ASSEMBLEA COSTITUENTE
COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE
SECONDA SOTTOCOMMISSIONE
3.
RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 29 LUGLIO 1946
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Seguito della discussione sulle autonomie locali
Finocchiaro Aprile – Rossi Paolo – Lami Starnuti – Uberti – Conti – Tosato – Bozzi – Mortati – ManniRoni – Lussu – Grieco – Fuschini – Presidente.
La seduta comincia alle 17.
Seguito della discussione sulle autonomie locali.
FINOCCHIARO APRILE rileva che l’onorevole Lussu ha sollevato una questione meritevole della maggiore attenzione.
Si richiama alla discussione fatta sull’ordine dei lavori e all’opinione allora espressa dall’onorevole Zuccarini che la questione preliminare da prendere in esame fosse quella della struttura dello Stato. La Sottocommissione preferì iniziare la discussione sulle autonomie; ma l’onorevole Lussu ha poi giustamente rilevato che questo problema deve essere esaminato non solo sotto il profilo dello Stato unitario, ma anche sotto quello dello Stato federale e crede che l’onorevole Lussu abbia perfettamente ragione.
Riprende questo tema, pur sapendo che nella Commissione prevale l’idea unitaria e si vuole il mantenimento del sistema della unità italiana creato da Cavour e sul quale si sono modellati tutti gli ordinamenti dello Stato.
Dopo aver ricordato che l’idea unitaria al tempo del Risorgimento non fu la sola, pur essendo stata l’idea sostenuta strenuamente da Giuseppe Mazzini, ma che vi fu anche l’idea federalista che ebbe in Carlo Cattaneo un sostenitore altrettanto tenace, avverte che, come l’onorevole Lussu ha considerata la situazione dal suo punto di vista sardo, egli intende considerarla particolarmente dal punto di vista siciliano.
Non vuol rifare la storia di quest’ultimi anni, ma deve confermare quel che disse già nel suo discorso alla Costituente: il solo modo per dirimere il contrasto che è evidente tra la Sicilia e le altre Regioni italiane, è quello della elevazione della Sicilia e di altri paesi italiani a Stati, e l’unione di questi Stati in una grande confederazione italiana, mediterranea ed eventualmente europea. Né è vero che, sostenendo la confederazione di questi Stati, si compie opera antitaliana, ché anzi il sistema della confederazione degli Stati è quello che meglio di ogni altro cementa la unità dei popoli di una stessa lingua. È sempre avvenuto così: avvenne così in Germania, in America, in Svizzera, ed avverrà in tutti i Paesi che adotteranno il sistema della confederazione di Stati. Respinge, quindi, l’accusa di aver voluto creare una situazione contro l’Italia. Ciò non è vero: il Movimento per l’indipendenza della Sicilia compie, al contrario, opera eminentemente italiana.
Passando a considerare il problema dal punto di vista giuridico, costituzionale, tecnico, afferma che col sistema delle autonomie non si ovvierebbe agli inconvenienti che si sono deplorati dal 1860 in poi: e aggiunge che il sistema delle autonomie non può essere adottato per tutte le regioni italiane, anzi alcune di esse, come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, il Veneto, non hanno alcun bisogno dell’autonomia. Non si deve confondere l’autonomia col decentramento; e per molte regioni italiane il decentramento sarebbe più che sufficiente; mentre vi sono regioni, e precisamente la Sicilia e la Sardegna, per le quali la semplice autonomia, quale viene prospettata, non servirà che a ben poco, se non pure a nulla. Esse hanno bisogno di autonomie larghe, complete, non soltanto per i piccoli affari di ordinaria amministrazione, ma anche nel campo economico, finanziario, tributario, doganale. Qui ci si vuole limitare a modeste riforme di scarso interesse e che non toccano i gangli vitali di queste regioni. In tal modo non si concluderà niente. Così la esclusione, voluta dall’onorevole Einaudi, dell’autonomia giurisdizionale è un errore, perché la Sicilia ha una secolare tradizione di indipendenza giurisdizionale ed ha avuto fino a poco tempo fa la sua Corte di Cassazione, che era forse la migliore per la saggezza della sua giurisprudenza, tanto che quando esisteva un contrasto tra la Corte di Firenze e quella di Roma, quella che lo decideva era molto spesso la Corte di Cassazione di Palermo.
Anche per il problema finanziario, l’onorevole Einaudi parte da un punto di vista rigidamente unitario. Da quel punto di vista egli ha ragione; ma, parlando di autonomie, non si può rimanere legati al sistema unitario così come egli vorrebbe, perché si va verso una forma diversa di unità. Vi sono varie forme di unità, e una di queste è anche la confederazione di Stati. Quando, nel 1870, Bismarck creò la confederazione germanica, bavaresi, sassoni, prussiani, brandeburghesi, ecc., si sentivano tutti tedeschi come gli altri, e contribuivano tutti alla prosperità, alla ricchezza e alla gloria della Germania. Perché questo non si deve fare in paesi di lingua italiana?
Il sistema della confederazione di Stati è il più adatto nelle circostanze presenti. Non può sfuggire ad uomini politici un fatto che non è privo di importanza. Non si può dire che l’Italia meridionale, da Roma in giù, e le maggiori isole abbiano fatta nel referendum istituzionale un’affermazione nettamente monarchica; egli è d’avviso diametralmente opposto, convinto che non questo abbia voluto fare l’Italia meridionale (sono passati molti anni da quando si poteva dire che nel Mezzogiorno, come in Sicilia e in Sardegna, tutti erano monarchici), ma abbia piuttosto voluto cogliere l’occasione per fare una manifestazione decisamente antiunitaria. Quando alla Sicilia e alla Sardegna, che sono repubblicane (non al numero dei voti, ma agli spiriti si deve guardare), si sarà data la dignità di Stati, e questi stati saranno tutti confederati nell’interesse comune italiano, i dissensi che ci sono stati verranno a cessare, mentre permarrebbero se permanesse la situazione attuale.
Pensa quindi che il problema vada affrontato più nettamente, più risolutamente e non soltanto col proposito di fare qualche cosa che debba servire momentaneamente a tener buone le popolazioni. Non è questo che ci vuole per l’Italia meridionale. È stato eletto Presidente provvisorio della Repubblica un uomo degnissimo come Enrico De Nicola, meridionale e monarchico, ma non è da pensare seriamente che soltanto per questa nomina l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna siano paghe. Occorre qualche cosa di molto serio, e il sistema dell’autonomia non risolverà il problema, anzi lo aggraverà.
Parla perché ha il dovere di parlare, non per convincere i presenti, che hanno orientamenti chiari e definiti; ma perché ha ricevuto un mandato non imperativo, e tuttavia molto preciso e desidera che negli atti rimanga traccia di queste sue affermazioni.
L’idea della Confederazione di Stati non deve essere scartata. Ha torto, a suo avviso, l’onorevole Grieco quando dice che, adottando questo sistema, si dovrebbero ricreare gli Stati per poi confederarli e che ciò costituirebbe un errore. Non vede quale danno ne potrebbe derivare. Erano certamente degli Stati piuttosto forti quelli di prima: il Regno delle Due Sicilie era il perno della vita politica ed economica italiana: basta pensare che nelle sue casse nel 1860, al momento del trapasso, vi erano 428 milioni d’oro, mentre nelle casse di tutti gli altri ex Stati riuniti non ce ne era nemmeno la metà: basta pensare al gettito della vendita dei beni delle soppresse corporazioni religiose, dalla quale si ricavarono circa 650 milioni che furono per la quasi totalità destinati al porto di Genova e alle ferrovie del Veneto e ad altre opere pubbliche dell’Alta Italia. E tutto questo deve far riconoscere pure che vi è un diritto nelle popolazioni siciliane ad avere qualche cosa di più della semplice autonomia.
Esorta ad esaminare il problema della confederazione di Stati italiani e a non abbandonarlo soltanto perché una enorme maggioranza della Commissione è unitaria. Esaminare questo problema potrebbe significare risolverlo.
Comunque, ha adempiuto al suo dovere, perché ognuno deve assumere le proprie responsabilità.
ROSSI PAOLO afferma che l’esigenza comunemente sentita non è, a suo avviso, né quella di una forma federativa, né quella di una forma regionalistica. Alla tesi federalista inclinano, evidentemente, siciliani, sardi e valdostani; ma il loro è un problema particolare che non deve influenzare tutta intera la struttura italiana. I loro casi specifici, ben noti, saranno regolati a parte. La federazione di Stati sarebbe una federazione di circondari, perché le regioni sono territorialmente così limitate che non si potrebbe parlare di Stati. Semmai si dovrebbe parlare di cantoni. Né l’esigenza vera è quella della creazione del nuovo ente regione, ma di un largo, profondo, sincero, efficiente decentramento amministrativo, al quale risultato si può arrivare benissimo anche senza costruire dal niente l’ente regione.
La creazione di una regione con piena competenza legislativa sarebbe una riforma completamente antistorica perché il processo comune di tutti gli Stati federativi è precisamente quello contrario, cioè di diminuire sempre più la competenza legislativa nei cantoni dello Stato per accrescere la competenza federale.
Per quanto riguarda l’autonomia giurisdizionale, richiama al fatto che il 90 per cento dei giudizi non sono giudizi di successione, o di filiazione, o di alimenti, ma giudizi di diritto mercantile, onde sarebbe proprio sul diritto mercantile che si determinerebbero differenze tra regione e regione. E facile immaginare cosa succederebbe se, oltre tutte le questioni di competenza territoriale, sorgesse anche l’eccezione di carenza di giurisdizione: i rapporti commerciali sarebbero praticamente impediti. Sarebbe dunque un grande regresso politico ed economico per il Paese avere varie giurisdizioni per limitate regioni.
Vero è che si potrebbero costituire delle regioni senza autonomia giurisdizionale e senza autonomia tributaria; ma non varrebbe la pena di introdurre questa grande innovazione quando le regioni non fossero autonome in nessuno di questi campi.
Ritiene inoltre che sia difficile in Italia determinare in modo soddisfacente, economicamente e politicamente, il territorio delle singole regioni. Vero è che l’Italia nasce dall’unione di molti staterelli, quasi nessuno di essi ha conservato per un periodo notevole una costante uniformità territoriale: quasi tutti hanno subito di secolo in secolo, di decennio in decennio, di anno in anno, di semestre in semestre, profonde modificazioni territoriali. Ci sono certo delle regioni – come appunto le Isole – che posseggono inconfondibili caratteristiche geografiche, etniche ed economiche; ma ciò non accade per tutta l’Italia.
Cita in proposito due esempi. Appena si è parlato della costituzione dell’ente regione, reclami molto vivaci sono stati fatti dalla provincia di Savona, la quale ha un porto in concorrenza con quello di Genova e un numero di abitanti notevolmente inferiore a Genova, ed osserva che, ove fosse istituito un Consiglio regionale, i consiglieri genovesi sarebbero in maggioranza e determinerebbero con quelli delle regioni finitime rapporti contrari agli interessi del porto di Savona. Essa perciò chiede di essere salvata dall’unione con Genova.
All’onorevole Finocchiaro Aprile, che ha ricordato la Liguria come un esempio caratteristico di unità regionale, fa quindi osservare come la Liguria offra questo contrasto fra Genova e Savona.
Recentemente si discuteva della ricostituzione della Corte di appello di Lucca, che dovrebbe avere competenza su tutta la zona nord-ovest della Toscana: Pisa, Livorno, Massa e Carrara. Ebbene, a parte Firenze, dove gli avvocati vorrebbero accentrare tutte le cause, Massa, col suo Consiglio dell’Ordine professionale, vi si è opposta, chiedendo l’unione con Genova. Né se ne capisce bene la ragione: certo non si tratta di maggiore facilità di comunicazioni, perché il viaggio tra Genova e Massa è molto più lungo che non fra Massa e Lucca.
Ci sono dunque nelle varie regioni dei motivi psicologici difficilissimi a penetrarsi, ma dei quali è pur necessario tener conto.
Infine bisogna fare attenzione che l’auspicato decentramento da istituirsi contro l’accentramento statale non si risolva in un accentramento regionale. Soppresse le provincie, molti sindaci e segretari comunali, che oggi lamentano di dover mettersi in viaggio per raggiungere il non lontano capoluogo di provincia, riterrebbero impossibile un viaggio di otto ore per andare al capoluogo di regione.
Questo vale per il caso che non si voglia mantenere la provincia; perché, se si vuole mantenerla, sorge un’altra osservazione. Si lamenta oggi una burocrazia che appesantisce. Ma se, per snellirla, oltre la burocrazia comunale, quella provinciale e quella centrale – e quest’ultima non si può sopprimere per il suo necessario sindacato di legittimità – se ne crea un’altra, regionale, invece di alleggerire, si appesantisce ancora di più.
Bisogna poi tener conto del fatto che le diverse provincie hanno interessi non complementari fra loro, ma concorrenti, e mal si adatterebbero quindi all’unità regionale.
A suo avviso, la soluzione migliore, perché più rispondente ad una formazione naturale, è quella di concedere ai comuni ed alle singole provincie già esistenti amplissime autonomie amministrative, da attuarsi concretamente così:
1°) abolizione dei prefetti;
2°) riduzione del controllo dello Stato al semplice sindacato di legittimità, senza alcuna interferenza circa il merito dei singoli provvedimenti;
3°) riconoscimento di una competenza regolamentare, se non normativa in senso assoluto, in numerose materie, come l’insegnamento professionale e industriale, la tutela del patrimonio agricolo, idrico, zootecnico, la tutela della circolazione stradale, ecc.;
4°) congrua elasticità di bilancio. (E qui occorrerà ascoltare dei tecnici, perché i mezzi debbono essere forniti con sicurezza e non si deve ricorrere all’integrazione dà parte dello Stato);
5°) riconoscimento di un potere di iniziativa legislativa.
A questo proposito richiama l’accenno fatto dal Relatore Ambrosini alla possibilità di concedere alle provincie ed ai comuni una iniziativa legislativa che sia meno vana del vecchio principio di petizione. Si dovrebbe fissare un termine entro cui quella iniziativa dovesse essere sottoposta all’autorità centrale.
La legge fondamentale potrebbe poi prevedere il libero e spontaneo raggruppamento di una o più provincie mediante referendum, e allora si avrebbe una unione naturale e le regioni si formerebbero per virtù propria.
LAMI STARNUTI non è in tutto d’accordo con l’onorevole Rossi e, per quanto dissenta in parte dalla relazione dell’onorevole Ambrosini, dichiara di essere in linea di massima favorevole all’ente regione.
Esiste la necessità politica ed amministrativa di spezzare l’attuale accentramento dello Stato e di dare al nuovo Stato una struttura agile e snella per cui tutti gli interessi locali trovino la loro soluzione nel luogo dove gli interessi sorgono, anziché nel centro dello Stato. Problema, quindi, non di semplice decentramento burocratico, ma di decentramento autarchico territoriale, e se si intende sottrarre allo Stato la quasi totalità delle sue attuali attribuzioni amministrative, la provincia non è in grado di provvedere alle funzioni che le si dovrebbero attribuire nell’ipotesi che non si facesse luogo alla creazione dell’ente regione.
Capisce le ragioni che hanno mosso l’onorevole Rossi per sostenere che il decentramento amministrativo debba trovare la sua sede nella provincia che è un ente locale già esistente, anziché in un ente locale di nuova formazione come la regione. Si possono ferire degli interessi locali precostituiti, sollevare opposizioni o proteste delle città capoluoghi di provincia, che si riterranno non solo sminuite ma anche danneggiate, perché la costituzione della regione dovrebbe portare all’abolizione della provincia come persona giuridica. Non crede, infatti, sia il caso di aggiungere la regione alla provincia, perché la provincia non potrebbe avere grandi funzioni, e perché questo triplice ordinamento locale finirebbe per costituire un aumento della burocrazia ed un aggravio per i contribuenti. Pensa però che i capoluoghi di provincia, con la costituzione della regione, non perderebbero interamente gli uffici amministrativi che ora hanno, perché la regione dovrebbe a sua volta far luogo ad un decentramento amministrativo di carattere burocratico e istituzionale e gli uffici decentrati della regione dovrebbero trovare necessariamente sede nell’attuale capoluogo di provincia. Quindi una lesione degli interessi materiali ora costituiti nei capoluoghi di provincia non si avrebbe.
Non sarebbe esatto obiettare che, se la regione costituisce un decentramento burocratico, permane tuttavia l’aggravamento della burocrazia, perché la regione dovrebbe rappresentare un alleggerimento ed un risparmio nel personale burocratico dello Stato.
È dunque favorevole alla costituzione dell’ente regione come strumento di decentramento amministrativo autarchico, che ritiene necessario per dare allo Stato italiano una veste e una struttura più agile, più corrispondente ai bisogni della nazione.
E pensa alla regione nel suo territorio tradizionale e storico, perché non è vero che non sia già prestabilito il territorio regionale. Quale che sia stata, nelle vicende storiche d’Italia, la fluttuazione di piccole parti del territorio nazionale, la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, e gran parte delle altre regioni d’Italia sono fissate in modo preciso nei loro caratteri distintivi.
Pensa però che la creazione di Enti regionali dovrebbe esser fatta non soltanto per opera dei legislatori, ma con il contributo attivo delle popolazioni che vivono nel territorio di quelle regioni. Alla regione si dovrebbe lasciare, non la facoltà, come vorrebbe l’onorevole Zuccarini, di darsi lo Statuto, ma la facoltà di darsi la delimitazione territoriale. Se una regione pensa che la sua convenienza politica, amministrativa ed economica sia quella di non racchiudere in una unica circoscrizione amministrativa tutto il territorio della regione, dovrebbe poterlo fare. Se Savona ritiene che nella regione potrebbe essere sacrificata da Genova, l’Ente regionale dovrebbe tuttavia avere l’imparzialità che ha lo Stato verso tutte le parti del suo territorio e cercare, nella concordia delle popolazioni liguri, la scissione della regione in due parti. Alla stessa stregua due regioni limitrofe potrebbero riunirsi. Non si ha che richiamare i criteri amministrativi e giuridici della vecchia legge comunale e provinciale del 1915, per intendere subito come questo movimento di aggregazione e di separazione potrebbe avvenire.
Circa la competenza della Regione è d’avviso che questa debba avere una vera e propria competenza legislativa solo per alcune materie, come la pesca, la caccia, le scuole professionali; ma fuori di queste materie e di poche altre, la Regione non dovrebbe avere che una competenza di regolamento per la esecuzione della legislazione unitaria deliberata dallo Stato italiano. Invece le funzioni amministrative della Regione dovrebbero essere le più estese possibili, con sottrazione allo Stato di quasi tutte le attribuzioni di carattere amministrativo, così che non gli rimangano che quelle attinenti veramente e propriamente allo Stato politico.
Aderisce al concetto che la Regione abbia un diritto di iniziativa, nel vero significato della espressione, e che possa partecipare alla formazione della seconda Assemblea legislativa nazionale, se la si avrà.
Circa l’autonomia degli Enti locali è contrario al mantenimento della tutela. Concepisce la vigilanza come un controllo sulla legittimità degli atti amministrativi dell’Ente locale, e come un diritto di sostituzione da parte dello Stato o di un organo precostituito, in caso di inattività dell’Ente locale rispetto ad obblighi suoi di carattere giuridico. La tutela di merito esercitata dalla Giunta provinciale amministrativa o da qualunque altro organo, comunque concepito, dovrebbe essere abolita. Taluno teme che questa mancanza di tutela possa costituire un pericolo, ma egli pensa che contro questo eventuale pericolo dovrebbe stare esclusivamente il diritto popolare di referendum, che non è soltanto un mezzo di conservazione, come dice l’onorevole Einaudi, ma è un mezzo di partecipazione diretta della popolazione alle cose amministrative e politiche sue; un modo, anche, di impedire il formarsi delle oligarchie dei partiti.
Sull’accenno, che non ritiene completamente esatto, dell’onorevole Einaudi ad un caso di referendum svizzero, precisa che si trattava di una legge sulla concessione della cittadinanza votata dal Gran Consiglio del Canton Ticino all’unanimità, con il voto favorevole di tutti i partiti. Si era richiesto da una parte della popolazione il referendum e, questo indetto, cinque partiti del Gran Consiglio cantonale avevano fatto campagna insieme in favore della legge; ma il corpo elettorale si ribellò alla coalizione dei partiti. Fu un uso della sovranità forse sbagliato, perché la legge era ben fatta; ma un atto veramente mirabile di sovranità popolare. Qualche volta il popolo, che scende direttamente alle urne, sbaglia: ma è meglio che paghi i suoi errori, anziché gli errori che commettono i suoi rappresentanti amministrativi o politici.
Nella Regione, a suo avviso, dovrebbe essere un Governatore o, se la parola è brutta, un Consigliere di Stato, rappresentante dello Stato, a simbolo del carattere unitario dello Stato repubblicano, per funzionare da tramite tra gli Enti locali e il centro, e compiere l’ufficio di controllo di legittimità sull’attività amministrativa degli Enti locali. Questo Consigliere di Stato dovrebbe essere anche capo della polizia e rispondere dell’ordine pubblico, perché è bene che l’ordine pubblico sia affidato ad un funzionario superiore anziché ai Commissari locali o ai Questori dei vecchi capoluoghi di provincia.
Ritiene che tra le varie funzioni della Regione debba essere anche quella di polizia concorrente con la polizia di Stato. Non deve spaventare la presenza di due polizie: in Italia si sono avute sempre due polizie: i carabinieri e la pubblica sicurezza; l’una che sorveglia la città, l’altra le campagne, e senza gravi inconvenienti. Anzi questa duplice polizia può costituire un elemento e una garanzia di libertà: se uno degli Enti preposti alla tutela dell’ordine pubblico e dei diritti dei cittadini venisse meno in momenti eccezionali alla sua funzione, potrebbe sopperire onestamente la funzione dell’altro Ente.
UBERTI ritiene che nell’istituzione dell’Ente regione si debba essere particolarmente preoccupati di rimanere aderenti ad una realtà storica, per non creare una cosa astratta, non rispondente alle situazioni reali.
Non crede soddisfacente l’opposizione dell’onorevole Rossi, che preferisce il decentramento amministrativo, in quanto permette di realizzare tutti i vantaggi del sistema unitario, senza i danni attuali del centralismo. È in corso tutto un movimento di continuo sviluppo del centralismo. Anche oggi, che non v’è più il regime fascista, si assiste al costituirsi nella Camera di commercio, accanto agli organi locali, con gli stessi funzionari locali, l’U.P.I.C., cioè la rappresentanza locale del Ministero dell’industria e commercio. A Venezia l’onorevole Lombardi lo ha difeso con grande energia, manifestando la diffidenza dello Stato verso gli organi locali. Nel campo agricolo le Cattedre ambulanti d’agricoltura, che certamente assolvevano al loro compito, sono divenute strumento del Ministero dell’agricoltura. Il decentramento amministrativo del Magistrato delle Acque si è risolto con la istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche, che in realtà non è un decentramento, perché si tratta di elementi distaccati dal Ministero dei lavori pubblici e perché tutte le sue decisioni devono essere approvate dal Ministero, per cui si è realizzato un peggioramento. In tutte le nuove leggi si vede un continuo aumento dei poteri centralizzati, ed è contro di questo che si eleva il malcontento delle popolazioni.
Ora, nella regione c’è una volontà realizzatrice: non si chiede la resurrezione di antichi Stati, ma la possibilità di intervenire e deliberare in tutte quelle questioni che hanno carattere locale. Il Veneto domanda perché nelle sue questioni si debba deliberare insieme con quelle che riguardano la Sicilia, la Calabria o la Sardegna, che hanno problemi completamente diversi o contrastanti. La possibilità di adeguare la legislazione alla realtà della vita ha una importanza essenziale: una legge è tanto più perfetta quanto più realizza la migliore aderenza ai bisogni locali; altrimenti si deve, per forza di cose, arrivare ad un minimo comune denominatore, che non può raggiungere mai gli scopi che si vogliono raggiungere.
La regione si potrebbe realizzare senza turbare la forma unitaria dello Stato: massimo potenziamento dell’iniziativa privata, libertà delle popolazioni, legislazione aderente ai bisogni della vita locale.
Non crede però che si debba sopprimere la provincia, la quale è una entità economica vera e propria, rappresenta una confluenza di interessi che non si può distruggere, ed ha i suoi compiti, sia pure limitati. Bisogna, invece, abolire l’intervento dello Stato nell’amministrazione locale dei comuni e della provincia, a mezzo del prefetto. L’esperienza compiuta in dieci mesi lo ha confermato nel convincimento contrario a questo regime centralizzatore, perché, o il prefetto ha iniziativa, e allora interviene in tutte le questioni e tutti si rivolgono a lui, oppure tende a lasciar fare, ed allora si ha uno svuotamento completo di questa autorità dall’amministrazione centrale.
Egli nega che il prefetto svolga una notevole attività politica. Quello che può fare è di intervenire in tutti gli atti di merito dei comuni, e questo dovrebbe essere eliminato, perché la principale aspirazione dei comuni è di poter deliberare nel merito senza attendere l’approvazione della Prefettura. Restituire ai comuni la loro indipendenza sarebbe già una grande conquista e per questo basterebbe trasformare la Giunta provinciale amministrativa, composta a maggioranza di membri governativi, rendendola a maggioranza di organi elettivi. Oggi, col sistema del Segretario comunale nominato dal Governo, si ha una intromissione continua di questo, per cui il comune non ha nemmeno la libertà di nominarsi il suo più diretto collaboratore.
Tornando alla regione, ritiene che, per creare un ente regione vitale, non sia il caso di dargli funzioni eccessive, per evitare un insuccesso. Quindi, non gli attribuirebbe un potere giurisdizionale. L’Austria, che è l’unico Stato veramente organizzato a regioni, non ha dato poteri giurisdizionali alle regioni. In Italia la Sicilia rivuole la sua antica Corte di cassazione, ma questa dovrà, se mai, funzionare nell’ambito statale.
Richiama la gamma di attribuzioni che il Relatore Ambrosini ha indicato per la regione, tra cui, per delegazione, tutta l’attività amministrativa statale. Non vede perché lo Stato dovrebbe dirigere l’amministrazione anche localmente, quando può delegare direttamente alla regione tutti i suoi compiti amministrativi. La regione potrà occuparsi di tutta la materia dei lavori pubblici, mentre attualmente tutte le questioni sono risolte da un unico Ministero che non sa neanche quali sono i lavori più o meno urgenti e che risponde soltanto a chi lo sollecita di più. Tutti i lavori pubblici, le bonifiche, le irrigazioni dovrebbero essere affidati alla regione. Sarà stabilito il quantum da spendere; ma una volta determinato questo, ogni regione deve poterlo utilizzare in relazione ai propri bisogni effettivi.
Nell’agricoltura solo la regione può avere una visione esatta delle proprie necessità. Si è veduto, per esempio, in occasione del lodo sulla mezzadria, quali diverse ripercussioni si siano avute da regione a regione. Si possono fissare delle norme generali, ma le riforme devono essere adeguate alle necessità locali affinché rispondano al bisogno di aumentare la produzione e di soddisfare le necessità dei cittadini. È evidente che la regione emiliana è profondamente diversa da quella pugliese. Anche nella distribuzione delle terre è diverso il criterio da seguire, per esempio, a seconda che nella zona sia o non sia possibile lo sviluppo della cooperazione. Si faranno leggi agrarie veramente efficienti, quando queste risponderanno perfettamente alla realtà della produzione e ai bisogni delle popolazioni. Per ciò, stabilite le norme generali, le applicazioni concrete devono essere fatte regionalmente.
Evidentemente, non si può dare alla regione il carattere di uno Stato, ma le si deve dare quello di un ente amministrativo che risponda ai bisogni sentiti e profondi delle popolazioni. Oggi, invece, esiste una frattura netta fra popolazione e Stato, determinata dal centralismo per il quale bisogna rivolgersi ad un direttore generale o ad un altro funzionario della capitale per risolvere un problema locale.
Altrettanto vale per i piani regolatori delle città. Chi mai più delle città dovrebbe essere responsabile della propria conservazione e del proprio sviluppo? Invece attualmente le città fanno i loro piani regolatori e poi interviene il centro, approvandoli o non approvandoli e la popolazione locale si vede denegato il diritto di deliberare su una questione che interessa così da vicino la sua vita.
Ha citato solo alcuni problemi, ma ve ne è una infinità in tutta la vita amministrativa. Per colmare il distacco fra popolo e Stato non v’è altro rimedio che quello di creare un ente con funzioni amministrative, e con qualche funzione propria normativa. E se domani si dimostrerà che altre incombenze siano da dare alla regione, nulla vieta che un emendamento alla Costituzione possa essere apportato in tal senso.
Non crede che, lasciando sussistere la provincia, si abbia il pericolo di creare un accentramento regionale, pericolo effettivamente avvertito, per cui Savona non vuole essere unita a Genova, la Lunigiana a Firenze ed in Sicilia le deputazioni provinciali si oppongono ad un loro assorbimento nella Regione. D’altra parte, v’è tutta una serie di importanti problemi regionali che è giusto siano risolti insieme dalle diverse provincie, e saranno risolti meglio che non a Roma.
A chi dice che non è possibile, se si crea la regione, lasciar sussistere la provincia, obietta che le regioni austriache sono poco più estese delle nostre provincie. Tutta l’Austria conta 5 milioni di abitanti; ha nove provincie e tuttavia ha il distretto, pura entità amministrativa. La comparazione con altre costituzioni, cioè, ammette che, nell’ambito della regione, possa rimanere la provincia, che potrebbe diventare un organo consorziale per determinati problemi, che oggi non trovano soluzione per il disaccordo dei comuni.
Sulla questione finanziaria osserva che quasi tutte le legislazioni la rimandano a leggi costituzionali, ma particolari. La nostra questione finanziaria non può non essere legata alla riforma tributaria generale dello Stato, perché, se si attribuiscono alla regione o una percentuale delle entrate attuali o particolari imposte, si rischia, come diceva l’onorevole Einaudi, di avere o la insufficienza o la eccessività. Occorre fare una analisi concreta, in rapporto ai definitivi compiti da attribuire alla regione ed alle sue necessità finanziarie. In molte legislazioni di Stati a sistema federale si ha l’imposizione dello Stato federale; ma dove questa non esiste, si può avere una unica imposizione da ripartire in percentuali fra i vari enti, per non creare imposte nuove. Onde una riforma tributaria generale che stabilisca quale percentuale del gettito debba essere devoluta alla regione. Gli inconvenienti cui si può andare incontro non sono argomento contro una determinata tesi; si tratta di questioni pratiche risolubili. Fondamentale è che il creare un’amministrazione finanziaria della regione accanto a quella dello Stato significherebbe moltiplicare gli organi, col pericolo non solo della doppia imposizione, ma della sperequazione fra le imposte. Ricorda in proposito che nell’antica legislazione austriaca imperiale, oltre alle 21 imposte, esisteva una quotizzazione a favore della regione.
Conclude che la creazione dell’Ente regione dà la risoluzione effettiva di un problema, che diversamente non sarebbe risolto e che non deve essere esasperato, arrivando alla forma federalistica, né minimizzato, persistendo nell’accentramento. La burocrazia centrale è allarmata ed armata contro l’autonomia locale, mentre non vi è motivo perché le esperienze dell’amministrazione centrale siano trasferite, per la parte esecutiva, alla competenza della regione. Superate queste difficoltà, creata la regione, anche coloro che forse la considerarono con qualche timore di diminuzione della vita unitaria del Paese, troveranno invece la possibilità di realizzare nella varietà e difformità delle regioni un’unità di maggiore contenuto e di assicurare alle iniziative locali piena efficienza e sviluppo.
CONTI rileva che da parte degli antiregionalisti si fa una manifestazione di conservatorismo veramente preoccupante. Mentre è stata eletta in Italia una Costituente per dare all’Italia una nuova Costituzione, da parte conservatrice – che sembra dovrebbe essere la parte rivoluzionaria del consesso – si vogliono adattare alcune piccole riforme sul tronco del vecchio regime.
Pensa che dovrebbe essere ben inciso nelle menti quello che ha detto l’onorevole Uberti, a cui desidera aggiungere qualche considerazione su un aspetto particolare non illustrato.
In fondo a tutto il problema che si sta ora agitando intorno alla Costituente dello Stato è un fatto fondamentale, generatore di tutto il male della vita del nostro Paese: in definitiva l’Italia è governata da non più di cento persone, che legiferano, e da non più di un centinaio di burocrati. In Italia si vive perché cento Deputati sui cinque o seicento governano l’Italia. Si può modificare come si vuole la burocrazia, metterle il berretto frigio invece della parrucca monarchica: si avrà sempre una burocrazia di cento persone, che domina tutta la vita italiana.
La via per rompere queste oligarchie, per spezzare questo andamento fatale alla vita del Paese è quella di trasformare l’organizzazione dello Stato, di creare la democrazia. Se non che, si continua a sbandierare la democrazia illudendo se stessi e gli altri. Per creare la democrazia bisogna far partecipare gli italiani alla vita legislativa, amministrativa, governativa del Paese. La pretesa di pochi Deputati di legiferare per l’Emilia e per le Puglie, per la Calabria e per il Piemonte, per la Sicilia e per il Veneto, insomma per tutta l’Italia, è assurda.
Bisogna, dunque, creare la democrazia, e a questo proposito ricorda un pensiero epigrafico dell’onorevole Einaudi: «la democrazia si crea con la molteplicità delle assemblee nella vita del Paese».
Quando si discuterà della regione, della provincia, sarà favorevole a queste, e ad altre forme di democrazia, al Consiglio comunale per primo, al Consiglio regionale e ad altri Consigli e consessi popolari nei quali si dibatteranno i problemi e si troveranno le soluzioni adeguate.
Se il male dell’Italia sta in questo fatto riconosciuto da tutti, in questo gruppo di oligarchi burocratico e parlamentarista, in questo nucleo di despoti della vita italiana, la regione rappresenta la soluzione efficace. La regione si creerà con le norme che saranno elaborate ed egli affretta col desiderio più vivo il momento in cui si cominceranno a scrivere quella decina o ventina di articoli che regoleranno la competenza e le attribuzioni della regione. Sono stati ricordati gli inconvenienti che si sono manifestati negli Stati Uniti ed in Svizzera; ma questi non costituiscono un argomento probante. Quando si sarà elaborata la Costituzione, si potranno riscontrare degli inconvenienti e degli errori, e si dovrà correggerli.
La creazione dell’Ente regione significa creazione di una forma nuova nella vita italiana per provvedere agli interessi degli italiani in quei modi che si fisseranno sulla carta.
Circa la questione della competenza, ricorda un progetto di statuto della Generalidad di Catalogna, progetto che non fu approvato e nel quale sono concretate le competenze della regione: tutta una serie di attribuzioni che nello statuto definitivo si ridussero appena ad un quarto. La competenza sarà quella che verrà stabilita.
Così per quanto riguarda la delimitazione territoriale, può darsi che vi siano delle regioni ben delimitate per le quali la discussione è semplice e facile (Giuseppe Ferrari, quando vagheggiava la federazione italiana, parlava di otto centri, che però non sono stati mai precisati nei suoi scritti); ma il miglior sistema è quello di accogliere un concetto democratico: fissare dei sicuri raggruppamenti di popolazione, e poi, col metodo democratico più serio, accogliere l’espressione della volontà dei cittadini. La Liguria, per esempio, è abbastanza ben delimitata; altre regioni lo sono più vagamente. Come vi è oggi una delimitazione di territori per la provincia, domani vi sarà per la regione, in modo tale da consentire gli sviluppi dei lavori legislativi, amministrativi ecc.
Circa il problema della provincia, avverte di essere stato sempre un nemico accanito dei Prefetti, e afferma che ci si deve avviare verso l’abolizione completa di questi funzionari che gli italiani detestano ormai concordemente. Resta il problema posto dalla tradizione, dalle abitudini, perché da quando si è creata la provincia, si sono avviate verso questo centro le attività tendenti al soddisfacimento di certe necessità. E si può mantenere la provincia come organo di decentramento della regione. Non crede opportuno conservare i Consigli provinciali, di cui si può fare benissimo a meno una volta che vi sia un’Assemblea regionale.
Richiama ancora l’attenzione sul fatto fondamentale e funesto della «oligarchia governamentale», che risiede a Roma, di pretesi legislatori, di burocrati. Anche i sapienti hanno dato prova di incapacità: grandissimi uomini di Stato nel Parlamento italiano sono falliti. Quindi creazione di Assemblee regionali.
Il Consiglio comunale rappresenta il primo grado. I comuni liberi nelle grandi città riusciranno a trattenere nel loro ambito una quantità di cittadini, i quali essendo oggi inutilizzati nel loro paese per un’attività pubblica, emigrano e vanno tutti a finire a Roma o nelle altre grandi città. Una vita comunale attiva, viva e prospera, in virtù dell’attività di tutti, tratterrà nei capoluoghi molti elementi che altrimenti andrebbero a confluire nelle grandi città. Nelle Assemblee regionali poi saranno portate numerose altre persone, che altrimenti sarebbero sacrificate dal punto di vista della partecipazione alla vita attiva. Tanti candidati delle lotte elettorali che non hanno potuto giungere al Parlamento Nazionale, potrebbero trovare posto degnissimo e con grande utilità nell’Assemblea regionale, dove potrebbero svolgere magnificamente una funzione utile per il Paese.
Il Parlamento centrale – la Camera dei Deputati – dovrebbe essere costituito da pochissimi elementi: il numero di 556 è esagerato, 300 sarebbero già troppi per fare quel poco che rimarrebbe da fare, perché, se le competenze legislative regionali saranno allargate e sarà sottratto al Parlamento centrale tutto quel groviglio di materie sul quale esso non dice mai una parola competente ed utile, il numero dei Deputati potrà essere grandemente ridotto. L’Assemblea regionale sarà il luogo in cui potranno convenire molte competenze specifiche, risolvendo anche il concetto della rappresentanza organica, per la trattazione di problemi inerenti all’agricoltura, al commercio, alle scuole medie ecc.
Quando sarà decisa la formazione della Regione e quando sarà stato adeguatamente studiato il complesso delle competenze e dei compiti da attribuire al nuovo ente, si sarà compiuta opera utile per il Paese. Se si negasse al Paese questa soluzione, non si compirebbe quell’opera che esso aspetta, perché la sua aspettativa è proprio questa.
TOSATO, dopo la discussione analitica, ritiene opportuno riportare il problema ai suoi termini sintetici, non tanto perché la discussione analitica non sia necessaria, ché anzi attraverso l’analisi si sente ancora più viva l’esigenza delle autonomie, ma per avviare la discussione verso la decisione.
Osserva che tutti sono ormai concordi sulla necessità e sull’opportunità di un certo decentramento: le differenze si riscontrano solo circa la intensità, il grado e le modalità del decentramento. Ritiene che le tesi prospettate finora possano ridursi sostanzialmente a quattro: una tesi estrema, la quale vorrebbe trasformare l’Italia da Stato unitario a Stato confederale; alla quale ne corrisponde un’altra, pure estrema, che sostanzialmente nega l’autonomia e si limiterebbe soltanto a soddisfare l’esigenza di un maggior decentramento sia per i comuni che per le provincie; e due altre che si possono definire intermedie, che vorrebbero, l’una trasformare l’Italia in Stato federale e l’altra che, anziché di federalismo, parla semplicemente di autonomia regionale.
Per quanto riguarda la tesi della confederazione di Stati osserva che, a parte ogni altra considerazione, essa non sia attuale perché, per arrivare ad una confederazione, occorrerebbe anzitutto scindere l’Italia in tanti Stati e poi fra i diversi Stati ristabilire un certo collegamento che, in ogni caso, non darebbe vita ad uno Stato unitario ma ad una semplice confederazione.
Non crede accettabile questa tesi, non fosse altro che per ragioni pratiche.
A proposito dell’altra tesi estrema, rileva che il principio di un semplice ampliamento delle autarchie comunali e provinciali è stato sostenuto dall’onorevole Rossi, il quale ha fatto presenti alcune difficoltà relative all’autonomia regionale, inerenti soprattutto al fatto che sorgerebbero conflitti fra provincia e provincia e che, con l’istituzione dell’Ente regione, si avrebbe un nuovo centralismo. Ma la tesi dell’onorevole Rossi, che vorrebbe un ampliamento della potestà regolamentare dei comuni e soprattutto delle provincie, non gli sembra accettabile perché, pur essendo effettivamente sentito il bisogno – per far corrispondere l’azione dello Stato alle esigenze locali – di dare agli enti locali una certa autonomia in determinate materie ora sottratte alla loro competenza (autonomia legislativa), si verrebbe a creare in Italia una tale pluralità e molteplicità di legislazioni locali che importerebbe delle difficoltà forse insormontabili. Se si vuole invece soddisfare effettivamente l’esigenza a cui corrisponde la tendenza autonomista, è necessario che questa esigenza sia soddisfatta nell’ambito di un ente più vasto della provincia, che non può essere che la Regione. Riguardo alle altre difficoltà prospettate dall’onorevole Rossi osserva che già dalla relazione dell’onorevole Ambrosini risulta che, se in determinate materie è utile ed opportuno attribuire alla Regione una competenza legislativa esclusiva, vi sono tuttavia delle altre materie in cui la competenza legislativa della Regione potrebbe considerarsi secondaria e dipendente dalla legislazione direttiva di pertinenza dello Stato. In tal modo, tutte le difficoltà prospettate (ad esempio le questioni tra il porto di Savona e quello di Genova) potrebbero essere risolte attraverso questa legislazione direttiva.
Circa le altre due tesi, ritiene che occorra abbandonare ogni questione di parole che diventa assolutamente inutile, per andare direttamente verso la realtà. È d’avviso che tra queste due tesi non vi sia sostanzialmente alcuna differenza in quanto, attribuendo alla Regione una potestà legislativa esclusiva, sia pur limitata a determinate materie, si cade senz’altro nel principio federalistico. A parte tutte le discussioni di carattere teorico sulla natura dello Stato federale, tutto il problema si riduce alla necessità di dare un sempre più ampio respiro alle esigenze locali, in modo che le Regioni possano – come crede fermamente – disciplinare in autonomia determinate materie. Bisogna quindi arrivare alla creazione dell’Ente regione, attribuendogli una tale potestà legislativa; salvo poi a vedere se questa potestà legislativa dovrà avere un ambito maggiore o minore; discussione di dettaglio che non tocca la questione di principio.
L’unica vera difficoltà che si prospetta contro la creazione dell’Ente regione è che, accanto al centralismo statale, si verrebbe a creare un centralismo regionale. A questo proposito ritiene che si debbano tener presenti alcune considerazioni. L’Ente regione non deve essere qualcosa che si sostituisca ad una realtà effettiva, ché in questo modo si creerebbe un ente artificiale; l’Ente regione deve essere creato per rispondere a determinate esigenze storiche concrete e non deve innovare radicalmente la struttura degli enti locali. Il comune deve restare; si prospetta soltanto il bisogno di svincolarlo, se non da tutti, dalla gran parte dei controlli di merito. Per quanto riguarda la provincia, crede siano ormai tutti convinti che non trattasi di un ente artificiale ma di una realtà storica, di un centro di interessi, che deve considerarsi come una comunità effettiva nella vita dello Stato italiano. Il problema si riduce a quello dei rapporti tra provincia e regione e viceversa.
Se si vuole essere pratici e concreti e aderire alle effettive esigenze, bisogna considerare la regione innanzi tutto come un ente con potestà normativa; le provincie debbono restare, anzi dovrebbero accrescere la loro competenza, in relazione alla soppressione della prefettura. Tutta la serie di doppioni, che esistono oggi tra la provincia come ente autarchico e la provincia come ente amministrativo (prefettura), scomparirebbero, determinandosi in tal modo un notevole alleggerimento burocratico. La provincia verrebbe così ad avere anche altri importantissimi compiti, principale fra tutti quello di seguire le norme emanate dalla Regione. Per questo non è necessario creare una burocrazia regionale, perché, se la Regione dovesse avere oltre alla competenza normativa anche qualche competenza amministrativa, questa dovrebbe limitarsi a quella parte di attività attualmente di competenza dell’amministrazione governativa locale che dallo Stato dovrebbe passare alla provincia (la quale dovrebbe conservare la sua personalità giuridica, perché intorno ad essa esiste tutto un complesso di interessi anche patrimoniali che ne sono il fondamento).
Si sono ricordati i Provveditorati alle opere pubbliche: sarebbe questa una delle attività locali che dovrebbero passare sotto il controllo della Regione la quale, diventando organo direttivo di questa attività statale, non avrebbe alcuna necessità di creare una burocrazia.
In conclusione, scartata l’ipotesi della confederazione, scartata l’ipotesi di un semplice decentramento amministrativo con l’estensione della podestà regolamentare, si vede che le due tesi, dello Stato federale e dell’autonomia regionale, coincidono e tutto il problema si risolve nella determinazione della sfera di competenza normativa della Regione.
(La seduta, sospesa alle 19.05, è ripresa alle 19.15).
BOZZI ritiene che dalla discussione fino ad ora svoltasi un punto di partenza possa risultare pacifico e comune a tutti: l’esigenza di una maggiore espansione delle autonomie locali. I diversi punti di vista si cominciano a delineare quando si tratta di dare consistenza al contenuto giuridico – poteri e limiti – di queste autonomie.
Concorda sulla necessità di dare un colpo decisivo al centralismo burocratico: ma non soltanto a quello statale, sibbene anche ad ogni altra forma di centralismo che comunque potesse soffocare, comprimere, mortificare la libera espansione e la vitalità delle autonomie locali. Con un sistema che sostituisse al centralismo statale un centralismo regionale, non verrebbe raggiunto lo scopo desiderato, anzi, sotto alcuni profili, quello regionale potrebbe essere peggiore del centralismo statale.
Appunto per ovviare a queste conseguenze, occorre, a suo avviso, prendere le mosse dall’ente locale primigenio: il comune.
Ritiene che una riforma della struttura comunale dovrebbe soprattutto imperniarsi, da un lato su di una discriminazione, con effetti giuridici, dei comuni in funzione non soltanto della quantità della popolazione, ma anche della diversa natura dell’aggregato sociale – ed ognuno pensa già al comune rurale – e dall’altro sulla necessità di svincolare il comune dalla maglia rigida dei controlli attuali; controlli oggi in gran parte accentrati nella autorità prefettizia.
Sotto quest’ultimo punto di vista, precisa che non si tratta di eliminare ogni controllo, dato che la necessità di un controllo può ritenersi giustificata se non altro dal fatto che la sua esistenza acuisce il senso di responsabilità della autorità al controllo stesso sottoposta, ma di creare un sistema di controllo, indiscutibilmente di legittimità, forse anche di merito, che non sia espressione di un prepotere centrale. Oggi la vita dei comuni è grama, non solo per la pressoché generale deficienza di mezzi economici e finanziari, ma anche in conseguenza degli eccessivi controlli.
Per ciò che riguarda la provincia, concorda con l’opinione di coloro che ritengono dovere questo ente rimanere in vita, tanto nell’ipotesi che si voglia dar luogo alle autonomie regionali, quanto in quella contraria.
Precisa che intende parlare della provincia come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia e di autonomia insieme, cioè di poteri che si esplicano nel campo amministrativo e normativo, prescindendo quindi dal secondo aspetto, vale a dire da quello di circoscrizione amministrativa, a capo della quale sta il prefetto. Storicamente la provincia come ente autarchico territoriale è stata trapiantata in Italia in seguito alla riorganizzazione amministrativa che seguì l’occupazione francese nei primi anni del secolo scorso. In fondo non si tratta che del dipartimento francese che si è portato in Italia. Tuttavia, la provincia è diventata un centro di attività e di interessi che è oggi difficilmente sradicabile. Tentare di eliminare la provincia significherebbe andare incontro a resistenze, attive e passive, che renderebbero difficile il compito.
Ritiene che anche nell’ambito della regione la provincia possa a buon diritto sussistere come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia, soprattutto in quanto potrà servire da tramite tra il comune e la regione, contribuendo ad evitare un accentramento regionale. Oggi i comuni sono gravati di funzioni complesse, cui non sempre possono adempiere. Molti dei compiti dei comuni potrebbero essere attribuiti alle provincie, le quali dovrebbero essere soprattutto viste, a suo avviso, come consorzi di comuni.
È pertanto favorevole a conservare la provincia, come organo di attuazione della funzione amministrativa della regione, e come forma di decentramento intraregionale.
Viene poi il problema della regione. Se la regione si deve creare, essa deve essere munita di una autonomia politica o legislativa, perché altrimenti si creerebbe una superstruttura non giovevole.
Quindi, bisogna attribuire alla regione una potestà normativa primaria, cioè la potestà per la regione di creare delle leggi formali; oltre che leggi secondarie, di adattamento e di attuazione.
Si deve creare la regione dappertutto?
Quando si parla di autonomia regionale si considerano la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta; ma è vero che una esigenza nella stessa misura e intensità sia avvertita da tutte le altre regioni?
Propone di configurare la regione facoltativa; cioè la Costituzione dovrebbe stabilire alcuni principî fondamentali, e poi dovrebbe essere rimesso ad un atto di libera determinazione, di libera volontà, delle provincie il chiedere uno statuto regionale, che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione degli organi parlamentari riuniti.
Si può obiettare: ma così si verrebbe a creare uno Stato di varia struttura.
Precisa la sua proposta nel senso di rimettere alle regioni non soltanto la composizione di ogni eventuale conflitto territoriale; ma rimettere alla loro volontà, manifestata col referendum, l’esistenza stessa del nuovo ente.
Pensa che questo sistema consentirebbe di risolvere la questione con un gradualismo che permetterebbe di fare delle esperienze. La Costituzione spagnola segue un orientamento di questo genere.
In fondo non si può rispettare l’esigenza di una perfetta architettura giuridica, ma si debbono piegare gli schemi giuridici alle reali esigenze degli aggregati sociali.
Concludendo: potenziamento dei comuni, svincolandoli dal regime dei controlli quale oggi è; varietà di tipi di comune, a seconda della varietà dell’aggregato sociale; mantenimento della provincia come persona giuridica pubblica soggetto di autarchia e di autonomia e come strumento capace di evitare raffermarsi di un accentramento regionale; affermazione della regione (Ente dotato anche di potestà legislativa primaria), come espressione di libera manifestazione degli stessi aggregati provinciali.
MORTATI ritiene che in questa discussione compito della Sottocommissione sia quello di individuare gli elementi che consentano una soluzione; e per raffigurare questi elementi essenziali bisogna considerare anzitutto gli scopi del decentramento, appunto per stabilire poi i mezzi giuridici per il raggiungimento di questi scopi.
Questi scopi sono stati accennati, ed è bene riassumerli perché sono così connessi fra loro che bisogna cercare di raggiungerli tutti; altrimenti l’istituto del decentramento verrebbe meno alle sue esigenze fondamentali.
Gli scopi sono tre:
1°) innanzi tutto l’avvicinamento dell’amministrazione agli interessi locali; al duplice scopo dell’educazione politica dei cittadini e dell’adattamento alle esigenze locali;
2°) garanzia di libertà quale può essere data da un saldo gruppo omogeneo;
3°) infine, e questo non è stato accentuato sufficientemente nella sua funzione essenziale, equilibrio delle regioni fra loro, superando l’inconveniente, che si verifica in tutta la storia d’Italia, della sopraffazione da parte delle regioni più popolate e più ricche di quelle meno popolate e più povere. Occorre creare e rafforzare una coscienza regionale creando gli istituti adatti al suo sorgere e le possibilità di equilibrio, così da far valere in modo più efficace gli interessi delle regioni meno dotate.
Per raggiungere questi scopi, occorre innanzi tutto una vera autonomia, non soltanto amministrativa, ma costituzionale, garantita dalla Costituzione con un tribunale apposito per risolvere gli eventuali conflitti di competenza. Occorre poi una certa autosufficienza: è assurdo conferire l’autogoverno senza una sufficiente autonomia finanziaria, senza un minimo di mezzi economici per far fronte alle spese della regione. Una vera autonomia suppone, inoltre, che si possa fare a meno del controllo esterno, cioè dell’intervento di organi dello Stato centrali. Quindi anche l’esame di legittimità degli atti dovrebbe essere affidato in proprio agli enti locali; occorrerebbe cioè ricorrere al controllo interno nell’ambito degli stessi enti, attraverso l’interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, con mezzi (come per esempio: un sistema di azioni popolari) che diano agli amministrati le possibilità più efficaci di controllo, dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi.
Bisogna inoltre evitare un accentramento regionale che sarebbe più pericoloso dell’accentramento burocratico statale; bisogna, cioè, che alla regione competano prevalentemente le funzioni direttive, normative, mentre il compito dell’esecuzione dovrebbe essere lasciato agli enti locali minori, cioè ai comuni e ad un ente intermedio che non dovrebbe essere l’attuale provincia, ma un gruppo sociale minore che si dovrebbe creare attraverso adattamenti successivi, essendo evidentemente impossibile farlo sorgere da un giorno all’altro. Questo ente intermedio dovrebbe essere più ristretto dell’attuale provincia, e con carattere più omogeneo. Si potrebbe, per esempio, pensare a quel consorzio di comuni di cui è stato parlato, organizzato secondo l’identità degli interessi e delle aspirazioni, e la possibilità di un’azione comune nei vari campi. Così l’amministrazione sarebbe meglio avvicinata agli amministrati e potrebbe meglio operarsi una selezione delle capacità in base alla conoscenza personale dei portatori delle medesime.
Il concetto di comunità, che è stato recentemente illustrato dall’Olivetti, ma che deriva dalla concezione cattolica di una società organica, potrebbe essere utilizzato quando si volesse procedere alla costituzione di questi aggregati intermedi fra regione e comune, perché precisamente soddisfa alle esigenze che si sono indicate.
Un’altra funzione della regione potrebbe essere quella dell’esercizio, in virtù di delegazione, di compiti statali, in modo da evitare duplicazione di uffici e giungere ad una riduzione del personale. Invece dovrebbero rimanere alla cura di uffici direttamente gestiti dallo Stato altri compiti, come per esempio quello della pubblica sicurezza, per i quali più sensibile è l’esigenza dell’unità d’azione e più rilevante l’interesse politico generale.
Un ultimo punto essenziale è quello della costituzione dei nessi fra centro e periferia, perché non si può negare l’esigenza unitaria dello Stato moderno in alcuni campi. Questo vale specialmente nel campo economico, dove, pur volendo lasciare alla regione una certa latitudine di azione, è necessario preoccuparsi contemporaneamente di non compromettere la realizzazione di piani nazionali. Non sa se e quanto l’economia si indirizzi verso forme di economia pianificata; ma se queste esigenze di pianificazione ci saranno, bisogna che siano attuate non da una burocrazia più o meno competente e responsabile, ma dalle autorità regionali; è necessario che queste autorità regionali siano inserite nell’ordinamento centrale, in modo che i piani siano concretati attraverso la partecipazione attiva delle medesime. E questo inserimento dovrebbe avvenire in modo da correggere la sperequazione attuale tra le regioni d’Italia più numerose e più ricche e le regioni più povere e meno popolate.
Il punto accennato è di straordinaria importanza, e dalla sua felice soluzione dipende la possibilità di un proficuo impiego di un regime decentrato.
Si pensi, per esempio, all’influenza che sulla disciplina dell’economia da parte delle singole regioni esercita la politica doganale. Ora, se alle decisioni su tale politica non partecipassero organi formati con il concorso delle regioni, con le forme perequative accennate, potrebbe essere reso vano ogni sforzo di autonomia delle singole regioni.
La necessità di utilizzare le regioni nella formazione di organi centrali dello Stato porta ad escludere la tesi sostenuta dall’onorevole Bozzi sulla possibilità di una regione opzionale. Sta bene lasciare un certo potere di autogoverno alle regioni, e quindi di adattamento della loro organizzazione alle esigenze di ciascuna di esse; ma accanto a questa discrezionalità di organizzazione interna bisogna mantenere un tipo strutturale uniforme. Questo è, a suo avviso, un elemento fondamentale per giungere all’accettazione della tesi regionalista.
Fa presente, infine, un ultimo punto che riguarda la concretezza del lavoro della Sottocommissione. Si avvertirà ad un certo momento il bisogno di dire qualcosa sul modo di concretare questi enti regione. Sarebbe opportuno perciò avere a disposizione taluni dati positivi, statistici ed economici, che potrebbero guidare il lavoro della Sottocommissione ed indirizzarla nelle proposte da fare circa la delimitazione territoriale. Propone quindi di prendere in considerazione questo aspetto pratico della questione, promovendo la formazione di una segreteria con compiti di raccolta di dati, anche presso organi centrali o locali, e di elaborazione dei medesimi.
MANNIRONI interviene in questa discussione per portarvi un contributo che deriva da una sua esperienza di vita regionale.
La Sardegna, forse per la prima, ottenne la possibilità di vivere in un regime relativamente autonomistico. Prima ancora che in Sicilia, si era costituita in Sardegna una Consulta regionale, la quale doveva affiancare l’opera di un Alto Commissario, nominato dal Governo centrale. Era un primo esperimento; ma non era tutto, anzi basta pensare al fatto che l’Alto Commissario era di nomina governativa per escludere che si potesse parlare di autonomia. Tuttavia la Consulta regionale, che funziona affiancando l’opera dell’Alto Commissario ed esercitando un potere di consulenza, ha potuto dimostrare fino a qual punto di maturità le popolazioni sarde fossero giunte per una vita autonomistica, e ha dato anche un saggio delle possibilità e delle realizzazioni a cui si può arrivare.
Alla Sardegna questa concessione fu fatta per prima, perché l’esigenza autonomistica è colà vivamente sentita, soprattutto per ragioni geografiche ed economiche. Ma oggi l’onorevole Uberti, che è un veneto, ha pur dichiarato di sentire al pari dei sardi l’esigenza autonomistica; ed altri colleghi vivono egualmente questa necessità, e la sentono soprattutto come espressione di quel corpo elettorale che li ha inviati alla Costituente.
Dall’insieme della discussione fin qui svolta risulta quindi che tutti sono già orientati verso questa forma di decentramento e di autonomia regionale. Riconosce anch’egli che non bisogna fare questioni di nomi; bisognerebbe che ciascuno cercasse in questa discussione di arrivare il più possibile al concreto, dimenticando l’attaccamento a teorie e tesi politiche finora abbracciate.
Ora, che si tratti di una forma di federalismo o di una forma di regionalismo poco importa (le definizioni sono sempre pericolose); importante è venire al concreto e vedere fino a qual punto si può consentire alla regione di vivere una vita autonoma.
Qualcuno ha parlato di creazione della regione. È un termine erroneo: lo Stato, la legge non crea la regione; la riconosce, perché la regione esiste come entità economica, storica, geografica, linguistica ecc. Perciò, non può accettare la tesi dell’onorevole Bozzi. La regione esiste, e deve essere riconosciuta per tutta l’Italia: altrimenti si avrebbero delle regioni esistenti autonomamente ed altre no, e delle situazioni pericolose ai fini stessi dell’unità nazionale.
Scendendo al concreto e preoccupandosi delle realizzazioni definitive, osserva che la prima preoccupazione che si deve avere è quella di stabilire quali sono i limiti dell’autonomia da concedere alla regione e dei poteri da darle. La regione è uno degli enti, si potrebbe dire, di diritto naturale, come il comune, e quindi un ente insopprimibile; un ente che esiste e che bisogna riconoscere proprio perché in questa maniera, non solo si favorisce l’educazione politica dei cittadini, ma si dà loro giustamente modo di provvedere essi stessi ai loro immediati bisogni attraverso gli organi e gli enti che sono più vicini a loro.
I compiti della regione possono èssere definiti in rapporto al comune e allo Stato, per via di esclusione, e vi si può arrivare meglio tenendo conto della configurazione territoriale di questi enti. Lo Stato provvede a tutti i bisogni generali dei cittadini, ai fini della difesa, della rappresentanza diplomatica, dell’istruzione superiore, delle leggi di economia generale, al sistema delle telecomunicazioni, alla polizia generale. Tutte quelle che non sono esigenze generali rientreranno invece nei compiti della regione, la quale ha esigenze particolari sue, che sono la somma delle esigenze dei comuni. In sostanza, la regione dovrebbe essere quell’ente che difende meglio la libertà dei comuni, provvede alle loro immediate esigenze, tutelandole rispetto allo strapotere dell’organismo statale. Quindi, alla regione potranno essere affidati compiti in materia di agricoltura, di industria, di pesca, di caccia, di lavori pubblici, di lavoro, di previdenza, di assistenza, di beneficenza e vari altri che possono essere sottratti alla competenza esclusiva dello Stato.
Non crede che possa sorgere un conflitto tra le competenze della regione e quelle dello Stato quando siano fin da principio completamente e chiaramente definiti i poteri dell’un ente e dell’altro; e soprattutto questi poteri dovranno essere definiti nella Carta costituzionale, in cui bisogna preoccuparsi di essere chiari. In ogni caso all’eventuale insorgere di contrasti e di conflitti di competenza fra i due enti potrebbe benissimo provvedere il Tribunale costituzionale, utilmente intervenendo anche in questa sede e in questi casi.
Affinché la regione possa assolvere i suoi compiti, essa deve avere una autonomia effettiva, non fittizia, e quella potestà legislativa cui da altri si è accennato, che potrà pure essere determinata in origine, per evitare conflitti di competenza con lo Stato, e che dovrà essere limitata alle specifiche materie già ricordate. E questa potestà legislativa potrà essere riconosciuta anche nel senso che alla regione sia riconosciuto il potere di emanare norme di attuazione delle leggi generali che fossero emanate dallo Stato.
Un altro problema è quello del modo in cui dovrà essere organizzata la regione. Crede che in questa sede si dovranno fissare delle norme generali e, per essere autonomisti rispettosi della volontà della regione, si dovrà consentire che, entro il quadro generale fissato dalla Costituente, ogni singola regione provveda al proprio ordinamento. Ricorda in proposito che quando la Consulta espresse parere favorevole al decreto che riconosceva l’autonomia della Sicilia, fu proposto che quel decreto fosse esteso automaticamente anche alla Sardegna; ma in Sardegna, e proprio in seno alla Consulta regionale, si ebbe una reazione vivissima a quel provvedimento, perché non si vuole quella forma di autonomia che è stata concessa alla Sicilia; non si vuole quella estensione automatica e si chiede di essere sentiti, perché quella che può essere una giusta esigenza per la Sicilia, non lo è per la Sardegna.
LUSSU rettifica, avendo assistito alla riunione della Consulta Sarda, precisando che i monarchici dicevano di non volere che l’autonomia fosse concessa per decreto regio. Parve perciò strano a molta parte dell’opinione pubblica che questa forma di diffidenza verso un decreto regio l’avessero proprio i monarchici. Egli ebbe l’impressione, e con lui molti altri, che dietro quell’atteggiamento fosse un motivo elettoralistico piuttosto che di interesse regionale effettivo.
MANNIRONI dissente dal rilievo dell’onorevole Lussu, perché non erano soltanto i monarchici a reclamare la concessione dell’autonomia per decreto regio: esponenti di varie correnti politiche, da quella democristiana a quella comunista, erano d’accordo, perché si sentivano regionalisti e l’onorevole Lussu, che avvertì l’opportunità di discolparsi in sede di Consulta regionale del suo intervento, sentì in quel momento quali fossero gli umori: era una reazione in senso autonomistico.
LUSSU afferma che nessuno degli oratori in quella sede manifestò queste esigenze particolari, che dovevano essere espressione locale: la preoccupazione era che l’autonomia potesse essere concessa per decreto regio. Ed erano tutti monarchici, tranne alcuni comunisti, che per l’occasione erano coi monarchici.
MANNIRONI, indipendentemente da questo episodio, sulla cui valutazione c’è disparità di vedute, afferma che, a voler essere coerenti con se stessi e partendo dagli stessi presupposti autonomistici, si deve fare in modo che la regione possa creare una specie di costituente iniziale in seno alla regione stessa e provvedere al suo organamento e alla sua costituzione, naturalmente entro linee generali che dovranno essere fissate dalla Costituente.
Queste linee generali dovranno essere quelle che ha lo Stato in Italia; cioè gli organi che presiedono alla regione dovranno essere elettivi, eletti a suffragio universale, segreto, con sistema proporzionale. Dovrà, cioè, valere per le elezioni regionali, con le opportune modifiche e i necessari adattamenti, quella stessa legge che vale per l’Assemblea nazionale. L’Assemblea regionale dovrà nominare un Consiglio; dovrà avere quindi un capo, che si potrà chiamare presidente, governatore, o altrimenti, e che sarà l’organo esecutivo della volontà dell’Assemblea regionale.
Ma la regione, affinché possa adempiere a questi suoi compiti, oltre alla potestà legislativa, dovrà avere anche una sua autonomia finanziaria. Si rende conto delle preoccupazioni e delle difficoltà che ha sollevato l’onorevole Einaudi: sono argomenti che rendono perplessi, perché provengono da una fonte non sospetta e soprattutto da un competente in materia. Ma se alla regione non si concedesse un minimo, perlomeno, di autonomia finanziaria, l’esperimento regionalista non sortirebbe buon fine; si ridurrebbe ad una forma di decentramento che non muterebbe la situazione, non farebbe altro che trasformare il centralismo dello Stato lasciando sempre lo Stato dominatore dì tutte le situazioni, non dando alcun sviluppo e respiro alle energie regionali, che più direttamente ed utilmente possono occuparsi dei problemi locali. Se non si dà alla regione un minimo di autonomia finanziaria non si risolve nemmeno la questione del Mezzogiorno. Come ebbe a dire l’onorevole Labriola nel suo ultimo discorso in Assemblea: giacché il Mezzogiorno insiste nel volere questa autonomia, per risolvere da sé i suoi problemi, bisognerà che questo esperimento lo si lasci fare. Non si può ignorare questa esigenza delle popolazioni meridionali; la si deve tenere presente in sede di Costituente, dove sono rappresentati tutti gli indirizzi politici, ma anche tutti gli interessi delle varie regioni italiane.
Questa autonomia finanziaria sarà necessaria affinché le regioni, che si considerano ingiustamente sfruttate, possano avere la possibilità di rimediarvi. Vi saranno regioni non autosufficienti e tra queste sarà la Sardegna, la quale è certamente una terra molto povera, con i tre quarti o quattro quinti della sua superficie incolta e in gran parte improduttiva; ma ve ne saranno altre autosufficienti. Quindi la necessità dell’intervento dello Stato per costituire una specie di stanza di compensazione, un piano di solidarietà fra le regioni, perché è giusto che le regioni ricche contribuiscano ad integrare i bilanci insufficienti delle regioni povere. Questo è un punto delicato della questione; tuttavia non così grave da potersi ritenere insuperabile. La regione potrà contare sui demani regionali, su determinate imposte: le si potranno assegnare tutte le imposte dirette sui terreni e sui fabbricati; le si potrà consentire l’istituzione di altre imposte, come le si potrà concedere una percentuale sulle imposte di ricchezza mobile e di produzione, che è giusto siano prelevate direttamente dallo Stato.
Le regioni dovranno fare il bilancio preventivo, che potrà essere studiato da organi misti regionali e statali, i quali considereranno fino a qual punto le attività basteranno per supplire alle passività e stabiliranno le necessità di integrazione.
Crede che questa autonomia finanziaria, anche se limitata, non debba costituire un ostacolo insuperabile per coloro che si preoccupano sempre del concetto unitario solo in questo senso, che se alla regione sarà concessa una larga autonomia legislativa in campo economico, potrà sorgere il pericolo di conflitti di interessi economici tra regione e regione. Se ne è avuto un esperimento recentissimo in Sardegna, quando questa ha costituito una specie di mercato chiuso perché l’Alto Commissario aveva impedito l’esportazione di determinati generi dalla Sardegna nella penisola, determinando così un’economia chiusa che potrebbe essere causa di veri conflitti, se alle stesse misure pervenissero altre regioni, le quali non invierebbero più alla Sardegna generi di cui questa ha bisogno.
Questo porta a concludere che nel campo della economia è giusto che intervengano norme generali dello Stato, per evitare che si costituiscano questi mercati chiusi, che sarebbero dannosissimi.
Circa la provincia, ritiene assolutamente impossibile sopprimerla quando, se non è un ente così ben definito storicamente e geograficamente come la regione, è tuttavia entrato ormai nella coscienza pubblica ed ha coagulato intorno a sé molti interessi economici.
D’altra parte la provincia potrà essere un utilissimo organo di decentramento regionale. Di questo ha fatto un’esperienza, quando si è compiuto uno studio preliminare per la riforma delle Camere di commercio, e vi erano taluni che sostenevano la necessità di abolire le Camere di commercio provinciali per creare una Camera regionale. Se si dovessero costringere tutte le categorie di produttori, che attualmente gravitano intorno alle Camere di commercio, a far capo ad un’unica Camera regionale, si creerebbero degli intralci di natura burocratica, arrecando danni indubbiamente gravi. La provincia è un ente insopprimibile: non sarà la provincia di oggi; sarà la provincia intesa come consorzio dei comuni, tutrice della libertà dei comuni ed organo di controllo. Crede che la Giunta provinciale amministrativa sia necessaria per il controllo di legittimità e anche di merito e pensa che i comuni non avranno a dolersene quando questi controlli verranno esercitati, non più dal prefetto, ma da una Giunta provinciale amministrativa a carattere elettivo. Inoltre, alla provincia si possono assegnare altri compiti oltre quelli che ha già oggi: assistenza e beneficenza, consigli provinciali scolastici, ecc.
Vi sono, in sostanza, numerosi interessi che possono essere direttamente curati in sede provinciale, considerata questa come organo utile di decentramento regionale, perché, se si vuole decentrare e abolire il centralismo statale, si deve anche evitare di creare un centralismo regionale, che sarebbe altrettanto nocivo e pericoloso.
Conclude esprimendo l’avviso che la soluzione migliore sia quella di una forma di larga autonomia regionale, riconoscendo alla regione la sua qualità di Ente autonomo autarchico, con autonomia finanziaria controllata e conservando anche la provincia; e propone che in seno a questa Sottocommissione si costituisca una sezione apposita che si occupi concretamente del problema delle autonomie.
GRIECO trova la discussione assai interessante e ricca di numerosi problemi, ai quali occorrerà dare soluzione.
Malgrado le divergenze, alcune delle quali anche profonde, crede che si stiano facendo dei passi in avanti, sia pure stentati, verso un incontro, e vorrebbe dare un contributo, anche modesto, al raggiungimento di questo incontro.
Si limiterà ai due temi indicati, a conclusione della sua interessantissima relazione, dall’onorevole Ambrosini, e ribaditi anche dal Presidente.
Sono stati posti due problemi pregiudiziali: si deve creare l’Ente regionale o no? Quali i doveri e le competenze della Regione? Intende rispondere a queste due domande, salvo a parlare a suo tempo in modo particolareggiato su altre importantissime questioni. Ma è stato domandato che sia data una risposta alla questione federale, ed anche questa darà.
Concorda col collega Bozzi, che ha invitato ad evitare gli schemi ed a far sorgere soluzioni e proposte dalla realtà: si deve ricercare quale forma statale sia oggi la più efficace a risolvere i problemi della ricostruzione del Paese, i problemi economici, politici, culturali, per fondare una nuova e più solida democrazia. Dice questo perché, leggendo degli articoli e udendo dei discorsi fatti fuori di qui, si è formato la convinzione che esista, in alcuni regionalisti o federalisti, anche accesi, l’opinione che una delle cause principali, fondamentali dei nostri mali debba ricercarsi nel fatto che l’Italia mancò di larghe autonomie interne. Anzi, fuori di qui qualcuno ha sostenuto addirittura che, se l’Italia si fosse unita in sistema federativo, non avrebbe avuto il regime fascista. Non può accogliere le argomentazioni di questi autonomisti, perché pensa che il fascismo sia sorto e si sia affermato per altre cause. Difatti il fascismo è sorto anche in Paesi dove erano tradizioni federali, e vi è da temere che, se il popolo degli Stati Uniti non starà con gli occhi aperti e molto bene aperti, potrà trovarsi domani di fronte a movimenti di tipo fascista, nonostante la propaganda sul sistema costituzionale americano.
Ritiene che la creazione di uno Stato unitario italiano nel secolo scorso sia stato un fatto progressivo, anche nelle condizioni troppo spesso deplorevoli e deplorate nelle quali questa unità si realizzò, e che su questo punto avessero ragione gli unitari, nel secolo scorso, e non i federalisti. Riconosce però che Carlo Cattaneo aveva ragione quando indicava la urgenza della soluzione di problemi economici e sociali delle varie regioni italiane, corrispondenti, press’a poco, ai vecchi staterelli. Quei problemi gli unitari non li videro. Se la rivoluzione del secolo scorso avesse avuto almeno il contenuto che voleva darle Cattaneo, si sarebbe formato un altro Stato, senza dubbio più solidamente democratico, più moderno; quasi certamente non si sarebbe avuta una monarchia in Italia; molto probabilmente non si sarebbe avuto più tardi il fascismo.
Lo Stato unitario fu una conseguenza dello sviluppo della lotta nazionale tendente a superare lo spezzettamento secolare del Paese. Bisognava abbattere le frontiere interne, creare un mercato nazionale: questa è la formula economica dell’unità, da cui derivano o a cui si legano elementi culturali e anche sentimentali, che contribuiscono sempre fortemente al fatto di una rivoluzione nazionale. Lo Stato unitario era una esigenza dello sviluppo economico, culturale, politico delle forze nazionali dell’epoca. Che questo sviluppo sia stato poi rachitico, essendosi elusi i problemi sociali ed economici sollevati da Cattaneo, e soprattutto la riforma agraria, specie nel Mezzogiorno, questa è un’altra questione. Non sarà male, dinanzi ai problemi attuali della ricostruzione, rileggere Cattaneo.
Non vuole pensare cosa sarebbe stata l’Italia, come un insieme di Stati federati Del resto ciò non ha importanza. Però ottantacinque anni di vita unitaria statale, con tutte le colpe enormi, qualche volta criminali, commesse dalle classi dirigenti – delle quali ha fatto un’appassionata, per quanto parziale (come quantità) denunzia l’onorevole Lussu, che tutta la parte comunista condivide assolutamente, come condivide assolutamente i giusti risentimenti delle popolazioni siciliane – e nonostante la relativamente debole coscienza nazionale degli italiani, questo secolo o quasi di vita unitaria rappresenta qualche cosa nella nostra vita nazionale, economica e politica: è un’esperienza comune di successi ed anche di sventure e di disastri; ma da questa esperienza dobbiamo muovere per andare avanti, per rifare insieme l’Italia nel progresso. Dice queste parole pensatamente, con la conoscenza che ha anch’egli della realtà italiana. C’è molto scoraggiamento nel nostro popolo e questo aiuta lo sviluppo di tendenze centrifughe, ed i rappresentanti nazionali debbono lottare decisamente contro questo scoraggiamento ed unire tutte le forze vive nazionali per difendere l’unità e muovere uniti verso il rinnovamento del Paese.
Il federalismo oggi, come il piano integrale delle autonomie proposte dall’onorevole Zuccarini, non rappresenterebbero un passo avanti, ma un serio passo indietro.
Come è stato detto giustamente dall’onorevole Rossi, tutta la vita delle Nazioni, nei loro rapporti economici e culturali, tende, per la esigenza che nasce dallo sviluppo delle loro forze interne, ad attenuare i particolarismi nazionali. È una caratteristica dell’epoca nostra quella di tendere ad una sfera di azione, che si può chiamare intra-nazionale (non dice internazionale): cioè ad accordi ed intese particolari fra gruppi di Nazioni. Ed anche il divenire – nella misura in cui si può vedere e prevedere – dell’umanità, non sarà nel ripiegamento delle Nazioni in se stesse, ma nel loro aggruppamento. Ora, se questa è una realtà, come lo è infatti, non comprende perché si dovrebbe creare oggi una sorta di frontiere interne; perché frontiere interne nascerebbero, quando fossero date alle Regioni la potestà legislativa e l’autonomia finanziaria ed economica.
Domanda se è possibile ricostruire l’Italia, lasciando ad ipotetici Stati autonomi, confederati o federati, di provvedere da sé, con proprie leggi, alla propria ricostruzione: personalmente non lo crede. Il piano federale dell’onorevole Lussu non renderebbe un servizio né all’Italia né alla Sardegna. Creando oggi una Repubblica sarda, in qual misura si agevolerebbe la soluzione dei problemi della Sardegna? I problemi che l’onorevole Lussu vuole risolvere, e che tutti vogliono risolvere con lui, non li potrà risolvere la Sardegna senza l’aiuto ed il concorso di tutta la Nazione italiana, dello Stato italiano. E se un federalista sardo dissennato – che ritiene non esista – pensasse di risolvere i problemi della Sardegna ricorrendo all’aiuto economico straniero, non solo farebbe dell’Isola una dipendenza straniera, col pericolo di spezzare l’unità statale italiana, ma non risolverebbe i problemi della economia sarda: al posto dei capitalisti continentali, i sardi vedrebbero i capitalisti stranieri. Questo sarebbe il risultato.
Riconosce che non si può essere, in principio, né assolutamente federalisti, né assolutamente antifederalisti; e lo ricorda a coloro i quali ritengono che il problema del federalismo sarebbe qualche cosa di permanente ed immanente. Ritiene che la questione debba essere posta politicamente, cioè in vista di obiettivi politici da raggiungere. E l’obiettivo che si deve raggiungere è il consolidamento della Repubblica, attraverso la ricostruzione economica unitaria del Paese, sulla base di una solidarietà nazionale. Del resto, ha udito parlare di stanze di compensazione: un autonomista realista, come il collega che ha proposto la creazione di una stanza di compensazione, sente che la Regione sarda non sarebbe autosufficiente, avrebbe bisogno di aiuto.
LUSSU crede che questo potrebbe dirsi all’onorevole Finocchiaro Aprile, ma non a lui, che ha accennato (ed è questione sulla quale occorrerà tornare) alla miseria della Sardegna, che non è solo conseguenza dello sfruttamento locale, che esiste in ogni parte, ma anche dello sfruttamento da parte dello Stato centralizzato, ed a cui si ovvia precisamente sradicando queste possibilità di sfruttamento. Con le saline, le miniere e le tonnare si può ricostruire la Sardegna, senza bisogno di ricorrere a casse di compensazione, ridando a questa Regione la sua naturale ricchezza.
GRIECO riconosce che i problemi che l’onorevole Lussu pone sono problemi reali, ma crede che non comportino necessariamente, per la loro soluzione, la creazione di una Repubblica sarda.
Si deve, dunque, cercar di ricostruire il Paese attraverso criteri unitari. Insiste su questo. Si vedrà il peso che avrà il criterio unitario nella ricostruzione. Lo Stato unitario è oggi minacciato da forze centrifughe, le quali sono alle volte legittimiste, nemiche della Repubblica. Potrebbe accadere di vedere impugnata la bandiera federalista dai gruppi legittimisti, che fino a ieri erano ferocemente unitari e centralisti. Questo conferma che il problema del federalismo e dell’antifederalismo non è problema di principio, ma mezzo per il raggiungimento di certi obiettivi.
La stessa opera di ricostruzione richiede l’unità nazionale e non la suddivisione interna. Da tempo si è persuasi che senza un intervento dello Stato, senza la mobilitazione di tutte le risorse di tutti i cittadini italiani, è impossibile rimettere in marcia vari importanti settori dell’economia nazionale. Per esempio, i comunisti pensano che occorrerà procedere a delle nazionalizzazioni (problema molto importante); essi domandano, e molti dei presenti sono d’accordo, che si proceda di urgenza a trasformazioni e ad una riforma agraria. Ma queste ed altre riforme esigono una larga mobilitazione di risorse che solo lo Stato unitario può mettere in movimento. Questo indirizzo nella ricostruzione, che porta ad un progressivo miglioramento delle condizioni delle grandi masse lavoratrici, ad uno sviluppo delle forze produttive, è contrastante con la creazione di Stati interni italiani, ma è nell’interesse delle nostre stesse Regioni. Per la realizzazione di un simile piano di ricostruzione, a suo avviso, occorrono non già delle ipotetiche repubbliche autonome, quale una Repubblica calabrese o calabro-lucana, ma l’Italia unita che aiuti la Calabria e la Lucania a rinascere ed in qualche zona a nascere, perché queste nostre Regioni da molto tempo sono state veramente abbandonate al loro destino.
Si dichiara, dunque, contrario ad ogni tipo di federazione o confederazione dello Stato italiano nell’interesse delle Regioni prese isolatamente e della Repubblica presa nel suo insieme.
Però riconosce la necessità di apportare cambiamenti seri, modificazioni profonde del vecchio Stato italiano per metterlo in grado di assolvere ai nuovi compiti che stanno dinanzi al Paese. Occorre allargare le basi popolari della democrazia in Italia, arricchire i quadri dirigenti di nuove forze, avvicinare il potere al popolo, mettere in gara, in una nobile fruttuosa emulazione ricostruttiva, le nostre popolazioni e dare un colpo a quella mostruosa macchina burocratica, contro la quale numerosi colleghi si sono levati con indignazione. Quindi è d’accordo con coloro che chiedono la creazione in Italia dell’Ente regione, che potrebbe favorire il superamento dei contrasti e dello spirito di concorrenza fra le provincie denunciato dall’onorevole Rossi. Però non vorrebbe che dietro l’Ente regione si nascondesse una specie di federalismo mascherato.
Dichiara, innanzi tutto, che riconosce la legittimità storica e politica della rivendicazione di statuti regionali particolari e particolarmente ampi alla Sardegna, alla Sicilia, al Trentino e alla Val d’Aosta. Non si può non riconoscere la giustezza di queste rivendicazioni per alcune Regioni, specialmente per la Sicilia, ma anche per altre. Queste rivendicazioni sono chieste dalle masse popolari ed è un atto doveroso di riparazione per tutte le colpe che lo Stato unitario ha commesso verso di esse l’aderirvi. Ma la questione non si pone alla stessa maniera per tutte le Regioni. Anzi in alcune di esse non esiste un problema simile, perché un problema politico-sociale non è quello che si pongono o pongono certi gruppi di uomini politici o di studiosi «problemisti», ma quello che sorge dalla vita stessa del popolo, e non sembra che esista un movimento popolare regionalista nell’Emilia, nella Lombardia, nel Lazio, in Toscana, nella Campania, nelle Marche, e in altre regioni.
Ricorda di avere, in una Commissione volontaria interpartitaria, dove si studiavano questi problemi, affacciato un giorno lo stesso argomento che affaccia ora, ed alcuni colleghi giuristi gli dissero che voleva dar vita ad un monstrum giuridico. Vero è che si potrebbe dare l’esempio di altri mostri, come il progetto di Costituzione spagnola che conteneva lo Statuto della Catalogna e dei Paesi baschi, e che ammetteva anche la creazione volontaria dell’ente regione, e persino il volontario ritorno di una regione già autonoma al regime centralizzato, ogni volta che lo volesse. Naturalmente, non è questo che egli invita a fare; ma vuole fare osservare che questo statuto era proprio il contrario di uno statuto eguale per tutte le regioni; ed era giusto, perché rispondeva ad una esigenza storica e reale della Spagna e negava l’egualitarismo formale che è spesso la fonte di molte ingiustizie.
Ripete quindi che gli Statuti regionali già concessi in Italia possono essere modificati, o migliorati col concorso delle singole regioni, ma debbono restare come Statuti particolari. Avremo, così, in Italia un tipo misto di regioni autonome e di semplici regioni.
Dall’impostazione generale che dà alla questione, pensa che l’ente regione (non la regione autonoma, che è particolare) potrebbe nascere in tutto il Paese. Esso non dovrebbe avere una competenza legislativa in generale, ma solo per certe materie che dovrebbero essere indicate, pur ammettendo il principio di una delega normativa ogni volta che l’Assemblea nazionale la dia con una legge. Invece le regioni autonome avrebbero maggiori potestà, senza però giungere a competenza legislativa e normativa in genere, che porterebbe ad un federalismo mascherato, con tutte le conseguenze che ha indicate, deleterie per la economia, per la vita, per l’unità del Paese.
Secondo il suo modo di vedere, la Regione ordinaria dovrebbe avere una competenza amministrativa, ma anche una competenza economico-tecnica per una serie di attività oggi statali, e quindi una funzione che va al di là del semplice decentramento e una competenza normativa per certe branche, nel quadro delle leggi dello Stato, e una delegazione normativa da parte dell’Assemblea legislativa, per leggi determinate. Ha citato la riforma agraria: è evidente che una riforma agraria, per essere efficiente dovrà, nel quadro dei principî e degli scopi decisi dall’Assemblea nazionale, essere attuata dalle regioni. Le Assemblee regionali avrebbero il compito di procedere all’attuazione della riforma sulla base dei principî fissati dalla stessa legge generale, ma attraverso norme regionali. Gli uffici amministrativi attuali della provincia potrebbero essere assorbiti da analoghi uffici regionali. La provincia dovrebbe cessare come ente autarchico, rimanendo come circoscrizione per certe amministrazioni. Quando è tolto alla provincia il carattere di ente autarchico, si può vedere che cosa resta a questa circoscrizione, come organizzazione amministrativa dello Stato (e ciò può essere discusso in relazione alle idee che presiederanno ad una riforma dell’Amministrazione statale), e cosa la provincia può rappresentare come organizzazione interna della Regione.
Si potrebbero assegnare alla Regione le questioni delle strade non nazionali, degli acquedotti, dei beni demaniali, delle foreste, della caccia, della pesca. Non sarebbe del parere di passare all’Ente le miniere, né, salvo un’attenta discussione sulla questione, di assegnargli in blocco tutto il problema della istruzione; passerebbero invece alla Regione le scuole professionali, nonché i compiti scolastici, ecc. Tutti gli organi della Regione: Assemblea, Giunta, Presidente, dovrebbero essere elettivi.
Naturalmente è per la soppressione del prefetto; non condivide l’opinione di quanti propongono la creazione della figura del Governatore (che crede non piacerebbe a nessuno) e ritiene che al Presidente della regione potrebbero essere attribuite le funzioni di rappresentante dello Stato.
Circa il territorio della Regione, conserverebbe quello attuale, salvo piccole rettifiche necessarie. Ha sentito molte idee in proposito ed ha visto altrove ritagliare con le forbici a pezzetti il territorio italiano; ha sentito anche una volta un collega il quale esigeva l’annessione alla sua regione della Spezia, come al suo hinterland naturale.
Da quello che ha detto risulta che non accetta il dilemma: Stato centralizzato o decentralizzato, sebbene sia per tutte le ragionevoli e sane decentralizzazioni; non approva né uno Stato federale né uno Stato definito regionale (forse qui è questione di parole). La Repubblica deve restare uno Stato unitario, una organizzazione di regioni autonome e di Regioni unite, le cui competenze saranno fissate dalla Costituzione. I compiti particolari delle regioni autonome e delle altre regioni dovrebbero o far parte integrante della Costituzione o essere affidate a leggi costituzionali a parte.
E poiché si parla di problemi per i quali si può non essere tutti preparati, ad esempio quello della finanza, per questa materia riterrebbe opportuno affidarla a qualche riconosciuta competenza.
PRESIDENTE crede che si potrebbe pregare l’onorevole Einaudi di fare uno studio in proposito. Si potrebbe anche sentire se non esista qualche componente della Commissione economica del Ministero della Costituente, al quale potrebbe essere affidato il compito di una breve relazione in proposito.
FUSCHINI ricorda che della Sottocommissione fa parte l’onorevole Vanoni, che potrebbe mettere a disposizione la sua competenza.
LUSSU suggerisce che il Presidente chieda ufficialmente alla Ragioneria generale dello Stato ed alla Corte dei conti, quanto le varie Regioni dànno allo Stato e quanto lo Stato dà a queste Regioni.
PRESIDENTE, per quanto lo si possa fare, non crede che la Carta Costituzionale possa scendere a questi particolari.
La seduta termina alle 21.05.
Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.
Erano assenti: Canevari, Cappi, Leone, Maffi, Porzio.
In congedo: Amendola, Calamandrei, Einaudi, Patricolo, Vanoni.