Come nasce la Costituzione

RELAZIONE RUINI 6 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

composta dei deputati:

Ruini, Presidente; Tupini, Ghidini, Terracini, Vice Presidenti; Perassi, Grassi, Marinaro, Segretari; Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

RELAZIONE

DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE

Presentata alla Presidenza dell’Assemblea Costituente

il 6 febbraio 1947

RELAZIONE

AL PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Onorevoli Colleghi! – Liberata da un regime funesto di servitù, ritemprata dalle forze vive della resistenza e del nuovo ordine democratico, l’Italia ha ripreso il suo cammino di civiltà e si è costituita a Repubblica, sulle basi inscindibili della democrazia e del lavoro.

La prima esigenza della Repubblica italiana è di darsi una Costituzione. La Commissione che la Costituente ha incaricato di prevedere un progetto ha lavorato intensamente. Ha tenuto trecentosessantadue sedute plenarie, o di sottocommissioni, sezioni o comitati. Un osservatore straniero ha constatato che nessun’altra Costituzione ebbe più largo materiale di preparazione: per gli studi predisposti dal Ministero della Costituente, e per quelli che la nostra Commissione ha condotti con raccolte e comparazioni sistematiche, tema per tema, delle norme costituzionali vigenti negli altri Paesi. Se la nostra deve essere una Costituzione propriamente italiana, bisogna pur conoscere ciò che vi è altrove.

Vi sono state nella Commissione molte relazioni e moltissime discussioni. Qualcuno trova che sono state troppe; ma dopo una eclissi durata per tutta una generazione la coscienza democratica deve riaprirsi la strada e fare la propria esperienza con l’appassionamento ai problemi politici e costituzionali. Il tempo impiegato dalla nostra Commissione non è stato comunque maggiore di quello richiesto per tante altre Costituzioni. Si sono affrontati temi – come l’istituzione della Regione – che in altri tempi avrebbero occupato intere legislature.

La composizione numerosa della Commissione ha dato modo di manifestarsi a tutte le correnti. Si è dapprima lavorato in vastità ed in estensione; e si sono poi avute la concentrazione e la sintesi. Non pochi elementi ed articoli preparati hanno servito come di fondamento invisibile all’edificio della Costituzione, per l’esame di problemi che dovevano essere considerati, anche senza dar luogo ad espressa formulazione; o potranno far parte di leggi-base, ad integrazione della Carta costituzionale.

Formulare oggi una Costituzione è compito assai grave. Dopo le meteore di quelle improvvisate nella scia della Rivoluzione francese e delle altre del Risorgimento, concesse dai sovrani – tranne una sola luminosa eccezione, la Costituzione romana di Mazzini, alla quale noi ci vogliamo idealmente ricongiungere – è la prima volta, nella sua storia, che tutto il popolo italiano, riunito a Stato nazionale, si dà direttamente e democraticamente la propria Costituzione.

Il compito è più difficile che cento anni fa, quando si fece lo Statuto albertino e si adottarono senz’altro istituzioni tipiche di altre Costituzioni dell’Ottocento, nella tentata conciliazione dell’istituto monarchico col regime parlamentare attraverso il governo di gabinetto. Un mio predecessore al Consiglio di Stato, il Des Ambrois, poté in pochi giorni fabbricare un progetto. Oggi noi non vogliamo copiare, e ad ogni modo le cose non sono così semplici. Come osservò un altissimo uomo politico, che è anche il maggior maestro italiano di diritto pubblico, Vittorio Emanuele Orlando, i sistemi caratteristici dell’Ottocento sono in crisi. Si affacciano nuove forme democratiche. Le forze del lavoro ed i grandi partiti di massa muovono e foggiano in modo diverso parlamenti e governi. Non si sa quanto resterà del vecchio; e non sono ancora chiari i lineamenti del nuovo.

Vi è in questo momento per la Repubblica italiana un’urgente esigenza: uscire dal provvisorio. Bisogna che siano costruite nell’ordinamento repubblicano alcune mura solide, non sul vuoto o sull’incerto, ma tali che possano servire, se occorre, alla continuazione dell’edificio, senza sbarrare la strada alle conquiste dell’avvenire.

La Costituzione deve essere, più che è possibile, breve, semplice e chiara; tale che tutto il popolo la possa comprendere. Sono le parole con le quali la Commissione si tracciò la via. Vero è che non si può tornare al profilo semplice e scarno dello Stato d’un secolo fa; lo sviluppo delle sue nuove funzioni ha portato con sé la «dilatazione» dei testi costituzionali, che Bryce ha da tempo rilevata. La tendenza ha avuto particolare accentuazione, dopo l’altra guerra mondiale, col tipo «sociologizzante» di Weimar. Si cerca oggi di evitare gli eccessi. Una Costituzione, lo ha detto anche Stalin, non può essere un «programma per il futuro». Non può ridursi ad una tavola di affermazioni e di valori astratti. Non può diventare, con la diffusione particolareggiata che è tipica di alcune Costituzioni sud-americane, un codice di norme che vanno invece in gran parte rinviate alla legislazione ordinaria.

Sarebbe desiderabile distinguere, come si fece a fine del Settecento, fra le dichiarazioni dei diritti – o «dichiarazioni di principî», quali le impostò Mazzini – e le disposizioni costituzionali vere e proprie. Ma non è possibile una netta distinzione. In momenti come l’attuale, dopo l’oscuramento e la compressione violenta delle più elementari libertà, è inevitabile che, nel grande soffio di liberazione che anima il popolo e trascende il mero tecnicismo delle norme, si senta il bisogno di far risaltare nella Costituzione le rivendicazioni della personalità umana e della giustizia sociale. Ed è nello stesso tempo inevitabile che si cerchi di sottrarre le disposizioni più rilevanti per la vita del Paese all’arbitrio di improvvise modificazioni, collocandole nella rocca della Costituzione e sottoponendo la loro revisione a più caute procedure.

Il progetto di Costituzione italiana, che per il numero dei suoi articoli è inferiore a quasi tutte le Costituzioni in vigore, rappresenta, in certo senso, un tipo nuovo ed intermedio, che, mentre si informa storicamente alle realtà concrete ed attuali, si vuol ricongiungere ai principî ideali in base ai quali risorge e si avvia a forme nuove la democrazia italiana.

Se più d’una disposizione del presente progetto fu votata a maggioranza lieve, nel contrasto fra le parti politiche, vi è stata una larga e sostanziale convergenza nel riconoscere che esistono istanze ed esigenze supreme di libertà e di giustizia, che neppure una Costituzione può violare; e – come in una gerarchia di norme – altre ne esistono, nell’edificio della Costituzione, che non debbono essere violate dalle leggi, ma possono essere modificate soltanto da una espressione particolare di volontà mediante un processo costituzionale di revisione.

Nello sforzo di conquistare stabilmente la libertà e di ancorarla ad una sfera di valori più alti, convergono correnti profonde: dalle democratiche fedeli agli «immortali principî» e dalle liberali che invocano la «religione della libertà», alla grande ispirazione cristiana che rivendica a sé la fonte eterna di quei principî ed all’impulso di rinnovamento che muove dal Manifesto dei comunisti e che, per combattere lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, risale alla liberazione dell’uomo dal giogo dell’uomo; e cioè ai suoi inalienabili diritti.

Uno spirito lucido, Stendhal, diceva che nell’avvicinarsi ad una Costituzione si prova quasi un senso religioso.

DISPOSIZIONI GENERALI

Le due parti del progetto di Costituzione: «Diritti e Doveri dei cittadini» e «Ordinamento della Repubblica», sono precedute da alcune disposizioni generali.

Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l’affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una Costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «Repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale – con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.

Bandiera della Repubblica è il «tricolore», che altre Nazioni possono avere adottato dopo di noi italiani, ma è la nostra bandiera storica; e ne abbiamo quest’anno celebrato il centocinquantesimo anniversario.

La Costituzione, dopo aver affermato il concetto della sovranità nazionale, intende inquadrare nel campo internazionale la posizione dell’Italia: che dispone il proprio ordinamento giuridico in modo da adattarsi automaticamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra Costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali.

Nella definizione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, se tutti i membri della Commissione hanno convenuto che si deve riconoscere il diritto della Chiesa alla piena indipendenza nei suoi ordinamenti interni, alcuni hanno fatto riserve sulla formula di riconoscimento della sovranità. E se tutte le correnti politiche hanno dichiarato che non pensano a denunciare i Patti del Laterano, alcune si sono opposte ad inserire il loro riconoscimento nella Costituzione, quasi fossero parti dell’ordinamento della Repubblica. È prevalsa la tesi che considera il cattolicesimo, per le tradizioni storiche di nostra civiltà, e per l’appartenenza della grandissima maggioranza, come la religione degli italiani e ritiene che i patti intercedenti fra Stato e Chiesa debbano avere una speciale posizione di natura costituzionale, tale tuttavia che una loro modificazione bilateralmente accettata non importi processo di revisione costituzionale.

Alle altre confessioni religiose il progetto di Costituzione garantisce autonomia, libertà di ordinamenti e l’intervento dei loro rappresentanti nel definire i rapporti con lo Stato.

Gli ultimi articoli delle disposizioni generali, che sono un ponte di passaggio alla parte prima della Costituzione, sui diritti e doveri dei cittadini, fissano principî generali ispiratori di tutta la Costituzione. Alcuni della Commissione ritenevano sede più adatta, per tali principî, un preambolo. Ciò che soprattutto ha valore è l’unanimità che vi è stata nel porre a base dell’ordinamento e della stessa esistenza della Repubblica principî che regimi tirannici hanno invano cercato di calpestare e di cancellare. Rivivono, ed una vera democrazia deve vivificarsi nel loro spirito.

Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l’altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani.

Il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici e razziali. E trova oggi nuovo ed ampio sviluppo con l’eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso.

Col giusto risalto dato alla personalità dell’uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell’uomo erano avvolte da un’aureola d’individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. Le dichiarazioni dei doveri si accompagnano mazzinianamente a quelle dei diritti. Contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato – diceva Mazzini – non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Rapporti civili.

Le due parti del progetto hanno, per la loro stessa impostazione, qualche inevitabile diversità d’accento; la prima si riferisce a principî generali, la seconda ad istituti e al loro funzionamento tecnico; ma sono strettamente connesse ed unificate dallo stesso spirito.

La nostra vicina Francia, che nel suo primo testo costituzionale del 1946 aveva dato molto rilievo ad una prima parte di diritti e doveri dei cittadini, ha in seguito accolto la suggestione di Herriot e di altri che il loro Paese non ha bisogno, oggi, di ripetere definizioni di diritti che gli sono acquisiti, dalle famose dichiarazioni settecentesche in poi; né è possibile esprimerle con più lapidaria efficacia; basta richiamarle, con qualche brevissimo cenno di completamento per la parte sociale. Così si è fatto, nel preambolo di quella che è oggi la Costituzione di Francia. L’esempio non può essere seguito da noi, che non abbiamo quei precedenti, né tradizione repubblicana; ed assai più lunga è stata da noi la devastazione fascista.

La regolazione dei diritti e doveri – ripartita in quattro titoli: Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici, Rapporti politici – ha luogo non col semplice rinvio alla legge, ma con l’indicazione di criteri, nei quali la legge troverà insieme l’infrangibile limite e le direttive da seguire.

Nel nostro progetto si delineano in rapida rassegna le libertà essenziali, dalle tre «inviolabilità» della persona, del domicilio e della corrispondenza, e dalle libertà di circolazione, di soggiorno, di emigrazione, ai diritti di riunione, di associazione, di credenza e di confessione religiosa, di stampa. Questi «diritti di libertà» hanno classiche espressioni in vecchi testi costituzionali, ma qui occorreva, dopo ciò che è dolorosamente avvenuto, una determinazione e precisazione maggiore. Si è cercato di farlo con sobrietà e densità di norme; né manca qualche lineamento più completo che altrove. Così ad esempio quando, per le limitazioni della libertà personale e del domicilio, nel porre i necessari presidi dell’indicazione di casi tassativi, da parte della legge, e d’una decisione motivata dell’autorità giudiziaria, si aggiunge che gli indilazionabili interventi della pubblica sicurezza, da contenersi sempre nei casi di legge, debbono essere senza eccezione sottoposti alla magistratura, anche se ai fermi è già succeduto il rilascio, ed anche per le perquisizioni e le ispezioni, e per ogni altra misura restrittiva della libertà. Per il diritto di riunione non è richiesto preavviso né consentito divieto se non per le riunioni in luogo pubblico. Per il diritto d’associazione si adotta un criterio, che è garanzia di vasta libertà: le attività che ciascuno ha diritto di svolgere individualmente, nei limiti della legge penale, possono essere svolte anche in forma associata.

Alla libertà di coscienza e di fede religiosa si assicura la più ampia sfera di manifestazione. Ciascuno è libero di esprimere il proprio pensiero con la stampa e con ogni mezzo di diffusione. Vietato il regime di censura e di autorizzazione, si è ammesso il sequestro, anche qui col doppio presidio di una precisa designazione da parte della legge di reati o violazioni di norme, e dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Non dovrebbe essere consentito alcun altro sequestro; ed è da sperare che si realizzi un assetto tale da offrir modo al magistrato di intervenire sempre tempestivamente; ma, ove ciò non sia possibile per provvedimenti urgentissimi sulla stampa periodica, è sembrato alla maggioranza della Commissione che l’accordare alla autorità di polizia una facoltà ben determinata e soggetta sempre all’immediato controllo della magistratura sia preferibile all’espediente di ricorrere a disposizioni oscure delle leggi di pubblica sicurezza, che potevano essere preziose al fascismo, ma ormai devono essere abbandonate.

Al diritto di emigrare, che si riconosce ai cittadini, ed all’impegno di tutelare il lavoro italiano all’estero, segue nel progetto di Costituzione il riconoscimento che l’Italia fa dei diritti degli stranieri nel proprio territorio, in armonia con le sue alte tradizioni anche scientifiche nel diritto internazionale. Non si poteva tacere, dopo così dure prove, sul diritto di asilo che le Costituzioni civili offrono ai perseguitati politici di altri Paesi. Né, dopo aver assistito agli arbitrî che, per ragioni politiche o razziste, spogliavano intere schiere di cittadini del geloso patrimonio della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome, era possibile tralasciare un esplicito divieto.

L’enunciazione dei diritti civili è completata da principî, alcuni dei quali potevano sembrare indiscutibili; ma l’esperienza amara ammonisce di trincerarli nella Costituzione: il diritto di agire e difendersi in giudizio, di non essere distolti dal giudice naturale o puniti con legge retroattiva. Vietate le pene crudeli e disumane, la prima Costituzione repubblicana d’Italia sancisce il principio dell’abolizione della pena di morte, che in molti sensi può dirsi italiano, e che, ribadito nelle fasi e nei regimi di libertà del nostro Paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza.

Rapporti etico-sociali.

Tutti sentono l’importanza e la missione della famiglia, come nucleo essenziale della società. Non vi è stata, nella Commissione, una disputa fra divorzisti e antidivorzisti. Nessuno ha manifestato l’intento di proporre con legge il divorzio. Il contrasto si è svolto sul punto se l’indissolubilità del matrimonio sia tema da inserire nella Costituzione. Una corrente lo ha negato, un’altra ha ritenuto di sì, e la portata pratica della soluzione prevalsa è che l’indissolubilità del matrimonio, per lo stato d’animo del popolo italiano e per i riflessi religiosi, è questione così grave da non poter essere in nessun caso toccata con una legge ordinaria, ma solo con una legge di valore costituzionale. Non è poi sembrato alla Commissione che la tutela della famiglia legittima impedisca un riconoscimento dei diritti dei figli nati fuori del matrimonio, che sono diritti della personalità umana; e non è giusto che le colpe dei padri ricadano sul capo dei figli.

Per la scuola, si è riconosciuto che spetta alla Repubblica dettare le norme generali sull’istruzione, organizzare la scuola di Stato in tutti i suoi gradi, assicurare ad enti e privati la facoltà di istituire altre scuole. Tutto ciò non costituisce un monopolio statale; ed è ammessa la libertà d’insegnamento. Ma l’organizzazione della scuola pubblica è una delle precipue funzioni dello Stato; e quando le scuole non statali chiedono la parificazione, la legge ne definisce gli obblighi e la sorveglianza da parte dello Stato, e nel tempo stesso ne assicura la effettiva libertà garantendo parità di trattamento agli alunni, a parità di condizioni didattiche. La serietà degli studi e l’imparziale controllo su tutte le scuole statali e non statali sono garantiti con l’obbligo dell’esame di Stato, non solo allo sbocco finale ma anche in gradi intermedi.

Uno dei punti al quale l’Italia deve tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun’altra, sia accentuato l’impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell’istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera ed integrale democrazia.

Rapporti economici.

Le nuove Costituzioni rispecchiano con affermazioni e con norme la tendenza storica in cammino: che la democrazia non è soltanto politica, ma economica e sociale. La Costituzione italiana ha, come vedemmo, due note fondamentali: lo sviluppo della personalità e la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione della società. Dalla prima deriva la liberazione dell’uomo dal bisogno, una delle quattro libertà di Roosevelt. Da tutte due insieme l’esigenza di ordinamenti democratici anche nel campo dell’economia.

Non vi può essere nessun pavido scrupolo che, un secolo e mezzo dopo i «diritti dell’uomo e del cittadino», siano dichiarati i «diritti del lavoratore». Se Thiers disse dopo il 1870: «la repubblica sarà conservatrice o non sarà», si può dire oggi che la repubblica sarà di democrazia e riforme economiche, o non sarà.

La nostra Costituzione non parla, come fanno altre, di «protezione del lavoro». Non si protegge il lavoro, che è forza essenziale della società. Si pone invece il compito della Repubblica di provvedere con la sua legislazione, e di promuovere accordi internazionali, per le conquiste e la regolazione dei diritti del lavoro.

L’affermazione del «diritto al lavoro», e cioè ad una occupazione piena per tutti, ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria; ma la Commissione ha ritenuto, ed anche giuristi rigorosi hanno ammesso che, trattandosi di un diritto potenziale, la Costituzione può indicarlo, come avviene in altri casi, perché il legislatore ne promuova l’attuazione, secondo l’impegno che la Repubblica nella Costituzione stessa si assume.

Al diritto si accompagna il dovere di lavorare; come è nel grande motto di San Paolo, riprodotto anche nella Costituzione russa: «chi non lavora non mangia». Ad evitare applicazioni unilaterali, si chiarisce che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione. Posto il dovere del lavoro, è inevitabile sanzione – e la larga accezione toglie il pericolo di abusi – che il suo adempimento sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Sono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore; con che si completa in questa Costituzione la conquistata eguaglianza della donna.

Si riferiscono ad istituti concreti il diritto dell’assistenza che spetta ad ogni individuo senza mezzi e senza capacità di lavoro ed il diritto particolare, che sorge dalla stessa prestazione di lavoro, alla previdenza ed alla «sicurezza sociale».

Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma – che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo – e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, a tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati.

La dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi che la Costituzione ne tacesse, o la subordinasse a norme di legge. Si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione.

La Costituzione riconosce e garantisce nell’economia italiana – ed a ciò non si oppongono le correnti estreme – l’iniziativa e la libertà privata, e la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il progetto pone in luce la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono ciascuna proporsi di provvedere insieme ai bisogni individuali ed ai collettivi. Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le Costituzioni; e la coscienza moderna richiede che la proprietà adempia la sua funzione sociale e sia accessibile a tutti mediante il lavoro e il risparmio.

È prevista la assunzione di imprese economiche da parte dello Stato e, in forme decentrate, di enti e di «comunità d’utenti e di consumatori» (con che si apre l’adito ad una difesa dei consumatori). Tale assunzione ha come condizioni: che avvenga in base a disposizioni di leggi; che dia luogo ad espropriazione ed indennizzo; che vi sia uno dei tre caratteri ricorrenti in materia di nazionalizzazione e socializzazione: servizio pubblico essenziale, disponibilità di fonti d’energia, monopolio di fatto; e che in ognuno di questi casi si riscontri un preminente interesse generale.

L’impresa e la proprietà terriera richieggono un complesso di provvedimenti che vanno dai vincoli, come quelli già esistenti di bonifica, e dalla lotta contro le proprietà troppo estese e latifondistiche, suscettive di miglior coltivazione, all’aiuto ai piccoli o medi proprietari ed all’elevazione dei lavoratori.

Tre brevi disposizioni chiudono la parte dei diritti economici. Affermato il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese, si rinvia pei modi e pei limiti ad una legge regolatrice. Nel breve cenno alla cooperazione, che deve essere uno dei maggiori caposaldi di una democrazia economica, vi è già l’avviamento alla disciplina legislativa che è necessaria per stabilire la figura e le caratteristiche della società cooperativa e la sorveglianza che gli stessi cooperatori invocano per colpire gli abusi della falsa cooperazione. L’altro accenno alla tutela del risparmio ed alla vigilanza sul credito contiene – né più si poteva fare nella Costituzione – un’indicazione al coordinamento di norme ed istituti, che manca oggi in Italia.

Rapporti politici.

Brevi disposizioni. A quelle, che vi sono in tutte le Costituzioni, sul diritto di voto, si è cercato di dare maggior precisazione, fermando due sole possibilità di eccezioni: l’incapacità civile e la condanna penale. All’istituto della petizione, che ha scarsa importanza, ma non poteva essere cancellato, si è, invece del carattere più particolaristico di «plainte», dato il contenuto d’un suggerimento di misure d’interesse generale. Non sembra inutile, per l’accesso agli uffici pubblici, il richiamo all’eguaglianza, che trova il suo solo limite naturale nelle attitudini; ed ogni limite deve essere stabilito per legge.

Sono affermati con vigore i doveri di difesa della Patria e del servizio militare; e quelli generali di essere fedeli alla Repubblica e di adempiere le proprie funzioni «con disciplina ed onore»; vecchie parole che rivivono nelle più giovani Carte, quale la russa. Sono doveri che incombono su tutti i cittadini; anche se si è limitato a poche categorie l’atto formale del giuramento.

Al principio di fedeltà ed obbedienza alla pubblica autorità fa riscontro quello di resistenza, quando l’autorità viola le libertà fondamentali. Venne da alcuni espresso il dubbio se in una Costituzione che presuppone e si basa sulla legalità possa trovar posto il diritto o piuttosto il fatto della rivolta. Ha anche qui influito il ricordo di recenti vicende; ed è prevalsa l’idea che la resistenza all’oppressione, rivendicata da teorie e carte antichissime, è un diritto e un dovere, del quale non può tacersi, anche e proprio in un ordinamento che fa capo alla sovranità popolare.

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

La nuova Costituzione italiana, mentre si ispira alle idealità etico-politiche che muovono la democrazia, tiene conto della concreta realtà, sulla quale soltanto si può edificare. Sono due posizioni che si completano a vicenda. Vanno invece evitate le costruzioni astratte che si appoggiano al mero ragionamento. Le Carte costituzionali, di così facile fioritura nell’altro dopoguerra, e di così effimera vita, ebbero una preoccupazione eccessiva di razionalizzare istituti e sistemi; e, dato giusto rilievo al principio della sovranità popolare, non pensarono abbastanza ad assicurare la forza e la stabilità dello Stato.

I problemi dell’ordinamento costituzionale sono così complessi, che non è dato risolverli con qualche formula breve. Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo; che è l’organo essenziale della nuova Costituzione. Anche se non ha la continuità di funzionamento e la personalizzazione più concreta degli altri organi, è la forza viva cui si riconduce ogni loro potere; l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola. Per la sua struttura universale e fluente, non può direttamente legiferare e governare; ormai neppure nella minuscola ed arcaica Landesgemeinde cara a Rousseau.

La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e nel referendum. E poiché anche il referendum si inserisce nell’attività legislativa del Parlamento, il fulcro concreto dell’organizzazione costituzionale è qui, nel Parlamento; che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo; e come tale riassume in sé la funzione di fare le leggi e di determinare e dirigere la formazione e l’attività del governo.

Il Parlamento non può, neppur esso, governare direttamente; e la sua prerogativa di legislazione dà luogo, oggi, a difficoltà pratiche; per la dilatazione dei compiti statali, che richiede moltissime leggi; dopo il Settanta erano poche decine all’anno; ora non si contano più; e non a torto si è osservato che il Parlamento rischia di non poter neanche legiferare, se non attua, per così dire, un decentramento legislativo, che – stabiliti i principî base con «leggi cornici» – ne deleghi le norme di integrazione ed attuazione anche ad organi nuovi quali i Consigli regionali ed il Consiglio economico nazionale.

La posizione preminente del Parlamento non toglie che gli altri organi costituzionali abbiano funzioni e, quindi, poteri proprî. Il Capo dello Stato è regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri ed organi dello Stato, compreso il Parlamento. Né il «potere esecutivo», che spetta al Governo, è di mera esecuzione; è piuttosto il «potere attivo», che, pur svolgendosi nei limiti tracciati dalla legge, deve aver iniziative ed autonomia, per provvedere, come è suo compito, ai bisogni che sono condizione preliminare ed originaria della vita dello Stato. A tal fine il Governo si vale dell’apparato amministrativo, e lo dirige; ma non sono una sola ed identica cosa; ed anche democraticamente giova che l’Amministrazione abbia funzioni e responsabilità proprie e definite. Non occorre aggiungere quale importanza abbia, per una sana democrazia, l’indipendenza della Magistratura; che, come l’Amministrazione, ha alla sua radice non il voto popolare, ma il concorso; né deve essere aperta all’influenza dei partiti. Se si tiene presente tutto ciò, si ha l’impressione della varietà e complessità dei problemi che vanno affrontati.

Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari ed antidemocratici. Si sono a tale scopo evitati due opposti sistemi.

Anzitutto: il primato dell’esecutivo, che ebbe nel fascismo l’espressione più spinta. Non si può dire che appartenga a questo tipo il sistema presidenziale, che fa buona prova negli Stati Uniti d’America, con un Capo dello Stato che è anche Capo del governo ed ha ampi poteri, ma non sembra poter essere trasferito da noi, che non abbiamo la forma federale, né altri elementi – d’equilibrio col Congresso, d’avvicendamento di due grandi partiti – che accompagnano quel sistema nella Repubblica dalla bandiera stellala. Vi è in Europa una resistenza irreducibile al governo presidenziale, per il temuto spettro del cesarismo, ed anche per il convincimento (e noi non dobbiamo abbandonarlo, ma valorizzarlo), che il governo di gabinetto abbia diretta radice nella fiducia parlamentare.

Si è d’altra parte evitato il pericolo di mettersi nel piano inclinato del governo d’assemblea. Ha l’apparenza d’un sillogismo la tesi che, poiché la sorgente di sovranità è unica, nel popolo, ed unica deve esserne la delegazione, ogni potere si concentra nel Parlamento, e gli altri organi, il Governo, il Capo dello Stato, la Magistratura, ne sono il comitato o i commessi ed agenti d’esecuzione. Si nega con ciò la possibilità di forme molteplici e diverse di espressione della sovranità popolare; e si lascia cadere quel tessuto costituzionale di ripartizione ed equilibrio dei poteri, che – anche se la formula di Montesquieu è in parte superata – ha costituito una conquista ed un presidio di libertà. Il governo d’assemblea – lo dice Robespierre – non può essere che di momenti eccezionali e rivoluzionari; bisogna, quando è possibile, e noi aneliamo alla normalità, instaurare un «regime costituzionale», a cui Robespierre aspirava, al di là della Convenzione. «Un governo d’assemblea – dice Proudhon – è non meno temibile del governo d’un despota; vi è dippiù che manca la responsabilità».

Il progetto italiano, allacciandosi alla realtà europea, mantiene il sistema parlamentare o di gabinetto; ed eliminando residui e riflessi di eredità monarchica, lo svolge in un quadro di più piena democrazia.

Il Parlamento.

Si è conservato il tipo bicamerale.

Non occorre entrare in questioni teoriche; né disturbare i patriarchi della Costituzione americana: Franklin che parla delle due Camere come di due cavalli che tirano il calesse in senso opposto; Washington e Jefferson che, prendendo il thè troppo caldo, parlano, accennando al Senato, dell’opportunità di versare il liquido, perché si raffreddi, nel piattino della tazza. L’istituto della seconda Camera è prevalso nella Commissione, per l’opportunità di doppie e più meditate decisioni, e pel contributo che può dare con un altro esame, nella sua diversa composizione e competenza, una seconda Camera. Il tipo di unicameralità venne scartato sovrattutto per il timore di cadere nel governo convenzionale o di assemblea.

È stato respinto il sistema di una seconda Camera ridotta a funzioni consultive di Consiglio, o «Camera di riflessione». Né venne accolto il sistema di «bicameralità imperfetta» che vige in altri Paesi, di prevalenza di una Camera sull’altra, così che questa non possa determinare la caduta del gabinetto, o almeno debba cedere nel dissenso per l’approvazione di una legge. Il progetto accoglie la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento; temperata soltanto, per quanto riguarda la loro unione in assemblea unica, dalla prevalenza numerica della prima.

La difficoltà maggiore stava e sta nel modo di composizione della seconda Camera o «Camera dei senatori». È chiaro che non può essere formata a semplice duplicato e con gli stessi metodi della Camera dei deputati. Messa da parte la soluzione di una nomina, anche parziale, da parte del Capo dello Stato, o dell’altra Camera, o per cooptazione della stessa Camera dei senatori, sono stati proposti e vagliati vari procedimenti, a cominciare da quello di una rappresentanza organica, a base d’interessi. A questo proposito si è, oltre alle obiezioni di principio, rilevata la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una soddisfacente «dosatura» fra le varie categorie rappresentate. Si è proposto di far eleggere la seconda Camera da collegi di consiglieri comunali; ed altri ha obiettato la sperequazione che deriva dalla diversa consistenza numerica dei Consigli comunali, così che quelli piccoli prevarrebbero sproporzionalmente sui più grandi, e si renderebbero in ogni caso necessari o voti plurimi o integrazioni dei consiglieri comunali con altri elementi elettivi. Prescindendo da questi sistemi, si presentano due vie, sempre a base di suffragio universale: la designazione diretta o l’indiretta, a mezzo di grandi elettori; ed anche qui si offrono varie possibilità, non esclusa quella, che è stata proposta in Commissione, del collegio uninominale.

Nella molteplice gamma delle varie soluzioni, la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba aver base regionale, in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione. Un terzo del numero dei senatori è stato riservato quindi all’elezione da parte dei Consigli regionali. Gli altri due terzi sono, secondo il progetto, eletti a suffragio universale diretto. La eleggibilità limitata soltanto a determinate categorie e ad uomini di età più matura, che debbono essere nati e domiciliati nella Regione, e la limitazione del diritto attivo di voto a chi abbia compiuto i 25 anni di età, differenziano la composizione della seconda Camera da quella dei deputati, anche a prescindere dal terzo che spetta ai Consigli regionali.

La qualificazione degli eleggibili a senatori, dopo un doveroso risalto agli elementi direttivi della guerra di liberazione, comprende coloro che per cariche ed uffici ricoperti, e per la loro posizione e l’attività che svolgono, danno fondata presunzione di capacità politica, amministrativa, tecnica.

Un istituto nuovo che la nostra Carta introduce è l’Assemblea Nazionale, e cioè il Parlamento che funziona a camere riunite per atti di singolare importanza, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra, e così dell’amnistia e dell’indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte d’organi rilevanti nell’ordinamento dello Stato, quali il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali.

Un altro istituto che il progetto introduce è la prorogatio dei poteri delle camere – quando è scaduto il termine della loro vita normale o sono state sciolte – fino a che non siano convocate le camere nuove. Non piace ad alcuni che si faccia sopravvivere un organo già morto; ma è prevalso il criterio che non sia da togliere, nell’intervallo fra le legislature, una possibilità di controllo e di azione parlamentare; al che potrà servire non un esercizio normale di poteri e di lavori delle camere, ma il loro intervento nelle contingenze ove sia necessario.

Ed ecco ancora un altro istituto nuovo nella vita costituzionale italiana: il referendum popolare. Oltre alla facoltà che hanno cinquantamila elettori di proporre al Parlamento un disegno articolato di legge, il diritto di vero e proprio referendum è attribuito al popolo, che può richiamare a sé la decisione su leggi votate dal Parlamento. Ciò avviene in due casi-tipo. Un primo (che ad alcuni apparve con un profilo di «veto» e destò riserve) si può esercitare appena la legge è approvata, e ne sospende l’entrata in vigore, quando ciò è tempestivamente richiesto da un’avanguardia di elettori o Consigli regionali. Si devono raggiungere entro due mesi, per dar corso al referendum, tali adesioni da raccogliere complessivamente mezzo milione di elettori o sette Consigli regionali. Questa forma di referendum trova un limite nel senso che non può aver luogo per leggi dichiarate urgenti dalla maggioranza assoluta, o approvate da due terzi dei membri di ciascuna Camera.

L’altro tipo di referendum è quello abrogativo: il popolo, con l’iniziativa di un eguale quorum complessivo, può sottoporre a referendum una legge che sia in vigore da almeno due anni. La figura del referendum si affaccia ancora nella Costituzione – ed anche qui ha dato luogo a riserve – con l’iniziativa rimessa non al popolo ma al Capo dello Stato, il quale può chiamare il popolo a decidere nel conflitto fra i due rami del Parlamento per l’approvazione di una legge.

Per il referendum, come per altri istituti nuovi all’Italia, deciderà l’esperienza concreta. Si è creduto di dover aprire la via ad una forma di manifestazione diretta di quella sovranità popolare, su cui poggia tutto il nuovo edificio democratico.

Il Capo dello Stato.

Per la elezione del Presidente della Repubblica si è adottata la soluzione che la rimette all’Assemblea Nazionale, con la partecipazione – più che altro simbolica, perché il numero ne è lieve – di due membri per ogni Consiglio regionale. Alcuni pochi, ed io sono fra essi, ritenevano che, senza arrivare alla identificazione americana col capo del governo, fosse da ammettere la designazione del Capo dello Stato da parte del popolo, per dargli una maggiore autonomia e per stabilire un potere più durevole e più saldo, in mezzo alle fluttuazioni di forze e di partiti, che non consentono facilmente decise prevalenze e sicurezza di governi. Sta ad ogni modo che, nel nostro progetto, il Presidente della Repubblica non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre Costituzioni. Mentre il Primo Ministro è il capo della maggioranza e dell’esecutivo, il Presidente della Repubblica ha funzioni diverse, che si prestano meno ad una definizione giuridica di poteri. Egli rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere a queste essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale. Il nostro progetto gli conferisce una serie di attribuzioni nell’ordinamento interno e di fronte all’estero, per la promulgazione delle leggi e dei decreti, per la nomina dei funzionari ai gradi più alti, per l’accreditamento nei riguardi dei rappresentanti diplomatici, per la stipulazione dei trattati e per la dichiarazione di guerra, per la grazia e la commutazione delle pene; e gli dà la presidenza di due grandi Consigli – della difesa e della giustizia – così che ampia è la sua attività e preminente per dignità su ogni altra. Il Capo dello Stato non governa; la responsabilità dei suoi atti è assunta dal Primo Ministro e dai Ministri che li controfirmano; ma le attribuzioni che gli sono specificamente conferite dalla Costituzione, e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali, gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che è propriamente sua.

La portata della sua azione politica sta soprattutto in tre punti costituzionalmente determinati.

Egli nomina, e conseguentemente revoca, il Primo Ministro ed i Ministri. Questi debbono bensì avere la fiducia del Parlamento; ma la scelta, la designazione di un uomo a capo del Governo può, in situazioni complesse e delicate, aver influenza decisiva di orientazione.

Una facoltà particolare d’intervento ha, come vedemmo, il Presidente della Repubblica quando sorge dissenso tra i due rami del Parlamento per l’approvazione d’una legge. Si potrà trattare di questioni poco importanti che verranno risolute in via di compromesso fra le due camere, né sarà male se in certi casi, con l’arenarsi d’un progetto, si limiterà la prolifica legiferazione; ma vi possono essere gravi e sostanziali ragioni perché un’altra forza dirima la controversia; ed ecco che il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire il referendum popolare.

Più grave e penetrante d’ogni altro intervento è poi la facoltà del Presidente della Repubblica di sciogliere le camere; dopo aver sentito i loro presidenti. L’affermazione di Mirabeau che «lo scioglimento è il mezzo migliore di lasciar modo di manifestarsi all’opinione pubblica, che non ha mai cessato di essere la sovrana di tutti i legislatori» riecheggia oggi nella dichiarazione di Blum che «lo scioglimento delle camere è la chiave di volta di un ordinamento democratico».

Il Governo.

L’errata illazione che pienezza di sovranità popolare ed efficienza di regime parlamentare portino con sé debolezza nei poteri di governo va recisamente superata. Mai come oggi, dopo il dissolvimento politico e sociale che si va faticosamente ricomponendo, il Paese ha sentito la necessità di governi forti e vitali. Questa necessità non contrasta con i principî della democrazia; che deve essere difesa, come non fecero i governi dell’altro dopo guerra, contro colpi di mano faziosi e violenti.

Per dare unità e stabilità al governo il progetto fa del Presidente del Consiglio dei ministri non più un primus inter pares ma un capo, per dirigere e coordinare l’attività di tutti i ministri; e regola le manifestazioni della fiducia o sfiducia parlamentare. Senza la volontà del Parlamento nessun governo può sorgere o durare in vita. Per dare espressione a questa volontà, al momento della Costituzione del governo, ed in sede di appello per la sfiducia, interviene l’assemblea riunita delle due camere. Si evitano così gli inconvenienti del passato, le imboscate e le «bucce di limone», su cui cadevano i governi. Si considera anche qui l’esigenza della riflessione, del «pensarci su», che è un motivo ricorrente nei procedimenti costituzionali.

Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di Costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia bene amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia. E si sente la tacita invocazione ad una riforma profonda e semplificatrice.

Il Consiglio economico nazionale, se non è una terza camera, come fu proposto in altri Paesi, potrà per la sua composizione riflettere elettivamente gli interessi del lavoro e della produzione ed esercitare – accanto alla consulenza nel campo economico – compiti da stabilire per legge, anche come delegazione di poteri da parte del Parlamento.

Una parola soltanto nella Costituzione per i due più antichi «organi ausiliari», di cui tutte le carte parlano: il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; il primo per la consulenza giuridico-amministrativa e la tutela della giustizia nell’amministrazione, la seconda per il controllo di legittimità e di finanza; sono organi ausiliari, più che del Governo, della Repubblica; e la loro indipendenza dal Governo va garantita con un più diretto raccordo con il Parlamento.

La Magistratura.

Per adempiere il mandato, che esercita in nome del popolo, la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un «ordine»; è sostanzialmente un «potere» dello Stato; anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente.

Il progetto non si spinge ad una forma piena di autogoverno, che non potrebbe mai essere chiuso, corporativo; e non si addirebbe ad un corpo formato mediante concorsi, senza attingere alle fonti della designazione popolare. La magistratura ha fatto, ad ogni modo, una grande conquista; ed è notevole la riforma adottata, che dà piena garanzia per le nomine, per l’inamovibilità, per l’assoluta autonomia dei giudici di fronte al potere esecutivo. All’organo di «governo della magistratura» che si crea nel suo Consiglio superiore, partecipano, oltre ai membri designati direttamente dai magistrati, altri scelti dal Parlamento, per riallacciarsi così alla fonte popolare.

Il titolo sulla magistratura non è, pel rimanente, che la collocazione nella Carta costituzionale di principî, che verranno completati nelle norme sull’ordinamento giudiziario; e di alcune garanzie fondamentali, in materia di giurisdizione (da mettersi in relazione con altre stabilite nei «diritti civili») che saranno anch’esse fondamento e base di integrazione nei codici. La Costituzione è, in certo senso, la cuspide di una piramide di norme, da rivedere ormai in gran parte, nella legislazione repubblicana del Paese.

Regioni e Comuni.

L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese.

«Il Comune: unità primordiale; la Regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione ed i Comuni». Mazzini, il più grande unitario del Risorgimento, era per la Regione; e si incontrava con la proposta di più caute forme di decentramento in Cavour e nei politici della sua scuola. Sarebbe stato naturale e logico che, all’atto dell’unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati»; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. È oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi; molti dei malanni d’Italia si attribuiscono all’accentramento; in ispecie pel mezzogiorno; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia.

Certo si è che oggi assistiamo – e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto – ad un fenomeno inverso a quello del Risorgimento, e sembra anch’esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di sé medesimi».

La tendenza si collega alle rivendicazioni di libertà, che sono la grande nota di questo momento storico: di tutte le libertà, anche degli enti locali come «società naturali». Riecheggia più viva, in questa atmosfera, l’affermazione di Stuart Mill che nelle autonomie locali si ha un «ingrandimento della persona umana», e che «senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero, ma non lo spirito della libertà». Vi è bensì, nel momento attuale, un’altra tendenza all’ampliarsi, più che al rimpicciolirsi, delle formazioni statali; ed ai loro collegamenti in complessi internazionali; si sostiene che a ciò deve accompagnarsi, per equilibrio, il decentramento interno; ed anche gli autonomisti riconoscono la necessità di non intaccare l’unità politica di un Paese, che fu, come il nostro, lacerato ed indebolito. Altra tendenza ancora, alla quale assistiamo, dopo aver visto l’insufficienza e la miseria di chiuse economie locali, è la ricostruzione di ampi mercati; si sostiene che ad essi potrà meglio riallacciarsi l’iniziativa regionale; ed il desiderio d’autonomia, più vivo nel Mezzogiorno, si basa sulla convinzione di danni e sfruttamenti da parte di altre Regioni; né senza l’esperimento autonomistico si potranno conoscere le realtà e le possibilità effettive.

La Commissione è stata unanime per l’istituzione della Regione. Questa non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa; ma si arresta prima della soglia federale e si attiene al tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini.

Due tesi si sono trovate di fronte nella Commissione. Una di esse vorrebbe attribuire alla Regione una potestà legislativa soltanto d’integrazione ed attuazione dei principî e delle norme delle leggi dello Stato, per adattarle ai bisogni locali; nel che sta, come abbiamo già visto, un’esigenza dello stesso procedimento legislativo in generale. Vorrebbe pure che il passaggio di servizi alla Regione fosse moderato e graduale.

La soluzione che è prevalsa, e che si è spinta più avanti perché l’autonomia sia «vera ed efficace», accorda alle Regioni facoltà legislative più ampie, in una scala che va da una sfera di materie di competenza diretta ed esclusiva delle leggi regionali, ad un’altra di competenza concorrente e suppletiva, perché anche lo Stato vi può, quando crede, legiferare, ed infine alla sfera d’integrazione e di applicazione delle leggi statali, ove tutti sono d’accordo. Si è sottolineato che le materie riservate alla facoltà di legislazione esclusiva o concorrente – per le quali sole avviene il passaggio dei corrispondenti servizi all’ente regionale – sono in realtà di misurata importanza e non incidono nel tessuto connettivo dell’unità economica ed amministrativa dello Stato. La stessa competenza che si chiama esclusiva non è poi, in nessun caso, senza limite. Le leggi della Regione non possono essere in contrasto «con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, con gli obblighi internazionali, con gli interessi della nazione e delle altre Regioni». Ove il governo centrale ritenga che vi sia contrasto, il giudizio al riguardo è deferito alla Corte costituzionale; e – si noti – per le questioni di merito sulla valutazione degli interessi nazionali o d’altre Regioni spetta al Parlamento; così che il campo lasciato alla legislazione regionale è per ogni aspetto vigilato e contenuto.

La Commissione è stata concorde che, per ragioni sostanziali e per impegni già presi, debbano essere date condizioni particolari d’autonomia alle due grandi isole ed alle zone mistilingue di frontiera. Tuttavia anche i relativi statuti – come è di quello già approvato dalla Consulta Nazionale per la Sicilia – dovranno essere coordinati e non contrastanti con i principî fondamentali della Costituzione.

Quali siano le altre Regioni non è ancora del tutto definito. Alle più tradizionali che hanno riflessi anche in ordinamenti come il giudiziario o nelle classifiche statistiche, si sono affiancate Regioni nuove che invocano pur esse giustificazioni storiche e di opportunità; ed al riguardo la Commissione ha disposto ricerche ed ha chiesto agli organi locali di esprimere la propria opinione. Dell’esito delle indagini, ancora in corso, sarà data comunicazione alla Costituente.

Nell’atto di dare il via a così rilevante riforma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celate le complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basta pensare all’autonomia finanziaria, non agevole a congegnarsi, e che non potrà fare a meno d’un riparto delle imposte che implichi un contributo di solidarietà delle Regioni provviste di maggiori mezzi a quelle che con le proprie risorse non sarebbero in grado di adempiere i loro servizi essenziali. Pericolo da evitare è che, mentre si tende ad un alleggerimento della macchina amministrativa, il decentramento non dia origine ad una nuova moltiplicazione di burocrazia nelle Regioni, senza toccare quella centrale.

Molte discussioni vi saranno, senza dubbio, anche alla Costituente; ma, quando siano adottate per l’ordinamento regionale le soluzioni che sembrino migliori, occorrerà che la concordia di tutti sorregga questo passo che l’Italia farà, per ridestare le forze locali ed attingere da esse rinnovata energia.

Garanzie costituzionali.

Carattere comune delle Costituzioni moderne è di essere rigide. La modificabilità continuata, e quasi inavvertita, poté sembrare un giorno vantaggio e conquista della democrazia; ma ha dato disastrosi risultati nel tempo fascista; ed oggi la coscienza politica, vigile e sospettosa, reclama la difesa delle libertà sancite nella Costituzione e vuole che nella gerarchia delle norme, quelle costituzionali abbiano valore preminente, ed istituti e procedimenti particolari siano di salvaguardia contro le violazioni da parte dello stesso Parlamento.

Istituto nuovo è la Corte costituzionale; e scarsi ne sono i precedenti e le prove: così che non è facile risolvere i suoi problemi. Non è stata accolta l’idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale, ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria. È sembrato opportuno un organo speciale e più alto, come custode supremo della Costituzione.

Ed ecco il triplice problema dei compiti, della composizione, del funzionamento. Si è ritenuto di riunire al sindacato di costituzionalità la risoluzione dei conflitti di attribuzione ed il giudizio sul Presidente della Repubblica e sui Ministri accusati dal Parlamento.

Per la struttura della Corte si fronteggiano le tesi, da un lato, che soltanto gli eletti del popolo possano investire questi giudici del loro altissimo compito, dall’altro che non spetti al controllato, ossia al Parlamento, costituire il controllore, e si debbano evitare sovrapposizioni di partito. È caduta la proposta di formare la Corte, per metà, di magistrati ordinari ed amministrativi, d’avvocati e docenti di diritto, designati per la loro stessa carica o scelti dagli appartenenti alle categorie, e per l’altra metà di eletti dall’Assemblea Nazionale e dai Consigli regionali. La soluzione prevalsa è di affidare bensì l’investitura di tutti i membri della Corte all’Assemblea Nazionale; ma col temperamento che essa, mentre potrà eleggerne un quarto senza condizioni, sceglierà gli altri nei designati, con un triplo di nomi, dalle categorie sopra indicate.

Anche per la procedura della Corte – la materia è così nuova – si sono profilate varie soluzioni. Se la questione di costituzionalità sorge in via incidentale, nel corso di qualsiasi giudizio, si è escluso di lasciarla in una prima fase al magistrato normale, e si è ritenuto più semplice e rapido che, appena sollevata con sufficiente serietà, la questione venga rimessa alla Corte costituzionale. Può essere sollevata, invece, in via principale, con diretto ricorso, da un corpo qualificato o da un certo numero di cittadini. Al giudizio di costituzionalità non si è posto, in nessun caso, limite di tempo, ad esempio un biennio dall’entrata in vigore della legge; dopo di che questa non potrebbe più essere impugnata; e si toglierebbe l’incertezza sulla sua validità; ma verrebbero anche meno il presidio del controllo e la difesa dei diritti violati.

Si è dubitato se eguale portata debba avere sempre la decisione della Corte; che, promossa in via incidentale, potrebbe, si è sostenuto, limitarsi a disapplicare la legge nel caso giudicato; mentre nell’altra via, più diretta e più larga, dovrebbe dichiarare la legge invalida e priva di ogni effetto. Si è ritenuto che, una volta sollevata, in un modo o nell’altro, la questione sia da risolvere con portata generale. La legge costituzionale resta priva di ogni efficacia, ed il Parlamento prenderà le misure di sua competenza: o sostituire quella legge con un’altra costituzionalmente corretta; o addivenire alla sua regolarizzazione con procedimento di revisione costituzionale. Si è cercato di semplificare, e forse non si poteva dippiù, questa materia per sua natura aggrovigliata.

Ed anche per il procedimento di revisione costituzionale si sono adottati i criteri più semplici, senza ricorrere ai sistemi dell’approvazione in due legislature successive o dello scioglimento automatico delle camere dopo che abbiano approvata la revisione in prima lettura. Vi dovranno essere due letture, e con un sensibile intervallo («pensarci su»), nella stessa legislatura. Potrà il popolo promuovere il referendum, ma quando la proposta di revisione abbia ottenuto il voto di due terzi dei deputati e di due terzi dei senatori, sarà senz’altro definitiva.

Se la Costituzione deve essere rigida, una troppo macchinosa e complicata procedura di revisione ostacolerebbe il cammino ad un completamento dell’edificio costituzionale; che vogliamo sia nelle sue grandi mura definitivo ed abbia vita di secoli; ma potrà essere necessario rimettervi le mani, negli sviluppi, non ancora esattamente prevedibili, dei sistemi costituzionali.

*      *          *

Onorevoli colleghi, ho cercato di riferire obbiettivamente, come era mio dovere, sulle grandi linee dei dibattiti avvenuti e delle soluzioni prevalse nel testo costituzionale. Sulle sue parti riferiranno più ampiamente, e meglio di me, i Presidenti delle Sottocommissioni e Sezioni, che ne hanno con tanta competenza diretto i lavori: Tupini, Ghidini, Conti; mentre Terracini continuerà, dalla Presidenza della Costituente, l’opera feconda che ha dato alla preparazione di questa Carta costituzionale. Interverranno sui singoli temi, a chiarirne le posizioni, i segretari delle Sottocommissioni ed i componenti di essi che ne furono Relatori, non sempre in senso concorde. È inevitabile che nell’Assemblea si riaprano le divergenze e le discussioni; e vi parteciperanno gli altri deputati. Un’identità di pensiero, su ogni questione, non è concepibile né desiderabile. Occorre bensì che alla fine, sul complesso della Costituzione, si realizzi non un’esile maggioranza ma un consenso largo e sicuro.

Ho l’impressione che noi italiani, pel nostro temperamento vivace, siamo portati ad esagerare nei nostri contrasti, e diamo talvolta ad essi troppa importanza; ma nei momenti decisivi – nella resistenza e nella liberazione, ed oggi nell’accorata protesta per l’ingiusta pace – ritroviamo un senso sostanziale di concordia. Lo ritroveremo anche per la Costituzione, nella comune devozione alla Patria ed agli ideali di libertà e di giustizia che ci devono ispirare.

RUINI, Presidente della Commissione.

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA 31 GENNAIO 1947

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA
REPUBBLICA ITALIANA

INDICE

Disposizioni generali (Articoli 1-7)                                                                  

PARTE PRIMA

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Titolo I.  – Rapporti civili (Articoli 8-22)                                                        

Titolo II.  – Rapporti etico-sociali (Articoli 23-29)                                        

Titolo III. – Rapporti economici (Articoli 30-44)                                             

Titolo IV. – Rapporti politici (Articoli 45-51)                                                 

PARTE SECONDA

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

Titolo I. – Il Parlamento:

Sezione I. – Le due Camere (Articoli 52-66)                                                         

Sezione II. – La formazione delle leggi (Articoli 67-78)                                         

Titolo II. – Il Capo dello Stato (Articoli 79-85)                                             

Titolo III. – Il Governo:

Sezione I. – Il Consiglio dei Ministri (Articoli 86-90)                                            

Sezione II. – La Pubblica Amministrazione (Articoli 91-93)                                  

Titolo IV. – La Magistratura:

Sezione I. – Ordinamento giudiziario (Articoli 94-100)                                         

Sezione II. – Norme sulla giurisdizione (Articoli 101-105)                                    

Titolo V. – Le Regioni e i Comuni (Articoli 106-125)                                       

Titolo VI. – Garanzie costituzionali:

Sezione I. – Corte costituzionale (Articoli 126-129)                                              

Sezione II. – Revisione della Costituzione (Articoli 130-131)                                 

Disposizioni finali e transitorie (I-IX)                                                           

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

composta dei deputati:

Ruini, Presidente; Tupini, Ghidini, Terracini, Vice Presidenti; Perassi, Grassi, Marinaro, Segretari; Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

TESTO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

Presentato alla Presidenza dell’Assemblea Costituente

il 31 gennaio 1947

La Commissione ha proceduto nei suoi lavori suddividendosi nel modo seguente:

PRIMA SOTTOCOMMISSIONE

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Presidente: Tupini

Segretario: Grassi

Amadei

Basso

Cevolotto

Corsanego

De Vita

Dossetti

Gotelli Angela

Iotti Leonilde

La Pira

Lucifero

Mancini

Marchesi

Mastrojanni

Merlin Umberto

Moro

Togliatti

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

ORDINAMENTO COSTITUZIONALE

Presidente: Terracini

Segretario: Perassi

Ambrosini

Bocconi

Bordon

Bozzi

Bulloni

Calamandrei

Cannizzo

Cappi

Castiglia

Codacci Pisanelli

Conti

De Michele

Di Giovanni

Einaudi

Fabbri

Farini

Finocchiaro Aprile

Froggio

Fuschini

Grieco

Laconi

Lami Starnuti

La Rocca

Leone Giovanni

Lussu

Mannironi

Mortati

Nobile

Piccioni

Porzio

Ravagnan

Rossi Paolo

Targetti

Tosato

Uberti

Zuccarini

Prima Sezione: POTERE ESECUTIVO

Terracini, Presidente

Bordon

Castiglia

Codacci Pisanelli

De Michele

Einaudi

Fabbri

Finocchiaro Aprile

Fuschini

Grieco

Lami Starnuti

La Rocca

Lussu

Mortati

Nobile Perassi

Piccioni

Rossi Paolo

Tosato

Zuccarini

Seconda Sezione: POTERE GIUDIZIARIO

Conti, Presidente

Ambrosini

Bocconi

Bozzi

Bulloni

Calamandrei

Cannizzo

Cappi

Di Giovanni

Farini

Laconi

Leone Giovanni

Mannironi

Porzio

Ravagnan

Targetti

Uberti

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

DIRITTI E DOVERI ECONOMICO-SOCIALI

Presidente: Ghidini

Segretario: Marinaro

Canevari

Colitto

Di Vittorio

Dominedò

Fanfani

Federici Maria

Giua

Lombardo

Merlin Lina

Molè

Noce Teresa

Paratore

Pesenti

Rapelli

Taviani

Togni

COMITATO DI REDAZIONE

Ruini, Presidente

Tupini

Ghidini

Terracini

Perassi

Grassi

Marinaro

Ambrosini

Calamandrei

Canevari

Cevolotto

Dossetti

Fanfani

Fuschini

Grieco

Moro

Rossi Paolo

Togliatti

N.B. – Hanno pure fatto parte della Commissione i deputati; Amendola, Assennato, Caristia, Corbi, Lombardi Giovanni, Maffi, Patricolo e Vanoni.

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 1.

L’Italia è una Repubblica democratica.

La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.

Art. 2.

La bandiera d’Italia è il «tricolore»: verde, bianco e rosso, a bande verticali di uguali dimensioni.

Art. 3.

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

Art. 4.

L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli.

Art. 5.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale.

Le altre confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti con lo Stato sono regolati per legge, sulla base di intese, ove siano richieste, con le rispettive rappresentanze.

Art. 6.

Per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 7.

I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana.

PARTE I.

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

TITOLO I.

RAPPORTI CIVILI

Art. 8.

La libertà personale è inviolabile.

Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale o domiciliare, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie, che devono essere comunicate entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria. So questa non le convalida nei termini di legge, sono revocate e restano prive di ogni effetto.

È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

Art. 9.

La libertà e la segretezza di corrispondenza e di ogni forma di comunicazione sono garantite. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi stabiliti dalla legge.

Art. 10.

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano, nei limiti e nei modi stabiliti in via generale dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza. In nessun caso la legge può limitare questa libertà per ragioni politiche.

Ogni cittadino ha diritto di emigrare, salvo gli obblighi di legge.

La Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero.

Art. 11.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero al quale siano negate nel proprio paese le libertà garantite dalla Costituzione italiana ha diritto di asilo nel territorio italiano.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Art. 12.

Tutti hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica.

Art. 13.

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono anche indirettamente scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Art. 14.

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume.

Art. 15.

Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la sua capacità giuridica, per ogni sua forma di attività.

Art. 16.

Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro.

Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, chiedere la convalida dei loro atti all’autorità giudiziaria.

La legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina misure adeguate.

Art. 17.

Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.

Art. 18.

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge.

Art. 19.

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Art. 20.

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale che gli è precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo.

Art. 21.

La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto le leggi militari di guerra.

Art. 22.

I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

TITOLO II.

RAPPORTI ETICO-SOCIALI

Art. 23.

La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della nazione.

La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose.

Art. 24.

Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia.

Art. 25.

È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole. Nei casi di provata incapacità morale o economica la Repubblica cura che siano adempiuti tali compiti.

I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio. La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali.

La Repubblica provvede alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari a tale scopo.

Art. 26.

La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio se non per legge. Sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana.

Art. 27.

L’arte e la scienza sono libere; e libero è il loro insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione; organizza la scuola in tutti i suoi gradi mediante istituti statali; riconosce ad enti ed a privati la facoltà di formare scuole ed istituti d’educazione.

Le scuole che non chiedono la parificazione sono soggette soltanto alle norme per la tutela del diritto comune e della morale pubblica.

La legge determina i diritti e gli obblighi delle scuole che chiedono la parificazione e prescrive le norme per la loro vigilanza, in modo che sia rispettata la libertà ed assicurata, a parità di condizioni didattiche, parità di trattamento agli alunni.

Per un imparziale controllo ed a garanzia della collettività è prescritto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale e per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole indicati dalla legge.

Art. 28.

La scuola è aperta al popolo.

L’insegnamento inferiore, impartito per almeno otto anni, è obbligatorio e gratuito.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

La Repubblica assicura l’esercizio di questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, da conferirsi per concorso agli alunni di scuole statali e parificate.

Art. 29.

I monumenti artistici e storici, a chiunque appartengano ed in ogni parte del territorio nazionale, sono sotto la protezione dello Stato. Compete allo Stato anche la tutela del paesaggio.

TITOLO III.

RAPPORTI ECONOMICI

Art. 30.

La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro.

Art. 31.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Art. 32.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia.

Il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite.

Art. 33.

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare.

Art. 34.

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

I lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato.

Art. 35.

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica.

Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Art. 36.

Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero.

Art. 37.

Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo.

La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali.

Art. 38.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità.

La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo.

Art. 39.

L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Art. 40.

Per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale.

Art. 41.

Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo, promuove la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà.

Art. 42.

La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione; ne favorisce l’incremento e la sottopone alla vigilanza, stabilita con legge, per assicurarne i caratteri e le finalità.

Art. 43.

I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera.

Art. 44.

La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

TITOLO IV.

RAPPORTI POLITICI

Art. 45.

Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale.

Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale.

Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge.

Art. 46.

Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale.

Art. 47.

Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

Art. 48.

Tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizioni d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite da legge.

Per l’adempimento delle funzioni pubbliche ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro.

Art. 49.

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

Il servizio militare è obbligatorio. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana.

Art. 50.

Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.

Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.

Art. 51.

Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica.

PARTE II.

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

TITOLO I.

IL PARLAMENTO

Sezione I.

Le Camere.

Art. 52.

Il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori.

Le Camere si riuniscono in Assemblea Nazionale, nei casi preveduti dalla Costituzione.

Art. 53.

La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto, in ragione di un Deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.

Art. 54.

Sono eleggibili a Deputati tutti gli elettori che hanno compiuto i venticinque anni di età al momento delle elezioni.

Art. 55.

La Camera dei Senatori è eletta a base regionale.

A ciascuna Regione è attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque Senatori, un Senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. La Valle d’Aosta ha un solo Senatore. Nessuna Regione può avere un numero di Senatori maggiore di quello dei Deputati che manda all’altra Camera.

I Senatori sono eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.

Art. 56.

Sono eleggibili a Senatori gli elettori, nati o domiciliati nella Regione, che hanno compiuto trentacinque anni d’età, e sono o sono stati:

decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-1945, capi di formazioni regolari o partigiane con grado non inferiore a comandante di divisione;

Presidenti della Repubblica, Ministri o Sottosegretari di Stato, Deputati all’Assemblea Costituente o alla Camera dei Deputati, membri non dichiarati decaduti del disciolto Senato;

membri per quattro anni complessivi di Consigli regionali o comunali;

professori ordinari di università e di istituti superiori, membri dell’Accademia dei Lincei e di corpi assimilati;

magistrati e funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni di gradi non inferiori o equiparati a quelli di consigliere di cassazione o direttore generale;

membri elettivi per quattro anni di consigli superiori presso le amministrazioni centrali; di consigli di ordini professionali; di consigli di Camere di commercio, industria ed agricoltura; di consigli direttivi nazionali, regionali o provinciali di organizzazioni sindacali;

membri per quattro anni di consigli di amministrazione o di gestione di aziende private o cooperative con almeno cento dipendenti o soci; imprenditori individuali, proprietari conduttori, dirigenti tecnici ed amministrativi di aziende di eguale importanza.

Art. 57.

Il numero dei membri da eleggere per ciascuna Camera è stabilito con legge in base all’ultimo censimento generale della popolazione.

Art. 58.

Le due Camere sono elette per cinque anni.

I loro poteri sono tuttavia prorogati sino alla riunione delle nuove Camere.

La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso di guerra in corso o di imminente pericolo di guerra.

Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. Il provvedimento che le indice fissa la prima riunione delle Camere non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.

Art. 59.

Le due Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre.

Ciascuna Camera si riunisce inoltre in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente, o su richiesta del Presidente della Repubblica o di un terzo dei membri della Camera.

Quando si riunisce una Camera, è convocata di diritto anche l’altra.

Art. 60.

Ciascuna Camera elegge nel proprio seno il Presidente e l’Ufficio di Presidenza.

La Presidenza dell’Assemblea Nazionale è assunta per la durata di un anno, alternativamente, dal Presidente della Camera dei Deputati e dal Presidente della Camera dei Senatori.

Art. 61.

Ciascuna Camera e l’Assemblea Nazionale adottano il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei loro membri.

Le sedute sono pubbliche; tuttavia le Camere e l’Assemblea possono deliberare di riunirsi in Comitato segreto.

Le deliberazioni delle Camere e dell’Assemblea non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro membri e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale.

I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute. Debbono essere intesi ogni volta che lo richiedano.

Art. 62.

La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore.

Nessuno può essere contemporaneamente membro delle due Camere.

Art. 63.

Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei propri membri.

Art. 64.

Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

Art. 65.

I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Nessun membro del Parlamento può, senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, essere sottoposto a procedimento penale, né arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione domiciliare, salvo il caso di flagrante delitto, per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.

Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento, in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.

Art. 66.

I membri del Parlamento ricevono una indennità fissata dalla legge.

Sezione II.

La formazione delle leggi.

Art. 67.

La funzione legislativa è collettivamente esercitata dalle due Camere.

Art. 68.

L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti cui sia conferita da legge costituzionale.

Il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un disegno redatto in articoli.

Art. 69.

Ogni disegno di legge deve essere previamente esaminato da una Commissione di ciascuna Camera secondo le norme del rispettivo regolamento; e deve essere approvato dalle Camere, articolo per articolo, con votazione finale a scrutinio segreto.

Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per l’esame e l’approvazione di disegni di legge, dei quali sia dichiarata l’urgenza.

Su richiesta del Governo o del proponente, ciascuna Camera può deliberare che l’esame di un disegno di legge sia deferito ad una Commissione composta in modo da rispettare la proporzione dei gruppi alla Camera, e che su relazione della Commissione si proceda alla votazione senza discutere, salve le dichiarazioni di voto.

Tale procedimento non è applicabile ai disegni di legge concernenti l’approvazione dei bilanci e l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.

Art. 70.

I disegni di legge approvati da una Camera sono trasmessi all’altra, che deve pronunciarsi entro tre mesi dal giorno che li ha ricevuti. Il termine può essere variato per accordo delle Camere.

Quando una Camera non si pronuncia entro il termine stabilito sopra un disegno di legge approvato dall’altra, o quando lo rigetta, il Presidente della Repubblica può chiedere che la Camera stessa si pronunci o riesamini il disegno. Se non si pronuncia o se con la nuova deliberazione conferma la precedente, il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire il referendum popolare sul disegno non approvato.

Art. 71.

Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione.

Se le Camere ne dichiarano l’urgenza, ciascuna a maggioranza assoluta dei suoi membri, la legge è promulgata nel termine fissato dalle Camere stesse.

Le leggi entrano in vigore non prima del ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le Camere abbiano come sopra dichiarato l’urgenza.

Art. 72.

L’entrata in vigore d’una legge non dichiarata urgente a maggioranza assoluta, o non approvata da ciascuna Camera a maggioranza di due terzi, è sospesa quando, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, cinquantamila elettori o tre Consigli regionali domandano che sia sottoposta a referendum popolare. Il referendum ha luogo se nei due mesi dalla pubblicazione della legge l’iniziativa ottiene l’adesione, complessivamente, di cinquecentomila elettori o di sette Consigli regionali.

Si procede altresì a referendum quando cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali domandano che sia abrogata una legge vigente da almeno due anni.

In nessun caso è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione dei bilanci e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.

Art. 73.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei Deputati.

La proposta soggetta a referendum è approvata se hanno partecipato alla votazione i due quinti degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Art. 74.

L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non previa determinazione di principî e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.

Per i decreti legislativi valgono le norme stabilite per le leggi in ordine al referendum popolare ed alla Corte costituzionale.

Art. 75.

Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.

L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale.

Art. 76.

Le due Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali di natura politica o d’arbitrato e regolamento giudiziario, e di quelli che importano variazioni del territorio nazionale, oneri alle finanze o modificazioni di leggi.

Art. 77.

Le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.

L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi.

Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.

In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte.

Art. 78.

Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse.

La Commissione d’inchiesta è nominata con la rappresentanza proporzionale dei vari gruppi della Camera e svolge la sua attività procedendo agli esami e alle indagini con gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria.

TITOLO II.

IL CAPO DELLO STATO

Art. 79.

Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta.

L’elezione del Presidente della Repubblicana ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi, e dopo il terzo scrutinio a maggioranza assoluta dei membri che compongono l’Assemblea a questo fine.

Art. 80.

Sono eleggibili i cittadini che hanno compiuto quarantacinque anni d’età e godono dei diritti civili e politici.

L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica.

L’assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge.

Art. 81.

Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni.

Trenta giorni prima che scada il termine, il Presidente dell’Assemblea Nazionale convoca l’Assemblea per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Se le Camere sono sciolte, oppure manca meno di tre mesi alla fine della legislatura, l’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo entro quindici giorni dalla costituzione delle nuove Camere. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica.

Art. 82.

Le funzioni del Presidente della Repubblica sono, in caso di suo impedimento, esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale.

Se l’impedimento è permanente, o in caso di morte o dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente dell’Assemblea Nazionale indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine nel caso previsto dall’ultimo comma dell’articolo precedente.

Art. 83.

Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Promulga le leggi ed emana i decreti legislativi ed i regolamenti.

Nomina, ai gradi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato.

Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati internazionali, previa, quando sia richiesta, l’autorizzazione delle Camere.

Ha il comando delle Forze armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale.

Presiede il Consiglio superiore della Magistratura.

Può concedere grazia e commutare le pene.

Art. 84.

Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere.

Art. 85.

Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal Primo Ministro e dai Ministri competenti che ne assumono la responsabilità.

Il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per violazione della Costituzione.

In tali casi può essere messo in istato di accusa dall’Assemblea Nazionale a maggioranza assoluta dei suoi membri.

TITOLO III.

IL GOVERNO

Sezione I.

Il Consiglio dei Ministri.

Art. 86.

Il Governo della Repubblica è composto del Primo Ministro, Presidente del Consiglio, e dei Ministri.

Il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e, su proposta di questo, i Ministri.

Art. 87.

Primo Ministro e Ministri debbono avere la fiducia del Parlamento.

Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta all’Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia.

La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea.

Art. 88.

Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una proposta del Governo non importa dimissioni.

Una mozione di sfiducia non può essere presentata ad una Camera se non è motivata e firmata da un quarto dei componenti, né può essere posta in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.

Dopo il voto di sfiducia di una delle Camere il Governo, se non intende dimettersi, deve convocare l’Assemblea Nazionale che si pronuncia su una mozione motivata.

Art. 89.

Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo di tutti i Dicasteri, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri.

I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e personalmente degli atti dei loro Dicasteri.

La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri.

Art. 90.

Il Primo Ministro ed i Ministri possono essere messi in istato d’accusa dalle due Camere per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.

Sezione II.

La Pubblica Amministrazione.

Art. 91.

I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se non per anzianità.

Art. 92.

Il Consiglio economico nazionale, composto nei modi stabiliti dalla legge, è organo di consulenza del Parlamento e del Governo in materia economica; ed esercita le altre funzioni che gli sono dalla legge attribuite.

Art. 93.

Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione.

La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e quello anche successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo dello Stato sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente al Parlamento sul risultato del riscontro effettuato.

La legge determina le condizioni necessarie ad assicurare l’indipendenza degli istituti suddetti e dei loro componenti di fronte al Governo.

TITOLO IV.

LA MAGISTRATURA

Sezione I.

Ordinamento giudiziario.

Art. 94.

La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo.

I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza.

I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete.

Art. 95.

La funzione giurisdizionale in materia civile e penale è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti spetta la giurisdizione nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge.

Presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario.

Le norme sull’ordinamento giudiziario e quelle sulle magistrature del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sono stabilite con legge approvata a maggioranza assoluta dei membri delle due Camere.

Non possono essere istituiti giudici speciali se non per legge approvata nel modo sopra indicato. In nessun caso possono istituirsi giudici speciali in materia penale.

I tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra.

Art. 96.

Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise.

Art. 97.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto del Primo Presidente della Corte di cassazione, vicepresidente, di un altro vicepresidente nominato dall’Assemblea Nazionale e di membri designati per sette anni, metà da tutti i magistrati fra gli appartenenti alle diverse categorie, metà dall’Assemblea Nazionale fuori del proprio seno. Gli eletti dall’Assemblea Nazionale iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione finché fanno parte del Consiglio.

Le assunzioni, le promozioni, le assegnazioni ed i trasferimenti di sede e di funzioni, i provvedimenti disciplinari ed in genere il governo della Magistratura ordinaria sono di competenza del Consiglio Superiore secondo le norme dell’ordinamento giudiziario.

Il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario.

Art. 98.

I magistrati sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario.

Il Consiglio Superiore della Magistratura può designare per la nomina magistrati onorari in tutte le funzioni attribuite dalle legge a giudici singoli; e può designare all’ufficio di Consigliere di cassazione professori ordinari di materie giuridiche nelle Università ed avvocati dopo quindici anni d’esercizio.

Art. 99.

I magistrati sono inamovibili.

Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, retrocessi, trasferiti o destinati ad altra sede o funzione se non col loro consenso o con deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, per i motivi e con le garanzie di difesa stabiliti dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi.

Il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati.

Art. 100.

L’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria.

Sezione II.

Norme sulla giurisdizione.

Art. 101.

L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare.

Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti.

Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati.

Art. 102.

Contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge.

Art. 103.

La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione è disposta in via generale dalla legge e non può essere soppressa o limitata per determinate categorie di atti.

Art. 104.

Le sentenze non più soggette ad impugnazione di qualsiasi specie non possono essere annullate o modificate neppure per atto legislativo, salvo i casi di legge penale abrogativa o di amnistia, grazia ed indulto.

L’esecuzione di una sentenza irrevocabile non può essere sospesa se non nei casi previsti dalla legge.

Art. 105.

L’Avvocatura dello Stato provvede alla consulenza legale ed alla difesa in giudizio dello Stato e degli altri enti indicati dalla legge.

Agli avvocati e procuratori dello Stato competono garanzie adeguate per l’esercizio delle loro funzioni.

TITOLO V.

LE REGIONI E I COMUNI

Art. 106.

La Repubblica italiana, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali.

Attua, nei servizi che dipendono dallo Stato, un ampio decentramento amministrativo.

Adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Art. 107.

La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni.

Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale.

Art. 108.

Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione.

Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia con statuti speciali adottati mediante leggi costituzionali [1].

Art. 109.

La Regione ha potestà di emanare per le seguenti materie norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, e rispettino gli obblighi internazionali e gli interessi della Nazione e delle altre Regioni:

ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali;

modificazioni delle circoscrizioni comunali;

polizia locale urbana e rurale;

fiere e mercati;

beneficenza pubblica;

scuola artigiana;

urbanistica;

strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale;

porti lacuali;

pesca nello acque interne di carattere regionale;

torbiere.

Art. 110.

La Regione ha potestà di emanare, per le seguenti materie, norme legislative nei limiti del precedente articolo, e con l’osservanza dei principii e delle direttive che la Repubblica ritenga stabilire con legge allo scopo di una loro disciplina uniforme:

assistenza ospedaliera;

istruzione tecnico-professionale;

biblioteche di enti locali;

turismo e industria alberghiera;

agricoltura o foreste;

cave;

caccia;

acque pubbliche ed energia elettrica, in quanto il loro regolamento non incida sull’interesse nazionale e su quello di altre Regioni;

acque minerali e termali;

tramvie;

linee automobilistiche regionali.

Art. 111.

La Regione ha potestà di emanare norme legislative di integrazione ed attuazione delle disposizioni di legge della Repubblica, per adattarle alle condizioni regionali, in materia di:

igiene e sanità pubblica;

istruzione elementare e media;

antichità e belle arti;

disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio;

industria e commercio;

miniere;

navigazione interna;

e in tutte le materie indicate da leggi speciali.

Le leggi della Repubblica possono demandare alle Regioni il potere di emanare norme regolamentari per la loro esecuzione.

Art. 112.

La Regione provvede all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 e nelle altre delle quali lo Stato le delega la gestione.

Art. 113.

Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni.

Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali. Il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali.

Allo stesso scopo possono essere istituiti fondi per fini speciali in base a leggi della Repubblica che determinano i contributi dello Stato e delle Regioni, e la gestione e la ripartizione dei fondi.

La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.

Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione, o di transito fra l’una e l’altra Regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose.

Art. 114.

Sono organi della Regione il Consiglio regionale, la Deputazione regionale ed il suo Presidente.

Una legge della Repubblica stabilisce il numero dei membri del Consiglio ed il sistema elettorale, che deve essere conforme a quello per la formazione della Camera dei Deputati.

Il Presidente ed i membri della Deputazione regionale sono eletti dal Consiglio regionale, che elegge pure nel suo seno un Presidente ed un Ufficio di Presidenza per i proprii lavori.

I membri del Consiglio regionale non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Art. 115.

Il Consiglio regionale esercita la potestà legislativa che compete alla Regione e quella regolamentare delegata dallo Stato. Può proporre disegni di legge al Parlamento nazionale. Adempie le altre funzioni conferite dalle leggi.

La Deputazione regionale è l’organo esecutivo della Regione.

Il Presidente della Deputazione rappresenta la Regione.

Art. 116.

Il Presidente della Deputazione regionale dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo centrale.

Un Commissario del Governo residente nel capoluogo della Regione vigila e coordina secondo le direttive generali del Governo gli atti dell’amministrazione regionale per le funzioni delegate alle Regioni e presiede all’esercizio di quelle riservate allo Stato.

Art. 117.

Il Consiglio regionale può essere sciolto quando compie atti contrari all’unità nazionale o altre gravi violazioni di legge; e quando, non ostante la segnalazione fatta dal Governo, non procede alla sostituzione della Deputazione o del Presidente della Deputazione, che hanno compiuto analoghi atti e violazioni.

Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri e deliberazione conforme della Camera dei senatori, presa a maggioranza assoluta dei suoi membri, con l’astensione dal voto dei rappresentanti della Regione interessata.

Con lo stesso decreto di scioglimento è nominata una Commissione di tre membri, scelti fra i cittadini eleggibili al Consiglio regionale. La Commissione indice le elezioni del Consiglio entro due mesi dalla pubblicazione del decreto di scioglimento ed intanto provvede all’ordinaria amministrazione di competenza della Deputazione ed alle misure improrogabili, da sottoporre poi alla ratifica del Consiglio.

Art. 118.

I disegni di legge approvati dal Consiglio regionale sono comunicati al Governo centrale, e promulgati trenta giorni dopo la comunicazione, salvo che il Governo non li rinvii al Consiglio regionale col rilievo che eccedono la competenza della Regione o contrastano con gli interessi nazionali o di altre Regioni.

Ove il Consiglio regionale li approvi nuovamente a maggioranza assoluta dei suoi membri sono promulgati, ma non entrano ancora in vigore, se entro quindici giorni dalla comunicazione il Governo li impugna per incostituzionalità davanti alla Corte costituzionale o nel merito, per contrasto di interessi, davanti all’Assemblea Nazionale. In caso di dubbio la Corte decide se competente a pronunciarsi sia essa stessa o l’Assemblea.

So una legge è dichiarata urgente dal Consiglio regionale ed il Governo consente, la promulgazione e l’entrata in vigore non sono subordinate ai termini indicati.

Le leggi regionali sono vistate dal Commissario del Governo nella Regione e promulgate dal Presidente della Deputazione regionale.

Art. 119.

Gli statuti regionali regolano l’esercizio dei diritti d’iniziativa e di referendum popolare in armonia con i principii stabiliti dalla Costituzione per le leggi della Repubblica.

Gli statuti regionali regolano altresì il referendum su determinati provvedimenti amministrativi.

Art. 120.

La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo di uffici nelle circoscrizioni provinciali, che può suddividere in circondari per un ulteriore decentramento.

Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica.

Art. 121.

Il Comune è autonomo nell’ambito dei principii fissati dalle leggi generali della Repubblica.

Con legge della Regione, su richiesta della maggioranza delle popolazioni interessate, possono essere creati nuovi Comuni, o modificate le circoscrizioni esistenti.

Art. 122.

Sugli atti della Regione è esercitato il controllo di legittimità da un organo centrale composto in maggioranza di elementi elettivi secondo l’ordinamento stabilito dalle leggi della Repubblica.

Il controllo di legittimità sugli atti dei Comuni e degli altri enti locali è esercitato dalle Regioni per mezzo di organi in maggioranza elettivi nei modi e limiti stabiliti con leggi della Repubblica. Per le deliberazioni amministrative indicate dalla legge, l’autorità deliberante può essere invitata a riesaminare il merito della deliberazione.

Nella Regione sono costituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado secondo l’ordinamento da stabilire con legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione.

Art. 123.

Le Regioni sono così costituite:

Piemonte;

Valle d’Aosta;

Lombardia;

Trentino-Alto Adige;

Veneto;

Friuli e Venezia Giulia;

Liguria;

Emiliana lunense;

Emilia e Romagna;

Toscana;

Umbria;

Marche;

Lazio;

Abruzzi;

Molise;

Campania;

Puglia;

Salento;

Lucania;

Calabria;

Sicilia;

Sardegna.

I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica [2].

Art. 124.

Lo statuto di ogni Regione è stabilito in armonia alle norme costituzionali, con legge regionale deliberata a maggioranza assoluta dei consiglieri e a due terzi dei presenti; e deve essere approvato con legge della Repubblica.

Art. 125.

Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali interessati, disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di 500 mila abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.

Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Comuni, i quali ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati a un’altra.

TITOLO VI.

GARANZIE COSTITUZIONALI

Sezione I.

Corte costituzionale.

Art. 126.

La Corte costituzionale giudica della costituzionalità di tutte le leggi.

Risolve i conflitti d’attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni, fra le Regioni.

Giudica il Presidente della Repubblica ed i Ministri accusati a norma della Costituzione.

Art. 127.

La Corte è composta per metà di magistrati, per un quarto di avvocati e docenti di diritto, per un quarto di cittadini eleggibili ad ufficio politico, tutti aventi l’età di almeno quarant’anni.

I giudici della Corte sono nominati dall’Assemblea Nazionale. Per le categorie dei magistrati, avvocati e docenti di diritto, la nomina ha luogo su designazione, in numero triplo di nomi, rispettivamente da parte delle magistrature ordinaria ed amministrative, del Consiglio superiore forense, e dei professori ordinari di discipline giuridiche nelle Università.

La Corte elegge il Presidente tra i suoi componenti. Il Presidente ed i giudici durano in carica nove anni. Sono ineleggibili i membri del Governo, delle Camere e dei Consigli regionali.

Art. 128.

Quando, nel corso di un giudizio, la questione d’incostituzionalità di una norma legislativa è rilevata d’ufficio o quando è eccepita dalle parti, ed il giudice non la ritiene manifestamente infondata, la questione è rimessa per la decisione alla Corte costituzionale.

La dichiarazione d’incostituzionalità può essere promossa in via principale dal Governo, da cinquanta deputati, da un Consiglio regionale, da non meno di diecimila elettori o da altro ente ed organo a ciò autorizzato dalla legge sulla Corte costituzionale.

Se la Corte, nell’uno o nell’altro caso, dichiara l’incostituzionalità della norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della Corte è comunicata al Parlamento, perché, ove lo ritenga necessario, provveda nelle forme costituzionali.

Art. 129.

La legge stabilisce le norme che regolano i conflitti di attribuzione e la composizione e il funzionamento della Corte costituzionale.

Sezione II.

Revisione della Costituzione.

Art. 130.

La iniziativa della revisione costituzionale appartiene al Governo ed alle Camere.

La legge di revisione costituzionale è adottata da ciascuna delle Camere in due letture, con un intervallo non minore di tre mesi. Per il voto finale in seconda lettura è richiesta la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera.

La legge di revisione costituzionale è sottoposta a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali.

Non si fa luogo a referendum, se la legge è stata approvata in seconda lettura da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi membri.

Art. 131.

La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale.

DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE

I.

È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

La disposizione dell’articolo 56 della Costituzione per l’eleggibilità a senatore non è applicabile ai ministri, sottosegretari di Stato, deputati e consiglieri nazionali fascisti.

Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste.

II.

I discendenti delle Case già regnanti in Italia non sono elettori né eleggibili a cariche pubbliche.

I membri di Casa Savoia non possono soggiornare nel territorio della Repubblica Italiana.

III.

La legge dispone l’avocazione allo Stato dei beni di Casa Savoia.

IV.

Non sono riconosciuti i titoli nobiliari.

I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome.

La legge regola la soppressione della Consulta araldica.

L’Ordine mauriziano è mantenuto come ente ospedaliero.

V.

Se al momento delle prime elezioni della Camera dei senatori non sono costituiti tutti i Consigli regionali, si procede, anche per il terzo che essi dovrebbero eleggere, con il sistema adottato per gli altri due terzi.

La prima elezione del Presidente della Repubblica, ove non siano già costituiti tutti i Consigli regionali, ha luogo soltanto da parte dei membri dell’Assemblea Nazionale.

VI.

Si applica all’Assemblea Costituente la disposizione del secondo comma dell’articolo 58 della Costituzione.

VII.

Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i Tribunali militari.

Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvede con legge alla soppressione del Tribunale Supremo Militare e alla devoluzione della sua competenza alla Cassazione.

VIII.

Leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica amministrazione il trapasso delle funzioni statali attribuite alle Regioni e quello di funzionari e dipendenti dello Stato, anche centrali, che si rende necessario in conseguenza del nuovo ordinamento.

Alla Regione sono trasferiti, nei modi da stabilire con leggi della Repubblica, il patrimonio, i servizi ed il personale delle Provincie.

IX.

La presente Costituzione sarà promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente.

[1] La Commissione si riserva di decidere sulla aggiunta della Regione del Friuli-Venezia Giulia, alle quattro cui è attribuita un’autonomia speciale.

[2] Su questo testo, proposto dalla seconda Sottocommissione, la Commissione, in seduta plenaria, ha sospeso ogni decisione, in attesa che siano raccolti gli elementi di giudizio, mediante l’inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.

VENERDÌ 26 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

1.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 26 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sull’ordine dei lavori

Presidente – Ambrosini – Bordon – Mortati – Codacci Pisanelli – Lussu – Perassi – Nobile – Cappi – Piccioni – Grieco – La Rocca – Conti – Fabbri – Tosato – Mannironi – Fuschini.

La seduta comincia alle 10.20.

Sull’ordine dei lavori.

PRESIDENTE ricorda che nella decisione presa in via di massima dalla Commissione plenaria, i temi che questa Sottocommissione dovrà trattare sono stati indicati con sufficiente approssimazione, ma devono ora essere maggiormente specificati, per poter procedere o alla loro delibazione iniziale o alla determinazione del numero delle sezioni da costituire per una più proficua suddivisione del lavoro.

Quella decisione di massima indica i problemi della struttura dello Stato specificandoli in quattro divisioni principali: Parlamento, Capo dello Stato, Governo, ed Organi di garanzia, intesi questi in senso abbastanza largo. Poi è stato affidato alla seconda Sottocommissione anche il problema dell’autonomia che, come è già stato rilevato con larga giustificazione, è il tema pregiudiziale ad ogni altro.

Propone pertanto di affrontare il problema dell’autonomia, tenendolo per ora distaccato dai quattro temi specifici suddetti.

Dopo che si sarà chiarito il problema dell’autonomia, si potrà vedere in qual modo procedere del lavoro sui singoli temi.

Si potrebbe anche pensare di passare subito alla formazione delle sezioni nominando un relatore sopra ogni tema, ma in tal caso le quattro sezioni dovrebbero provvisoriamente sospendere l’inizio dei propri lavori, in attesa che il tema della autonomia sia portato alle prime conclusioni.

AMBROSINI osserva che lo schema proposto dal Presidente è molto semplice. Indubbiamente il problema dell’autonomia investe tutte le questioni istituzionali ed è opportuno trattarlo pregiudizialmente, anche senza arrivare a decisioni.

BORDON è pure d’accordo che si debba procedere innanzitutto all’esame del problema delle autonomie perché pregiudiziale. I lavori sugli altri argomenti potranno proficuamente svolgersi soltanto dopo che si sarà raggiunto un orientamento sulla questione della autonomia.

MORTATI trova opportuno che la Commissione si suddivida anzitutto in sezioni, che il Presidente propone nel numero di quattro e che potrebbero essere anche cinque.

II problema dell’autonomia è così complesso ed investe talmente tutta la struttura dello Stato, che una sua trattazione isolata non gioverebbe alla chiarificazione. Ogni sezione potrebbe esaminare il problema dal punto di vista dei problemi di sua competenza, in modo che dalla riunione dei risultati delle Sezioni si possa ricavare un giudizio più esatto.

Per la stessa ragione per cui in seduta plenaria si è escluso di procedere ad una discussione preliminare sull’autonomia, crede che la stessa esclusione debba farsi nella Sottocommissione.

Per la suddivisione interna del lavoro, propone che si abbiano cinque sezioni: la) per il problema dell’autonomia; 2a) per quello degli organi del potere costituente e legislativo, ed è forse opportuno avvicinare i due temi; 3a) per la funzione legislativa e costituente, in modo da separare in un esame distinto gli organi e le funzioni; 4a) per gli organi e le funzioni amministrative; 5a) per i principî costituzionali di garanzia del diritto.

CODACCI PISANELLI si associa alla proposta Mortati di non esaminare pregiudizialmente il problema dell’autonomia; il che corrisponde anche al fatto che la Commissione plenaria ha deciso di assegnare il tema dell’autonomia non alla prima, ma alla seconda Sottocommissione, perché l’orientamento è, evidentemente, verso un concetto di decentramento amministrativo.

Quanto alla suddivisione in sezioni, ritiene sia più opportuno che queste siano quattro, anziché cinque.

LUSSU si rimette alle decisioni che saranno prese per la suddivisione del lavoro: circa il modo di procedere  in questo, osserva che la proposta del Presidente risponde a quello che è stato deciso in Commissione plenaria ed è la più razionale. La questione delle autonomie deve essere chiarita all’inizio, altrimenti si rischierebbe di compiere un lavoro che poi si dovrebbe ricominciare dopo che fossero chiariti i principî fondamentali. Per esempio, se si adottasse il concetto del federalismo, tutta la struttura organizzativa dello Stato dovrebbe seguire l’indirizzo federalista.

PERASSI concorda col collega Lussu e non sa spiegarsi come l’onorevole Codacci Pisanelli possa dire che già si abbia una presa di posizione sul problema delle autonomie, mentre in seduta plenaria si è discusso soltanto sulla sua assegnazione alla prima o alla seconda Sottocommissione, lasciandone del tutto impregiudicata la soluzione, e solo riconoscendone il carattere pregiudiziale rispetto a tutti gli altri. E appunto perché è un problema pregiudiziale, ritiene che non sia conveniente dividerlo fra le singole sezioni e che, data la sua natura, debba essere esaminato da tutta la Sottocommissione.

Può darsi che ad un certo punto sia opportuno formare un’apposita sezione, ma una prima delibazione deve farla la Sottocommissione.

NOBILE riconosce che la questione dell’autonomia deve essere delibata, ma non ritiene che si possa decidere per un tipo di autonomia e poi procedere al lavoro di Sottocommissioni, perché non si ha la facoltà di prendere una decisione.

Più utile sarebbe, a suo avviso, costituire una sezione incaricata di riferire al più presto sulla questione dell’autonomia. Ciò servirà ad orientare sulle conseguenze possibili per i lavori delle Sottocommissioni. Ma pensa che si dovranno prendere in esame tutti i varî schemi.

CAPPI concorda sul principio che le conclusioni sul tema delle autonomie siano pregiudiziali alle conclusioni sugli altri temi, cosicché non basta una semplice delibazione; ma osserva che, per arrivare a delle conclusioni, occorre un tempo notevole, durante il quale la Sottocommissione rimarrebbe inerte, ciò che lo rende molto perplesso.

PICCIONI ritiene che si possa trovare una linea di convergenza tra le due impostazioni. L’indirizzo fondamentale secondo il quale la struttura costituzionale, amministrativa, legislativa dello Stato deve essere ideata ha una influenza ed un peso notevole, perché l’organizzazione sarà diversa a seconda che si segua il principio autonomistico o il principio centralizzatore. Sotto questo profilo, l’esame del principio autonomistico deve avere nella Sottocommissione una certa prevalenza e priorità sul resto.

Ma si domanda se sia opportuno costituire una Sezione che studi soltanto il principio autonomistico, lasciando nel frattempo le altre inoperose, o se – invece – – non sia più opportuno esaminare il principio autonomistico in Sottocommissione, e pensa che sia questa la soluzione più opportuna, perché si tratta di un principio che si ripercuote su tutti i singoli argomenti che le sezioni dovranno esaminare.

Praticamente si può procedere anzitutto ad uno scambio di idee da cui risulteranno le divergenze e i contrasti, per poi nominare uno o due relatori, che cerchino di precisare e concretare meglio il pensiero prevalente nella Sottocommissione.

Una volta stabilito in modo concreto il principio autonomistico nei termini in cui dovrebbe essere tenuto presente nella formulazione della struttura del nuovo Stato, la Sottocommissione potrà cominciare a lavorare in concreto.

Propone perciò che si affronti la questione generale del principio autonomistico, per nominare un relatore il quali concreti i criteri che saranno stati accettati a maggioranza o ad unanimità, criteri che dovranno servire di orientamento per il lavoro delle altre Sottocommissioni.

GRIECO concorda completamente nella proposta Piccioni e nella sua motivazione.

MORTATI insiste nella sua proposta per varie ragioni. Quando si dice che il problema delle autonomie è pregiudiziale, si intende riferirsi non alla determinazione degli enti che dovranno essere dichiarati autonomi e alle forme di autonomia che dovranno essere concesse, ma alla struttura complessiva dello Stato, al principio fondamentale ispiratore di tutti i suoi istituti. Quindi il risultato cui tutti tendono è il medesimo. Ma sul metodo vi è disaccordo e bisogna vedere quale sia più opportuno per affrontare la discussione su tutta la struttura dello Stato. Il principio autonomistico è possibile risolverlo in sede di delibazione astratta, o non guadagna piuttosto di concretezza, se è esaminato prima nei suoi vari aspetti e nelle sue applicazioni? Egli crede che, dopo fatto questo esame differenziato e minuto, sia possibile discutere in seduta plenaria con maggiore consapevolezza circa le ripercussioni sui singoli istituti concreti, e che a questo modo la discussione guadagni in solidità; altrimenti, si perde tempo in una discussione preliminare e non approfondita.

Chiede quindi che si proceda alla divisione della Sottocommissione in Sezioni, ciascuna delle quali esaminerà il principio autonomistico, in relazione al suo tema specifico. La sezione delle autonomie locali dovrebbe esaminare l’autonomia in sé e per sé; non nelle sue ripercussioni sui vari istituti dello Stato.

LA ROCCA crede che la questione delle autonomie debba essere preliminare e pregiudiziale, perché finirà con l’improntare di sé tutto il lavoro. Se si esamina quale deve essere la struttura dei vari organi dello Stato, lasciando in sospeso e impregiudicata la questione delle autonomie, si rischia di compiere un lavoro perfettamente inutile.

CONTI osserva che l’onorevole Mortati suggerisce un metodo che potrebbe dare risultati eccellenti. Se si esamina in ogni sezione il problema della struttura dello Stato in relazione e al principio autonomistico e al principio accentratore, ne può venire un lavoro imponente, del quale la Commissione plenaria potrebbe servirsi. Ma teme che il tempo richiesto sarebbe enormemente lungo.

Trova molto più semplice e più utile il piano proposto dal collega Piccioni, che tende a che ci si renda conto della portata del problema autonomistico, vedendone i risultati, per poi, in relazione a quest’esame, procedere al lavoro delle sezioni. A questo piano si associa.

E si potrà procedere speditamente se la discussione sulle autonomie sarà concreta.

PRESIDENTE riassume la discussione e pone ai voti la proposta di discutere pregiudizialmente la questione delle autonomie.

(È approvata).

Invita quindi l’Assemblea a pronunciarsi circa il modo col quale procedere a questa trattazione: se cioè affrontare il problema in seduta plenaria della Sottocommissione  oppure procedere alla formazione di una sezione speciale, salvo a vedere poi se deve essere una sezione a sé, o una specie di intersezione.

FABBRI ha l’impressione che vi sia un certo dissenso, e indubbiamente esso sorgerà poi, sulle applicazioni del concetto dell’autonomia: forse non è eguale in tutti il concetto del contenuto dell’autonomia in sé e per sé. Perciò non ritiene superflua una discussione preliminare di carattere generale, che può chiarire dei concetti quasi elementari sull’autonomia, attraverso informazioni complete e precise, date da chi abbia già acquisito i concetti essenziali e sappia quindi perfettamente, per maturità di studi, che cosa s’intende oggi nella dottrina e nella pratica sotto il concetto di autonomia. Trova quindi opportuno nominare un relatore a questo scopo.

Non crede sia il caso di costituire una sottosezione, o comitato, i cui componenti potrebbero anche trovarsi d’accordo su un concetto dell’autonomia, che non fosse quello della generalità dei membri di tutta la Sottocommissione. Non è possibile continuare a parlare di autonomia in una situazione in cui molti non sanno esattamente di che cosa veramente si tratti.

LUSSU ricorda che su questa questione si è discusso in seduta plenaria della Commissione, e si è accennato ad un comitato di studio di cinque o sette persone, che avrebbe dovuto approfondire il problema in pochi giorni. Oggi si propone la nomina di un relatore. Crede che il sistema più pratico sarebbe questo: che la Sottocommissione nominasse un comitato di cinque o sette membri, che nel termine di cinque o sei giorni fosse in grado di riferire in merito; dopo di che un relatore potrebbe portare in seduta plenaria della Commissione il pensiero della Sottocommissione. Si avrà così un indirizzo, poiché tutto sarà stato chiarito e regolato.

TOSATO propone che oggi o domani la Sottocommissione discuta il problema, allo scopo di arrivare ad una delimitazione di carattere generale e trovare un orientamento comune, per procedere poi alla nomina della Sezione incaricata specificatamente di concretare il principio autonomistico. Questa Sezione lavorerà insieme con le altre incaricate dell’esame di altri temi.

PRESIDENTE, all’onorevole Fabbri, il quale chiede in linea preliminare una illustrazione dei concetti teorici, di carattere elementare, del problema, in modo che si possa meglio procedere sul terreno dei fatti concreti, osserva che anche se non si incarica nessuno di fare questa illustrazione preliminare, gli stessi relatori che si sono impegnati a portare in discussione la questione concreta si preoccuperanno certo di farla precedere da alcune delucidazioni preliminari.

Chiede che l’Assemblea decida se discutere la questione in seduta plenaria o nominare un piccolo comitato o sezione, incaricato di riferire in merito entro un termine di pochissimi giorni.

MANNIRONI è del parere che sia necessario fare la discussione generale, perché potrà servire non soltanto di orientamento, ma di base per gli ulteriori lavori di tutta la Sottocommissione. Propone quindi di costituire oggi le varie Sezioni, con l’assegnazione dei singoli componenti, e procedere domani alla discussione generale del tema in seno a tutta la Sottocommissione, in maniera che coloro che faranno parte della sezione apposita che si dovrà occupare dell’autonomia abbiano uno schema generico che potrà servire da base per il loro lavoro.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta di fare domani in seduta di Sottocommissione una discussione generale sul tema delle autonomie.

(È approvata).

FUSCHINI crede opportuno che uno o due relatori espongano il concetto generale dell’autonomia.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Fuschini e propone di incaricare gli onorevoli Perassi e Ambrosini di fare l’impostazione generale del tema dell’autonomia. Raccomanda che l’esposizione sia alquanto succinta, perché si ha bisogno soprattutto di alcune idee fondamentali.

(Così rimane stabilito).

Passando alla suddivisione della Sottocommissione in sezioni, ricorda che si prevedevano quattro divisioni fondamentali della materia, e quindi quattro sezioni.

CONTI teme che questa ripartizione sia intempestiva. Infatti, se si approva il concetto delle autonomie, evidentemente occorrerà occuparsi della struttura eventuale della regione; onde occorrerà un’altra Sezione. Crede quindi logico che le Sezioni siano costituite dopo la discussione generale, quando si avrà un materiale più ampio, sul quale basare le suddivisioni.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta che la suddivisione della Sottocommissione in Sezioni venga rinviata a quando la discussione sulle autonomie abbia posto la Sottocommissione in grado di farla consapevolmente.

(È approvata).

Avverte che, per procedere con la necessaria alacrità, occorrerà riunirsi domani.

AMBROSINI è disposto a riferire anche domani.

PRESIDENTE rinvia la prosecuzione dei lavori a domani alle 17.

La seduta termina alle 11.30.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Rossi, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Castiglia, Leone, Maffi, Porzio, Ravagnan.

In congedo: Calamandrei, Einaudi, Vanoni.

SABATO 26 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

38.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 26 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Coordinamento degli articoli approvati

Presidente.

La seduta comincia alle 10.30.

Coordinamento degli articoli approvati.

PRESIDENTE comunica che, a conclusione dei lavori della Sottocommissione e dopo avere effettuato il coordinamento degli articoli, ai quali sono stati apportate lievi modifiche formali, il testo degli articoli approvati dalla terza Sottocommissione resta così formulato:

Art. 1.

Diritto al lavoro.

La Repubblica riconosce ai cittadini il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.

Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

Art. 2.

Diritto alla retribuzione.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari.

Alla donna sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano all’uomo.

Art. 3.

Diritto all’assistenza.

Dal lavoro consegue il diritto a mezzi adeguati per vivere in caso di malattia, di infortunio, di diminuzione o perdita della capacità lavorativa, di disoccupazione involontaria.

Ogni cittadino che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale o di contingenze di carattere generale, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza.

La Repubblica provvederà con speciali norme alla protezione del lavoratore e favorirà ogni regolamentazione internazionale diretta a tal fine.

Art. 4.

Protezione della maternità e dell’infanzia.

La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo.

Art. 5.

Protezione della famiglia.

La Repubblica assicura alla famiglia condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo.

Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.

Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino.

Art. 6.

Diritto all’istruzione.

L’istruzione è un bene sociale. È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti gli idonei possano usufruire di essa. L’insegnamento primario è gratuito ed obbligatorio per tutti. Le scuole di gradi superiori sono accessibili a coloro che dimostrino le necessarie attitudini. All’istruzione dei poveri, che siano meritevoli di frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali.

Art. 7.

Attività professionale.

La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale.

L’accesso agli impieghi nelle pubbliche Amministrazioni e negli Enti di diritto pubblico è libera ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.

A tali impieghi si accede mediante concorso.

Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri.

Art. 8.

Domicilio ed emigrazione.

Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge.

Il diritto di emigrare è garantito nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato.

Art. 9.

Diritto di proprietà.

I beni economici possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i modi di acquisto e di godimento e i limiti allo scopo di garantire la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Per coordinare l’attività economica e per esigenze di utilità collettiva, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio contro indennizzo.

Art. 10.

Diritto ereditario.

Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima, di quella testamentaria e i diritti della collettività.

Art. 11.

Impresa.

Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche, collettive.

L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

L’impresa cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita per legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.

Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali, o a situazioni di privilegio o di monopolio, o a fonti di energia, assume carattere di preminente interesse generale, la legge può autorizzare l’espropriazione mediante indennizzo, devolvendone proprietà ed esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti.

Art. 12.

Proprietà terriera.

La Repubblica persegue la razionale valorizzazione del territorio nazionale nell’interesse di tutto il popolo ed allo scopo di promuovere l’elevazione materiale e morale dei lavoratori. In vista di tali finalità e per stabilire più equi rapporti sociali, essa, con precise disposizioni di legge, potrà imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera e impedirà la esistenza e la formazione delle grandi proprietà terriere private.

Art. 13.

Partecipazione dei lavoratori all’impresa.

Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera. La legge stabilisce i modi e i limiti di applicazione del diritto.

Art. 14.

Controllo sociale dell’attività economica.

L’attività economica privata e pubblica deve tendere a provvedere i cittadini dei beni necessari al benessere, e la società di quelli utili al bene comune.

A tale scopo l’attività privata è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale determinate dalla legge.

Art. 15.

Controllo del risparmio.

Lo Stato stimola, coordina e controlla il risparmio.

L’esercizio del credito è parimenti sottoposto al controllo dello Stato al fine di disciplinarne la distribuzione con criteri funzionali e territoriali.

Art. 16.

Consiglio economico.

Un Consiglio economico nazionale, con corrispondenti organi periferici, attende al controllo sociale dell’attività economica pubblica e privata e partecipa alla preparazione della legislazione relativa.

Art. 17.

Sindacati.

L’organizzazione sindacale è libera.

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Sul diritto di sciopero la terza Sottocommissione ha inoltre approvato il seguente ordine del giorno:

«La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

PRESIDENTE comunica che per il lavoro di coordinamento degli articoli approvati dalla terza e dalla prima Sottocommissione, coordinamento che sarà effettuato in successive sedute, sono stati nominati i seguenti Commissari:

Presidente: Ghidini.

Segretario: Marinaro.

Membri: Canevari (sostituto Giua), Di Vittorio, Fanfani (sostituto Dominedò), Togni (sostituto Federici Maria), Colitto.

La seduta termina alle 12.15.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Giua, Ghidini, Marinaro, Pesenti, Togni.

Assenti: Di Vittorio, Lombardo, Merlin Angelina, Mole, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani.

GIOVEDÌ 24 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

37.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 24 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Togni – Colitto – Marinaro – Giua – Dominedò – Di Vittorio, Relatore – Fanfani – Lombardo.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE, dopo avere riassunto la discussione svoltasi nelle precedenti sedute sul tema dello sciopero, dichiara che, prima di dare la parola all’onorevole Di Vittorio, il quale ha chiesto di rispondere alle obiezioni sollevate dai vari oratori, esporrà anche il suo punto di vista, ove non vi siano altri colleghi che chiedano di parlare.

TOGNI ricorda che, alla fine della precedente seduta, aveva formulato una precisa proposta di non inserire nella Carta costituzionale alcun articolo riguardante lo sciopero e che tale proposta, che sembrava raccogliere l’adesione di quasi tutti i Commissari presenti, non era stata posta in votazione per un senso di riguardo verso il Relatore, il quale aveva chiesto di poter rispondere alle osservazioni mossegli. Rinnova quindi la sua proposta al Presidente, perché voglia, dopo aver udito il Relatore, porla ai voti.

COLITTO è d’opinione di non inserire nella Costituzione alcuna affermazione sul diritto di sciopero, essendo convinto che l’uso dell’arma dello sciopero e della serrata sia sempre di grave nocumento all’interesse collettivo. Manifesta inoltre il suo dubbio sull’esattezza dell’affermazione che viene generalmente fatta, che il divieto di sciopero sarebbe incompatibile, nel clima di libertà nel quale viviamo, con quella integrità della umana personalità che deve essere in ogni istante tutelata. Essendo stata riconosciuta la libertà sindacale ed essendovi, nell’ambito delle varie categorie, associazioni di datori di lavoro e di lavoratori che conoscono assai meglio dei singoli la situazione delle aziende e che rappresentano tutti gli appartenenti alle categorie, ritiene che tutte le controversie potrebbero essere definite in un clima di collaborazione dalle associazioni contrapposte, facendosi, ove occorra, ricorso ad arbitrati.

Rileva con soddisfazione che le sue preoccupazioni sono state intimamente sentite anche dalla prima Sottocommissione che ha ritenuto, nell’articolo relativo, di circondare di molte limitazioni l’affermato esercizio del diritto di sciopero (che va posto in ogni caso sullo stesso piano del diritto di serrata).

Nella fiducia che i tempi diventino tali da rendere possibile quella collaborazione di cui ha parlato, annullandosi le cause che potrebbero determinare lo sciopero e la serrata, si associa alla proposta di non parlare nella Costituzione di tali diritti, così come è fatto nelle altre Costituzioni.

PRESIDENTE premette che non tratterà dello sciopero politico e della serrata, ritenendo che la questione, tanto per l’uno che per l’altra, sia superata. Lo sciopero politico ha un contenuto rivoluzionario e la rivoluzione non si codifica.

Per quel che riguarda lo sciopero economico dichiara di essere contrario a che se ne parli nella Carta costituzionale, ma per ragioni diverse da quelle espresse dagli onorevoli Colitto, Molè e Dominedò.

L’onorevole Colitto ha infatti sostenuto che il diritto di sciopero non deve essere sancito nella Costituzione in quanto lo sciopero è, a suo avviso, sempre dannoso alla collettività. Dichiara di ritenere invece che lo sciopero rappresenta una necessità e che, come tale, non può essere dannoso. Non è neppure d’accordo con l’onorevole Dominedò, il quale, portando la questione nel campo giuridico ha sostenuto che lo sciopero è un atto violento col quale si spezza un vincolo giuridico, un contratto, e che pertanto, sotto questo profilo, sarebbe illegittimo. Osserva che tale argomentazione potrebbe aver valore se capitale e lavoro fossero sullo stesso piano di eguaglianza; ma, poiché non lo sono, la tesi, in linea di massima, non può essere accolta. L’onorevole Molè ha infine sostenuto, con riferimento agli impiegati statali, che è illogico consacrare nella Costituzione il diritto di sciopero perché ciò equivarrebbe a dire che lo Stato è o può essere nemico dei lavoratori, e perché il fatto di dipendenti statali, pubblici ufficiali e come tali depositari di una parte della sovranità dello Stato, che insorgano contro lo Stato, importerebbe la conseguenza che lo Stato insorgerebbe contro se stesso. Pur riconoscendo serie tali osservazioni, fa presente che domani potrebbe accadere che lo Stato, sia pure democratico, tralignasse o deviasse ponendo i lavoratori nella necessità di dover ricorrere allo sciopero.

Ritiene tuttavia che sia estremamente difficile inserire in una Carta costituzionale una disposizione che consacri il diritto di sciopero con delle limitazioni che si dovrebbero riferire ad alcune categorie di lavoratori, mentre tali categorie sono difficilmente determinabili. Infatti, se si parla di servizi accessori o essenziali, i due concetti di accessorietà e di essenzialità sono così soggettivi che non si possono includere in una Carta costituzionale, senza che pecchi di imprecisione. Non è neppure possibile parlare genericamente di dipendenti dello Stato, perché vi sono dei funzionari, depositari della sovranità statale, i quali non sono alle dipendenze dello Stato, né di altri enti pubblici, e perché vi sono dei dipendenti dello Stato che sono pubblici ufficiali e altri che tali non sono e che tuttavia adempiono a funzioni di una necessità superiore a quella dei primi, come gli infermieri, i pompieri, ecc.

Per quanto riguarda lo sciopero degli addetti ai lavori comuni, ritiene che una grande remora sarà costituita, oltre che dal senso di responsabilità dei lavoratori di cui ha parlato l’onorevole Di Vittorio, dall’istituzione dei consigli di gestione. Oggi infatti i lavoratori ricorrono molte volte allo sciopero ignorando le vere condizioni dell’azienda, senza sapere se l’azienda stessa sia in condizione di sopportare o meno i maggiori carichi che glie ne deriverebbero dall’elevazione dei salari; quando invece essi potranno conoscere e controllare le effettive possibilità della azienda, faranno o non faranno lo sciopero avendo anche presenti le sue possibilità. Per i servizi pubblici invece la remora sorge dalla stessa coscienza dei lavoratori; coscienza che si evolve e si eleva sempre di più, del che si ebbero anche recenti manifestazioni. Tuttavia la possibilità dello sciopero, astrattamente, esiste sempre.

La Costituzione che si sta elaborando, inspirata soprattutto alla difesa del lavoro, attribuisce allo Stato una quantità di funzioni importantissime per la vita pubblica e per i singoli cittadini. Data questa complessità di funzioni affidate allo Stato, ritiene che un grave pericolo sia rappresentato dalla possibilità di arresto del suo funzionamento. Tutto considerato, ritiene che non sia saggio fissare oggi dei limiti e che sia meglio lasciare al legislatore di domani il compito di dettare le norme in materia di sciopero.

Concludendo, ricorda che da taluni commissari è stato rilevato che nelle altre Costituzioni non si parla dello sciopero. A ciò l’onorevole Di Vittorio ha risposto facendo notare che da noi, a differenza degli altri Paesi del mondo dove lo sciopero è sempre esistito, c’è stato il fascismo, il quale non solo aveva negato il diritto di sciopero, ma l’aveva colpito anche con gravi sanzioni penali. L’osservazione è esatta e ne deriva che non si deve su di esso serbare il silenzio. A suo avviso la soluzione potrebbe consistere nell’affermazione dell’abrogazione del divieto di sciopero collocata nel preambolo, il quale fa parte integrante della Carta costituzionale e che serve alla sua più esatta interpretazione. Preferirebbe tale soluzione, con la quale si eviterebbe la formulazione di un articolo che, sancendo il diritto di sciopero, dovrebbe fissare dei limiti e delle condizioni insuperabili.

MARINARO osserva che con tale soluzione si avrebbe un’affermazione astratta nel campo concreto del diritto.

TOGNI, dichiarandosi d’accordo con la soluzione proposta dal Presidente di inserire nel preambolo un’affermazione di ordine generale, ritiene che sarà sufficiente, in quella sede, parlare di superamento e abrogazione di tutte le disposizioni e norme relative all’ordinamento sindacale e corporativo fascista.

GIUA accetta la proposta del Presidente, purché sia formulato nel preambolo un preciso articolo riguardante il diritto di sciopero. Non ritiene invece che sia sufficiente l’affermazione generica dell’abrogazione di tutto il sistema corporativo fascista – proposta dall’onorevole Togni – in quanto, a suo avviso, è necessario sancire nella Costituzione il diritto di sciopero, che i lavoratori hanno conquistato e che ha condotto all’inserimento nella vita politica della classe lavoratrice italiana.

Dichiara che, se la Sottocommissione deciderà di non fare alcuna dichiarazione sul diritto di sciopero, volendo con ciò intendere il riconoscimento dello stato di fatto che le organizzazioni sindacali avevano prima del fascismo, voterà a favore di tale decisione; ma che non potrebbe accettare alcuna formulazione in qualche modo contraria allo sciopero, perché ciò significherebbe impedire la completa ascesa della classe lavoratrice. Se invece si facesse un’affermazione sul diritto di sciopero anche per i servizi pubblici, non sarebbe contrario ad estenderlo alle grandi categorie di lavoratori, soprattutto a quelle dei ferrovieri e dei postelegrafonici. Ritiene invece che si dovrebbe tacere sul diritto di sciopero dei funzionari statali, in quanto, col decentramento, si dovrà rivedere tutta la loro organizzazione.

PRESIDENTE osserva che gli impiegati dello Stato, a differenza dei lavoratori delle aziende private, non contrattano le condizioni di lavoro, ma le accettano così come vengono loro imposte dagli enti pubblici; quindi, anche per questa classe di lavoratori si potrebbe verificare un’ingiustizia iniziale. Per non lasciarli completamente indifesi, lo Stato potrebbe disporre che le loro condizioni di lavoro fossero determinate d’accordo fra lo Stato stesso ed i sindacati; in tal modo vi sarebbe una maggiore garanzia e la questione dello sciopero potrebbe essere valutata in modo diverso. A tale proposito ritiene che forse sarebbe opportuno, prima di decidere sul diritto di sciopero, conoscere le decisioni della seconda Sottocommissione sulla disciplina dei rapporti tra lo Stato ed i suoi dipendenti.

TOGNI fa osservare che il fatto di non avere incluso nessun articolo sullo sciopero non toglie la possibilità di farlo in un secondo tempo, ove ciò apparisse necessario.

DOMINEDÒ, riferendosi a quanto ha osservato il Presidente circa una frase da lui pronunciata nella precedente seduta, deve chiarire che, considerando lo sciopero come la rottura di un rapporto preesistente, egli aveva aggiunto che la rottura di tale vincolo poteva essere legittima o illegittima. Per tale considerazione egli non ritiene opportuno sancire nella Costituzione il potere di sciopero, in quanto questo non potrebbe essere contemplato come istituto giuridico se non attraverso una serie di precisazioni e limitazioni che, in realtà, determinerebbero un empirismo in sede costituzionale o lascerebbero perplessi sulla sicurezza della linea di demarcazione fra il lecito e l’illecito.

Per quanto riguarda l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio sul fatto che l’Italia è un Paese che esce da un regime il quale aveva proibito lo sciopero, ritiene che con la formula proposta dal Presidente, da inserire nel preambolo, si sancirebbe l’abrogazione del divieto, abrogazione che è del resto già in atto a seguito delle ordinanze alleate sull’ordinamento corporativo fascista, salva l’opportunità di riesaminare particolarmente il problema in sede legislativa e non costituzionale.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di difendere il diritto di sciopero, in quanto lo sciopero, malgrado le paure che sempre ne hanno avuto i ceti privilegiati della società, è stato nella storia di tutti i popoli civili una leva potentissima di progresso economico, sociale, civile. Il diritto di sciopero è intimamente legato al concetto pieno di democrazia, che è governo di popolo espresso liberamente dalla volontà del popolo. Negare un tale diritto significherebbe volersi garantire contro il suo libero esercizio con un mezzo coattivo.

Osserva che taluni hanno manifestato la loro preoccupazione per gli scioperi dei lavoratori dei pubblici servizi. Non comprende perché una società democratica, per garantire la continuità di tali servizi, dovrebbe ricorrere alla coazione e non fidare invece nella certezza di redimerti tutte le vertenze che potrebbero sorgere, per via pacifica. I lavoratori di oggi, e non soltanto in Italia, danno una prova così manifesta di coscienza sociale elevata da non giustificare la preoccupazione di non giungere a degli accordi in ogni caso. Ricorda, in proposito, che dalla liberazione dell’Italia non vi è stato un solo sciopero durante il quale i servizi pubblici essenziali non abbiano continuato a funzionare; ogni volta – come risulta dai comunicati pervenuti alla Confederazione generale del lavoro – è stato fatto l’elenco dei servizi che dovevano essere assicurati in ogni caso.

Fa osservare che nella formulazione da lui proposta non vi è alcun riferimento a scioperi politici, o a scioperi estesi ai funzionari, in quanto, a suo avviso, è sufficiente la sola affermazione del diritto di sciopero per tutti i lavoratori. L’esercizio di tale diritto sarà poi, come tutti gli altri, disciplinato da una legge che fisserà le eventuali limitazioni, alle quali tuttavia, in linea di principio, egli è contrario, in quanto difende la libertà assoluta di tutti i cittadini.

Non crede che sarebbe opportuno non parlare affatto nella Costituzione dello sciopero; poiché, data la particolare situazione del nostro Paese, una Costituzione che non affermasse specificatamente tale diritto non esprimerebbe il progresso sociale e politico voluto dalle masse lavoratrici. Non ritiene neppure accettabile la proposta dell’onorevole Marinaro di sancire il diritto di sciopero con delle limitazioni in quanto, a suo avviso, è assurdo circoscrivere nella Costituzione un diritto nel momento stesso in cui si afferma.

Dichiara di essere contrario al diritto di serrata, ritenendo che le due forze interessate allo sciopero non siano sullo stesso piano. Infatti le masse lavoratrici lottano per interessi di ordine collettivo, mentre gli interessi collegati alla serrata possono essere, in determinati casi, di natura egoistica ed anche in pieno contrasto con quelli generali della società.

Per quel che riguarda lo sciopero politico, del quale non aveva parlato nella sua relazione, ripete che egli non intende porre alcuna limitazione al diritto di sciopero in genere. Pur concordando che lo sciopero politico è un assurdo, in quanto le classi lavoratrici non si pongono oggi contro lo Stato, ma vogliono anzi esserne parte integrante e forza propulsiva, osserva che anche la democrazia fondata sulla nuova Costituzione potrebbe essere attaccata da forze reazionarie interne. In tal caso, esse dovrebbero essere combattute coi mezzi che sono nelle mani dei lavoratori, ai quali il Governo stesso dovrebbe ricorrere. Ricorda, in proposito, lo sciopero generale del 1922, che Turati definì «sciopero legalitario» perché aveva per fine la difesa della legalità democratica contro l’illegalismo della violenza fascista. I lavoratori di tutta Italia, riuniti nella famosa «Alleanza del lavoro» in cui si raccolsero tutti i sindacati operai e tutti i partiti dei lavoratori, decisero di insorgere contro lo squadrismo fascista che, in violazione di tutte le leggi dello Stato e dell’umanità, commetteva atti di violenza allo scopo di far cadere il Paese sotto il dominio di una dittatura. Disgraziatamente per l’Italia questo sciopero non riuscì ad impedire che pochi mesi dopo quelle stesse forze, contro le quali lo sciopero era diretto, prendessero il potere e portassero il Paese alla catastrofe alla quale oggi si è giunti.

Per una prevenzione, che non vuole definire, contro lo sciopero politico, ancora oggi vi sono commissioni governative dell’attuale Governo democratico per la revisione dei licenziamenti determinati da motivi politici, le quali hanno negato la riassunzione a ferrovieri ed a postelegrafonici che furono licenziati per avere aderito allo sciopero del 1922, semplicemente perché si trattava di uno sciopero politico, che dal Governo pseudodemocratico di allora fu ritenuto illegittimo.

PRESIDENTE fa osservare che non fu uno sciopero rivoluzionario, ma un atto di resistenza legittima contro l’illegalità e come tale merita ben diversa considerazione.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che se si dovesse ripetere una situazione analoga a quella del 1922, i ferrovieri ed i postelegrafonici, ai quali si chiedesse di interrompere il lavoro per non fornire strumenti agli attacchi della reazione, sarebbero in diritto di rispondere negativamente, perché lo sciopero politico è proibito.

Concludendo, dichiara che potrebbe, a titolo di conciliazione, accettare la proposta del Presidente di rimandare la soluzione del problema al preambolo della Costituzione. Ritiene tuttavia che, in questa ipotesi, la Sottocommissione non dovrebbe sottrarsi ad approvare una precisa formulazione, al fine di accettare il punto di accordo, dato che qualche collega intende limitare la formulazione stessa all’abrogazione del divieto di sciopero, mentre altri vorrebbero affermare nel preambolo il diritto allo sciopero. Tuttavia, se la formulazione risultasse chiara, non vede perché essa non dovrebbe trovar posto tra gli articoli della Carta costituzionale. Propone pertanto che, senza fare alcun accenno allo sciopero dei servizi pubblici od allo sciopero politico, sia accettata la formulazione da lui proposta che dice semplicemente: «È riconosciuto il diritto di sciopero ai lavoratori».

TOGNI si dichiara d’accordo nel difendere il diritto di sciopero che nessuno ha mai contestato. I punti di divergenza riflettono i metodi, le possibilità e le forme nelle quali questo diritto va esercitato, in quanto non può esservi diritto che non abbia delle limitazioni.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di aver riconosciuto tutto ciò e di aver soltanto detto che la disciplina di queste forme e di questi limiti deve competere al legislatore ordinario.

TOGNI insiste nel confermare, nel modo più deciso, la sua opposizione a qualsiasi forma di sciopero politico, in quanto non è mai esistito uno Stato il quale abdichi alla sua sovranità con una forma del genere, che consenta attentati legali alla sua vita.

Con tutta schiettezza fa osservare allo onorevole Di Vittorio, il quale ha parlato soltanto di possibilità di attentati reazionari e quindi della necessità che le masse dei lavoratori possano intervenire con l’arma dello sciopero, che, nel regno delle possibilità e delle eventualità, potrebbe esservi quella che la stessa arma dello sciopero politico possa servire non per impedire, ma per volere un avvento di dittatura, la quale sarebbe un attentato alla vita dello Stato democratico.

DI VITTORIO, Relatore, fa notare che non esiste alcun precedente storico di una dittatura instaurata attraverso uno sciopero.

TOGNI rileva inoltre che la discussione svolta ha dimostrato che, affermando il diritto allo sciopero in modo esplicito, si debbono pur sempre porre delle limitazioni che comportano difficoltà di carattere giuridico, politico e sociale di tal natura da rendere molto difficile, se non impossibile, l’affermazione stessa. Conclude pertanto confermando la proposta fatta nella seduta precedente, che andrebbe però completata con quanto è emerso successivamente dalla discussione sulla necessità di garantire che non si verifichino ritorni ad una mentalità contraria allo sciopero. Accetta in conseguenza la proposta del Presidente perché sia inserita nel preambolo della Costituzione una frase, con la quale venga esplicitamente soppressa la concezione sindacale corporativa fascista.

DI VITTORIO Relatore, si dichiara contrario ad includere una frase del genere nel preambolo, in quanto la Costituzione deve contenere delle affermazioni e non delle negazioni.

TOGNI propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, dopo ampia disamina del problema, riconosce che per ragioni di opportunità e di praticità non sia necessario stabilire nella Costituzione un articolo che contempli il diritto di sciopero ed eventualmente anche quello della serrata, in quanto il diritto stesso è ormai acquisito all’attuale realtà sociale. Riconosce però come necessario, di provvedere, in sede di compilazione del preambolo alla Costituzione, ad includere un’affermazione che confermi la completa ed assoluta abrogazione del precedente ordinamento sindacale corporativo che contemplava il divieto di sciopero».

FANFANI non ritiene di dover confutare le affermazioni dell’onorevole Di Vittorio, affermazioni che comunque definisce poco chiare e forse anche equivoche in merito alle funzioni della Costituzione, dello Stato e della posizione dei lavoratori nello Stato.

Rileva che è ormai pacifico che il ricorso allo sciopero rappresenta un mezzo necessario ed efficace per una migliore tutela dei diritti dei lavoratori; ma osserva altresì che, se non ci fosse stata la legislazione fascista, oggi non sarebbe forse neanche in discussione il problema di affermare il diritto nel testo costituzionale. A suo avviso, per risolvere la questione, si potrebbe approvare un ordine del giorno rivolto al Governo, del seguente tenore:

«La terza Sottocommissione per la Costituzione unanime riconosce che il diritto di sciopero è un mezzo ancor oggi necessario alla tutela dei diritti dei lavoratori; riconosce altresì la difficoltà e la non necessità di disciplinare la materia in sede costituzionale; invita pertanto il Governo, che attende allo studio di provvedimenti sullo sciopero dei funzionari, a presentare all’Assemblea Costituente di urgenza un progetto di legge che abolisca le proibizioni fasciste in materia, che riconosca esplicitamente il diritto dei lavoratori di ricorrere allo sciopero e che precisi le modalità di esercizio del diritto stesso».

DI VITTORIO, Relatore, pensa che l’ordine del giorno dell’onorevole Fanfani esuli dalla competenza della Sottocommissione, la quale non può rivolgere un voto al Governo.

FANFANI riconosce giusta per la forma l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio e propone che l’invito sia rivolto al Presidente dell’Assemblea Costituente anziché al Governo. Ritiene peraltro che per quanto riguarda la sostanza la Sottocommissione sia competente a trattare una simile materia e che la Presidenza dell’Assemblea potrebbe avocare a sé il diritto dell’iniziativa.

MARINARO ritiene che la questione vada esaminata e risolta con un certo coraggio e sul terreno di sicura concretezza. Vi è uno stato di fatto generalizzato in tutti i Paesi del mondo, stato di fatto che consiste nella pratica dello sciopero. Contro tale pratica nessun governo democratico ha pensato o pensa di insorgere, cosicché si tratta di una pratica quasi implicitamente legalizzata che menoma il prestigio dell’autorità ed offende la sovranità di tutto il popolo. Non vi può essere uno sciopero legittimo ed uno illegittimo; tutt’al più giusto o ingiusto, ma sempre illegittimo, perché non conforme alla legge e come tale deve essere riconosciuto o negato; ma se non si può disconoscere lo stato di fatto e non si può con la negazione dello sciopero ritornare indietro di circa 60 anni, non rimane che uscire dall’equivoco e riconoscere il diritto di sciopero, disciplinandone però l’esercizio e coordinandolo con gli interessi prevalenti della collettività.

Con l’inclusione nella Carta Costituzionale del riconoscimento del diritto di sciopero si avvantaggerebbe l’autorità dello Stato, che oggi è costretta a subire gli scioperi anche quando essi assumono carattere di particolare violenza; si uscirebbe dallo incerto e dall’indeterminato e si conoscerebbe il campo di sviluppo e di estensione di tali movimenti che, in definitiva, si risolvono sempre in un danno per tutta la classe sociale; si fisserebbero infine nella sede, che reputa la sola competente, i principî ed i limiti cui dovrebbe uniformarsi il legislatore futuro nel disciplinare il diritto di sciopero che, come qualsiasi altro diritto della personalità umana, non può concepirsi in forma generica ed illimitata, ma deve essere ben precisato ed esercitato compatibilmente con i poteri sovrani e con gli interessi prevalenti della Nazione.

Con la proposta da lui presentata si sancirebbe che lo sciopero nei pubblici esercizi e nelle pubbliche amministrazioni è proibito e che le relative vertenze non sono neglette, ma demandate ad organi adeguati, ed in conseguenza resterebbe definitivamente acquisito alla legislazione un elemento di tranquillità generale.

Per quanto riguarda la proposta fatta dal Presidente, osserva che la materia non può essere inserita nel preambolo, ritenendo che di essa non si possa fare una semplice affermazione teorica. Il diritto di sciopero è un diritto concreto, sostanziale, che si riconosce o meno ma che, ove si riconosca, dove essere posto sotto determinate forme o condizioni.

LOMBARDO dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Togni di non parlare affatto nella Costituzione del diritto di sciopero, appunto perché intende difendere tale diritto come un’arma che deve rimanere nella lotta di classe, fino a quando non si sia entrati nella società socialista. Non ritiene che si possa codificare il diritto di sciopero, in quanto non è pensabile che vi siano discriminazioni fra sciopero e sciopero, fra lavoratore e lavoratore. Si richiama, in proposito, ad un ricordo storico: per difendere la democrazia, quando il gruppo di generali che seguiva Von Kapp volle ad un certo momento fare il putsch in Germania, tale putsch venne stroncato dallo sciopero generale. Ciò dimostra che ad un dato momento l’arma dello sciopero, che è normalmente di difesa della categoria dei lavoratori, può diventare di difesa della legalità democratica. Per questo ritiene che il voler sancire in una articolazione una qualsiasi discriminazione di tale diritto sia assolutamente ingiusto, proprio per la difesa della democrazia stessa.

Concludendo osserva che, non avendo nessuno negato il diritto di sciopero, la discussione verte sulla possibilità o meno di limitarlo. A suo giudizio, proprio per non limitare in alcun modo il diritto di sciopero, è necessario non fare nella Carta costituzionale alcuna enunciazione in materia.

COLITTO, dopo le chiare parole dell’onorevole Lombardo, il quale opportunamente si è preoccupato delle distinzioni che avrebbero luogo e che non sarebbero opportune in regime democratico, osserva che, se il diritto di sciopero vuole davvero essere considerato espressione della personalità umana, dovrebbe essere affermato senza limitazioni di sorta. Senonché, anche l’onorevole Di Vittorio ritiene che sia da vietare lo sciopero politico.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non aver mai fatto una simile affermazione e ricorda anzi di aver citato degli esempi per dimostrare che lo sciopero politico può essere un’arma efficacissima per difendere lo stato democratico.

COLITTO ribatte che in un secondo momento l’onorevole Di Vittorio aveva detto che lo sciopero politico non è possibile, in quanto le masse lavoratrici vivono nello Stato ed è assurdo che possano insorgere contro lo Stato.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda di aver detto esattamente che non rivendicava lo sciopero politico in seno allo stato democratico di cui le masse lavoratrici stesse fanno parte. Ripete di non voler che sia esplicitamente sancito il diritto allo sciopero politico, ma di respingere qualsiasi limitazione a tale diritto.

COLITTO prende atto dei chiarimenti, che tuttavia ritiene contraddittori. Rileva che per lo meno l’onorevole Di Vittorio ha ammesso la possibilità che la legislazione disciplini, cioè limiti (ed i limiti potrebbero essere molto lati) l’esercizio del diritto di sciopero.

L’onorevole Di Vittorio ha inoltre affermato che negli scioperi che si sono avuti i pubblici servizi sono sempre stati assicurati (il che significa che anche egli si preoccupa dei danni che alla collettività potrebbero derivarne) e che vi potrebbero essere scioperi, come ad esempio quello dei magistrati, che starebbero ad indicare che lo Stato è in crisi.

Pertanto, pur riconoscendo che lo sciopero costituisce un mezzo anche oggi necessario per la tutela dei diritti del lavoratore, sente, anche attraverso le parole dello stesso onorevole Di Vittorio, come sia opportuno che di questo diritto di sciopero nella Costituzione non si parli.

PRESIDENTE, dato che si tratta, più che di fissare un precetto, di sopprimere un divieto con il conseguente riconoscimento ai lavoratori del diritto di sciopero, ritiene che sia sufficiente inserire nel preambolo una frase che potrebbe essere la seguente: «Il divieto di sciopero, consacrato nella legislazione fascista, è soppresso».

DOMINEDÒ dichiara di non opporsi, ma è d’avviso che sia necessario allora aggiungere anche l’abrogazione del divieto di serrata.

TOGNI, in considerazione che lo sciopero è una realtà insopprimibile e che si è deciso di non sancirne il diritto nella Carta costituzionale, in quanto impossibile fissarne i limiti, ritiene che la formula più semplice sia quella da lui proposta.

PRESIDENTE, pur essendo d’accordo con l’onorevole Togni, è d’avviso che, oltre all’enunciazione generica della soppressione di qualsiasi residuo del passato regime fascista, la Costituzione dovrebbe contenere anche la specifica affermazione dell’abrogazione del divieto di sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, non ritiene opportuna la formulazione proposta dal Presidente, in quanto, a suo avviso, nella Costituzione si devono fissare dei principî e non stabilire dei divieti; è contrario inoltre alla proposta dell’onorevole Togni, perché, se si parlasse dell’abrogazione del divieto di sciopero, si dovrebbero considerare anche tutte le altre disposizioni del passato regime.

La Costituzione è un’enunciazione sintetica dei principî che devono essere alla base del nuovo diritto italiano; ciascun diritto sancito dovrà poi essere disciplinato per legge, in quanto è evidente che ogni diritto di determinate categorie di cittadini trova dei limiti nei diritti degli altri. Quindi, come s’è fatto per tutti gli altri principî, se si è d’accordo sul diritto di sciopero, ritiene che esso debba essere sancito nella Carta costituzionale: spetterà poi al legislatore disciplinarlo e fissarne i limiti.

La riluttanza a sancire il diritto di sciopero, diversamente da quello che si è fatto per le altre materie in esame, significa o che non lo si vuole riconoscere, o che si vuole ammetterlo in maniera confusa, circondato di garanzie che si ha paura di fissare e per le quali ci si rimette al legislatore.

TOGNI ripete che, a suo avviso, non è possibile fissare nella Carta costituzionale il diritto di sciopero, che non è contemplato in nessun’altra Costituzione. Quando la Sottocommissione sarà d’accordo sulla sostanza ed avrà proposto il rinvio della formulazione di un articolo nel preambolo, non si sarà emessa una sentenza inappellabile e si avrà sempre la possibilità di tornare sulla decisione presa. Ritiene tuttavia che per ora non sia possibile fissare in modo concreto l’articolo da inserire nel preambolo, in quanto ancora nulla si sa sul come il preambolo stesso sarà formulato.

GIUA osserva che una proposta concreta potrebbe essere sempre fatta: spetterà poi a coloro che avranno il compito di elaborare il preambolo di inserire, anche con altre parole, il concetto espresso dalla Sottocommissione.

FANFANI fa presente che se si è convinti che il diritto di sciopero sia per la prima volta acquisito, non vi è dubbio che esso debba essere solennemente sancito nella Costituzione e non limitato ad un accenno nel preambolo; se invece si è d’accordo nell’affermare che tale diritto esisteva in precedenza ed era stato poi soppresso, allora si deve ripristinare con una legge ordinaria e non con la Costituzione. Dichiara quindi di insistere sul suo ordine del giorno, presentato in precedenza, che ritiene conclusivo.

TOGNI dichiara che, in sostituzione di quello precedentemente presentato, propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, ritenendo inopportuno di comprendere nella Carta costituzionale formulazioni riguardanti lo sciopero e la serrata, rinvia al preambolo della Costituzione o ad una legge speciale il superamento o l’abrogazione del precedente ordinamento sindacale corporativo, che prevedeva il divieto di sciopero e di serrata».

PRESIDENTE dichiara che non voterà tale proposta, ritenendo che il silenzio sul diritto di sciopero nella Carta costituzionale debba essere subordinato ad una precisa formulazione del pensiero della Sottocommissione sull’affermazione del diritto di sciopero nel preambolo.

LOMBARDO è contrario alla formulazione dell’onorevole Togni, alla quale preferisce quella da lui precedentemente presentata, anche perché non ritiene che nella Costituzione si debba parlare della serrata, che, sia pure da un punto di vista giuridico, potrebbe essere posta da qualcuno sullo stesso piano dello sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che voterà contro l’ordine del giorno dell’onorevole Togni e insiste sulla sua proposta di inserire nella Costituzione un articolo così formulato: «Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori».

FANFANI propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

COLITTO chiede che in tale ordine del giorno, oltre al diritto di sciopero, sia aggiunto il diritto di serrata.

DOMINEDÒ si associa, aggiungendo che voterà l’ordine del giorno, nell’intendimento che spetta alla legge speciale stabilire quei limiti di liceità del potere di sciopero, che non sarebbe conveniente ne possibile determinare in sede costituzionale.

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio così concepito:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Marinaro:

«È riconosciuto, nell’ambito degli interessi economici e sindacali, il diritto di sciopero e di serrata, salvo le garanzie e le limitazioni stabilite dalla legge. Gli scioperi nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni sono proibiti. Le vertenze relative verranno risolte da adeguati organi opportunamente predisposti».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Togni e così modificato:

«Riconosciuto urgente ed indispensabile che una legge abroghi i divieti fascisti relativi al diritto di sciopero, non si ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Fanfani:

«La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

(È approvato).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Colitto che all’articolo approvato venga aggiunto il diritto di serrata.

(Non è approvato).

La seduta termina alle 14.

Erano presenti: Colitto, Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Giua, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Canevari.

Assenti: Federici Maria, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

36.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Molè – Di Vittorio, Relatore – Presidente – Dominedò – Marinaro – Lombardo – Togni – Fanfani.

La seduta comincia alle 18.20.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

MOLÈ intende fare una questione di opportunità e chiede se si ritenga necessario parlare del diritto di sciopero o si ritenga pericoloso includerlo nella Costituzione.

Il diritto di sciopero è ormai riconosciuto da tutti i Paesi, meno che da quello dove lo Stato si identifica con la classe lavoratrice. Cita, a questo proposito, una disposizione della Costituzione russa.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che la disposizione non è contro lo sciopero, bensì contro il sabotaggio.

MOLÈ afferma che se lo Stato concedesse il diritto di sciopero ai lavoratori e lo negasse agli addetti ai servizi pubblici, potrebbe sorgere il problema, nel caso che questi ricorressero ad una tale arma, che lo Stato dovesse agire in una certa maniera, mentre invece, mancando questa precisa regolamentazione, lo Stato avrebbe la possibilità di agire in modo diverso; sarebbe una questione di apprezzamento politico che determinerebbe di volta in volta il comportamento dello Stato. In altri termini, si può ammettere che lo sciopero dei servizi pubblici avvenga senza farne un reato; il reato sorgerebbe quando si stabilisse che non è lecito.

Ma il problema, a suo avviso, va posto da un altro punto di vista: il diritto di sciopero non si discute; chi nega il diritto di sciopero, l’uso di quest’arma, che è stata uno dei mezzi di affermazione della classe lavoratrice, effettivamente è reazionario, a parte l’opportunità o no di legiferare in materia. Ma per i servizi pubblici la questione è diversa. Prima di tutto occorre distinguere i servizi pubblici. Se si considera servizio pubblico tanto quello del ferroviere, quanto quello del magistrato, si confondono due forme di attività: una che attiene ad una funzione di utilità sociale, un’altra che attiene al diritto complesso della sovranità dello Stato. Pensa che il pubblico funzionario vada concepito come colui che esercita le funzioni dello Stato, come colui nella cui azione si obiettiva la sovranità dello Stato e che, quindi, non può scioperare contro lo Stato, perché sarebbe lo Stato che sciopera contro se stesso. Il ferroviere può in qualche maniera non identificarsi, e spesso non si identifica con lo Stato; ma il magistrato, colui che appartiene alle forze di polizia, colui che è nell’esercito, sono lo Stato, rappresentano lo Stato nelle sue funzioni sovrane. Il giorno in cui fosse concesso ai soldati, agli ufficiali, ai magistrati di scioperare contro lo Stato, lo Stato non avrebbe più ragione di esistere. Uno sciopero di questo genere, in alcune circostanze della vita politica, potrebbe anche verificarsi, ma non potrebbe mai essere, da parte dello Stato, riconosciuto legalmente. Potrà lo Stato in tali circostanze trovare opportuno di usare mezzi conciliativi anziché repressivi; ma questo attiene alla politica.

Quando si vuol dare allo Stato il carattere di Stato democratico, che non agisce per gli interessi di una classe, ma che concilia tutti gli interessi, è inconcepibile legiferare sul diritto di sciopero di coloro che sono alle sue dirette dipendenze.

Qualora vi siano amministrazioni che non funzionano bene nello Stato democratico, non è necessario ricorrere allo sciopero. C’è qualcuno che pensa anche all’opportunità di portare al governo un rappresentante della Confederazione generale del lavoro perché tuteli direttamente questi interessi. Ciò potrebbe rientrare nel concetto di Stato democratico, non già il concedere il diritto di sciopero a queste categorie. È preferibile lasciare alla prudenza politica la risoluzione di certe crisi.

Si chiede poi se, oltre allo sciopero economico, che si verifica quando l’interesse del lavoro si contrappone all’interesse del capitale, si debba trattare anche dello sciopero politico.

DI VITTORIO, Relatore, fa rilevare che nel primo comma dell’articolo 4 da lui proposto si dice: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Non si fa cenno, quindi, allo sciopero economico o allo sciopero politico; si afferma soltanto il diritto di sciopero per ogni lavoratore, perché nella Costituzione vanno consacrati i principî generali.

Ritiene che si possa fare a meno di una discussione circa l’estensione o meno ai pubblici servizi del diritto di sciopero, spettando tale discussione piuttosto alla Camera legislativa.

MOLÈ osserva che non è possibile che lo Stato si autodefinisca datore di lavoro iniquo, contro il quale si debba usare l’arma dello sciopero. Naturalmente si riferisce sempre allo Stato democratico, e pensa che sarebbe una specie di contraddizione, nel momento in cui si crea la Costituzione dello Stato democratico, ammettere che si tratti di uno Stato contro il quale i lavoratori possano fare uso del diritto di sciopero.

PRESIDENTE si chiede se, di fronte all’articolo dell’onorevole Di Vittorio, sia possibile trasfondere nella Costituzione l’essenza dei rilievi fatti; per evitare che la formula proposta possa in avvenire essere fonte di equivoci.

Pone quindi delle domande: se si afferma che il diritto allo sciopero è consacrato per tutti i lavoratori, domani potrà una legge escludere da questo diritto i pubblici ufficiali? Ricorda che il codice Zanardelli ammetteva implicitamente il diritto allo sciopero, mentre con altra disposizione lo vietava per i pubblici ufficiali. Ora se la Costituzione dovesse sancire il diritto allo sciopero per tutti, il legislatore di domani verrebbe a trovarsi in difficoltà nei riguardi di alcune categorie.

MOLÈ concorda con l’osservazione molto perspicua del Presidente e rileva che la preoccupazione esiste soprattutto se si considera che oggi anche i funzionari hanno i loro sindacati.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che sono esclusi quelli degli appartenenti alla pubblica sicurezza e ai Corpi armati.

MOLÈ fa rilevare che si tratta di piccole eccezioni, mentre esistono anche organizzazioni sindacali dei magistrati. Sarebbe del parere di non parlare affatto di tale argomento nella Costituzione, tanto più considerando che il diritto di sciopero è un fatto ormai acquisito in tutti i Paesi civili. Mette quindi in rilievo le gravi difficoltà di valutazione che sorgerebbero, ad esempio, nella distinzione tra pubblici servizi essenziali e pubblici servizi accessori.

PRESIDENTE osserva innanzitutto che lo sciopero politico, di cui ammette l’eventualità solo in casi eccezionali, non dovrebbe essere scritto nella Costituzione, ed è anche discutibile se possa ammettersi lo sciopero dei pubblici funzionari che personificano la sovranità dello Stato, in quanto un tale sciopero sarebbe la negazione dello Stato stesso.

Aggiunge d’altro canto che vi sono impiegati, non dipendenti dallo Stato, come, ad esempio, i messi esattoriali, i quali, pur esercitando un pubblico ufficio, dipendono da ditte private appaltatrici. In questo caso c’è un datore di lavoro che non è lo Stato, e sarebbe ingiusto escludere una tale categoria di lavoratori dal diritto allo sciopero. Per tutte queste ragioni è del parere di non fare generalizzazioni che potrebbero risultare pericolose.

MOLÈ precisa che quando si parla di pubblici funzionari si devono intendere solo i dipendenti dallo Stato.

DI VITTORIO, Relatore, insiste sul concetto che la Costituzione deve solo affermare il diritto; sarà compito del legislatore ordinario di regolamentare tutta la materia. Non crede, contrariamente a quanto ritiene il Presidente, che una formula generale possa creare imbarazzi. D’altro canto non è da pensare che dello sciopero possano valersi gli alti ufficiali dello Stato, anche perché ciò non è nella tradizione politica dei Paesi civili.

MOLÈ ricorda lo sciopero degli agenti di pubblica sicurezza.

DI VITTORIO, Relatore, nota che si è trattato di una manifestazione sporadica senza alcuna gravità.

MOLÈ cita anche il caso di un colonnello della polizia a Roma che aveva tentato di organizzare uno sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, rileva che si tratta di piccoli episodi. La storia degli scioperi parla di movimenti operai e di movimenti di impiegati, specialmente nell’industria privata; l’ipotesi dello sciopero dei generali, dei magistrati, ecc., non ha mai avuto conferma nella pratica. Teoricamente tutto è possibile, ma non è a questi piccoli episodi che ci si deve riferire.

MOLÈ per quanto riguarda la serrata, osserva che vi possono essere, in linea di massima, delle serrate determinate da condizioni che rendano impossibile continuare la vita delle aziende. In questi casi potrebbe essere preveduto uno speciale controllo da parte dello Stato, perché non si prestino a nascondere qualche speculazione.

DI VITTORIO, Relatore, pensa che un rigoroso controllo dovrebbe sempre esservi, poiché la serrata è un’arma di battaglia specifica. Ricorda di averne parlato nella sua relazione, ma non ha creduto opportuno parlarne negli articoli, perché, a suo avviso, la Costituzione deve consacrare i diritti, e non parlare delle cose vietate, affinché non divenga una specie di Codice penale.

Siccome nega il diritto alla serrata, non trova necessario dirlo nella Costituzione.

DOMINEDÒ ritiene che la questione dovrebbe essere impostata nei suoi termini essenziali di partenza, che non sono sfuggiti all’accortezza del Relatore quando ha indugiato sulla questione preliminare del riconoscimento del diritto di sciopero in genere, termini di partenza che sono stati felicemente ripresi dall’onorevole Molè.

Non vorrebbe essere frainteso, ma, a suo avviso, la questione dovrebbe essere impostata in termini giuridici: lo sciopero è un’arma di fatto che, eventualmente, può anche essere giustificata. Riconosce che il potere di sciopero (preferisce parlare di potere e non di diritto) possa essere legittimo. Lo sciopero, però, di regola rompe un rapporto di lavoro precostituito. All’onorevole Di Vittorio, che parlava dell’esigenza di riconoscere alla personalità umana la libertà di non lavorare, cioè il diritto di incrociare le braccia, osserva che a parte la propria sensibilità al dovere sociale di lavorare, tale libertà può se mai trovarsi nella facoltà di non assumere un obbligo di prestazione d’opera, ma, una volta assunto quest’obbligo, si stabilisce un vincolo di diritto: e lo sciopero è un’arma di fatto che rompe un vincolo giuridico precostituito, come la guerra è un’arma di fatto che rompe un ordine internazionale precostituito.

Non esclude affatto, pur considerandola eccezionale, l’ipotesi che la rottura di questo vincolo precostituito possa essere legittimata da cause di forza maggiore; può tuttavia non esservi uno stato di forza maggiore tale da legittimare la inadempienza al rapporto di lavoro in vigore. E allora si domanda, pur avendo riconosciuto l’ipotesi in cui l’arma dello sciopero diventa legittima, se convenga contemplare nella Costituzione il diritto di sciopero, attraverso una formulazione così generale da comprendere ipotesi legittime e non legittime.

Afferma che la riprova della bontà di questa impostazione della tesi sta nel fatto che, per quante Costituzioni egli abbia sfogliato, ad eccezione di quella estone, non ha mai trovato un accenno al riconoscimento generale di questo diritto. Vi è invece qualche indovinato accenno sulle funzioni del sindacato dirette ad elevare e migliorare le condizioni della classe lavoratrice.

DI VITTORIO, Relatore, risponde che questo diritto è riconosciuto in tutte le legislazioni di quei Paesi nei quali era stato soppresso. In Francia, ad esempio, non si fa nessuno accenno al diritto di sciopero, perché non è stato mai soppresso.

DOMINEDÒ aggiunge che il passo avanti rispetto a situazioni preclusive dell’esercizio di questo potere sta oggi nell’avere superato il divieto formale di sciopero e di serrata.

D’altra parte, a suo avviso, quest’arma eccezionale dello sciopero deve essere gradualmente eliminata nell’evoluzione di un Paese civile. Così come si tende al superamento della guerra, si deve tendere al superamento dello sciopero, sostituendo a quest’arma eccezionale diversi strumenti di tutela giuridica. Considera l’istituto dell’arbitrato obbligatorio come segno di evoluzione di un popolo civile.

Pertanto pone il dubbio della opportunità di giungere a sancire, come mezzo normale comprendente tutte le ipotesi, questo esercizio di un potere di fatto, pur tenendo presenti le ragioni sociali e morali che lo giustificano in determinate ipotesi.

MARINARO dichiara che non nega il diritto di sciopero, per le ragioni accennate ampiamente dal Relatore e dall’onorevole Molè; vede anche l’opportunità che questo diritto generale, ormai riconosciuto, sia consacrato in una precisa norma; ma vede pure la necessità che il riconoscimento di un tale diritto sia accompagnato da precise garanzie e limitazioni. Il diritto di sciopero illimitato e la negata facoltà di serrata, come è nel pensiero del Relatore, confermano, a suo avviso, l’intendimento di voler riconoscere una preminenza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro, intendimento che nella seduta del giorno precedente sembrò superato, sia pure per fini conciliativi. Fa rilevare che in uno Stato democratico non possono costituirsi privilegi di classe. Tutte le classi debbono essere considerate su uno stesso piano nell’esercizio dei loro diritti e nell’adempimento dei loro doveri, e tutto questo per rispetto a quelle finalità che interessano principalmente tutta la collettività.

All’affermazione del diritto di sciopero, quale strumento di lotta e di difesa degli interessi dei lavoratori, deve necessariamente corrispondere il diritto di serrata dei datori di lavoro. Non ritiene concepibile, specialmente dal punto di vista giuridico – e nella Costituzione vanno fissate norme essenzialmente giuridiche – che la legge ammetta uno strumento di offesa e non consenta alcun mezzo di difesa.

LOMBARDO afferma che la serrata è una rappresaglia, non un mezzo di difesa.

MARINARO ripete che la serrata è il mezzo che ha il datore di lavoro per difendersi da uno sciopero illegittimo, e non può, a priori, essere considerata una rappresaglia.

Ammesso in egual grado il riconoscimento dei diritti di sciopero e di serrata, sorge evidente l’opportunità che l’affermazione di tali diritti sia accompagnata da garanzie e limitazioni, in modo che tali mezzi di lotta siano contenuti nell’ambito degli interessi economici e sindacali, non contrastino con l’interesse generale prevalente della collettività, e non si tramutino in strumenti di offesa e di indebolimento delle istituzioni democratiche.

Prescindendo dalle osservazioni fatte dall’onorevole Molè e dal Presidente, circa la distinzione tra i dipendenti dello Stato, ritiene che, nel caso dello sciopero nelle pubbliche amministrazioni, nei servizi pubblici, è l’interesse della collettività che deve prevalere. In ogni caso, poi, il ricorso a tali mezzi di lotta dovrebbe essere deliberato dalla effettiva maggioranza degli interessati e dovrebbe essere subordinato ad una procedura preliminare di composizione.

Per queste considerazioni, propone che nella Carta costituzionale sia inserito un articolo del seguente tenore:

«È riconosciuto, nell’ambito degli interessi economici e sindacali, il diritto di sciopero e di serrata, salvo le garanzie e le limitazioni stabilite dalla legge.

«Gli scioperi nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni sono proibiti; le vertenze relative saranno risolte da adeguati organi opportunamente predisposti».

TOGNI dichiara che non seguirà l’onorevole Dominedò in quella che è la parte squisitamente giuridica dell’argomento, anche perché può concordare col Relatore sul fatto che un fenomeno così grave, così moderno e così importante come lo sciopero non può essere circoscritto in formule e strettoie giuridiche, ma è opportuno considerarlo da un punto di vista prevalentemente sociale. Sotto questo punto di vista crede che nessuno possa negare la necessità ineluttabile del ricorso allo sciopero quale unica arma, unico mezzo dei lavoratori per poter progredire nelle loro posizioni di lavoro e migliorare le posizioni stesse. Arriverebbe a dire che, ove lo sciopero fosse veramente applicato secondo quell’alto valore che ha, sarebbe un’arma di progresso sociale, l’unica arma degli operai per poter mettere sul tappeto determinate rivendicazioni.

Riconosce che sul piano sociale si va verso un continuo perfezionamento delle condizioni dei lavoratori, e che le esigenze sindacali comportano una progressiva richiesta di miglioramento.

Per contro, non si sente di mettere sullo stesso piano l’arma che avrebbero i datori di lavoro, ove si consentisse la serrata, perché questo non risponderebbe né alla funzione sociale del capitale, né a quell’impulso di tutto il popolo italiano di oggi, della nuova democrazia, che spinge a tutelare in maniera prevalente i lavoratori nell’esplicazione del loro lavoro e nell’affermazione dei loro diritti.

Fa però considerare che lo sciopero è un’arma la quale presenta, per chi l’adopera e per chi la subisce, gravi inconvenienti, gravi danni e quindi comporta dei limiti e la necessità di garanzie, per un complesso di situazioni e di attività, di fronte alle quali il cittadino onesto che pensa al bene comune resta perplesso e preoccupato.

Non è, a suo avviso, minimamente accettabile una possibilità di sciopero politico, così come non è ammissibile una possibilità di sciopero da parte di determinati organi statali o tali da rappresentare o impersonare determinati gangli della vita dello Stato stesso.

Dichiara di non essere d’accordo col Relatore quando parla di questo Stato come di qualche cosa di aleatorio, momentaneo, che può essere domani modificato nella sua struttura e verso il quale dobbiamo garantirci. Pensa che il giorno in cui lo Stato democratico dovesse cadere, per una qualsiasi deprecata ipotesi, nessuna Costituzione potrebbe reggere, e coloro che fossero chiamati a dare un nuovo ordinamento allo Stato spazzerebbero qualunque norma che possa avere statuito lo Stato che oggi si tratta di formare. Lo Stato democratico garantisce la libertà, ma deve garantire anche il proprio funzionamento e deve difendere la propria vita; non può consentire che alla sua vita sia attentato né sul piano politico, né sul piano economico, sindacale, lavorativo. Crede che su questo tutti siano d’accordo.

Ha toccato questo punto per mettere in evidenza le difficoltà che si presentano a chi voglia sancire questo diritto nella nuova Costituzione. Non crede possibile trovare una formula che dica tutto quello che si deve dire e ometta tutto quello che si deve omettere, e che non sia limitativa o insufficiente dato il continuo e, sotto certi aspetti, imprevedibile evolversi della vita economica e sociale.

Si chiede perché, come hanno fatto tutte le altre Costituzioni, non si vuole rinunciare ad affermare questo diritto di sciopero, quando esistono due garanzie per i lavoratori: cioè che nulla è detto nella nuova Costituzione che possa anche minimamente servire di limite, di remora, di ostacolo alla manifestazione di questo diritto che è nella coscienza di tutti; inoltre uno Stato democratico non potrà mai non consentire lo sciopero ai lavoratori, quando questo veramente si manifesti come una necessità insopprimibile. Pertanto propone di soprassedere a qualsiasi formulazione.

LOMBARDO afferma che in una società prettamente socialista lo sciopero andrebbe vietato, mentre è un’arma legittima nella società capitalistica, in quanto permette di colpire gli imprenditori attraverso il loro profitto.

Naturalmente lo sciopero, da un punto di vista generale, è un danno per la collettività, ma lo è anche la condizione d’inferiorità dei lavoratori, ed è ovvio che questi possano usufruire di tale arma.

Siccome lo sciopero è un’arma, qualora se ne enunci il diritto, dovrebbero anche essere enunciate le garanzie di esercizio; dovrebbe essere stabilito come, quando e da chi potrebbe essere esercitato; occorrerebbe, insomma, fare una casistica che non può trovar luogo nella Costituzione; perciò, a suo avviso, non andrebbe fatta nessuna enunciazione.

La serrata, invece, è un’arma di offesa, non di difesa: è un’offesa nei riguardi della collettività e, se nella Costituzione, ammettendosi lo sciopero, si dovesse ammettere anche la serrata, ritiene questa una ragione di più per non parlare di sciopero.

Si chiede, però, se possa conciliarsi il silenzio sul diritto di sciopero con la enunciazione, fatta in altro articolo, del dovere, oltre che del diritto, al lavoro.

DOMINEDÒ spiega di aver parlato di dovere del lavoro in un senso assolutamente generale, sociale ed etico. Non si esclude che, là dove questo dovere si traduca nella assunzione concreta di uno specifico rapporto di lavoro, se tale rapporto non determina un trattamento del lavoratore conforme alle necessità individuali e familiari, possa sussistere quella ragione di prepotere economico del datore di lavoro rispetto al lavoratore, per cui a questi sia dato legittimamente ricorrere ad un’arma, che è la sola per spezzare quel prepotere.

MOLÈ aggiunge che il lavoro è un dovere, ma nelle condizioni migliori per il lavoratore.

DI VITTORIO, Relatore, ritiene che la proclamazione del dovere del lavoro sia necessaria per i borghesi, perché per i lavoratori il lavoro è un bisogno vitale.

LOMBARDO chiede se la legislazione fascista, che aveva vietato lo sciopero e la serrata, è stata abrogata.

DOMINEDÒ risponde che l’ordinanza alleata del 13 giugno 1944 ha abrogato il sistema corporativo fascista, lasciando però in penombra il sistema sindacale. Nella realtà si considera superato il divieto del diritto di sciopero e di serrata.

FANFANI, riprendendo ed estendendo una frase dell’onorevole Lombardo, afferma che tutte le volte in cui una società riesce a rendere piena giustizia a tutti gli oppressi, l’arma dello sciopero non ha più diritto di essere usata.

Lo Stato italiano, che si è proposto di riconoscere pieno diritto alla giustizia da parte di tutti, dovrebbe in teoria non ammettere lo sciopero e la serrata. Ma se ammette lo sciopero, cioè se riconosce l’incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori, non può non ammettere la stessa incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei datori di lavoro.

Ammettendo solo il diritto dei lavoratori di rendersi ragione, implicitamente si riconosce che lo Stato soggiace normalmente all’influenza del capitalista, tanto che non sa rendere giustizia al lavoratore, donde lo sciopero. Ma questa ammissione implicita non può essere fatta nella Costituzione. Pertanto o si tace il diritto di farsi ragione da sé nel campo del lavoro, oppure si riconosce la insufficienza dello Stato a rendere giustizia, e, in questa ipotesi, si deve ammettere il duello tra le parti.

In questa condizione di cose lo Stato deve prendere delle garanzie; pertanto propone il seguente articolo:

«È ammesso il ricorso allo sciopero e alla serrata. La legge ne regola le modalità di proclamazione e di svolgimento, a tutela della pace sociale, del godimento del diritto al lavoro, della continuità dei servizi essenziali alla vita collettiva e dell’espletamento delle funzioni proprie dello Stato».

MOLÈ ritiene che si possa non parlare dello sciopero, ma che non si possa affermare che l’enunciazione del diritto di sciopero nei rapporti tra privati significhi affermare l’incapacità dello Stato a dare una legittima soddisfazione ai diritti del lavoro. Sarebbe una confessione di questa incapacità, qualora questo diritto fosse concesso ai soli prestatori d’opera.

Finché non ci sarà uno Stato di economia collettiva, finché ci sarà una certa libertà d’iniziativa, lo Stato non potrà impedire che si verifichino ingiustizie.

Quanto poi a regolamentare lo sciopero, si potranno determinare i limiti in cui lo sciopero è consentito, ma non le modalità; perché lo sciopero è un’arma che o è concessa completamente, oppure è perfettamente inutile.

TOGNI chiede che venga messa ai voti la sua proposta, cui hanno aderito gli onorevoli Dominedò, Lombardo e Molè, intesa a non includere nella Costituzione alcun accenno relativo allo sciopero o alla serrata.

FANFANI ritiene che la Sottocommissione possa aderire alla proposta Togni, facendo contemporaneamente un invito all’Assemblea perché consideri l’opportunità di promuovere al più presto l’emanazione di una legge che abroghi esplicitamente tutta la legislazione fascista in materia.

DI VITTORIO, Relatore, nella sua qualità di relatore intende, prima che si passi ad una qualsiasi votazione, rispondere ai vari oratori, alcuni dei quali hanno fatto delle obiezioni molto giuste, che ritiene possano essere prese in considerazione. Per tale motivo, e data l’ora tarda, propone che la seduta sia rinviata al giorno successivo.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Molè, Togni.

Assenti giustificati: Canevari, Giua.

Assenti: Colitto, Federici Maria, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Rapelli, Taviani.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

35.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Di Vittorio, Relatore – Marinaro – Rapelli, Correlatore.

La seduta comincia alle 11.30.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE ricorda che il tema in discussione è il diritto di sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, propone di discutere il primo comma dell’articolo 4 della sua relazione, di cui dà lettura: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Nel secondo comma ha trattato del collocamento all’interno ed all’estero e dell’assistenza agli emigranti.

PRESIDENTE rileva che per il collocamento all’estero già si è provveduto con una apposita norma; per il collocamento all’interno non crede che la Costituzione se ne debba occupare.

DI VITTORIO, Relatore, poiché nella sua relazione ha affrontato il problema del nuovo ordinamento sindacale, ha ritenuto di trattare anche del collocamento, che è una delle funzioni più importanti del sindacato.

Tornando al primo comma, ritiene che sia la Sottocommissione che l’Assemblea Costituente non avranno difficoltà a riconoscere il diritto di sciopero, che non è un diritto nuovo, ma già acquisito dai lavoratori di tutti i Paesi civili. Solo nelle Nazioni che, come un tempo l’Italia, hanno avuto la disgrazia di cadere sotto una dittatura, questo diritto è stato mutilato o soppresso, ma in tutti i Paesi fondati su un regime di democrazia e di libertà, come l’America e l’Inghilterra, esso è legalmente riconosciuto a tutti i lavoratori, ed ha subito solo qualche leggera limitazione durante il periodo della guerra.

Il diritto di sciopero costituisce, a suo avviso, uno dei presupposti del rispetto della personalità umana, nel senso che l’uomo deve avere il diritto, quando lo creda, di non lavorare e di incrociare le braccia. Il diritto di sciopero è altresì una delle armi più potenti che il lavoro possiede per difendere i propri interessi rispetto al capitale. È con questo mezzo che una collettività di lavoratori manifesta l’importanza della sua funzione sociale ed anche della sua potenza, affermando in maniera concreta ed evidente che il capitale, se posseduto dai privati, non è tutto e nemmeno il più necessario. I lavoratori hanno, infatti, la possibilità di dimostrare coi fatti di essere una delle leve più potenti della vita e della società, perché, quando essi collettivamente decidono di non lavorare, si arrestano, per tutto il periodo dello sciopero, le fonti stesse della vita.

Senza dilungarsi intorno al concetto generale, su cui è certo della unanimità di consensi, passa ad una delle principali eccezioni che si vorrebbe fare al diritto di sciopero, vale a dire a quella relativa allo sciopero dei servizi pubblici.

Premette di essere favorevole alla estensione del diritto di sciopero a tutti i cittadini, senza nessuna eccezione e, quindi, anche ai dipendenti dei servizi pubblici. Gli sono noti gli argomenti contrari a questo principio e riconosce la fondatezza di alcuni di essi; ma, ritenendo assai più forti gli argomenti favorevoli, è del parere che in una Carta costituzionale democratica il diritto di sciopero debba essere riconosciuto, senza eccezioni, a tutti i lavoratori. Non può disconoscere che lo Stato ha il dovere di assicurare la continuità dei servizi pubblici indispensabili alla collettività; ma nega che possa dare questa garanzia alla società nazionale, basandosi sul diniego del diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, che costituiscono una classe abbastanza numerosa di cittadini. Crede invece che, all’infuori di ciò che deve essere coercitivamente represso perché antisociale, lo Stato, quale pietra di paragone della maturità e dello sviluppo delle nuove concezioni democratiche, debba avere tali legami con le masse lavoratrici e con le organizzazioni sindacali che le rappresentano, da assicurare la continuità dei servizi pubblici mediante il componimento amichevole e bonario di tutte le vertenze. Innanzi tutto, negare il diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, dal punto di vista soggettivo, significherebbe creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri. Dal punto di vista obiettivo, non sarebbe nemmeno una soluzione favorevole, perché la pressione che i lavoratori possono esercitare con questo mezzo, può cagionare indirettamente un effetto salutare sugli stessi servizi pubblici. Infatti, un’amministrazione, la quale fosse matematicamente sicura che nulla può mettere in crisi i servizi, potrebbe essere portata a trascurare l’accoglimento delle rivendicazioni legittime e giuste dei lavoratori, al punto da acuire il loro malcontento, con la logica conseguenza di ripercussioni negative sul funzionamento dei servizi. Quando, invece, i lavoratori hanno la possibilità di porre l’amministrazione di fronte alle proprie responsabilità, questa minaccia la costringe ad esaminare con la dovuta sollecitudine le loro rivendicazioni, evitando così quella depressione degli animi che può portare ad un rilasciamento generale dei servizi.

Contro il diritto di sciopero si obietta che se lo Stato, invece di essere reazionario, è democratico, vale a dire fondato sulle masse lavoratrici, i rapporti tra lo Stato e le masse devono essere di collaborazione, e pertanto non appare necessario tale diritto. Questo ragionamento, che ha inteso fare, attraverso la stampa, dagli oppositori al principio, può però essere ritorto, nel senso che se i lavoratori devono avere fiducia nello Stato, non vi è alcun motivo perché lo Stato democratico non debba avere fiducia nei lavoratori.

Lo Stato, a suo avviso, deve fidare di più sulla collaborazione delle masse che sui mezzi coercitivi che esso può far valere nei loro confronti. Circa la possibilità di esporre il Paese a pericoli per eventuali abusi, ritiene che bisogna avere fiducia nelle masse lavoratrici.

Rispetto ai servizi pubblici, bisogna considerare da un lato i lavoratori addetti ad essi, e dall’altro la grande massa lavoratrice che rappresenta gli utenti e i beneficiari di questi servizi pubblici. Ora, se da uno sciopero dei servizi pubblici può derivare un danno alla collettività in generale, la classe lavoratrice, nel suo complesso, come quella che ha interesse più di ogni altra alla continuità dei servizi stessi, è portata ad intervenire per porre delle limitazioni ed evitare ogni abuso in questo campo.

Da quanto ha detto, discende come logica conseguenza il principio dell’autodisciplina ed autolimitazione delle masse lavoratrici, sulle quali lo Stato democratico ha il dovere di fare affidamento. Come esempio, cita la Confederazione generale del lavoro, la quale nel congresso di Napoli alla fine del gennaio 1945, senza nessunissima pressione da parte del Governo o di qualsiasi autorità, spontaneamente ha fissato nell’articolo 59 del suo statuto, relativamente ai servizi pubblici, i seguenti due principî: cercare di evitare lo sciopero ed esperire tutti i mezzi che sono necessari a tal fine; ottenere, per farvi ricorso, l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione stessa.

Malgrado la situazione eccessivamente grave del Paese, per cui specialmente le masse lavoratrici dei servizi pubblici hanno un trattamento economico enormemente in ritardo sui continui aumenti del costo della vita, può affermare che i lavoratori, salvò rare eccezioni, si sono attenuti allo spirito della decisione presa dalla Confederazione del lavoro. Un termine di paragone della efficacia di questo metodo della autodisciplina, in relazione a quello della coercizione, può essere ottenuto dal confronto fra gli altri Paesi e l’Italia, dove, anche essendosi avuta una catastrofe tale da porre le masse lavoratrici in condizione di non poter soddisfare ai bisogni elementari di vita, non si sono avuti né uno sciopero dei ferrovieri, né di alcun altro dei servizi pubblici fondamentali, ma solo piccoli scioperi di carattere locale, che si sono potuti comporre con grande facilità. Invece in America, in Inghilterra e in altri Paesi, che si trovano in condizioni assai più fortunate dal punto di vista del lavoro, si sono avuti scioperi che hanno messo in crisi i rispettivi servizi fondamentali. Alla prova dei fatti, quindi, l’autodisciplina e l’autolimitazione degli stessi lavoratori, come prodotto della loro maturità sindacale, hanno funzionato in modo più efficace di quanto non abbiano funzionato altrove le limitazioni di carattere legale.

I pochi e sporadici scioperi che si sono verificati, sono stati effettuati, per decisione delle stesse categorie, in modo da assicurare il funzionamento dei servizi fondamentali di interesse pubblico.

Si domanda, quindi, che cosa succederebbe se, vietato ai lavoratori dei servizi pubblici il diritto di sciopero, essi per risolvere un’acuta vertenza si sentissero obbligati a scioperare ugualmente. Lo Stato non potrebbe fare a meno di sedare con la forza lo sciopero e licenziare gli agitatori. Da questa azione di forza deriverebbe però un malanimo ed un senso di rancore che alla prima occasione fatalmente esploderebbe di nuovo, sotto altra forma, per esempio l’ostruzionismo, con evidente danno per il buon andamento dei servizi e perpetuando il conflitto fra lo Stato e notevoli masse popolari.

MARINARO osserva che non è detto che lo Stato debba necessariamente giungere a quella conseguenza. Vi saranno anche altri modi di risolvere le vertenze.

DI VITTORIO, Relatore, ribadisce il concetto che quando lo sciopero fosse proibito e i lavoratori lo facessero ugualmente, lo Stato non potrebbe non intervenire per far rispettare la legge anche con mezzi coercitivi. Invece la semplice minaccia dello sciopero da sola potrebbe far risolvere sollecitamente le vertenze.

Bisogna, poi, considerare che essendo il sentimento della solidarietà fra i lavoratori molto sentito, se lo Stato intervenisse per reprimere uno sciopero anche di altre categorie di lavoratori, allargando in modo grave una vertenza che, senza il divieto di sciopero, con la semplice minaccia di esso, si sarebbe potuta rapidamente risolvere, si avrebbe la possibilità di gravi conflitti tra lo Stato e le grandi masse lavoratrici italiane, con la conseguente negazione del carattere democratico dello Stato.

Concludendo, riafferma che la nuova Costituzione, se si vuole che rappresenti un progresso rispetto alla precedente, e non sia arretrata in confronto delle Costituzioni dei Paesi liberi e civili, dovrebbe riconoscere senza eccezioni il diritto di sciopero a tutti i lavoratori, confidando nel senso di autodisciplina e di autolimitazione delle organizzazioni sindacali, le quali oggi, a differenza di ieri, non sono più ai margini della società nazionale in atteggiamento ostile allo Stato, ma sono entrate a far parte dello Stato stesso.

MARINARO domanda all’onorevole Di Vittorio se non intenda parlare anche in ordine alla serrata.

PRESIDENTE sebbene l’ordine della discussione porterebbe ad ascoltare l’onorevole Rapelli, Correlatore sullo stesso argomento dello sciopero, è anch’egli del parere che l’onorevole Di Vittorio possa parlare subito della serrata, come argomento connesso.

DI VITTORIO, Relatore, accetta di parlare brevemente anche della serrata. Dichiara di essere contrario a riconoscere il diritto di serrata al datore di lavoro. Le ragioni le ha già espresse nella sua relazione, dove ha concluso proponendo che la facoltà della serrata sia sottoposta al controllo dello Stato. Alla obiezione che gli si potrebbe opporre che il riconoscimento del diritto di serrata è correlativo a quello di sciopero, potrebbe rispondere che l’interesse dei datori di lavoro è soltanto formalmente uguale a quello dei lavoratori, perché, in sostanza, i due interessi divergono non soltanto come quantità, ma anche come qualità. Prima di tutto i lavoratori rappresentano un interesse di carattere collettivo, per cui si giustifica il ricorso allo sciopero, come un mezzo di pressione per ottenere il soddisfacimento di esigenze attinenti alla vita dei lavoratori, soddisfacimento che ha come conseguenza un progresso di tutta la società nazionale. Il datore di lavoro, invece, può essere animato da interessi che non solo non collimano con quelli della società nazionale, ma possono anche essere in contrasto con essa. Non è quindi giusto porre sullo stesso piano tanto il lavoro, quanto il capitale.

Il lavoratore, in secondo luogo, ha una remora nell’esercizio del diritto di sciopero, derivante dalle sue stesse condizioni economiche, per cui rappresentando il salario provento unico della sua esistenza, non può prolungare all’infinito uno sciopero senza esporsi alla fame. Il datore di lavoro, invece, con la serrata perde solo ciò che potrebbe realizzare di profitto in quei giorni, perché il lavoro per lui non è il mezzo immediato di vita, come il salario per il lavoratore. D’altra parte, mentre il lavoratore che sciopera non può avere un secondo fine che sia in contrasto con le esigenze della società nazionale, il datore di lavoro, nel prolungare ingiustificatamente una serrata, potrebbe perseguire fini egoistici, come quello di provocare un aumento di prezzo del suo prodotto, o un alleggerimento delle scorte dei suoi magazzini.

Osserva, infine, che stabilire il diritto di serrata significherebbe riconoscere il diritto di proprietà, basato sullo jus utendi et abutendi proprio del diritto romano, che ormai tutte le legislazioni moderne hanno abbandonato, affidando alla proprietà una funzione sociale.

Per tali motivi lo Stato non dovrebbe riconoscere al datore di lavoro il diritto di serrata, senza alcun controllo.

PRESIDENTE chiede all’onorevole Di Vittorio se nega completamente il diritto di serrata, o se lo vuol sottoposto a determinati controlli.

DI VITTORIO, Relatore, in linea di principio è contrario al diritto di serrata; praticamente, però, non sarebbe contrario a sottoporlo ad uno stretto controllo da parte dello Stato.

RAPELLI, Correlatore, osserva innanzi tutto che, dovendosi fissare in che modo debba esercitarsi il diritto allo sciopero, ciò vuol dire che l’esercizio di tale diritto non deve essere qualche cosa di arbitrario. L’argomento dei pubblici servizi lo induce a considerare innanzi tutto la situazione dei pubblici funzionari, rispetto ai quali, dovendosi tener sempre presenti le supreme esigenze dello Stato, sarebbe inconcepibile il diritto di sciopero, in quanto in essi è preminente la qualità di funzionario rispetto a quella di lavoratore. Per quanto riguarda, invece, i servizi pubblici, ritiene utile distinguerli in servizi essenziali – che ormai sono tutti esercitati e controllati dallo Stato – e in servizi accessori, che si possono considerare come una forma di surrogato della industria privata. Per ambedue, in caso di vertenze, si dovrebbe fare ricorso a Commissioni arbitrali o addirittura a speciali magistrature. Non è del parere, invece, che si debba fare ricorso alla Confederazione generale del lavoro, in quanto si esulerebbe dai suoi specifici compiti. Questo suo punto di vista ha inserito, salvo modificazioni, nell’articolo 3 e, in parte, nell’articolo 4 della sua relazione.

Si dichiara contrario al diritto di serrata, in quanto lo considera una forma di rappresaglia che bisogna impedire, perché l’impresa è un fatto sociale e, come tale, non può sottrarsi all’obbligo di dare lavoro.

PRESIDENTE pone il quesito se il diritto allo sciopero debba essere esteso anche allo sciopero di carattere politico o debba essere limitato al campo strettamente economico.

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara favorevole per un illimitato diritto di sciopero, senza nessuna restrizione, comprendendo quindi anche lo sciopero politico. Rileva che tale sua affermazione potrebbe sembrare assurda, considerandosi egli rappresentante delle masse lavoratrici che fanno parte dello Stato e che non sono contro lo Stato; ma pensa che lo sciopero sia un’arma eccellente di difesa della democrazia e dello Stato democratico. Non quindi arma contro lo Stato, ma contro pericoli di una eventuale evoluzione in senso reazionario dello Stato stesso. Cita, a questo proposito, il caso dell’ex re d’Italia che esitava ad abbandonare il Paese dopo la proclamazione del risultato del referendum; in tale occasione la Confederazione generale del lavoro, essendo a conoscenza di tentativi di colpi di mano da parte di gruppi reazionari, aveva già deciso in una sua riunione lo sciopero generale, congegnandolo in modo da favorire le forze democratiche e contemporaneamente paralizzare i gruppi reazionari. Lo sciopero generale politico nelle mani delle grandi masse lavoratrici può, quindi, considerarsi come uno strumento di difesa della democrazia.

RAPELLI, Correlatore, è contrario allo sciopero generale politico, così come lo intende l’onorevole Di Vittorio. Ammetterne la legalità significherebbe, a suo avviso, rendere invalida la Costituzione in partenza. Si riconoscerebbe, infatti, ad una parte dei cittadini il diritto di rendere carente l’attività dello Stato e di farsi giustizia da sé in una materia non sindacale, ma politica e che, in quanto tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Rileva, infine, che, se desta preoccupazione lo sciopero degli addetti ai servizi pubblici, a maggior ragione deve preoccupare la eventualità di uno sciopero generale politico.

PRESIDENTE rinvia la discussione alle ore 17.

La seduta termina alle 12.40.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Marinaro, Molè, Rapelli, Togni.

Erano assenti: Colitto, Federici Maria, Lombardo, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

In congedo: Canevari, Giua.

MARTEDÌ 22 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

34.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 22 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Togni – Di Vittorio, Relatore – Dominedò – Molè – Fanfani – Presidente – Marinaro.

La seduta comincia alle 17.50.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

TOGNI ricorda la riserva sua e dei colleghi del suo gruppo, fatta nella precedente seduta, sul modo precipitoso col quale erano stati votati i due articoli sull’ordinamento sindacale, della quale lo stesso presidente Giua gli aveva dato atto.

Gli articoli sono stati così formulati:

Art. …

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Art. …

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati.

 

Il punto sostanzialmente errato, a suo avviso, è che nel primo articolo si parla del riconoscimento giuridico dei sindacati e nel secondo si parla della facoltà di stipulare contratti collettivi di lavoro concessa ad una specie di sindacato di coordinamento, costituito dai rappresentanti dei diversi sindacati. Infatti: o è il sindacato che ha il riconoscimento giuridico, ed è esso che può stipulare i contratti; o è un altro organo cui è conferita questa facoltà, e allora è perfettamente inutile dare il riconoscimento giuridico al sindacato salvo che, con tale riconoscimento, si voglia concedergli una personalità, che gli permetta di svolgere normali negozi giuridici e di possedere beni, come accennava l’onorevole Di Vittorio.

Ritiene quindi opportuno rivedere i due articoli, tanto più che il dissenso è più formale che sostanziale, per far sì che non si prestino a facili censure.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non aver nulla in contrario a migliorare il testo dei due articoli, soprattutto in considerazione del fatto che nella sostanza ritiene che tutti siano d’accordo. Giudica però artificiosa l’argomentazione dell’onorevole Togni. È suo intendimento che il sindacato debba avere il riconoscimento giuridico limitatamente a questi tre scopi: avere la capacità giuridica di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la categoria; avere la possibilità di costituirsi in giudizio; avere la possibilità di acquistare e possedere beni. L’onorevole Togni, invece, dice che la facoltà di stipulare i contratti collettivi non è conferita al sindacato, ma ad un ente costituito dalla rappresentanza di vari sindacati. Osserva che se il sindacato è unico, come è oggi nella realtà, la questione non sussiste; soltanto nell’ipotesi che ci siano più sindacati nella stessa categoria, si è detto, in omaggio ai principî democratici, si costituisce una rappresentanza proporzionale di ciascuno, che dovrà procedere alla stipulazione del contratto; di modo che il contratto sarebbe l’espressione non di un sindacato, ma di tutti i sindacati esistenti e riconosciuti. L’onorevole Togni vede in questa rappresentanza di più sindacati un altro ente, quasi estraneo al sindacato, e ne fa un secondo istituto. Nella realtà non sono due enti distinti, perché questa rappresentanza è la sintesi dei vari sindacati, formata dai loro rappresentanti.

Del resto, ripete, oggi il sindacato è unico e vi è una tendenza diffusa in tutti i Paesi civili alla unicità del sindacato; ma se anche fossero più d’uno i sindacati di una categoria riconosciuti giuridicamente, sarebbero questi che, agendo attraverso la propria rappresentanza, stipulerebbero i contratti collettivi.

DOMINEDÒ fa rilevare che può anche essere opportuno che ai vari sindacati sia data la personalità giuridica per stare in giudizio e per possedere; ma altro è la personalità di diritto privato che risponde a tali esigenze; altro è attribuire una personalità di diritto pubblico, in forza della quale si conferisce la facoltà normativa non solo nei confronti degli iscritti, ma di tutti gli appartenenti alla categoria.

Perché lo Stato deleghi questa potestà occorre precisamente che vi sia una rappresentanza unitaria, e non solamente maggioritaria, della categoria. Queste rappresentanze verranno sì disciplinate dalla legge in modo particolare, ma in via di massima potranno esse solamente costituire l’organo munito di potestà normativa ed espresso dai vari sindacati plurimi, secondo i principî democratici. Se così non fosse, la potestà normativa dovrebbe essere conferita a tutti i sindacati, e ne nascerebbe il caos, perché ogni sindacato potrebbe dettare norme nei confronti della categoria. Questa è la ragione per la quale occorre giungere alla rappresentanza unitaria.

TOGNI aggiunge che si confonde il sindacato unico col sindacato unitario. Quanto si verifica in Italia, ed è augurabile che non vi siano mutamenti, è un’eccezione; la regola è la pluralità dei sindacati. Nel caso dell’Italia la rappresentanza di tutta la categoria può coincidere col sindacato unico e come tale può essere riconosciuta, ma nella norma della Costituzione deve essere considerato il caso generale, nel quale rientra quello eccezionale. Comunque, questo problema è stato superato con l’ultimo comma del secondo articolo che dice: «Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

La sua osservazione moveva dalla necessità di correggere lievemente il suo primo articolo, e distinguere la personalità giuridica che si intende attribuire ai sindacati da quella che va attribuita alle rappresentanze unitarie.

MOLÈ osserva che leggendo solo il primo articolo potrebbe affacciarsi l’idea di un pericolo, idea però che svanisce leggendo anche l’ultimo comma del secondo articolo. Infatti la personalità giuridica è riconosciuta per rendere possibile il funzionamento dei sindacati, ma alla stipulazione del contratto collettivo, che è obbligatorio per tutti gli interessati, sono chiamate le rappresentanze unitarie. Il sindacato, anche come personalità giuridica di diritto privato, potrebbe impegnare i suoi iscritti, e si riconosce soltanto alle rappresentanze unitarie la facoltà di stipulare i contratti collettivi, che debbono avere efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti e per tutti gli interessati. In questa maniera il pericolo è superato. Basterebbe quindi far precedere l’ultimo comma dalla parola: «soltanto» e dire: «Soltanto le rappresentanze sindacali unitarie, ecc., ecc.».

FANFANI per ovviare al pericolo del sorgere di sindacati fittizi, che potrebbero contrastare il volere della maggioranza, propone che si dica: «Le rappresentanze sindacali unitarie di categoria dei sindacati registrati, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro obbligatorio per tutti gli appartenenti al settore economico cui si riferiscono».

A suo avviso, la divisione in due articoli non è opportuna; suggerisce pertanto di procedere innanzitutto ad una limatura e poi ad una condensazione.

Poiché nel primo comma del primo articolo si parla di lavoratori, e nel secondo anche dei datori di lavoro, si chiede se dei due commi non possa farsene uno solo e dire: «Ai sindacati, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori e dei datori di lavoro, è riconosciuta la personalità giuridica, alle condizioni previste dalla legge».

Qualora questa proposta fosse accolta, a questo comma o articolo a sé stante, andrebbe fatto precedere il primo comma dell’altro articolo: «L’associazione sindacale è libera».

DI VITTORIO, Relatore, afferma essere stato suo intendimento di non mettere sullo stesso piede di eguaglianza i sindacati dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro, prima di tutto perché i sindacati dei lavoratori rappresentano un numero assai superiore di iscritti, i quali, essendo in una condizione economica più disagiata, hanno un maggior bisogno di protezione da parte dello Stato. Riconosce che non è stata trovata un’espressione felice di questo concetto, che tiene a riaffermare, pur ammettendo che lo stesso riconoscimento giuridico competa anche ai sindacati dei datori di lavoro.

Ricorda che nella legislazione fascista le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro erano messe su uno stesso piano.

FANFANI fa notare che, rispetto alla situazione anteriore, rappresentava già una conquista per i lavoratori il trovarsi giuridicamente sullo stesso piano con i datori di lavoro.

Inserire nella Costituzione un articolo per consacrare una posizione prevalente ai sindacati dei lavoratori, potrebbe offrire il destro, ai datori di lavoro, di dire di essere stati posti in condizione d’inferiorità, e ciò potrebbe causare grave danno ai lavoratori stessi. Pur riconoscendo la condizione di parità giuridica, è stata fatta tutta una serie di articoli a tutela dei soli lavoratori.

DI VITTORIO, Relatore, è d’accordo di ammettere in un articolo la parità di condizione dei lavoratori e dei datori di lavoro nei riguardi del riconoscimento giuridico, ma tiene a che questo articolo sia preceduto da un’affermazione che dica che lo Stato dovrà garantire per legge un’efficace protezione ai lavoratori manuali e intellettuali. Con la sua formulazione: «I sindacati dei lavoratori sono riconosciuti enti di interesse collettivo», intendeva dire che sono enti che difendono gli interessi di una collettività molto importante.

Quanto al riconoscimento giuridico, provvedeva il primo comma del terzo articolo della sua relazione, che diceva: «Ai sindacati professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro, che ne facciano richiesta, è riconosciuta la personalità giuridica».

FANFANI rileva che la preoccupazione del Relatore è stata risolta con l’ultimo comma dell’articolo terzo approvato che dice: «La Repubblica procederà con speciali norme alla protezione del lavoratore e favorirà ogni regolamentazione internazionale diretta a tal fine», che in sede di coordinamento potrebbe formare oggetto di un articolo a parte.

PRESIDENTE osserva che è vero che in molti articoli si considerano soltanto i lavoratori, ma la situazione di diritto dei due sindacati, per quanto riguarda il riconoscimento giuridico, non può che essere uguale.

TOGNI ricorda che anche nella precedente discussione fu messa in rilievo l’importanza di questa formulazione, perché non fosse soggetta non solo a critiche, ma anche ad equivoci e speculazioni, e fece in proposito inserire a verbale le sue riserve. È evidente che con tutto quello che precede si è stabilita una priorità di valutazione morale per i lavoratori; ma per il fatto stesso che i due contraenti, per stipulare il contratto, debbono essere sullo stesso piede giuridico, è evidente che, tenendo presente questa esigenza, bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, e di usare una formulazione che non pecchi per proprietà di linguaggio.

DI VITTORIO, Relatore, obietta all’onorevole Fanfani che quanto è statuito negli articoli precedenti si riferisce al sistema assicurativo; si tratta, in sostanza, di assistenza sociale, di carità, di umanità; ma ora si vuole affermare nella Costituzione il concetto che il sindacato dei lavoratori e quello dei datori di lavoro sono due personalità giuridiche uguali, e questo socialmente non è ammissibile; prima di tutto per l’entità numerica dei due istituti; in secondo luogo perché il sindacato dei lavoratori tutela interessi di carattere collettivo, sociale, che non sono solo gli interessi di una comunità, ma di tutto l’insieme nazionale; invece quello dei datori di lavoro difende più precisamente gli interessi della categoria, magari in contrasto con quelli della società.

Non ha voluto chiaramente specificare questo concetto e si è limitato a porre in un piano più elevato questo strumento che difende gli interessi di carattere collettivo. Chiede ai giuristi che trovino la formula più adatta per esprimere questo concetto.

PRESIDENTE si dichiara d’accordo con l’onorevole Di Vittorio; ma quanto al riconoscimento giuridico, se ne faccia un comma o due, non vi deve essere differenza tra i due sindacati.

I primi tre articoli approvati dànno al lavoratore un posto a sé stante, e se questa è la tecnica generale seguita nella Costituzione, gli pare che convenga fare due commi e dire:

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

«Ai sindacati dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica».

MARINARO ricorda come la discussione, a questo proposito, sia stata ampia. Sul principio era stato quasi raggiunto l’accordo con l’affermare una certa preminenza dei sindacati dei lavoratori nei confronti di quelli dei datori di lavoro. Egli però osservò che ciò non corrispondeva ai principî di uno Stato democratico. Tornato l’onorevole Di Vittorio, ripeté che non si dovevano mettere i due sindacati su un piano di disuguaglianza, specialmente ai fini della stipulazione dei contratti collettivi. L’onorevole Di Vittorio accettò che in linea di principio si dovessero riconoscere questi sindacati dei datori di lavoro, ma voleva trovare una formula che, senza dirlo esplicitamente, accordasse una certa preminenza ai sindacati dei lavoratori, e si formulò un comma che diceva: «Tale riconoscimento è esteso ai datori di lavoro».

Poiché questa formula non fu trovata pienamente soddisfacente si disse: «La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro». Dichiara però che preferirebbe tornare alla precedente formula, perché la ritiene migliore.

FANFANI, tenendo presente quanto ha detto l’onorevole Di Vittorio, e condividendo la sua preoccupazione di conferire ai lavoratori un mezzo particolarmente efficace per la tutela dei loro interessi, propone:

«L’organizzazione sindacale è libera. In essa si riconosce un mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.

«Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla legge, ma senza imposizione di altro obbligo all’infuori di quello della registrazione.

«Le rappresentanze sindacali unitarie formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

DOMINEDÒ ritiene esatto il concetto dell’onorevole Fanfani, perché, pur tenendo conto della particolare rilevanza sociale delle associazioni sindacali dei lavoratori, ciò non esclude che, nel momento in cui si pongono sul piano giuridico, i due sindacati debbano essere in condizioni di parità. Pensa che si possa far precedere la disposizione da una formula che ponga in evidenza la particolare funzione di carattere sociale delle associazioni dei lavoratori. Si potrebbe, ad esempio, dire: «L’organizzazione sindacale, quale mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è libera».

PRESIDENTE propone che si formuli un solo articolo:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori è riconosciuta la personalità giuridica.

«Anche ai sindacati dei datori di lavoro può essere riconosciuta la personalità giuridica.

«Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo all’infuori di quello della registrazione.

«Soltanto le rappresentanze unitarie, riconosciute dalla legge, costituite in proporzione degli iscritti, hanno facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli interessati».

FANFANI insiste nella sua formulazione. Riconosce l’opportunità che in sede costituzionale si dia particolare riconoscimento al fatto che, nell’attuale organizzazione economica, i lavoratori hanno bisogno in modo assoluto di una speciale tutela, ed il mezzo atto a garantire la tutela dei diritti dei lavoratori è il sindacato. Si inseriscano pertanto nella Costituzione uno o più articoli sulla materia sindacale. Va però riconosciuto che esistono anche delle organizzazioni sindacali di datori di lavoro; sorge il problema se sia conveniente dare a queste altre organizzazioni, aventi scopi, base e importanza diversa ai fini dell’organizzazione economica nazionale e quindi collettiva, pieno riconoscimento giuridico.

Aggiunge che, essendo possibile una molteplicità di sindacati di fatto, pur essendovi la tendenza al sindacato unico preminente, occorre prendere accorgimenti per arrivare alla rappresentanza unitaria di categoria, sulla base delle organizzazioni sindacali registrate e riconosciute, la quale sarà chiamata a stipulare i contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, siano o non siano iscritti nella organizzazione.

Il primo concetto è adombrato nel primo comma del primo articolo approvato in forma tale da lasciar perplessi, perché sembra che solo il sindacato dei lavoratori sia riconosciuto come organo di difesa e tutela, il che non è vero, perché anche i sindacati dei datori di lavoro agiscono per interessi economici e morali.

Nel secondo articolo si dice: «Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali».

È la prima volta che si parla di questi organi che non si sa come siano costituiti.

DI VITTORIO, Relatore, chiarisce che nella sua relazione è detto che si dovrebbe costituire un Consiglio nazionale del lavoro, il quale rappresenterebbe col Governo tutte le forze produttrici della Nazione.

FANFANI ricorda la sua proposta di un Consiglio economico, che fu fatta respingere dall’onorevole Pesenti.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che l’avrebbe respinta anche lui, perché un Consiglio economico è cosa molto diversa dal Consiglio nazionale del lavoro.

FANFANI, comunque, ripete che si parla di questo organo senza darne una definizione.

Riassumendo le esigenze manifestatesi nella discussione, e per andare incontro ai desideri del Relatore, propone un articolo, sostitutivo dei due già approvati, così formulato:

«L’organizzazione sindacate è libera.

«Essa costituisce un mezzo per la difesa e la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.

«Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla legge, con l’obbligo della registrazione.

«Le rappresentanze unitarie di categoria, costituite dai sindacati registrati in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

MOLÈ ritiene il secondo comma una definizione del sindacato e, come tale, inutile.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di preferire la formula proposta dal Presidente, perché più chiara.

PRESIDENTE riconosce l’opportunità di fare un solo articolo. Propone il seguente:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali della classe, è riconosciuta la personalità giuridica.

«La personalità giuridica è riconosciuta anche ai sindacati dei datori di lavoro.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

«Soltanto le rappresentanze sindacali unitarie, riconosciute dalla legge e costituite in proporzione agli iscritti ai sindacati della categoria, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di approvare la formula, meno la parola «soltanto» per impedire che, se in avvenire si formano tre sindacati, dei quali uno può essere anche posticcio e costituito dagli stessi datori di lavoro, opponendosi questo a partecipare alle trattative con la scusa di non ritenerle opportune, verrebbe ad essere impedita la stipulazione del contratto collettivo. Quel «soltanto» indica che dovrebbero partecipare alle trattative tutte le rappresentanze.

TOGNI pensa che non si possa limitare il riconoscimento solo alla registrazione.

MOLÈ afferma di non vedere il pericolo accennato dall’onorevole Di Vittorio, perché lo Stato, nel dare il riconoscimento, deve accertare che il sindacato sia effettivo.

DOMINEDÒ aggiungerebbe al secondo comma la seguente formula: «La personalità giuridica è egualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro». Resterebbe così abolito il terzo comma.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda che nella sua relazione aveva proposto di riconoscere i sindacati dei lavoratori come enti di interesse collettivo.

FANFANI osserva all’onorevole Di Vittorio che non è sempre vero che siano solo i sindacati dei lavoratori a difendere l’interesse nazionale.

DOMINEDÒ sostituirebbe, nella formala proposta dal Presidente, la parola «categoria» a quella di «classe».

PRESIDENTE trattandosi di una enunciazione generica ritiene che la parola «categoria» abbia un significato più ristretto.

DI VITTORIO, Relatore, propone che il secondo comma sia così formulato: «I sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali della classe, sono riconosciuti enti di interesse. collettivo».

Nel comma successivo si direbbe: «Ai sindacati dei lavoratori ed ai sindacati dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica».

FANFANI osserva all’onorevole Di Vittorio che quando propose che i sindacati fossero riconosciuti «enti di interesse collettivo» i giuristi della Sottocommissione fecero notare che la formula non aveva significato giuridico.

DI VITTORIO, Relatore, obietta che il riconoscere i sindacati dei lavoratori quali enti di interesse collettivo è un fatto che non ha un valore giuridico, ma morale.

DOMINEDÒ non ritiene opportuno di esprimere un’esigenza morale attraverso una formulazione giuridicamente incongrua.

FANFANI per esprimere il concetto dell’onorevole Di Vittorio, pensa che potrebbe essere usata la seguente formula: «È riconosciuta la preminenza degli interessi tutelati dai sindacati dei lavoratori». Nel comma successivo si potrebbe dire «Ai sindacati dei lavoratori ecc.».

DOMINEDÒ, allo scopo di compiere un ulteriore tentativo verso l’intesa, proporrebbe la seguente formula intermedia:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali, è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

«Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

PRESIDENTE pone ai voti questo articolo, che sostituisce i due ultimi approvati.

(È approvato all’unanimità).

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Marinaro, Molè, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Canevari, Giua.

Assenti: Colitto, Federici Maria, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

33.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL DEPUTATO GIUA

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente – Togni.

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Canevari – Di Vittorio, Relatore – Rapelli, Correlatore – Dominedò – Togni – Mole.

La seduta comincia alle 17.45.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che per il giorno 25 corrente è convocata la Commissione per la Costituzione per discutere i 19 articoli sui diritti, approvati dalla prima Sottocommissione.

TOGNI non può approvare la decisione della Presidenza delle Commissioni, ritenendo inopportuna la discussione sui 19 articoli approvati dalla prima Sottocommissione senza che la terza abbia terminato i suoi lavori, che sono strettamente connessi agli articoli suddetti.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 2 proposto dall’onorevole Di Vittorio:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«All’organizzazione sindacale non può essere imposto altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali o centrali.

«Ai sindacati è attribuito il compito di stipulare contratti collettivi di lavoro secondo quanto è stabilito dalla legge».

Dà lettura della proposta dell’onorevole Rapelli: «L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie di ciascuna e detterà le norme relative».

Legge poi la formulazione proposta dall’onorevole Canevari: «L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze unitarie scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati e detterà le norme relative».

CANEVARI dichiara di modificare la sua proposta, accettando la formula proposta dall’onorevole Rapelli: «La legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie e determinerà le norme relative». Rimane così maggiormente specificato che le rappresentanze unitarie vanno scelte nei sindacati a carattere unitario.

Nella proposta Rapelli però si dice «che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria», mentre preferirebbe la sua espressione «per tutti gli interessati», perché vi può essere un contratto collettivo con una determinata impresa che interessa differenti categorie di lavoratori: ad esempio, muratori, meccanici, ecc.

PRESIDENTE avverte che anche l’onorevole Colitto ha presentato una proposta: «L’associazione professionale è libera (comprendendo in associazione professionale anche i sindacati). La legge ne preciserà i poteri. Il contratto collettivo di lavoro ha valore di legge».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non essere contrario alla formulazione Rapelli, ma vorrebbe renderne più chiaro il concetto. Occorre precisare che il compito di stipulare i contratti collettivi di lavoro spetta all’associazione sindacale, ma che il modo di formare la commissione che deve stipularli e renderli obbligatori per tutti gli appartenenti al settore, è determinato dalla legge.

Non può approvare integralmente la proposta Canevari. Vi si dice che «le rappresentanze saranno scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati»; ora si presupporrebbe che un organo estraneo facesse la scelta, mentre il sindacato è un organismo che ha una sua rappresentanza di carattere permanente; esso è completo dalla base al vertice della piramide amministrativa, quindi ha tutti i poteri rappresentativi.

Però una volta riconosciuta ai sindacati la personalità giuridica, si chiede quale è il sindacato che ha la facoltà di stipulare il contratto collettivo. Nella sua relazione ha considerato il problema e ne ha cercato la soluzione più democratica, conferendo tale facoltà al sindacato maggioritario; ma, per non conculcare il diritto delle minoranze, i sindacati minoritari hanno il diritto di partecipare con propri rappresentanti, in proporzione al numero dei propri iscritti; di modo che la Commissione che stipula il contratto è composta in modo proporzionale dai rappresentanti di tutti i sindacati della categoria. Questo per non lasciare al legislatore la facoltà, in avvenire, di comporre la commissione anche con persone al di fuori dei sindacati. Occorrerà, a suo avviso, rendere più chiaro questo concetto di proporzionalità.

RAPELLI, Correlatore, osserva che in questo modo la rappresentanza unitaria non c’è più.

DOMINEDÒ afferma esistere fra lui e l’onorevole Di Vittorio un dissenso sostanziale, derivante dal fatto che questi, movendo dal presupposto che tutti i sindacati siano forniti di piena personalità giuridica, non esclude che sindacati plurimi possano avere la potestà normativa, salvo a scegliere fra essi quello da cui tale potestà sarà efficacemente esercitata.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che tutti debbono partecipare col sindacato scelto.

DOMINEDÒ rileva che è così apparentemente, ma in sostanza viene scelto quello maggioritario, al quale si dà il potere normativo, mentre la rappresentanza degli altri sarebbe presente, ma non partecipante alla stipulazione. A suo avviso la potestà normativa non può che far capo ad un sindacato che rappresenti tutta la categoria. La potestà normativa spetta allo Stato e questo può non delegarla che ad un soggetto pubblico espresso legalmente dalla categoria. Ma perché lo Stato deleghi questa potestà normativa occorre che l’ente di categoria rappresenti la medesima nella sua interezza. Se così non fosse, non sarebbe rispettato il criterio democratico, il quale esige che, attraverso la volontà della maggioranza, si crei un organo che rappresenti la collettività. Occorre pur questo sindacato unitario e non ammettere che un sindacato di parte, solo perché comprenda il 51 per cento degli appartenenti alla categoria, possa dettare norme agli altri.

Ritiene che una concezione maggioritaria non corrisponda né alle esigenze giuridiche, né a quelle politiche. Ricorda che la legge sindacale del 1926 faceva altresì capo ad un sindacato maggioritario, perché, in sostanza, contemplava la possibilità di una pluralità di sindacati; ma era riconosciuto per legge quel sindacato che aveva un numero determinato di aderenti e così fu legalizzato il primo sindacato maggioritario che dettasse norme anche ai non iscritti.

Prega, quindi, il Relatore di aderire alla concezione di un sindacato unitario aperto a tutti i lavoratori, munito di personalità giuridica di diritto pubblico, il quale verrebbe ad ottenere il riconoscimento della potestà di stipulare i contratti collettivi.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che le argomentazioni dell’onorevole Dominedò si fondano sul fatto di attribuire a lui il concetto che il sindacato maggioritario è quello che deve dettare le norme. Può darsi che alcune formulazioni della relazione possano far pensare a ciò; ma dichiara nel modo più esplicito che, quando parla di rappresentanza proporzionale dei sindacati, intende dire che nella Commissione che stipulerà il contratto vi sarà un numero di rappresentanti di ciascun sindacato proporzionale al numero dei propri iscritti; quindi nessun diritto prevalente al sindacato maggioritario, se non nella misura che questo diritto gli proviene dal fatto di rappresentare un maggior numero di aderenti.

Se invece si vuole arrivare al sindacato unico, questo deve essere obbligatorio e, per essere obbligatorio, deve violare la libertà sindacale.

Pensa che sia inutile la discussione sul sindacato unico obbligatorio di diritto pubblico, perché è aspirazione dei lavoratori di raggiungere la loro unità; ma l’unità è effettiva e benefica quando non è effetto di costrizione. Del resto attualmente esiste un sindacato unico, ma volontario, e nella prospettiva che vi possa essere la pluralità, si afferma il principio più assoluto della libertà sindacale e si stabilisce che anche le minoranze debbono farsi valere in proporzione delle loro forze. Se si stabilisse una rappresentanza unitaria indipendentemente dal numero degli iscritti, potrebbe riuscir facile a chiunque di costituire tanti piccoli sindacati, che metterebbero in minoranza il sindacato che raccoglie il maggior numero di aderenti.

Eliminato il dubbio del collega Dominedò, e affermato il principio, che è pronto a tradurre in un articolo della Costituzione, della rappresentanza proporzionale di tutti i sindacati riconosciuti, pensa che si possa porre termine alla discussione.

DOMINEDÒ osserva che l’onorevole Di Vittorio aggiunge così qualche cosa alla sua relazione: in essa si parla di sindacati plurimi e si riconosce fra essi la facoltà normativa a quello maggioritario.

DI VITTORIO, Relatore, riconosce di aver fatto un passo avanti, ma solo per dare maggior chiarezza al suo pensiero.

Un’altra sua preoccupazione è quella della formulazione del contratto collettivo, che una volta stipulato, non è perfetto, ed occorre un organismo che lo interpreti e lo adatti: questo è un ruolo particolare del sindacato che rappresenta la maggioranza degli organizzati.

CANEVARI dichiara di aver tenuto presenti le proposte dell’onorevole Di Vittorio. La differenza tra queste e le sue consiste nella formazione della rappresentanza, in quanto, nella seduta precedente, sì è ritenuto che la rappresentanza dei sindacati sia piuttosto materia di legislazione che di Carta costituzionale. L’onorevole Di Vittorio mostra delle preoccupazioni sul sindacato unico, perché ricorda che tale sindacato fu realizzato in periodo fascista, e gli sembra che sia condannabile in quanto non sarebbe libero. Egli invece ritiene possibile un sindacato unitario e libero.

DI VITTORIO, Relatore, fa presente che questo sindacato unitario libero già esiste, ed è la Confederazione generale del lavoro.

CANEVARI afferma che nella proposta da lui presentata insieme all’onorevole Rapelli, si è preoccupato proprio di questa unità, lasciando ai sindacati unitari la facoltà di stipulare i contratti collettivi. Le osservazioni fatte dall’onorevole Di Vittorio successivamente, portano a considerare che alle trattative possano partecipare le rappresentanze di altri sindacati in proporzione al numero degli iscritti. Tenendo conto di questo concetto, sottopone all’esame della Sottocommissione la seguente formula: «La stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati, è demandata al sindacato unitario o maggioritario con la rappresentanza proporzionale degli altri sindacati. La legge emanerà le norme relative».

DI VITTORIO, Relatore, propone la seguente formula che, a suo avviso, può soddisfare le esigenze di tutti: «Le rappresentanze sindacali formate in proporzione degli iscritti stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati». Con questa formula scompare ogni concetto maggioritario e rimane quello proporzionale.

TOGNI dichiara che la preoccupazione che muove l’onorevole Di Vittorio, ed ancor più l’onorevole Canevari, nei riguardi di chi deve avere l’iniziativa della costituzione di questo organo composto di rappresentanze proporzionali agli iscritti ai singoli sindacati, non ha ragione di essere quando si consideri il quadro generale, come si delinea già negli articoli proposti, che integrano la parte sindacale con l’ordinamento del lavoro. Tale ordinamento farà capo a un determinato Consiglio nazionale del lavoro, che è già proposto in un articolo, presso il quale devono essere denunziati e registrati i sindacati per accertare la loro potenzialità numerica. Perciò, in definitiva, quando un sindacato vorrà iniziare trattative per un contratto collettivo, si rivolgerà a questo organo perché venga costituita una rappresentanza la quale discuterà in via definitiva, concluderà il contratto, lo sottoscriverà per tutta la categoria.

In questo modo si evita la parola «maggioritario», che può lasciar sussistere il dubbio che l’iniziativa competa esclusivamente al sindacato maggioritario, mentre invece può esser presa da qualunque sindacato, salvo poi a far svolgere le trattative dal sindacato che ha la rappresentanza giuridica di tutta la categoria.

CANEVARI fa considerare che con la libertà sindacale si potrà avere non un solo sindacato unitario, ma diversi sindacati che si affermino tali, in quanto il sindacato unitario è quello nel cui seno sono ammessi indistintamente tutti i lavoratori di una categoria. Se tale condizione è prevista nello statuto di più sindacati, si avranno più sindacati unitari. Si tratterà allora di scegliere il sindacato che, oltre ad avere la caratteristica della generalità, rappresenti anche la maggioranza degli interessati.

DI VITTORIO, Relatore, propone la seguente formula:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

«Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano contratti di lavoro che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

MOLÈ ritiene che l’articolo proposto debba essere messo d’accordo con quello approvato nella seduta antimeridiana.

La sua preoccupazione è che, stabilito che il contratto lo può fare soltanto questa rappresentanza unitaria, e che ad ogni sindacato è riconosciuta la personalità giuridica, si restringa la libertà del sindacato, perché lo Stato potrà intervenire e fissare per legge le modalità della vita interna del sindacato. La personalità giuridica dovrebbe essere riconosciuta soltanto per la stipulazione del contratto.

DI VITTORIO, Relatore, a suo avviso, la personalità giuridica del sindacato deve avere tre scopi: dare facoltà ai sindacati di stipulare i contratti collettivi; dar loro diritto di costituirsi in giudizio; dare la facoltà di possedere dei beni.

MOLÈ pensa che allora l’affermazione della libertà deve essere fatta prima che ne sia determinata la garanzia.

DI VITTORIO, Relatore, propone di modificare la formulazione in questo senso: «La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro».

A tale articolo seguirebbe l’altro: «L’associazione sindacale è libera ecc.»; verrebbe poi la parte riguardante i contratti di lavoro.

In sostanza, un articolo risolverebbe il problema della personalità giuridica e l’altro, nei limiti di questo riconoscimento, darebbe la facoltà di stipulare i contratti.

Il primo articolo risulterebbe così formulato: «Ai sindacati, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici professionali e morali dei lavoratori, viene riconosciuta la personalità giuridica.

«La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro».

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dall’onorevole Di Vittorio, che sostituisce l’articolo approvato nella seduta precedente.

DOMINEDÒ dichiara che si asterrà dalla votazione per una questione di principio. A suo parere, il riconoscimento della personalità di diritto pubblico deve spettare esclusivamente all’organo che emana le norme. Aggiunge che il riconoscimento ha il suo pro e il suo contra; se il pro è rappresentato dalla possibilità di disporre di beni, il contra è rappresentato dalla possibilità di un intervento dell’autorità tutoria. È insopprimibile il concetto della vigilanza, una volta concessa tale la personalità giuridica.

DI VITTORIO, Relatore, pensa che i concetti possano mutare col mutare della Costituzione. Come è detto nell’articolo successivo, l’intervento dello Stato è limitato alla registrazione delle organizzazioni sindacali.

CANEVARI dichiara di votar contro in quanto non può ammettere un intervento dello Stato.

PRESIDENTE avverte che qualora non sia approvata la formula proposta dall’onorevole Di Vittorio, rimarrà quella approvata nella seduta antimeridiana. Fa presente che la Commissione può modificare un articolo già approvato qualora il Relatore non si opponga.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di rinunciare ad ogni opposizione. Riconosce che la nuova formula è più efficace e, senza ripetere concetti già affermati, permette di mantenere la formulazione del secondo articolo.

Riguardo alla preoccupazione dell’onorevole Canevari fa presente che, appunto per ovviarvi, ha voluto con l’articolo successivo sancire nella Costituzione, che è la legge più importante dello Stato, che il sindacato è libero e che unico obbligo dei sindacati è quello della registrazione.

CANEVARI pone ai colleghi giuristi il quesito se i sindacati possano, mediante norme legislative, compiere quegli atti essenziali dichiarati dall’onorevole Di Vittorio senza ricorrere ad un riconoscimento della personalità giuridica.

DOMINEDÒ risponde che la giurisprudenza già viene incontro a questa esigenza, almeno nei riguardi dell’autonomia patrimoniale di diritto privato. Per quanto riguarda invece i contratti collettivi, questi non possono essere stipulati se non vi è il riconoscimento formale della personalità giuridica e della rappresentanza legale di categoria. Tuttavia, non è escluso che, anche in mancanza di questo riconoscimento, si possa costituire una specie di unione patrimoniale e personale, secondo i risultati più recenti dell’evoluzione giuridica. Basti pensare alle società civili che, rispetto a quelle commerciali, sono considerate dalla legge come un’unione di beni, pur non avendo una personalità giuridica formale. Nella personalità giuridica si ha un ente distinto dai componenti; qui invece, non essendovi l’ente distinto dai soci che lo compongono, la legge riconosce a questo insieme di soci il fatto di rappresentare una tale unità da potere nel loro insieme e pro quota essere acquirenti di beni.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda che vi è una terza esigenza del sindacato, quella di costituirsi in giudizio.

DOMINEDÒ afferma che questo problema è facilmente solubile, in quanto la giurisprudenza, anche in materia di società di fatto che non hanno personalità giuridica, riconosce al presidente il mandato tacito nei confronti di tutti i componenti la società. Pertanto, a fortiori, lo stesso si deve verificare per le associazioni sindacali.

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara disposto a rinunciare, con una nuova formula, al riconoscimento della personalità giuridica, purché si assicuri al sindacato il diritto alla stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, alla difesa in giudizio ed al possesso di beni.

DOMINEDÒ conferma che non vi sono difficoltà insuperabili per quanto riguarda la difesa in giudizio e l’acquisto di beni: si tratta di diritti già riconosciuti alle società civili. Per quanto riguarda i contratti collettivi, si intende che questi debbono essere stipulati da un organo che sia al di sopra dei sindacati e ne esprima la volontà e la reale consistenza. L’onorevole Di Vittorio accennava ad una commissione rappresentativa dei sindacati; da parte del suo gruppo si è parlato di rappresentanze unitarie. Ritiene che su questa base non sia impossibile giungere ad un accordo. Se la commissione, se rappresentanze unitarie fossero chiamate col loro vero nome, cioè sindacato dei lavoratori dei datori di lavoro al quale è riconosciuta la rappresentanza unitaria della categoria, la questione sarebbe risolta.

A conclusione proporrebbe la seguente norma: «L’organizzazione sindacale è libera. La legge regolerà la costituzione del sindacato di lavoratori e del sindacato di datori di lavoro, ai quali è riconosciuta la rappresentanza unitaria della categoria ed è devoluto il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro aventi efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

Con questa formulazione giuridica si esprimerebbe in forma tecnica il concetto che risulta già implicito nella parola «commissione» e nelle parole «rappresentanza unitaria», come ha proposto l’onorevole Canevari.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che il concetto del sindacato unico, presupposto nella formulazione che si propone, è contrario alla libertà sindacale che deve essere conciliata con la rappresentanza di tutti gli interessi, nessuno escluso.

DOMINEDÒ chiede all’onorevole Di Vittorio se ritiene che il potere di stipulare contratti collettivi possa essere affidato a più 5 sindacati.

DI VITTORIO, Relatore, risponde affermativamente, nel senso che tale facoltà sia attribuita ad una commissione unitaria (intersindacale); ma questa non potrebbe avere per se stessa il riconoscimento giuridico che spetta soltanto al sindacato.

Secondo la formulazione dell’onorevole Dominedò potrebbe accadere che, anche nel corso di un anno, il sindacato al quale è riconosciuta la rappresentanza unitaria diventasse minoritario. Ciò nonostante esso potrebbe stipulare un contratto di lavoro obbligatorio anche nei confronti di una maggioranza ostile, il che costituirebbe una violazione della libertà.

DOMINEDÒ replica che il potere di stipulare contratti collettivi con efficacia vincolante verso tutti gli appartenenti alla categoria non possa essere affidato che ad un soggetto di diritto pubblico riconosciuto dallo Stato: questa è la vera e suprema difesa della libertà.

DI VITTORIO, Relatore, legge la formula definitiva dei due articoli proposti:

Art. …

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Art. …

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati.

TOGNI per quanto riguarda il terzo comma del secondo articolo, che in particolare interessa, trova che la formulazione Di Vittorio è la più felice. Circa il secondo comma dello stesso articolo fa presente che, a suo avviso, non si può limitare il rapporto tra Stato e sindacati solamente alla registrazione. Anche negli Stati più democratici vi sono esigenze di intervento formale, come, ad esempio, l’obbligo di tenere i prescritti libri, quello di una regolare contabilità ecc. Comunque, su questo punto occorrerà una formulazione tale che non inserisca nella Costituzione norme che contrastino col diritto. La formulazione presenta caratteristiche e responsabilità non indifferenti; in essa vanno tenuti presenti il diritto di associazione professionale e sindacale ed il fine di questa associazione. Deve essere integrato e completato il diritto con l’affermazione della libertà della organizzazione sindacale. Punto cruciale è la possibilità di sottoscrivere contratti collettivi.

Pensa che la formulazione più adatta e rispondente sarà possibile trovarla in quanto il Relatore consenta a rivedere l’enunciazione della norma.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che nella sua lunga vita sindacale, vissuta in Francia, in Germania, in Olanda e in altri paesi, ha notato che lo Stato non si ingerisce dell’ordinamento interno dei sindacati. In Francia il sindacato è giuridicamente riconosciuto, ha il diritto di acquistare beni e di costituirsi in giudizio, e l’unica limitazione da parte dello Stato sta nella disposizione che gli organi dirigenti dei sindacati debbono essere ricoperti da cittadini francesi. Questo può spiegare che, affermando che non deve esserci altro obbligo che quello della registrazione, non si dice un’eresia.

PRESIDENTE pone ai voti il primo articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio che modifica quello votato nella seduta antimeridiana.

(È approvato).

Mette ai voti il secondo articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio.

(È approvato).

TOGNI dichiara, anche a nome degli onorevoli Rapelli, Federici e Dominedò, che si sono astenuti dal votare, sia perché ritengono che la materia debba essere discussa e definita con una maggiore preparazione e ponderatezza, sia perché la votazione è avvenuta, a loro parere, in modo eccessivamente precipitoso, quando ancora la discussione non era esaurita. Pertanto si riservano di ritornare, in sede di coordinamento della stessa terza Sottocommissione, sull’argomento.

MOLÈ dichiara che, pur avendo fatto delle riserve su alcuni punti, ha votato a favore in quanto si era rimasti d’accordo sui principî generali.

Si riserva di ritornare sull’articolo in sede di coordinamento.

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Canevari, Di Vittorio, Dominedò, Federici Maria, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Rapelli, Togni.

Assenti: Colitto, Fanfani, Lombardo, Paratore, Taviani.

Assente giustificato: Ghidini.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

32.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL DEPUTATO GIUA

INDICE

Comunicazioni del Presidente

Presidente.

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Di Vittorio, Relatore – Molè – Rapelli, Correlatore – Marinaro – Togni – Merlin Angelina – Noce Teresa – Dominedò.

La seduta comincia alle 10.20.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE comunica che è rientrato a far parte della Sottocommissione l’onorevole Di Vittorio, che era stato temporaneamente sostituito dall’onorevole Assennato.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE riassume la discussione svoltasi nelle precedenti riunioni e invita l’onorevole Di Vittorio a precisare quali degli articoli proposti nella sua relazione egli intenda mantenere.

DI VITTORIO, Relatore, ritiene che si possa rinunciare all’articolo 1 ed ai primi due commi dell’articolo 2, in quanto il loro contenuto è già stato fissato in articoli formulati dalla prima Sottocommissione. Per il resto, salvo rettifiche di forma, dichiara di mantenere nella sostanza l’articolazione proposta, poiché è d’avviso che la Costituzione – la quale ha il compito di determinare i principî essenziali dei diritti dei cittadini e della collettività – deve riconoscere ai sindacati la loro funzione più naturale, cioè la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro. Poiché tali contratti debbono avere efficacia giuridica e quindi essere obbligatori per tutta la categoria cui si riferiscono, ne deriva che il sindacato, per avere il diritto di stipularli, deve avere il riconoscimento della personalità giuridica. Però nello stabilire le condizioni di questo riconoscimento, si dovrà nel medesimo tempo garantire l’indipendenza, l’autonomia, la libertà del sindacato, senza di che esso perderebbe il suo carattere peculiare. Il solo obbligo che possa essere imposto al sindacato riconosciuto, al quale è attribuito il diritto di stipulare contratti di lavoro, è quello della registrazione e del controllo, per impedire che uno pseudo-sindacato possa attribuirsi dei diritti senza avere una consistenza effettiva. Occorre cioè un organo il quale accerti che un dato sindacato abbia efficienza e caratteri di indipendenza, autonomia e libertà per gli iscritti. Nella sua relazione ha anche affermato il concetto che questo controllo, diretto ad accertare l’efficienza numerica del sindacato, debba essere attribuito, come la registrazione, ad organismi del lavoro, cioè al Consiglio nazionale del lavoro o al Consiglio superiore del lavoro ed ai suoi organi locali che possono essere regionali, provinciali, ecc., e ciò per escludere nel modo più esplicito che i sindacati possano essere sottoposti al controllo di organi di polizia, o comunque passibili di abusi e di ingerenze indebite da parte dello Stato.

Dichiara di non accettare il punto di vista dell’onorevole Molè, essendo contrario a costituire un altro organo per la stipulazione del contratto di lavoro, che è specifica funzione naturale del sindacato.

Conclude, affermando esplicitamente la necessità che i contratti collettivi di lavoro siano stipulati dai sindacati e obbligatori per tutti gli appartenenti alle categorie.

MOLÈ rileva che, con la formulazione proposta dall’onorevole Di Vittorio: «Ai sindacati professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro che ne facciano richiesta, è riconosciuta la personalità giuridica», si incorre nel pericolo di pseudo-sindacati non effettivamente rappresentativi degli interessi dei lavoratori.

DI VITTORIO, Relatore, dato che nel comma successivo è detto: «La legge che fisserà le condizioni di tale riconoscimento dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati», ritiene che, automaticamente, siano esclusi quei sindacati che non diano le necessarie garanzie.

MOLÈ è d’avviso che sia necessario determinare se il sindacato debba essere unico o plurimo, in quanto, se non si fissa il criterio del maggior numero di iscritti, o della rappresentanza unitaria, ogni sindacato potrebbe assumersi il diritto di stipulare contratti collettivi di lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, essendo fautore della libertà sindacale, ammette l’esistenza dei sindacati plurimi; non tutti i sindacati hanno, però, il diritto di stipulare il contratto di lavoro, ma solo quello maggioritario con rappresentanza proporzionale dei sindacati di minoranza. Ciò dà modo a tutti i sindacati che hanno una base di serietà, e sono quindi riconosciuti – e la legge deve determinare le condizioni di questo riconoscimento – di stipulare i contratti collettivi.

MOLÈ constata che in tal modo i contratti collettivi non vengano stipulati dai sindacati singoli, ma da quelli unificati attraverso le rappresentanze unitarie.

RAPELLI, Correlatore, rileva che il concetto di rappresentanza unitaria è implicito anche nella relazione dell’onorevole Di Vittorio; le modalità pratiche di attuazione, e tutti i problemi connessi, potranno essere riservati al futuro legislatore. Allo stato attuale dei fatti non dovrebbe esistere alcuna preoccupazione, in quanto il concetto del sindacato maggioritario non è permanente ed un sindacato, che in un dato momento è maggioritario, può divenire successivamente minoritario. Ritiene quindi che il criterio di rappresentanza unitaria possa essere accettato dall’onorevole Di Vittorio; accedendo, se mai, al punto di vista dell’onorevole Canevari, nel senso di limitare la rappresentanza al solo ambito sindacale.

PRESIDENTE richiama l’attenzione dell’onorevole Di Vittorio sul terzo comma del suo articolo 2: «I sindacati dei lavoratori, quali organi di auto-difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, sono riconosciuti enti d’interesse collettivo».

A suo avviso tale comma potrebbe essere così modificato: «Ai sindacati dei lavoratori quali organici, ecc… è riconosciuta la personalità giuridica».

MOLÈ dichiara di preferire questa seconda formulazione, in quanto la dizione «enti d’interesse collettivo» potrebbe lasciare aperta la strada ad interventi statali.

PRESIDENTE ritiene che al comma così modificato si potrebbe aggiungere il secondo dell’articolo 3: «La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati», facendo dei due commi un articolo a sé.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di essere d’accordo.

MARINARO invita l’onorevole Di Vittorio a voler considerare nella stessa posizione i sindacati dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro. In tale caso sarebbe disposto a ritirare il suo ordine del giorno.

DI VITTORIO, Relatore, è del parere che i sindacati dei lavoratori, come associazioni della parte dei cittadini economicamente più debole, abbiano maggior bisogno di protezione. Del resto il trattamento di preminenza fatto ai sindacati dei lavoratori ha anche la sua ragione d’essere nella diversità numerica che esiste fra questi e i sindacati dei datori di lavoro.

MARINARO ritiene che tale criterio potrà essere tenuto presente nella legislazione ordinaria, mentre nella Costituzione si dovrebbe sancire che tutti i sindacati, sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, hanno diritto alla stessa tutela.

PRESIDENTE prega l’onorevole Marinaro di voler considerare l’opportunità di non insistere nella sua richiesta.

MARINARO ritiene che le osservazioni dell’onorevole Di Vittorio siano più di natura politica che di carattere economico. Il riconoscere una certa preminenza ai sindacati dei lavoratori, nei confronti di quelli dei datori di lavoro, intacca uno dei principî basilari dello Stato democratico, dato il presupposto di uguali diritti ed uguali doveri. Se in una norma statutaria si parlasse esclusivamente di sindacati dei lavoratori, si darebbe l’impressione di aver voluto sancire appositamente per essi una posizione di preminenza.

TOGNI fa osservare che, se si stabilisce il riconoscimento della personalità giuridica dei sindacati dei lavoratori, allo scopo di poter loro consentire di impegnarsi giuridicamente in un contratto collettivo, non si comprende quale potrebbe essere l’altro contraente, ove non si conceda lo stesso riconoscimento anche ai sindacati dei datori di lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, riconoscendo la fondatezza dell’osservazione, dichiara di essere disposto a modificare nel modo seguente il secondo comma dell’articolo 3: «La legge che fisserà le condizioni del riconoscimento dei sindacati, tanto dei lavoratori quanto dei datori di lavoro, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati stessi».

TOGNI è d’accordo su tale dizione. Osserva tuttavia che, a suo avviso, prima di passare alla formulazione degli articoli, data l’importanza della materia in esame, sarebbe indispensabile premettere un’affermazione che definisca il sindacato e la libertà di organizzazione sindacale.

PRESIDENTE fa presente che il primo articolo proposto nella relazione Di Vittorio è stato tralasciato, in quanto già in precedenza formulato dalla prima Sottocommissione.

TOGNI ritiene che in tal modo o la Sottocommissione rinuncia a una sua responsabilità e facoltà, abdicando a quelle che sono le sue funzioni, oppure accetta una formulazione che ancora non conosce.

Quindi non solo si subisce l’influenza della prima Sottocommissione, verso i deliberati della quale rinnova le sue più ampie riserve e proteste, ma si abdica a quella che è una facoltà specifica della terza Sottocommissione, accettando senza discutere quanto ha elaborato la prima.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di aver rinunciato all’articolo 1 ed ai due commi del secondo, in quanto era stato informato che i colleghi avevano così deciso, in considerazione che la prima Sottocommissione aveva già elaborato dei principî in materia.

TOGNI fa presente che tale decisione è stata presa durante la sua assenza.

PRESIDENTE legge il primo articolo della relazione Di Vittorio, così formulato: «Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini italiani di ambo i sessi, ed agli stranieri residenti legalmente sul territorio nazionale, senza distinzione di razza.

«Tale diritto è garantito dalla legge e non potrà essere limitato dagli scopi politici, sociali, religiosi o filosofici che persegue la associazione».

TOGNI teme che tale formulazione potrebbe essere interpretata nel senso di ammettere la possibilità di associazioni di stranieri in Italia, che potrebbero anche contrastare con gli interessi della nostra democrazia. Ritiene che invece, anche nell’intenzione del proponente, tale diritto si sia voluto limitare agli stranieri in quanto aderiscano ad organizzazione sindacali italiane.

Preferirebbe, pertanto, la formulazione dell’onorevole Rapelli, che gli sembra più semplice ed estensiva: «È garantita ad ognuno, e a tutte le professioni, la libertà di associazione per la difesa e il miglioramento della vita economica». A tale formula aggiungerebbe le parole: «e degli interessi economici».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che nella sua formulazione ha inteso sancire solamente il principio che lo straniero ha parità di diritti nelle associazioni italiane. Ad ogni modo, per eliminare ogni dubbio, riterrebbe sufficiente dividere così il primo comma dello articolo 1: «Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini italiani di ambo i sessi. Agli stranieri residenti legalmente sul territorio nazionale è riconosciuto il diritto di aderire a tali associazioni».

PESENTI fa osservare che il termine «legalmente» può essere pericoloso. Cita l’esempio degli italiani rifugiatisi clandestinamente in Francia.

DI VITTORIO, Relatore, riconosce che la parola «legalmente» è superflua.

TOGNI ritiene che, ad ogni modo, non bisogna dimenticare che la Costituzione sarà conforme alle idee dell’attuale Repubblica italiana, e che, quindi, non si potrà ammettere che in Italia vi siano profughi di altre nazionalità professanti idee in contrasto con quelle dello Stato italiano.

MERLIN ANGELINA e NOCE TERESA rilevano che nella Costituzione bisogna anche stabilire principî, in base ai quali si possa chiedere una contropartita a favore degli italiani da parte degli altri Stati.

RAPELLI, Correlatore, pone in rilievo che è compito della terza Sottocommissione occuparsi dell’organizzazione sindacale, e non del diritto di associazione in genere, che rientra nei compiti della prima Sottocommissione.

TOGNI è d’accordo. Bisogna stabilire innanzi tutto, in modo organico, che cosa è l’organizzazione sindacale e quindi fissare le forme giuridiche dei sindacati. Per questo motivo intende che l’articolo 1 sia riferito a quella parte del diritto associativo che riguarda gli interessi economici e sindacali e non al diritto di associazione in senso lato, che è compito della prima Sottocommissione.

PRESIDENTE propone che, per la parte di articolazione che riguarda il diritto di associazione in generale, si dichiari di rimettersi alle decisioni che adotterà la prima Sottocommissione. Ciò costituirà anche un opportuno richiamo per la suddetta Sottocommissione che non si è regolata nello stesso modo nei riguardi della terza.

TOGNI dichiara di non potersi ancora considerare d’accordo con i colleghi.

DI VITTORIO, Relatore, precisa che non vi può essere un diritto di associazione in generale e un diritto speciale di associazione sindacale che non rientri in quello generale. Una volta che si abbia nella Costituzione un articolo che garantisca ad ogni cittadino il diritto di associarsi con altri cittadini in una qualsiasi organizzazione, quali che ne siano gli scopi e i principî, questo diritto assorbe anche quello di organizzazione sindacale. D’altra parte, nel terzo comma dell’articolo 2, è già compresa una definizione dei sindacati quali organi di tutela dei diritti professionali e morali dei lavoratori.

TOGNI replica che, se può esservi un certo legame fra il diritto di associazione in genere e quello sindacale, tale legame non risulta chiaramente in tutte le Costituzioni. Ricorda che negli anni passati vigeva in teoria la più ampia libertà di associazione, mentre in pratica l’associazione sindacale non era affatto libera. Premetterebbe, perciò, una dichiarazione che confermi e garantisca il diritto di organizzazione sindacale e di associazione per interessi economici. Tale dichiarazione, fondendo la dizione Rapelli con quella Di Vittorio, potrebbe essere la seguente: «Il diritto di associazione per la difesa e il miglioramento della vita economica è riconosciuto ai cittadini italiani di ambo i sessi».

DI VITTORIO, Relatore, non è d’accordo, in quanto nella vita pratica possono sorgere infinite forme di associazione e di consorzi aventi diversi fini, che secondo tale formula non sarebbero consentite. Il diritto di associazione invece deve essere assoluto, e non limitato, come avverrebbe se si adottasse la formula proposta dall’onorevole Togni a meno di non volerla completare con una minuta specificazione dei vari diritti di associazione, che evidentemente sarebbe fuor di luogo.

TOGNI accetta l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio, ma pone in evidenza che anche la libertà di associazione trova dei limiti nell’interesse del bene comune. Si dichiara convinto che nessuna legge italiana potrà consentire il libero sorgere di consorzi contrari all’interesse collettivo, come nel caso di consorzi fra produttori a scopo di monopolio. Perciò, se non si vuole fare una articolazione incompleta, bisogna disciplinare organicamente le associazioni rivolte alla tutela e alla difesa degli interessi economici e del lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che la incompiutezza è necessariamente insita nel lavoro parziale che è affidato ad ognuna delle tre Sottocommissioni, salvo poi provvedere al generale coordinamento.

PRESIDENTE prega l’onorevole Togni di non insistere nella sua proposta.

TOGNI rileva che la Sottocommissione ha svolto i suoi lavori in un modo abbastanza organico. Dopo aver parlato della proprietà e dei suoi limiti, e definiti gli interessi sociali nell’economia, deve ora trattare il coronamento dell’edificio, cioè la parte sindacale, che è veramente la parte più interessante del diritto di associazione. A tale proposito propone il seguente articolo: «Il diritto di associazione per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica è riconosciuto a tutti gli italiani di ambo i sessi, professioni ed interessi economici».

MOLÈ osserva che la formula «interessi economici» è troppo lata e pericolosa permettendo il sorgere di trusts che potrebbero costituirsi con scopi differenti dalla difesa e dal miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore. Pur non negando loro il diritto di associazione, ritiene che non si debba sancire nella Costituzione.

PRESIDENTE pone ai voti il rinvio alla prima Sottocommissione della formulazione dell’articolo riguardante il diritto di associazione.

(È approvato).

TOGNI dichiara, anche a nome degli onorevoli Rapelli e Federici Maria, di rammaricarsi di questa affrettata conclusione che non consente di affrontare nel suo complesso, e nella sua effettiva consistenza, la necessità di un organico svolgimento della materia in discussione. Conferma la necessità di premettere ai successivi articoli una dichiarazione che garantisca in modo specifico il diritto di associazione ai lavoratori, ai professionisti ed ai datori di lavoro nel quadro ed al fine di una difesa e di un miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica, per lo sviluppo ed il potenziamento della produzione e quindi del raggiungimento di un maggior bene comune. Si riserva pertanto di riproporre in sede di coordinamento il testo già proposto, e non messo in votazione, a firma Togni, Rapelli e Federici Maria.

PRESIDENTE ricorda che, riunendo i due commi degli articoli 2 e 3 della relazione Di Vittorio, l’articolo proposto risulta così formulato: «Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è riconosciuta la personalità giuridica.

«La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati».

DI VITTORIO, Relatore, per accogliere il desiderio espresso dal collega Marinaro, propone di modificare il secondo comma dello articolo in questo senso: «La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento tanto ai sindacati dei lavoratori che dei datori di lavoro, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati stessi».

MARINARO ringrazia l’onorevole Di Vittorio di aver incluso nell’articolo anche il riconoscimento dei sindacati dei datori di lavoro; ciò lo mette in condizione di potere votare l’articolo senza insistere sull’ordine del giorno da lui presentato a suo tempo. Chiede tuttavia all’onorevole Di Vittorio di volere coordinare la seconda parte, così modificata, con la prima, nella quale è previsto il riconoscimento della personalità giuridica ai soli sindacati dei lavoratori. Proporrebbe quindi di togliere, dopo le parole. «Ai sindacati», la specificazione «dei lavoratori» e di sostituire alla successiva dizione «dei lavoratori» le parole: «degli appartenenti».

NOCE TERESA preferirebbe «degli associati».

TOGNI ritiene che si potrebbe tralasciare ogni specificazione.

MOLÈ, per cercare di contemperare l’esigenza tecnica legislativa e quella di principio, nel senso di stabilire una maggiore protezione per il lavoratore, propone di premettere alla formulazione del secondo comma dello articolo 2 della relazione Di Vittorio: «Lo Stato dovrà garantire per legge un’efficace protezione sociale dei lavoratori, manuali ed intellettuali».

RAPELLI, Correlatore, fa presente che il principio della protezione del lavoratore è già stato previsto nell’aggiunta apportata al terzo articolo.

DI VITTORIO, Relatore, ribadisce il concetto, che nella nuova Costituzione democratica deve essere previsto il riconoscimento del lavoratore ad una maggiore tutela. Per questo motivo lascerebbe il primo comma nella sua originaria formulazione in modo che i sindacati dei lavoratori vengano riconosciuti «enti di interesse collettivo».

PRESIDENTE fa presente all’onorevole Di Vittorio, che l’espressione «ente di interesse collettivo» era stata considerata come non avente un proprio significato che fosse da tutti facilmente comprensibile.

TOGNI ritiene che per raggiungere lo scopo di riconoscere la personalità giuridica ad ambedue le organizzazioni, e nel medesimo tempo mettere in maggiore evidenza i sindacati dei lavoratori, sarebbe sufficiente aggiungere al primo comma le parole: «che verrà accordata anche alle organizzazioni dei datori di lavoro».

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara d’accordo. L’articolo, nella sua stesura definitiva, potrebbe essere così formulato: «Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è riconosciuta la personalità giuridica. Tale riconoscimento sarà esteso alle associazioni dei datori di lavoro.

«La legge, che ne fisserà le condizioni, dovrà garantirne l’indipendenza, l’autonomia e la libertà».

DOMINEDÒ chiede quali conseguenze porti il riconoscere incondizionatamente la personalità giuridica a tutti i sindacati, cioè ai sindacati plurimi, quando, a rigore, tale riconoscimento è proprio il presupposto per la creazione del sindacato di diritto pubblico, idoneo ad avere il carattere normativo nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria. Introducendo una personalità giuridica nei confronti di più sindacati, giuridicamente indifferenziati, si avrà come conseguenza che ciascuno di essi potrebbe aspirare a ritenersi fornito di capacità rappresentativa ai fini dell’emanazione delle norme collettive di lavoro. Ammette l’esigenza del riconoscimento della libertà di associazione, ma altro è riconoscere la libertà di associazione e altro è conferire la personalità giuridica che, nella forma di diritto pubblico, deve spettare al solo sindacato cui è attribuito il potere di dettare norme aventi valore obbligatorio non solo per gli iscritti, ma per tutti gli appartenenti alla Categoria.

TOGNI fa presente all’onorevole Dominedò che la sua osservazione ha già formato oggetto di discussione e si potrà riprendere in esame in un secondo tempo. Modificherebbe il testo dell’articolo precedentemente proposto nel modo seguente: «Il diritto di associazione per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica è riconosciuto a chiunque eserciti una professione o un’attività economica».

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo nella formulazione di cui ha dato lettura l’onorevole Di Vittorio.

TOGNI, a nome anche dei colleghi democristiani, dichiara che voterà favorevolmente, con la riserva però di subordinare tale approvazione alla premessa di un articolo, sul tipo di quello proposto, che precisi che cosa si intenda per sindacato e per libertà sindacale.

MOLÈ dichiara che voterà favorevolmente.

DOMINEDÒ dichiara di astenersi dalla votazione.

(L’articolo è approvato).

La seduta termina alle 12.15.

Erano presenti: Canevari, Di Vittorio, Dominedò, Federici Maria, Giua, Marinaro, Marlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Rapelli, Togni.

Erano assenti: Colitto, Fanfani, Lombardo, Paratore, Taviani.

Assente giustificato: Ghidini.