ASSEMBLEA COSTITUENTE
COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE
composta dei deputati:
Ruini, Presidente; Tupini, Ghidini, Terracini, Vice Presidenti; Perassi, Grassi, Marinaro, Segretari; Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cannizzo, Cappi, Castiglia, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Froggio, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Paratore, Pesenti, Piccioni, Porzio, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Uberti, Zuccarini
PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
RELAZIONE
DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE
Presentata alla Presidenza dell’Assemblea Costituente
il 6 febbraio 1947
RELAZIONE
AL PROGETTO DI COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
Onorevoli Colleghi! – Liberata da un regime funesto di servitù, ritemprata dalle forze vive della resistenza e del nuovo ordine democratico, l’Italia ha ripreso il suo cammino di civiltà e si è costituita a Repubblica, sulle basi inscindibili della democrazia e del lavoro.
La prima esigenza della Repubblica italiana è di darsi una Costituzione. La Commissione che la Costituente ha incaricato di prevedere un progetto ha lavorato intensamente. Ha tenuto trecentosessantadue sedute plenarie, o di sottocommissioni, sezioni o comitati. Un osservatore straniero ha constatato che nessun’altra Costituzione ebbe più largo materiale di preparazione: per gli studi predisposti dal Ministero della Costituente, e per quelli che la nostra Commissione ha condotti con raccolte e comparazioni sistematiche, tema per tema, delle norme costituzionali vigenti negli altri Paesi. Se la nostra deve essere una Costituzione propriamente italiana, bisogna pur conoscere ciò che vi è altrove.
Vi sono state nella Commissione molte relazioni e moltissime discussioni. Qualcuno trova che sono state troppe; ma dopo una eclissi durata per tutta una generazione la coscienza democratica deve riaprirsi la strada e fare la propria esperienza con l’appassionamento ai problemi politici e costituzionali. Il tempo impiegato dalla nostra Commissione non è stato comunque maggiore di quello richiesto per tante altre Costituzioni. Si sono affrontati temi – come l’istituzione della Regione – che in altri tempi avrebbero occupato intere legislature.
La composizione numerosa della Commissione ha dato modo di manifestarsi a tutte le correnti. Si è dapprima lavorato in vastità ed in estensione; e si sono poi avute la concentrazione e la sintesi. Non pochi elementi ed articoli preparati hanno servito come di fondamento invisibile all’edificio della Costituzione, per l’esame di problemi che dovevano essere considerati, anche senza dar luogo ad espressa formulazione; o potranno far parte di leggi-base, ad integrazione della Carta costituzionale.
Formulare oggi una Costituzione è compito assai grave. Dopo le meteore di quelle improvvisate nella scia della Rivoluzione francese e delle altre del Risorgimento, concesse dai sovrani – tranne una sola luminosa eccezione, la Costituzione romana di Mazzini, alla quale noi ci vogliamo idealmente ricongiungere – è la prima volta, nella sua storia, che tutto il popolo italiano, riunito a Stato nazionale, si dà direttamente e democraticamente la propria Costituzione.
Il compito è più difficile che cento anni fa, quando si fece lo Statuto albertino e si adottarono senz’altro istituzioni tipiche di altre Costituzioni dell’Ottocento, nella tentata conciliazione dell’istituto monarchico col regime parlamentare attraverso il governo di gabinetto. Un mio predecessore al Consiglio di Stato, il Des Ambrois, poté in pochi giorni fabbricare un progetto. Oggi noi non vogliamo copiare, e ad ogni modo le cose non sono così semplici. Come osservò un altissimo uomo politico, che è anche il maggior maestro italiano di diritto pubblico, Vittorio Emanuele Orlando, i sistemi caratteristici dell’Ottocento sono in crisi. Si affacciano nuove forme democratiche. Le forze del lavoro ed i grandi partiti di massa muovono e foggiano in modo diverso parlamenti e governi. Non si sa quanto resterà del vecchio; e non sono ancora chiari i lineamenti del nuovo.
Vi è in questo momento per la Repubblica italiana un’urgente esigenza: uscire dal provvisorio. Bisogna che siano costruite nell’ordinamento repubblicano alcune mura solide, non sul vuoto o sull’incerto, ma tali che possano servire, se occorre, alla continuazione dell’edificio, senza sbarrare la strada alle conquiste dell’avvenire.
La Costituzione deve essere, più che è possibile, breve, semplice e chiara; tale che tutto il popolo la possa comprendere. Sono le parole con le quali la Commissione si tracciò la via. Vero è che non si può tornare al profilo semplice e scarno dello Stato d’un secolo fa; lo sviluppo delle sue nuove funzioni ha portato con sé la «dilatazione» dei testi costituzionali, che Bryce ha da tempo rilevata. La tendenza ha avuto particolare accentuazione, dopo l’altra guerra mondiale, col tipo «sociologizzante» di Weimar. Si cerca oggi di evitare gli eccessi. Una Costituzione, lo ha detto anche Stalin, non può essere un «programma per il futuro». Non può ridursi ad una tavola di affermazioni e di valori astratti. Non può diventare, con la diffusione particolareggiata che è tipica di alcune Costituzioni sud-americane, un codice di norme che vanno invece in gran parte rinviate alla legislazione ordinaria.
Sarebbe desiderabile distinguere, come si fece a fine del Settecento, fra le dichiarazioni dei diritti – o «dichiarazioni di principî», quali le impostò Mazzini – e le disposizioni costituzionali vere e proprie. Ma non è possibile una netta distinzione. In momenti come l’attuale, dopo l’oscuramento e la compressione violenta delle più elementari libertà, è inevitabile che, nel grande soffio di liberazione che anima il popolo e trascende il mero tecnicismo delle norme, si senta il bisogno di far risaltare nella Costituzione le rivendicazioni della personalità umana e della giustizia sociale. Ed è nello stesso tempo inevitabile che si cerchi di sottrarre le disposizioni più rilevanti per la vita del Paese all’arbitrio di improvvise modificazioni, collocandole nella rocca della Costituzione e sottoponendo la loro revisione a più caute procedure.
Il progetto di Costituzione italiana, che per il numero dei suoi articoli è inferiore a quasi tutte le Costituzioni in vigore, rappresenta, in certo senso, un tipo nuovo ed intermedio, che, mentre si informa storicamente alle realtà concrete ed attuali, si vuol ricongiungere ai principî ideali in base ai quali risorge e si avvia a forme nuove la democrazia italiana.
Se più d’una disposizione del presente progetto fu votata a maggioranza lieve, nel contrasto fra le parti politiche, vi è stata una larga e sostanziale convergenza nel riconoscere che esistono istanze ed esigenze supreme di libertà e di giustizia, che neppure una Costituzione può violare; e – come in una gerarchia di norme – altre ne esistono, nell’edificio della Costituzione, che non debbono essere violate dalle leggi, ma possono essere modificate soltanto da una espressione particolare di volontà mediante un processo costituzionale di revisione.
Nello sforzo di conquistare stabilmente la libertà e di ancorarla ad una sfera di valori più alti, convergono correnti profonde: dalle democratiche fedeli agli «immortali principî» e dalle liberali che invocano la «religione della libertà», alla grande ispirazione cristiana che rivendica a sé la fonte eterna di quei principî ed all’impulso di rinnovamento che muove dal Manifesto dei comunisti e che, per combattere lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, risale alla liberazione dell’uomo dal giogo dell’uomo; e cioè ai suoi inalienabili diritti.
Uno spirito lucido, Stendhal, diceva che nell’avvicinarsi ad una Costituzione si prova quasi un senso religioso.
DISPOSIZIONI GENERALI
Le due parti del progetto di Costituzione: «Diritti e Doveri dei cittadini» e «Ordinamento della Repubblica», sono precedute da alcune disposizioni generali.
Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l’affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una Costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «Repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre Costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale – con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.
Bandiera della Repubblica è il «tricolore», che altre Nazioni possono avere adottato dopo di noi italiani, ma è la nostra bandiera storica; e ne abbiamo quest’anno celebrato il centocinquantesimo anniversario.
La Costituzione, dopo aver affermato il concetto della sovranità nazionale, intende inquadrare nel campo internazionale la posizione dell’Italia: che dispone il proprio ordinamento giuridico in modo da adattarsi automaticamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Rinnegando recisamente la sciagurata parentesi fascista, l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Stato indipendente e libero, l’Italia non consente, in linea di principio, altre limitazioni alla sua sovranità, ma si dichiara pronta, in condizioni di reciprocità e di eguaglianza, a quelle necessarie per organizzare la solidarietà e la giusta pace fra i popoli. Contro ogni minaccia di rinascente nazionalismo, la nostra Costituzione si riallaccia a ciò che rappresenta non soltanto le più pure tradizioni ma anche lo storico e concreto interesse dell’Italia: il rispetto dei valori internazionali.
Nella definizione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, se tutti i membri della Commissione hanno convenuto che si deve riconoscere il diritto della Chiesa alla piena indipendenza nei suoi ordinamenti interni, alcuni hanno fatto riserve sulla formula di riconoscimento della sovranità. E se tutte le correnti politiche hanno dichiarato che non pensano a denunciare i Patti del Laterano, alcune si sono opposte ad inserire il loro riconoscimento nella Costituzione, quasi fossero parti dell’ordinamento della Repubblica. È prevalsa la tesi che considera il cattolicesimo, per le tradizioni storiche di nostra civiltà, e per l’appartenenza della grandissima maggioranza, come la religione degli italiani e ritiene che i patti intercedenti fra Stato e Chiesa debbano avere una speciale posizione di natura costituzionale, tale tuttavia che una loro modificazione bilateralmente accettata non importi processo di revisione costituzionale.
Alle altre confessioni religiose il progetto di Costituzione garantisce autonomia, libertà di ordinamenti e l’intervento dei loro rappresentanti nel definire i rapporti con lo Stato.
Gli ultimi articoli delle disposizioni generali, che sono un ponte di passaggio alla parte prima della Costituzione, sui diritti e doveri dei cittadini, fissano principî generali ispiratori di tutta la Costituzione. Alcuni della Commissione ritenevano sede più adatta, per tali principî, un preambolo. Ciò che soprattutto ha valore è l’unanimità che vi è stata nel porre a base dell’ordinamento e della stessa esistenza della Repubblica principî che regimi tirannici hanno invano cercato di calpestare e di cancellare. Rivivono, ed una vera democrazia deve vivificarsi nel loro spirito.
Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto della personalità umana; qui è la radice delle libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire responsabilità. Né i diritti di libertà si possono scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono l’altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità, si sente veramente il bisogno di riaffermare che i rapporti fra gli uomini devono essere umani.
Il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici e razziali. E trova oggi nuovo ed ampio sviluppo con l’eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso.
Col giusto risalto dato alla personalità dell’uomo non vengono meno i compiti dello Stato. Se le prime enunciazioni dei diritti dell’uomo erano avvolte da un’aureola d’individualismo, si è poi sviluppato, attraverso le stesse lotte sociali, il senso della solidarietà umana. Le dichiarazioni dei doveri si accompagnano mazzinianamente a quelle dei diritti. Contro la concezione tedesca che riduceva a semplici riflessi i diritti individuali, diritti e doveri avvincono reciprocamente la Repubblica ed i cittadini. Caduta la deformazione totalitaria del «tutto dallo Stato, tutto allo Stato, tutto per lo Stato», rimane pur sempre allo Stato, nel rispetto delle libertà individuali, la suprema potestà regolatrice della vita in comune. «Lo Stato – diceva Mazzini – non è arbitrio di tutti, ma libertà operante per tutti, in un mondo il quale, checché da altri si dica, ha sete di autorità». Spetta ai cittadini di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica, rendendo effettiva e piena la sovranità popolare. Spetta alla Repubblica di stabilire e difendere, con l’autorità e con la forza che costituzionalmente le sono riconosciute, le condizioni di ordine e di sicurezza necessarie perché gli uomini siano liberati dal timore e le libertà di tutti coesistano nel comune progresso.
DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI
Rapporti civili.
Le due parti del progetto hanno, per la loro stessa impostazione, qualche inevitabile diversità d’accento; la prima si riferisce a principî generali, la seconda ad istituti e al loro funzionamento tecnico; ma sono strettamente connesse ed unificate dallo stesso spirito.
La nostra vicina Francia, che nel suo primo testo costituzionale del 1946 aveva dato molto rilievo ad una prima parte di diritti e doveri dei cittadini, ha in seguito accolto la suggestione di Herriot e di altri che il loro Paese non ha bisogno, oggi, di ripetere definizioni di diritti che gli sono acquisiti, dalle famose dichiarazioni settecentesche in poi; né è possibile esprimerle con più lapidaria efficacia; basta richiamarle, con qualche brevissimo cenno di completamento per la parte sociale. Così si è fatto, nel preambolo di quella che è oggi la Costituzione di Francia. L’esempio non può essere seguito da noi, che non abbiamo quei precedenti, né tradizione repubblicana; ed assai più lunga è stata da noi la devastazione fascista.
La regolazione dei diritti e doveri – ripartita in quattro titoli: Rapporti civili, Rapporti etico-sociali, Rapporti economici, Rapporti politici – ha luogo non col semplice rinvio alla legge, ma con l’indicazione di criteri, nei quali la legge troverà insieme l’infrangibile limite e le direttive da seguire.
Nel nostro progetto si delineano in rapida rassegna le libertà essenziali, dalle tre «inviolabilità» della persona, del domicilio e della corrispondenza, e dalle libertà di circolazione, di soggiorno, di emigrazione, ai diritti di riunione, di associazione, di credenza e di confessione religiosa, di stampa. Questi «diritti di libertà» hanno classiche espressioni in vecchi testi costituzionali, ma qui occorreva, dopo ciò che è dolorosamente avvenuto, una determinazione e precisazione maggiore. Si è cercato di farlo con sobrietà e densità di norme; né manca qualche lineamento più completo che altrove. Così ad esempio quando, per le limitazioni della libertà personale e del domicilio, nel porre i necessari presidi dell’indicazione di casi tassativi, da parte della legge, e d’una decisione motivata dell’autorità giudiziaria, si aggiunge che gli indilazionabili interventi della pubblica sicurezza, da contenersi sempre nei casi di legge, debbono essere senza eccezione sottoposti alla magistratura, anche se ai fermi è già succeduto il rilascio, ed anche per le perquisizioni e le ispezioni, e per ogni altra misura restrittiva della libertà. Per il diritto di riunione non è richiesto preavviso né consentito divieto se non per le riunioni in luogo pubblico. Per il diritto d’associazione si adotta un criterio, che è garanzia di vasta libertà: le attività che ciascuno ha diritto di svolgere individualmente, nei limiti della legge penale, possono essere svolte anche in forma associata.
Alla libertà di coscienza e di fede religiosa si assicura la più ampia sfera di manifestazione. Ciascuno è libero di esprimere il proprio pensiero con la stampa e con ogni mezzo di diffusione. Vietato il regime di censura e di autorizzazione, si è ammesso il sequestro, anche qui col doppio presidio di una precisa designazione da parte della legge di reati o violazioni di norme, e dell’intervento dell’autorità giudiziaria. Non dovrebbe essere consentito alcun altro sequestro; ed è da sperare che si realizzi un assetto tale da offrir modo al magistrato di intervenire sempre tempestivamente; ma, ove ciò non sia possibile per provvedimenti urgentissimi sulla stampa periodica, è sembrato alla maggioranza della Commissione che l’accordare alla autorità di polizia una facoltà ben determinata e soggetta sempre all’immediato controllo della magistratura sia preferibile all’espediente di ricorrere a disposizioni oscure delle leggi di pubblica sicurezza, che potevano essere preziose al fascismo, ma ormai devono essere abbandonate.
Al diritto di emigrare, che si riconosce ai cittadini, ed all’impegno di tutelare il lavoro italiano all’estero, segue nel progetto di Costituzione il riconoscimento che l’Italia fa dei diritti degli stranieri nel proprio territorio, in armonia con le sue alte tradizioni anche scientifiche nel diritto internazionale. Non si poteva tacere, dopo così dure prove, sul diritto di asilo che le Costituzioni civili offrono ai perseguitati politici di altri Paesi. Né, dopo aver assistito agli arbitrî che, per ragioni politiche o razziste, spogliavano intere schiere di cittadini del geloso patrimonio della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome, era possibile tralasciare un esplicito divieto.
L’enunciazione dei diritti civili è completata da principî, alcuni dei quali potevano sembrare indiscutibili; ma l’esperienza amara ammonisce di trincerarli nella Costituzione: il diritto di agire e difendersi in giudizio, di non essere distolti dal giudice naturale o puniti con legge retroattiva. Vietate le pene crudeli e disumane, la prima Costituzione repubblicana d’Italia sancisce il principio dell’abolizione della pena di morte, che in molti sensi può dirsi italiano, e che, ribadito nelle fasi e nei regimi di libertà del nostro Paese, è stato rimosso nei periodi di reazione e di violenza.
Rapporti etico-sociali.
Tutti sentono l’importanza e la missione della famiglia, come nucleo essenziale della società. Non vi è stata, nella Commissione, una disputa fra divorzisti e antidivorzisti. Nessuno ha manifestato l’intento di proporre con legge il divorzio. Il contrasto si è svolto sul punto se l’indissolubilità del matrimonio sia tema da inserire nella Costituzione. Una corrente lo ha negato, un’altra ha ritenuto di sì, e la portata pratica della soluzione prevalsa è che l’indissolubilità del matrimonio, per lo stato d’animo del popolo italiano e per i riflessi religiosi, è questione così grave da non poter essere in nessun caso toccata con una legge ordinaria, ma solo con una legge di valore costituzionale. Non è poi sembrato alla Commissione che la tutela della famiglia legittima impedisca un riconoscimento dei diritti dei figli nati fuori del matrimonio, che sono diritti della personalità umana; e non è giusto che le colpe dei padri ricadano sul capo dei figli.
Per la scuola, si è riconosciuto che spetta alla Repubblica dettare le norme generali sull’istruzione, organizzare la scuola di Stato in tutti i suoi gradi, assicurare ad enti e privati la facoltà di istituire altre scuole. Tutto ciò non costituisce un monopolio statale; ed è ammessa la libertà d’insegnamento. Ma l’organizzazione della scuola pubblica è una delle precipue funzioni dello Stato; e quando le scuole non statali chiedono la parificazione, la legge ne definisce gli obblighi e la sorveglianza da parte dello Stato, e nel tempo stesso ne assicura la effettiva libertà garantendo parità di trattamento agli alunni, a parità di condizioni didattiche. La serietà degli studi e l’imparziale controllo su tutte le scuole statali e non statali sono garantiti con l’obbligo dell’esame di Stato, non solo allo sbocco finale ma anche in gradi intermedi.
Uno dei punti al quale l’Italia deve tenere è che nella sua Costituzione, come in nessun’altra, sia accentuato l’impegno di aprire ai capaci e meritevoli, anche se poveri, i gradi più alti dell’istruzione. Alla realizzazione di questo impegno occorreranno grandi stanziamenti; ma non si deve esitare; si tratta di una delle forme più significative per riconoscere, anche qui, un diritto della persona, per utilizzare a vantaggio della società forze che resterebbero latenti e perdute, di attuare una vera ed integrale democrazia.
Rapporti economici.
Le nuove Costituzioni rispecchiano con affermazioni e con norme la tendenza storica in cammino: che la democrazia non è soltanto politica, ma economica e sociale. La Costituzione italiana ha, come vedemmo, due note fondamentali: lo sviluppo della personalità e la partecipazione di tutti i lavoratori alla gestione della società. Dalla prima deriva la liberazione dell’uomo dal bisogno, una delle quattro libertà di Roosevelt. Da tutte due insieme l’esigenza di ordinamenti democratici anche nel campo dell’economia.
Non vi può essere nessun pavido scrupolo che, un secolo e mezzo dopo i «diritti dell’uomo e del cittadino», siano dichiarati i «diritti del lavoratore». Se Thiers disse dopo il 1870: «la repubblica sarà conservatrice o non sarà», si può dire oggi che la repubblica sarà di democrazia e riforme economiche, o non sarà.
La nostra Costituzione non parla, come fanno altre, di «protezione del lavoro». Non si protegge il lavoro, che è forza essenziale della società. Si pone invece il compito della Repubblica di provvedere con la sua legislazione, e di promuovere accordi internazionali, per le conquiste e la regolazione dei diritti del lavoro.
L’affermazione del «diritto al lavoro», e cioè ad una occupazione piena per tutti, ha dato luogo a dubbi da un punto di vista strettamente giuridico, in quanto non si tratta di un diritto già assicurato e provvisto di azione giudiziaria; ma la Commissione ha ritenuto, ed anche giuristi rigorosi hanno ammesso che, trattandosi di un diritto potenziale, la Costituzione può indicarlo, come avviene in altri casi, perché il legislatore ne promuova l’attuazione, secondo l’impegno che la Repubblica nella Costituzione stessa si assume.
Al diritto si accompagna il dovere di lavorare; come è nel grande motto di San Paolo, riprodotto anche nella Costituzione russa: «chi non lavora non mangia». Ad evitare applicazioni unilaterali, si chiarisce che il lavoro non si esplica soltanto nelle sue forme materiali, ma anche in quelle spirituali e morali che contribuiscono allo sviluppo della società. È lavoratore lo studioso ed il missionario; lo è l’imprenditore, in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione. Posto il dovere del lavoro, è inevitabile sanzione – e la larga accezione toglie il pericolo di abusi – che il suo adempimento sia condizione per l’esercizio dei diritti politici.
Sono direttive generali anche il criterio di rimunerazione del lavoro e la parificazione, a tali effetti, della lavoratrice al lavoratore; con che si completa in questa Costituzione la conquistata eguaglianza della donna.
Si riferiscono ad istituti concreti il diritto dell’assistenza che spetta ad ogni individuo senza mezzi e senza capacità di lavoro ed il diritto particolare, che sorge dalla stessa prestazione di lavoro, alla previdenza ed alla «sicurezza sociale».
Per l’organizzazione sindacale, tra i due estremi dell’assenza d’ogni norma – che ha reso in più casi necessario l’intervento di una legge per rendere obbligatorio il contratto collettivo – e l’opposto e pesante sistema di regolazione minuta e pubblica, a tipo fascista, si è adottato il criterio della libertà senza imposizione di sindacato unico. Vi è il solo obbligo di registrazione a norma di legge, per i sindacati che intendono partecipare alla stipulazione di contratti collettivi; e questo avviene mediante rappresentanze miste costituite a tal fine e proporzionali per numero agli iscritti nei sindacati registrati.
La dichiarazione pura e semplice del diritto di sciopero è prevalsa sulle altre tesi che la Costituzione ne tacesse, o la subordinasse a norme di legge. Si è con ciò voluto affermare più vigorosamente, e senza restrizioni, quel diritto, ma non si è escluso dai sostenitori della tesi prevalente che la legge possa provvedere alla sua applicazione.
La Costituzione riconosce e garantisce nell’economia italiana – ed a ciò non si oppongono le correnti estreme – l’iniziativa e la libertà privata, e la proprietà privata dei beni di consumo e dei mezzi di produzione. Il progetto pone in luce la coesistenza di attività pubbliche e private che debbono ciascuna proporsi di provvedere insieme ai bisogni individuali ed ai collettivi. Limitazioni della proprietà sono ormai comuni a tutte le Costituzioni; e la coscienza moderna richiede che la proprietà adempia la sua funzione sociale e sia accessibile a tutti mediante il lavoro e il risparmio.
È prevista la assunzione di imprese economiche da parte dello Stato e, in forme decentrate, di enti e di «comunità d’utenti e di consumatori» (con che si apre l’adito ad una difesa dei consumatori). Tale assunzione ha come condizioni: che avvenga in base a disposizioni di leggi; che dia luogo ad espropriazione ed indennizzo; che vi sia uno dei tre caratteri ricorrenti in materia di nazionalizzazione e socializzazione: servizio pubblico essenziale, disponibilità di fonti d’energia, monopolio di fatto; e che in ognuno di questi casi si riscontri un preminente interesse generale.
L’impresa e la proprietà terriera richieggono un complesso di provvedimenti che vanno dai vincoli, come quelli già esistenti di bonifica, e dalla lotta contro le proprietà troppo estese e latifondistiche, suscettive di miglior coltivazione, all’aiuto ai piccoli o medi proprietari ed all’elevazione dei lavoratori.
Tre brevi disposizioni chiudono la parte dei diritti economici. Affermato il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese, si rinvia pei modi e pei limiti ad una legge regolatrice. Nel breve cenno alla cooperazione, che deve essere uno dei maggiori caposaldi di una democrazia economica, vi è già l’avviamento alla disciplina legislativa che è necessaria per stabilire la figura e le caratteristiche della società cooperativa e la sorveglianza che gli stessi cooperatori invocano per colpire gli abusi della falsa cooperazione. L’altro accenno alla tutela del risparmio ed alla vigilanza sul credito contiene – né più si poteva fare nella Costituzione – un’indicazione al coordinamento di norme ed istituti, che manca oggi in Italia.
Rapporti politici.
Brevi disposizioni. A quelle, che vi sono in tutte le Costituzioni, sul diritto di voto, si è cercato di dare maggior precisazione, fermando due sole possibilità di eccezioni: l’incapacità civile e la condanna penale. All’istituto della petizione, che ha scarsa importanza, ma non poteva essere cancellato, si è, invece del carattere più particolaristico di «plainte», dato il contenuto d’un suggerimento di misure d’interesse generale. Non sembra inutile, per l’accesso agli uffici pubblici, il richiamo all’eguaglianza, che trova il suo solo limite naturale nelle attitudini; ed ogni limite deve essere stabilito per legge.
Sono affermati con vigore i doveri di difesa della Patria e del servizio militare; e quelli generali di essere fedeli alla Repubblica e di adempiere le proprie funzioni «con disciplina ed onore»; vecchie parole che rivivono nelle più giovani Carte, quale la russa. Sono doveri che incombono su tutti i cittadini; anche se si è limitato a poche categorie l’atto formale del giuramento.
Al principio di fedeltà ed obbedienza alla pubblica autorità fa riscontro quello di resistenza, quando l’autorità viola le libertà fondamentali. Venne da alcuni espresso il dubbio se in una Costituzione che presuppone e si basa sulla legalità possa trovar posto il diritto o piuttosto il fatto della rivolta. Ha anche qui influito il ricordo di recenti vicende; ed è prevalsa l’idea che la resistenza all’oppressione, rivendicata da teorie e carte antichissime, è un diritto e un dovere, del quale non può tacersi, anche e proprio in un ordinamento che fa capo alla sovranità popolare.
ORDINAMENTO DELLA REPUBBLICA
La nuova Costituzione italiana, mentre si ispira alle idealità etico-politiche che muovono la democrazia, tiene conto della concreta realtà, sulla quale soltanto si può edificare. Sono due posizioni che si completano a vicenda. Vanno invece evitate le costruzioni astratte che si appoggiano al mero ragionamento. Le Carte costituzionali, di così facile fioritura nell’altro dopoguerra, e di così effimera vita, ebbero una preoccupazione eccessiva di razionalizzare istituti e sistemi; e, dato giusto rilievo al principio della sovranità popolare, non pensarono abbastanza ad assicurare la forza e la stabilità dello Stato.
I problemi dell’ordinamento costituzionale sono così complessi, che non è dato risolverli con qualche formula breve. Deve bensì rimanere fermissimo il principio della sovranità popolare. Cadute le combinazioni ottocentesche con la sovranità regia, la sovranità spetta tutta al popolo; che è l’organo essenziale della nuova Costituzione. Anche se non ha la continuità di funzionamento e la personalizzazione più concreta degli altri organi, è la forza viva cui si riconduce ogni loro potere; l’elemento decisivo, che dice sempre la prima e l’ultima parola. Per la sua struttura universale e fluente, non può direttamente legiferare e governare; ormai neppure nella minuscola ed arcaica Landesgemeinde cara a Rousseau.
La sovranità del popolo si esplica, mediante il voto, nell’elezione del Parlamento e nel referendum. E poiché anche il referendum si inserisce nell’attività legislativa del Parlamento, il fulcro concreto dell’organizzazione costituzionale è qui, nel Parlamento; che non è sovrano di per se stesso; ma è l’organo di più immediata derivazione dal popolo; e come tale riassume in sé la funzione di fare le leggi e di determinare e dirigere la formazione e l’attività del governo.
Il Parlamento non può, neppur esso, governare direttamente; e la sua prerogativa di legislazione dà luogo, oggi, a difficoltà pratiche; per la dilatazione dei compiti statali, che richiede moltissime leggi; dopo il Settanta erano poche decine all’anno; ora non si contano più; e non a torto si è osservato che il Parlamento rischia di non poter neanche legiferare, se non attua, per così dire, un decentramento legislativo, che – stabiliti i principî base con «leggi cornici» – ne deleghi le norme di integrazione ed attuazione anche ad organi nuovi quali i Consigli regionali ed il Consiglio economico nazionale.
La posizione preminente del Parlamento non toglie che gli altri organi costituzionali abbiano funzioni e, quindi, poteri proprî. Il Capo dello Stato è regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri ed organi dello Stato, compreso il Parlamento. Né il «potere esecutivo», che spetta al Governo, è di mera esecuzione; è piuttosto il «potere attivo», che, pur svolgendosi nei limiti tracciati dalla legge, deve aver iniziative ed autonomia, per provvedere, come è suo compito, ai bisogni che sono condizione preliminare ed originaria della vita dello Stato. A tal fine il Governo si vale dell’apparato amministrativo, e lo dirige; ma non sono una sola ed identica cosa; ed anche democraticamente giova che l’Amministrazione abbia funzioni e responsabilità proprie e definite. Non occorre aggiungere quale importanza abbia, per una sana democrazia, l’indipendenza della Magistratura; che, come l’Amministrazione, ha alla sua radice non il voto popolare, ma il concorso; né deve essere aperta all’influenza dei partiti. Se si tiene presente tutto ciò, si ha l’impressione della varietà e complessità dei problemi che vanno affrontati.
Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari ed antidemocratici. Si sono a tale scopo evitati due opposti sistemi.
Anzitutto: il primato dell’esecutivo, che ebbe nel fascismo l’espressione più spinta. Non si può dire che appartenga a questo tipo il sistema presidenziale, che fa buona prova negli Stati Uniti d’America, con un Capo dello Stato che è anche Capo del governo ed ha ampi poteri, ma non sembra poter essere trasferito da noi, che non abbiamo la forma federale, né altri elementi – d’equilibrio col Congresso, d’avvicendamento di due grandi partiti – che accompagnano quel sistema nella Repubblica dalla bandiera stellala. Vi è in Europa una resistenza irreducibile al governo presidenziale, per il temuto spettro del cesarismo, ed anche per il convincimento (e noi non dobbiamo abbandonarlo, ma valorizzarlo), che il governo di gabinetto abbia diretta radice nella fiducia parlamentare.
Si è d’altra parte evitato il pericolo di mettersi nel piano inclinato del governo d’assemblea. Ha l’apparenza d’un sillogismo la tesi che, poiché la sorgente di sovranità è unica, nel popolo, ed unica deve esserne la delegazione, ogni potere si concentra nel Parlamento, e gli altri organi, il Governo, il Capo dello Stato, la Magistratura, ne sono il comitato o i commessi ed agenti d’esecuzione. Si nega con ciò la possibilità di forme molteplici e diverse di espressione della sovranità popolare; e si lascia cadere quel tessuto costituzionale di ripartizione ed equilibrio dei poteri, che – anche se la formula di Montesquieu è in parte superata – ha costituito una conquista ed un presidio di libertà. Il governo d’assemblea – lo dice Robespierre – non può essere che di momenti eccezionali e rivoluzionari; bisogna, quando è possibile, e noi aneliamo alla normalità, instaurare un «regime costituzionale», a cui Robespierre aspirava, al di là della Convenzione. «Un governo d’assemblea – dice Proudhon – è non meno temibile del governo d’un despota; vi è dippiù che manca la responsabilità».
Il progetto italiano, allacciandosi alla realtà europea, mantiene il sistema parlamentare o di gabinetto; ed eliminando residui e riflessi di eredità monarchica, lo svolge in un quadro di più piena democrazia.
Il Parlamento.
Si è conservato il tipo bicamerale.
Non occorre entrare in questioni teoriche; né disturbare i patriarchi della Costituzione americana: Franklin che parla delle due Camere come di due cavalli che tirano il calesse in senso opposto; Washington e Jefferson che, prendendo il thè troppo caldo, parlano, accennando al Senato, dell’opportunità di versare il liquido, perché si raffreddi, nel piattino della tazza. L’istituto della seconda Camera è prevalso nella Commissione, per l’opportunità di doppie e più meditate decisioni, e pel contributo che può dare con un altro esame, nella sua diversa composizione e competenza, una seconda Camera. Il tipo di unicameralità venne scartato sovrattutto per il timore di cadere nel governo convenzionale o di assemblea.
È stato respinto il sistema di una seconda Camera ridotta a funzioni consultive di Consiglio, o «Camera di riflessione». Né venne accolto il sistema di «bicameralità imperfetta» che vige in altri Paesi, di prevalenza di una Camera sull’altra, così che questa non possa determinare la caduta del gabinetto, o almeno debba cedere nel dissenso per l’approvazione di una legge. Il progetto accoglie la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento; temperata soltanto, per quanto riguarda la loro unione in assemblea unica, dalla prevalenza numerica della prima.
La difficoltà maggiore stava e sta nel modo di composizione della seconda Camera o «Camera dei senatori». È chiaro che non può essere formata a semplice duplicato e con gli stessi metodi della Camera dei deputati. Messa da parte la soluzione di una nomina, anche parziale, da parte del Capo dello Stato, o dell’altra Camera, o per cooptazione della stessa Camera dei senatori, sono stati proposti e vagliati vari procedimenti, a cominciare da quello di una rappresentanza organica, a base d’interessi. A questo proposito si è, oltre alle obiezioni di principio, rilevata la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una soddisfacente «dosatura» fra le varie categorie rappresentate. Si è proposto di far eleggere la seconda Camera da collegi di consiglieri comunali; ed altri ha obiettato la sperequazione che deriva dalla diversa consistenza numerica dei Consigli comunali, così che quelli piccoli prevarrebbero sproporzionalmente sui più grandi, e si renderebbero in ogni caso necessari o voti plurimi o integrazioni dei consiglieri comunali con altri elementi elettivi. Prescindendo da questi sistemi, si presentano due vie, sempre a base di suffragio universale: la designazione diretta o l’indiretta, a mezzo di grandi elettori; ed anche qui si offrono varie possibilità, non esclusa quella, che è stata proposta in Commissione, del collegio uninominale.
Nella molteplice gamma delle varie soluzioni, la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba aver base regionale, in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione. Un terzo del numero dei senatori è stato riservato quindi all’elezione da parte dei Consigli regionali. Gli altri due terzi sono, secondo il progetto, eletti a suffragio universale diretto. La eleggibilità limitata soltanto a determinate categorie e ad uomini di età più matura, che debbono essere nati e domiciliati nella Regione, e la limitazione del diritto attivo di voto a chi abbia compiuto i 25 anni di età, differenziano la composizione della seconda Camera da quella dei deputati, anche a prescindere dal terzo che spetta ai Consigli regionali.
La qualificazione degli eleggibili a senatori, dopo un doveroso risalto agli elementi direttivi della guerra di liberazione, comprende coloro che per cariche ed uffici ricoperti, e per la loro posizione e l’attività che svolgono, danno fondata presunzione di capacità politica, amministrativa, tecnica.
Un istituto nuovo che la nostra Carta introduce è l’Assemblea Nazionale, e cioè il Parlamento che funziona a camere riunite per atti di singolare importanza, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra, e così dell’amnistia e dell’indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte d’organi rilevanti nell’ordinamento dello Stato, quali il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali.
Un altro istituto che il progetto introduce è la prorogatio dei poteri delle camere – quando è scaduto il termine della loro vita normale o sono state sciolte – fino a che non siano convocate le camere nuove. Non piace ad alcuni che si faccia sopravvivere un organo già morto; ma è prevalso il criterio che non sia da togliere, nell’intervallo fra le legislature, una possibilità di controllo e di azione parlamentare; al che potrà servire non un esercizio normale di poteri e di lavori delle camere, ma il loro intervento nelle contingenze ove sia necessario.
Ed ecco ancora un altro istituto nuovo nella vita costituzionale italiana: il referendum popolare. Oltre alla facoltà che hanno cinquantamila elettori di proporre al Parlamento un disegno articolato di legge, il diritto di vero e proprio referendum è attribuito al popolo, che può richiamare a sé la decisione su leggi votate dal Parlamento. Ciò avviene in due casi-tipo. Un primo (che ad alcuni apparve con un profilo di «veto» e destò riserve) si può esercitare appena la legge è approvata, e ne sospende l’entrata in vigore, quando ciò è tempestivamente richiesto da un’avanguardia di elettori o Consigli regionali. Si devono raggiungere entro due mesi, per dar corso al referendum, tali adesioni da raccogliere complessivamente mezzo milione di elettori o sette Consigli regionali. Questa forma di referendum trova un limite nel senso che non può aver luogo per leggi dichiarate urgenti dalla maggioranza assoluta, o approvate da due terzi dei membri di ciascuna Camera.
L’altro tipo di referendum è quello abrogativo: il popolo, con l’iniziativa di un eguale quorum complessivo, può sottoporre a referendum una legge che sia in vigore da almeno due anni. La figura del referendum si affaccia ancora nella Costituzione – ed anche qui ha dato luogo a riserve – con l’iniziativa rimessa non al popolo ma al Capo dello Stato, il quale può chiamare il popolo a decidere nel conflitto fra i due rami del Parlamento per l’approvazione di una legge.
Per il referendum, come per altri istituti nuovi all’Italia, deciderà l’esperienza concreta. Si è creduto di dover aprire la via ad una forma di manifestazione diretta di quella sovranità popolare, su cui poggia tutto il nuovo edificio democratico.
Il Capo dello Stato.
Per la elezione del Presidente della Repubblica si è adottata la soluzione che la rimette all’Assemblea Nazionale, con la partecipazione – più che altro simbolica, perché il numero ne è lieve – di due membri per ogni Consiglio regionale. Alcuni pochi, ed io sono fra essi, ritenevano che, senza arrivare alla identificazione americana col capo del governo, fosse da ammettere la designazione del Capo dello Stato da parte del popolo, per dargli una maggiore autonomia e per stabilire un potere più durevole e più saldo, in mezzo alle fluttuazioni di forze e di partiti, che non consentono facilmente decise prevalenze e sicurezza di governi. Sta ad ogni modo che, nel nostro progetto, il Presidente della Repubblica non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonie che si volle vedere in altre Costituzioni. Mentre il Primo Ministro è il capo della maggioranza e dell’esecutivo, il Presidente della Repubblica ha funzioni diverse, che si prestano meno ad una definizione giuridica di poteri. Egli rappresenta ed impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato al di sopra delle mutevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere a queste essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale. Il nostro progetto gli conferisce una serie di attribuzioni nell’ordinamento interno e di fronte all’estero, per la promulgazione delle leggi e dei decreti, per la nomina dei funzionari ai gradi più alti, per l’accreditamento nei riguardi dei rappresentanti diplomatici, per la stipulazione dei trattati e per la dichiarazione di guerra, per la grazia e la commutazione delle pene; e gli dà la presidenza di due grandi Consigli – della difesa e della giustizia – così che ampia è la sua attività e preminente per dignità su ogni altra. Il Capo dello Stato non governa; la responsabilità dei suoi atti è assunta dal Primo Ministro e dai Ministri che li controfirmano; ma le attribuzioni che gli sono specificamente conferite dalla Costituzione, e tutte le altre che rientrano nei suoi compiti generali, gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che è propriamente sua.
La portata della sua azione politica sta soprattutto in tre punti costituzionalmente determinati.
Egli nomina, e conseguentemente revoca, il Primo Ministro ed i Ministri. Questi debbono bensì avere la fiducia del Parlamento; ma la scelta, la designazione di un uomo a capo del Governo può, in situazioni complesse e delicate, aver influenza decisiva di orientazione.
Una facoltà particolare d’intervento ha, come vedemmo, il Presidente della Repubblica quando sorge dissenso tra i due rami del Parlamento per l’approvazione d’una legge. Si potrà trattare di questioni poco importanti che verranno risolute in via di compromesso fra le due camere, né sarà male se in certi casi, con l’arenarsi d’un progetto, si limiterà la prolifica legiferazione; ma vi possono essere gravi e sostanziali ragioni perché un’altra forza dirima la controversia; ed ecco che il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire il referendum popolare.
Più grave e penetrante d’ogni altro intervento è poi la facoltà del Presidente della Repubblica di sciogliere le camere; dopo aver sentito i loro presidenti. L’affermazione di Mirabeau che «lo scioglimento è il mezzo migliore di lasciar modo di manifestarsi all’opinione pubblica, che non ha mai cessato di essere la sovrana di tutti i legislatori» riecheggia oggi nella dichiarazione di Blum che «lo scioglimento delle camere è la chiave di volta di un ordinamento democratico».
Il Governo.
L’errata illazione che pienezza di sovranità popolare ed efficienza di regime parlamentare portino con sé debolezza nei poteri di governo va recisamente superata. Mai come oggi, dopo il dissolvimento politico e sociale che si va faticosamente ricomponendo, il Paese ha sentito la necessità di governi forti e vitali. Questa necessità non contrasta con i principî della democrazia; che deve essere difesa, come non fecero i governi dell’altro dopo guerra, contro colpi di mano faziosi e violenti.
Per dare unità e stabilità al governo il progetto fa del Presidente del Consiglio dei ministri non più un primus inter pares ma un capo, per dirigere e coordinare l’attività di tutti i ministri; e regola le manifestazioni della fiducia o sfiducia parlamentare. Senza la volontà del Parlamento nessun governo può sorgere o durare in vita. Per dare espressione a questa volontà, al momento della Costituzione del governo, ed in sede di appello per la sfiducia, interviene l’assemblea riunita delle due camere. Si evitano così gli inconvenienti del passato, le imboscate e le «bucce di limone», su cui cadevano i governi. Si considera anche qui l’esigenza della riflessione, del «pensarci su», che è un motivo ricorrente nei procedimenti costituzionali.
Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di Costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia bene amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia. E si sente la tacita invocazione ad una riforma profonda e semplificatrice.
Il Consiglio economico nazionale, se non è una terza camera, come fu proposto in altri Paesi, potrà per la sua composizione riflettere elettivamente gli interessi del lavoro e della produzione ed esercitare – accanto alla consulenza nel campo economico – compiti da stabilire per legge, anche come delegazione di poteri da parte del Parlamento.
Una parola soltanto nella Costituzione per i due più antichi «organi ausiliari», di cui tutte le carte parlano: il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; il primo per la consulenza giuridico-amministrativa e la tutela della giustizia nell’amministrazione, la seconda per il controllo di legittimità e di finanza; sono organi ausiliari, più che del Governo, della Repubblica; e la loro indipendenza dal Governo va garantita con un più diretto raccordo con il Parlamento.
La Magistratura.
Per adempiere il mandato, che esercita in nome del popolo, la magistratura è autonoma e indipendente. Non è soltanto un «ordine»; è sostanzialmente un «potere» dello Stato; anche se non si adopera questo termine, neppure per gli altri poteri, ad evitare gli equivoci e gli inconvenienti cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente.
Il progetto non si spinge ad una forma piena di autogoverno, che non potrebbe mai essere chiuso, corporativo; e non si addirebbe ad un corpo formato mediante concorsi, senza attingere alle fonti della designazione popolare. La magistratura ha fatto, ad ogni modo, una grande conquista; ed è notevole la riforma adottata, che dà piena garanzia per le nomine, per l’inamovibilità, per l’assoluta autonomia dei giudici di fronte al potere esecutivo. All’organo di «governo della magistratura» che si crea nel suo Consiglio superiore, partecipano, oltre ai membri designati direttamente dai magistrati, altri scelti dal Parlamento, per riallacciarsi così alla fonte popolare.
Il titolo sulla magistratura non è, pel rimanente, che la collocazione nella Carta costituzionale di principî, che verranno completati nelle norme sull’ordinamento giudiziario; e di alcune garanzie fondamentali, in materia di giurisdizione (da mettersi in relazione con altre stabilite nei «diritti civili») che saranno anch’esse fondamento e base di integrazione nei codici. La Costituzione è, in certo senso, la cuspide di una piramide di norme, da rivedere ormai in gran parte, nella legislazione repubblicana del Paese.
Regioni e Comuni.
L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese.
«Il Comune: unità primordiale; la Regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione ed i Comuni». Mazzini, il più grande unitario del Risorgimento, era per la Regione; e si incontrava con la proposta di più caute forme di decentramento in Cavour e nei politici della sua scuola. Sarebbe stato naturale e logico che, all’atto dell’unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati»; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. È oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi; molti dei malanni d’Italia si attribuiscono all’accentramento; in ispecie pel mezzogiorno; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia.
Certo si è che oggi assistiamo – e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto – ad un fenomeno inverso a quello del Risorgimento, e sembra anch’esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di sé medesimi».
La tendenza si collega alle rivendicazioni di libertà, che sono la grande nota di questo momento storico: di tutte le libertà, anche degli enti locali come «società naturali». Riecheggia più viva, in questa atmosfera, l’affermazione di Stuart Mill che nelle autonomie locali si ha un «ingrandimento della persona umana», e che «senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero, ma non lo spirito della libertà». Vi è bensì, nel momento attuale, un’altra tendenza all’ampliarsi, più che al rimpicciolirsi, delle formazioni statali; ed ai loro collegamenti in complessi internazionali; si sostiene che a ciò deve accompagnarsi, per equilibrio, il decentramento interno; ed anche gli autonomisti riconoscono la necessità di non intaccare l’unità politica di un Paese, che fu, come il nostro, lacerato ed indebolito. Altra tendenza ancora, alla quale assistiamo, dopo aver visto l’insufficienza e la miseria di chiuse economie locali, è la ricostruzione di ampi mercati; si sostiene che ad essi potrà meglio riallacciarsi l’iniziativa regionale; ed il desiderio d’autonomia, più vivo nel Mezzogiorno, si basa sulla convinzione di danni e sfruttamenti da parte di altre Regioni; né senza l’esperimento autonomistico si potranno conoscere le realtà e le possibilità effettive.
La Commissione è stata unanime per l’istituzione della Regione. Questa non sorge federalisticamente. Anche quando adotta con sua legge statuto di una Regione, lo Stato fa atto di propria sovranità. L’autonomia accordata eccede quella meramente amministrativa; ma si arresta prima della soglia federale e si attiene al tipo di Stato regionale formulato dal nostro Ambrosini.
Due tesi si sono trovate di fronte nella Commissione. Una di esse vorrebbe attribuire alla Regione una potestà legislativa soltanto d’integrazione ed attuazione dei principî e delle norme delle leggi dello Stato, per adattarle ai bisogni locali; nel che sta, come abbiamo già visto, un’esigenza dello stesso procedimento legislativo in generale. Vorrebbe pure che il passaggio di servizi alla Regione fosse moderato e graduale.
La soluzione che è prevalsa, e che si è spinta più avanti perché l’autonomia sia «vera ed efficace», accorda alle Regioni facoltà legislative più ampie, in una scala che va da una sfera di materie di competenza diretta ed esclusiva delle leggi regionali, ad un’altra di competenza concorrente e suppletiva, perché anche lo Stato vi può, quando crede, legiferare, ed infine alla sfera d’integrazione e di applicazione delle leggi statali, ove tutti sono d’accordo. Si è sottolineato che le materie riservate alla facoltà di legislazione esclusiva o concorrente – per le quali sole avviene il passaggio dei corrispondenti servizi all’ente regionale – sono in realtà di misurata importanza e non incidono nel tessuto connettivo dell’unità economica ed amministrativa dello Stato. La stessa competenza che si chiama esclusiva non è poi, in nessun caso, senza limite. Le leggi della Regione non possono essere in contrasto «con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, con gli obblighi internazionali, con gli interessi della nazione e delle altre Regioni». Ove il governo centrale ritenga che vi sia contrasto, il giudizio al riguardo è deferito alla Corte costituzionale; e – si noti – per le questioni di merito sulla valutazione degli interessi nazionali o d’altre Regioni spetta al Parlamento; così che il campo lasciato alla legislazione regionale è per ogni aspetto vigilato e contenuto.
La Commissione è stata concorde che, per ragioni sostanziali e per impegni già presi, debbano essere date condizioni particolari d’autonomia alle due grandi isole ed alle zone mistilingue di frontiera. Tuttavia anche i relativi statuti – come è di quello già approvato dalla Consulta Nazionale per la Sicilia – dovranno essere coordinati e non contrastanti con i principî fondamentali della Costituzione.
Quali siano le altre Regioni non è ancora del tutto definito. Alle più tradizionali che hanno riflessi anche in ordinamenti come il giudiziario o nelle classifiche statistiche, si sono affiancate Regioni nuove che invocano pur esse giustificazioni storiche e di opportunità; ed al riguardo la Commissione ha disposto ricerche ed ha chiesto agli organi locali di esprimere la propria opinione. Dell’esito delle indagini, ancora in corso, sarà data comunicazione alla Costituente.
Nell’atto di dare il via a così rilevante riforma strutturale della vita italiana, la Commissione non si è celate le complessità e le difficoltà di pratica attuazione. Basta pensare all’autonomia finanziaria, non agevole a congegnarsi, e che non potrà fare a meno d’un riparto delle imposte che implichi un contributo di solidarietà delle Regioni provviste di maggiori mezzi a quelle che con le proprie risorse non sarebbero in grado di adempiere i loro servizi essenziali. Pericolo da evitare è che, mentre si tende ad un alleggerimento della macchina amministrativa, il decentramento non dia origine ad una nuova moltiplicazione di burocrazia nelle Regioni, senza toccare quella centrale.
Molte discussioni vi saranno, senza dubbio, anche alla Costituente; ma, quando siano adottate per l’ordinamento regionale le soluzioni che sembrino migliori, occorrerà che la concordia di tutti sorregga questo passo che l’Italia farà, per ridestare le forze locali ed attingere da esse rinnovata energia.
Garanzie costituzionali.
Carattere comune delle Costituzioni moderne è di essere rigide. La modificabilità continuata, e quasi inavvertita, poté sembrare un giorno vantaggio e conquista della democrazia; ma ha dato disastrosi risultati nel tempo fascista; ed oggi la coscienza politica, vigile e sospettosa, reclama la difesa delle libertà sancite nella Costituzione e vuole che nella gerarchia delle norme, quelle costituzionali abbiano valore preminente, ed istituti e procedimenti particolari siano di salvaguardia contro le violazioni da parte dello stesso Parlamento.
Istituto nuovo è la Corte costituzionale; e scarsi ne sono i precedenti e le prove: così che non è facile risolvere i suoi problemi. Non è stata accolta l’idea di affidare un controllo di costituzionalità, che è giurisdizionale, ma su materie anche politiche, alla magistratura ordinaria. È sembrato opportuno un organo speciale e più alto, come custode supremo della Costituzione.
Ed ecco il triplice problema dei compiti, della composizione, del funzionamento. Si è ritenuto di riunire al sindacato di costituzionalità la risoluzione dei conflitti di attribuzione ed il giudizio sul Presidente della Repubblica e sui Ministri accusati dal Parlamento.
Per la struttura della Corte si fronteggiano le tesi, da un lato, che soltanto gli eletti del popolo possano investire questi giudici del loro altissimo compito, dall’altro che non spetti al controllato, ossia al Parlamento, costituire il controllore, e si debbano evitare sovrapposizioni di partito. È caduta la proposta di formare la Corte, per metà, di magistrati ordinari ed amministrativi, d’avvocati e docenti di diritto, designati per la loro stessa carica o scelti dagli appartenenti alle categorie, e per l’altra metà di eletti dall’Assemblea Nazionale e dai Consigli regionali. La soluzione prevalsa è di affidare bensì l’investitura di tutti i membri della Corte all’Assemblea Nazionale; ma col temperamento che essa, mentre potrà eleggerne un quarto senza condizioni, sceglierà gli altri nei designati, con un triplo di nomi, dalle categorie sopra indicate.
Anche per la procedura della Corte – la materia è così nuova – si sono profilate varie soluzioni. Se la questione di costituzionalità sorge in via incidentale, nel corso di qualsiasi giudizio, si è escluso di lasciarla in una prima fase al magistrato normale, e si è ritenuto più semplice e rapido che, appena sollevata con sufficiente serietà, la questione venga rimessa alla Corte costituzionale. Può essere sollevata, invece, in via principale, con diretto ricorso, da un corpo qualificato o da un certo numero di cittadini. Al giudizio di costituzionalità non si è posto, in nessun caso, limite di tempo, ad esempio un biennio dall’entrata in vigore della legge; dopo di che questa non potrebbe più essere impugnata; e si toglierebbe l’incertezza sulla sua validità; ma verrebbero anche meno il presidio del controllo e la difesa dei diritti violati.
Si è dubitato se eguale portata debba avere sempre la decisione della Corte; che, promossa in via incidentale, potrebbe, si è sostenuto, limitarsi a disapplicare la legge nel caso giudicato; mentre nell’altra via, più diretta e più larga, dovrebbe dichiarare la legge invalida e priva di ogni effetto. Si è ritenuto che, una volta sollevata, in un modo o nell’altro, la questione sia da risolvere con portata generale. La legge costituzionale resta priva di ogni efficacia, ed il Parlamento prenderà le misure di sua competenza: o sostituire quella legge con un’altra costituzionalmente corretta; o addivenire alla sua regolarizzazione con procedimento di revisione costituzionale. Si è cercato di semplificare, e forse non si poteva dippiù, questa materia per sua natura aggrovigliata.
Ed anche per il procedimento di revisione costituzionale si sono adottati i criteri più semplici, senza ricorrere ai sistemi dell’approvazione in due legislature successive o dello scioglimento automatico delle camere dopo che abbiano approvata la revisione in prima lettura. Vi dovranno essere due letture, e con un sensibile intervallo («pensarci su»), nella stessa legislatura. Potrà il popolo promuovere il referendum, ma quando la proposta di revisione abbia ottenuto il voto di due terzi dei deputati e di due terzi dei senatori, sarà senz’altro definitiva.
Se la Costituzione deve essere rigida, una troppo macchinosa e complicata procedura di revisione ostacolerebbe il cammino ad un completamento dell’edificio costituzionale; che vogliamo sia nelle sue grandi mura definitivo ed abbia vita di secoli; ma potrà essere necessario rimettervi le mani, negli sviluppi, non ancora esattamente prevedibili, dei sistemi costituzionali.
* * *
Onorevoli colleghi, ho cercato di riferire obbiettivamente, come era mio dovere, sulle grandi linee dei dibattiti avvenuti e delle soluzioni prevalse nel testo costituzionale. Sulle sue parti riferiranno più ampiamente, e meglio di me, i Presidenti delle Sottocommissioni e Sezioni, che ne hanno con tanta competenza diretto i lavori: Tupini, Ghidini, Conti; mentre Terracini continuerà, dalla Presidenza della Costituente, l’opera feconda che ha dato alla preparazione di questa Carta costituzionale. Interverranno sui singoli temi, a chiarirne le posizioni, i segretari delle Sottocommissioni ed i componenti di essi che ne furono Relatori, non sempre in senso concorde. È inevitabile che nell’Assemblea si riaprano le divergenze e le discussioni; e vi parteciperanno gli altri deputati. Un’identità di pensiero, su ogni questione, non è concepibile né desiderabile. Occorre bensì che alla fine, sul complesso della Costituzione, si realizzi non un’esile maggioranza ma un consenso largo e sicuro.
Ho l’impressione che noi italiani, pel nostro temperamento vivace, siamo portati ad esagerare nei nostri contrasti, e diamo talvolta ad essi troppa importanza; ma nei momenti decisivi – nella resistenza e nella liberazione, ed oggi nell’accorata protesta per l’ingiusta pace – ritroviamo un senso sostanziale di concordia. Lo ritroveremo anche per la Costituzione, nella comune devozione alla Patria ed agli ideali di libertà e di giustizia che ci devono ispirare.
RUINI, Presidente della Commissione.