate voi a spingere l’Assemblea Costituente ed il Paese a ratificare!

Non voglio fermarmi su questa idea, perché sarebbe troppo doloroso per noi supporre che un Ministro degli esteri, un Ambasciatore chiedano agli Italiani una così grande umiliazione per giungere a Parigi, a Londra, a New York con un maggior viatico di grazie, per ricevere un più lusinghiero sorriso da parte di ministri ed ambasciatori stranieri.

Io non voglio neanche pensarlo, e d’altra parte ritengo che si possa mantenere il proprio posto con maggiore dignità in una anticamera, anziché in un salotto, quando in questo salotto non si sta alla pari con i padroni di casa.

Sono profondamente convinto che il popolo italiano non deve accettare questa ratifica, né le vostre dichiarazioni sono state tali da indurmi ad una diversa convinzione.

Io non credo che sia più il caso di fare offerte spontanee agli alleati. In noi è la buona volontà di collaborazione; noi non ci vogliamo isolare dal congresso dei popoli. Vogliamo vivere e lavorare in pace con tutti. Essi lo sanno.

Che cosa possiamo fare di più? Se si pensa che noi abbiamo per loro cambiato fronte e nemico, abbiamo mandato le nostre truppe a combattere per loro, abbiamo avute le nostre umiliazioni, abbiamo avuti i nostri morti, le nostre distruzioni? Che cosa possiamo fare di più per dimostrare agli alleati che noi vogliamo una politica di pace e di giustizia? Io non credo che noi dobbiamo dare altre prove. Ormai tocca agli alleati darci prova di concreta amicizia e di gratitudine per il contributo che l’Italia ha dato alla guerra della così detta libertà e democrazia.

Ma non ci chiedano di ratificare. Essi non devono chiedere che l’accettazione esclusiva delle clausole che ci impongono. E questa accettazione di clausole non deve avvenire oggi, ma il giorno in cui, ratificato il trattato da parte della Russia, noi ci troveremo di fronte al bivio: o subire l’affronto di una nuova occupazione militare per l’imposizione di quelle clausole o accettarne l’esecuzione. Ma allora noi lo faremo per evitare al popolo italiano altre umiliazioni, altre sciagure e altre violenze. Soltanto in quel momento o per quel momento potremo decidere di eseguire le clausole; mai ratificare il Trattato, perché se ratificassimo, tutte le proteste da parte del popolo italiano perderebbero ogni valore etico e giuridico, dissolvendosi nel ludibrio del più immorale patteggiamento. Noi non dobbiamo ratificare né oggi né mai, per rispetto dei nostri morti e della Patria in gramaglie.

Devo ora ricordare certe strane parole pronunciate in quest’Aula, da parte di alcuni oratori. Per chi le ha pronunciate, indubbiamente, non sono tali, ma al mio orecchio suonano particolarmente strane!

L’onorevole Bassano ci ha chiesto di ratificare per amore della libertà e della democrazia e per esser coerenti con quella lotta che gli italiani hanno combattuto in odio al fascismo; ci ha detto: Noi non ci adontiamo se gli alleati non vogliono riconoscere la nostra cobelligeranza, il nostro contributo alla guerra di liberazione; noi dobbiamo ratificare in onorò dei morti alleati.

Trovo singolare questa osservazione e credo necessario che in quest’Aula venga detta una parola a questo proposito. Trovo singolare la generosità dell’onorevole Bassano, generosità penso cristiana, veramente grande, ma profondamente irreale, sovrumana. Onorevole Bassano, quando si rappresenta un popolo, non si ha il diritto di essere così generosi. Non si ha il diritto di dimenticare i propri morti per onorare i morti altrui. Se noi dovessimo ratificare, non sarebbe certamente per rendere onore ai morti inglesi e americani, ma principalmente per servire gli interessi e gli ideali della nostra Italia. Noi abbiamo invece il dovere di ricordare i nostri morti, i nostri mutilati, i nostri combattenti e non soltanto i combattenti della lotta di liberazione, ma anche i combattenti della infausta guerra, perché questa guerra che abbiamo combattuto, l’abbiamo combattuta con onore, e sono proprio gli stessi alleati che oggi c’impongono le clausole dell’ingiusto Trattato, che hanno riconosciuto, quando erano nemici, il valore delle nostre truppe, che ci hanno dato spesso l’onore delle armi sui campi di battaglia. Noi dobbiamo fieramente proclamare al mondo, in nome dei morti in guerra, in nome soprattutto dei morti nella lotta partigiana, che non ratificheremo e non credo sarebbe ragione di orgoglio per il popolo italiano affermare che noi rinunciamo a questo nostro sacrosanto diritto di ricordare i nostri morti, per rendere onore ai morti del nemico. È una inconcepibile assurdità.

Mi spiace richiamare in questione anche l’onorevole Treves. Ma egli ha detto qualche cosa che desidero rilevare. Non mi occuperò delle sue frasi pronunciate a proposito del passato che noi dobbiamo seppellire. Credo che ad esse abbia risposto sufficientemente l’onorevole Patrissi. Voglio riferirmi ad una frase con cui egli ha messo in ballo ancora il nazionalismo italiano e in cui ha fatto l’ennesima professione di anti-nazionalismo, e ciò in un momento così drammatico per la nostra vita nazionale. Fino a qualche giorno fa in quest’aula risuonavano delle note antinazionaliste, però c’era ancora il pudore di dire: noi siamo contro il nazionalismo esasperato ed esagerato che porta gli Stati all’avventura.

L’altro giorno, invece, l’onorevole Treves ha abbandonato il noto motivo dell’esasperazione nazionalistica ed ha detto: noi siamo contro qualsiasi nazionalismo; ed ha voluto affermare, anche questo: che il nazionalismo ha portato l’Italia vittoriosa del 1918 in braccio al fascismo e quindi alla disfatta di oggi.

Io vorrei chiedere all’onorevole Treves cosa ha portato l’Italia alla vittoria del 1918, se non il nazionalismo; che cosa ha portato l’Italia al Risorgimento, se non il nazionalismo?

ROMITA. La democrazia.

PATRICOLO. Io parlo del nazionalismo sano; non facciamo speculazioni su questo. È il nazionalismo sano che ha portato l’Italia alla guerra del 1914 e alla vittoria del 1918.

VERONI. Non è vero questo.

PATRICOLO. Questo nazionalismo fino a qualche giorno fa era ancora rispettato e ammesso dai signori della sinistra: oggi si nega ogni fede nazionalista, anche quella che piomba nel lutto i giuliani e i dalmati perché strappati dal territorio nazionale.

Vorrei chiedere, cosa è nazionalismo per voi, se non questo legame sacro che unisce tutti gli italiani fra di loro in una comune famiglia?

In fondo non posso stupirmi delle parole dell’onorevole Treves, perché conosco la sua fede e il suo passato. Ma certamente le stesse parole trovo incomprensibili sulla bocca dell’onorevole Pecorari, deputato giuliano, il quale ha dichiarato: noi giuliani non siamo nazionalisti. Ma perché avete tanta paura di questa parola, perché non avete il coraggio di affermare la vostra fede? Perché volete distruggere un sentimento sacro in odio ad una parola? Vogliamo essere obiettivi una volta tanto e dire che il nazionalismo nel suo senso puro e nobile è antitesi di qualsiasi imperialismo e di qualsiasi impulso di guerra e di conquista, perché nazionalismo è un’idea di diritto che si oppone all’imperialismo, che è invece idea di forza, dato che ogni nazionalismo sano deve esser rispettoso del nazionalismo altrui? In virtù del nazionalismo noi italiani vogliamo giustizia e chiediamo che la Venezia Giulia, la Dalmazia, Briga e Tenda rimangano all’Italia. In base al nazionalismo più puro noi abbiamo combattuto tutte le guerre del Risorgimento e lottato contro tutti gli indipendentismi che minacciavano l’unità nazionale.

Cos’è il nazionalismo se non il sentimento della famiglia trasportato nella Nazione? Bisogna intendersi; questo è nazionalismo per me, questo deve essere per voi. E quindi, quando si dice che il nazionalismo è cosa condannevole, io che per nazionalismo intendo questo sentimento di purezza e di fratellanza fra tutti i figli della stessa patria, non posso che sentirmi ferito in questa mia convinzione che è comune alla maggioranza degli italiani.

Quando tutti gli Stati saranno finalmente riportati entro i loro confini nazionali cesseranno le rivendicazioni territoriali e le cause di guerra. Ed allora si potrà giungere alla creazione di una più vasta famiglia di popoli basata sul rispetto dell’individualità nazionale di ciascuno Stato.

L’imperialismo continentale non può nascere dal nazionalismo, dal nazionalismo quale io l’intendo.

Piuttosto penso che sia più da temere l’esaltazione del patriottismo. Se patriottismo non è sinonimo di quel sentimento che dicevo, esso può essere davvero pericoloso per un Paese. Per esaltazione di patriottismo noi avemmo le guerre di conquista di Alessandro Magno, di Giulio Cesare e di Napoleone. Fu patriottismo quello che spinse i francesi, i romani ed i macedoni alla conquista del mondo. Il patriottismo può portare all’imperialismo in quanto non contenuto entro confini storicamente e giuridicamente determinati e può esaltarsi dell’amore della propria patria sì da portare fuori dai confini questa sua passione.

C’è stato e c’è un nazionalismo puro in Italia. Evitiamo di travolgerlo nella delusione della disfatta, rispettiamolo, perché esso ha creato l’Italia. È antistorico affermare il contrario. È questo sentimento nazionalistico che ancora permette la coesione nel nostro Paese: senza questo sentimento nazionale l’Italia una non esisterebbe da tempo, non sarebbe mai esistita. E appunto in nome della nostra solidarietà nazionale che dobbiamo opporci alla crudele volontà del Diktat, per l’onore della nazione italiana, per l’amore dei nostri fratelli del Piemonte e delle sponde adriatiche.

Onorevoli colleghi, lasciate che il Paese reagisca di fronte ad una violenza che incide così profonde ferite nel sentimento nazionale degli italiani, lasciate che gli italiani alzino la loro voce contro l’iniquità del Trattato e non sia soltanto l’onorevole Orlando ad opporsi alla ratifica che ci si vuole imporre – come vorrebbe il collega Gasparotto – ma tutti quegli italiani che si stringono intorno a lui in questo momento grave della nostra storia, maledicendo il Trattato e implorando da Dio e dagli uomini giustizia per l’Italia. (Applausi a destra).

PECORARI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PECORARI. Volevo rispondere all’onorevole Patricolo, per precisargli che io per nazionalismo non intendo quel che lui – con una sua interpretazione del vocabolario – ha voluto esprimere. Oggi io sono contro tutti i nazionalismi, quelli nostrani e quelli degli altri popoli. Per patriottismo o, se vuole, per sano patriottismo, io intendo reclamare quello che è nostro per noi e quello che è altrui darlo agli altri.

PATRICOLO. Questo è nazionalismo, non è patriottismo.

PRESIDENTE. Non facciamo questioni di vocabolario onorevoli colleghi!

È iscritto a parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli signori, io che avevo sostenuto la tesi, proposta in linea pregiudiziale dall’onorevole Benedetti, dell’illegittimità della proroga di questa Assemblea, dal 24 giugno al 25 luglio non sono più entrato in questa Aula. Questo perché, evidentemente, un voto dell’Assemblea non poteva mutare la mia convinzione.

Ma, a fianco di quelli che sono i criteri di legittimità, esistono anche i fatti politici. Il fatto politico è che quest’Assemblea, legittimamente o illegittimamente prorogando i suoi poteri, continua ad operare e ad operare su questioni che gravemente incidono sulle sorti del Paese. Questa proroga, contro la quale avevo votato, mi dà la facoltà di continuare a portare il mio modesto contributo su lavori che possono decidere e – nel caso specifico che oggi si discute – per moltissimi anni le sorti della Patria. Io ho ripreso il mio posto di combattimento e debbo confessare che non mi dispiace eccessivamente che se, contro quelli che sono la mia convinzione ed il mio sentimento – sentimento di italiano e convinzione di uomo politico, che coincidono nella certezza che questo Trattato non si debba ratificare – questo Trattato sarà ratificato egualmente, non mi dispiacerà che sia stato ratificato da un’Assemblea sulla cui competenza si possono sollevare dei dubbi.

Io non avevo intenzione di parlare in questa discussione: volevo riservarmi una semplice dichiarazione di voto. Se oggi parlo, lo faccio perché ne ho ricevuto da vari settori qualche sollecitazione. Intendiamoci bene: non l’ho ricevuta io questa sollecitazione, l’ha ricevuta il personaggio; perché nella vita politica, quando le circostanze hanno portato un uomo a rappresentare qualcosa in una battaglia, quest’uomo cessa di essere uomo e diventa un personaggio.

Si è ritenuto da alcuni che forse era opportuno che il personaggio facesse sentire la sua voce in questa circostanza. Io sono venuto come personaggio, ma incominciando a parlare mi ritrovo uomo, e nelle mie parole c’è tutta la passione dell’uomo, la passione dell’italiano, la passione dell’europeo, la passione dell’uomo civile e del cittadino del mondo, tutti ugualmente calpestati ed insultati dalla follia delle potenze che ignorano civiltà cristiana e obiettività di diritto.

Si è parlato di critica da fare alla politica estera del Governo. Qui non si discute la politica estera né di questo né dei precedenti Governi. Qui si discute, se si vuole, la politica estera dell’Italia per lunghi decenni; quindi per tutti i Governi, di ieri o di domani. Il voler sminuire ad una polemica politica, che può essere anche manovra politica, quella che è una discussione non sulla politica estera di un Governo, ma sulla continuità di politica estera che dovrà segnare l’avvenire della Patria e speriamo la chiusura di una fase di disavventure, sarebbe così meschina cosa che io non credo alcuno voglia farlo. Ad ogni modo, io non lo farò; io che sono il più legittimato a farlo perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che ci eravamo messi sulla strada sbagliata; perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che si faceva troppa politica interna e troppo poca politica estera; perché fin dal giugno del 1944 sostengo che gli interessi del Paese non si servono soverchiando a fini di parte quelli che sono i supremi interessi della Nazione; perché fin dal giugno del 1944 io sostengo che non si servono gli interessi della Nazione cospargendosi volontariamente la testa di cenere, anche quando non è richiesto, perché certe volte si debbono difendere gli errori dei propri predecessori, anche quando si sono ripudiati; perché fin dal giugno dei 1944 sostengo che non si può organizzare un’azione diplomatica mandando in giro per il mondo a rappresentarci dei valentuomini, che avranno avuto speciali capacità nelle Università, nell’agricoltura o nelle preture, ma che non conoscono la tecnica del negoziare, che non hanno conoscenze personali, le quali sole possono aiutare un diplomatico (e l’onorevole Sforza me ne dà atto) quando si trova in un ambiente ostile, onde fare qualcosa per il suo Paese. L’uomo che non è conosciuto, che non ha la fortuna di trovare in questo o in quell’ufficio colui con il quale fu consigliere a Teheran, o giovane attaché in un’altra sede, l’uomo che non ha nemmeno questa possibilità, anche se è il più valoroso dei diplomatici è destinato all’insuccesso, perché la diplomazia è una tecnica e non una improvvisazione.

Questa è una critica che si rivolge ad una politica, e non a dei Governi, ad una politica che è stata seguita da tutti i Governi dal 1944 in poi, e che è stata una politica errata, e della quale io non ho mai condiviso le responsabilità.

Oggi, ci troviamo di fronte ad un documento che si chiama Trattato di pace. Io mi atterrò soltanto a questo documento.

L’oratore che mi ha preceduto ha terminato il suo discorso con una questione di vocabolario, un’interpretazione da dare alle parole nazionalismo, patriottismo, ecc. Permettete che anche io faccia una questione di vocabolario.

Trattato di pace. Dunque, Trattato; trattato viene da trattare, Se lo sono trattato fra di loro, ma noi non abbiamo trattato. Questo non è un trattato con l’Italia; questo è un trattato fra altri, che riguarda l’Italia. In questo Trattato, se trattato si può chiamare, l’Italia non è soggetto del Trattato; è soltanto oggetto del Trattato.

Si dice Trattato di pace, ma questo documento, che è trattato soltanto fra coloro che lo hanno trattato, è un documento di guerra; perché questo documento è una premessa necessaria ed indispensabile a nuovi conflitti.

È inutile che nascondiamo la testa sotto l’ala dicendo che di guerre non si deve parlare, perché di guerra si parla dappertutto. La guerra è nell’aria, perché l’altra guerra non è finita.

L’ultima guerra mondiale è stata combattuta non, come si è detto da alcuni, ricordando Terenzio, per ragioni economiche. Questa guerra è stata una guerra ideologica; si è fatta questa guerra nel nome della giustizia fra i popoli, nel nome della libertà e della democrazia; poi, a mano a mano che la guerra diventava difficile e le preoccupazioni aumentavano negli uomini di Stato, questi fini si sono dimenticati, e la guerra, che si era fatta per la libertà e la giustizia fra i popoli, si è conclusa con la sopraffazione dei popoli, con la legge di Brenno. La guerra non cesserà, finché non si troveranno un assetto ed un equilibrio che rispondano alle ragioni che l’hanno suscitata; e queste ragioni rispondono ad esigenze più vive che mai! Questo è, quindi, un Trattato di guerra fra altri, un Trattato che prepara le premesse della guerra e che già delinea dei piani militari i quali, per chi abbia una certa esperienza in materia, sono molto ben trasparenti. Perché Briga e Tenda significano una linea di difesa sulle Alpi, nel caso che si volesse abbandonare la Valle Padana, e questa Valle Padana, si dovrà abbandonare, perché ne è aperta la porta a chiunque voglia farvi una passeggiata militare.

Io domando se noi (che tutti, e nella guerra sbagliata che fu perduta perché si doveva perdere, e nella guerra giusta che fu quella di liberazione e che fu vinta militarmente perché non si poteva perdere, e fu perduta politicamente perché mal condotta, cosicché, cobelligeranti a Roma ci ritrovammo vinti alle Alpi) io domando se tutti noi che abbiamo partecipato in un modo o in un altro a questa guerra possiamo porre la nostra firma su un documento che consacri con essa firma anche la nostra volontà di vedere l’Italia diventare un nuovo campo di battaglia.

Ad ogni modo si dice: bisogna ratificare. Perché dobbiamo ratificare? Il Trattato diventa esecutivo senza la nostra ratifica. Ed io mi ricordo una frase dell’onorevole Giolitti, che altri ricorderanno pure in quest’Aula.

Quando l’onorevole Giolitti, come Presidente del suo ultimo Gabinetto, portò in quest’Aula, costrettovi da esigenze politiche, la discussione di una legge elettorale alla quale era contrario, assistette impassibile alla discussione di questa legge. Senonché, ad un certo punto gli fu chiesto che dicesse anche lui due parole in difesa di quella legge, al ché Giolitti rispose: ingoiare rospi sì, ma dire anche che sono buoni no.

Quindi, eseguire il Trattato sì, perché ce lo fanno eseguire per forza, ma ratificare il Trattato no.

Il Ministro degli esteri ha parlato in fondo di due argomenti fondamentali – perché badate la questione è politica, profondamente politica e non soltanto economica come vorrebbero alcuni far sembrare – ha detto cioè: noi ci mettiamo su un piede di parità con le altre Potenze, il ché ha la sua grandissima importanza.

Ma è vero questo? Si metterà, forse, su un piede di parità con i Ministri degli esteri delle altre potenze, il Ministro degli esteri italiano; potrà non accadere più quello che ci ha umiliati ed offesi, che chi rappresentava l’Italia all’estero ha avuto accoglienza diversa da altri rappresentanti di altri Stati; non accadrà più che, invece di una compagnia di onore, vi sia un plotone d’onore ad attenderci. Però, accadrà un’altra cosa; che l’Italia avrà sottoscritto un documento, il quale consacra il suo stato permanente di inferiorità, perché avrà sottoscritto l’accettazione di limitazioni di sovranità, che non sono limitate nel tempo, ma che nel Trattato sono considerate come definitive.

Quindi, non parità, ma disparità consacrata dalla nostra firma. Questo è il primo significato.

Altro argomento: l’O.N.U. Io ho sentito parlare molto dell’O.N.U., tutti sperano nell’O.N.U. e tutti lodano l’O.N.U. Io ho il dovere di dire, sinceramente ed onestamente, che io non credo nell’O.N.U. L’O.N.U. è già fallita, perché nell’atto costitutivo dell’O.N.U. manca quello che ci dovrebbe essere perché essa potesse veramente rappresentare un insieme vitale: manca il senso democratico dell’uguaglianza di tutti i popoli di fronte alla legge internazionale.

Ora, intendiamoci bene su quello che significa l’organizzazione internazionale dei popoli: è un avvenire che verrà; ma è ancora molto lontano. Ed io devo ripetere quello che da questo stesso banco dissi, in sede di discussione di politica estera, alla Consulta Nazionale.

L’organizzazione fra i popoli si può basare su due principî: o su un principio di potenza, o su un principio di giustizia. Per il principio di potenza vale solo la forza, non sono necessarie organizzazioni: bastano le normali alleanze. E noi oggi siamo in una fase feudale della politica internazionale. Oggi è impensabile una guerra tra due popoli minori; nessun popolo è libero di fare una guerra con il suo vicino; quasi quasi nessun popolo di secondo ordine – diciamo così – è libero di fare un trattato di commercio con il suo vicino, se i signori feudali non sono d’accordo su questo trattato. Ma il giorno che i signori feudali decidessero, malauguratamente, di scendere in guerra fra loro, allora saremo tutti trascinati, e vassalli e valvassori e valvassini; perché la politica internazionale attraversa, in questo momento, una configurazione feudale e l’O.N.U. non è altro che un tribunale, se così si può chiamare, di questo feudalesimo ed è un passo indietro su Ginevra, perché Ginevra, almeno, tentava di dare un diritto, un tribunale, anche se mancava della coazione per far rispettare le sue decisioni.

L’O.N.U. è soltanto coazione, non c’è né tribunale né diritto. Non durerà, non risolverà i problemi; quando i signori feudali avranno deciso di fare la guerra, l’O.N.U. finirà e i popoli avranno speso miliardi per mantenere questa finzione.

D’altra parte, in politica esiste una politica che chiamerei «lunga» e una politica che chiamerei «corta». La politica «lunga» è quella delle grandi direttive e del grande respiro nel tempo; la politica «corta» è quella delle contingenze che può, certe volte, deviare della politica «lunga», ma non si può mai mettere in contrasto con essa.

Ora, nella politica corta, oltre la parità e l’O.N.U. cosa c’è? Il bisogno di aiuto che noi abbiamo in campo alimentare, in campo economico, in campo di materie prime o di prodotti semilavorati o finiti? Onorevole Sforza, la beneficenza internazionale non esiste. Anche la famosa U.N.R.R.A. non è stato un istituto di beneficenza: fu un organismo politico che serviva a determinati fini politici, che ha funzionato finché questi fini politici dovevano essere perseguiti; e quando questi fini erano stati perseguiti, la miseria continuava, e l’U.N.R.R.A. è cessata, perché la beneficenza in politica internazionale non esiste. O ratificheremo o non ratificheremo, non una nave di grano sarà dirottata, perché è interesse delle grandi potenze che l’Italia non vada in miseria, perché è interesse che la miseria non acuisca le lotte già profonde che la dilaniano, perché l’Italia è il secondo Paese d’Europa come popolazione se si esclude la Russia e il primo come posizione geografica, e l’ultima guerra lo ha dimostrato.

Stia tranquillo, dunque, il Governo che quei soccorsi che noi abbiamo ricevuto perché corrispondevano all’interesse di chi ci soccorreva, noi continueremo sempre a riceverli sino a che a coloro che ce li apprestano converrà di soccorrerci, mentre…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Peccato che lei non sia Ministro del commercio estero, perché in questa maniera mi tranquillizzerebbe molto.

LUCIFERO. Lei non me lo ha proposto, onorevole De Gasperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma se avessi saputo…

LUCIFERO. In ogni modo non avrei accettato.

E sarà soltanto il giorno in cui io vedrò della vera beneficenza internazionale che non si presenti sotto l’aspetto dei Liberators che vengono a bombardare popolazioni inermi, che io ci crederò. Per ora, ho visto un solo fenomeno di beneficenza internazionale: che non si sono adoperati i gas per la sola ragione che si è avuto paura che li adoperassero anche gli altri. Non altrimenti che per questo ci si è astenuti dal farne uso.

Ma veniamo alla politica lunga. In fondo, qual è la nostra maggiore aspirazione? Che questo documento che io, come italiano, mi rifiuto di chiamare Trattato – e mi rifiuterei ugualmente di chiamarlo Trattato, anche se fossi cittadino di uno dei Paesi che ce lo impongono, perché sono una persona per bene – susciti in noi una sola speranza e una sola aspirazione: la revisione. È fuor di dubbio. E allora un documento imposto e da noi non ratificato non rappresenta per noi un’obbligazione, di modo che noi potremo e dovremo eseguirlo soltanto tutte le volte che ne saremo richiesti, là e quando ne saremo richiesti.

Ma una volta ratificato invece questo Trattato, è evidente che noi dovremo eseguirlo anche, certe volte, là dove non ne saremo richiesti.

E allora onorevole Sforza, perché dobbiamo dunque ratificarlo? Questa è stata ed è la richiesta che le viene formulata da tutte le parti, onorevole Sforza. È evidente infatti che noi tutti possiamo dichiararci disposti anche a farci amputare un braccio quando sappiamo che esso è preda della cancrena che potrà arrivare alla spalla o anche ucciderci: ma se questa necessità non c’è, perché pregiudicare la nostra politica futura, senza che si abbia nulla nella politica presente che possa giustificare questo avvenire di inferiorità e di umiliazione?

Si è parlato, in quest’Aula, onorevoli colleghi, di machiavellismo. Con interpretazioni varie è stato fatto un po’ qui il festival del Machiavelli, così come è stato fatto anche un po’ del resto, il festival della Repubblica. Ma il Machiavelli, che l’onorevole Nitti ha liquidato, quasi così come Wells ha liquidato Napoleone nella «Piccola storia del mondo» senza neppure nominarlo, che cosa è in definitiva?

Quando io sono andato a leggere il Machiavelli – anche a scuola me lo avevano fatto leggere, ma io confesso che non ci avevo capito niente – quando, dicevo, io me lo sono andato a rileggere per conto mio e l’ho capito, mi son reso conto che è accaduto un po’ al Machiavelli quello che è successo a Carlo Marx, il quale non era per niente marxista: nessuno, infatti, ha letto Il Capitale, nessuno lo conosce, dunque, Marx, ma tutti ne parlano. (Commenti).

ROMITA. Non esageriamo.

LUCIFERO. Io l’ho capito così; poi, naturalmente, ognuno lo capisce a suo modo.

Per parlare di machiavellismo, e lasciare da parte il Segretario fiorentino, dirò ad ogni modo che c’è un solo atto di machiavellismo, nel senso più deteriore – se così si può dire – che noi possiamo commettere: ed è ratificare; perché noi ratificheremmo, onorevole Sforza tutti unanimemente decisi, alla prima occasione, di evitare di continuare ad applicare questo Trattato che ci viene imposto con la violenza e che noi non sentiamo assolutamente nostro dovere di rispettare. Quindi, la ratifica sarebbe anche un atto di disonestà politica, perché noi cominceremmo fin dal primo giorno a cercare di evitare di applicarne le clausole, e ciò non solo perché questo sarebbe un atto di ribellione della nostra volontà, ma perché sarebbe una necessità di vita del nostro popolo, insopprimibile.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Non c’è nulla di sleale, perché lo diciamo tutti.

LUCIFERO. E allora, perché lo ratifichiamo, se siamo tutti d’accordo nel cercare di non rispettarlo?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Perché ci sono delle ipocrisie giuridiche!

LUCIFERO. È una disonestà ingenua, ma è sempre una disonestà; è un machiavellismo che si capisce – perché Machiavelli c’è anche in questo – ma io lo ripudio; e il machiavellismo è di natura particolare in questa situazione.

Io penso che, evidentemente, noi non possiamo non eseguire; non possiamo non eseguire, perché ce lo fanno eseguire per forza. Il che è un argomento convincente e definitivo. Ma possiamo eseguire a richiesta. Noi possiamo dichiarare questo e dare facoltà al Governo, fin da oggi, di emanare tutti quei provvedimenti che siano necessari all’applicazione delle clausole del cosiddetto Trattato, ove esso ne sia richiesto, e ove esso lo ritenga necessario. E allora, forse, accadrà – e nel tempo sempre più spesso – che nessuno ci richiederà di applicare quelle clausole, e potremo fare a meno di applicarle, proprio perché non avremo ratificato.

Questi sono argomenti, direi, di politica spicciola; ma la politica è in fondo spicciola. I grandi moventi che sono dietro di essa cercano un’altra voce e trovano altre espressioni, non nei documenti delle Cancellerie, ma in quelli che sono i grandi movimenti dell’anima popolare, perché anche i sentimenti dei popoli, oltre ai loro interessi, sono una realtà politica. I sentimenti dei popoli molto spesso sono una realtà politica talmente forte che riescono a far fare ai popoli quello che nessun altro realismo riuscirebbe a far fare loro.

E il sentimento del popolo italiano è di non ratificare. La stessa indifferenza che in certi settori si vede verso questo gravissimo problema significa aver dato il problema già per scontato. La stessa indifferenza che si vede in quest’Aula semivuota, dove tutta la responsabilità della Nazione è assommata, dimostra che in un certo senso il Trattato è scontato anche qui. Io mi ricordo quando discutemmo la legge del marzo 1946, alla Consulta – gli amici che erano con me alla Consulta se ne ricorderanno anch’essi – in un’Aula vuota, meno che per l’orazione finale dell’onorevole Orlando, in cui era più l’uomo che richiamò l’attenzione che la legge. Ed io me ne stupì allora, ed oggi non me ne stupisco più, perché, in fondo, quella legge che doveva essere la garanzia di tutti, la Costituzione interlocutoria, non è durata più di un anno ed è già stata annullata.

Il Trattato è stato annullato non solo nella nostra coscienza; il Trattato è già annullato in quelli che sono gli sviluppi della politica internazionale, ai quali questo Trattato comincia già ad essere un ostacolo; e si sente già che è un ostacolo; e, questo è un punto, nel quale sono d’accordo con l’onorevole Sforza: questo Trattato è del secolo decimottavo, e la politica internazionale si muove nel secolo ventesimo, e si muove verso il ventunesimo; e un trattato del secolo decimottavo non è necessario firmarlo, perché muore da sé; anzi, è già morto.

Ma, però, c’è nel sentimento nostro qualche cosa da rilevare, perché – ripeto – il sentimento è realtà. Nel più grande libro che sia mai stato scritto, è detto ad un certo punto: et diviserunt vestimenta mea.

Quest’Italia che ha dato a tutto il mondo il diritto di Roma e la luce della civiltà cristiana, e soprattutto il sentimento della coscienza cristiana, e che forse perché è stata tutta tesa in questo sforzo, è stata l’ultima a raggiungere l’unità nazionale, l’ultima a raggiungere i suoi legittimi confini; questa Italia viene oggi spezzettata e mutilata. E questo noi non lo possiamo mettere in discussione, perché quando si parla delle nostre Colonie domandate come sono trattati gli italiani che vi sono rimasti: gli italiani sono stati parificati agli indigeni, un italiano non può cedere ad un italiano la propria azienda. Questa è la situazione degli italiani nelle nostre Colonie! E qualsiasi cosa possiamo decidere e checché noi possiamo deliberare, oggi più che mai la Patria rimane lì, non per nazionalismo interpretato in un senso o in un altro, ma perché la parola Nazione ha un significato etnografico, culturale, geografico che esiste e rappresenta una unità, che non si può dopo secoli frazionare senza creare un dislocamento della Patria in quelle zone che ne sono state staccate! E la Patria ha oggi risposto nei cinquanta giovani di Briga e di Tenda che tutti, senza eccezione, sono accorsi a prestare servizio nell’esercito italiano! (Applausi). La Patria vi risponde dai campi dei profughi, dove questi disgraziati che hanno trasformato il deserto in giardino vivono nell’anelito di tornare in quella terra africana da essi fecondata, e che, per la loro assenza, sta tornando da giardino a deserto. La Patria vi risponde dai leoni mutilati della Dalmazia o dalle foibe del Carso o da Trieste due volte oggi capitale d’Italia, non per vuota retorica, ma perché essa simboleggia ancora come ieri per l’Italia questo senso dell’unità nazionale che è realtà storica ed umana.

Io credo che contro tutto questo noi non possiamo ratificare. Questa divisione dei nostri vestimenti da parte di chi ha dimenticato i due grandi insegnamenti del diritto di Roma e del Cristianesimo, noi non la possiamo accettare! Noi che abbiamo dato l’uno e l’altro al mondo, non possiamo ratificare! E del resto, se si ratificasse, se si commettesse anche quest’ultimo errore… Ebbene, faticheremo di più, sarà più difficile, ci metteremo più tempo, la strada sarà più ardua e più lunga, ma risorgeremo lo stesso! (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la onorevole Rossi Maria Maddalena. Ne ha facoltà.

ROSSI MARIA MADDALENA. Onorevoli colleghi, il dibattito sul Trattato di pace ha assunto un carattere particolare, in quanto ha oltrepassato i confini riguardanti strettamente l’opportunità della ratifica per investire tutta la politica estera italiana. E questo è comprensibile e giusto, dal momento che una pace duratura non si stabilisce solo attraverso un Trattato, ma soprattutto attraverso una politica di riconciliazione e di collaborazione con gli altri popoli. Di questa politica in particolare l’Italia ha bisogno, se vuole ricostruire in piena libertà il proprio destino, se vuole riacquistare il posto che le spetta fra le Nazioni libere e democratiche.

Ecco perché noi non dobbiamo, soprattutto in questo momento, chiudere gli occhi di fronte ai focolai di guerra che sussistono in Europa. Legittima è la preoccupazione di coloro che si chiedono come si muove, come si muoverà il nostro Paese in mezzo a questi focolai, come agirà per evitare di attizzarli, per contribuire anzi a spegnerli. Perché noi non dobbiamo pensare di poter ricostruire la nostra vita nazionale attraverso le sorti di una guerra: qualunque guerra non sarebbe che la nostra rovina ed il nostro annientamento.

In Europa da anni ormai, onorevoli colleghi, una guerra è in atto in Grecia ed in Spagna e noi non possiamo esimerci dal guardare con inquietudine a questi due paesi.

Le vicende della guerra civile che da tre anni imperversa sul suolo greco sono troppo note perché io debba ricordarle qui oggi: l’eroismo, i sacrifici affrontati da questo popolo che lotta per la sua libertà, le migliaia di vittime, il sacrificio inesausto della gioventù greca, commuovono i popoli liberi di tutto il mondo.

Note sono le vicende del plebiscito organizzato dal governo di Tsaldaris, grazie al quale, per la terza volta nei cento anni della sua indipendenza, alla Grecia è stato imposto con l’aiuto delle armi britanniche il dispotismo di un monarca straniero, monarca che, questa volta, si ripresentava al popolo greco soprattutto col precedente di un’azione compiuta, e quale azione: l’instaurazione della dittatura fascista di Metaxas.

Il ritorno della monarchia ha consolidato il fascismo in Grecia. La guerra civile si è riacutizzata, servita mirabilmente dallo zelo del generale Napoleone Zervas, il quale ha personalmente assunto il comando delle truppe addette al rastrellamento delle unità dell’EAM, approfittando tra l’altro dell’esperienza acquisita allorché agiva al servizio dei nazisti contro le truppe dell’Esercito di liberazione.

Nessun paese che sia veramente interessato al mantenimento della pace nel mondo può oggi guardare al dramma del popolo greco, ammirarne l’eroismo, ma pensare che ciò non lo riguardi. Il persistere del regime fascista ad Atene costituisce un pericolo per la sicurezza e per la pace di tutti i paesi.

Lo dimostrano le continue provocazioni armate ai confini albanese, bulgaro, jugoslavo, provocazioni culminate recentemente nello sconfinamento di una intera banda fascista greca in territorio bulgaro, col preteso diritto arrogatosi da taluni comandanti fascisti greci, di perseguire le loro vittime anche oltre i confini nazionali. La dimostra la frenetica campagna di eccitazione alla guerra condotta dai giornali di Atene, i quali sono giunti ad affermare che l’Albania deve scomparire.

Quale è l’atteggiamento del nostro Governo di fronte a questa situazione, gravida di minacce per la pace dei popoli?

Se consideriamo l’atteggiamento degli organi di stampa che sono i portavoce dei circoli responsabili della politica italiana, siamo talvolta tentati di chiederci se questi organi di stampa si siano costituiti in agenti del Governo di Atene. Essi recano spesso notizie false, grossolanamente presentate, circa la presenza in Grecia di presunte brigate internazionali, notizie che lo stesso Governo di Atene è costretto a smentire. Senza contare i pretesi complotti comunisti che, secondo certa nostra stampa, giustificherebbero l’azione repressiva del Governo greco come una misura necessaria contro le azioni di gruppi senza legge.

In realtà, la lotta che il governo fascista greco conduce con l’appoggio militare e finanziario straniero non è diretta contro i comunisti soltanto, benché questi siano anche in Grecia all’avanguardia nella lotta per la libertà del loro paese, ma è diretta contro tutto il popolo greco. Lo dimostrano anche le recenti dichiarazioni del liberale Sophulis, già Primo Ministro, il quale, denunciando la presenza di ben 8000 liberali nelle carceri greche, confermava il suo netto rifiuto a partecipare ad un governo che sia solo un ampliamento dell’attuale coalizione di destra e sollecitava libere elezioni per la Grecia.

Noi deploriamo il tono solidale di certa stampa italiana per il governo fascista di Atene. Tanto più quando gli indirizzi di questa stampa non possono non essere considerati indicativi della politica del Governo. Un indirizzo simile non può avere, agli occhi del popolo italiano e di tutti i popoli liberi, che un significato soltanto: la solidarietà del Governo italiano coi provocatori di guerre.

Noi deploriamo tutto questo, in linea generale, ma qualcosa in particolare vorremmo chiedere al Ministro degli esteri: circolano voci di un patto di alleanza che dovrebbe essere stretto tra l’Italia da una parte e la Grecia e la Turchia dall’altra. Noi non sappiamo cosa ci sia di vero in queste voci ma abbiamo, credo, in questa sede, il diritto di chiedere al nostro Ministro degli esteri se queste voci sono vere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, sono false!

ROSSI MARIA MADDALENA. Meglio così. Infatti, una alleanza con la Grecia e con la Turchia, caldeggiata da Governi stranieri, costituirebbe oggi, a nostro avviso, una grave minaccia alla nostra indipendenza nazionale.

Informazioni corrono sulla stampa internazionale a proposito di certe clausole segrete del recente trattato stipulato tra il governo fascista di Atene e gli Stati Uniti, in base alle quali la Grecia cederebbe tra l’altro all’America basi navali come quella di Mitilene e basi aeree in Tessaglia ed in Macedonia. Se queste voci possono trovare difficilmente conferma, vi è però qualcosa che sarebbe molto difficile smentire: il trattato testé concluso tra il governo fascista greco e gli Stati Uniti pongono la vita nazionale greca sotto il completo controllo americano.

Ebbene, a che cosa mirerebbe, in queste condizioni, una nostra alleanza con il governo fascista greco? Forse a farci condividere le sorti della Grecia, a trasformare cioè il nostro Paese in una colonia soggetta economicamente e politicamente a quelle stesse Potenze che questa alleanza caldeggiano? Il risultato non sarebbe, in questo caso, che gli stranieri porterebbero anzitutto in Italia, come la portarono in Grecia, la guerra civile?

Oppure lo scopo di tutto questo è forse, come è dimostrato chiaramente dagli avvenimenti greci e turchi, di far partecipare l’Italia alla guerra sognata e attivamente preparata da certi circoli nazionali ed internazionali, contro l’U.R.S.S. e contro i popoli dell’est?

Questi pericoli esistono nella situazione attuale. Per evitarli, per evitare all’Italia nuove sciagure, il Governo ha il dovere di precisare il suo atteggiamento verso i responsabili dell’attuale tragica situazione greca. Per evitarli, il Governo deve manifestare chiaramente la sua volontà di pace, la volontà di non solidarizzare con i provocatori di guerre, e soprattutto la volontà di non seguirli sulla strada che porterebbe fatalmente all’asservimento della Nazione agli interessi di quelle forze che preparano la guerra.

Ci si potrà obiettare che l’Italia ha bisogno, in questa sua faticosa rinascita, dell’amicizia e della solidarietà dei popoli. Ne conveniamo. Ma la collaborazione fra i popoli non si realizza soltanto attraverso l’azione diplomatica. Le amicizie vere sono quelle che trovano una reale rispondenza nella coscienza e nel sentimento delle masse popolari.

Queste amicizie noi potremo stringerle con gli altri popoli, nella misura in cui dimostreremo che ci siamo liberati dei residui del fascismo, che non vogliamo aver più nulla a che fare con fascisti, né italiani né d’altri paesi.

Oggi tutti i popoli liberi guardano alla Spagna. Ebbene, anche in questo caso è legittima la domanda: la nostra politica verso il Governo franchista è tale da meritarci la simpatia dei popoli liberi? Ma c’è di più. Il perdurare del regime franchista in Spagna è una minaccia permanente per la pace, minaccia che risiede nella natura stessa del regime, come noi sappiamo per esperienza. E del resto, i capi franchisti non hanno mai mascherato i loro propositi, così come non li mascherano coloro che nella Spagna franchista hanno trovato asilo e sognano di farne la base di una crociata fascista attraverso l’Europa.

Intanto le masse popolari spagnole, le sole veramente interessate in Spagna al mantenimento della pace, continuano a subire il regime poliziesco e terrorista del generale Franco. Ma il popolo spagnolo, dopo dieci anni di lotta, non cede. Il 6 luglio Franco ha organizzato con ogni cura il suo plebiscito, eppure il 40 per cento degli spagnoli si sono astenuti, nonostante le severe misure di repressione adottate, nonostante sia tuttora in vigore in Spagna la legge del 1907, secondo la quale l’astensione è considerata un delitto. Nello scorso anno si registrarono 160 scioperi; più di 100.000 operai parteciparono allo sciopero delle industrie tessili in Catalogna; 60.000 operai hanno manifestato il 1° maggio di quest’anno; 5000 operai tessili a Matoro. Oltre alle azioni svolte dai partigiani spagnoli.

A queste azioni Franco risponde come è nel costume dei regimi fascisti. Il 19 aprile sei comunisti, accusati di aver avuto rapporti con i guerriglieri, sono fucilati; il 26 aprile tre guerriglieri sono fucilati a Oviedo; il 29 aprile Antonio Criado e Anacleto Celada, imputati di far parte di bande di guerriglieri, sono trucidati a Madrid; il 7 maggio Bernardino Esposito, imputato di aver distribuito stampa comunista, viene fucilato a Madrid. Sempre nuovi anelli si aggiungono alla lunga catena di crimini del fascismo.

 Ma il popolo spagnolo resiste e lotta. Prima e durante la guerra Franco subordinava gli interessi nazionali a quelli dell’Asse; intanto il livello di vita delle masse popolari spagnole cadeva da trenta a quaranta volte, il valore della peseta si riduceva a circa un ottavo. L’agricoltura è in completa decadenza: da paese che disponeva di risorse alimentari bastanti interamente alle proprie necessità, la Spagna è ora semi-affamata, nonostante le importazioni. Cosa fanno gli altri paesi, che fa l’Italia per aiutare la Spagna a liberarsi dal fascismo? Il popolo spagnolo avrebbe già riconquistato la propria libertà, se i paesi che condannarono il regime franchista in seno all’O.N.U. avessero condotto una concreta azione, se non vi fossero paesi che intrattengono relazioni economiche con la Spagna di Franco.

Che fa il Governo italiano? Ha richiamato, è vero, l’Ambasciatore da Madrid, ma si dice che sia talvolta tentato di rimandarvelo. A quale scopo? A suo tempo si vollero giustificare i nostri rapporti con la Spagna con i vantaggi economici che ne avremmo ricavati, e si concluse anche un accordo commerciale, del quale la stampa di destra si incaricò di magnificare le prospettive miracolose: si fece persino il calcolo dei litri d’olio e delle scatole di sardine che sarebbero toccati a ciascun italiano. Ora risulta che l’accordo commerciale non è stato eseguito e si parla di un nuovo accordo. Perché, signor Ministro, si firmano nuovi accordi, se i vecchi non sono stati eseguiti?

Il comportamento del Governo legittima il sospetto che esso agisca in modo da tornare gradito ai circoli interessati al rafforzamento delle basi internazionali della reazione, ma non nell’interesse nazionale. L’interesse nazionale vuole che il regime franchista sia isolato. L’Italia, nazione pacifica, non ha interesse ad appoggiare un regime che può da un giorno all’altro scatenare una guerra.

È giusto e doveroso, da parte del Governo, rassicurare il popolo italiano, rassicurare quest’Assemblea dove siedono rappresentanti del popolo italiano che coraggiosamente lottarono a fianco dei repubblicani spagnoli, come Luigi Longo, Ilio Barontini, Pietro Nenni, Randolfo Pacciardi, Francesco Leone, Teresa Noce e tanti altri; quest’Assemblea dove siedono uomini come Michele Giua, rinchiuso dai fascisti nell’orrendo carcere di Civitavecchia, mentre il suo figlio prediletto moriva davanti a Madrid.

Il valore dei combattenti antifascisti italiani, che suggellarono col loro sangue il legame fraterno tra l’Italia democratica e la Spagna repubblicana, è valso a riscattar e una delle pagine più turpi del ventennio fascista. Il Governo italiano ha il dovere di rassicurare questi combattenti circa i rapporti che esso intende intrattenere col Governo del generale Franco.

Perseguire una politica d’intesa con questo Governo sarebbe contrario ai nostri interessi nazionali e ci alienerebbe le simpatie dei popoli liberi.

Solo a fianco e con l’aiuto di questi, l’Italia, potrà consolidare il proprio regime democratico, risanare le proprie ferite e contribuire alla difesa della sicurezza e della pace di tutti. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa e verrà ripresa alle 21.30. Sono iscritti a parlare nell’ordine, gli onorevoli Labriola, Calosso, Bastianetto e Bertone.

(La seduta, sospesa alle 20.10, è ripresa alle 21.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Labriola, il quale ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico, lo approva e passa all’ordine del giorno».

Ha facoltà di parlare.

LABRIOLA. Io parlo per l’ora e per il numero dei presenti nelle peggiori di tutte le condizioni.

La discussione, come era facile prevedere e forse era anche utile che così fosse, è diventata una discussione generale tanto circa i rapporti che il nostro Paese può avere coi vincitori di questa guerra – vincitori che taluno chiama con un senso evidente d’ironia «liberatori» – quanto nello stesso tempo per esaminare alcuni indirizzi della politica estera che il Paese potrebbe seguire.

Ripeto è appunto utile che questa discussione una buona volta si faccia, perché sinora di politica estera del nostro Paese qui non si è parlato. La questione legale della ratifica del Trattato diventa secondaria in queste condizioni. Gli orientamenti di politica estera, il significato storico del periodo che noi e gli altri membri della società europea attraversiamo, questo può essere appunto un soggetto della discussione, e lo è diventato in effetti. Ebbene, allora permettetemi di fare qualche osservazione a questo proposito.

Non vi è dubbio che gli ultimi cinque anni, e meglio ancora gli ultimi otto anni, quelli che vanno dal 1939 al 1947 possono considerarsi ad un dipresso e, salvo una rettifica che farò di qui ad un momento, gli anni dell’agonia italiana, ma non solo dell’agonia italiana, sibbene di un disordine che prelude all’agonia anche in altri paesi.

Infine, nessuno sfugge alla crisi che il nostro Paese, anzi la civiltà occidentale tutta e forse il mondo intero – parlando del nostro piccolo pianeta – attraversa, e si comprende che anche gli americani abbiano la loro parte nella considerazione di questa crisi. Giacché si è parlato di cataclismi che hanno potuto seguire altri movimenti tellurici della storia politica del nostro povero pianeta, non mi pare che se ne possa parlare negli stessi termini nei quali presentemente noi possiamo parlare della situazione nostra.

La Rivoluzione francese e quello che ne seguì, è nulla di fronte a ciò che ci accade adesso. Del resto la crisi anticristiana aveva toccato soltanto la Francia e qua e là alcuni spiriti eletti del mondo intero, Goethe, Shelley, Byron e il nostro Foscolo, e già si presentiva Leopardi. Ma in realtà le masse si strinsero, subito dopo la rivoluzione, intorno ai campanili ai quali esse erano avvezze ed alle tradizioni monarchiche che avevano fatto il loro corso nella storia. L’indomani della Rivoluzione Francese fu forse uno degli indomani più pieni di vita del nostro mondo occidentale. Cadeva certo l’artigianato e sorgeva la grande industria. James Watt aveva fatto la sua scoperta della macchina a vapore; tutto era nuovo ed una vita intensa e piena di vigore si annunciava. Il secolo V è forse l’unico secolo che ha una analogia col tempo nostro. Nel V secolo l’Impero Romano era crollato; le distruzioni si aggiungevano alle distruzioni; giorno per giorno, qualche brandello della civiltà del mondo cadeva; qualche centro di cultura si spegneva. Eppure, rimasero i conventi, e la regola di S. Benedetto (purtroppo anche questo segno della medievale attività è andato distrutto) se insegnava agli uomini come si prega, insegnava anche come si lavora. Il tempo nostro non suggerisce nemmeno questa illusione; e se oggi qualcuno stesse qui a dire che le cose del mondo nostro andranno in un senso anziché in un altro, ognuno rimarrebbe scettico. Suppongo che nemmeno l’onorevole Togliatti ci potrebbe dire di che cosa sarà fatto il nostro indomani.

E gli americani sentono il contraccolpo della situazione generale. Si capisce che per essi la guerra è stato il più grande affare che essi abbiano mai fatto sin qui. In molti casi ha ragione Lucano quando detta: multis utile bellum. Una statistica americana recente degli anni che vanno dal 1939 al 1943, dimostrava che il reddito medio per abitante dell’America, che era già il primo del mondo occidentale, è cresciuto tre volte; gl’impianti industriali si sono quadruplicati e in certi casi si sono perfino quintuplicati. Che cosa sia accaduto dal 1943 fino ai giorni nostri non si può dire; si può soltanto immaginare che la ricchezza del Paese sia sempre più intensamente cresciuta. Non so dove ho letto, proprio in questi giorni, una curiosa qualificazione di un simile fatto, e un avverbio dice che tutto. Mi pare appunto, in un giornale o in una rivista comunista, si diceva che la ricchezza dell’America è «spaventosamente» cresciuta. È proprio così. Fa parte del paradosso dei tempi dire che. una ricchezza può essere cresciuta in modo spaventoso. Gli americani ne sono turbati. Che cosa occorre fare?

Gli americani giudicano per analogia. Essi nei loro giudizi sono sempre un po’ primitivi. Qualche volta, per le strade di Bruxelles, io e Sforza, nelle nostre ordinarie peregrinazioni, ci trovavamo d’accordo nel giudicare i diplomatici americani. Non so se su questo punto il conte Sforza abbia mutato. Il nostro giudizio non era estremamente lusinghiero per i diplomatici americani; ma forse ora il conte Sforza può avere mutato idea. Io resto dell’avviso di prima. In quelle peregrinazioni brussellesi, dolcissime alla mia memoria, Sforza ed io ci trovavano di accordo nel giudicare non solo gli americani, ma notevoli fatti della nostra stessa vita nazionale.

Mi fermo qui per non apparire concorrente dell’onorevole Nitti nell’accenno a persone o circostanze; per mia fortuna non ho buona memoria e posso lasciare cadere questa parte di varietà diletta ai sistemi oratori dell’onorevole Nitti. Ritornando agli americani, essi nella loro semplicità sono un po’ primitivi; e forse, questa è una delle ragioni della loro forza. Per il momento essi giudicano questa situazione un po’ per analogia con quella del 1929. Del resto, gli uomini non possono che fare degli apprezzamenti per analogia.

Nel 1929 scoppiò quella grande crisi industriale, quella grande depressione industriale la cui storia si scrive ancora adesso; ora, se ne aspetta un’altra. Più precisamente, dopo l’altra guerra ci furono due sovversioni industriali che si seguirono, con ritmo perfettamente contradittorio. Dell’una è rimasto un documento molto interessante, una grossa inchiesta del Bureau International du Travail. Allora, il problema si presentò in senso inverso a quello del 1929, e si voleva comprendere perché i prezzi salissero con tanta forza e diventassero così pericolosamente alti: l’inchiesta è voluminosa – si tratta di sette o otto volumi editi dal B.I.T. – ma non si riuscì ad arrivare a conclusioni concrete.

Poi, sopraggiunse la depressione industriale del 1929, che ebbe carattere esattamente opposto: era una crisi di bassi prezzi. Le industrie dovevano rinunziare a svilupparsi, a tenere aperti gli esercizi; i fallimenti e le bancarotte si susseguivano, perché i prezzi non riuscivano più a corrispondere ai costi, e questi risultavano più alti dei prezzi. Gli americani hanno un simile ricordo nella testa e ne vorrebbero ovviare la ripetizione.

Da qui, il piano Marshall, e poi, il loro intervento nelle cose economiche europee, in quest’ultimo periodo.

È singolare come gli americani siano diventati improvvisamente marxisti, a loro insaputa, si capisce; i colleghi, qui, sulla mia destra ne dovrebbero essere entusiasti. Si attribuisce a Marx l’opinione che le crisi dovessero di volta in volta intensificarsi con ritmo crescente, per sboccare in una depressione generale, che avrebbe reso impossibile la continuazione del movimento industriale, anzi della stessa società capitalistica.

Adesso, gli americani sono entrati in una preoccupazione analoga a quella definita dal marxismo. In parentesi è un marxismo istintivo al quale, senza volerlo, si volgono tutti, anche gli uomini che vengono da una preparazione militare, come il generale Marshall.

Gli economisti non sono affatto di questa opinione, sono molto più ottimisti in materia di crisi e delle crisi non si preoccupano gran che. Gli economisti hanno sempre detto che le crisi sono fenomeni pendolari ed inevitabili dell’economia. Ad ogni modo le crisi, si producono specialmente in una organizzazione privata della proprietà e della industria: in essa ognuno produce per conto proprio, e nella gara della concorrenza, inevitabilmente si produce più di quello che il mercato non possa assorbire e quindi lo smercio risulta in ultimo bloccato.

Ma la crisi è necessaria per risolvere questa ed altre difficoltà nate dell’economia, da cui, poi, la curiosa conclusione che ne traeva il Pareto, cioè che se una crisi si potesse evitare, non bisognerebbe farlo, per non impedire il risanamento dell’industria e della vita dei traffici, per non fare ostacolo ai progressi della tecnica.

Gli economisti, in genere, in questa materia sono ottimisti, da cui un certo loro apparente cinismo, che li rende indifferenti anche a determinate manifestazioni deteriori della vita. E c’è qui del Machiavelli, che studiava i fatti e non si preoccupava del valore morale di essi, piaccia o non piaccia all’onorevole Nitti: ma questo è il sistema del pensar positivo. E perciò è così moderno il Machiavelli. Gli economisti americani queste cose le sanno, ma ciò non toglie che i comuni americani amerebbero volentieri la ricchezza senza le crisi, e lo sviluppo tecnico della industria senza timori per il loro avvenire: è un po’ troppo!

Noi esaminiamo queste cose da un punto di vista europeo, mentre invece per andare al fondo delle cose, dovremmo esaminarle da un punto di vista americano. Notate che l’America si trova, rispetto all’Europa, in una situazione singolare dal punto di vista dell’organizzazione sociale politica. L’America è stata infatti un organismo economico sin dai primi giorni del suo farsi: lo Stato è venuto appresso, cioè l’inverso dell’Europa.

Possiamo ben dire dunque che, per quello che riguarda l’America, si sia determinata una legge di evoluzione precisamente inversa a quella dell’Europa. Noi siamo il continente dello Stato che ci ha premuto e ci preme da tutte le parti; avviene quindi che la più grande parte delle nostre manifestazioni economiche è diretta dallo Stato ed è in funzione di esso. In America invece si è sempre, ed a ragione, detto che sono gli affari a dirigere lo Stato e non questo a dirigere quelli.

L’America, è parso a qualche scrittore, non uno Stato: essa non è che un’organizzazione particolare a sé, coacervo d’istituti, come la stessa Marina militare, che vivono per conto loro e sono più o meno collegati allo Stato: la Banca, i Trust, la polizia, e così via, viventi ciascuno, per conto proprio. La stessa difesa di classe è un affare privato dei capitalisti. Quando il capo sindacale non va, si manda a prelevarlo a casa, si rotola nella gomma liquida, s’impiuma, lo si fa correre a sferzate nelle vie, e poi s’impicca, allo spiccia, senza fascismo, e la cosa è regolata. Si fa la stessa cosa con i negri, un po’ più all’ingrosso, e si linciano secondo necessità.

Infine l’America si è costituita come economia molto prima che fosse costituita come Stato, onde il suo imperialismo ha avuto un carattere differente dall’imperialismo europeo: l’imperialismo americano è stato economico – né poteva non essere economico, appunto perché la costituzione essenziale dell’America era tutta economica. L’imperialismo americano è in realtà la concentrazione industriale e commerciale la quale si serve di mezzi dell’autorità statale per imporre i propri prodotti sul mercato esterno. Creato il mercato esterno, tende poi a difenderlo, spingendo lo Stato a proteggerlo con i mezzi che son suoi.

Questa è stata la forma elementare dell’imperialismo americano sin dal primo giorno, sistema che ha portato con sé tante conseguenze. L’America centrale ne sa qualche cosa, e tutti i casi di conquista imperialistica subiti dalle varie repubblichette dell’America centrale hanno avuto la medesima fisionomia. L’America aveva bisogno di quei territori, l’America aveva bisogno di eliminare determinate concorrenze, l’America si voleva prendere parti di territorio altrui, ed ha fatto il comodo proprio nel Nicaragua, a Panama, a San Salvador, e nelle altre misere repubblichette dell’America centrale, dove già Maya e Aztechi avevano sperimentata la feroce avidità del colonizzatore occidentale.

Molte volte gli americani osano dire che essi sono immuni da imperialismo. C’è modo di intendersi in tutto questo: se si tratta di quella forma di imperialismo che è statale, militare di grandi proporzioni, evidentemente, l’America non l’ha voluta. Del resto, sarebbe mai possibile che un Paese si industrializzi nelle proporzioni in cui si è industrializzata l’America, che un Paese il quale ha avuto questo enorme accrescimento di ricchezza e un movimento economico così intenso, potesse sfuggire all’ultima fase dell’evoluzione storica di questo capitalismo, che è l’imperialismo?

Tuttavia cotesto imperialismo ha avuto una forma limitatamente economica, cioè non militare e di conquista, almeno in grosse proporzioni. L’America avrebbe potuto continuare così; il cosiddetto isolazionismo americano non era che un imperialismo economico americano, un imperialismo non destinato a rompere le linee e i confini del continente americano, rinchiuso nello spazio americano.

L’America degli Stati Uniti aveva dinanzi a sé l’America centrale, subordinatamente l’America meridionale. Ed il primitivo imperialismo poteva rispettare la stessa indipendenza formale, puramente esterna, dei paesi dove essa si esercitava. Tutto questo è durato fino a ieri, ma l’albero del bene e del male tenta un po’ tutti. Anche l’America ha volato assaggiare il frutto dell’imperialismo militare, statale ed ha fatto due guerre. Alla prima non riuscì a dare – quanto alla propria costituzione sociale e allo stato medesimo – una forma imperialistica. Wilson non ebbe fortuna sotto questo aspetto. L’America, tornando all’isolazionismo, non tornò in fondo che al suo storico e connaturato imperialismo economico.

Ma ora l’America ha fatto una grande guerra, l’America ha impegnato mezzi formidabili per raggiungere lo scopo determinato di conseguire una vittoria, in gran parte mercé l’uso di mezzi tecnici e meccanici. L’America si è militarizzata, più di qualsiasi altro Stato del mondo e pare ci provi gusto a militarizzarsi; è perfettamente naturale che in questa fase della sua evoluzione storica, essa passi dall’imperialismo economico all’imperialismo statale e militare. Un orientamento istintivo questo, perché non credo che gli americani si rendano preciso conto di ciò che accade ad essi ed agli altri. Ogni popolo vive delle sue tradizioni e l’America vive della tradizione di essere uno Stato democratico e liberale in sommo grado e perciò alieno da ogni imperialismo militare rivolto alla conquista territoriale. Così un giorno gli americani potranno pretendere che non sono stati imperialisti mai e che non hanno mai tentato di offendere la sovranità di un altro Stato.

Oggi l’America combatte per uno scopo che è inutile dissimularsi: fare dell’Europa un enorme mercato e nello stesso tempo fare dell’Europa, degli Stati europei, i debitori solidalmente responsabili della sola America. Guadagnare un mercato di grandissime estensioni è il primo scopo della politica americana.

Il secondo scopo è di ottenere che questi vari Stati rispondano collettivamente degli obblighi che ciascuno di essi ha assunto verso gli Stati Uniti. Io non escludo la buona fede di questi ultimi, io non escludo che essi vogliano venire in soccorso dell’Europa; sono tanto semplicistici e un po’ fanciulleschi da immaginarselo sul serio. Ad ogni modo, se essi vogliono soccorrere l’Europa, intendono farlo mettendo le spalle al sicuro da ogni possibile inconveniente. Il massimo di essi è che i debitori non paghino. Ma se si crea la solidarietà degli Stati Europei che rispondano l’uno per l’altro, questo sarebbe precisamente ottenere che tutti gli Stati europei rispondessero in solido verso la Repubblica Americana dei fitti o dei prestiti che saranno fatti in misura più o meno variabile. Pongo senza altro questo episodio nell’insieme della particolare evoluzione storica che ha subito l’America passando da uno stato espansionista di pura estensione economica ad uno stato imperialista, come è oggi. Che gli americani non si rendano conto di certe possibili conseguenze dell’evoluzione che essi attraversano, non fa meraviglia. Ce ne siamo resi conto noi stessi nei nostri viaggi americani e se ne è reso conto qualche storico e qualche attento studioso. Anche in America vi sono persone che sono in grado di rilevare quella che può essere la conseguenza di una simile trasformazione politica del paese. D’altra parte, gli americani in gran parte credono con perfetta ingenuità di essere i benefattori del genere umano, i negri non esclusi. Il vero è che vorrebbero risparmiarsi una crisi analoga a quella 1929; in secondo luogo che i paesi europei vogliono rendere il servizio di essere tutti solidalmente responsabili verso il creditore americano. Quello che si potrebbe dire è questo, che gli americani evitino di cadere in qualche massiccio errore e non si facciano illusioni. Tutti gli imperialismi terminano allo stesso modo: con la guerra, e la guerra degli imperialismi è sempre un disastro. Oggi l’America fa l’imperialismo per evitare la guerra. In sostanza, con le parole ci si aggiusta sempre, ma la verità è che essa corre verso la guerra, e questa guerra non può essere che una catastrofe.

Si può ammettere che il piano, o formula, Marshall sia diventato popolare. Questa è la cosa più strana. Noi viviamo in un mondo senza capo né coda. Tutte le cose più ovvie prendono l’aspetto più complicato e le cose più complicate l’aspetto più semplice, e così un sistema come quello di Marshall, così internamente complesso, è parso popolare.

Io pure ho il mio piano. Lo offro con più grande disinteresse. Ripeto: ho anch’io il mio piano per risanare l’Europa e la cosa migliore sarebbe appunto che la gente mi stesse a sentire e fosse disposta ad accogliere le mie proposte. E sono proposte di una semplicità così evidente che, per la solita impopolarità delle cose semplici esso potrebbe essere respinto. L’uomo non ama le cose semplici; è l’ignoto che lo attira.

Il mio piano è semplicissimo. Io dico prima di tutto ai vincitori, ai cosiddetti liberatori (e quanta ironia in questa parola!): lasciateci in pace, andatevene via. La prima maniera perché l’Europa possa tirarsi su, è che voi non la tiriate giù. Voi pretendete che i «vinti» mantengano i vostri soldati, le vostre flotte. Ma non è facile a gente ridotta alla fame continuare a darvi da mangiare. Si direbbe che voi avete creato un ordine per cui gli accattoni devono mantenere i miliardari.

Il primo articolo del «mio» piano Marshall è che i vincitori, i famosi liberatori, se ne vadano. E se ci lasciassero fare troveremmo ben noi il segreto di organizzare la nostra vita. Non certo per molto, ma per una ventina di anni almeno. Tutto sarebbe fondato sulla libertà degli scambi, e per una ventina d’anni forse si riuscirebbe a mantenerla. L’Europa, potrebbe raddirizzarsi adagino da sé molto bene, organizzando nel proprio interno un sistema di libertà economica. Ma no, non si può fare. Abbiamo i trattati di pace che ci obbligano a passare sotto le forche caudine delle famose commissioni, a chiedere permessi, a mantenere nello scialo tanta gente. Pensate a quello che costa all’Italia mantenere tutti questi signori soldati americani e inglesi. Ci volete aiutare? E non aggiungete altre bocche a mangiare il nostro pane e a bere il nostro vino! Andatevene in santa pace e noi organizzeremo la libertà di commercio fra tutti gli stati di Europa: non ci sarà bisogno di altro. Ecco il mio piano.

Qualche collega mi domanda: e il grano? Ma con la libertà di commercio io compero il grano e lo pago. Come lo pago? Con i prestiti, con i denari che già ci sono. E poi non si deve dimenticare che dell’Europa fa parte anche la Gran Bretagna, più o meno, e potremmo dunque utilizzare le sue risorse. (Interruzioni – Commenti). Il carbone può darlo l’Inghilterra e può darlo specialmente la Germania, purché non vogliate distruggerla. Se la Germania potrà disporre dei propri mezzi, tutto sarà diverso, e la libertà darà i suoi frutti.

In verità il piano Marshall può essere esaminato da tanti punti di vista quanti sono i paesi europei e inteso in tante maniere differenti.

Oggi si parla dell’Unione europea. Essa è già diventato il ritornello adoperato da tutti.

Ogni epoca ha le sue formule favorite: in ogni epoca c’è una formula che è il passe-partout di tutte le ambizioni, di tutte le idee. Oggi l’idea a grande popolarità è appunto quella di una unione europea e l’America ci spinge a fare questa Europa unita e concorde. Per me l’unione europea risponde a quell’istinto dell’imperialismo americano il quale consiste nel creare un grande mercato europeo, un grande mercato di cui l’America possa liberamente disporre e risponda alle sue esigenze di avere territori, i quali siano solidalmente responsabili di ciò che hanno ricevuto.

Ma mi parlate dell’Unione europea! Ma che specie di unione può essere questa la quale comincia a significare l’esclusione della Germania?

Chi legge i giornali francesi, sente l’opinione politica dei giornalisti francesi ed anche dei socialisti, avverte in che modo è desiderato e voluta la soppressione della Germania.

I problemi storici non sono problemi…

Una voce a sinistra. Lei esagera!

LABRIOLA. Basta leggere i giornali per comprendere come la Francia desideri la distruzione della Germania. Né più né meno si mira ad estromettere la Germania dall’Europa.

Una voce a sinistra. Non dai socialisti francesi.

LABRIOLA. Di questo parleremo appresso. Mi pare di non poter ammettere senz’altro che non ci debba essere una parola di giustizia per la Germania, almeno di pietà e di commiserazione.

Io non sono di quelli che dicono: i popoli non si cancellano dalla carta geografica. Io non partecipo a questa opinione: «la Germania è un grande Paese, ha la sua filosofia, la sua arte ecc. ed uno Stato simile non si può distruggere, cancellare nell’epoca moderna».

Forse l’unica umanità di fronte a cui ci dovremmo inchinare è quella dell’America precolombiana: i Maya, gl’Incas, ecc.

Questa umanità ha perduto la sua lingua; ora nella lingua maya non esistono che tre manoscritti; e nessuno li sa leggere più. I popoli possono sparire e la Germania potrebbe essere distrutta.

Una Europa alla quale togliete la Germania, una Europa alla quale date una Russia, che si estende dal Pacifico all’Adriatico e che ha ripreso vittoriosamente il programma di Gengis-Khan, che razza di Europa è? In tali condizioni non c’è più, non può esserci una Europa. Peraltro aggiungo che questa Europa non l’ho mai conosciuta. L’Europa è tipicamente una espressione geografica, per una parte del continente asiatico.

Basta fare quattro passi in Europa per trovare, ad ogni passo, una lingua diversa, una religione, non proprio ad ogni passo, ma in gran parte, una religione diversa, e, indiscutibilmente, una cultura diversa.

L’Europa è quella che è: cioè è stata la madre della civiltà occidentale; ha dato al mondo le regole più alte del pensiero astratto e quelle della vita comune. Ma essa è stata sempre divisa; la concorrenza fra i vari Paesi e le varie parti di questo Continente che ha fatto la sua permanente sussistenza e vitalità storica è la ragione per la quale l’Europa non ha mai dovuto apprendere nulla dagli altri, salvo poche nozioni, di alta matematica, dagli indiani e dai persiani, che ne furono tramite; tutto il resto se l’è creato da sé.

Ciò che riguarda l’occidente è europeo, nel senso beninteso che si tratti di ciò che esiste in Europa; non c’è in nessun luogo una lingua europea e neppure una razza che può dirsi nata in Europa, originariamente. I soli europei nati in Europa sarebbero quelli di Cro-Magnon, un vero ludibrio della nostra specie.

Noi siamo asiatici o africani; nulla c’è in noi di originariamente europeo.

Ma l’unione dell’Europa è impossibile. La forza dell’Europa è la sua disunione; fatene un solo organismo uniforme, e la sua consistenza spirituale e morale sarà perduta.

Noi siamo un Continente nel quale ciascun popolo esiste per sé ed ha fatto il suo dovere di fronte all’umanità. Non conosco un piccolo popolo dell’Europa, il quale non abbia servito l’Europa: persino gli albanesi hanno avuta la loro parte, almeno da quando si sono europeizzati. Non conosco popoli insignificanti sul terreno europeo. Un collega parlava della Svizzera, ma veramente la Svizzera non è un popolo; o un piccolo popolo; essa è un insieme nato da altri popoli che hanno un’esistenza particolare.

L’Europa ha lavorato per l’umanità, ed in questo l’Italia è stata essenzialmente europea. L’ingratitudine altrui è forse il vero riconoscimento dell’importanza dell’opera nostra.

E con questo siamo entrati nella faccenda della ratifica.

Accennavo qualche giorno addietro, quando l’Assemblea non era disposta a stare ad ascoltare, che il Trattato va considerato come un mucchietto di sassi o d’immondizie che possano ingombrare la strada. Un colpo di piede e ce ne liberiamo. La ratifica non è che il colpo di piede che ci libera dalla immondizia. Non possiamo prescindere dal Trattato. Esso c’è, bisogna ratificare. Il mondo non è stato mai giusto con noi e, suppongo, non lo sarà mai. Noi siamo i figliastri della storia, e perciò appunto vorrei che ci tenessimo stretti ai nostri valori storici.

Mi è dispiaciuto il cenno fatto dall’onorevole Nitti a proposito del Machiavelli, che è stato l’unico italiano nel Cinquecento, italiano dalla testa ai piedi. Accanto a lui non c’è che il prete Genoino della Repubblica di Masaniello, che era un povero pretonzolo al quale, pur parlando perfettamente latino, nessuno dava retta. Il Machiavelli è tutto italianità: un pensiero solo di italianità, l’anima stessa dell’italianità e di lui si dovrebbe sempre parlare con alto rispetto. Ed è il solo che abbia proposto agli italiani una vera unità. L’onorevole Nitti citava un episodio, di cui non ho trovato conferma in nessun scrittore, dal quale sarebbero risaltate certe minori sue capacità in materia militare, appunto nei rapporti con Giovanni dalle Bande Nere. Vi farò osservare che Machiavelli e Giovanni dalle Bande Nere sono morti nello stesso anno: nel 1527. L’uno, Giovanni dalle Bande Nere aveva 29 anni: l’altro, Machiavelli, 59 o 60 anni. Ciò vuol dire che all’epoca in cui il Machiavelli concepiva i suoi disegni di milizie stabili, che voleva opporre alle milizie mercenarie, era poco probabile che avesse da consultarsi con Giovanni dalle Bande Nere.

In tutta la sua esistenza il Machiavelli una sola volta ha potuto pensare a Giovanni dalle Bande Nere: al tempo della Lega di Cognac, nel tentativo di creare una unità italiana che si poteva realizzare contro la Spagna e quindi contro l’Austria, e che si sarebbe potuta concretare, se il marchese del Vasto non avesse tradito, denunciando l’esistenza della Lega, facendo così in modo che pochi armati si poterono riunire e così furono battuti. Si poteva pensare che Giovanni dalle Bande Nere divenisse il capo degli eserciti riunitisi a Cognac, e tale fu l’idea, presto smessa dal Machiavelli. Faccio riflettere che quali che siano stati i rapporti tra Giovanni dalle Bande Nere e il Machiavelli, restano gli ultimi due capoversi del I libro delle «Storie Fiorentine» in cui il Machiavelli condannava in modo violento e decisivo i capitani di ventura italiani, i mercenari di ogni specie e denunciava quella specie di guerre che essi conducevano, come ludibrio dell’arte militare, e non eccettuò dal suo giudizio Giovanni dalle Bande Nere.

Del resto, comunque stia questo episodio, il nostro dovere è pregiare i nostri uomini, e non umiliarne la memoria con ricordi incerti e controvertibili. Ad ogni modo, dopo 420 anni, il Machiavelli è sempre vivo fra di noi, e può accendere vivaci polemiche. Fra 420 anni, chi si ricorderà degli attuali omuncoli della politica italiana?

E ritorniamo alla ratifica. Diamola col gesto medesimo col quale si sgombera la nostra strada da un cumulo d’immondizie. Diamola, ma conserviamo la nostra fierezza e tutta la nostra forza.

Quest’episodio della ratifica, queste discussioni intorno alla formula Marshall, sono servite ad ogni modo ad orientarci verso il problema di una politica estera italiana. Qui incominciamo a percorrere un terreno un po’ difficile. Non voglio dire male di nessuno e prego l’onorevole De Gasperi di non pensare che io sia un suo malevolo e particolare avversario. Non voglio dire nessuna parola che possa essere sgradevole per il conte Sforza, che fu mio uditore a Bruxelles. Coloro che insegnano dalle cattedre conservano sempre inclinazione e simpatia per coloro che li stanno ad ascoltare, anche se di ascoltatori non ce ne siano molti, come questa sera. Io non ne avevo molti, ma avevo fra i miei uditori anche il conte Sforza.

Ritornando alla politica estera italiana, sorge una prima questione: vi fu una politica estera italiana? Il conte Sforza e l’onorevole De Gasperi, se vorranno onorarmi di una risposta, diranno che non era possibile averne una perché, fra le altre cose, l’armistizio ce lo vietava. Siamo d’accordo. L’armistizio impediva tante altre cose, ed impediva anche di fare una politica estera. Ma altro è fare una politica estera, altro è avere degli orientamenti in materia di politica estera e creare degli indirizzi che poi il Paese, in maggiore libertà, potrà seguire da sé.

Io sono dell’opinione che la politica interna serva soltanto a formare la base della politica estera. La politica interna deve tenere in efficienza un popolo, perché al momento opportuno i suoi rappresentanti diplomatici e militari possano servirsi di questo popolo per raggiungere le finalità ultime, che la storia assegna ad un popolo. Ad ogni modo, noi una politica estera non potevamo fare, anche perché avevamo al potere tre partiti diversi, con tre diversi orientamenti: cattolici, socialisti e comunisti. Basta forse fare questa enumerazione per comprendere che una politica estera italiana non si poteva fare. C’è un primo periodo della politica estera post-liberazione, dopo la resa delle forze militari tedesche dell’Alta Italia, in cui vi fu una politica estera che fu rappresentata dall’onorevole Nenni. Egli suppose che poiché, come socialista, aveva certe opinioni, i socialisti di altri paesi dovessero aiutarlo, per sostenere la sua parte nel proprio Paese.

I giornali ne parlarono, a Londra. Allora, c’era l’armistizio, ma non si supponeva che ci sarebbe stato imposto quel Trattato di pace. Suppongo che il Nenni tentò di ottenere quel poco che poteva, ma suppongo altresì che si accorse, allora, di una cosa: che non c’è politica estera socialista, comunista o papalina, c’è una sola politica estera: quella del Paese e quella dello Stato. Perché bussate alle porte dei socialisti per dire loro che siamo fratelli e vogliamo realizzare la fraternità dei popoli, e perciò non avversateci? Essi vi risponderanno: «Avete perduto una guerra e dovete pagare». Il che dimostra che non si può fare una politica di Stato senza fare una politica nazionale.

Si parlò nell’altra guerra del fallimento dell’internazionalismo socialista. Credo che non sia così: i socialisti non avevano in mano nessuna forza, essi non potevano obbligare i popoli, gli Stati e nemmeno i loro seguaci a fare la politica che a loro piaceva.

Si parlò del fallimento dell’internazionalismo socialista. Devo dire onestamente – io che non fui d’accordo coi socialisti di quel tempo, allora contrari all’intervento in guerra – devo dire che non si può fare questa accusa ai socialisti. Bisognerebbe accusare di malafede coloro che non si rendono conto di ciò che sia un passaggio da una posizione ideale ad un’altra. Il socialismo è un partito, in uno Stato e, quando i socialisti sono chiamati a far parte del Governo, fatalmente, necessariamente, perdono la loro posizione di internazionalisti. La cosa più interessante è quella di vedere la ferma confessione di nazionalità che fanno nei diversi paesi i socialisti.

I socialisti una volta erano ferventi fautori dell’internazionalismo e dettero pure qualche bellissima manifestazione dei loro sentimenti in epoca remota.

Nel 1870 Liebknecht e Bebel affermavano che l’Alsazia era francese. Anche altri uomini di parte socialisti e tedeschi costantemente affermarono il carattere francese dell’Alsazia; ma i socialisti francesi non hanno restituito il servigio ricevuto dai tedeschi. Da loro avrei voluto aspettarmi qualche parola di tardiva riconoscenza, e nulla essi hanno fatto in difesa della Repubblica tedesca. Oggi i socialisti di tutti i paesi danno un ben tardivo esempio di esasperato riconoscimento dei valori nazionali.

Non si può fare una politica se non nazionale, quando ci si trova al potere. Oggi al potere sono i socialisti, ed essi si adoperano a favore d’una politica che io, già loro avversario su questo punto, non manco di trovare esasperatamente nazionale, non diciamo nazionalista, per non fare dispiacere a nessuno, ma quell’affisso si stacca mal volentieri dall’aggettivo corrispondente…

Ad ogni modo, chi sta al potere non può fare una politica ideologica corrispondente a principî di partito. In materia per lo meno di politica estera, deve necessariamente fare una politica che dirò statale e nazionale.

E allora voi, mi domanderete: qual è la conclusione?

Che cosa ci proponete?

Ebbene, essa si compendia in una parola: aspettare. Aspettare. L’Italia ha aspettato quattordici secoli, fino al 20 settembre 1870, per costituirsi in unità e nel 1870 ha visto sorgere il suo assetto unitario. Noi possiamo ancora dunque bene aspettare ancora, forse, venti anni per veder tramontata la sostanza di questo ridicolo Trattato. Un’Europa senza la Germania non è un’Europa; l’Europa oggi è un grande caos, è un tremendo disordine. Questo disordine non può essere permanente; verrà il momento in cui potremo rispondere a coloro che ci hanno messo in questa condizione, con le parole di Molière: Tu l’as voulu, Georges Dandin.

Vi avevamo offerto una riconciliazione; ci avete imposto una punizione. La punizione è scontata, ed ora tocca a voi guardarvi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Bastianetto. Ne ha facoltà.

BASTIANETTO. Onorevoli colleghi, esiste un gruppo di deputati mutilati di guerra: siamo esattamente in 16. Ma io non intendo parlare anche a nome dei colleghi, perché di fronte a così grave problema, reputo che ognuno debba pensare e pronunciarsi come meglio crede.

Io però personalmente, come mutilato di guerra che ha combattuto, nell’altra guerra, per la liberazione di Trieste, e che ha combattuto proprio con i ragazzi del 1899, sento questo bisogno di dire una parola, non tanto per voi colleghi, quanto per rispondere alla mia coscienza, all’anima mia, che non sa immaginare come, votando questa ratifica, si possa essere tacciati e da una parte quasi come traditori della Patria e dall’altra quasi traditori del popolo.

Ora, per un uomo, per una persona che ha avuto coerenza nella sua vita sempre ed ha combattuto per la Patria, sacrificando anche parte della propria vita, dando una mezza dozzina di costole – posso dirvelo – proprio per la conquista di Trieste, è prorompente questo bisogno di reazione. Se in quella prima guerra si è sofferto per Trento e Trieste, in questa seconda, combattendo come partigiani, si comprese che la sofferenza era per un altro altissimo ideale, l’ideale di una sistemazione civile, non soltanto nazionale, ma internazionale; e combattendo proprio accanto ad amici partigiani che ci sono caduti quasi accanto e che tengo a ricordare, uomini d’ogni partito: Cantarutti, Viviani, Frausin di Trieste, Mauci di Trento, Fraccon e Rizzo ed altri ancora, amici, coi quali si parlava, si discuteva del futuro dopoguerra e di una migliore società di popoli.

L’avere combattuto due guerre, l’avere sperimentate tante sofferenze, tutto questo sarebbe stato vano, perché oggi accettando questo Trattato, dando il consenso a questa carta che chiude un passato, si correrebbe quasi il pericolo di essere tacciati come dimentichi dei propri doveri verso la Patria e verso il popolo. In maniera, che l’amico Pecorari, che ha nel cuore la sua Trieste, correrebbe pericolo di essere tacciato di tradimento. E perché tutti noi abbiamo questo sentimento di Patria, profondo nel cuore e perché noi abbiamo tanto sofferto in tutti questi anni, tutti, dovremmo avere questa incertezza nell’approvare questo Trattato.

Voglio perciò rispondere a questi due interrogativi della mia coscienza, anche perché le argomentazioni che avete udite in questa Aula in questi giorni, sono quasi tutte o su una falsariga di nazionalismo, un po’ superato dagli eventi, oppure su una falsariga di un diritto internazionale superato dalle nuove concezioni della comunità dei popoli; e allora mi riallaccio a questa vita internazionale nuova, che è scaturita da questa guerra, da questo conflitto, da questa conflagrazione, da questo cataclisma, perché, non nascondiamoci che quest’ultima non è stata una guerra; e quindi fa ridere sentir parlare di trattati, di convenzioni di altre guerre, di un altro passato e citare uomini e cose che non hanno niente a che fare col cataclisma che abbiamo sofferto. Questa guerra è qualche cosa di più grande, di più potente nella storia dell’umanità e di fronte alla coscienza di tutti i popoli.

Per questo è doveroso e giusto di trovare in questo dopoguerra e in tutti questi eventi quello che deve essere il filone conduttore, il filone d’oro, che deve tranquillare la nostra coscienza di cittadini e deputati nell’accettare questo trattato. E vi dico subito che la cosa che più mi ha impressionato in tutti questi discorsi è proprio questa falsariga di un vecchio diritto internazionale, basato sul diritto di guerra che può dirsi per sempre tramontato.

Ricordo quando ci pervenne, durante il periodo di occupazione nazista, la prima notizia dell’incontro di Teheran. I giornali accennarono a Teheran molto sommessamente; invece, attraverso la Jugoslavia ricordo che un giorno ci pervenne un fogliettino dove c’erano le conclusioni di Teheran: l’incontro di Roosevelt, Churchill e Stalin. Teheran è la prima pietra di un nuovo mondo che è sorto. Questo documento non l’abbiamo dimenticato, perché, quando eravamo sotto i nazi-fascisti e sotto le sofferenze, allora, mi ricordo che questo incontro di Teheran ci è parso come una stella, come qualche cosa che sorgesse sull’orizzonte: i tre grandi che si incontravano, certamente non soltanto delle cose di guerra avrebbero parlato, ma anche della liquidazione della guerra, e non solo della liquidazione della guerra ma della sistemazione del mondo.

Poi ci fu la conferenza di Mosca e poi la conferenza di Yalta, dove maggiormente si ebbe l’impressione che si fossero discussi i particolari della conclusione della guerra. Ma dopo Yalta si è vista subito l’impostazione di San Francisco, ed anche questa impostazione di San Francisco fu una speranza per tutti i popoli soggetti al nazi-fascismo.

Oggi si è dimenticato tutto questo, e nella Russia o nell’America si vede soltanto una minuscola parte di quella che è la loro vera sostanza la realtà di due grandi popoli. Soprattutto nell’America non si vede che capitalismo; mentre invece essa, preparando in cinque anni un esercito per l’Europa, una flotta nel Pacifico e nell’Atlantico, ha dimostrato di avere per meta la libertà e la vita e il riassetto dell’Europa e del mondo.

Così la Russia: della Russia non si vede che un lato, quello politico, ideologico, mentre essa è qualcosa di più. La Russia ora possiede Lituania, Estonia, Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria; ha aspirazioni in Persia, speranze innominate in Cina e in Giappone.

Quando Roosevelt, Churchill e Stalin si sono incontrati a Teheran e a Yalta e quando i loro ministri a San Francisco si sono messi d’accordo di scrivere una Carta, quella Carta significava qualcosa di più di quello che s’è detto qua dentro.

Perché, onorevoli colleghi, se nel campo del diritto privato, ad un dato momento si è sentito il bisogno di far giudicare le liti non dalla violenza ma dal diritto e si è sentito il bisogno di un magistrato e del giudice togato, nella lotta fra i popoli, nella lotta innazionale si deve arrivare al giudice, se non togato, almeno imparziale.

San Francisco ha dato un nuovo orientamento alle nazioni. Ma a torto da qualcuno si è obiettato: non è successo lo stesso con Ginevra e la Società delle Nazioni?

No, onorevoli colleghi, assolutamente no, perché la Società delle Nazioni del 1919 aveva un difetto fondamentale: non aveva la minima intaccatura del diritto di sovranità: ognuno era libero di fare o disfare. Nella nuova comunità dei popoli bisogna che ognuno sacrifichi qualche piccola parte del suo diritto sovrano. Questa Assemblea ha votato un articolo della Costituzione che suona in certo senso rinuncia al diritto di sovranità. Dai discorsi invece fatti in questi ultimi giorni parrebbe che la sovranità fosse un bene da non toccare, si è dimenticato cioè il concetto espresso pochi mesi fa.

Creata pertanto la nuova organizzazione delle Nazioni Unite, questa Carta di San Francisco ha significato un nuovo ordine di giustizia internazionale. Quando a Parigi si creò la prima Commissione dei Cinque e poi quella dei Quattro Ministri degli Esteri e poi quella dei Ventuno e poi il Consesso che doveva vedere al Lussemburgo, non si fece che mettere in atto altrettanti organi del nuovo diritto internazionale.

Ma quello che maggiormente dobbiamo notare è questo: che quando si discuteva dopo San Francisco sul come finire la guerra, si scoprì che fra la guerra 1914-1918 e la guerra ultima c’è stata questa differenza fondamentale: che la guerra del 1914-1918 si concluse prima col Trattato di pace e poi con l’organizzazione della Società Internazionale; questa guerra si è invece chiusa prima con la formazione della organizzazione internazionale e poi coi Trattati di pace.

Questa nuova impostazione geniale del nuovo ordine fra le nazioni è stata stabilita a Teheran e ad Yalta e si è concretata nella carta di San Francisco.

È sorta così l’O.N.U., come una specie di superstato, avente la possibilità di dirimere controversie internazionali e in primo luogo la maggiore di tutte la guerra che allora finiva.

Si previde fin d’allora che i trattati di pace avrebbero avuto il carattere delle sentenze.

Quindi niente trattati e neppure diktat. Il diktat fa pensare al chiodo tedesco. Quando ci si trova di fronte ad un collegio giudicante, l’elaborato è una sentenza, non un diktat, e nemmeno un trattato. Questa discussione sulla sentenza è già trapelata altre volte; ed ho piacere di ricordare che la prima istruttoria si è svolta a Londra, quando De Gasperi vi si presentò per la prima volta, davanti ai cinque ministri degli esteri. Poi è stata definitivamente elaborata al Lussemburgo in Parigi. Ricordo come è stato trattato De Gasperi a Parigi: egli era come un imputato, pallidissimo, fu fatto entrare nell’aula per deporre e poi fu riaccompagnato fuori dell’aula.

Si tratta tanto di una sentenza che il preambolo ne ha tutti i requisiti. Sicché accettando questa tesi possiamo ben intravvedere la possibilità della revisione. La revisione viene per conseguenza. E non sarà difficile poter dire che si sono dimenticate cose vitali per il nostro Paese. Proprio in questi giorni io accennavo all’onorevole Sforza che si sono dimenticati resistenza del mare Adriatico. Hanno disposto cioè di provincie e di città, ma senza tener conto del mare Adriatico; di questa imponente entità economica a se stante, ove si svolgono i cicli di pesca.

Dico dunque che se noi impostiamo su queste basi il problema della ratifica, abbiamo una prima giustificazione per la nostra coscienza.

Non è da pensare che il Governo per firmare abbia bisogno di promesse o di minacce. Non c’è bisogno di esaminare quelli che possono essere i rapporti tra il nostro Ministro degli esteri e le altre Potenze. È la semplice logica che porta a pensare che non c’è bisogno di tutto questo. Perché? Perché prima di parlare del piano Marshall bisogna esaminare anche la conferenza di Mosca. A Mosca, nell’aprile scorso, non si sono trattate quelle questioni economiche continentali europee che ora si vedono esaminate a Parigi? Ma a Mosca ci si è arenati nelle questioni della Germania, dell’Austria e allora si parlò di fallimento della conferenza.

Ma Marshall a Mosca è andato da Stalin, prima di lasciare la conferenza. Penso che in quell’incontro debba essere avvenuta la frattura o per lo meno la presa di posizione.

Tornato in America, Marshall, rivolto agli europei, ha press’a poco detto: datevi la mano cercate fra di voi una sistemazione economica europea. Noi americani siamo qui per aiutarvi.

In questo gesto io vedo il ritorno della politica americana nel suo binario tradizionale. Lo ricordo a me stesso: la politica estera degli Stati Uniti è una politica lineare che comincia con Washington, prosegue con Lincoln, e Monroe, va fino a Wilson, poi trova in Roosevelt l’organizzatore della vita internazionale. Ma Marshall torna alla politica che non vuol troppo ingerirsi dei problemi europei: l’Europa s’incammini da sé. Marshall non fa altro che additarle una via.

Il piano Marshall ha, per me, solo questo significato. Sarebbe lo stesso che domani la Russia proponesse un suo piano. Nessuna meraviglia. Un piano russo comprenderebbe tutti gli stati del centro europeo ed i Balcani. Lo vedremmo e lo discuteremmo. Quello che è certissimo è che la politica italiana si delinea oggi magnificamente su un nuovo indirizzo che ha del grandioso, del provvidenziale; è la politica che non è né per un piano né per l’altro, né per l’Oriente né per l’Occidente, ma è vera, sana e giusta politica europea. Ed allora, se veniamo a questo punto, pensando alla politica europea, noi vediamo la soluzione di tutti questi problemi. Perché oggi l’Europa con i suoi 400 milioni di abitanti non è a dire che sia una prigioniera – cioè la prigioniera dei tre Grandi che se la dividono: Inghilterra, America e Russia – ma sotto un certo punto di vista è quella che tiene prigionieri i tre Grandi nel suo territorio; perché oggi la sua situazione politica diplomatica ed economica è tale che la situazione sta quasi per invertirsi in questa realtà che ha quasi del drammatico: sono i tre prigionieri dell’Europa.

E spiego: tutti e tre hanno bisogno di vedere questa soluzione europea. Perché hanno bisogno di vedere questa soluzione europea? L’Inghilterra ne ha bisogno, perché nel suo Commonwealth non trova la situazione che aveva un tempo; ne ha bisogno l’America, perché deve tornare alla sua politica tradizionale monroiana, ne ha bisogno la Russia, perché non può stare con questa spinta in Occidente, quando nella storia si sono viste che tutte queste spinte hanno avuto il loro ritorno, sia con Caterina che con Alessandro I.

Ma, a parte questo accenno storico, vi è la realtà economica. Ecco l’incontro di Parigi. Ecco tutti gli incontri che dovremmo fare con tutti gli Stati viciniori per risolvere questo problema, ed allora – e mi auguro che questo succeda – se l’Italia nostra si metterà decisamente su questa strada, in questa politica europea che non guarda né a destra né a sinistra; avremo l’applauso di tutti i popoli di Europa; aggiungeremo nei nostri cuori alla grande Patria Italia la grande Patria Europa; vuol dire per noi avere la possibilità di rifare l’avvenire nostro. Non c’è dubbio in questo: con questa politica avremmo la possibilità di risolvere il problema triestino quello di Tunisi e quello di Tenda e Briga, quello delle nostre colonie, quello dell’emigrazione ed ogni altro problema interno.

Mettendoci su questo piano, vi è senza dubbio tale possibilità. Ed allora, se noi abbiamo la forza di seppellire il passato accettando il Trattato, diventeremo perno di tutta una situazione nuova. Ma per avere questa forza ci vuole coraggio; ed hanno torto quelli che hanno rimproverato l’ottimismo del Ministro degli esteri. Io dico che questa è la sola strada buona; e, camminando in essa mi sento con la coscienza a posto. Tutte le idealità, che temevo in pericolo, trovano la loro giustificazione in questa grande speranza: trovano la giustificazione in questa nostra funzione europea. Sento che approvando il Trattato, non tradisco né la Patria né il popolo; sento che faccio il mio dovere.

Bisogna seppellire tutte le nostre disavventure e sulla pietra tombale ricordare questo passato e i suoi laudatori vecchi e giovani. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bertone. Ne ha facoltà.

BERTONE. Onorevoli colleghi, ieri l’altro l’Assemblea, in una dimostrazione plebiscitaria, ha acclamato l’ordine del giorno Badini Gonfalonieri firmato da oltre 200 deputati di ogni settore di questa Assemblea, ordine del giorno che auspica la revisione delle clausole del Trattato che hanno mutilato il confine occidentale. Mi sia consentita in aggiunta, una breve dichiarazione che varrà come anticipata dichiarazione di voto, dichiarazione il cui sentimento, mi lusingo sia condiviso da tutti i colleghi non solo del nostro Piemonte, ma anche delle altre Regioni. In verità noi piemontesi e specialmente i piemontesi della provincia di Cuneo, siamo un po’ come i Giuliani del confine occidentale e la nostra amarezza è giustificata e comprensibile.

Noi, del gruppo democristiano, approveremo il mandato al Governo di ratificare il Trattato, nel modo e nelle condizioni previsti nel disegno di legge sottoposto al nostro esame. Siamo convinti che la soluzione adottata è la migliore che, nelle dure contingenze in cui trovasi l’Italia, potesse proporsi.

Una nostra approvazione prima che il Trattato avesse la ratifica delle quattro Potenze proponenti, implicava, o quanto meno poteva lasciar presumere, una manifestazione di volontarietà, manifestazione che sarebbe stata in contrasto con la logica, con la inderogabile reazione nostra ad un Trattato che stimiamo ed è ingiusto, contrario alle solenni promesse elargite nella Carta atlantica ed in altri documenti, contrario ai principî della giustizia e della morale internazionale. Il nostro mandato al Governo di ratificarlo quando lo abbiano ratificato tutte e quattro le Potenze proponenti, dal qual momento il Trattato entrerebbe in esecuzione anche in nostra assenza, ha portato la questione su un ben altro piano. La esecuzione del Trattato, portante anche la nostra ratifica, non vulnera più, nelle condizioni in cui noi ratifichiamo, la posizione dell’Italia, che è di resa ad un atto imposto, divenuto imperativo ed eseguibile per il fatto che le quattro Potenze lo hanno ratificato.

Ma non è d’altra parte dubitabile che la dimostrazione della nostra buona volontà di compiere una formalità prevista nel Trattato, e desiderata dalle quattro Potenze, apre e deve necessariamente aprire la strada a spiragli di luce che finora ci sono stati preclusi e tali potrebbero ancora rimanere.

Ciò è stato ben chiarito dalle spiegazioni date dal Governo e dai discorsi qui tenuti dai vari oratori. Ogni mia parola al riguardo può diventare perciò superflua. Ma un raggio di luce gli italiani tutti, e noi del Piemonte in specie, delle provincie di Torino e di Cuneo, vogliamo credere sia per venire circa i nostri rapporti con la Francia.

Le mutilazioni di confine sono quelle che più ci fanno soffrire. Briga, Tenda, Moncenisio, senza contare le cime dei Monti Clapier Gelas, Maledia, Pagarì, cime familiari alle nostre escursioni alpine, tutte italiane, in territorio che fu sempre italiano, sono spine acute e dolorosissime piantate nel nostro fianco: e fino a che ci sono, vano ed illusorio è sperare in una pacifica, fraterna collaborazione per il restauro delle comuni rovine, quale da tutti, da ogni parte e di ogni parte, si auspica.

Anche il modo come questi territori ci sono stati tolti, ha aggravato la offesa. Nella prima fase delle trattative, febbraio 1945, di queste rivendicazioni dalla Francia, non si era fatta parola. Erano i popoli, rappresentati dai rispettivi Governi, che trattavano. Fu solo un anno dopo che esse si affacciarono: al Governo di Francia erasi affiancato, o meglio sovrapposto, lo Stato Maggiore: da allora, per il sentimento non vi fu più posto. Gli sforzi tenaci, insistenti, accorati, del Governo italiano, e in specie del Presidente, onorevole De Gasperi, che pagò sempre di persona nella dura ed estenuante lotta, a nulla valsero, come a nulla valsero, per il Moncenisio, trattative tra i dirigenti dei maggiori gruppi elettrici delle due nazioni, trattative ispirate alla obiettiva valutazione dei comuni interessi, e che ad un punto parevano vicine a concludersi. Sotto il pretesto di necessità geografiche e militari, Briga e Tenda e le Alpi Marittime che ho poco fa indicate, e il Moncenisio ci sono strappati, e le conseguenze sono tali da creare in noi uno stato di angoscia permanente.

È inutile chiudere gli occhi. La porta di casa nostra, con la perdita di Briga e Tenda e delle principali punte delle Alpi Marittime, è aperta alla aggressione ed alla invasione. E intanto le popolazioni dei territori perduti, che ancora poco tempo fa, in libero plebiscito, affermavano la loro italianità, sono ridotte alla disperazione. Perché esse potranno, sì, conservare la cittadinanza italiana, ma la Francia potrà esigere che entro un anno dalla opzione si trasferiscano in Italia. Tragica alternativa fra la rinuncia dei nostri fratelli alla patria, e la rinuncia alla casa dove son nati ed hanno vissuto, al campo fecondato col loro sudore, alle tombe dove giacciono i loro morti.

Le centrali elettriche di San Dalmazzo, La Mesce e Confine passano alla Francia, e da essa dipenderà la fornitura e il prezzo dell’energia, garantita solo per 14 anni, cioè fino al 1961. E dopo? Non sappiamo. Questa energia alimenta gran parte degli stabilimenti industriali della Liguria, dove lavorano centinaia di migliaia di operai.

Più grave la situazione al Moncenisio, dove il lago, che è interamente sul displuvio italiano, passa in proprietà della Francia, con la centrale Grande Scala e la stazione di pompaggio. Non ho bisogno di dire quale tremendo pericolo costituisca per il Piemonte il possesso in mano altrui di un lago artificiale della capacità di 30 milioni di metri cubi d’acqua, che, in caso di rovina della diga di sbarramento sommergerebbero tutta la vallata di Susa, Rivoli, fino a Torino, portando distruzione e morte in una plaga fra le più ricche ed operose del Piemonte, per industria, agricoltura e densità di popolazione.

Si tratta di un’opera grandiosa, dovuta al genio costruttivo ed al lavoro italiano; la perdita di essa è una ferita insanabile. E dover chiedere alla Francia la fornitura della energia che alimenta i nostri grandi stabilimenti industriali piemontesi, e pagarne il prezzo secondo le tariffe francesi, non si può negare che sia un’umiliazione cocente.

Orbene, noi vediamo il nostro ingresso nel complesso delle nazioni vincitrici, in virtù del Trattato di pace anche da noi ratificato, come un sicuro auspicio ad una revisione che confidiamo non possa non essere ravvisata giusta e necessaria dalla Francia, ed aiutata dalle altre Nazioni. Se dobbiamo andare verso un domani di collaborazione economica e spirituale, forza è che con buona e reciproca volontà si tolgano le spine, si eliminino gli ostacoli che si sono con questo Trattato frapposti fra i due popoli, sì che essi si avvicinino con cuore aperto.

La nostra ratifica al Trattato è indubbiamente una spinta all’avvicinamento, allo scambio di vedute, all’esame di problemi interessanti le rispettive economie. Ed il problema di confine ingiusto e violato sarà sempre, e non potrà non esserlo, presente.

Italia e Francia sono portate, dalla loro posizione, dalle tradizioni, alla mutua comprensione dei rispettivi bisogni. Dobbiamo tradurre in realtà la istintiva, sincera, secolare aspirazione dei due popoli.

Con la nostra autorizzazione al Governo a ratificare il Trattato, l’Italia dà la prova concreta che tale è il suo proposito. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se il Governo, di fronte alla sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 della Corte di cassazione a sezioni unite, con la quale vengono annullate senza rinvio le ordinanze di decadenza dei senatori fascisti, non creda di dover fornire pubbliche precisazioni circa gli effetti della pronuncia, i cui motivi e la cui ispirazione, se sono giurisdizionalmente insindacabili, non sfuggono alla libera critica politica e morale.

«Rossi Paolo, Bennani, Carboni Angelo, Canevari».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga che la Corte suprema di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 sulla decadenza dalla carica dei senatori, non abbia, da un lato, invaso il campo del potere legislativo e non si sia attribuito, dall’altro, un potere di controllo costituzionale che ad essa Corte non compete in alcun modo, in quanto non le è riconosciuto da alcuna legge.

«La Rocca, Lombardi Riccardo».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà al termine della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.

PRESIDENTE. È pervenuta in oltre la seguente altra interrogazione urgente:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per essere rassicurati che il Governo intende dare pronta esecuzione alle provvidenze richieste da una delegazione di mutilati e grandi invalidi della guerra nel colloquio da essa avuto recentemente con una rappresentanza dell’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea Costituente e col Sottosegretario alla Presidenza onorevole Martino, che ne riconobbe la fondatezza, impegnandosi a sostenerle al Consiglio dei Ministri, provvidenze consistenti particolarmente:

  1. a) in un provvedimento che aumenti adeguatamente il trattamento di pensione a coloro che fecero dono alla Patria della loro integrità fisica;
  2. b) nella immediata concessione di un congruo acconto su tale aumento, similmente a quanto è stato fatto per gli impiegati delle pubbliche amministrazioni;
  3. c) nel collocamento obbligatorio dei mutilati e dei grandi invalidi di guerra, così come è disposto dalla legge del 21 agosto 1921, numero 1312, che regola appunto l’assunzione obbligatoria di questi benemeriti figli della Patria.

«Bibolotti, Molinelli, Schiavetti, Targetti, Chiostergi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Avverto che il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio sta svolgendo trattative direttamente con rappresentanti dei mutilati, e ritengo di potere dar presto notizia agli onorevoli interroganti dei risultati conseguiti.

PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata anche la seguente interrogazione con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga opportuno che, a differenza della condotta negativa tenuta su questo punto dal Governo negli anni decorsi, siano disposti sin d’ora, e comunque prima della semina, opportuni piani e provvidenze diretti ad ottenere il massimo incremento della prossima campagna granaria, evitandosi così che, nella completa oscurità circa gli orientamenti e i disegni del Governo, essa abbia ancora a svolgersi con criteri e piani di mera convenienza aziendale e personale, sovente contrastanti col superiore interesse e le esigenze della collettività.

«Arata».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Una Commissione interministeriale sta studiando i problemi di cui a questa interrogazione e prossimamente renderà note le sue decisioni.

PRESIDENTE. Sono ancora pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’industria e commercio, dei trasporti e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non ritengano necessario ed urgente intervenire, con adeguati provvedimenti, nel grave problema del rifornimento della legna da ardere per il riscaldamento invernale.

«Questo problema – al pari di quello della persistente ascesa dei prezzi dei generi alimentari – si vien facendo ogni giorno più angoscioso e allarmante, specie per certe categorie della popolazione, prive delle possibilità economiche che consentano loro di fronteggiare i prezzi della legna, avviati a continuo vertiginoso aumento.

«Ai fini anche del mantenimento dell’ordine pubblico, che verrebbe certamente ad essere, un giorno, turbato, sembra rendersi indispensabile un superiore intervento anche nel campo dei trasporti ferroviari, una parte dei quali dovrebbe essere riservata al rifornimento di determinate collettività particolarmente bisognose.

«Arata».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali misure siano state prese dall’autorità politica in occasione di comizi, tenuti senza l’osservanza delle relative norme di legge, e della spedizione punitiva organizzata la sera del 20 luglio dall’onorevole Giovanni Tonetti contro la pacifica popolazione di Caorle (Venezia), e quali provvedimenti si intendano assumere per impedire il ripetersi di simili episodi, che – turbando l’ordine pubblico – feriscono i più elementari principî delle libertà democratiche e rinnovano sistemi universalmente condannati e detestati.

«Mentasti, Lizier, Bastianetto, Ponti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se esistono speciali ragioni che determinano nell’Azienda della strada la volontà o la necessità di ben mantenere le strade nazionali del nord, del centro e di parte dell’Italia meridionale, precisamente fino alla città di Salerno, mentre da Salerno in giù le strade nazionali sono quasi completamente abbandonate.

«De Martino».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se sia informato sulle accuse specifiche e documentate, presentate contro la Società concessionaria del Casinò Municipale di Venezia e consistenti in gravi irregolarità di gestione a danno dell’Amministrazione comunale di Venezia;

se intenda intervenire con i provvedimenti di propria competenza, di fronte all’opinione pubblica edotta attraverso la stampa del grave pregiudizio a danno del comune, contro l’attuale Amministrazione comunale di Venezia, la quale continua a conservare la fiducia e la gestione del Casinò ad una Società che, oltre a danneggiare gli interessi dell’Amministrazione comunale, ha danneggiato anche quelli dello Stato, essendo il bilancio del comune integrato dal contributo statale;

se non ritenga necessaria un’azione sollecita onde convincere l’opinione pubblica che il Governo, intendendo seriamente moralizzare la vita pubblica, ha volontà e forza per severamente colpire chiunque, specie se pubblica autorità, che non abbia rigorosa cura del denaro pubblico;

se ritenga necessario rivedere la legislazione in materia di gestione di case da giuoco onde garantire un più severo necessario controllo che eviti facili imbrogli a danno della pubblica finanza;

se, infine, non sia maturo il momento di fronte a questi ed altri fatti per aderire alla richiesta di tanta parte della sana opinione pubblica per la definitiva chiusura delle case da giuoco autorizzate.

«Sartor, Carbonari, Carignani».

Interesserò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendono rispondere a queste interrogazioni.

BULLONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BULLONI. Ho presentato alcuni giorni fa una interrogazione urgente sulla crisi dell’energia elettrica in Alta Italia, e sui provvedimenti che si intendono adottare in vista del rinnovarsi di questa crisi. Chiedo quando il Governo intende rispondere.

PRESIDENTE. Porrò questa interrogazione all’ordine del giorno della prima seduta in cui si tratteranno le interrogazioni.

COSTANTINI. In data 16 giugno ho presentato una interrogazione al Presidente del Consiglio ed al Ministro degli esteri per sapere se erano a conoscenza dell’esistenza in Albania di circa 700 operai italiani, che sono là e che non possono ritornare. Data l’importanza dell’argomento chiederei che mi si rispondesse subito.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Credo che i trattenuti in Albania siano meno di 700. Dalle notizie in mio possesso risulta che essi sarebbero da 3 a 400; si tratta di operai qualificati o piccoli professionisti che sono utili in quel paese, ma che sono trattenuti, contrariamente ad ogni legge internazionale.

Purtroppo, non abbiamo rapporti diplomatici con l’Albania ed io ho tentato attraverso vari canali indiretti di avere notizie. Ma, more orientale, tutto questo avviene con una certa calma.

Mi risulta comunque che questi nostri connazionali non sono maltrattati.

COSTANTINI. Io ho corrispondenze di operai di laggiù che attestano che il numero dei nostri connazionali è di 700 e non di 300, essi invocano l’intervento del Governo italiano.

Pregherei l’onorevole Ministro degli esteri di fare maggiori accertamenti. A tanti anni di distanza dalla guerra, sono tornati anche i prigionieri e non vedo la ragione per cui non debbano tornare anche questi nostri connazionali.

Se è possibile, chiederei risposta scritta.

PRESIDENTE. Domani vi saranno due sedute: alle 9.30 per il seguito della discussione del decreto concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio; alle 17 per il seguito della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.

Avverto i colleghi che nell’eventualità che nella seduta mattutina non si possa ultimare la discussione sull’imposta patrimoniale, la seduta pomeridiana potrà prolungarsi nella serata per completare tale discussione.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, per sapere se sia eventualmente esatto che l’Azienda nazionale autonoma della strada – accampando infondate esigenze del traffico – si opponga, con gravissimo danno dei numerosi comuni interessati, al ripristino della linea tranviaria Albano-Velletri, reclamata insistentemente dalle popolazioni dei Castelli Romani così duramente provate dalla guerra.

«Veroni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per conoscere:

  1. a) quale fondamento abbiano le notizie pubblicate dalla stampa circa irregolarità attribuite all’ARAR per la cessione di residuati di guerra ad una società commissionaria, ed in genere circa i sospetti e le deficienze, ormai di dominio pubblico, nelle operazioni di vendita di ingenti quantitativi di materiali;
  2. b) i risultati delle indagini circa incendi e furti, che ripetutamente si verificano nei campi di deposito dell’ARAR;
  3. c) i motivi che inducono i dirigenti dell’ARAR ad alienare a speculatori notevoli quantitativi di materiale di uso, che potrebbero essere ceduti, con evidente vantaggio di tutti, a determinate categorie di consumatori.

«Gli interroganti, inoltre, chiedono di conoscere se nell’interesse dell’erario e di fronte a tante accuse e voci di sospetti, non si ritenga opportuno nominare una Commissione di inchiesta su tutto il funzionamento di questa complessa e importante azienda.

«Numeroso, Leone Giovanni, Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, e i Ministri dell’industria e commercio e delle finanze, per sapere se, in relazione ai vincoli rigorosi stabiliti per le altre provincie d’Italia sulla circolazione delle automobili e sull’assegnazione del carburante, sussista per Roma un particolare regime, tale da consentire che le automobili – sia di privata proprietà, che di pubblico servizio – vengano usate anche come mezzo ordinario di accesso, specialmente nelle ore notturne, ai locali di divertimento o di ritrovo in genere, e tale anche da consentire la larga circolazione di automobili dei Ministeri ed enti pubblici senza stretta necessità di servizio.

«E, comunque, per sapere se l’onorevole Ministro delle finanze non ritenga conveniente disporre perché i locali uffici finanziari e fiscali provvedano ad opportune ispezioni, nei luoghi sopradetti, per l’accertamento della proprietà degli automezzi come sopra adibiti, ai fini dell’acquisizione di più completi elementi di valutazione tributaria, quale parziale rimedio per l’imposizione di quella disciplina e solidarietà sociali, alle quali sono, in parte, legate le sorti della ricostruzione nazionale.

«Arata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere per quali ragioni, in occasione di una riunione di lavoratori indetta dalla Camera del lavoro nell’interno della Ditta Carlo Erba a Milano, la forza pubblica si è recata preventivamente presso la ditta, chiedendo se questa desiderava che la riunione venisse impedita con la forza, al che la ditta ha risposto negativamente; e se non creda che queste sollecitazioni di interventi non chiesti da nessuno, ma offerti tanto inopportunamente da parte delle autorità di pubblica sicurezza, non ottengano altro effetto che quello di inasprire gli animi e turbare l’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani Francesco»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere il motivo per cui non è stato ancora prorogato il termine di validità per la riduzione della tassa di registro dei contratti di cessione agli istituti bancari dei crediti degli appaltatori statali, beneficio inizialmente concesso con decreto 16 dicembre 1936, n. 2170, e susseguentemente confermato con ulteriori decreti. Tale termine è venuto a scadere il 30 giugno 1947 ed il mantenimento del beneficio è richiesto, tra l’altro, dalle esigenze dell’opera di ricostruzione del Paese.

«L’interrogante chiede se l’onorevole Ministro non ritiene, intanto, opportuno, nelle more della emanazione dell’ulteriore decreto di proroga, disporre che gli uffici competenti registrino i contratti di cessione percependo la tassa nella misura precedentemente praticata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Salvatore».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulla domanda inoltrata dal Rettore dell’Università degli studi di Catania perché siano assegnati alla detta Università i locali dell’ex G.I.L., in via Plebiscito, per l’istituzione della Casa dello studente: data l’importanza dell’Università di Catania, che conta circa 5000 iscritti, è necessario che essa sia fornita della Casa dello studente, come altre Università, anche meno importanti. All’uopo la destinazione dei locali suaccennati dell’ex G.I.L. riesce opportuna e soddisfacente. Tali locali, già appartenenti al comune di Catania, e poi ceduti all’Opera Balilla, cui succedette la G.I.L., sono affidati ad una gestione commissariale col compito di assegnarli alla G.I. Nulla di più adatto, quindi, che ne sia fatta la concessione per la istituzione della Casa dello studente in rispondenza ai fini stabiliti dalle vigenti disposizioni a favore della Gioventù italiana. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Di Giovanni, Sapienza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e come intenda intervenire in favore delle costituite cooperative edilizie tra impiegati statali per la costruzione di case di abitazione a scomputo e con partecipazione dello Stato.

«Il decreto legislativo 8 maggio 1947, numero 399, con le provvidenze dirette ad agevolare la ripresa delle costruzioni edilizie operanti nel territorio della Repubblica, costituisce un privilegio antidemocratico, perché privilegio è fonte inevitabile di protezionismi e di ingiustizie per difetto di controllo contro il numero rilevantissimo di interessati. Una estensione di tali privilegi alle diverse cooperative edilizie costituite in molti centri della Repubblica deve ritenersi, invece, protezione del cooperativismo che la Repubblica deve agevolare quale fonte di ripresa della economia nazionale; protezione della classe impiegatizia come da reiterati impegni governativi; gara tra Enti che lo Stato può bene controllare con provvidenze legislative le quali valgano anche a garanzia delle somme anticipate per le costruzioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sapienza, Di Giovanni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sollecitare il provvedimento di proroga del beneficio della riduzione di tassa di registro per le cessioni di credito degli appaltatori a favore delle banche che finanziano l’esecuzione dei loro appalti statali.

«Tale riduzione fu per la prima volta sancita dal decreto 16 dicembre 1936, n. 2170 e, poiché fu limitata nel tempo, sopraggiunta la recente guerra, fu rinnovata con altri decreti (decreti 23 marzo 1940, n. 286; 11 marzo 1941, n. 170; 24 dicembre 1942, n. 1633 ed altri). Dopo la guerra l’agevolazione fu ancora rinnovata per la ricostruzione; ma, poiché fu sempre posta una limitazione nel tempo, la agevolazione stessa è scaduta il 30 giugno 1947 e si attende la proroga già annunciata.

«Tardando tale proroga, gli appaltatori non possono fare altra cessione di credito alle banche perché la tassa normale sarebbe onerosissima, ed in mancanza di tale cessione, che le garantisca, le banche non fanno altri finanziamenti.

«Gli interroganti chiedono altresì che il Ministro delle finanze istruisca gli uffici dipendenti di percepire la tassa ridotta nelle more della pubblicazione del decreto contenente la proroga, come è avvenuto le volte precedenti. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Trimarchi, Caronia»

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 23.35.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).