Come nasce la Costituzione

RELAZIONE RUINI 6 FEBBRAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

composta dei deputati:

Ruini, Presidente; Tupini, Ghidini, Terracini, Vice Presidenti; Perassi, Grassi, Marinaro, Segretari; Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

RELAZIONE

DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE

Presentata alla Presidenza dell’Assemblea Costituente

il 6 febbraio 1947

RELAZIONE

AL PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

Onorevoli Colleghi! – Liberata da un regime funesto di servitù, ritemprata dalle forze vive della resistenza e del nuovo ordine democratico, l’Italia ha ripreso il suo cammino di civiltà e si è costituita a Repubblica, sulle basi inscindibili della democrazia e del lavoro.

La prima esigenza della Repubblica italiana è di darsi una Costituzione. La Commissione che la Costituente ha incaricato di prevedere un progetto ha lavorato intensamente. Ha tenuto trecentosessantadue sedute plenarie, o di sottocommissioni, sezioni o comitati. Un osservatore straniero ha constatato che nessun’altra Costituzione ebbe più largo materiale di preparazione: per gli studi predisposti dal Ministero della Costituente, e per quelli che la nostra Commissione ha condotti con raccolte e comparazioni sistematiche, tema per tema, delle norme costituzionali vigenti negli altri Paesi. Se la nostra deve essere una Costituzione propriamente italiana, bisogna pur conoscere ciò che vi è altrove.

Vi sono state nella Commissione molte relazioni e moltissime discussioni. Qualcuno trova che sono state troppe; ma dopo una eclissi durata per tutta una generazione la coscienza democratica deve riaprirsi la strada e fare la propria esperienza con l’appassionamento ai problemi politici e costituzionali. Il tempo impiegato dalla nostra Commissione non è stato comunque maggiore di quello richiesto per tante altre Costituzioni. Si sono affrontati temi – come l’istituzione della Regione – che in altri tempi avrebbero occupato intere legislature.

La composizione numerosa della Commissione ha dato modo di manifestarsi a tutte le correnti. Si è dapprima lavorato in vastità ed in estensione; e si sono poi avute la concentrazione e la sintesi. Non pochi elementi ed articoli preparati hanno servito come di fondamento invisibile all’edificio della Costituzione, per l’esame di problemi che dovevano essere considerati, anche senza dar luogo ad espressa formulazione; o potranno far parte di leggi-base, ad integrazione della Carta costituzionale.

Formulare oggi una Costituzione è compito assai grave. Dopo le meteore di quelle improvvisate nella scia della Rivoluzione francese e delle altre del Risorgimento, concesse dai sovrani – tranne una sola luminosa eccezione, la Costituzione romana di Mazzini, alla quale noi ci vogliamo idealmente ricongiungere – è la prima volta, nella sua storia, che tutto il popolo italiano, riunito a Stato nazionale, si dà direttamente e democraticamente la propria Costituzione.

Il compito è più difficile che cento anni fa, quando si fece lo Statuto albertino e si adottarono senz’altro istituzioni tipiche di altre Costituzioni dell’Ottocento, nella tentata conciliazione dell’istituto monarchico col regime parlamentare attraverso il governo di gabinetto. Un mio predecessore al Consiglio di Stato, il Des Ambrois, poté in pochi giorni fabbricare un progetto. Oggi noi non vogliamo copiare, e ad ogni modo le cose non sono così semplici. Come osservò un altissimo uomo politico, che è anche il maggior maestro italiano di diritto pubblico, Vittorio Emanuele Orlando, i sistemi caratteristici dell’Ottocento sono in crisi. Si affacciano nuove forme democratiche. Le forze del lavoro ed i grandi partiti di massa muovono e foggiano in modo diverso parlamenti e governi. Non si sa quanto resterà del vecchio; e non sono ancora chiari i lineamenti del nuovo.

Vi è in questo momento per la Repubblica italiana un’urgente esigenza: uscire dal provvisorio. Bisogna che siano costruite nell’ordinamento repubblicano alcune mura solide, non sul vuoto o sull’incerto, ma tali che possano servire, se occorre, alla continuazione dell’edificio, senza sbarrare la strada alle conquiste dell’avvenire.

La Costituzione deve essere, più che è possibile, breve, semplice e chiara; tale che tutto il popolo la possa comprendere. Sono le parole con le quali la Commissione si tracciò la via. Vero è che non si può tornare al profilo semplice e scarno dello Stato d’un secolo fa; lo sviluppo delle sue nuove funzioni ha portato con sé la «dilatazione» dei testi costituzionali, che Bryce ha da tempo rilevata. La tendenza ha avuto particolare accentuazione, dopo l’altra guerra mondiale, col tipo «sociologizzante» di Weimar. Si cerca oggi di evitare gli eccessi. Una Costituzione, lo ha detto anche Stalin, non può essere un «programma per il futuro». Non può ridursi ad una tavola di affermazioni e di valori astratti. Non può diventare, con la diffusione particolareggiata che è tipica di alcune Costituzioni sud-americane, un codice di norme che vanno invece in gran parte rinviate alla legislazione ordinaria.

Sarebbe desiderabile distinguere, come si fece a fine del Settecento, fra le dichiarazioni dei diritti – o «dichiarazioni di principî», quali le impostò Mazzini – e le disposizioni costituzionali vere e proprie. Ma non è possibile una netta distinzione. In momenti come l’attuale, dopo l’oscuramento e la compressione violenta delle più elementari libertà, è inevitabile che, nel grande soffio di liberazione che anima il popolo e trascende il mero tecnicismo delle norme, si senta il bisogno di far risaltare nella Costituzione le rivendicazioni della personalità umana e della giustizia sociale. Ed è nello stesso tempo inevitabile che si cerchi di sottrarre le disposizioni più rilevanti per la vita del Paese all’arbitrio di improvvise modificazioni, collocandole nella rocca della Costituzione e sottoponendo la loro revisione a più caute procedure.

Il progetto di Costituzione italiana, che per il numero dei suoi articoli è inferiore a quasi tutte le Costituzioni in vigore, rappresenta, in certo senso, un tipo nuovo ed intermedio, che, mentre si informa storicamente alle realtà concrete ed attuali, si vuol ricongiungere ai principî ideali in base ai quali risorge e si avvia a forme nuove la democrazia italiana.

Se più d’una disposizione del presente progetto fu votata a maggioranza lieve, nel contrasto fra le parti politiche, vi è stata una larga e sostanziale convergenza nel riconoscere che esistono istanze ed esigenze supreme di libertà e di giustizia, che neppure una Costituzione può violare; e – come in una gerarchia di norme – altre ne esistono, nell’edificio della Costituzione, che non debbono essere violate dalle leggi, ma possono essere modificate soltanto da una espressione particolare di volontà mediante un processo costituzionale di revisione.

Nello sforzo di conquistare stabilmente la libertà e di ancorarla ad una sfera di valori più alti, convergono correnti profonde: dalle democratiche fedeli agli «immortali principî» e dalle liberali che invocano la «religione della libertà», alla grande ispirazione cristiana che rivendica a sé la fonte eterna di quei principî ed all’impulso di rinnovamento che muove dal Manifesto dei comunisti e che, per combattere lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, risale alla liberazione dell’uomo dal giogo dell’uomo; e cioè ai suoi inalienabili diritti.

Uno spirito lucido, Stendhal, diceva che nell’avvicinarsi ad una Costituzione si prova quasi un senso religioso.

DISPOSIZIONI GENERALI

Le due parti del progetto di Costituzione: «Diritti e Doveri dei cittadini» e «Ordinamento della Repubblica», sono precedute da alcune disposizioni generali.

Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l’affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una Costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «Repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale – con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.

Bandiera della Repubblica è il «tricolore», che altre Nazioni possono avere adottato dopo di noi italiani, ma è la nostra bandiera storica; e ne abbiamo quest’anno celebrato il centocinquantesimo anniversario.

La Costituzione, dopo aver affermato il concetto della sovranità nazionale, intende inquadrare nel campo internazionale la posizione dell’Italia: che dispone il proprio ordinamento giuridico in modo da adattarsi automaticamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra Costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali.

Nella definizione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, se tutti i membri della Commissione hanno convenuto che si deve riconoscere il diritto della Chiesa alla piena indipendenza nei suoi ordinamenti interni, alcuni hanno fatto riserve sulla formula di riconoscimento della sovranità. E se tutte le correnti politiche hanno dichiarato che non pensano a denunciare i Patti del Laterano, alcune si sono opposte ad inserire il loro riconoscimento nella Costituzione, quasi fossero parti dell’ordinamento della Repubblica. È prevalsa la tesi che considera il cattolicesimo, per le tradizioni storiche di nostra civiltà, e per l’appartenenza della grandissima maggioranza, come la religione degli italiani e ritiene che i patti intercedenti fra Stato e Chiesa debbano avere una speciale posizione di natura costituzionale, tale tuttavia che una loro modificazione bilateralmente accettata non importi processo di revisione costituzionale.

Alle altre confessioni religiose il progetto di Costituzione garantisce autonomia, libertà di ordinamenti e l’intervento dei loro rappresentanti nel definire i rapporti con lo Stato.

Gli ultimi articoli delle disposizioni generali, che sono un ponte di passaggio alla parte prima della Costituzione, sui diritti e doveri dei cittadini, fissano principî generali ispiratori di tutta la Costituzione. Alcuni della Commissione ritenevano sede più adatta, per tali principî, un preambolo. Ciò che soprattutto ha valore è l’unanimità che vi è stata nel porre a base dell’ordinamento e della stessa esistenza della Repubblica principî che regimi tirannici hanno invano cercato di calpestare e di cancellare. Rivivono, ed una vera democrazia deve vivificarsi nel loro spirito.

Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l’altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani.

Il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici e razziali. E trova oggi nuovo ed ampio sviluppo con l’eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso.

Col giusto risalto dato alla personalità dell’uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell’uomo erano avvolte da un’aureola d’individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. Le dichiarazioni dei doveri si accompagnano mazzinianamente a quelle dei diritti. Contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato – diceva Mazzini – non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Rapporti civili.

Le due parti del progetto hanno, per la loro stessa impostazione, qualche inevitabile diversità d’accento; la prima si riferisce a principî generali, la seconda ad istituti e al loro funzionamento tecnico; ma sono strettamente connesse ed unificate dallo stesso spirito.

La nostra vicina Francia, che nel suo primo testo costituzionale del 1946 aveva dato molto rilievo ad una prima parte di diritti e doveri dei cittadini, ha in seguito accolto la suggestione di Herriot e di altri che il loro Paese non ha bisogno, oggi, di ripetere definizioni di diritti che gli sono acquisiti, dalle famose dichiarazioni settecentesche in poi; né è possibile esprimerle con più lapidaria efficacia; basta richiamarle, con qualche brevissimo cenno di completamento per la parte sociale. Così si è fatto, nel preambolo di quella che è oggi la Costituzione di Francia. L’esempio non può essere seguito da noi, che non abbiamo quei precedenti, né tradizione repubblicana; ed assai più lunga è stata da noi la devastazione fascista.

La regolazione dei diritti e doveri – ripartita in quattro titoli: Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici, Rapporti politici – ha luogo non col semplice rinvio alla legge, ma con l’indicazione di criteri, nei quali la legge troverà insieme l’infrangibile limite e le direttive da seguire.

Nel nostro progetto si delineano in rapida rassegna le libertà essenziali, dalle tre «inviolabilità» della persona, del domicilio e della corrispondenza, e dalle libertà di circolazione, di soggiorno, di emigrazione, ai diritti di riunione, di associazione, di credenza e di confessione religiosa, di stampa. Questi «diritti di libertà» hanno classiche espressioni in vecchi testi costituzionali, ma qui occorreva, dopo ciò che è dolorosamente avvenuto, una determinazione e precisazione maggiore. Si è cercato di farlo con sobrietà e densità di norme; né manca qualche lineamento più completo che altrove. Così ad esempio quando, per le limitazioni della libertà personale e del domicilio, nel porre i necessari presidi dell’indicazione di casi tassativi, da parte della legge, e d’una decisione motivata dell’autorità giudiziaria, si aggiunge che gli indilazionabili interventi della pubblica sicurezza, da contenersi sempre nei casi di legge, debbono essere senza eccezione sottoposti alla magistratura, anche se ai fermi è già succeduto il rilascio, ed anche per le perquisizioni e le ispezioni, e per ogni altra misura restrittiva della libertà. Per il diritto di riunione non è richiesto preavviso né consentito divieto se non per le riunioni in luogo pubblico. Per il diritto d’associazione si adotta un criterio, che è garanzia di vasta libertà: le attività che ciascuno ha diritto di svolgere individualmente, nei limiti della legge penale, possono essere svolte anche in forma associata.

Alla libertà di coscienza e di fede religiosa si assicura la più ampia sfera di manifestazione. Ciascuno è libero di esprimere il proprio pensiero con la stampa e con ogni mezzo di diffusione. Vietato il regime di censura e di autorizzazione, si è ammesso il sequestro, anche qui col doppio presidio di una precisa designazione da parte della legge di reati o violazioni di norme, e dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Non dovrebbe essere consentito alcun altro sequestro; ed è da sperare che si realizzi un assetto tale da offrir modo al magistrato di intervenire sempre tempestivamente; ma, ove ciò non sia possibile per provvedimenti urgentissimi sulla stampa periodica, è sembrato alla maggioranza della Commissione che l’accordare alla autorità di polizia una facoltà ben determinata e soggetta sempre all’immediato controllo della magistratura sia preferibile all’espediente di ricorrere a disposizioni oscure delle leggi di pubblica sicurezza, che potevano essere preziose al fascismo, ma ormai devono essere abbandonate.

Al diritto di emigrare, che si riconosce ai cittadini, ed all’impegno di tutelare il lavoro italiano all’estero, segue nel progetto di Costituzione il riconoscimento che l’Italia fa dei diritti degli stranieri nel proprio territorio, in armonia con le sue alte tradizioni anche scientifiche nel diritto internazionale. Non si poteva tacere, dopo così dure prove, sul diritto di asilo che le Costituzioni civili offrono ai perseguitati politici di altri Paesi. Né, dopo aver assistito agli arbitrî che, per ragioni politiche o razziste, spogliavano intere schiere di cittadini del geloso patrimonio della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome, era possibile tralasciare un esplicito divieto.

L’enunciazione dei diritti civili è completata da principî, alcuni dei quali potevano sembrare indiscutibili; ma l’esperienza amara ammonisce di trincerarli nella Costituzione: il diritto di agire e difendersi in giudizio, di non essere distolti dal giudice naturale o puniti con legge retroattiva. Vietate le pene crudeli e disumane, la prima Costituzione repubblicana d’Italia sancisce il principio dell’abolizione della pena di morte, che in molti sensi può dirsi italiano, e che, ribadito nelle fasi e nei regimi di libertà del nostro Paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza.

Rapporti etico-sociali.

Tutti sentono l’importanza e la missione della famiglia, come nucleo essenziale della società. Non vi è stata, nella Commissione, una disputa fra divorzisti e antidivorzisti. Nessuno ha manifestato l’intento di proporre con legge il divorzio. Il contrasto si è svolto sul punto se l’indissolubilità del matrimonio sia tema da inserire nella Costituzione. Una corrente lo ha negato, un’altra ha ritenuto di sì, e la portata pratica della soluzione prevalsa è che l’indissolubilità del matrimonio, per lo stato d’animo del popolo italiano e per i riflessi religiosi, è questione così grave da non poter essere in nessun caso toccata con una legge ordinaria, ma solo con una legge di valore costituzionale. Non è poi sembrato alla Commissione che la tutela della famiglia legittima impedisca un riconoscimento dei diritti dei figli nati fuori del matrimonio, che sono diritti della personalità umana; e non è giusto che le colpe dei padri ricadano sul capo dei figli.

Per la scuola, si è riconosciuto che spetta alla Repubblica dettare le norme generali sull’istruzione, organizzare la scuola di Stato in tutti i suoi gradi, assicurare ad enti e privati la facoltà di istituire altre scuole. Tutto ciò non costituisce un monopolio statale; ed è ammessa la libertà d’insegnamento. Ma l’organizzazione della scuola pubblica è una delle precipue funzioni dello Stato; e quando le scuole non statali chiedono la parificazione, la legge ne definisce gli obblighi e la sorveglianza da parte dello Stato, e nel tempo stesso ne assicura la effettiva libertà garantendo parità di trattamento agli alunni, a parità di condizioni didattiche. La serietà degli studi e l’imparziale controllo su tutte le scuole statali e non statali sono garantiti con l’obbligo dell’esame di Stato, non solo allo sbocco finale ma anche in gradi intermedi.

Uno dei punti al quale l’Italia deve tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun’altra, sia accentuato l’impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell’istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera ed integrale democrazia.

Rapporti economici.

Le nuove Costituzioni rispecchiano con affermazioni e con norme la tendenza storica in cammino: che la democrazia non è soltanto politica, ma economica e sociale. La Costituzione italiana ha, come vedemmo, due note fondamentali: lo sviluppo della personalità e la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione della società. Dalla prima deriva la liberazione dell’uomo dal bisogno, una delle quattro libertà di Roosevelt. Da tutte due insieme l’esigenza di ordinamenti democratici anche nel campo dell’economia.

Non vi può essere nessun pavido scrupolo che, un secolo e mezzo dopo i «diritti dell’uomo e del cittadino», siano dichiarati i «diritti del lavoratore». Se Thiers disse dopo il 1870: «la repubblica sarà conservatrice o non sarà», si può dire oggi che la repubblica sarà di democrazia e riforme economiche, o non sarà.

La nostra Costituzione non parla, come fanno altre, di «protezione del lavoro». Non si protegge il lavoro, che è forza essenziale della società. Si pone invece il compito della Repubblica di provvedere con la sua legislazione, e di promuovere accordi internazionali, per le conquiste e la regolazione dei diritti del lavoro.

L’affermazione del «diritto al lavoro», e cioè ad una occupazione piena per tutti, ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria; ma la Commissione ha ritenuto, ed anche giuristi rigorosi hanno ammesso che, trattandosi di un diritto potenziale, la Costituzione può indicarlo, come avviene in altri casi, perché il legislatore ne promuova l’attuazione, secondo l’impegno che la Repubblica nella Costituzione stessa si assume.

Al diritto si accompagna il dovere di lavorare; come è nel grande motto di San Paolo, riprodotto anche nella Costituzione russa: «chi non lavora non mangia». Ad evitare applicazioni unilaterali, si chiarisce che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione. Posto il dovere del lavoro, è inevitabile sanzione – e la larga accezione toglie il pericolo di abusi – che il suo adempimento sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Sono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore; con che si completa in questa Costituzione la conquistata eguaglianza della donna.

Si riferiscono ad istituti concreti il diritto dell’assistenza che spetta ad ogni individuo senza mezzi e senza capacità di lavoro ed il diritto particolare, che sorge dalla stessa prestazione di lavoro, alla previdenza ed alla «sicurezza sociale».

Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma – che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo – e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, a tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati.

La dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi che la Costituzione ne tacesse, o la subordinasse a norme di legge. Si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione.

La Costituzione riconosce e garantisce nell’economia italiana – ed a ciò non si oppongono le correnti estreme – l’iniziativa e la libertà privata, e la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il progetto pone in luce la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono ciascuna proporsi di provvedere insieme ai bisogni individuali ed ai collettivi. Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le Costituzioni; e la coscienza moderna richiede che la proprietà adempia la sua funzione sociale e sia accessibile a tutti mediante il lavoro e il risparmio.

È prevista la assunzione di imprese economiche da parte dello Stato e, in forme decentrate, di enti e di «comunità d’utenti e di consumatori» (con che si apre l’adito ad una difesa dei consumatori). Tale assunzione ha come condizioni: che avvenga in base a disposizioni di leggi; che dia luogo ad espropriazione ed indennizzo; che vi sia uno dei tre caratteri ricorrenti in materia di nazionalizzazione e socializzazione: servizio pubblico essenziale, disponibilità di fonti d’energia, monopolio di fatto; e che in ognuno di questi casi si riscontri un preminente interesse generale.

L’impresa e la proprietà terriera richieggono un complesso di provvedimenti che vanno dai vincoli, come quelli già esistenti di bonifica, e dalla lotta contro le proprietà troppo estese e latifondistiche, suscettive di miglior coltivazione, all’aiuto ai piccoli o medi proprietari ed all’elevazione dei lavoratori.

Tre brevi disposizioni chiudono la parte dei diritti economici. Affermato il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese, si rinvia pei modi e pei limiti ad una legge regolatrice. Nel breve cenno alla cooperazione, che deve essere uno dei maggiori caposaldi di una democrazia economica, vi è già l’avviamento alla disciplina legislativa che è necessaria per stabilire la figura e le caratteristiche della società cooperativa e la sorveglianza che gli stessi cooperatori invocano per colpire gli abusi della falsa cooperazione. L’altro accenno alla tutela del risparmio ed alla vigilanza sul credito contiene – né più si poteva fare nella Costituzione – un’indicazione al coordinamento di norme ed istituti, che manca oggi in Italia.

Rapporti politici.

Brevi disposizioni. A quelle, che vi sono in tutte le Costituzioni, sul diritto di voto, si è cercato di dare maggior precisazione, fermando due sole possibilità di eccezioni: l’incapacità civile e la condanna penale. All’istituto della petizione, che ha scarsa importanza, ma non poteva essere cancellato, si è, invece del carattere più particolaristico di «plainte», dato il contenuto d’un suggerimento di misure d’interesse generale. Non sembra inutile, per l’accesso agli uffici pubblici, il richiamo all’eguaglianza, che trova il suo solo limite naturale nelle attitudini; ed ogni limite deve essere stabilito per legge.

Sono affermati con vigore i doveri di difesa della Patria e del servizio militare; e quelli generali di essere fedeli alla Repubblica e di adempiere le proprie funzioni «con disciplina ed onore»; vecchie parole che rivivono nelle più giovani Carte, quale la russa. Sono doveri che incombono su tutti i cittadini; anche se si è limitato a poche categorie l’atto formale del giuramento.

Al principio di fedeltà ed obbedienza alla pubblica autorità fa riscontro quello di resistenza, quando l’autorità viola le libertà fondamentali. Venne da alcuni espresso il dubbio se in una Costituzione che presuppone e si basa sulla legalità possa trovar posto il diritto o piuttosto il fatto della rivolta. Ha anche qui influito il ricordo di recenti vicende; ed è prevalsa l’idea che la resistenza all’oppressione, rivendicata da teorie e carte antichissime, è un diritto e un dovere, del quale non può tacersi, anche e proprio in un ordinamento che fa capo alla sovranità popolare.

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

La nuova Costituzione italiana, mentre si ispira alle idealità etico-politiche che muovono la democrazia, tiene conto della concreta realtà, sulla quale soltanto si può edificare. Sono due posizioni che si completano a vicenda. Vanno invece evitate le costruzioni astratte che si appoggiano al mero ragionamento. Le Carte costituzionali, di così facile fioritura nell’altro dopoguerra, e di così effimera vita, ebbero una preoccupazione eccessiva di razionalizzare istituti e sistemi; e, dato giusto rilievo al principio della sovranità popolare, non pensarono abbastanza ad assicurare la forza e la stabilità dello Stato.

I problemi dell’ordinamento costituzionale sono così complessi, che non è dato risolverli con qualche formula breve. Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo; che è l’organo essenziale della nuova Costituzione. Anche se non ha la continuità di funzionamento e la personalizzazione più concreta degli altri organi, è la forza viva cui si riconduce ogni loro potere; l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola. Per la sua struttura universale e fluente, non può direttamente legiferare e governare; ormai neppure nella minuscola ed arcaica Landesgemeinde cara a Rousseau.

La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e nel referendum. E poiché anche il referendum si inserisce nell’attività legislativa del Parlamento, il fulcro concreto dell’organizzazione costituzionale è qui, nel Parlamento; che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo; e come tale riassume in sé la funzione di fare le leggi e di determinare e dirigere la formazione e l’attività del governo.

Il Parlamento non può, neppur esso, governare direttamente; e la sua prerogativa di legislazione dà luogo, oggi, a difficoltà pratiche; per la dilatazione dei compiti statali, che richiede moltissime leggi; dopo il Settanta erano poche decine all’anno; ora non si contano più; e non a torto si è osservato che il Parlamento rischia di non poter neanche legiferare, se non attua, per così dire, un decentramento legislativo, che – stabiliti i principî base con «leggi cornici» – ne deleghi le norme di integrazione ed attuazione anche ad organi nuovi quali i Consigli regionali ed il Consiglio economico nazionale.

La posizione preminente del Parlamento non toglie che gli altri organi costituzionali abbiano funzioni e, quindi, poteri proprî. Il Capo dello Stato è regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri ed organi dello Stato, compreso il Parlamento. Né il «potere esecutivo», che spetta al Governo, è di mera esecuzione; è piuttosto il «potere attivo», che, pur svolgendosi nei limiti tracciati dalla legge, deve aver iniziative ed autonomia, per provvedere, come è suo compito, ai bisogni che sono condizione preliminare ed originaria della vita dello Stato. A tal fine il Governo si vale dell’apparato amministrativo, e lo dirige; ma non sono una sola ed identica cosa; ed anche democraticamente giova che l’Amministrazione abbia funzioni e responsabilità proprie e definite. Non occorre aggiungere quale importanza abbia, per una sana democrazia, l’indipendenza della Magistratura; che, come l’Amministrazione, ha alla sua radice non il voto popolare, ma il concorso; né deve essere aperta all’influenza dei partiti. Se si tiene presente tutto ciò, si ha l’impressione della varietà e complessità dei problemi che vanno affrontati.

Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari ed antidemocratici. Si sono a tale scopo evitati due opposti sistemi.

Anzitutto: il primato dell’esecutivo, che ebbe nel fascismo l’espressione più spinta. Non si può dire che appartenga a questo tipo il sistema presidenziale, che fa buona prova negli Stati Uniti d’America, con un Capo dello Stato che è anche Capo del governo ed ha ampi poteri, ma non sembra poter essere trasferito da noi, che non abbiamo la forma federale, né altri elementi – d’equilibrio col Congresso, d’avvicendamento di due grandi partiti – che accompagnano quel sistema nella Repubblica dalla bandiera stellala. Vi è in Europa una resistenza irreducibile al governo presidenziale, per il temuto spettro del cesarismo, ed anche per il convincimento (e noi non dobbiamo abbandonarlo, ma valorizzarlo), che il governo di gabinetto abbia diretta radice nella fiducia parlamentare.

Si è d’altra parte evitato il pericolo di mettersi nel piano inclinato del governo d’assemblea. Ha l’apparenza d’un sillogismo la tesi che, poiché la sorgente di sovranità è unica, nel popolo, ed unica deve esserne la delegazione, ogni potere si concentra nel Parlamento, e gli altri organi, il Governo, il Capo dello Stato, la Magistratura, ne sono il comitato o i commessi ed agenti d’esecuzione. Si nega con ciò la possibilità di forme molteplici e diverse di espressione della sovranità popolare; e si lascia cadere quel tessuto costituzionale di ripartizione ed equilibrio dei poteri, che – anche se la formula di Montesquieu è in parte superata – ha costituito una conquista ed un presidio di libertà. Il governo d’assemblea – lo dice Robespierre – non può essere che di momenti eccezionali e rivoluzionari; bisogna, quando è possibile, e noi aneliamo alla normalità, instaurare un «regime costituzionale», a cui Robespierre aspirava, al di là della Convenzione. «Un governo d’assemblea – dice Proudhon – è non meno temibile del governo d’un despota; vi è dippiù che manca la responsabilità».

Il progetto italiano, allacciandosi alla realtà europea, mantiene il sistema parlamentare o di gabinetto; ed eliminando residui e riflessi di eredità monarchica, lo svolge in un quadro di più piena democrazia.

Il Parlamento.

Si è conservato il tipo bicamerale.

Non occorre entrare in questioni teoriche; né disturbare i patriarchi della Costituzione americana: Franklin che parla delle due Camere come di due cavalli che tirano il calesse in senso opposto; Washington e Jefferson che, prendendo il thè troppo caldo, parlano, accennando al Senato, dell’opportunità di versare il liquido, perché si raffreddi, nel piattino della tazza. L’istituto della seconda Camera è prevalso nella Commissione, per l’opportunità di doppie e più meditate decisioni, e pel contributo che può dare con un altro esame, nella sua diversa composizione e competenza, una seconda Camera. Il tipo di unicameralità venne scartato sovrattutto per il timore di cadere nel governo convenzionale o di assemblea.

È stato respinto il sistema di una seconda Camera ridotta a funzioni consultive di Consiglio, o «Camera di riflessione». Né venne accolto il sistema di «bicameralità imperfetta» che vige in altri Paesi, di prevalenza di una Camera sull’altra, così che questa non possa determinare la caduta del gabinetto, o almeno debba cedere nel dissenso per l’approvazione di una legge. Il progetto accoglie la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento; temperata soltanto, per quanto riguarda la loro unione in assemblea unica, dalla prevalenza numerica della prima.

La difficoltà maggiore stava e sta nel modo di composizione della seconda Camera o «Camera dei senatori». È chiaro che non può essere formata a semplice duplicato e con gli stessi metodi della Camera dei deputati. Messa da parte la soluzione di una nomina, anche parziale, da parte del Capo dello Stato, o dell’altra Camera, o per cooptazione della stessa Camera dei senatori, sono stati proposti e vagliati vari procedimenti, a cominciare da quello di una rappresentanza organica, a base d’interessi. A questo proposito si è, oltre alle obiezioni di principio, rilevata la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una soddisfacente «dosatura» fra le varie categorie rappresentate. Si è proposto di far eleggere la seconda Camera da collegi di consiglieri comunali; ed altri ha obiettato la sperequazione che deriva dalla diversa consistenza numerica dei Consigli comunali, così che quelli piccoli prevarrebbero sproporzionalmente sui più grandi, e si renderebbero in ogni caso necessari o voti plurimi o integrazioni dei consiglieri comunali con altri elementi elettivi. Prescindendo da questi sistemi, si presentano due vie, sempre a base di suffragio universale: la designazione diretta o l’indiretta, a mezzo di grandi elettori; ed anche qui si offrono varie possibilità, non esclusa quella, che è stata proposta in Commissione, del collegio uninominale.

Nella molteplice gamma delle varie soluzioni, la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba aver base regionale, in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione. Un terzo del numero dei senatori è stato riservato quindi all’elezione da parte dei Consigli regionali. Gli altri due terzi sono, secondo il progetto, eletti a suffragio universale diretto. La eleggibilità limitata soltanto a determinate categorie e ad uomini di età più matura, che debbono essere nati e domiciliati nella Regione, e la limitazione del diritto attivo di voto a chi abbia compiuto i 25 anni di età, differenziano la composizione della seconda Camera da quella dei deputati, anche a prescindere dal terzo che spetta ai Consigli regionali.

La qualificazione degli eleggibili a senatori, dopo un doveroso risalto agli elementi direttivi della guerra di liberazione, comprende coloro che per cariche ed uffici ricoperti, e per la loro posizione e l’attività che svolgono, danno fondata presunzione di capacità politica, amministrativa, tecnica.

Un istituto nuovo che la nostra Carta introduce è l’Assemblea Nazionale, e cioè il Parlamento che funziona a camere riunite per atti di singolare importanza, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra, e così dell’amnistia e dell’indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte d’organi rilevanti nell’ordinamento dello Stato, quali il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali.

Un altro istituto che il progetto introduce è la prorogatio dei poteri delle camere – quando è scaduto il termine della loro vita normale o sono state sciolte – fino a che non siano convocate le camere nuove. Non piace ad alcuni che si faccia sopravvivere un organo già morto; ma è prevalso il criterio che non sia da togliere, nell’intervallo fra le legislature, una possibilità di controllo e di azione parlamentare; al che potrà servire non un esercizio normale di poteri e di lavori delle camere, ma il loro intervento nelle contingenze ove sia necessario.

Ed ecco ancora un altro istituto nuovo nella vita costituzionale italiana: il referendum popolare. Oltre alla facoltà che hanno cinquantamila elettori di proporre al Parlamento un disegno articolato di legge, il diritto di vero e proprio referendum è attribuito al popolo, che può richiamare a sé la decisione su leggi votate dal Parlamento. Ciò avviene in due casi-tipo. Un primo (che ad alcuni apparve con un profilo di «veto» e destò riserve) si può esercitare appena la legge è approvata, e ne sospende l’entrata in vigore, quando ciò è tempestivamente richiesto da un’avanguardia di elettori o Consigli regionali. Si devono raggiungere entro due mesi, per dar corso al referendum, tali adesioni da raccogliere complessivamente mezzo milione di elettori o sette Consigli regionali. Questa forma di referendum trova un limite nel senso che non può aver luogo per leggi dichiarate urgenti dalla maggioranza assoluta, o approvate da due terzi dei membri di ciascuna Camera.

L’altro tipo di referendum è quello abrogativo: il popolo, con l’iniziativa di un eguale quorum complessivo, può sottoporre a referendum una legge che sia in vigore da almeno due anni. La figura del referendum si affaccia ancora nella Costituzione – ed anche qui ha dato luogo a riserve – con l’iniziativa rimessa non al popolo ma al Capo dello Stato, il quale può chiamare il popolo a decidere nel conflitto fra i due rami del Parlamento per l’approvazione di una legge.

Per il referendum, come per altri istituti nuovi all’Italia, deciderà l’esperienza concreta. Si è creduto di dover aprire la via ad una forma di manifestazione diretta di quella sovranità popolare, su cui poggia tutto il nuovo edificio democratico.

Il Capo dello Stato.

Per la elezione del Presidente della Repubblica si è adottata la soluzione che la rimette all’Assemblea Nazionale, con la partecipazione – più che altro simbolica, perché il numero ne è lieve – di due membri per ogni Consiglio regionale. Alcuni pochi, ed io sono fra essi, ritenevano che, senza arrivare alla identificazione americana col capo del governo, fosse da ammettere la designazione del Capo dello Stato da parte del popolo, per dargli una maggiore autonomia e per stabilire un potere più durevole e più saldo, in mezzo alle fluttuazioni di forze e di partiti, che non consentono facilmente decise prevalenze e sicurezza di governi. Sta ad ogni modo che, nel nostro progetto, il Presidente della Repubblica non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre Costituzioni. Mentre il Primo Ministro è il capo della maggioranza e dell’esecutivo, il Presidente della Repubblica ha funzioni diverse, che si prestano meno ad una definizione giuridica di poteri. Egli rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere a queste essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale. Il nostro progetto gli conferisce una serie di attribuzioni nell’ordinamento interno e di fronte all’estero, per la promulgazione delle leggi e dei decreti, per la nomina dei funzionari ai gradi più alti, per l’accreditamento nei riguardi dei rappresentanti diplomatici, per la stipulazione dei trattati e per la dichiarazione di guerra, per la grazia e la commutazione delle pene; e gli dà la presidenza di due grandi Consigli – della difesa e della giustizia – così che ampia è la sua attività e preminente per dignità su ogni altra. Il Capo dello Stato non governa; la responsabilità dei suoi atti è assunta dal Primo Ministro e dai Ministri che li controfirmano; ma le attribuzioni che gli sono specificamente conferite dalla Costituzione, e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali, gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che è propriamente sua.

La portata della sua azione politica sta soprattutto in tre punti costituzionalmente determinati.

Egli nomina, e conseguentemente revoca, il Primo Ministro ed i Ministri. Questi debbono bensì avere la fiducia del Parlamento; ma la scelta, la designazione di un uomo a capo del Governo può, in situazioni complesse e delicate, aver influenza decisiva di orientazione.

Una facoltà particolare d’intervento ha, come vedemmo, il Presidente della Repubblica quando sorge dissenso tra i due rami del Parlamento per l’approvazione d’una legge. Si potrà trattare di questioni poco importanti che verranno risolute in via di compromesso fra le due camere, né sarà male se in certi casi, con l’arenarsi d’un progetto, si limiterà la prolifica legiferazione; ma vi possono essere gravi e sostanziali ragioni perché un’altra forza dirima la controversia; ed ecco che il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire il referendum popolare.

Più grave e penetrante d’ogni altro intervento è poi la facoltà del Presidente della Repubblica di sciogliere le camere; dopo aver sentito i loro presidenti. L’affermazione di Mirabeau che «lo scioglimento è il mezzo migliore di lasciar modo di manifestarsi all’opinione pubblica, che non ha mai cessato di essere la sovrana di tutti i legislatori» riecheggia oggi nella dichiarazione di Blum che «lo scioglimento delle camere è la chiave di volta di un ordinamento democratico».

Il Governo.

L’errata illazione che pienezza di sovranità popolare ed efficienza di regime parlamentare portino con sé debolezza nei poteri di governo va recisamente superata. Mai come oggi, dopo il dissolvimento politico e sociale che si va faticosamente ricomponendo, il Paese ha sentito la necessità di governi forti e vitali. Questa necessità non contrasta con i principî della democrazia; che deve essere difesa, come non fecero i governi dell’altro dopo guerra, contro colpi di mano faziosi e violenti.

Per dare unità e stabilità al governo il progetto fa del Presidente del Consiglio dei ministri non più un primus inter pares ma un capo, per dirigere e coordinare l’attività di tutti i ministri; e regola le manifestazioni della fiducia o sfiducia parlamentare. Senza la volontà del Parlamento nessun governo può sorgere o durare in vita. Per dare espressione a questa volontà, al momento della Costituzione del governo, ed in sede di appello per la sfiducia, interviene l’assemblea riunita delle due camere. Si evitano così gli inconvenienti del passato, le imboscate e le «bucce di limone», su cui cadevano i governi. Si considera anche qui l’esigenza della riflessione, del «pensarci su», che è un motivo ricorrente nei procedimenti costituzionali.

Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di Costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia bene amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia. E si sente la tacita invocazione ad una riforma profonda e semplificatrice.

Il Consiglio economico nazionale, se non è una terza camera, come fu proposto in altri Paesi, potrà per la sua composizione riflettere elettivamente gli interessi del lavoro e della produzione ed esercitare – accanto alla consulenza nel campo economico – compiti da stabilire per legge, anche come delegazione di poteri da parte del Parlamento.

Una parola soltanto nella Costituzione per i due più antichi «organi ausiliari», di cui tutte le carte parlano: il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; il primo per la consulenza giuridico-amministrativa e la tutela della giustizia nell’amministrazione, la seconda per il controllo di legittimità e di finanza; sono organi ausiliari, più che del Governo, della Repubblica; e la loro indipendenza dal Governo va garantita con un più diretto raccordo con il Parlamento.

La Magistratura.

Per adempiere il mandato, che esercita in nome del popolo, la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un «ordine»; è sostanzialmente un «potere» dello Stato; anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente.

Il progetto non si spinge ad una forma piena di autogoverno, che non potrebbe mai essere chiuso, corporativo; e non si addirebbe ad un corpo formato mediante concorsi, senza attingere alle fonti della designazione popolare. La magistratura ha fatto, ad ogni modo, una grande conquista; ed è notevole la riforma adottata, che dà piena garanzia per le nomine, per l’inamovibilità, per l’assoluta autonomia dei giudici di fronte al potere esecutivo. All’organo di «governo della magistratura» che si crea nel suo Consiglio superiore, partecipano, oltre ai membri designati direttamente dai magistrati, altri scelti dal Parlamento, per riallacciarsi così alla fonte popolare.

Il titolo sulla magistratura non è, pel rimanente, che la collocazione nella Carta costituzionale di principî, che verranno completati nelle norme sull’ordinamento giudiziario; e di alcune garanzie fondamentali, in materia di giurisdizione (da mettersi in relazione con altre stabilite nei «diritti civili») che saranno anch’esse fondamento e base di integrazione nei codici. La Costituzione è, in certo senso, la cuspide di una piramide di norme, da rivedere ormai in gran parte, nella legislazione repubblicana del Paese.

Regioni e Comuni.

L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese.

«Il Comune: unità primordiale; la Regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione ed i Comuni». Mazzini, il più grande unitario del Risorgimento, era per la Regione; e si incontrava con la proposta di più caute forme di decentramento in Cavour e nei politici della sua scuola. Sarebbe stato naturale e logico che, all’atto dell’unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati»; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. È oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi; molti dei malanni d’Italia si attribuiscono all’accentramento; in ispecie pel mezzogiorno; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia.

Certo si è che oggi assistiamo – e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto – ad un fenomeno inverso a quello del Risorgimento, e sembra anch’esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di sé medesimi».

La tendenza si collega alle rivendicazioni di libertà, che sono la grande nota di questo momento storico: di tutte le libertà, anche degli enti locali come «società naturali». Riecheggia più viva, in questa atmosfera, l’affermazione di Stuart Mill che nelle autonomie locali si ha un «ingrandimento della persona umana», e che «senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero, ma non lo spirito della libertà». Vi è bensì, nel momento attuale, un’altra tendenza all’ampliarsi, più che al rimpicciolirsi, delle formazioni statali; ed ai loro collegamenti in complessi internazionali; si sostiene che a ciò deve accompagnarsi, per equilibrio, il decentramento interno; ed anche gli autonomisti riconoscono la necessità di non intaccare l’unità politica di un Paese, che fu, come il nostro, lacerato ed indebolito. Altra tendenza ancora, alla quale assistiamo, dopo aver visto l’insufficienza e la miseria di chiuse economie locali, è la ricostruzione di ampi mercati; si sostiene che ad essi potrà meglio riallacciarsi l’iniziativa regionale; ed il desiderio d’autonomia, più vivo nel Mezzogiorno, si basa sulla convinzione di danni e sfruttamenti da parte di altre Regioni; né senza l’esperimento autonomistico si potranno conoscere le realtà e le possibilità effettive.

La Commissione è stata unanime per l’istituzione della Regione. Questa non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa; ma si arresta prima della soglia federale e si attiene al tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini.

Due tesi si sono trovate di fronte nella Commissione. Una di esse vorrebbe attribuire alla Regione una potestà legislativa soltanto d’integrazione ed attuazione dei principî e delle norme delle leggi dello Stato, per adattarle ai bisogni locali; nel che sta, come abbiamo già visto, un’esigenza dello stesso procedimento legislativo in generale. Vorrebbe pure che il passaggio di servizi alla Regione fosse moderato e graduale.

La soluzione che è prevalsa, e che si è spinta più avanti perché l’autonomia sia «vera ed efficace», accorda alle Regioni facoltà legislative più ampie, in una scala che va da una sfera di materie di competenza diretta ed esclusiva delle leggi regionali, ad un’altra di competenza concorrente e suppletiva, perché anche lo Stato vi può, quando crede, legiferare, ed infine alla sfera d’integrazione e di applicazione delle leggi statali, ove tutti sono d’accordo. Si è sottolineato che le materie riservate alla facoltà di legislazione esclusiva o concorrente – per le quali sole avviene il passaggio dei corrispondenti servizi all’ente regionale – sono in realtà di misurata importanza e non incidono nel tessuto connettivo dell’unità economica ed amministrativa dello Stato. La stessa competenza che si chiama esclusiva non è poi, in nessun caso, senza limite. Le leggi della Regione non possono essere in contrasto «con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, con gli obblighi internazionali, con gli interessi della nazione e delle altre Regioni». Ove il governo centrale ritenga che vi sia contrasto, il giudizio al riguardo è deferito alla Corte costituzionale; e – si noti – per le questioni di merito sulla valutazione degli interessi nazionali o d’altre Regioni spetta al Parlamento; così che il campo lasciato alla legislazione regionale è per ogni aspetto vigilato e contenuto.

La Commissione è stata concorde che, per ragioni sostanziali e per impegni già presi, debbano essere date condizioni particolari d’autonomia alle due grandi isole ed alle zone mistilingue di frontiera. Tuttavia anche i relativi statuti – come è di quello già approvato dalla Consulta Nazionale per la Sicilia – dovranno essere coordinati e non contrastanti con i principî fondamentali della Costituzione.

Quali siano le altre Regioni non è ancora del tutto definito. Alle più tradizionali che hanno riflessi anche in ordinamenti come il giudiziario o nelle classifiche statistiche, si sono affiancate Regioni nuove che invocano pur esse giustificazioni storiche e di opportunità; ed al riguardo la Commissione ha disposto ricerche ed ha chiesto agli organi locali di esprimere la propria opinione. Dell’esito delle indagini, ancora in corso, sarà data comunicazione alla Costituente.

Nell’atto di dare il via a così rilevante riforma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celate le complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basta pensare all’autonomia finanziaria, non agevole a congegnarsi, e che non potrà fare a meno d’un riparto delle imposte che implichi un contributo di solidarietà delle Regioni provviste di maggiori mezzi a quelle che con le proprie risorse non sarebbero in grado di adempiere i loro servizi essenziali. Pericolo da evitare è che, mentre si tende ad un alleggerimento della macchina amministrativa, il decentramento non dia origine ad una nuova moltiplicazione di burocrazia nelle Regioni, senza toccare quella centrale.

Molte discussioni vi saranno, senza dubbio, anche alla Costituente; ma, quando siano adottate per l’ordinamento regionale le soluzioni che sembrino migliori, occorrerà che la concordia di tutti sorregga questo passo che l’Italia farà, per ridestare le forze locali ed attingere da esse rinnovata energia.

Garanzie costituzionali.

Carattere comune delle Costituzioni moderne è di essere rigide. La modificabilità continuata, e quasi inavvertita, poté sembrare un giorno vantaggio e conquista della democrazia; ma ha dato disastrosi risultati nel tempo fascista; ed oggi la coscienza politica, vigile e sospettosa, reclama la difesa delle libertà sancite nella Costituzione e vuole che nella gerarchia delle norme, quelle costituzionali abbiano valore preminente, ed istituti e procedimenti particolari siano di salvaguardia contro le violazioni da parte dello stesso Parlamento.

Istituto nuovo è la Corte costituzionale; e scarsi ne sono i precedenti e le prove: così che non è facile risolvere i suoi problemi. Non è stata accolta l’idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale, ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria. È sembrato opportuno un organo speciale e più alto, come custode supremo della Costituzione.

Ed ecco il triplice problema dei compiti, della composizione, del funzionamento. Si è ritenuto di riunire al sindacato di costituzionalità la risoluzione dei conflitti di attribuzione ed il giudizio sul Presidente della Repubblica e sui Ministri accusati dal Parlamento.

Per la struttura della Corte si fronteggiano le tesi, da un lato, che soltanto gli eletti del popolo possano investire questi giudici del loro altissimo compito, dall’altro che non spetti al controllato, ossia al Parlamento, costituire il controllore, e si debbano evitare sovrapposizioni di partito. È caduta la proposta di formare la Corte, per metà, di magistrati ordinari ed amministrativi, d’avvocati e docenti di diritto, designati per la loro stessa carica o scelti dagli appartenenti alle categorie, e per l’altra metà di eletti dall’Assemblea Nazionale e dai Consigli regionali. La soluzione prevalsa è di affidare bensì l’investitura di tutti i membri della Corte all’Assemblea Nazionale; ma col temperamento che essa, mentre potrà eleggerne un quarto senza condizioni, sceglierà gli altri nei designati, con un triplo di nomi, dalle categorie sopra indicate.

Anche per la procedura della Corte – la materia è così nuova – si sono profilate varie soluzioni. Se la questione di costituzionalità sorge in via incidentale, nel corso di qualsiasi giudizio, si è escluso di lasciarla in una prima fase al magistrato normale, e si è ritenuto più semplice e rapido che, appena sollevata con sufficiente serietà, la questione venga rimessa alla Corte costituzionale. Può essere sollevata, invece, in via principale, con diretto ricorso, da un corpo qualificato o da un certo numero di cittadini. Al giudizio di costituzionalità non si è posto, in nessun caso, limite di tempo, ad esempio un biennio dall’entrata in vigore della legge; dopo di che questa non potrebbe più essere impugnata; e si toglierebbe l’incertezza sulla sua validità; ma verrebbero anche meno il presidio del controllo e la difesa dei diritti violati.

Si è dubitato se eguale portata debba avere sempre la decisione della Corte; che, promossa in via incidentale, potrebbe, si è sostenuto, limitarsi a disapplicare la legge nel caso giudicato; mentre nell’altra via, più diretta e più larga, dovrebbe dichiarare la legge invalida e priva di ogni effetto. Si è ritenuto che, una volta sollevata, in un modo o nell’altro, la questione sia da risolvere con portata generale. La legge costituzionale resta priva di ogni efficacia, ed il Parlamento prenderà le misure di sua competenza: o sostituire quella legge con un’altra costituzionalmente corretta; o addivenire alla sua regolarizzazione con procedimento di revisione costituzionale. Si è cercato di semplificare, e forse non si poteva dippiù, questa materia per sua natura aggrovigliata.

Ed anche per il procedimento di revisione costituzionale si sono adottati i criteri più semplici, senza ricorrere ai sistemi dell’approvazione in due legislature successive o dello scioglimento automatico delle camere dopo che abbiano approvata la revisione in prima lettura. Vi dovranno essere due letture, e con un sensibile intervallo («pensarci su»), nella stessa legislatura. Potrà il popolo promuovere il referendum, ma quando la proposta di revisione abbia ottenuto il voto di due terzi dei deputati e di due terzi dei senatori, sarà senz’altro definitiva.

Se la Costituzione deve essere rigida, una troppo macchinosa e complicata procedura di revisione ostacolerebbe il cammino ad un completamento dell’edificio costituzionale; che vogliamo sia nelle sue grandi mura definitivo ed abbia vita di secoli; ma potrà essere necessario rimettervi le mani, negli sviluppi, non ancora esattamente prevedibili, dei sistemi costituzionali.

*      *          *

Onorevoli colleghi, ho cercato di riferire obbiettivamente, come era mio dovere, sulle grandi linee dei dibattiti avvenuti e delle soluzioni prevalse nel testo costituzionale. Sulle sue parti riferiranno più ampiamente, e meglio di me, i Presidenti delle Sottocommissioni e Sezioni, che ne hanno con tanta competenza diretto i lavori: Tupini, Ghidini, Conti; mentre Terracini continuerà, dalla Presidenza della Costituente, l’opera feconda che ha dato alla preparazione di questa Carta costituzionale. Interverranno sui singoli temi, a chiarirne le posizioni, i segretari delle Sottocommissioni ed i componenti di essi che ne furono Relatori, non sempre in senso concorde. È inevitabile che nell’Assemblea si riaprano le divergenze e le discussioni; e vi parteciperanno gli altri deputati. Un’identità di pensiero, su ogni questione, non è concepibile né desiderabile. Occorre bensì che alla fine, sul complesso della Costituzione, si realizzi non un’esile maggioranza ma un consenso largo e sicuro.

Ho l’impressione che noi italiani, pel nostro temperamento vivace, siamo portati ad esagerare nei nostri contrasti, e diamo talvolta ad essi troppa importanza; ma nei momenti decisivi – nella resistenza e nella liberazione, ed oggi nell’accorata protesta per l’ingiusta pace – ritroviamo un senso sostanziale di concordia. Lo ritroveremo anche per la Costituzione, nella comune devozione alla Patria ed agli ideali di libertà e di giustizia che ci devono ispirare.

RUINI, Presidente della Commissione.

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA 31 GENNAIO 1947

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA
REPUBBLICA ITALIANA

INDICE

Disposizioni generali (Articoli 1-7)                                                                  

PARTE PRIMA

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Titolo I.  – Rapporti civili (Articoli 8-22)                                                        

Titolo II.  – Rapporti etico-sociali (Articoli 23-29)                                        

Titolo III. – Rapporti economici (Articoli 30-44)                                             

Titolo IV. – Rapporti politici (Articoli 45-51)                                                 

PARTE SECONDA

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

Titolo I. – Il Parlamento:

Sezione I. – Le due Camere (Articoli 52-66)                                                         

Sezione II. – La formazione delle leggi (Articoli 67-78)                                         

Titolo II. – Il Capo dello Stato (Articoli 79-85)                                             

Titolo III. – Il Governo:

Sezione I. – Il Consiglio dei Ministri (Articoli 86-90)                                            

Sezione II. – La Pubblica Amministrazione (Articoli 91-93)                                  

Titolo IV. – La Magistratura:

Sezione I. – Ordinamento giudiziario (Articoli 94-100)                                         

Sezione II. – Norme sulla giurisdizione (Articoli 101-105)                                    

Titolo V. – Le Regioni e i Comuni (Articoli 106-125)                                       

Titolo VI. – Garanzie costituzionali:

Sezione I. – Corte costituzionale (Articoli 126-129)                                              

Sezione II. – Revisione della Costituzione (Articoli 130-131)                                 

Disposizioni finali e transitorie (I-IX)                                                           

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

composta dei deputati:

Ruini, Presidente; Tupini, Ghidini, Terracini, Vice Presidenti; Perassi, Grassi, Marinaro, Segretari; Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

TESTO APPROVATO DALLA COMMISSIONE

Presentato alla Presidenza dell’Assemblea Costituente

il 31 gennaio 1947

La Commissione ha proceduto nei suoi lavori suddividendosi nel modo seguente:

PRIMA SOTTOCOMMISSIONE

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

Presidente: Tupini

Segretario: Grassi

Amadei

Basso

Cevolotto

Corsanego

De Vita

Dossetti

Gotelli Angela

Iotti Leonilde

La Pira

Lucifero

Mancini

Marchesi

Mastrojanni

Merlin Umberto

Moro

Togliatti

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

ORDINAMENTO COSTITUZIONALE

Presidente: Terracini

Segretario: Perassi

Ambrosini

Bocconi

Bordon

Bozzi

Bulloni

Calamandrei

Cannizzo

Cappi

Castiglia

Codacci Pisanelli

Conti

De Michele

Di Giovanni

Einaudi

Fabbri

Farini

Finocchiaro Aprile

Froggio

Fuschini

Grieco

Laconi

Lami Starnuti

La Rocca

Leone Giovanni

Lussu

Mannironi

Mortati

Nobile

Piccioni

Porzio

Ravagnan

Rossi Paolo

Targetti

Tosato

Uberti

Zuccarini

Prima Sezione: POTERE ESECUTIVO

Terracini, Presidente

Bordon

Castiglia

Codacci Pisanelli

De Michele

Einaudi

Fabbri

Finocchiaro Aprile

Fuschini

Grieco

Lami Starnuti

La Rocca

Lussu

Mortati

Nobile Perassi

Piccioni

Rossi Paolo

Tosato

Zuccarini

Seconda Sezione: POTERE GIUDIZIARIO

Conti, Presidente

Ambrosini

Bocconi

Bozzi

Bulloni

Calamandrei

Cannizzo

Cappi

Di Giovanni

Farini

Laconi

Leone Giovanni

Mannironi

Porzio

Ravagnan

Targetti

Uberti

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

DIRITTI E DOVERI ECONOMICO-SOCIALI

Presidente: Ghidini

Segretario: Marinaro

Canevari

Colitto

Di Vittorio

Dominedò

Fanfani

Federici Maria

Giua

Lombardo

Merlin Lina

Molè

Noce Teresa

Paratore

Pesenti

Rapelli

Taviani

Togni

COMITATO DI REDAZIONE

Ruini, Presidente

Tupini

Ghidini

Terracini

Perassi

Grassi

Marinaro

Ambrosini

Calamandrei

Canevari

Cevolotto

Dossetti

Fanfani

Fuschini

Grieco

Moro

Rossi Paolo

Togliatti

N.B. – Hanno pure fatto parte della Commissione i deputati; Amendola, Assennato, Caristia, Corbi, Lombardi Giovanni, Maffi, Patricolo e Vanoni.

PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

DISPOSIZIONI GENERALI

Art. 1.

L’Italia è una Repubblica democratica.

La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.

Art. 2.

La bandiera d’Italia è il «tricolore»: verde, bianco e rosso, a bande verticali di uguali dimensioni.

Art. 3.

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.

Art. 4.

L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli.

Art. 5.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale.

Le altre confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti con lo Stato sono regolati per legge, sulla base di intese, ove siano richieste, con le rispettive rappresentanze.

Art. 6.

Per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale.

Art. 7.

I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana.

PARTE I.

DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI

TITOLO I.

RAPPORTI CIVILI

Art. 8.

La libertà personale è inviolabile.

Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale o domiciliare, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può prendere misure provvisorie, che devono essere comunicate entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria. So questa non le convalida nei termini di legge, sono revocate e restano prive di ogni effetto.

È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

Art. 9.

La libertà e la segretezza di corrispondenza e di ogni forma di comunicazione sono garantite. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria, nei casi stabiliti dalla legge.

Art. 10.

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano, nei limiti e nei modi stabiliti in via generale dalla legge per motivi di sanità o di sicurezza. In nessun caso la legge può limitare questa libertà per ragioni politiche.

Ogni cittadino ha diritto di emigrare, salvo gli obblighi di legge.

La Repubblica tutela il lavoro italiano all’estero.

Art. 11.

La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero al quale siano negate nel proprio paese le libertà garantite dalla Costituzione italiana ha diritto di asilo nel territorio italiano.

Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.

Art. 12.

Tutti hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica.

Art. 13.

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono anche indirettamente scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

Art. 14.

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume.

Art. 15.

Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la sua capacità giuridica, per ogni sua forma di attività.

Art. 16.

Tutti hanno diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, ed ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere sottoposta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative per i quali la legge sulla stampa dispone il sequestro.

Nei casi predetti, quando vi è assoluta urgenza e non è possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, chiedere la convalida dei loro atti all’autorità giudiziaria.

La legge può stabilire controlli per l’accertamento delle fonti di notizie e dei mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina misure adeguate.

Art. 17.

Nessuno può essere privato per motivi politici della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.

Art. 18.

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non per legge.

Art. 19.

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.

La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

Art. 20.

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale che gli è precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo.

Art. 21.

La responsabilità penale è personale.

L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto le leggi militari di guerra.

Art. 22.

I dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono personalmente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. Lo Stato e gli enti pubblici garantiscono il risarcimento dei danni arrecati dai loro dipendenti.

La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

TITOLO II.

RAPPORTI ETICO-SOCIALI

Art. 23.

La famiglia è una società naturale: la Repubblica ne riconosce i diritti e ne assume la tutela per l’adempimento della sua missione e per la saldezza morale e la prosperità della nazione.

La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni economiche necessarie alla sua formazione, alla sua difesa ed al suo sviluppo, con speciale riguardo alle famiglie numerose.

Art. 24.

Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. La legge ne regola la condizione a fine di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia.

Art. 25.

È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole. Nei casi di provata incapacità morale o economica la Repubblica cura che siano adempiuti tali compiti.

I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio. La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali.

La Repubblica provvede alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organi necessari a tale scopo.

Art. 26.

La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio se non per legge. Sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana.

Art. 27.

L’arte e la scienza sono libere; e libero è il loro insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione; organizza la scuola in tutti i suoi gradi mediante istituti statali; riconosce ad enti ed a privati la facoltà di formare scuole ed istituti d’educazione.

Le scuole che non chiedono la parificazione sono soggette soltanto alle norme per la tutela del diritto comune e della morale pubblica.

La legge determina i diritti e gli obblighi delle scuole che chiedono la parificazione e prescrive le norme per la loro vigilanza, in modo che sia rispettata la libertà ed assicurata, a parità di condizioni didattiche, parità di trattamento agli alunni.

Per un imparziale controllo ed a garanzia della collettività è prescritto l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale e per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole indicati dalla legge.

Art. 28.

La scuola è aperta al popolo.

L’insegnamento inferiore, impartito per almeno otto anni, è obbligatorio e gratuito.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

La Repubblica assicura l’esercizio di questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie, ed altre provvidenze, da conferirsi per concorso agli alunni di scuole statali e parificate.

Art. 29.

I monumenti artistici e storici, a chiunque appartengano ed in ogni parte del territorio nazionale, sono sotto la protezione dello Stato. Compete allo Stato anche la tutela del paesaggio.

TITOLO III.

RAPPORTI ECONOMICI

Art. 30.

La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro.

Art. 31.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici.

Art. 32.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia.

Il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite.

Art. 33.

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare.

Art. 34.

Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

I lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato.

Art. 35.

L’organizzazione sindacale è libera.

Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica.

Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Art. 36.

Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero.

Art. 37.

Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo.

La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali.

Art. 38.

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità.

La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo.

Art. 39.

L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

Art. 40.

Per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale.

Art. 41.

Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo, promuove la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà.

Art. 42.

La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione; ne favorisce l’incremento e la sottopone alla vigilanza, stabilita con legge, per assicurarne i caratteri e le finalità.

Art. 43.

I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera.

Art. 44.

La Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.

TITOLO IV.

RAPPORTI POLITICI

Art. 45.

Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto la maggiore età.

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico e morale.

Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale.

Sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti di legge.

Art. 46.

Ogni cittadino può rivolgere petizioni al Parlamento per chiedere provvedimenti legislativi o esprimere necessità d’ordine generale.

Art. 47.

Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.

Art. 48.

Tutti i cittadini d’ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizioni d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite da legge.

Per l’adempimento delle funzioni pubbliche ogni cittadino ha diritto di disporre del tempo necessario e di conservare il suo posto di lavoro.

Art. 49.

La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

Il servizio militare è obbligatorio. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

L’ordinamento dell’esercito si informa allo spirito democratico della Repubblica italiana.

Art. 50.

Ogni cittadino ha il dovere di essere fedele alla Repubblica, di osservarne la Costituzione e le leggi, di adempiere con disciplina ed onore le funzioni che gli sono affidate.

Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.

Art. 51.

Il Capo dello Stato, i membri del Governo, i Presidenti delle Deputazioni regionali, i magistrati, le forze armate e quelle assimilate, prima di assumere le loro funzioni prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica.

PARTE II.

ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA

TITOLO I.

IL PARLAMENTO

Sezione I.

Le Camere.

Art. 52.

Il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori.

Le Camere si riuniscono in Assemblea Nazionale, nei casi preveduti dalla Costituzione.

Art. 53.

La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto, in ragione di un Deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.

Art. 54.

Sono eleggibili a Deputati tutti gli elettori che hanno compiuto i venticinque anni di età al momento delle elezioni.

Art. 55.

La Camera dei Senatori è eletta a base regionale.

A ciascuna Regione è attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque Senatori, un Senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. La Valle d’Aosta ha un solo Senatore. Nessuna Regione può avere un numero di Senatori maggiore di quello dei Deputati che manda all’altra Camera.

I Senatori sono eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età.

Art. 56.

Sono eleggibili a Senatori gli elettori, nati o domiciliati nella Regione, che hanno compiuto trentacinque anni d’età, e sono o sono stati:

decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-1945, capi di formazioni regolari o partigiane con grado non inferiore a comandante di divisione;

Presidenti della Repubblica, Ministri o Sottosegretari di Stato, Deputati all’Assemblea Costituente o alla Camera dei Deputati, membri non dichiarati decaduti del disciolto Senato;

membri per quattro anni complessivi di Consigli regionali o comunali;

professori ordinari di università e di istituti superiori, membri dell’Accademia dei Lincei e di corpi assimilati;

magistrati e funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni di gradi non inferiori o equiparati a quelli di consigliere di cassazione o direttore generale;

membri elettivi per quattro anni di consigli superiori presso le amministrazioni centrali; di consigli di ordini professionali; di consigli di Camere di commercio, industria ed agricoltura; di consigli direttivi nazionali, regionali o provinciali di organizzazioni sindacali;

membri per quattro anni di consigli di amministrazione o di gestione di aziende private o cooperative con almeno cento dipendenti o soci; imprenditori individuali, proprietari conduttori, dirigenti tecnici ed amministrativi di aziende di eguale importanza.

Art. 57.

Il numero dei membri da eleggere per ciascuna Camera è stabilito con legge in base all’ultimo censimento generale della popolazione.

Art. 58.

Le due Camere sono elette per cinque anni.

I loro poteri sono tuttavia prorogati sino alla riunione delle nuove Camere.

La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso di guerra in corso o di imminente pericolo di guerra.

Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. Il provvedimento che le indice fissa la prima riunione delle Camere non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni.

Art. 59.

Le due Camere si riuniscono di diritto il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre.

Ciascuna Camera si riunisce inoltre in via straordinaria per iniziativa del suo Presidente, o su richiesta del Presidente della Repubblica o di un terzo dei membri della Camera.

Quando si riunisce una Camera, è convocata di diritto anche l’altra.

Art. 60.

Ciascuna Camera elegge nel proprio seno il Presidente e l’Ufficio di Presidenza.

La Presidenza dell’Assemblea Nazionale è assunta per la durata di un anno, alternativamente, dal Presidente della Camera dei Deputati e dal Presidente della Camera dei Senatori.

Art. 61.

Ciascuna Camera e l’Assemblea Nazionale adottano il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei loro membri.

Le sedute sono pubbliche; tuttavia le Camere e l’Assemblea possono deliberare di riunirsi in Comitato segreto.

Le deliberazioni delle Camere e dell’Assemblea non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro membri e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale.

I membri del Governo, anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute. Debbono essere intesi ogni volta che lo richiedano.

Art. 62.

La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore.

Nessuno può essere contemporaneamente membro delle due Camere.

Art. 63.

Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei propri membri.

Art. 64.

Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

Art. 65.

I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni e dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Nessun membro del Parlamento può, senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, essere sottoposto a procedimento penale, né arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione domiciliare, salvo il caso di flagrante delitto, per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura.

Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento, in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile.

Art. 66.

I membri del Parlamento ricevono una indennità fissata dalla legge.

Sezione II.

La formazione delle leggi.

Art. 67.

La funzione legislativa è collettivamente esercitata dalle due Camere.

Art. 68.

L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti cui sia conferita da legge costituzionale.

Il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un disegno redatto in articoli.

Art. 69.

Ogni disegno di legge deve essere previamente esaminato da una Commissione di ciascuna Camera secondo le norme del rispettivo regolamento; e deve essere approvato dalle Camere, articolo per articolo, con votazione finale a scrutinio segreto.

Il regolamento stabilisce procedimenti abbreviati per l’esame e l’approvazione di disegni di legge, dei quali sia dichiarata l’urgenza.

Su richiesta del Governo o del proponente, ciascuna Camera può deliberare che l’esame di un disegno di legge sia deferito ad una Commissione composta in modo da rispettare la proporzione dei gruppi alla Camera, e che su relazione della Commissione si proceda alla votazione senza discutere, salve le dichiarazioni di voto.

Tale procedimento non è applicabile ai disegni di legge concernenti l’approvazione dei bilanci e l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.

Art. 70.

I disegni di legge approvati da una Camera sono trasmessi all’altra, che deve pronunciarsi entro tre mesi dal giorno che li ha ricevuti. Il termine può essere variato per accordo delle Camere.

Quando una Camera non si pronuncia entro il termine stabilito sopra un disegno di legge approvato dall’altra, o quando lo rigetta, il Presidente della Repubblica può chiedere che la Camera stessa si pronunci o riesamini il disegno. Se non si pronuncia o se con la nuova deliberazione conferma la precedente, il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire il referendum popolare sul disegno non approvato.

Art. 71.

Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dall’approvazione.

Se le Camere ne dichiarano l’urgenza, ciascuna a maggioranza assoluta dei suoi membri, la legge è promulgata nel termine fissato dalle Camere stesse.

Le leggi entrano in vigore non prima del ventesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le Camere abbiano come sopra dichiarato l’urgenza.

Art. 72.

L’entrata in vigore d’una legge non dichiarata urgente a maggioranza assoluta, o non approvata da ciascuna Camera a maggioranza di due terzi, è sospesa quando, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, cinquantamila elettori o tre Consigli regionali domandano che sia sottoposta a referendum popolare. Il referendum ha luogo se nei due mesi dalla pubblicazione della legge l’iniziativa ottiene l’adesione, complessivamente, di cinquecentomila elettori o di sette Consigli regionali.

Si procede altresì a referendum quando cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali domandano che sia abrogata una legge vigente da almeno due anni.

In nessun caso è ammesso referendum per le leggi tributarie, di approvazione dei bilanci e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali.

Art. 73.

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei Deputati.

La proposta soggetta a referendum è approvata se hanno partecipato alla votazione i due quinti degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Art. 74.

L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non previa determinazione di principî e criteri direttivi, e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti.

Per i decreti legislativi valgono le norme stabilite per le leggi in ordine al referendum popolare ed alla Corte costituzionale.

Art. 75.

Spetta all’Assemblea Nazionale deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra.

L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea Nazionale.

Art. 76.

Le due Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali di natura politica o d’arbitrato e regolamento giudiziario, e di quelli che importano variazioni del territorio nazionale, oneri alle finanze o modificazioni di leggi.

Art. 77.

Le Camere approvano ogni anno il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo.

L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso che per legge, una sola volta, e per un periodo non superiore a quattro mesi.

Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.

In ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese devono essere indicati i mezzi per farvi fronte.

Art. 78.

Ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse.

La Commissione d’inchiesta è nominata con la rappresentanza proporzionale dei vari gruppi della Camera e svolge la sua attività procedendo agli esami e alle indagini con gli stessi poteri e limiti dell’autorità giudiziaria.

TITOLO II.

IL CAPO DELLO STATO

Art. 79.

Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta.

L’elezione del Presidente della Repubblicana ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi, e dopo il terzo scrutinio a maggioranza assoluta dei membri che compongono l’Assemblea a questo fine.

Art. 80.

Sono eleggibili i cittadini che hanno compiuto quarantacinque anni d’età e godono dei diritti civili e politici.

L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica.

L’assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge.

Art. 81.

Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni.

Trenta giorni prima che scada il termine, il Presidente dell’Assemblea Nazionale convoca l’Assemblea per l’elezione del Presidente della Repubblica.

Se le Camere sono sciolte, oppure manca meno di tre mesi alla fine della legislatura, l’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo entro quindici giorni dalla costituzione delle nuove Camere. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica.

Art. 82.

Le funzioni del Presidente della Repubblica sono, in caso di suo impedimento, esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale.

Se l’impedimento è permanente, o in caso di morte o dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente dell’Assemblea Nazionale indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine nel caso previsto dall’ultimo comma dell’articolo precedente.

Art. 83.

Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Promulga le leggi ed emana i decreti legislativi ed i regolamenti.

Nomina, ai gradi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato.

Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati internazionali, previa, quando sia richiesta, l’autorizzazione delle Camere.

Ha il comando delle Forze armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale.

Presiede il Consiglio superiore della Magistratura.

Può concedere grazia e commutare le pene.

Art. 84.

Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere.

Art. 85.

Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dal Primo Ministro e dai Ministri competenti che ne assumono la responsabilità.

Il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per violazione della Costituzione.

In tali casi può essere messo in istato di accusa dall’Assemblea Nazionale a maggioranza assoluta dei suoi membri.

TITOLO III.

IL GOVERNO

Sezione I.

Il Consiglio dei Ministri.

Art. 86.

Il Governo della Repubblica è composto del Primo Ministro, Presidente del Consiglio, e dei Ministri.

Il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e, su proposta di questo, i Ministri.

Art. 87.

Primo Ministro e Ministri debbono avere la fiducia del Parlamento.

Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta all’Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia.

La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea.

Art. 88.

Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una proposta del Governo non importa dimissioni.

Una mozione di sfiducia non può essere presentata ad una Camera se non è motivata e firmata da un quarto dei componenti, né può essere posta in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione.

Dopo il voto di sfiducia di una delle Camere il Governo, se non intende dimettersi, deve convocare l’Assemblea Nazionale che si pronuncia su una mozione motivata.

Art. 89.

Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo di tutti i Dicasteri, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri.

I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e personalmente degli atti dei loro Dicasteri.

La legge provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri.

Art. 90.

Il Primo Ministro ed i Ministri possono essere messi in istato d’accusa dalle due Camere per atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.

Sezione II.

La Pubblica Amministrazione.

Art. 91.

I pubblici uffici sono organizzati in base a disposizioni di legge, in modo da assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

I pubblici impiegati membri del Parlamento non possono conseguire promozioni se non per anzianità.

Art. 92.

Il Consiglio economico nazionale, composto nei modi stabiliti dalla legge, è organo di consulenza del Parlamento e del Governo in materia economica; ed esercita le altre funzioni che gli sono dalla legge attribuite.

Art. 93.

Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione.

La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e quello anche successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo dello Stato sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente al Parlamento sul risultato del riscontro effettuato.

La legge determina le condizioni necessarie ad assicurare l’indipendenza degli istituti suddetti e dei loro componenti di fronte al Governo.

TITOLO IV.

LA MAGISTRATURA

Sezione I.

Ordinamento giudiziario.

Art. 94.

La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo.

I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza.

I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete.

Art. 95.

La funzione giurisdizionale in materia civile e penale è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

Al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti spetta la giurisdizione nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge.

Presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario.

Le norme sull’ordinamento giudiziario e quelle sulle magistrature del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sono stabilite con legge approvata a maggioranza assoluta dei membri delle due Camere.

Non possono essere istituiti giudici speciali se non per legge approvata nel modo sopra indicato. In nessun caso possono istituirsi giudici speciali in materia penale.

I tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra.

Art. 96.

Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise.

Art. 97.

La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto del Primo Presidente della Corte di cassazione, vicepresidente, di un altro vicepresidente nominato dall’Assemblea Nazionale e di membri designati per sette anni, metà da tutti i magistrati fra gli appartenenti alle diverse categorie, metà dall’Assemblea Nazionale fuori del proprio seno. Gli eletti dall’Assemblea Nazionale iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione finché fanno parte del Consiglio.

Le assunzioni, le promozioni, le assegnazioni ed i trasferimenti di sede e di funzioni, i provvedimenti disciplinari ed in genere il governo della Magistratura ordinaria sono di competenza del Consiglio Superiore secondo le norme dell’ordinamento giudiziario.

Il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario.

Art. 98.

I magistrati sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario.

Il Consiglio Superiore della Magistratura può designare per la nomina magistrati onorari in tutte le funzioni attribuite dalle legge a giudici singoli; e può designare all’ufficio di Consigliere di cassazione professori ordinari di materie giuridiche nelle Università ed avvocati dopo quindici anni d’esercizio.

Art. 99.

I magistrati sono inamovibili.

Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, retrocessi, trasferiti o destinati ad altra sede o funzione se non col loro consenso o con deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura, per i motivi e con le garanzie di difesa stabiliti dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi.

Il pubblico ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati.

Art. 100.

L’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria.

Sezione II.

Norme sulla giurisdizione.

Art. 101.

L’azione penale è pubblica. Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare.

Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti.

Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati.

Art. 102.

Contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge.

Art. 103.

La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione è disposta in via generale dalla legge e non può essere soppressa o limitata per determinate categorie di atti.

Art. 104.

Le sentenze non più soggette ad impugnazione di qualsiasi specie non possono essere annullate o modificate neppure per atto legislativo, salvo i casi di legge penale abrogativa o di amnistia, grazia ed indulto.

L’esecuzione di una sentenza irrevocabile non può essere sospesa se non nei casi previsti dalla legge.

Art. 105.

L’Avvocatura dello Stato provvede alla consulenza legale ed alla difesa in giudizio dello Stato e degli altri enti indicati dalla legge.

Agli avvocati e procuratori dello Stato competono garanzie adeguate per l’esercizio delle loro funzioni.

TITOLO V.

LE REGIONI E I COMUNI

Art. 106.

La Repubblica italiana, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali.

Attua, nei servizi che dipendono dallo Stato, un ampio decentramento amministrativo.

Adegua i principî ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Art. 107.

La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni.

Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale.

Art. 108.

Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione.

Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia con statuti speciali adottati mediante leggi costituzionali [1].

Art. 109.

La Regione ha potestà di emanare per le seguenti materie norme legislative che siano in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, e rispettino gli obblighi internazionali e gli interessi della Nazione e delle altre Regioni:

ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali;

modificazioni delle circoscrizioni comunali;

polizia locale urbana e rurale;

fiere e mercati;

beneficenza pubblica;

scuola artigiana;

urbanistica;

strade, acquedotti e lavori pubblici di esclusivo interesse regionale;

porti lacuali;

pesca nello acque interne di carattere regionale;

torbiere.

Art. 110.

La Regione ha potestà di emanare, per le seguenti materie, norme legislative nei limiti del precedente articolo, e con l’osservanza dei principii e delle direttive che la Repubblica ritenga stabilire con legge allo scopo di una loro disciplina uniforme:

assistenza ospedaliera;

istruzione tecnico-professionale;

biblioteche di enti locali;

turismo e industria alberghiera;

agricoltura o foreste;

cave;

caccia;

acque pubbliche ed energia elettrica, in quanto il loro regolamento non incida sull’interesse nazionale e su quello di altre Regioni;

acque minerali e termali;

tramvie;

linee automobilistiche regionali.

Art. 111.

La Regione ha potestà di emanare norme legislative di integrazione ed attuazione delle disposizioni di legge della Repubblica, per adattarle alle condizioni regionali, in materia di:

igiene e sanità pubblica;

istruzione elementare e media;

antichità e belle arti;

disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio;

industria e commercio;

miniere;

navigazione interna;

e in tutte le materie indicate da leggi speciali.

Le leggi della Repubblica possono demandare alle Regioni il potere di emanare norme regolamentari per la loro esecuzione.

Art. 112.

La Regione provvede all’amministrazione nelle materie indicate negli articoli 109 e 110 e nelle altre delle quali lo Stato le delega la gestione.

Art. 113.

Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi costituzionali che la coordinano con la finanza dello Stato e dei Comuni.

Alle Regioni sono assegnati tributi propri e quote di tributi erariali. Il gettito complessivo dei tributi erariali è ripartito in modo che le Regioni meno provviste di mezzi possano provvedere alle spese necessarie per adempiere alle loro funzioni essenziali.

Allo stesso scopo possono essere istituiti fondi per fini speciali in base a leggi della Repubblica che determinano i contributi dello Stato e delle Regioni, e la gestione e la ripartizione dei fondi.

La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.

Non possono istituirsi dazi d’importazione ed esportazione, o di transito fra l’una e l’altra Regione; né prendersi provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose.

Art. 114.

Sono organi della Regione il Consiglio regionale, la Deputazione regionale ed il suo Presidente.

Una legge della Repubblica stabilisce il numero dei membri del Consiglio ed il sistema elettorale, che deve essere conforme a quello per la formazione della Camera dei Deputati.

Il Presidente ed i membri della Deputazione regionale sono eletti dal Consiglio regionale, che elegge pure nel suo seno un Presidente ed un Ufficio di Presidenza per i proprii lavori.

I membri del Consiglio regionale non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni.

Art. 115.

Il Consiglio regionale esercita la potestà legislativa che compete alla Regione e quella regolamentare delegata dallo Stato. Può proporre disegni di legge al Parlamento nazionale. Adempie le altre funzioni conferite dalle leggi.

La Deputazione regionale è l’organo esecutivo della Regione.

Il Presidente della Deputazione rappresenta la Regione.

Art. 116.

Il Presidente della Deputazione regionale dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo centrale.

Un Commissario del Governo residente nel capoluogo della Regione vigila e coordina secondo le direttive generali del Governo gli atti dell’amministrazione regionale per le funzioni delegate alle Regioni e presiede all’esercizio di quelle riservate allo Stato.

Art. 117.

Il Consiglio regionale può essere sciolto quando compie atti contrari all’unità nazionale o altre gravi violazioni di legge; e quando, non ostante la segnalazione fatta dal Governo, non procede alla sostituzione della Deputazione o del Presidente della Deputazione, che hanno compiuto analoghi atti e violazioni.

Lo scioglimento è disposto con decreto motivato del Presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei Ministri e deliberazione conforme della Camera dei senatori, presa a maggioranza assoluta dei suoi membri, con l’astensione dal voto dei rappresentanti della Regione interessata.

Con lo stesso decreto di scioglimento è nominata una Commissione di tre membri, scelti fra i cittadini eleggibili al Consiglio regionale. La Commissione indice le elezioni del Consiglio entro due mesi dalla pubblicazione del decreto di scioglimento ed intanto provvede all’ordinaria amministrazione di competenza della Deputazione ed alle misure improrogabili, da sottoporre poi alla ratifica del Consiglio.

Art. 118.

I disegni di legge approvati dal Consiglio regionale sono comunicati al Governo centrale, e promulgati trenta giorni dopo la comunicazione, salvo che il Governo non li rinvii al Consiglio regionale col rilievo che eccedono la competenza della Regione o contrastano con gli interessi nazionali o di altre Regioni.

Ove il Consiglio regionale li approvi nuovamente a maggioranza assoluta dei suoi membri sono promulgati, ma non entrano ancora in vigore, se entro quindici giorni dalla comunicazione il Governo li impugna per incostituzionalità davanti alla Corte costituzionale o nel merito, per contrasto di interessi, davanti all’Assemblea Nazionale. In caso di dubbio la Corte decide se competente a pronunciarsi sia essa stessa o l’Assemblea.

So una legge è dichiarata urgente dal Consiglio regionale ed il Governo consente, la promulgazione e l’entrata in vigore non sono subordinate ai termini indicati.

Le leggi regionali sono vistate dal Commissario del Governo nella Regione e promulgate dal Presidente della Deputazione regionale.

Art. 119.

Gli statuti regionali regolano l’esercizio dei diritti d’iniziativa e di referendum popolare in armonia con i principii stabiliti dalla Costituzione per le leggi della Repubblica.

Gli statuti regionali regolano altresì il referendum su determinati provvedimenti amministrativi.

Art. 120.

La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo di uffici nelle circoscrizioni provinciali, che può suddividere in circondari per un ulteriore decentramento.

Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica.

Art. 121.

Il Comune è autonomo nell’ambito dei principii fissati dalle leggi generali della Repubblica.

Con legge della Regione, su richiesta della maggioranza delle popolazioni interessate, possono essere creati nuovi Comuni, o modificate le circoscrizioni esistenti.

Art. 122.

Sugli atti della Regione è esercitato il controllo di legittimità da un organo centrale composto in maggioranza di elementi elettivi secondo l’ordinamento stabilito dalle leggi della Repubblica.

Il controllo di legittimità sugli atti dei Comuni e degli altri enti locali è esercitato dalle Regioni per mezzo di organi in maggioranza elettivi nei modi e limiti stabiliti con leggi della Repubblica. Per le deliberazioni amministrative indicate dalla legge, l’autorità deliberante può essere invitata a riesaminare il merito della deliberazione.

Nella Regione sono costituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado secondo l’ordinamento da stabilire con legge della Repubblica. Possono istituirsi sezioni con sede diversa dal capoluogo della Regione.

Art. 123.

Le Regioni sono così costituite:

Piemonte;

Valle d’Aosta;

Lombardia;

Trentino-Alto Adige;

Veneto;

Friuli e Venezia Giulia;

Liguria;

Emiliana lunense;

Emilia e Romagna;

Toscana;

Umbria;

Marche;

Lazio;

Abruzzi;

Molise;

Campania;

Puglia;

Salento;

Lucania;

Calabria;

Sicilia;

Sardegna.

I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con legge della Repubblica [2].

Art. 124.

Lo statuto di ogni Regione è stabilito in armonia alle norme costituzionali, con legge regionale deliberata a maggioranza assoluta dei consiglieri e a due terzi dei presenti; e deve essere approvato con legge della Repubblica.

Art. 125.

Si può con legge costituzionale, sentiti i Consigli regionali interessati, disporre la fusione di Regioni esistenti e la creazione di nuove Regioni con un minimo di 500 mila abitanti, quando ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata per referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse.

Si può, con referendum e legge della Repubblica, sentiti i Consigli regionali, consentire che Comuni, i quali ne facciano richiesta, siano staccati da una Regione ed aggregati a un’altra.

TITOLO VI.

GARANZIE COSTITUZIONALI

Sezione I.

Corte costituzionale.

Art. 126.

La Corte costituzionale giudica della costituzionalità di tutte le leggi.

Risolve i conflitti d’attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni, fra le Regioni.

Giudica il Presidente della Repubblica ed i Ministri accusati a norma della Costituzione.

Art. 127.

La Corte è composta per metà di magistrati, per un quarto di avvocati e docenti di diritto, per un quarto di cittadini eleggibili ad ufficio politico, tutti aventi l’età di almeno quarant’anni.

I giudici della Corte sono nominati dall’Assemblea Nazionale. Per le categorie dei magistrati, avvocati e docenti di diritto, la nomina ha luogo su designazione, in numero triplo di nomi, rispettivamente da parte delle magistrature ordinaria ed amministrative, del Consiglio superiore forense, e dei professori ordinari di discipline giuridiche nelle Università.

La Corte elegge il Presidente tra i suoi componenti. Il Presidente ed i giudici durano in carica nove anni. Sono ineleggibili i membri del Governo, delle Camere e dei Consigli regionali.

Art. 128.

Quando, nel corso di un giudizio, la questione d’incostituzionalità di una norma legislativa è rilevata d’ufficio o quando è eccepita dalle parti, ed il giudice non la ritiene manifestamente infondata, la questione è rimessa per la decisione alla Corte costituzionale.

La dichiarazione d’incostituzionalità può essere promossa in via principale dal Governo, da cinquanta deputati, da un Consiglio regionale, da non meno di diecimila elettori o da altro ente ed organo a ciò autorizzato dalla legge sulla Corte costituzionale.

Se la Corte, nell’uno o nell’altro caso, dichiara l’incostituzionalità della norma, questa cessa di avere efficacia. La decisione della Corte è comunicata al Parlamento, perché, ove lo ritenga necessario, provveda nelle forme costituzionali.

Art. 129.

La legge stabilisce le norme che regolano i conflitti di attribuzione e la composizione e il funzionamento della Corte costituzionale.

Sezione II.

Revisione della Costituzione.

Art. 130.

La iniziativa della revisione costituzionale appartiene al Governo ed alle Camere.

La legge di revisione costituzionale è adottata da ciascuna delle Camere in due letture, con un intervallo non minore di tre mesi. Per il voto finale in seconda lettura è richiesta la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera.

La legge di revisione costituzionale è sottoposta a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali.

Non si fa luogo a referendum, se la legge è stata approvata in seconda lettura da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi membri.

Art. 131.

La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale.

DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE

I.

È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

La disposizione dell’articolo 56 della Costituzione per l’eleggibilità a senatore non è applicabile ai ministri, sottosegretari di Stato, deputati e consiglieri nazionali fascisti.

Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste.

II.

I discendenti delle Case già regnanti in Italia non sono elettori né eleggibili a cariche pubbliche.

I membri di Casa Savoia non possono soggiornare nel territorio della Repubblica Italiana.

III.

La legge dispone l’avocazione allo Stato dei beni di Casa Savoia.

IV.

Non sono riconosciuti i titoli nobiliari.

I predicati di quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgono come parte del nome.

La legge regola la soppressione della Consulta araldica.

L’Ordine mauriziano è mantenuto come ente ospedaliero.

V.

Se al momento delle prime elezioni della Camera dei senatori non sono costituiti tutti i Consigli regionali, si procede, anche per il terzo che essi dovrebbero eleggere, con il sistema adottato per gli altri due terzi.

La prima elezione del Presidente della Repubblica, ove non siano già costituiti tutti i Consigli regionali, ha luogo soltanto da parte dei membri dell’Assemblea Nazionale.

VI.

Si applica all’Assemblea Costituente la disposizione del secondo comma dell’articolo 58 della Costituzione.

VII.

Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i Tribunali militari.

Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvede con legge alla soppressione del Tribunale Supremo Militare e alla devoluzione della sua competenza alla Cassazione.

VIII.

Leggi della Repubblica regolano per ogni ramo della pubblica amministrazione il trapasso delle funzioni statali attribuite alle Regioni e quello di funzionari e dipendenti dello Stato, anche centrali, che si rende necessario in conseguenza del nuovo ordinamento.

Alla Regione sono trasferiti, nei modi da stabilire con leggi della Repubblica, il patrimonio, i servizi ed il personale delle Provincie.

IX.

La presente Costituzione sarà promulgata dal Capo provvisorio dello Stato, entro cinque giorni dalla sua approvazione da parte dell’Assemblea Costituente.

[1] La Commissione si riserva di decidere sulla aggiunta della Regione del Friuli-Venezia Giulia, alle quattro cui è attribuita un’autonomia speciale.

[2] Su questo testo, proposto dalla seconda Sottocommissione, la Commissione, in seduta plenaria, ha sospeso ogni decisione, in attesa che siano raccolti gli elementi di giudizio, mediante l’inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 31 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

27.

RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 31 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Sulla Magistratura

Presidente – Targetti – Leone Giovanni – Federici Maria – Iotti Leonilde – Gotelli Angela – Mancini – Cappi – Codacci Pisanelli – Molè – Cevolotto – Conti – Moro – Fabbri – Mastrojanni – Uberti.

Autonomie locali

Presidente – Targetti – Einaudi – Ambrosini – De Vita – Grassi – Laconi – Perassi – Mortati – Tosato – Mannironi – Lami Starnuti – Cevolotto – Fabbri.

La seduta comincia alle 18.30.

Sulla Magistratura.

PRESIDENTE avverte che occorre esaminare la seguente norma relativa alla Magistratura:

«I magistrati sono nominati con decreti del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario.

«Il Consiglio superiore della Magistratura può, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, designare per la nomina magistrati onorari in tutte le funzioni attribuite dalla legge a giudici singoli, e può designare a Consigliere di cassazione professori ordinari di materie giuridiche nelle Università, ed avvocati dopo quindici anni di esercizio».

L’onorevole Targetti ha proposto di sopprimere al 1° comma le parole: «nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

TARGETTI nota che la seconda Sezione della seconda Sottocommissione deliberò l’ammissione delle donne nella Magistratura; ma questa ammissione non fu né condizionata, né limitata. Il Comitato di redazione, nel redigere e nel coordinare, ha anche emendato, perché ha aggiunto nel primo comma le parole: «nei casi previsti dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

Evidentemente, qui c’è il pensiero e la finalità di limitare l’ammissione delle donne nella Magistratura; chi, invece, è stato favorevole a questo principio, non vede le ragioni di una tale limitazione.

I motivi addotti dai sostenitori della tesi opposta non hanno persuaso. Non si può, da una parte, ammettere la presenza, graditissima ed utilissima, nella Costituente di tante egregie colleghe; ammettere che la donna possa salire anche su una cattedra universitaria e, dall’altra, negare che la donna abbia le attitudini necessarie per diventare anche Consigliere di cassazione. Non intende diminuire il valore degli egregi magistrati che compongono le varie Sezioni della Cassazione; ma non crede di fare ingiuria a nessuno dicendo che forse c’è qualche consigliere che non ha le qualità di intuito e di capacità intellettiva che possono avere alcune donne. Queste ragioni militano contro quella limitazione implicitamente prevista dall’emendamento apportato dal Comitato di redazione.

LEONE GIOVANNI è favorevole al testo del Comitato di redazione, il quale corrisponde ai motivi che furono enunciati da qualche componente della seconda Sezione. Si disse che nessuna difficoltà esisteva per dare un più ampio respiro alla donna nella partecipazione alla vita pubblica del Paese. Già l’allargamento del suffragio alle donne costituisce il primo passo su questo piano. Si ritiene, però, che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare, con profitto per la società, a quella amministrazione della giustizia dove più può far sentire le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità, non può essere negato: si accenna qui, oltre che alla giuria – nel caso che questo istituto sia ripristinato – a quei procedimenti per i quali è più sentita la necessità della presenza della donna, in quanto richiedono un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Anche il Tribunale dei minorenni sarebbe la sede più idonea per la partecipazione della donna. Ma, negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni.

Pertanto, in questa prima fase si lasci alla legge sull’ordinamento giudiziario il compito di stabilire dei limiti. D’altra parte gli sembra chiaro che la formula proposta dal Comitato di redazione non stabilisce un limite vero e proprio, ma solo la possibilità di porre dei limiti attraverso la legge sull’ordinamento giudiziario; di guisa che la legge sull’ordinamento giudiziario potrà anche non fissare alcun limite. Pensa, in conclusione, che possa adottarsi il testo del Comitato di redazione.

FEDERICI MARIA si associa all’emendamento proposto dall’onorevole Targetti e non è d’accordo con quanto ha detto l’onorevole Leone, anche perché egli ha adoperato una parola che inficia tutto il suo ragionamento: ha parlato di tradizione. Senza ripetere gli argomenti già esposti dall’onorevole Targetti, dirà solamente che nel corso dei lavori presso le varie Sottocommissioni è affiorata più di una volta questa poca sensibilità maschile nel non volere far giustizia nei riguardi della donna. Nel momento in cui la Costituzione francese ha sancito che i diritti della donna sono uguali a quelli dell’uomo in tutti i settori della vita sociale e civile; quando è noto che già la Jugoslavia nell’articolo 24 della sua Costituzione sancisce l’eguaglianza assoluta della donna nei riguardi dell’uomo, come ha fatto precedentemente la Russia nel 1936, con l’articolo 122, come hanno fatto la Polonia, l’Uruguay e tanti altri Stati, pare impossibile che solamente in Italia si voglia mantenere questa inferiorità.

Ora, quando si stabilisce che il merito e la preparazione sono i soli elementi discriminatori per quanto attiene alla possibilità di aprire tutte le carriere alla donna, non vi è da aggiungere altro. Quando invece si parla di facoltà, di attitudini, di capacità, si portano argomenti deboli, che offendono la giustizia. Se è difficile, ad esempio, trovare una donna capace di comandare un Corpo d’armata, bisogna anche dire che vi sono tanti uomini incapaci. Del resto almeno una volta nella storia si ha una santa, Giovanna d’Arco, che può dare lezioni a tutti. Non si parli, quindi, di attitudine, di capacità, di facoltà: si lasci il criterio della preparazione e del merito, che può essere accettato dalle donne in genere e anche dalla coscienza nazionale, nel momento in cui si sta elaborando la Costituzione.

IOTTI LEONILDE si associa agli argomenti svolti dagli onorevoli Targetti e Federici. A suo parere i motivi addotti dall’onorevole Leone non sono molto validi perché, se è vero che si deve far sentire in certo grado la femminilità della donna, non per questo si deve precludere alla donna l’accesso agli alti gradi della Magistratura, quando abbia la capacità di arrivarci. Può anche darsi che le donne non ci arrivino; ma in questo caso si tratta di merito.

Richiama, inoltre, l’attenzione dei colleghi sulla norma della Costituzione la quale stabilisce che tutti i cittadini, di entrambi i sessi, possono accedere alle cariche pubbliche.

Il testo del Comitato di redazione, a suo parere, è in contradizione con questa norma.

GOTELLI ANGELA osserva che permettere alle donne di arrivare agli alti gradi della Magistratura non significa portarcele per forza. Gli uomini avranno sempre la possibilità di lasciarle indietro, qualora abbiano possibilità e meriti maggiori.

Pensa, in ogni caso, che, se si vuole essere coerenti, non si debba intaccare il principio dell’uguaglianza affermato nella Costituzione.

MANCINI non intende aggiungere altri argomenti a quelli addotti dal collega Targetti e a quelli così forbitamente esposti dalle elette donne che lo hanno preceduto; ma siccome è stata ricordata Giovanna d’Arco, vorrebbe anche ricordare che l’Italia non ha nulla da invidiare ad altre Nazioni, poiché ha avuto una donna, Eleonora d’Arborea, che, con la «Carta de logu», ha lasciato un’orma indelebile nella legislazione e nella storia del diritto italiano.

CAPPI, pur essendo imbarazzato nell’esprimere un parere contrario alla tesi sostenuta dall’onorevole Federici Maria, la quale si è appellata alla coscienza popolare, ha il dovere di dire che una delle ragioni principali per cui ha espresso parere contrario all’ammissione delle donne nella Magistratura è che, almeno oggi, nella coscienza popolare non v’è la convinzione che le donne possano esercitare – soprattutto indiscriminatamente – la funzione di giudice. Si dovrebbe fare, se mai, un referendum; in ogni modo riassume la ragione della sua opposizione in questa proposizione: a suo parere, nella donna prevale il sentimento al raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio al sentimento.

CODACCI PISANELLI prospetta soltanto una questione di resistenza fisica. Per sua diretta esperienza, un tempo, di magistrato, afferma che in udienza alle volte la discussione si protrae per ore ed ore e richiede la massima attenzione da parte di tutti. È evidente che per un lavoro simile sono più indicati gli uomini che le donne. In altri termini, si tratta di quella stessa resistenza fisica che viene considerata allorché si parla del servizio militare. Per tali considerazioni ritiene che non sia opportuno ammettere le donne nella Magistratura.

MOLÈ dichiara di aver combattuto questa proposta sia in Consiglio dei Ministri, che in seno alla Sottocommissione, e non può che ripetere brevissimamente che ritiene non trattarsi né di superiorità, né di inferiorità della donna di fronte all’uomo nella funzione giurisdizionale: è soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico che la donna non può giudicare.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Targetti.

(La Commissione non approva).

L’onorevole Leone Giovanni ha proposto di sopprimere, al secondo comma dell’articolo in esame, le parole: «designare per la nomina magistrati onorari in tutte le funzioni attribuite dalla legge a giudici singoli, e può».

LEONE GIOVANNI rileva che l’emendamento mira all’abolizione delle magistrature onorarie in Italia, che, a suo parere, non corrispondono a quella esigenza di imparzialità, anche apparente, della quale deve essere circondato il magistrato. Il magistrato onorario, vicepretore o conciliatore, che di regola è scelto prevalentemente tra elementi tecnici, non si presenta di fronte all’opinione pubblica circondato da quell’alone di imparzialità, del quale è circondato invece il magistrato ordinario. A questi motivi ne aggiunge uno di carattere pratico, che forse non si addice alla solennità dell’Assemblea, ma che merita di essere segnalato: di fronte ad una notevole disoccupazione di intellettuali, abolendo la Magistratura onoraria, si darebbe la possibilità alla Magistratura ordinaria di allargare i suoi ruoli e di assumere con retribuzione giovani laureati, che battono alle porte dello Stato per essere decorosamente utilizzati.

CEVOLOTTO è contrario all’emendamento, non perché non comprenda il valore e le ragioni addotti dall’onorevole Leone, ma perché è convinto che in pratica, abolendo le magistrature onorarie, si metterebbero soprattutto le Preture nella impossibilità di funzionare, tenuto conto che l’amministrazione della giustizia non ha abbastanza giudici da assegnare ad esse.

TARGETTI è decisamente contrario all’emendamento dell’onorevole Leone, che va proprio contro la convinzione che si debbano aumentare i giudici onorari. Si sa, fra l’altro, che una delle ragioni per le quali il trattamento economico della Magistratura italiana è stato sempre così meschino risiede nel gran numero di magistrati. Diceva il Mortara che in proporzione non c’era nessun Paese civile che avesse un numero di magistrati pari a quelli italiani, e fin dai tempi del Mortara si sosteneva che l’espediente migliore per facilitare la risoluzione del problema del miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati sarebbe stato quello della riduzione del loro numero – specie nei gradi inferiori – sostituendoli con magistrati onorari. Questi ultimi vanno scelti evidentemente con criteri di giustizia e non deve preoccupare la prassi seguita nel periodo fascista, nel quale la nomina a vicepretore onorario era in moltissimi casi dovuta come corrispettivo ai particolari demeriti morali che distinguevano i fascisti fra di loro. In avvenire i criteri da seguire saranno ben altri e potranno assicurare una buona scelta.

CONTI intende distinguere le due figure di magistrati onorari, vicepretore e conciliatore. Per i primi ritiene che sia necessaria la loro abolizione, anche perché è per la eliminazione di tutti gli avvocati senza cause e dei laureati senza lavoro. È pertanto contrario al punto di vista dell’onorevole Leone, il quale pensa che si debbano aprire le porte agli sfaccendati che escono dalle Università e che farebbero invece molto meglio a frequentare altre facoltà che non quella di giurisprudenza, dalla quale vengon fuori continuamente uomini che non servono a niente.

È invece favorevole al mantenimento dell’istituto del conciliatore e crede che si debba desiderare che tale istituto sia migliorato e reso più utile di quanto non sia attualmente, affidando ai conciliatori anche una competenza di carattere penale. Difatti in materia di contravvenzioni i conciliatori potrebbero rendere ottimi servizi. Ritiene inoltre che questa categoria abbia fatto sempre una buona prova; non bisogna guardare alle città dove tutto è marcio, ma ai piccoli centri, dove questo magistrato è quasi sempre persona la quale giova moltissimo a restituire la pace.

Pertanto, se vi sarà la possibilità di una votazione per divisione, voterà per il mantenimento del conciliatore e per l’abolizione del vicepretore onorario.

MORO è favorevole all’emendamento Leone, sia per ragioni di carattere teorico, in quanto pensa che la Magistratura, perfettamente organizzata in gerarchia, offra maggiori e migliori garanzie di imparzialità e di serenità nell’Amministrazione della giustizia, sia per ragioni di ordine pratico. È vero, infatti, che vi sono moltissimi laureati immeritevoli che farebbero molto meglio a dedicarsi ad altre cose, ma è altresì vero che ve ne sono di meritevoli, i quali in un momento triste come l’attuale non hanno alcuna possibilità di sistemazione. Fa poi presente che l’Amministrazione della giustizia è tra le poche attive e riesce a sostenere i propri oneri con i propri proventi.

FABBRI voterà a favore dell’emendamento Leone, non perché sia contrario ai giudici onorari, ma perché ritiene che questa funzione sia incompatibile con quella di avvocato esercitata contemporaneamente nella stessa circoscrizione giudiziaria. Ciò crea una disparità di situazioni fra i vari avvocati e disturba notevolmente il regolare funzionamento dell’Amministrazione della giustizia. Quindi, in mancanza del correttivo della incompatibilità tra le funzioni di avvocato e quella di magistrato onorario nello stesso ufficio giudiziario, voterà a favore dell’emendamento.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Leone.

(Non è approvato).

Vi è poi la proposta dell’onorevole Conti che vorrebbe limitare la nomina onoraria ai soli conciliatori.

La pone ai voti.

(Non è approvata).

Si passa all’esame del seguente articolo:

«L’azione penale è pubblica, ed il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla, senza poterla in alcun caso sospendere o ritardare.

«Le udienze sono pubbliche, salvo che la legge per ragioni di ordine pubblico o di moralità disponga altrimenti.

«Tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».

L’onorevole Targetti ha proposto di sopprimere il primo comma.

TARGETTI ricorda che con una disposizione antecedente la Carta costituzionale assicura la piena ed assoluta indipendenza anche dei magistrati del pubblico ministero, avendoli equiparati ai giudici ed avendo riconosciuto anche ad essi l’assoluta inamovibilità. Quindi non vi sono più preoccupazioni che l’azione del pubblico ministero possa essere influenzata da ingerenze del potere esecutivo.

Ora, includere nella Carta costituzionale la norma di cui al primo comma in esame significa risolvere in via incidentale una questione relativa alla discrezionalità o meno dell’azione penale. Tale materia, a suo parere, per la sua stessa natura, non trova sede acconcia nella Carta costituzionale. Questo è un problema che si trascina da lungo tempo anche nel campo dottrinario e non è questa la sede per dargli una risoluzione.

LEONE GIOVANNI riconosce che la Carta costituzionale ha perfezionato il sistema delle garanzie del pubblico ministero, pari a quello del giudice; ma, come l’onorevole Targetti stesso ha osservato, il problema dell’articolo in esame concerne il principio della discrezionalità o meno dell’azione penale. Ora, si potrebbe avere un pubblico ministero che per motivi obiettivi non promuova l’azione penale in seguito a notitia criminis. Ed allora, il problema si pone come l’ha posto l’onorevole Targetti: si deve e si può risolvere nella Carta costituzionale il principio della discrezionalità o della obbligatorietà dell’azione penale? Ritiene di sì.

Pensa che in una Costituzione la quale ha risolto problemi importantissimi, ha riconosciuto perfino il diritto di difesa del cittadino in tutti gli stadi della giurisdizione, ed ha circondato l’amministrazione della giustizia del massimo delle garanzie, lo stabilire tale principio sia un dovere di carattere costituzionale.

Il principio della obbligatorietà dell’azione penale è discusso. Non si ignora che durante il fascismo il Codice del 1930 questo principio sembrò incrinare quando si stabilì che il pubblico ministero poteva archiviare la notitia criminis senza investirne il giudice. Una legge democratica deve stabilire il principio della obbligatorietà dell’azione penale, sicché il pubblico ministero non possa archiviare, sia pure per motivi obiettivi, la notitia criminis, ma deve investire sempre il giudice, chiedendo se mai l’archiviazione.

Quest’obbligo, che corrisponde alla nostra tradizione giuridica ed ai principî di garanzia della giustizia, deve essere, a suo avviso, consacrato nella Carta costituzionale e l’articolo deve essere mantenuto nella sua integrità.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Targetti.

(Non è approvata).

In materia di ricorso in Cassazione il Comitato di redazione ha proposto la seguente norma:

«Contro le sentenze o le decisioni pronunciate in ultimo grado dagli organi giudiziari ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso in Cassazione, secondo le norme di legge».

L’onorevole Leone ha proposto di aggiungere il seguente comma:

«Una legge, da emanare nei tre mesi dalla entrata in vigore della Costituzione, riconoscerà il diritto di ricorso per Cassazione contro le sentenze attualmente non soggette ad alcun mezzo di impugnazione, ancorché emanate in tempo antecedente alla presente Costituzione».

LEONE GIOVANNI ricorda che, in materia, propose un articolo dinanzi alla seconda Sezione che, peraltro, non fu esaminato perché si osservò che non fosse opportuno in quella sede.

L’articolo, la cui sede opportuna sarebbe fra le disposizioni transitorie, mira ad ovviare ad un inconveniente determinatosi durante il periodo fascista. Come è noto, furono create, ed esistono anche attualmente, forme di giurisdizioni straordinarie nei cui confronti non è stata mai possibile l’impugnazione alla Corte di cassazione, nemmeno per difetto di giurisdizione. Il caso che ha ispirato, in sostanza, la sua proposta è quello del Tribunale militare straordinario istituito per i reati di rapina commessi in particolari circostanze. Questo Tribunale è disciplinato con la stessa procedura dei Tribunali militari di guerra, di modo che la Corte di cassazione, con una recente sentenza, ha riconosciuto che neppure per difetto di giurisdizione si possa ad essa ricorrere avverso le sentenze emanate da tale Tribunale.

Ora, nel progetto di Costituzione è stato fissato un principio che era già nel sistema giudiziario, cioè la possibilità per il cittadino di ricorrere sempre, in ultima istanza, alla Corte di cassazione, per lo meno per quanto attiene al difetto di giurisdizione. Se questa esigenza è avvertita, pensa che sia opportuno stabilire la possibilità di impugnazione con legge, la quale fissi con effetto retroattivo la possibilità di un ricorso alla Corte di cassazione. Qualora si pensi che si debba circoscrivere l’ambito di questa norma che potrebbe limitarsi al caso di difetto di giurisdizione, si potrebbero presentare emendamenti, ma esorta ad esaminare col massimo senso di responsabilità la proposta, la quale mira a ripristinare la possibilità di ricorrere sempre al supremo organo della Corte di cassazione.

PRESIDENTE osserva che sarà sempre possibile con una legge ottenere lo scopo che l’onorevole Leone si prefigge col suo emendamento.

MASTROJANNI si associa all’emendamento Leone, anche perché sullo stesso argomento ha presentato una interrogazione al Ministro Guardasigilli perché si renda possibile il ricorso in Cassazione contro le attuali sentenze, non soggette a gravame. Nella specie, oltre ai casi citati dall’onorevole Leone, vi sono quelli dell’Alta Corte di giustizia. L’incongruenza è enorme, perché sullo stesso fatto giudica prima l’Alta Corte di giustizia e successivamente la Corte d’assise straordinaria. Già la materia stessa viene sottratta al gravame quando è stata giudicata dall’Alta Corte, ed è soggetta a gravame quando è giudicata dalla Corte d’assise straordinaria. Ora, questa incongruenza inconcepibile dovrebbe essere eliminata; ma, nonostante l’interrogazione presentata, ancora non vi si è provveduto, né d’altra parte vi ha provveduto il Ministro Guardasigilli antecedente, al quale si era rivolto.

Di conseguenza ritiene opportuno che la Costituzione ne faccia menzione perché si provveda seriamente.

CEVOLOTTO voterà contro l’emendamento, sia per la ragione esposta dal Presidente, che cioè si può provvedere meglio con una legge speciale, sia perché sarebbe necessario esaminare a quali e quanti casi si riferirebbe l’articolo. Quindi, è meglio lasciare la materia alla legge speciale.

CONTI si associa all’onorevole Cevolotto.

UBERTI, date le ragioni esposte dall’onorevole Cevolotto, pensa che si potrebbe segnalare la proposta al Governo come una raccomandazione.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di segnalare l’emendamento Leone come segnalazione al Governo.

(È approvata).

Autonomie locali.

PRESIDENTE, passando al titolo relativo alle autonomie locali, pone in esame il seguente articolo:

«Il territorio della Repubblica è ripartito in Regioni e Comuni.

«Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento regionale».

L’onorevole Targetti ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Il territorio della Repubblica è ripartito in Regioni, Provincie e Comuni».

Tale emendamento si ricollega ad un articolo successivo del seguente tenore:

«La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative a mezzo delle circoscrizioni provinciali, che può suddividere in circondari per un ulteriore decentramento.

«Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica».

L’onorevole Targetti ha proposto di costituirlo col seguente:

«Le Provincie sono enti autarchici, con propria amministrazione elettiva, con funzioni e compiti determinati dalla legge, in correlazione con quelli specifici dei Comuni e delle Regioni».

Si tratta, in sostanza, di conservare la Provincia, non come era stato stabilito nel progetto, ma come ente autarchico.

TARGETTI. Come ha osservato il Presidente, i due emendamenti sono collegati fra di loro.

Il progetto stabilisce che il territorio della Repubblica è diviso in Regioni e Comuni. La Provincia, pertanto, sarebbe senz’altro soppressa. A suo parere la soppressione di questo ente, che non è un ente nato ieri, non appare neppure sufficientemente motivata. Da nessuna parte è venuta una motivazione che abbia l’importanza e l’efficienza necessarie per legittimare un’innovazione così profonda nell’ordinamento locale.

Si dice: la Provincia non è stata soppressa perché di essa si fa parola in qualche articolo della Carta costituzionale, ma occorre tener presente che si cadrebbe in un grave equivoco se si ritenesse che la forma nella quale la Provincia sopravvive secondo il progetto possa equivalere ad una sopravvivenza della Provincia così come è oggi.

La Carta costituzionale, infatti, prevede la Provincia come una circoscrizione amministrativa. È un organo di decentramento dell’amministrazione della Regione. Quindi non più configurabilità di un patrimonio provinciale, né esistenza di una Assemblea provinciale, non più autonomia.

Si dice che la soppressione della Provincia è conseguenza diretta della istituzione della Regione. Osserva che questa formulazione è tutt’altro che rigorosa: se la Regione nascesse a detrimento delle funzioni della Provincia e nascesse costituendosi un patrimonio di attribuzioni togliendole all’ente Provincia, il ragionamento correrebbe, ma si è d’accordo nel ritenere l’opposto, cioè che la Regione è un ente di decentramento amministrativo ed in parte anche politico, in quanto una Regione nasce sottraendo una parte di ciò che è accentrato oggi nello Stato, cioè non nasce a detrimento della Provincia.

Sembra così dimostrato che la prima considerazione, per la quale si dice che la Provincia muore perché la Regione nasce, non ha la forza convincente che le si attribuisce.

Si dice che la Provincia è un ente artificiale. Ora, pur essendo tutt’altro che contrario all’istituzione della Regione, verso la quale, anzi, ha tratto simpatia dallo studio delle opere di Carlo Cattaneo, pensa che essa non abbia l’omogeneità della Provincia, ciò che costituisce un argomento, a suo parere, inconfutabile a favore della Provincia.

Non intende riandare alle origini storiche della Provincia – (alcun dicono che la Provincia risale agli antichi romani, altri dicono che ha soltanto una vita nell’età moderna, ecc.) – ma in pratica nell’ente Provincia esiste una omogeneità innegabile di dialetti, di abitudini; vi sono anche affinità etniche, geografiche, geologiche persino.

Ora tutto questo nella Provincia si trova e purtroppo non si trova nella Regione. Una prova di ciò si ha nel movimento, al quale si assiste, inteso a creare nuove Regioni, a spezzettare cioè Regioni esistenti. Se questa omogeneità che si rimprovera non avere la Provincia, l’avesse l’ente Regione, nessuna di queste domande di spezzettamento delle Regioni esistenti sarebbe stata avanzata.

Nella Provincia è accaduto che intorno ad un capoluogo sono sorti e si sono sviluppati tanti Comuni di importanza inferiore, e fra il capoluogo e tutti questi altri Comuni si è creato un continuo scambio di relazioni e di interessi commerciali e culturali. Tante manifestazioni della vita pubblica fanno capo, al capoluogo della Provincia.

Perché allora si pensa di distruggere questo ente? Pur non essendo stato mai un ortodosso, non ha mai capito l’utilità di distruggere unicamente per rinnovare. L’esistenza di un ente è una ragione che sta a difesa della sua sopravvivenza, quando mancano serie ragioni per la sua soppressione.

Quali peccati ha mai commesso la Provincia? Nessuno.

Si dice: mantenendo in vita la Provincia come ente autonomo ed autarchico con rappresentanza popolare, si va incontro a due inconvenienti: di centuplicare gli uffici amministrativi e di aumentare gli inconvenienti della burocrazia. A suo avviso questo non è vero. Si vede nella istituzione della Regione un medicamento della piaga dell’accentramento burocratico statale. Ma non si teme che il giorno in cui saranno abolite le Provincie si vada incontro ad un accentramento burocratico regionale? La sopravvivenza della Provincia serve ad evitare questo inconveniente.

Si dice anche: ma la Provincia rimarrà priva di funzioni. Questo pericolo ci sarebbe se la Regione nascesse a detrimento della Provincia. Esso però non esiste perché, mantenendo la Provincia, se ne dovrebbero anzi aumentare le attribuzioni. Vi sono molte attribuzioni lasciate oggi a Comuni che dovrebbero essere accentrate utilmente nell’ente Provincia, come da molto tempo si sostiene.

Si dice infine: in questo modo si moltiplicano le Assemblee popolari. Crede di non sbagliare affermando che l’aumentare le Assemblee popolari sia tutt’altro che un inconveniente. Vorrebbe trovare anzi il modo di aumentarle, perché è soltanto così che si chiamano a partecipare più attivamente le grandi masse delle popolazioni alla vita collettiva.

Si è limitato ad accennare a qualcuno dei tanti argomenti che in altra sede si potranno portare a favore del suo emendamento. Non pretende di aver convinto chi da tempo ha una diversa opinione. Vorrebbe soltanto aver dimostrato che la sua proposta non è contro la Regione, ma è a tutto favore della Regione, e quindi avere indotto i colleghi a non affrettarsi a votare contro.

Occorre tener presente che se la Regione nasce sulle ceneri della Provincia, nascerà in mezzo a dei malcontenti, a recriminazioni e forse a movimenti popolari che bisogna cercare di evitare e che potranno in ogni caso rendere l’affermarsi del nuovo ente più difficile.

EINAUDI è d’accordo sulla necessità di accrescere queste Assemblee anche agli effetti dell’educazione del popolo; però crede che in questa differenza che si fa tra Regione e Provincia vi sia un grosso equivoco: le Province, come enti autarchici, non hanno niente da fare, hanno le strade e l’acqua che passano ora alla Regione. Per i manicomi non sa quale vantaggio vi sia di farli amministrare piuttosto dalla Provincia che dalla Regione. Inoltre, dal punto di vista puramente patrimoniale, non vi è una perdita, ma uno spostamento dei servizi dai contribuenti provinciali a quelli regionali.

Del resto la Provincia non muore, in quanto che i servizi a cui sono particolarmente affezionati i provinciali, non sono i servizi dell’ente autarchico, come le strade, l’acqua e i manicomi; sono altri servizi che continueranno ad esistere. Non vede nessuna ragione perché il Tribunale che è nel capoluogo di Provincia debba essere abolito, solo perché non esiste più la Provincia come ente autarchico; e così i servizi dell’agricoltura, delle foreste, ecc., apparterranno allo Stato o alla Regione, ma continueranno ad aver sede nella Provincia. Quindi le Province continueranno ad esistere per quel che valgono, per i servizi che potranno ancora essere accentrati nel capoluogo o distribuiti meglio nel loro territorio. A questo può servire bene l’istituzione nelle circoscrizioni provinciali di Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica, come è previsto nel progetto in esame.

Per queste ragioni voterà per il mantenimento del testo del Comitato di redazione.

AMBROSINI ricorda che quando il Comitato di redazione cominciò i suoi lavori, si dichiarò favorevole al mantenimento dell’ente Provincia, appunto per le preoccupazioni accennate dall’onorevole Targetti, e specialmente per le ripercussioni che la soppressione di questo ente avrebbe potuto suscitare nella pubblica opinione. Senonché, tutto l’andamento della discussione nel Comitato portò al delinearsi di una maggioranza decisamente contraria al mantenimento dell’ente Provincia; e allora il suo sforzo e di altri colleghi fu quello di mantenere in sostanza quei compiti che oggi sono esplicati dalla Provincia, eliminando semplicemente quella sovrastruttura di ente autarchico, e quindi quella speciale rappresentanza limitatamente all’assolvimento di compiti che possono contarsi sulle dita di una mano.

Ora pensa che la struttura del sistema predisposto dal Comitato di redazione possa sodisfare a tutte le esigenze, in quanto concretamente tutti gli uffici e i servizi pubblici che attualmente esistono nell’ambito della circoscrizione provinciale restano, sia il Tribunale, sia l’Intendenza di finanza, sia il Provveditorato agli studi. Occorre tener presente quelle che erano le funzioni e le caratteristiche dell’ente Provincia, come ente autarchico, e della circoscrizione provinciale, come circoscrizione puramente amministrativa.

Ora, tutti gli uffici e i servizi pubblici della circoscrizione provinciale, restando come attualmente sono, la questione si accentra semplicemente nella soppressione o meno dell’ente autarchico. La preoccupazione dell’eliminazione della rappresentanza crede possa essere superata, quando si tenga presente la disposizione di un successivo articolo per cui «nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, nei modi e coi poteri stabiliti da una legge della Repubblica».

Ad eliminare molte delle apprensioni di cui si è fatto interprete l’onorevole Targetti ha proposto che al comma del primo articolo in esame: «Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento regionale», siano aggiunte le parole: «e statale».

In questo modo crede doveroso e coerente approvare il testo proposto dal Comitato di redazione.

Così pure l’onorevole Uberti ha proposto, a proposito delle Giunte previste in un articolo successivo, di sostituire alla formula: «Nelle circoscrizioni provinciali sono istituite Giunte nominate dai Corpi elettivi, ecc.», l’altra: «In tali circoscrizioni sono elette dai Comuni Giunte provinciali con funzioni delegate dalla Regione secondo norme da stabilirsi».

PRESIDENTE avverte che occorre tener conto, agli effetti della decisione da prendere, dei due emendamenti di cui ha parlato l’onorevole Ambrosini.

DE VITA è contrario all’emendamento proposto dall’onorevole Targetti e si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Einaudi. Desidera soltanto aggiungere che il problema va esaminato anche da un punto di vista dell’area di offerta dei pubblici servizi, in quanto si tratta, a suo parere, di un problema anche tecnico ed economico. I servizi pubblici potrebbero anche consorziarsi liberamente per ottenere un’area di offerta che sia consona a quella determinata Regione.

GRASSI osserva che il vecchio ordinamento considerava la Provincia sotto due aspetti diversi: un aspetto governativo e un aspetto amministrativo. Pensa che la riforma si rivolga specialmente alla questione dell’aspetto governativo della Provincia. La Regione, assorbendo tutta la funzione governativa che si svolge nelle diverse Province, non può più mantenere in vita la vecchia Provincia con la sua organizzazione attuale. Questo è il punto più essenziale della struttura dello Stato.

Per quello che riguarda l’ente Provincia dal punto di vista amministrativo, per cui funzionavano i Consigli provinciali, le Deputazioni provinciali, ecc., l’attività della Provincia era limitata alle strade, ai manicomi e agli istituti di beneficenza. Ritiene che anche creando la Regione, questa attività non possa essere tolta; ma essa rimane attraverso la formula presentata dalla Sottocommissione.

Bisogna, in sostanza, porre nettamente il problema: si vuole la Regione o no? Siccome tutta la Sottocommissione ha studiato il problema della struttura dello Stato sulla base delle Regioni, non si può prescindere da tale situazione. Infatti, se si vuole mantenere la Provincia come ente autarchico, bisogna mantenerla sotto il suo doppio aspetto governativo e amministrativo. Ma questo non si è voluto. L’azione amministrativa sarà affidata alle Regioni, ma sarà ripartita fra i diversi uffici provinciali.

Quindi è d’accordo nel mantenere ferma la disposizione così come è stata formulata dalla Sottocommissione.

LACONI è dolente di dover parlare contro la proposta Targetti, coerentemente alla posizione assunta nella Sottocommissione, perché sente le preoccupazioni da lui manifestate. Ha però l’impressione che tali preoccupazioni, vive nelle Province, siano determinate non tanto dalla scomparsa dell’ente autarchico come tale, ma dal fatto che si teme che la costituzione delle Regioni possa significare anziché un decentramento, un accentramento amministrativo. Tale preoccupazione può, a suo parere, essere eliminata considerando la Provincia come un organo di decentramento amministrativo regionale e statale.

In sostanza, alle popolazioni delle Provincie interessa che non si debba andare nel capoluogo regionale, anziché in quello provinciale, per trovare l’Intendenza di finanza, la banca, ecc. Questa preoccupazione non ha ragione d’essere, perché i capoluoghi provinciali continueranno a rimanere organi di decentramento dello Stato.

L’altra preoccupazione è quella che sorge negli stessi capoluoghi di Provincia, che sono diventati centri di commercio, di industria, di traffici, di cultura, e che costituiscono quasi un esempio di vita civica rispetto alle loro Provincie. Ad esempio, in Sardegna, il sorgere di una Provincia, quale quella di Nuoro, ha significato il formarsi di un centro culturale, con la possibilità di realizzare scambi culturali e commerciali che prima non esistevano. Anche questa preoccupazione non ha ragion d’essere, perché tali centri, così come si sono formati, continueranno a rimanere, anche se sarà soppresso l’ente autarchico.

Osserva, in definitiva, che non soltanto per una ragione di coerenza, di armonia del sistema è favorevole al testo del Comitato di redazione; ma per il fatto che, se si è giunti a costituire la Regione, è perché si vuole avere per base un’unità organica di fatto, quale non è la Provincia, che oggi esiste sulla carta ed è puramente artificiale. Ad essa si vuole sostituire un ente che abbia nella struttura del Paese un’unità storica, di tradizioni, di costumi.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Targetti:

«Il territorio della Repubblica è ripartito in Regioni, Provincie e Comuni».

Tale emendamento si collega a quello proposto poi per un successivo articolo:

«Le Provincie sono enti autarchici, con propria amministrazione elettiva, con funzioni e compiti determinati dalla legge, in correlazione con quelli specifici dei Comuni e delle Regioni».

(La Commissione non approva).

L’onorevole Ambrosini ha proposto di aggiungere al secondo comma dell’articolo in esame: «Le Provincie sono circoscrizioni amministrative di decentramento regionale» le parole: «e statale».

Pone ai voti la proposta.

(È approvata).

La Commissione è chiamata ora ad esaminare l’articolo 3:

«Le Regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni secondo i principî fissati nella Costituzione.

«Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige e alla Valle d’Aosta sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia con Statuti speciali adottati con leggi di valore costituzionale».

L’onorevole Perassi ha proposto di sostituire al secondo comma le parole: «con Statuti speciali adottati con leggi di valore costituzionale», le altre: «con leggi speciali di carattere costituzionale».

PERASSI fa presente che l’emendamento da lui proposto riguarda una questione di pura nomenclatura giuridica. Le ragioni sono due: una giuridica, l’altra di opportunità. Nell’articolo in esame si prevede, infatti, che a certe Regioni sarà conferito un ordinamento speciale autonomo che potrà essere più ampio di quello previsto, con disposizioni generali, per le altre Regioni dalla Costituzione stessa. In che modo si stabilisce tale autonomia speciale? L’atto che crea questo ordinamento di autonomia speciale è una legge dello Stato ed è improprio chiamarlo «Statuto». È una legge dello Stato del medesimo genere di quella del Parlamento britannico che ha dato un ordinamento autonomo all’Irlanda del nord. Basta, infatti, leggere lo Statuto per la Regione siciliana, per constatare che vi sono in esso norme le quali non si possono concepire se non come norme giuridiche emanate dallo Stato. Ciò che si vuol dire nel secondo comma dell’articolo in esame è che gli ordinamenti speciali d’autonomia per le Regioni ivi menzionate devono essere stabiliti con leggi speciali di carattere costituzionale. Perciò ha proposto di non usare l’espressione «Statuti». Ciò eliminerebbe anche l’inconveniente per cui, mentre nell’articolo 3 si parla di Statuti, nell’articolo 19 riguardante lo Statuto di ogni Regione si parla ancora di Statuto in un senso del tutto diverso. Nel secondo caso, la parola «Statuto» è giuridicamente esatta, in quanto sta ad indicare un insieme di norme giuridiche che sono emanazione di un potere legislativo della Regione, sia pure sottoposto all’approvazione con legge dello Stato. La legge di approvazione di uno Statuto regionale è una legge di approvazione in senso tecnico, che ha per oggetto lo Statuto come atto legislativo della Regione, deliberato dal Consiglio regionale. Invece, la legge costituzionale, di cui si parla nell’articolo 3, non ha l’effetto giuridico di dare l’approvazione ad un atto da essa distinto, ma è essa stessa che emana le norme costituenti l’ordinamento speciale, per una determinata Regione, anche se tali norme sono state elaborate o proposte da qualche organo locale, come è avvenuto per il decreto legislativo concernente la Sicilia.

Crede, pertanto, che la Commissione non avrà difficoltà ad approvare l’emendamento proposto, che risponde esclusivamente ad un criterio di proprietà di formulazione giuridica.

PRESIDENTE teme che per una questione di tecnica giuridica, sia pure apprezzabilissima, si vada incontro al pericolo di dare l’impressione che si voglia togliere alla Sicilia lo Statuto che ora possiede.

LACONI ritiene che la proposta dell’onorevole Perassi tenda ad annullare la differenza che si è voluto riconoscere tra l’autonomia concessa a quelle quattro Regioni e quella concessa alle altre. La proposta dell’onorevole Perassi costituisce così l’ultimo tentativo di sopprimere di fatto tale differenza. La parola «Statuto» non ha soltanto un valore lessicale; quando è stato concesso alla Sicilia lo Statuto regionale, è stata stabilita una particolare procedura studiata dalla Consulta regionale, cioè da un organo rappresentativo locale. Questo Statuto non si potrà quindi assimilare ad una legge qualsiasi, in quanto si tratta di Regioni che rivendicano dei diritti propri di fronte allo Stato. E quindi impropria la parola «legge». D’altronde la parola Statuto ha ormai una sua popolarità. Comprende l’eccezione giuridica sollevata dall’onorevole Perassi, ma, nel caso che egli fa, dovrà dirsi: regolamento interno delle Regioni. Nell’articolo in esame deve invece rimanere, a suo parere, la parola «Statuto», nella accezione comune del termine.

MORTATI ritiene che le considerazioni esposte dall’onorevole Perassi siano ineccepibili. Non può accogliere quanto ha detto l’onorevole Laconi circa l’improprietà del termine di Statuto applicato agli atti costitutivi delle varie Regioni diverse dalle quattro di cui all’articolo 3 del progetto. Statuto è infatti la parola tradizionale che serve ad indicare l’ordinamento fondamentale che ogni ente si dà, nell’ambito della sua autonomia.

Per quanto riguarda l’ordinamento della Sicilia, della Sardegna e delle zone mistilingui non è assolutamente ammissibile che si pensi di affidare alle Regioni interessate la podestà di disporlo in deroga alla Costituzione dello Stato, affidando allo Stato stesso solo un potere di ratifica.

Una soluzione di questo genere presuppone dei diritti propri delle Regioni e quindi un rapporto di natura contrattuale fra dette Regioni e lo Stato; rapporto che non è concepibile neppure negli Stati federali, nei quali, una volta che essi siano formati, è all’organo costituente dello Stato centrale che compete ogni modifica della Costituzione. Accettare la tesi, contro cui parla, significa introdurre un elemento di disgregazione, che segnerebbe la fine dell’unità nazionale.

Si potrebbe cercare di trovare una formula nella quale si faccia menzione dell’iniziativa delle Regioni, per mezzo di Statuti, per quanto non si possa negare allo Stato di intervenire, anche all’infuori di tali iniziative, col disciplinare con legge costituzionale l’ordinamento delle medesime.

In ogni caso, è da porre bene in chiaro che è alla legge costituzionale, e solo a questa (all’infuori di ogni implicito o lontano riconoscimento di diritti propri agli enti regionali, di cui all’articolo 3), che può attribuirsi il potere di concedere agli enti medesimi una posizione diversa da quella fatta alle altre Regioni dalla Costituzione.

Pertanto lo Statuto siciliano, come quello sardo, ecc., dovranno essere espressione della volontà dello Stato e dovranno essere inseriti nella Costituzione come parti integranti di questa ed essere sottoposti alla procedura di revisione prescritta per le altre norme della Costituzione medesima.

AMBROSINI si duole di trovarsi in dissenso con gli onorevoli Perassi e Mortati. La formula fu lungamente ponderata. Crede non possa dar luogo alle preoccupazioni che sono state prospettate, perché, quando si dice che lo Statuto delle quattro Regioni in questione deve essere adottato con legge di valore costituzionale, si fa riferimento alla fonte massima della potestà normativa, cioè al potere superiore a quello legislativo ordinario, al potere costituente. La competenza ad emanare tali Statuti spetta adunque allo Stato.

Osserva che non esiste contrasto fra l’articolo 3 e l’articolo 19, giacché, mentre con quest’ultimo articolo si fa riferimento agli Statuti delle Regioni in generale, che sono deliberati dalle Assemblee regionali ed approvati con legge ordinaria dello Stato, nell’articolo 3 si parla degli Statuti speciali delle quattro Regioni le quali si trovano in situazione particolare; ragione per cui ha luogo l’instaurazione di una forma speciale di autonomia. Il fatto che la proposta dello Statuto speciale provenga dalla Regione non importa affatto che la sovranità della Costituente possa essere diminuita; giacché lo Statuto deve venire approvato con legge e per giunta con una legge di importanza superiore a quella ordinaria, cioè con legge costituzionale. Lo Statuto avrà dunque il crisma soltanto dalla manifestazione della volontà dello Stato.

Non crede opportuno accennare alle gravi ragioni di indole politica che consigliano il mantenimento della dizione adottata dal Comitato di redazione, il cui abbandono potrebbe portare a quelle ripercussioni a cui ha già accennato l’onorevole Laconi. Fa soltanto presente che, se le ripercussioni sarebbero gravi in Sardegna, carattere ancora più grave avrebbero in Sicilia. Ripete, ritornando al merito della disposizione, che non vede che derivi alcun pericolo dal fatto che gli Statuti in questione si chiamino «Statuti speciali», giacché tale espressione sta ad indicare soltanto che alla Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige si attribuisce una condizione giuridica globale che può differire da quella che vengono ad avere tutte le altre Regioni. Da ciò nessun pericolo può sorgere perché l’adozione di tali Statuti speciali appartiene al legislatore in funzione di Costituente. Per queste ragioni crede che la Commissione può approvare senza preoccupazioni la formula adottata dal Comitato di redazione.

EINAUDI è favorevole all’emendamento Perassi. In sostanza si afferma dai sostenitori della formula adottata nell’articolo 3 che l’origine di queste leggi costituzionali aventi valore di Statuto per una Regione si deve ricercare nella Regione stessa. Ora, in sede di Consulta nazionale, ebbe a scrivere una relazione contro lo Statuto siciliano. È persuaso della necessità che questi Statuti provengano direttamente da leggi che siano votate dal Parlamento, così come è detto nella formula Perassi. La formulazione data ai due Statuti per la Sicilia e per la Val d’Aosta, sta a significare che è distrutta l’unità italiana, che cioè quelle determinate Regioni hanno manifestato chiaramente il desiderio di non pagare più una imposta allo Stato, pur desiderando riceverne tutti gli aiuti. Ciò significa la distruzione dello Stato italiano.

Ora, se si vuole affermare un simile principio, è necessario che sia discusso e deliberato dal Parlamento.

TOSATO è dispiacente di dover esprimere un’opinione contrastante con quella del collega Ambrosini, ma ritiene che l’emendamento Perassi sia assolutamente necessario per due considerazioni.

Quando si prevedono forme particolari di autonomie con «Statuti speciali» adottati con leggi di valore costituzionale si va al di là di quello che il concetto dello Stato unitario può ammettere. Se queste forme di autonomia si concretano in «Statuti speciali», sia pure adottati con leggi costituzionali, ciò può essere interpretato nel senso che lo Stato non ha più un potere di iniziativa in questa materia, e che gli Statuti stessi non possono essere più modificati se non col consenso delle Regioni interessate. Le quali sarebbero così legate allo Stato da un vincolo non più costituzionale, ma contrattuale. Domanda se la Commissione intende giungere fino a questo punto.

Ritiene, d’altra parte, più corrispondente agli interessi delle Regioni considerate, la possibilità di darsi esse un proprio Statuto, come è previsto per tutte le altre Regioni, Statuto, s’intende, che, in base alla più ampia autonomia loro concessa mediante apposite leggi costituzionali, potrà contemplare una più ampia sfera di poteri e di diritti.

Per queste ragioni voterà l’emendamento Perassi.

MANNIRONI rileva che, in sostanza, si è tutti d’accordo nel concetto che le leggi speciali di valore costituzionale, con le quali si riconosce l’autonomia particolare a determinate Regioni, sono leggi dello Stato, anche se si chiamano Statuti. Ora, poiché non vi può essere equivoco alcuno nella terminologia usata dal Comitato di redazione, crede che per le ragioni politiche cui hanno accennato gli onorevoli Ambrosini e Laconi sia opportuno conservare il testo proposto dal Comitato di redazione.

L’argomento che ha addotto l’onorevole Tosato non sembra convincente, in quanto è lo Stato che approva e adotta gli Statuti, ed anche se essi saranno proposti da organi regionali, lo Stato non si priva del diritto di intervenire per modificarli. Lo Stato quindi non rinuncia ad un potere che tutti gli riconoscono

LAMI STARNUTI è convinto che la formula proposta dall’onorevole Perassi sia la più propria e la voterà.

Intende però fare una esplicita riserva. Nell’articolo in esame l’espressione «Trentino-Alto Adige» solleva una questione di altra natura. Non è favorevole all’unione del Trentino con l’Alto Adige, e si riserva pertanto di esporre la propria tesi quando si discuterà della creazione delle Regioni.

CEVOLOTTO teme che l’approvazione della proposta dell’onorevole Perassi possa avere ripercussioni molto notevoli in Sicilia, che certamente vanno al di là delle intenzioni stesse dell’onorevole Perassi. Crede che l’accoglimento della sua formula sarebbe malamente interpretato e potrebbe dar luogo in Sicilia ad agitazioni o malumori causati appunto da una errata interpretazione.

PRESIDENTE crede opportuno sottolineare che la proposta avanzata non è, come è certo apparsa alla mente correttissima dell’onorevole Perassi, di semplice tecnica legislativa, ma è una proposta che avrebbe un enorme valore politico e che potrebbe essere interpretata, se non come una revocazione dello Statuto siciliano, che è già entrato in vigore, come una censura al Governo per averlo approvato.

PERASSI è convinto che la sua proposta, di pura tecnica giuridica, non dovesse sollevare nessun sospetto o preoccupazione di ordine politico, tanto più che veniva fatta da chi da ben 40 anni è favorevole alle autonomie regionali.

Per quanto concerne la Sicilia, dichiara di essere stato, fin dall’inizio, favorevole alla autonomia che le è stata concessa.

Comunque, ad evitare eventuali ripercussioni di carattere politico, ritira la proposta.

AMBROSINI dà atto all’onorevole Perassi dell’amore particolare che dimostra per le autonomie. Egli è stato sempre favorevole allo Statuto siciliano. Aggiunge che difendendo questo Statuto non si intende incrinare l’unità dello Stato: chi lo sostiene è unitario per lo meno e alla stessa stregua di chiunque altro.

PRESIDENTE. Nessuno ne ha mai dubitato.

TOSATO osserva che non si tratta soltanto di una questione di carattere tecnico. È da chiedersi perché gli Statuti della Sicilia, della Sardegna, del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta debbano avere una natura diversa dagli Statuti di altre Regioni. Per la Sardegna, la Sicilia, è prevista una più ampia autonomia, e su questo tutti sono d’accordo. E allora gli sembra più corretto stabilire che in base alle leggi costituzionali che daranno una più ampia autonomia alle regioni indicate, queste emaneranno poi i loro Statuti. Propone quindi che la formula del testo sia modificata in questo senso: «Alla Sicilia, ecc., sono attribuite forme particolari di autonomia, mediante apposite leggi di carattere costituzionale».

MORTATI dichiara di associarsi all’emendamento Tosato.

GRASSI osserva che l’articolo in esame ha la sua ragione d’essere, in quanto si riconosce che la Sicilia, la Sardegna, il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta abbiano uno Statuto diverso da quello delle altre Regioni, in aderenza ad una realtà storica e politica effettiva. La formula Tosato significa che queste forme particolari di autonomie sono concesse sempre mediante una legge di carattere costituzione, in quanto si vuole mantenere il concetto che esse rientrano nell’ordine giuridico dello Stato costituzionale italiano. È pertanto favorevole alla proposta Tosato.

FABBRI proporrebbe la seguente formula in sostituzione del secondo comma dell’articolo 3: «Alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige sono attribuite forme e condizioni particolari di autonomia. Leggi speciali aventi valore costituzionale coordineranno alla presente Costituzione gli Statuti della Sicilia, della Sardegna e della Val d’Aosta ed emaneranno le altre disposizioni». A suo parere questa formula assorbirebbe la questione di carattere tecnico sollevata dall’onorevole Perassi.

PRESIDENTE pensa che, dal punto di vista politico, si sia d’accordo che si debba conservare la parola Statuto.

Per il resto ritiene opportuno che la formula sia redatta dal Comitato di redazione.

(La Commissione concorda).

La seduta termina alle 20.30.

Erano presentii: Amadei, Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Einaudi, Fabbri, Farini, Federici Maria, Froggio, Gotelli Angela, Grassi, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Mancini, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti.

In congedo: Ghidini, Lussu.

Erano assenti: Basso, Bordon, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Colitto, Di Giovanni, Dominedò, Dossetti, Fanfani, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Giua, Grieco, Lombardo, Lucifero, Marchesi, Merlin Lina, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Taviani, Terracini, Tupini, Zuccarini.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 31 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

26.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 31 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Elezione della Camera dei Senatori (Seguito della discussione)

Presidente – Piccioni – Grassi – Rossi Paolo – Nobile – Fuschini – Targetti – Togliatti – Dossetti – Perassi – Zuccarini – Einaudi – Fabbri – Dominedò – Fanfani.

La Magistratura (Esame degli emendamenti agli articoli)

Presidente – Bozzi – Leone Giovanni – Terracini – Molè – Togliatti – Cevolotto – Targetti – Einaudi – Mortati – Conti – Mannironi – La Pira – Fabbri – Moro – Tupini – Marinaro – Dossetti – Rossi Paolo – Laconi – Codacci Pisanelli – Cappi.

La seduta comincia alle 10.15.

Seguito della discussione sulla elezione della Camera dei Senatori.

 

PRESIDENTE avverte che la Commissione dovrà fissare l’ordine delle votazioni sulle varie proposte formulate in merito alla elezione della Camera dei Senatori.

Ricorda che in materia vi sono: una proposta Mortati, secondo la quale la composizione del Senato avrebbe luogo per categorie di interessi; una Grassi (elezione in parte a base circoscrizionale, cioè uninominale) ed una Nobile, che fissa per i due terzi dei componenti la seconda Camera l’elezione a suffragio universale di tutti i cittadini che abbiano superato i 25 anni. Vi sono poi le proposte di votazione a suffragio indiretto per una parte del Senato, presentata dagli onorevoli Fuschini, Perassi e Laconi.

Si deve stabilire pertanto quale delle due proposte, Mortati e Grassi, si discosti maggiormente dal testo fondamentale e per ciò debba avere la precedenza nella votazione.

PICCIONI crede che la proposta Mortati si discosti dal testo più profondamente di tutte le altre, che, in un modo o nell’altro, prevedono l’applicazione del suffragio universale indifferenziato, mentre la proposta Mortati prevede una forma di composizione della seconda Camera del tutto diversa.

GRASSI è anch’egli d’avviso che la proposta Mortati si allontani molto di più della sua da quella fondamentale, in quanto, secondo tale proposta, la Camera dei Senatori sarebbe eletta da alcune categorie speciali di elettori, mentre la proposta da lui formulata riguarda soltanto il sistema elettorale.

PRESIDENTE pone ai voti la preposta di dare la precedenza nella votazione alla proposta Mortati.

(La Commissione approva).

Comunica che la proposta Mortati è così formulata:

«La Camera dei Senatori è eletta dagli elettori aventi 25 anni di età, fra gli eleggibili appartenenti alle categorie: 1°) dell’agricoltura; 2°) dell’industria; 3°) del commercio e credito; 4°) delle professioni: a) d’impiego pubblico; b) della scuola e della cultura; c) professioni legali; d) sanitarie; e) tecniche; f) di altri rami.

I seggi sono ripartiti fra tali categorie, per ciascuna delle quali sono presentate apposite liste da parte degli appartenenti ad esse, ed attribuiti per mezzo di distinti scrutini, col sistema maggioritario se il numero degli eleggibili delle categorie è inferiore a tre, col sistema proporzionale se è superiore».

La pone ai voti.

ROSSI PAOLO chiede la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Corsanego, Dominedò, Dossetti, Fanfani, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, La Pira, Leone Giovanni, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togni, Tosato, Uberti.

Rispondono no: Amadei, Basso, Bocconi, Bozzi, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Vittorio, Einaudi, Fabbri, Farini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lombardo, Mancini, Marchesi, Marinaro, Molè, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Ravagnan, Rossi, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti, Zuccarini.

PRESIDENTE comunica che la proposta Mortati è stata respinta avendo avuto 24 voti favorevoli e 32 contrarî.

Pone allora in votazione il principio che una parte dei senatori debba essere eletta dai Consigli regionali.

(È approvato).

Avverte che si dovrà ora procedere alla votazione circa la quota di senatori da eleggersi da parte dei Consigli regionali, cioè se essa dovrà essere stabilita in un terzo o nella quota fissa di cinque per ciascuna regione.

NOBILE fa osservare che, se fosse approvata la quota fissa di cinque, considerato che le Regioni saranno circa 25, si avrebbe un numero di 125 senatori, superiore cioè al terzo dei componenti la seconda Camera.

PICCIONI ritira la proposta di stabilire una quota fissa di cinque senatori per ciascuna Regione.

PRESIDENTE pone allora in votazione la proposta che il numero dei senatori da eleggersi da parte dei Consigli regionali sia di un terzo.

(È approvata all’unanimità).

Segue la proposta dell’onorevole Grassi: «Un terzo dei senatori è eletto dai Consigli regionali: il resto a suffragio universale diretto uguale e segreto con una circoscrizione per ogni senatore».

FUSCHINI ricorda che in una seduta precedente, senza entrare nel merito della proposta Grassi, fece una osservazione che ancor oggi ha la sua ragion d’essere; cioè che in questa proposta vi è un accenno preciso e circostanziato ad un determinato sistema elettorale. Per la Camera dei Deputati, è stato invece stabilito di non fare alcun accenno nella Costituzione al sistema elettorale. Pertanto, qualora la proposta Grassi dovesse essere approvata, chiede che anche per la Camera dei Deputati venga indicato il sistema elettorale, e più precisamente quello proporzionale.

PICCIONI rileva che la proposta Grassi, come è già stato notato, pone la questione del sistema elettorale per la prima e la seconda Camera in una posizione di contradizione e di antitesi, ed urta contro la genuinità e l’autenticità del sistema democratico.

Rileva, d’altra parte, che, oltre a tutti i difetti lamentati, il sistema uninominale non può essere stabilito per una delle due Camere, quando per l’altra vige il sistema proporzionale.

Proporzionalista convinto, per la necessità di instaurare nella nuova democrazia un sano costume politico elettorale, dichiara che voterà contro la proposta Grassi.

TARGETTI si dichiara anch’egli proporzionalista convinto e quindi affatto entusiasta della proposta Grassi. Si deciderà però a votare favorevolmente ad essa perché vede con timore l’instaurazione del sistema della elezione indiretta.

TOGLIATTI afferma di essere egli pure per principio proporzionalista; ma dal momento che tutti i sistemi presentati non lo hanno sodisfatto, perché introducono il principio della elezione di secondo grado, la quale, di fatto, annulla il proporzionalismo e quindi porterebbe ad un sistema ibrido, crede che la proposta presentata dai liberali rappresenti la via di uscita più ragionevole.

L’unica obiezione che potrebbe essere fondata, quella della coesistenza di due sistemi diversi per l’elezione delle due Camere, non può essere considerata come un argomento di principio fondamentale. D’altra parte, osserva che tale coesistenza già si nota oggi nel sistema elettorale vigente, dato che mentre nelle elezioni amministrative per il capoluogo i partiti singoli si sono presentati con proprie liste, ed i blocchi sono avvenuti in sede di costituzione delle Giunte, in tutti i Comuni della circoscrizione invece si è votato sulla base di liste che erano state bloccate prima. Tale ibridismo sarebbe accentuato nel sistema che viene presentato, perché proponendosi che l’elezione dei senatori sia fatta dai consiglieri comunali, effettivamente sarebbe fatta dai rappresentanti di organismi i quali sono stati eletti con due sistemi diversi: quelli delle grandi città col sistema proporzionale, quelli dei piccoli Comuni con un sistema non proporzionale. Quindi, la critica con la quale si vorrebbe colpire la proposta dei liberali colpisce molto di più la proposta dell’elezione attraverso i consiglieri comunali.

Per questi motivi, non è rimasto convinto degli argomenti addotti dai colleghi democristiani contro la proposta Grassi che ritiene tutt’altro che irragionevole.

ROSSI PAOLO è stato fra i pochissimi che hanno votato contro il sistema della quota fissa per la Regione; per la medesima ragione voterà contro il sistema uninominale. Osserva che adottando il sistema della frazione, la rappresentanza degli interessi locali è già assicurata, mentre adottando il collegio uninominale si accentuerebbe la rappresentanza politica.

DOSSETTI, dichiarando di votare contro la proposta del collegio uninominale, afferma che il voto che si sta per dare è uno dei più gravi cui la Commissione per la Costituzione sia stata chiamata. Se la proposta Grassi dovesse passare, è suo fermo giudizio, nonostante le artificiose difese tentate anche da ultimo dall’onorevole Togliatti, che tale proposta vulnererebbe gravemente il principio sul quale viene edificata la nuova democrazia.

Tutto quello che è stato detto a sostegno della proposta non vale a confutare un argomento fondamentale, cioè che la commistione dei due sistemi, che si vuole imputare anche alle altre proposte formulate, è qui più grave, perché si verifica in atto nella stessa elezione a cui l’elettore viene ad essere chiamato; sì che questi, chiamato ad esprimere contemporaneamente un duplice voto, secondo due schieramenti politici contradittori, non potrebbe assolutamente compiere un atto consapevolmente democratico.

PERASSI dichiara che voterà contro la proposta Grassi, innanzitutto per una considerazione di principio: perché ritiene che in una Costituzione rigida non sia il caso di fissare un sistema elettorale reciso per Cuna o per l’altra Camera. Come la Commissione si è trovata d’accordo, per quanto concerne la Camera dei Deputati, di limitarsi ad affermare che è eletta a suffragio universale diretto e segreto, senza indicare quale sarà il sistema elettorale da seguire, così – per armonia – ritiene che anche per la seconda Camera si debba seguire lo stesso criterio.

A prescindere da questa considerazione, che può sembrare formale, è contrario alla proposta Grassi anche per ragioni sostanziali. Ha sentito, specialmente da parte dell’onorevole Togliatti, la difesa della proposta soprattutto per la considerazione che essa è ritenuta migliore della proposta di fare eleggere i senatori dai Consigli comunali. Ora, quest’atteggiamento presupporrebbe che nessun’altra proposta possa essere avanzata, o sia stata avanzata, oltre quella dei consigli comunali; mentre invece ricorda che fra le proposte presentate ve ne è una che contempla un sistema di elezione a suffragio indiretto, e che non presenta l’inconveniente (rilevato a proposito dell’elezione attraverso i consiglieri comunali) di rendere impossibile l’applicazione di un criterio proporzionale. Questa proposta concreta è stata precisamente studiata in vista di rendere assolutamente possibile l’applicazione del criterio proporzionale, che può benissimo attuarsi anche con un sistema di votazione di secondo grado.

Per queste ragioni, dichiara che voterà contro la proposta Grassi.

ZUCCARINI si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Perassi.

EINAUDI dichiara che voterà a favore della proposta Grassi. Non gli sembra che l’argomento dall’onorevole Dossetti dichiarato fondamentale abbia un gran peso. Con la proposta Grassi si permette agli elettori di votare non per delle idee ma per degli uomini. Non trova in questo nessuna contraddizione. Eventuali perfezionamenti al sistema potranno essere trovati con la eliminazione del ballottaggio, in modo che gli elettori possano decidersi prima per l’uomo al quale vogliono dare il voto.

FABBRI voterà a favore della proposta Grassi, anche perché crede estremamente democratico che si faccia materialmente un esperimento e che il popolo possa vedere in atto il contemporaneo funzionamento dei due sistemi. Non ritiene estremamente democratico sostenere che spetti esclusivamente al legislatore determinare un sistema unilaterale di votazione in modo autoritario.

DOMINEDÒ, sentendo in linea di principio l’esigenza di contemperare il sistema proporzionalistico, che dà prevalente rilievo all’idea, e il sistema uninominalistico, che consente maggior risalto alla personalità, amerebbe prendere in considerazione, così sul piano teorico come su quello pratico, la proposta di integrare vicendevolmente i due sistemi, qualora essa si riferisse integralmente all’una Camera rispetto all’altra; deve però rilevare che l’inserzione contemporanea di un duplice metodo nell’ambito di una stessa Camera potrebbe determinare un ibridismo. Per questo motivo, voterà contro la proposta.

FANFANI ritiene che la contemporanea applicazione dei due metodi sia tale da dare luogo soltanto a confusioni sul terreno elettorale nei confronti della massa. In secondo luogo, proprio gli argomenti che l’onorevole Einaudi ha esposto contro la tesi Dossetti confermano che l’adozione del sistema uninominale inficia profondamente il mantenimento del sistema proporzionale sul terreno dell’altra Camera. In terzo luogo, teme che l’adozione di questo sistema per l’elezione alla Camera dei Senatori finirà per dare una grande prevalenza ad interessi non politici, esistenti in piccole circoscrizioni, generando una specie di consacrazione politica alle baronie industriali del Nord e a quelle agrarie del Sud. Per questi motivi, voterà contro.

GRASSI, premesso che non v’è nulla di personale e nessuna mira politica nella sua proposta, a chi considera antidemocratico il suo progetto risponde che la democrazia non consiste nel sistema elettorale, ma nella base fondamentale su cui si determina la votazione.

Di fronte alle diverse proposte, il fatto che la seconda Camera venga eletta attraverso i Consigli comunali non rappresenta affatto una forma di proporzione, perché le elezioni dei consiglieri comunali sono fatte in forme diverse (proporzionalistica e maggioritaria); significa che non si è creduto più di parlare di proporzione, bensì di trovare un sistema degno che possa far sì che la seconda Assemblea, pur essendo una Camera che avrà gli stessi poteri e la stessa competenza della prima, non ne costituisca un doppione. A questo scopo non vi erano che due proposte: o quella Mortati di fare una seconda Camera sulla base degli interessi e delle categorie, e questa non è stata accolta dalla Commissione, oppure stabilire una differenziazione sulla base del sistema di scelta, allo scopo di ottenere una qualificazione maggiore delle persone che formano la seconda Assemblea.

Non sistema antidemocratico, quindi, ma anzi sistema democraticissimo.

Per queste ragioni mantiene fermo il suo punto di vista.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Grassi.

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bozzi, Castiglia, Cevolotto, Di Vittorio, Einaudi, Fabbri, Farini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Rocca, Lombardo, Lucifero, Mancini, Marchesi, Marinaro, Molè, Nobile, Noce Teresa, Ravagnan, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Bocconi, Canevari, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Dossetti, Fanfani, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, Lami Starnuti, La Pira, Leone Giovanni, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Perassi, Piccioni, Rapelli, Rossi Paolo, Taviani, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Comunica che la proposta dell’onorevole Grassi è stata respinta avendo riportato 27 voti favorevoli e 32 contrari.

Pone ora in votazione per appello nominale la proposta Nobile, così integrata:

«L’elezione dei due terzi dei membri della seconda Camera ha luogo a suffragio universale diretto da parte di tutti gli elettori, che abbiano superato il 25° anno di età».

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bocconi, Bozzi, Canevari, Castiglia, Cevolotto, Di Vittorio, Einaudi, Fabbri, Farini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lombardo, Mancini, Marinaro, Molè, Nobile, Noce Teresa, Ravagnan, Rossi, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Dossetti, Fanfani, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Gotelli Angela, La Pira, Leone Giovanni, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Perassi, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Comunica che la proposta Nobile risulta approvata avendo riportato 29 voti favorevoli contro 28 contrari.

Osserva che le proposte di suffragio indiretto cui erano ispirati gli altri emendamenti vengono a cadere. L’argomento della seconda Camera è quindi esaurito.

Esame degli emendamenti agli articoli sulla Magistratura.

 

PRESIDENTE, riprendendo la discussione sugli articoli proposti per il Titolo concernente la Magistratura, ricorda che la seconda Sezione della seconda Sottocommissione ha proposto un articolo riguardante la giuria così formulato:

«Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia, mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise».

Apre la discussione su questo articolo.

BOZZI ritiene che non sia da inserire nella Costituzione un articolo che riguarda la Corte d’assise, per una considerazione che ha carattere pregiudiziale e che quindi non investe il merito, se si debba cioè o meno essere favorevoli alla istituzione della Corte d’assise.

La Corte d’assise non è un giudice speciale, ma è una sezione specializzata del giudice ordinario; infatti l’istituzione della Corte d’assise è prevista dal Codice di procedura penale come una sezione di Corte d’appello.

Tanto è vero che, contro la sentenza della Corte d’assise, si va alla Cassazione a sezioni semplici e non a sezioni riunite, mentre se fosse un organo di giurisdizione speciale, si dovrebbe ricorrere alle sezioni riunite.

Non vi è quindi alcuna ragione di fare menzione di questo organo ordinario, in quanto si è detto che la giustizia civile e penale è amministrata dagli organi previsti dal Codice e dalla legge sull’ordinamento giudiziario.

A questa considerazione di carattere pregiudiziale ne aggiunge un’altra: che v’è un progetto allo studio di una delle Commissioni legislative, riguardante modifiche alla composizione della Corte d’assise; ed a tale riguardo gli consta che la Commissione legislativa vuole investire più ampiamente il problema della esistenza o meno della Corte d’assise.

Ritiene pertanto che l’articolo proposto non debba comparire nella Costituzione.

LEONE GIOVANNI si dichiara contrario al ripristino della giuria secondo lo schema del disegno di legge presentato alla Assemblea costituente. Ritiene però, anche per la brevità dell’attuale lavoro della Commissione, che non sia opportuno approfondire l’argomento. Aderisce quindi alla questione pregiudiziale, come è stata impostata dall’onorevole Bozzi. In altri termini, avendo stabilito, all’articolo 2 del progetto di Costituzione concernente la Magistratura, che «la funzione giurisdizionale, in materia civile e penale, è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme, sull’ordinamento giudiziario», non si è fatto altro che rimandare alla legge sull’ordinamento giudiziario la disciplina e il funzionamento di tutti i giudici. Quindi è in quella sede che – se vorrà – il nuovo Parlamento potrà domani riorganizzare la disciplina delle Corti d’assise, introducendo, attraverso questa via, il sistema della giuria. Né è necessario inserire tale istituto nella Costituzione, poiché non si deve impedire che, successivamente, l’amministrazione della giustizia possa riformare o abolire l’istituto stesso. Sul merito, infinite osservazioni si potrebbero fare. Contro il sistema dei giudici popolari, prelevati soltanto in base a requisiti minimi, basterebbe ad esempio osservare che per i giudici occorre una determinata capacità tecnica. Ricorda in proposito un passo di Socrate in cui questi si meravigliava che i giudici venissero eletti senza alcun elemento specifico di capacità.

Afferma che se si dovesse ritornare alla giuria, questa dovrebbe essere selezionata con altri criteri, di esperienza, di presunzione di probità, ecc.; e quindi composta di uomini prelevati da alcune categorie sociali, sia pure determinate con molta larghezza. A ciò si aggiunga la difficoltà di stabilire, in materia di giustizia, sia pure penale, una discriminazione netta fra il giudizio di fatto e il giudizio di diritto.

Queste considerazioni ha voluto fare per dimostrare come non si possa mirare ad una riforma delle Corti d’assise mediante un ritorno puro e semplice alla giuria.

Le norme approvate danno già larghissima possibilità all’inserzione della giuria popolare nell’ordinamento giudiziario italiano; né, a questo scopo, è necessaria una norma specifica della Costituzione. È infatti pacifico – come osservava l’onorevole Bozzi – che la Corte d’assise è un giudice ordinario, soltanto come sezione specializzata, e non un giudice speciale. Così era codificato nel Codice del 1913, in cui viene riconosciuta la Corte d’assise; così è codificato anche nella legge Togliatti, la quale, ripristinando i giurati, stabilisce che la Corte d’assise è una sezione della Corte d’appello. E l’elemento richiamato dall’onorevole Bozzi è decisivo: i ricorsi per Cassazione avverso le sentenze della Corte d’assise vanno presentati alle sezioni semplici, non alle sezioni unite; il che riconferma che si tratta di un organo giudiziario ordinario.

Per questi motivi ritiene contrario alla attuale esigenza della giustizia il ritorno alla giuria popolare.

TERRACINI è contrario alla proposta di non inserire la disposizione nella Costituzione. Non si tratta infatti – a suo avviso – di un semplice problema di organizzazione della giustizia; si tratta di introdurre maggiormente l’elemento popolare nel quadro della organizzazione del potere giudiziario in Italia: rendere cioè i giudici elettivi.

Ed egli sarebbe stato lieto se avesse potuto ottenere che almeno per i primi gradi della Magistratura si fosse introdotto il principio elettivo. Rileva al riguardo che negli Stati dove c’è una Magistratura elettiva – e non soltanto nei gradi più bassi – la questione del requisito non già di una cultura tecnica, ma di una cultura generale, non ha mai rappresentato un ostacolo, perché appunto sono necessarie altre doti e altri elementi di capacità. Ricorda che a Basilea, due anni or sono, trattandosi dell’elezione di un giudice di grado abbastanza elevato, i partiti di sinistra presentarono come candidato un fabbro, e questi è riuscito eletto nei confronti di un avvocato. In alcuni ceti sociali si è gridato allo scandalo; ma tuttavia quel giudice è rimasto e fa buona prova. E questo non è un caso isolato.

Ricorda inoltre che l’istituto della giuria è scomparso in Italia per iniziativa del fascismo. Ciò sta ad indicare che in realtà non si tratta di un problema di capacità, ma di una questione che si ricollega ad elementi molto più importanti; si tratta proprio di quel fattore della democrazia, invocato dai colleghi democratici cristiani per un problema certamente importante come quello attinente al potere legislativo, e che ora è dimenticato proprio nel caso di un potere altrettanto se non più importante, come quello giudiziario. Afferma la opportunità che vi sia nella Magistratura quest’affermazione del principio democratico. La Magistratura deve essere garantita nella sua indipendenza; ma bisogna cercare altresì di far penetrare nel corpo dei magistrati giudicanti il più largamente possibile l’elemento popolare.

Insiste quindi perché una realizzazione come questa sia attuata nella Costituzione, anche perché vi sono correnti esclusivamente ristrette all’ambiente dei giuristi, che mirano a sopprimere l’istituto della giuria. Bisogna opporre un ostacolo definitivo all’affermazione di questa tendenza, che non ha nessun seguito negli ambienti popolari del Paese; se essa riuscisse a trionfare, segnerebbe, in una forma delle più deteriori, l’affermazione della cultura sulla volontà delle masse popolari. Una volta inserito nella Costituzione, il principio potrà anche essere modificato, ma soltanto nel momento in cui le masse popolari lo desidereranno e lo consentiranno.

Per questi motivi è favorevole all’adozione dell’articolo proposto, e contrario alla pregiudiziale Bozzi.

MOLÈ rileva che la discussione, pur essendo stata posta in termini tecnici, ha un preciso contenuto politico. Si potrà discutere nel merito quali possano essere i mezzi per perfezionare l’istituto della giuria, ma questo istituto è una conquista democratica, la quale non può essere sottaciuta nella prima Costituzione di una Repubblica democratica. L’istituzione della giuria ha voluto dire che in alcuni reati che interessano la coscienza collettiva il giudizio collegiale di persone che sono al di fuori dei Codici e del tecnicismo e non sono legate a nessuna preoccupazione di carriera, tecnica od ideologica, deve avere la prevalenza. Bisogna affermare questa conquista democratica e non solo per i motivi cui ha accennato l’onorevole Terracini. Non si tratta infatti semplicemente di un problema di riordinamento; si tratta di fissare il principio che il popolo possa partecipare in alcuni casi all’amministrazione della giustizia. Tutte le pregiudiziali in senso contrario sono mosse da coloro che intendono sopprimere la giuria, ponendo la questione sul piano politico.

Dichiara pertanto che, appunto ponendosi su un piano politico, voterà per la giuria, come affermazione democratica del nuovo Stato repubblicano.

TOGLIATTI si associa alle dichiarazioni degli onorevoli Terracini e Molè.

CEVOLOTTO esprime rincrescimento che sia stata portata sul terreno politico una questione che non ha – a suo avviso – un preciso contenuto politico, o che, per lo meno, lo ha come questione se si deve o no istituire la giuria, ma non lo ha come questione se la istituzione della giuria deve essere decisa nella Carta costituzionale. Si tratta di un problema di tecnica, di costruzione della Costituzione, e niente altro. Se si discutesse della questione da un punto di vista politico, si assocerebbe alle considerazioni dell’onorevole Terracini e dell’onorevole Molè; ma crede che debba venire prospettato l’altro punto di vista, cioè se nella struttura tecnica della Costituzione sia possibile, senza una stonatura, dire che il giudice ordinario – perché si tratta di un giudice ordinario – è costituito in un determinato modo. Osserva che si stanno inserendo nella Costituzione una quantità di altre cose che ad essa sono estranee; ed è contro questo che egli si ribella: si sta inflazionando la Costituzione con una quantità di dichiarazioni, e, peggio, di norme che con la Costituzione non hanno niente a che vedere. La Costituzione così non ha più una struttura lineare.

Ora egli crede che per le ragioni accennate all’inizio dall’onorevole Bozzi, la questione debba esser riportata al suo aspetto di questione pregiudiziale. La istituzione della giuria è un problema di procedura penale e di legge sull’ordinamento giudiziario, tanto è vero che, proprio ora, viene davanti alia Costituente la legge per il ripristino della Corte d’assise. Quindi è evidente che non vi è bisogno della norma costituzionale, perché la Corte d’assise sia ripristinata con certi limiti che saranno studiati e discussi dall’Assemblea Costituente.

Per queste ragioni è favorevole alla pregiudiziale dell’onorevole Bozzi.

TARGETTI, quale proponente dell’articolo, non sente il bisogno di difenderlo, dopo gli autorevoli interventi dei colleghi onorevoli Terracini e Molè, ai quali poco ha da aggiungere.

Alle osservazioni dell’onorevole Cevolotto risponde che non è esatto che ci si trovi di fronte ad una materia da non trattare in una Carta costituzionale; tanto è vero che gran parte delle Costituzioni contengono una disposizione che riguarda appunto la giuria popolare. Quanto all’altra obiezione, che si tratta di una questione esclusivamente o spiccatamente tecnica, non la crede fondata, in quanto l’istituto della giuria ha un contenuto così squisitamente politico che tutte le volte che un regime è passato dalla democrazia al totalitarismo ha subito ucciso questo istituto, mentre ogni volta che un popolo riconquista la libertà sente quasi istintivamente la necessità di ricostituirlo.

Di fronte a questa realtà, tutte le discussioni filosofiche non hanno alcuna importanza.

Riconosce che l’istituto della giuria si presta ad essere criticato. Ma il grande problema è questo: abolita la giuria è necessario sostituirla con qualcosa di diverso. Orbene, nulla di diverso è stato mai, almeno finora, né trovato né suggerito, che sia tale da non prestarsi ad una quantità di critiche maggiori e più gravi di quelle a cui si presta l’istituto della giuria.

Rileva di essersi deciso a proporre la norma nella Carta costituzionale, appunto perché vi era una corrente contraria all’istituto della giuria. All’onorevole Leone, il quale afferma che la dizione dell’articolo 2 del progetto non esclude che si possa istituire la giuria senza bisogno di rivedere la Costituzione, risponde che anche se ciò fosse – il che si potrebbe discutere – data l’importanza squisitamente politica della questione, sarà bene, sarà opportuno, sarà necessario fare un accenno esplicito nella Costituzione.

Quanto ai limiti della competenza della giuria, conclude rilevando che questa è veramente materia che non può trovar posto nella Carta costituzionale. Vi sono ad esempio colleghi favorevoli all’istituto della giuria limitatamente a determinati reati, cioè a quelli politici, o ad altri reati che turbano la coscienza del pubblico; altri ancora favorevoli ad una maggiore competenza. La legge ordinaria deciderà.

EINAUDI si dichiara favorevole alla giuria popolare, ma esprime il dubbio che ciò che si propone di scrivere nella Costituzione non eviti un eccesso autoritario da parte di un nuovo regime, in quanto un legislatore autoritario potrebbe restringere nel modo più opportuno l’istituto dalla giuria.

Il fascismo, ad esempio, non ha soppresso la Corte d’assise: questa è rimasta, ma sono cambiati i requisiti dei giurati. Ritiene che la norma proposta non tocchi la sostanza del problema e non garantisca una giuria veramente popolare.

MORTATI dichiara di essere anch’egli favorevole al riconoscimento che per certi giudizi sia necessario porre accanto al giudice togato un giudice popolare. Fa però una questione di tecnica legislativa, rilevando come nella Costituzione che ci si prepara a sottoporre all’Assemblea vi è già un articolo che può essere sufficiente all’esigenza di aprire la via ad un giudizio che si svolga con l’intervento dei cittadini; e questo è precisamente l’articolo 2. A maggior chiarimento, si potrebbe in questo articolo togliere la parola «esperti» e lasciare semplicemente la parola «cittadini» con l’intesa che ciò valga anche per i giudizi penali.

In merito poi a quanto ha detto l’onorevole Targetti relativamente al rinvio alla legge delle modalità tecniche, osserva che se si afferma genericamente il principio della giuria popolare senza concretarla almeno con qualche norma fondamentale, si lascerà sempre la possibilità al legislatore di ridurre l’istituto al minimo.

È questa l’osservazione che giustamente ha fatto anche l’onorevole Einaudi. Sottolinea pertanto la necessità di ammettere un certo numero di principî fondamentali; ma se si dovesse rinunciare ad una specificazione, basterebbe la formula generale, già nell’articolo 2, per raggiungere il fine che l’onorevole Targetti si propone.

CONTI, per ragioni tecniche, sarebbe portato ad aderire piuttosto all’opinione contraria alla giuria, ma per ragioni politiche, specialmente in questo momento, non può non aderire al concetto che nella Costituzione si ammetta e si affermi il diritto popolare dei cittadini di giudicare.

MANNIRONI, rilevando l’inopportunità di occuparsi del problema nella Carta costituzionale, dichiara comunque di ritenere un errore voler considerare il problema sotto il profilo puramente politico. Occorre preoccuparsi soltanto di assicurare al cittadino il modo migliore di essere giudicato. Ritiene, in linea astratta, desiderabile che certi reati gravi siano sottratti al giudizio del magistrato ordinario, ma afferma che, in tal caso, dovrebbe essere affermato un sacrosanto diritto, quello cioè di assicurare un secondo grado di giurisdizione. Non è possibile ammettere, infatti, che per un reato di trascurabile importanza il cittadino, una volta condannato, abbia diritto di invocare l’appello alla Cassazione, e che questo stesso diritto possa invece esser negato quando siano in gioco responsabilità gravissime e sia in causa, per lungo tempo, la libertà personale del cittadino.

In linea principale, chiede quindi che di questo problema non si parli nella Carta costituzionale, demandando la soluzione al legislatore ordinario. In subordinata ipotesi, chiede che, se si ammette la partecipazione del popolo al giudizio, si affermi solennemente il diritto di concedere anche in tal caso il secondo grado di giurisdizione.

TOGLIATTI, essendo stata sollevata dall’onorevole Mortati la questione della costituzionalità o meno del problema, osserva che, a parte le questioni tecniche, occorre tener presente che la giuria è un diritto fondamentale del cittadino. Pensa quindi che se non si inserisse nella Costituzione una norma in proposito, tale norma dovrebbe essere inserita nel capitolo in cui si parla delle conquiste dei cittadini. Quando si tratta di un reato politico o di un reato che importi privazione della libertà personale oltre un certo limite di anni, si deve affermare il diritto ad un giudizio preliminare compiuto dai giudici popolari. Occorre, quindi, che nella Costituzione si parli espressamente della partecipazione del popolo ai giudizi mediante la giuria, oppure che nel capitolo in cui si parla dei diritti fondamentali del cittadino si dica che il cittadino, in caso di reati politici o che portino una privazione della libertà personale, ha diritto ad un giudizio di fatto pronunciato dai suoi concittadini.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Moro ha presentato il seguente emendamento, che reca anche la firma degli onorevoli Mortati, Fuschini e Merlin Umberto, in cui si propone di modificare il terzo comma dell’articolo 2 nei seguenti termini:

«Presso gli organi giudiziari ordinari, anche penali, possono essere istituite per determinate materie apposite Sezioni con la partecipazione di magistrati specializzati, di esperti e di cittadini, nominati a norma delle leggi sull’ordinamento giudiziario».

Pone innanzi tutto ai voti la pregiudiziale dell’onorevole Bozzi tendente a non inserire nella Costituzione la disposizione concernente la giuria.

LEONE GIOVANNI dichiara di votare a favore della pregiudiziale, aggiungendo di non avere inteso attribuire al suo precedente intervento alcun significato politico in senso concreto, in quanto ritiene che si tratti di un problema di pura organizzazione della giustizia che non viene pregiudicato dalla disposizione della Carta costituzionale, soprattutto se sarà accettato l’emendamento proposto dall’onorevole Moro.

EINAUDI dichiara di astenersi dal voto su questa e sulle altre proposte che sono state fatte, a meno che l’onorevole Togliatti non ne presentasse una nel senso da lui indicato.

LA PIRA si dichiara contrario alla proposta dell’onorevole Bozzi, perché ritiene che il diritto ad essere giudicato da un giuria popolare sia un diritto naturale della persona umana.

PRESIDENTE dà comunicazione di un emendamento all’articolo proposto presentato dall’onorevole Togliatti: «Ogni cittadino ha diritto, nel caso di reati politici o di altri reati gravi preveduti dalla legge, a che una giuria popolare di cittadini partecipi al giudizio nelle forme previste dalla legge».

Mette innanzi tutto ai voti la proposta pregiudiziale dell’onorevole Bozzi.

(Non è approvata).

Pone ora in discussione i due emendamenti degli onorevoli Moro e Togliatti.

TERRACINI osserva che non si deve dimenticare la genesi dell’emendamento presentato dall’onorevole Moro. Questi, in fondo, senza aderire alla proposta dell’onorevole Bozzi, in realtà ne accetta una parte notevole, svalutando di fatto l’affermazione che invece con la votazione di poco fa la maggioranza della Commissione ha ritenuto di dover fare. È evidente invece che l’istituto della giuria deve essere posto su un piano completamente diverso da quello di una sezione speciale degli organi giudiziari ordinari. Per questa ragione si dichiara contrario all’emendamento Moro.

TARGETTI si dichiara contrario ad un istituto della giuria concepito come sezione del tribunale ordinario per determinate materie, sezione alla quale evidentemente il cittadino parteciperebbe col magistrato, mentre il giurato è l’unico giudice del fatto.

FABBRI voterà contro l’emendamento Moro, ed a favore invece dell’articolo che istituisce la giuria, perché l’espressione «possono essere istituiti». essendo puramente una facoltà del legislatore, non farebbe che attuare un concetto già incluso nella formula della Costituzione, mentre invece occorre affermare nella Costituzione un diritto preciso.

MORO dichiara di aver proposto l’emendamento non per sminuire il significato politico della proposta fatta circa l’istituzione della giuria, ma con l’intento di realizzare una maggior correttezza tecnica evitando una dichiarazione di carattere generale che, ove fosse accolta, non andrebbe inserita, a suo avviso, in questa parte della Costituzione, ma nell’altra che riguarda i diritti dei cittadini. Nel proporre il suo emendamento, è stato mosso dall’intenzione di realizzare una sintonizzazione fra l’organo giudicante e la coscienza popolare. Ritiene comunque che il suo emendamento possa essere coordinato con quello proposto dall’onorevole Togliatti.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Togliatti ha dichiarato di ritirare il suo emendamento, aderendo al testo originario dell’articolo proposto dalla Sottocommissione.

Pone a partito l’emendamento dell’onorevole Moro.

(Non è approvato).

Mette a partito il testo originario dell’articolo proposto dalla seconda Sezione della seconda Sottocommissione così formulato:

«Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia, mediante l’istituto della giuria, nei processi di Corte d’assise».

CEVOLOTTO, essendo stata respinta la pregiudiziale dell’onorevole Bozzi – alle quale era favorevole – e poiché d’altra parte, dal punto di vista politico, aderisce alle idee espresse dagli onorevoli Togliatti, Terracini ed altri, dichiara di astenersi dal voto.

TUPINI si è astenuto allorché si è discusso sulla opportunità di inserire l’articolo nella Costituzione, ma, se avesse dovuto votare, avrebbe votato per la pregiudiziale dell’onorevole Bozzi. Nel merito, è però favorevole all’articolo, nel quale non ravvisa una questione politica, ma semplicemente l’intento di far funzionare nel miglior modo possibile la giustizia: cioè, il giudice di fatto, a suo avviso, è più competente del magistrato ordinario per giudicare di determinati reati di competenza della Corte d’assise.

LEONE GIOVANNI, in coerenza a quanto in precedenza ha fatto presente, dichiara di votare contro l’articolo.

MORO, a conferma dell’onestà delle intenzioni che lo avevano mosso nel porre il suo emendamento, il quale non mirava a respingere la sostanza dell’articolo, e ritenendo che i giudici popolari possano rispondere ad una esigenza democratica, dichiara che voterà a favore.

Per una ragione umana e politica, domanda poi che sia esaminata l’opportunità di spostare la disposizione in modo che essa figuri nella prima parte della Costituzione.

MARINARO si associa a quanto ha detto l’onorevole Tupini e dichiara che voterà a favore.

(L’articolo proposto è approvato).

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Mannironi ha presentato un emendamento consistente nell’aggiungere all’articolo la seguente espressione: «sempre con diritto al secondo grado di giurisdizione».

Lo pone ai voti.

FABBRI dichiara che voterà contro l’emendamento, in quanto il verdetto popolare è, per sua natura, secondo la tradizione storica, inappellabile.

LEONE GIOVANNI, essendo stato contrario all’adozione dell’articolo, dichiara di votare, in via subordinata, a favore dell’emendamento Mannironi, perché ritiene che sarebbe veramente aberrante stabilire un sistema giudiziario il quale prevede due gradi di giurisdizione per processi di scarsa gravità, mentre, per i processi più gravi, i quali possono anche portare alla pena di morte, non dà all’imputato la possibilità di un riesame della sentenza.

TUPINI dichiara che voterà contro l’emendamento dell’onorevole Mannironi, ma non intende con questo pregiudicare nel merito quanto egli sostiene. Pensa però che, se si accogliesse l’emendamento proposto, la Costituzione non sarebbe più una affermazione di principî di carattere generale, ma un codice di procedura penale.

(L’emendamento dell’onorevole Mannironi non è approvato).

PRESIDENTE pone in discussione l’emendamento dell’onorevole Targetti, inteso a sopprimere l’ultimo comma dell’articolo primo, così formulato: «I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete».

TARGETTI è d’avviso che non debba essere stabilito nella Costituzione il divieto ai magistrati di appartenere a partiti politici e ad associazioni segrete. Si può infatti essere persuasi della opportunità che il magistrato non prenda parte attiva alla vita politica, non solo a difesa e a sicurezza della propria serenità di giudizio, ma forse anche più per darne la certezza agli altri. Ma, premesso questo – ed egli ed altri colleghi avevano presentato in tale senso un ordine del giorno in seno alla seconda Sottocommissione – non crede che in una Carta costituzionale, che deve ispirarsi al più assoluto rispetto della libertà di pensiero, si debba porre un tale divieto per i magistrati. Si augura che i magistrati stiano il più lontano possibile dal fervore della lotta politica e siano ancor più lontani dalle associazioni segrete, perché tale appartenenza vincolerebbe, più che non quella a un partito, la loro indipendenza di giudizio; ma sente una invincibile riluttanza a porre tale limitazione nella Costituzione.

DOSSETTI, premesso che ritiene debbano distinguersi i due problemi: divieto di appartenenza a partiti politici e divieto di appartenenza ad associazioni segrete, sottolinea, dal punto di vista formale, che per quanto riguarda il secondo problema, vi è già nella Costituzione un articolo che sancisce il divieto di appartenenza ad associazioni segrete.

Dal punto di vista sostanziale, poi, osserva che alla obiezione secondo la quale il divieto di appartenenza a società segrete contrasterebbe con la piena libertà della persona, si può opporre l’argomento che un regime democratico deve tutelarsi di fronte a quelle organizzazioni che rifuggano dal collocarsi sotto il controllo dell’opinione pubblica.

TOGLIATTI, in merito alle associazioni segrete, osserva in primo luogo che gli sembra superfluo inserire la disposizione nell’articolo che si sta discutendo, in quanto se l’associazione è segreta, coloro che ne fanno parte non professeranno certo di appartenervi.

In secondo luogo, fa presente che è stato già votato un articolo che proibisce le associazioni segrete. Non gli sembra quindi che qui si possa ammettere che, nonostante tale divieto, le associazioni segrete sussistano ugualmente.

Per quanto poi concerne l’appartenenza dei magistrati a partiti politici, osserva in primo luogo che vi è uno stato di fatto, per cui tale divieto è stato soppresso ad iniziativa di un ministro liberale, il professor Arangio Ruiz, e che la linea da esso seguita venne continuata dall’onorevole Tupini e dall’oratore. Dal 1944, perciò, i magistrati possono essere iscritti ai partiti politici.

Nessun inconveniente è sorto da questo, anche perché la circolare che autorizza i magistrati ad iscriversi ai partiti politici dice che, pure essendo questa iscrizione ammessa, i magistrati devono astenersi dal partecipare a manifestazioni o dal compiere atti che sarebbero contradittori con le loro funzioni. Ricorda che durante la sua gestione del Ministero della giustizia, vi fu un solo caso per il quale ebbe a richiamare un magistrato che non si atteneva a questa norma. Dalla grande maggioranza dei magistrati quel principio è stato accolto: non sa se sia stato applicato da tutti o da una parte soltanto, ma ad ogni modo non ha dato luogo ad alcun inconveniente. Per questo, ritiene che il principio possa essere mantenuto.

Del resto, dal momento che i magistrati sono chiamati a votare e si assicura ad essi l’esercizio di tutti i diritti goduti dagli altri cittadini, ritiene che non è ammissibile, anzi sarebbe pericoloso, negare l’appartenenza ai partiti politici. Se il divieto si stabilisse, si avrebbero delle iscrizioni segrete, ed allora crede sia molto meglio che si abbia un’iscrizione palese, pur conservando il magistrato quel rispetto alle proprie funzioni che gli vieterà il compimento di determinati atti.

MORO si dichiara contrario all’emendamento soppressivo dell’onorevole Targetti.

Rileva che è stato detto ampiamente, in tutte le sedi, che bisogna garantire la libertà di pensiero dei magistrati sul piano politico. Indubbiamente il diritto di voto che si riconosce ai magistrati, e il diritto di eleggibilità che ad essi si assicura, servono in parte a garantire questa libertà di pensiero sul piano politico. Ma è necessaria una limitazione per quanto riguarda l’appartenenza ai partiti politici. Si tratta di un sacrificio, ma il sacrificio è giustificato perché sia garantita la libertà dei cittadini, verso i quali i magistrati, per la loro stessa funzione, hanno obblighi diversi da tutti gli altri. È un sacrificio che ritorna ad incremento della dignità dei magistrati e a maggior garanzia della loro funzione. Ritiene che i magistrati debbano essere non soltanto superiori ad ogni parzialità, ma anche ad ogni sospetto di parzialità, e crede che questa estraneità formale dalla lotta politica conferisca una maggiore dignità alla Magistratura, cosicché il magistrato possa obbedire veramente soltanto all’imperativo della propria coscienza.

TUPINI si dichiara favorevole al mantenimento del comma. Riconosce esatto quanto l’onorevole Togliatti ha ricordato, cioè che, assumendo la carica di Guardasigilli, non revocò la circolare del ministro Arangio Ruiz. Non mancò peraltro, sia personalmente, sia collettivamente, ogni qualvolta rivolgeva la parola ai magistrati, di raccomandare loro di non iscriversi ad alcun partito politico.

È vero che, in confronto ad altri cittadini, il divieto può dare la sensazione di una limitazione della libertà dei magistrati, ma si tratta di un limite che conferisce ad essi prestigio, elevandoli al di sopra degli altri cittadini, in considerazione della funzione altissima che loro compete. I magistrati debbono essere immuni da ogni suggestione o pregiudizio che possa destare nei loro riguardi il sospetto di parzialità.

TERRACINI osserva che il fatto di affermare che i magistrati non possono essere iscritti ad un partito politico significa privare i magistrati del diritto elettorale passivo. È stato detto che la società italiana, come tutte le altre società nazionali, va sempre più organizzandosi sulla base dei partiti; perciò, nelle competizioni elettorali, chi non è iscritto ad un partito rimane escluso. Poiché evidentemente nessuno intende colpire i magistrati con questa forma di esclusione, fa presente la necessità di non creare le condizioni obiettive per cui soltanto i magistrati verrebbero privati di questo fondamentale diritto di ogni cittadino.

Anche per questo motivo, pertanto, si dichiara favorevole alla soppressione del comma.

ROSSI PAOLO, associandosi alle considerazioni dell’onorevole Terracini, rileva la opportunità che il comma sia votato per divisione.

In regime democratico le associazioni segrete sono, a suo avviso, inopportune e inutili; mentre d’altra parte soltanto nella democrazia i partiti politici hanno vita reale.

È pertanto favorevole a proibire ai magistrati l’appartenenza ad associazioni segrete, mentre non vede la necessità di vietare loro l’iscrizione ad un partito politico.

FABBRI voterà a favore della soppressione dell’ultimo comma dell’articolo per rispetto al senso di responsabilità che presuppone esista nei magistrati e che qualora non esista, deve essere rafforzato e promosso attraverso istituti diversi da un divieto generico quale quello contemplato dall’articolo.

PRESIDENTE, essendo stata domandata la chiusura della discussione, la pone ai voti, riservando la parola ai commissari iscritti.

(La chiusura è approvata).

CONTI ritiene che i divieti, le prescrizioni, i giuramenti, siano tutti espedienti da riprovare. I magistrati non debbono essere allineati come soldati e sottoposti ad un regolamento disciplinare: la disciplina deve essere data loro dalla coscienza. Crede quindi che nella Costituzione non debba mettersi alcuna prescrizione del genere di quella contenuta nell’articolo.

MANNIRONI è d’avviso che l’emendamento proposto dall’onorevole Targetti sia in contrasto con tutto il sistema finora attuato nell’ordinamento del potere giudiziario. Si è partiti dal presupposto e dal convincimento che la Magistratura debba costituire un potere autonomo, e quindi al di fuori degli influssi del potere legislativo e del potere esecutivo, poiché si è ritenuto che soltanto così i magistrati potranno adempiere integralmente alla loro altissima funzione.

Se si consentisse che un magistrato potesse iscriversi ad un partito politico, in considerazione anche dell’esasperazione con cui la vita politica si va svolgendo, si metterebbero fatalmente questi magistrati nella condizione di subire, anche inconsapevolmente, quegli influssi ai quali debbono essere sottratti.

Ricorda all’onorevole Conti che in una seduta precedente ha sostenuto con fermezza che gli avvocati i quali fossero chiamati all’Alta Corte costituzionale dovessero cessare dalle loro funzioni, perché voleva che assolutamente i magistrati fossero sottratti ad ogni influsso da parte dei professionisti, e gli fa presente che se per altra via si dovesse consentire che questi influssi essi subissero, ci si metterebbe in contrasto con il principio che si è voluto affermare creando l’autonomia della Magistratura.

All’onorevole Terracini, il quale ha osservato che sarebbe ingiusto negare ai magistrati il diritto elettorale passivo, osserva che, logicamente, si dovrebbe arrivare proprio a questa conclusione. Se il magistrato vuol essere indipendente, deve restare totalmente estraneo alla vita politica; se invece vuol partecipare alla vita politica, deve dimettersi da magistrato. La posizione del magistrato dev’essere distinta da quella degli altri cittadini.

Per queste ragioni voterà contro l’emendamento.

LACONI ricorda come l’articolo fu votato dalla seconda Sezione della seconda Sottocommissione; cioè con l’esplicito riconoscimento che esso conteneva un’ipocrisia. Tutti si rendevano conto che la semplice proibizione di appartenenza ai partiti politici e alle società segrete nulla veniva a mutare nella realtà delle cose: il magistrato continua ad appartenere ad una determinata classe, ad un determinato gruppo sociale, continua a portare nella società il patrimonio della sua cultura, delle sue idee, delle sue concezioni. Tutto questo non cambia con una proibizione: non si toglie che la forma esterna.

Per questa ragione ritiene debba cadere anche la disposizione esteriore. Osserva, d’altra parte, che vi sono già delle norme con le quali si è consentito ai magistrati l’iscrizione a partiti politici e si domanda se sia possibile pensare che da un momento all’altro essi cessino di appartenere ai partiti cui si sono iscritti. I magistrati continueranno ad avere le loro idee anche politiche, e la necessità di uniformarsi esteriormente al divieto d’iscrizione si tradurrà in un’ipocrisia.

LEONE GIOVANNI dichiara di votare contro la proposta di emendamento, intendendo che con la disposizione non si vuole impedire al magistrato di partecipare alle correnti ideologiche o politiche della vita del Paese, ma di partecipare alle organizzazioni politiche e alla disciplina dei partiti.

PRESIDENTE, poiché è stata proposta la votazione per divisione, pone ai voti la prima parte dell’emendamento, cioè la soppressione, nell’ultimo comma dell’articolo 1, delle parole: «I magistrati non possono essere inscritti a partiti politici».

(Non è approvata).

Pone ai voti la seconda parte dell’emendamento, ossia la soppressione delle parole: «o ad associazioni segrete».

TERRACINI dichiara di votare per la soppressione di questa parte, in quanto esistendo un divieto generale per tutti i cittadini italiani di iscrizione alle associazioni segrete è assurdo parlarne, in modo specifico, per i magistrati.

CONTI voterà contro l’emendamento, perché, nonostante i divieti, le associazioni segrete esistono e quindi è necessario disporre che i magistrati non vi possano appartenere.

(La seconda parte dell’emendamento non è approvata).

PRESIDENTE rileva che, in seguito al risultato della votazione, l’articolo resta come proposto dal Comitato di redazione.

Pone ora in discussione una proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, per la quale era stata fatta riserva anche in seno al Comitato di redazione. L’onorevole Codacci Pisanelli propone di sopprimere l’ultimo comma dell’articolo 2 che dice: «I tribunali militari possono essere istituiti soltanto in tempo di guerra». Con tale proposta, si intende che i tribunali militari debbano continuare a funzionare.

CODACCI PISANELLI rileva che i tribunali militari esigono magistrati specializzati; questa esigenza è sentita non solo nell’ordinamento italiano, ma anche in altri ordinamenti, dato che il Codice penale non giunge ad ipotizzare alcuni reati. Si riferisce, ad esempio, allo stato di necessità, che viene concepito nel Codice penale in maniera diversa di come viene concepito nel Codice penale militare, in cui, alle volte, neppure lo stato di necessità può funzionare da discriminante. I tribunali militari non fanno che applicare una più rigorosa disciplina, alla quale i militari devono essere sottoposti.

Ritiene che di questo maggior rigore non si lamenteranno i militari, i quali sanno anche con questa maggiore limitazione alla loro libertà dimostrare come siano pronti ad assolvere il compito fondamentale delle nostre forze armate, silenziose custodi dell’onore della Patria nelle ore supreme.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Codacci Pisanelli.

CAPPI non condivide l’opinione dell’onorevole Codacci Pisanelli, perché la esigenza alla quale egli ha accennato può essere soddisfatta con disposizioni legislative particolari, senza bisogno di ricorrere ad un giudice speciale.

TUPINI si dichiara favorevole all’emendamento Codacci Pisanelli per un triplice ordine di ragioni: prima: perché il più adatto a giudicare i militari è il tribunale militare; seconda: perché in tempo di guerra non si può improvvisare il tribunale militare; terza: per la carenza di giustizia che si determinerebbe, ad esempio, a carico di marinai o, comunque, di militari che commettessero reati su navi in movimento e lontano dal territorio nazionale.

(L’emendamento dell’onorevole Codacci Pisanelli non è approvato).

La seduta termina alle 12.40.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Canevari, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Bordon, Bulloni, Calamandrei, Cannizzo, Colitto, Di Giovanni, Finocchiaro Aprile, Giua, Mastrojanni, Merlin Lina, Paratore, Pesenti, Porzio.

Assente giustificato: Ghidini.

In congedo: Lussu.

GIOVEDÌ 30 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

25.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 30 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

La Magistratura (Esame degli emendamenti agli articoli)

Presidente – Leone Giovanni – Togliatti – Conti – Cappi – Tosato – Calamandrei – Nobile – Bozzi – Fabbri – Castiglia – Perassi – Einaudi – Lussu – Tardetti – Fuschini.

La seduta comincia alle 9.15.

Esame degli emendamenti agli articoli sulla Magistratura.

 

PRESIDENTE sottopone all’esame della Commissione gli emendamenti presentati al Titolo del progetto di Costituzione concernente la Magistratura.

Avverte che l’onorevole Leone, presentatore di vari emendamenti, ha comunicato di rimettersi al Comitato di redazione per quanto riguarda le questioni di carattere formale. Sosterrà invece in questa sede gli emendamenti di carattere sostanziale: attribuzione della vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura al Presidente della Corte di cassazione anziché al Guardasigilli; soppressione delle Magistrature onorarie; rinvio ad una norma transitoria della revisione delle giurisdizioni straordinarie.

Inoltre l’onorevole Targetti ha proposto un articolo aggiuntivo 3-bis, secondo il quale viene stabilita la competenza del Ministro della giustizia per l’organizzazione dei servizi relativi all’Amministrazione giudiziaria e per l’alta vigilanza sul funzionamento dei servizi stessi e degli uffici giudiziari. Tale emendamento può mettersi in relazione con un altro proposto dall’onorevole Calamandrei, così concepito:

«Il potere di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati spetta al Ministro della giustizia».

Un secondo emendamento dell’onorevole Targetti riguarda l’abolizione di ogni limite per la nomina delle donne nella Magistratura, mentre un terzo emendamento prevede la soppressione della prima parte dell’articolo 6 concernente la pubblicità dell’azione penale.

L’onorevole Calamandrei, infine, oltre all’emendamento già accennato, ne propone altri due, l’uno che prevede l’elettività e la temporaneità degli uffici direttivi della Magistratura e l’altro, secondo il quale l’autorità giudiziaria dovrebbe poter annullare, revocare o modificare un provvedimento amministrativo impugnato.

Pone anzitutto in discussione l’emendamento formulato dall’onorevole Leone all’articolo 3, unitamente all’onorevole Conti, e così concepito:

Nel secondo comma, sopprimere le parole: «del Ministro di giustizia, vicepresidente»; ed aggiungere, dopo le parole: «del Primo Presidente della Corte di Cassazione», l’altra: «vicepresidente».

Ricorda che il secondo comma dell’articolo 3, nel testo predisposto dal Comitato di redazione, è così formulato:

«Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto dei Ministro di giustizia, vicepresidente, del Primo Presidente della Corte di cassazione e di membri designati per sette anni, metà da tutti i magistrati fra gli appartenenti alle loro diverse categorie, metà dall’Assemblea Nazionale fuori del proprio seno».

LEONE GIOVANNI illustra il suo emendamento ricordando che allorché l’apposita sezione della seconda Sottocommissione discusse sull’autogoverno della Magistratura si delinearono tendenze diverse, in quanto da una parte si proponeva di stabilire l’autogoverno assoluto attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura, composto tutto da magistrati e presieduto dal primo Presidente della Cassazione, mentre dall’altra si tendeva a costituire questo Consiglio Superiore in forma mista e in modo che vi partecipassero elementi estranei. In via di conciliazione, egli propose allora che il Consiglio Superiore fosse formato per metà di magistrati e per metà di elementi estranei, e su questa base fu raggiunto l’accordo. Ma il dissenso affiorò in un secondo momento, allorché si trattò di concretare la presidenza di quest’organo: la sua proposta di assegnare la presidenza al Capo dello Stato fu accettata, ma circa la vicepresidenza la discussione fu lunga, in quanto egli proponeva di affidarla al primo Presidente della Cassazione, mentre la maggioranza accettò il principio opposto, affidandola al Ministro della giustizia.

L’emendamento che tende a riproporre la questione è fondato principalmente sulla considerazione che con un Consiglio Superiore composto in parte di magistrati ed in parte di elementi estranei alla Magistratura si fa un passo indietro nei confronti dell’autogoverno. La recente legge Togliatti garantì l’indipendenza della Magistratura, in quanto il Consiglio Superiore della Magistratura veniva congegnato come organo esclusivo della Magistratura. Ora, invece, nello stesso momento in cui si allargano i poteri di tale Consiglio, in quanto ad esso sono devoluti poteri disciplinari che prima erano affidati alla Corte disciplinare, e conferite funzioni nuove, come quella di bandire concorsi, di stabilire le norme per le promozioni, di decidere sui trasferimenti, se ne allarga la composizione nel senso che non rimane più come un organo di esclusiva creazione della Magistratura.

La decisione di affidare la presidenza al Capo dello Stato e di stabilire che metà dei componenti del Consiglio siano elementi estranei eletti dall’Assemblea Nazionale, risolve già una delle preoccupazioni sorte in sede di esame del progetto sul potere giudiziario: quella di evitare che attraverso l’autogoverno dato alla Magistratura essa costituisca una specie di casta chiusa. Con tale decisione, infatti, si è giunti ad avvicinare il più possibile il potere giudiziario agli altri poteri dello Stato.

Pensa però che non sia da accettarsi il concetto della vicepresidenza affidata al Ministro della giustizia. Secondo una proposta Calamandrei, il Ministro della giustizia sarebbe l’organo promotore, o per lo meno il capo degli organi promotori dei procedimenti disciplinari contro i magistrati. Ora, mentre accetta la proposta Calamandrei, preferirebbe che per l’esercizio dell’azione ci fossero anche altri organi, come vi erano nella legge Togliatti. È d’accordo sul punto che il Ministro della giustizia sia l’unico titolare del diritto di azione disciplinare; ma se il Ministro ha e deve continuare ad avere la titolarietà dell’azione disciplinare, è veramente singolare che questo stesso Ministro della giustizia, che nel procedimento disciplinare è l’accusatore, possa diventare poi anche il capo dell’organo che deve giudicare. È questo il primo motivo per cui il Ministro della giustizia – a suo avviso – non può essere il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. D’altra parte, il Ministro, nella situazione attuale, ha una responsabilità politica, individuale e personale, nei confronti degli altri poteri, concernente la vita e l’organizzazione della Magistratura. Ma il Ministro perde questa individualità di responsabilità nei confronti del Parlamento per la sua azione di Capo del Dicastero della giustizia e, intervenendo nell’organizzazione della Magistratura come vicepresidente del Consiglio Superiore, è in grado di compiere un’azione di inframmettenza politica senza il corrispettivo della sua responsabilità nei confronti del Parlamento.

Osserva che la soluzione adottata dalla seconda Sezione ha creato allarmi, in quanto si è temuto che invece di fare un passo avanti nell’indipendenza della Magistratura si facesse un passo indietro; mentre per la legge Togliatti si era raggiunta un’altra tappa dell’indipendenza del magistrato, con la Costituzione questa tappa si verrebbe a perdere in gran parte.

Pensa pertanto che motivi di carattere politico e motivi tecnici consiglino di ritornare sulla decisione adottata, e – accogliendo il suo emendamento – stabilire che la vicepresidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, composto per metà da elementi elettivi, i quali porteranno il soffio della vita estranea alla funzione giudiziaria, debba essere affidata al Presidente della Cassazione.

TOGLIATTI desidera innanzitutto fare un’osservazione sulla legge relativa alle guarantige della Magistratura, legge che porta il suo nome. Questa legge ha un duplice carattere: ha un carattere di riparazione e restaurazione, in quanto sopprime alcuni articoli dell’ordinamento giudiziario creato dal fascismo, che era un’offesa alla Magistratura la quale era sottoposta in modo brutale all’arbitrio del potere esecutivo; un secondo carattere di questa legge è di avviare la riorganizzazione della Magistratura, la quale avrebbe dovuto poi sfociare nella nuova Costituzione.

Per questo non trova difficoltà a che nella Costituzione siano introdotte delle norme le quali in parte modifichino quelle sancite da una legge che porta la sua firma. Crede poi che quella legge nulla concedesse alla concezione del potere autonomo della Magistratura, concezione che ritiene democraticamente non accettabile. La legge da lui proposta, e approvata dal Consiglio dei Ministri, andava sino al limite estremo delle garanzie dell’indipendenza e dell’autonomia, ma non faceva della Magistratura un potere autonomo dello Stato, che è cosa diversa da un potere che si governa esclusivamente da sé.

Ritiene pertanto che giustamente tale concetto sia stato respinto negli articoli del progetto sottoposto all’esame della Commissione Questi articoli, in qualche punto, vanno persino – a suo avviso – troppo in là, ed egli si propone – in questa sede o in sede di discussione dell’Assemblea – di richiamare l’attenzione su un articolo in cui la formulazione effettivamente è troppo larga, e precisamente l’articolo 5, laddove si dice che i magistrati sono inamovibili senz’altro, senza indicare da quale grado della carriera. Comprende infatti l’inamovibilità legata non soltanto alla funzione, ma anche ad un certo grado di maturità del magistrato.

Per quello che riguarda la struttura e le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, crede accettabile la formula proposta nell’articolo, quantunque si stacchi molto dall’ordinamento adottato nella sua legge. Si tratta di un organismo il quale assume una funzione particolare, appunto per impedire la completa autonomia del potere giudiziario come tale, e per questo accetta la formula e crede che anche i magistrati possano accettarla. E in sostanza, il fatto che il Consiglio Superiore della Magistratura sia composto di membri eletti per metà dall’Assemblea Nazionale, accresce il prestigio della Magistratura, non lo diminuisce.

Per quanto riguarda la questione del Presidente e del vicepresidente, la presidenza del Presidente della Repubblica – a suo avviso – non si discute. Non si può inoltre non far vicepresidente il Ministro della giustizia; altrimenti la funzione di questo Ministro viene quasi completamente annullata nei confronti della Magistratura. Non gli si attribuirà una funzione di procuratore generale o di pubblico ministero, in quanto il Consiglio Superiore della Magistratura non è un organo giudicante di tipo puro: è un organo in parte investito di poteri disciplinari di carattere amministrativo e in parte giudicante i magistrati secondo il loro valore agli effetti delle promozioni e delle assegnazioni alle differenti sedi. Ma il Ministro della giustizia deve avere nel Consiglio Superiore della Magistratura una funzione preminente. Crede conveniente inoltre attribuire una funzione preminente anche al primo Presidente della Cassazione, ed una soluzione di compromesso potrebbe essere quella di istituire due vicepresidenti: il Ministro della giustizia e il primo Presidente della Corte di cassazione, con la presidenza affidata al Presidente della Repubblica.

Gli sembra che questa soluzione di compromesso potrebbe accontentare tutte le esigenze, tanto quelle teoriche, quanto quelle di prestigio dell’ordine giudiziario.

CONTI, sulla questione della vicepresidenza affidata al Ministro della giustizia, osserva che affermato il principio, non soltanto dell’autonomia, ma dell’indipendenza della Magistratura, l’assegnazione al Ministro di una carica così importante contraddice nel modo più assoluto al principio che si vuole affermare. La parte che assumerebbe il Ministro della giustizia nel Consiglio Superiore sarebbe di continua interdizione, di continua neutralizzazione di tutte le buone volontà della Magistratura. La Magistratura deve essere tranquilla, veramente indipendente per mancanza di contatti con chi, attraverso appunto questi contatti, può stabilire influenze funeste all’amministrazione della giustizia.

A suo avviso, del resto, il Ministro della giustizia si diminuisce con l’appartenenza al Consiglio Superiore; la sua autorità può essere veramente superiore, e decisiva, se rimarrà fuori del Consiglio e non avrà rapporti con l’organizzazione della Magistratura stessa. Dal di fuori, il Ministro potrà esercitare veramente quell’alta funzione di vigilanza sull’andamento della giustizia – cui accenna la stessa legge Togliatti – e far valere la sua autorità sia nel Parlamento sia negli stessi rapporti con l’organizzazione autonoma della Magistratura. Inoltre, restando nel Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministro sarebbe nello stesso tempo promotore dell’azione disciplinare e giudice fra giudici sottoposti a quella stessa disciplina, concezione questa che rasenterebbe l’assurdo.

Crede pertanto che un ordinamento delineato con la presidenza del Presidente della Repubblica e la vicepresidenza del primo Presidente della Corte di cassazione stabilisca una coordinazione armonica dei poteri, e non produca quegli inconvenienti che sono stati prospettati.

Esprime infine il parere che sia da eliminare, nella Costituzione repubblicana, la dizione «Ministro di grazia e giustizia». Il Ministro che presiede alla giustizia deve chiamarsi Ministro della giustizia o Ministro Guardasigilli. Propone che nei vari articoli della Costituzione si usi, sempre ed unicamente, questa dizione.

CAPPI dichiara che le ragioni esposte dall’onorevole Leone non lo hanno convinto. Crede che la questione dell’autogoverno assoluto, o quasi assoluto, della Magistratura, risenta di una tendenza reattiva che si voglia dare alla Costituzione, e che in fondo alla proposta vi sia una certa diffidenza verso il potere legislativo e verso quello esecutivo. Afferma che in un regime veramente democratico, quale quello che si intende instaurare, questa diffidenza è veramente ingiustificata.

L’altro argomento per la piena autonomia della Magistratura, cioè il principio della divisione dei poteri, sarebbe, a suo avviso, giusto, quando uguale fosse la fonte di questi poteri, quando cioè anche i magistrati fossero elettivi, come è elettivo il potere legislativo da cui promana quello esecutivo. Ma poiché questo non è, ritiene esagerata la pretesa di equiparare il potere giudiziario agli altri due poteri.

Per quanto riguarda infine la questione della vicepresidenza del Ministro della giustizia, una sola argomentazione lo ha colpito tra quelle esposte dall’onorevole Leone, l’inconveniente cioè che il Ministro della giustizia verrebbe ad essere, in un certo senso, giudice e parte.

Pensa che ad eliminare questo inconveniente potrebbe essere sufficiente indicare quali promotori dell’azione disciplinare i Consigli regionali della Magistratura. D’altro canto, escludere completamente la partecipazione del Ministro gli pare assurdo, in quanto esso dovrà pur rispondere davanti al Parlamento del potere giudiziario, che è un potere dello Stato come tutti gli altri.

Ritiene che una larga, giusta e doverosa concessione all’autonomia della Magistratura sia stata già fatta ammettendo che metà dei membri del Consiglio Superiore sia eletta dai magistrati stessi. L’altra metà dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, eletti dall’Assemblea Nazionale, non rappresenterà certamente un solo partito; quindi la preponderanza della Magistratura sarà comunque assicurata.

Conclude dichiarando di aderire alla proposta Togliatti, di assegnare cioè la vicepresidenza rispettivamente al Ministro ed al primo Presidente della Cassazione.

TOSATO sarebbe d’accordo con la proposta Leone, ma ritiene che, conseguentemente, bisognerebbe escludere il Presidente della Repubblica dalla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Osserva infatti che, data la forma di Governo parlamentare, la presenza del Presidente della Repubblica implicherebbe necessariamente nel Consiglio Superiore della Magistratura la presenza del Ministro della giustizia, come rappresentante responsabile dello stesso Presidente della Repubblica. Se si vuole garantire l’indipendenza della Magistratura, ritiene che occorra togliere dal Consiglio Superiore della Magistratura non solo il Ministro della giustizia, ma anche il Presidente della Repubblica.

CALAMANDREI è favorevole al sistema dell’autogoverno nella Magistratura per ragioni non di carattere teorico, ma derivanti da una lunga esperienza professionale, durante la quale si è persuaso che il buon andamento della giustizia penale e civile è soprattutto perturbato da inframmettenze di carattere politico, la cui prima origine è l’ingerenza del Ministro nell’amministrazione della giustizia per quanto riguarda nomine, trasferimenti, avanzamenti di magistrati. Inoltre nella vita pratica forense si vedono spesso fortune di professionisti il cui colore politico corrisponde sistematicamente alle variazioni politiche che avvengono nel Dicastero della giustizia: basta questa osservazione per far capire che, fin quando non si sarà esclusa ogni ingerenza del Ministro nell’amministrazione della giustizia, questi perturbamenti continueranno.

Osserva che per parlare di una responsabilità politica del Ministro dinanzi al Parlamento bisognerebbe creare al Ministro stesso una posizione nel Consiglio Superiore diversa da quella che gli si attribuisce, attribuendogli inoltre poteri che egli possa esercitare in maniera effettiva, anche nel campo disciplinare. Questo però porterebbe come conseguenza l’impossibilità del Ministro di essere anche vicepresidente del Consiglio Superiore, cioè, in pratica, Presidente effettivo, in quanto – suppone – il Presidente della Repubblica presiederà il Consiglio solo in occasioni solenni.

Riconosce fondata l’obiezione che in un Consiglio composto per metà di eletti dai magistrati e per metà di persone scelte dalla Assemblea Nazionale al di fuori della Magistratura, l’inclusione del primo Presidente della Cassazione e l’esclusione del Ministro porterà come conseguenza una prevalenza dei magistrati. A questo inconveniente ritiene possa ovviarsi non già attribuendo una vicepresidenza al Ministro Guardasigilli, ma attribuendo all’Assemblea Nazionale la facoltà di nominare non solo una metà dei componenti del Consiglio, ma anche un vicepresidente. Si avrebbero in tal modo, oltre al Capo dello Stato Presidente, due vicepresidenti, di cui uno magistrato e l’altro nominato dall’Assemblea Nazionale, ed inoltre i componenti nominati per metà dall’Assemblea Nazionale e per metà dalla Magistratura.

NOBILE osserva che, adottando le modifiche proposte all’articolo, si verrebbe a costituire un potere giudiziario assolutamente fuori del controllo della sovranità popolare, che pure è stata posta alla base dell’ordinamento dello Stato.

È, quindi, favorevole al mantenimento dell’articolo 3, senza modificazioni, salvo accettare la proposta dell’onorevole Calamandrei, secondo la quale un vicepresidente dovrebbe essere nominato dal Parlamento in modo che nel Consiglio Superiore della Magistratura vi sia almeno la prevalenza dell’ordine legislativo.

BOZZI rileva che il problema della Magistratura è soprattutto un problema di indipendenza dal potere esecutivo; ora, creando un organismo in cui la vicepresidenza, che è poi la presidenza effettiva, è affidata al potere esecutivo, si determina un’ingerenza diretta, continua, sulla vita della Magistratura, la quale si riflette sull’indipendenza del singolo magistrato, che viene ad essere profondamente menomata.

L’onorevole Tosato ha eccepito che non si dovrebbe includere nel Consiglio neppure il Capo dello Stato, poiché la sua responsabilità deve, per statuto, essere coperta da quella dei Ministri. Risponde che ciò accade solo ove si possa individuare una responsabilità singola del Presidente della Repubblica come tale: qui egli interviene, invece, come membro di un collegio.

Si dichiara pertanto favorevole all’emendamento dell’onorevole Leone.

TOSATO osserva che il problema da lui posto sussiste sempre in quanto, partecipando il Presidente della Repubblica al Consiglio come membro, oltre ad una responsabilità individuale può ravvisarsene anche una collegiale.

CALAMANDREI, riferendosi a quanto ha detto in precedenza, presenta un emendamento all’articolo consistente nello stabilire che vi sia nel Consiglio un secondo vicepresidente, accanto al primo Presidente della Corte di cassazione funzionante, eletto dall’Assemblea Nazionale.

FABBRI osserva che se si intende che il Presidente della Repubblica sia un membro partecipante con voto al Consiglio deliberante, tale sua partecipazione è del tutto incostituzionale. Dichiara, ad ogni modo, di essere favorevole ad escludere il Guardasigilli dal Consiglio e ad assegnare la vicepresidenza al primo Presidente della Cassazione.

PRESIDENTE pone innanzi tutto in votazione l’emendamento degli onorevoli Leone e Conti, secondo il quale il Ministro Guardasigilli non deve far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui sarebbe invece vicepresidente il primo Presidente della Cassazione.

CASTIGLIA chiede che la votazione avvenga per appello nominale.

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Castiglia, Cevolotto, Conti, De Michele, De Vita, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, La Pira, Leone Giovanni, Lucifero, Marinaro, Mortati, Perassi, Rapelli, Ruini, Tosato.

Rispondono no: Amadei, Canevari, Cappi, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lombardo, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Nobile, Ravagnan, Targetti, Togliatti, Uberti.

Astenuti: Moro, Rossi Paolo.

PRESIDENTE comunica, che l’emendamento degli onorevoli Leone e Conti è stato approvato con 27 voti favorevoli, 17 contrari e 2 astenuti.

Avverte che sarà ora messa in votazione la proposta di emendamento dell’onorevole Calamandrei, che era appunto subordinata all’accoglimento della proposta Leone-Conti, secondo la quale oltre alla vicepresidenza conferita al primo Presidente della Cassazione, si dovrebbe avere un secondo vicepresidente nominato dall’Assemblea Nazionale.

LEONE GIOVANNI ritiene che, essendo stato votato favorevolmente il suo emendamento, il quale tendeva chiaramente ad estromettere il Ministro della giustizia dal Consiglio Superiore affidandone l’unica vicepresidenza al primo Presidente della Cassazione, la nuova proposta di emendamento non possa essere posta in votazione.

PRESIDENTE osserva che, trattandosi di un emendamento aggiuntivo, la proposta Calamandrei deve essere posta in discussione ed in votazione.

PERASSI rileva che l’osservazione dell’onorevole Leone non è giustificata.

Essendo stato tolto dal Consiglio Superiore il Ministro della giustizia, si è venuto infatti a spostare l’equilibrio nella composizione interna del Consiglio stesso: non vede quindi come si possa vietare la possibilità di porre un emendamento che, in qualche maniera, ristabilisca tale equilibrio.

Osserva, in secondo luogo, che dopo l’approvazione dell’emendamento Leone si rende necessario un esame della questione sollevata dall’onorevole Tosato, questione che evidentemente non poteva essere posta prima che fosse stato accolto l’emendamento stesso.

PRESIDENTE fa presente all’onorevole Perassi che, mentre a suo parere ritiene debba mettersi in votazione la proposta dell’onorevole Calamandrei, dubita che la questione sollevata dall’onorevole Tosato possa essere posta, in quanto è stato formalmente approvato che il Capo dello Stato è il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Non è possibile tornare a mettere in discussione un punto che è stato acquisito dopo lunga discussione, dopo cioè che si è venuti nella determinazione di conferire al Capo dello Stato la presidenza di alti consessi, ponendolo in una determinata posizione, naturalmente onorifica.

La questione di cui ora ci si deve occupare è ad ogni modo l’emendamento presentato dall’onorevole Calamandrei.

EINAUDI afferma essergli sembrato, seguendo il filo logico del discorso Calamandrei, che egli fosse partito dalla premessa dell’autogoverno della Magistratura ed avesse detto che, se non si poteva ottenere questo ideale, si poteva ammettere un secondo vicepresidente. Crede che la vicepresidenza, data al primo Presidente della Cassazione, sia una garanzia e che, in conseguenza, l’emendamento Calamandrei dovrebbe cadere.

LUSSU non vorrebbe che si venisse a creare un istituto che non avesse quella attuazione che si desidera; prospetta infatti l’eventualità che un Presidente della Repubblica, scrupoloso delle sue funzioni, delle sue prerogative e dei suoi doveri, possa non intervenire al Consiglio Supremo della Magistratura in quanto, in assenza del Ministro, non vi è chi possa assumersi una responsabilità.

CALAMANDREI osserva all’onorevole Einaudi che la Commissione si è trovata d’accordo sulla necessità di cercare un sistema nel quale gli elementi della Magistratura e quelli nominati dall’Assemblea Nazionale fossero in condizioni di assoluta parità, e che l’organo che poteva dare il tracollo a questo equilibrio fosse il Presidente della Repubblica, elemento superiore ai partiti. Se si vuole rispettare questo sistema di parità, una volta estromesso il Ministro della giustizia, occorre creare un secondo vicepresidente nominato dall’Assemblea Nazionale.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Calamandrei, secondo la quale, oltre alla vicepresidenza del primo Presidente della Cassazione, vi sia una vicepresidenza di persona nominata dall’Assemblea Nazionale.

(È approvata).

Comunica che l’onorevole Nobile chiede sia messa in votazione la proposta che il Consiglio Superiore sia presieduto dal Presidente della Repubblica assistito dal Ministro della giustizia.

Osserva che questa proposta appare in contrasto con la votazione che precedentemente ha avuto luogo.

NOBILE rileva che è stato semplicemente votato che il Ministro non può essere vicepresidente.

TOGLIATTI crede che la proposta Nobile debba essere discussa e che essa non contrasti con il voto precedente. Fa presente ai colleghi che le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura sono funzioni in parte adempiute da organismi autonomi della Magistratura, ma in parte anche sono funzioni le quali, in sede preparatoria, vengono compiute dalla Direzione generale del personale, la quale è un organo diretto dal Ministro della giustizia. Allora, o si mette la Direzione generale del personale alle dipendenze del Presidente della Repubblica, il che è assurdo, o del primo Presidente della Cassazione, il che è più assurdo ancora, o altrimenti è del tutto logico che il Ministro di giustizia assista, per esprimere un parere, anche senza far parte di questo Consiglio, ma dando la necessaria assistenza tecnica per tutte quelle questioni che possono essere trattate.

LEONE GIOVANNI osserva che la precedente votazione ha portato alla indiscussa conseguenza della esclusione del Ministro dal seno del Consiglio Superiore e dalla vicepresidenza. Questo Ministro non può perciò rientrare nel Consiglio, né d’altra parte sarebbe concepibile un Ministro che vi entrasse soltanto come assistente.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Nobile, secondo il quale la prima proposizione dell’articolo dovrebbe essere così formulata: «Il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica, assistito dal Ministro della giustizia, ed è composto», ecc.

(Non è approvato).

Avverte che viene ora in discussione l’emendamento proposto dall’onorevole Targetti, riguardante le funzioni del Ministro della giustizia. L’onorevole Targetti propone l’adozione del seguente articolo aggiuntivo 3-bis: «Il Ministro della giustizia provvede alla organizzazione dei servizi relativi all’Amministrazione della giustizia ed esercita l’alta vigilanza sul funzionamento dei servizi stessi e degli uffici giudiziari».

TARGETTI dà ragione del suo emendamento, affermando di ritenere necessario includere l’articolo proposto, a meno che non se ne voglia includere uno opposto, che cioè stabilisca la abolizione del Ministro. Siccome non crede che questo sia il desiderio di alcuno dei Commissari, crede opportuno, specialmente dopo che si è approvata la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura estromettendone il Ministro, vicepresidente, affermare la sopravvivenza del Ministro della giustizia, anche in regime repubblicano, con l’affermazione di queste mansioni. Dire che il Ministro esercita l’alta vigilanza sul funzionamento degli uffici giudiziari è quanto meno si possa dire della funzione che logicamente spetta al Ministro della giustizia.

LEONE GIOVANNI dichiara di essere favorevole all’articolo proposto dall’onorevole Targetti, tranne per la parte concernente gli uffici giudiziari, che vorrebbe soppressa.

TOSATO non è favorevole all’emendamento Targetti, non perché sia contrario alla sostanza della sua proposta, ma per una questione di forma e di sistematica costituzionale. È stato già approvato un articolo secondo il quale il numero e le attribuzioni dei Ministeri saranno fissati per legge; quanto si viene a stabilire nell’articolo proposto non è più, quindi, materia costituzionale.

CONTI osserva che l’espressione «alta vigilanza sul funzionamento dei servizi» riduce le funzioni del Ministro ad un compito di semplice sorveglianza, mentre l’alta vigilanza spetta al Ministro della giustizia su tutto il funzionamento della giustizia all’esterno.

Anche per le considerazioni esposte dall’onorevole Tosato, è contrario all’emendamento; comunque fa presente che, se fosse messo in votazione, l’espressione: «alta vigilanza sui funzionamento dei servizi» dovrebbe essere modificata, nel senso di dire, piuttosto, che il Ministro: «provvede alla organizzazione dei servizi della giustizia».

LUSSU fa presente l’opportunità di trasformare l’emendamento Targetti in una mozione interna che serva di chiarimento. Quanto ha osservato l’onorevole Tosato è esatto; ma – d’altra parte – le preoccupazioni esposte dall’onorevole Targetti sono logiche.

TARGETTI aderisce alla proposta dell’onorevole Lussu.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Targetti, inteso non come articolo della Costituzione, ma come indicazione e norma da tener presente nell’ordinamento giudiziario.

(È approvato).

FUSCHINI, rilevando come l’articolo 3 disponga che la metà dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura debbano essere nominati dall’Assemblea Nazionale fuori dal proprio seno, osserva che le Camere, dovendo nominare dei membri partecipanti a determinate Commissioni, li sceglievano sempre nel loro seno. Qui si vogliono nominare dei membri fuori del seno dell’Assemblea Nazionale; sta bene, ma occorre indicare l’organo che designa all’Assemblea una rosa di nomi tra i quali questa potrà scegliere. Sarebbe opportuna pertanto l’aggiunta di un inciso in cui si dicesse che le nomine debbono avvenire: «su designazione dei Consigli degli Ordini forensi o delle facoltà di giurisprudenza delle Università».

PRESIDENTE osserva che la proposta dell’onorevole Fuschini potrebbe essere tenuta presente come segnalazione.

CONTI rileva che alla fine del secondo comma dell’articolo si dice che metà dei membri dei Consiglio saranno eletti dalla Assemblea Nazionale fuori dal proprio seno. Nella colonna delle osservazioni, si fa presente che è stata segnalata l’opportunità che nelle norme sull’ordinamento giudiziario sia stabilita l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense per i membri del Consiglio Superiore delia Magistratura durante la loro permanenza in carica. Ma egli andrebbe ancora più in là, proponendo una disposizione in cui si stabilisca che se da parte della Assemblea sono eletti degli avvocati nei Consiglio, questi debbano cessare per sempre dall’esercizio professionale. L’avvocato non deve rientrare nella professione con il lustro e con il prestigio acquistato nel Consiglio Superiore della Magistratura, in quanto diventerebbe un despota nei confronti dei magistrati.

LUSSU trova giusto che un avvocato il quale è chiamato a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura non eserciti la professione per il tempo in cui ricopre la carica; ma sarebbe ingiusto, a suo avviso, impedire che, cessata tale carica nel Consiglio Superiore, l’avvocato torni ad esercitare la sua professione. Altrimenti, in pratica, raramente un avvocato potrebbe accettare una funzione che gli impedisca di esercitare in seguito la sua professione.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Fuschini, secondo la quale i membri del Consiglio Superiore dovrebbero essere nominati dall’Assemblea Nazionale su designazione degli ordini professionali, delle facoltà universitarie, ecc.

(Non è approvata).

Pone in votazione la proposta dell’onorevole Conti, il quale vorrebbe che gli avvocati eletti nel Consiglio Superiore della Magistratura non potessero più esercitare la professione.

(Non è approvata).

Pone in votazione l’ipotesi subordinata, di cui è cenno nelle osservazioni, secondo la quale la incompatibilità dell’esercizio della professione deve essere limitata per gli avvocati prescelti al periodo nel quale fanno parte del Consiglio Superiore delia Magistratura.

(È approvata).

Rimane inteso che è demandata al Comitato di coordinamento la formulazione della norma.

Avverte che l’onorevole Calamandrei ha proposto il seguente emendamento aggiuntivo:

«Il potere di promuovere l’esame disciplinare contro i magistrati spetta al Ministro della giustizia, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario.

CALAMANDREI dichiara che, poiché il suo emendamento è stato già svolto dal collega Leone, si rimette a quanto è stato da quest’ultimo fatto presente.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Calamandrei.

(È approvato).

Chiede infine alla Commissione se concorda – come è stato proposto dall’onorevole Conti – nella opportunità di adottare, nel testo della Costituzione, la dizione: «Ministro della giustizia» anziché quella: «Ministro di grazia e giustizia».

(La Commissione concorda).

La seduta termina alle 11.35.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Conti, De Michele, De Vita, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Grassi, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Perassi, Rapelli, Ravagnan, Rossi, Ruini, Targetti, Taviani, Togliatti, Tosato, Tupini, Uberti.

Erano assenti: Bordon, Cannizzo, Codacci Pisanelli, Corsanego, Di Giovanni, Di Vittorio, Finocchiaro Aprile, Froggio, Ghidini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Terracini, Togni, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

24.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Elezione dei senatori (Ordine di votazione delle proposte)

Presidente – Piccioni – Fuschini – Perassi – Terracini – Laconi – Togliatti – Lussu.

Presidenza dell’Assemblea Nazionale

Presidente – Piccioni – Togliatti – Fabbri – Einaudi – Grassi – Fuschini.

«Referendum» per l’entrata in vigore o per l’abrogazione di una legge

Presidente – Grassi – Togliatti – Perassi – Fabbri – Einaudi – Nobile.

Potere di amnistia dell’Assemblea Nazionale

Presidente – Leone Giovanni – Togliatti – Mastrojanni – Rossi Paolo – Perassi – Molè – Bulloni – Nobile – Dominedò – De Vita.

Voto di fiducia dell’Assemblea Nazionale al Governo

Presidente – Mortati.

La seduta comincia alle 17.15.

Elezione dei senatori. (Ordine di votazione delle proposte).

 

PRESIDENTE avverte che occorre mettere ai voti le varie proposte relative alla elezione dei senatori. A suo parere, si dovrebbe anzitutto mettere ai voti la proposta Mortati, che maggiormente si discosta dalla proposta originaria della seconda Sottocommissione, adottata dal Comitato di redazione, e che ritorna in qualche modo alla rappresentanza degli interessi; seguirebbero la proposta Nobile, che riguarda il suffragio universale diretto; la proposta Laconi relativa al suffragio indiretto con l’emendamento integrativo presentato dall’onorevole Perassi; infine, la proposta Fuschini, che è quella che più si accosta a quella originaria.

PICCIONI pensa che dopo l’ultima votazione in seno alla seconda Sottocommissione, la proposta fondamentale da cui ci si deve muovere per considerare l’ordine delle votazioni è quella dell’onorevole Laconi, la quale dovrebbe essere votata per ultima e dovrebbe essere preceduta dalla proposta Fuschini.

PRESIDENTE. Allora, l’ordine sarebbe il seguente: proposta Mortati, proposta Nobile, proposta Fuschini, proposta Laconi, proposta Perassi.

Comunica che gli onorevoli Grassi, Bozzi, Marinaro, Cevolotto, Molè e Einaudi hanno presentato la seguente proposta: «Un terzo dei senatori è eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale diretto, uguale e segreto, con una circoscrizione per ogni senatore». Questa proposta sarà votata per ultima.

FUSCHINI osserva che nella proposta Grassi è indicato un sistema elettorale.

PERASSI. Chiede che si stabilisca con precisione quale è la proposta Mortati.

PRESIDENTE. La proposta Mortati è la seguente:

«La Camera dei Senatori è eletta dagli elettori aventi venticinque anni di età, fra gli eleggibili appartenenti alle categorie:

1°) dell’agricoltura;

2°) dell’industria;

3°) del commercio e credito;

4°) delle professioni:

  1. a) d’impiego pubblico;
  2. b) della scuola e della cultura;
  3. c) professioni legali;
  4. d) sanitarie;
  5. e) tecniche;
  6. f) di altri rami.

«I seggi sono ripartiti fra tali categorie, per ciascuna delle quali sono presentate apposite liste da parte degli appartenenti ad esse, ed attribuiti per mezzo di distinti scrutinii, col sistema maggioritario se il numero degli eleggibili delle categorie è inferiore a tre, col sistema proporzionale se è superiore».

PERASSI non ha nessuna obiezione a che si metta per prima in votazione.

Come seconda questione si metterebbe in votazione se l’elezione dei senatori debba farsi per una parte dal Consiglio regionale e per un’altra in modo da stabilirsi. La seconda Sottocommissione fu largamente concorde su tale criterio, e se nell’ultima votazione sulla proposta Laconi esso subì una attenuazione, è da rilevare che tale proposta fu approvata con 12 voti favorevoli, 14 astenuti e 2 contrari. Ora, il criterio della distinzione in due gruppi dovrebbe, a suo parere, essere messo ai voti prima di passare al modo di eleggere a suffragio diretto o indiretto.

TERRACINI osserva che se l’onorevole Perassi accetta che si voti inizialmente sul progetto Mortati e che si taccia dei due collegi separati, non si comprende perché egli proponga di posporre la votazione sul progetto Laconi, solo perché anch’esso abbandona il criterio dei due collegi separati. O la misura è uguale per tutti e due, o non vale per nessuno di quei progetti e ritiene che non debba valere per nessuno dei progetti, perché il semplice fatto che stamane la Commissione plenaria abbia ripreso tutto il problema, pone nel nulla evidentemente quella lontanissima decisione che la stessa seconda Sottocommissione, d’altra parte, aveva già abbandonato, e non soltanto con la votazione che l’onorevole Perassi ha richiamato, ma con una precedente circa la distinzione dei due collegi, nella quale 13 furono i voti favorevoli e 14 i contrari.

Pensa pertanto che la successione delle votazioni debba essere quella proposta dall’onorevole Ruini.

PICCIONI non ha nessuna difficoltà ad accedere allo spostamento proposto dall’onorevole Perassi, perché ritiene che sarebbe bene cominciare a porre qualche caposaldo fondamentale. Uno di questi è precisamente quello indicato dall’onorevole Perassi, rispetto al quale proporrebbe che i cinque senatori riservati a ciascuna regione fossero eletti dai Consigli regionali.

Sarebbe, inoltre, necessario stabilire il numero complessivo dei senatori. E siccome il numero dei componenti la prima Camera è stato elevato, parrebbe opportuno elevare anche proporzionalmente il numero dei membri della seconda Camera.

TERRACINI si meraviglia per il modo con cui si passa da una questione all’altra. L’onorevole Perassi ha dato una giustificazione alla sua proposta; l’onorevole Piccioni accetta la proposta, modificandola, ma dimentica la giustificazione. La proposta dei cinque senatori riservati a ciascuna Regione è venuta fuori ieri sera; e allora non si può dire che bisogna votare su quella proposta, dato che c’è stata una decisione di due mesi fa, alla quale bisogna restare fedeli, cioè: all’Assemblea regionale un terzo, ai Consigli comunali due terzi.

Se mai, si tratterebbe di votare la proposta Perassi nel suo insieme.

PICCIONI osserva che nella riunione di stamane l’onorevole Terracini si è soffermato a contraddire la proposta Fuschini di limitare l’elezione dei membri della seconda Camera riservati ai Consigli regionali solamente ai cinque stabiliti per ogni regione. Quindi, la discussione si è svolta ampiamente, sia in seno alla seconda Sottocommissione, sia in seno alla Commissione plenaria, e non vede perché su questo, che è un principio preliminare, non si debba interpellare la Commissione prima di ogni altra cosa.

LACONI pensa che, ponendo in votazione il criterio della unicità o duplicità del collegio, si viene a produrre uno schieramento artificiale. Vi sono proposte concrete, a suo parere, migliori di altre che comportano il collegio unico.

Quanto alla questione dei cinque senatori, nota che finora la Commissione non ha approvato tale concetto e non si è stabilito, quindi, se vi sarà un numero fisso di senatori per ogni Regione.

PRESIDENTE chiede che la Commissione decida, in via preliminare, se prima di procedere alle votazioni delle singole proposte si debba risolvere la questione del collegio unico o del collegio multiplo.

TOGLIATTI esprime il parere favorevole suo e, crede, dei suoi amici alla proposta Grassi, che comporta l’elezione di due terzi dei senatori a suffragio diretto e a collegio uninominale. Questa, certamente, è la proposta che si stacca di più dalle altre e potrebbe essere votata.

La proposta è, a suo parere, politicamente saggia, in quanto si darebbe una sodisfazione a quella corrente del Paese la quale ritiene che il collegio uninominale abbia un carattere di democrazia particolare. Questa corrente avrebbe la sua espressione nella seconda Camera.

FUSCHINI osserva che per la elezione della Camera dei Deputati non si è indicato il sistema, mentre per la seconda Camera, con la proposta accettata dall’onorevole Togliatti, si adotterebbe il collegio uninominale. La questione, a suo parere, va risolta per entrambe le Camere. Pensa, in ogni caso, che la Camera dei Deputati debba essere eletta col sistema proporzionale.

TOGLIATTI chiarisce che accetta la proposta del collegio uninominale per la seconda Camera, in quanto la prima Sottocommissione aveva approvato il sistema proporzionale per la Camera dei Deputati, con l’accordo dei rappresentanti di tutti i partiti e nella convinzione che tale voto fosse stato consacrato dalla seconda Sottocommissione.

PRESIDENTE. La seconda Sottocommissione ne ha fatto oggetto di una raccomandazione al legislatore. Si tratterebbe di dare a tale raccomandazione una espressione concreta, restando intesi che, quando si parla dell’elezione della prima Camera, ci si dovrebbe riferire al sistema proporzionale.

PICCIONI. La seconda Sottocommissione, se ben ricorda, quando trattò della composizione della prima Camera e genericamente delle Camere elettive, si trovò d’accordo nel concetto che il sistema proporzionale non dovesse far parte integrante della Costituzione, ma che dovesse essere tenuto presente.

Ora, dopo mesi di discussione, si vuole, con l’attuale proposta, inserire nella Costituzione il principio del collegio uninominale per la elezione della seconda Camera.

Non nasconde che la proposta lo lascia perplesso, soprattutto perché si adotterebbero, nella formazione del Parlamento nazionale, due sistemi antitetici, quale il sistema proporzionale e quello uninominale. Teme che le conseguenze di questa antitesi si faranno sentire in successivi momenti della vita nazionale.

Ad ogni modo, poiché la proposta è stata fatta, crede opportuno vagliarla attraverso una consultazione.

TOGLIATTI osserva che si potrebbe fare una votazione di massima, incaricando una piccola Commissione di concretare l’articolo.

PRESIDENTE ritiene opportuno sospendere la seduta, al fine di raggiungere un accordo sulla importante questione.

(La seduta, sospesa alle 17.45, è ripresa alle 18.10).

PRESIDENTE avverte che la discussione relativa alla elezione dei senatori sarà ripresa nella seduta di dopodomani.

LUSSU, poiché sarà quasi certamente assente dopodomani per impegni presi in precedenza, dichiara che non approva la proposta Grassi avanzata all’ultimo momento. L’onorevole Togliatti può anche aderire ad una tale proposta in quanto ritenga che possa essere opportuno adottare due sistemi diversi di votazione per le due Camere, ma pensa che il ritorno al collegio uninominale significhi incancrenire la vita politica nel Mezzogiorno perché, anche nel migliore dei casi, il collegio uninominale è stato sempre espressione di interessi individuali poco chiari.

È convinto che il collegio uninominale nel Mezzogiorno rappresenterebbe un elemento di corruzione, sicché si arriverebbe alla incongruenza che, mentre per le elezioni della prima Camera a sistema proporzionale, il Paese si moralizzerebbe, con il collegio uninominale per la seconda Camera tornerebbe alle vecchie clientele, che hanno sempre portato una nota equivoca nella politica italiana.

Presidenza dell’Assemblea Nazionale.

PRESIDENTE. Si passa alla questione concernente la Presidenza dell’Assemblea Nazionale.

Il comma proposto è il seguente:

«La Presidenza dell’Assemblea Nazionale è affidata, per la durata di un anno, alternativamente, al Presidente della Camera dei Deputati ed al Presidente della Camera dei Senatori».

Si è inteso così, da parte della seconda Sottocommissione, di non dare la prevalenza a nessuna delle due Camere. È stato però in seno al Comitato di redazione osservato da alcuni che questo sistema presenta degli inconvenienti, soprattutto agli effetti della supplenza che spetta al Presidente dell’Assemblea Nazionale quando il Presidente della Repubblica, per eventuale impedimento, non sia in grado di esercitare la sua funzione.

Esclusa la nomina di un Vicepresidente della Repubblica, in quanto si creerebbe una carica inutile, si sarebbe prospettata la nomina di un Presidente da parte dell’Assemblea Nazionale, il quale sostituirebbe il Presidente della Repubblica nei casi di impedimento. La questione è però controversa.

PICCIONI accetta la proposta che l’Assemblea Nazionale elegga un proprio Presidente, al quale sarebbero riservate le funzioni di Vicepresidente della Repubblica.

TOGLIATTI rileva l’inconveniente che il Presidente dell’Assemblea Nazionale, quale membro di una delle Camere, sarebbe sottoposto all’autorità del Presidente della Camera di cui fa parte.

PRESIDENTE non crede che tale inconveniente sia grave; ad ogni modo si è anche proposto di dare la presidenza dell’Assemblea Nazionale sempre al Presidente della prima Camera, oppure al Presidente della seconda Camera.

PICCIONI nota che l’inconveniente prospettato dall’onorevole Togliatti non si elimina neanche col sistema della Presidenza alternativa, poiché uno dei Presidenti delle Camere sarebbe sottoposto all’altro durante l’anno in cui non presiede l’Assemblea Nazionale.

TOGLIATTI osserva che l’inconveniente maggiore è che il Presidente dell’Assemblea Nazionale sia sottoposto a quello della Camera di cui fa parte.

FABBRI è favorevole al testo della seconda Sottocommissione, perché, a suo avviso, le funzioni del Presidente dell’Assemblea Nazionale, se pur elevate, sono transitorie e, in ogni caso, di brevissima durata. E allora, siccome la presunzione è che tanto il Presidente della prima Camera quanto il Presidente della seconda Camera saranno due degnissime persone, non vede nessun inconveniente nel fatto che vi sia questa alternativa eventuale a favore dell’uno o dell’altro. Il concetto invece che il Presidente dell’Assemblea Nazionale sia membro dell’una o dell’altra Camera, sottoposto quindi alla disciplina di un Presidente in un certo senso inferiore di lui, per un lungo periodo dell’anno, non è, a suo parere, da accettare.

PRESIDENTE ricorda che, nel titolo riguardante il Capo dello Stato, si è stabilito che: «Le funzioni del Presidente della Repubblica sono, in caso di suo impedimento, esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale». Quindi il Presidente dell’Assemblea Nazionale è di fatto un Vicepresidente virtuale e pertanto la designazione deve esser fatta in base a determinati criteri, che non sono quelli della semplice Presidenza delle due Camere. Per eliminare l’inconveniente cui ha accennato l’onorevole Togliatti, si potrebbe stabilire che il Presidente dell’Assemblea Nazionale non fa più parte dell’una o dell’altra Camera.

EINAUDI teme che, con la designazione di un Presidente dell’Assemblea Nazionale, si faccia un passo, per quanto piccolo, verso la costituzione di un terzo corpo che si chiama Assemblea Nazionale e che ha poca ragion d’essere. Già in fase preliminare si sono scartate certe funzioni che si potevano attribuire a questa Assemblea Nazionale, perché con ciò si sarebbero ridotti i due rami del Parlamento a due sezioni di una Camera unica, incrinando così fortemente il sistema bicamerale.

Pensa, inoltre, che la funzione di Vicepresidente o di Presidente interinale della Repubblica non ha una grande importanza. Di solito gli impedimenti sorgono in caso di malattia. Ora, se si tratta di malattie lievi, il Presidente può seguitare ad esplicare le sue funzioni; se sono gravi o mortali, si deciderà sul da farsi.

GRASSI rileva che l’osservazione fatta dal Presidente è d’importanza essenziale, perché occorre stabilire chi possa sostituire il Presidente della Repubblica in caso di impedimenti, che possono essere di varia natura. Non si può, pertanto, lasciare incerta la Vicepresidenza della Repubblica affidandola alternativamente, per la durata di un anno, all’uno o all’altro Presidente delle due Camere.

D’altro canto, il criterio di sceglierlo tra i membri dell’Assemblea porta all’inconveniente cui ha accennato l’onorevole Togliatti: non è possibile, cioè, che il Presidente dell’Assemblea Nazionale diventi un semplice deputato o senatore. Bisogna, dunque, scegliere fra i due Presidenti delle Camere. A suo parere, la scelta dovrebbe cadere sul Presidente della Camera dei Deputati.

FUSCHINI osserva che una proposta simile è stata respinta dalla seconda Sottocommissione.

PRESIDENTE nota che la Commissione dei 75 può decidere diversamente. Mette pertanto in votazione la proposta dell’onorevole Grassi:

«L’Assemblea Nazionale è sempre presieduta dal Presidente della Camera dei Deputati».

FUSCHINI dichiara di votare contro.

(La proposta non è approvata).

PRESIDENTE mette in votazione la proposta che l’Assemblea Nazionale nomini un proprio Presidente.

(Non è approvata).

Rimane quindi il testo della seconda Sottocommissione: «La Presidenza dell’Assemblea Nazionale è affidata, per la durata di un anno, alternativamente, al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente della Camera dei Senatori».

Referendum per l’entrata in vigore o per l’abrogazione di una legge.

 

PRESIDENTE. È ora da esaminare la questione relativa al referendum per l’entrata in vigore o per l’abrogazione di una legge.

L’articolo, proposto dalla seconda Sottocommissione, che il Comitato di redazione ha accolto, per il suo valore sostanziale, è del seguente tenore: «L’entrata in vigore di una legge non dichiarata urgente è sospesa quando, entro quindici giorni dalla sua pubblicazione, cinquantamila elettori o tre Consigli regionali chieggono che sia sottoposta a referendum popolare. Il referendum ha luogo se nei due mesi dalla pubblicazione della legge l’iniziativa per indirlo ottiene l’adesione, complessivamente, di cinquecentomila elettori o di sette Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie, di approvazione del bilancio e di ratifica dei trattati.

«Si procede altresì al referendum se cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali fanno domanda di abrogare una legge che sia in vigore da almeno due anni. Il referendum non è ammesso per le leggi tributarie».

In ordine al caso previsto nel primo comma, l’onorevole Perassi ha proposto di escludere dal referendum anche le leggi approvate con maggioranza di due terzi dei membri di ciascuna Camera. L’onorevole Grassi ha poi proposto di sopprimere il primo comma e di modificare così il secondo: «Si procede a referendum popolare se cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali fanno domanda di abrogare una legge. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie».

GRASSI. Secondo il sistema proposto, ogni legge, anche la più piccola, può essere sospesa finché gli elettori non dicano se accettano o no di sottoporla a referendum. In altri termini, si viene a creare un veto nelle mani del popolo; quel veto che non si è accettato quando si diceva che dovesse essere affidato al Presidente della Repubblica o al monarca, in quanto costituiva un intralcio alla funzione legislativa. Dichiara di essere favorevole al referendum, ma nelle grandi questioni, nei problemi d’eccezione.

Ha pertanto proposto di conservare soltanto il referendum abrogativo, poiché ritiene il referendum preventivo antigiuridico e antidemocratico: si presterebbe all’ostruzionismo di una minoranza che volesse sabotare il potere legislativo e importerebbe una ingente spesa.

TOGLIATTI concorda, nel complesso, con l’opinione espressa dall’onorevole Grassi e dice subito che questo articolo è a favore di un partito che ha due milioni di iscritti, perché potrà sempre sospendere qualsiasi legge, trattandosi di un espediente di organizzazione elementare raccogliere 500.000 firme. Con tale sistema, quindi, un partito fortemente organizzato avrebbe la facoltà praticamente di sospendere la vita di tutte le Assemblee, la vita cioè costituzionale del Paese. Si tratta, infatti, di qualsiasi legge, eccetto il solo bilancio, che si fa poi presto a ridurre ad ordinaria amministrazione, e i trattati. Ritiene però che tale sistema non sia democratico: si passerebbe da una battaglia all’altra, nulla più funzionerebbe. Richiama pertanto l’attenzione dei Commissari sulle sue conseguenze, che metterebbero in forse la stabilità, la continuità e la possibilità stessa legislativa dello Stato repubblicano. Pensa che si debbano almeno imporre limiti ristretti all’attuazione di un tale sistema.

PERASSI, per quanto concerne la proposta dell’onorevole Grassi, osserva che il rilievo che il referendum proposto dalla Sottocommissione dia luogo ad un assurdo teorico, gli pare sia una affermazione un po’ ardita. In fondo, questo sistema di referendum, con qualche mutamento di ordine tecnico, vige in molti Paesi: in Isvizzera, ad esempio, dal 1874. Ora, non risulta che l’esistenza di questo istituto vi abbia compromesso né la stabilità del Governo né, in generale, il funzionamento delle istituzioni dello Stato. Assurdo teorico quindi non c’è.

L’onorevole Togliatti, invece, fa delle riserve non di ordine teorico, ma di ordine pratico e, senza formulare una opposizione di principî all’istituto del referendum, mette in evidenza, sotto l’aspetto del funzionamento pratico, gli inconvenienti a cui, a suo avviso, potrebbe dar luogo, quando vi siano dei partiti che vogliano maneggiare questo strumento con spirito ostruzionistico. Le preoccupazioni dell’onorevole Togliatti gli sembrano in parte fondate ed appunto partendo da analoghe considerazioni egli, pur essendo fondamentalmente favorevole all’introduzione del referendum, ha ritenuto opportuno di proporre una notevole limitazione all’applicabilità del referendum, oltre quelle prevedute dalla Sottocommissione. Secondo le proposte della Sottocommissione, già sono sottratte al referendum le leggi dichiarate urgenti e certe categorie di leggi. Oltre queste limitazioni egli propone di sottrarre al referendum le leggi quando siano state approvate con una maggioranza di almeno due terzi dei membri di ciascuna Camera. Quando una legge è adottata da ciascuna Camera con una maggioranza così elevata, si può fondatamente presumere che essa risponda alle esigenze del Paese, onde una domanda di referendum potrebbe apparire come una manovra ostruzionistica. Con queste limitazioni, ritiene che nella Costituzione l’istituto del referendum facoltativo debba essere accolto come un opportuno e democratico correttivo del regime rappresentativo.

FABBRI ritiene infondate le preoccupazioni degli onorevoli Grassi e Togliatti, in quanto per una grandissima categoria di leggi è sufficiente che il Parlamento, nel momento stesso in cui approva la legge, dichiari a maggioranza normale l’urgenza, perché quella legge sia automaticamente sottratta al referendum. Si può quindi dire che il referendum è ammissibile per tutte le leggi che non siano di carattere tributario, che non siano urgenti, che non siano di approvazione di bilanci e di ratifica trattati. Il referendum si applicherebbe così solo nei confronti di una legge estranea al funzionamento normale dell’economia del Paese che non sia urgente.

Bisogna allora avere il coraggio di guardare il problema in faccia: o si è favorevoli al referendum, ed esso troverà allora la sua ragion d’essere di fronte ad una legge nuova e non urgente; o si è viceversa contrari per teoria, o comunque per tendenza politica, e allora è il caso di dirlo francamente e non permettere che si pongano all’istituto del referendum tali limiti che sia in teoria ammesso, ma praticamente vietato.

La questione delle 500.000 firme non è da prendersi tanto alla leggera, perché costituisce una notevole remora. Dichiara, concludendo, di essere favorevolissimo al referendum, mentre pensa che ulteriori limitazioni ad esso poste equivarrebbero alla esclusione del referendum stesso.

GRASSI ricorda che fin dal 1911 ha scritto un libro sul referendum e ciò prova che non è contrario al principio; ma nella proposta della Sottocommissione il referendum si risolve come veto, mentre il referendum deve essere un appello al popolo per determinate questioni. L’onorevole Fabbri dice che tale diritto di veto è stato mitigato. Ora, vi sono tre specie di referendum: quello costituzionale, per cui tutti sono favorevoli; il referendum per leggi finanziarie, che non è generalmente ammesso, perché si esclude che il popolo possa intervenire in leggi contrarie ai suoi interessi; il referendum politico, che è invece generalmente ammesso. Non può però essere favorevole ad un sistema in base al quale il referendum entrerebbe continuamente nella prassi legislativa normale.

Il caso dell’urgenza citato dall’onorevole Fabbri è, a suo parere, un argomento che si ritorce contro di lui, perché, prima di tutto, non è stabilito se tutte e due le Camere debbano dichiarare l’urgenza, o se sia sufficiente che la dichiari una sola. Molto difficile sarà infatti che tutte e due le Camere si accordino su ciò. Ma basterebbe poi che le Assemblee si mettessero d’accordo nell’indicare l’urgenza per addivenire ad un sistema di cose per cui si verrebbe a sabotare il referendum stesso. Si farebbe, in sostanza, dell’ipocrisia democratica.

FABBRI osserva che l’argomento che il Parlamento può sopprimere di fatto il referendum con dichiarazioni abusive d’urgenza, implica un sospetto contro il Parlamento nella sua funzione legislativa che non può ammettere.

EINAUDI è favorevole al testo del Comitato di redazione. L’osservazione pratica fatta dall’onorevole Togliatti non ha, a suo parere, grande importanza, in quanto che, prima di tutto, il referendum importa ingenti spese e nessun partito vuole sprecare denaro; in secondo luogo crede che nessun partito, grande o piccolo, voglia procurarsi l’odiosità presso gli elettori di disturbarli continuamente per fare un referendum. Solo nelle grandi occasioni, quando vi sia un motivo importante, si chiamano gli elettori a votare.

NOBILE ricorda che in sede di Sottocommissione, ed in linea subordinata, aveva proposto che le leggi che fossero votate a maggioranza assoluta dai membri delle due Camere non potessero essere soggette al referendum.

Giudica, in proposito, eccessivi i due terzi richiesti dall’onorevole Perassi.

Osserva però che la ragione essenziale per la quale è contrario nel complesso all’articolo deriva dal fatto che mentre si prendono tutte le disposizioni per ostacolare in qualche modo la facoltà legislativa delle due Camere, niente si fa per la facoltà legislativa delegata al Governo.

PRESIDENTE avverte che le stesse norme che si applicano per le leggi si riferiscono anche a quelle delegate.

NOBILE. Si può chiedere un referendum per abrogare una legge di delega, ma con ciò non si vengono ad abrogare tutti i provvedimenti già emanati in facoltà della legge di delega.

PRESIDENTE nota che si abroga la legge di delega.

NOBILE mantiene, in ogni caso, la proposta di escludere dal referendum le leggi approvate a maggioranza assoluta dai membri delle due Camere.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Grassi di sopprimere il primo comma relativo al referendum preventivo, e di modificare il secondo comma nel seguente modo:

«Si procede a referendum popolare, se cinquecentomila elettori o sette Consigli regionali fanno domanda di abrogare una legge. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie».

È stata chiesta la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Bocconi, Bozzi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Farini, Finocchiaro Aprile, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Marinaro, Molè, Nobile, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Terracini, Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Bulloni, Cappi, Conti, Corsanego, De Vita, Dominedò, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, La Pira, Leone Giovanni, Mannironi, Moro, Mortati, Perassi, Piccioni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Si astiene: Mastrojanni.

Comunica il risultato della votazione nominale:

Presenti e votanti     48

Voti favorevoli        22

Voti contrari                        25

Astenuti                    1

(La Commissione non approva).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Nobile di escludere dal referendum preventivo le leggi che sono approvate a maggioranza assoluta dei membri delle due Camere.

(La Commissione non approva).

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Perassi di escludere dal referendum preventivo le leggi approvate con maggioranza di due terzi dei membri di ciascuna Camera.

(La Commissione approva).

Potere di amnistia dell’Assemblea nazionale.

PRESIDENTE ricorda che il Comitato di redazione ha proposto la seguente disposizione: «L’amnistia e l’indulto sono deliberati dall’Assemblea nazionale». L’onorevole Leone Giovanni proporrebbe di escludere l’amnistia.

LEONE GIOVANNI ritiene che l’amnistia non risponda più alla struttura attuale dello Stato, in quanto negli ultimi secoli è stata una prerogativa regia e, per conservarla nel regime democratico repubblicano, bisognerebbe studiarne con rigore il fondamento. Pare indiscusso che essa possa avere come fondamento o che la coscienza sociale non reputi più un fatto come reato, o altri motivi particolari, come il desiderio di pacificare gli spiriti, o il desiderio di allentare il peso di numerosi processi. Per quanto attiene alla non corrispondenza di una legge alla coscienza sociale, vi è una formula più diretta, ed è la legge abrogativa. Si abroga una legge penale nel momento in cui sembra non rispondere più alla coscienza sociale. Se si consideri che la legge abrogativa ha effetto abolitivo anche nel campo penale, allora si può adattare la legge alla sopravvenuta visione della coscienza popolare preferendo il sistema più diretto dell’abrogazione della legge penale. Se si tratta di altri fini (quello di allentare il peso dei processi che possono gravare sull’Amministrazione della giustizia in un certo determinato momento), pare che risponda meglio l’istituto dell’indulto.

Inoltre, l’amnistia dal Codice vigente è intesa come una forma di estinzione del reato. Ora, non è corretto stabilire che si possa in un determinato momento, sia pure per legge, togliere carattere di reato ad un fatto che nel momento in cui veniva commesso tale carattere aveva.

Se si segnalano le infinite difficoltà pratiche a cui dà luogo l’amnistia, appare ancora più chiaramente che essa non possa trovare cittadinanza nella Costituzione italiana. Uno dei suoi inconvenienti più gravi è stato visto proprio nella recente ultima amnistia. O l’amnistia si configura dal punto di vista costituzionale come vincolante, e allora potrebbe colpire, come riflesso, anche dei cittadini rispettabili, degli innocenti, i quali non possono rifiutarla; o invece, come nell’ultimo decreto, è configurata come qualche cosa di rinunziabile, di declinabile, e allora si trasforma in un indulto; giacché o l’amnistia è rifiutata, ed allora il rifiuto importa che il cittadino non ne possa più beneficiare, o è accettata, ed allora è appresa dall’opinione pubblica come una forma implicita di accettazione della responsabilità penale.

Sorge, quindi, la inopportunità di mantenere l’amnistia come istituto e l’opportunità di mantenere l’indulto, che costituisce soltanto rinunzia ad eseguire la pena. Come dato storico rileva che anche nello Statuto Albertino l’amnistia non era riconosciuta e si parlava del diritto del Re di fare grazia.

Ritiene che, per queste brevi considerazioni, che nella coscienza di giuristi dei commissari troveranno ampio riscontro, l’istituto dell’amnistia possa essere abolito.

TOGLIATTI rileva che le considerazioni dell’onorevole Leone possono essere teoricamente coerenti ed interessanti, ma le respingerebbe per un motivo politico, perché in Italia si è abituati a ricevere l’amnistia. È un fatto che in Italia, quando si è in carcere, si attende l’amnistia.

È stato detto dall’onorevole Leone che l’amnistia era un attributo della regalità e non si possa passarla alla Repubblica. Veramente l’amnistia era un attributo della sovranità, e se in questo momento fosse tolto alla Repubblica questo attributo, una parte considerevole del popolo penserebbe che la Repubblica vale meno della monarchia. Ricorda che durante la campagna a Napoli contro la Repubblica il motivo dominante era questo: perché volete mandare via il Re? Chi vi dà l’amnistia? Il Presidente della Repubblica non potrà. E si esumava la tradizione che il Re può cancellare la pena in quanto è investito di un diritto divino. Ora, a suo parere, togliere alla Repubblica in questo momento tale attributo di sovranità, sarebbe politicamente un errore e sarebbe pericoloso.

Pensa che le argomentazioni teoriche dell’onorevole Leone potrebbero reggere in un sistema giuridico perfetto, nel quale la pena sia adeguata al reato, che abbia un determinato carattere educativo e non soltanto un carattere punitivo, quando la pena sia applicata con eguale criterio in tutti i periodi della storia dello Stato ed in tutte le Regioni; ma ove si consideri l’attuale legislazione penale e la sua applicazione, appare evidente che l’amnistia debba essere mantenuta. Si pensi che sono previste pene altissime (ergastolo, 30 anni); che, per una quantità di reati le pene non hanno nessun carattere educativo; che le pene anche più piccole lasciano una traccia nella fedina penale e, quindi, nella vita successiva del cittadino. Tutto questo impone che, in un determinato momento, intervenga la misura non soltanto di indulto della pena, ma anche di cancellazione del reato, cioè di ogni conseguenza della condanna per il cittadino. Questa esigenza appare tanto più necessaria in un Paese come l’Italia, dove si è costretti alle volte a prendere misure di carattere punitivo abbastanza severe per ottenere determinati risultati politici o amministrativi. Si pensi alle pene severe per i reati annonari, nei confronti delle quali si impone, dopo alcuni anni, la concessione di un’amnistia in favore di chi abbia scontato abbastanza severamente la pena.

Afferma, concludendo, la necessità di mantenere all’Assemblea Nazionale la facoltà di concedere l’amnistia.

MASTROJANNI rileva che le argomentazioni dell’onorevole Leone non hanno, a suo avviso, fondamento né dal punto di vista politico, né da quello dottrinale. L’onorevole Leone ha lamentato che col mantenimento dell’amnistia si andrebbe incontro a degli inconvenienti, uno dei quali sarebbe che, estinguendosi il reato, questo continua a permanere nella sua identificazione giuridica, tal che si dovrebbe abrogare la figura del reato per essere coerenti con l’essenza dell’amnistia. Pensa che a tale inconveniente si potrebbe ovviare purché si ritornasse al codice Zanardelli, in base al quale l’amnistia non estingueva il reato, ma l’azione penale.

Circa l’altro inconveniente per il quale il condannato deve subire l’amnistia, senza avere la possibilità di ottenere un giudizio, rileva che è eliminato dall’attuale Codice, per il quale non solo il giudice ha l’obbligo di non applicare l’amnistia quando vi sono indizi manifesti che consentono la celebrazione del dibattito, ma il condannato ha la facoltà di ripudiare l’amnistia e di pretendere la celebrazione del dibattito.

È, peraltro, da considerare le due ipotesi dell’amnistia propria e impropria. L’amnistia viene a cadere anche sui reati per i quali è stata scontata la pena e, quindi, il condannato, che l’ha scontata, va restituito nella sua personalità, cancellando il reato. Ora, il condono nella specie non può mai essere totale. Così come diceva l’onorevole Togliatti, si possono avere contingenze durante le quali sia necessario, a scopo preventivo, comminare pene eccessive per reati anche di scarsa importanza. In questo caso, se si dovesse far ricorso soltanto ad un’applicazione del condono, si dovrebbe snaturare la figura del condono con l’eliminare completamente la pena, il che è un assurdo.

Per queste considerazioni è dell’avviso che rimanga il duplice istituto dell’amnistia e dell’indulto.

ROSSI PAOLO osserva che non è del tutto esatto che sia in facoltà dell’imputato rinunciare all’amnistia. Il Codice penale stabilisce soltanto all’articolo 151 che si possa chiedere l’accertamento dei fatti quando le prove sono già raccolte.

L’onorevole Togliatti ha fatto un rilievo di carattere politico, sul quale non consente pienamente. Non tutto quello che è tradizione regia si deve mantenere, perché la Repubblica non abbia minore potere del sovrano. Se si tratta di poteri non utili, la Repubblica vi rinuncia.

Osserva, inoltre, per qualche esperienza in materia, che il criterio per cui è indispensabile talora stabilire pene evidentemente sproporzionate alla violazione di legge che si vuole colpire, non ha un fondamento giuridico. Occorre stabilire pene gravi per un semplice reato annonario, perché si sa che ogni due o tre anni vi sono delle amnistie. Il regime fascista ne ha fatto un abuso enorme. Fra l’ottobre 1922 e l’ultima amnistia fascista, vi sono state ogni due o tre anni delle totali complete sanatorie penali. Nella sua esperienza professionale ricorda il caso di un falsario, tante volte recidivo che era stato condannato complessivamente a 97 anni di reclusione. Ne ha scontati quattro o cinque, perché ogni tanto aveva delle amnistie.

È la certezza della pena, non l’entità di essa che ha qualche effetto impeditivo del reato. Qualora si stabilissero pene modeste per tutti in materia annonaria e si applicassero con sicurezza, non vi sarebbe bisogno di amnistia.

Per queste ragioni è favorevole alla proposta dell’onorevole Leone.

PERASSI osserva che la proposta del Comitato di redazione si fonda sull’esatta premessa che tanto l’amnistia quanto l’indulto sono atti che nel loro contenuto hanno carattere legislativo.

Venendo alle questioni sollevate dall’emendamento Leone, non condivide tutte le osservazioni da lui fatte. Innanzi tutto non gli pare esatto dire che il potere di amnistia sia collegato con la regalità. Che il re esercitasse il potere di amnistia è stata una interpretazione non corretta dello Statuto. Lo Statuto infatti parlava del diritto di grazia, mentre la prassi si è determinata in senso molto estensivo. Del resto, si può ricordare che anche durante la monarchia si è avuto un progetto di legge del ministro Mortara, col quale si disponeva che l’amnistia sarebbe stata concessa con legge. D’altra parte la dimostrazione che non c’è questa connessione con la regalità risulta dal fatto che in tutti i Paesi repubblicani l’amnistia è ammessa. Così nella recente Costituzione francese l’articolo 19 dice: «L’amnistie ne peut être accordée que par une loi». L’amnistia non è esclusa, ma negli ordinamenti repubblicani si stabilisce che questo potere è esercitato, come corrisponde al suo contenuto sostanziale, dal Parlamento, cioè con un atto legislativo.

Per quanto poi concerne la questione dell’opportunità e le altre questioni sollevate, non condivide tutte le osservazioni, come sempre, acute, fatte dall’onorevole Rossi. In fondo più che criticare l’amnistia come istituto egli ha criticato l’abuso dell’amnistia e anche l’abuso del condono. Certo l’amnistia non deve esser fatta ad ogni nascita di principessa. Queste occasioni di amnistia, del resto, non ci saranno più. Inoltre, stabilendo che l’amnistia è concessa da una legge dell’Assemblea Nazionale, si afferma implicitamente che il concederla sarà un atto solenne in relazione ad esigenze particolari. Che si presentino particolari esigenze per concedere un’amnistia non pare che si possa escludere. L’amnistia, e specialmente per reati politici, in certi momenti è utile colpo di spugna nell’interesse della pace sociale.

Concludendo, è d’avviso di non escludere l’amnistia, e di attribuire anche l’indulto alla competenza dell’Assemblea Nazionale.

LEONE GIOVANNI, per quanto concerne i rilievi fatti alla formula proposta dal Comitato di redazione, afferma che, se eventualmente la Commissione la votasse, essa sarebbe la più propria. L’emendamento risponde al suo pensiero, in quanto se si configura il diritto di grazia come un potere del Capo dello Stato, se l’indulto, che è un minus, viene attribuito all’Assemblea Nazionale, ciò di conseguenza importa che l’amnistia, la quale rispetto all’indulto è un majus, non potrebbe spettare ad una soltanto delle Camere.

Rileva che le osservazioni dell’onorevole Togliatti concernono più l’istituto dell’indulto che l’amnistia. L’attesa di molti detenuti di ottenere la libertà; la necessità in Italia di provvedimenti in quanto la legislazione penale può apparire aberrante in tema di misure di pene; la necessità che la condanna non risulti sul certificato del casellario giudiziario; sono esigenze sodisfatte dall’indulto che, estinguendo la pena, restituisce la libertà, ristabilisce le proporzioni delle pene aberranti; e, per quanto attiene alla non iscrizione nel casellario, anche in caso di condanna non si può dimenticare che il giudice può stabilire la non iscrizione.

Non esiste un motivo politico in contrasto alla sua proposta, perché nel trapasso da una forma monarchica a quella repubblicana nulla vieta di restringere l’ambito dei poteri. Si tratta di sfrondare un istituto che non risponde più al sistema della legge, né alla coscienza civile.

Circa le osservazioni dell’onorevole Mastrojanni, rileva che non è necessario ricorrere all’amnistia per avere l’estinzione dell’azione penale. La legge penale abrogativa incide sul passato, fa cessare la condanna e i suoi effetti, compresa l’iscrizione nel casellario giudiziario. Questi stessi effetti si ottengono con l’indulto, che può essere totale. L’amnistia invece è un istituto antistorico, che ritiene vada cancellato dalla Costituzione.

MOLÈ dichiara che voterà contro l’emendamento dell’onorevole Leone. La legge stabilisce che è reato qualunque violazione della legge penale. Ne risulta che in determinati momenti della vita politica sono dichiarati reati punibili a norma della legge penale anche fatti che non hanno ordinariamente gli elementi del reato. E allora, trascorso lo speciale momento politico che può aver fatto dichiarare reati quelli che sostanzialmente non lo sono, sorge l’opportunità di tornare alla concezione ordinaria. Non si può togliere all’Assemblea Nazionale la facoltà di cancellare completamente le conseguenze di tale concezione politica dei reati.

Il fatto che si sia abusato dell’amnistia non deve condurre ad abolirla. Essendo l’amnistia una facoltà dell’Assemblea sovrana, si cercherà di evitare l’abuso fattone finora, ma non si può dimenticare che si tratta di un mezzo di pacificazione sociale, assolutamente necessario in determinati momenti.

BULLONI voterà contro la proposta dell’onorevole Leone, in quanto ammette e desidera che si costituisca una Repubblica umana e tollerante, che abbia la forza di perdonare incondizionatamente ai suoi eventuali avversari. Ritiene così di richiamarsi alle ragioni dottrinarie e storiche che giustificano l’istituto dell’amnistia.

NOBILE dichiara che voterà contro l’emendamento Leone, perché, pur non essendo giurista, vorrebbe che tutta la questione fosse considerata da un punto di vista più alto, in rapporto alle misure che sono da prendere per la difesa della società e per la rieducazione del delinquente. Una volta che il delinquente fosse rieducato, dovrebbe essere completamente dimenticato il suo passato. Da questo punto di vista molto generale l’amnistia dovrebbe essere concessa ad ogni condannato.

DOMINEDÒ dichiara di votare a favore dell’emendamento Leone per ragioni di stretto diritto, ritenendo che la proposta Leone non apra la via ad alcuna preoccupazione politica. Al rilievo dell’onorevole Molè, che è calzante e può esercitare una certa presa, si potrebbe replicare considerando che la legge penale abrogativa potrebbe risolvere l’inconveniente prospettato.

DE VITA si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Molè e vota contro l’emendamento proposto.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Leone.

(La Commissione non approva).

Voto di fiducia dell’Assemblea nazionale al Governo.

 

PRESIDENTE. Occorre anche esaminare la questione del voto di fiducia al Governo. L’articolo proposto dal Comitato di redazione è così formulato:

«Primo Ministro e ministri debbono avere la fiducia del Parlamento. Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta all’Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia. La fiducia è accordata su mozione motivata, con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei membri dell’Assemblea».

È stato proposto da alcuni in seno al Comitato di redazione che, in luogo dell’Assemblea Nazionale, si pronuncino sulla fiducia o sulla sfiducia le due Camere distintamente.

MORTATI osserva che la questione attiene ad uno dei capisaldi del sistema dei rapporti tra Parlamento e Governo. In ogni caso, è collegata ad una successiva disposizione, da esaminare congiuntamente, nella quale si disciplina la questione della sfiducia.

PRESIDENTE, per quanto le due questioni siano diverse, osserva che, poiché nessuno insiste sulla proposta di emendamento, essa si intende ritirata.

La seduta termina alle 19.45.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Froggio, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lussu, Mancini, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

Erano assenti: Basso, Bordon, Cannizzo, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Di Vittorio, Giua, Lucifero, Marchesi, Merlin Lina, Merlin Umberto, Paratore, Pesenti, Porzio.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

23.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Elezione della Camera dei Senatori

Presidente – Nobile – Fuschini – Laconi – Perassi – Einaudi – Mastrojanni – Grassi – Mortati – Lussu – Ambrosini – Lami Starnuti – Tosato – Terracini.

La seduta comincia alle 10.

Elezione della Camera dei Senatori.

PRESIDENTE pensa che, impostata nelle sedute precedenti la discussione sulla elezione dei senatori, sia opportuno esaminare le varie proposte.

La proposta della seconda Sottocommissione – confermata dal Comitato di redazione – è che la Camera dei Senatori sia eletta per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi dai consiglieri comunali della Regione.

Un primo gruppo di emendamenti a questa proposta, accettando il criterio della elezione dei due terzi da parte dei consiglieri comunali, tende a eliminare, con accorgimenti pratici, lo squilibrio che si verrebbe a creare fra i Comuni per la differenza di popolazione.

Sono stati proposti, pertanto, alcuni criteri di graduazione: l’onorevole Fuschini ha proposto di dividere i Comuni in due gruppi al disotto e al di sopra di diecimila abitanti; l’onorevole Ambrosini ha fissato questo limite in trentamila abitanti; gli onorevoli Tosato, Piccioni e Fuschini hanno proposto la divisione dei Comuni in tre gruppi: con popolazione inferiore a cinquemila abitanti; con popolazione superiore ai cinquemila e inferiore ai trentamila; con popolazione superiore ai trentamila.

Un secondo gruppo di emendamenti si basa sul suffragio universale diretto: secondo la proposta dell’onorevole Nobile, limitatamente agli elettori che abbiano compiuto i 25 anni; secondo la proposta dell’onorevole Mortati, i senatori sarebbero eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale, per un terzo dai consiglieri comunali della Regione e per un terzo dagli appartenenti ad alcune categorie economiche.

Un terzo gruppo di emendamenti si basa sul suffragio universale indiretto: l’onorevole Laconi si richiama al sistema dei grandi elettori attuato nella Costituzione francese; l’onorevole Perassi propone di procedere all’elezione dei senatori per un terzo da parte dei Consigli regionali e per due terzi da parte di delegati eletti a suffragio universale dai Comuni di ciascun mandamento, in proporzione degli abitanti.

Sarà opportuno che i sostenitori delle varie proposte le illustrino.

NOBILE osserva che il sistema proposto per la elezione della seconda Camera da parte dei consiglieri comunali, in qualunque forma si attui, presenta gravi inconvenienti.

Nel caso di scioglimento della seconda Camera, siccome gli elettori sono sempre gli stessi, si avrebbe come risultato un’Assemblea composta degli stessi gruppi politici e nelle stesse proporzioni. Questo è tanto più vero, in quanto i consiglieri comunali saranno, in massima parte, uomini di partito; mentre col sistema del suffragio universale diretto la massa di elettori non appartiene ad alcun partito e può perciò spostarsi da una corrente all’altra.

In quanto al sistema che si basa sul suffragio universale indiretto e porta ad una elezione di secondo grado, obietta che, per economia e semplicità, tanto vale procedere alla elezione diretta. Questa fase intermedia, in fondo, non ha una ragione molto valida per essere sostenuta. Si potrebbe obiettare che i delegati, che sono nominati a suffragio universale, appartenendo a vari partiti, potranno forse scegliere meglio, secondo criteri di partito, i membri della seconda Camera. Ma questo forse potrebbe essere non desiderabile, in quanto la massa di elettori che non appartiene a nessun partito potrebbe desiderare di concentrare i propri voti su una piuttosto che su un’altra persona, anche se appartenente al medesimo partito. Questo indurrebbe a prevedere come caso più semplice il suffragio universale diretto.

D’altra parte, poiché non si vuole che la seconda Camera sia un duplicato della prima, bisogna pur differenziare il corpo elettorale. Il criterio più semplice di differenziazione è quello dell’età. Visto che è stato già ammesso che i membri della seconda Camera debbano essere più anziani di quelli della prima, sorge spontanea l’idea di adottare il medesimo criterio per il corpo elettorale. In questa maniera vi sarà anche una certa armonia fra gli eletti e il corpo elettorale, che però verrà alquanto a restringersi. La sua proposta fisserebbe a 25 anni compiuti il limite di età degli elettori. Per farsi un’idea approssimata di quanto si restringe il corpo elettorale, si tenga presente che, in media per ogni anno, tra i 19 ed i 25, esso si ridurrebbe mediamente di seicentomila elettori.

FUSCHINI rileva che il problema della elezione della Camera di Senatori non è stato dibattuto in Italia, in quanto non si è mai avuta una seconda Camera elettiva. Comunque bisogna innanzi tutto tener presente che la seconda Camera non potrebbe mai esercitare una utile funzione se dovesse identificarsi per la sua origine e per il modo dell’elezione alla prima. Quindi il problema fondamentale è quello di trovare un sistema diverso di quello adottato per la prima Camera, nei confronti della quale si è ammesso il principio del suffragio universale diretto e della eleggibilità indiscriminata, in quanto tutti – salvo le limitazioni di legge – possono diventare deputati. Non è stato precisato un determinato sistema elettorale, perché non s’è ritenuto di cristallizzare un tale argomento nella Carta costituzionale: però la seconda Sottocommissione a maggioranza ha adottato un ordine del giorno che si dichiara favorevole al sistema proporzionale.

Circa la seconda Camera ritiene che debba fondarsi sul suffragio universale, fonte necessaria ed indispensabile, a suo parere, di ogni autorità che possa venire al Parlamento. Il suffragio universale è utilizzato per la prima Camera in modo diretto, cioè non vi sono interferenze, in quanto è l’elettore che nomina il deputato. Pensa che non si possa adottare lo stesso sistema per la seconda Camera, ma che si debba invece utilizzarlo in maniera indiretta, vale a dire non sia l’elettore che nomini il senatore, ma l’elettore che nomini determinati cittadini, incaricati di provvedere essi alla nomina del senatore.

Ha sostenuto nella seconda Sottocommissione che potrebbero essere delegati a questa funzione i consiglieri comunali, in quanto essi hanno la loro origine nel suffragio universale e costituiscono una prima scelta, da parte dell’elettore, di uomini che sono chiamati a dirigere le amministrazioni locali, le quali si è ritenuto che abbiano il diritto di essere considerate come uno degli elementi fondamentali della nuova struttura dello Stato. Infatti tutto il problema delle autonomie comunali è stato, nella Costituzione, enormemente valorizzato, soprattutto perché dalle autonomie comunali si è risalito a quella che, a suo parere, è la vera rivoluzione della nuova struttura statale, cioè alle autonomie regionali, dando ad esse un contenuto di carattere politico, giuridico e legislativo.

Si è, pertanto, ritenuto che la seconda Camera debba avere un carattere preminentemente rappresentativo di queste forze locali, che avrebbero portato una espressione più concreta di interessi, per modo che la seconda Camera rappresentasse una integrazione della prima. Ne consegue che i Consigli regionali e i Consigli comunali avrebbero avuto un diritto preminente per la nomina dei senatori.

Ora, dato che si è stabilito che ogni Regione debba avere un numero fisso di cinque senatori, pensa che tale numero possa essere eletto dai Consigli regionali. Gli altri senatori sarebbero eletti dai consiglieri comunali, in rapporto alla popolazione di ogni singola Regione (un senatore per 200 mila abitanti o per frazione superiore a 100 mila). Qui sorge una difficoltà di carattere pratico, insita nella differenza che esiste fra i Comuni in rapporto alla loro popolazione. Come è noto, i Comuni sono divisi in 7 categorie, ed a seconda delle categorie cui appartengono hanno un diverso numero di consiglieri, con un minimo di 15 consiglieri per i Comuni che hanno una popolazione anche al di sotto dei mille abitanti. In base a questo criterio si viene a determinare un inconveniente d’ordine pratico. Roma, ad esempio, con un milione e mezzo di abitanti, ha 80 consiglieri e potrebbe eleggere soltanto sei o sette senatori, mentre quattro Comuni di terzo grado, con una popolazione che va dai 10 ai 20.000 abitanti, messi insieme, hanno 80 consiglieri e vengono ad avere, nella elezione dei senatori, una preminenza su Roma che ha una popolazione di gran lunga superiore.

Ora, se la distribuzione dei Comuni nelle loro categorie fosse all’incirca uniforme, si potrebbe arrivare a un certo equilibrio, considerando una compensazione fra difetto e eccesso nei confronti di determinate Regioni; ma esaminando i Comuni nel loro complesso, si constata che nell’Italia settentrionale vi è prevalenza di piccoli Comuni, i quali avrebbero diritto di eleggere molti delegati per la nomina dei senatori, mentre nell’Italia meridionale abbondano i grossi Comuni rurali, i quali verrebbero a trovarsi in condizioni di inferiorità, perché avrebbero minor numero di consiglieri comunali e quindi meno possibilità di scelta dei senatori.

L’onorevole Laconi ha proposto una formula che, in via di massima, potrebbe anche essere accettata; ma si tratta di vedere come il suffragio universale indiretto, che egli ha proposto, possa essere attuato, poiché rimetterne le modalità alla legge elettorale significa non dare alcuna direttiva.

L’onorevole Perassi ha proposto che i delegati siano eletti dai Comuni di ciascun mandamento; ma qui sorgono le stesse difficoltà che per i consiglieri comunali, non avendo i mandamenti una popolazione uniforme.

È inoltre da considerare che dovendosi, a suo parere, applicarsi il sistema proporzionale, il mandamento appare come una circoscrizione troppo ristretta perché il sistema proporzionale possa efficacemente attuarsi.

Mantenendo fermo il concetto che per la elezione dei senatori il suffragio universale debba essere applicato attraverso i consiglieri comunali, pensa che lo squilibrio fra i Consigli comunali relativamente al numero degli abitanti possa essere corretto integrandoli con altri delegati in rapporto alla popolazione. Propone, pertanto, la seguente formula:

«I senatori sono eletti dai collegi regionali a suffragio universale diretto, mediante i Consigli comunali integrati da altri delegati in rapporto alla popolazione».

Riconosce che sorge per i delegati l’obiezione che si tratta di una nomina di terzo grado; ma non vede altra maniera per superare le difficoltà che ha prospettato.

LACONI ricorda che fin dal primo momento si è dichiarato favorevole a che la seconda Camera, come la prima, fosse eletta attraverso il suffragio universale. Si obietta che con tale soluzione non si verrebbe a differenziare la prima dalla seconda Camera, ma pensa che la differenziazione si debba cercare nel criterio che gli eleggibili alla seconda Camera siano scelti tra determinate categorie, in modo da rispondere a determinate condizioni ed esigenze.

Comunque, per giungere ad un terreno di intesa con altre correnti che rappresentano pure fondate esigenze, e per superare le difficoltà inerenti alle altre soluzioni e alle quali ha accennato l’onorevole Fuschini, ha proposto che la seconda Camera sia eletta da collegi regionali a suffragio universale indiretto, secondo le modalità stabilite dalla legge.

La prima difficoltà che si è prospettata alla soluzione che era la più semplice, di fare eleggere i senatori direttamente dai Consigli regionali, è stata la ristrettezza estrema del collegio. Si è quindi affacciata la soluzione mista: elezione da parte delle Regioni e dei Comuni. Pensa che a tale soluzione ostino almeno tre difficoltà fondamentali. La prima riguarda il numero dei consiglieri dei diversi Comuni che non è proporzionale al numero degli elettori e, per quanto si ricorra a qualche espediente, non si giungerà mai a superare un inconveniente così grave. L’onorevole Perassi, in sede di seconda Sottocommissione, ha prospettate statistiche decisive al riguardo. La conseguenza di questa diversità di rapporto tra Comune e Comune non ha un carattere puramente statistico, ma si traduce in un danno concreto e reale, perché non si premiano soltanto in un modo così deciso i piccolissimi Comuni nei confronti dei piccoli, i piccoli Comuni nei confronti dei medi ed i grandi nei confronti dei massimi, ma si premiano anche determinate categorie di popolazioni in confronto di altre; si premiano cioè i contadini dei centri più piccoli, che sono meno progrediti dei ceti medi urbani, degli operai che abitano nelle grandi città.

Ora non è che si vogliano premiare i ceti medi urbani e gli operai in confronto di altri ceti, ma non si vuole nemmeno che accada il contrario; si vuole, in sostanza, che ogni cittadino pesi per quello che conta nella vita nazionale e non che vi siano abitanti di piccoli centri che peseranno cinque in confronto degli abitanti di una grande città che peseranno uno, oppure mezzo. Ciò sarebbe un assurdo, tanto più che si è stabilito in sede di Sottocommissione che le Regioni più piccole del Mezzogiorno avranno un premio attraverso un numero fisso di senatori, premio che giova unicamente alle Regioni piccole e torna a svantaggio delle Regioni industriali più grandi.

Indubbiamente questa sproporzione verrebbe a ripercuotersi su tutto lo schieramento politico, cosa che, a suo parere, torna a danno della democrazia e della unità nazionale che si tende a stabilire.

La seconda difficoltà consiste nel fatto che in grandissima parte dei Comuni non si ha una rappresentanza proporzionale, bensì maggioritaria; né si può contare in compensazioni, che costituiscono un dato incerto.

L’ultima difficoltà, non meno importante delle altre, consiste nel fatto che i consiglieri comunali non hanno un mandato politico, ma amministrativo; sono cioè scelti dal popolo in base a determinati criteri e non si comprende per quale ragione ad un certo momento tali criteri debbano cambiare e gli uomini che hanno avuto un particolare mandato di fiducia debbano essere investiti di un mandato diverso.

Per queste ragioni ritiene che la proposta dell’onorevole Fuschini non possa essere accettata; ma è indubbio che essa ha un fondamento reale e traduce l’esigenza di fare in modo che la seconda Camera abbia caratteristiche e rappresenti interessi che la differenzino dalla prima.

Ora è da chiedersi se unicamente i membri dei Consigli regionali e comunali siano qualificati per rappresentare tali interessi. Pensa di no, ed è convinto che quegli interessi possano essere validamente rappresentati soltanto se la scelta degli uomini avvenga con un determinato criterio o attraverso un collegio che raggruppi cittadini di una determinata Regione.

Pertanto ha proposto che la seconda Camera sia eletta da collegi regionali a suffragio universale indiretto, secondo le modalità stabilite dalla legge.

L’onorevole Fuschini ha osservato che non si precisa nella proposta quale sistema si seguirà nelle elezioni; ma precisa che tale materia non debba essere contenuta nella Costituzione.

Quanto all’ultima proposta dell’onorevole Fuschini, osserva che si tratta di un meccanismo complicato per cui i consiglieri comunali, oltre che eleggere direttamente i senatori, dovrebbero eleggere dei delegati, che a loro volta eleggerebbero i senatori.

Si potrebbe pensare ad un voto differenziato da parte dei consiglieri comunali, in modo che ciascun consigliere comunale votasse per quel tanto di elettori che rappresenta; ma anche con questa soluzione non verrebbero superate le maggiori difficoltà cui ha accennato, soprattutto in rapporto alla maggioranza e alla minoranza, per cui verrebbero falsati i rapporti reali dello schieramento politico.

PERASSI desidera anzitutto associarsi a quanto ha rilevato molto opportunamente l’onorevole Laconi in una parte del suo discorso, ossia che esiste un concetto sul quale si è tutti d’accordo, cioè che la seconda Camera sia l’espressione di interessi regionali. Questa constatazione è molto importante, perché permette di considerare il problema ormai soltanto dal punto di vista dell’attuazione tecnica di questo concetto.

Ricorda che la Sottocommissione aveva adottato, nella seduta del 16 ottobre, il criterio di distinguere l’elezione dei membri della seconda Camera in due gruppi: un gruppo da eleggersi dal Consiglio regionale e un gruppo da eleggersi in altro modo. Per quanto concerne il primo gruppo, la Commissione aveva stabilito di fissarlo in un terzo del numero dei senatori assegnato a ciascuna Regione. In una proposta accennata dall’onorevole Fuschini, si vorrebbe invece ritoccare questo punto, nel senso di attribuire al Consiglio regionale l’elezione di metà oppure del numero fisso (5) di senatori di ciascuna Regione. Non crede che sia opportuno rimettere in discussione questo problema, e in particolare ritiene che sostituire al terzo il numero fisso possa dar luogo a qualche difficoltà, tenendo presente che si è adottato, su proposta dell’onorevole Lussu, una disposizione secondo la quale nessuna Regione può avere un numero di senatori maggiore di quello dei deputati che manda alla prima Camera. Ora, può darsi che in qualche Regione il numero fisso dei senatori ad essa assegnato sia tale da eguagliare il numero dei deputati. Per conseguenza, in quell’ipotesi si avrebbe che l’elezione di tutti i senatori della Regione sarebbe riservata al Consiglio regionale, e nessun altro sarebbe eletto in altro modo. Questo sembra un inconveniente da eliminare. Perciò conviene mantener fermo il concetto che il Consiglio regionale di ciascuna Regione elegga soltanto un terzo del gruppo; il restante è da eleggersi in altro modo.

In quale altro modo? Su questo punto la Sottocommissione, dopo amplissima discussione, era arrivata ad adottare il concetto del suffragio indiretto. Posto questo, si è entrati nella via della ricerca del mezzo tecnico da seguire per attuare quest’idea. E qui appare la proposta di attribuire l’elezione ai consiglieri comunali. Non ritiene il caso di riprendere la discussione sulla formula che utilizzava i consiglieri comunali come elettori dei due terzi dei senatori. Ha cercato di dimostrare, sia in sede di Sottocomitato, sia in sede di Sottocommissione, quali difficoltà estremamente gravi vi sono per attuare questo meccanismo. Le statistiche dimostrano che quali che siano gli espedienti che si vogliano escogitare, gli inconvenienti rilevati restano, a prescindere da altri che sono inerenti al sistema e che sono già stati ampiamente illustrati, specialmente dagli onorevoli Laconi e Nobile.

Abbandonata l’idea d’utilizzare i consiglieri comunali e considerando un po’ difficile l’attuazione di un’idea da ultimo accennata dall’onorevole Fuschini, di aggiungere ai consiglieri comunali altri delegati, eletti non si sa esattamente come, resta il principio dell’elezione a suffragio indiretto. In quale altro modo si può attuare? La proposta dell’onorevole Laconi, a questo riguardo, si limita ad affermare il principio che questi senatori siano eletti a suffragio universale indiretto secondo le modalità stabilite dalla legge.

Ora, l’emendamento che egli ha presentato non fa se non andare un po’ innanzi rispetto a questa proposta, nel senso di precisarla in qualche modo e in certi limiti. In una prima proposta si era accennata l’idea di far funzionare come collegi di primo grado, per la prima elezione, i corpi elettorali dei singoli Comuni. Le obiezioni che erano stato sollevate non erano insuperabili; in particolare si era rilevato che con questo sistema si rendeva un po’ difficile la piena attuazione della proporzionale nelle elezioni di primo grado. In parte questa obiezione poteva avere fondamento, quantunque poi per la grande massa dei Comuni si rendeva invece possibile applicare la proporzionale. Comunque, per superare anche qualsiasi preoccupazione circa l’applicazione in pieno della proporzionale, ha modificato il suo primo emendamento nel senso di allargare il collegio base: da comunale a mandamentale. Attualmente, il mandamento è solo una circoscrizione giudiziaria; ma nulla vieta di utilizzare una circoscrizione che esiste per altri effetti, anche ai fini elettorali. Del resto ricorda che, durante la legislazione anteriore a quella fascista, l’elezione dei consiglieri provinciali avveniva precisamente sulla base del collegio mandamentale.

Il mandamento è una circoscrizione costituita da un Comune di una certa importanza, intorno al quale gravita un gruppo di altri Comuni. Secondo i dati risultanti da pubblicazioni ufficiali, i mandamenti, ossia le preture, nel 1940 erano 986, ed i Comuni erano allora 7646; quindi, grosso modo, ogni mandamento in media raccoglie dai sette agli otto Comuni con una popolazione, in media, intorno ai 40-42 mila cittadini. Si ha, così, una circoscrizione di primo grado che corrisponde ad un aggruppamento di Comuni che hanno certi rapporti fra loro di ordine economico, ecc.; ed è una circoscrizione elettorale abbastanza ampia per applicare, se si vuole, in pieno la proporzionale, nel senso che gli elettori che devono eleggere i delegati ai fini delle elezioni senatoriali possono essere chiamati ad eleggerli con applicazione rigorosa del principio della proporzionale.

Nell’emendamento proposto vi è, poi, l’altra idea, che risponde al concetto di far sì che la seconda Camera rifletta le Regioni come sono, nella loro struttura e nella varietà dei suoi Comuni. Questa idea di avere qualche riguardo anche ai Comuni appare nell’inciso, nel quale si dice che gli elettori di ciascun mandamento, quando sono chiamati ad eleggere i delegati che formeranno il collegio di secondo grado, devono scegliere questi grandi elettori fra gli elettori iscritti nei Comuni del mandamento. Tale disposizione sembra opportuna per far sì che veramente il collegio di secondo grado, che sarà chiamato a fare l’elezione dei senatori, sia una fotografia esatta della varietà della Regione.

Fissati questi principî – cioè il concetto della base mandamentale; il concetto dell’elezione dei delegati in proporzione degli abitanti; il concetto della scelta dei grandi elettori fra gli elettori dei Comuni del mandamento – tutto il resto sarebbe rinviato alla legge elettorale, così come è nella proposta Laconi, e così come, del resto si è stabilito per quanto concerne la Camera dei Deputati, per la quale la Costituzione si limiterebbe a dire che essa è eletta a suffragio universale, lasciando alla legge elettorale la facoltà di adottare i sistemi che si riterranno più convenienti. La legge elettorale per il Senato, fermi restando i detti concetti, avrebbe una certa libertà, soprattutto nel disciplinare il funzionamento del collegio di secondo grado. Le soluzioni possibili sono varie: si può concepire un collegio di secondo grado unico per tutta la Regione; si possono concepire vari collegi elettorali. Tutto questo resta impregiudicato ed è rimesso alla legge elettorale.

Si potrà eventualmente raccomandare, anche in sede di Commissione, che nell’elaborazione delle leggi elettorali per la prima e la seconda Camera la scelta dei procedimenti da adottarsi per l’una e per l’altra si ispiri al principio della differenziazione fra le due Camere.

Conclude raccomandando l’adozione della formula proposta che parte da principî generalmente ammessi e che arriva ad indicare criteri di applicazione che sembra possano ovviare agli inconvenienti che sono inerenti ad altre proposte.

EINAUDI riconosce di trovarsi in una condizione diversa da quella di coloro che hanno sino ad ora parlato ed anche, crede, dell’opinione dominante, giacché la premessa da cui quasi tutti sono partiti si basa sulla efficacia del sistema proporzionale, da cui discendono certe conseguenze. Ricorda che alla Consulta parlò contro il sistema proporzionale; ma i fautori di esso obiettarono che le critiche alla proporzionale potevano essere valide nel caso di elezioni a Parlamenti ordinari, mentre trattandosi della Costituente, in cui dovevano essere rappresentate tutte le correnti politiche, esse cadevano. Se ne sarebbe, in ogni caso, riparlato dopo la Costituente. Qui invece si ripete la solita storia del tempo della Rivoluzione francese: coloro, cioè, che hanno raggiunto una certa posizione, conservano l’indulgenza verso il sistema che li ha mandati al Parlamento.

Crede che un sistema elettorale, nella specie quello per la seconda Camera, sarà tanto più utile al buon governo del Paese quanto più si allontanerà dalla preponderanza delle macchine elettorali: in Italia si chiamano partiti, ma è persuaso che un giorno saranno chiamate macchine, come le chiamano all’estero. Le macchine servono, nel sistema proporzionale, ad aumentare il numero di se stesse ed a far sì che al Parlamento arrivino molti partiti e sia difficile costituire un vero e proprio Governo. Fra questi sistemi della macchina, uno dei preferiti è quello dei delegati. L’esperienza dimostra che tale sistema non conduce a niente di reale, perché i delegati ricevono un mandato e agiscono in conformità. Preferibile, se mai, sarebbe far ricorso ai consiglieri comunali, in quanto questi sono scelti per amministrare il Comune e non sono, per così dire, delle buche postali, ma possono avere una propria volontà. L’onorevole Laconi ha osservato che con questo sistema sarebbero avvantaggiati i piccoli Comuni, i quali rappresentano ceti contadini; ma appunto perché questi ceti hanno maggiore aderenza al luogo dove sono nati, la loro preponderanza è, a suo parere, consigliabile. Sono, infatti, da preferirsi quelli che sono vissuti di padre in figlio nei loro Comuni a coloro i quali, trasferitisi nelle città, ne penetreranno la psicologia e ne conosceranno i bisogni solo dopo molti anni.

Certo la preponderanza dei rappresentanti dei piccoli Comuni su quelli dei grandi èutile, ma non si deve naturalmente esagerare. Forse, come compromesso, si potrebbe aumentare e diminuire proporzionatamente il peso dei consiglieri dei piccoli Comuni, così da raggiungere un certo equilibrio. In via subordinata, qualora la Commissione non accettasse questo criterio, accetterebbe la proposta dell’onorevole Nobile, per cui l’elezione dei senatori dovrebbe avvenire a suffragio universale diretto, da parte di cittadini i quali abbiano, relativamente agli elettori della Camera dei Deputati, una maggiore età: per esempio 26 anni, mantenendo così, in certo modo, il rapporto di età che passa fra gli eleggibili all’una e all’altra Camera.

Solleva dei dubbi circa il sistema mandamentale, che non è naturale. L’onorevole Perassi ci ha data la classificazione dei Comuni per la nomina dei delegati, a seconda degli abitanti. In tal modo si vengono a confondere i Comuni grandi coi piccoli, le popolazioni cittadine con quelle rurali. Quello che è naturale invece è il collegio elettorale vecchio, quello che l’ingegnere Olivetti, in un suo libro che già ha avuto occasione di citare, chiama «comunità». Vi sono cioè dei paesi piccoli e grossi intorno ai quali, per necessità di lavoro, per necessità di industria, perché vi ha sede il tribunale, perché costituiscono un nodo ferroviario, si concentra la vita economica ed intellettuale della circostante piccola Regione. Tali città sono anche sovente sedi di liceo e qualche volta di Università. Quale fautore del collegio uninominale, troverebbe giusto e logico che i membri della seconda Camera fossero eletti da parte di tali collegi naturali.

MASTROJANNI, ammesso il presupposto che la Camera dei Deputati debba essere integrata da una seconda che rappresenti, a differenza della prima, gli interessi concreti industriali agricoli, in modo da contemperare le esigenze di natura strettamente politica con criteri di carattere amministrativo, economico, industriale, ecc., non si rende conto come ciò si possa ottenere adottando l’uno o l’altro dei sistemi elettorali.

Comprende che la seconda Camera debba essere scelta fra categorie determinate, le quali rappresentino tendenze e interessi democraticamente rappresentati, ma non comprende perché le elezioni debbano avvenire in modo indiretto. È peraltro da considerare, anche dal punto di vista della spesa, il complesso sistema di operazioni che si dovrebbero svolgere per convocare tutti gli elettori al solo scopo di eleggere una aliquota assai esigua, la quale non avrebbe altro mandato che eleggere i senatori. Dichiara, quindi, di essere favorevole al suffragio universale diretto, che ritiene il sistema più democratico per la elezione dei senatori.

GRASSI pensa che si possa accettare il principio che ciascuna Regione elegga un numero fisso di cinque senatori e inoltre un senatore per 200 mila abitanti o per frazione superiore ai centomila abitanti.

I sistemi per attuare tale principio potrebbero essere due: affidare la scelta dei senatori ai consiglieri comunali della Regione, sia pure integrati con altri elementi; affidarla ad elettori di primo o secondo grado.

Dichiara di non essere favorevole alla nomina attraverso i consiglieri comunali, oltre che per le ragioni esposte dagli onorevoli Perassi e Laconi, perché ritiene che la seconda Camera debba essere l’espressione del Paese nel momento in cui si fa l’appello al popolo, e non può essere scelta da consiglieri comunali eletti due o tre anni prima.

Manifesta, invece, la sua preferenza per l’elezione di secondo grado, in quanto elementi già scelti dal popolo possono, con maggiore ponderazione, giudicare sulla capacità tecnica e sulle doti morali delle persone da mandare alla seconda Camera.

Resta il problema se il collegio debba essere unico, oppure se debba essere diviso in mandamenti, secondo la proposta dell’onorevole Perassi. In via di massima sarebbe favorevole a quest’ultima proposta.

Rinvierebbe tutte le altre questioni alla legge elettorale.

MORTATI dichiara di parlare quale proponente di uno degli emendamenti al progetto predisposto a mezzo del Comitato di coordinamento. Ritiene opportuno ricordare brevemente attraverso quali vicende si giunse, nella seconda Sottocommissione, a discutere dei concetti che informano l’emendamento che intende illustrare.

L’orientamento generale per la determinazione dei modi di formazione della seconda Camera fu consacrato in un ordine del giorno votato dalla Sottocommissione predetta, a maggioranza, secondo cui tale formazione avrebbe dovuto essere ricollegata alle forze vive del Paese. Si voleva, da parte dei proponenti dell’ordine del giorno approvato, riferirsi con questa espressione a tutti gli organismi, sia territoriali, sia economici e professionali, nei quali si articola e si snoda tutta la vita della nazione.

L’opinione successivamente prevalsa limitò ai soli enti regionali il collegamento che si intendeva operare con i corpi sociali. Ora questa limitazione non sembra opportuna, perché il ricorso, nel seno delle singole Regioni, ad una rappresentanza ripartita secondo le attività esercitate appare assai utile a differenziare le due Camere seguendo un criterio d’integrazione della rappresentanza politica.

Tale integrazione potrebbe esercitare utili effetti tanto da un punto di vista generale di utilità nazionale, quanto da un punto di vista di interesse regionale. Sotto il primo aspetto il collegare la rappresentanza politica con grandi categorie di interessi economici, professionali, culturali presenta un duplice vantaggio: un vantaggio di carattere funzionale, perché, assicurando alla seconda Camera un numero fisso di persone particolarmente competenti nei singoli problemi attinenti ai vari gruppi di interessi, si potrebbe rendere possibile un più efficiente contributo del Parlamento alla elaborazione di leggi, le quali vanno diventando sempre più tecniche con l’estendersi dell’azione dello Stato al campo economico-sociale. Inoltre, un vantaggio più particolarmente politico nel senso di costringere queste forze economiche e professionali, le quali attualmente esplicano, sotto l’apparenza di una tutela di interessi di classe, una vera e talvolta imponente influenza politica, ad assumere una piena responsabilità di tale influenza e nello stesso tempo di offrire alle medesime la possibilità, sul piano della discussione e del compromesso in seno al Parlamento, di una reciproca integrazione e di una conciliazione delle varie influenze di cui esse sono portatrici.

La proposta patrocinata porterebbe poi, se accolta, ad una maggiore valorizzazione delle Regioni. Queste infatti, nella Camera che le rappresenta, apparirebbero differenziate secondo la varietà dei caratteri sociali dai quali ognuna è contrassegnata, e sarebbero perciò meglio in grado di far sentire la voce dei propri interessi in occasione della discussione dei problemi generali che su questi si ripercuotono.

Per quanto riguarda la realizzazione della forma di rappresentanza professionale proposta si era, in un primo momento, progettato di fare intervenire il corpo elettorale secondo le varie attività produttive esercitate da ciascun cittadino. Senonché, la considerazione che questo avrebbe presupposto l’esistenza in atto di un efficiente sistema di organismi professionali (che invece ancora, nel nostro Paese, non può ritenersi realizzato) ha indotto alla presentazione di un’altra proposta, quale quella ora illustrata, per cui l’elezione dei senatori avverrebbe da parte di tutto il corpo elettorale indifferenziato, a suffragio diretto (con il solo limite, rispetto alla capacità di elettorato attivo prescritta per le elezioni della prima Camera, del raggiungimento dell’età di 25 anni), e la differenziazione secondo le categorie professionali-economico-sociali sarebbe operativa solo nel seno degli eleggibili. Pertanto, secondo tale sistema, ogni elettore darebbe tanti voti quanti sono i gruppi di eleggibili distinti per categorie, e lo scrutinio sarebbe fatto distintamente nell’interno di ogni categoria. Chiede che l’emendamento, così chiarito nelle sue finalità e nel suo meccanismo, sia sottoposto a votazione.

LUSSU avverte che, nella risoluzione del problema in esame, occorre tener presenti alcune premesse che scaturiscono dalla discussione avvenuta in sede di seconda Sottocommissione: 1°) La seconda Camera ha carattere regionale e, pertanto, aveva proposto che si chiamasse: «Camera delle Regioni»; ma la seconda Sottocommissione non approvò la proposta. 2°) La proporzionale, per quanto non sia nelle preferenze dell’onorevole Einaudi, è accettata dalla maggioranza della seconda Sottocommissione e, crede, della Commissione dei 75. 3°) La seconda Camera non dovrebbe essere, come sostiene l’onorevole Mortati, espressione di categorie e di interessi professionali. Su questo la maggioranza della seconda Sottocommissione era d’accordo. Pensa, inoltre, che si sia di massima riconosciuto che le due Camere non potessero essere espressione dello stesso corpo elettorale e quindi si sia escluso il suffragio universale diretto per la seconda Camera. Né vale, a suo parere, il rimedio di portare a 26 anni l’età degli elettori della seconda Camera, perché in fondo si tratterebbe dello stesso corpo elettorale, sia pure ridotto di una parte.

La proposta dell’onorevole Nobile potrebbe, pertanto, rappresentare una soluzione contrastante con le premesse accettate dalla maggioranza della seconda Sottocommissione.

Giudica, d’altra parte, estremamente complicata la proposta dell’onorevole Fuschini. Ritiene, in conclusione, che debba essere rispettato il criterio che l’Assemblea regionale abbia il diritto di nominare un terzo dei rappresentanti, oppure un numero fisso stabilito. A questa stregua pensa che la proposta Perassi possa essere adottata.

AMBROSINI. L’onorevole Lussu si è richiamato alla volontà della Sottocommissione, la quale, dopo di avere respinto a maggioranza il sistema della rappresentanza delle categorie della produzione, affermò all’unanimità il principio che la seconda Camera dovesse essere composta in modo diverso dalla prima, al fine di evitare che venisse a costituirne un doppione.

È per questa ragione che non ritiene accettabile la proposta di adottare il sistema del suffragio diretto per l’elezione dei senatori. Con tale sistema l’elezione avverrebbe sulla stessa base delle ideologie politiche e dei partiti come nella prima Camera, della quale si riprodurrebbe la fisionomia; il che si vuole evitare. Osserva che a tale proposta può facilmente accedere chi considera la seconda Camera soltanto come un organo di freno e di maggiore riflessione nei riguardi della prima, ma non chi la considera come un istituto di integrazione della rappresentanza della Camera dei Deputati. Questa integrazione di rappresentanza può aversi dando voce e peso ad organizzazioni diverse dei partiti politici; perciò la Sottocommissione deliberò, dopo avere respinta a maggioranza il sistema della rappresentanza professionale, di attribuire l’elezione dei senatori per un terzo all’Assemblea regionale, e per due terzi ai Consigli comunali delle Regioni. Con l’emendamento proposto dall’onorevole Perassi si verrebbe a cambiare notevolmente questa seconda parte del deliberato della Sottocommissione. Non conviene in tale proposta, e richiama in merito le ragioni per le quali la Sottocommissione arrivò alla soluzione suindicata dopo più di un mese e mezzo di perplessità e di discussioni.

Si rende conto degli inconvenienti prospettati; ma ritiene che essi possano venire superati quando si dia un peso diverso al voto dei vari Consigli comunali in relazione alla popolazione dei rispettivi Comuni, secondo le modalità che potranno essere stabilite dalla legge elettorale. Crede perciò che debba approvarsi il principio adottato dalla Sottocommissione con l’aggiunta di un emendamento in questo senso.

Passando all’elezione dei senatori da affidare all’Assemblea regionale, ritiene che bisogna mantenere il terzo stabilito dalla Commissione, e non adottare l’altro criterio della attribuzione all’Assemblea regionale dell’elezione del numero fisso di cinque senatori per ogni Regione. L’onorevole Perassi ha indicato gli inconvenienti che si avrebbero con questo sistema per le piccole Regioni. Conviene con lui, e mostra che altri inconvenienti, di natura diversa, ma ugualmente gravi, si avrebbero per le grandi Regioni. È perciò d’avviso che debba mantenersi il criterio della proporzionalità rispetto alla popolazione della Regione nella misura di un terzo del numero complessivo dei senatori ad essa assegnati, secondo il sistema adottato dalla Sottocommissione.

LAMI STARNUTI ricorda che quando si iniziarono nella seconda Sottocommissione le discussioni sulla formazione del Senato, si dichiarò favorevole al suffragio universale diretto, in quanto riteneva che, a differenziare l’elezione della prima dalla seconda Camera, potessero bastare la diversità della circoscrizione elettorale e le categorie degli eleggibili. Poiché la maggioranza della Sottocommissione fu di diverso avviso, finì per ripiegare sulla proposta Laconi.

L’onorevole Nobile torna nella riunione odierna a formulare in modo concreto la proposta per l’elezione del Senato a suffragio universale. Richiamandosi, pertanto, alle prime dichiarazioni, afferma che voterà la proposta Nobile.

Se la Commissione plenaria non fosse di questa opinione, voterà, in linea subordinata, come ha già votato nella seconda Sottocommissione, la proposta Laconi, e voterebbe oggi, poiché è stata opportunamente modificata, la seconda parte della proposta Perassi.

Non voterà invece nessuno dei sistemi proposti dagli onorevoli Fuschini, Tosato e Piccioni, perché li ritiene tecnicamente inattuabili, se non assurdi.

Contro il sistema che vuole affidare ai consiglieri comunali l’elezione dei membri della seconda Camera, non ripeterà le obiezioni già fatte dai colleghi che lo hanno preceduto; ma vuole richiamare l’obiezione che avrebbe fatto, se il collega Grassi non lo avesse preceduto, riguardante l’inconveniente, a suo parere gravissimo, che si avrebbe con quel sistema in caso di scioglimento delle Camere. Quale manifestazione di volontà attuale del Paese potrebbero esprimere quei Consigli comunali che sono stati costituiti qualche anno prima? E se quei consiglieri comunali in carica al momento dello scioglimento erano già in carica quando la seconda Camera fu eletta per la prima volta, a che cosa si ridurrebbe lo scioglimento della seconda Camera, e, rispetto a questa, l’appello al corpo elettorale?

I consiglieri comunali, i quali costituiscono un corpo elettorale limitato, non passibile di ondeggiamenti e di cambiamenti, costituirebbero la nuova Camera non solo con la stessa fisionomia politica, ma quasi con le stesse persone di prima, e allora si potrebbe avere questo risultato veramente penoso, in caso di conflitto fra la seconda e la prima Camera (il quale conflitto originasse lo scioglimento delle due Camere): se il corpo elettorale a suffragio universale sconfessasse col suo voto la seconda Camera, e i consiglieri comunali la riconfermassero invece per intero nella sua fisonomia politica, come potrebbe essa ancora funzionare e quale rispondenza morale e politica potrebbe avere ancora nel Paese?

Pur non prospettando l’ipotesi di sciogliere anche i Consigli comunali in caso di scioglimento della seconda Camera, è da considerare il caso che uno o più Consigli comunali di una Regione siano sciolti nel momento stesso in cui avvengono le elezioni. Si avrebbe così che una frazione del corpo elettorale sarebbe costretta a non esprimere la propria volontà; che tutta una Regione rinvierebbe la elezione dei senatori alla costituzione di quel Consiglio o di quei Consigli comunali in essa compresi.

Questo inconveniente si aggiunge agli altri numerosissimi inerenti alla elezione dei senatori da parte dei consiglieri comunali.

Quanto alla seconda parte della proposta Perassi, che dichiara di approvare, si potrebbe determinare la proporzione fra il numero dei delegati e la popolazione del mandamento, stabilire cioè quanti delegati per ogni mille abitanti dovrebbero essere eletti.

Circa la prima parte, preferisce che il Consiglio regionale elegga un numero fisso di senatori, secondo la proposta Fuschini, e non il numero variabile del terzo.

Si pensi alle Regioni più popolose, la Lombarda, la Piemontese, la Veneta, le quali dovrebbero nominare, rispetto ad un terzo, circa dieci o dodici senatori.

PERASSI avverte che sarebbero sette od otto al massimo.

LAMI STARNUTI ha ragione di ritenere che, come si è modificato il rapporto della popolazione per l’elezione dei deputati, così si farà per i senatori. Quindi aumenterà il numero dei componenti la seconda Camera, e indubbiamente la Lombardia, il Veneto e il Piemonte avrebbero da 30 a 40 senatori da eleggere, sicché un terzo oscillerebbe fra 10 e circa 15, da eleggersi dall’Assemblea regionale.

TOSATO osserva che le obiezioni mosse alla proposta di far eleggere due terzi dei senatori da parte dei consiglieri comunali possono avere un certo fondamento, quando in materia si voglia procedere in base a criteri esclusivamente aritmetici. Dal punto di vista politico esse sono destituite di qualsiasi fondamento, e non hanno ragion d’essere.

Una prima obiezione consiste nel fatto che, pur dividendo i Comuni in categorie, a seconda del numero di abitanti, resterebbe sempre una certa sproporzione.

Tale sproporzione non si verifica da un punto di vista esterno, perché l’insieme dei consigli comunali, compresi nei singoli gruppi di Comuni, eleggerebbe sempre un numero di senatori corrispondente alle popolazioni rappresentate da quei Consigli. Vero è invece che, pur nell’ambito di queste categorie, restano delle sproporzioni, in quanto nello stesso gruppo vi sono Comuni maggiori e minori, ed allora i consiglieri dei diversi Comuni avrebbero un peso diverso: nel senso che un consigliere d’un Comune di 5 mila abitanti avrebbe un peso di fatto molto minore del consigliere d’un Comune di 500, o mille abitanti. Ma è qui che deve intervenire un criterio ed una valutazione di carattere politico. I consiglieri dei vari Comuni potranno avere, sì, ciascuno un peso diverso; ma, considerati nel loro insieme, la proporzione fra i vari partiti politici cui essi appartengono rimane sostanzialmente inalterata, per le naturali compensazioni del diverso colore politico dei consiglieri dei vari Comuni. Il fatto che un partito invece di 15 abbia 30 consiglieri ed un altro 10 invece di 5 non modifica il rapporto politico.

Si obietta, in secondo luogo, che, attraverso il sistema dei Consigli comunali, si viene a dare un premio ai piccoli Comuni o a certi ceti della popolazione. Non si tratta di dare un premio, ma di dar vita ad una rappresentanza politica che esprima, in modo territorialmente aderente, la reale distribuzione degli interessi in Italia. Se i ceti agricoli avranno la prevalenza, vuol dire che questa è, in Italia, la realtà.

Si osserva ancora che i Consigli comunali non sono eletti tutti col medesimo sistema; nei Comuni fino a 30 mila abitanti vige il sistema della rappresentanza maggioritaria, mentre nei Comuni oltre i 30 mila abitanti vige il sistema della proporzionale. È da tener presente però che laddove vige il sistema maggioritario, vi è sempre una certa rappresentanza della minoranza; e che, nell’ambito dello stesso gruppo di Comuni, vi sono naturalmente compensazioni fra le diverse proporzioni delle rappresentanze di maggioranza e di minoranza. Anche da questo punto di vista, pertanto, i rapporti politici sostanzialmente non mutano.

L’obiezione forse più grave è che ai rappresentanti delle amministrazioni comunali si attribuirebbe una funzione che va al di là del loro mandato. È da rilevare tuttavia che se l’elezione dei senatori deve avvenire – come sembrava concorde la seconda Sottocommissione – attraverso una elezione di secondo grado, è necessario, per evitare che questa elezione si tramuti in una farsa, puntare su elettori di secondo grado politicamente qualificati.

Ora, il fatto che degli individui siano amministratori comunali significa che essi hanno particolari competenze, per lo meno in materia amministrativa, per conoscenza di luoghi e di problemi, per cui sono particolarmente indicati e qualificati ad una elezione di carattere selettivo.

L’obiezione, infine, che lo scioglimento della Camera dei Senatori diventerebbe inutile, perché, spesso, sarebbero gli stessi consiglieri comunali ad eleggere i nuovi senatori, non è del tutto esatta. Anzitutto perché, essendo parte dei senatori eletta dalle Assemblee regionali, per questa parte almeno, lo scioglimento del Senato non sarebbe inutile. Anche le amministrazioni comunali si rinnovano poi, spesso, prima della loro scadenza naturale.

Ma la più importante osservazione da fare in argomento è un’altra.

Se si vuole istituire la seconda Camera, vuol dire che si riconosce l’esistenza di quelle esigenze che stanno alla base della necessità o almeno della opportunità di questa istituzione. Nessuno vuole una seconda Camera conservatrice, nel senso tradizionale e volgare della parola, che funga da contrappeso, al fine di bilanciare e quasi neutralizzare la Camera dei Deputati. Gli istituti parlamentari devono essere congegnati in modo da non arrestare, ma graduare l’evoluzione e il progresso, che consiste nel superamento e non nel capovolgimento rivoluzionario di uno stadio, di un momento antecedente. Ora, da questo punto di vista, la funzione della Camera dei Senatori nella organizzazione dello Stato è precisamente quella di rappresentare nella evoluzione del Paese il momento storico antecedente rispetto a quello rappresentato dalla Camera dei Deputati. La presenza del momento antecedente può giuocare sia in senso di destra, che di sinistra. Può darsi che la Camera dei Deputati evolva verso destra; allora la situazione della Camera dei Senatori rappresenterà un momento di stabilità di sinistra. Inversamente avviene nel caso contrario.

La funzione naturale propria della seconda Camera appare così evidente. Essa serve a legare l’avvenire al passato. E in questo senso soltanto può accettarsi la formula che definisce la seconda Camera come una Camera di riflessione.

Concludendo, afferma che le obiezioni mosse al sistema proposto possono avere un certo peso dal punto di vista matematico, ma nessuna rilevanza dal punto di vista puramente politico, e che in particolare l’ultima delle obiezioni fatte, secondo la quale l’eliezione anche parziale dei senatori da parte dei consiglieri comunali renderebbe inutile lo scioglimento della Camera dei Senatori, dimostra invece tutta la razionalità del sistema escogitato.

TERRACINI rammenta che il sistema, basato sulle Assemblee regionali e sui consigli comunali, come era inizialmente congegnato, poteva essere buono o cattivo; ma nel suo tipo aveva un certo carattere; per questo, dopo lunga serie di discussioni, di transazioni e di compromessi, vi si era acceduto. Ma quel sistema, una volta incrinato, cade.

Ora la proposta dell’onorevole Fuschini incrina il sistema; perché i consigli comunali, nel collegio che l’onorevole Fuschini presenta, anche soltanto per un rapporto numerico, diventano elemento secondario.

L’onorevole Fuschini dice che quei tali delegati sono eletti dal Consiglio comunale, ma non sono più il Consiglio comunale. Il Consiglio comunale è quello eletto in un certo momento con un dato sistema elettorale dagli abitanti del Comune. Ogni altro elemento aggiunto a questo nucleo ne falsa il carattere.

Se è vero, come ritiene, che tutti questi sistemi, specialmente l’ultimo proposto dall’onorevole Fuschini, vengono a falsare il carattere iniziale dell’elemento Consiglio comunale, di uno cioè dei due collegi, non vede perché debba restare in piedi anche il secondo collegio, cioè l’Assemblea regionale, tanto più che, nella proposta dell’onorevole Fuschini, gli elementi già deboli del collegio elettorale costituito dall’Assemblea regionale si indebolirebbero maggiormente. Chiede per quale ragione l’Assemblea regionale debba eleggere i cinque membri della seconda Camera, assegnati in misura eguale a tutte le Regioni.

Che cosa è che rende valido il fatto che la Lucania, la quale avrà, in ipotesi, dieci membri alla seconda Camera, ne faccia eleggere cinque dalla sua Assemblea regionale, cioè la metà, mentre la Lombardia, mantenendo fermo il numero di cinque membri eletti della Assemblea regionale, debba farne eleggere una quarta o una sesta parte rispetto al numero totale dei senatori eletti dalla Regione?

Si tratta, in sostanza, di un’idea sorta ad un certo momento, non sufficientemente analizzata.

È peraltro da considerare che le Regioni italiane si presentano con caratteristiche speciali. Nella Lucania, in cui il Consiglio regionale rifletterà in maniera più diretta, se non la struttura sociale, ma determinate posizioni politiche, dovendosi eleggere i membri della seconda Camera, si avrebbe, in definitiva, almeno la metà acquisita a certe posizioni politiche, che oggi dominano quella Regione, ed in realtà a rappresentare le forze sociali differenziate della Lucania non resterebbe che l’altra metà.

Lo stesso ragionamento si potrebbe fare per tutte le altre Regioni.

Se si dovesse – ciò che depreca – accettare un collegio regionale, bisognerebbe rimanere alla decisione iniziale di un terzo o della metà. Il danno conseguente a questo specifico modo di elezione sarebbe proporzionalmente diviso in tutte le Regioni italiane; e non vi sarebbero alcune avvantaggiate ed altre danneggiate.

Quanto alla funzione della seconda Camera, non può dirsi convinto dalle argomentazioni dell’onorevole Tosato.

Ricorda che, quando, in sede di Sottocommissione, si è parlato della seconda Camera in confronto della prima, si rimase d’accordo che non restasse traccia nella proposta decisa a maggioranza della funzione da affidare alla seconda Camera.

Ora, in linea storica, salvo deprecabilissimi momenti nella vita del Paese, verificatisi nel 1922 e nel 1923, la vita sociale non si muove verso il passato, ma verso l’avvenire. Non crede pertanto che si debba accettare il criterio di una seconda Camera che rappresenti un freno o una remora. La seconda Camera deve essere una integratrice ed una collaboratrice nella attività legislativa.

La proposta dell’onorevole Perassi, d’altro canto, può essere considerata come un emendamento aggiuntivo a quella dell’onorevole Laconi. In base ad essa la seconda Camera trova la sua giustificazione non soltanto con la esistenza delle Regioni, ma dei Comuni. E così, quella che era stata la voce isolata, fin dal principio, dell’onorevole Zuccarini, si è trasformata in un clamore: la seconda Camera ha cominciato ad essere presentata non più come Camera delle Regioni, non come assemblea che trovi la sua giustificazione in questa nuova struttura amministrativa dello Stato italiano, ma come una Camera in cui il Comune, cellula iniziale della vita sociale, possa aver un riflesso nazionale. Ora, se si fosse sostenuto che le Assemblee regionali dovevano funzionare come Assemblee rappresentative dei Comuni, probabilmente avrebbe aderito a proposte concrete in tal senso; ma non capisce perché i Comuni, passando al di sopra delle Regioni, debbano andare anch’essi a porre la loro rappresentanza nella seconda Camera.

L’onorevole Perassi, che aveva inizialmente presentato un progetto in cui si parlava solo di Comuni, accedendo poi a delle critiche, è passato al mandamento, richiamando però sempre i Comuni. Pensa che una proposta del genere abbia essenzialmente il difetto di non permettere a un suffragio proporzionale di farsi valere, a meno che l’onorevole Perassi non pensi ad un numero di elettori di secondo grado molto elevato. Si dovrebbe, in tal caso, adottare un sistema elettorale per cui, come è avvenuto in Francia, gli elettori di secondo grado assommino a centinaia di migliaia; ma da quello che si è detto e dal modo come si vorrebbe far funzionare l’ingranaggio proposto, non si avrebbe un collegio elettorale numeroso.

Concludendo, afferma che voterà a favore della proposta dell’onorevole Nobile, la quale, a suo avviso, pone il problema nella maniera più aperta e stabilisce una differenza fra la prima e la seconda Camera in modo tale da non poter far sorgere equivoci. Qualora tale proposta non fosse accettata, voterà quella dell’onorevole Laconi.

PRESIDENTE fa presente che alle tre proposte fondamentali se ne è aggiunta ora una quarta. Quanto all’ordine da seguire nella votazione, in base al criterio di dare la precedenza alle proposte che si allontanano maggiormente dal testo in esame, pensa che debba essere il seguente: proposta Mortati che fa riferimento a dei gruppi di interesse; proposta Nobile di suffragio universale diretto; proposta del suffragio universale indiretto con l’integrazione Perassi; e infine proposta Fuschini che, in sostanza, conferma il sistema proposto dalla Commissione e dal Comitato con una leggera variante.

Allo scopo di dar modo ai vari gruppi di concordare la loro azione, propone di rinviare la seduta al pomeriggio.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 12.45.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

Assenti: Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Di Vittorio, Finocchiaro Aprile, Giua, Merlin Lina, Merlin Umberto, Paratore, Pesenti, Porzio.

MARTEDÌ 28 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

22.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 28 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Diritti e doveri dei cittadini (Esame degli articoli)

Presidente – Moro – Nobile – Grassi – Lucifero – Codacci Pisanelli – Cevolotto.

Conflitto fra le due Camere (Discussione)

Presidente – Laconi – Mortati – Fabbri – Perassi – Einaudi – Togliatti – De Vita – Grassi – Lami Starnuti – Marinaro – Nobile – Lussu – Tosato – Molè.

La seduta comincia alle 9.45.

Esame degli articoli sui diritti e doveri dei cittadini.

PRESIDENTE informa la Commissione che il Comitato di redazione ha proceduto alla formulazione degli articoli delle disposizioni generali che gli erano stati rinviati dopo stabiliti i criteri di massima.

Il primo, l’8-bis, riguardante la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni, dice:

«La libertà e la segretezza di corrispondenza e di comunicazione in ogni forma sono garantite. Si può derogare soltanto per motivata decisione dell’autorità giudiziaria nei casi indicati dalla legge».

Ne propone l’approvazione.

(È approvato).

Il secondo articolo, il 9-bis, concernente le proposte avanzate dal gruppo parlamentare dei sanitari, è stato, dopo lunga discussione, così formulato:

«La Repubblica tutela la salute e l’igiene ed assicura cure gratuite agli indigenti».

Avverte che il Comitato ha respinto un emendamento aggiuntivo, presentato dagli onorevoli Rossi Paolo e Moro, così concepito:

«Nessun trattamento sanitario può essere obbligatorio se non per legge. Non sono ammesse pratiche sanitarie lesive della dignità umana».

Apre la discussione sull’articolo.

MORO spiega le ragioni che lo hanno indotto a presentare, unitamente all’onorevole Rossi, l’emendamento, ricavato dai tre articoli proposti dal gruppo parlamentare dei medici. Si tratta di un problema di libertà individuale che non può non essere garantito dalla Costituzione, quello cioè di affermare che non possono essere imposte obbligatoriamente ai cittadini pratiche sanitarie, se non vi sia una disposizione legislativa, impedendo, per conseguenza, che disposizioni del genere possano essere prese dalle autorità senza l’intervento della legge.

Importante è anche l’altra parte dell’emendamento. Non soltanto ci si riferisce alla legge per determinare che i cittadini non possono essere assoggettati altrimenti a pratiche sanitarie, ma si pone anche un limite al legislatore, impedendo pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Si tratta, prevalentemente, del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori.

L’esperienza storica recente dimostra l’opportunità che nella Costituzione italiana sia sancito un simile principio, ed egli insiste pertanto perché gli emendamenti proposti siano accettati, salvo ad apportarvi modificazioni formali. Modifica subito la prima parte del suo emendamento nei seguenti termini: «Nessun trattamento sanitario obbligatorio può essere stabilito, se non per legge».

NOBILE dichiara di essere molto perplesso di fronte alla proposta di emendamento, pur comprendendo lo spirito che la informa. Ritiene infatti che si tratti di una formula troppo restrittiva, e che vi possano essere dei casi speciali in cui, per ragioni superiori riguardanti l’interesse stesso della sanità collettiva, la legge possa essere costretta ad imporre determinate pratiche sanitarie che con l’emendamento si vorrebbero escludere in ogni caso.

GRASSI fa presente che le ragioni per le quali l’emendamento è stato respinto in seno al Comitato di coordinamento sono di duplice ordine. Innanzi tutto si è considerato che se si rimette al legislatore la valutazione di quella che in futuro dovrebbe essere materia di legge, è inutile occuparsene nella Costituzione, poiché questo, praticamente, non limiterebbe la libertà del legislatore d’imporre determinate pratiche sanitarie.

Quanto al punto principale dell’emendamento, cioè la frase: «pratiche lesive della dignità umana», che, come l’onorevole Moro ha chiarito, riguarda in modo particolare il caso della sterilizzazione, si è ritenuto trattarsi di un dettaglio in cui la Costituzione non dovrebbe entrare. Se domani il legislatore riterrà che la pratica sia giusta, spetterà a lui decidere; ma non è il caso che se ne occupi la Costituzione. Inoltre il significato delle parole «lesive della dignità umana» è molto generico.

Dopo aver fatto presente che alcune pratiche sanitarie, che potrebbero essere classificate tra quelle lesive della dignità umana, costituiscono invece una necessità per determinate persone, conclude affermando che porre una limitazione assoluta in materia costituirebbe un fatto grave, ed una norma del genere inserita nella Costituente sarebbe inutile o assurda.

MORO osserva all’onorevole Grassi che il primo rilievo da lui fatto, circa l’inutilità del rinvio alla legge, dovrebbe valere anche per molti altri casi, nei quali, nel testo costituzionale, è stato richiesto che si disponga per legge. Anche in questo caso delle pratiche sanitarie si può ritenere necessaria la garanzia costituzionale che soltanto per legge esse possano venire imposte ai cittadini. Quanto alla seconda parte, non si vuole escludere il consenso del singolo a determinate pratiche sanitarie che si rendessero necessarie in seguito alle sue condizioni di salute; si vuol soltanto vietare che la legge, per considerazioni di carattere generale e di male intesa tutela degli interessi collettivi, disponga un trattamento del genere. I casi invece di carattere generale da applicarsi a tutti i cittadini devono essere disposti per legge entro quei determinati limiti di rispetto della dignità umana.

Per essere più chiaro, è disposto a modificare il suo emendamento, onde evitare che il divieto sia esteso anche ai singoli, dicendo invece:

«La legge non può imporre pratiche sanitarie lesive della dignità umana».

NOBILE insiste nel dichiarare che non è possibile porre un limite rigoroso al legislatore; e che occorre ammettere possibilità di deroga. Bisogna, ad esempio, considerare se nel caso di gravi forme di pazzia ereditaria, le legge non abbia il dovere di prevedere misure sanitarie atte ad impedire che siano messi al mondo degli infelici destinati con certezza al terribile male.

Si dichiara quindi contrario all’emendamento.

PRESIDENTE pone ai voti la prima proposizione dell’emendamento:

«Nessun trattamento sanitario obbligatorio può essere stabilito se non per legge».

(È approvata).

Pone ai voti la seconda parte dell’emendamento:

«La legge non può imporre pratiche sanitarie lesive della dignità umana».

LUCIFERO dichiara che voterà contro la seconda parte dell’emendamento per una ragione di dignità costituzionale. Si deve creare una Costituzione che garantisca la dignità umana in tutti i suoi aspetti; non si può quindi ammettere che nello Stato che si sta costruendo possano sorgere leggi lesive della dignità umana.

(La seconda parte dell’emendamento Moro è approvata).

PRESIDENTE informa che un’altra formulazione discussa dal Comitato di redazione è stata quella dell’ultimo comma dell’articolo 15, riguardante la questione della pornografia.

Ricorda che un emendamento all’articolo votato dalla Sottocommissione, proposto dagli onorevoli Nobile e Terracini, accentuava quanto era detto nel testo, vietando in modo tassativo le forme di pubblicazioni oscene e contrarie al buon costume. Il concetto di modificare il testo è stato accolto dalla Commissione che ha demandato al Comitato di coordinamento la formulazione definitiva sulla quale erano sorti dissensi.

Il Comitato di redazione, all’unanimità, ha concordato una formula generica, intendendo con questo di estendere la norma alle visioni cinematografiche ed agli spettacoli offensivi del buon costume. La formula dice:

«Sono vietate le pubblicazioni di stampa, gli spettacoli e le altre forme di manifestazioni pornografiche. La legge determina a tale scopo misure adeguate».

È sorto dissenso sulla parola «pornografiche»; ma è stata respinta dalla maggioranza del Comitato la proposta di sostituirvi l’espressione «contrarie al buon costume» ritenuta troppo elastica, e tale da poter consentire interventi anche quando non vi fossero veri e propri intenti pornografici.

CODACCI PISANELLI ritiene che la dizione proposta sia insoddisfacente ed equivoca, in quanto sembra siano dichiarati pornografici tutti gli spettacoli e le pubblicazioni.

Crede sia opportuno non abbandonare l’espressione ormai insita nella nostra tradizione giuridica, in cui si è sempre parlato di «buon costume».

D’altra parte, con tale formula, l’inconveniente da qualche parte lamentato, cioè la possibilità che venga impedita la stampa d’opere ormai ammesse nella nostra letteratura, potrebbe essere evitato in quanto la formula stessa consentirebbe al funzionario che deve applicare la legge di interpretarla nel senso indicato dalla esperienza.

Insiste, pertanto, perché venga adottata l’espressione: «contrarie al buon costume».

NOBILE è contrario alla proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, in quanto è di avviso che l’espressione «buon costume» sia troppo generica.

Conviene peraltro nel rilievo dell’onorevole Codacci Pisanelli circa l’equivocità della dizione e propone la seguente formulazione:

«Sono vietate le pubblicazioni di stampa pornografiche, nonché gli spettacoli e le altre forme di manifestazioni aventi il medesimo carattere».

MORO desidera impostare un problema più generale, e cioè quello del più opportuno collegamento della disposizione con l’articolo 15, che riguarda la libertà di stampa e delle altre manifestazioni, al quale si sarebbe dovuto sostituire, all’ultimo comma, l’emendamento Nobile-Terracini che nella sostanza era stato accettato. Diceva l’ultima parte dell’articolo 15 che: «A tutela della morale pubblica e contro le oscenità, la legge può consentire misure preventive e limitazioni per le manifestazioni di pensiero compiute con la stampa e con altri mezzi di diffusione». Il significato della disposizione è questo: si vuole dichiarare il carattere illecito – ed in una forma drastica che egli accetta – di questi abusi della libertà di stampa e delle manifestazioni in genere del pensiero, per giungere ad una conseguenza che è di rilevanza costituzionale, cioè la possibilità di limitazioni e di misure preventive nei confronti dei pericoli che possono presentare gli spettacoli e le pubblicazioni che abbiano carattere pornografico. Se non fosse questo il significato, non vedrebbe la ragione di inserire disposizioni del genere nella Costituzione, in quanto sarebbero sufficienti le disposizioni penali riguardanti la materia.

Per rendere chiaro questo significato, chiede che la disposizione, opportunamente modificata secondo i rilievi fatti da più parti, sia inserita dopo il 3° comma dell’articolo 15 che dice: «Si può procedere al sequestro soltanto per atto dell’autorità giudiziaria, nei casi di reati e di violazioni di norme amministrative pei quali la legge sulla stampa dispone tassativamente il sequestro». Qui si fa un richiamo ai reati; inserendovi la disposizione, sarebbe ben chiaro il richiamo al legislatore penale a configurare come reati queste manifestazioni ed a comminarne il sequestro.

PRESIDENTE prospetta la difficoltà di accogliere la proposta dell’onorevole Moro, in quanto fra il terzo e il quarto comma dell’articolo 15 vi è un certo coordinamento che si verrebbe a spezzare.

Comunque la soluzione potrà essere trovata dal Comitato di redazione.

CEVOLOTTO propone la soppressione dell’ultima frase: «La legge determina a tale scopo misure adeguate», perché non vede come si possa ammettere che una legge possa determinare misure inadeguate.

MORO, per venire incontro alle preoccupazioni dell’onorevole Cevolotto, propone che alle parole: «misure adeguate» si sostituiscano le altre: «misure preventive e opportune limitazioni».

PRESIDENTE pone innanzi tutto ai voti il primo emendamento, consistente nella sostituzione della parola «pornografiche» con le altre «contrarie al buon costume».

(È approvato).

Pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Cevolotto di sopprimere le parole: «La legge determina a tale scopo misure adeguate».

(È respinto).

Segue l’emendamento dell’onorevole Moro che tende a sostituire alle parole: «La legge determina a tale scopo misure adeguate» le altre: «La legge determina a tale scopo misure preventive ed opportune limitazioni».

LUCIFERO chiede quale sia il vero significato dell’emendamento, in quanto le misure preventive presuppongono un esame preventivo di tutta la materia da sottoporre a sanzione.

MORO risponde che il significato che si attribuisce all’espressione è quello del sequestro e dell’azione della pubblica sicurezza.

LUCIFERO osserva che il futuro legislatore potrebbe attribuire all’espressione un significato diverso.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Moro.

(Non è approvato).

Propone che, apportando lievi modifiche di forma, il comma resti così formulato:

«Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni che siano contrarie al buon costume. La legge determina a tale scopo misure adeguate».

(La Commissione approva).

Fa presente che l’ultimo articolo rinviato alla formulazione del Comitato di redazione, il 41, riguarda la cooperazione. Il Comitato di redazione ha approvato questa formula che sottopone all’approvazione della Commissione:

«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e la vigila per assicurare i suoi caratteri e le sue finalità».

(È approvato).

Discussione sui conflitti fra le due Camere.

PRESIDENTE sottopone all’esame della Commissione la formulazione dell’articolo 18 della parte del progetto concernente il Parlamento.

Fa presente che la seconda Sottocommissione è partita dal concetto della perfetta parità fra le due Camere, nel senso che, se interviene il dissenso su un progetto di legge, il parere di una Camera non prevale su quello dell’altra, ma in questo caso, secondo il testo della seconda Sottocommissione – riprodotto dal Comitato di redazione – «il Capo dello Stato può chiedere che la Camera da cui parte il dissenso si pronunci di nuovo. Se non si pronuncia o se con la nuova deliberazione conferma la precedente, il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire un referendum popolare su un disegno non approvato o di sciogliere le due Camere».

Ora, è sembrato – in seno al Comitato – che questa disposizione fosse alquanto drastica, e l’onorevole Terracini ha proposto un emendamento sostitutivo così formulato:

«Un disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati, sul quale la Camera dei Senatori non si è pronunciata nel termine stabilito, è promulgato quale legge, se la prima Camera lo approvi una seconda volta.

«Ove il disegno di legge approvato dalla Camera dei Deputati sia respinto o modificato da quella dei Senatori, occorre, perché possa promulgarsi come legge, che la prima Camera lo approvi nuovamente a maggioranza dei suoi membri e di due terzi dei Deputati presenti. Nel caso che, pur riapprovandolo, non raggiunga tale maggioranza, la prima Camera può chiedere che il disegno di legge sia sottoposto a referendum.

«Quando la Camera dei Deputati non si pronunci, rigetti o modifichi un disegno di legge approvato dalla Camera dei Senatori, e questa l’approvi nuovamente, si svolge il procedimento del comma che precede, come se il disegno fosse stato inizialmente presentato alla Camera dei Deputati e da questa approvato».

Avverte che, essendosi l’onorevole Terracini dovuto assentare, l’onorevole Laconi è stato delegato ad illustrare l’emendamento.

LACONI ritiene che l’emendamento proposto dall’onorevole Terracini non dovrebbe trovare difficoltà neanche in coloro che hanno sostenuto così decisamente, anche in passato, la parità delle due Camere.

In sostanza, chi sia stato presente ai dibattiti della seconda Sottocommissione sa che la seconda Camera è stata istituita con la unanimità dei consensi, in quanto si è voluto fare di questo organismo una specie di Camera di riflessione, che consentisse un’ulteriore elaborazione delle leggi e, quindi, una maggiore ponderazione dell’azione legislativa. Da questo primo concetto si è passati invece ad una specie di parità assoluta che non consente nessuna differenza tra l’attività della prima e della seconda Camera, e che, quindi, viene ad aprire nel corpo della democrazia italiana una specie di stato di conflitto permanente tra due organi che hanno i medesimi poteri e fra i quali è indispensabile che altri organi facciano da arbitri.

Richiama l’attenzione sulla gravità della proposta della seconda Sottocommissione, appena ritoccata dal Comitato di redazione che, all’ultimo comma, dà facoltà al Capo dello Stato, ove la nuova pronuncia confermi la precedente oppure non si proceda ad un nuovo esame, di indire un referendum popolare sul progetto oppure di sciogliere le due Camere.

MORTATI osserva che l’ultimo comma non fu approvato dalla Sottocommissione.

FABBRI conferma, precisando che, effettivamente, sull’ultimo punto non si addivenne ad una votazione conclusiva.

LACONI osserva che, comunque, conflitti permanenti si verificherebbero quando si stabilissero due organi aventi diversa origine ed uguali poteri.

Per quanto non sia stato ancora discusso il modo di composizione della seconda Camera, gli sembra ormai pacifico che una differenziazione nella composizione di questi due organi sarà ammessa. Ora, è impossibile ed assurdo ammettere che due organi che abbiano origine diversa – che si rifletterà anche sulla loro composizione politica – abbiano una parità assoluta di poteri. Si creerebbe in seno alla democrazia italiana una situazione di conflitto permanente, nella quale occorrerà introdurre arbitri esterni.

Sostiene che non è possibile procedere allo scioglimento e alla rielezione delle Camere ogni volta che sorgano dissensi sulla valutazione delle leggi, ed esprime l’avviso che, riferendosi ad una tradizione costante nella maggior parte dei Paesi, si possa accedere alla soluzione contemplata nell’emendamento. Essa non contrasta con l’aspirazione della maggioranza della Commissione di costituire un organo di riflessione che costituisca una maggiore elaborazione della legge. Non si deve inceppare il funzionamento degli organi legislativi aprendo una serie di conflitti costanti.

Riconosce che con l’emendamento, in sostanza, si viene a stabilire una prevalenza della Camera dei Deputati, ma fa presente la necessità di non dimenticare quale è il mandato tradizionale e originario di questa Camera, unico organo legislativo che abbia un pieno e completo mandato politico, e che deve quindi avere una prevalenza, in quanto rappresenta anche gli enti locali e gli interessi di vaste popolazioni.

Per queste ragioni, propone che la Commissione approvi l’emendamento Terracini.

NOBILE osserva che la dizione dell’emendamento resta alquanto oscura, soprattutto nella seconda parte.

PERASSI riconosce che la dizione può dar luogo a dubbi. Una interpretazione del secondo comma dell’emendamento potrebbe essere nel senso che si voglia stabilire una reciprocità rispetto al procedimento previsto dal comma precedente. Sembra invece che l’interpretazione cui si vuole accedere sia tutt’altra, ed allora non si comprende quale sorte avrebbe un disegno di legge, specialmente nella ipotesi che la Camera dei Deputati lo abbia respinto dopo un iniziale voto favorevole del Senato.

PRESIDENTE osserva che, se mai, si tratterebbe di dare all’emendamento un’altra formulazione; ma il concetto è evidente: nel caso accennato dall’onorevole Perassi si considera che l’iniziativa sia stata presa dalla Camera, che il testo votato dalla Camera sia il testo inizialmente presentato e che quindi la Camera, dopo la reiezione del Senato, ha la facoltà di approvare con un determinato quorum.

PERASSI obietta che, in tal caso, l’ipotesi del rigetto da parte della Camera dei Deputati non avrebbe significato.

MORTATI osserva non essere esatto quanto l’onorevole Laconi ha affermato circa una deliberazione della Sottocommissione relativa all’attribuzione alla seconda Camera delle funzioni di una Camera di riflessione. Ricorda, invece, che si stabilì il concetto della parità e in tal senso fu votato, a maggioranza, un ordine del giorno. Questo presupposto di parità è confermato con evidenza anche da una disposizione la quale sancisce che le due Camere intervengono, in sede di Assemblea Nazionale, nell’attribuzione della fiducia al Governo. Sarebbe una disarmonia nel sistema se – adottando l’emendamento dell’onorevole Terracini – si stabilisse che non vi è parità delle due Camere.

Non è neppure esatto affermare – come l’onorevole Laconi ha fatto – che attuando la proposta della maggioranza della Sottocommissione nel senso della parità, si verrebbe a creare una situazione di conflitto permanente tra le due Camere. Si vuole creare una seconda Camera che integri la prima, trovare cioè una forma di rappresentanza che completi la prima in modo che le due Camere riunite rappresentino il Paese in tutti gli aspetti della sua conformazione politica. Certo, le due Camere potranno non avere lo stesso peso politico, ma egli si domanda se sia opportuno stabilire una posizione di supremazia di una Camera di fronte all’altra, oppure una differenza di peso politico, determinando una certa remissività dell’una Camera rispetto all’altra.

Osserva che in Italia, l’antico Senato, pur non avendo una origine direttamente popolare, ha realizzato il principio bicamerale attuando spontaneamente una certa remissività rispetto alla Camera dei Deputati, il che ha evitato quei dissidi che l’onorevole Laconi teme. E così anche il Senato francese, che aveva una maggiore autonomia di fronte alla Camera, ha potuto svolgere sempre la sua funzione autonoma ed in certi momenti contrapporsi anche alla Camera dei Deputati pur senza creare quello stato di disarmonia che l’onorevole Laconi teme.

Se perciò si parte dal presupposto di una seconda Camera che sia un efficace strumento di integrazione della rappresentanza politica – e nella creazione di un tale meccanismo integrativo si parrà la saggezza politica dell’Assemblea – si avrà veramente un sistema non di antitesi radicale, ma di compensazione reciproca.

È quindi per la reiezione completa dell’emendamento. Non solo, ma vuole andare più innanzi: riprenderebbe cioè il testo proposto dalla Sottocommissione, che la maggioranza non aveva approvato, testo che egli ripresenterebbe integralmente, salvo l’ultimo inciso: «o di sciogliere le due Camere», dato che l’ipotesi dello scioglimento è stata regolata con altro articolo.

È d’avviso infine che se si deve ricorrere al referendum in caso di conflitto fra le due Camere, sarebbe più logico, più aderente al sistema che questa decisione del referendum fosse affidata al Capo dello Stato, naturalmente con l’ausilio e la controfirma del Governo, che è responsabile della politica generale del Paese, e quindi giudice dell’opportunità di ricorrere a questo congegno di risoluzione dei conflitti. Lasciare la prima Camera arbitra di questa pronunzia popolare, significherebbe accentuarne una posizione di supremazia, che non trova nessuna giustificazione nel complesso del sistema.

PRESIDENTE osserva che la critica degli onorevoli Perassi e Nobile potrebbe essere superata cancellando l’ultimo comma dell’emendamento Terracini, lasciando cioè che la prima Camera, se crede, prepari un progetto di legge ex novo che seguirà la procedura normale.

Fa questa proposta per cercare di eliminare una parte della materia in discussione.

Constata, inoltre, che all’emendamento Terracini si contrappongono due soluzioni: la prima, di lasciare soltanto il primo comma dell’articolo 18; la seconda, di aggiungere anche il secondo comma, togliendovi le parole finali: «o di sciogliere le due Camere».

EINAUDI è favorevole alla dizione proposta dal Comitato di redazione per il primo comma. Quando al secondo comma, crede sarebbe opportuno discuterne quando si parlerà del referendum per evitare che nascano discordanze fra questa disposizione e quelle che si adotteranno in materia di referendum.

Preferisce all’emendamento Terracini la dizione originale, in quanto ritiene che l’emendamento stesso sia fondato non su delle verità, ma su alcuni miti.

Il primo mito è che sia desiderabile che non esistano conflitti fra le due Camere, poiché non v’è nessuna prova che possa essere addotta a conferma di questa desiderabilità. Il senso del regime parlamentare, anzi, è quello che vi siano dei conflitti, e che si arrivi ad una soluzione non attraverso un. sistema codificato precedentemente, ma attraverso compromessi; e compromessi possono fare soltanto dei Corpi che siano perfettamente uguali fra di loro. L’onorevole Mortati ha ricordato l’esperienza precedente del Senato italiano, e si riferisce soltanto alla esperienza anteriore all’ottobre 1922. Ora questa esperienza soffriva grandemente di un fatto, cioè del complesso di inferiorità del Senato, dovuto alla sua origine ed a varie altre circostanze. I compromessi non avvenivano a parità; e per conseguenza quell’esame di riflessione, quel controllo che una Camera esercita sulle deliberazioni dell’altra, non si effettuava come sarebbe stato desiderabile.

Crede perciò che con il sistema che si va creando nella Costituzione, con la composizione della Camera dei Senatori che si dovrà discutere, si otterrà questo risultato: che, pur avendo origini diverse, queste due Camere sentiranno di avere dietro di loro l’una gli elettori nella loro generalità, l’altra gli stessi elettori, ma organizzati e riuniti territorialmente in modo diverso. Ma queste due Camere si sentiranno uguali e potranno sul serio arrivare a quello che deve essere il frutto della discussione su una deliberazione legislativa, che è essenzialmente il compromesso di due, ed eventualmente anche di molte altre forze esistenti nel Paese.

Un altro mito che sta alla base dell’emendamento Terracini è quello che sia desiderabile che la forza politica, e quindi la facoltà di deliberazione, venga da una sola Camera. A questo contrappone il frutto dell’esperienza, la quale insegna che quando in uno Stato si ha una forza sola, una Camera sola, la quale in definitiva può deliberare e può decidere sui governi e sulle leggi, si va incontro alla tirannia. Per evitare questo pericolo, non vi può essere una sola Camera che abbia tutta la potestà politica, sia nella prima che nella seconda fase, come sarebbe codificato con l’emendamento Terracini.

TOGLIATTI osserva che questo avviene in Inghilterra.

EINAUDI rileva che un altro mito su cui poggia l’emendamento Terracini è quello che sia desiderabile per un Paese che si facciano nuove leggi. Questo mito coincide con un altro: che sia desiderabile per un Paese che le cose mutino continuamente. L’ideale per un Paese sarebbe – a suo avviso – che le cose non mutino troppo e non siano troppo stabili: ci deve essere anche qui un compromesso fra la continua mutabilità e la stabilità delle leggi. E se in una Costituzione sarà possibile creare un organo, come quello della Camera dei Senatori, che dia una qualche stabilità alle leggi, crede che ciò potrà essere utile al Paese.

DE VITA è sostanzialmente d’accordo con quanto hanno detto gli onorevoli Mortati ed Einaudi. Esprime l’opinione che non si possa parlare di un conflitto – almeno permanente – fra le due Camere, perché se un determinato progetto non raggiunge il consenso di ambedue, esso naturalmente cade. Trattandosi poi di due organi entrambi elettivi, crede che non si possa nemmeno parlare della preminenza dell’uno sull’altro.

GRASSI sottolinea l’importanza dell’argomento e la necessità di stabilire chiaramente se il sistema bicamerale da attuarsi debba essere fondato su un equilibrio o sulla prevalenza di una assemblea rispetto all’altra.

Al concetto prevalso in seno alla seconda Sottocommissione, quello cioè di stabilire un equilibrio fra le due Assemblee, fondato specialmente sul fatto accennato dall’onorevole Einaudi che entrambe le Assemblee sono elettive, si contrappone la proposta Terracini, che vorrebbe dare la preminenza ad una delle Assemblee.

L’onorevole Togliatti, in una sua interruzione, ha accennato all’esempio dell’Inghilterra. Osserva però che in Inghilterra la Camera dei Lords, che comprende la rappresentanza tradizionale delle grandi famiglie, con un piccolo quorum dovuto all’intervento della Corona, si trova in una situazione del tutto diversa dalla Camera dei Comuni, che trae la sua origine dal suffragio popolare. Ricorda in proposito il conflitto sorto nel 1911, dovuto al fatto che la Camera dei Lords voleva mantenere i suoi privilegi.

Con l’attuale Costituzione si parte invece da un sistema completamente diverso; quindi è la base fondamentale, strutturale dello Stato che viene modificata. È favorevole ad una situazione di parità fra le due Camere e, quindi, ritiene che l’emendamento non possa essere accettato.

Resta sempre la questione dei conflitti che possono sorgere, e che è bene che sorgano qualche volta. Osserva che, come ha accennato l’onorevole Mortati, sarebbe inutile costituire due Camere se non ci dovesse essere un elemento differenziale su determinate questioni.

Se si crea una seconda Camera, con tutto il prestigio che le deriva dal fatto di essere elettiva e di rappresentare le tendenze territoriali delle Regioni, crede che si debba anche prevedere la possibilità che domani possa sorgere qualche conflitto, anche se normalmente debba prevedersi il compromesso e l’accordo.

A questo punto può sorgere il problema del modo come risolvere un eventuale conflitto. Tale soluzione può essere data o dallo scioglimento dell’Assemblea o dall’adozione di quel sistema di democrazia diretta rappresentato dal referendum popolare.

Conclude sostenendo la necessità di mantenere fermo il concetto già fissato dalla Sottocommissione e cioè la parità del sistema, e di fare ricorso al referendum nel caso di conflitto fra le due Camere.

LAMI STARNUTI, premesso non esservi dubbio che un conflitto fra le due Camere possa avvenire, rileva che qualunque sia il sistema adottato, bisognerà trovare lo strumento per la sua soluzione. Due sono i modi per risolvere il problema: la proposta presentata dall’onorevole Terracini, o quella di affidare al Presidente della Repubblica lo scioglimento del conflitto attraverso il referendum popolare, o attraverso nuove elezioni. Ritiene che quest’ultimo sistema di soluzione sia troppo gravoso: se non vi è altra soluzione che lo scioglimento delle due Camere o il ricorso al referendum popolare, molte volte il conflitto rimarrà aperto e sarà strano che ciò avvenga quando una Camera abbia stabilito l’opportunità e la necessità di una determinata legge. È necessario quindi cercare un altro sistema di soluzione meno gravoso e, in certo senso, anche meno pericoloso. Rileva che, pur adottando l’ordinamento sulla base del funzionamento delle due Camere, è previsto nella Costituzione il ricorso all’Assemblea Nazionale tutte le volte in cui il voto di una sola delle due Camere non potesse sembrare decisivo. La mozione di fiducia o di sfiducia al Governo viene data così dall’Assemblea Nazionale. Ed egli domanda se non sarebbe possibile, opportunamente modificando l’emendamento dell’onorevole Terracini e senza sopprimere il ricorso al referendum nazionale cui ricorrere come extrema ratio, consentire che la Camera dei Deputati chieda la convocazione della Assemblea Nazionale per risolvere il conflitto nato fra le due Camere, in sede di discussione e di approvazione di un progetto di legge.

Comprende le osservazioni mosse dall’onorevole Einaudi: molto spesso le Camere troveranno modo di risolvere – in rapporti ufficiosi – i conflitti insorti; ma occorre formulare l’ipotesi, sia pure rara, di conflitti che non si risolvano con tale sistema, l’ipotesi delle due Camere che rimangano ciascuna decisa e ferma nel loro punto di vista. È questo il caso in cui un ricorso alla decisione dell’Assemblea Nazionale potrebbe sembrare opportuno.

Si dichiara pertanto favorevole all’emendamento Terracini, con la modifica suggerita.

FABBRI si dichiara assolutamente favorevole a mantenere i testi quali sono stati deliberati, dopo lunghe discussioni, dalla seconda Sottocommissione. In linea di fatto, ritiene che non siano così frequenti e così estremamente probabili i conflitti fra le due Camere, come è testimoniato da una lunga esperienza parlamentare. Quando poi tale previsione di conflitti si volesse riferire a quello che l’onorevole Einaudi ha chiamato un complesso di inferiorità da parte del Senato, risponderà riferendosi all’esperienza francese, ove tale complesso di inferiorità, sino a tutto il perdurare della terza Repubblica, non c’era, ma vi era anzi una superiorità da parte del Senato. Per restare al caso dell’Italia, osserva che qualunque menomazione delle prerogative dell’una o dell’altra Camera urterebbe inevitabilmente contro il sistema bicamerale che si è voluto istituire e che presenta tanti pregi. Non crede, quindi, alla possibilità di conflitti; ma quand’anche essi dovessero sorgere, è ben lungi dal considerarli una sventura, né ravvisa la necessità, teorica o pratica, di predisporre nella Costituzione un congegno per risolverli. Un conflitto, infatti, apre una discussione, determina un interessamento nel Paese, dibatte i motivi per il pro e per il contra. D’altra parte, una legislatura non è eterna e quindi la risoluzione del conflitto può essere benissimo rimandata alle future elezioni che debbono dare l’orientamento ad entrambe le Camere, tutte e due derivanti dal suffragio universale, l’una in forma diretta, l’altra indiretta.

È conseguentemente contrario anche al referendum che presenta, a suo avviso, numerosi e gravi inconvenienti, primo fra tutti quello che una pronuncia popolare in senso contrario all’una o all’altra Camera, ne svaluterebbe immediatamente la consistenza politica, implicando la necessità del suo scioglimento. Nessuna necessità pertanto, nel caso di un conflitto, di pensare a risolverlo sia dal punto di vista teorico sia da quello pratico, in quanto il breve indugio di tempo, che non sarebbe mai superiore ad una legislatura e che potrebbe anche essere abbreviato dall’iniziativa del Capo dello Stato, con lo scioglimento, in casi eccezionali, delle due Camere, non porterebbe grave danno. Si dichiara perciò contrario all’emendamento Terracini, come a quello presentato dall’onorevole Lami Starnuti, in quanto il sistema che egli propone pregiudicherebbe il principio del bicameralismo, per cui ciascuna Camera deve funzionare indipendentemente dall’altra. Aggiunge che l’osservazione dell’onorevole Lami Starnuti circa il ricorso all’Assemblea Nazionale, ammesso nella Costituzione per il voto di fiducia e di sfiducia, non è del tutto esatto. Si è infatti partiti dal concetto che il voto di fiducia o di sfiducia debba venir proposto e deliberato da ciascuna Camera e solo in quanto il Governo, nonostante il voto di sfiducia, ritenga che esso non sia rilevante, ha il diritto di appellarsi all’Assemblea Nazionale.

Ma, pur votando questa disposizione, si è considerato che sarà ben difficile che un Governo, una volta riconosciuta l’autonomia e l’indipendenza delle due Camere, essendo stato messo in netta minoranza dopo tutte le cautele che sono state adottate per il voto di fiducia, ritenga opportuno rimanere in carica e darsi il lusso di convocare l’Assemblea Nazionale alterando il principio della indipendenza delle due Camere, ed il principio bicamerale che ritiene assolutamente essenziale al buon funzionamento di un regime democratico ed equilibratore nelle sue manifestazioni di volontà.

MARINARO, rilevando come il secondo comma proposto dal Comitato accenna ad una facoltà del Capo dello Stato di indire il referendum, domanda che cosa succede della legge approvata dalla Camera, modificata o non approvata dal Senato, qualora il Capo dello Stato non eserciti l’accennata facoltà.

PRESIDENTE risponde essere chiaro che la legge non va più avanti, decade.

MARINARO osserva che ciò non gli sembra serio.

NOBILE rileva che alla base della discussione vi è la premessa di una rilevante diversità di origine elettorale delle due Camere, che può giustamente far nascere la preoccupazione di dare una parità di diritto alle due Camere. Osserva peraltro che questa è semplicemente una presunzione, perché ancona nulla è stato deciso sull’origine elettorale delle Camere stesse. Quindi, a seconda della decisione che sarà adottata, si potrà meglio valutare la portata dell’emendamento.

PRESIDENTE osserva che uno dei principî affermati è stato quello che, per lo meno, vi sarà una differenza delle categorie tra le quali si dovrà procedere alla elezione dei membri della prima o della seconda Camera.

LUSSU aderisce all’emendamento proposto dall’onorevole Lami Starnuti, emendamento che gli pare costituzionalmente accettabile.

Osserva che l’emendamento Terracini sembra non tener conto di quello che deve essere il presupposto della discussione, cioè che è stato deciso, a grande maggioranza, di concedere uguaglianza di poteri alle due Camere. Personalmente, ha votato contro tale principio, ma è il primo a dichiarare che occorre inchinarsi al volere della maggioranza. L’emendamento Lami Starnuti, comunque, gli sembra il meglio indicato a conciliare le due esigenze. Con esso si evita il referendum, che è una grave preoccupazione, e si evita lo scioglimento delle due Camere. Il conflitto si risolve in seno allo stesso Parlamento e nella maniera la più semplice e la più pacifica.

TOSATO crede opportuno che la Commissione, nel decidere la questione del conflitto fra le due Camere, tenga presente una disposizione che è stata adottata concordemente dalla seconda Sottocommissione in relazione ai possibili conflitti fra Governo e Camera. Al fine di stabilizzare, per quanto possibile, la situazione del Governo, la seconda Sottocommissione decise che, qualora una delle due Camere non approvi una proposta, per esempio un progetto di legge presentato dal Governo, questa mancata approvazione non importa, come conseguenza, l’obbligo delle dimissioni del Governo stesso. Questo si è fatto sia per stabilizzare, per quanto possibile, la posizione del Governo, sia anche per garantire, in un certo senso, la posizione di indipendenza delle Camere di fronte al Governo, il quale, per ragioni di politica generale, può a volte, come è avvenuto, influenzare la Camera ad adottare provvedimenti che forse, nei termini in cui erano stati presentati, non avrebbe approvato. D’altro canto può darsi che il conflitto fra Governo e Camera non sia così grave da provocare una crisi generale del Governo. In questa situazione non sempre sarebbe opportuno ricorrere allo scioglimento delle Camere. Per questo motivo, nella seconda Sottocommissione era stato proposto che in casi del genere vi fosse la possibilità da parte del Presidente della Repubblica di indire un referendum. Sottolinea che referendum e scioglimento delle Camere sono due istituti complementari: si tratta in ogni caso di un appello al popolo, che è la fonte della sovranità. Ora può darsi che lo scioglimento sia in alcuni casi un mezzo eccessivo e che il ricorso al semplice referendum appaia più opportuno.

L’onorevole Lami Starnuti propone di ricorrere, in questi casi di conflitto, all’Assemblea Nazionale. Non è favorevole a questo modo di risolvere la crisi, da un punto di vista teorico e pratico. L’onorevole Lami Starnuti ha ricordato che si è già fatto ricorso all’Assemblea Nazionale in molti altri casi e soprattutto per la fiducia al Governo. Ricorda però che in questa eventualità l’Assemblea Nazionale verrebbe convocata non per una questione di indole politica o di fiducia al Governo, ma per una questione attinente all’esercizio della funzione legislativa. Ora nel ricorso all’Assemblea Nazionale per quanto riguarda le questioni di Governo il principio bicamerale non giuoca, perché se un Governo approvato dall’Assemblea Nazionale viene messo in minoranza da una Camera, l’altra non può far nulla. Viceversa, per l’esercizio della funzione legislativa bisogna che il principio bicamerale giuochi in pieno. D’altra parte non comprende come l’Assemblea Nazionale possa costituire una istanza idonea per risolvere il conflitto quando, in definitiva, questa Assemblea risulta praticamente dalla riunione puramente materiale dei membri delle due Camere. Ritiene che la conseguenza pratica dell’emendamento sarebbe che, essendo la seconda Camera di composizione molto inferiore alla prima, si verrebbe ad affermare il principio della prevalenza della prima Camera rispetto alla seconda.

MOLÈ osserva che con la proposta dell’onorevole Lami Starnuti la parità tra le due Camere scompare, dato che, in base al criterio seguito per la loro elezione, la Camera dei Deputati sarà di 580 membri e quella dei Senatori di 230. Ne consegue che, in seno ad una Assemblea Nazionale, i senatori sarebbero sempre in minoranza, e quindi i conflitti praticamente non sarebbero mai risolti. Crede, invece, che si possa rimanere, secondo la formulazione dell’articolo 18, nel campo della discrezionalità del Capo dello Stato cui ha accennato l’onorevole Tosato. Vi possono essere progetti di legge che hanno un’importanza relativa, e stabilire rigidamente il principio di ricorso, comunque all’Assemblea Nazionale, per qualsiasi progetto di legge, creerebbe uno stato permanente di agitazione nei Paese; mentre il Capo dello Stato può giudicare sulla opportunità o meno di ricorrere al referendum o allo scioglimento delle Camere. È d’avviso che sia necessario lasciare al Capo dello Stato questo potere discrezionale senza entrare in una discussione che verrebbe a vulnerare il principio della parità delle due Camere, e propone l’approvazione dell’articolo 18 che appunto concede al Capo dello Stato questa facoltà.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Marinaro ha chiesto la chiusura della discussione. La pone ai voti, riservando la parola all’onorevole Laconi per rispondere agli oratori.

(È approvata).

LACONI, rispondendo allo obiezioni mosse all’emendamento Terracini, sottolinea non essere esatto che nel sistema parlamentare, così come è stato concepito dalla Costituzione, sia fissata una parità assoluta fra le due Camere. Quando si stabilisce che nei momenti decisivi e per le deliberazioni fondamentali è il Parlamento a decidere, si è già stabilita una posizione di differenziazione fra la prima e la seconda Camera, una posizione cioè di subordinazione numerica della seconda Camera rispetto alla prima. In sostanza, perciò, la disposizione in discussione dovrà essere armonizzata a questo dislivello sancito nel caso di questioni importanti.

L’onorevole Mortati ha detto che è stata scartata la tesi di fare della seconda Camera una specie di Camera di riflessione e si è acceduto alla tesi di una seconda Camera che integrasse la prima. Pensa che questa visione di una seconda Camera, integrativa della prima, sia caduta quando è caduta la concezione della seconda Camera come rappresentante di forze vive del Paese, che avrebbe portato ad una specie di irreggimentazione di tutto il popolo italiano entro determinate categorie. L’esperienza del passato può offrire dei lumi; e l’onorevole Einaudi ne ha portato qualcuno, ricordando che il Senato si trovava in passato in condizioni di subordinazione verso la prima Camera e pativa di una specie di complesso di inferiorità.

L’onorevole Einaudi ha detto che questo complesso di inferiorità derivava dalla sua origine, ma anche adesso questo stato di inferiorità resterà, se la seconda Camera sarà eletta su una base inferiore rispetto alla prima.

Comunque, la discussione si aggira sulla questione dei conflitti. All’onorevole Einaudi, il quale ha detto che l’essenza di un regime parlamentare è che vi siano conflitti, risponde essere in una democrazia giusto che vi siano conflitti tra forze politiche diverse all’interno di organi in cui tutte le correnti siano egualmente rappresentate; ma non ritiene che sia nell’essenza della democrazia che debbano esistere conflitti all’interno di uno stesso potere, e precisamente del potere legislativo. Ciò costituirebbe una remora a tutta l’attività legislativa. È quindi necessario fare il possibile perché questo danno non si verifichi, soprattutto prevedendo una composizione degli organi del potere legislativo ed una soluzione dei conflitti tali che impediscano la possibilità di una situazione di conflitti permanenti, tanto più in quanto, attraverso tutte le soluzioni proposte, si è dovuto introdurre in seno al potere legislativo, per comporre conflitti fra i due organi diversi, un arbitro esterno quale il Capo dello Stato.

Per queste ragioni, ritiene che le eccezioni sollevate all’emendamento dell’onorevole Terracini non siano fondate. Personalmente è d’avviso, comunque, che si possa accedere alla proposta dell’onorevole Lami Starnuti, che prevede il ricorso all’Assemblea Nazionale.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta Lami Starnuti, ai sensi della quale, quando un disegno di legge è approvato da una Camera e respinto o modificato dall’altra, la prima Camera può chiedere o che la questione sia rimessa all’Assemblea nazionale o che sia sottoposta a referendum.

LUSSU dichiara di essere contrario al referendum.

NOBILE dichiara che voterà a favore dell’emendamento Lami Starnuti.

PICCIONI dichiara di essere contrario all’intero testo dell’emendamento.

PRESIDENTE pone ai voti la prima parte dell’emendamento dell’onorevole Lami Starnuti, sostitutivo del secondo comma dell’articolo 18, così formulata:

«Quando un disegno di legge è approvato da una delle due Camere e rigettato o modificato dall’altra, la prima Camera può chiedere che la questione sia rimessa alla Assemblea Nazionale».

(La prima parte dell’emendamento non è approvata).

Pone ai voti la seconda parte dell’emendamento, con la quale si stabilisce la possibilità del ricorso al referendum.

(Non è approvata).

Pone infine in votazione la proposta Mortati, appoggiata dagli onorevoli Grassi e Molè, di adottare per il secondo comma dell’articolo il testo approvato dal Comitato di redazione limitatamente alla facoltà concessa al Presidente della Repubblica di indire un referendum popolare sul disegno di legge approvato, con esclusione quindi dello scioglimento delle due Camere.

(È approvata).

Comunica che l’articolo 18 rimane definitivamente così formulato:

«I disegni di legge approvati da una Camera sono trasmessi all’altra, che deve pronunciarsi entro tre mesi da quando li ha ricevuti. Tale termine può essere variato per accordo fra le Camere.

«Quando una Camera non si pronuncia entro il termine stabilito, sopra un disegno di legge approvato dall’altra, o quando lo rigetta, il Presidente della Repubblica può chiedere che la Camera stessa si pronunci o riesamini il disegno. Se non si pronuncia o se con la nuova deliberazione conferma la precedente, il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire un referendum popolare sul disegno non approvato».

La seduta termina alle 12.20.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Dominedò, Einaudi, Fabbri, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Bordon, Bozzi, Cannizzo, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Dossetti, Fanfani, Giua, La Pira, Leone Giovanni, Lombardo, Merlin Lina, Merlin Umberto, Paratore, Pesenti, Porzio, Rapelli.

Assente giustificato: Ghidini.

LUNEDÌ 27 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

21.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 27 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Elezione della Camera dei Deputati

Presidente – Fuschini – Conti – Terracini – Targetti – Einaudi – Cevolotto – Cappi.

Elezione della Camera dei Senatori

Presidente – Fabbri – Terracini – Conti – De Vita – Tupini – Moro – Targetti – Grassi – Mannironi – Lucifero – Mastrojanni – Nobile.

«Prorogatio» delle due Camere

Presidente – Mortati – Cevolotto – Terracini – Mastrojanni – Grassi – Uberti – Lucifero – Nobile – Fabbri – Laconi.

Giuramento dei membri del Parlamento

Presidente – Conti – Terracini – Fabbri – Cevolotto – Uberti.

La seduta comincia alle 10.45.

Elezione della Camera dei Deputati.

PRESIDENTE avverte che è da prendere in esame l’articolo relativo alla elezione della Camera dei Deputati. Nel testo del Comitato di redazione esso è così formulato:

«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio diretto ed universale, in ragione di un deputato per centomila o frazione superiore a cinquantamila abitanti».

L’onorevole Fuschini ha proposto invece una modificazione tendente all’ampliamento del numero dei deputati, portando la cifra degli abitanti da centomila a ottantamila.

FUSCHINI rileva che la diminuzione del numero dei membri della Camera dei Deputati si risolve, in ultima istanza, in una diminuzione della sua autorità. È, peraltro, da considerare che in Italia il numero dei deputati è stato calcolato sulla cifra che, come fu rilevato in seno alla Commissione per la legge elettorale della Costituente, non era mai salita al disopra di 60.000 abitanti. Tale cifra fu elevata a 75.000, in considerazione del fatto che avrebbero partecipato alla vita politica anche le donne.

Ora, in base alla cifra di centomila abitanti, come si propone nel progetto, si avrebbe una Camera di 420 a 430 deputati. La diminuzione sarebbe, a suo parere, eccessiva. La Costituente ha avuto 556 deputati: ma anche le Camere normali non sono state mai inferiori ai 500 deputati e si arrivò a 535, numero massimo cui si è pervenuti in periodo normale.

Propone, quindi, di portare ad 80.000 il numero degli abitanti per ogni deputato, così da avere all’incirca una rappresentanza popolare di 500 deputati. È bene che la Camera dei Deputati presenti una maggior rilevanza, anche rispetto al numero della Camera dei Senatori. È ben vero che si è detto che il numero dei senatori fissi che dovrebbero essere stabiliti per ogni Regione sarebbe di cinque: vi saranno tuttavia quattro Regioni – se si vuol considerare anche il Molise – che non potranno avere cinque senatori fissi nel senso indicato dalla legge, giacché vi è una disposizione per cui il numero complessivo dei senatori non può essere in ciascuna zona superiore a quello dei deputati nella zona stessa. È evidente, quindi, che nella Lucania, nell’Umbria, nella Venezia Tridentina, ed ora anche nel Molise, si dovrà diminuire il numero fisso dei senatori. Ora, in base a questa disposizione, il Senato avrà una composizione che si aggirerà intorno ai 310 membri. Pensa, peraltro, che una differenza di soli 110 a 120 membri tra la Camera e il Senato non sia adeguata all’importanza maggiore che politicamente alla prima Camera si attribuisce. Si è ammessa la parità costituzionale e giuridica delle due Camere, ma una differenza la Commissione l’ha pure ammessa circa il numero dei rispettivi membri. Crede che tale differenza debba essere, in un certo senso, un po’ più accentuata, per conferire alla prima Camera una maggiore importanza, anche dal punto di vista della sua figurazione esterna, e soprattutto per non accostarsi dalla vecchia norma che sia la popolazione a determinare il rapporto.

CONTI dichiara di essere nettamente contrario all’aumento del numero dei deputati e propone anzi che l’aliquota di 100.000 abitanti sia elevata a 150.000. Le ragioni addotte dall’onorevole Fuschini piaceranno forse moltissimo a tanti fuori di qui; ma crede che, per quanto riguarda i corpi legislativi, la Costituzione debba essere fatta con una alta preoccupazione: quella di costituire dei complessi che non siano suscettibili di trasformarsi in comizi. Non occorre che i legislatori siano tanti: è necessario che siano buoni. Non ritiene che il numero significhi rappresentanza esatta, autentica, genuina della volontà popolare; la volontà popolare la interpretano uomini onesti, sinceri.

Molte sono le ragioni di questa sua persuasione; ve n’è persino una finanziaria: si tratta infatti anche di disporre del pubblico denaro. Se oggi le rappresentanze sono tenute in considerazione anche per le fatiche che svolgono nel pubblico interesse, v’è anche un’indennità che corrisponde al lavoro che i rappresentanti del popolo compiono nell’interesse generale, e sono cifre che si elevano ogni giorno di più. Altra circostanza importantissima: si avranno la prima Camera, la seconda Camera, le Assemblee regionali, le quali comporteranno un numero notevole di rappresentanti che forse supererà il migliaio. Ciò significa aumentare enormemente le spese per le indennità ai rappresentanti anche regionali.

Si deve anche considerare che il Paese non è affatto appassionato per questo aumento del numero dei rappresentanti. Il Paese terrà certamente in pregio una deliberazione dell’Assemblea che esprima un concetto di austerità circa la composizione delie Camere.

L’onorevole Fuschini ha fatto presente che il numero dei deputati è in relazione a quello dei membri della seconda Camera.

Non ha nessuna difficoltà a ritenere che i componenti della seconda Camera debbano essere in numero inferiore. In realtà si tratta di problemi molto più gravi, da non valutarsi alla stregua di una differenziazione numerica. Comunque, se i senatori devono essere in numero inferiore ai deputati, e si è stabilita una percentuale che porterebbe invece il loro numero ad una cifra superiore, basta variare la percentuale per tornare alle proporzioni volute.

Ma il criterio fondamentale che sostiene è che il numero dei deputati debba essere ridotto, respingendo la proposta dell’onorevole Fuschini di diminuire a 80.000 il numero di abitanti per ogni deputato, e portandolo, se mai, a 150.000.

TERRACINI accetta la proposta dell’onorevole Fuschini per tutte le argomentazioni che egli ha svolto, e desidera dire che le argomentazioni contrarie esposte dall’onorevole Conti in realtà sembra che riflettano certi sentimenti di ostilità, non preconcetta, ma abilmente suscitata fra le masse popolari contro gli organi rappresentativi nel corso delle esperienze che non risalgono soltanto al fascismo, ma assai prima, quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era la esautorazione degli organi rappresentativi.

Quanto alle spese, ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza. Del resto l’onorevole Conti, anche per la sua carica, sa bene che il bilancio dell’Assemblea costituente si è mantenuto in cifre che stanno a provare quel principio di riservatezza che egli invoca nella soddisfazione delle esigenze dei rappresentanti popolari.

L’argomento poi della troppo numerosa schiera, che, appunto a motivo del numero eccessivo, non sarebbe in condizioni di assolvere il suo dovere, gli sembra poco solido.

In fondo le elezioni rappresentano soltanto un primo momento, quello della scelta dei responsabili della vita politica del Paese; ma è noto che nell’interno delle Assemblee elette avviene una seconda scelta, naturalmente causata dalle particolari attitudini dei componenti, via via che essi hanno occasione di mettersi in rilievo.

Gli elementi attivi, che restano nel Parlamento, senza essere superati da nuove elezioni, si riducono sempre notevolmente in confronto del numero totale dei componenti le Camere; e se si vuole costituire un nucleo centrale che svolga un’azione abbastanza forte per garantire la continuità della vita politica del Paese, occorre che la prima scelta, quella degli elettori, avvenga in limiti, se non troppo ampi, non così ristretti come quelli che propone l’onorevole Conti.

Quindi, anche per l’utilità della vita politica del Paese, è necessario accettare la proposta dell’onorevole Fuschini, alla quale dichiara di dare la sua adesione.

TARGETTI è favorevole alla proposta Fuschini, alla quale augura una fortuna migliore di quella che ebbe una sua proposta fatta in seno alla seconda Sottocommissione. Le ragioni portate in contrario non crede che siano convincenti. Forse l’argomento che può fare più presa è quello della esistenza dei Consigli regionali. Si dice da alcuni che la costituzione dell’ente regione diminuirà il lavoro del Parlamento. Questo non è esatto, perché se diminuirà la quantità delle questioni, l’importanza del compito che ha il Parlamento dipende dalla natura del compito stesso che rimane identico, anche con la costituzione della Regione.

Vuol ricordare ai colleghi qualche dato statistico circa la consistenza numerica del Parlamento in altre Nazioni europee. La Francia ha 617 deputati con una popolazione inferiore alla nostra. Il Belgio, con una popolazione a stima (cioè superiore a quella dell’ultimo censimento) di circa 9 milioni di abitanti, ha 202 deputati. La Gran Bretagna ha 615 deputati. Non comprende ora in base a quale nuova concezione si dovrebbe da parte nostra fare la riduzione proposta.

EINAUDI per semplice chiarimento osserva che se sarà applicata, per determinare il numero dei deputati, la cifra del censimento ultimo, che portava 42 milioni di abitanti, i deputati sarebbero 525; se invece si dovesse accogliere la cifra attuale, che è di circa 46 milioni, i deputati sarebbero 580.

FUSCHINI osserva che occorre far riferimento all’ultimo censimento.

CEVOLOTTO si rende conto delle ragioni veramente poderose esposte dagli onorevoli Conti e Terracini, ma si preoccupa di un altro aspetto della questione. Qualora si adotti, come pare certo, il sistema proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati, occorre considerare che la proporzionale non funziona bene se non con un certo numero rilevante di deputati per ogni collegio; e allora, se si diminuisce il numero dei deputati, bisogna aumentare l’estensione territoriale dei singoli collegi nei quali si svolgono le elezioni, altrimenti la proporzionale non funziona o funziona male. Questo aumento dell’estensione dei collegi, viceversa, non è opportuno, anzi l’esperienza insegna che sarebbe utile una riduzione. La diminuzione del numero di deputati renderebbe più difficile fare poi una buona legge proporzionale.

CAPPI non è del tutto persuaso delle ragioni addotte dall’onorevole Fuschini. Egli dice che bisogna riferirsi all’ultimo censimento. La realtà è che oggi l’Italia ha 45-46 milioni di abitanti e, quindi, si avrebbero 580 deputati, creando un divario troppo forte fra la prima e la seconda Camera.

Ora, stabilendo un deputato per ogni 90.000 abitanti, si avrebbero 500 deputati, il numero tradizionale della Camera italiana. Quindi, proporrebbe che si modificasse l’articolo nel senso che sarà eletto un deputato ogni 90.000 abitanti.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Fuschini di sostituire alla cifra di 100.000 l’altra di 80.000.

(La Commissione approva).

Elezione della Camera dei Senatori.

PRESIDENTE avverte che la Commissione è chiamata ad esaminare il terzo comma dell’articolo relativo alla elezione della Camera dei Senatori.

Il testo del comma approvato dal Comitato di redazione è del seguente tenore:

«I senatori sono eletti per un terzo dai membri del Consiglio regionale e per due terzi dai consiglieri comunali della Regione».

Vari emendamenti sono stati presentati a questa norma. L’onorevole Fuschini ha proposto il seguente:

«I senatori sono eletti per la metà dai membri delle Assemblee regionali e dai consiglieri comunali dei Comuni superiori a 10.000 abitanti, e per l’altra metà dai consiglieri comunali dei Comuni inferiori a 10.000 abitanti».

Seguono poi altre proposte:

Proposta Ambrosini: «I senatori sono eletti per un terzo dai membri delle Assemblee regionali, per un terzo dai consiglieri comunali dei Comuni inferiori a 30.000 abitanti e per il rimanente terzo dai consiglieri comunali dei Comuni superiori a 30.000 abitanti».

Proposta Tosato, Piccioni, Fuschini: «La quota fissa dei senatori assegnati ad ogni Regione è eletta dalle rispettive Assemblee regionali. La rimanente quota, nella proporzione di un senatore per ogni 200.000 abitanti, è eletta dai consiglieri comunali della Regione divisi in tre gruppi: dei Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti; con popolazione superiore a 5.000 abitanti e inferiore ai 30 mila; con popolazione superiore ai 30.000. Ciascuno dei tre gruppi elegge un numero di senatori proporzionale alla popolazione».

Proposta Rossi Paolo, Targetti: «I deputati alla seconda Camera sono eletti. Regione per Regione, da un collegio composto da tutti i consiglieri regionali e da un numero doppio di delegati, all’uopo nominati a suffragio universale».

Altra proposta Targetti, Rossi Paolo: «La seconda Camera è eletta per un terzo dai Consigli regionali e per due terzi con suffragio universale, diretto e segreto».

Proposta Nobile: «L’elezione dei membri della seconda Camera ha luogo a suffragio universale, diretto e segreto, da parte di tutti i cittadini aventi diritto al voto che abbiano superato l’ennesimo (n = un numero intero compreso fra 22 e 26 anni) anno di età».

Proposta Laconi: «La seconda Camera è eletta da collegi regionali a suffragio universale indiretto, secondo le modalità stabilite dalla legge. (Formula francese)».

Proposta Perassi: «Un terzo dei senatori è eletto dal Consiglio regionale ed il resto da delegati eletti a suffragio universale dai Comuni di ciascun mandamento della Regione, fra gli elettori iscritti nei Comuni del mandamento, in proporzione degli abitanti secondo le modalità stabilite dalla legge».

La questione si presenta, dunque, così complessa che sarà opportuno ascoltare i proponenti delle varie proposte per poi venire alla decisione in merito.

Poiché l’onorevole Perassi non è per il momento presente, propone che l’esame dell’argomento sia rinviato al pomeriggio.

(Così rimane stabilito).

È stata prospettata la possibilità che un determinato numero di senatori, per esempio, una trentina, sia nominato dal Presidente della Repubblica.

FABBRI chiede se si tratti di nomina temporanea oppure a vita.

PRESIDENTE. Si intende che la nomina sarebbe temporanea.

TERRACINI osserva che la domanda dell’onorevole Fabbri può servire ad orientare la discussione per giungere ad una soluzione negativa. La ragione che potrebbe giustificare la delega al Presidente della Repubblica a nominare un certo numero di senatori è che vi sono persone le quali, in possesso di requisiti di carattere particolarissimo, possono rifuggire dalla vita politica, ciò che, se mai, sarebbe un elemento deteriore della loro attività Ad ogni modo, se questi sono i requisiti che li indicano, si tratta di requisiti non destinati a scomparire e, quindi, la loro nomina a senatori dovrebbe essere a vita. Ma la seconda Camera è stata concepita come un organismo che dev’essere sottoposto anch’esso ad un rinnovamento periodico e non si possono prevedere eccezioni a questa norma. In secondo luogo, ogni celebrità, per quanto viva astratta dalla vita politica, ha in definitiva di fronte ai problemi politici un suo determinato atteggiamento. Se la seconda Camera deve continuare a riflettere, sia pure con gli adeguamenti conseguenti al suo modo di costituzione, la fisionomia politica generale del Paese, è evidente che non si può ammettere che vi siano elementi preordinati i quali, di per sé, sarebbero sufficienti a modificare e sconvolgere, sia pure non fondamentalmente, tale fisionomia politica.

Per tutti gli altri argomenti rinvia i colleghi alla lettura dei resoconti della seconda Sottocommissione.

CONTI dichiara che quando, per iniziativa di alcuni amici del suo partito, è stato proposto di esaminare anche la possibilità di una nomina da parte del Capo dello Stato di membri della seconda Camera, ciò si è fatto unicamente per porre allo studio la questione e non per convincimento favorevole alla proposta. Durante le discussioni la proposta è stata abbandonata.

È pertanto d’accordo con l’onorevole Terracini.

PRESIDENTE pone ai voti la possibilità di riservare al Presidente della Repubblica la nomina di un determinato numero di senatori.

(La Commissione non approva).

Il terzo comma dell’articolo relativo alla elezione della Camera dei Senatori è cosi formulato:

«Sono eleggibili a senatori gli elettori, nati o domiciliati nella Regione, che hanno compiuto trentacinque anni di età, ecc.».

L’onorevole Tupini ha proposto che siano soppresse le parole: «nati o domiciliati» almeno per la categoria degli ex Presidenti della Repubblica, Ministri o Sottosegretari di Stato, deputati all’Assemblea costituente o alla Camera dei Deputati, avvertendo che non si richiede, per il Presidente dell’Assemblea regionale, che sia nato o domiciliato nella Regione.

TERRACINI osserva che se non sì chiede tale requisito per il Presidente dell’Assemblea regionale, ciò suppone sia dovuto al fatto che si è trascurato di esaminare il problema, oppure al fatto che si è considerato che la soluzione si presentava talmente chiara in senso contrario che non era necessario parlarne, o ancora, che siccome vi sarà una legge elettorale che definirà i modi delle elezioni dell’Assemblea regionale, si è pensato che questa legge elettorale avrebbe risolto il problema nel senso di subordinare la presenza o la nascita nella Regione alla possibilità di assumere la carica di Presidente dell’Assemblea regionale. Pensa che tutto quello che è stato detto debba portare alla conclusione che non è pensabile che vi sia nell’Assemblea regionale, oppure che si possa eleggere dall’Assemblea regionale come rappresentanza della Regione nella seconda Camera, qualcuno che non sia direttamente legato alla vita della Regione o per la nascita, o per l’attività che vi ha svolto.

DE VITA si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Terracini.

FABBRI ritiene che, nei casi dell’abbandono della città natale, sia sufficiente il requisito della nascita per essere eletto.

TUPINI ritiene eccessiva la restrizione ad una manifestazione tipica della volontà del corpo elettorale, nel senso che non possa essere eletta una persona che, in talune circostanze, può anche costituire una ragione di prestigio e risonanza dello stesso corpo elettorale.

Sottopone soltanto questo elemento di valutazione, ben lieto se sarà condiviso dalla Commissione.

MORO osserva che, conservando le parole: «nati o domiciliati nella Regione», si viene a creare una specie di cittadinanza regionale, accentuando ancora di più quella distinzione fra Regioni che può ledere l’unità nazionale. Si rischia di dividere in compartimenti stagni il complesso della vita nazionale.

D’altra parte, i rappresentanti della seconda Camera saranno rappresentanti nazionali, come tutti i deputati.

È inoltre da rilevare che nella struttura della seconda Camera non è così accentuata la rappresentanza regionale da giustificare le condizioni di cui si discute; tanto più che il requisito della nascita può essere puramente casuale, mentre vi possono essere altre ragioni che prescindono sia dalla nascita, che dal domicilio; prescrizione questa che si può eludere facilmente attraverso una iscrizione frettolosa alla vigilia delle elezioni.

TARGETTI, a nome anche dei colleghi onorevoli Bocconi e Lami Starnuti, dichiara di associarsi alla proposta di soppressione delle parole: «nati o domiciliati».

GRASSI è dolente di essere contrario alla proposta dell’onorevole Tupini. Pur ritenendo che le ragioni esposte così lucidamente dall’onorevole Terracini siano sufficienti, desidera rilevare che la struttura dello Stato si fonda, a suo parere, sul carattere distintivo che si intende dare alle due Camere, nel senso che si vuole che la Camera dei Senatori abbia il fondamento nella Regione. Se non si richiede per i senatori un legame alla Regione rappresentata, attraverso la nascita o il domicilio, si viene a creare un duplicato della Camera dei Deputati.

D’altra parte vi è la possibilità di sanare qualche particolare situazione col cambio del domicilio, che dovrà essere circondato da opportune cautele.

MANNIRONI è anch’egli del parere che questa condizione per la eleggibilità a senatore debba essere mantenuta, dolente di dover dissentire dalle argomentazioni esposte dall’onorevole Tupini.

In sede di seconda Sottocommissione, si è sostenuto che la seconda Camera debba essere veramente ed effettivamente espressione della vita delle Regioni.

Ora, in omaggio a questo principio, si è ritenuto che non possano rappresentare gli interessi della Regione se non coloro che in qualche modo vi siano legati.

LUCIFERO dichiara di essere contrario alla proposta Tupini. Se la seconda Camera deve rappresentare effettivamente la nuova organizzazione regionale del Paese, i senatori devono essere legati alle Regioni che rappresentano. Ritiene, anzi, che il requisito della «nascita» non è di per sé sufficiente; vi sono persone nate casualmente in una data Regione. A suo parere anche il requisito del «domicilio» è essenziale.

MASTROJANNI è favorevole alla proposta dell’onorevole Tupini, perché pensa che volere identificare le Regioni negli uomini significhi esasperare il campanilismo, ormai sorpassato.

Qualunque italiano, che conosca la Vita, l’attività economica, il sentimento, l’orientamento di una Regione, può benissimo rappresentarne gli interessi.

Obbligare l’elettore a scegliere esclusivamente come rappresentanti uomini della propria Regione significa, a suo parere, coartarne la volontà. Le argomentazioni dell’onorevole Tupini non possono essere disconosciute: vi possono essere legami sentimentali e familiari, che prescindono dalla nascita e dal domicilio.

CONTI dichiara di essere contrario alla proposta.

NOBILE. La logica stringente dell’onorevole Terracini dovrebbe convincere gli entusiasti fautori dell’ordinamento regionale a votare contro la proposta Tupini. Egli, che non è tra costoro, voterà, invece, favorevolmente.

In verità, questa seconda Camera – che si vuol chiamare Camera dei Senatori – di regionale ha molto poco; forse le rimane quel terzo di rappresentanti eletti dalle Assemblee regionali. Se mai, si potrebbe ammettere per questa quota la limitazione della nascita e del domicilio; ma non per gli altri due terzi, che sono eletti, direttamente o indirettamente, dal corpo elettorale.

Associandosi, quindi, alle ragioni esposte dall’onorevole Moro, dichiara che voterà favorevolmente alla proposta Tupini.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di sopprimere dal testo le parole: «nati o domiciliati».

(La Commissione non approva).

«Prorogatio»» delle due Camere.

PRESIDENTE. Altra questione sulla quale sono sorte divergenze in seno al Comitato di redazione è quella relativa alla prorogatio o meno delle due Camere.

L’articolo predisposto dal Comitato di redazione è del seguente tenore:

«Le due Camere sono elette per cinque anni.

«I loro poteri cessano con la riunione delle nuove Camere.

«La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso che vi sia imminente pericolo di guerra o che la guerra sia in corso.

«Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. Il provvedimento che le indice fissa la prima riunione delle Camere non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni».

In seno al Comitato di redazione è stato proposto:

«Le due Camere sono elette per cinque anni.

«Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo contemporaneamente, non prima di trenta giorni e non più tardi di novanta dalla fine delle precedenti per decorso di termine o per scioglimento di una delle due Camere, che implica lo scioglimento anche dell’altra.

«La prima riunione delle Camere è fissata non oltre venti giorni dalle elezioni».

Seguirebbe poi un altro articolo:

«La legislatura può essere prorogata con legge solo nel caso vi sia imminente pericolo di guerra o la guerra sia in corso».

La prima tesi, favorevole alla prorogatio delle due Camere nel periodo di elezione delle nuove, offre l’inconveniente che i deputati continuano ad esercitare un mandato già scaduto; la seconda tesi, che si indicano le elezioni negli ultimi giorni di vita delle Camere, per cui non vi sarebbe un periodo di interruzione, offre l’inconveniente che vi sarebbero deputati in carica e nuovi deputati eletti.

La questione si collega alla seguente proposta fatta da alcuni in seno al Comitato di redazione:

«È costituita una Giunta permanente composta di membri designati per due terzi dalla Camera dei Deputati e per un terzo da quella dei senatori, in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi.

«La Giunta permanente, che è presieduta dal Presidente dell’Assemblea Nazionale, concilia le divergenze fra le due Camere; e nei periodi di aggiornamento e di intervallo fra le legislature controlla l’azione del Governo e si pronuncia nei casi di assoluta urgenza».

MORTATI osserva che contro l’emendamento militano due ragioni: anzitutto quella cui accennava il Presidente, e cioè la situazione curiosa di due categorie di deputati, a cui si aggiunge il turbamento che si viene a determinare nella vita della Nazione nell’ultimo periodo della vita della Camera, dato che i deputati sono in giro nei loro Collegi per le elezioni. In secondo luogo la norma che si propone, in caso di scioglimento, non potrebbe trovare applicazione. Viceversa la prorogatio approvata dalla Sottocommissione ha questa ragion d’essere: provvede alle esigenze improvvise ed urgenti, cui il Governo non potrebbe corrispondere da solo. La norma si deve mettere in rapporto con il divieto della decretazione d’urgenza.

Secondo i principî generali di correttezza costituzionale, gli organi legislativi, dopo l’esaurimento del loro mandato, non possono attendere a nessun compito che non sia di ordinaria amministrazione; quindi la Camera non ha ragione di riunirsi dopo il suo scioglimento, perché non potrebbe attendere che a compiti di ordinaria amministrazione, compiti che non ha. Sotto questo aspetto non avrebbe neanche ragion d’essere la prorogatio. Viceversa, siccome si è esclusa la possibilità per il Governo di emanare decreti d’urgenza, si è ritenuto opportuno, nella ipotesi che si verifichi uno di questi casi, di richiedere il consenso della Camera.

Opportunamente il Presidente ha ricordato la proposta della costituzione di una Giunta permanente che si ricollega a questo problema. Il punto da risolvere è proprio questo: ammesso che la Camera disciolta non ha nessuna ragione di riunirsi, se non nei casi eccezionali della decretazione d’urgenza, è opportuno che a questa esigenza si provveda con tutta l’Assemblea o con una semplice Giunta permanente? Non v’è dubbio che la soluzione più logica è quella del mantenimento in vita della Camera disciolta, perché essa, nella sua totalità, rappresenta qualcosa di più efficiente che non una semplice Giunta permanente. Per tali motivi ritiene degno di approvazione il testo della Sottocommissione.

CEVOLOTTO è d’accordo con l’onorevole Mortati nel ritenere che sarebbe molto difficile fare le elezioni nell’ultimo periodo della vita di una Camera senza portare un turbamento nella vita del Paese; d’altra parte, però, è anche del parere che, in caso di scioglimento della Camera, il sistema proposto non possa attuarsi. D’altro canto, osserva che la questione non ha una grandissima importanza, perché nella pratica parlamentare di molti Paesi accade senza danno che la Camera cessa dalle sue funzioni per il periodo di tempo necessario allo svolgimento delle elezioni. Anche se in questo periodo la Camera non siede, non si sono manifestati inconvenienti tali da dover ricorrere alla prorogatio. Quindi pensa che si possa far ritorno al sistema finora usato.

TERRACINI osserva che l’onorevole Cevolotto ha ragione quando considera il caso, che direbbe il meno frequente, della morte naturale di una Camera. È noto però, per la conoscenza del passato, che nessuna Camera giunge alla sua fine naturale e che c’è sempre uno scioglimento anticipato, sia pure non dovuto a cause gravissime. Ed allora è proprio per questa evenienza che ritiene che occorra ricorrere ad alcuni accorgimenti, ed evidentemente quello della prorogatio presenta tutta una serie di lati difettosi che non si possono trascurare. È questa la ragione per la quale pensa sia opportuno accettare la proposta della costituzione d’una Giunta permanente, la quale però non dovrebbe avere il compito di conciliare le divergenze fra le due Camere, dato che divergenze del genere non si sanano a mezzo di trattative dirette, ed in quanto hanno una causa politica possono trovare soluzioni nel momento stesso in cui si verificano. Viceversa questa Giunta è necessaria per i casi nei quali le Camere sono sciolte in seguito ad un conflitto con il Governo ed il Governo ritiene, appoggiato dall’autorità del Presidente della Repubblica, di poter trovare una soluzione appellandosi al Paese.

In questa situazione si apre la prospettiva di un periodo di tempo durante il quale il Governo, approfittando dell’intervallo, voglia realizzare non tanto un colpo di Stato, quanto delle riforme che fino a quel momento non ha potuto portare dinanzi alle Camere. La presenza della Giunta costituirebbe una garanzia nei confronti del Governo che ha proceduto allo scioglimento della Camera, non già per impedirgli qualcosa, ma per evitare ciò che il Governo non potrebbe fare se non di fronte alle Camere elettive. La Giunta dovrebbe tenere le sue sedute pubbliche ed essere subordinata alle stesse norme che regolano l’attività del Parlamento.

Per queste ragioni ritiene che non si debba accettare la proposta formulata dalla seconda Sottocommissione, e cioè di elezioni che avvengono essendo ancora in funzione la legislatura destinata a scomparire; di non accettare, cioè, l’istituto della prorogatio, che crea innegabilmente quella situazione dannosa della presenza contemporanea di deputati della Camera disciolta ancora in funzione e di neo-deputati eletti, e che per di più permette ai candidati che fanno parte della Camera disciolta di presentarsi di fronte agli elettori in una situazione di privilegio nei confronti dei candidati che ancora non ricoprono un mandato parlamentare; di accettare, invece, il criterio della Giunta permanente, la quale rimarrebbe non solo in funzione negli intervalli normali fra una legislatura e l’altra, ma anche in caso di scioglimento delle Camere.

MASTROJANNI è contrario alla creazione d’una Giunta permanente, la quale, sedendo in un periodo critico, sarebbe di per se stessa esautorata, servirebbe al Governo come paravento e d’altronde, funzionando nel periodo in cui la Camera è già sciolta, non avrebbe alcun potere di controllo, né rispecchierebbe la volontà popolare. D’altra parte consentirebbe la protrazione di uno stato di fatto eccezionale, che verrebbe ad essere formalmente ratificato da questo consesso ridotto ed eluderebbe le aspettative del popolo, non consentendo una rapida formazione della nuova Camera. Preferirebbe quindi che le cose rimanessero nello stato in cui si sono sempre svolte, con un periodo d’intervallo durante il quale il Governo si assume da solo la responsabilità di governare.

GRASSI, rispetto alle ipotesi che le Camere compiano il loro periodo normale di vita o che siano sciolte, ritiene che sia necessario l’appello al popolo per le nuove elezioni, lasciando al Governo la responsabilità dell’ordinaria amministrazione. Può verificarsi il caso di guerra per cui si debba provvedere a prorogare la legislatura. È, in ogni modo, contrario alla costituzione di una Giunta permanente, sia pure per casi eccezionali, perché si creerebbe un organo al di sopra del Parlamento e, dal punto di vista pratico, vi sarebbero rappresentanti di organi che non esistono più.

D’altra parte, bisogna riconoscere che il Governo, così come è concepito nella nuova struttura costituzionale, non è più il Gabinetto che raccoglie la fiducia delle Assemblee e del Capo dello Stato, ma è l’esponente delle Assemblee e rappresenta una coalizione di partiti, ossia rappresenta proprio quella Giunta permanente che si vorrebbe creare.

UBERTI è contrario alla costituzione della Giunta permanente, perché, a suo parere, viene a falsare il sistema bicamerale, introducendo un potere pericoloso che potrebbe anche soverchiare il funzionamento delle due Camere.

Nella composizione della Giunta non è rispettata poi la parità delle due Camere, in quanto la Camera dei Senatori è rappresentata solamente per un terzo. Si verrebbe, inoltre, a diminuire il prestigio del Parlamento, perché il Governo, se prenderà dei provvedimenti durante il periodo che corre tra lo scioglimento delle vecchie Camere e l’elezione delle nuove, dovrà rispondere dinanzi a queste ultime, mentre se vi sarà la Giunta permanente si trincererà dietro di essa.

Dopo che per tanti anni il Parlamento non ha più funzionato, pensa che sia necessario respingere qualsiasi misura che possa intaccarne l’autorità.

LUCIFERO è contrario alla Giunta permanente, oltre che per le ragioni dette dai precedenti oratori, perché vede nella sua costituzione un significato recondito. Si vorrebbe far funzionare questa Giunta non solo nell’intervallo fra le legislature, ma anche nell’intervallo tra le sessioni parlamentari. La Giunta potrebbe domani servire per sottoporle quelle determinate questioni che non si vogliono portare dinanzi alle Camere. D’altra parte, anche nel periodo tra le due legislature, è evidente che il Governo ha la responsabilità di quello che accade nel Paese e le vecchie Camere non hanno più nessuna autorità, perché devono affrontare il giudizio del corpo elettorale.

MORTATI rileva che nel corso della discussione si sono manifestate due tesi. La prima vorrebbe il ritorno al passato, che non ammetteva nessun intervento parlamentare durante l’intervallo tra le legislature. Questo non è raccomandabile, perché non si è considerato che per il passato era ammessa la decretazione di urgenza. Ora si intende vietarla, e se questa proposta passerà, si viene a creare un sistema nuovo. Ed allora, in determinati casi come si provvede meglio, con la prorogatio o con la Giunta permanente? L’onorevole Terracini è per la seconda soluzione. Le sue osservazioni non sono del tutto convincenti. Infatti se le Camere cessano di esistere, la Giunta perde il potere rappresentativo. In ogni caso essa è meno rappresentativa, e meno efficiente; quindi è meno in grado di opporsi al Governo e di esercitare quella funzione di controllo che l’onorevole Terracini ha a cuore. Inoltre, le stesse obiezioni che l’onorevole Terracini muove circa la differenza di posizione che si verrebbe a determinare nei confronti degli appartenenti alle Camere disciolte, valgono, sia pure in proporzione ridotta, nei riguardi degli appartenenti alla Giunta. L’inconveniente pertanto non sarebbe eliminato; si avrebbe solo un privilegio accordato ai componenti della Giunta.

Date queste ragioni, crede preferibile approvare il criterio della prorogatio.

NOBILE è favorevole al testo proposto dal Comitato di redazione, perché ritiene opportuno che sia assicurata la continuità della funzione legislativa. Si obietta però che le Camere, nell’intervallo fra le legislature, non abbiano più l’autorità per legiferare. Ed allora, per cercare di contemperare l’una e l’altra tesi, proporrebbe che il termine entro cui devono aver luogo le elezioni, che è stato fissato in giorni settanta, sia ridotto a quaranta. Non crede che vi siano difficoltà tecniche per indire le elezioni entro questo termine.

FABBRI vorrebbe chiedere all’onorevole Terracini, sostenitore della Giunta permanente, se egli crede che siano assolutamente simili i due casi: della fine della legislatura per decorrenza del termine e dello scioglimento delle Camere per atto del potere esecutivo.

A suo parere, i due casi sono sostanzialmente diversi. Quando si tratta di fine della legislatura per decorrenza del termine normale non v’è nessuna particolare manifestazione di conflitto che non permetta, nell’intervallo fra le legislature, qualora si presentino esigenze di carattere legislativo, di riconvocare le vecchie Camere. Quando invece si tratta di scioglimento delle Camere per atto del potere esecutivo, siccome si è di fronte ad una situazione di conflitto, pensa che la istituzione della Giunta permanente possa avere una ragione d’essere; quindi, da un punto di vista liberale, sarebbe favorevole alla sua istituzione.

TERRACINI osserva che l’onorevole Fabbri ha perfettamente ragione nell’impostare così il problema, ma pensa che non si possa appesantire la Costituzione col prevedere una serie di casi. Ora, mentre con l’istituto della prorogatio non si riuscirebbe a soddisfare le esigenze che si possono manifestare nel caso di scioglimento anticipato della Camera, con l’istituto della Giunta permanente si verrebbero a sodisfare le esigenze sia nel caso di scioglimento, che di fine naturale delle Camere.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di istituire una Giunta permanente.

(La Commissione non approva).

Bisogna ora porre ai voti la proposta relativa alla prorogatio.

LACONI osserva che il testo del Comitato di redazione, per quanto riguarda la prorogatio, è così formulato:

«I loro poteri cessano con la riunione delle nuove Camere».

A suo parere è preferibile quello approvato dalla seconda Sottocommissione, che è del seguente tenore:

«I loro poteri sono tuttavia prorogati sino alla riunione delle nuove Camere».

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dalla seconda Sottocommissione.

(La Commissione approva).

Giuramento dei membri del Parlamento.

PRESIDENTE. Un’altra questione da esaminare è quella relativa al giuramento dei membri del Parlamento. L’articolo proposto dalla seconda Sottocommissione e non modificato dal Comitato di redazione dice:

«Prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni, i membri del Parlamento prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica».

CONTI ricorda di aver sostenuto in seno alla seconda Sottocommissione che i deputati non devono giurare. È quindi contrario all’articolo proposto.

TERRACINI crede che occorra conservare la disposizione che richiede ai membri del Parlamento la prestazione di un giuramento di fedeltà non alla Repubblica, in quanto forma istituzionale, ma alle sue leggi e alla Costituzione. II problema, infatti, è questo: quanto si chiedeva il giuramento di fedeltà alla monarchia, coloro che non erano monarchici non potevano prestarlo; ma la fedeltà alla Costituzione e alle leggi è un dovere di tutti i cittadini, e per quei cittadini che sono chiamati a fare le leggi il giuramento dovrebbe essere dichiarato in maniera solenne. Si tratta, in definitiva, di una maniera di educazione politica del Paese.

FABBRI si associa alle considerazioni fatte dall’onorevole Conti e condivide i rilievi dell’onorevole Terracini circa la fedeltà alle leggi, fedeltà che estenderebbe anche alla Costituzione, se non si fosse preteso di stabilire nella Costituzione stessa l’attuale forma istituzionale come definitiva ed immutabile. Qualora questo principio fosse modificato, non avrebbe difficoltà ad accettare l’obbligo del giuramento; ma nelle attuali condizioni è contrario all’articolo proposto.

CEVOLOTTO osserva che la prima Sottocommissione è stata contraria al giuramento dei deputati. Ha creduto di poter proporre di mantenere il giuramento di fedeltà alla Repubblica solo nei riguardi del Presidente della Repubblica, dei Ministri, delle Forze armate e dei magistrati, per ragioni intuitive. Per tutte le altre categorie ha creduto che non vi debba essere giuramento di fedeltà alla Repubblica, o alle sue leggi, perché non sarebbe opportuno.

TERRACINI nota che se è valida nei confronti dei deputati l’argomentazione esposta anche dall’onorevole Conti, ciò significa che si inibisce ai cittadini non repubblicani la possibilità di ricoprire quelle cariche per cui si chiede il giuramento. È la stessa questione di coscienza che si porrebbe nei confronti dei deputati.

Ora, pur non essendo entusiasta del fatto che i monarchici possano divenire magistrati della Repubblica, comprende che, data la forma e il contenuto che si intendono dare alla Repubblica italiana, non si può evidentemente sbarrare il passo a queste cariche a cittadini che non siano repubblicani. La norma deve quindi valere per tutti: e allora o si abolisce il giuramento di fedeltà per tutti, oppure deve valere per tutti quelli che si inseriscono nella struttura repubblicana, e non solamente per i casi citati dall’onorevole Cevolotto.

UBERTI rileva che in seno alla seconda Sottocommissione è stato contrario all’obbligo del giuramento per i deputati, i quali, come esponenti politici, devono avere la più ampia libertà di pensiero: ieri, quelli che erano repubblicani in regime monarchico; domani, quelli che sono monarchici in regime repubblicano. Questa libertà è diversa per chi serve lo Stato e per chi invece rappresenta la volontà del popolo.

CEVOLOTTO nota che l’onorevole Terracini ha spostato la questione su un altro campo, cioè su quello della discussione che si dovrà fare, a parte, dell’articolo che è stato proposto dalla prima Sottocommissione. È peraltro da rilevare che se si richiede il giuramento di fedeltà ella Repubblica, alle Forze armate e ai magistrati, è perché si ritiene necessario che queste categorie riconoscano, ammettano e comunque accettino la forma repubblicana. Il magistrato, poi, che deve applicare le leggi della Repubblica, deve prima di tutto essere aderente a questo spirito repubblicano, e chi non è sinceramente repubblicano, non faccia il magistrato. Questa, a suo parere, è una delle principali ragioni per cui il giuramento è necessario.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo proposto dal Comitato di redazione:

«Prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni, i membri del Parlamento prestano giuramento di fedeltà alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica».

(La Commissione non approva).

La seduta termina alle 12.50.

Erano presenti: Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Einaudi, Fabbri, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lucifero, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Terracini, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

Erano assenti: Amadei, Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Di Vittorio, Dossetti, Fanfani, Farini, Froggio, Giua, Iotti Leonilde, La Pira, Leone Giovanni, Lombardo, Lussu, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Paratore, Piccioni, Porzio, Rapelli, Taviani, Togliatti

POMERIDIANA DI SABATO 25 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

20.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 25 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Disposizioni generali del progetto di Costituzione (Esame degli articoli)

Presidente – Cevolotto – Moro – Rossi Paolo – Nobile – Tupini – Bocconi – Dominedò – Merlin Umberto – Terracini – Cappi – Mannironi – Bozzi – De Vita.

La seduta comincia alle 17.45.

Seguito della discussione sugli articoli del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE apre la discussione sull’ultimo comma dell’articolo 20: «Non è ammessa la pena di morte. Possono fare eccezione soltanto i Codici militari di guerra».

CEVOLOTTO crede sia più esatta la dizione: «leggi militari di guerra».

PRESIDENTE concorda.

Avverte che su tale comma l’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento, firmato anche dall’onorevole Terracini:

«La pena di morte potrà essere ammessa solo nei Codici militari limitatamente al periodo di guerra ed eccezionalmente per i reati comuni nei casi di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione».

L’onorevole Lussu, a sua volta, aveva presentato un emendamento soppressivo dell’ultimo comma. Poiché l’onorevole Lussu non è presente si intende che vi abbia rinunciato.

MORO ricorda che vi è anche un emendamento dell’onorevole Leone, che vorrebbe conservata la pena di morte con esclusione dei reati politici.

ROSSI PAOLO si dichiara contrario all’emendamento Nobile. Senza attardarsi – né potrebbe farlo – ad illustrare la vastissima letteratura mondiale esistente su quest’argomento rileva soltanto che, mentre in altri Paesi l’abolizione della pena di morte può assumere un aspetto tranquillo, freddo, scientifico, in Italia ha un valore sentimentale, tradizionale e politico di altissimo rilievo che non può essere trascurato. Ricorda che la pena di morte, in Italia, fu abolita ben quattro volte con la dichiarazione: «La pena di morte è abolita per sempre». Una prima volta fu abolita dal Granduca Leopoldo di Toscana; la seconda volta nel 1849 dalla Repubblica romana; la terza volta dal Governo provvisorio toscano e la quarta volta dal Parlamento italiano. Un ordine del giorno, presentato in quella seduta da Pasquale Stanislao Mancini, fu approvato dall’intera Camera all’unanimità, in piedi e plaudente. Esso diceva: «La Camera italiana, confermando i suoi voti del maggio 1865 e del novembre 1887, applaude all’abolizione e alla scomparsa della pena di morte dall’unico Codice penale l’italiano».

Rileva che la pena di morte è stata abolita ogni qualvolta si aprì in Italia uno spiraglio di libertà e, per converso, è stata immediatamente restaurata dalle reazioni che sono seguite a quei primi tentativi di libertà. L’ultimo esempio è dell’ottobre 1922: quando la nascente democrazia italiana fu sommersa dalle bande fasciste, una delle prime leggi, con carattere nettamente, squisitamente politico fu la restaurazione della pena di morte, prima limitata ai delitti politici e, quindi, estesa anche ai delitti comuni.

Non crede che la prima Costituzione repubblicana italiana possa, anche in parte soltanto, conservare la pena di morte; essa dovrà ripudiarla dal diritto ordinario totalmente e completamente, confinandola, se mai, nel solo diritto penale militare di guerra.

Venendo in modo specifico all’emendamento Nobile-Terracini, crede che neppure i delitti che sollevino la pubblica indignazione debbano essere puniti con la pena di morte. Intanto vi è una prima obiezione di carattere tecnico: sono precisamente i delitti che sollevano la pubblica indignazione che spesso determinano gli errori giudiziari; c’è un’esigenza, un sentimento di giustizia, un desiderio di restaurazione dell’ordine giuridico e morale violato, così intenso e così caldo, che talora si determina precisamente il clima che genera l’errore giudiziario.

Dal punto di vista preventivo, poi, tutte le statistiche dimostrano che i delitti gravissimi e immorali che ripugnano al generale sentimento non sono affatto influenzati dall’esistenza o meno dalla pena di morte, ma soltanto da circostanze generali, storiche e politiche, che non hanno niente a che fare col diritto.

Dal punto di vista, infine, di una pubblica esigenza di espiazione, crede di poter dire che l’anima del popolo italiano è abbastanza ben costrutta, per non volere questa pratica crudele di una punitiva giustizia, del sangue. Se non fosse così, non sarebbero certo i legislatori, con simili mezzi, ad educare il popolo.

Parla a nome di un gruppo di colleghi di una parte della Camera, ma si rivolge anche ai colleghi delle altre parti, sperando di avere la loro piena adesione ad un principio che cancelli dal codice penale ordinario, senza riserve, la pena di morte.

Vi sono nella tradizione cristiana parole altissime in questo senso, parole che precedono il Beccaria. C’è un detto di Lattanzio, che afferma che l’uomo non si può uccidere perché è «un bello inno di Dio!».

Chiede all’Assemblea, in nome delle più pure tradizioni italiane, di votare per l’abolizione pura e semplice della pena di morte.

NOBILE ricorda che l’emendamento era stato presentato nella previsione che fosse stato accettato il comma precedente, nel quale si stabiliva che le pene restrittive della libertà personale non dovessero superare la durata di 15 anni.

Esso era stato dettato dalla necessità di eliminare il grave pericolo sociale che deriverebbe dal dover rimettere in libertà, al termine dei quindici anni, dei criminali feroci, che, pur essendo di condizioni mentali normali, si siano resi colpevoli di delitti mostruosi, e siano giudicati incapaci di rieducazione. In un tal caso si sarebbe potuto ammettere come eccezione la pena di morte.

Ma, essendo stata respinta la proposta principale di limitare le pene a quindici anni, viene a cadere anche l’eccezione contemplata nel comma suddetto. Dichiara, perciò, di ritirarlo.

Vuol cogliere, però, l’occasione per affermare di essere avversario deciso della pena di morte e di non ammettere in nessun modo che un corpo giudicante possa, a sangue freddo, decidere di una vita umana di cui nessuno deve poter disporre. Si può spiegare un omicidio compiuto in un momento d’ira; non si può giustificare la fredda soppressione di una vita umana. E va ancora più innanzi: si augura che la pena di morte, crudele necessità del tempo di guerra, abbia a scomparire anche dai Codici militari.

MORO, a nome dell’onorevole Leone, non insiste sull’emendamento proposto per l’ultimo comma.

PRESIDENTE pone ai voti l’ultimo comma dell’articolo nella dizione proposta dal Comitato di redazione, salvo la modifica delle parole ai: «Codici militari di guerra» con le altre: «leggi militari di guerra».

(È approvato).

Avverte che vi è ora un emendamento dell’onorevole Leone Giovanni, il quale propone di aggiungere il seguente comma: «La detenzione preventiva è ammessa solo per i delitti più gravi e non può ledere la dignità della persona umana».

MORO sostiene l’emendamento, per incarico dell’onorevole Leone, rilevando che esso si ricollega ad un principio già posto nella Costituzione, per cui l’imputato è presunto innocente fino alla condanna definitiva.

In considerazione di molti abusi, cui invece si va incontro attualmente facendo scontare una detenzione preventiva, crede opportuno un richiamo costituzionale in cui si affermi che la detenzione preventiva può essere ammessa solo per i reati più gravi e non deve essere lesiva della personalità umana.

TUPINI è dolente di doversi dichiarare contrario all’emendamento dell’onorevole Leone, proprio per le ragioni addotte dall’onorevole Moro, il quale ha accennato a quello che il progetto di Costituzione ha già sancito, cioè che l’imputato si presume innocente fino alla condanna definitiva.

Ricorda anche che nell’articolo 20 è già stabilito che non si possono usare trattamenti crudeli e disumani al condannato; questo si riferisce evidentemente anche alla detenzione preventiva. Vi è inoltre una ragione già accennata nella precedente seduta, cioè che si entra in un campo che deve essere riservato al Codice.

Per queste ragioni pregiudiziali di merito, si dichiara contrario all’emendamento dell’onorevole Leone.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento aggiuntivo dell’on. Leone.

(Non è approvato).

Osserva che per gli articoli dal 21 al 30 non vi sono emendamenti od osservazioni, avendo l’onorevole Caristia comunicato di ritirare gli emendamenti soppressivi da lui presentati per gli articoli 29 e 30, così come quelli presentati per i successivi articoli 32, 36, 39 e 40.

Pertanto gli articoli da 21 a 30 si intendono approvati nel testo proposto dal Comitato di redazione.

(La Commissione concorda).

Avverte che all’articolo 31 la onorevole Federici Maria ha proposto un emendamento tendente a sostituire l’articolo con il seguente:

«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. In particolare le condizioni di lavoro devono garantire l’adempimento della sua essenziale missione familiare e il sano svolgimento della maternità».

Rileva che il testo adottato dal Comitato di redazione, che ha tenuto conto delle formulazioni approvate dalla prima e dalla terza Sottocommissione, provvede già a tutelare ampiamente la maternità. Per quanto riguarda il lavoro delle donne, è stato seguito il criterio di stabilire parità con gli uomini, lasciando così possibilità alle donne di adempiere alla loro essenziale funzione familiare. Il concetto affermato dalla onorevole proponente è già – a suo avviso – espresso nel testo del Comitato di redazione, così concepito:

«La donna lavoratrice ha tutti i diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

«Le sono inoltre garantite quelle speciali condizioni che le consentano di adempiere nello svolgimento del lavoro la sua essenziale funzione familiare».

MORO dà ragione dell’emendamento a nome della onorevole Federici. Osserva in primo luogo che nell’emendamento viene proposto di sostituire la dizione: «ha gli stessi diritti» all’altra: «ha tutti i diritti».

Vi è poi il richiamo aggiuntivo al sano svolgimento della maternità, che permetterebbe, con una frase meno generica, di assicurare il funzionamento di tutta la legislazione riferentesi alla maternità come fenomeno fisico.

PRESIDENTE crede che l’emendamento Federici possa essere accettato senz’altro nella sua prima parte, concernente la sostituzione delle parole: «gli stessi diritti» alle altre: «tutti i diritti». Pone a partito tale sostituzione.

(È approvato).

Quanto alla seconda parte, la ritiene non necessaria. La pone in votazione.

(Non è approvata. – Si approvano senza osservazioni gli articoli da 32 a 40).

Avverte che all’articolo 41 («La Repubblica tutela la cooperazione e ne favorisce l’incremento con tutti i mezzi più adatti») è stato presentato un emendamento sostitutivo così concepito:

«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e la sottopone alla vigilanza stabilita per legge».

Tale emendamento è sottoscritto dagli onorevoli Canevari, Bocconi, Rossi Paolo, Lami Starnuti, Targetti, Lussu, Merlin Lina, Perassi, Grassi, Colitto, Mannironi, Togliatti, Cevolotto, Corsanego, Moro, Tosato, Mortati, Taviani, Bulloni, Dominedò.

BOCCONI, a nome dei proponenti, dichiara di mantenere l’emendamento.

PRESIDENTE esprime il dubbio che la frase: «la sottopone alla vigilanza stabilita per legge» sia una dizione un po’ dura, mentre sarebbe opportuno esprimere meglio la finalità di colpire le false cooperative per giustificare tale vigilanza. Propone che l’emendamento sia approvato, demandando al Comitato di redazione di modificare l’articolo, aggiungendovi il concetto accennato.

DOMINEDÒ si associa alla proposta, sottolineando l’opportunità che il problema della vigilanza passi impregiudicato alla legge, senza alcuna avocazione di controllo allo Stato.

PRESIDENTE pone ai voti la sua proposta.

(È approvata – Si approvano senza discussione gli articoli da 41 a 46).

PRESIDENTE avverte che al primo comma dell’articolo 47, così formulato: «Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici in condizioni d’eguaglianza, conformemente alle loro attitudini e facoltà, secondo norme stabilite da legge», la onorevole Federici Maria propone di sostituire il seguente: «I cittadini di entrambi i sessi possono accedere in condizioni di eguaglianza e conformemente alle loro attitudini a tutti gli uffici pubblici».

MORO, a nome della onorevole Federici, mantiene l’emendamento.

MERLIN UMBERTO, essendo stato Relatore degli articoli concernenti i rapporti politici, assicura che il concetto che la proponente intende affermare è già espresso nella Costituzione, in quanto – all’articolo 44 – è detto che «sono elettori i cittadini di ambo i sessi», e, successivamente, «sono eleggibili, in condizioni di eguaglianza, tutti gli elettori che hanno i requisiti prescritti dalla legge».

PRESIDENTE osserva che il Comitato di redazione aveva deciso la soppressione della specificazione «di entrambi i sessi», essendo già stata affermata in precedenza, in forma chiara, l’eguaglianza di tutti i cittadini, a prescindere dal sesso. Inserire questa volta la specificazione può essere pericoloso per gli altri casi in cui eventualmente non sia stata inclusa.

TERRACINI crede opportuno approvare l’inciso, secondo la proposta di emendamento, perché nel testo dell’articolo si parla di attitudini. È noto che si è sempre sostenuto, da parte di coloro che sono contrari all’ammissione delle donne in tutti gli impieghi e funzioni, appunto questo argomento – assai debole in realtà, ma che sempre si è avuto presente – che le donne proprio per certe caratteristiche del loro sesso non sono atte a certe funzioni, o a certi incarichi. Questo, entro certi limiti, può anche essere vero; ma l’argomento è stato sempre interpretato in senso troppo estensivo. Quando si afferma invece che il sesso, in quanto tale, non può essere un elemento discriminante, basterà di volta in volta considerare se vi sono in una determinata persona le attitudini che la rendono o meno atta a ricoprire determinati uffici. Resta, quindi, una discriminazione singola, individuale, e non generale, come è stato fino ad ora.

PRESIDENTE, di fronte alle considerazioni dell’onorevole Terracini – pur mantenendo la sua osservazione – non avrebbe difficoltà da sollevare. Ad ogni modo fa presente che nel testo della onorevole Federici è tolto quell’inciso «secondo norme stabilite da legge», che riterrebbe opportuno fosse conservato proprio per la difesa delle donne.

CEVOLOTTO osserva che, quando si dice nell’articolo: «conformemente alle loro attitudini e facoltà secondo norme stabilite da legge» – e questo non si può non dirlo – si viene a stabilire che la legge potrà indicare determinati uffici ai quali le donne potranno in un certo momento non essere ammesse. Con ciò, quindi, si svuota completamente l’affermazione prima, che cioè tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, possono accedere agli uffici pubblici, in quanto potranno accedervi solo quelli cui la legge lo consente. È meglio perciò – a suo avviso – lasciare la formula generale «tutti i cittadini», che comprende uomini e donne. Poi verranno le necessarie specificazioni.

PRESIDENTE ritiene che l’emendamento della onorevole Federici possa essere modificato nel senso di mantenere l’inciso: «secondo norme stabilite da legge». Esso resterebbe, pertanto, così formulato: «I cittadini di entrambi i sessi possono accedere in condizioni di eguaglianza e conformemente alle loro attitudini, secondo norme stabilite da legge, a tutti gli uffici pubblici».

MORO accetta la modifica.

PRESIDENTE mette ai voti l’emendamento Federici.

CAPPI dichiara di astenersi, perché – come ha già sostenuto nella sezione apposita che si è occupata del potere giudiziario – è contrario all’accesso delle donne agli uffici della Magistratura.

MANNIRONI si associa alla dichiarazione dell’onorevole Cappi.

NOBILE dichiara che non voterà l’emendamento, perché riconosce che vi sono delle cariche pubbliche alle quali le donne non possono accedere, ad esempio cariche militari, di pubblica sicurezza, ecc.

(L’emendamento non è approvato).

BOZZI esprime il dubbio che la formula: «secondo norme stabilite da legge» potrebbe essere interpretata nel senso che tutti i cittadini, di ambo i sessi, debbano essere ammessi a tutti gli uffici pubblici e che la legge non possa fare limitazioni riguardo al sesso, ma semplicemente stabilire norme per l’ammissione.

PRESIDENTE osserva che v’è sempre la dizione: «conformemente alle loro attitudini», ciò che permette alla legge di dire che per determinati posti le donne non hanno attitudine. Propone, però, che dalla dizione adottata dal Comitato di redazione siano tolte le parole «e facoltà», che sono inutili.

(La Commissione approva).

Segue l’articolo 48:

«La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.

«Il servizio militare è obbligatorio. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici.

«L’ordinamento dell’esercito deve informarsi allo spirito democratico dello Stato italiano».

NOBILE dà ragione del seguente emendamento:

Dopo il secondo comma, inserire i seguenti:

«La legge provvederà perché ai militari mutilati di guerra, resi invalidi al lavoro, siano assicurati i mezzi adeguati per una decorosa esistenza.

«Il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli dei militari morti in guerra sono a carico dello Stato».

Fa presente la necessità di preoccuparsi del militare, il quale non possa più tenere il suo posto di lavoro perché divenuto inabile al lavoro: a questa esigenza si è ispirato il primo comma dell’emendamento da lui presentato. Rileva inoltre che è stato dimenticato il caso più grave, quello del sacrificio estremo che il cittadino ha compiuto per il suo dovere verso la Patria, il sacrificio della vita, lasciando la famiglia senza mezzi di sostentamento. Gli è, quindi, sembrato indispensabile affermare che il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli dei militari morti in guerra sono a carico dello Stato. Le penose situazioni in cui oggi versano i militari invalidi e gli orfani di guerra non possono non essere tenute in doverosa considerazione. Prega pertanto la Commissione – salvo quelle modifiche di forma che essa riterrà necessarie – di approvare nella sostanza il suo emendamento.

MERLIN UMBERTO riconosce la nobiltà dell’intenzione che ha mosso il proponente dell’emendamento. Rileva, però, che la legislazione sui mutilati, sugli invalidi, sui deceduti ed i loro eredi, è divenuta una norma così costante per tutti i Paesi che qualsiasi accenno ad essa nella Costituzione sembra superfluo. È stato Relatore, per questa parte, in seno alla prima Sottocommissione, e rileva che, unitamente al Correlatore onorevole Mancini, si è preoccupato di inserire nella Costituzione solo quello che era essenziale, non quello che costituisce già un dato di fatto, poiché la Patria ha fatto sempre – compatibilmente con i suoi mezzi – il proprio dovere verso tutte le vittime della guerra. L’emendamento gli sembra, quindi, superfluo, in quanto già compreso in una abbondante legislazione che regola tutta la materia.

NOBILE osserva all’onorevole Merlin che ciò che vi è di nuovo nell’emendamento presentato è proprio la dizione: «i mezzi adeguati per una decorosa esistenza». Non si può certo dire che la legislazione attuale provveda a questi mezzi, poiché il trattamento riservato agli invalidi è assolutamente irrisorio.

Comunque, non insiste nell’emendamento, perché può anche convenire che la materia non sia di Costituzione.

Prega però la Commissione di votare questo emendamento – che trasforma in raccomandazione – come espressione per lo meno della sua volontà che la materia sia regolata.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Nobile trasformato in raccomandazione, che dovrà essere tenuta presente dal Governo e dal Parlamento nella legislazione in materia.

(La raccomandazione è approvata all’unanimità).

DE VITA propone un emendamento al secondo comma dell’articolo 48, e precisamente la soppressione della prima parte: «Il servizio militare è obbligatorio», modificando così la proposizione successiva: «L’adempimento del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici».

Questo, perché non ritiene necessario che l’obbligatorietà del servizio militare sia sancita nella Costituzione.

BOZZI osserva che quanto è sancito nel secondo comma, cioè che l’adempimento del servizio militare non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici, è un principio ormai acquisito alla legislazione, e non crede che questa sia materia da inserire nella Costituzione.

CEVOLOTTO fa presente che quanto afferma l’onorevole Bozzi è esatto per quel che si riferisce al servizio militare in tempo di guerra; non è esatto per il servizio militare obbligatorio, in tempo di pace. Ecco la ragione per cui è stata inserita la norma.

BOZZI non insiste nella sua osservazione.

MERLIN UMBERTO precisa che la clausola dell’obbligatorietà del servizio militare è stata inserita in quanto si è voluto riaffermare un principio che è stato accolto in tutte le Costituzioni democratiche, fin dal 1789, cioè l’esclusione di un esercito raccogliticcio, di mestiere, creando un servizio obbligatorio di tutti i cittadini, al quale nessuno potesse sottrarsi.

DE VITA, nell’attuale situazione, non ritiene sia necessario sancire il principio nella Costituzione, tenuto anche presente il fatto che, data l’entità dell’esercito che ci viene consentito, il suo ordinamento può anche basarsi sul reclutamento volontario. Ad ogni modo, non insiste nella sua proposta.

(L’articolo 48 è approvato nel testo proposto dal Comitato di redazione).

PRESIDENTE constata che, non essendovi altre proposte di emendamenti per i successivi articoli delle disposizioni generali, essi si intendano approvati.

Rinvia la seduta a lunedì alle 10, per l’inizio dell’esame degli articoli concernenti il Parlamento.

La seduta termina alle 18.40.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, De Michele, De Vita, Dominedò, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Giua, Grassi, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lombardo Lucifero, Mancini, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Ruini, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togni, Tosato, Tupini.

Erano assenti: Amadei, Basso, Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, Di Giovanni, Di Vittorio, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Farini, Federici Maria, Froggio, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, La Pira, Leone Giovanni, Lussu, Marchesi, Merlin Lina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Piccioni, Porzio, Rapelli, Taviani, Togliatti, Uberti, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.