Come nasce la Costituzione

SABATO 26 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

38.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 26 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Coordinamento degli articoli approvati

Presidente.

La seduta comincia alle 10.30.

Coordinamento degli articoli approvati.

PRESIDENTE comunica che, a conclusione dei lavori della Sottocommissione e dopo avere effettuato il coordinamento degli articoli, ai quali sono stati apportate lievi modifiche formali, il testo degli articoli approvati dalla terza Sottocommissione resta così formulato:

Art. 1.

Diritto al lavoro.

La Repubblica riconosce ai cittadini il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.

Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

Art. 2.

Diritto alla retribuzione.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari.

Alla donna sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano all’uomo.

Art. 3.

Diritto all’assistenza.

Dal lavoro consegue il diritto a mezzi adeguati per vivere in caso di malattia, di infortunio, di diminuzione o perdita della capacità lavorativa, di disoccupazione involontaria.

Ogni cittadino che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale o di contingenze di carattere generale, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza.

La Repubblica provvederà con speciali norme alla protezione del lavoratore e favorirà ogni regolamentazione internazionale diretta a tal fine.

Art. 4.

Protezione della maternità e dell’infanzia.

La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo.

Art. 5.

Protezione della famiglia.

La Repubblica assicura alla famiglia condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo.

Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.

Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino.

Art. 6.

Diritto all’istruzione.

L’istruzione è un bene sociale. È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti gli idonei possano usufruire di essa. L’insegnamento primario è gratuito ed obbligatorio per tutti. Le scuole di gradi superiori sono accessibili a coloro che dimostrino le necessarie attitudini. All’istruzione dei poveri, che siano meritevoli di frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali.

Art. 7.

Attività professionale.

La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale.

L’accesso agli impieghi nelle pubbliche Amministrazioni e negli Enti di diritto pubblico è libera ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.

A tali impieghi si accede mediante concorso.

Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri.

Art. 8.

Domicilio ed emigrazione.

Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge.

Il diritto di emigrare è garantito nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato.

Art. 9.

Diritto di proprietà.

I beni economici possono essere oggetto di proprietà privata, cooperativistica e collettiva.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dallo Stato. La legge ne determina i modi di acquisto e di godimento e i limiti allo scopo di garantire la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Per coordinare l’attività economica e per esigenze di utilità collettiva, la legge può attribuire agli enti pubblici e alle comunità di lavoratori e di utenti la proprietà di singoli beni o di complessi produttivi, sia a titolo originario, sia mediante esproprio contro indennizzo.

Art. 10.

Diritto ereditario.

Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti della successione legittima, di quella testamentaria e i diritti della collettività.

Art. 11.

Impresa.

Le imprese economiche possono essere private, cooperativistiche, collettive.

L’iniziativa privata è libera. L’impresa privata non può essere esercitata in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

L’impresa cooperativa deve rispondere alla funzione della mutualità ed è sottoposta alla vigilanza stabilita per legge. Lo Stato ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.

Allo scopo del bene comune, quando l’impresa per riferirsi a servizi pubblici essenziali, o a situazioni di privilegio o di monopolio, o a fonti di energia, assume carattere di preminente interesse generale, la legge può autorizzare l’espropriazione mediante indennizzo, devolvendone proprietà ed esercizio, diretto o indiretto, allo Stato o ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori e di utenti.

Art. 12.

Proprietà terriera.

La Repubblica persegue la razionale valorizzazione del territorio nazionale nell’interesse di tutto il popolo ed allo scopo di promuovere l’elevazione materiale e morale dei lavoratori. In vista di tali finalità e per stabilire più equi rapporti sociali, essa, con precise disposizioni di legge, potrà imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera e impedirà la esistenza e la formazione delle grandi proprietà terriere private.

Art. 13.

Partecipazione dei lavoratori all’impresa.

Lo Stato assicura il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera. La legge stabilisce i modi e i limiti di applicazione del diritto.

Art. 14.

Controllo sociale dell’attività economica.

L’attività economica privata e pubblica deve tendere a provvedere i cittadini dei beni necessari al benessere, e la società di quelli utili al bene comune.

A tale scopo l’attività privata è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale determinate dalla legge.

Art. 15.

Controllo del risparmio.

Lo Stato stimola, coordina e controlla il risparmio.

L’esercizio del credito è parimenti sottoposto al controllo dello Stato al fine di disciplinarne la distribuzione con criteri funzionali e territoriali.

Art. 16.

Consiglio economico.

Un Consiglio economico nazionale, con corrispondenti organi periferici, attende al controllo sociale dell’attività economica pubblica e privata e partecipa alla preparazione della legislazione relativa.

Art. 17.

Sindacati.

L’organizzazione sindacale è libera.

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Sul diritto di sciopero la terza Sottocommissione ha inoltre approvato il seguente ordine del giorno:

«La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

PRESIDENTE comunica che per il lavoro di coordinamento degli articoli approvati dalla terza e dalla prima Sottocommissione, coordinamento che sarà effettuato in successive sedute, sono stati nominati i seguenti Commissari:

Presidente: Ghidini.

Segretario: Marinaro.

Membri: Canevari (sostituto Giua), Di Vittorio, Fanfani (sostituto Dominedò), Togni (sostituto Federici Maria), Colitto.

La seduta termina alle 12.15.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Giua, Ghidini, Marinaro, Pesenti, Togni.

Assenti: Di Vittorio, Lombardo, Merlin Angelina, Mole, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani.

GIOVEDÌ 24 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

37.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 24 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Togni – Colitto – Marinaro – Giua – Dominedò – Di Vittorio, Relatore – Fanfani – Lombardo.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE, dopo avere riassunto la discussione svoltasi nelle precedenti sedute sul tema dello sciopero, dichiara che, prima di dare la parola all’onorevole Di Vittorio, il quale ha chiesto di rispondere alle obiezioni sollevate dai vari oratori, esporrà anche il suo punto di vista, ove non vi siano altri colleghi che chiedano di parlare.

TOGNI ricorda che, alla fine della precedente seduta, aveva formulato una precisa proposta di non inserire nella Carta costituzionale alcun articolo riguardante lo sciopero e che tale proposta, che sembrava raccogliere l’adesione di quasi tutti i Commissari presenti, non era stata posta in votazione per un senso di riguardo verso il Relatore, il quale aveva chiesto di poter rispondere alle osservazioni mossegli. Rinnova quindi la sua proposta al Presidente, perché voglia, dopo aver udito il Relatore, porla ai voti.

COLITTO è d’opinione di non inserire nella Costituzione alcuna affermazione sul diritto di sciopero, essendo convinto che l’uso dell’arma dello sciopero e della serrata sia sempre di grave nocumento all’interesse collettivo. Manifesta inoltre il suo dubbio sull’esattezza dell’affermazione che viene generalmente fatta, che il divieto di sciopero sarebbe incompatibile, nel clima di libertà nel quale viviamo, con quella integrità della umana personalità che deve essere in ogni istante tutelata. Essendo stata riconosciuta la libertà sindacale ed essendovi, nell’ambito delle varie categorie, associazioni di datori di lavoro e di lavoratori che conoscono assai meglio dei singoli la situazione delle aziende e che rappresentano tutti gli appartenenti alle categorie, ritiene che tutte le controversie potrebbero essere definite in un clima di collaborazione dalle associazioni contrapposte, facendosi, ove occorra, ricorso ad arbitrati.

Rileva con soddisfazione che le sue preoccupazioni sono state intimamente sentite anche dalla prima Sottocommissione che ha ritenuto, nell’articolo relativo, di circondare di molte limitazioni l’affermato esercizio del diritto di sciopero (che va posto in ogni caso sullo stesso piano del diritto di serrata).

Nella fiducia che i tempi diventino tali da rendere possibile quella collaborazione di cui ha parlato, annullandosi le cause che potrebbero determinare lo sciopero e la serrata, si associa alla proposta di non parlare nella Costituzione di tali diritti, così come è fatto nelle altre Costituzioni.

PRESIDENTE premette che non tratterà dello sciopero politico e della serrata, ritenendo che la questione, tanto per l’uno che per l’altra, sia superata. Lo sciopero politico ha un contenuto rivoluzionario e la rivoluzione non si codifica.

Per quel che riguarda lo sciopero economico dichiara di essere contrario a che se ne parli nella Carta costituzionale, ma per ragioni diverse da quelle espresse dagli onorevoli Colitto, Molè e Dominedò.

L’onorevole Colitto ha infatti sostenuto che il diritto di sciopero non deve essere sancito nella Costituzione in quanto lo sciopero è, a suo avviso, sempre dannoso alla collettività. Dichiara di ritenere invece che lo sciopero rappresenta una necessità e che, come tale, non può essere dannoso. Non è neppure d’accordo con l’onorevole Dominedò, il quale, portando la questione nel campo giuridico ha sostenuto che lo sciopero è un atto violento col quale si spezza un vincolo giuridico, un contratto, e che pertanto, sotto questo profilo, sarebbe illegittimo. Osserva che tale argomentazione potrebbe aver valore se capitale e lavoro fossero sullo stesso piano di eguaglianza; ma, poiché non lo sono, la tesi, in linea di massima, non può essere accolta. L’onorevole Molè ha infine sostenuto, con riferimento agli impiegati statali, che è illogico consacrare nella Costituzione il diritto di sciopero perché ciò equivarrebbe a dire che lo Stato è o può essere nemico dei lavoratori, e perché il fatto di dipendenti statali, pubblici ufficiali e come tali depositari di una parte della sovranità dello Stato, che insorgano contro lo Stato, importerebbe la conseguenza che lo Stato insorgerebbe contro se stesso. Pur riconoscendo serie tali osservazioni, fa presente che domani potrebbe accadere che lo Stato, sia pure democratico, tralignasse o deviasse ponendo i lavoratori nella necessità di dover ricorrere allo sciopero.

Ritiene tuttavia che sia estremamente difficile inserire in una Carta costituzionale una disposizione che consacri il diritto di sciopero con delle limitazioni che si dovrebbero riferire ad alcune categorie di lavoratori, mentre tali categorie sono difficilmente determinabili. Infatti, se si parla di servizi accessori o essenziali, i due concetti di accessorietà e di essenzialità sono così soggettivi che non si possono includere in una Carta costituzionale, senza che pecchi di imprecisione. Non è neppure possibile parlare genericamente di dipendenti dello Stato, perché vi sono dei funzionari, depositari della sovranità statale, i quali non sono alle dipendenze dello Stato, né di altri enti pubblici, e perché vi sono dei dipendenti dello Stato che sono pubblici ufficiali e altri che tali non sono e che tuttavia adempiono a funzioni di una necessità superiore a quella dei primi, come gli infermieri, i pompieri, ecc.

Per quanto riguarda lo sciopero degli addetti ai lavori comuni, ritiene che una grande remora sarà costituita, oltre che dal senso di responsabilità dei lavoratori di cui ha parlato l’onorevole Di Vittorio, dall’istituzione dei consigli di gestione. Oggi infatti i lavoratori ricorrono molte volte allo sciopero ignorando le vere condizioni dell’azienda, senza sapere se l’azienda stessa sia in condizione di sopportare o meno i maggiori carichi che glie ne deriverebbero dall’elevazione dei salari; quando invece essi potranno conoscere e controllare le effettive possibilità della azienda, faranno o non faranno lo sciopero avendo anche presenti le sue possibilità. Per i servizi pubblici invece la remora sorge dalla stessa coscienza dei lavoratori; coscienza che si evolve e si eleva sempre di più, del che si ebbero anche recenti manifestazioni. Tuttavia la possibilità dello sciopero, astrattamente, esiste sempre.

La Costituzione che si sta elaborando, inspirata soprattutto alla difesa del lavoro, attribuisce allo Stato una quantità di funzioni importantissime per la vita pubblica e per i singoli cittadini. Data questa complessità di funzioni affidate allo Stato, ritiene che un grave pericolo sia rappresentato dalla possibilità di arresto del suo funzionamento. Tutto considerato, ritiene che non sia saggio fissare oggi dei limiti e che sia meglio lasciare al legislatore di domani il compito di dettare le norme in materia di sciopero.

Concludendo, ricorda che da taluni commissari è stato rilevato che nelle altre Costituzioni non si parla dello sciopero. A ciò l’onorevole Di Vittorio ha risposto facendo notare che da noi, a differenza degli altri Paesi del mondo dove lo sciopero è sempre esistito, c’è stato il fascismo, il quale non solo aveva negato il diritto di sciopero, ma l’aveva colpito anche con gravi sanzioni penali. L’osservazione è esatta e ne deriva che non si deve su di esso serbare il silenzio. A suo avviso la soluzione potrebbe consistere nell’affermazione dell’abrogazione del divieto di sciopero collocata nel preambolo, il quale fa parte integrante della Carta costituzionale e che serve alla sua più esatta interpretazione. Preferirebbe tale soluzione, con la quale si eviterebbe la formulazione di un articolo che, sancendo il diritto di sciopero, dovrebbe fissare dei limiti e delle condizioni insuperabili.

MARINARO osserva che con tale soluzione si avrebbe un’affermazione astratta nel campo concreto del diritto.

TOGNI, dichiarandosi d’accordo con la soluzione proposta dal Presidente di inserire nel preambolo un’affermazione di ordine generale, ritiene che sarà sufficiente, in quella sede, parlare di superamento e abrogazione di tutte le disposizioni e norme relative all’ordinamento sindacale e corporativo fascista.

GIUA accetta la proposta del Presidente, purché sia formulato nel preambolo un preciso articolo riguardante il diritto di sciopero. Non ritiene invece che sia sufficiente l’affermazione generica dell’abrogazione di tutto il sistema corporativo fascista – proposta dall’onorevole Togni – in quanto, a suo avviso, è necessario sancire nella Costituzione il diritto di sciopero, che i lavoratori hanno conquistato e che ha condotto all’inserimento nella vita politica della classe lavoratrice italiana.

Dichiara che, se la Sottocommissione deciderà di non fare alcuna dichiarazione sul diritto di sciopero, volendo con ciò intendere il riconoscimento dello stato di fatto che le organizzazioni sindacali avevano prima del fascismo, voterà a favore di tale decisione; ma che non potrebbe accettare alcuna formulazione in qualche modo contraria allo sciopero, perché ciò significherebbe impedire la completa ascesa della classe lavoratrice. Se invece si facesse un’affermazione sul diritto di sciopero anche per i servizi pubblici, non sarebbe contrario ad estenderlo alle grandi categorie di lavoratori, soprattutto a quelle dei ferrovieri e dei postelegrafonici. Ritiene invece che si dovrebbe tacere sul diritto di sciopero dei funzionari statali, in quanto, col decentramento, si dovrà rivedere tutta la loro organizzazione.

PRESIDENTE osserva che gli impiegati dello Stato, a differenza dei lavoratori delle aziende private, non contrattano le condizioni di lavoro, ma le accettano così come vengono loro imposte dagli enti pubblici; quindi, anche per questa classe di lavoratori si potrebbe verificare un’ingiustizia iniziale. Per non lasciarli completamente indifesi, lo Stato potrebbe disporre che le loro condizioni di lavoro fossero determinate d’accordo fra lo Stato stesso ed i sindacati; in tal modo vi sarebbe una maggiore garanzia e la questione dello sciopero potrebbe essere valutata in modo diverso. A tale proposito ritiene che forse sarebbe opportuno, prima di decidere sul diritto di sciopero, conoscere le decisioni della seconda Sottocommissione sulla disciplina dei rapporti tra lo Stato ed i suoi dipendenti.

TOGNI fa osservare che il fatto di non avere incluso nessun articolo sullo sciopero non toglie la possibilità di farlo in un secondo tempo, ove ciò apparisse necessario.

DOMINEDÒ, riferendosi a quanto ha osservato il Presidente circa una frase da lui pronunciata nella precedente seduta, deve chiarire che, considerando lo sciopero come la rottura di un rapporto preesistente, egli aveva aggiunto che la rottura di tale vincolo poteva essere legittima o illegittima. Per tale considerazione egli non ritiene opportuno sancire nella Costituzione il potere di sciopero, in quanto questo non potrebbe essere contemplato come istituto giuridico se non attraverso una serie di precisazioni e limitazioni che, in realtà, determinerebbero un empirismo in sede costituzionale o lascerebbero perplessi sulla sicurezza della linea di demarcazione fra il lecito e l’illecito.

Per quanto riguarda l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio sul fatto che l’Italia è un Paese che esce da un regime il quale aveva proibito lo sciopero, ritiene che con la formula proposta dal Presidente, da inserire nel preambolo, si sancirebbe l’abrogazione del divieto, abrogazione che è del resto già in atto a seguito delle ordinanze alleate sull’ordinamento corporativo fascista, salva l’opportunità di riesaminare particolarmente il problema in sede legislativa e non costituzionale.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di difendere il diritto di sciopero, in quanto lo sciopero, malgrado le paure che sempre ne hanno avuto i ceti privilegiati della società, è stato nella storia di tutti i popoli civili una leva potentissima di progresso economico, sociale, civile. Il diritto di sciopero è intimamente legato al concetto pieno di democrazia, che è governo di popolo espresso liberamente dalla volontà del popolo. Negare un tale diritto significherebbe volersi garantire contro il suo libero esercizio con un mezzo coattivo.

Osserva che taluni hanno manifestato la loro preoccupazione per gli scioperi dei lavoratori dei pubblici servizi. Non comprende perché una società democratica, per garantire la continuità di tali servizi, dovrebbe ricorrere alla coazione e non fidare invece nella certezza di redimerti tutte le vertenze che potrebbero sorgere, per via pacifica. I lavoratori di oggi, e non soltanto in Italia, danno una prova così manifesta di coscienza sociale elevata da non giustificare la preoccupazione di non giungere a degli accordi in ogni caso. Ricorda, in proposito, che dalla liberazione dell’Italia non vi è stato un solo sciopero durante il quale i servizi pubblici essenziali non abbiano continuato a funzionare; ogni volta – come risulta dai comunicati pervenuti alla Confederazione generale del lavoro – è stato fatto l’elenco dei servizi che dovevano essere assicurati in ogni caso.

Fa osservare che nella formulazione da lui proposta non vi è alcun riferimento a scioperi politici, o a scioperi estesi ai funzionari, in quanto, a suo avviso, è sufficiente la sola affermazione del diritto di sciopero per tutti i lavoratori. L’esercizio di tale diritto sarà poi, come tutti gli altri, disciplinato da una legge che fisserà le eventuali limitazioni, alle quali tuttavia, in linea di principio, egli è contrario, in quanto difende la libertà assoluta di tutti i cittadini.

Non crede che sarebbe opportuno non parlare affatto nella Costituzione dello sciopero; poiché, data la particolare situazione del nostro Paese, una Costituzione che non affermasse specificatamente tale diritto non esprimerebbe il progresso sociale e politico voluto dalle masse lavoratrici. Non ritiene neppure accettabile la proposta dell’onorevole Marinaro di sancire il diritto di sciopero con delle limitazioni in quanto, a suo avviso, è assurdo circoscrivere nella Costituzione un diritto nel momento stesso in cui si afferma.

Dichiara di essere contrario al diritto di serrata, ritenendo che le due forze interessate allo sciopero non siano sullo stesso piano. Infatti le masse lavoratrici lottano per interessi di ordine collettivo, mentre gli interessi collegati alla serrata possono essere, in determinati casi, di natura egoistica ed anche in pieno contrasto con quelli generali della società.

Per quel che riguarda lo sciopero politico, del quale non aveva parlato nella sua relazione, ripete che egli non intende porre alcuna limitazione al diritto di sciopero in genere. Pur concordando che lo sciopero politico è un assurdo, in quanto le classi lavoratrici non si pongono oggi contro lo Stato, ma vogliono anzi esserne parte integrante e forza propulsiva, osserva che anche la democrazia fondata sulla nuova Costituzione potrebbe essere attaccata da forze reazionarie interne. In tal caso, esse dovrebbero essere combattute coi mezzi che sono nelle mani dei lavoratori, ai quali il Governo stesso dovrebbe ricorrere. Ricorda, in proposito, lo sciopero generale del 1922, che Turati definì «sciopero legalitario» perché aveva per fine la difesa della legalità democratica contro l’illegalismo della violenza fascista. I lavoratori di tutta Italia, riuniti nella famosa «Alleanza del lavoro» in cui si raccolsero tutti i sindacati operai e tutti i partiti dei lavoratori, decisero di insorgere contro lo squadrismo fascista che, in violazione di tutte le leggi dello Stato e dell’umanità, commetteva atti di violenza allo scopo di far cadere il Paese sotto il dominio di una dittatura. Disgraziatamente per l’Italia questo sciopero non riuscì ad impedire che pochi mesi dopo quelle stesse forze, contro le quali lo sciopero era diretto, prendessero il potere e portassero il Paese alla catastrofe alla quale oggi si è giunti.

Per una prevenzione, che non vuole definire, contro lo sciopero politico, ancora oggi vi sono commissioni governative dell’attuale Governo democratico per la revisione dei licenziamenti determinati da motivi politici, le quali hanno negato la riassunzione a ferrovieri ed a postelegrafonici che furono licenziati per avere aderito allo sciopero del 1922, semplicemente perché si trattava di uno sciopero politico, che dal Governo pseudodemocratico di allora fu ritenuto illegittimo.

PRESIDENTE fa osservare che non fu uno sciopero rivoluzionario, ma un atto di resistenza legittima contro l’illegalità e come tale merita ben diversa considerazione.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che se si dovesse ripetere una situazione analoga a quella del 1922, i ferrovieri ed i postelegrafonici, ai quali si chiedesse di interrompere il lavoro per non fornire strumenti agli attacchi della reazione, sarebbero in diritto di rispondere negativamente, perché lo sciopero politico è proibito.

Concludendo, dichiara che potrebbe, a titolo di conciliazione, accettare la proposta del Presidente di rimandare la soluzione del problema al preambolo della Costituzione. Ritiene tuttavia che, in questa ipotesi, la Sottocommissione non dovrebbe sottrarsi ad approvare una precisa formulazione, al fine di accettare il punto di accordo, dato che qualche collega intende limitare la formulazione stessa all’abrogazione del divieto di sciopero, mentre altri vorrebbero affermare nel preambolo il diritto allo sciopero. Tuttavia, se la formulazione risultasse chiara, non vede perché essa non dovrebbe trovar posto tra gli articoli della Carta costituzionale. Propone pertanto che, senza fare alcun accenno allo sciopero dei servizi pubblici od allo sciopero politico, sia accettata la formulazione da lui proposta che dice semplicemente: «È riconosciuto il diritto di sciopero ai lavoratori».

TOGNI si dichiara d’accordo nel difendere il diritto di sciopero che nessuno ha mai contestato. I punti di divergenza riflettono i metodi, le possibilità e le forme nelle quali questo diritto va esercitato, in quanto non può esservi diritto che non abbia delle limitazioni.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di aver riconosciuto tutto ciò e di aver soltanto detto che la disciplina di queste forme e di questi limiti deve competere al legislatore ordinario.

TOGNI insiste nel confermare, nel modo più deciso, la sua opposizione a qualsiasi forma di sciopero politico, in quanto non è mai esistito uno Stato il quale abdichi alla sua sovranità con una forma del genere, che consenta attentati legali alla sua vita.

Con tutta schiettezza fa osservare allo onorevole Di Vittorio, il quale ha parlato soltanto di possibilità di attentati reazionari e quindi della necessità che le masse dei lavoratori possano intervenire con l’arma dello sciopero, che, nel regno delle possibilità e delle eventualità, potrebbe esservi quella che la stessa arma dello sciopero politico possa servire non per impedire, ma per volere un avvento di dittatura, la quale sarebbe un attentato alla vita dello Stato democratico.

DI VITTORIO, Relatore, fa notare che non esiste alcun precedente storico di una dittatura instaurata attraverso uno sciopero.

TOGNI rileva inoltre che la discussione svolta ha dimostrato che, affermando il diritto allo sciopero in modo esplicito, si debbono pur sempre porre delle limitazioni che comportano difficoltà di carattere giuridico, politico e sociale di tal natura da rendere molto difficile, se non impossibile, l’affermazione stessa. Conclude pertanto confermando la proposta fatta nella seduta precedente, che andrebbe però completata con quanto è emerso successivamente dalla discussione sulla necessità di garantire che non si verifichino ritorni ad una mentalità contraria allo sciopero. Accetta in conseguenza la proposta del Presidente perché sia inserita nel preambolo della Costituzione una frase, con la quale venga esplicitamente soppressa la concezione sindacale corporativa fascista.

DI VITTORIO Relatore, si dichiara contrario ad includere una frase del genere nel preambolo, in quanto la Costituzione deve contenere delle affermazioni e non delle negazioni.

TOGNI propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, dopo ampia disamina del problema, riconosce che per ragioni di opportunità e di praticità non sia necessario stabilire nella Costituzione un articolo che contempli il diritto di sciopero ed eventualmente anche quello della serrata, in quanto il diritto stesso è ormai acquisito all’attuale realtà sociale. Riconosce però come necessario, di provvedere, in sede di compilazione del preambolo alla Costituzione, ad includere un’affermazione che confermi la completa ed assoluta abrogazione del precedente ordinamento sindacale corporativo che contemplava il divieto di sciopero».

FANFANI non ritiene di dover confutare le affermazioni dell’onorevole Di Vittorio, affermazioni che comunque definisce poco chiare e forse anche equivoche in merito alle funzioni della Costituzione, dello Stato e della posizione dei lavoratori nello Stato.

Rileva che è ormai pacifico che il ricorso allo sciopero rappresenta un mezzo necessario ed efficace per una migliore tutela dei diritti dei lavoratori; ma osserva altresì che, se non ci fosse stata la legislazione fascista, oggi non sarebbe forse neanche in discussione il problema di affermare il diritto nel testo costituzionale. A suo avviso, per risolvere la questione, si potrebbe approvare un ordine del giorno rivolto al Governo, del seguente tenore:

«La terza Sottocommissione per la Costituzione unanime riconosce che il diritto di sciopero è un mezzo ancor oggi necessario alla tutela dei diritti dei lavoratori; riconosce altresì la difficoltà e la non necessità di disciplinare la materia in sede costituzionale; invita pertanto il Governo, che attende allo studio di provvedimenti sullo sciopero dei funzionari, a presentare all’Assemblea Costituente di urgenza un progetto di legge che abolisca le proibizioni fasciste in materia, che riconosca esplicitamente il diritto dei lavoratori di ricorrere allo sciopero e che precisi le modalità di esercizio del diritto stesso».

DI VITTORIO, Relatore, pensa che l’ordine del giorno dell’onorevole Fanfani esuli dalla competenza della Sottocommissione, la quale non può rivolgere un voto al Governo.

FANFANI riconosce giusta per la forma l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio e propone che l’invito sia rivolto al Presidente dell’Assemblea Costituente anziché al Governo. Ritiene peraltro che per quanto riguarda la sostanza la Sottocommissione sia competente a trattare una simile materia e che la Presidenza dell’Assemblea potrebbe avocare a sé il diritto dell’iniziativa.

MARINARO ritiene che la questione vada esaminata e risolta con un certo coraggio e sul terreno di sicura concretezza. Vi è uno stato di fatto generalizzato in tutti i Paesi del mondo, stato di fatto che consiste nella pratica dello sciopero. Contro tale pratica nessun governo democratico ha pensato o pensa di insorgere, cosicché si tratta di una pratica quasi implicitamente legalizzata che menoma il prestigio dell’autorità ed offende la sovranità di tutto il popolo. Non vi può essere uno sciopero legittimo ed uno illegittimo; tutt’al più giusto o ingiusto, ma sempre illegittimo, perché non conforme alla legge e come tale deve essere riconosciuto o negato; ma se non si può disconoscere lo stato di fatto e non si può con la negazione dello sciopero ritornare indietro di circa 60 anni, non rimane che uscire dall’equivoco e riconoscere il diritto di sciopero, disciplinandone però l’esercizio e coordinandolo con gli interessi prevalenti della collettività.

Con l’inclusione nella Carta Costituzionale del riconoscimento del diritto di sciopero si avvantaggerebbe l’autorità dello Stato, che oggi è costretta a subire gli scioperi anche quando essi assumono carattere di particolare violenza; si uscirebbe dallo incerto e dall’indeterminato e si conoscerebbe il campo di sviluppo e di estensione di tali movimenti che, in definitiva, si risolvono sempre in un danno per tutta la classe sociale; si fisserebbero infine nella sede, che reputa la sola competente, i principî ed i limiti cui dovrebbe uniformarsi il legislatore futuro nel disciplinare il diritto di sciopero che, come qualsiasi altro diritto della personalità umana, non può concepirsi in forma generica ed illimitata, ma deve essere ben precisato ed esercitato compatibilmente con i poteri sovrani e con gli interessi prevalenti della Nazione.

Con la proposta da lui presentata si sancirebbe che lo sciopero nei pubblici esercizi e nelle pubbliche amministrazioni è proibito e che le relative vertenze non sono neglette, ma demandate ad organi adeguati, ed in conseguenza resterebbe definitivamente acquisito alla legislazione un elemento di tranquillità generale.

Per quanto riguarda la proposta fatta dal Presidente, osserva che la materia non può essere inserita nel preambolo, ritenendo che di essa non si possa fare una semplice affermazione teorica. Il diritto di sciopero è un diritto concreto, sostanziale, che si riconosce o meno ma che, ove si riconosca, dove essere posto sotto determinate forme o condizioni.

LOMBARDO dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Togni di non parlare affatto nella Costituzione del diritto di sciopero, appunto perché intende difendere tale diritto come un’arma che deve rimanere nella lotta di classe, fino a quando non si sia entrati nella società socialista. Non ritiene che si possa codificare il diritto di sciopero, in quanto non è pensabile che vi siano discriminazioni fra sciopero e sciopero, fra lavoratore e lavoratore. Si richiama, in proposito, ad un ricordo storico: per difendere la democrazia, quando il gruppo di generali che seguiva Von Kapp volle ad un certo momento fare il putsch in Germania, tale putsch venne stroncato dallo sciopero generale. Ciò dimostra che ad un dato momento l’arma dello sciopero, che è normalmente di difesa della categoria dei lavoratori, può diventare di difesa della legalità democratica. Per questo ritiene che il voler sancire in una articolazione una qualsiasi discriminazione di tale diritto sia assolutamente ingiusto, proprio per la difesa della democrazia stessa.

Concludendo osserva che, non avendo nessuno negato il diritto di sciopero, la discussione verte sulla possibilità o meno di limitarlo. A suo giudizio, proprio per non limitare in alcun modo il diritto di sciopero, è necessario non fare nella Carta costituzionale alcuna enunciazione in materia.

COLITTO, dopo le chiare parole dell’onorevole Lombardo, il quale opportunamente si è preoccupato delle distinzioni che avrebbero luogo e che non sarebbero opportune in regime democratico, osserva che, se il diritto di sciopero vuole davvero essere considerato espressione della personalità umana, dovrebbe essere affermato senza limitazioni di sorta. Senonché, anche l’onorevole Di Vittorio ritiene che sia da vietare lo sciopero politico.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non aver mai fatto una simile affermazione e ricorda anzi di aver citato degli esempi per dimostrare che lo sciopero politico può essere un’arma efficacissima per difendere lo stato democratico.

COLITTO ribatte che in un secondo momento l’onorevole Di Vittorio aveva detto che lo sciopero politico non è possibile, in quanto le masse lavoratrici vivono nello Stato ed è assurdo che possano insorgere contro lo Stato.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda di aver detto esattamente che non rivendicava lo sciopero politico in seno allo stato democratico di cui le masse lavoratrici stesse fanno parte. Ripete di non voler che sia esplicitamente sancito il diritto allo sciopero politico, ma di respingere qualsiasi limitazione a tale diritto.

COLITTO prende atto dei chiarimenti, che tuttavia ritiene contraddittori. Rileva che per lo meno l’onorevole Di Vittorio ha ammesso la possibilità che la legislazione disciplini, cioè limiti (ed i limiti potrebbero essere molto lati) l’esercizio del diritto di sciopero.

L’onorevole Di Vittorio ha inoltre affermato che negli scioperi che si sono avuti i pubblici servizi sono sempre stati assicurati (il che significa che anche egli si preoccupa dei danni che alla collettività potrebbero derivarne) e che vi potrebbero essere scioperi, come ad esempio quello dei magistrati, che starebbero ad indicare che lo Stato è in crisi.

Pertanto, pur riconoscendo che lo sciopero costituisce un mezzo anche oggi necessario per la tutela dei diritti del lavoratore, sente, anche attraverso le parole dello stesso onorevole Di Vittorio, come sia opportuno che di questo diritto di sciopero nella Costituzione non si parli.

PRESIDENTE, dato che si tratta, più che di fissare un precetto, di sopprimere un divieto con il conseguente riconoscimento ai lavoratori del diritto di sciopero, ritiene che sia sufficiente inserire nel preambolo una frase che potrebbe essere la seguente: «Il divieto di sciopero, consacrato nella legislazione fascista, è soppresso».

DOMINEDÒ dichiara di non opporsi, ma è d’avviso che sia necessario allora aggiungere anche l’abrogazione del divieto di serrata.

TOGNI, in considerazione che lo sciopero è una realtà insopprimibile e che si è deciso di non sancirne il diritto nella Carta costituzionale, in quanto impossibile fissarne i limiti, ritiene che la formula più semplice sia quella da lui proposta.

PRESIDENTE, pur essendo d’accordo con l’onorevole Togni, è d’avviso che, oltre all’enunciazione generica della soppressione di qualsiasi residuo del passato regime fascista, la Costituzione dovrebbe contenere anche la specifica affermazione dell’abrogazione del divieto di sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, non ritiene opportuna la formulazione proposta dal Presidente, in quanto, a suo avviso, nella Costituzione si devono fissare dei principî e non stabilire dei divieti; è contrario inoltre alla proposta dell’onorevole Togni, perché, se si parlasse dell’abrogazione del divieto di sciopero, si dovrebbero considerare anche tutte le altre disposizioni del passato regime.

La Costituzione è un’enunciazione sintetica dei principî che devono essere alla base del nuovo diritto italiano; ciascun diritto sancito dovrà poi essere disciplinato per legge, in quanto è evidente che ogni diritto di determinate categorie di cittadini trova dei limiti nei diritti degli altri. Quindi, come s’è fatto per tutti gli altri principî, se si è d’accordo sul diritto di sciopero, ritiene che esso debba essere sancito nella Carta costituzionale: spetterà poi al legislatore disciplinarlo e fissarne i limiti.

La riluttanza a sancire il diritto di sciopero, diversamente da quello che si è fatto per le altre materie in esame, significa o che non lo si vuole riconoscere, o che si vuole ammetterlo in maniera confusa, circondato di garanzie che si ha paura di fissare e per le quali ci si rimette al legislatore.

TOGNI ripete che, a suo avviso, non è possibile fissare nella Carta costituzionale il diritto di sciopero, che non è contemplato in nessun’altra Costituzione. Quando la Sottocommissione sarà d’accordo sulla sostanza ed avrà proposto il rinvio della formulazione di un articolo nel preambolo, non si sarà emessa una sentenza inappellabile e si avrà sempre la possibilità di tornare sulla decisione presa. Ritiene tuttavia che per ora non sia possibile fissare in modo concreto l’articolo da inserire nel preambolo, in quanto ancora nulla si sa sul come il preambolo stesso sarà formulato.

GIUA osserva che una proposta concreta potrebbe essere sempre fatta: spetterà poi a coloro che avranno il compito di elaborare il preambolo di inserire, anche con altre parole, il concetto espresso dalla Sottocommissione.

FANFANI fa presente che se si è convinti che il diritto di sciopero sia per la prima volta acquisito, non vi è dubbio che esso debba essere solennemente sancito nella Costituzione e non limitato ad un accenno nel preambolo; se invece si è d’accordo nell’affermare che tale diritto esisteva in precedenza ed era stato poi soppresso, allora si deve ripristinare con una legge ordinaria e non con la Costituzione. Dichiara quindi di insistere sul suo ordine del giorno, presentato in precedenza, che ritiene conclusivo.

TOGNI dichiara che, in sostituzione di quello precedentemente presentato, propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, ritenendo inopportuno di comprendere nella Carta costituzionale formulazioni riguardanti lo sciopero e la serrata, rinvia al preambolo della Costituzione o ad una legge speciale il superamento o l’abrogazione del precedente ordinamento sindacale corporativo, che prevedeva il divieto di sciopero e di serrata».

PRESIDENTE dichiara che non voterà tale proposta, ritenendo che il silenzio sul diritto di sciopero nella Carta costituzionale debba essere subordinato ad una precisa formulazione del pensiero della Sottocommissione sull’affermazione del diritto di sciopero nel preambolo.

LOMBARDO è contrario alla formulazione dell’onorevole Togni, alla quale preferisce quella da lui precedentemente presentata, anche perché non ritiene che nella Costituzione si debba parlare della serrata, che, sia pure da un punto di vista giuridico, potrebbe essere posta da qualcuno sullo stesso piano dello sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che voterà contro l’ordine del giorno dell’onorevole Togni e insiste sulla sua proposta di inserire nella Costituzione un articolo così formulato: «Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori».

FANFANI propone il seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

COLITTO chiede che in tale ordine del giorno, oltre al diritto di sciopero, sia aggiunto il diritto di serrata.

DOMINEDÒ si associa, aggiungendo che voterà l’ordine del giorno, nell’intendimento che spetta alla legge speciale stabilire quei limiti di liceità del potere di sciopero, che non sarebbe conveniente ne possibile determinare in sede costituzionale.

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio così concepito:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Marinaro:

«È riconosciuto, nell’ambito degli interessi economici e sindacali, il diritto di sciopero e di serrata, salvo le garanzie e le limitazioni stabilite dalla legge. Gli scioperi nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni sono proibiti. Le vertenze relative verranno risolte da adeguati organi opportunamente predisposti».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Togni e così modificato:

«Riconosciuto urgente ed indispensabile che una legge abroghi i divieti fascisti relativi al diritto di sciopero, non si ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

(Non è approvato).

Pone in votazione l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Fanfani:

«La terza Sottocommissione, ritenuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

(È approvato).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Colitto che all’articolo approvato venga aggiunto il diritto di serrata.

(Non è approvato).

La seduta termina alle 14.

Erano presenti: Colitto, Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Giua, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Canevari.

Assenti: Federici Maria, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

36.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Molè – Di Vittorio, Relatore – Presidente – Dominedò – Marinaro – Lombardo – Togni – Fanfani.

La seduta comincia alle 18.20.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

MOLÈ intende fare una questione di opportunità e chiede se si ritenga necessario parlare del diritto di sciopero o si ritenga pericoloso includerlo nella Costituzione.

Il diritto di sciopero è ormai riconosciuto da tutti i Paesi, meno che da quello dove lo Stato si identifica con la classe lavoratrice. Cita, a questo proposito, una disposizione della Costituzione russa.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che la disposizione non è contro lo sciopero, bensì contro il sabotaggio.

MOLÈ afferma che se lo Stato concedesse il diritto di sciopero ai lavoratori e lo negasse agli addetti ai servizi pubblici, potrebbe sorgere il problema, nel caso che questi ricorressero ad una tale arma, che lo Stato dovesse agire in una certa maniera, mentre invece, mancando questa precisa regolamentazione, lo Stato avrebbe la possibilità di agire in modo diverso; sarebbe una questione di apprezzamento politico che determinerebbe di volta in volta il comportamento dello Stato. In altri termini, si può ammettere che lo sciopero dei servizi pubblici avvenga senza farne un reato; il reato sorgerebbe quando si stabilisse che non è lecito.

Ma il problema, a suo avviso, va posto da un altro punto di vista: il diritto di sciopero non si discute; chi nega il diritto di sciopero, l’uso di quest’arma, che è stata uno dei mezzi di affermazione della classe lavoratrice, effettivamente è reazionario, a parte l’opportunità o no di legiferare in materia. Ma per i servizi pubblici la questione è diversa. Prima di tutto occorre distinguere i servizi pubblici. Se si considera servizio pubblico tanto quello del ferroviere, quanto quello del magistrato, si confondono due forme di attività: una che attiene ad una funzione di utilità sociale, un’altra che attiene al diritto complesso della sovranità dello Stato. Pensa che il pubblico funzionario vada concepito come colui che esercita le funzioni dello Stato, come colui nella cui azione si obiettiva la sovranità dello Stato e che, quindi, non può scioperare contro lo Stato, perché sarebbe lo Stato che sciopera contro se stesso. Il ferroviere può in qualche maniera non identificarsi, e spesso non si identifica con lo Stato; ma il magistrato, colui che appartiene alle forze di polizia, colui che è nell’esercito, sono lo Stato, rappresentano lo Stato nelle sue funzioni sovrane. Il giorno in cui fosse concesso ai soldati, agli ufficiali, ai magistrati di scioperare contro lo Stato, lo Stato non avrebbe più ragione di esistere. Uno sciopero di questo genere, in alcune circostanze della vita politica, potrebbe anche verificarsi, ma non potrebbe mai essere, da parte dello Stato, riconosciuto legalmente. Potrà lo Stato in tali circostanze trovare opportuno di usare mezzi conciliativi anziché repressivi; ma questo attiene alla politica.

Quando si vuol dare allo Stato il carattere di Stato democratico, che non agisce per gli interessi di una classe, ma che concilia tutti gli interessi, è inconcepibile legiferare sul diritto di sciopero di coloro che sono alle sue dirette dipendenze.

Qualora vi siano amministrazioni che non funzionano bene nello Stato democratico, non è necessario ricorrere allo sciopero. C’è qualcuno che pensa anche all’opportunità di portare al governo un rappresentante della Confederazione generale del lavoro perché tuteli direttamente questi interessi. Ciò potrebbe rientrare nel concetto di Stato democratico, non già il concedere il diritto di sciopero a queste categorie. È preferibile lasciare alla prudenza politica la risoluzione di certe crisi.

Si chiede poi se, oltre allo sciopero economico, che si verifica quando l’interesse del lavoro si contrappone all’interesse del capitale, si debba trattare anche dello sciopero politico.

DI VITTORIO, Relatore, fa rilevare che nel primo comma dell’articolo 4 da lui proposto si dice: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Non si fa cenno, quindi, allo sciopero economico o allo sciopero politico; si afferma soltanto il diritto di sciopero per ogni lavoratore, perché nella Costituzione vanno consacrati i principî generali.

Ritiene che si possa fare a meno di una discussione circa l’estensione o meno ai pubblici servizi del diritto di sciopero, spettando tale discussione piuttosto alla Camera legislativa.

MOLÈ osserva che non è possibile che lo Stato si autodefinisca datore di lavoro iniquo, contro il quale si debba usare l’arma dello sciopero. Naturalmente si riferisce sempre allo Stato democratico, e pensa che sarebbe una specie di contraddizione, nel momento in cui si crea la Costituzione dello Stato democratico, ammettere che si tratti di uno Stato contro il quale i lavoratori possano fare uso del diritto di sciopero.

PRESIDENTE si chiede se, di fronte all’articolo dell’onorevole Di Vittorio, sia possibile trasfondere nella Costituzione l’essenza dei rilievi fatti; per evitare che la formula proposta possa in avvenire essere fonte di equivoci.

Pone quindi delle domande: se si afferma che il diritto allo sciopero è consacrato per tutti i lavoratori, domani potrà una legge escludere da questo diritto i pubblici ufficiali? Ricorda che il codice Zanardelli ammetteva implicitamente il diritto allo sciopero, mentre con altra disposizione lo vietava per i pubblici ufficiali. Ora se la Costituzione dovesse sancire il diritto allo sciopero per tutti, il legislatore di domani verrebbe a trovarsi in difficoltà nei riguardi di alcune categorie.

MOLÈ concorda con l’osservazione molto perspicua del Presidente e rileva che la preoccupazione esiste soprattutto se si considera che oggi anche i funzionari hanno i loro sindacati.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che sono esclusi quelli degli appartenenti alla pubblica sicurezza e ai Corpi armati.

MOLÈ fa rilevare che si tratta di piccole eccezioni, mentre esistono anche organizzazioni sindacali dei magistrati. Sarebbe del parere di non parlare affatto di tale argomento nella Costituzione, tanto più considerando che il diritto di sciopero è un fatto ormai acquisito in tutti i Paesi civili. Mette quindi in rilievo le gravi difficoltà di valutazione che sorgerebbero, ad esempio, nella distinzione tra pubblici servizi essenziali e pubblici servizi accessori.

PRESIDENTE osserva innanzitutto che lo sciopero politico, di cui ammette l’eventualità solo in casi eccezionali, non dovrebbe essere scritto nella Costituzione, ed è anche discutibile se possa ammettersi lo sciopero dei pubblici funzionari che personificano la sovranità dello Stato, in quanto un tale sciopero sarebbe la negazione dello Stato stesso.

Aggiunge d’altro canto che vi sono impiegati, non dipendenti dallo Stato, come, ad esempio, i messi esattoriali, i quali, pur esercitando un pubblico ufficio, dipendono da ditte private appaltatrici. In questo caso c’è un datore di lavoro che non è lo Stato, e sarebbe ingiusto escludere una tale categoria di lavoratori dal diritto allo sciopero. Per tutte queste ragioni è del parere di non fare generalizzazioni che potrebbero risultare pericolose.

MOLÈ precisa che quando si parla di pubblici funzionari si devono intendere solo i dipendenti dallo Stato.

DI VITTORIO, Relatore, insiste sul concetto che la Costituzione deve solo affermare il diritto; sarà compito del legislatore ordinario di regolamentare tutta la materia. Non crede, contrariamente a quanto ritiene il Presidente, che una formula generale possa creare imbarazzi. D’altro canto non è da pensare che dello sciopero possano valersi gli alti ufficiali dello Stato, anche perché ciò non è nella tradizione politica dei Paesi civili.

MOLÈ ricorda lo sciopero degli agenti di pubblica sicurezza.

DI VITTORIO, Relatore, nota che si è trattato di una manifestazione sporadica senza alcuna gravità.

MOLÈ cita anche il caso di un colonnello della polizia a Roma che aveva tentato di organizzare uno sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, rileva che si tratta di piccoli episodi. La storia degli scioperi parla di movimenti operai e di movimenti di impiegati, specialmente nell’industria privata; l’ipotesi dello sciopero dei generali, dei magistrati, ecc., non ha mai avuto conferma nella pratica. Teoricamente tutto è possibile, ma non è a questi piccoli episodi che ci si deve riferire.

MOLÈ per quanto riguarda la serrata, osserva che vi possono essere, in linea di massima, delle serrate determinate da condizioni che rendano impossibile continuare la vita delle aziende. In questi casi potrebbe essere preveduto uno speciale controllo da parte dello Stato, perché non si prestino a nascondere qualche speculazione.

DI VITTORIO, Relatore, pensa che un rigoroso controllo dovrebbe sempre esservi, poiché la serrata è un’arma di battaglia specifica. Ricorda di averne parlato nella sua relazione, ma non ha creduto opportuno parlarne negli articoli, perché, a suo avviso, la Costituzione deve consacrare i diritti, e non parlare delle cose vietate, affinché non divenga una specie di Codice penale.

Siccome nega il diritto alla serrata, non trova necessario dirlo nella Costituzione.

DOMINEDÒ ritiene che la questione dovrebbe essere impostata nei suoi termini essenziali di partenza, che non sono sfuggiti all’accortezza del Relatore quando ha indugiato sulla questione preliminare del riconoscimento del diritto di sciopero in genere, termini di partenza che sono stati felicemente ripresi dall’onorevole Molè.

Non vorrebbe essere frainteso, ma, a suo avviso, la questione dovrebbe essere impostata in termini giuridici: lo sciopero è un’arma di fatto che, eventualmente, può anche essere giustificata. Riconosce che il potere di sciopero (preferisce parlare di potere e non di diritto) possa essere legittimo. Lo sciopero, però, di regola rompe un rapporto di lavoro precostituito. All’onorevole Di Vittorio, che parlava dell’esigenza di riconoscere alla personalità umana la libertà di non lavorare, cioè il diritto di incrociare le braccia, osserva che a parte la propria sensibilità al dovere sociale di lavorare, tale libertà può se mai trovarsi nella facoltà di non assumere un obbligo di prestazione d’opera, ma, una volta assunto quest’obbligo, si stabilisce un vincolo di diritto: e lo sciopero è un’arma di fatto che rompe un vincolo giuridico precostituito, come la guerra è un’arma di fatto che rompe un ordine internazionale precostituito.

Non esclude affatto, pur considerandola eccezionale, l’ipotesi che la rottura di questo vincolo precostituito possa essere legittimata da cause di forza maggiore; può tuttavia non esservi uno stato di forza maggiore tale da legittimare la inadempienza al rapporto di lavoro in vigore. E allora si domanda, pur avendo riconosciuto l’ipotesi in cui l’arma dello sciopero diventa legittima, se convenga contemplare nella Costituzione il diritto di sciopero, attraverso una formulazione così generale da comprendere ipotesi legittime e non legittime.

Afferma che la riprova della bontà di questa impostazione della tesi sta nel fatto che, per quante Costituzioni egli abbia sfogliato, ad eccezione di quella estone, non ha mai trovato un accenno al riconoscimento generale di questo diritto. Vi è invece qualche indovinato accenno sulle funzioni del sindacato dirette ad elevare e migliorare le condizioni della classe lavoratrice.

DI VITTORIO, Relatore, risponde che questo diritto è riconosciuto in tutte le legislazioni di quei Paesi nei quali era stato soppresso. In Francia, ad esempio, non si fa nessuno accenno al diritto di sciopero, perché non è stato mai soppresso.

DOMINEDÒ aggiunge che il passo avanti rispetto a situazioni preclusive dell’esercizio di questo potere sta oggi nell’avere superato il divieto formale di sciopero e di serrata.

D’altra parte, a suo avviso, quest’arma eccezionale dello sciopero deve essere gradualmente eliminata nell’evoluzione di un Paese civile. Così come si tende al superamento della guerra, si deve tendere al superamento dello sciopero, sostituendo a quest’arma eccezionale diversi strumenti di tutela giuridica. Considera l’istituto dell’arbitrato obbligatorio come segno di evoluzione di un popolo civile.

Pertanto pone il dubbio della opportunità di giungere a sancire, come mezzo normale comprendente tutte le ipotesi, questo esercizio di un potere di fatto, pur tenendo presenti le ragioni sociali e morali che lo giustificano in determinate ipotesi.

MARINARO dichiara che non nega il diritto di sciopero, per le ragioni accennate ampiamente dal Relatore e dall’onorevole Molè; vede anche l’opportunità che questo diritto generale, ormai riconosciuto, sia consacrato in una precisa norma; ma vede pure la necessità che il riconoscimento di un tale diritto sia accompagnato da precise garanzie e limitazioni. Il diritto di sciopero illimitato e la negata facoltà di serrata, come è nel pensiero del Relatore, confermano, a suo avviso, l’intendimento di voler riconoscere una preminenza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro, intendimento che nella seduta del giorno precedente sembrò superato, sia pure per fini conciliativi. Fa rilevare che in uno Stato democratico non possono costituirsi privilegi di classe. Tutte le classi debbono essere considerate su uno stesso piano nell’esercizio dei loro diritti e nell’adempimento dei loro doveri, e tutto questo per rispetto a quelle finalità che interessano principalmente tutta la collettività.

All’affermazione del diritto di sciopero, quale strumento di lotta e di difesa degli interessi dei lavoratori, deve necessariamente corrispondere il diritto di serrata dei datori di lavoro. Non ritiene concepibile, specialmente dal punto di vista giuridico – e nella Costituzione vanno fissate norme essenzialmente giuridiche – che la legge ammetta uno strumento di offesa e non consenta alcun mezzo di difesa.

LOMBARDO afferma che la serrata è una rappresaglia, non un mezzo di difesa.

MARINARO ripete che la serrata è il mezzo che ha il datore di lavoro per difendersi da uno sciopero illegittimo, e non può, a priori, essere considerata una rappresaglia.

Ammesso in egual grado il riconoscimento dei diritti di sciopero e di serrata, sorge evidente l’opportunità che l’affermazione di tali diritti sia accompagnata da garanzie e limitazioni, in modo che tali mezzi di lotta siano contenuti nell’ambito degli interessi economici e sindacali, non contrastino con l’interesse generale prevalente della collettività, e non si tramutino in strumenti di offesa e di indebolimento delle istituzioni democratiche.

Prescindendo dalle osservazioni fatte dall’onorevole Molè e dal Presidente, circa la distinzione tra i dipendenti dello Stato, ritiene che, nel caso dello sciopero nelle pubbliche amministrazioni, nei servizi pubblici, è l’interesse della collettività che deve prevalere. In ogni caso, poi, il ricorso a tali mezzi di lotta dovrebbe essere deliberato dalla effettiva maggioranza degli interessati e dovrebbe essere subordinato ad una procedura preliminare di composizione.

Per queste considerazioni, propone che nella Carta costituzionale sia inserito un articolo del seguente tenore:

«È riconosciuto, nell’ambito degli interessi economici e sindacali, il diritto di sciopero e di serrata, salvo le garanzie e le limitazioni stabilite dalla legge.

«Gli scioperi nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni sono proibiti; le vertenze relative saranno risolte da adeguati organi opportunamente predisposti».

TOGNI dichiara che non seguirà l’onorevole Dominedò in quella che è la parte squisitamente giuridica dell’argomento, anche perché può concordare col Relatore sul fatto che un fenomeno così grave, così moderno e così importante come lo sciopero non può essere circoscritto in formule e strettoie giuridiche, ma è opportuno considerarlo da un punto di vista prevalentemente sociale. Sotto questo punto di vista crede che nessuno possa negare la necessità ineluttabile del ricorso allo sciopero quale unica arma, unico mezzo dei lavoratori per poter progredire nelle loro posizioni di lavoro e migliorare le posizioni stesse. Arriverebbe a dire che, ove lo sciopero fosse veramente applicato secondo quell’alto valore che ha, sarebbe un’arma di progresso sociale, l’unica arma degli operai per poter mettere sul tappeto determinate rivendicazioni.

Riconosce che sul piano sociale si va verso un continuo perfezionamento delle condizioni dei lavoratori, e che le esigenze sindacali comportano una progressiva richiesta di miglioramento.

Per contro, non si sente di mettere sullo stesso piano l’arma che avrebbero i datori di lavoro, ove si consentisse la serrata, perché questo non risponderebbe né alla funzione sociale del capitale, né a quell’impulso di tutto il popolo italiano di oggi, della nuova democrazia, che spinge a tutelare in maniera prevalente i lavoratori nell’esplicazione del loro lavoro e nell’affermazione dei loro diritti.

Fa però considerare che lo sciopero è un’arma la quale presenta, per chi l’adopera e per chi la subisce, gravi inconvenienti, gravi danni e quindi comporta dei limiti e la necessità di garanzie, per un complesso di situazioni e di attività, di fronte alle quali il cittadino onesto che pensa al bene comune resta perplesso e preoccupato.

Non è, a suo avviso, minimamente accettabile una possibilità di sciopero politico, così come non è ammissibile una possibilità di sciopero da parte di determinati organi statali o tali da rappresentare o impersonare determinati gangli della vita dello Stato stesso.

Dichiara di non essere d’accordo col Relatore quando parla di questo Stato come di qualche cosa di aleatorio, momentaneo, che può essere domani modificato nella sua struttura e verso il quale dobbiamo garantirci. Pensa che il giorno in cui lo Stato democratico dovesse cadere, per una qualsiasi deprecata ipotesi, nessuna Costituzione potrebbe reggere, e coloro che fossero chiamati a dare un nuovo ordinamento allo Stato spazzerebbero qualunque norma che possa avere statuito lo Stato che oggi si tratta di formare. Lo Stato democratico garantisce la libertà, ma deve garantire anche il proprio funzionamento e deve difendere la propria vita; non può consentire che alla sua vita sia attentato né sul piano politico, né sul piano economico, sindacale, lavorativo. Crede che su questo tutti siano d’accordo.

Ha toccato questo punto per mettere in evidenza le difficoltà che si presentano a chi voglia sancire questo diritto nella nuova Costituzione. Non crede possibile trovare una formula che dica tutto quello che si deve dire e ometta tutto quello che si deve omettere, e che non sia limitativa o insufficiente dato il continuo e, sotto certi aspetti, imprevedibile evolversi della vita economica e sociale.

Si chiede perché, come hanno fatto tutte le altre Costituzioni, non si vuole rinunciare ad affermare questo diritto di sciopero, quando esistono due garanzie per i lavoratori: cioè che nulla è detto nella nuova Costituzione che possa anche minimamente servire di limite, di remora, di ostacolo alla manifestazione di questo diritto che è nella coscienza di tutti; inoltre uno Stato democratico non potrà mai non consentire lo sciopero ai lavoratori, quando questo veramente si manifesti come una necessità insopprimibile. Pertanto propone di soprassedere a qualsiasi formulazione.

LOMBARDO afferma che in una società prettamente socialista lo sciopero andrebbe vietato, mentre è un’arma legittima nella società capitalistica, in quanto permette di colpire gli imprenditori attraverso il loro profitto.

Naturalmente lo sciopero, da un punto di vista generale, è un danno per la collettività, ma lo è anche la condizione d’inferiorità dei lavoratori, ed è ovvio che questi possano usufruire di tale arma.

Siccome lo sciopero è un’arma, qualora se ne enunci il diritto, dovrebbero anche essere enunciate le garanzie di esercizio; dovrebbe essere stabilito come, quando e da chi potrebbe essere esercitato; occorrerebbe, insomma, fare una casistica che non può trovar luogo nella Costituzione; perciò, a suo avviso, non andrebbe fatta nessuna enunciazione.

La serrata, invece, è un’arma di offesa, non di difesa: è un’offesa nei riguardi della collettività e, se nella Costituzione, ammettendosi lo sciopero, si dovesse ammettere anche la serrata, ritiene questa una ragione di più per non parlare di sciopero.

Si chiede, però, se possa conciliarsi il silenzio sul diritto di sciopero con la enunciazione, fatta in altro articolo, del dovere, oltre che del diritto, al lavoro.

DOMINEDÒ spiega di aver parlato di dovere del lavoro in un senso assolutamente generale, sociale ed etico. Non si esclude che, là dove questo dovere si traduca nella assunzione concreta di uno specifico rapporto di lavoro, se tale rapporto non determina un trattamento del lavoratore conforme alle necessità individuali e familiari, possa sussistere quella ragione di prepotere economico del datore di lavoro rispetto al lavoratore, per cui a questi sia dato legittimamente ricorrere ad un’arma, che è la sola per spezzare quel prepotere.

MOLÈ aggiunge che il lavoro è un dovere, ma nelle condizioni migliori per il lavoratore.

DI VITTORIO, Relatore, ritiene che la proclamazione del dovere del lavoro sia necessaria per i borghesi, perché per i lavoratori il lavoro è un bisogno vitale.

LOMBARDO chiede se la legislazione fascista, che aveva vietato lo sciopero e la serrata, è stata abrogata.

DOMINEDÒ risponde che l’ordinanza alleata del 13 giugno 1944 ha abrogato il sistema corporativo fascista, lasciando però in penombra il sistema sindacale. Nella realtà si considera superato il divieto del diritto di sciopero e di serrata.

FANFANI, riprendendo ed estendendo una frase dell’onorevole Lombardo, afferma che tutte le volte in cui una società riesce a rendere piena giustizia a tutti gli oppressi, l’arma dello sciopero non ha più diritto di essere usata.

Lo Stato italiano, che si è proposto di riconoscere pieno diritto alla giustizia da parte di tutti, dovrebbe in teoria non ammettere lo sciopero e la serrata. Ma se ammette lo sciopero, cioè se riconosce l’incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori, non può non ammettere la stessa incapacità dello Stato a tutelare la giustizia nei confronti dei datori di lavoro.

Ammettendo solo il diritto dei lavoratori di rendersi ragione, implicitamente si riconosce che lo Stato soggiace normalmente all’influenza del capitalista, tanto che non sa rendere giustizia al lavoratore, donde lo sciopero. Ma questa ammissione implicita non può essere fatta nella Costituzione. Pertanto o si tace il diritto di farsi ragione da sé nel campo del lavoro, oppure si riconosce la insufficienza dello Stato a rendere giustizia, e, in questa ipotesi, si deve ammettere il duello tra le parti.

In questa condizione di cose lo Stato deve prendere delle garanzie; pertanto propone il seguente articolo:

«È ammesso il ricorso allo sciopero e alla serrata. La legge ne regola le modalità di proclamazione e di svolgimento, a tutela della pace sociale, del godimento del diritto al lavoro, della continuità dei servizi essenziali alla vita collettiva e dell’espletamento delle funzioni proprie dello Stato».

MOLÈ ritiene che si possa non parlare dello sciopero, ma che non si possa affermare che l’enunciazione del diritto di sciopero nei rapporti tra privati significhi affermare l’incapacità dello Stato a dare una legittima soddisfazione ai diritti del lavoro. Sarebbe una confessione di questa incapacità, qualora questo diritto fosse concesso ai soli prestatori d’opera.

Finché non ci sarà uno Stato di economia collettiva, finché ci sarà una certa libertà d’iniziativa, lo Stato non potrà impedire che si verifichino ingiustizie.

Quanto poi a regolamentare lo sciopero, si potranno determinare i limiti in cui lo sciopero è consentito, ma non le modalità; perché lo sciopero è un’arma che o è concessa completamente, oppure è perfettamente inutile.

TOGNI chiede che venga messa ai voti la sua proposta, cui hanno aderito gli onorevoli Dominedò, Lombardo e Molè, intesa a non includere nella Costituzione alcun accenno relativo allo sciopero o alla serrata.

FANFANI ritiene che la Sottocommissione possa aderire alla proposta Togni, facendo contemporaneamente un invito all’Assemblea perché consideri l’opportunità di promuovere al più presto l’emanazione di una legge che abroghi esplicitamente tutta la legislazione fascista in materia.

DI VITTORIO, Relatore, nella sua qualità di relatore intende, prima che si passi ad una qualsiasi votazione, rispondere ai vari oratori, alcuni dei quali hanno fatto delle obiezioni molto giuste, che ritiene possano essere prese in considerazione. Per tale motivo, e data l’ora tarda, propone che la seduta sia rinviata al giorno successivo.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Lombardo, Marinaro, Molè, Togni.

Assenti giustificati: Canevari, Giua.

Assenti: Colitto, Federici Maria, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Rapelli, Taviani.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

35.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 23 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Di Vittorio, Relatore – Marinaro – Rapelli, Correlatore.

La seduta comincia alle 11.30.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE ricorda che il tema in discussione è il diritto di sciopero.

DI VITTORIO, Relatore, propone di discutere il primo comma dell’articolo 4 della sua relazione, di cui dà lettura: «La legislazione dovrà garantire le libertà sindacali ed il diritto di sciopero a tutti i lavoratori». Nel secondo comma ha trattato del collocamento all’interno ed all’estero e dell’assistenza agli emigranti.

PRESIDENTE rileva che per il collocamento all’estero già si è provveduto con una apposita norma; per il collocamento all’interno non crede che la Costituzione se ne debba occupare.

DI VITTORIO, Relatore, poiché nella sua relazione ha affrontato il problema del nuovo ordinamento sindacale, ha ritenuto di trattare anche del collocamento, che è una delle funzioni più importanti del sindacato.

Tornando al primo comma, ritiene che sia la Sottocommissione che l’Assemblea Costituente non avranno difficoltà a riconoscere il diritto di sciopero, che non è un diritto nuovo, ma già acquisito dai lavoratori di tutti i Paesi civili. Solo nelle Nazioni che, come un tempo l’Italia, hanno avuto la disgrazia di cadere sotto una dittatura, questo diritto è stato mutilato o soppresso, ma in tutti i Paesi fondati su un regime di democrazia e di libertà, come l’America e l’Inghilterra, esso è legalmente riconosciuto a tutti i lavoratori, ed ha subito solo qualche leggera limitazione durante il periodo della guerra.

Il diritto di sciopero costituisce, a suo avviso, uno dei presupposti del rispetto della personalità umana, nel senso che l’uomo deve avere il diritto, quando lo creda, di non lavorare e di incrociare le braccia. Il diritto di sciopero è altresì una delle armi più potenti che il lavoro possiede per difendere i propri interessi rispetto al capitale. È con questo mezzo che una collettività di lavoratori manifesta l’importanza della sua funzione sociale ed anche della sua potenza, affermando in maniera concreta ed evidente che il capitale, se posseduto dai privati, non è tutto e nemmeno il più necessario. I lavoratori hanno, infatti, la possibilità di dimostrare coi fatti di essere una delle leve più potenti della vita e della società, perché, quando essi collettivamente decidono di non lavorare, si arrestano, per tutto il periodo dello sciopero, le fonti stesse della vita.

Senza dilungarsi intorno al concetto generale, su cui è certo della unanimità di consensi, passa ad una delle principali eccezioni che si vorrebbe fare al diritto di sciopero, vale a dire a quella relativa allo sciopero dei servizi pubblici.

Premette di essere favorevole alla estensione del diritto di sciopero a tutti i cittadini, senza nessuna eccezione e, quindi, anche ai dipendenti dei servizi pubblici. Gli sono noti gli argomenti contrari a questo principio e riconosce la fondatezza di alcuni di essi; ma, ritenendo assai più forti gli argomenti favorevoli, è del parere che in una Carta costituzionale democratica il diritto di sciopero debba essere riconosciuto, senza eccezioni, a tutti i lavoratori. Non può disconoscere che lo Stato ha il dovere di assicurare la continuità dei servizi pubblici indispensabili alla collettività; ma nega che possa dare questa garanzia alla società nazionale, basandosi sul diniego del diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, che costituiscono una classe abbastanza numerosa di cittadini. Crede invece che, all’infuori di ciò che deve essere coercitivamente represso perché antisociale, lo Stato, quale pietra di paragone della maturità e dello sviluppo delle nuove concezioni democratiche, debba avere tali legami con le masse lavoratrici e con le organizzazioni sindacali che le rappresentano, da assicurare la continuità dei servizi pubblici mediante il componimento amichevole e bonario di tutte le vertenze. Innanzi tutto, negare il diritto di sciopero ai lavoratori dei servizi pubblici, dal punto di vista soggettivo, significherebbe creare una categoria di cittadini minorati rispetto a tutti gli altri. Dal punto di vista obiettivo, non sarebbe nemmeno una soluzione favorevole, perché la pressione che i lavoratori possono esercitare con questo mezzo, può cagionare indirettamente un effetto salutare sugli stessi servizi pubblici. Infatti, un’amministrazione, la quale fosse matematicamente sicura che nulla può mettere in crisi i servizi, potrebbe essere portata a trascurare l’accoglimento delle rivendicazioni legittime e giuste dei lavoratori, al punto da acuire il loro malcontento, con la logica conseguenza di ripercussioni negative sul funzionamento dei servizi. Quando, invece, i lavoratori hanno la possibilità di porre l’amministrazione di fronte alle proprie responsabilità, questa minaccia la costringe ad esaminare con la dovuta sollecitudine le loro rivendicazioni, evitando così quella depressione degli animi che può portare ad un rilasciamento generale dei servizi.

Contro il diritto di sciopero si obietta che se lo Stato, invece di essere reazionario, è democratico, vale a dire fondato sulle masse lavoratrici, i rapporti tra lo Stato e le masse devono essere di collaborazione, e pertanto non appare necessario tale diritto. Questo ragionamento, che ha inteso fare, attraverso la stampa, dagli oppositori al principio, può però essere ritorto, nel senso che se i lavoratori devono avere fiducia nello Stato, non vi è alcun motivo perché lo Stato democratico non debba avere fiducia nei lavoratori.

Lo Stato, a suo avviso, deve fidare di più sulla collaborazione delle masse che sui mezzi coercitivi che esso può far valere nei loro confronti. Circa la possibilità di esporre il Paese a pericoli per eventuali abusi, ritiene che bisogna avere fiducia nelle masse lavoratrici.

Rispetto ai servizi pubblici, bisogna considerare da un lato i lavoratori addetti ad essi, e dall’altro la grande massa lavoratrice che rappresenta gli utenti e i beneficiari di questi servizi pubblici. Ora, se da uno sciopero dei servizi pubblici può derivare un danno alla collettività in generale, la classe lavoratrice, nel suo complesso, come quella che ha interesse più di ogni altra alla continuità dei servizi stessi, è portata ad intervenire per porre delle limitazioni ed evitare ogni abuso in questo campo.

Da quanto ha detto, discende come logica conseguenza il principio dell’autodisciplina ed autolimitazione delle masse lavoratrici, sulle quali lo Stato democratico ha il dovere di fare affidamento. Come esempio, cita la Confederazione generale del lavoro, la quale nel congresso di Napoli alla fine del gennaio 1945, senza nessunissima pressione da parte del Governo o di qualsiasi autorità, spontaneamente ha fissato nell’articolo 59 del suo statuto, relativamente ai servizi pubblici, i seguenti due principî: cercare di evitare lo sciopero ed esperire tutti i mezzi che sono necessari a tal fine; ottenere, per farvi ricorso, l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione stessa.

Malgrado la situazione eccessivamente grave del Paese, per cui specialmente le masse lavoratrici dei servizi pubblici hanno un trattamento economico enormemente in ritardo sui continui aumenti del costo della vita, può affermare che i lavoratori, salvò rare eccezioni, si sono attenuti allo spirito della decisione presa dalla Confederazione del lavoro. Un termine di paragone della efficacia di questo metodo della autodisciplina, in relazione a quello della coercizione, può essere ottenuto dal confronto fra gli altri Paesi e l’Italia, dove, anche essendosi avuta una catastrofe tale da porre le masse lavoratrici in condizione di non poter soddisfare ai bisogni elementari di vita, non si sono avuti né uno sciopero dei ferrovieri, né di alcun altro dei servizi pubblici fondamentali, ma solo piccoli scioperi di carattere locale, che si sono potuti comporre con grande facilità. Invece in America, in Inghilterra e in altri Paesi, che si trovano in condizioni assai più fortunate dal punto di vista del lavoro, si sono avuti scioperi che hanno messo in crisi i rispettivi servizi fondamentali. Alla prova dei fatti, quindi, l’autodisciplina e l’autolimitazione degli stessi lavoratori, come prodotto della loro maturità sindacale, hanno funzionato in modo più efficace di quanto non abbiano funzionato altrove le limitazioni di carattere legale.

I pochi e sporadici scioperi che si sono verificati, sono stati effettuati, per decisione delle stesse categorie, in modo da assicurare il funzionamento dei servizi fondamentali di interesse pubblico.

Si domanda, quindi, che cosa succederebbe se, vietato ai lavoratori dei servizi pubblici il diritto di sciopero, essi per risolvere un’acuta vertenza si sentissero obbligati a scioperare ugualmente. Lo Stato non potrebbe fare a meno di sedare con la forza lo sciopero e licenziare gli agitatori. Da questa azione di forza deriverebbe però un malanimo ed un senso di rancore che alla prima occasione fatalmente esploderebbe di nuovo, sotto altra forma, per esempio l’ostruzionismo, con evidente danno per il buon andamento dei servizi e perpetuando il conflitto fra lo Stato e notevoli masse popolari.

MARINARO osserva che non è detto che lo Stato debba necessariamente giungere a quella conseguenza. Vi saranno anche altri modi di risolvere le vertenze.

DI VITTORIO, Relatore, ribadisce il concetto che quando lo sciopero fosse proibito e i lavoratori lo facessero ugualmente, lo Stato non potrebbe non intervenire per far rispettare la legge anche con mezzi coercitivi. Invece la semplice minaccia dello sciopero da sola potrebbe far risolvere sollecitamente le vertenze.

Bisogna, poi, considerare che essendo il sentimento della solidarietà fra i lavoratori molto sentito, se lo Stato intervenisse per reprimere uno sciopero anche di altre categorie di lavoratori, allargando in modo grave una vertenza che, senza il divieto di sciopero, con la semplice minaccia di esso, si sarebbe potuta rapidamente risolvere, si avrebbe la possibilità di gravi conflitti tra lo Stato e le grandi masse lavoratrici italiane, con la conseguente negazione del carattere democratico dello Stato.

Concludendo, riafferma che la nuova Costituzione, se si vuole che rappresenti un progresso rispetto alla precedente, e non sia arretrata in confronto delle Costituzioni dei Paesi liberi e civili, dovrebbe riconoscere senza eccezioni il diritto di sciopero a tutti i lavoratori, confidando nel senso di autodisciplina e di autolimitazione delle organizzazioni sindacali, le quali oggi, a differenza di ieri, non sono più ai margini della società nazionale in atteggiamento ostile allo Stato, ma sono entrate a far parte dello Stato stesso.

MARINARO domanda all’onorevole Di Vittorio se non intenda parlare anche in ordine alla serrata.

PRESIDENTE sebbene l’ordine della discussione porterebbe ad ascoltare l’onorevole Rapelli, Correlatore sullo stesso argomento dello sciopero, è anch’egli del parere che l’onorevole Di Vittorio possa parlare subito della serrata, come argomento connesso.

DI VITTORIO, Relatore, accetta di parlare brevemente anche della serrata. Dichiara di essere contrario a riconoscere il diritto di serrata al datore di lavoro. Le ragioni le ha già espresse nella sua relazione, dove ha concluso proponendo che la facoltà della serrata sia sottoposta al controllo dello Stato. Alla obiezione che gli si potrebbe opporre che il riconoscimento del diritto di serrata è correlativo a quello di sciopero, potrebbe rispondere che l’interesse dei datori di lavoro è soltanto formalmente uguale a quello dei lavoratori, perché, in sostanza, i due interessi divergono non soltanto come quantità, ma anche come qualità. Prima di tutto i lavoratori rappresentano un interesse di carattere collettivo, per cui si giustifica il ricorso allo sciopero, come un mezzo di pressione per ottenere il soddisfacimento di esigenze attinenti alla vita dei lavoratori, soddisfacimento che ha come conseguenza un progresso di tutta la società nazionale. Il datore di lavoro, invece, può essere animato da interessi che non solo non collimano con quelli della società nazionale, ma possono anche essere in contrasto con essa. Non è quindi giusto porre sullo stesso piano tanto il lavoro, quanto il capitale.

Il lavoratore, in secondo luogo, ha una remora nell’esercizio del diritto di sciopero, derivante dalle sue stesse condizioni economiche, per cui rappresentando il salario provento unico della sua esistenza, non può prolungare all’infinito uno sciopero senza esporsi alla fame. Il datore di lavoro, invece, con la serrata perde solo ciò che potrebbe realizzare di profitto in quei giorni, perché il lavoro per lui non è il mezzo immediato di vita, come il salario per il lavoratore. D’altra parte, mentre il lavoratore che sciopera non può avere un secondo fine che sia in contrasto con le esigenze della società nazionale, il datore di lavoro, nel prolungare ingiustificatamente una serrata, potrebbe perseguire fini egoistici, come quello di provocare un aumento di prezzo del suo prodotto, o un alleggerimento delle scorte dei suoi magazzini.

Osserva, infine, che stabilire il diritto di serrata significherebbe riconoscere il diritto di proprietà, basato sullo jus utendi et abutendi proprio del diritto romano, che ormai tutte le legislazioni moderne hanno abbandonato, affidando alla proprietà una funzione sociale.

Per tali motivi lo Stato non dovrebbe riconoscere al datore di lavoro il diritto di serrata, senza alcun controllo.

PRESIDENTE chiede all’onorevole Di Vittorio se nega completamente il diritto di serrata, o se lo vuol sottoposto a determinati controlli.

DI VITTORIO, Relatore, in linea di principio è contrario al diritto di serrata; praticamente, però, non sarebbe contrario a sottoporlo ad uno stretto controllo da parte dello Stato.

RAPELLI, Correlatore, osserva innanzi tutto che, dovendosi fissare in che modo debba esercitarsi il diritto allo sciopero, ciò vuol dire che l’esercizio di tale diritto non deve essere qualche cosa di arbitrario. L’argomento dei pubblici servizi lo induce a considerare innanzi tutto la situazione dei pubblici funzionari, rispetto ai quali, dovendosi tener sempre presenti le supreme esigenze dello Stato, sarebbe inconcepibile il diritto di sciopero, in quanto in essi è preminente la qualità di funzionario rispetto a quella di lavoratore. Per quanto riguarda, invece, i servizi pubblici, ritiene utile distinguerli in servizi essenziali – che ormai sono tutti esercitati e controllati dallo Stato – e in servizi accessori, che si possono considerare come una forma di surrogato della industria privata. Per ambedue, in caso di vertenze, si dovrebbe fare ricorso a Commissioni arbitrali o addirittura a speciali magistrature. Non è del parere, invece, che si debba fare ricorso alla Confederazione generale del lavoro, in quanto si esulerebbe dai suoi specifici compiti. Questo suo punto di vista ha inserito, salvo modificazioni, nell’articolo 3 e, in parte, nell’articolo 4 della sua relazione.

Si dichiara contrario al diritto di serrata, in quanto lo considera una forma di rappresaglia che bisogna impedire, perché l’impresa è un fatto sociale e, come tale, non può sottrarsi all’obbligo di dare lavoro.

PRESIDENTE pone il quesito se il diritto allo sciopero debba essere esteso anche allo sciopero di carattere politico o debba essere limitato al campo strettamente economico.

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara favorevole per un illimitato diritto di sciopero, senza nessuna restrizione, comprendendo quindi anche lo sciopero politico. Rileva che tale sua affermazione potrebbe sembrare assurda, considerandosi egli rappresentante delle masse lavoratrici che fanno parte dello Stato e che non sono contro lo Stato; ma pensa che lo sciopero sia un’arma eccellente di difesa della democrazia e dello Stato democratico. Non quindi arma contro lo Stato, ma contro pericoli di una eventuale evoluzione in senso reazionario dello Stato stesso. Cita, a questo proposito, il caso dell’ex re d’Italia che esitava ad abbandonare il Paese dopo la proclamazione del risultato del referendum; in tale occasione la Confederazione generale del lavoro, essendo a conoscenza di tentativi di colpi di mano da parte di gruppi reazionari, aveva già deciso in una sua riunione lo sciopero generale, congegnandolo in modo da favorire le forze democratiche e contemporaneamente paralizzare i gruppi reazionari. Lo sciopero generale politico nelle mani delle grandi masse lavoratrici può, quindi, considerarsi come uno strumento di difesa della democrazia.

RAPELLI, Correlatore, è contrario allo sciopero generale politico, così come lo intende l’onorevole Di Vittorio. Ammetterne la legalità significherebbe, a suo avviso, rendere invalida la Costituzione in partenza. Si riconoscerebbe, infatti, ad una parte dei cittadini il diritto di rendere carente l’attività dello Stato e di farsi giustizia da sé in una materia non sindacale, ma politica e che, in quanto tale, deve rimanere soggetta alla disciplina dello Stato.

Rileva, infine, che, se desta preoccupazione lo sciopero degli addetti ai servizi pubblici, a maggior ragione deve preoccupare la eventualità di uno sciopero generale politico.

PRESIDENTE rinvia la discussione alle ore 17.

La seduta termina alle 12.40.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Marinaro, Molè, Rapelli, Togni.

Erano assenti: Colitto, Federici Maria, Lombardo, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

In congedo: Canevari, Giua.

MARTEDÌ 22 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

34.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 22 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Togni – Di Vittorio, Relatore – Dominedò – Molè – Fanfani – Presidente – Marinaro.

La seduta comincia alle 17.50.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

TOGNI ricorda la riserva sua e dei colleghi del suo gruppo, fatta nella precedente seduta, sul modo precipitoso col quale erano stati votati i due articoli sull’ordinamento sindacale, della quale lo stesso presidente Giua gli aveva dato atto.

Gli articoli sono stati così formulati:

Art. …

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Art. …

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati.

 

Il punto sostanzialmente errato, a suo avviso, è che nel primo articolo si parla del riconoscimento giuridico dei sindacati e nel secondo si parla della facoltà di stipulare contratti collettivi di lavoro concessa ad una specie di sindacato di coordinamento, costituito dai rappresentanti dei diversi sindacati. Infatti: o è il sindacato che ha il riconoscimento giuridico, ed è esso che può stipulare i contratti; o è un altro organo cui è conferita questa facoltà, e allora è perfettamente inutile dare il riconoscimento giuridico al sindacato salvo che, con tale riconoscimento, si voglia concedergli una personalità, che gli permetta di svolgere normali negozi giuridici e di possedere beni, come accennava l’onorevole Di Vittorio.

Ritiene quindi opportuno rivedere i due articoli, tanto più che il dissenso è più formale che sostanziale, per far sì che non si prestino a facili censure.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non aver nulla in contrario a migliorare il testo dei due articoli, soprattutto in considerazione del fatto che nella sostanza ritiene che tutti siano d’accordo. Giudica però artificiosa l’argomentazione dell’onorevole Togni. È suo intendimento che il sindacato debba avere il riconoscimento giuridico limitatamente a questi tre scopi: avere la capacità giuridica di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la categoria; avere la possibilità di costituirsi in giudizio; avere la possibilità di acquistare e possedere beni. L’onorevole Togni, invece, dice che la facoltà di stipulare i contratti collettivi non è conferita al sindacato, ma ad un ente costituito dalla rappresentanza di vari sindacati. Osserva che se il sindacato è unico, come è oggi nella realtà, la questione non sussiste; soltanto nell’ipotesi che ci siano più sindacati nella stessa categoria, si è detto, in omaggio ai principî democratici, si costituisce una rappresentanza proporzionale di ciascuno, che dovrà procedere alla stipulazione del contratto; di modo che il contratto sarebbe l’espressione non di un sindacato, ma di tutti i sindacati esistenti e riconosciuti. L’onorevole Togni vede in questa rappresentanza di più sindacati un altro ente, quasi estraneo al sindacato, e ne fa un secondo istituto. Nella realtà non sono due enti distinti, perché questa rappresentanza è la sintesi dei vari sindacati, formata dai loro rappresentanti.

Del resto, ripete, oggi il sindacato è unico e vi è una tendenza diffusa in tutti i Paesi civili alla unicità del sindacato; ma se anche fossero più d’uno i sindacati di una categoria riconosciuti giuridicamente, sarebbero questi che, agendo attraverso la propria rappresentanza, stipulerebbero i contratti collettivi.

DOMINEDÒ fa rilevare che può anche essere opportuno che ai vari sindacati sia data la personalità giuridica per stare in giudizio e per possedere; ma altro è la personalità di diritto privato che risponde a tali esigenze; altro è attribuire una personalità di diritto pubblico, in forza della quale si conferisce la facoltà normativa non solo nei confronti degli iscritti, ma di tutti gli appartenenti alla categoria.

Perché lo Stato deleghi questa potestà occorre precisamente che vi sia una rappresentanza unitaria, e non solamente maggioritaria, della categoria. Queste rappresentanze verranno sì disciplinate dalla legge in modo particolare, ma in via di massima potranno esse solamente costituire l’organo munito di potestà normativa ed espresso dai vari sindacati plurimi, secondo i principî democratici. Se così non fosse, la potestà normativa dovrebbe essere conferita a tutti i sindacati, e ne nascerebbe il caos, perché ogni sindacato potrebbe dettare norme nei confronti della categoria. Questa è la ragione per la quale occorre giungere alla rappresentanza unitaria.

TOGNI aggiunge che si confonde il sindacato unico col sindacato unitario. Quanto si verifica in Italia, ed è augurabile che non vi siano mutamenti, è un’eccezione; la regola è la pluralità dei sindacati. Nel caso dell’Italia la rappresentanza di tutta la categoria può coincidere col sindacato unico e come tale può essere riconosciuta, ma nella norma della Costituzione deve essere considerato il caso generale, nel quale rientra quello eccezionale. Comunque, questo problema è stato superato con l’ultimo comma del secondo articolo che dice: «Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

La sua osservazione moveva dalla necessità di correggere lievemente il suo primo articolo, e distinguere la personalità giuridica che si intende attribuire ai sindacati da quella che va attribuita alle rappresentanze unitarie.

MOLÈ osserva che leggendo solo il primo articolo potrebbe affacciarsi l’idea di un pericolo, idea però che svanisce leggendo anche l’ultimo comma del secondo articolo. Infatti la personalità giuridica è riconosciuta per rendere possibile il funzionamento dei sindacati, ma alla stipulazione del contratto collettivo, che è obbligatorio per tutti gli interessati, sono chiamate le rappresentanze unitarie. Il sindacato, anche come personalità giuridica di diritto privato, potrebbe impegnare i suoi iscritti, e si riconosce soltanto alle rappresentanze unitarie la facoltà di stipulare i contratti collettivi, che debbono avere efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti e per tutti gli interessati. In questa maniera il pericolo è superato. Basterebbe quindi far precedere l’ultimo comma dalla parola: «soltanto» e dire: «Soltanto le rappresentanze sindacali unitarie, ecc., ecc.».

FANFANI per ovviare al pericolo del sorgere di sindacati fittizi, che potrebbero contrastare il volere della maggioranza, propone che si dica: «Le rappresentanze sindacali unitarie di categoria dei sindacati registrati, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro obbligatorio per tutti gli appartenenti al settore economico cui si riferiscono».

A suo avviso, la divisione in due articoli non è opportuna; suggerisce pertanto di procedere innanzitutto ad una limatura e poi ad una condensazione.

Poiché nel primo comma del primo articolo si parla di lavoratori, e nel secondo anche dei datori di lavoro, si chiede se dei due commi non possa farsene uno solo e dire: «Ai sindacati, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori e dei datori di lavoro, è riconosciuta la personalità giuridica, alle condizioni previste dalla legge».

Qualora questa proposta fosse accolta, a questo comma o articolo a sé stante, andrebbe fatto precedere il primo comma dell’altro articolo: «L’associazione sindacale è libera».

DI VITTORIO, Relatore, afferma essere stato suo intendimento di non mettere sullo stesso piede di eguaglianza i sindacati dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro, prima di tutto perché i sindacati dei lavoratori rappresentano un numero assai superiore di iscritti, i quali, essendo in una condizione economica più disagiata, hanno un maggior bisogno di protezione da parte dello Stato. Riconosce che non è stata trovata un’espressione felice di questo concetto, che tiene a riaffermare, pur ammettendo che lo stesso riconoscimento giuridico competa anche ai sindacati dei datori di lavoro.

Ricorda che nella legislazione fascista le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro erano messe su uno stesso piano.

FANFANI fa notare che, rispetto alla situazione anteriore, rappresentava già una conquista per i lavoratori il trovarsi giuridicamente sullo stesso piano con i datori di lavoro.

Inserire nella Costituzione un articolo per consacrare una posizione prevalente ai sindacati dei lavoratori, potrebbe offrire il destro, ai datori di lavoro, di dire di essere stati posti in condizione d’inferiorità, e ciò potrebbe causare grave danno ai lavoratori stessi. Pur riconoscendo la condizione di parità giuridica, è stata fatta tutta una serie di articoli a tutela dei soli lavoratori.

DI VITTORIO, Relatore, è d’accordo di ammettere in un articolo la parità di condizione dei lavoratori e dei datori di lavoro nei riguardi del riconoscimento giuridico, ma tiene a che questo articolo sia preceduto da un’affermazione che dica che lo Stato dovrà garantire per legge un’efficace protezione ai lavoratori manuali e intellettuali. Con la sua formulazione: «I sindacati dei lavoratori sono riconosciuti enti di interesse collettivo», intendeva dire che sono enti che difendono gli interessi di una collettività molto importante.

Quanto al riconoscimento giuridico, provvedeva il primo comma del terzo articolo della sua relazione, che diceva: «Ai sindacati professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro, che ne facciano richiesta, è riconosciuta la personalità giuridica».

FANFANI rileva che la preoccupazione del Relatore è stata risolta con l’ultimo comma dell’articolo terzo approvato che dice: «La Repubblica procederà con speciali norme alla protezione del lavoratore e favorirà ogni regolamentazione internazionale diretta a tal fine», che in sede di coordinamento potrebbe formare oggetto di un articolo a parte.

PRESIDENTE osserva che è vero che in molti articoli si considerano soltanto i lavoratori, ma la situazione di diritto dei due sindacati, per quanto riguarda il riconoscimento giuridico, non può che essere uguale.

TOGNI ricorda che anche nella precedente discussione fu messa in rilievo l’importanza di questa formulazione, perché non fosse soggetta non solo a critiche, ma anche ad equivoci e speculazioni, e fece in proposito inserire a verbale le sue riserve. È evidente che con tutto quello che precede si è stabilita una priorità di valutazione morale per i lavoratori; ma per il fatto stesso che i due contraenti, per stipulare il contratto, debbono essere sullo stesso piede giuridico, è evidente che, tenendo presente questa esigenza, bisogna avere il coraggio di chiamare le cose col loro nome, e di usare una formulazione che non pecchi per proprietà di linguaggio.

DI VITTORIO, Relatore, obietta all’onorevole Fanfani che quanto è statuito negli articoli precedenti si riferisce al sistema assicurativo; si tratta, in sostanza, di assistenza sociale, di carità, di umanità; ma ora si vuole affermare nella Costituzione il concetto che il sindacato dei lavoratori e quello dei datori di lavoro sono due personalità giuridiche uguali, e questo socialmente non è ammissibile; prima di tutto per l’entità numerica dei due istituti; in secondo luogo perché il sindacato dei lavoratori tutela interessi di carattere collettivo, sociale, che non sono solo gli interessi di una comunità, ma di tutto l’insieme nazionale; invece quello dei datori di lavoro difende più precisamente gli interessi della categoria, magari in contrasto con quelli della società.

Non ha voluto chiaramente specificare questo concetto e si è limitato a porre in un piano più elevato questo strumento che difende gli interessi di carattere collettivo. Chiede ai giuristi che trovino la formula più adatta per esprimere questo concetto.

PRESIDENTE si dichiara d’accordo con l’onorevole Di Vittorio; ma quanto al riconoscimento giuridico, se ne faccia un comma o due, non vi deve essere differenza tra i due sindacati.

I primi tre articoli approvati dànno al lavoratore un posto a sé stante, e se questa è la tecnica generale seguita nella Costituzione, gli pare che convenga fare due commi e dire:

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

«Ai sindacati dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica».

MARINARO ricorda come la discussione, a questo proposito, sia stata ampia. Sul principio era stato quasi raggiunto l’accordo con l’affermare una certa preminenza dei sindacati dei lavoratori nei confronti di quelli dei datori di lavoro. Egli però osservò che ciò non corrispondeva ai principî di uno Stato democratico. Tornato l’onorevole Di Vittorio, ripeté che non si dovevano mettere i due sindacati su un piano di disuguaglianza, specialmente ai fini della stipulazione dei contratti collettivi. L’onorevole Di Vittorio accettò che in linea di principio si dovessero riconoscere questi sindacati dei datori di lavoro, ma voleva trovare una formula che, senza dirlo esplicitamente, accordasse una certa preminenza ai sindacati dei lavoratori, e si formulò un comma che diceva: «Tale riconoscimento è esteso ai datori di lavoro».

Poiché questa formula non fu trovata pienamente soddisfacente si disse: «La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro». Dichiara però che preferirebbe tornare alla precedente formula, perché la ritiene migliore.

FANFANI, tenendo presente quanto ha detto l’onorevole Di Vittorio, e condividendo la sua preoccupazione di conferire ai lavoratori un mezzo particolarmente efficace per la tutela dei loro interessi, propone:

«L’organizzazione sindacale è libera. In essa si riconosce un mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.

«Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla legge, ma senza imposizione di altro obbligo all’infuori di quello della registrazione.

«Le rappresentanze sindacali unitarie formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

DOMINEDÒ ritiene esatto il concetto dell’onorevole Fanfani, perché, pur tenendo conto della particolare rilevanza sociale delle associazioni sindacali dei lavoratori, ciò non esclude che, nel momento in cui si pongono sul piano giuridico, i due sindacati debbano essere in condizioni di parità. Pensa che si possa far precedere la disposizione da una formula che ponga in evidenza la particolare funzione di carattere sociale delle associazioni dei lavoratori. Si potrebbe, ad esempio, dire: «L’organizzazione sindacale, quale mezzo necessario per la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è libera».

PRESIDENTE propone che si formuli un solo articolo:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori è riconosciuta la personalità giuridica.

«Anche ai sindacati dei datori di lavoro può essere riconosciuta la personalità giuridica.

«Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo all’infuori di quello della registrazione.

«Soltanto le rappresentanze unitarie, riconosciute dalla legge, costituite in proporzione degli iscritti, hanno facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli interessati».

FANFANI insiste nella sua formulazione. Riconosce l’opportunità che in sede costituzionale si dia particolare riconoscimento al fatto che, nell’attuale organizzazione economica, i lavoratori hanno bisogno in modo assoluto di una speciale tutela, ed il mezzo atto a garantire la tutela dei diritti dei lavoratori è il sindacato. Si inseriscano pertanto nella Costituzione uno o più articoli sulla materia sindacale. Va però riconosciuto che esistono anche delle organizzazioni sindacali di datori di lavoro; sorge il problema se sia conveniente dare a queste altre organizzazioni, aventi scopi, base e importanza diversa ai fini dell’organizzazione economica nazionale e quindi collettiva, pieno riconoscimento giuridico.

Aggiunge che, essendo possibile una molteplicità di sindacati di fatto, pur essendovi la tendenza al sindacato unico preminente, occorre prendere accorgimenti per arrivare alla rappresentanza unitaria di categoria, sulla base delle organizzazioni sindacali registrate e riconosciute, la quale sarà chiamata a stipulare i contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, siano o non siano iscritti nella organizzazione.

Il primo concetto è adombrato nel primo comma del primo articolo approvato in forma tale da lasciar perplessi, perché sembra che solo il sindacato dei lavoratori sia riconosciuto come organo di difesa e tutela, il che non è vero, perché anche i sindacati dei datori di lavoro agiscono per interessi economici e morali.

Nel secondo articolo si dice: «Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali».

È la prima volta che si parla di questi organi che non si sa come siano costituiti.

DI VITTORIO, Relatore, chiarisce che nella sua relazione è detto che si dovrebbe costituire un Consiglio nazionale del lavoro, il quale rappresenterebbe col Governo tutte le forze produttrici della Nazione.

FANFANI ricorda la sua proposta di un Consiglio economico, che fu fatta respingere dall’onorevole Pesenti.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che l’avrebbe respinta anche lui, perché un Consiglio economico è cosa molto diversa dal Consiglio nazionale del lavoro.

FANFANI, comunque, ripete che si parla di questo organo senza darne una definizione.

Riassumendo le esigenze manifestatesi nella discussione, e per andare incontro ai desideri del Relatore, propone un articolo, sostitutivo dei due già approvati, così formulato:

«L’organizzazione sindacate è libera.

«Essa costituisce un mezzo per la difesa e la tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori.

«Ai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica alle condizioni previste dalla legge, con l’obbligo della registrazione.

«Le rappresentanze unitarie di categoria, costituite dai sindacati registrati in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

MOLÈ ritiene il secondo comma una definizione del sindacato e, come tale, inutile.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di preferire la formula proposta dal Presidente, perché più chiara.

PRESIDENTE riconosce l’opportunità di fare un solo articolo. Propone il seguente:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali della classe, è riconosciuta la personalità giuridica.

«La personalità giuridica è riconosciuta anche ai sindacati dei datori di lavoro.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

«Soltanto le rappresentanze sindacali unitarie, riconosciute dalla legge e costituite in proporzione agli iscritti ai sindacati della categoria, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di approvare la formula, meno la parola «soltanto» per impedire che, se in avvenire si formano tre sindacati, dei quali uno può essere anche posticcio e costituito dagli stessi datori di lavoro, opponendosi questo a partecipare alle trattative con la scusa di non ritenerle opportune, verrebbe ad essere impedita la stipulazione del contratto collettivo. Quel «soltanto» indica che dovrebbero partecipare alle trattative tutte le rappresentanze.

TOGNI pensa che non si possa limitare il riconoscimento solo alla registrazione.

MOLÈ afferma di non vedere il pericolo accennato dall’onorevole Di Vittorio, perché lo Stato, nel dare il riconoscimento, deve accertare che il sindacato sia effettivo.

DOMINEDÒ aggiungerebbe al secondo comma la seguente formula: «La personalità giuridica è egualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro». Resterebbe così abolito il terzo comma.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda che nella sua relazione aveva proposto di riconoscere i sindacati dei lavoratori come enti di interesse collettivo.

FANFANI osserva all’onorevole Di Vittorio che non è sempre vero che siano solo i sindacati dei lavoratori a difendere l’interesse nazionale.

DOMINEDÒ sostituirebbe, nella formala proposta dal Presidente, la parola «categoria» a quella di «classe».

PRESIDENTE trattandosi di una enunciazione generica ritiene che la parola «categoria» abbia un significato più ristretto.

DI VITTORIO, Relatore, propone che il secondo comma sia così formulato: «I sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali della classe, sono riconosciuti enti di interesse. collettivo».

Nel comma successivo si direbbe: «Ai sindacati dei lavoratori ed ai sindacati dei datori di lavoro è riconosciuta la personalità giuridica».

FANFANI osserva all’onorevole Di Vittorio che quando propose che i sindacati fossero riconosciuti «enti di interesse collettivo» i giuristi della Sottocommissione fecero notare che la formula non aveva significato giuridico.

DI VITTORIO, Relatore, obietta che il riconoscere i sindacati dei lavoratori quali enti di interesse collettivo è un fatto che non ha un valore giuridico, ma morale.

DOMINEDÒ non ritiene opportuno di esprimere un’esigenza morale attraverso una formulazione giuridicamente incongrua.

FANFANI per esprimere il concetto dell’onorevole Di Vittorio, pensa che potrebbe essere usata la seguente formula: «È riconosciuta la preminenza degli interessi tutelati dai sindacati dei lavoratori». Nel comma successivo si potrebbe dire «Ai sindacati dei lavoratori ecc.».

DOMINEDÒ, allo scopo di compiere un ulteriore tentativo verso l’intesa, proporrebbe la seguente formula intermedia:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e tutela dei loro diritti ed interessi economici, professionali e morali, è riconosciuta la personalità giuridica. La personalità giuridica è ugualmente riconosciuta ai sindacati dei datori di lavoro.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

«Le rappresentanze sindacali unitarie, costituite dai sindacati registrati in proporzione dei loro iscritti, stipulano contratti di lavoro aventi efficacia obbligatoria verso tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

PRESIDENTE pone ai voti questo articolo, che sostituisce i due ultimi approvati.

(È approvato all’unanimità).

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Di Vittorio, Dominedò, Fanfani, Ghidini, Marinaro, Molè, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Canevari, Giua.

Assenti: Colitto, Federici Maria, Merlin Angelina, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Taviani.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

33.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL DEPUTATO GIUA

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente – Togni.

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Canevari – Di Vittorio, Relatore – Rapelli, Correlatore – Dominedò – Togni – Mole.

La seduta comincia alle 17.45.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che per il giorno 25 corrente è convocata la Commissione per la Costituzione per discutere i 19 articoli sui diritti, approvati dalla prima Sottocommissione.

TOGNI non può approvare la decisione della Presidenza delle Commissioni, ritenendo inopportuna la discussione sui 19 articoli approvati dalla prima Sottocommissione senza che la terza abbia terminato i suoi lavori, che sono strettamente connessi agli articoli suddetti.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE dà lettura dell’articolo 2 proposto dall’onorevole Di Vittorio:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«All’organizzazione sindacale non può essere imposto altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali o centrali.

«Ai sindacati è attribuito il compito di stipulare contratti collettivi di lavoro secondo quanto è stabilito dalla legge».

Dà lettura della proposta dell’onorevole Rapelli: «L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie di ciascuna e detterà le norme relative».

Legge poi la formulazione proposta dall’onorevole Canevari: «L’organizzazione sindacale è libera. Al fine della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati, la legge regolerà la formazione delle rappresentanze unitarie scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati e detterà le norme relative».

CANEVARI dichiara di modificare la sua proposta, accettando la formula proposta dall’onorevole Rapelli: «La legge regolerà la formazione delle rappresentanze sindacali unitarie e determinerà le norme relative». Rimane così maggiormente specificato che le rappresentanze unitarie vanno scelte nei sindacati a carattere unitario.

Nella proposta Rapelli però si dice «che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla stessa categoria», mentre preferirebbe la sua espressione «per tutti gli interessati», perché vi può essere un contratto collettivo con una determinata impresa che interessa differenti categorie di lavoratori: ad esempio, muratori, meccanici, ecc.

PRESIDENTE avverte che anche l’onorevole Colitto ha presentato una proposta: «L’associazione professionale è libera (comprendendo in associazione professionale anche i sindacati). La legge ne preciserà i poteri. Il contratto collettivo di lavoro ha valore di legge».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di non essere contrario alla formulazione Rapelli, ma vorrebbe renderne più chiaro il concetto. Occorre precisare che il compito di stipulare i contratti collettivi di lavoro spetta all’associazione sindacale, ma che il modo di formare la commissione che deve stipularli e renderli obbligatori per tutti gli appartenenti al settore, è determinato dalla legge.

Non può approvare integralmente la proposta Canevari. Vi si dice che «le rappresentanze saranno scelte nell’orbita dei rispettivi sindacati»; ora si presupporrebbe che un organo estraneo facesse la scelta, mentre il sindacato è un organismo che ha una sua rappresentanza di carattere permanente; esso è completo dalla base al vertice della piramide amministrativa, quindi ha tutti i poteri rappresentativi.

Però una volta riconosciuta ai sindacati la personalità giuridica, si chiede quale è il sindacato che ha la facoltà di stipulare il contratto collettivo. Nella sua relazione ha considerato il problema e ne ha cercato la soluzione più democratica, conferendo tale facoltà al sindacato maggioritario; ma, per non conculcare il diritto delle minoranze, i sindacati minoritari hanno il diritto di partecipare con propri rappresentanti, in proporzione al numero dei propri iscritti; di modo che la Commissione che stipula il contratto è composta in modo proporzionale dai rappresentanti di tutti i sindacati della categoria. Questo per non lasciare al legislatore la facoltà, in avvenire, di comporre la commissione anche con persone al di fuori dei sindacati. Occorrerà, a suo avviso, rendere più chiaro questo concetto di proporzionalità.

RAPELLI, Correlatore, osserva che in questo modo la rappresentanza unitaria non c’è più.

DOMINEDÒ afferma esistere fra lui e l’onorevole Di Vittorio un dissenso sostanziale, derivante dal fatto che questi, movendo dal presupposto che tutti i sindacati siano forniti di piena personalità giuridica, non esclude che sindacati plurimi possano avere la potestà normativa, salvo a scegliere fra essi quello da cui tale potestà sarà efficacemente esercitata.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che tutti debbono partecipare col sindacato scelto.

DOMINEDÒ rileva che è così apparentemente, ma in sostanza viene scelto quello maggioritario, al quale si dà il potere normativo, mentre la rappresentanza degli altri sarebbe presente, ma non partecipante alla stipulazione. A suo avviso la potestà normativa non può che far capo ad un sindacato che rappresenti tutta la categoria. La potestà normativa spetta allo Stato e questo può non delegarla che ad un soggetto pubblico espresso legalmente dalla categoria. Ma perché lo Stato deleghi questa potestà normativa occorre che l’ente di categoria rappresenti la medesima nella sua interezza. Se così non fosse, non sarebbe rispettato il criterio democratico, il quale esige che, attraverso la volontà della maggioranza, si crei un organo che rappresenti la collettività. Occorre pur questo sindacato unitario e non ammettere che un sindacato di parte, solo perché comprenda il 51 per cento degli appartenenti alla categoria, possa dettare norme agli altri.

Ritiene che una concezione maggioritaria non corrisponda né alle esigenze giuridiche, né a quelle politiche. Ricorda che la legge sindacale del 1926 faceva altresì capo ad un sindacato maggioritario, perché, in sostanza, contemplava la possibilità di una pluralità di sindacati; ma era riconosciuto per legge quel sindacato che aveva un numero determinato di aderenti e così fu legalizzato il primo sindacato maggioritario che dettasse norme anche ai non iscritti.

Prega, quindi, il Relatore di aderire alla concezione di un sindacato unitario aperto a tutti i lavoratori, munito di personalità giuridica di diritto pubblico, il quale verrebbe ad ottenere il riconoscimento della potestà di stipulare i contratti collettivi.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che le argomentazioni dell’onorevole Dominedò si fondano sul fatto di attribuire a lui il concetto che il sindacato maggioritario è quello che deve dettare le norme. Può darsi che alcune formulazioni della relazione possano far pensare a ciò; ma dichiara nel modo più esplicito che, quando parla di rappresentanza proporzionale dei sindacati, intende dire che nella Commissione che stipulerà il contratto vi sarà un numero di rappresentanti di ciascun sindacato proporzionale al numero dei propri iscritti; quindi nessun diritto prevalente al sindacato maggioritario, se non nella misura che questo diritto gli proviene dal fatto di rappresentare un maggior numero di aderenti.

Se invece si vuole arrivare al sindacato unico, questo deve essere obbligatorio e, per essere obbligatorio, deve violare la libertà sindacale.

Pensa che sia inutile la discussione sul sindacato unico obbligatorio di diritto pubblico, perché è aspirazione dei lavoratori di raggiungere la loro unità; ma l’unità è effettiva e benefica quando non è effetto di costrizione. Del resto attualmente esiste un sindacato unico, ma volontario, e nella prospettiva che vi possa essere la pluralità, si afferma il principio più assoluto della libertà sindacale e si stabilisce che anche le minoranze debbono farsi valere in proporzione delle loro forze. Se si stabilisse una rappresentanza unitaria indipendentemente dal numero degli iscritti, potrebbe riuscir facile a chiunque di costituire tanti piccoli sindacati, che metterebbero in minoranza il sindacato che raccoglie il maggior numero di aderenti.

Eliminato il dubbio del collega Dominedò, e affermato il principio, che è pronto a tradurre in un articolo della Costituzione, della rappresentanza proporzionale di tutti i sindacati riconosciuti, pensa che si possa porre termine alla discussione.

DOMINEDÒ osserva che l’onorevole Di Vittorio aggiunge così qualche cosa alla sua relazione: in essa si parla di sindacati plurimi e si riconosce fra essi la facoltà normativa a quello maggioritario.

DI VITTORIO, Relatore, riconosce di aver fatto un passo avanti, ma solo per dare maggior chiarezza al suo pensiero.

Un’altra sua preoccupazione è quella della formulazione del contratto collettivo, che una volta stipulato, non è perfetto, ed occorre un organismo che lo interpreti e lo adatti: questo è un ruolo particolare del sindacato che rappresenta la maggioranza degli organizzati.

CANEVARI dichiara di aver tenuto presenti le proposte dell’onorevole Di Vittorio. La differenza tra queste e le sue consiste nella formazione della rappresentanza, in quanto, nella seduta precedente, sì è ritenuto che la rappresentanza dei sindacati sia piuttosto materia di legislazione che di Carta costituzionale. L’onorevole Di Vittorio mostra delle preoccupazioni sul sindacato unico, perché ricorda che tale sindacato fu realizzato in periodo fascista, e gli sembra che sia condannabile in quanto non sarebbe libero. Egli invece ritiene possibile un sindacato unitario e libero.

DI VITTORIO, Relatore, fa presente che questo sindacato unitario libero già esiste, ed è la Confederazione generale del lavoro.

CANEVARI afferma che nella proposta da lui presentata insieme all’onorevole Rapelli, si è preoccupato proprio di questa unità, lasciando ai sindacati unitari la facoltà di stipulare i contratti collettivi. Le osservazioni fatte dall’onorevole Di Vittorio successivamente, portano a considerare che alle trattative possano partecipare le rappresentanze di altri sindacati in proporzione al numero degli iscritti. Tenendo conto di questo concetto, sottopone all’esame della Sottocommissione la seguente formula: «La stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati, è demandata al sindacato unitario o maggioritario con la rappresentanza proporzionale degli altri sindacati. La legge emanerà le norme relative».

DI VITTORIO, Relatore, propone la seguente formula che, a suo avviso, può soddisfare le esigenze di tutti: «Le rappresentanze sindacali formate in proporzione degli iscritti stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati». Con questa formula scompare ogni concetto maggioritario e rimane quello proporzionale.

TOGNI dichiara che la preoccupazione che muove l’onorevole Di Vittorio, ed ancor più l’onorevole Canevari, nei riguardi di chi deve avere l’iniziativa della costituzione di questo organo composto di rappresentanze proporzionali agli iscritti ai singoli sindacati, non ha ragione di essere quando si consideri il quadro generale, come si delinea già negli articoli proposti, che integrano la parte sindacale con l’ordinamento del lavoro. Tale ordinamento farà capo a un determinato Consiglio nazionale del lavoro, che è già proposto in un articolo, presso il quale devono essere denunziati e registrati i sindacati per accertare la loro potenzialità numerica. Perciò, in definitiva, quando un sindacato vorrà iniziare trattative per un contratto collettivo, si rivolgerà a questo organo perché venga costituita una rappresentanza la quale discuterà in via definitiva, concluderà il contratto, lo sottoscriverà per tutta la categoria.

In questo modo si evita la parola «maggioritario», che può lasciar sussistere il dubbio che l’iniziativa competa esclusivamente al sindacato maggioritario, mentre invece può esser presa da qualunque sindacato, salvo poi a far svolgere le trattative dal sindacato che ha la rappresentanza giuridica di tutta la categoria.

CANEVARI fa considerare che con la libertà sindacale si potrà avere non un solo sindacato unitario, ma diversi sindacati che si affermino tali, in quanto il sindacato unitario è quello nel cui seno sono ammessi indistintamente tutti i lavoratori di una categoria. Se tale condizione è prevista nello statuto di più sindacati, si avranno più sindacati unitari. Si tratterà allora di scegliere il sindacato che, oltre ad avere la caratteristica della generalità, rappresenti anche la maggioranza degli interessati.

DI VITTORIO, Relatore, propone la seguente formula:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro locali e centrali.

«Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano contratti di lavoro che dovranno avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

MOLÈ ritiene che l’articolo proposto debba essere messo d’accordo con quello approvato nella seduta antimeridiana.

La sua preoccupazione è che, stabilito che il contratto lo può fare soltanto questa rappresentanza unitaria, e che ad ogni sindacato è riconosciuta la personalità giuridica, si restringa la libertà del sindacato, perché lo Stato potrà intervenire e fissare per legge le modalità della vita interna del sindacato. La personalità giuridica dovrebbe essere riconosciuta soltanto per la stipulazione del contratto.

DI VITTORIO, Relatore, a suo avviso, la personalità giuridica del sindacato deve avere tre scopi: dare facoltà ai sindacati di stipulare i contratti collettivi; dar loro diritto di costituirsi in giudizio; dare la facoltà di possedere dei beni.

MOLÈ pensa che allora l’affermazione della libertà deve essere fatta prima che ne sia determinata la garanzia.

DI VITTORIO, Relatore, propone di modificare la formulazione in questo senso: «La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro».

A tale articolo seguirebbe l’altro: «L’associazione sindacale è libera ecc.»; verrebbe poi la parte riguardante i contratti di lavoro.

In sostanza, un articolo risolverebbe il problema della personalità giuridica e l’altro, nei limiti di questo riconoscimento, darebbe la facoltà di stipulare i contratti.

Il primo articolo risulterebbe così formulato: «Ai sindacati, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici professionali e morali dei lavoratori, viene riconosciuta la personalità giuridica.

«La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro».

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dall’onorevole Di Vittorio, che sostituisce l’articolo approvato nella seduta precedente.

DOMINEDÒ dichiara che si asterrà dalla votazione per una questione di principio. A suo parere, il riconoscimento della personalità di diritto pubblico deve spettare esclusivamente all’organo che emana le norme. Aggiunge che il riconoscimento ha il suo pro e il suo contra; se il pro è rappresentato dalla possibilità di disporre di beni, il contra è rappresentato dalla possibilità di un intervento dell’autorità tutoria. È insopprimibile il concetto della vigilanza, una volta concessa tale la personalità giuridica.

DI VITTORIO, Relatore, pensa che i concetti possano mutare col mutare della Costituzione. Come è detto nell’articolo successivo, l’intervento dello Stato è limitato alla registrazione delle organizzazioni sindacali.

CANEVARI dichiara di votar contro in quanto non può ammettere un intervento dello Stato.

PRESIDENTE avverte che qualora non sia approvata la formula proposta dall’onorevole Di Vittorio, rimarrà quella approvata nella seduta antimeridiana. Fa presente che la Commissione può modificare un articolo già approvato qualora il Relatore non si opponga.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di rinunciare ad ogni opposizione. Riconosce che la nuova formula è più efficace e, senza ripetere concetti già affermati, permette di mantenere la formulazione del secondo articolo.

Riguardo alla preoccupazione dell’onorevole Canevari fa presente che, appunto per ovviarvi, ha voluto con l’articolo successivo sancire nella Costituzione, che è la legge più importante dello Stato, che il sindacato è libero e che unico obbligo dei sindacati è quello della registrazione.

CANEVARI pone ai colleghi giuristi il quesito se i sindacati possano, mediante norme legislative, compiere quegli atti essenziali dichiarati dall’onorevole Di Vittorio senza ricorrere ad un riconoscimento della personalità giuridica.

DOMINEDÒ risponde che la giurisprudenza già viene incontro a questa esigenza, almeno nei riguardi dell’autonomia patrimoniale di diritto privato. Per quanto riguarda invece i contratti collettivi, questi non possono essere stipulati se non vi è il riconoscimento formale della personalità giuridica e della rappresentanza legale di categoria. Tuttavia, non è escluso che, anche in mancanza di questo riconoscimento, si possa costituire una specie di unione patrimoniale e personale, secondo i risultati più recenti dell’evoluzione giuridica. Basti pensare alle società civili che, rispetto a quelle commerciali, sono considerate dalla legge come un’unione di beni, pur non avendo una personalità giuridica formale. Nella personalità giuridica si ha un ente distinto dai componenti; qui invece, non essendovi l’ente distinto dai soci che lo compongono, la legge riconosce a questo insieme di soci il fatto di rappresentare una tale unità da potere nel loro insieme e pro quota essere acquirenti di beni.

DI VITTORIO, Relatore, ricorda che vi è una terza esigenza del sindacato, quella di costituirsi in giudizio.

DOMINEDÒ afferma che questo problema è facilmente solubile, in quanto la giurisprudenza, anche in materia di società di fatto che non hanno personalità giuridica, riconosce al presidente il mandato tacito nei confronti di tutti i componenti la società. Pertanto, a fortiori, lo stesso si deve verificare per le associazioni sindacali.

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara disposto a rinunciare, con una nuova formula, al riconoscimento della personalità giuridica, purché si assicuri al sindacato il diritto alla stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, alla difesa in giudizio ed al possesso di beni.

DOMINEDÒ conferma che non vi sono difficoltà insuperabili per quanto riguarda la difesa in giudizio e l’acquisto di beni: si tratta di diritti già riconosciuti alle società civili. Per quanto riguarda i contratti collettivi, si intende che questi debbono essere stipulati da un organo che sia al di sopra dei sindacati e ne esprima la volontà e la reale consistenza. L’onorevole Di Vittorio accennava ad una commissione rappresentativa dei sindacati; da parte del suo gruppo si è parlato di rappresentanze unitarie. Ritiene che su questa base non sia impossibile giungere ad un accordo. Se la commissione, se rappresentanze unitarie fossero chiamate col loro vero nome, cioè sindacato dei lavoratori dei datori di lavoro al quale è riconosciuta la rappresentanza unitaria della categoria, la questione sarebbe risolta.

A conclusione proporrebbe la seguente norma: «L’organizzazione sindacale è libera. La legge regolerà la costituzione del sindacato di lavoratori e del sindacato di datori di lavoro, ai quali è riconosciuta la rappresentanza unitaria della categoria ed è devoluto il potere di stipulare contratti collettivi di lavoro aventi efficacia obbligatoria per tutti gli interessati».

Con questa formulazione giuridica si esprimerebbe in forma tecnica il concetto che risulta già implicito nella parola «commissione» e nelle parole «rappresentanza unitaria», come ha proposto l’onorevole Canevari.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che il concetto del sindacato unico, presupposto nella formulazione che si propone, è contrario alla libertà sindacale che deve essere conciliata con la rappresentanza di tutti gli interessi, nessuno escluso.

DOMINEDÒ chiede all’onorevole Di Vittorio se ritiene che il potere di stipulare contratti collettivi possa essere affidato a più 5 sindacati.

DI VITTORIO, Relatore, risponde affermativamente, nel senso che tale facoltà sia attribuita ad una commissione unitaria (intersindacale); ma questa non potrebbe avere per se stessa il riconoscimento giuridico che spetta soltanto al sindacato.

Secondo la formulazione dell’onorevole Dominedò potrebbe accadere che, anche nel corso di un anno, il sindacato al quale è riconosciuta la rappresentanza unitaria diventasse minoritario. Ciò nonostante esso potrebbe stipulare un contratto di lavoro obbligatorio anche nei confronti di una maggioranza ostile, il che costituirebbe una violazione della libertà.

DOMINEDÒ replica che il potere di stipulare contratti collettivi con efficacia vincolante verso tutti gli appartenenti alla categoria non possa essere affidato che ad un soggetto di diritto pubblico riconosciuto dallo Stato: questa è la vera e suprema difesa della libertà.

DI VITTORIO, Relatore, legge la formula definitiva dei due articoli proposti:

Art. …

Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori stessi, è riconosciuta la personalità giuridica.

La legge fisserà le condizioni del riconoscimento giuridico delle associazioni professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Art. …

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che quello della registrazione presso organi del lavoro, locali e centrali.

Le rappresentanze sindacali unitarie, formate in proporzione agli iscritti, stipulano i contratti collettivi di lavoro che devono avere efficacia obbligatoria per tutti gli interessati.

TOGNI per quanto riguarda il terzo comma del secondo articolo, che in particolare interessa, trova che la formulazione Di Vittorio è la più felice. Circa il secondo comma dello stesso articolo fa presente che, a suo avviso, non si può limitare il rapporto tra Stato e sindacati solamente alla registrazione. Anche negli Stati più democratici vi sono esigenze di intervento formale, come, ad esempio, l’obbligo di tenere i prescritti libri, quello di una regolare contabilità ecc. Comunque, su questo punto occorrerà una formulazione tale che non inserisca nella Costituzione norme che contrastino col diritto. La formulazione presenta caratteristiche e responsabilità non indifferenti; in essa vanno tenuti presenti il diritto di associazione professionale e sindacale ed il fine di questa associazione. Deve essere integrato e completato il diritto con l’affermazione della libertà della organizzazione sindacale. Punto cruciale è la possibilità di sottoscrivere contratti collettivi.

Pensa che la formulazione più adatta e rispondente sarà possibile trovarla in quanto il Relatore consenta a rivedere l’enunciazione della norma.

DI VITTORIO, Relatore, afferma che nella sua lunga vita sindacale, vissuta in Francia, in Germania, in Olanda e in altri paesi, ha notato che lo Stato non si ingerisce dell’ordinamento interno dei sindacati. In Francia il sindacato è giuridicamente riconosciuto, ha il diritto di acquistare beni e di costituirsi in giudizio, e l’unica limitazione da parte dello Stato sta nella disposizione che gli organi dirigenti dei sindacati debbono essere ricoperti da cittadini francesi. Questo può spiegare che, affermando che non deve esserci altro obbligo che quello della registrazione, non si dice un’eresia.

PRESIDENTE pone ai voti il primo articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio che modifica quello votato nella seduta antimeridiana.

(È approvato).

Mette ai voti il secondo articolo proposto dall’onorevole Di Vittorio.

(È approvato).

TOGNI dichiara, anche a nome degli onorevoli Rapelli, Federici e Dominedò, che si sono astenuti dal votare, sia perché ritengono che la materia debba essere discussa e definita con una maggiore preparazione e ponderatezza, sia perché la votazione è avvenuta, a loro parere, in modo eccessivamente precipitoso, quando ancora la discussione non era esaurita. Pertanto si riservano di ritornare, in sede di coordinamento della stessa terza Sottocommissione, sull’argomento.

MOLÈ dichiara che, pur avendo fatto delle riserve su alcuni punti, ha votato a favore in quanto si era rimasti d’accordo sui principî generali.

Si riserva di ritornare sull’articolo in sede di coordinamento.

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Canevari, Di Vittorio, Dominedò, Federici Maria, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Rapelli, Togni.

Assenti: Colitto, Fanfani, Lombardo, Paratore, Taviani.

Assente giustificato: Ghidini.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

32.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 17 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL DEPUTATO GIUA

INDICE

Comunicazioni del Presidente

Presidente.

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Seguito della discussione)

Presidente – Di Vittorio, Relatore – Molè – Rapelli, Correlatore – Marinaro – Togni – Merlin Angelina – Noce Teresa – Dominedò.

La seduta comincia alle 10.20.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE comunica che è rientrato a far parte della Sottocommissione l’onorevole Di Vittorio, che era stato temporaneamente sostituito dall’onorevole Assennato.

Seguito della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

PRESIDENTE riassume la discussione svoltasi nelle precedenti riunioni e invita l’onorevole Di Vittorio a precisare quali degli articoli proposti nella sua relazione egli intenda mantenere.

DI VITTORIO, Relatore, ritiene che si possa rinunciare all’articolo 1 ed ai primi due commi dell’articolo 2, in quanto il loro contenuto è già stato fissato in articoli formulati dalla prima Sottocommissione. Per il resto, salvo rettifiche di forma, dichiara di mantenere nella sostanza l’articolazione proposta, poiché è d’avviso che la Costituzione – la quale ha il compito di determinare i principî essenziali dei diritti dei cittadini e della collettività – deve riconoscere ai sindacati la loro funzione più naturale, cioè la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro. Poiché tali contratti debbono avere efficacia giuridica e quindi essere obbligatori per tutta la categoria cui si riferiscono, ne deriva che il sindacato, per avere il diritto di stipularli, deve avere il riconoscimento della personalità giuridica. Però nello stabilire le condizioni di questo riconoscimento, si dovrà nel medesimo tempo garantire l’indipendenza, l’autonomia, la libertà del sindacato, senza di che esso perderebbe il suo carattere peculiare. Il solo obbligo che possa essere imposto al sindacato riconosciuto, al quale è attribuito il diritto di stipulare contratti di lavoro, è quello della registrazione e del controllo, per impedire che uno pseudo-sindacato possa attribuirsi dei diritti senza avere una consistenza effettiva. Occorre cioè un organo il quale accerti che un dato sindacato abbia efficienza e caratteri di indipendenza, autonomia e libertà per gli iscritti. Nella sua relazione ha anche affermato il concetto che questo controllo, diretto ad accertare l’efficienza numerica del sindacato, debba essere attribuito, come la registrazione, ad organismi del lavoro, cioè al Consiglio nazionale del lavoro o al Consiglio superiore del lavoro ed ai suoi organi locali che possono essere regionali, provinciali, ecc., e ciò per escludere nel modo più esplicito che i sindacati possano essere sottoposti al controllo di organi di polizia, o comunque passibili di abusi e di ingerenze indebite da parte dello Stato.

Dichiara di non accettare il punto di vista dell’onorevole Molè, essendo contrario a costituire un altro organo per la stipulazione del contratto di lavoro, che è specifica funzione naturale del sindacato.

Conclude, affermando esplicitamente la necessità che i contratti collettivi di lavoro siano stipulati dai sindacati e obbligatori per tutti gli appartenenti alle categorie.

MOLÈ rileva che, con la formulazione proposta dall’onorevole Di Vittorio: «Ai sindacati professionali dei lavoratori e dei datori di lavoro che ne facciano richiesta, è riconosciuta la personalità giuridica», si incorre nel pericolo di pseudo-sindacati non effettivamente rappresentativi degli interessi dei lavoratori.

DI VITTORIO, Relatore, dato che nel comma successivo è detto: «La legge che fisserà le condizioni di tale riconoscimento dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati», ritiene che, automaticamente, siano esclusi quei sindacati che non diano le necessarie garanzie.

MOLÈ è d’avviso che sia necessario determinare se il sindacato debba essere unico o plurimo, in quanto, se non si fissa il criterio del maggior numero di iscritti, o della rappresentanza unitaria, ogni sindacato potrebbe assumersi il diritto di stipulare contratti collettivi di lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, essendo fautore della libertà sindacale, ammette l’esistenza dei sindacati plurimi; non tutti i sindacati hanno, però, il diritto di stipulare il contratto di lavoro, ma solo quello maggioritario con rappresentanza proporzionale dei sindacati di minoranza. Ciò dà modo a tutti i sindacati che hanno una base di serietà, e sono quindi riconosciuti – e la legge deve determinare le condizioni di questo riconoscimento – di stipulare i contratti collettivi.

MOLÈ constata che in tal modo i contratti collettivi non vengano stipulati dai sindacati singoli, ma da quelli unificati attraverso le rappresentanze unitarie.

RAPELLI, Correlatore, rileva che il concetto di rappresentanza unitaria è implicito anche nella relazione dell’onorevole Di Vittorio; le modalità pratiche di attuazione, e tutti i problemi connessi, potranno essere riservati al futuro legislatore. Allo stato attuale dei fatti non dovrebbe esistere alcuna preoccupazione, in quanto il concetto del sindacato maggioritario non è permanente ed un sindacato, che in un dato momento è maggioritario, può divenire successivamente minoritario. Ritiene quindi che il criterio di rappresentanza unitaria possa essere accettato dall’onorevole Di Vittorio; accedendo, se mai, al punto di vista dell’onorevole Canevari, nel senso di limitare la rappresentanza al solo ambito sindacale.

PRESIDENTE richiama l’attenzione dell’onorevole Di Vittorio sul terzo comma del suo articolo 2: «I sindacati dei lavoratori, quali organi di auto-difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, sono riconosciuti enti d’interesse collettivo».

A suo avviso tale comma potrebbe essere così modificato: «Ai sindacati dei lavoratori quali organici, ecc… è riconosciuta la personalità giuridica».

MOLÈ dichiara di preferire questa seconda formulazione, in quanto la dizione «enti d’interesse collettivo» potrebbe lasciare aperta la strada ad interventi statali.

PRESIDENTE ritiene che al comma così modificato si potrebbe aggiungere il secondo dell’articolo 3: «La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati», facendo dei due commi un articolo a sé.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di essere d’accordo.

MARINARO invita l’onorevole Di Vittorio a voler considerare nella stessa posizione i sindacati dei lavoratori e quelli dei datori di lavoro. In tale caso sarebbe disposto a ritirare il suo ordine del giorno.

DI VITTORIO, Relatore, è del parere che i sindacati dei lavoratori, come associazioni della parte dei cittadini economicamente più debole, abbiano maggior bisogno di protezione. Del resto il trattamento di preminenza fatto ai sindacati dei lavoratori ha anche la sua ragione d’essere nella diversità numerica che esiste fra questi e i sindacati dei datori di lavoro.

MARINARO ritiene che tale criterio potrà essere tenuto presente nella legislazione ordinaria, mentre nella Costituzione si dovrebbe sancire che tutti i sindacati, sia dei lavoratori che dei datori di lavoro, hanno diritto alla stessa tutela.

PRESIDENTE prega l’onorevole Marinaro di voler considerare l’opportunità di non insistere nella sua richiesta.

MARINARO ritiene che le osservazioni dell’onorevole Di Vittorio siano più di natura politica che di carattere economico. Il riconoscere una certa preminenza ai sindacati dei lavoratori, nei confronti di quelli dei datori di lavoro, intacca uno dei principî basilari dello Stato democratico, dato il presupposto di uguali diritti ed uguali doveri. Se in una norma statutaria si parlasse esclusivamente di sindacati dei lavoratori, si darebbe l’impressione di aver voluto sancire appositamente per essi una posizione di preminenza.

TOGNI fa osservare che, se si stabilisce il riconoscimento della personalità giuridica dei sindacati dei lavoratori, allo scopo di poter loro consentire di impegnarsi giuridicamente in un contratto collettivo, non si comprende quale potrebbe essere l’altro contraente, ove non si conceda lo stesso riconoscimento anche ai sindacati dei datori di lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, riconoscendo la fondatezza dell’osservazione, dichiara di essere disposto a modificare nel modo seguente il secondo comma dell’articolo 3: «La legge che fisserà le condizioni del riconoscimento dei sindacati, tanto dei lavoratori quanto dei datori di lavoro, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati stessi».

TOGNI è d’accordo su tale dizione. Osserva tuttavia che, a suo avviso, prima di passare alla formulazione degli articoli, data l’importanza della materia in esame, sarebbe indispensabile premettere un’affermazione che definisca il sindacato e la libertà di organizzazione sindacale.

PRESIDENTE fa presente che il primo articolo proposto nella relazione Di Vittorio è stato tralasciato, in quanto già in precedenza formulato dalla prima Sottocommissione.

TOGNI ritiene che in tal modo o la Sottocommissione rinuncia a una sua responsabilità e facoltà, abdicando a quelle che sono le sue funzioni, oppure accetta una formulazione che ancora non conosce.

Quindi non solo si subisce l’influenza della prima Sottocommissione, verso i deliberati della quale rinnova le sue più ampie riserve e proteste, ma si abdica a quella che è una facoltà specifica della terza Sottocommissione, accettando senza discutere quanto ha elaborato la prima.

DI VITTORIO, Relatore, dichiara di aver rinunciato all’articolo 1 ed ai due commi del secondo, in quanto era stato informato che i colleghi avevano così deciso, in considerazione che la prima Sottocommissione aveva già elaborato dei principî in materia.

TOGNI fa presente che tale decisione è stata presa durante la sua assenza.

PRESIDENTE legge il primo articolo della relazione Di Vittorio, così formulato: «Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini italiani di ambo i sessi, ed agli stranieri residenti legalmente sul territorio nazionale, senza distinzione di razza.

«Tale diritto è garantito dalla legge e non potrà essere limitato dagli scopi politici, sociali, religiosi o filosofici che persegue la associazione».

TOGNI teme che tale formulazione potrebbe essere interpretata nel senso di ammettere la possibilità di associazioni di stranieri in Italia, che potrebbero anche contrastare con gli interessi della nostra democrazia. Ritiene che invece, anche nell’intenzione del proponente, tale diritto si sia voluto limitare agli stranieri in quanto aderiscano ad organizzazione sindacali italiane.

Preferirebbe, pertanto, la formulazione dell’onorevole Rapelli, che gli sembra più semplice ed estensiva: «È garantita ad ognuno, e a tutte le professioni, la libertà di associazione per la difesa e il miglioramento della vita economica». A tale formula aggiungerebbe le parole: «e degli interessi economici».

DI VITTORIO, Relatore, dichiara che nella sua formulazione ha inteso sancire solamente il principio che lo straniero ha parità di diritti nelle associazioni italiane. Ad ogni modo, per eliminare ogni dubbio, riterrebbe sufficiente dividere così il primo comma dello articolo 1: «Il diritto di associazione è riconosciuto a tutti i cittadini italiani di ambo i sessi. Agli stranieri residenti legalmente sul territorio nazionale è riconosciuto il diritto di aderire a tali associazioni».

PESENTI fa osservare che il termine «legalmente» può essere pericoloso. Cita l’esempio degli italiani rifugiatisi clandestinamente in Francia.

DI VITTORIO, Relatore, riconosce che la parola «legalmente» è superflua.

TOGNI ritiene che, ad ogni modo, non bisogna dimenticare che la Costituzione sarà conforme alle idee dell’attuale Repubblica italiana, e che, quindi, non si potrà ammettere che in Italia vi siano profughi di altre nazionalità professanti idee in contrasto con quelle dello Stato italiano.

MERLIN ANGELINA e NOCE TERESA rilevano che nella Costituzione bisogna anche stabilire principî, in base ai quali si possa chiedere una contropartita a favore degli italiani da parte degli altri Stati.

RAPELLI, Correlatore, pone in rilievo che è compito della terza Sottocommissione occuparsi dell’organizzazione sindacale, e non del diritto di associazione in genere, che rientra nei compiti della prima Sottocommissione.

TOGNI è d’accordo. Bisogna stabilire innanzi tutto, in modo organico, che cosa è l’organizzazione sindacale e quindi fissare le forme giuridiche dei sindacati. Per questo motivo intende che l’articolo 1 sia riferito a quella parte del diritto associativo che riguarda gli interessi economici e sindacali e non al diritto di associazione in senso lato, che è compito della prima Sottocommissione.

PRESIDENTE propone che, per la parte di articolazione che riguarda il diritto di associazione in generale, si dichiari di rimettersi alle decisioni che adotterà la prima Sottocommissione. Ciò costituirà anche un opportuno richiamo per la suddetta Sottocommissione che non si è regolata nello stesso modo nei riguardi della terza.

TOGNI dichiara di non potersi ancora considerare d’accordo con i colleghi.

DI VITTORIO, Relatore, precisa che non vi può essere un diritto di associazione in generale e un diritto speciale di associazione sindacale che non rientri in quello generale. Una volta che si abbia nella Costituzione un articolo che garantisca ad ogni cittadino il diritto di associarsi con altri cittadini in una qualsiasi organizzazione, quali che ne siano gli scopi e i principî, questo diritto assorbe anche quello di organizzazione sindacale. D’altra parte, nel terzo comma dell’articolo 2, è già compresa una definizione dei sindacati quali organi di tutela dei diritti professionali e morali dei lavoratori.

TOGNI replica che, se può esservi un certo legame fra il diritto di associazione in genere e quello sindacale, tale legame non risulta chiaramente in tutte le Costituzioni. Ricorda che negli anni passati vigeva in teoria la più ampia libertà di associazione, mentre in pratica l’associazione sindacale non era affatto libera. Premetterebbe, perciò, una dichiarazione che confermi e garantisca il diritto di organizzazione sindacale e di associazione per interessi economici. Tale dichiarazione, fondendo la dizione Rapelli con quella Di Vittorio, potrebbe essere la seguente: «Il diritto di associazione per la difesa e il miglioramento della vita economica è riconosciuto ai cittadini italiani di ambo i sessi».

DI VITTORIO, Relatore, non è d’accordo, in quanto nella vita pratica possono sorgere infinite forme di associazione e di consorzi aventi diversi fini, che secondo tale formula non sarebbero consentite. Il diritto di associazione invece deve essere assoluto, e non limitato, come avverrebbe se si adottasse la formula proposta dall’onorevole Togni a meno di non volerla completare con una minuta specificazione dei vari diritti di associazione, che evidentemente sarebbe fuor di luogo.

TOGNI accetta l’osservazione dell’onorevole Di Vittorio, ma pone in evidenza che anche la libertà di associazione trova dei limiti nell’interesse del bene comune. Si dichiara convinto che nessuna legge italiana potrà consentire il libero sorgere di consorzi contrari all’interesse collettivo, come nel caso di consorzi fra produttori a scopo di monopolio. Perciò, se non si vuole fare una articolazione incompleta, bisogna disciplinare organicamente le associazioni rivolte alla tutela e alla difesa degli interessi economici e del lavoro.

DI VITTORIO, Relatore, osserva che la incompiutezza è necessariamente insita nel lavoro parziale che è affidato ad ognuna delle tre Sottocommissioni, salvo poi provvedere al generale coordinamento.

PRESIDENTE prega l’onorevole Togni di non insistere nella sua proposta.

TOGNI rileva che la Sottocommissione ha svolto i suoi lavori in un modo abbastanza organico. Dopo aver parlato della proprietà e dei suoi limiti, e definiti gli interessi sociali nell’economia, deve ora trattare il coronamento dell’edificio, cioè la parte sindacale, che è veramente la parte più interessante del diritto di associazione. A tale proposito propone il seguente articolo: «Il diritto di associazione per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica è riconosciuto a tutti gli italiani di ambo i sessi, professioni ed interessi economici».

MOLÈ osserva che la formula «interessi economici» è troppo lata e pericolosa permettendo il sorgere di trusts che potrebbero costituirsi con scopi differenti dalla difesa e dal miglioramento delle condizioni economiche del lavoratore. Pur non negando loro il diritto di associazione, ritiene che non si debba sancire nella Costituzione.

PRESIDENTE pone ai voti il rinvio alla prima Sottocommissione della formulazione dell’articolo riguardante il diritto di associazione.

(È approvato).

TOGNI dichiara, anche a nome degli onorevoli Rapelli e Federici Maria, di rammaricarsi di questa affrettata conclusione che non consente di affrontare nel suo complesso, e nella sua effettiva consistenza, la necessità di un organico svolgimento della materia in discussione. Conferma la necessità di premettere ai successivi articoli una dichiarazione che garantisca in modo specifico il diritto di associazione ai lavoratori, ai professionisti ed ai datori di lavoro nel quadro ed al fine di una difesa e di un miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica, per lo sviluppo ed il potenziamento della produzione e quindi del raggiungimento di un maggior bene comune. Si riserva pertanto di riproporre in sede di coordinamento il testo già proposto, e non messo in votazione, a firma Togni, Rapelli e Federici Maria.

PRESIDENTE ricorda che, riunendo i due commi degli articoli 2 e 3 della relazione Di Vittorio, l’articolo proposto risulta così formulato: «Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è riconosciuta la personalità giuridica.

«La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati».

DI VITTORIO, Relatore, per accogliere il desiderio espresso dal collega Marinaro, propone di modificare il secondo comma dello articolo in questo senso: «La legge, che fisserà le condizioni di tale riconoscimento tanto ai sindacati dei lavoratori che dei datori di lavoro, dovrà garantire l’indipendenza, l’autonomia e la libertà dei sindacati stessi».

MARINARO ringrazia l’onorevole Di Vittorio di aver incluso nell’articolo anche il riconoscimento dei sindacati dei datori di lavoro; ciò lo mette in condizione di potere votare l’articolo senza insistere sull’ordine del giorno da lui presentato a suo tempo. Chiede tuttavia all’onorevole Di Vittorio di volere coordinare la seconda parte, così modificata, con la prima, nella quale è previsto il riconoscimento della personalità giuridica ai soli sindacati dei lavoratori. Proporrebbe quindi di togliere, dopo le parole. «Ai sindacati», la specificazione «dei lavoratori» e di sostituire alla successiva dizione «dei lavoratori» le parole: «degli appartenenti».

NOCE TERESA preferirebbe «degli associati».

TOGNI ritiene che si potrebbe tralasciare ogni specificazione.

MOLÈ, per cercare di contemperare l’esigenza tecnica legislativa e quella di principio, nel senso di stabilire una maggiore protezione per il lavoratore, propone di premettere alla formulazione del secondo comma dello articolo 2 della relazione Di Vittorio: «Lo Stato dovrà garantire per legge un’efficace protezione sociale dei lavoratori, manuali ed intellettuali».

RAPELLI, Correlatore, fa presente che il principio della protezione del lavoratore è già stato previsto nell’aggiunta apportata al terzo articolo.

DI VITTORIO, Relatore, ribadisce il concetto, che nella nuova Costituzione democratica deve essere previsto il riconoscimento del lavoratore ad una maggiore tutela. Per questo motivo lascerebbe il primo comma nella sua originaria formulazione in modo che i sindacati dei lavoratori vengano riconosciuti «enti di interesse collettivo».

PRESIDENTE fa presente all’onorevole Di Vittorio, che l’espressione «ente di interesse collettivo» era stata considerata come non avente un proprio significato che fosse da tutti facilmente comprensibile.

TOGNI ritiene che per raggiungere lo scopo di riconoscere la personalità giuridica ad ambedue le organizzazioni, e nel medesimo tempo mettere in maggiore evidenza i sindacati dei lavoratori, sarebbe sufficiente aggiungere al primo comma le parole: «che verrà accordata anche alle organizzazioni dei datori di lavoro».

DI VITTORIO, Relatore, si dichiara d’accordo. L’articolo, nella sua stesura definitiva, potrebbe essere così formulato: «Ai sindacati dei lavoratori, quali organi di difesa e di tutela dei diritti e degli interessi economici, professionali e morali dei lavoratori, è riconosciuta la personalità giuridica. Tale riconoscimento sarà esteso alle associazioni dei datori di lavoro.

«La legge, che ne fisserà le condizioni, dovrà garantirne l’indipendenza, l’autonomia e la libertà».

DOMINEDÒ chiede quali conseguenze porti il riconoscere incondizionatamente la personalità giuridica a tutti i sindacati, cioè ai sindacati plurimi, quando, a rigore, tale riconoscimento è proprio il presupposto per la creazione del sindacato di diritto pubblico, idoneo ad avere il carattere normativo nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria. Introducendo una personalità giuridica nei confronti di più sindacati, giuridicamente indifferenziati, si avrà come conseguenza che ciascuno di essi potrebbe aspirare a ritenersi fornito di capacità rappresentativa ai fini dell’emanazione delle norme collettive di lavoro. Ammette l’esigenza del riconoscimento della libertà di associazione, ma altro è riconoscere la libertà di associazione e altro è conferire la personalità giuridica che, nella forma di diritto pubblico, deve spettare al solo sindacato cui è attribuito il potere di dettare norme aventi valore obbligatorio non solo per gli iscritti, ma per tutti gli appartenenti alla Categoria.

TOGNI fa presente all’onorevole Dominedò che la sua osservazione ha già formato oggetto di discussione e si potrà riprendere in esame in un secondo tempo. Modificherebbe il testo dell’articolo precedentemente proposto nel modo seguente: «Il diritto di associazione per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e della vita economica è riconosciuto a chiunque eserciti una professione o un’attività economica».

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo nella formulazione di cui ha dato lettura l’onorevole Di Vittorio.

TOGNI, a nome anche dei colleghi democristiani, dichiara che voterà favorevolmente, con la riserva però di subordinare tale approvazione alla premessa di un articolo, sul tipo di quello proposto, che precisi che cosa si intenda per sindacato e per libertà sindacale.

MOLÈ dichiara che voterà favorevolmente.

DOMINEDÒ dichiara di astenersi dalla votazione.

(L’articolo è approvato).

La seduta termina alle 12.15.

Erano presenti: Canevari, Di Vittorio, Dominedò, Federici Maria, Giua, Marinaro, Marlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Rapelli, Togni.

Erano assenti: Colitto, Fanfani, Lombardo, Paratore, Taviani.

Assente giustificato: Ghidini.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 16 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

31.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 16 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL DEPUTATO GIUA

INDICE

Controllo sociale dell’attività economica (Seguito della discussione)

Presidente – Fanfani, Relatore – Molè – Noce Teresa – Merlin Angelina – Canevari – Pesenti – Marinaro.

La seduta comincia alle 17.30.

Seguito della discussione sul controllo sociale dell’attività economica.

PRESIDENTE ricorda che nella seduta antimeridiana l’onorevole Pesenti aveva proposto che la Sottocommissione, per ora, non approvasse alcun articolo in merito alla relazione Fanfani e rinviasse al coordinamento ogni decisione. Chiede ai colleghi quale sia il loro intendimento.

FANFANI, Relatore, ritiene il procedimento singolare e nuovo. Per conto suo non pretende di aver fatto cosa intangibile, anzi, pensa che, sia in sede di coordinamento nell’interno della Sottocommissione, come in sede di riunione plenaria della Commissione, come in sede di Costituente, le modificazioni gioveranno moltissimo, non per rivoluzionare, ma per perfezionare; ma appunto per agevolare queste modificazioni occorrerà presentare una proposta concreta. Ciò è tanto più necessario in quanto la prima Sottocommissione, che studia materie analoghe a quelle della terza, avrà preso qualche decisione.

MOLÈ pensa che occorra giungere ad una conclusione su questo argomento, che è di competenza più della terza Sottocommissione, che della prima.

PRESIDENTE aggiunge che un articolo dell’onorevole Togliatti su questo problema è stato preso in esame dalla prima Sottocommissione.

FANFANI, Relatore, osserva che si tratta non di un articolo, ma di un progetto dell’onorevole Togliatti, e pare che questi abbia dichiarato di rinunziarvi.

PRESIDENTE invita l’onorevole Fanfani ad illustrare l’articolo da lui proposto.

FANFANI, Relatore, legge il primo articolo che aveva proposto nella seduta antimeridiana: «L’attività economica, privata e pubblica, nelle forme tecniche più efficienti e razionali, deve rivolgersi a provvedere ogni cittadino dei beni necessari al suo benessere e la società di quelli utili al bene comune. A tal fine, l’attività privata, ammessa e protetta, è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferiche e centrali, determinate dalla legge».

Osserva che in questo articolo non si accenna minimamente a nessuna forma concreta e si lascia completamente aperta la strada.

MOLÈ propone che invece di: «ogni cittadino», si dica «i cittadini».

NOCE TERESA teme che la frase: «nelle forme tecniche più efficienti e razionali» si possa interpretare restrittivamente, nel senso che si consideri soltanto quell’attività che ha quelle forme più efficienti e razionali.

FANFANI, Relatore, fa considerare che il periodo non termina con quella frase. È un inciso che ha lo scopo di affermare che l’attività privata e pubblica deve rivolgersi a provvedere i cittadini dei beni necessari al loro benessere «nelle forme tecniche più efficienti e razionali», spingendo così chi controlla a far muovere l’attività in questo senso.

Pensa tuttavia che la frase si possa spostare, e dire: «L’attività economica, privata e pubblica, deve rivolgersi nelle forme tecniche più efficienti e razionali».

NOCE TERESA preferirebbe togliere l’inciso.

FANFANI, Relatore, rilegge l’articolo così modificato:

«L’attività economica, privata e pubblica, deve tendere a provvedere i cittadini dei beni necessari al loro benessere e la società di quelli utili al bene comune. A tal fine l’attività privata, ammessa e protetta, è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale, determinate dalla legge».

MERLIN ANGELINA osserva che il concetto espresso dall’inciso «ammessa e protetta» dovrebbe essere espresso in altra forma.

PRESIDENTE, poiché è stato stabilito in altra articolazione, propone di eliminare l’inciso.

FANFANI, Relatore, legge la seconda parte dell’articolo così modificata:

«A tale scopo l’attività privata è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale determinate dalla legge».

PRESIDENTE pone ai voti tutto l’articolo.

(È approvato all’unanimità).

FANFANI, Relatore, legge il secondo articolo da lui proposto:

«Al controllo sociale dell’attività economica, pubblica e privata, e al coordinamento della legislazione relativa presiedono – (o attendono) – Consigli economici regionali e nazionali costituiti con rappresentanze professionali e sindacali».

In ordine all’osservazione dell’onorevole Pesenti di non determinare troppo, si rimette all’avviso della Sottocommissione.

PRESIDENTE chiede se il Consiglio nazionale è unico.

FANFANI, Relatore, risponde che si tratta di un’espressione generica, in quanto ve ne è uno nazionale e ve ne può essere uno per ogni regione.

MOLÈ osserva che dicendo «presiedono al coordinamento della legislazione relativa», si creerebbe un organo superiore alla funzione legislativa, cioè un organo di revisione legislativa. Preferirebbe dire «concorrono a coordinare».

FANFANI, Relatore, propone di dire: «al coordinamento», invece di: «alla preparazione».

PRESIDENTE specificherebbe dicendo: «un Consiglio nazionale e i consigli economici regionali».

CANEVARI, poiché non si sa quello che stabilirà la legge, direbbe: «Consigli economici centrali e periferici».

FANFANI, Relatore, preferirebbe tornare alla formula suggerita dall’onorevole Giua, dove si parlava di un Consiglio economico nazionale e di enti a carattere regionale.

MERLIN ANGELINA direbbe: «di enti a carattere economico, nazionali e regionali».

PRESIDENTE fa rilevare che la Costituente non ha ancora preso decisioni circa l’ente regione.

MOLÈ nota che anche se si fosse sicuri della istituzione della regione, non si conoscerebbe il funzionamento dei suoi organi.

PESENTI chiede se questi Consigli economici saranno Consigli per categoria, cioè corporazioni. Una volta ideata la funzione, nascerà poi l’organo.

FANFANI, Relatore, osserva che se così fosse, la Costituzione si farebbe molto semplicemente.

È una novità della nostra Costituzione stabilire la creazione di un organo, che coordini le attività economiche, che pianifichi o programmizzi le attività economiche.

PESENTI propone che si dica: «un organo che coordini le attività economiche», e potrebbe essere lo stesso Comitato interministeriale per la ricostruzione (C.I.R.)

FANFANI, Relatore, fa considerare che nel secondo comma dell’articolo approvato si è detto tutto: «A tale scopo l’attività privata è armonizzata a fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale, determinate dalla legge».

NOCE TERESA propone di omettere l’espressione «periferico e centrale».

FANFANI, Relatore, obietta che non si può parlare di un controllo locale, prescindendo da una organizzazione centrale che coordini. Perciò insiste sull’espressione «periferico e centrale».

Pensa che un articolo speciale sui Consigli economici sarà necessario, anche se non sarà formulato dalla terza Sottocommissione.

Legge l’articolo modificato:

«Al controllo sociale dell’attività economica, pubblica e privata, ed alla preparazione della legislazione relativa attendono Consigli economici regionali e nazionali, costituiti con rappresentanze professionali e sindacali».

MERLIN ANGELINA chiede di sostituire la parola «attendono».

FANFANI, Relatore, suggerisce la parola «partecipano».

Inoltre aggiungerebbe: «con eventuali corrispondenti organi periferici».

MARINARO propone: «partecipano organi che potranno essere stabiliti dalla legge», senza parlare di Consigli nazionali.

FANFANI, Relatore, osserva che in tal caso si ripete una cosa a cui si fa già riferimento nel secondo comma dell’articolo precedente.

PESENTI fa presente che, per quello che riguarda il credito, in Francia è stato creato un Consiglio superiore del credito.

Anche in Italia si potrebbero avere un Consiglio del credito ed uno del lavoro.

MERLIN ANGELINA osserva che si potrebbe parlare di: «organismi nazionali e periferici», oppure sopprimere la frase.

FANFANI, Relatore, obietta che con la soppressione si può dar luogo a vantaggi, ma anche a svantaggi.

CANEVARI si dichiara favorevole alla soppressione.

FANFANI, Relatore, nota che con l’articolo proposto si vuol creare un organo che concorre non solo alla coordinazione, ma anche alla preparazione di quelle che saranno le disposizioni che gli organi competenti determineranno in sede politica per la vita economica del Paese.

NOCE TERESA trova questo pericoloso.

FANFANI, Relatore, ritiene che non sia affatto pericoloso. Tutti i Paesi hanno sentito la necessità di mettere accanto ad organi legislativi e deliberativi degli organi tecnici, e si chiede se è possibile che proprio sul terreno economico non esista da noi un Comitato economico che prenda in mano la situazione, e la sottragga ai molti avvocati che popolano le assemblee legislative.

NOCE TERESA teme che questi Consigli economici possano cadere nelle mani di due o trecento capitalisti.

FANFANI, Relatore, osserva che ad evitare questo pericolo aveva proposto la frase, che poi ha tolto, «con rappresentanze professionali e sindacali».

PESENTI fa rilevare che un Consiglio economico complessivo inevitabilmente formerà una seconda o terza Camera, sia pure di carattere consultivo. Questo Consiglio economico si dovrebbe interessare di cooperazione e di tutti gli altri campi e settori economici, ed una qualsiasi legge di carattere economico dovrebbe essere sottoposta a questo complesso Consiglio, che diverrebbe una specie di Parlamento consultivo.

La legge dovrebbe, a suo avviso, ammettere la necessità del controllo, ma di un controllo funzionale per settore, lasciando il controllo politico al solo Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE ritiene opportuna la proposta. Si tratta di una nuova forma di controllo che può anche costituire uno stimolo all’attività.

PESENTI si richiama alla Costituzione francese dove c’è, oltre ad un Consiglio superiore del credito, il Comitato dei piani; ma sono due forme staccate che non costituiscono un unico Consiglio economico. Egli personalmente non si ritiene in grado di fissare un principio così preciso: preferisce fissare prima il criterio del controllo che si organizzi settore per settore; in seguito si potrà prendere una decisione. L’essenziale è che lo Stato italiano diventi uno Stato democratico, popolare e non ci siano più i gruppi monopolistici di una volta. La forma tecnica migliore sarà certamente trovata, e sarà allora che si studierà se i singoli settori debbano costituire un Consiglio economico. Fissare un principio così preciso nella Carta costituzionale gli sembra pericoloso, tanto più che si potrebbe dire che quello che è stato respinto dalla seconda Sottocommissione viene riproposto dalla terza.

FANFANI, Relatore, non ritiene che si tratti di qualche cosa di simile a quello che è stato proposto dalla seconda Sottocommissione. A suo avviso, il giorno in cui si voglia seriamente coordinare l’attività economica, non si potrà continuare col Comitato interministeriale per la ricostruzione, che fu certo ideato come Consiglio tecnico del Governo, ma che in pratica non ha dato i risultati che se ne attendevano.

Se l’attività economica nazionale deve essere orientata e controllata, senza che vada soggetta a salti bruschi, non bastano gli organi normali che in sede della seconda Sottocommissione si stanno precisando: Presidente della Repubblica, Governo, prima e seconda Camera (anche se per ipotesi la seconda Camera deve avere rappresentanza proporzionale). L’esperienza insegna che occorre qualche cosa di più efficiente che non sia un Parlamento – indipendentemente dalle forme politiche e costituzionali che assumerà lo Stato – e tanto più, a suo avviso, in quanto pensa a forme democratiche e popolari dell’organizzazione costituzionale.

Dubita se sia opportuno rinunziare del tutto a porre una formula nella Carta costituzionale che faccia conoscere a quanti esamineranno il lavoro ora in svolgimento, che in sede di terza Sottocommissione la questione è stata agitata. Probabilmente sarà uno degli articoli che potrà cadere, ma prima di dire che non si debba formulare prega la Commissione di riflettere, nonostante tutte le preoccupazioni dell’onorevole Pesenti.

Dà lettura della sua proposta: «Al controllo sociale dell’attività economica, pubblica e privata, e alla preparazione della legislazione relativa partecipa un Consiglio economico nazionale, con eventuali corrispondenti organi periferici».

PESENTI osserva che nella Carta costituzionale non si può usare la parola «eventuali».

FANFANI, Relatore, allo scopo di porre bene in chiaro la comune perplessità e di far rilevare l’accordo sull’esistenza del problema, pensa che sia opportuno lasciare in sospeso la questione per riprenderla in sede di coordinamento.

PRESIDENTE avverte che il Presidente della Commissione della Costituzione ha stabilito di distribuire il progetto degli articoli approvati e delle proposte fatte sui vari articoli prima che sia convocata l’Assemblea della Commissione. Vi sarà quindi la possibilità di rivedere tutti questi argomenti. Il coordinamento finale sarà fatto da un Comitato rappresentativo delle vane tendenze.

Si potrebbe, intanto, riprendere in esami l’argomento del credito, sul quale riferì l’onorevole Marinaro.

MARINARO dichiara di associarsi alle considerazioni fatte dall’onorevole Togni e aggiunge che, data l’importanza del settore economico e dati i concetti innovatori che non trovano precedenti nella legislazione, cioè la distribuzione del credito con criteri funzionali, vede l’opportunità di includere una disposizione che consacri questo indirizzo unitario, per l’esercizio del credito, nella Carta costituzionale.

Propone il seguente articolo: «Lo Stato stimola, coordina e controlla il risparmio. L’esercizio del credito è parimenti sottoposto al controllo dello Stato, che ne disciplina la distribuzione con criteri funzionali e territoriali».

PESENTI dichiara di non essere contrario al concetto. Al momento del coordinamento si potrà vedere se c’è la necessità di fare un apposito articolo, o di raccomandarne il criterio informatore perché sia inserito altrove. Se si fa un articolo sul credito occorrerebbe farne per altri settori.

Visto che nella proposta si parla soltanto del sistema bancario, propone di fare un passo avanti accennando all’investimento. Oltre la Banca c’è la Borsa, ci sono altri sistemi di finanziamento e di emissione particolari. Nessuna emissione di titoli fatta da privati, o altrimenti, può avvenire senza controllo, senza autorizzazione. È questa una difesa del risparmio.

FANFANI, Relatore, comprende questa disciplina relativamente alla politica degli investimenti, ma non relativamente al credito ed al consumo.

PESENTI ritiene che la frase «criteri funzionali» possa far sorgere il dubbio che, trattandosi di credito per l’agricoltura, di credito per l’industria, si voglia alludere anche necessariamente alla formazione di organi speciali.

Infatti c’è una corrente che vorrebbe creare una Banca per ogni settore, fare cioè una specializzazione del credito.

FANFANI, Relatore, non trova troppo felice la formula dell’articolo.

MARINARO precisa così la formula: «Lo Stato stimola, coordina e controlla il risparmio.

«L’esercizio del credito è parimenti sottoposto a controllo dello Stato, al fine di disciplinarne la distribuzione con criteri funzionali e territoriali».

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo.

(È approvato all’unanimità).

Dà infine lettura dell’articolo proposto dall’onorevole Fanfani, che sarà suggerito dalla terza Sottocommissione per una precisazione in sede di coordinamento: «Un Consiglio economico nazionale attende al controllo sociale dell’attività economica pubblica e privata e partecipa alla preparazione della legislazione relativa».

La seduta termina alle 18.40

Sono presenti: Canevari, Fanfani, Federici Maria, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Rapelli.

Assenti giustificati: Dominedò, Ghidini.

Assenti: Assennato, Colitto, Lombardo. Paratore, Taviani, Togni.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 16 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

30.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 16 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Controllo sociale dell’attività economica (Seguito della discussione)

Presidente – Marinaro – Pesenti – Giua – Fanfani, Relatore – Togni.

La seduta comincia alle 10.45.

Seguito della discussione sul controllo sociale dell’attività economica.

PRESIDENTE dato che l’onorevole Marinaro ha chiesto che nella parte riguardante il controllo sia inserito un articolo sul credito, lo invita ad illustrare il suo punto di vista.

MARINARO pone in luce che ove si ravvisi la necessità dell’intervento dello Stato nel campo del credito e della raccolta del risparmio, sorge il problema di stabilire in quale modo e fino a quale punto tale azione debba essere esercitata, senza intralciare il buon andamento delle aziende di credito, e cioè senza spingere l’ingerenza dello Stato fino a burocratizzare le aziende stesse, le quali per loro natura, per le finalità che perseguono e per le delicate funzioni che sono chiamate a svolgere, debbono avere la maggiore libertà d’azione possibile.

A tale riguardo afferma che, mentre da un lato scarsissime sono le titubanze circa il controllo statale per ciò che concerne la proporzione fra investimento e liquidità, la formazione delle riserve, e il rapporto fra patrimonio e passività, molto discutibile è, invece, l’obbligatorietà di norme minuziose che limitino, soprattutto se al di fuori del campo degli investimenti, l’iniziativa degli organi direttivi e amministrativi delle aziende di credito, alla cui responsabilità debbono essere affidate l’organizzazione tecnico-contabile e la gestione amministrativa.

La parte preminente del problema in esame concerne, a suo avviso, la distribuzione del credito, che dovrebbe essere disciplinata dallo Stato in senso funzionale e territoriale.

In sostanza, occorre assicurare il migliore impiego del risparmio in rapporto ai bisogni regionali, e stimolare e potenziare i rami di industria e di commercio che maggiormente interessino l’economia del Paese.

Quanto alla distribuzione funzionale, bisogna tener presente che l’elemento su cui si impernia l’organizzazione creditizia è il «termine», il quale va inteso come mezzo di sincronizzazione fra raccolta di risparmio (depositi) e impiego del medesimo. E poiché gli utenti del credito – a seconda dello scopo perseguito dalla loro attività – hanno bisogno di credito a breve, a media ed a lunga scadenza, l’organizzazione creditizia deve fondarsi su tre tipi di aziende classificate in relazione al suddetto termine.

Non molto rigida e profonda dovrebbe essere la distinzione fra aziende dei primi due tipi, benché talvolta l’estensione delle operazioni di medio termine alle aziende che raccolgono risparmio a breve termine non sia scevra di pericoli. Infatti il credito a medio termine può spesso divenire, per la sua stessa natura, credito a lungo termine, dando origine a situazioni di immobilizzo con conseguenti perdite. Ad ogni modo, non si dovrebbe ravvisare alcun impedimento a consentire l’estensione dell’azione creditizia degli istituti a breve termine a tutto il ciclo produttivo.

Sempre in tema di ordinamento funzionale, dichiara di non ritenere utile la creazione di banche specializzate, classificate per rami di attività economica. Pur non negando i pregi della specializzazione, i suoi difetti, anche se non sono molti, sono però assai gravi. Basti pensare al fatto che la banca specializzata è vincolata ai perturbamenti dell’attività economica, oggetto della sua specializzazione, per poter dedurre tutta la serietà dei pericoli ai quali viene ad essere esposta senza alcuna difesa, mancando ad essa la possibilità di trovare una compensazione in altri campi, non essendo, per la sua natura, in condizione di distribuire il credito fra diversi rami di attività.

Un altro grave inconveniente della specializzazione va ricercato nel fatto che il richiedente di fido, una volta che la banca alla quale è obbligato a rivolgersi, data l’attività economica da lui esercitata, glielo abbia negato, non può richiederlo ad altre banche, essendo a queste vietato di concedere fidi a clienti che esercitano un’attività economica diversa da quelle per cui sono state create.

Aggiunge, infine, la considerazione che ogni attività economica, avendo un periodo di maggiore necessità di capitali, che evidentemente non coincide con quello di altre attività, dalla specializzazione verrebbe come conseguenza che nello stesso spazio di tempo in alcune banche la situazione di liquidità sarebbe scarsa, mentre in altre sarebbe eccessiva.

A giudizio suo, pertanto, non è la specializzazione di banche quella che può dar luogo ad un’efficace disciplina del credito, ma, ferma restando la distinzione tra aziende a breve, a medio ed a lungo termine, tale disciplina potrebbe raggiungersi mediante l’istituzione di un organo centrale di «manovra del credito». Tale organo distribuirebbe il credito per le varie attività economiche in relazione sia all’importanza di ciascuna di queste nel quadro dell’economia generale del Paese, che alle necessità delle economie regionali ed alle disponibilità delle varie aziende bancarie di ciascuna regione. Come si vede, nella manovra del credito dovrebbe entrare in funzione anche il concetto della distribuzione territoriale, intesa però nel senso sopra accennato.

In particolare ritiene che in base ad apposite statistiche, le quali dovrebbero essere periodicamente predisposte, potrebbero essere determinate le direttive della distribuzione degli investimenti bancari, che, sia per quanto riguarda l’importo per rami di attività, sia nel volume totale, invece di essere affidati alle iniziative delle singole amministrazioni e delle direzioni delle banche, sarebbero disciplinati nell’interesse dell’economia del Paese, vista però in funzione dei bisogni delle zone in cui ciascuna banca raccoglie i depositi ed opera.

Nell’attuazione di questa disciplina funzionale e territoriale, crede non debba temersi che le aziende di credito possano perdere la loro individualità, diventando passivi strumenti di esecuzione nelle mani dei dirigenti di un organo estraneo alle banche stesse, perché tale disciplina regolerebbe solo a grandi linee le direttive di marcia del credito, senza entrare nella competenza e quindi nell’iniziativa delle direzioni locali delle banche.

In conclusione, propone che nella Costituzione sia inserito un articolo del seguente tenore:

«Lo Stato stimola, coordina e controlla il risparmio. L’esercizio del credito è parimenti sottoposto a controllo dello Stato, al fine di disciplinarne la distribuzione con criteri funzionali e territoriali».

Riassumendo: il risparmio dovrebbe essere in tutti i modi stimolato, coordinato e controllato dallo Stato; la distribuzione del credito dovrebbe avvenire secondo criteri di funzionalità e di territorialità.

Conclude affermando che il risparmio ed il credito debbono essere armi in mani dello Stato le quali, se manovrate bene, potranno giovare in grande misura alla ripresa economica. Considera inutile scendere ai dettagli e prevedere fin da ora gli organi con i quali lo Stato potrà esercitare la sua vigilanza sul risparmio e sulla sua distribuzione, essendo importante, per il momento, di affermare il principio.

PESENTI rileva che, affermandosi il principio generico del controllo su tutta la attività economica, debba considerarsi compreso anche quello, particolare, del controllo sulla attività creditizia.

Qualora tuttavia la Sottocommissione credesse di dover scendere al particolare e di contemplare in un apposito comma il controllo sul risparmio e sul credito, in funzione sociale, si dichiara d’accordo con l’onorevole Marinaro.

GIUA non può non accettare i principî esposti nella precedente riunione dal Relatore Fanfani, i quali collimano con gli insegnamenti di Carlo Marx, che nel «Capitale» ha affermato che la società socialistica sarà l’erede di una società capitalistica pletorica. Quindi tutto quello che vale a sviluppare la produzione – e di conseguenza anche la stessa società capitalistica – non può non essere accettato.

Dà lettura della seguente formulazione, che vuole soltanto essere un contributo con intenti chiarificativi, alle conclusioni cui perverrà la Sottocommissione:

«Allo scopo di incrementare la produzione dei beni nell’interesse della comunità, la Repubblica protegge, oltre l’iniziativa privata, anche quella cooperativa e statale, mercé il controllo dell’attività economica della Nazione. La legge regolerà la creazione del Consiglio economico nazionale, del Consiglio nazionale del lavoro e di enti a carattere regionale atti a favorire il razionale sviluppo delle aziende industriali, agricole e del credito».

In tale formulazione ha voluto insistere sul concetto della razionalizzazione, che è ormai acquisito anche dalle società più tipicamente capitalistiche, come gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra. I liberoscambisti possono, a suo avviso, mettersi il cuore in pace, perché, per quanta propaganda facciano, la razionalizzazione dell’industria, intesa nel senso di un inserimento nella produzione capitalistica del concetto di massa, è ormai una innegabile necessità. Accogliendosi il criterio della razionalizzazione dell’economia in senso nazionale, verrebbe implicitamente ad essere risolta anche la vessata questione del problema meridionale.

FANFANI, Relatore, osserva che la prima parte del suo articolo, più o meno rimaneggiata, è stata riportata nelle varie formulazioni proposte da altri membri della Sottocommissione; della seconda parte, che deve ormai considerarsi superata, basta tenere presente l’accenno ai consigli economici, cioè a quegli organismi che, in particolare, devono esercitare un’attività coordinatrice delle iniziative private e pubbliche in materia economica.

Tenendo presente anche la proposta dell’onorevole Giua, avrebbe concretato una nuova formulazione, distinta in due parti che possono costituire due articoli, come sarebbe suo desiderio, ovvero due commi dello stesso articolo. La prima parte si ispira ai seguenti concetti: 1°) che l’attività, sia privata che pubblica, deve avere come fine precipuo di mettere, nelle forme più razionali e più efficienti, la maggior quantità possibile di beni a disposizione dei singoli cittadini per il loro benessere e della collettività nel suo complesso, sia per provvedere al suo funzionamento, sia per gli aiuti che deve fornire ai singoli; 2°) che l’attività privata, pur ammessa e protetta, non essendo capace da sola a raggiungere tutti i fini sociali, deve essere armonizzata, coordinata e controllata da organi speciali periferici e centrali.

In relazione a questi concetti, la prima parte è così formulata: «L’attività economica, privata e pubblica, nelle forme tecniche più efficienti e razionali, deve rivolgersi a provvedere ogni cittadino dei beni necessari al suo benessere e la società di quelli utili al bene comune. A tal fine l’attività privata, ammessa e protetta, è finalizzata ai fini sociali da forme diverse di controllo periferico e centrale, determinate dalla legge».

Circa il controllo del credito, è del parere che esso possa ritenersi conglobato nella dizione di carattere generale che ha proposto. In un primo tempo aveva formulato sulla materia un articolo speciale, ma gli è sorto il dubbio che, non prevedendosi un analogo controllo per altri rami di attività, si svisava tutto il problema e si correva il rischio, come è stato da più parti rilevato, o di creare un organismo manchevole, ovvero di aprire la strada ad un’unica possibilità, cioè a quella della gestione collettiva del credito da parte dello Stato, con le conseguenze che è facile immaginare.

Premesso che con le sue proposte non intende precludere la possibilità all’onorevole Marinaro di fare, circa il controllo del credito, delle proposte specifiche che volentieri prenderà in esame, passa alla seconda parte della sua formulazione.

In questa si è preoccupato di far risaltare la necessità che nel nostro ordinamento giuridico-costituzionale si debba accennare non soltanto ad un Consiglio nazionale, ma anche a Consigli regionali, senza scendere ad ulteriori specificazioni e salvo vedere, in sede di coordinamento, se si dovrà inserire nei singoli articoli qualche accenno più specifico ad organi periferici di controllo.

Questa seconda parte è del seguente tenore: «Al controllo sociale dell’attività economica pubblica e privata e al coordinamento della legislazione relativa presiedono Consigli economici regionali e nazionali costituiti con rappresentanze professionali e sindacali».

TOGNI a suo avviso, l’onorevole Fanfani ha fatto un gran passo innanzi verso quella che sarà la formula definitiva, in quanto i due articoli che ha proposti svolgono esattamente il tema del controllo sociale dell’attività economica che gli era stato assegnato. Esprime però il parere che non si debba lasciar cadere il problema del controllo del credito, anche se può sembrare in certo modo non opportuno dare ad esso una specifica considerazione. Bisogna, infatti, rendersi conto che il credito ha un valore particolare, soprattutto se attuato nella forma di rispondenza funzionale e territoriale, che si potrebbe del resto estendere anche a tutte le altre attività. Sarebbe quindi dell’opinione di includere in questi due articoli, o in un articolo a parte, le proposte dell’onorevole Marinaro.

Preciserebbe, inoltre, assai chiaramente il riferimento agli organi periferici e centrali di controllo, i quali – per ripetere le parole dell’onorevole Marinaro – dovranno servire per stimolare, controllare e coordinare, perifericamente e centralmente le singole attività della produzione e del lavoro. La Sottocommissione, però, anche prendendo in considerazione la proposta dell’onorevole Fanfani, farà un lavoro incompleto se non affronterà in un modo più chiaro la questione dei rapporti tra capitale e lavoro, tra – come si diceva nel primo testo dell’onorevole Fanfani – la gestione, la proprietà, gli utili e la partecipazione dei lavoratori all’azienda.

A tale proposito dichiara di non essere completamente d’accordo sul testo dell’articolo approvato circa i consigli di gestione. Ritiene, infatti, che su un problema tanto vivamente sentito dalle masse lavoratrici non sia possibile limitarsi solo a stabilire per il lavoratore il diritto di partecipare all’azienda, lasciando alla legge di fissare i modi e i limiti dell’applicazione di tale diritto. Per completare quella formulazione, che deve considerarsi come un semplice anticipo, domanda che sia ripresa la discussione, che gli sembra sia stata troncata con una troppo affrettata approvazione, riservandosi, appena possibile, di presentare una proposta precisa al riguardo.

PRESIDENTE fa osservare che non può parlarsi di decisione affrettata, perché alla redazione dell’articolo si è arrivati dopo matura discussione. Ad ogni modo, l’onorevole Togni ha sempre la possibilità di formulare tutte le proposte che crede in tema di controllo della attività economica.

GIUA rileva che nella formulazione da lui proposta aveva incluso anche un accenno al Consiglio nazionale del lavoro, non tanto in relazione alla stipulazione dei contratti collettivi, quanto perché tale organo avrebbe potuto colmare nella Carta costituzionale la gravissima lacuna dell’igiene sociale, introducendo quelle garanzie che sono necessarie per arrivare ad una razionale organizzazione della produzione. Come chimico si riferisce particolarmente agli operai di alcune industrie chimiche, i quali, se abbandonati alla libera iniziativa privata, potrebbero essere condannati a gravissime malattie professionali. Prega il collega Fanfani di tener conto di questa particolare esigenza.

FANFANI, Relatore, ricorda che in una delle precedenti riunioni, parlandosi delle convenzioni internazionali, si tenne specificatamente presente il problema dell’igiene del lavoro, abbinandolo, anche nella formula adottata, a quello della sicurezza. Personalmente sarebbe favorevole a rivedere la dizione per inserire la parola «igiene».

PRESIDENTE crede che la preoccupazione dell’onorevole Giua possa essere eliminata dal comma aggiunto al terzo articolo: «La Repubblica provvederà con speciali norme alla protezione del lavoratore e favorirà ogni regolamentazione internazionale diretta a tal fine».

GIUA trova che questa formula è troppo generica.

PESENTI è del parere che le proposte fatte per il tema in esame, anche quelle presentate dall’onorevole Fanfani, siano da accogliere come espressione di concetti generali, rinviando la precisa formulazione in sede di un successivo coordinamento dei lavori della Sottocommissione. Osserva, inoltre, che per quel che riguarda la Carta costituzionale si dovrà tener presente il testo delle altre Costituzioni, nel senso di limitarsi ad una formulazione generica per evitare specificazioni che possano far correre il rischio di troppo rapidi mutamenti, specialmente per quanto riguarda le denominazioni di determinati organi.

GIUA crede che sulla necessità di una Costituzione generica siano tutti d’accordo. Cita, in proposito, il pensiero dell’onorevole Togliatti, quale risulta dall’ultimo numero di «Rinascita» in relazione al quarto congresso dei Soviet.

PRESIDENTE rinvia la riunione al pomeriggio.

La seduta termina alle 12.20.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Pesenti, Togni.

Erano assenti: Colitto, Lombardo, Paratore, Rapelli, Taviani.

In congedo: Dominedò.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 OTTOBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

29.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 15 OTTOBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di associazione e ordinamento sindacale (Rinvio della discussione)

Assennato, Relatore – Presidente – Fanfani – Canevari – Giua – Rapelli, Correlatore.

Controllo sociale dell’attività economica (Discussione)

Fanfani, Relatore – Giua – Pesenti – Presidente.

La seduta comincia alle 17.15.

Rinvio della discussione sul diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale.

ASSENNATO, Relatore, afferma che prima di riprendere in esame le proposte Rapelli e Fanfani, al fine di impegnare con la Costituzione il futuro legislatore ad essere fedele osservante della libera vita democratica delle associazioni sindacali, occorre precisare bene i principî che si vogliono inserire nella Carta costituzionale.

Non ritiene appropriato per la redazione della Carta costituzionale inserire una formula con la quale i principî essenziali entrerebbero, per sottinteso o per via implicita, laddove è doveroso che tali principî siano dichiarati apertamente, in modo che il legislatore futuro, se mal disposto, non possa trovare complicità in formulazioni sottintese od involute, ma si trovi costretto ad assumere la responsabilità di violare un principio apertamente professato dalla Carta costituzionale.

Sul preambolo della libertà di organizzazione sindacale giustamente tutti si sono trovati d’accordo. La coerenza esige però che se, come nelle proposte Rapelli e Fanfani, si ritiene che alle organizzazioni sindacali debba essere riconosciuta personalità giuridica, questo non deve risultare soltanto come implicito contenuto della obbligatorietà del contratto collettivo, ma deve essere apertamente dichiarato. Né può sconsigliare tale riconoscimento la preoccupazione che si possa dar luogo ad interferenza o controllo dello Stato nella vita dell’organizzazioni sindacali, perché bisogna preavvertire il legislatore futuro che il riconoscimento è formulato nell’interesse della libera vita democratica delle organizzazioni sindacali e non già per attenuare in qualche modo l’indipendenza, l’autonomia e la libertà delle organizzazioni stesse.

Non trova opportuno, anche da un punto di vista tecnico, di parlare di contratto collettivo, senza prima dichiarare quali siano i contraenti, i quali è assurdo che possano essere considerati soltanto in funzione della obbligatorietà del contratto collettivo, perché l’associazione sindacale può, attraverso la personalità giuridica, possedere e negoziare in quanto tale. L’importante è che in sede costituzionale si precisi che il riconoscimento giuridico non implica una dichiarazione di ente pubblico e, quindi, una sottoposizione al controllo dello Stato o di altra autorità tutoria.

Dall’impostazione di principio ben profilata possono conseguire pericoli di gran lunga inferiori a quelli che possono presentarsi attraverso una formulazione involuta, da cui quei principî possono soltanto dedursi per via implicita. Indubbiamente, in sede costituzionale deve farsi menzione della obbligatorietà dei contratti; ma non deducendola dal principio della personalità giuridica, sibbene per l’eccezionalità degli effetti vincolanti della rappresentanza di categoria.

La dichiarazione di riconoscimento dovrà quindi stabilire, in sostanza, l’indipendenza del sindacato da ogni vigilanza o controllo tutorio, che possa comunque interferire e turbare la vita libera e democratica delle associazioni.

Poiché il Relatore Di Vittorio, di cui ha fatto le veci in sua assenza, si è attenuto a tali criteri, sia nella sua relazione che nelle articolazioni formulate, appare opportuno – e ne fa preghiera alla Commissione – che, essendo tornato l’onorevole Di Vittorio, sia esaminata, col concorso dei due esponenti della Confederazione del lavoro, la relazione stessa e si decida la via da seguire.

Propone una sospensiva, in modo da consentire all’onorevole Di Vittorio di rientrare nella Commissione.

PRESIDENTE pensa che, essendo virtualmente ormai l’onorevole Assennato fuori della Sottocommissione, accettando la sua proposta di rimettere la discussione a quando sia presente l’onorevole Di Vittorio, bisognerebbe o passare immediatamente alla discussione sul controllo economico-sociale, oppure rinviare le sedute.

FANFANI non dubita che, tornato l’onorevole Di Vittorio, sarebbe opportuno approfittare della sua presenza; però si chiede se tutta la discussione svoltasi finora debba considerarsi inutile.

CANEVARI, giacché risulta che l’onorevole Di Vittorio è tornato, dichiara di essere favorevole alla proposta di sospensiva.

GUIA aderisce alla proposta di sospensiva.

L’onorevole Di Vittorio, rappresentante della Confederazione generale del lavoro, potrà esprimere il suo pensiero sulla formulazione finora proposta, e ciò impedirà che in Assemblea sorgano discussioni fra gli stessi componenti della Commissione.

Poiché poi per discutere la relazione Fanfani occorrerà tener conto anche della discussione sull’azione sindacale, propone di rinviare i lavori della Sottocommissione al giorno 22.

PRESIDENTE dichiara di non poter accedere a questa richiesta, essendo impegnato verso l’Assemblea, attraverso la Commissione plenaria della Costituzione, e personalmente verso il Presidente Ruini, a compiere i lavori nel termine stabilito.

RAPELLI, Correlatore, desidera precisare, riferendosi ad un’affermazione precedente dell’onorevole Assennato, che né lui, né l’onorevole Di Vittorio rappresentano, in seno alla Sottocommissione, la Confederazione generale del lavoro.

ASSENNATO, Relatore, rileva che le sue parole intendevano semplicemente riferirsi alla competenza specifica degli onorevoli Rapelli e Di Vittorio, considerata la loro qualità di segretari della Confederazione generale del lavoro.

GIUA preferirebbe che i due segretari della Confederazione del lavoro fossero effettivamente portavoce dei desiderata della classe operaia.

PRESIDENTE ritiene che la Sottocommissione sia d’accordo nel rinviare la discussione a quando sarà presente l’onorevole Di Vittorio.

(Così rimane stabilito).

Discussione sul controllo sociale dell’attività economica.

FANFANI, Relatore, dichiara che si limiterà ad illustrare alcuni punti della sua relazione che gli sembrano di particolare importanza, non ai fini della discussione, ma ai fini dell’impostazione che ha creduto opportuno dare alla relazione.

Il problema del controllo sociale della attività economica è certamente complicato dal fatto che oggi – e non soltanto in Italia, ma in tutti i Paesi del mondo, meno uno – si vive in una economia di trapasso, non si è più in un’economia i cui dirigenti, i cui regolamentatori o legislatori credono al principio individualistico, liberistico; ma non si è nemmeno arrivati ad un’economia in cui totalmente si è abbandonato il criterio individualistico e liberistico. Tentativi diversi, fatti in parecchi Paesi, ora dal punto di vista di un’ideologia totalitaria di tipo fascista, ora dal punto di vista di un’ideologia democratica di tipo più o meno liberale, fanno vedere come, da circa trentacinque anni a questa parte, per motivi di guerra, per motivi di passaggio dall’economia di guerra all’economia di pace, o per le conseguenze dell’economia di guerra, si è tentato a varie riprese di risolvere il problema – che a qualcuno sembra insolubile – di controllare, dal punto di vista sociale, lo sviluppo dell’attività economica, senza accedere totalmente ad un’economia collettiva o collettivizzata, e senza d’altra parte lasciare totalmente libere le forze individualistiche, ma cercando di sfruttarle, disciplinandole e regolandole ai fini di raggiungere determinati obiettivi sociali che, abbandonata l’ideologia di Adamo Smith, si è ritenuto non possano essere raggiunti, qualora le forze e le iniziative individuali siano totalmente libere.

Si sono avute varie forme di controllo sociale sulla vita economica dei singoli gruppi.

Questi controlli sono fondamentalmente di due tipi: uno che si vuol realizzare in un ambiente politico non di libertà, nel quale i cittadini non siano chiamati a controllare politicamente i controllatori dell’attività economica; e un altro, esercitato o attuato in Paesi in cui, creati gli organi di controllo dell’attività economica, si consente che i cittadini, organizzati politicamente in partiti od in associazioni, attraverso gli organi normali di controllo dell’attività governativa e attraverso la libera stampa, sorveglino l’attività di coloro che sono preposti al controllo dell’attività economica.

Fa rilevare che, prescindendo da quello che è stato ideato e fatto in Russia, e osservando le varie esperienze che sono state fatte nei Paesi così detti occidentali, il grande problema che sembra aver afflitto l’Occidente è stato quello di vedere fino a che punto è possibile effettuare il controllo sull’attività economica senza menomare la libertà politica. I Paesi che sembrano aver realizzato più profondamente il sistema del controllo, ad un certo momento hanno pensato bene di eliminare la libertà politica, perché con la libertà politica sembrava loro di non poter realizzare nessun controllo. Ma l’accettazione del sistema di controllo economico, con l’abbandono del sistema di controllo politico, e quindi della libertà politica, fatalmente ha trasformato la politica di controllo economico da una politica diretta al bene della collettività, intesa come complesso di individui, in una politica diretta a fini di potenza, dei quali non rispondevano più le singole persone, ma soltanto uno o pochissimi.

Nei Paesi democratici, preoccupati di salvaguardare la libertà politica, pur menomando la libertà economica, si è arrivati a forme miste. Non ritiene sia per ora possibile dire esattamente quali risultati abbiano dato l’uno e l’altro tipo sul puro terreno economico; quali invece abbiano dato sul terreno politico, purtroppo proprio gli italiani – e i tedeschi forse anche di più – possono dire.

Se questo è avvenuto nel campo storico dei fatti, in quello delle teorie si è avuta un’evoluzione anche in questo senso; sicché pensa che tra le cose più interessanti, ma non definitive, sono quegli orientamenti che nelle varie scuole o correnti di dottrine economiche si sono verificati, e perfino nel seno della stessa corrente liberale si sono avuti quei tentativi – che possono sembrare addirittura strani – della cosiddetta ricerca della terza via. Essi, in sostanza, vogliono tendere a trovare come si può esercitare un controllo, così detto conforme – conforme a certe regole, a certi ideali di concorrenza, di minimo prezzo o di efficienza produttiva – rispettando la libertà politica.

Gli sembra che oggi in Italia, per un complesso di cose, per lo stesso schieramento politico e per la linea politica adottata dal partito che potrebbe e dovrebbe essere il più interessato ad un mutamento radicale della vita economica, il partito comunista, ci si orienti tutti più o meno su questa strada: di tentare un controllo dell’attività economica, mantenendolo negli schemi della libertà politica.

C’è al fondo di questo orientamento l’idea che, abbandonati a se stessi, gli uomini non possano arrivare, di squilibrio in squilibrio, a raggiungere una situazione di equilibrio, di armonia e di benessere sociale; ma che ciascun uomo abbandonato a se stesso, libero di sfruttare le forze naturali, di regolare i propri istinti come meglio crede, possa forse illudersi, per un tempo più o meno breve, di realizzare il suo benessere – grettamente inteso, di potenziare le sue attività – ancora grettamente intese – ma in definitiva non arrivare certamente ad una situazione di coordinamento, benefica per tutta quanta la società. Ed è in vista di questo che gli uomini tornano a ripetersi una domanda migliaia di volte ripetuta nel corso dei secoli: può esistere cioè un armonizzatore preventivo di questi squilibri, o un coordinatore che corregga, all’origine almeno, gli squilibri stessi?

La risposta che più o meno tutti dànno oggi è che questo coordinamento è necessario e che questo coordinatore si può determinare.

Sul come, nascono i dissensi.

Sempre in questa economia di trapasso – non accenna a quella collettivizzata del tutto – i metodi che si possono adottare per controllare l’attività economica e coordinarla, sembrano essere fondamentalmente due: il metodo di coloro i quali dicono: creiamo un organo centrale, che sarà forzatamente di tipo burocratico; regoliamo un po’ tutta l’attività economica, pur riconoscendo – salvo i regimi totalitari di tipo nazista e fascista – che questo organo centrale possa essere controllato dall’opinione pubblica e dagli organi legislativi normali. Il secondo metodo è quello di coloro i quali dicono: no! Attenti che l’organo centrale, al di fuori di una economia non collettivizzata, è molto pericoloso. Proprio in una economia non collettivizzata il controllo nella forma più efficace può essere esercitato, anziché dal centro, dalla periferia o per lo meno da settori periferici più o meno concentrici, finché si arriva anche ad un organo centrale.

È nato così il problema di organizzare un controllo non burocratico, ma democratico; problema che è stato imposto dalla necessità di far sì che questo controllo non sia meno competente dell’attività individuale, né meno interessato di essa, e che sia tempestivo. Parte per tradizione, parte per constatazione di quello che si verifica nel mondo, gli uomini di oggi non si fidano di un organo di controllo puramente burocratico, tanto che hanno inventato premi di interessamento, negli stessi organismi burocratici, perché si snelliscano e riescano a dare una certa spinta alle imprese o attività che ricadono sotto la loro sfera di azione.

Non conosce, fra tutte le teorie e tutti gli abbozzi di teorizzazione di questa forma di controllo, niente di più ardito di quello che è stato tentato da un gruppo di economisti americani in questi ultimi venti anni, e, proprio basandosi sulle loro realizzazioni, ha osservato nella sua relazione come, una volta premesso che il controllo sociale oggi è indispensabile, perché l’attività economica torni a beneficio di tutti i partecipanti alla vita nazionale, esso darebbe luogo a gravissimi inconvenienti, ove non fosse organizzato in un ambiente di libertà politica.

Data questa premessa, ha creduto opportuno sottolineare come il controllo debba obbedire ad altre cinque caratteristiche che non sono sua invenzione, ma che già sono indicate dal tentativo americano.

Il controllo deve essere competente, cioè deve essere esercitato da chi se ne intende e non da burocrati; deve essere interessato, cioè deve essere esercitato da chi ha interesse diverso, diretto al buon andamento dell’attività da regolare; deve essere decentrato, cioè esercitato non dalla capitale o da pochi uffici centrali, ma possibilmente nel luogo in cui si svolge l’attività, o almeno per rami di questa; deve essere democratico, cioè esercitato da uomini designati dagli organi interessati e, quando occorra, da tutti i cittadini; infine deve essere multiforme, cioè esercitato secondo le modalità che per ciascun tipo di attività risultino più efficaci.

Ha spiegato nella relazione a quali vantaggi dia luogo un controllo con queste caratteristiche, e non si ripeterà.

Aggiunge che vi sono momenti distinti in cui il controllo deve essere esercitato; vi è innanzi tutto un momento produttivo all’origine, nel seno stesso dei centri in cui si svolge la vita economica, ed in questa fase bisogna realizzare il controllo nelle varie forme che l’esperienza suggerirà. C’è un secondo momento, non più nell’interno di ciascuno dei singoli centri, ma negli ambienti che abbracciano questi vari centri, e qui sorge un problema di coordinamento di queste attività produttive. Vi è un terzo momento, relativo alla distribuzione e al consumo (consumo in senso economico) della ricchezza prodotta.

A suo avviso, per quanto riguarda il primo momento, cioè il momento in cui nasce l’attività produttiva, un controllo interessato, democratico, competente, può essere eseguito innanzi tutto attraverso la partecipazione dei lavoratori alla vita intima dell’impresa. È del parere che nella fase attuale non ci si possa limitare, e sia un errore limitarsi, alla semplice azione dei consigli di gestione. Dal momento che il Consiglio di amministrazione esiste ed esercita una certa attività ed influenza, è ancora del parere che convenga approfittare anche di questo organo, immettendo in esso, con funzioni deliberative, non pochi lavoratori, ma, se è necessario, la metà, o anche di più, come preparazione di quella che gli pare possa essere un’azienda-tipo di domani, cioè un’impresa o in forma cooperativa, o in forma tale per cui la proprietà risulti nelle mani dei lavoratori. Ma questo è un problema complesso e si limita ad accennarlo.

Un controllo interessato, democratico, competente, può inoltre ottenersi con la costituzione di altri organi di controllo, oltre che con la partecipazione al consiglio di amministrazione e quindi con la costituzione di appositi consigli di gestione (quanto al termine da usare è convinto che per precisione tecnica sarebbe meglio dire «Consiglio di efficienza») per esercitare il controllo nella fase tecnico-amministrativa, mentre la partecipazione al consiglio di amministrazione serve per il controllo tecnico-economico.

Una terza modalità di controllo che abbia le caratteristiche suddette è la socializzazione vera e propria di certe imprese, con determinate caratteristiche che consentano di socializzarle senza danno per la collettività, perché lo scopo, evidentemente, è quello di accrescere il benessere di tutti i lavoratori, e ogni forma che diminuisca l’attività produttiva e aumenti il costo di esercizio è una forma di controllo deleteria perché preparatoria della miseria, non del benessere.

Occorrerebbe, infine, la partecipazione agli utili, non per aumentare il reddito del lavoratore (e di qui il dissenso con la onorevole Noce), ma come forma di avviamento all’utilizzazione di un reddito supernormale, per l’avviamento alla comproprietà dell’impresa da parte della comunità e non dei singoli.

Il complesso della discussione svoltasi non gli ha consentito di scendere a particolari, ma non crede che la partecipazione agli utili possa dare un beneficio serio ai lavoratori. Sono state fatte esperienze in America e si è arrivati alla conclusione che se si fossero divisi gli utili di una certa azienda, si sarebbe aumentato il reddito di mezza giornata all’anno per ogni singolo lavoratore. Viceversa se questa massa di utili è affidata al corpo dei lavoratori, le cose possono cambiare.

Comunque, è d’accordo nel ritenere che questo è un fine più remoto, un avvio ad una certa trasformazione dell’impresa, che non si può realizzare oggi nello stato attuale. Ma il giorno in cui vi fosse una economia così ben controllata, in cui l’utile di congiuntura sparisce ed è fisso il capitale, il problema della partecipazione agli utili sarebbe già risolto per se stesso.

Premessa necessaria ad ogni attività di controllo su questi centri produttivi, è una revisione contabile delle aziende. Se non si arriva alla tipizzazione della contabilità delle imprese – (ed ormai tutti sanno quanto poco ci si possa fidare dei bilanci, delle relazioni dei sindaci, ecc.) – in modo che il bilancio sia un documento facilmente accessibile ad apposite commissioni ed agli uffici fiscali, si sarà perso il tempo e si sarà fatta un’impalcatura che finirà per rovinare l’industria italiana.

Tutte le forme di controllo possono essere ottimi strumenti, ma senza la chiarezza del bilancio si perderà il tempo e sarà inutile parlarne. Del resto è interessante notare come questa revisione contabile delle aziende, ad opera di appositi collegi pubblici, si sia presentata contemporaneamente in due Paesi che avevano aspirazioni totalmente diverse. Innanzi tutto in Germania, dove il nazismo l’ha sfruttata ai suoi fini, ma dove bisogna riconoscere che ha servito molto bene per attuare una politica di stabilizzazione di prezzi. Si è presentata poi in America, dove non si aveva l’idea di farla servire come strumento politico, ma come strumento di moralità tributaria e fiscale e come strumento di lotta contro il monopolismo.

Ritiene che nella fase attuale – ed attuale non vuol dire di quest’anno o del prossimo, ma di questo ciclo storico in cui viviamo – un controllo esercitato in queste cinque direzioni possa essere sufficiente.

C’è il secondo momento del controllo sociale, in cui non occorre più guardare alla periferia di ciascun centro produttivo, non occorre più chiamare il lavoratore o il consumatore a controllare insieme al fornitore di capitali; ma è il momento in cui si tratta di considerare nel complesso l’attività produttiva nazionale, per coordinarla nello sforzo fatto dalle singole unità e per coordinarla nel mondo. Sorge di qui il problema del commercio internazionale, che ritiene inutile trattare per il momento.

I mezzi naturali di questo coordinamento li vede e li enuncia in ordine inverso a quello seguito nella relazione: anzitutto nell’insieme delle varie disposizioni generali che regolano la vita giuridico-costituzionale del nostro Paese. Quando furono dettate norme sul diritto alla vita, senza volerlo forse, si sono anche determinate certe forme di controllo dell’attività economica; quando si parla, o si parlerà e statuirà qualche cosa circa il problema sindacale, senza volerlo, o volendolo, certamente si stabiliranno anche delle forme di controllo; quando si rivendica alla collettività il dovere di provvedere alla vita di tutta una categoria di cittadini che per età o per stato fisico, o per altri accidenti si trovino nella condizione di non poter provvedere al proprio lavoro ed al sostentamento della propria persona, si stabiliscono forme di controllo.

GIUA chiede con quali organi.

FANFANI, Relatore, chiarisce che si tratta degli organi che saranno previsti dalla attuazione di questo diritto; quindi l’Istituto delle assicurazioni, le mutue e, in genere, tutti gli istituti di assistenza.

Osserva che quando si sente parlare di controllo sociale, molti si insospettiscono, ma in realtà una forma di controllo c’è sempre stata. Gli organi centrali esecutivi o di vigilanza dei Ministeri hanno sempre esercitata una forma di controllo dell’attività economica.

Infine, la costituzione di un Consiglio economico nazionale, al quale già nelle riunioni precedenti si è dato il nome di Consiglio del lavoro – nome poco appropriato, perché può far nascere l’impressione che si limiti ad un settore più che ad un altro – e che, se ci sarà un ordinamento regionale, potrebbe avere delle anticipazioni in consigli economici regionali.

Pensa che si possano avere buone ragioni per non accettare la sua esemplificazione, che però non presenta nulla di tassativo.

Questi consigli sarebbero costituiti dai rappresentanti degli interessi della produzione in seno agli organi collegiali o regionali. Nell’ipotesi che gli organi collegiali siano di formazione mista e quindi nell’interno di questi organi collegiali esistano anche rappresentanti eletti direttamente dai sindacati o dalle associazioni professionali di determinate categorie, si potrebbero costituire con questi elementi, anziché con l’elezione di secondo grado, commissioni speciali aventi lo scopo specifico di esercitare funzioni consultive degli organi esecutivi, funzioni di iniziativa e di controllo rispetto agli organi legislativi, normali funzioni di coordinamento di tutta l’azione pubblica, coordinatrice ed integratrice delle attività economiche, con particolare riguardo al settore del credito. È del parere che nella forma di economia in cui si vive lo strumento certo per predisporre tutte le coordinazioni dell’attività economica sia anche costituito dalla politica del credito e degli investimenti.

Infine, il terzo momento di controllo sociale dell’attività economica potrebbe esercitarsi con prelevamenti fiscali in genere, graduati e diretti allo scopo di finanziare la attività pubblica, di impedire l’azione monopolizzatrice, di evitare accumulazioni di ricchezza, ecc.

Pensa, per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza, che possa essere un mezzo straordinario di riforma sociale quello di far sì che, in occasione del trasferimento di ricchezza a titolo ereditario, si stabilisca una limitazione alla facoltà di testare. Una prima quota della ricchezza andrebbe al bilancio dello Stato – e questo già avviene – una seconda quota di ricchezza resterebbe libera, a disposizione del testatore per i suoi familiari (e qui si può graduare a seconda del numero e dell’età dei familiari). Una terza quota, di cui la disponibilità è lasciata anche al testatore – per incoraggiare il risparmio ed il sacrificio che ha preparato l’eredità – destinata non ad usi individuali, bensì ad usi sociali. Il testatore avrebbe facoltà di distribuire questa ricchezza a favore di opere pubbliche, o di associazioni, o di istituzioni di solidarietà sociale, stabilite dai competenti organi.

La distribuzione sarebbe già prevista entro un certo limite, cosicché chi ne beneficia sarebbe anche la società. Se la società fosse bene organizzata, effettivamente tutta quanta la ricchezza si dovrebbe distribuire in funzione delle capacità, dei meriti e delle necessità. Che una grande quantità di ricchezza si accumuli nelle mani di un individuo può derivare da colpi di fortuna o da speciali virtù risparmiatorie, ma può pensarsi che possa derivare anche da altre ragioni. Si potrebbe stabilire anche che la terza quota, destinata alle opere pubbliche, possa essere destinata ai collaboratori nel campo del lavoro, perché, evidentemente, se in trenta o quarant’anni un individuo ha potuto accumulare una grande ricchezza, in questa destinazione si avrebbe una forma di restituzione ai lavoratori, ai quali questa ricchezza sarebbe stata sottratta.

Non è questo un ritorno al Medio Evo, ma il riconoscimento di un certo spirito correttivo, perché c’è nell’umanità questo tentativo di correggere ogni tanto le deviazioni. Se non si riesce a correggere prima determinate forme della società, si deve arrivare ad un correttivo in seguito.

Infine, limiti speciali di acquisto di beni, specialmente strumentali (terra, impianti), riservati generalmente, entro certi limiti, a tutti, ed oltre certi limiti, al dominio delle collettività minori (comunità professionali, municipio) e maggiori (regioni, Stato).

Afferma che tutte queste cose non è necessario siano inserite nella Costituzione; è certo però, che nella Costituzione uno o più articoli i quali stabiliscano che senza un controllo sociale dell’attività economica non è possibile arrivare a realizzare il benessere di tutti i cittadini, è bene che vi siano. È opportuno considerare che si profilano già delle istituzioni che si possono ritenere permanenti per un cento numero di anni durante il nostro ciclo storico, e tali da essere consacrate nella Costituzione, affinché il legislatore costruisca lo Stato, e l’ordinamento giuridico su questa base, utilizzandole.

Per il resto pensa che forse l’Assemblea Costituente dovrà emanare apposite leggi disciplinatrici dell’attività produttiva: costituzione dell’impresa, costituzione degli organi collegiali e regionali della seconda Camera, regolamento dei casi di socializzazione della impresa e del trasferimento della ricchezza.

Nella relazione ha formulato il seguente articolo che oggi gli pare difettoso soprattutto per ragioni tecniche.

«L’attività economica privata e pubblica è diretta a provvedere ogni cittadino dei beni utili al suo benessere ed alla piena espansione della sua personalità. A tal fine la Repubblica ammette e protegge l’iniziativa privata, armonizzandone gli sviluppi in senso sociale, oltre che con le varie disposizioni generali a protezione del diritto alla vita ed all’espansione della persona, mediante: partecipazione dei lavoratori (ed ove del caso degli utenti) alla gestione, alla proprietà, agli utili delle imprese; la tipizzazione contabile e la pubblica revisione aziendale; l’azione generale di appositi consigli economici, in seno agli organi rappresentativi regionali e alla seconda Camera; il prelievo fiscale; la limitazione all’acquisto e al trasferimento della proprietà, la socializzazione delle imprese non gestibili dai privati con comune vantaggio.»

Riconosce che la materia di questo articolo si trova già distribuita in parecchi degli articoli precedentemente discussi, sicché probabilmente, in sede di coordinamento, se ne potrebbe fare a meno, salvo a lasciare la parte teorica, in cui si enuncia la necessità di questo controllo ed il dovere per lo Stato di provvedervi nelle forme migliori.

Ad ogni modo, dalla discussione potranno derivare formulazioni che siano, se non nella sostanza, diverse nella forma.

GIUA senza entrare in merito alla discussione, pensa che la formulazione dell’articolo debba essere modificata. Prega quindi il Relatore di proporre, nella prossima riunione, un’altra formulazione che tenga conto dell’impostazione teorica dei suoi principî e, nello stesso tempo, abbandoni tutte quelle altre determinazioni che sono già comprese in altri articoli e in parte anche nel lavoro fatto dalla prima Sottocommissione.

FANFANI, Relatore, per non ripetere l’errore commesso di formulare l’articolo senza aver prima sentito quanto era stato deciso nella prima Sottocommissione, prega l’onorevole Giua e gli altri membri di attendere per lo meno fino a quando la discussione in materia sia giunta ad un grado tale di maturazione da suggerirgli gli spunti per una formulazione che risponda all’opinione dei più.

PESENTI ha ascoltato con interesse la relazione dell’onorevole Fanfani ma si chiede a quali conclusioni avrebbe portato questa discussione sulle possibilità di un controllo democratico della produzione. Chiede se il controllo della produzione può avvenire soltanto con un sistema socialista, che tolga cioè la possibilità di investimento ai privati, o con il sistema nel quale noi viviamo, e se può essere un controllo democratico o un controllo autoritario. A suo avviso il nocciolo della tesi del Fanfani è proprio che la produzione non è fine a se stessa, ma serve per la comunità. È questo un punto fondamentale. Poi vi è l’altro che, appunto, la comunità deve controllare perché questi fini siano raggiunti. Questo principio fondamentale è bene che sia affermato nella Carta costituzionale, e potrebbe trovar posto dove si afferma il carattere sociale della proprietà.

Propone che in quella sede si dica: «La produzione (o l’attività economica) deve essere indirizzata a fini sociali e la comunità deve controllare a ché questi fini siano raggiunti.».

PRESIDENTE rinvia il seguito della discussione.

La seduta termina alle 19.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Merlin Angelina, Molè, Pesenti, Rapelli, Togni.

Assente giustificato: Dominedò.

Assenti: Colitto, Lombardo, Marinaro, Noce Teresa, Paratore, Taviani.