Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 25 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 25 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

La Rocca

Rossi Paolo

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Martino Gaetano

Cappa, Ministro della marina mercantile

Sansone

Di Gloria

Codacci Pisanelli

Vernocchi

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

Moscatelli

La seduta comincia alle 11.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Costa.

(È concesso).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli La Rocca e Lombardi Riccardo, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per sapere se non ritenga che la Corte suprema di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 sulla decadenza dalla carica dei senatori, non abbia, da un lato, invaso il campo del potere legislativo e non si sia attribuito, dall’altro, un potere di controllo costituzionale che ad essa Corte non compete in alcun modo, in quanto non le è riconosciuto da alcuna legge».

Sullo stesso argomento v’è anche la seguente interrogazione, degli onorevoli Rossi Paolo, Bennani, Carboni Angelo, Canevari, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere se il Governo, di fronte alla sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 della Corte di cassazione a sezioni unite, con la quale vengono annullate senza rinvio le ordinanze di decadenza dei senatori fascisti, non creda di dover fornire pubbliche precisazioni circa gli effetti delle pronuncia, i cui motivi e la cui ispirazione, se sono giurisdizionalmente insindacabili, non sfuggono alla libera critica politica e morale».

Il Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere a entrambe.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Penso che sia necessario brevissimamente, senza entrare in quella che è – diciamo così – la critica o l’approvazione di un giudicato di un altro consesso sovrano, il quale potrà essere più o meno esatto, come possono essere più o meno esatte tutte le decisioni e deliberazioni collegiali (in quanto è l’influenza del numero, del quorum, che ne stabilisce la decisione e, quindi, non sono mai forme del tutto definitive, ma modificabili), precisare il punto della controversia e la decisione presa dalla Cassazione per rispondere agli onorevoli interroganti.

La Cassazione a sezioni unite in via civile fu investita di trentadue ricorsi di senatori contro la decisione dell’Alta Corte di giustizia. Vi furono molte eccezioni di inammissibilità di questi ricorsi prospettate dall’Avvocatura erariale, nella difesa dello Stato e nell’interesse supremo della legge; e fra queste, ad esempio, una, che riguardava la durata, il termine ormai passato delle pronunzie, delle pubblicazioni di queste ordinanze, che venne superato da parte della Cassazione, malgrado l’articolo 327 del Codice di procedura civile (il quale dice che, qualsiasi sia il difetto della notifica, un anno dopo la pubblicazione della decisione diventa una preclusione per ogni possibilità di gravame in Cassazione); un’altra, anche più grave, costituita dall’articolo 9 del decreto legislativo luogotenenziale 13 settembre 1944, nel quale era detto che contro le pronunzie, le ordinanze dell’Alta Corte di giustizia non era ammessa nessuna forma di gravame o di opposizione.

Queste erano due eccezioni gravissime, ma che, con suo insindacabile giudizio, la Cassazione ha superato. Ritengo inutile leggere le motivazioni. La Cassazione è entrata nel merito dei ricorsi stessi, i quali si fondavano su tre ordini di motivazione; motivazioni, però, che erano tutte riflessi d’un solo motivo, ossia difetto assoluto di giurisdizione. Molti dei colleghi sono giuristi e si rendono conto della gravità di tale situazione, ossia del difetto assoluto di giurisdizione. Per la nostra legge processuale attuale, per l’articolo 362 del Codice di procedura civile, che ha riportato quelle che erano le norme della legge del 1877 sui conflitti di giurisdizione e di attribuzione, la Cassazione, a sezioni unite, ebbe questa alta funzione di giudice delle competenze e delle attribuzioni, in modo che effettivamente, per qualunque giudizio, anche di giudici speciali, essa può intervenire per esaminare se il giudice si è mantenuto nei confini del suo potere giurisdizionale o se non abbia sconfinato o vi sia un vero e proprio difetto di giurisdizione. Questa è la portata dell’articolo 372, che ha riportato nel Codice di procedura civile la vecchia disposizione della legge del 1877.

La Cassazione ha esercitato largamente questa funzione, di essere a capo di tutte le giurisdizioni, sia normali che speciali; e quindi essa ha ritenuto di essere competente a giudicare anche dei ricorsi contro le sentenze dell’Alta Corte di giustizia.

Qui non voglio fare delle critiche su quello che sia stato il giudizio. Certamente c’è questa situazione: che l’Alta Corte di giustizia, come la stessa sentenza dice, non faceva che sostituire quell’Alta Corte di giustizia, che doveva giudicare dei senatori, come foro speciale.

Ricordo che, anche quando vigeva la legge del 1877 sui conflitti di attribuzione, abbiamo avuto il caso Nasi: la sentenza dell’Alta Corte di giustizia fu impugnata dalla Cassazione, la quale, malgrado l’esistenza della legge del 1877, non poteva essa giudicare dell’Alta Corte di giustizia, in quanto che quest’ultima era foro speciale di carattere giurisdizionale, ed anche politico, poiché assommava speciali caratteristiche: il giudizio si riversava non soltanto sulle figure di reato ipotizzate nella legge scritta, ma anche su quelle forme di reato politico, che noi costituzionalisti consideriamo al di fuori e al di sopra del diritto penale.

Ecco la ragione, per la quale l’Alta Corte di giustizia è stata sempre ritenuta al di fuori e al di sopra della possibilità di conflitto e di attribuzione di competenza.

La Cassazione ha ritenuto che questa giurisdizione speciale, che non era Alta Corte di giustizia, ma giurisdizione chiamata per l’epurazione di molti casi, compresi i senatori, rientrasse nelle sue attribuzioni; ed avendo stabilito questo principio di massima, ha esaminato i tre motivi che si prospettavano.

Uno dei motivi era che la legge del 1944 – sia quella precedente, che quella del 13 settembre successiva, che la completava nell’organo – fosse incostituzionale, perché avrebbe violato le disposizioni statutarie riguardanti l’istituto del Senato e, quindi, le prerogative dei senatori.

Su questo punto – e rispondo all’onorevole La Rocca – la sentenza ha dichiarato infondato il motivo, perché ha ritenuto che la legge del 1944, che era una derivazione della legge fondamentale del 25 giugno 1944, n. 151 (la famosa legge che attribuiva i poteri legislativi e i loro limiti e stabiliva quel che si sarebbe dovuto fare per la convocazione dei comizi elettorali e per la Costituente, allo scopo di creare il nuovo ordinamento costituzionale), legge che creò l’Alta Corte di giustizia e deferì ad essa il giudizio del senatore, non fosse incostituzionale. In fondo, da questo punto di vista, all’onorevole La Rocca, il quale dice che la Corte di Cassazione si è attribuito un potere di controllo costituzionale che non le compete, dovrei dire che la Corte di Cassazione non ha accettato questo punto di vista ed ha ritenuto, anzi, infondato il motivo del ricorso. La Cassazione ha invece ritenuto fondati gli altri due motivi, sotto il profilo del difetto assoluto di giurisdizione. Il primo motivo è che l’Alta Corte di giustizia avrebbe formulato delle ipotesi di reato e di penalità e di condotta dei senatori non previsti dalla legge del 1944. Non voglio entrare nel merito, ma debbo dire che questa fu la tesi, cioè che avesse l’Alta Corte di giustizia giudicato su ipotesi non previste dalla legge. Spetta ai giuristi il considerare se questo difetto di giurisdizione è una violazione di legge.

Il secondo motivo è che vi sarebbe stato un difetto di motivo in fatto e in diritto, anche questo ipotizzato come difetto assoluto di giurisdizione. Questo si potrebbe prestare a delle critiche, perché il difetto di motivazione non è un difetto di giurisdizione, ma è anzi il contrario, perché se il giudice riconosce che vi è difetto di motivazione, vuol dire che egli era competente a giudicare. Per questi due motivi, avendo ritenuto fondato il ricorso nel senso di un difetto assoluto di giurisdizione, la Corte di Cassazione ha annullato le ordinanze che condannavano questi due senatori. La cosa più grave è però che non c’è più un giudice di rinvio, perché l’Alta Corte di giustizia, che doveva giudicare di questa condotta politica dei senatori, è stata dichiarata incompetente. Non si tratta di reati, perché si esclude la figura del reato, in quanto il reato avrebbe avuto altre ipotesi e altre giurisdizioni: si tratta, invece, della condotta politica dei senatori. Questa condotta non avrebbe più il suo giudice e la sua giurisdizione. Queste le conseguenze pratiche e politiche a cui accenna l’onorevole Paolo Rossi. Mi pare di aver già detto, in occasione della discussione della legge elettorale, che il Governo ha studiato ed ha pronto, tanto che lo presenterà all’Assemblea, un disegno di legge in cui si dichiara soppresso il Senato e quindi si completa la legge 25 giugno 1946, la quale aveva detto che i senatori cessavano dalle loro funzioni. Questa legge era stata interpretata nel senso che i senatori cessavano dalle funzioni politiche, ma che conservavano le funzioni giurisdizionali. Ora, bisogna dire che il Senato è soppresso completamente: l’organo è decaduto, e decaduti sono i senatori da tutti i loro diritti e dalle loro prerogative. Con questo disegno di legge mi pare che si chiuda la questione, perché l’Assemblea è bene che tenga presente che ci sono i ricorsi di ben 183 senatori: quindi, se la Cassazione non modifica la sua sentenza, noi potremmo trovare a Palazzo Madama un altro Senato, proprio nel momento in cui stiamo discutendo della formazione del nuovo Senato della Repubblica. Il Governo non poteva fare più di questo, mantenendo quella che doveva essere nella divisione delle funzioni dello Stato, l’insindacabilità e la sovranità degli organi giurisdizionali, ma, d’altra parte, provvedendo con quei rimedi, a cui certamente dal punto di vista politico dobbiamo ottemperare, in modo da mettere una pietra sepolcrale sul passato, edificando il nuovo Senato della Repubblica italiana. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole La Rocca ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LA ROCCA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, non sono in alcun modo sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Ministro della giustizia; e prego il Governo e l’Assemblea di seguirmi, per una questione quanto mai delicata e, a mio modo di vedere, non lieve, che dev’essere risoluta in una maniera chiara e netta, una volta per sempre.

Si tratta di stabilire se la Corte di cassazione è soltanto un organo giurisdizionale, tenuto ad osservare la legge, che vale per tutti, e perciò anche per il Supremo Collegio, o, se, da organo giurisdizionale può diventare, con un colpo di testa, essa stessa fonte di diritto e invadere il campo del potere legislativo.

Ed ecco i fatti.

PRESIDENTE. Le raccomando di osservare il tempo accordato per le interrogazioni. Desidererei che tutte le interrogazioni all’ordine del giorno si potessero svolgere.

LA ROCCA. Il legislatore, subito dopo la liberazione di Roma, si trovò di fronte al problema delle sanzioni contro i delitti fascisti, e vi provvide col decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, nel quale si preoccupò della composizione delle Camere legislative e, in particolare, del Senato, ancora in vita, disponendo, all’articolo 8, che l’Alta Corte di giustizia, senza pregiudizio delle altre sanzioni, decidesse sulla decadenza di quei membri che, con i loro voti e atti, contribuirono al mantenimento del regime fascista e a rendere possibile la guerra. Con successivo decreto legislativo (13 settembre 1944, n. 198) furono dettate le norme per regolare i procedimenti di decadenza, alla stregua di criteri particolari, che non hanno nulla di comune con i principî generali del Codice di procedura penale, a cui il Supremo Collegio ha voluto richiamarsi nella sua sentenza 9 giugno-9 luglio 1947, zoppa e perciò claudicante. Si richiedeva, infatti: 1°) una previa richiesta dell’Alto Commissario per le sanzioni; 2°) la notifica di tale richiesta agli interessati; 3°) la facoltà d’indagini e di udire i prevenuti; 4°) l’ordinanza in camera di Consiglio, per la dichiarazione di decadenza; 5°) il divieto di ogni mezzo d’impugnazione contro le vertenze e gli altri provvedimenti dell’Alta Corte. Si trattava, volutamente, di un procedimento semplice e rapido, spoglio di qualsiasi pesantezza e formalità: senza pubblici dibattiti, né contestazioni, né motivazioni, né ricorsi, né appelli, che avrebbero prolungato all’infinito l’attività dell’Alta Corte, intralciando o impedendo l’opera di risanamento politico che si voleva ottenere.

I senatori che, ritenendosi lesi nei loro diritti politici dalle ordinanze dell’Alta Corte, avevano già tentato di far valere le loro ragioni dinanzi alla Corte Suprema, e impararono dalla decisione del gennaio 1946 delle sezioni unite penali che le ordinanze dell’Alta Corte avevano una fisonomia diversa da quella delle sentenze, che si trattava non di reazioni di giustizia, ma di provvedimenti diretti alla difesa dello Stato, di misure preventive nella sfera costituzionale, per scopi decisamente politici, volte a salvaguardare l’ufficio – e, nel caso concreto, un ramo del Parlamento – dalla presenza o dalla partecipazione di persone non idonee o nocive o indegne, si attaccarono all’uncino di altri cavilli e produssero ricorso avanti le sezioni unite civili del Supremo Collegio, a difendere la loro situazione giuridica personale, non solo per la decadenza dalla carica con la perdita di garanzie di carattere costituzionale, ma per gli effetti e le incisioni sulla capacità civile.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. L’ho già detto.

LA ROCCA. Si badi bene; i ricorrenti allegarono e denunziarono, essenzialmente, il difetto assoluto di giurisdizione dell’Alta Corte, derivato dalla premessa che le disposizioni di cui agli articoli 2, 8 e 42 del decreto legislativo 18 settembre 1944, mancavano di forza di legge, per avere il Governo, con l’emanazione di tali norme, superato i limiti dell’investitura legislativa, alla stregua del decreto legislativo 24 giugno 1944, n. 151 (con cui, appunto si attribuiva al Governo, in via straordinaria e transitoria, una competenza legislativa), modificando la composizione del Senato, le condizioni del suo funzionamento e sopprimendo le garanzie statutarie e le prerogative dei senatori.

Il Supremo Collegio, per aver modo di intervenire in un campo che gli è vietato, ha affermato il principio, che, in caso di gravami, con i quali si denunzia il difetto assoluto di competenza e di giurisdizione, non è ammissibile né concepibile la sottrazione della pronunzia al controllo della Corte di Cassazione, cioè della Corte regolatrice delle competenze e delle giurisdizioni.

Il Supremo Collegio, torcendo, in concreto, il diritto formale e quello sostanziale e facendo, come spesso accade nelle aule giudiziarie, della casistica disseccata un ponte per giungere alle soglie della dialettica, ha adoperato un criterio di grandissima larghezza nell’interpretare le norme sui termini a ricorrere, spaccando i capelli in quattro sulla comunicazione e sulla notificazione, per consentire a tutti i senatori, dichiarati decaduti, di rifugiarsi quando vogliono, nel mantello della misericordia del Supremo Collegio; ha insistito con una lunga disquisizione sulla mancanza di motivazione delle ordinanze, motivazione non richiesta e non necessaria per provvedimenti che miravano, con un giudizio politico, non sindacabile, ad eliminare dal Senato persone incompatibili; e, in ultima analisi, si è servito di tutti questi appigli formali, per creare, con nebbie di procedura, sotto la specie della irregolarità di notifica e del difetto di motivazione, un paravento per l’accoglimento del motivo principale e fondamentale sul vizio di incostituzionalità della legge e, quindi, delle norme sull’Alta Corte e sulla decadenza dei senatori.

E qui la faccenda diventa seria, perché si assiste, ancora una volta, all’arbitrio e all’ardimento con cui il Supremo Collegio inclina a trascendere i limiti della sua funzione istituzionale.

È vecchia la controversia sull’ammissibilità di un sindacato in sede giurisdizionale sull’assunzione da parte del Governo del potere di emanare norme aventi piena efficacia di legge. Ma essa è stata risolta e definita proprio con una legge che attribuisce, in dati casi e su determinate materie, la facoltà al potere esecutivo di emanare norme giuridiche.

Del resto, la dottrina è concorde al riguardo; e basterà ricordare, per tutti, il pensiero di un grande maestro, di Mortara, il quale ha sempre sostenuto che la funzione giurisdizionale non ha alcuna legittima ingerenza nei rapporti politici tra il Parlamento e il Gabinetto; ed ha affermato, quindi, l’incompetenza dell’autorità giudiziaria a negare la costituzionalità dell’esercizio della straordinaria funzione legislativa assunta dal Governo.

Questa è la direttiva a cui si sono informate in Italia la giurisprudenza e la dottrina: direttiva tradotta infine in una disposizione di legge. Come può dunque la Magistratura considerarsi oggi investita di un potere che prima riteneva interdetto e che, di fatto, le è negato? Non certo per la circostanza, che, sciolta la Camera con il decreto legge del 2 agosto 1943, n. 705, doveva considerarsi trasferita al potere giudiziario quella funzione, caratteristicamente ed esclusivamente politica, di controllo sul potere esecutivo, nell’esercizio della potestà legislativa, come su ogni sua attività di Governo.

Ma la Corte di cassazione, cedendo alle suggestioni dei ricorrenti, ha compiuto un tipico eccesso di potere, una vera invasione nella sfera di attribuzioni, che è propria del legislativo.

L’articolo 4 del decreto-legge n. 151 – sul cui carattere costituzionale non è possibile sollevare dubbi – riconosce al Consiglio dei Ministri la piena facoltà di deliberare, senza limitazione di materia, i provvedimenti che hanno forza di legge, finché non sarà costituito il nuovo Parlamento.

Su quale base può poggiare una questione di incostituzionalità di una legge emanata dagli organi che, in una fase transitoria della vita italiana, sono chiamati a formarla: cioè, il Consiglio dei Ministri e il Capo dello Stato?

Ripeto e insisto. L’articolo 9 del decreto n. 198 escludeva contro le sentenze e gli altri provvedimenti dell’Alta Corte qualsiasi mezzo d’impugnazione. Il Supremo Collegio ha creduto, invece, di poter intervenire, proclamando l’esistenza di un eccesso di potere giudiziario e di un assoluto difetto di giurisdizione.

È incredibile – e preoccupa ed allarma – la baldanza con cui il Supremo Collegio intende i limiti e il contenuto delle sue facoltà.

Il legislatore vieta, in taluni casi, ogni ricorso e, perciò, anche il sindacato della Corte di cassazione; ma la Corte non osserva la legge e si ritiene egualmente investita.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Le ho già spiegato…

LA ROCCA. Lei non ha spiegato niente. E vorrei che ella, onorevole Ministro, si rendesse conto che, di questo passo, un giorno o l’altro la Cassazione scuoterà, con una sentenza, il suo seggio ministeriale e contesterà la legittimità delle sedute di quest’Assemblea. In altri termini, tutto può essere messo in discussione e in gioco.

La Corte di cassazione ha violato e seguita impunemente a violare la legge. Lo ha fatto in tema di giudizi e sentenze per delitti fascisti; lo ha fatto in tema di decisioni del Consiglio di Stato, decisioni che pure sono escluse dal riscontro di legittimità della Corte di cassazione.

PRESIDENTE. Onorevole La Rocca, concluda.

LA ROCCA. Concludo. Lo ha fatto a proposito delle ordinanze dell’Alta Corte: cioè, in un caso in cui la questione, per la lettera e lo spirito del decreto, non poteva dar luogo a dubbi di sorta. Al tempo fascista, si disse che conveniva resistere alla dittatura. Oggi, la dittatura è crollata; e il problema si pone nettamente in questi termini: quando la legge esclude rimedi giurisdizionali, questa legge deve avere, o no, valore anche per la Corte Suprema, o questa è autorizzata a mettersi al disopra degli altri poteri dello Stato e diventare arbitra della norma di condotta della Nazione? Né accade parlare di tutela dei diritti dei cittadini.

Non si comprende come, nello Stato moderno, possano esistere diritti, se il legislatore non li concede o esplicitamente li nega.

Sorge, inoltre, il quesito, se il legislatore sia libero o no di creare giurisdizioni speciali, per motivi di alto valore sociale, o per superiori interessi nazionali…

PRESIDENTE. Onorevole La Rocca, concluda.

LA ROCCA. …o con procedimenti speciali, più snellii e meno formalistici, senza che la Corte di Cassazione si levi a giudice degli atti del Governo, invadendo il terreno del potere legislativo. Questa è la questione. Non mette conto dilungarsi in commenti, che, di necessità, dovrebbero essere molto amari e molto aspri.

È ancora viva l’eco per lo sgarbo usato, in una circostanza solenne, da un alto rappresentante della Corte nei riguardi dell’attuale Capo dello Stato che, oltre ad essere un servitore devoto del Paese, rappresenta il fiore e il vertice dell’avvocatura in Italia, a cui, se non altro, la Corte Suprema dovrebbe un minimo di rispetto.

Adesso, con una sentenza, contorta e claudicante, si è inteso di vibrare un colpo all’opera dell’Alta Corte e di minare una legislazione volta a tutelare la democrazia antifascista. Potrebbe non apparire infondato il sospetto che il Supremo Collegio si proponga di compiere un’opera di talpa alla base del regime repubblicano.

Questo non può essere in alcun modo sopportato.

Riconosciamo che il Supremo Collegio…

PRESIDENTE. Non è ammissibile quello che lei sta facendo, onorevole La Rocca! La invito a concludere.

LA ROCCA. …è investito di ampi poteri per il rispetto della legge e per il controllo delle giurisdizioni. Ma ci auguriamo che esso, sull’esempio della Corte federale americana, che pure è fornita di potestà quanto mai estese, s’inspiri, nell’esercizio delle sue funzioni, a quel senso di moderazione e di autocontrollo, che deve trovarsi alla base dei rapporti tra legislazione e giurisdizione e dei rapporti fra le varie giurisdizioni.

In caso contrario, tutto l’ordinamento giuridico è sconvolto e la Corte di cassazione minaccia di diventare, a poco a poco, uno Stato nello Stato. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Devo dire ai colleghi che quando si tratta di questioni di grande importanza, come quelle svolte dall’onorevole La Rocca, è bene presentare interpellanze, non interrogazioni, perché l’interrogazione importa solo la possibilità di fare osservazioni sulla risposta del Ministro. Si deve, poi, tener conto del diritto di tutti i colleghi a svolgere le loro interrogazioni. Chi parla più di cinque minuti sottrae ai colleghi il tempo necessario per esercitare il proprio diritto. Lo dico perché questa è la regola.

L’onorevole Rossi Paolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ROSSI PAOLO. Io prenderò per me l’ammonizione l’atta dall’onorevole Presidente…

PRESIDENTE. …è il Regolamento, è il buoncostume parlamentare.

ROSSI PAOLO. …e parlerò brevissimamente per dire che non sono d’accordo con l’onorevole La Rocca in un punto soltanto: quando egli dice che questa attitudine della Cassazione ad intervenire là dove non dovrebbe intervenire non è nuova.

Caro La Rocca, è nuova; è nuova perché son passati ventitré anni durante i quali la Corte di cassazione non ha mai avuto il coraggio (Applausi a sinistra) una volta sola di giudicare il ricorso di un infelice condannato da una magistratura speciale. Ne abbiamo avute magistrature speciali di tutti i generi, e ne abbiamo avute anche da ultimo di quelle atroci, con atroci sentenze, nel periodo repubblichino, e la Corte di cassazione, che è presa in questo momento da questa smania di legittimità, non ha mai trovato in sé l’energia necessaria per fare un gesto che assomigliasse lontanamente a quello testé compiuto! Adesso, ad onore della Repubblica, è facile compiere un gesto siffatto, mentre allora, a disdoro di quel Governo, si incontravano delle ostilità che non erano soltanto verbali e si correva il rischio della destituzione. La Corte Suprema (per la quale ho il massimo rispetto come istituto) non ha dato una prova di coraggio né adesso né allora: il coraggio troppo facile, non è una forma di coraggio rispettabile!

Detto questo, onorevole Ministro della giustizia, posso dichiararmi sodisfatto della sua risposta.

Ma, se Ella mi consente, vorrei, giacché siamo in tema di domande, dirle: ella non è contento della nostra interrogazione? Non le ha fatto piacere, onorevole Ministro della giustizia, che le sia stata offerta l’occasione di esprimere una libera critica contro la sentenza della Corte di cassazione e, soprattutto, di dichiarare solennemente ciò che il Paese aspettava, che quella sentenza non costituisce una minaccia contro l’ordine repubblicano e che il Governo ha pronto nel suo cassetto un provvedimento che taglia nettamente la questione e dichiara il Senato decaduto da tutte le sue funzioni?

Lasceremo aperta la «buvette» (nemmeno quella, dice un collega!), ma escluderemo la possibilità dell’Alta Corte costituzionale, sopprimeremo la possibilità teorica dell’auto-convocazione di un organo morto.

E adesso mi pare inutile abusare del tempo e varcare i cinque minuti per riprendere una critica specifica della sentenza della Cassazione. Dopo quello che il collega La Rocca ha detto così bene e con tanto impeto, mi pare che si potrebbe aggiungere una sola osservazione, che è questa: se è vero (e la Corte di cassazione l’ha riconosciuto per implicito) che si trattava di una decisione, di un’ordinanza, di una sentenza (chiamiamola come volete) non impugnabile, l’annullamento di tale decisione per insufficienza di motivazione è una contraddizione in termini, perché le sentenze che non sono impugnabili basta che siano sommariamente motivate. Occorre che il giudice svolga ampiamente i motivi, quando la sentenza è per sua natura soggetta al controllo di un secondo giudice. Ma quando questo controllo non è né previsto né possibile, perché è esclusa l’impugnazione, è evidente che bastano dei motivi puramente sommari. Io ho letto quella sentenza: è una sentenza faziosa; è una sentenza pretestuosa ed è bene che il rappresentante del Governo, che il Ministro della giustizia abbia potuto esprimere una parola di critica. È bene che nel Parlamento una censura si sia levata. Decida liberamente e irrevocabilmente la Cassazione, ma sui motivi, sull’opportunità morale, sul valore politico, sul valore dottrinale, sul valore scientifico di una sentenza decidono le Assemblee, decidono i popoli.

Tante volte la Corte di cassazione ha fatto delle cattive sentenze; questa volta ne ha fatto una pessima. Ed era diritto nostro, diritto dei giuristi, diritto degli uomini politici, diritto della storia dire che quella sentenza, che non si può impugnare, è una cattiva azione, e spero che la cattiva azione sia rapidamente paralizzata dall’annunziato provvedimento di legge.

E nel dichiararmi ancora una volta sodisfatto delle dichiarazioni del Ministro, dirò che la mia soddisfazione sarà attuale e completa, invece che essere una speranza di soddisfazione, quando questo decreto, che per ora viene annunziato, sarà stampato e distribuito alla Camera in maniera che questa lo possa immediatamente approvare.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Martino Gaetano, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere se non reputi opportuno revocare la disposizione in base alla quale è fatto obbligo alle amministrazioni universitarie di versare al Tesoro, a partire dal prossimo anno accademico, l’importo della sopratassa speciale di iscrizione, incamerata negli anni passati dalle stesse università in virtù dell’articolo 30 del decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 238: disposizione che aggrava ulteriormente le già gravi condizioni finanziarie degli istituti di cultura superiore».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. L’onorevole Martino sa che la sopratassa speciale è stata istituita con decreto legislativo 21 giugno 1938 e legge successiva 16 marzo 1942.

Io mi permetto richiamare l’attenzione dell’onorevole interrogante sopra la finalità di questa sopratassa annuale di iscrizione. La finalità è in maniera chiara precisata nella legge, cioè si tratta di creare un fondo che permetta di venire incontro alle particolari necessità di certi determinati bilanci universitari, e, quindi, integrare i bilanci delle università che sono particolarmente deficitarie. Di questa disposizione hanno naturalmente beneficiato le università minori ed in certo senso ne hanno sopportato il peso le università maggiori. Cito solamente un caso, cioè quello dell’università di Messina. L’università di Messina nel 1940-1941 ha incassato come sopratassa speciale annua di iscrizione 350 mila lire ed ha avuto dal Ministero 450 mila lire. Così nell’anno scolastico 1941-42 l’incasso dell’università di Messina è stato di 742 mila lire, mentre il Ministero aveva assegnato alla stessa università un milione e 700 mila lire. Quindi un milione di più di quello che è stato il provento della tassa straordinaria. Perciò mi pare che soprattutto bisogna tener presente queste finalità. Non è che la tassa venga incamerata nel bilancio del Ministero della pubblica istruzione o del tesoro, ma viene incassata al fine di essere messa a disposizione delle università che hanno particolari necessità. In un certo senso è una specie di cassa di compensazione con la quale le università maggiori, che dovrebbero essere quelle che dovrebbero lamentarsi, vengono in aiuto alle università minori più bisognose. Ora, nel 1945, con decreto-legge 5 aprile, si consentì alle università di incamerare questa sopratassa; e ciò fu stabilito per esigenze di carattere bellico, essendo impossibile agli organi centrali di prelevare la tassa stessa. Però la legge del 1945 stabilì pure che la legge del 1938 dovesse valere fino ad un anno successivo al termine della guerra. Quindi col prossimo anno si dovrebbe ritornare alla normalità, cioè alla devoluzione allo Stato dell’incasso della tassa stessa.

L’onorevole interrogante è di opinione che sia più opportuno – egli dice – lasciare la tassa al bilancio universitario, perché se noi applicassimo la legge del 1938 – conclude la sua interrogazione – si avrebbe un aggravio ulteriore delle gravi condizioni finanziarie degli istituti di cultura superiore. Io dico sinceramente che questo aggravio, di fatto, non c’è, perché ciò che deriva al bilancio della pubblica istruzione da questa sopratassa viene restituito alle università stesse proporzionalmente ai rapporti specifici delle singole università. Quindi, per questa ragione, salvo che la risposta dell’onorevole interrogante non metta in rilievo altri aspetti da me non conosciuti né conosciuti dagli uffici, non si vede la necessità di revocare la disposizione del 1938; e quindi si vede la necessità di restare alla legge del 1945 che prevede ad un anno dalla fine della guerra il ritorno alla normalità. Comunque, se si dovessero introdurre modificazioni, l’onorevole interrogante sa che è necessario sentire il parere del Tesoro, non essendo esclusivamente competente il Ministero della pubblica istruzione.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARTINO GAETANO. Le precisazioni del Ministro sono sostanzialmente esatte. C’è solo una piccola inesattezza, che io mi permetto di rilevare, ed è questa: lo scopo della sopratassa speciale di iscrizione istituita nel 1938 non era soltanto quello di costituire un fondo per integrare i bilanci delle università meno abbienti, ma anche quello di fornire i mezzi al Comitato centrale per le opere universitarie affinché venissero sovvenzionate le opere culturali, politiche e sportive dei gruppi universitari fascisti (G.U.F.). Questi gruppi universitari fascisti oggi non esistono più: esistono attività sportive degli universitari esercitate dai cosiddetti C.U.S. (Centri universitari sportivi); ma queste attività sportive sono ora finanziate mediante una speciale tassa, istituita ad iniziativa del Ministro Gonella (200 lire annue pagate da tutti gli universitari). Orbene, se lo scopo dovesse restare esclusivamente quello di distribuire alle università, in misura diversa a seconda delle loro deficienze di bilancio, questa sopratassa speciale d’iscrizione che tutte le università incassano, io non vedo come oggi si potrebbe sostenere che il mantenimento di questo provvedimento sia, nelle attuali condizioni, opportuno. Una volta, solo alcune università erano deficitarie, solo alcune avevano un bilancio che doveva essere integrato dallo Stato: oggi lo sono tutte. Oggi le grandi università sono più povere delle piccole: pretende forse l’onorevole Ministro che le piccole università contribuiscano ad integrare i bilanci delle grandi? Ripeto: oggi tutte le università si trovano in condizioni di bilancio assolutamente deplorevoli. Ed il perché è evidente: il costo della vita è aumentato in media 47 volte; le tasse sono aumentate 4 volte, rispetto all’anteguerra. Non c’è bilancio universitario che possa reggere in queste condizioni. L’onorevole Ministro, rispondendo in altre occasioni a interrogazioni e ed interpellanze su questa materia, ha più volte insistito sull’opera che il Governo ha inteso svolgere finora ed intende svolgere nell’avvenire, per venire incontro agli istituti di cultura superiore; ed ha particolarmente sottolineato il fatto che si è quintuplicato il contributo dello Stato alle università: provvedimento importante, il quale crea aggravio al bilancio dello Stato. Orbene, poiché l’onorevole Ministro ha voluto citare l’università di Messina, come esempio, ad essa anch’io mi riferirò e dirò che la quintuplicazione del contributo dello Stato ha portato la cifra di 700.000 lire, quale era prima della guerra, a 3 milioni e mezzo per quella università, mentre il versamento allo Stato di questa sopratassa speciale di iscrizione rappresenterebbe oggi 12 milioni di lire. È così che voi volete aiutare le nostre università? Da un lato quintuplicate il contributo e ci date 3 milioni e mezzo all’anno, dall’altro pretendete un versamento di 12 milioni di lire?

Dice l’onorevole Ministro: ci sono due esempi – due soli però, onorevole Ministro! – negli anni passati, nei quali l’università di Messina ebbe più di quello che versò. Io non intendo fare qui la questione specifica dell’università di Messina. Se pure il Ministro mi avesse nella sua risposta garantito, con una promessa formale, che l’università di Messina riceverà a suo tempo dal Ministero più di quello che verserà, io manterrei lo stesso il mio punto di vista: perché è questione di ordine generale. Oggi tutte le università, lo ripeto, sono in condizioni disastrose; ed il disastro è aggravato dal fatto paradossale che esse ancora devono fare da banchieri allo Stato. Le università ricevono i rimborsi con velocità incomparabilmente minore delle spese, cosicché per esempio una non grande università, come quella di Messina, è creditrice dello Stato per 46 milioni di lire.

Io prego l’onorevole Ministro di voler riconsiderare la cosa. Se lo scopo del suo provvedimento è quello di ridistribuire queste somme alle università, ebbene in tal caso si lasci alle università stesse il provento della sopratassa speciale di iscrizione che incassano, almeno fino a quando tutte le università avranno bisogno, indistintamente, di essere aiutate.

Credo che altri scopi non possano esserci. Non è concepibile che il Ministro si proponga di finanziare le opere culturali, politiche o sportive dei comitati permanenti universitari o di altri centri studenteschi.

Spero che l’onorevole Ministro vorrà riflettere sulla questione ed adottare un provvedimento, che sia accolto dalle università con soddisfazione. Frattanto, in attesa dell’ulteriore decisione del Ministro, onestamente io devo dichiarare che la sua risposta non mi ha sodisfatto.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sansone, ai Ministri della marina mercantile e dell’interno, «per conoscere quali motivi hanno indotto a consentire la cessione di cinque metri della banchina di Pozzuoli (larga in quel punto solo 10 metri) al parroco della chiesa di Santa Maria delle Grazie, per l’ampliamento della detta chiesa, quando non è stato ancora possibile l’ampliamento delle banchine di quel porto così importante per il traffico del medio e piccolo tonnellaggio. Per conoscere, altresì, per quali ragioni il prefetto di Napoli – a seguito dell’ordinanza del comune di Pozzuoli, che ingiungeva al parroco di sospendere i lavori – invitava il sindaco a revocare l’ordinanza stessa, ed al rifiuto di quest’ultimo impediva che gli fosse data esecuzione coattiva, consentendo così la continuazione della costruzione, mentre nella popolazione di Pozzuoli cresce la disoccupazione per la poca attività del porto, dovuta alla sua scarsa ricettività».

L’onorevole Ministro della marina mercantile ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Con domanda 22 gennaio 1946 il parroco della Chiesa di S. Maria delle Grazie chiese di acquistare un suolo demaniale marittimo della superficie di metri quadrati 83,20, situato sulla banchina del porto di Pozzuoli, per ampliare l’abside della chiesa gravemente danneggiata per eventi di guerra e costruire un fabbricato da adibire ad opere di assistenza e di culto.

L’Ufficio circondariale marittimo di Pozzuoli e la Capitaneria di Napoli espressero parere favorevole all’accoglimento della richiesta, nella considerazione che la vendita del suolo – già del resto sottratto ai normali usi del traffico perché a ridosso di fabbricati cittadini – data la sua ubicazione e limitata estensione, non poteva apportare alcun pregiudizio agli interessi marittimi e commerciali del porto. Parere favorevole espressero nel corso dell’istruttoria anche l’ufficio del Genio civile di Napoli e il Comando in capo del dipartimento marittimo di Napoli.

In considerazione dell’esito favorevole dell’istruttoria venne consentito l’inizio dei lavori ai primi del marzo 1947.

Con ordinanza 24 marzo 1947 il sindaco del comune di Pozzuoli sospese l’esecuzione dei lavori di cui trattasi.

La Capitaneria di Napoli comunicava al sindaco che, trattandosi di concessione di demanio marittimo, non era possibile riconoscere efficacia ad un ordine dell’autorità municipale.

L’Avvocatura distrettuale dello Stato, investita della questione, con lettera diretta alla Prefettura di Napoli contestava la legittimità dell’ordinanza, faceva riserva di chiedere il risarcimento dei danni ed avvertiva il municipio di Pozzuoli che, stante l’arbitrarietà dell’ordinanza, veniva disposto per l’ulteriore corso dei lavori perché il Genio civile – a cui cura i lavori stessi venivano eseguiti – aveva rilevato che la loro sospensione avrebbe provocato gravi danni.

Ciò malgrado, il 20 maggio ultimo scorso il sindaco di Pozzuoli inviava sul posto il capo dei vigili urbani, con una decina di uomini, con l’ordine di far sospendere i lavori. Il comandante del porto di Pozzuoli, avvertito dal fatto, si metteva in comunicazione telefonica col sindaco e fattagli rilevare l’arbitrarietà dell’ordine dato, lo invitava a revocare l’ordine stesso. Essendosi il sindaco rifiutato di aderire all’invito ricevuto, il comandante del porto di Pozzuoli, intimava ai vigili municipali di allontanarsi dalla banchina.

Essendosi i vigili allontanati, i lavori potevano essere ripresi.

Il giorno 31 maggio si presentava alla Capitaneria di Napoli un funzionario di quella Prefettura per avere chiarimenti circa la questione. Avute le informazioni del caso assicurava che si sarebbe recato a Pozzuoli per definire la vertenza facendo comprendere a quel sindaco l’arbitrarietà del suo operato. Questo nel fatto.

Nel merito della questione si conferma che, in base alla istruttoria esperita dall’Autorità marittima, deve ritenersi escluso che dalla vendita del suolo e conseguente costruzione su di esso di opere murarie, possa derivare alcun danno al traffico del porto di Pozzuoli. Per quanto attiene, infine, all’accenno sulla disoccupazione del centro di Pozzuoli, occorre tener presente che la scarsa attività di quel porto non dipende da insufficienza della banchina, ma da mancanza di traffici e che i lavori di costruzione progettati dal parroco di Santa Maria delle Grazie possono assorbire mano d’opera per un certo periodo di tempo.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SANSONE. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io non sono sodisfatto, non per ripetere una frase di rito, ma per la sostanza delle cose. Il fatto l’ha precisato l’onorevole Ministro. Emerge da esso che il Ministero della marina mercantile, anziché preoccuparsi di ricostruire e di rendere più ricettivo e comunque di ampliare il porto di Pozzuoli e di aiutare i sei o settemila disoccupati che non trovano lavoro, ha pensato di ridurre la banchina, larga in quel punto solo dieci metri, a cinque metri, per ampliare la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Questa, la sostanza. Che ci sia stata un’indagine e si sia eseguita un’istruttoria è altro argomento.

È certo però che il Ministero della marina mercantile, anziché occuparsi e preoccuparsi dell’efficienza del porto, l’ha trascurata, preoccupandosi solo ed invece dell’ampliamento della chiesa danneggiata dalle incursioni aeree avvenute su Napoli e dintorni.

Il sindaco venuto a conoscenza dell’inizio dei lavori ebbe a provocare un’ordinanza di sospensione dei lavori stessi fondata su due elementi: il primo del danno che ne ricavava e ne ha ricavato la sua città…

Una voce al centro. Ma che danno!

SANSONE. C’è il danno. La banchina è di dieci metri e se da dieci metri se ne tolgono cinque, vi è un danno effettivo. Qui non vi è un problema di fazione o un problema antireligioso, ma vi è un problema di danno effettivo al porto. Ed è su questo punto che il Ministro non mi ha risposto.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Le ho detto che gli uffici tecnici sono di parere contrario al suo, perché trovano che la disoccupazione è in relazione alla mancanza di movimento del porto.

SANSONE. Le dico che il movimento non c’è perché la banchina non è ricettiva.

Comunque, dicevo, che a questa prima colpa del Ministero della marina mercantile se ne aggiunge una seconda, perché quando il sindaco di Pozzuoli, interpretando la necessità della sua città, ha fatto un’ordinanza di sospensione dei lavori, fondata su due motivi: il primo perché non aveva avuto conoscenza dei lavori stessi, il secondo perché non vi era la licenza comunale edilizia necessaria per l’inizio della costruzione, si è visto intralciata la sua opera proprio da quell’organo di tutela che è la Prefettura, in quanto essendosi rivolto al commissario di pubblica sicurezza perché fosse data esecuzione all’ordinanza di sospensione dei lavori, il commissario ebbe a rifiutarsi affermando che il Questore gli aveva telefonato di non occuparsi di questa faccenda. Quindi, il sindaco non ha avuto l’ausilio della pubblica sicurezza per poter far sospendere i lavori, ed i lavori sono continuati e continuano tuttora. Così si verifica l’assurdo di un Ministero della marina mercantile che si preoccupa dell’ampliamento di una chiesa anziché dell’ampliamento del porto, e di un Ministero dell’interno che si preoccupa di dare tutela non al sindaco di una città, ma ad un parroco che deve ampliare la sua chiesa.

Ecco i motivi sostanziali per i quali non posso essere assolutamente sodisfatto ed elevo formale protesta in nome della città di Pozzuoli.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Di Gloria, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere in base a quale criterio saranno formate le commissioni esaminatrici dei candidati al concorso di cui al supplemento n. 1 della Gazzetta Ufficiale n. 158, del 14 luglio 1947».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. I criteri di formazione delle Commissioni esaminatrici dei concorsi per le scuole medie non sono determinati dal Ministro, ma sono fissati da una serie di disposizioni legislative. Cito il decreto 9 dicembre 1936, n. 2480, il decreto 5 luglio 1934, n. 1185, il decreto 26 gennaio 1933, n. 153, il decreto 26 maggio 1942, n. 739. In queste disposizioni di legge si trovano i criteri relativi alla formazione delle Commissioni esaminatrici dei concorsi per le scuole medie.

In poche parole, i criteri sono i seguenti: vi è una nomina di cosiddetti commissari di maggioranza, cioè degli universitari, e questa nomina è fatta dal Ministro su designazione della Giunta del Consiglio Superiore. Questa designazione è stata già chiesta dal Ministero al Consiglio Superiore, e ritengo che la Giunta, riunendosi fra breve tempo, sarà in grado di designare al Ministro i nomi degli universitari che possono entrare nella Commissioni giudicatrici per i concorsi delle scuole medie.

Poi ci sono i cosiddetti Commissari di minoranza, cioè professori dell’ordine medio. Anche questi sono di nomina ministeriale, ma su designazione del Collegio degli ispettori centrali, cioè degli ispettori tecnici della scuola classica e tecnica. Anche questa designazione è stata chiesta, in data 25 luglio, all’organo competente.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Gloria ha presentato una seconda interrogazione al Ministro della pubblica istruzione «per conoscere i motivi in base ai quali sono stati introdotti nel bando di concorso di cui al supplemento n. 1 della Gazzetta Ufficiale n. 158, del 14 luglio 1947, i paragrafi 4 e 6 (comma d) ed il paragrafo 9 (comma 6°) evidentemente lesivi del buon diritto di ogni cittadino partecipante al concorso suindicato».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Comincio dal paragrafo 4. Non so se l’onorevole interrogante la lettera d) riferisca al paragrafo 6 o anche al paragrafo 4.

Comunque illustrerò il paragrafo 4 e le ragioni che hanno indotto il Ministero ad introdurre questo paragrafo nel bando di concorso.

Debbo fare una premessa: non vi è una parola nel paragrafo 4 che non sia citata da precedenti disposizioni di legge. Quindi da parte del Ministero nella formulazione dell’articolo 4 non c’è stata nessuna aggiunta, altro che delle ripetizioni di leggi attualmente vigenti, come posso senz’altro illustrare.

Questo paragrafo 4 dice che sono ammessi ai concorsi di esame determinate categorie di candidati. Però fissa una duplice limitazione. Questi candidati possono solo ottenere l’abilitazione o l’idoneità, cioè non possono partecipare al concorso di cattedra nelle scuole medie. Inoltre, questi candidati quando hanno ottenuto l’abilitazione o l’idoneità possono insegnare esclusivamente in scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica e quindi non in pubbliche scuole statali. Quindi, la duplice limitazione che è posta nel primo capoverso del paragrafo 4.

Chi sono coloro che possono trovarsi in queste condizioni?

La lettera a) fissa che possono concorrere a questa abilitazione coloro che sono in possesso di un titolo di studio avente pieno valore di abilitazione, cioè si tratta di lauree anteriori alla introduzione nella nostra legislazione dell’esame di abilitazione. Come l’onorevole interrogante sa, queste lauree in ogni caso (anche per gli altri bandi) vengono considerate lauree abilitanti, in quanto, non esistendo in quella epoca l’abilitazione, non poteva il candidato presentarsi alla abilitazione stessa. Dunque costoro che hanno queste lauree abilitanti possono presentarsi al fine di ottenere una abilitazione che possa raggiungere quei sette decimi che sono richiesti dall’articolo 30 della legge 19 gennaio 1942 che è espressamente citato in questo paragrafo.

Che cosa dice questo articolo 30 della legge 19 gennaio 1942? L’articolo 30 afferma che le scuole non statali per essere sedi di esame devono avere almeno la metà di insegnanti abilitati con sette decimi. È una garanzia che lo Stato richiede alle scuole non statali perché possano essere sedi di esame.

Ora, perché queste scuole possano avere insegnanti abilitati con almeno sette decimi, la lettera a) del paragrafo 4 permette agli abilitati con meno di sette decimi di sostenere un esame di abilitazione per ottenere l’idoneità, cioè l’abilitazione con sette decimi.

Faccio presente che tutto il paragrafo a) non è che la citazione integrale dell’articolo 30 della legge 19 gennaio 1942. Non è cambiata una virgola, cioè noi abbiamo riprodotto una disposizione vigente.

I paragrafi b) e c) si riferiscono all’articolo 40 del concordato: anche questi non sono che due paragrafi i quali riportano rispettivamente l’articolo 31 della legge 19 gennaio 1942, cioè si è inclusa nel bando di concorso una disposizione la quale è disposizione di legge vigente.

Anche in questo, da parte dei compilatori del bando, nessuna novità è stata introdotta.

Non so se citando la lettera d) l’onorevole interrogante si riferisca anche a questa lettera d). Penso che la questione possa sembrare apparentemente grave, per quanto riguarda la lettera d).

Anche qui devo fare la consueta premessa: si tratta della ripetizione letterale dell’articolo 38 della legge 19 gennaio 1942. Cioè, si ammette che coloro i quali per cinque anni hanno insegnato in scuole private – in cinque anni, però, che siano anteriori al 19 gennaio 1942, non successivi al 1942 – possono essere ammessi all’abilitazione. Naturalmente, anche qui, vi è una duplice limitazione, cioè vi è la limitazione relativa al tipo di scuole in cui questi possono insegnare (cioè possono insegnare esclusivamente in scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica) e vi è, poi, la limitazione rispetto alla materia, cioè possono essere abilitati solamente in quella disciplina che hanno insegnato per cinque anni, anteriormente al 19 gennaio 1942.

Io ho visto nei giornali varie obiezioni a proposito di questo articolo. Non so se l’onorevole interrogante tende a farsi interprete di queste obiezioni che sono già state prospettate dalla stampa stessa.

A questo proposito, dovrei rapidamente fare alcune precisazioni relative a questo articolo che ho riassunto. Intanto, questo articolo è nel bando dei reduci, perché evidentemente ci possono essere ecclesiastici che si trovino in quelle condizioni previste dal bando per i reduci, cioè che siano stati combattenti, reduci, partigiani o che, comunque, abbiano dovuto sospendere gli esami per cause dovute alla guerra; dunque è inserito in questo bando.

 Si può fare l’obiezione – ed è quella che è apparsa nella stampa –: l’articolo 38 (che sembra quello maggiormente controverso) appare nella legge del 1942 in un capitolo intitolato «Disposizioni finali e transitorie». Essendo nel titolo delle disposizioni transitorie, si può ritenere che la norma abbia una applicazione puramente transitoria, e questa mi sembra la questione più sottile relativa a questa materia.

Io dico che il capitolo parla di disposizioni finali e transitorie, il che significa che nel capitolo ci sono disposizioni finali – cioè quelle che non si possono raggruppare in altri capitoli – e disposizioni transitorie. Che vi siano disposizioni di questo duplice tipo è evidente: basta considerare l’articolo 38 e l’articolo 39, che viene immediatamente dopo. Infatti, l’articolo 39 dice:

«Nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della presente legge ecc.»; quindi, riguarda la sede degli esami. Questa norma, quindi, si applica esclusivamente nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della legge.

Ma l’articolo 38, che appartiene evidentemente alle norme finali, non contiene alcun accenno ad un limite di tempo nel quale può essere applicata la norma. Vi è, sì, un limite di cinque anni interno alla norma stessa; ma questo non è il limite di efficacia della norma, bensì una condizione che è posta a chi intenda partecipare al concorso. Chi intende partecipare al concorso deve avere il requisito dell’insegnamento per cinque anni, anteriormente al 19 gennaio 1942. Quindi, è un requisito che si chiede al soggetto partecipante al concorso; ma non è un limite di efficacia della norma stessa. Io non so se mi inganno, comunque l’onorevole interrogante potrà fare le sue contestazioni.

In ogni modo, se fosse una norma transitoria applicabile una tantum – come ho visto scritto in qualche pubblicazione – questa norma avrebbe dovuto essere applicata una volta sola; mentre, di fatto, è stata applicata due volte, in due differenti bandi di concorso, cioè nel bando pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 6 maggio 1942, n. 54, suppletivo al bando generale del 1941, ove appare l’articolo 38 tradotto in termini di bando. Inoltre, nel bando del gennaio 1943, appare ugualmente l’articolo 38. Vuol dire quindi che i precedenti legislatori hanno dato costantemente questa interpretazione; non si tratta quindi di una norma transitoria che dovesse essere applicata una tantum, ma di una norma destinata a continuare ad aver vigore sino a che dura la legge che la contiene. C’è poi una questione di carattere morale, ed è quella che riguarda il privilegio a favore di determinati concorrenti. L’interrogante stesso, anzi, se non erro, dice che tale privilegio lede i diritti dei cittadini: «evidentemente lesivi del buon diritto di ogni cittadino». Io non so: questo è un tema che può essere discusso. Ma a me importa precisare che io non sono andato oltre il mio dovere, in quanto ho inserito una norma che non poteva non essere inserita perché, se non lo fosse stata, gli interessati avrebbero potuto ricorrere per lesione di un loro buon diritto.

Comunque, qui bisogna tener presente che è lo Stato che esige qualche cosa; ed è precisamente l’esigenza di una garanzia: la garanzia cioè che gli insegnanti di queste scuole private son tenuti a fornire allo Stato sottoponendosi a quel determinato controllo. Comunque il bando è integralmente riprodotto, sotto questo riguardo, da quello del 19 gennaio 1943.

La seconda interrogazione dell’onorevole Di Gloria è quella che riguarda il paragrafo 6 nel quale, fra gli altri documenti che vengono richiesti al concorrente, figura anche il certificato di buona condotta morale e civile: non più politica, grazie a Dio. Orbene, esso non è che l’applicazione dell’articolo 1, paragrafo 3, del decreto sullo stato giuridico degli impiegati civili dello Stato. Esso infatti reca: «Per ottenere la nomina ad impiegato civile dello Stato è necessario soddisfare alle seguenti condizioni: aver tenuto sempre regolare condotta civile e morale – e qui diceva anche politica – da valutarsi a giudizio insindacabile dell’Amministrazione». E questa è una legge: se ne potrà proporre la modifica o l’abrogazione, ma, finché ciò non si sarà creduto di fare, è vigente e si deve applicare.

D’altronde io vedo che anche i miei colleghi che bandiscono concorsi per le loro amministrazioni adoperano esattamente le stesse parole. Questo dunque per quanto riguarda la buona condotta civile e morale.

Vi è infine l’ultima obiezione sollevata dall’onorevole Di Gloria. Essa è quella sulla quale soprattutto ha insistito la stampa. Si tratta dell’esclusione dal concorso su giudizio insindacabile del Ministro. Ma anche qui si tratta di una disposizione di legge che risale al 1908, mentre a me si attribuisce la paternità, e che deriva dall’articolo 1 del decreto-legge del 1923. Infatti, l’ultimo paragrafo dell’articolo 1 dice: «Il Ministro, con decreto non motivato e insindacabile, può negare l’ammissione al concorso». Nei bandi di concorso gli Uffici non fanno che tradurre ciò che è consuetudine, ciò che corrisponde, poi, ai termini della legge vigente. Quindi non so come io possa essere accusato della paternità di una cosa che non solo è resa obbligatoria dalla legge in vigore, ma d’altra parte è largamente diffusa in tutti i bandi di concorso.

Mi limiterò a citare qui il concorso del Ministero dell’industria e commercio – Ministro Morandi – (siccome si è fatta larga pubblicità sulla stampa circa i metodi fascisti che ancora sarebbero in vigore nell’amministrazione della pubblica istruzione, sento qui il dovere di fare anche delle citazioni, anche se queste, purtroppo, sono delle citazioni ovvie) – Gazzetta ufficiale 1947; in cui si dice: «Il Ministro dell’industria e del commercio, con decreto non motivato e insindacabile, può negare l’ammissione al concorso».

Concorso bandito dal Ministro Romita, Ministro del lavoro e della previdenza sociale, articolo 5 – pure nel 1947 –: «L’ammissione potrà essere negata con decreto ministeriale non motivato e insindacabile».

Concorso bandito dal Ministro Gasparotto – 1947 –: «L’ammissione potrà essere negata con decreto ministeriale non motivato e insindacabile».

Concorso bandito dal Ministro di grazia e giustizia, Togliatti, il quale all’articolo 6 dice: «Il Ministro può negare, con provvedimento non motivato e insindacabile, l’ammissione al concorso». Qui andiamo anche oltre, perché nella formula usata dal bando del Ministero della pubblica istruzione, si può escludere per demerito un candidato; qui, addirittura, si arriva a negare l’ammissione al concorso stesso.

Concorso bandito dal Ministero delle finanze, Ministro Scoccimarro, articolo 3: «Il Ministro delibera sull’ammissione dei singoli aspiranti al concorso». Anche qui, nessuna garanzia specifica è resa esplicita.

Così il concorso del Ministro Cattani; così l’ultimo concorso del Ministro Del Vecchio, di alcuni giorni fa: «L’ammissione potrà inoltre essere negata con decreto ministeriale non motivato e insindacabile».

Si tratta, quindi, di una cosa talmente ovvia che mi sembra inutile insistere ulteriormente su di essa.

Però qualcuno ha detto: perché non si fa cenno alla possibilità del ricorso al Consiglio di Stato, cui si faceva cenno dalla legislazione fascista (con quanta sincerità e con quanto senso di rispetto della legge, ognuno può facilmente comprendere!)?

Questo non è detto per una ragione molto semplice; non solo nei bandi del Ministero della pubblica istruzione, ma anche in tutti gli altri bandi che ho citato, di Ministri appartenenti a tutti i partiti, non si è mai fatto cenno alla possibilità del ricorso al Consiglio di Stato per una ragione molto ovvia: e cioè che il ricorso, vale a dire la possibilità di ricorrere, è sottintesa. Tanto è vero che c’è il testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato del 1924, il quale dice che l’interessato può sempre impugnare un provvedimento per vizio di legalità, violazione di potere, incompetenza, ecc., poiché è evidente che l’insindacabilità di un atto non esclude l’impugnabilità dell’atto stesso.

D’altra parte abbiamo discusso per quasi un anno con la Corte dei conti sugli aspetti formali di un così complicato bando di concorso, e la stessa Corte dei conti avrebbe certamente fatto presente se si fosse ricorso a leggi che non sono vigenti o se vi fossero state delle infrazioni, delle irregolarità o delle imprecisioni in queste norme finali.

Quindi, dico sinceramente, a meno che l’onorevole interrogante me lo dimostri con argomenti, che io forse non ho potuto prendere in considerazione, che non so quali siano quelle lesioni del buon diritto di ogni cittadino che egli crede di vedere nel bando del concorso.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Gloria ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI GLORIA. Prima di tutto ringrazio l’onorevole Ministro per le spiegazioni alquanto diffuse che ha voluto dare alla mia interrogazione. Devo però dichiarare la mia insoddisfazione per quanto egli ha detto.

È naturale che l’onorevole Ministro citi tutte quelle leggi cui si è ispirato per poter giustificare certe clausole e certe disposizioni che sono state introdotte nel bando di concorso e per suffragare anche il criterio in base al quale saranno formate le commissioni esaminatrici dei concorrenti a cattedre nelle scuole medie. Ma se anche l’onorevole Ministro si ritiene giustificato, io ho tutto il diritto, per lo meno, di fargli una raccomandazione, e cioè questa: che delle commissioni esaminatrici vengano a far parte uomini che seguono notoriamente i più svariati indirizzi filosofici, perché solo in tal modo si potranno dare ai concorrenti serie garanzie circa la valutazione dei loro meriti e delle loro insufficienze. Se domani i concorrenti si dovessero trovare dinanzi a commissioni esaminatrici composte da uomini di un solo colore e che seguono un solo indirizzo filosofico, è ovvio che potrebbe nascere in essi la presunzione di una certa ingiustizia compiuta a loro danno.

Mi permetto quindi di insistere su questa raccomandazione.

D’altra parte non ritengo una giustificazione plausibile quella di riferirsi a determinate leggi, specialmente a quelle fasciste (Interruzione dell’onorevole Tonello), perché penso che il Consiglio dei Ministri, ed anche il Ministro della pubblica istruzione, abbia la facoltà di modificare, sia pure con norme transitorie od eccezionali, tutto ciò che reputa lesivo dei principî democratici. È possibile infatti, a parte il dire che la facoltà del ricorso è sottintesa, è possibile infatti che il Ministro domani, utinam falsus vates sim, possa motu proprio escludere dal concorso anche tutti quegli individui i quali, a norma del concorso stesso, avevano tutto il diritto di parteciparvi.

Che egli poi non ritenga una lesione del buon diritto dei cittadini la facoltà concessa agli ecclesiastici ed ai religiosi, sprovvisti di laurea, di partecipare a questi concorsi, mentre tale possibilità è negata ai laici, qualunque corso di studi questi ultimi abbiano compiuto, mi sembra veramente inammissibile.

Afferma l’onorevole Ministro che questi religiosi, una volta conseguita l’abilitazione, non hanno la possibilità di insegnare nelle scuole laiche. Ma si può domani, con una disposizione complementare, autorizzare sempre questi ecclesiastici ad insegnare nelle scuole statali, mentre la possibilità di conseguire l’abilitazione all’insegnamento e di insegnare poi nelle scuole è tassativamente negata a tutti i laici, quale che sia il corso di studi da essi compiuto, se sprovvisti di laurea.

Dire che per questi ecclesiastici si richiede l’abilitazione al solo fine di dare maggiore decoro e consistenza alle scuole religiose, significa soltanto spostare i termini della questione controversa senza volerla risolvere in modo giusto.

Nei riguardi del comma d) del paragrafo VI e del comma 6° del paragrafo IX non trovo giustificante la spiegazione dell’onorevole Ministro, in quanto che mi sembra che un’amministrazione democratica non possa e non debba concedersi il potere di assumere informazioni nei riguardi dei concorrenti in modo insindacabile e con tutti i mezzi, e di riservarsi poi la possibilità di escludere dal concorso, anche dopo l’inizio delle prove o l’espletamento del concorso stesso, il candidato che non risultasse degno di parteciparvi.

Io domando: con quali mezzi l’Amministrazione richiederà queste informazioni? Non sono sufficienti le informazioni dei carabinieri e del sindaco? Evidentemente sarà necessario interrogare qualche altra ben nota persona! II certificato penale non sarà pure sufficiente?

Ma il più bello viene adesso. Il comma 6° del paragrafo IX dice testualmente: «Anche fuori dei casi previsti nei precedenti commi il Ministro può negare l’ammissione al concorso con decreto non motivato e insindacabile».

Tali parole non hanno bisogno di commenti!

Il Ministro ci dice: ma hanno fatto così anche Togliatti, Morandi e tutti gli altri Ministri quando si è dato luogo ad altri concorsi. In fondo non si fa che ispirarci a leggi ancora vigenti!».

Io credo che sarebbe molto più opportuno da parte di ogni Ministro, che vive nell’odierno clima democratico, di correggere, via via che se ne presenta l’occasione, tutte le disposizioni che sono chiaramente lesive del buon diritto del cittadino. Ora, il vederle accettate quelle disposizioni, così come sono, potrebbe corroborare il legittimo sospetto di coloro che affermano che nulla oggi è cambiato, rispetto al passato prossimo, tranne qualche elemento di pura forma governativa.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Guardi, però, che è del 1908; non è dall’epoca del fascismo che esiste questo principio.

DI GLORIA. Ma è una disposizione fortemente antidemocratica, e perciò il Consiglio dei Ministri o il Ministro interessato avrebbe potuto farsi parte diligente per modificare questo principio che urta in modo così evidente la nostra sensibilità politica.

Comunque, ringrazio l’onorevole Ministro per la spiegazione che ha voluto concederci e lo prego di fare di tutto perché almeno le nostre scuole di Stato, mi si perdoni la scherzosa iperbole, non diventino dei seminari.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Codacci Pisanelli, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per restituire il dovuto prestigio all’Istituto orientale di Napoli, riportandolo alla sua missione di custode, diffusore e incrementatore del patrimonio di cultura e civiltà, merito degli orientalisti italiani».

L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. L’onorevole Codacci Pisanelli certamente conosce la complicata storia dell’Istituto orientale, che risale al 1727 e che aveva la finalità di educare i giovani cinesi i quali venivano a contatto con la civiltà europea e dovevano poi farsi banditori della civiltà europea nell’Estremo Oriente.

Ora, tenendo presenti sia l’origine storica sia l’orientamento che l’Istituto orientale ha avuto negli anni anteriori alla guerra, si deve considerare, per venire immediatamente sull’argomento posto dall’onorevole interrogante, che l’attuale consistenza numerica della popolazione scolastica dell’Istituto orientale di Napoli è tale da farci pensare che sia particolarmente urgente un radicale riordinamento dell’Istituto stesso in base ad una chiara visione delle finalità che l’Istituto deve avere. Ed in particolare è da vedere se per raggiungere tale scopo, occorrerà una riforma istituzionale, che riconduca l’Istituto alle sue tradizioni unicamente orientalistiche, poiché l’Istituto orientale di Napoli praticamente al giorno d’oggi è soprattutto un istituto occidentale, per il fatto che invece di insegnarsi in esso le lingue orientali, l’insegnamento fu da prima semplicemente limitato ad alcune lingue occidentali e poi questo insegnamento è venuto sempre più aumentando fino ad assorbire tutta l’attività della scuola stessa.

Il Ministero della pubblica istruzione si è già interessato della questione, che è stata portata all’esame del Consiglio Superiore. Una volta conosciuto il parere dell’Alto consesso potranno essere messi allo studio i singoli provvedimenti da attuare. Nel frattempo il Ministero, al solo scopo di venire in possesso degli elementi per l’esame della situazione, ha sottoposto la questione ad un’apposita commissione nella quale figurano anche, oltre gli insegnanti universitari, un funzionario amministrativo e vari professori. La relazione predisposta da tale commissione contiene fra l’altro le seguenti proposte.

Questa è la parte positiva e costruttiva, poiché sulla critica facilmente potremmo spaziare in recriminazioni che lascerebbero il tempo che trovano. La parte costruttiva proposta dalla Commissione è:

1°) inclusione di un esame di ammissione ai corsi di laurea dell’Istituto, analogo a quello previsto dalle vigenti disposizioni per l’accesso ai corsi di laurea delle facoltà di magistero. Attraverso l’esame di ammissione si intende restringere la possibilità di inflazione studentesca dell’Istituto orientale. Con ciò si potrebbe raggiungere il duplice scopo di fronteggiare il preoccupante fenomeno della pletora di studenti e migliorare dal punto di vista qualitativo la preparazione e le attitudini della massa degli studenti stessi. A tal riguardo l’esame, se informato a criteri di serietà, potrebbe dare sicuro affidamento;

2°) aumentare al numero massimo possibile i lettori stranieri appartenenti ai Paesi le cui lingue vengono insegnate nell’Istituto. Si è notata una progressiva diminuzione di insegnanti stranieri di quelle lingue che vengono insegnate nell’Istituto; mentre l’esperienza di questi insegnanti stranieri è stata una esperienza veramente positiva;

3°) aumento delle cattedre di ruolo. Presentemente sono in organico solo sette posti, assolutamente inadeguati per la vastità dei compiti di questo Istituto universitario e per il numero della popolazione stessa;

4°) mantenimento della sospensione delle nuove iscrizioni al corso di laurea in scienze coloniali, che fu istituito per far fronte a esigenze che oggi risultano, per lo meno, sensibilmente ridotte.

A tal proposito è da tener presente che, su conforme avviso della Presidenza del Consiglio, è stata messa allo studio delle varie amministrazioni – e in alcune è già stata risolta in senso affermativo – l’ammissione ai varî impieghi statali dei portatori di questo titolo di laurea (scienze coloniali). Ciò appunto perché i laureati in scienze coloniali – se non fosse positiva la nostra proposta – non potrebbero trovare assorbimento in altre attività analoghe, perché non si vede un’analogia diretta in altri impieghi con questi particolari studi coloniali.

Con la soppressione dell’iscrizione a questo scopo, si potrebbe arrivare alla graduale soppressione del corso stesso.

Per quanto attiene l’aspetto finanziario della questione, la predetta commissione non ha fatto pervenire le sue conclusioni. Una volta a conoscenza di queste, sarà possibile esaminare se e quale maggior contributo potrà essere dato al bilancio dell’Istituto, naturalmente con l’assenso del Ministero del tesoro, in aggiunta al contributo annuo in atto, la cui misura, tenuto conto della quintuplicazione sancita da un provvedimento legislativo di recente applicazione, è di lire 750.000.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CODACCI PISANELLI. Ringrazio l’onorevole Ministro per l’esauriente risposta e per la dimostrazione dell’interessamento che egli ha per l’Istituto orientale di Napoli, dalle belle tradizioni e dal bel patrimonio!

Purtroppo, oggi, l’Istituto lascia a desiderare quanto a serietà di studi e a rigore di amministrazione. D’altra parte, come lo stesso onorevole Ministro ha osservato, esso si sta trasformando da istituto orientale in istituto occidentale!

Quanto alla serietà degli studi, si è potuto constatare, specialmente nel periodo bellico, allorché gli studenti dell’Istituto orientale erano ammessi a sostenere esami in altre università, come la loro preparazione fosse inadeguata e insufficienti i testi ad essi consigliati per lo studio delle varie discipline.

Come altro indice della poca serietà degli studi ricorderò l’episodio di un candidato alla laurea, ammesso a sostenere tale esame con deliberazione della Facoltà, benché non avesse sostenuto gli esami del quarto anno. Discusse una tesi di amarico. I membri della Commissione furono scelti in modo che nessuno di essi conoscesse l’amarico. Il relatore dichiarò di non conoscere tale lingua. Il candidato conseguì la laurea con pieni voti e la lode e con la pubblicazione della tesi, che fu pubblicata effettivamente con discredito dell’Istituto.

Aggiungerò, tuttavia, che si trattava del periodo bellico.

Ho accennato anche a scarso rigore nella amministrazione. L’Istituto è fornito di un patrimonio non indifferente, specie se paragonato ad altri istituti, con possibilità, quindi, di intensa attività. Qualche dubbio sorge, però, sulla economica gestione dei fondi.

Per esempio, negli anni trascorsi si è ricorso al «comando» anche per insegnamenti per i quali non sarebbe stato necessario. Faccio presente che, dal punto di vista amministrativo, il comando implica un onere notevole per l’Istituto: affidando l’insegnamento di una disciplina per incarico si spendevano in quel periodo dalle diciotto alle venti mila lire annue; viceversa, il comando veniva a costare dalle 200 alle 250 mila lire. Notevole, perciò, l’aumento dell’onere per il bilancio dell’Istituto.

Vi sono stati «comandi» relativi al tedesco, all’inglese ed all’italiano, mentre nella Facoltà di lettere dell’Università di Napoli vi sono professori insigni, cui l’incarico avrebbe potuto essere conferito con perfetta tranquillità, così come si era già fatto in passato.

Il richiamo di uno fra i sintomi di poco rigore amministrativo conferma l’opportunità dell’azione svolta dal Ministero, nominando una commissione incaricata di occuparsi in particolare dell’Istituto orientale di Napoli.

Preoccupa, finalmente, il fatto che esso sta perdendo il suo carattere originario, che è bene riprenda: quello di diffusione della cultura italiana in Oriente e di propulsione degli studi orientali. L’Istituto va perdendo il suo carattere orientale perché si dà speciale importanza allo studio dell’inglese, del tedesco e del francese, tutte lingue occidentali. Vi è, sì, la tesi di coloro, i quali sostengono che, siccome la missione dell’Italia verso l’Oriente sarebbe praticamente finita, è molto meglio profittare dell’Istituto orientale per servirsene allo scopo di dare opportuna preparazione ai nostri emigranti. È cosa, senza dubbio, importante dare una preparazione agli italiani che devono recarsi all’estero. Ben pochi, però, dei destinati all’emigrazione avranno la possibilità di passare attraverso un Istituto universitario! Se alla preparazione degli emigranti vorremmo provvedere, dovremmo farlo con altri mezzi. Non possiamo distruggere l’ottimo strumento di cui disponiamo per diffondere la nostra civiltà in Oriente e per assimilarne la cultura, agevolando quegli scambi e quei traffici sempre riusciti particolarmente fecondi.

Tengo soprattutto a fare presente quale ascendente goda ancora oggi l’Italia nei Paesi orientali. Sono continue le affermazioni di stima e di devozione verso il nostro Paese. Abbiamo avuto un esempio veramente toccante, come quello dei Karamanli in Libia, i quali hanno voluto dimostrare la loro fedeltà all’Italia, anche a costo della vita di un membro dell’illustre famiglia, recentemente sacrificata per questo ideale.

 Sono frequenti le richieste di coloro che desiderano vedere e conoscere gli istituti annessi all’Istituto orientale di Napoli, come quello, assai rinomato, di turcologia, ma purtroppo oggi praticamente non esistono. Concludo affermando che è molto importante tenere conto dell’Istituto orientale partenopeo dal punto di vista della nostra politica estera. E la deliberazione della Commissione ministeriale relativa all’aumento del numero di lettori stranieri è senza dubbio da incoraggiare.

Purtroppo, questo numero si è andato assottigliando perché essi sono stati osteggiati dai nostri stessi connazionali. Così per quanto riguarda una professoressa tigrina di nascita, ma fiera della cittadinanza italiana conquistata da suo padre. La professoressa, compiuti gli studi in Italia, ha insegnato nell’Istituto orientale di Napoli, ma recentemente, dato l’inadeguato trattamento usatole, è stata costretta ad accettare l’invito del Governo Abissino di recarsi a insegnare ad Addis Abeba, dove fa onore alla cultura orientalistica italiana. Un altro docente straniero, che ci lega la Libia, ha dimostrato nella maniera più efficace il suo attaccamento all’Italia, anche a costo di sacrificare tutti i propri beni, benché il trattamento a lui riservato non sia stato dei più convenienti.

Termino ringraziando l’onorevole Ministro e dicendo che mi compiaccio dei lavori della Commissione da lui nominata. Mi auguro che essa provveda soprattutto per quanto riguarda la parte amministrativa e mi auguro soprattutto che nel Consiglio di Facoltà dell’Istituto orientale di Napoli vengano inclusi, come nel passato, un rappresentante del Ministero degli esteri ad un rappresentante del Ministero dell’Africa italiana; con questa intesa mi dichiaro soddisfatto, convinto dell’importanza che il Ministro annette all’Istituto Orientale di Napoli per continuare a diffondere verso oriente quella cultura e quella civiltà che l’Italia vi irradia, ricambiata da irradiazioni non meno feconde, fin dai tempi gloriosi di Amalfi, di Genova, di Venezia, di Pisa!

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Vernocchi, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere quali provvedimenti intenda prendere nei riguardi di quei dipendenti dell’Università di Perugia (siano essi professori, aiuti, assistenti, ecc.), i quali, in base alle risultanze delle inchieste tecnico-sanitarie, amministrativa ed universitaria, a suo tempo disposte dalle superiori autorità e già concluse, risultino gravemente compromessi nelle malversazioni compiute a danno dell’Amministrazione degli Ospedali riuniti e Policlinico della su nominata città».

Il Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Il Ministero della pubblica istruzione non ha mancato di disporre indagini sulle accuse mosse al personale universitario di Perugia circa malversazioni che si sarebbero compiute a danno dell’amministrazione ospedaliera e del Policlinico di Perugia.

Tali indagini sono tuttora in corso e pertanto il Ministero non è ancora in grado di riferire se e quali provvedimenti siano da adottare a carico del predetto personale.

D’altra parte il Ministero della pubblica istruzione non ha mancato d’interessare quello dell’interno perché facesse conoscere l’esito delle indagini da esso disposte; ma sinora non ha avuta alcuna comunicazione in merito.

In base ad apposita convenzione, che deve essere rinnovata, l’ospedale di Perugia, che è un ente morale sotto la tutela del prefetto e del Ministero dell’interno, ha messo a disposizione dell’università le sue cliniche.

L’anno scorso fu nominato presidente dell’ospedale il professor Lucio Severi, membro della Facoltà di medicina.

Sorsero contrasti non pochi tra alcuni membri della Facoltà di medicina e l’amministrazione dell’ospedale. Vi furono accuse di ogni genere degli uni contro gli altri.

Il Ministro dell’interno, l’Alto Commissario per la sanità e il Ministro dell’istruzione disposero indagini e accertamenti in proposito, a mezzo di ispettori che si recarono sul luogo.

Le accuse contro i clinici e contro l’amministrazione dell’ospedale furono portate anche in pubblico e se ne occuparono i giornali.

Gli accertamenti e le indagini da esperire erano complessi.

Di recente ii Ministero dell’interno ha disposto lo scioglimento dell’amministrazione dell’ospedale e la nomina di un commissario nella persona di un prefetto a disposizione.

Intanto vi sono due procedimenti giudiziari in corso, uno che riguarda l’amministrazione dell’ospedale per mancata denunzia di grano all’ammasso ed altra, sorta in seguito a querela per diffamazione del professor Dominici, titolare della cattedra di clinica medica, contro un giornalista locale a proposito di accuse di malversazioni e di profitti illeciti del Centro dei datori di sangue, presieduto dallo stesso Dominici. Questo Centro, a norma di legge, dipende dall’Alto Commissario per la sanità e dalla prefettura.

Qualche giorno fa la stessa prefettura ha posto alla direzione del Centro di datori di sangue il direttore sanitario dell’ospedale, riconoscendo non legittima a norma di legge la nomina già fatta a presidente di quel Centro del professor Dominici.

Un ispettore generale del Ministero dell’istruzione è stato incaricato di completare le indagini e gli accertamenti del caso per ciò che riguarda l’attività dei professori e assistenti universitari.

Tra breve, conosciute le ultime e definitive risultanze dell’inchiesta disposta, si potrà dirimere ogni questione e si potranno adottare i provvedimenti necessari e non si mancherà, se del caso, di procedere contro coloro che risulteranno responsabili.

Occorre, tuttavia, per logiche ragioni, aspettare che siano definiti i due procedimenti penali, di cui ho già fatto cenno, prima di adottare gli altri necessari provvedimenti amministrativi.

Per la definizione della vertenza non si mancherà di procedere d’accordo con il Ministero dell’interno e con l’Alto Commissariato per la sanità, che sono anch’essi direttamente interessati alla vertenza e il cui ausilio, ad ogni modo, è indispensabile per assicurare, con il rinnovamento della convenzione, i servizi sanitari di Perugia e l’attività stessa della Facoltà di medicina e chirurgia.

PRESIDENTE. L’onorevole Vernocchi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VERNOCCHI. Ringrazio l’onorevole Ministro della sua risposta, pur non potendomi dichiarare sodisfatto.

L’inchiesta che è stata disposta dal suo Ministero ha già avuto qualche conclusione; tanto è vero che io conosco queste conclusioni. Ma vi è un’altra inchiesta, ed è quella disposta dall’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità, che è arrivata a conclusione. Quindi, l’onorevole Ministro, dato che, nella mia interrogazione, mi riferivo particolarmente a tutte le inchieste, anche a quella amministrativa, avrebbe potuto prendere visione dei risultati delle altre due inchieste amministrative e tecnico-sanitarie ed avrebbe constatato come emergano dati positivi di responsabilità nei confronti di alcuni clinici che hanno rapporto con gli ospedali di Perugia.

Non vorrei annoiare l’Assemblea, ma devo dichiarare che il mio temperamento è un po’ originale; quando io ho la convinzione di difendere una causa giusta, vado fino in fondo, a costo di qualunque cosa, a costo anche di annoiarvi, onorevoli colleghi. Perché le ragioni per le quali ho presentato quasi sullo stesso argomento una prima interrogazione al Ministro dell’interno che ho già svolta, una seconda al Ministro della pubblica istruzione che sto svolgendo in questo momento, ed una terza ancora al Ministro dell’interno che dovrò svolgere in avvenire, più complessa e più completa perché tende a stabilire le cause che hanno determinato lo scioglimento dell’amministrazione dell’Ospedale di Perugia, sono di ordine morale.

Onorevole Ministro, io posso capire che, quando si giudica una questione che è determinata dall’elemento politico e dall’interesse di parte, ci si possa trovare contrari; ma quando non vi è elemento politico, quando non vi è interesse di parte, ma vi è solo un elemento di natura morale, noi, a qualsiasi partito apparteniamo, dobbiamo essere concordi nella valutazione e nel giudizio.

Orbene, che cosa è accaduto? È accaduto che un’inchiesta del suo Ministero ed un’altra dell’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità stabiliscono, in modo preciso, delle responsabilità di ordine morale a carico di alcuni clinici. Responsabilità di ordine morale che si riferiscono a speculazioni nella vendita di prodotti farmaceutici di grande necessità, assegnati dall’Alto Commissariato per la sanità, a disordine amministrativo, ad abusi nelle prestazioni, a falsi nell’affermare il diritto di procedere alla fabbricazione di autovaccini per una pretesa concessione ad personam che invece è proibita dalla legge, ad irregolarità che riguardano il Centro datori di sangue e il centro antidiabetico. Questo risulta con la indicazione di nomi e cognomi e con precisazione di fatti dalla relazione tecnico-sanitaria che è in mie mani.

Non faccio nomi perché non voglio dare a questo mio intervento sapore di significato scandalistico.

Ma pensate che uno di questi clinici è rappresentato in una maniera così grave da far pensare seriamente alla necessità di un immediato intervento dell’autorità da cui dipende. Si dice di lui che non vive coi proventi della professione, che conduce una vita dispendiosa superiore alle sue possibilità, che ha il vizio di giocare d’azzardo e, permettetemi di dirlo con un eufemismo, di correggere la fortuna quando gli è avversa. (Commenti).

Quando vi sono elementi di questo genere a carico di clinici che dipendono dal vostro Ministero, voi avete il dovere di intervenire ed anche il dovere di eliminare questo mal costume che a tempo si è manifestato negli ospedali di Perugia, e non per colpa degli amministratori, i quali, a cominciare dal presidente professore Severi, sono uomini di integrità morale ineccepibile. La mancata consegna del grano all’ammasso, cui avete accennato, onorevole Ministro, è una accusa puerile, determinata dalla campagna scandalistica iniziata per ragioni che oramai l’Assemblea conosce e che verrà subito chiarita.

Ed insieme al professore Severi vi sono altri cittadini probi sui quali neanche un sospetto può essere elevato. Vi è stata una campagna scatenata contro costoro, ma da chi? Proprio e particolarmente da quei tali medici che non volevano controlli di alcuna specie, che volevano invece perpetuare ancora il disordine e gli abusi e vi è stata una campagna che è associata, come ho dimostrato nella precedente mia interrogazione, a quella famosa vendita delle due grandi tenute che si allacciano, nella tradizione, a San Francesco e che sono di proprietà dell’ospedale.

Ecco quel che c’è sotto. Onorevole Ministro, io vi prego – nelle indagini che farete – di tener conto di quello che ho detto, perché la questione va posta in questi termini precisi: o la relazione di inchiesta è veritiera, le risultanze sono giuste e basate su fatti e vi sono quindi dei colpevoli, ed allora occorre punire, o non è veritiera, e allora si puniscano coloro che hanno fatto l’inchiesta, che non hanno visto il giusto od hanno interpretato il giusto come il non giusto.

Ecco perché io vi prego di associarvi a noi in questa opera che tentiamo svolgere per elevare il costume morale del nostro Paese. Credo che ci siano molti motivi nella nostra vita politica che dividono oggi i nostri partiti, ma deve esservi un punto su cui tutti noi dobbiamo concordare, e devono concordare tutti i partiti dell’Assemblea, ed è il risanamento morale del nostro popolo. Dovunque vi è una dimostrazione di disonestà, dobbiamo intervenire; e dovete intervenire voi particolarmente che siete al Governo e che avete la responsabilità dell’onestà e della rettitudine della burocrazia che da voi dipende. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Moscatelli, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri della difesa e del tesoro, «per sapere se abbiano sentore del vivissimo sdegno col quale i combattenti della guerra 1915-18 hanno accolto le disposizioni riguardanti il pagamento della polizza ad essi rilasciata al momento del loro congedo e che, avendo anche potuto costituire in quei tempi lontani un dono dignitoso, si è trasformato oggi, per la svalutazione della moneta, in una elemosina umiliante che gli interessati da ogni parte dichiarano di respingere con indignazione; e se non ritengano doveroso e urgente sospendere provvisoriamente il corso legale della disposizione emanata, per disporre una congrua rivalutazione dell’ammontare del premio».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Ritengo opportuno esporre anzitutto gli elementi della situazione di fatto.

Per i combattenti della guerra 1915-18 furono emesse n. 3.101.461 polizze da lire 1000 ciascuna, in 5 gruppi, a favore di militari di truppa e sottufficiali per un complesso di lire tre miliardi, 101 milioni, 461 mila; n. 49 mila polizze di lire 5000, in due gruppi, a favore di ufficiali per un complesso di lire 245 milioni. Numero 1500 polizze da lire 1500 a favore di ufficiali invalidi e mutilati durante il periodo 1915-18, per un complesso di 2.250.000 lire.

L’ammontare complessivo delle polizze ascendeva a lire tre miliardi trecentoquarantotto milioni settecentoundicimila.

Per effetto dell’ammortamento anticipato e di quello ordinario, fino al 31 agosto 1947 sono state tolte dalla circolazione polizze per complessive lire 727 milioni 661 mila. Sono state, poi, donate all’Erario polizze per complessive lire 25 milioni 139 mila. L’ammontare delle polizze attualmente in circolazione è di 2 miliardi 595 milioni 911 mila lire.

Al Ministero del tesoro è finora pervenuta una sola proposta di rivalutazione delle polizze, da parte di un titolare umbro, il quale ha chiesto che, in conseguenza della svalutazione della lira, l’importo di ciascuna polizza sia moltiplicato per il coefficiente 30. L’accoglimento di siffatta proposta importerebbe, ovviamente, l’aumento dell’onere dello Stato da lire 2 miliardi 595 milioni 911 mila, a lire 77 miliardi 877 milioni 330 mila.

Questa conseguenza, di per sé grave, assume una portata di gravità ancora maggiore ove si consideri che la svalutazione monetaria, la quale influisce a rendere minimo il valore delle polizze concesse ai combattenti della prima guerra mondiale, agisce anche in tutti gli altri settori in cui esistono titoli di credito vincolati al loro valore legale, con l’impossibilità per i loro titolari di chiederne il ragguaglio col valore corrente della lira. Tra questi sono, in prima linea, i possessori di titoli di Stato, specie quelli di emissione di antica data.

La questione, per la generalità dei casi che involgerebbe e per le ripercussioni che non mancherebbe di suscitare in altri settori, non può attualmente trovare la su prospettata soluzione, cioè la moltiplicazione del valore nominale della polizza per trenta o per altro simile coefficiente, e ciò in special modo per l’impossibilità da parte dell’erario di sostenere l’aggravio notevolissimo che ad esso ne deriverebbe.

Assicuro peraltro gli onorevoli interroganti che la questione stessa non è archiviata, ma forma oggetto di studio per una soluzione compatibile – e quanto più possibile sollecita – con la capacità finanziaria dello Stato.

PRESIDENTE. L’onorevole Moscatelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MOSCATELLI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario per il tesoro, soprattutto per le sue ultime parole, per la dichiarazione che la pratica relativa alle polizze non è archiviata, ma è anzi allo studio, allo scopo di cercare di andare incontro alle giuste richieste dei combattenti della guerra del 1915-18. Però, io lo ringrazierei ancora di più, e potrei anche dichiararmi sodisfatto, se egli, in conseguenza di questa sua dichiarazione, sospendesse ora la liquidazione delle polizze; perché è inutile dire che il problema delle polizze non è archiviato, è allo studio, mentre nello stesso tempo si autorizza la liquidazione delle polizze stesse. Occorre sospendere fin da ora questa liquidazione e tranquillizzare così una numerosa categoria di benemeriti della Patria.

È vero che, se andiamo sul piano tecnico, il Governo può avere ragione dato che, sotto il profilo tecnico, la burocrazia riesce sempre a dimostrare di aver ragione; ma il problema delle polizze dei combattenti della guerra 1915-18 non è solamente un problema tecnico: è soprattutto un problema morale; e lo è particolarmente in questo momento, perché è soprattutto merito dei combattenti di allora se noi oggi abbiamo i titoli che legittimano la nostra richiesta di revisione del Trattato di pace. Essi combatterono per cacciare l’invasore al di là dei confini della Patria. Verso di essi si deve andare con provvedimenti che non suonino irrisione. Parliamoci chiaro: dare loro mille lire, significa dare tre pacchetti di sigarette. Passando, giorni sono, dinanzi alla vetrina di un negozio, ho visto una cintura, che non era di cuoio, la quale costava ben 900 lire. Ebbene, o signori, liquidando oggi le polizze secondo il valore nominale di 30 anni fa, noi daremmo ai combattenti della guerra 1915-18 una cintura, nemmeno buona, per tirarsela fino in fondo.

So bene che ci sono tanti problemi, ma questo è saliente sul piano morale. Io non ho cifre mie da poter contrapporre a quelle dell’onorevole Sottosegretario e pertanto non posso contestare le sue; ma certamente non è esatta la cifra di 77 miliardi. Non è esatta prima di tutto perché molti degli interessati hanno perduto le loro polizze, il che evidentemente si risolve in un beneficio per lo Stato. Non è esatta, in secondo luogo, perché moltissime altre di queste polizze sono state riscattate dagli interessati e sono ora nelle mani delle banche, alle quali è consigliabile che non sia dato nulla, perché, in fin dei conti, esse hanno già realizzato il loro guadagno.

Se quindi noi togliamo le polizze che si sono disperse e in pari tempo ci asteniamo dal rimborsare quelle che si trovano attualmente nelle mani degli istituti di credito, rimborsando soltanto quelle che sono tuttora in possesso dei loro legittimi proprietari, questa cifra di 77 miliardi risulterà evidentemente di molto ridotta.

È inoltre da notarsi che i combattenti hanno chiesto, in fondo, molto meno; essi hanno chiesto precisamente, a mezzo delle loro associazioni, qualcosa che è certamente di assai minor rilievo. Mi stupisco perciò che l’onorevole Sottosegretario dichiari di avere ricevuto una sola richiesta pervenutagli da un singolo interessato mentre le associazioni combattentistiche hanno espresso la loro giusta indignazione per questo provvedimento, che irride ai loro sacrifici, con centinaia di ordini del giorno votati nelle loro assemblee generali.

Se vi sono difficoltà di natura tecnica, cerchiamo di superarle. Se non è possibile, per motivi tecnici di carattere generale, rivalutare le polizze, si potrà almeno stabilire un premio di rivalutazione limitatamente coloro i quali sono in possesso ancora oggi della polizza. Per non creare poi un precedente ingiusto nei confronti di coloro che sono deceduti, si potrebbe, almeno dal 1940, liquidare le polizze agli eredi con l’aggiunta dello stesso premio di rivalutazione.

Le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario non mi hanno sodisfatto. Mi conforta tuttavia il pensiero che egli stesso riconosca che la pratica non deve essere archiviata; soprattutto mi auguro che si provveda a sospendere – esigenza veramente fondamentale richiesta da tutti i combattenti – il provvedimento, in attesa che lo studio venga portato a termine, altrimenti sarebbe inutile farlo.

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle altre interrogazioni all’ordine del giorno è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 13.10.