Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
partner di progetto

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

35.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Di Vittorio, Relatore – Marinaro – Rapelli, Correlatore.

La seduta comincia alle 11.30.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE ricorda che il tema in discussione è il diritto di sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, propone di discutere il primo comma dell’articolo 4 della sua relazione, di cui dà lettura: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Nel secondo comma ha trattato del collocamento all’interno ed all’estero e dell’assistenza agli emigranti.

PRESIDENTE rileva che per il collocamento all’estero già si è provveduto con una apposita norma; per il collocamento all’interno non crede che la Costituzione se ne debba occupare.

DI VITTORIO, Relatore, poiché nella sua relazione ha affrontato il problema del nuovo ordinamento sindacale, ha ritenuto di trattare anche del collocamento, che è una delle funzioni più importanti del sindacato.

Tornando al primo comma, ritiene che sia la Sottocommissione che l’Assemblea Costituente non avranno difficoltà a riconoscere il diritto di sciopero, che non è un diritto nuovo, ma già acquisito dai lavoratori di tutti i Paesi civili. Solo nelle Nazioni che, come un tempo l’Italia, hanno avuto la disgrazia di cadere sotto una dittatura, questo diritto è stato mutilato o soppresso, ma in tutti i Paesi fondati su un regime di democrazia e di libertà, come l’America e l’Inghilterra, esso è legalmente riconosciuto a tutti i lavoratori, ed ha subito solo qualche leggera limitazione durante il periodo della guerra.

Il diritto di sciopero costituisce, a suo avviso, uno dei presupposti del rispetto della personalità umana, nel senso che l’uomo deve avere il diritto, quando lo creda, di non lavorare e di incrociare le braccia. Il diritto di sciopero è altresì una delle armi più potenti che il lavoro possiede per difendere i propri interessi rispetto al capitale. È con questo mezzo che una collettività di lavoratori manifesta l’importanza della sua funzione sociale ed anche della sua potenza, affermando in maniera concreta ed evidente che il capitale, se posseduto dai privati, non è tutto e nemmeno il più necessario. I lavoratori hanno, infatti, la possibilità di dimostrare coi fatti di essere una delle leve più potenti della vita e della società, perché, quando essi collettivamente decidono di non lavorare, si arrestano, per tutto il periodo dello sciopero, le fonti stesse della vita.

Senza dilungarsi intorno al concetto generale, su cui è certo della unanimità di consensi, passa ad una delle principali eccezioni che si vorrebbe fare al diritto di sciopero, vale a dire a quella relativa allo sciopero dei servizi pubblici.

Premette di essere favorevole alla estensione del diritto di sciopero a tutti i cittadini, senza nessuna eccezione e, quindi, anche ai dipendenti dei servizi pubblici. Gli sono noti gli argomenti contrari a questo principio e riconosce la fondatezza di alcuni di essi; ma, ritenendo assai più forti gli argomenti favorevoli, è del parere che in una Carta costituzionale democratica il diritto di sciopero debba essere riconosciuto, senza eccezioni, a tutti i lavoratori. Non può disconoscere che lo Stato ha il dovere di assicurare la continuità dei servizi pubblici indispensabili alla collettività; ma nega che possa dare questa garanzia alla società nazionale, basandosi sul diniego del diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, che costituiscono una classe abbastanza numerosa di cittadini. Crede invece che, all’infuori di ciò che deve essere coercitivamente represso perché antisociale, lo Stato, quale pietra di paragone della maturità e dello sviluppo delle nuove concezioni democratiche, debba avere tali legami con le masse lavoratrici e con le organizzazioni sindacali che le rappresentano, da assicurare la continuità dei servizi pubblici mediante il componimento amichevole e bonario di tutte le vertenze. Innanzi tutto, negare il diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, dal punto di vista soggettivo, significherebbe creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri. Dal punto di vista obiettivo, non sarebbe nemmeno una soluzione favorevole, perché la pressione che i lavoratori possono esercitare con questo mezzo, può cagionare indirettamente un effetto salutare sugli stessi servizi pubblici. Infatti, un’amministrazione, la quale fosse matematicamente sicura che nulla può mettere in crisi i servizi, potrebbe essere portata a trascurare l’accoglimento delle rivendicazioni legittime e giuste dei lavoratori, al punto da acuire il loro malcontento, con la logica conseguenza di ripercussioni negative sul funzionamento dei servizi. Quando, invece, i lavoratori hanno la possibilità di porre l’amministrazione di fronte alle proprie responsabilità, questa minaccia la costringe ad esaminare con la dovuta sollecitudine le loro rivendicazioni, evitando così quella depressione degli animi che può portare ad un rilasciamento generale dei servizi.

Contro il diritto di sciopero si obietta che se lo Stato, invece di essere reazionario, è democratico, vale a dire fondato sulle masse lavoratrici, i rapporti tra lo Stato e le masse devono essere di collaborazione, e pertanto non appare necessario tale diritto. Questo ragionamento, che ha inteso fare, attraverso la stampa, dagli oppositori al principio, può però essere ritorto, nel senso che se i lavoratori devono avere fiducia nello Stato, non vi è alcun motivo perché lo Stato democratico non debba avere fiducia nei lavoratori.

Lo Stato, a suo avviso, deve fidare di più sulla collaborazione delle masse che sui mezzi coercitivi che esso può far valere nei loro confronti. Circa la possibilità di esporre il Paese a pericoli per eventuali abusi, ritiene che bisogna avere fiducia nelle masse lavoratrici.

Rispetto ai servizi pubblici, bisogna considerare da un lato i lavoratori addetti ad essi, e dall’altro la grande massa lavoratrice che rappresenta gli utenti e i beneficiari di questi servizi pubblici. Ora, se da uno sciopero dei servizi pubblici può derivare un danno alla collettività in generale, la classe lavoratrice, nel suo complesso, come quella che ha interesse più di ogni altra alla continuità dei servizi stessi, è portata ad intervenire per porre delle limitazioni ed evitare ogni abuso in questo campo.

Da quanto ha detto, discende come logica conseguenza il principio dell’autodisciplina ed autolimitazione delle masse lavoratrici, sulle quali lo Stato democratico ha il dovere di fare affidamento. Come esempio, cita la Confederazione generale del lavoro, la quale nel congresso di Napoli alla fine del gennaio 1945, senza nessunissima pressione da parte del Governo o di qualsiasi autorità, spontaneamente ha fissato nell’articolo 59 del suo statuto, relativamente ai servizi pubblici, i seguenti due principî: cercare di evitare lo sciopero ed esperire tutti i mezzi che sono necessari a tal fine; ottenere, per farvi ricorso, l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione stessa.

Malgrado la situazione eccessivamente grave del Paese, per cui specialmente le masse lavoratrici dei servizi pubblici hanno un trattamento economico enormemente in ritardo sui continui aumenti del costo della vita, può affermare che i lavoratori, salvò rare eccezioni, si sono attenuti allo spirito della decisione presa dalla Confederazione del lavoro. Un termine di paragone della efficacia di questo metodo della autodisciplina, in relazione a quello della coercizione, può essere ottenuto dal confronto fra gli altri Paesi e l’Italia, dove, anche essendosi avuta una catastrofe tale da porre le masse lavoratrici in condizione di non poter soddisfare ai bisogni elementari di vita, non si sono avuti né uno sciopero dei ferrovieri, né di alcun altro dei servizi pubblici fondamentali, ma solo piccoli scioperi di carattere locale, che si sono potuti comporre con grande facilità. Invece in America, in Inghilterra e in altri Paesi, che si trovano in condizioni assai più fortunate dal punto di vista del lavoro, si sono avuti scioperi che hanno messo in crisi i rispettivi servizi fondamentali. Alla prova dei fatti, quindi, l’autodisciplina e l’autolimitazione degli stessi lavoratori, come prodotto della loro maturità sindacale, hanno funzionato in modo più efficace di quanto non abbiano funzionato altrove le limitazioni di carattere legale.

I pochi e sporadici scioperi che si sono verificati, sono stati effettuati, per decisione delle stesse categorie, in modo da assicurare il funzionamento dei servizi fondamentali di interesse pubblico.

Si domanda, quindi, che cosa succederebbe se, vietato ai lavoratori dei servizi pubblici il diritto di sciopero, essi per risolvere un’acuta vertenza si sentissero obbligati a scioperare ugualmente. Lo Stato non potrebbe fare a meno di sedare con la forza lo sciopero e licenziare gli agitatori. Da questa azione di forza deriverebbe però un malanimo ed un senso di rancore che alla prima occasione fatalmente esploderebbe di nuovo, sotto altra forma, per esempio l’ostruzionismo, con evidente danno per il buon andamento dei servizi e perpetuando il conflitto fra lo Stato e notevoli masse popolari.

MARINARO osserva che non è detto che lo Stato debba necessariamente giungere a quella conseguenza. Vi saranno anche altri modi di risolvere le vertenze.

DI VITTORIO, Relatore, ribadisce il concetto che quando lo sciopero fosse proibito e i lavoratori lo facessero ugualmente, lo Stato non potrebbe non intervenire per far rispettare la legge anche con mezzi coercitivi. Invece la semplice minaccia dello sciopero da sola potrebbe far risolvere sollecitamente le vertenze.

Bisogna, poi, considerare che essendo il sentimento della solidarietà fra i lavoratori molto sentito, se lo Stato intervenisse per reprimere uno sciopero anche di altre categorie di lavoratori, allargando in modo grave una vertenza che, senza il divieto di sciopero, con la semplice minaccia di esso, si sarebbe potuta rapidamente risolvere, si avrebbe la possibilità di gravi conflitti tra lo Stato e le grandi masse lavoratrici italiane, con la conseguente negazione del carattere democratico dello Stato.

Concludendo, riafferma che la nuova Costituzione, se si vuole che rappresenti un progresso rispetto alla precedente, e non sia arretrata in confronto delle Costituzioni dei Paesi liberi e civili, dovrebbe riconoscere senza eccezioni il diritto di sciopero a tutti i lavoratori, confidando nel senso di autodisciplina e di autolimitazione delle organizzazioni sindacali, le quali oggi, a differenza di ieri, non sono più ai margini della società nazionale in atteggiamento ostile allo Stato, ma sono entrate a far parte dello Stato stesso.

MARINARO domanda all’onorevole Di Vittorio se non intenda parlare anche in ordine alla serrata.

PRESIDENTE sebbene l’ordine della discussione porterebbe ad ascoltare l’onorevole Rapelli, Correlatore sullo stesso argomento dello sciopero, è anch’egli del parere che l’onorevole Di Vittorio possa parlare subito della serrata, come argomento connesso.

DI VITTORIO, Relatore, accetta di parlare brevemente anche della serrata. Dichiara di essere contrario a riconoscere il diritto di serrata al datore di lavoro. Le ragioni le ha già espresse nella sua relazione, dove ha concluso proponendo che la facoltà della serrata sia sottoposta al controllo dello Stato. Alla obiezione che gli si potrebbe opporre che il riconoscimento del diritto di serrata è correlativo a quello di sciopero, potrebbe rispondere che l’interesse dei datori di lavoro è soltanto formalmente uguale a quello dei lavoratori, perché, in sostanza, i due interessi divergono non soltanto come quantità, ma anche come qualità. Prima di tutto i lavoratori rappresentano un interesse di carattere collettivo, per cui si giustifica il ricorso allo sciopero, come un mezzo di pressione per ottenere il soddisfacimento di esigenze attinenti alla vita dei lavoratori, soddisfacimento che ha come conseguenza un progresso di tutta la società nazionale. Il datore di lavoro, invece, può essere animato da interessi che non solo non collimano con quelli della società nazionale, ma possono anche essere in contrasto con essa. Non è quindi giusto porre sullo stesso piano tanto il lavoro, quanto il capitale.

Il lavoratore, in secondo luogo, ha una remora nell’esercizio del diritto di sciopero, derivante dalle sue stesse condizioni economiche, per cui rappresentando il salario provento unico della sua esistenza, non può prolungare all’infinito uno sciopero senza esporsi alla fame. Il datore di lavoro, invece, con la serrata perde solo ciò che potrebbe realizzare di profitto in quei giorni, perché il lavoro per lui non è il mezzo immediato di vita, come il salario per il lavoratore. D’altra parte, mentre il lavoratore che sciopera non può avere un secondo fine che sia in contrasto con le esigenze della società nazionale, il datore di lavoro, nel prolungare ingiustificatamente una serrata, potrebbe perseguire fini egoistici, come quello di provocare un aumento di prezzo del suo prodotto, o un alleggerimento delle scorte dei suoi magazzini.

Osserva, infine, che stabilire il diritto di serrata significherebbe riconoscere il diritto di proprietà, basato sullo jus utendi et abutendi proprio del diritto romano, che ormai tutte le legislazioni moderne hanno abbandonato, affidando alla proprietà una funzione sociale.

Per tali motivi lo Stato non dovrebbe riconoscere al datore di lavoro il diritto di serrata, senza alcun controllo.

PRESIDENTE chiede all’onorevole Di Vittorio se nega completamente il diritto di serrata, o se lo vuol sottoposto a determinati controlli.

DI VITTORIO, Relatore, in linea di principio è contrario al diritto di serrata; praticamente, però, non sarebbe contrario a sottoporlo ad uno stretto controllo da parte dello Stato.

RAPELLI, Correlatore, osserva innanzi tutto che, dovendosi fissare in che modo debba esercitarsi il diritto allo sciopero, ciò vuol dire che l’esercizio di tale diritto non deve essere qualche cosa di arbitrario. L’argomento dei pubblici servizi lo induce a considerare innanzi tutto la situazione dei pubblici funzionari, rispetto ai quali, dovendosi tener sempre presenti le supreme esigenze dello Stato, sarebbe inconcepibile il diritto di sciopero, in quanto in essi è preminente la qualità di funzionario rispetto a quella di lavoratore. Per quanto riguarda, invece, i servizi pubblici, ritiene utile distinguerli in servizi essenziali – che ormai sono tutti esercitati e controllati dallo Stato – e in servizi accessori, che si possono considerare come una forma di surrogato della industria privata. Per ambedue, in caso di vertenze, si dovrebbe fare ricorso a Commissioni arbitrali o addirittura a speciali magistrature. Non è del parere, invece, che si debba fare ricorso alla Confederazione generale del lavoro, in quanto si esulerebbe dai suoi specifici compiti. Questo suo punto di vista ha inserito, salvo modificazioni, nell’articolo 3 e, in parte, nell’articolo 4 della sua relazione.

Si dichiara contrario al diritto di serrata, in quanto lo considera una forma di rappresaglia che bisogna impedire, perché l’impresa è un fatto sociale e, come tale, non può sottrarsi all’obbligo di dare lavoro.

PRESIDENTE pone il quesito se il diritto allo sciopero debba essere esteso anche allo sciopero di carattere politico o debba essere limitato al campo strettamente economico.

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara favorevole per un illimitato diritto di sciopero, senza nessuna restrizione, comprendendo quindi anche lo sciopero politico. Rileva che tale sua affermazione potrebbe sembrare assurda, considerandosi egli rappresentante delle masse lavoratrici che fanno parte dello Stato e che non sono contro lo Stato; ma pensa che lo sciopero sia un’arma eccellente di difesa della democrazia e dello Stato democratico. Non quindi arma contro lo Stato, ma contro pericoli di una eventuale evoluzione in senso reazionario dello Stato stesso. Cita, a questo proposito, il caso dell’ex re d’Italia che esitava ad abbandonare il Paese dopo la proclamazione del risultato del referendum; in tale occasione la Confederazione generale del lavoro, essendo a conoscenza di tentativi di colpi di mano da parte di gruppi reazionari, aveva già deciso in una sua riunione lo sciopero generale, congegnandolo in modo da favorire le forze democratiche e contemporaneamente paralizzare i gruppi reazionari. Lo sciopero generale politico nelle mani delle grandi masse lavoratrici può, quindi, considerarsi come uno strumento di difesa della democrazia.

RAPELLI, Correlatore, è contrario allo sciopero generale politico, così come lo intende l’onorevole Di Vittorio. Ammetterne la legalità significherebbe, a suo avviso, rendere invalida la Costituzione in partenza. Si riconoscerebbe, infatti, ad una parte dei cittadini il diritto di rendere carente l’attività dello Stato e di farsi giustizia da sé in una materia non sindacale, ma politica e che, in quanto tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Rileva, infine, che, se desta preoccupazione lo sciopero degli addetti ai servizi pubblici, a maggior ragione deve preoccupare la eventualità di uno sciopero generale politico.

PRESIDENTE rinvia la discussione alle ore 17.

La seduta termina alle 12.40.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Marinaro, Molè, Rapelli, Togni.

Erano assenti: Colitto, Federici Maria, Lombardo, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

In congedo: Canevari, Giua.