ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCXXXVIII.
SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Commemorazione:
Vernocchi
Presidente
Mozioni (Seguito della discussione):
Labriola
Merzagora, Ministro del commercio con l’estero
Cortese
Togliatti
Presidente
Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):
Presidente
Tupini, Ministro dei lavori pubblici
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
La Rocca
Micheli
De Mercurio
Jervolino, Sottosegretario di Stato per i trasporti
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Commemorazione.
VERNOCCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
VERNOCCHI. Onorevoli colleghi, la notizia è improvvisa, è di stamane. Adelchi Baratono non è più. Era ben lungi da me il pensiero che l’avversità degli eventi mi avrebbe serbato questo doloroso incarico di ricordare a voi lo scomparso che fu nostro, che sedette su questi banchi. Altri assai meglio di di me avrebbe potuto rievocare l’altezza del suo ingegno e delle sue opere, ma si è voluto che io, che ebbi con lui legami di fraterna amicizia, che ne condivisi sempre il pensiero teorico, levassi l’anima alla sua memoria, alla memoria dell’uomo buono, del filosofo illustre, del socialista che rivestì di genialità, di gentilezza e di povertà la sua incrollabile fede in un avvenire di emancipazione sociale. In quest’ora angosciosa, perdonatemi, signori, è il cuore che parla. Ogni parola è un palpito ed il palpito del mio cuore si riallaccia al palpito dei cuori dei socialisti, dei lavoratori di Genova, dei lavoratori italiani che lo conobbero. Dire di lui, degnamente, in quest’ora sarebbe inutile sforzo; ma bisogna pur dire qualche cosa. E allora le memorie risalgono lontano, ai tempi in cui nel partito socialista ferveva la lotta delle idee; in cui si discuteva senza faziosità e senza livore dei principî e dei metodi; in cui si dissertava sulla interpretazione della dottrina marxista. Erano i tempi eroici del socialismo. Il Partito socialista italiano, particolarmente, era una fucina di cervelli incandescenti in continua ebollizione, che muovevano le idee e le dottrine: discussioni produttive erano, perché elette, impersonali, sincere. Adelchi Baratono, filosofo illustre, fu uno di coloro che parteciparono, con altezza d’ingegno e di cultura, a queste discussioni. Riformisti e rivoluzionari, minimalisti e massimalisti, transigenti e infransi genti; concezione graduale o contingentista del socialismo che credendo nella capacità riformatrice della classe borghese entro l’ambito dello stato borghese si esauriva in questa funzione, concezione rivoluzionaria ispirata al metodo della lotta di classe come movente principale della storia e come strumento di offesa e di difesa della classe lavoratrice contro l’oppressione del capitale. Ecco i termini del dissidio. E Baratono, massimalista e teorico del massimalismo, partecipò a questa discussione e scrisse cose pregevoli fin negli ultimi momenti di sua vita, particolarmente sui due aspetti del marxismo. Noi sostenevamo e sosteniamo che il socialismo non è soltanto una questione proletaria ma una questione sociale, perché il proletariato, risolvendo il problema della sua classe, risolve un problema umano, traduce, cioè, nella realtà una idea di giustizia.
Ecco perché i motivi idealistici sono parte integrante del socialismo. E sostenevamo, quindi, la necessità di una organizzazione politica la quale, non dimenticando di rafforzare nella classe lavoratrice lo spirito di rivolta contro l’ingiustizia, non dimenticando di agitare la fiaccola dell’idealità lontana e di indicare la meta ultima, affrontasse nello stesso tempo tutti i problemi di carattere politico, morale, culturale, religioso e giuridico che trascendono nell’ora la semplice questione del pane. Allora fummo chiamati romantici (allora in buona fede, oggi, forse, con dileggio); e noi rispondevamo con Baratono affermando che «se romanticismo vuol dire spinta soggettiva, volontà del domani, movimento nell’azione, bisogno di trasformare la realtà invece che adattarvisi, ebbene noi siamo dei romantici».
Vi sembrerà strano che, in questa epoca di abituale compromesso, ancora oggi vi siano uomini che credono in questi principî; ed alcuni di noi vi credono, non hanno dimenticato il passato. Ma Baratono particolarmente aveva il culto della unità nella disciplina. Ed io ricordo quando al Congresso di Milano del 1921, nella famosa polemica con Claudio Treves, egli sostenne non il comodo concetto della libertà del pensiero e disciplina nell’azione, ma affermò che pensiero ed azione sono la stessa cosa; perché non era possibile concepire socialisticamente una azione contraria a quella che pensiamo. Ecco l’uomo, ecco il socialista che consacrò pensiero ed azione alla causa degli umili e degli oppressi.
Se io dovessi, in questo momento, ricordarvi il suo pensiero filosofico, la indagine mi condurrebbe troppo lontano; non è questo il momento né il luogo. Vi dirò soltanto che Baratono aveva una qualità che pochi filosofi hanno: la chiarezza nella esposizione del suo pensiero. Pei questo motivo articoli di dottrina venivano pubblicati sui nostri giornali quotidiani; perché egli metteva i lavoratori, che lo leggevano, in condizione di poterlo capire. Dalla cattedra, sui libri e sui giornali, sempre il suo pensiero apparve cristallino; e a tutti comprensibile anche quando esponeva i principî più astrusi della filosofia.
Ricordo – ed io lo seguii dalla tribuna della stampa – quando, nel 1922, deputato, intervenendo nella discussione sul bilancio della pubblica istruzione, relatore il collega e compagno Mancini, egli elevò un inno all’avvicinamento della scuola al lavoro. Fu un discorso di critica costruttiva, perché indicò quale avrebbe dovuto essere il nuovo ordinamento scolastico. Ancora oggi noi dovremmo riprendere quelle sue idee, perché servirebbero alle nostre discussioni.
Onorevoli colleghi; a più tardi ed altrove la commemorazione. Oggi eleviamo il pensiero riverente alla memoria di Adelchi Baratono. La morte, che lo tradì quando ancora non aveva compiuto la sua opera, lo spinge tra quella eletta schiera di uomini generosi, la cui vita fu una continua aspirazione ad un avvenire di giustizia in cui il lavoro umano sarà finalmente redento. (Applausi).
PRESIDENTE. Esprimo il cordoglio mio personale e mi faccio interprete di quello, ugualmente profondo, ne sono convinto, di tutta l’Assemblea per la morte del professor Adelchi Baratono, che ha seduto in questa Aula a rappresentarvi il socialismo italiano, al cui servizio ha profuso, come l’onorevole Vernocchi ha testé ricordato, tutte le energie del suo intelletto e la grande ricchezza dei suoi sentimenti umani.
Sono sicuro di obbedire al desiderio unanime di tutti i colleghi, se dico che farò pervenire ai familiari dello scomparso l’espressione del nostro dolore solidale. (Applausi).
Seguito della discussione di mozioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.
È iscritto a parlare l’onorevole Labriola. Ne ha facoltà.
LABRIOLA. Onorevoli colleghi, il discorso pronunciato stamani dall’onorevole Valiani invita ad una esposizione sobria e riassuntiva del proprio pensiero. Quel discorso, ricco di informazioni e di notizie, potrà forse essere più utile alla lettura di quel che non sia stato alla semplice audizione. Tuttavia, nel confermarmi nella opinione che occorra esporre in guisa sintetica e abbreviativa il proprio pensiero, mi induce soprattutto un’osservazione che ho avuto occasione di fare allorché l’onorevole Valiani aveva terminata la sua esposizione.
In realtà molti dei suoi rilievi riguardavano i criteri personali con cui gli uomini del Governo hanno condotto la politica del nostro Paese. A me non pare che codesto modo di formare una critica raggiunga appieno l’intento che i presentatori delle mozioni si sono proposti. Criteri personali. Se al posto degli attuali governanti vi fossero stati degli uomini come il Valiani, evidentemente essi sarebbero stati diversi. Ma dei criteri personali noi non possiamo fare in nessun modo un conto assoluto; si tratta di apprezzamenti circa il modo personale come si è intesa una determinata funzione. L’essenziale è occuparsi degli indirizzi, degli orientamenti e dei sistemi tenuti dal Governo.
Continue ripetizioni delle stesse storie. È probabile che la presente discussione sia per rassomigliare alle otto o dieci che l’hanno preceduta. Tuttavia non capisco perché vi si accaniscano tanto intorno i due partiti che chiamano se stessi, con dubbio gusto, «estremisti».
Essi non possono pensare che i mali d’Italia siano nati da tre (o quattro) mesi di governo esclusivo democristiano, anziché da tre anni di collaborazione socialcomunista-democristiana. Forse il torto dei democristiani consiste nell’aver desiderato per tre anni la cooperazione e il sostegno dei socialcomunisti, e del non averli adesso conseguiti sono intimamente amareggiati. Ma, torto o no, il fatto è che di fronte a tre mesi di attività indipendente, tre anni di lavoro in comune contano molto di più.
Si può aggiungere che l’onorevole De Gasperi potrebbe sempre sostenere che il suo tentativo particolare non è riuscito – almeno così presto – perché appunto gravato dalla vecchia eredità dell’attività in comune con socialisti e comunisti. Se egli domandasse che gli lasciassero il tempo per cancellare gli effetti di quella collaborazione, non si potrebbe proprio dargli torto; e se in politica la buona fede fosse moneta corrente, si dovrebbe necessariamente dargli il tempo di attendere.
Penso che io sono dei pochissimi, o forse il solo, in questa Assemblea, a poter votare con tranquilla coscienza contro l’onorevole De Gasperi. Ho votato contro di lui allorché egli era alla testa dell’esarchia, poi quando era alla testa della triarchia; e perché mi rifiuterei di continuare a farlo ora che egli è alla testa della propria… monarchia democratico-cristiana?
Il mio punto di vista è che tutta la situazione politica costituitasi dopo il giugno del 1943 è falsata da una duplice volontà: dalla risoluzione dei tre partiti di mirare essenzialmente alla propria compattezza e resistenza, per essere, come partito, il solo strumento della vita nazionale; in secondo luogo di considerare la situazione italiana come puramente transitoria, e perciò da dominare con un proposito di volgerla ai propri schemi o al proprio programma.
Intendiamoci su quest’ultimo punto. Che la situazione italiana sia concepita come puramente transitoria, non è cosa da rimproverare a nessuno, anzi fa onore il ritenerla così; ma si capisce che tale transitorietà debba riferirsi alle circostanze non essenziali, ma, dirò così, qualitative dello stato di essa. Le cose vanno male, ed è desiderabile che volgano al meglio, al meglio per quello che esse effettivamente sono. Ma non è di questa transitorietà che evidentemente si disputa.
La transitorietà della quale intendo parlare non è di questa specie. In realtà essa si riferisce all’ordine giuridico raggiunto, al sistema – non più politico – ma sociale nel quale si è assestata; in un altro caso e per uno dei tre partiti, al nostro ordinamento nazionale.
Incedo per ignes. Naturalmente, che la inclinazione mostrata dalla democrazia cristiana per una soluzione repubblicana del nostro problema istituzionale sia stata influenzata dal suo naturale desiderio di lasciare in Italia unico potere coordinatore e disciplinatore il Vaticano, è cosa ovvia. Ho abbastanza studiato la storia per non comprendere l’entusiasmo repubblicano dei cattolici. E poi c’è il Sillabo, non ritrattato, né attenuato, il quale dichiara eretica la proposizione che l’origine dei diritti pubblici sia nel popolo e non nella Chiesa, e che la sovranità popolare sia il fondamento dell’ordine pubblico. E c’è la storia della Chiesa nei suoi rapporti con le rivoluzioni popolari, da quella che cacciò gli Stuart, alla Rivoluzione francese, e soprattutto alle rivoluzioni del 1818. Ma la Chiesa fa anch’essa una politica, e le conseguenze si comprendono.
Tuttavia da tutto questo io non voglio ricavare un argomento polemico di carattere ecclesiastico. Mi duole che all’Assemblea le correnti laicistiche che un dì furono la forza e l’orgoglio dell’estrema sinistra e della stessa sinistra (fu appunto Francesco Crispi a volere il monumento a Giordano Bruno) oggi difettino pressoché completamente, mentre esse prendono alle visceri più intime il senso nazionale degli italiani. Ma il mio argomento si riferisce esclusivamente alla tesi che i partiti emersi così rigogliosamente dal disastro nazionale, abbiano intesa la situazione italiana come un semplice mezzo per volgerla in via esclusiva ai loro fini di parte, cioè per dominare il Paese come parte.
E dico una parola a proposito dei socialcomunisti. In tutti i discorsi dell’onorevole Nenni, che a differenza dell’onorevole Togliatti si mostra meno prudente e più corrivo del suo non so bene se collega o concorrente, ritorna il tema che i socialisti debbano andare al potere per realizzare al più presto il socialismo. E vero che egli non ha detto mai che cosa fosse il socialismo, almeno per lui.
Io ho adoperato per primo la formula che noi siamo entrati nell’era socialista. Il mio socialismo è quello dell’attribuzione al lavoratore del pieno prodotto del suo lavoro, non di quello dell’imprenditore (non so perché chiamato con un inutile tedeschismo datore di lavoro), del contributo degl’impianti e dell’organizzazione industriale. Questo mio socialismo non suppone, né impone, sconvolgimenti e sconquassi, ed è perfettamente armonizzabile con l’ordine individuale dell’azienda. Teoricamente il problema è risoluto nella teoria delle produttività marginali e in quella più antica del von Wieser sul valore dei beni complementari. Praticamente si risolve mercé una buona politica sindacale indipendente, mestiere per mestiere, ed accordi negoziati con l’impresa, entro i limiti dell’obbietto da raggiungere.
Non credo che l’onorevole Nenni intenda così le cose. Il suo socialismo è spettacolare e cinematografico. Rassomiglia al gesto di Parsifal che capovolge il giardino incantato di Klingsor. È una irruzione e un capo volgimento. Ci si arriva attraverso uno sconquasso e un delirio, magari con un accompagnamento di clamori e sinfonie. È una catastrofe.
Salvo che l’onorevole Nenni non vuole accorgersi che la catastrofe è già avvenuta e che si sarebbe trattato di volgerla verso un fine. La mia impressione è che né egli, né i suoi amici abbiano saputo utilizzarla. Non faccio qui la questione di sapere perché non l’abbiano fatto. Essi sono stati al potere oltre tre anni, ed in tre anni si fanno tante cose. Forse l’onorevole Nenni vorrebbe dirmi che egli e i suoi amici non ci sono stati da soli e che l’ostacolo vero ad una radicale riforma degli ordinamenti sociali italiani sono stati i democratici cristiani. Estraneo alle loro combinazioni ministeriali, non so decidere questo difficile punto di teologia. Tuttavia osservo che se l’ostacolo alle riforme sono stati i democratici cristiani, allora perché ci sono stati sempre insieme? Se non ricordo male, l’ultima crisi ministeriale è stata considerata dai comunisti e dai socialisti come particolarmente biasimevole perché il suo risultato è stato – come essi hanno continuamente ripetuto – la loro estromissione dal governo. Di talché, se estromessi non fossero stati – (brutta è la parola «estromessi», ma l’adoperano proprio loro) – dal governo, essi avrebbero continuato a stare al governo insieme ai democratici cristiani, nonostante l’evidente decisione di costoro – secondo i loro avversari socialcomunisti – di fare una politica sostanzialmente antidemocratica.
Infine c’è una spiegazione alla politica dei socialcomunisti? L’opinione comune è che essa consista in una imitazione di vecchie vicende russe: disorganizzare l’ordine esistente e ridurre il ceto economicamente prevalente ad una condizione di totale proletarizzazione; così il socialismo verrebbe da sé. Le attenuazioni dell’onorevole Togliatti non sembrano sincere, ed a molti sembrano sospette.
Non siamo qui a risolvere compiti storici o da accademie; quindi non è il caso di porsi il quesito se il sistema abbia giovato veramente alla Russia. I dieci anni che vanno dal 1917 al 1927, e che comprendono il terrore rosso, la Nep, la grande carestia della Russia orientale, per ricordare soltanto i maggiori avvenimenti, avrebbero potuto essere risparmiati alla Russia e lo stesso ordine presente essere stato assicurato alla Russia senza tanti dolori e così spaventevole numero di vittime? Non debbo risolvere quesiti storici, e perciò non li affronto. Per conto mio, vorrei risparmiare al mio Paese un somigliante corso di avvenimenti. Ma la continua insistenza dell’onorevole Nenni, che egli intende impadronirsi del potere per realizzare il socialismo, mi preoccupa non poco; e poi di quale socialismo si tratta?
Ho detto che del socialismo, il quale consiste nella pura attribuzione al lavoratore del prodotto del proprio lavoro, non solo non mi preoccupo, perché riconnettibile allo stesso processo ordinario della produzione tale quale si svolge adesso, ma lo credo in gran parte realizzato. Esso non ha dato né il benessere, né la ricchezza alla società, in primo luogo perché i sistemi economici sì rassomigliano tutti, e quello che non può dar l’uno, non può dar l’altro. In secondo luogo perché il problema economico non è un problema di forma o di semplice ripartizione, ma un problema di forze e di mezzi, ed un assetto economico perfettamente socialistico, ma sprovvisto o debolmente provvisto di capitali, non è meno probabile di un sistema socialistico prospero e fortunato. L’uno e l’altro sono parimenti possibili. La differenza è data soltanto dal possesso dei mezzi impegnati e dalla capacità produttiva del lavoratore. Secondo me si commette un gravissimo errore prospettando agli operai un socialismo destinato a render felici e doviziosi gli uomini, di sé e per sé; mentre il problema della ricchezza è un altro.
Con questa riserva debbo pure rilevare che il socialismo dell’onorevole Nenni, e di tutti i suoi colleghi delle parti estremiste, non consiste nella semplice attribuzione al lavoratore dal totale frutto del proprio lavoro, ma in una radicale mutazione di forme: nella cosiddetta socializzazione, cioè nella trasformazione dell’impresa privata – od individuale – in impresa pubblica.
Poiché il fine delle nostre discussioni è politico, mi guarderò molto bene dall’esaminare la tesi dell’onorevole Nenni dal punto di vista teorico od astratto, e la riterrò solo per quel tanto che essa implica conseguenze politiche.
L’onorevole Nenni e i suoi amici desiderano di andare al potere – per dir meglio: di ritornarvi – per realizzare un ordine economico consistente nel passaggio della proprietà dell’azienda dal privato all’ente pubblico. Intanto l’onorevole Nenni non può ignorare che questo passaggio – specie se per ente pubblico s’intende lo Stato – è ben lungi dall’assicurare in via assoluta il benessere delle classi lavoratrici. In una pubblicazione, che egli non può ignorare, del Comitato interministeriale per la ricostruzione, che porta il curioso titolo di «Piano per le importazioni e le esportazioni industriali dell’anno finanziario 1947-48» a pagina 136, si trova un curioso elenco del reddito medio di ogni persona attiva in trenta paesi nel decennio 1925-35, e quindi prima della guerra, e la Russia sovietica occupa appena il 26° posto, venendo, naturalmente, dopo gli Stati Uniti, l’Inghilterra ed una serie d’altri Stati, ma persino dopo la Jugoslavia, l’Estonia e l’Italia, che, nonostante tutto, le precede. La statizzazione può certo uccidere, se non il vil borghese, che diventa funzionario dello Stato a redditi molto più alti e molto più sicuri di quelli che non gli lascia sperare l’attività privata, ma l’industria privata; non può però fondare il benessere e l’agiatezza dei cittadini.
Io non so se l’onorevole Nenni, e soprattutto i suoi amici di sinistra si metteranno veramente ad elaborare e confezionare tutte le socializzazioni che egli dice. Son cose delle quali è facile parlare; un po’ meno facile realizzarle, perché non si contentano di discorsi e di scritti, ma vogliono esperienza e disposizioni all’attività pratica. Per ora non vedo che ci siano molti socialisti atti a ciò. Ed il constatare che in tre anni di esarchica, triarchica o monarchica dittatura non si è fatto nulla in questo senso, dico meglio: nulla in quel senso si è tentato, mi ha persuaso che l’onorevole Nenni non possiede molti collaboratori seri, adatti a tentare l’attuazione di una cosa così seria. Per certe altre ragioni, che io desumo dalla mia conoscenza delle cose italiane, non credo che in Italia gente dalle robuste spalle, capace di lavorare alla elaborazione di un sistema di socializzazioni, ce ne sia veramente. Se ce ne fosse, ci sarebbe stato prima un intenso movimento industriale, si capisce: d’industria privata. Se questo è mancato, anche quello mi sembra poco verosimile.
Ma l’onorevole Nenni – mi scusi tanto se lo cito così spesso – credo che si contenterebbe di meno, e che l’esca delle sue brame non volga così doviziosa. Del resto i suoi colleghi secessionisti del gruppo Lavoratori Italiani si spiegano un po’ più chiaramente. Ad essi bastano pianificazioni e dirigismi, e mi pare che le loro mete non siano più ambiziose.
In Italia di dirigismo se ne è fatto anche troppo. In Russia si è statizzato, rimanendo ad uno degli ultimi posti – il quartultimo – di una classifica della ricchezza individuale; in Italia si pianifica a tutto spiano, e la miseria generale cresce. Pianificare è facilissimo: basta mettere degl’impiegati al posto dei privati imprenditori, e la cosa è fatta. Il loro costo è certamente superiore a quello dell’imprenditore, il quale, in verità non costa nulla, perché al margine profitti e perdite si equilibrano, almeno così insegna la scienza economica. Ma quanto al loro rendimento, esso è il risultato della loro buona volontà e della loro applicazione, che, in generale, nei funzionari non sono grandi, e che ad ogni modo, non sono qualità economiche. Capisco un socialismo integrale al posto di un capitalismo integrale, non il dirigismo al posto dell’industria privata. Esso è il romanzo al posto della storia, la favoletta al luogo della cronaca.
Infine è veramente curioso che in un periodo come quello che attraversiamo, tutto irto di questioni concrete e di ruvidi problemi, la disputa politica sia condotta, almeno nella stampa dei partiti, sul tema della pianificazioni e del dirigismo. I partiti che si qualificano da se stessi di sinistra, dicono che vorrebbero andare al potere per attuare queste belle cose. Ma ciò che veramente fa senso in Italia è che una così complicata materia non sia preceduta da studi ed esperienze conclusive. S’invocano a vanvera pianificazioni e controlli, ma non si è fatto nessuno studio minuto per dimostrare come si voglia questa pianificazione ed a quali settori della economia si penserebbe applicarla. Supponiamo un istante che i partiti di sinistra prendessero il sopravvento ed avessero a sé favorevole la maggioranza. Io credo, in buona coscienza, che essi, al potere, non farebbero nulla, e che naturalmente tutti i loro controlli ed il loro dirigismo rimarrebbero sulla carta. Credo che sarebbe il meglio per tutti, anche per questo povero Paese, che ha bisogno di vivere e non di fornire modelli ed esempi a nessuno, nemmeno per fare una bella figura nella storia del genere umano.
Tuttavia potrebbe darsi che così volessero fare sul serio, ed a quali jatture non saremmo noi esposti? Il dirigismo non appare che sul cadere di una civiltà; nell’Egitto dei Tolomei; nella Roma del morente impero; nella Bisanzio dell’XI secolo, paradiso dell’economia controllata e della produzione stratificata, nella Francia del dispotismo di Luigi XIV, e chi sa in quante altre parti del mondo nelle stesse condizioni. Un dirigismo italiano, nello stato in cui è ridotto il nostro Paese, sarebbe il coperchio inchiodato sulla nostra bara.
Prevedo un’obiezione: infine che cosa fate voi? Volete combattere il Ministero De Gasperi o invece gli avversari di lui? Non voglio fare come gli onorevole Nenni, Togliatti e Saragat.
Ecco qui: per combattere il Ministero De Gasperi, non si può fare a meno di combattere i suoi avversari, non dirò tanto perché la Democrazia cristiana è un estremismo con l’aspersorio, e nemmeno perché sino a ieri sono stati tutti insieme, e neppure perché in fondo queste anime gemelle non desiderano di meglio che tornare a fare comunella insieme; ma perché una critica che diviene evidente quando si tratta dei partiti estremi, si applica soltanto con un poco di buona volontà quando si tratta della Democrazia cristiana.
Il rapporto fra partito e Paese è – teoricamente – una cosa semplicissima. Il partito è un ideale che si prospetta al Paese, ed il Paese è la totalità a cui quell’ideale deve essere applicato. Ciò vuol dire che la sua applicazione implica temperamenti e mitigazioni, che il rispetto delle opposizioni dissidenti, o più semplicemente la resistenza di esse, rende consigliabili. L’idea del partito che senza riduzione si trae in mano il potere, o per dir meglio che trasforma in blocco sé medesimo in Governo, è nata per una imitazione del caso russo, che non tocca a me giudicare, ma che io considero non solo estranea ad una sana costituzione democratica – la quale deve soprattutto, per quanto strana possa sembrare la cosa, tendere a sodisfare i nostri avversari – sì bene all’utile medesimo dei partiti che lo tentano, costretti a trasformarsi in una dittatura o in una dispotia.
L’illusione ottimistica dei partiti quando soccombono ad una simile fantasia, è che il loro predominio costituirà il massimo bene del paese. L’illusione può forse non mancare di sincerità – sebbene ai tempi nostri non è sempre consigliabile di credere a cotesta sincerità; tuttavia il prevedibile risultato di essa è che il paese è fatalmente sottoposto alla tirannia di una parte sola. I comunisti non dissimulano che essi mirano a questo fine, e mi pare che i socialisti della parte nenniana non diano loro torto: il Governo come trasposizione del partito alla testa della pubblica amministrazione.
Ma è da tener conto che i comunisti al governo non fecero il comunismo, né i socialisti avviarono soluzione nel senso del socialismo. Vuol dire che a fare queste cose non basta la volontà unilaterale degli uni e degli altri. Vi sono ben altre difficoltà da superare. Vi fu soltanto il Governo del partito: ecco tutto. Vi fu per i comunisti e per i socialisti; e vi è stato anche per i democratici-cristiani. Ecco perché le critiche che si possono indirizzare agli uni, si possono indirizzare anche agli altri. E le censure che si potettero indirizzare tanto all’esarchia, quanto alla triarchia, si possono indirizzare altresì alla …monarchia democristiana dell’onorevole De Gasperi.
Ma il caso di quest’ultimo diviene più grave per un’altra considerazione. L’onorevole De Gasperi si volle separare dai suoi antichi collegati del Partito socialista e del Partito comunista. Per quanto ricordo, l’onorevole De Gasperi dette per unica spiegazione del suo atteggiamento, le ingiurie che gli prodigavano i giornali dei partiti ai quali appartenevano i suoi colleghi di Governo della parte estrema. Si potrebbe rispondere che in questa Italia contemporanea, anzi presente, son rose e fiori, e la libertà ci ha pure arrecato un fantastico pullulare del turpiloquio e della calunnia. Ma infine anche questo fatto merita di essere chiarito. Perché i collegati dell’onorevole De Gasperi si mostravano così poco riguardosi verso di lui? Si tratta di semplice psicologia personale o anche di psicologia politica?
Propendo per quest’ultima soluzione. Le ingiurie per l’onorevole De Gasperi e, naturalmente, per il Partito di lui, traevano origine dal desiderio contrapposto dei suoi collegati di Governo e dei loro organi, o di averli con loro nelle loro esperienze di dittatura unilaterale o di preparare a se stessi un Governo unilaterale. Ho detto «governo» e non altro. Esperimenti di socialismo o di comunismo nessuno ne ha fatti. Non credo se ne possano fare: l’economia italiana – nel momento attuale, almeno – non ne comporta. Oggi soltanto l’Inghilterra, più degli Stati Uniti, come paese pressoché interamente industrializzato, può permettersi esperimenti di socialismo, e forse appunto perciò non ne fa, se non con una così estrema parsimonia. Che cosa significa una presa unilaterale del potere da parte delle frazioni estremiste? La semplice imposizione al paese di un dispotismo di parte, allo scopo di piegare ad un’obbedienza personale tutto il resto del paese. Non dico di più. Ma suddito degli onorevoli Nenni e Togliatti non intendo punto diventare!
E qui si comincia a profilare la responsabilità del Governo dell’onorevole De Gasperi. Sebbene un comunismo ecclesiastico e un socialismo teologizzante non mi sembrano impossibili (e vi è il precedente delle «Riduzioni» dei gesuiti al Paraguay dal 1586 al 1768, che furono cosa onorevolissima e ricordano persino il nome di due padri gesuiti italiani, il Cataldi e il Mareta, che alla organizzazione di quella specie di comunismo agrario con viva intelligenza lavorarono), sebbene cotesto comunismo religioso non mi sembri impossibile; non penso punto che la Democrazia cristiana italiana intenda ad esso dedicarsi in Italia, o semplicemente lo possa. Già se comunisti e socialisti non vi si son punto dedicati; perché poi ne prenderebbero il luogo cattolici ed ecclesiastici?
Le responsabilità dell’esarchia e della triarchia consistono sostanzialmente nel non aver tentato nulla di organico nella ricostruzione italiana, anzi di aver ridotta questa ultima ad una semplice formula. Comunisti e socialisti potevano dire che essi non avrebbero compiuto le loro meraviglie se non quando avessero avuto nelle mani il potere in via esclusiva. Intanto lasciavano andare alla deriva l’economia italiana. E quali resistenze oppose la Democrazia cristiana alla condotta dei suoi collegati? Io non ne conosco nessuna, e del resto io ponevo appunto in rilievo che la rottura fra Democrazia cristiana e partiti estremisti fu ricondotta dall’onorevole De Gasperi ad una semplice questione di buona creanza, di urbanità e di buon contegno, ad una questione di Galateo, insomma. Se comunisti e socialisti non avessero scritto sui loro giornali le brutte cose che egli aveva dovuto leggervi, oggi sarebbero da capo insieme. La conseguenza è che coloro i quali hanno censurato l’esarchia e la triarchia per l’andamento delle loro amministrazione, soprattutto per il disordine in cui hanno lasciata cadere l’economia italiana, debbono necessariamente mettere al primo posto fra i loro censurati la Democrazia cristiana. L’inflazione non è nata oggi, lo sgretolamento dell’ordine interno dell’azienda statale rimonta almeno al giugno del 1944, il torrenziale ingrossamento dell’esercito impiegatizio, di una parassitaria burocrazia, è stato il cavallo di battaglia dei nuovi partiti giunti al potere dopo il crollo del fascismo. Oggi due dei tre partiti triarchici pronunziano i più fieri accenti contro il governo della Democrazia cristiana. In realtà de re tua agitur, e la vostra responsabilità è comune. Ma io che ho votato contro l’esarchia e contro la triarchia, continuo a votare contro la monarchia… parlamentare dell’onorevole De Gasperi.
Ammetto che il mio voto di tre o quattro mesi addietro contro il Governo dell’onorevole De Gasperi allora costituito, ebbe un poco del partito preso e della previsione pessimistica. Lodo me stesso per non avere sbagliato. C’era da fare un solo augurio all’onorevole De Gasperi, e la sua separazione dai comunisti e dai socialisti poteva giustificare l’augurio. Il nostro Paese era stato lasciato dagli anglo-americani nelle condizioni in cui si lascia un Paese sul quale non si desidera soltanto una vittoria militare, ma il suo totale annichilimento economico ed edilizio, il che essi raggiunsero prima con i bombardamenti a carattere puramente terroristico, poscia con le requisizioni industriali e di privata comodità, in ultimo con quella oscena emissione di carta moneta, della quale, nonché riuscire a liberarci, non giungiamo nemmeno a renderci adesso un conto aritmetico. Poteva l’onorevole De Gasperi tentare la sola politica che nelle condizioni del Paese fosse consigliabile, un po’ tardi, a dire la verità, perché erano passati almeno tre anni da quando si doveva – dico: si doveva – darle principio: la politica dell’incoraggiare e proteggere l’iniziativa privata, nella stretta tutela del capitale avanzato, del risparmio necessario alla produzione.
Questa politica poteva anche essere quella dei socialisti, condotti a ridurre, come appunto si dovrebbe, il socialismo alla totale restituzione al lavoratore del portato del proprio lavoro. Non fu così. Essi pensarono a cose più clamorose e sensazionali: la socializzazione, la statizzazione, l’accomunamento dei mezzi di produzione e della terra e così via. Ciò, evidentemente, non permetteva ad essi di collaborare ad una politica di favoreggiamento dell’iniziativa e dell’organizzazione industriale privata. Ma, cessata la collaborazione dei socialisti e dei comunisti, i democratici cristiani, potevano prendere in mano questa politica. Se lo avessero fatto, la loro popolarità si sarebbe enormemente accresciuta, e persino in mezzo alle classi operaie, le quali non sono punto interessate a sapere se un buon trattamento dipenda dal fatto che si produce in guisa puramente privata o per mezzo di un meccanismo socializzato, comunistico o statizzato, e mirano esclusivamente al buon trattamento.
L’onorevole De Gasperi e i suoi amici assumono di essersi soprattutto preoccupati della questione valutaria, cioè del mezzo di trattenere l’ulteriore caduta della nostra carta, che non so per quale ironia chiamano ancora moneta. È un vanto che non meritano, e me ne duole per i miei amici Einaudi e Del Vecchio. La caduta del valore del medio circolante si arresta in due modi: sia evitando di accrescere la circolazione, sia accrescendo la massa esistente dei beni. Credo che il Governo non abbia punto fatto la prima cosa, né si può mandargli buono l’avere diminuito i crediti per le industrie. Certo non ha pensato al secondo metodo, provvedendo a regolarizzare l’industria ed il traffico e rassicurando gli agricoltori. I problemi economici italiani – purtroppo – non sono semplici problemi di circolazione, sui quali è relativamente facile agire, per esempio: limitando le spese, frenando la fantastica ascesa della burocrazia, resistendo a richieste di aumenti delle rimunerazioni, e così via.
Il problema italiano è un problema di accrescimento della produzione, che s’inizia tranquillizzando l’imprenditore, ed assicurandolo che egli non sarà molestato nello svolgimento del suo lavoro. Ma questa è musica dell’avvenire.
L’Italia è l’ammalato che si gira nel letto, senza riuscire a trovar pace. I medici appaiono l’uno inferiore all’altro, l’uno meno dell’altro capace di trovare un rimedio. Io credo che sia faccenda di tutta una generazione che – fascista o antifascista, comunista o anticomunista – ha perduto il senso dell’equilibrio e manca di un’attitudine ragionevole. La sfiducia è in ogni luogo ed investe tutti i partiti. Vi sbagliate se credete che i risultati aritmetici delle elezioni abbiano un significato concreto. I cattolici possono sperare nell’assistenza divina. Ed in ultimo anche lo stellone d’Italia – nonostante le sue paurose eclissi – può ispirare un po’ di fiducia. Abbiatela se il cuore ve lo dice.
Fido, invece, nelle prossime elezioni, che potranno dare al Paese quel tanto di calma e di ordine – a causa dei loro risultati – che né il compromesso di tre partiti, né l’imposizione unilaterale di uno solo fra essi potranno mai dargli. (Applausi – Congratulazioni).
MERZAGORA, Ministro del commercia con l’estero. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io sono molto imbarazzato, ve lo confesso, nel prendere la parola in questa eletta Assemblea; e sono imbarazzato per due ordini di motivi: anzitutto avrei preferito trattare i problemi tecnici del mio Ministero non precisamente nell’atmosfera di una mozione di sfiducia – e questo per ragioni ovvie – d’altra parte, però, io sono molto grato a tutti gli oratori che mi hanno preceduto per il tono elevato dei loro dibattiti. La seconda ragione del mio imbarazzo è data dal fatto che io non ho mai parlato alla Costituente, non ho mai parlato neanche alla Consulta e, giacché sono in vena di confidenze, vi dirò che non ho mai parlato in pubblico. Ho parlato, sì, in piccoli ambienti chiusi: anche in quei consigli di gestione che i miei amici comunisti e socialisti hanno forse troppo presto dimenticato che io ho presieduto forse per il primo nel Nord. Ho sempre preso la parola in quegli ambienti dove esiste veramente un’atmosfera di attenzione tra chi parla e chi ascolta: non c’è andirivieni (Si ride) ed è più facile esprimersi; una attenzione quale, però, vedo – e vi ringrazio – voi mi riservate in questo momento.
Mentre, quindi, io sarei nello stato d’animo del debuttante, che a sipario alzato si rivolge al «colto pubblico e all’inclita guarnigione» per chiedere venia – stato d’animo che il collega Tieri conosce bene, perché prima di essere autore apprezzato, è stato un novellino anche lui – mi trovo ad essere come il primo carro armato – ahimè! molto leggerò nella corteccia – della compagine ministeriale, che esce, dopo il fuoco oratorio degli illustratori delle mozioni.
Io spero che voi terrete conto di questo.
Onorevoli deputati, è stato detto e ripetuto fino alla noia che l’Italia, Paese libero ed indipendente, non ha grano, carbone e petrolio. Non è stato, però, detto fino a qual misura l’Italia non sia in grado di pagare il grano, il carbone e il petrolio.
Questo, purtroppo, ve lo devo spiegare io.
Fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America c’è come un rosario di navi, migliaia di navi, che continuamente affluiscono a questo Paese. Direi che più che un rosario di navi è un cordone ombelicale.
Onorevoli colleghi, se questo cordone ombelicale si taglia, noi abbiamo una sola libertà: quella di morire di fame.
Voci al centro. Benissimo! Questa è la verità.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vi voglio leggere alcune cifre, poche perché non voglio tediarvi: nel 1946 e negli otto mesi di quest’anno, noi abbiamo importato 2.900.000 tonnellate di grano e di granturco, di cui 1.600.000 regalate. Se noi suddividiamo questo grano per testa di abitante – sui 33 milioni circa di tesserati che, ci ha ricordato Ronchi, esistono nell’Italia abbiamo un dato che colpisce un po’ la fantasia e che è facile ricordare: e cioè, che ognuno di noi un giorno sì uno no, senza l’America, avrebbe dovuto digiunare, perché il grano che ci viene dall’America corrisponde esattamente alla razione dei giorni dispari o pari, come voi preferite.
Abbiamo importato ancora 12.200.000 tonnellate di carbone, di cui la metà completamente gratuite, e olii minerali per 2.300.000 tonnellate quasi completamente gratuite.
L’onorevole Nenni ha detto di non essere milionario (e noi gli crediamo perché questo risponde alle belle tradizioni del socialismo italiano, che egli rappresenta); mi consenta, però, che io gli dica che egli non avrebbe quella bella cera che ha e quel suo vigore caratteristico nel difendere le sue tesi e – ahimè! – nell’attaccare quelle degli altri, se non fosse milionario di calorie americane! (Applausi al centro e a destra – Si ride). Senza queste calorie egli sarebbe verde come i limoni che io non riesco ad esportare. (Commenti).
In queste condizioni, nella scala della priorità, io, checché ne dica il mio amico Valiani, metto al primo posto il credito.
Come è nato questo credito, che esiste per fortuna, e che il Paese ha?
È nato, in fondo, da un complesso di circostanze: dalla lotta di liberazione che ha reso meno cattivi gli Alleati nei nostri confronti, è nato dal desiderio di riprendere un attivo lavoro che ha animato i nostri operai (lo posso dire perché l’ho visto), è nato anche dalla collaborazione – diciamo la verità – che la Confederazione generale del lavoro ha dato nei primi tempi ai primi Governi (e che purtroppo da alcuni mesi non ci dà più), e da altri fattori.
Cosicché, si è creato uno slogan. Voi sapete che oggi si vive soprattutto di slogan non soltanto in Italia. Si dice all’estero: l’Italia lavora, aiutiamola.
Vediamo un po’ come e fino a quanto abbiamo bisogno di aiuti.
Vi farò un piccolo consuntivo di questi ultimi mesi ed un modesto preventivo dei mesi futuri. In questi ultimi mesi abbiamo dovuto spendere 19 milioni di dollari per il carbone, 9 milioni per prodotti petroliferi; 12 milioni di dollari e 2 milioni e mezzo di sterline per il grano. In totale 50 milioni di dollari.
Per contro, l’esportazione ci ha dato, per quella parte di valuta che riguarda lo Stato, circa 20 milioni di dollari mensili. È chiaro dunque il deficit che da queste cifre risulta ed è chiara anche la gravità della nostra situazione, la quale si è acutizzata maggiormente con la disgraziata inconvertibilità della sterlina che ricordava l’amico Valiani e sulla quale vorrei dare a tutti una risposta. Premetto che io non difendo la politica mia, ma difendo una politica nostra; vi sono alcuni elementi che devono essere tenuti presenti, elementi di fatto, precisi. Al momento della dichiarazione di inconvertibilità, noi avevamo 11 milioni di sterline che erano di pertinenza di privati. Quindi lo Stato in questa somma non entrava per niente. Se questi privati durante le cinque settimane che è durata la convertibilità non hanno convertito, nessun rimprovero può essere fatto allo Stato. Rimangono 20 milioni di sterline che lo Stato possedeva direttamente e in proprio. Di questi, considerate che 10 milioni di sterline, per patto stabilito con gli Inglesi al momento del trattato commerciale che abbiamo firmato con loro, dovevano rimanere bloccati e dovevano rimanere bloccati a garanzia della nostra buona intenzione di comperare nell’area della sterlina. Per contro, in seguito a questa nostra prova di buona volontà contrattuale, l’Inghilterra, malgrado la vita austera che conduceva e conduce, aveva ammesso l’importazione dei nostri prodotti ortofrutticoli. Dei 10 milioni che rimanevano, quattro, lo Stato li deteneva per tramite delle sue banche maggiori. Ora voi tutti sapete che le banche hanno bisogno di crediti e questi quattro milioni di sterline che le banche avevano presso gli Istituti inglesi erano veramente una garanzia per tutte quelle operazioni che gli istituti potevano chiedere in reciprocità. Dunque, sarebbe stata una cattiva politica domandare la conversione di questi quattro milioni. Rimangono sei milioni sui quali si possono fare delle critiche perché non li abbiamo convertiti. A questo punto vi dirò che se noi avessimo convertito queste sterline (e questa è l’opinione del Direttore generale della Banca d’Italia e di Istcambi) noi avremmo corso il rischio di vedere denunciato l’accordo italo-inglese. Vi spiego il perché; se noi esportando dei prodotti ortofrutticoli in Inghilterra avessimo chiesta la conversione in dollari del saldo delle nostre esportazioni, questo significava far pagare in dollari i nostri fichi secchi e la nostra frutta. Lo avrebbero fatto per una volta, ma poi avrebbero rotto l’accordo, evidentemente! L’accordo invece è ancora in piedi e speriamo ancora di esportare i nostri prodotti. Per questo non abbiamo voluto e potuto convertire ed è questa una ragione buona è valida. Del resto mi permetto ricordare che noi non abbiamo il monopolio di questo infortunio, perché la Francia, che è stata qui ricordata, è rimasta «dentro» per delle cifre molto maggiori delle nostre.
Guardando ora il nostro fabbisogno valutario per questo trimestre risulta che, contro un fabbisogno di 252 milioni di dollari, abbiamo un saldo passivo di 83 milioni di dollari che francamente io non so come poter coprire. Io ho in cassa delle speranze; è poco. Onorevole Nitti, lei, che è maestro di tutti noi in molte cose, passa per un pessimista, ma quando io e lei abbiamo parlato di questioni valutarie, lei si è sbagliato, però si è sbagliato non nel senso nel quale si sbagliano tanti pessimisti: lei ha visto la situazione meno grave di quella che oggi è.
Dovete pensare che molte esportazioni, purtroppo, non dànno valuta allo Stato. Infatti oggi i traffici non avvengono esclusivamente in valuta: avvengono attraverso il clearing, con affari di compensazione o con affari di reciprocità che non dànno valuta, ma merci utili al Paese. Le compensazioni private sono quelle operazioni nelle quali l’importazione e l’esportazione sono di pari valore e regolate direttamente fra le parti. Mi spiego: al medesimo momento un esportatore di limoni vende i suoi prodotti, diciamo, in Svizzera, e un importatore italiano importa pellami. Allora l’esportatore italiano è pagato in Italia dall’importatore di pellami; rispettivamente in Svizzera l’esportatore di pellami è pagato dall’importatore di agrumi.
Si fanno anche molti affari di reciprocità. Noi abbiamo affari di reciprocità con la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, ecc.; abbiamo affari di reciprocità misti al clearing con la Francia, l’Olanda, il Belgio e la Spagna. Abbiamo, infine, compensazioni private con l’Austria, la Cecoslovacchia, la Svizzera.
Voi vedete che possibilità di affari in valuta ne rimangono molto pochi. A questo punto io ritengo opportuno, anche per rispondere ad un’altra domanda dei precedenti oratori, di fare una rapida corsa nel panorama economico dei diversi paesi. Noi stiamo trattando un accordo commerciale con la Bulgaria. Abbiamo in questi giorni ospite a Roma la Delegazione di questo paese amico, con il quale avevamo tempo addietro il secondo posto nella bilancia commerciale, quando la Germania deteneva il primo posto. Abbiamo tutto il desiderio di riprendere questa nostra posizione e tutte le altre nel vicino Oriente, che è il nostro più naturale mercato; io credo che molto presto firmeremo un accordo, anche se questo ci costerà il sacrificio di comprare un po’ di tabacco oltre il nostro fabbisogno.
Abbiamo mandato in Svizzera, in questi giorni, una delegazione che sta trattando un accordo. Sono molto curioso di vedere come vanno queste trattative con la Svizzera, perché finora la Svizzera, Paese amico che ci ha dato commoventi prove di solidarietà durante la nostra sciagura, in campo finanziario ha tenuto le mani in tasca; io vorrei che se le mettesse in qualche tasca che ci interessa di più.
Stiamo trattando l’accordo con la Jugoslavia. L’accordo con la Jugoslavia non è semplice perché, per la sua stessa grande mole, richiede una particolare attenzione. L’accordo è composto della parte normale di scambi commerciali e di un protocollo che non è un protocollo segreto. Qui non vedo l’onorevole Selvaggi, ma lo vorrei tranquillizzare. È passata l’epoca dei protocolli segreti. C’è un protocollo, che, però, non è segreto ma è molto importante, perché totalizza l’importo di 150 milioni di dollari in cinque anni. Noi forniremo del macchinario a questo Paese, dando così lavoro alla nostra industria meccanica. Soltanto, c’è un punto che vogliamo mettere in chiaro: cioè noi chiediamo che venga chiaramente stabilito il reintegro delle materie prime indispensabili per fare queste forniture. Ora, il ritardo nella firma di questo trattato è dovuto a queste pratiche che non sono ancora definite. Del resto vi sono altri trattati, che ci interessano anche di più, che ritardano. Per esempio, quello con l’Argentina che ci procura un credito di 700 milioni di pesos e la possibilità di importazione di 400 mila tonnellate di grano. Non siamo riusciti a firmarlo finora, ma spero ciò sia possibile in questi giorni. Questa è una riprova delle difficoltà che abbiamo in campo internazionale. E se poi questi accordi una volta firmati, funzionano poco, non è colpa del Governo, ma delle circostanze.
Passando ad altri Paesi, dirò che con la Russia da pochi mesi c’è una promettente ripresa di lavoro. Io mi sono fatto un punto d’onore di riprendere le nostre relazioni con la Russia. In questi mesi abbiamo potuto importare dalla Russia paraffina, cellulosa, benzina, gasolio, petrolio, per alcune decine di migliaia di tonnellate; ed abbiamo esportato rimorchiatori, escavatori, acidi e prodotti del suolo. Questo è un buon inizio e dimostra soprattutto la nostra buona volontà. Io ho chiesto all’Ambasciatore russo – che è persona molto simpatica, con cui si può parlare con aperta franchezza – che anche la Russia dimostri il suo desiderio di aiutarci. Ho chiesto qualche bastimento di grano; ci mandi il grano come fanno altri Paesi. Mi ha risposto: «Speriamo!». Non posso dare quindi, in argomento, nessun affidamento.
Con la Francia abbiamo firmato un accordo che funziona, purtroppo, stentatamente. Noi importiamo soprattutto fosfati, prodotti chimici ed esportiamo olii essenziali, seta, tessili. Con la Francia abbiamo anche ripreso un modesto scambio di prodotti di lusso; non è un danno perché si tratta di uno scambio reciproco.
Con la Francia si è aperta una porta nuova. Il Ministro Sforza, andando a Parigi, ha avuto una intuizione e ha lanciato l’idea dell’unione doganale; idea buona, difficile come attuazione, però è stata subito accolta come base di discussione. Una commissione è sorta in Italia e in Francia: queste commissioni hanno gemmato altre sei sottocommissioni miste. Il problema è allo studio: può darsi che dia buoni risultati. Con il Belgio abbiamo un vasto accordo di scambio, con impostazione piuttosto nuova. Si è cercato di sostituire reciprocamente il mercato tedesco che non esiste più, purtroppo, per noi, almeno in questo momento. L’Italia ritira dal Belgio rame, acciaio ed altri prodotti siderurgici, macchine e metalli rari. Noi esportiamo vini, agrumi e tipi di macchine che il Belgio non possiede.
Con l’America, con questo grande Paese, noi siamo agli inizi di una negoziazione, di cui non sarebbe corretto se io oggi v’intrattenessi.
Con la Germania, purtroppo, ci troviamo completamente a terra. Se pensate che prima di questa e di quell’altra guerra noi importavamo dalla Germania il carbone occorrente alle nostre industrie e lo pagavamo con i prodotti ortofrutticoli, capite come l’arresto e la scomparsa del mercato tedesco rappresenti per noi una causa di gravissime preoccupazioni. Noi questo l’abbiamo detto anche alle Autorità alleate; abbiamo cercato di fare degli accordi con le tre zone: francese, angloamericana e russa. Abbiamo lì lanciato lo slogan: mandiamo vitamine alla Germania. Le autorità rispondono: non abbiamo bisogno di vitamine, ma di calorie. Il popolo tedesco dice: non vogliamo calorie, vogliamo il pane. È difficile, data la situazione attuale della Germania riprendere le vecchie correnti di traffico. Però, è evidente che alla base del rifiorire della nostra esportazione ortofrutticola sta la possibilità di riapertura del mercato tedesco. Con la Cecoslovacchia abbiamo concluso a suo tempo il noto accordo sulla base di compensazioni private; funziona abbastanza bene. Importiamo legname, cellulosa, zucchero, coloranti, materie refrattarie, prodotti magnesiaci. Esportiamo vino, rajon, canapa, zolfi e prodotti della zootecnia.
Con la Spagna facciamo poco o nulla. Con il Portogallo stiamo trattando da un paio di mesi un accordo commerciale che non riusciamo a concludere. È ovvio dire che tutte queste nostre trattative sono fatte in perfetto accordo tra il Ministero del commercio con l’estero ed il Ministero degli esteri. Naturalmente al Ministero del commercio con l’estero è lasciata la conduzione tecnica delle negoziazioni.
TONELLO. Tranne che quello con la Cecoslovacchia, tutti gli altri accordi erano stati fatti prima che voi foste al Governo. (Commenti al centro).
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Bisogna dire ancora due parole sui rapporti con l’America del Sud. È ovvio che il mercato argentino è il più aperto alla nostra esportazione di qualsiasi genere, a cominciare da quella dei macchinari per finire alla nostra emigrazione: noi lo seguiamo con l’attenzione che merita.
Con il Brasile purtroppo facciamo poco o nulla. Esso sta digerendo i beni italiani incamerati durante la guerra. Questa digestione è lenta e pare che non si possa interrompere.
Io credo che sia difficile concludere qualcosa di veramente concreto con quel Paese, se il problema dei beni non venga in un modo o nell’altro regolato. È un problema che ha lati penosi.
Vi cito un solo esempio, che è veramente classico. A San Paulo del Brasile è stato per venticinque anni un nostro professore universitario che ha fatto talmente bene che, quando ha abbandonato il Brasile, la città di San Paulo gli ha dedicato una strada. Quest’uomo, vecchio, è rientrato in Italia ed è morto. La vedova e le figlie sono nella miseria perché il Brasile non libera i beni bloccati di questo benemerito italiano vissuto in Brasile. Io ho citato questo esempio limite, ma vi sono tanti altri problemi dal punto di vista sostanziale che devono essere risolti.,
Con l’Estremo Oriente stiamo pensando di riprendere i vecchi rapporti. Ma il problema è difficile e complesso e non posso dare per il momento nessuna precisazione.
Con i Paesi del Nord, Danimarca, Svezia e Norvegia, i traffici sono intensi. Noi importiamo i soliti prodotti di quei Paesi: baccalà, bovini, semi oleosi e cellulosa; esportiamo i nostri classici prodotti.
Veniamo ora agli argomenti che maggiormente appassionano l’opinione pubblica e che sono stati oggetto sia delle osservazioni dei precedenti oratori e separatamente dell’onorevole Nenni.
L’onorevole Nenni ha parlato di uno «scandalo dei conti valutari». Egli è stato – se me lo consente – impreciso. Non esiste, onorevole Nenni, si tranquillizzi, uno scandalo dei conti valutari. I conti valutari veri e proprî, sono tenuti da importanti istituti di credito, controllati a loro volta dall’Istituto dei cambi. Non è lecito fare nessuna riserva sul loro funzionamento. Però lo scandalo c’è, e lei, come tutti gli uomini politici della sua levatura, ha sentito che qualcosa non funzionava. Dirò fra poco cos’è questo qualcosa che non funziona. Lei, onorevole Nenni, non ha proprio sparato giusto, ma è andato vicino al segno. (Si ride – Commenti).
Il sistema del 50 per cento non l’ha inventato il quarto Governo De Gasperi. L’abbiamo trovato: è un sistema che ha dato i suoi risultati e ve lo chiarisco con pochissime parole. Nel marzo 1946 le esportazioni erano fatte sulla base di un cambio del dollaro a 225. Si è visto che con questo cambio non si potevano concludere né fare esportazioni e si è pensato di consentire agli esportatori di tenere la metà di queste valute per 90 giorni; entro 90 giorni, sulla base delle licenze del Ministero del commercio con l’estero, queste valute potevano essere assegnate agli esportatori stessi per acquisto di materie prime, oppure cedute ad un prezzo di mercato ad altri importatori. E così si è venuto a creare un mercato della valuta, non dico libero, perché è sempre un po’ legato alle licenze che diamo, ma un mercato che rappresentava una indicazione.
Questa decisione circa il 50 per cento, come diceva molto giustamente l’onorevole Nenni, non è stata presa in via definitiva, ma pensando che a un determinato momento si dovesse arrivare ad una stabilizzazione. Onorevole Nenni, evidentemente lei ha perfettamente ragione. Noi siamo sulla strada di arrivare ad una stabilizzazione, perché non possiamo continuare con dei cambi «ballerini»; ma soltanto bisogna andare adagio. Voi avete visto quali critiche ha portato il cambio del dollaro ufficiale elevato a 350! Cerchiamo di raccorciare le distanze fintanto che sarà possibile e di riprendere una linea media unica che da tempo abbiamo abbandonato e che del resto tutti gli altri paesi ci richiedono.
Il sistema del 50 per cento era buono in principio, ma ha rivelato poi grandi difetti. Riflettete un momento. Noi abbiamo esportazioni che non contengono materie prime, abbiamo esportazioni che contengono materie prime nazionali, ed infine esportazioni che contengono materie prime estere. Ora, gli inconvenienti si sono rivelati in quest’ultimo settore. Infatti, pensate che oggi i due cambi sono su queste cifre: 350 è il cambio ufficiale e 650 è il cambio di esportazione. Quando un importatore di cotone, ad esempio, compera le sue materie prime, paga a 650 il dollaro; quando esporta il prodotto che contiene magari la metà della materia prima importata, non riceve più lo stesso cambio di 650, ma il cambio medio fra 350 e 650, cioè 500, cioè perde su ogni dollaro il 30 per cento.
Nei primi tempi i difetti di questo sistema non emersero, perché il mondo era affamato di tessuti e merci che avrebbe comprato a qualsiasi condizione. Ma, a poco a poco, questa fame di merci si è placata: alcune fabbriche hanno ripreso a lavorare ed alcuni mercati sono tornati ad essere vivi. Ed allora che cosa si è verificato? Si è verificato che questa esportazione di tessili, così importante, si era quasi totalmente fermata. Le cifre di questa esportazione erano assai interessanti, perché il sistema del 50 per cento ha reso, dal marzo 1946 a pochi giorni fa, circa 600 milioni di dollari: importo cospicuo, che riguarda in massima parte cotone e lana.
Allora, come si poteva fare? Nel desiderio di mettere tutti sullo stesso livello, il Ministero del commercio con l’estero ha ammesso che gli esportatori che importano materie prime abbiano lo stesso cambio all’entrata e all’uscita delle materie prime, onde evitare questa perdita, come accade nell’importazione temporanea ove la materia prima non gioca. Naturalmente questo provvedimento, che è stato male pubblicato dalla stampa, ha avuto molte ripercussioni spiacevoli, ed è molto esatto quello che ha detto l’onorevole Nenni. Io ho avuto molte spiacevoli ripercussioni in America per questo provvedimento. Il mio amico Ivan Matteo Lombardo mi ha mandato indirettamente un telegramma per togliermi la pelle. Mi sono trovato in queste condizioni: o interrompere completamente le nostre esportazioni, con enorme danno per il Paese, oppure cercare una formula anche provvisoria, pur di non fermare la macchina. E vi dirò una cosa molto interessante: che gli stessi americani, quando io ho spiegato loro il meccanismo concettuale del reintegro delle materie prime, il perché e come si è verificato questo fatto nuovo di una maggiore percentuale lasciata di fatto ai tessili, hanno trovato talmente interessante e giusto il concetto, che mi hanno incoraggiato ad estenderlo a tutti i settori. Ed oggi sto studiando la possibilità di estendere questo provvedimento fino alla risoluzione definitiva del problema, di guisa che tutti coloro che importano materie prime possano non avere, esportando, quella perdita cui ho accennato poco prima.
L’onorevole Valiani, nel suo discorso oceanico, veramente molto interessante (egli dice sempre delle cose interessanti ed intelligenti) ha trattato tutto: industria, commercio, prezzi, borsa, credito, finanza, tesoro, commercio estero, Ministero degli esteri, Piano Marshall, Trattato di pace, rapporti con la Russia; ha insegnato all’onorevole De Gasperi come si fa il Presidente del Consiglio, all’onorevole Sforza come si fa il Ministro degli esteri, a me come si fa il Ministro del commercio con l’estero. A questo suo discorso è un po’ difficile rispondere esaurientemente. Consiglio all’opposizione, prima di parlare, di regolare un po’ il tiro, suddividendo il lavoro, perché se noi dovessimo ascoltare 30, 40 discorsi di questa mole non sapremmo come fare a fermare questa tremenda mareggiata di interessantissima eloquenza. (Ilarità al centro). Prima di criticare l’organizzazione del Governo, organizzatevi voi a fare l’opposizione. (Commenti a sinistra).
Per quanto concerne la Borsa non dovrei rispondere io, ma ribatto, se me lo consentite, proprio per amor di polemica.
L’onorevole Valiani ha parlato della Borsa in modo tale che se avesse parlato di fronte ad un pubblico di speculatori avrebbe avuto degli applausi irrefrenabili.
Vuole l’abolizione del 4 per cento, vuole la rivalutazione a 25! Sono problemi molto gravi. Se fossero presi, questi provvedimenti, farebbero arrivare le Borse alle stelle, e non dimentichiamo che la Borsa è già partita una volta e che a causa di questo volo si è iniziato il processo inflazionistico che d’altra parte si depreca.
Se aumentiamo di 25 volte il quoziente di rivalutazione significa che il capitale della Fiat salirebbe, non so, fino a 150 miliardi, forse quello della Montecatini a 200 miliardi. E così via!
Questo desiderio di rianimare le Borse in pratica è molto giusto, perché le industrie hanno bisogno di fondi. Vediamo che non possono fare le paghe. È un gravissimo inconveniente che in un modo o nell’altro, bisognerà risolvere. Le Borse non vanno però risanate con i provvedimenti, con le misure che Valiani ha suggerito. Questo è il mio modesto avviso. È una materia molto difficile. Io vedo che appena un uomo politico è all’opposizione ha tutte le iniziative, trova tutte le soluzioni, vede chiarissimo tutto. (Applausi al centro – Si ride). Quando viene al Governo comincia a diventare conservatore. Per forza, perché deve riflettere. Su un altro punto devo una risposta all’onorevole Nenni. Lei ha parlato della seta e ha detto: «la faccenda della seta è come una seppia che ha buttato fuori il suo oscuro e non ci si può vedere». Qui non c’è proprio niente di oscuro, mi creda.
Lei se si fosse dato la pena di leggere le risposte che ho dato in questo campo alle interrogazioni che mi sono state fatte, non avrebbe avuto alcun timore. Le interrogazioni riflettevano la grande preoccupazione dei produttori (decine di migliaia di famiglie) del baco da seta e delle industrie. Preoccupazione di veder compromessa una coltura tra le più tradizionali. Cosa è stato fatto? Abbiamo ammesso una compensazione in questi termini. Su 500 mila chili, «250 mila verranno esportati direttamente e normalmente, gli altri 250 mila contro merci che ci interessano».
Non c’è niente di nuovo. Non l’ho inventato io questo sistema: compensazioni seta sono state già fatte dal precedente Governo con la Cecoslovacchia. Perché l’onorevole Nenni non ha trovato niente in contrario quando allora si è fatta questa operazione? (Applausi al centro).
LOMBARDO IVAN MATTEO. Su quali mercati?
MERZAGORA. Ministro del commercio con l’estero. Su quelli a valuta libera.
LOMBARDO IVAN MATTEO. Allora hanno sorpreso la sua buona fede, perché non c’è esportazione in quel campo.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Allora la compensazione non si farà. Vorrei vedere che cosa faremmo noi di tutti i milioni di chili di seta che abbiamo in casa.
Comunque, date qualche attenuante a questo Ministro del commercio con l’estero che, dopo tutto, per poter esportare tenta qualsiasi cosa. È troppo facile assidersi sugli immortali principî. È troppo facile fare delle critiche.
Io mi sono trovato in questa condizione: o subire quattro strilli degli americani o fermare le esportazioni: fra i due mali ho scelto il minore.
LOMBARDO IVAN MATTEO. Non la venderà egualmente la seta.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vedremo.
LOMBARDO IVAN MATTEO. Me lo auguro.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Per quanto concerne la questione del cambio non posso esporre il programma del Governo. Valiani ha detto che avremmo dovuto fissare il cambio del dollaro al suo valore: ma non ha forse pensato che se portassimo il cambio di punto in bianco a 800…
VALIANI. Non ho detto di punto in bianco. È da tre anni che questa cosa si trascina e ho detto che facevate un errore a fissarlo a 225. (Commenti).
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. La mia idea personale, onorevole Valiani – e con questo non intendo affatto impegnare il Governo – è questa, e l’anticipo: onorevole De Gasperi, le chiedo scusa se anticipo un mio pensiero all’Assemblea che non ho ancora comunicato a lei; ne ho parlato soltanto con il Ministro Del Vecchio che è d’accordo. Bisogna portare gradatamente il dollaro a 500; quando sarà a 500 ci sarà la possibilità di portarlo a 650 facendo l’ultimo pezzo di strada e stabilizzando a quota unica il cambio. Questo è un piano, modestissimo del resto e di lenta esecuzione.
VALIANI. Siamo d’accordo!
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Sono contento di essere finalmente d’accordo con lei. (Commenti).
Vorrei ora parlare del mio Ministero, il cui lavoro è assai poco conosciuto. L’argomento è interessante, ve lo assicuro.
Il Ministero del commercio con l’estero ha un campo illimitato di arbitrarietà: è una cosa paurosa, ma è insita nel sistema.
L’onorevole La Malfa, di cui ammiro molto l’ingegno e lo spirito amaro, ha detto una cosa molto gustosa (egli è stato il primo Ministro di questo disgraziato Ministero, per poco tempo, per sua fortuna). Di fronte ad una marea di decisioni da prendere in tutti i campi, egli disse: «tanto vale fare testa o croce».
Onorevoli colleghi, io ho molto riflettuto su questa idea dell’onorevole La Malfa e vi assicuro che potrebbe dare risultati assolutamente interessanti. Intanto, facendo testa e croce il mio Ministero si ridurrebbe al Ministro, ad un portiere ed a un soldino. Io mi limiterei a scrivere sì o no. Secondo vantaggio: tutti quelli che scrivono al Ministero avrebbero una pronta risposta, ciò che non sempre succede. Terzo vantaggio: gli interessati avrebbero il 50 per cento di possibilità di vedere accolte le loro domande e vedete che la percentuale è molto buona. Se non accetto questo sistema è solo perché non sono in grado di adottare questa percentuale. (Si ride).
Per darvi una idea della mole di lavoro che ha il mio Ministero, e quindi conseguentemente della larga zona di arbitrarietà in cui siamo costretti a navigare, vi dirò che, dal 1° gennaio fino al 19 di questo mese, per la durata cioè di circa otto mesi, il mio Ministero ha ricevuto ben 112.791 domande, di cui 76.951 soltanto di importazione.
Immaginate voi quel povero direttore generale delle importazioni il quale deve esaminare, per il breve lasso di tempo di otto mesi, 76.951 domande? È qualche cosa di veramente fantastico: una media, onorevoli colleghi, di 10.000 domande al mese circa: veramente pazzesco!
Il Servizio esportazioni propriamente detto ha ricevuto 15.500 domande; il Servizio compensazioni ne ha ricevute 16.345; il Servizio importazione temporanea ne ha ricevute complessivamente 3.995. Il totale delle autorizzazioni date tocca le 54.000. Onorevoli colleghi, riflettete un momento a queste cifre che fanno veramente paura, come fa paura il pensare che per suddividere un contingente, per esempio del Belgio, il Ministero deve tenere in considerazione ben oltre 3.000 domande.
Sarebbe come se il nostro illustre Presidente, l’onorevole Terracini, volesse, al termine di una nostra lunga seduta darci qualche cosa da mangiare e facesse portar qui una pagnottella la quale dovesse poi venir suddivisa fra tutti noi. Con quale criterio si divide la pagnottella?
Un po’, naturalmente, si dà all’industria e un po’ al commercio; qualche volta salomonicamente: metà e metà. Ma, fatto questo, con quale priorità si effettua la distribuzione? ai grandi? ai piccoli? Cari signori, è molto difficile tutto questo; è molto difficile perché, nel mio Ministero, entrano le api, ma entrano anche le mosche, ed è difficile destreggiarsi e cacciare le mosche, tanto più quando le mosche sono assai più numerose ed insistenti delle api. (Approvazioni al centro). Oggi, se la lotta politica si conducesse con quel vecchio stile che noi leggiamo, con molta nostalgia, nelle vecchie cronache ingiallite dal tempo, ebbene sarebbe molto bon ton, come dicono i francesi, riconoscere queste difficoltà che sono nostre e di oggi, che sono quelle vostre di ieri e che saranno forse – ve lo auguro – le vostre di domani. (Applausi al centro).
In questa situazione però io debbo dire che sono grato alle opposizioni per avermi lasciato lavorare serenamente. Badate che qui non c’è nessuna ironia in quello che vi dico: quando si è al vertice di una piramide di questo genere, in cui ogni pezzo di carta, dato o non dato, rappresenta milioni, non si può lavorare se si ha il piombo nelle ali o se si ha la sensazione di poterlo ricevere nella schiena. Le opposizioni mi hanno rispettato. Purtroppo, non credo che tutti i colleghi che mi hanno preceduto possano dire la stessa cosa, ed io immagino quanto debbono aver penato.
Fra le difficoltà che vorrei prospettarvi vi è rimasta quella che si riferisce al problema delle Regioni, nei riguardi del mio Ministero. Ebbene, signori, io non voglio entrarvi. Dirò tuttavia semplicemente che mi metto le mani nei capelli e che non vorrei un giorno si dovesse dire che nel 1947 sono nate le Regioni, ma è incominciata a morire l’Italia. (Applausi a destra).
Voci al centro. Questo col commercio estero non c’entra.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Purtroppo ne ho le conseguenze!
In tutto il nostro lavoro, noi siamo costretti a camminare con forzato empirismo. La mia linea di condotta non è quella di quei bellissimi treni che il Ministro Corbellini ci promette per l’anno venturo; io esco con la barchetta, con il timone in mano, tra gli scogli. Ma che linea di condotta volete avere, quando mancano totalmente i mezzi, quando si tratta di un continuo adattamento alle circostanze, al momento?
Il problema valutario è il mio romanzo giallo – come sarebbe quello di qualsiasi Ministro al mio posto. Cosa volete pianificare in questo campo? Bisogna semplicemente essere lì con gli occhi fissi e le orecchie tese, per vedere dove c’è un inizio di scricchiolio e tamponare subito. È una situazione avvilente, e me ne rendo conto purtroppo; ma noi non facciamo quello che vogliamo fare, ma quello che siamo costretti a fare. Questa è la verità, e se Valiani non ne è convinto lo domandi al suo amico La Malfa – che gli è vicino – e che è passato anche lui attraverso queste difficoltà.
VALIANI. Ne sono convintissimo.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vorrei avere un nemico fra di voi – non ce l’ho – per fargli la consegna immediata del mio Dicastero. (Ilarità).
Adesso veniamo a parlare della difficoltà maggiore, e qui mi riferisco a quello a cui accennava prima l’onorevole Nenni – dove lui ha fatto quasi centro –; la questione delle valute.
Onorevoli deputati, io ritengo che ci sia all’estero un ammontare molto cospicuo di valute, molto più forte delle diecine di milioni di dollari accennato stamane. Questo cospicuo ammontare di dollari si è costituito – scusate, devo dirvi la verità – durante l’esarchia, durante la triarchia; non certo oggi, quando non c’è margine per poterlo fare. (Commenti). Mi dispiace se non siete d’accordo.
Queste evasioni valutarie si fanno in due modi: con le esportazioni e con le importazioni. I conti valutari del 50 per cento non c’entrano per niente; anzi, siccome il cambio per le esportazioni nei conti valutari è favorevole e segue il mercato, se non ci fosse stato questo evidentemente le evasioni valutarie sarebbero state maggiori. Ora, l’esportatore che cosa fa? Si mette d’accordo col suo compratore e gli dice: «ti mando questa merce; una parte me la paghi, una parte me la accantoni». Se non si fida del suo compratore si serve di una casa intermediaria che gli rende questo sporco servizio. Lo stesso succede con le importazioni. L’importatore si mette d’accordo col suo fornitore, e se questi è amico gli paga qualche cosa di più, che gli viene accantonata.
Voi direte: «Perché non controllate?» Ma, cari signori, pensate un pochino ai prodotti ortofrutticoli; se il commercio estero dovesse pronunciarsi sui prezzi e sapere cioè, che se certe mandorle passano attraverso questo collo di bottiglia o attraverso un altro collo di bottiglia, il prezzo è differente: se il commercio estero dovesse valutare la categoria dei verdelli e della frutta fresca in attesa di spedizione, dove andremmo a finire? Se fossimo costretti col contafili a controllare il peso dei tessuti e valutare le migliaia di articoli di importazione e di esportazione, ecc.? Ma tutto questo è teoria! Esigere questo, vuol dire fare della demagogia spicciola, che costa poco, e non rendersi conto della gravità del problema.
È escluso che un Ministero come il mio – qualsiasi Ministero (io ho 245 impiegati di concetto che fanno tutto quel po’ po’ di lavoro) con questa attrezzatura o con qualsiasi attrezzatura possa fare simile controllo. Io nego che ci sia la possibilità di controllare intelligentemente i prezzi, tutti i prezzi, di questa enorme, di questa fantastica quantità di mercanzie che entrano ed escono, per stabilire se uno fa o non fa delle evasioni.
VALIANI. Proprio per questo dovete cambiare metodo!
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Ma come? Bisogna mettere un cambio alto, remunerativo. Quando lo mettessimo strillereste come avete strillato quando il cambio fu portato a 350! (Ilarità).
I denari all’estero sono un po’ come gli evasi di Portolongone: sono andati all’estero e non si possono richiamare di forza, ma soltanto con la persuasione. Noi cerchiamo di allettare questi capitali, e li allettiamo soprattutto con il «franco valuta», che applichiamo ormai in larga misura. A proposito di ciò, io le dico, onorevole Valiani, che il 35 per cento cui ha accennato, viene fissato a prezzi bassi perché possa venir distribuito alle categorie meno abbienti, ma naturalmente non a prezzi così bassi da rendere l’importazione antieconomica.
Stiamo ottenendo buoni risultati. Nelle carni abbiamo fatto dei notevoli «franco valuta», e sono informato che nel Nord il prezzo all’ingrosso della carne è sceso di 90 lire, e speriamo che questa discesa scenda per li rami e tocchi anche i prezzi al minuto.
Noi abbiamo cercato di punire gli evasori con il cambio.
Il cambio è sceso, e vediamo che oggi il mercato nero ha una funzione utile: quella di consentire o il ritorno di tutti o di una parte dei fondi che erano all’estero. Data questa situazione c’è veramente poco da fare e da protestare. Si potrebbe istituire qualche cosa veramente di nuovo, per i nuovi evasori, con delle sanzioni di nuovo genere. Se, per esempio noi dicessimo che togliamo il passaporto, togliamo il telefono, togliamo il permesso di circolazione a chi aumenta le fatture o le diminuisce secondo i casi, io credo che otterremmo maggiori risultati che non minacciando la prigione. Potremmo rendere ancora più gravi le sanzioni nominando dei commissari nelle aziende in dolo, ma tutto questo va fatto e va studiato con molta accortezza. Non dimenticate che questo Governo ha poco più di tre mesi di vita.
VALIANI. Ma io non propongo…
PRESIDENTE. Onorevole Valiani, la prego, stamane ha parlato in modo molto interessante, ma molto a lungo. Non parli più per oggi. (Ilarità).
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Certe discipline e certe pianificazioni possono esistere solamente con un puntello, quello della galera. Parliamo un po’ delle discipline. Io ne ho fatta una piccola esperienza di recente con l’attuale mio Ministero, ma ne ho anche una più lontana. Quando nel Nord presiedevo la Commissione centrale economica, ho instaurato la disciplina dei Comitati, che ha funzionato egregiamente. C’è stata anche una Commissione prezzi che ha resto buoni servizi. Ma non mi sono fatto illusioni: a quell’epoca gli italiani erano talmente stufi di disobbedire ai tedeschi che hanno avuto per un momento la voluttà di obbedire agli italiani.
Io non sono per il laisser faire, sono per certe discipline indispensabili. Però vi confesso che oggi ho una crisi di coscienza e sono piuttosto scosso, e vi dirò il perché. Voi avete notato che vengono qui da tutte le parti molti stranieri: passano in Francia e si spaventano di quello che trovano, vanno in Inghilterra pianificata e si spaventano ancor più; vengono da noi e ci dicono (non per farci un complimento, ma sentiamo tutti che sono sinceri): ma qui da voi le cose funzionano, vanno bene!
E allora mi sono domandato seriamente se la ricostruzione del Paese non sia dovuta per caso proprio alla disfunzione di tutti i Governi che hanno preceduto il nostro.
Ora, io vorrei esaminare in questo campo e con tutta obiettività i fatti passati. Nei settori in cui c’era da noi la massima libertà, indiscutibilmente noi abbiamo raggiunto i massimi risultati. Prendete il patrimonio zootecnico e guardate come era ridotto nell’immediato dopo guerra, con le stalle deserte e com’è oggi! Ce l’ha ricordato anche il prof. Ronchi. Dopo tre anni di libertà è ritornato sul livello dell’anteguerra. Questo è un miracolo. Se noi avessimo applicato la disciplina delle carni, che ancora ieri era reclamata da alcuni settori, evidentemente non saremmo mai arrivati a questo risultato. Prendete la marina mercantile, dove noi abbiamo lasciato libertà agli armatori, che ha passato i due milioni di tonnellaggio.
ALDISIO. Ora gliela avete levata però. Il provvedimento fondamentale che ha dato questi risultati lo avete abolito.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Non è vero. Quale provvedimento fondamentale?
Prendete ancora la produzione industriale che era caduta a quasi zero nell’immediato dopoguerra ed è ritornata all’80 per cento quasi, di quella che era prima della guerra.
Ora, onorevoli colleghi, l’Italia è forse il più bel Paese del mondo, ha il più bel sole, ha il più bel mare, le donne hanno il più bel sorriso, il che non guasta, è un Paese che non si lascia intristire con delle reti a maglie troppo fitte. Non è riuscito il fascismo in 20 anni a mettere le reti attorno al collo degli italiani. Non diamo agli italiani un abito che non possono portare. È come se voi voleste dare a Raicevich o a Proietti o ad altri atleti che oggi è di moda mettere nelle liste elettorali, la giacchettina strimenzita di Charlot. Questo non è possibile.
Del resto chi ha costruito l’Italia? I nostri bravi operai, i nostri valenti tecnici, i nostri geniali imprenditori, ai quali noi dovremmo veramente anche da questi banchi elevare un monumento di ammirazione. Non sono state le pianificazioni (che non abbiamo fatto) a ricostruire l’Italia, ma il loro lavoro e la loro iniziativa. (Applausi al centro e a destra).
Una voce al centro. Anche i contadini.
ALDISIO. Soprattutto i contadini. Non anche, ma soprattutto.
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. La disciplina è difficile nel nostro Paese. Avete visto che anche i tedeschi, quando sono venuti, hanno preso il colore locale. Gli americani stessi quando sono venuti (e nei primi tempi ci hanno regalata molta merce) hanno fatto dei traffici in libertà anche loro. Di fronte alla situazione che c’è oggi e che c’è stata ricordata piuttosto rudemente anche dall’onorevole Nenni (il quale quando deplora certi costumi di vita di alcune classi troppo ricche, troppo spenderecce, ha tutto il Paese – me compreso – dietro di sé), situazione che da molti punti di vista è veramente contristante, io mi domando: che cosa avete fatto voi per combattere questa situazione quando eravate al Governo? Le automobili di lusso non si sono forse mai vendute, in Italia? I generi di lusso, sono stati aboliti? I consumi ridotti? Le bancarelle non esistevano forse?
SCOCCIMARRO. Del passato potremo discutere un giorno qui, vedremo allora di chi sono le responsabilità, ma non è il caso di farlo adesso! (Commenti al centro e a destra).
MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Comunque noi – statene certi – cercheremo di instaurare anche quelle discipline utili e possibili che non sono state instaurate dai precedenti Governi e che crederemo necessarie onde migliorare l’andamento interno, ed il suo rendimento economico, ma che non mortifichino inutilmente il Paese.
Lasciatemi chiudere con una sola esortazione. Vi sono due cose che vanno salvaguardate a tutti i costi. Non appartengono ad un Governo, non appartengono ad una formazione politica e neanche ad un partito: appartengono al Paese. Esse sono la produzione ed il credito. Chi tocca la produzione e il credito, tocca gravemente, forse mortalmente, l’Italia. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.
CORTESE. Onorevoli colleghi, non può certo disconoscersi che la presentazione delle mozioni di sfiducia ha aperto un dibattito, sotto molti aspetti, utile. Il Governo si è più strettamente collegato con l’Assemblea; l’opinione pubblica, da questa tribuna, è stata e sarà ampiamente informata della reale situazione del Paese, dei provvedimenti finora adottati e della linea programmatica che il Governo intende seguire; i problemi più rilevanti sono affrontati nell’incrociarsi delle opposte tesi e la loro soluzione non può non avvantaggiarsi delle critiche, dei suggerimenti esposti da più parti in questo dibattito, che riconduce la vita politica nella naturale sede del Parlamento e restaura la libera discussione democratica.
Ma se noi, onorevoli colleghi, ci soffermiamo all’esame del problema sostanziale che quelle mozioni pongono a questa Assemblea, se noi cioè vogliamo rimanere sul terreno rigorosamente politico per dare una risposta agli interrogativi posti da quelle mozioni, e cioè: dovremo negare o concedere la fiducia al Governo? perché dovremmo rovesciare il Governo? quale Governo si dovrebbe eventualmente sostituire a questo? se rimaniamo su questo terreno squisitamente politico, noi non possiamo non convenire, senza mancare di riguardo a nessuno, che questo dibattito dà l’impressione di una musica riprodotta, di vecchi dischi che ci riportano motivi e temi ben noti, riproducendo, sugli stessi argomenti, sugli stessi oggetti, con lo stesso repertorio verbale, il dibattito recentemente conclusosi col voto di fiducia al Governo.
Ma se le motivazioni delle mozioni di fiducia, prospettate particolarmente dall’onorevole Nenni e dall’onorevole Togliatti, riconducevano al ricordo degli ascoltatori temi ben noti e l’eco di parole che gli oratori deliberatamente non pronunciavano – tripartito, coalizione, unione sacra; e come una risonanza marginale: inefficienza governativa del Governo di coalizione, mancanza di solidarietà, paralisi – sembrava invece che gli oratori autorevoli, in una portentosa amnesia, non avessero questi ricordi, come se le cose che dicevano apparissero loro nuove, rivestite di una fittizia verginità. Veniva voglia di ridestarli dai loro smemoramenti e di ricordare loro che questo Governo è nato dal fallimento del Governo tripartito, fallimento sul terreno economico, sul terreno politico, nella pubblica opinione.
Governo coi comunisti, coi socialisti e coi democristiani? Già fatto; formula già sperimentata e già fallita.
Governo tripartito con pendagli, su più ampia base? Già fatto.
Questo Governo, che è appena da quattro mesi in carica…
LACONI. È il peggiore di tutti.
CORTESE. …nasce da questo fallimento, è figlio di questa situazione. È nato attraverso un travaglio, durante il quale non si presentò la possibilità di alcun’altra soluzione del problema governativo.
CARPANO MAGLIOLI. Lo dice lei.
CORTESE. Questo Governo, in carica da appena quattro mesi, ha una situazione dura, come è stato riconosciuto anche dagli attaccanti, dagli oratori di opposizione. Viene dopo una guerra perduta, dopo il fascismo; viene – diciamo noi – dopo gli errori del tripartito.
Ora, io credo che il vero problema è porsi dinanzi queste mozioni ed esaminarle nella loro sostanza, nel loro spirito, negli obiettivi che si propongono di conseguire.
Cosa sono? Sono una critica al Governo, un mezzo di rottura del Governo o sono una nostalgia, un battere alle porte del Governo, perché le porte del Governo si riaprano, perché sia consentita di nuovo una collaborazione?
La seconda mozione, quella dell’onorevole Togliatti, in sostanza è una interpellanza trasformata in mozione, è un gesto di solidarietà, in una situazione tattica obbligata. Le critiche che essa contiene sono critiche episodiche, marginali.
Chi le muove sapeva che quelle critiche non potevano dare materia sufficiente per una mozione di sfiducia, tanto vero che le aveva collocate nel documento della interpellanza.
Lo svolgimento dell’altra mozione, quella dell’onorevole Nenni, si è anch’esso – a mio modo di vedere – limitato a critiche di dettaglio di taluni provvedimenti, per altro accettati in gran parte nel loro spirito e criticati nella pratica attuazione, in una dilatazione di censure alquanto generiche.
Due elementi valgono a collaudare quelle critiche e a svuotarle: le condizioni obiettive in cui il Governo è costretto ad agire, ed un elemento che sta nelle risposte a queste domande: cosa si è fatto prima, quando al Governo erano i comunisti ed i socialisti di Nenni? (Commenti a sinistra). Forse l’inflazione era stata arrestata? Forse i prezzi non erano gravosi? (Commenti a sinistra). Forse la situazione alimentare migliorava? Forse il Paese aveva fiducia?
Una voce a sinistra. Non andava a far la spesa, lei!
CORTESE. Si dice: dovremmo rovesciare questo Governo perché questo Governo difende particolari interessi. Ora, onorevoli colleghi (e l’abbiamo ascoltato questa mattina dall’onorevole Valiani) questo Governo ha contro la destra capitalista e la sinistra estremista.
Una voce a sinistra. Chi l’ha detto?
BELLAVISTA. L’ha detto stamattina l’onorevole Valiani.
MAFFI. Nella destra avete i vostri migliori amici.
CORTESE. Questo Governo con la sua politica fiscale e con la sua politica economica ha colpito taluni grandi interessi capitalistici e combatte la speculazione. Gli interventi ed i vari provvedimenti che questo Governo ha adottato sono tali, che i voti veramente fervidi per la sua caduta partono proprio dai portatori di grandi interessi capitalistici ancora una volta alleati con quelli dell’estrema sinistra. (Si ride a sinistra). Voi dell’opposizione avete creato un fantasma per poterlo combattere ed avete sollevato una disputa che è soltanto scolastica. Avete creato il fantasma d’un liberismo puro, esasperato, anacronistico, contro il quale opponete un astratto programma pianificatore. È una disputa scolastica perché il liberismo puro, il liberismo esasperato non è nella politica economica di questo Governo.
Questo Governo ha una sua politica economica discutibile, accettabile, censurabile o meno nella sua attuazione che mira a determinati fini: opera degli interventi che tendono ad indirizzare gli investimenti in un certo determinato modo, cerca di influire sull’andamento del mercato, fa una politica del credito e cerca di spingere il risparmio verso particolari investimenti e di porre lo Stato in condizioni di non stampare carta moneta.
La verità è che l’Italia, che la situazione economica italiana e quella internazionale determinano dei binari obbligati che consentono sul terreno pratico, quando si opera aderendo alle esigenze reali dell’attuale stato di congiuntura, incontri di dottrine diverse e rendono sterile ogni disputa scolastica.
Ma chi lo vuole il liberismo puro? Consentite che un modesto, ma convinto liberale vi dica che questo attribuirci ancora la rigida fedeltà al liberismo puro, può servire soltanto a scopi polemici, ma dimostra la ignoranza della revisione operata dal pensiero liberale moderno, che voi potete combattere, ma non potete disconoscere, come atteggiamento nuovo, operante, ricco dei risultati d’una profonda rielaborazione, sensibile alla realtà attuale.
Se noi tendiamo ad un graduale ritorno all’economia di mercato, noi non trascuriamo certe esigenze della economia italiana, dell’economia moderna, dell’economia internazionale, e voi dovreste sapere che nei nostri interventi in sede costituzionale, nella parte che riguarda i rapporti economici, il nostro atteggiamento non è stato quello d’un classico, anacronistico, inflessibile liberismo, ma è stato invece ispirato da orientamenti ben più attuali, aperti, aderenti alle esigenze nuove, da una volontà e da una dottrina dirette a superare le degenerazioni e i privilegi del capitalismo anche mediante interventi dello Stato. Se oggi vi è una posizione di antitesi, netta, schierata, di opposizione a quelle forme di degenerazione dell’economia di mercato, che sono rappresentate soprattutto dai monopoli, questo atteggiamento di avamposto è assunto dai rappresentanti del partito liberale. (Commenti a sinistra). Rileggete gli emendamenti che noi abbiamo presentato in sede di Costituzione, tenete presenti quelli svolti dall’onorevole Einaudi e anche dal modesto sottoscritto. Noi abbiamo sostenuto che non solo occorre rompere i monopolî attraverso la nazionalizzazione, se essa si presenta come mezzo necessario, ma abbiamo sostenuto che ciò non basta e che occorre adottare una legislazione e una politica economica antimonopolistiche, perché il monopolio vive all’ombra dei privilegi e dei protezionismi. Non solo bisogna sopprimerlo, ma bisogna impedire che nasca, che si formi, il più delle volte artificialmente. (Applausi al centro – Commenti a sinistra – Interruzione dell’onorevole Laconi).
Einaudi è stato meno «laconico» di quanto Laconi creda. Einaudi ha parlato chiaramente. Potrete rileggere i verbali della nostra discussione sul titolo «Rapporti economici» e il testo degli emendamenti presentati dall’onorevole Einaudi e proprio da voi comunisti non accettati.
LACONI. Rilegga gli emendamenti e vedrà che dicono un’altra cosa.
CORTESE. Dicevo che noi non disconosciamo le necessità, gli aspetti dell’economia moderna, perché un liberismo di questo momento non può non essere aderente alla nuova realtà economica, nazionale e internazionale. È nostro, liberale quel principio che si esprime con immagini di polizia stradale (l’immagine dei semafori e della direzione della circolazione), il principio per il quale il traffico economico deve essere regolato senza rendere però il viandante un automa con prescrizioni che lo meccanicizzano. Quando si parla di pianificazione, occorre intendersi, perché se per pianificazione intendete la tastiera a comando, l’economia centralizzata, la pianificazione integrale, marxista, vi diciamo che siamo di essa i più irriducibili oppositori. Ma se invece si intende con essa esprimere la necessità di un orientamento, di un programma, di un indirizzo, noi non respingiamo questa posizione, la voce di questa esigenza della vita economica moderna.
Si crea dunque il fantasma di un liberismo inesistente nella politica del Governo, non voluto nemmeno da noi liberali, per poterci opporre una pianificazione che non si precisa, non si concretizza, che è soltanto una formula dogmatica, scolastica. Una pianificazione integrale, a nostro avviso, non può tecnicamente attuarsi nell’economia italiana in collasso, né esiste lo strumento burocratico capace di attuarla; essa peraltro soffocherebbe l’iniziativa privata alla quale ancora noi riconosciamo il compito, la responsabilità della ricostruzione.
L’iniziativa privata va regolata, diretta, ma deve liberamente muoversi entro i confini dettati dalle superiori necessità di un indirizzo attuato con interventi conformi, diretti a ristabilire e a difendere l’economia di concorrenza. Noi, che forse non abbiamo l’acutezza di mente e la perfezione di giudizio dell’onorevole Giannini, non sappiamo distinguere un comunismo economico da un comunismo politico, e purtuttavia diciamo che se anche la distinzione fosse possibile, un comunismo economico inteso secondo quel modello astratto, quella tesi scolastica non potrebbe essere mai da noi accettato, come, del resto, non è accettato dalla maggioranza di questa Assemblea.
Se adunque l’opposizione non agita che una sterile disputa teorica, se le sue critiche correnti sono soltanto di dettaglio, noi possiamo pensare che nel loro fondo non c’è che la richiesta di qualche Ministero, non v’è che il tentativo di rovesciare il quarto Ministero De Gasperi per fare un quinto Ministero De Gasperi simile al terzo. (Interruzioni a sinistra).
Noi dovremmo votare a favore delle mozioni di sfiducia forse per attuare quel vincolismo cui accennava l’onorevole Nenni, quel vincolismo che del resto non applicava integralmente nemmeno l’onorevole Cerreti, quel vincolismo che deve essere gradualmente superato secondo il programma concreto che ci è stato esposto dal professore Ronchi, quel vincolismo che la recente esperienza condanna. Ed allora, perché dovremmo votare a favore delle mozioni di sfiducia? Forse, per salvare le libertà democratiche manomesse, l’opposizione imbavagliata, secondo le doglianze dettate all’onorevole Togliatti dalla persensibilità democratica di una vestale della democrazia?
Voi comunisti avevate presentato una semplice interpellanza; credete davvero che sulla base di quelle doglianze, di quelle censure di singoli provvedimenti, di fatti episodici, si possa negare la fiducia ad un Governo mentre la lotta politica in Italia ferve libera, democratica, nelle piazze, nei giornali, nel Parlamento, mentre i manifesti tappezzano tutte le mura della città? E allora perché? Forse perché vi è quel pericolo, escluso dall’onorevole Nenni e ammesso dall’onorevole Togliatti, d’una risorgente, tenebrosa organizzazione fascista?
Io non credo, onorevoli colleghi, ai fascisti. Io temo il fascismo, vorrei la lotta continua contro il fascismo, contro la sua mentalità e i suoi metodi. I fascisti è già difficile catalogarli, sbandati e divisi come sono: ve ne sono di varie categorie, di destra e di sinistra, di prima dell’8 settembre e di dopo l’8 settembre, repubblicani e monarchici, di prima del 25 luglio. Non credo che i fascisti rappresentino un pericolo; comunque non si può certo dire che questo Governo deve essere rovesciato perché non agisce di fronte ad una minacciosa attività fascista.
Si è detto che i fascisti hanno commesso delle violenze a Gorizia. Non vorrei ritoccare questo argomento, non vorrei risoffermarmi su quella battuta dell’onorevole Togliatti che profondamente ci ha rattristati. Vorrei dire che anche noi da questi banchi deploriamo con animo sincero gli eccessi e le violenze avvenute a Gorizia, anche se queste violenze e questi eccessi non possano costituire una colpa del Governo, per non avere ancora il Governo assunto in quel momento il controllo della città, anche se queste violenze sono esplose dal clima di dolore e di disperazione di una città la quale peraltro non ha visto, nella sua tragica e ansiosa ora, per colpa dei comunisti, tutti i suoi figli solidali nel nome d’Italia.
Comunque, se l’onorevole Togliatti ha voluto pronunziare una parola di deplorazione, io voglio dire che sarò molto lieto il giorno in cui dal suo banco ascolterò una parola di solidarietà con gli italiani, con i nostri morti e con i vivi, dell’Istria e della Venezia Giulia. E mi auguro che qualche deputato jugoslavo si alzi nel Parlamento di Belgrado per sollecitare dal suo Governo il rispetto umano e civile per le minoranze italiane dell’Istria e della Venezia Giulia. (Approvazioni). Si dice: ma bisogna rovesciare questo Governo, perché questo Governo non rappresenta le classi lavoratrici. V’è un po’, nel fondo, una visione corporativistica, e cioè il presupposto di una rappresentanza specifica monopolizzata da taluni movimenti, da talune organizzazioni. È questo il Parlamento e la maggioranza di questo Parlamento è la maggioranza del popolo italiano.
Si osserva ancora: le classi lavoratrici hanno espresso, in queste ultime settimane, il loro disappunto, la loro opposizione a questo Governo, attraverso movimenti, agitazioni, scioperi. Quegli scioperi erano determinati da rivendicazioni economiche. Noi dobbiamo ritenere che quei movimenti fossero tesi al conseguimento di giuste istanze, che voi, del resto, dite conseguite: il che sta a riprova della posizione di imparzialità e di obiettività del Governo.
Che se poi fosse vero, come forse è vero, che quelle agitazioni non erano dirette ad ottenere il giusto riconoscimento di diritti sul terreno sindacale, ma ad operare un attacco politico contro il Governo, allora noi dovremmo dire che questo è un vero attentato antidemocratico, perché non deve essere consentito, né alla piazza né alla camera del lavoro, il tentativo di rovesciare con scioperi ed agitazioni un Governo che ha la maggioranza nel Parlamento regolarmente eletto col suffragio universale.
Onorevoli colleghi, è inutile disconoscerlo: al fondo di questo dibattito v’è un solo problema, v’è il problema del Partito comunista. L’onorevole Togliatti si doleva che il Partito comunista fosse stato respinto dalla famiglia democratica. Non è esatto, me lo consenta l’onorevole Togliatti. Il Partito comunista ha, in questo momento, nella famiglia democratica, un ruolo importante, un posto, abolito il quale, non v’è più la famiglia democratica: l’opposizione, la quale peraltro in Italia (come invece accade altrove) non corre il rischio di imbattersi in un capestro.
L’onorevole Togliatti apprezza il ruolo dell’opposizione, ma vuole stare, nello stesso tempo, anche al Governo.
TOGLIATTI. Ma è un diritto dell’opposizione quello di aspirare a diventare Governo.
CORTESE. Sì, ma non è un diritto quello di stare, come voi desiderate, contemporaneamente al Governo e all’opposizione nel Paese, sulla piazza, nella stampa, nei comizi, nello stesso Governo, ché non è più allora l’organo efficiente teso nello sforzo comune di realizzare un condiviso programma, in cui siano stati messi da parte i fini particolaristici, ma è l’arena di scontro di forze opposte che si frenano e cercano di sopraffarsi a vicenda.
Si soggiunge: questo Governo non è democratico perché lascia fuori taluni partiti democratici. Ma dove è scritto che la democrazia si ha soltanto quando tutti i partiti sono al Governo?
Questa parola – democrazia – è una parola di colore oscuro. Forse è tutto un equivoco. Mentre le guerre precedenti si sono concluse con l’affermazione di principî che erano pacificamente intesi nel loro significato – la pace del 1814 ebbe per base il legittimismo e tutti sapevano che cosa fosse il legittimismo ed erano d’accordo sul significato da attribuire alla parola; la pace del 1919 doveva attuare il principio dell’autodecisione dei popoli, e tutti sapevano che cosa significava – questa guerra si dice che sia stata combattuta e vinta per attuare e garantire la democrazia, della quale, fra gli stessi vincitori, si hanno delle concezioni diverse, opposte, antitetiche.
Unità, si dice. È la formula con la quale il Partito comunista marcia in tutta Europa.
Ci è stato fatto un addebito: noi commetteremmo un errore grave, guardando troppo fuori dei nostri confini, emettendo giudizi su altri paesi, giudizi che comprometterebbero le nostre possibilità di collaborazione internazionale, le possibilità della nostra politica estera. Ma io vorrei dirvi che, se noi gettiamo lo sguardo oltre i confini d’Italia, e se noi guardiamo, per esempio, a quello che accade in Ungheria, in Romania, in Bulgaria…
Una voce a sinistra. Vi è la riforma agraria!
CORTESE. Vorrei sapere qual è il prezzo di quella riforma agraria; perché la riforma agraria la posso discutere e magari accettare, ma se il prezzo della riforma agraria è la libertà, questo prezzo non sono disposto a pagarlo. (Applausi al centro).
Una voce a sinistra. Fatela con la libertà! Perché non la fate con la libertà?
LOPARDI. Voi negate la libertà e non fate la riforma agraria.
CORTESE. Finora della riforma agraria abbiamo molto ascoltato, molto letto, ma perché non avete mai presentato una proposta di legge? Presentatela, la discuteremo, e vedremo chi è favorevole e chi è contrario, e per quali ragioni. (Interruzioni a sinistra).
Ma, dicevo, noi non vogliamo affatto emettere dei giudizi sugli altri paesi; noi non vogliamo affatto esprimere la nostra antipatia o la nostra simpatia; saremmo i primi a dolerci se un siffatto atteggiamento potesse compromettere le possibilità della nostra politica estera. Ma c’è un fatto: noi abbiamo in Italia un forte Partito comunista italiano. E ce n’è un altro: in altri paesi il Partito comunista ha realizzato i suoi obiettivi. Ed allora noi abbiamo il diritto di esaminare come li abbia realizzati, con quali metodi, che cosa fa il comunismo dove è una realtà, un regime e non soltanto un programma, un discorso alla Costituente, un comizio, una verbale promessa di democrazia, di collaborazione, di libertà.
Abbiamo questo diritto, ripeto, non per emettere dei giudizi su di altri paesi; e lo abbiamo soprattutto perché voi, onorevoli colleghi comunisti, non ci dite mai una parola di deplorazione in rapporto a quei metodi, a quei sistemi adottati altrove dal comunismo. Voi siete gli esaltatori, gli apologeti quotidiani di quei metodi e di quei sistemi, realizzati in quei paesi; onde ci fate credere, ci date motivo sufficiente per ritenere che voi importereste quei metodi, che voi realizzereste quei modelli, ove ne aveste la possibilità in Italia. Ecco perché noi abbiamo interesse di guardare a fondo che cosa succede nei paesi dove il comunismo ha vinto o sta per vincere.
TOGLIATTI. Certo non lasceremmo fare la marcia su Roma come hanno fatto i liberali nel 1922. (Commenti al centro).
CORTESE. Io credo che ormai la marcia su Roma dovrebbe servire non per lanciarci delle accuse e per esaminare delle responsabilità (perché potrei dirvi che la marcia su Roma nacque in un particolare clima di cui anche voi avevate la responsabilità), ma la marcia su Roma dobbiamo guardarla come insegnamento ed esperienza italiana, insegnamento di dolore, insegnamento di tirannia, per dire che un’altra marcia su Roma, da destra o da sinistra, la vogliamo assolutamente evitare! (Vivi applausi al centro –Commenti a sinistra).
Noi crediamo che le possibilità di realizzare in Italia quei modelli comunisti potrebbero aumentare col ritorno del Partito comunista al Governo. Possiamo sbagliarci, ma (vorremmo ricrederci, veramente) abbiamo dei motivi per ritenere che siamo nel giusto.
Diceva l’onorevole Togliatti: noi vogliamo andare lontano.
Bene, può darsi anche che il Governo sia il veicolo, per lo meno per il primo tratto, per poi andare più lontano, «dal Governo al potere». Ci sono degli slogan che delle volte martellano le orecchie. Veniamo – diceva l’onorevole Togliatti – dalla storia italiana.
Pur non disconoscendo le benemerenze (soprattutto nella recente guerra di liberazione) del Partito comunista, io osservo che in certi particolari aspetti della sua condotta, nel fondo della sua anima e della sua mentalità, io vorrei ricordare esso appare straniero o per lo meno estranazionale; la unanimità dei partiti comunisti in tutto il mondo, dalla Persia al Brasile, quella unanimità dei partiti comunisti che ha un legame ideologico e li unisce in una condotta comune…
TOGLIATTI. Perché dunque avete fondato una internazionale dei partiti liberali?
CORTESE. L’internazionale liberale difende i principî del liberalismo, ma non obbliga i partiti liberali a sostenere nei singoli paesi una unica politica, e tanto meno una unica politica estera, come accade per i partiti comunisti, fino al punto che fu necessario all’inizio della guerra sopprimere in Francia ed in Inghilterra i giornali comunisti perché appoggiavano la Germania allora alleata della Russia, fino al punto che a Trieste vi è stata e vi è una campagna assidua della stampa comunista per l’annessione di Trieste alla Jugoslavia!
Per questa unicità di condotta e per questa origine ideologica comune si può spiegare che, quando l’onorevole Togliatti, con bella frase, dice: «noi veniamo da lontano», possa sorgere qualche equivoco fra la storia e la geografia. (Commenti).
TOGLIATTI. Io sono uscito dall’Italia perché mi hanno cacciato. Non faccia delle insinuazioni. Abbia il coraggio di dire apertamente quello che vuole dire! L’essere stato tanti anni in esilio è il vanto della mia vita. (Vivissime approvazioni all’estrema sinistra).
CORTESE. Ma io ho detto «noi», ho detto un partito, non ho detto lei, la sua persona.
TOGLIATTI. Abbia il coraggio di dire apertamente quello che vuole dire!
CORTESE. Quel che ho detto ripeto e non ho alcuna ragione per ritirare una sola parola.
Voi ci addebitate di volere inserire l’Italia in uno dei blocchi contrapposti. Se c’è una concezione che guarda alla libera circolazione dei beni, degli uomini, delle idee, ad un superamento delle patrie, senza rinnegare la patria, in una superiore visione di coordinamento di tutte le patrie, è quella liberale.
Si è detto ancora: bisogna rovesciare questo Governo perché è il Governo della discordia. Sì, la discordia c’è. Noi traversiamo un momento di lotta politica intensa, acuta, fremente. Ma voi l’esasperate questa lotta, voi riscaldate l’ambiente politico, voi arroventate una disputa ideologica che non ha più possibilità di mediazione, una lotta di classe senza quartiere. Non siamo noi che abbiamo detto «politique d’abord». Che significa «politique d’abord»? Significa lotta politica intensa, insonne nel Paese per l’egemonia d’una concezione politica radicale. Non siamo noi che abbiamo detto: battere una classe sociale, come battere, per esempio la borghesia, così come ha detto l’onorevole Nenni che ha aggiunto l’altro slogan: «dal Governo al potere», conquistare cioè tutte le leve di comando del Paese. Non basta avere il Governo, si vuole avere il potere, che in senso marxistico significa dittatura. Ed allora consentite che noi vi diciamo che quando si pongono i temi politici con questa asprezza, soprattutto con questo radicalismo, l’unità non può essere che quella concorde discordia che dà il ritmo democratico alla vita politica, ma non vi può essere unità nell’unione di tutti i partiti al Governo poiché non tutti rinunciano ai loro programmi particolari.
Noi anche sollecitiamo dal Governo dei provvedimenti; noi anche possiamo fare delle critiche. Per esempio, potrebbe un deputato dell’Italia meridionale – e credo che in questo sarebbe d’accordo larga parte dell’Assemblea – segnalare al Governo le necessità del Mezzogiorno. Potremo dire, per esempio, che sarebbe opportuno che l’onorevole Fanfani si aggiornasse sui dati della disoccupazione dell’Italia meridionale, che il Governo prendesse in esame sul serio la situazione industriale dell’Italia meridionale. L’80 per cento delle industrie è stato distrutto; il Governo non paga i danni di guerra né le commesse precedenti all’8 settembre. L’industria meridionale ha lavorato nella sua quasi totalità, fino a quell’epoca, per lo Stato che non ha pagato e non paga.
L’onorevole Dugoni sottolineò giorni or sono i grandi guadagni conseguiti dall’industria settentrionale durante il periodo nazi-fascista. Le distruzioni belliche subite dalle industrie meridionali hanno colpito un apparato industriale che, se rappresenta una lieve percentuale dell’apparato industriale nazionale, rappresenta la quasi totalità di quello locale.
Io sono sicuro che al termine di questo dibattito ciascuno di noi sarà tratto a constatare che esso non è stato che il proseguimento, la ripetizione di quel dibattito recentemente chiusosi in quest’Aula con il voto di fiducia al Governo.
Ciascuno potrà decidersi per il suo voto sulla base di elementi che sono gli stessi che esaminammo allora; il problema è lo stesso: cercare una formula politica da porre a base della compagine ministeriale.
Abbiamo fatto degli esperimenti; il tripartito ha fatto il suo esperimento, il Governo a più ampia base ha fatto il suo esperimento. Oggi dovremmo dire che ci è stata una specie di quarantena governativa per taluni partiti, che la quarantena è terminata, e si può ritornare alla coalizione degli opposti. Dovremmo ristabilire un’altra volta il tripartito e presentare alla opinione pubblica italiana di nuovo quello stesso Governo che l’opinione pubblica italiana ha censurato, respinto, condannato fino a quattro mesi fa.
Ricostituendo il tripartito, io credo che la classe dirigente politica italiana darebbe veramente la misura di un fallimento, di una impossibilità di saper risolvere il problema fondamentale di un paese: quello di darsi un Governo.
L’onorevole Labriola diceva: «Per me non sono buoni né i Governi di compromesso né di coalizione, né tripartiti, né questo».
Ora io vorrei domandare all’onorevole Labriola: se la coalizione non può accettarla, se il Governo democristiano integrato da tecnici non può accettarlo, se per l’appello al Paese occorre attendere fino alle elezioni, quale Governo ora deve governarci?
Ricostituendo il tripartito non daremo nemmeno all’onorevole De Gasperi la soddisfazione di non vedere più manifesti denigratori sulla soglia della sua casa, perché quei manifesti c’erano anche prima. Credo che l’onorevole De Gasperi lo ricordi. Manifesti contro di lui c’erano anche prima, quando vi era il tripartito, quando comunisti e socialisti erano con lui al Governo.
Questo Governo rappresenta un collaudo democratico dell’opposizione, la quale deve svolgersi, che si svolge con il controllo, con la critica, con i suggerimenti, e non ha che un appello: l’appello alle urne. Ci auguriamo tutti che questo appello si faccia al più presto possibile. Se invece i partiti della opposizione non alle urne vorranno appellarsi, ma vorranno ricorrere a quell’appello al «popolo» di cui parlano in modo generico, equivoco, minaccioso, quando non parlano apertamente di «azione diretta», cioè rivoluzionaria, allora interverrà il dovere dello Stato democratico di difendere la democrazia e le sue istituzioni.
Per noi liberali la strada è scelta: senza reticenze, senza ambiguità, senza rinvii. Noi voteremo contro le mozioni di sfiducia; noi voteremo compatti per questo Governo che è l’unico possibile, a nostro avviso, dopo gli esperimenti fatti, per guidare il Paese: collaboreremo così col partito democratico più forte dell’Assemblea, dal quale siamo pur divisi da varie differenze ideologiche; e siamo disposti a collaborare con qualunque partito che nella difesa degli interessi nazionali ci dia sufficienti garanzie di voler procedere sulla strada democratica del progresso dove la giustizia sociale non può essere disgiunta dalla libertà; collaboreremo con qualunque partito, anche se abbia con noi delle notevoli differenze, purché non voglia imporci l’accettazione e l’attuazione radicale del suo schema programmatico caratteristico.
Noi riteniamo che, così facendo, obbediamo non a calcoli elettorali, ma all’interesse del Paese; e in questo modo potremo rendere possibile un’opera assidua difficile, di ricostruzione, in un momento in cui il Paese ha bisogno di ordine, di lavoro; in un momento in cui la libertà stessa appare minacciata dall’agitarsi di movimenti totalitari.
Anche noi, onorevole Togliatti, veniamo da lontano; proveniamo dalla storia liberale d’Europa e d’Italia, quella storia che è stata una lunga ricerca della libertà. Noi continuiamo questa ricerca. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).
TOGLIATTI. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TOGLIATTI. L’oratore, che ha testé parlato, di cui ignoro il nome e non mi importa di saperlo… (Commenti).
BELLAVISTA. È Cortese; lei non lo è!
TOGLIATTI. …facendo allusione a una espressione del mio discorso di alcuni giorni or sono, dove dicevo che il nostro partito viene da lontano e va lontano, ha voluto interpretare tendenziosamente queste parole, alludendo al fatto che io sono stato parecchi anni assente dall’Italia. Se io sono stato assente dall’Italia, onorevole Cortese, e onorevoli colleghi, che avete voluto ieri o l’altro ieri colle vostre interruzioni poco intelligenti porvi su questa strada… (Proteste al centro).
MAZZA. Così si offende l’Assemblea.
TOGLIATTI. …vi sono stato per combattere per la democrazia e la libertà del mio Paese. Io facevo parte d’un partito democratico (Commenti– Rumori), il quale mi aveva significato quale era il mio posto di lavoro e di lotta. Qualora il mio partito mi avesse detto che era il carcere, sarei rimasto in carcere fino alla liberazione. Esso mi ha detto invece che questo posto era l’estero, per organizzarvi la lotta dei comunisti italiani per la libertà e per il socialismo. Questo ho fatto e credo che questo sia il più alto onore della mia vita. Coloro che credono di rinfacciarmi questo come una colpa sappiano che sono ritenuti da noi come non degni di appartenere a questa Assemblea; perché così facendo essi di fatto si rendono solidali con coloro che imposero alla parte migliore del popolo italiano di vivere nelle galere o in esilio, per continuare a combattere per le loro idee e per la libertà. (Applausi all’estrema sinistra – Commenti).
CORTESE. Chiedo di parlare, in quanto desidero chiarire questo fatto personale e far rilevare all’onorevole Togliatti che è incorso in un equivoco.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.
CORTESE. Ritengo che l’onorevole Togliatti sia incorso, spero involontariamente, in un equivoco. La frase pronunciata dall’onorevole Togliatti era: «Noi veniamo da lontano e vogliamo andare lontano».
Io avevo detto che vi è un’affinità ideologica tra tutti i partiti comunisti e soprattutto vi è un legame fra essi e la patria del comunismo.
«Noi veniamo da lontano», noi, non lei onorevole Togliatti, non la sua persona, non ho detto lei, onorevole Togliatti (Approvazioni al centro e a destra), ripetevo la sua frase, che aveva un soggetto al plurale: noi partito, noi idea, e dicevo che si possono scambiare a questo proposito la storia e la geografia. Il comunismo non viene dalle scaturigini profonde, da quelle lontane o da quelle vicine, della storia italiana, dell’anima, della mentalità, del genio italiano. È una idea d’importazione. (Commenti a sinistra). Questo mio apprezzamento può essere regolarmente non condiviso e ribattuto, ma non può dar luogo a fatto personale perché fatto personale non c’è. (Interruzioni a sinistra). Veniamo da lontano, veniamo dalla storia d’Italia, diceva l’onorevole Togliatti: era la sua una battuta polemica, alla quale io ne ho contrapposto un’altra che, così come la sua, non si riferisce alla sua persona fisica, proveniente dal luogo che l’ha ospitato nell’esilio. Il fatto personale non esiste: io ripeto senza alcuna perplessità quel che ho detto: sulla provenienza «lontana» del comunismo possono sorgere equivoci fra la storia e la geografia. (Applausi al centro e a destra).
PRESIDENTE. Prego gli onorevoli colleghi di porgermi pazientemente orecchio.
Desidero richiamare la loro attenzione sul fatto che, come in ogni altra discussione importante, anche in questa la cinquantina e più di colleghi che si sono zelantemente iscritti a parlare cercano ora, uno per uno, di rinviare il turno del loro intervento. Voglio dire espressamente che non mi è più possibile aderire a simili sollecitazioni. Non riesco a concepire che ognuno degli iscritti non avesse già molto pensato fin da prima dell’iscrizione alle cose che avrebbe detto.
D’ora innanzi, coloro che si iscrivono a parlare sappiano che si assumono con ciò l’impegno di parlare al loro turno.
Interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. Sono state presentate alcune interrogazioni con richiesta di risposta urgente.
La prima è la seguente:
«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per le quali Ariano Irpino (Avellino) non è stata compresa nel provvedimento legislativo in corso presso l’ufficio legislativo dei lavori pubblici relativo all’acquedotto consorziale dell’Alta Irpinia, mentre Ariano, comune di trentamila abitanti, difetta di acqua potabile, avendo una tubolatura inquinata da infiltrazioni e con scarsissimo rendimento, per cui nella città il tifo è quasi endemico.
«Per conoscere altresì se invece l’onorevole Ministro non ritenga opportuno e di giustizia disporre che Ariano derivi l’alimentazione idrica dall’acquedotto pugliese, non essendo valide e fondate le ragioni che l’Ente obietta in contrario.
«Vinciguerra».
Chiedo al Governo quando intenda rispondere.
TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Risponderò lunedì prossimo.
PRESIDENTE. Tre interrogazioni al Ministro dell’interno concernono i fatti di Avellino:
«Al Ministro dell’interno, sui gravi incidenti verificatisi in Avellino il 28 settembre 1947 in occasione dei quali pacifici cittadini riportavano anche delle lesioni.
«Vinciguerra».
«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi avvenimenti di Avellino e per sapere se è più oltre possibile una politica di tolleranza verso forme manifeste di rinascente fascismo.
«La Rocca, Sereni, Amendola, Reale Eugenio».
«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti abbia adottato o intenda adottare a carico di taluni ben noti provocatori di Avellino, che hanno tentato con insulti, con sassate, con minacce a mano armata, in occasione di un comizio del Partito nazionale monarchico, di dar luogo ad incidenti cui, solo per la pazienza, l’amore dell’ordine e il senso profondo di responsabilità dei partecipanti al comizio, si è evitato che seguissero conseguenze veramente gravi.
«Covelli».
Chiedo al Governo quando intenda rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Penso che il Ministro dell’interno potrà rispondere a queste interrogazioni nel corso del suo intervento nella discussione sulle mozioni.
LA ROCCA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LA ROCCA. Quanto alla mia interrogazione, preferisco seguire la procedura normale e sollecito il Governo a rispondere, possibilmente giovedì o venerdì.
MICHELI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICHELI. Io comprendo l’esigenza dell’opposizione e l’opportunità pei membri di essa che le loro interrogazioni debbano avere la precedenza assoluta su tutte quelle che hanno presentato gli altri deputati. Mi inchino, giacché alla opposizione non appartengo; però vi sono anche altre interrogazioni che si riferiscono a fatti di notevole importanza, presentate da tempo e che non possono continuamente essere pretermesse e abbandonate per queste esigenze. Ora, io ascolterò volentieri lo svolgimento di quelle dei colleghi, ma chiedo al signor Presidente che, dal momento che il Ministro dei lavori pubblici ha dichiarato ieri sera che è pronto a rispondere alle interrogazioni a lui dirette ad incominciare da giovedì, si tenga presente che io da due mesi ne ho presentata una che si riferisce a contributi essenziali per la ricostruzione di fabbricati rurali e di case distrutte per rappresaglia dai nazi-fascisti, per i quali una Provincia italiana aveva avuto una assegnazione di 52 milioni di lire, attraverso una provvidenza del Ministro Gasparotto.
PRESIDENTE. Non svolga adesso la sua interrogazione.
MICHELI. Non la svolgo, vi accenno solo per fare capire la sua urgente importanza. Se il Governo è disposto a rispondere giovedì o venerdì ad altre interrogazioni, mi pare che potrà rispondere anche alla mia. Ora per una ragione, ora per l’altra, in due mesi non sono riuscito a farla mettere all’ordine del giorno.
PRESIDENTE. Assicuro l’onorevole Micheli che la sua interrogazione sarà posta all’ordine del giorno della prima seduta dedicata alle interrogazioni.
DE MERCURIO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE MERCURIO. Sui fatti di Avellino ho presentato ieri sera una interrogazione urgente. Per quanto riguarda il Ministro dei trasporti, il suo Sottosegretario ha detto che avrebbe risposto domani. Ora la stessa urgenza potrebbe essere riconosciuta dal Ministro dell’interno. Anzi desidero sapere se il Ministro dei trasporti risponderà domani.
LA ROCCA. Tutto il Paese è interessato ad avvenimenti che mettono in pericolo la libertà. Il Governo avrebbe il dovere di dare una pronta risposta. (Commenti).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. I fatti di Avellino, di cui alle interrogazioni, sono in corso di accertamento. Abbiate pazienza due o tre giorni. Dal momento che non si vuole trattare dei fatti di Avellino nel corso della discussione sulle mozioni di sfiducia, il Governo risponderà lunedì, salvo che le informazioni arrivino prima.
DE MERCURIO. Si tratta di fatti ai quali sono interessati molti deputati.
PRESIDENTE. Vi sono cinque interrogazioni su questo argomento. Gli interroganti propongono il carattere di urgenza. Al Governo spetta la facoltà di riconoscerla indicando la data alla quale ritiene di rispondere. Il Presidente del Consiglio ha detto lunedì. Alcuni ritengono che si debba rispondere prima. Ma, onorevoli colleghi, delle interrogazioni non con carattere d’urgenza io posso fissare il turno; per quelle con carattere d’urgenza tale facoltà spetta al Governo. Il Governo ha detto che risponderà lunedì. Lunedì metterò dunque all’ordine del giorno queste interrogazioni a meno che, prima di quella data, il Governo non comunichi di essere già in grado di rispondere.
JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Ho detto all’onorevole De Mercurio che avrei desiderato rispondere quando si sarebbe risposto alle altre interrogazioni sullo stesso argomento. Comunque, siamo rimasti d’accordo che queste interrogazioni sarebbero state svolte con precedenza, «contestualmente. Quindi, se si rinvia lo svolgimento delle interrogazioni rivolte al Ministro dell’interno, mi pare che sia logico e giusto rinviare anche lo svolgimento di quella diretta al Ministro dei trasporti.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, sull’arbitrario intervento delle forze di polizia durante lo svolgersi dello sciopero proclamato il 28 settembre 1947 dai contadini di Villalba, Valledolmo, Marianopoli, Vallelunga, Mussomeli, Resuttano, in provincia di Caltanissetta; e per conoscere quali provvedimenti intenda adottare contro gli agenti di polizia responsabili di avere manganellato indiscriminatamente uomini e donne che avevano partecipato alla manifestazione.
«Musotto, Fiorentino».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere i criteri coi quali vengono effettuati a Torino, e in genere in tutte le provincie piemontesi, gli accertamenti sulla tassa entrata in abbonamento. Criteri che urtano il senso di giustizia e di equità, il più comune, in modo da provocare la viva e giustificata reazione da parte delle categorie dei professionisti, degli artigiani e dei commercianti al dettaglio.
«Se, in considerazione del vivo malcontento provocato, non ritenga opportuno impartire più equilibrate disposizioni per l’applicazione di tale tassa, non continuando così ad inasprire maggiormente le già gravi difficoltà nelle quali si dibattono le categorie sopra indicate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Chiaramello».
«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’interno e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere se e quali provvedimenti intendano proporre allo scopo di:
- a) assicurare ai ciechi la funzione di idonei istituti che loro consentano di essere avviati ad un proficuo lavoro, e di cui il Governo abbia la direzione e l’amministrazione, raccogliendo in un unico organismo sia l’Ente nazionale lavoro ciechi, sia tutte le altre iniziative che mirano alla rieducazione dei ciechi, consentendo a questa unica organizzazione l’ampiezza di funzione necessaria a raccogliere tutti i ciechi capaci di rieducazione;
- b) considerare i ciechi alla stregua degli altri inabili al lavoro, estendendo loro l’applicazione delle leggi in vigore, affidandoli così – in nome dei più elementari principî di solidarietà umana – alla tutela dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Santi, Binni, Bruni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non intenda – per ragioni evidenti di giustizia – sospendere l’applicazione della legge 1° settembre 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, in quei Comuni, come, ad esempio, nella zona di Cassino, nei quali le distruzioni causate da eventi bellici abbiano superato la percentuale dell’80 per cento, stabilendosi che i contribuenti di tali Comuni dovranno corrispondere l’imposta appena ottenuto il risarcimento del danno di guerra, con le modalità che si riterranno opportune per tutelare gli interessi dello Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Persico».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 19.45.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10 e alle ore 16:
Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.