Come nasce la Costituzione

VENERDÌ 26 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

1.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 26 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sull’ordine dei lavori

Presidente – Ambrosini – Bordon – Mortati – Codacci Pisanelli – Lussu – Perassi – Nobile – Cappi – Piccioni – Grieco – La Rocca – Conti – Fabbri – Tosato – Mannironi – Fuschini.

La seduta comincia alle 10.20.

Sull’ordine dei lavori.

PRESIDENTE ricorda che nella decisione presa in via di massima dalla Commissione plenaria, i temi che questa Sottocommissione dovrà trattare sono stati indicati con sufficiente approssimazione, ma devono ora essere maggiormente specificati, per poter procedere o alla loro delibazione iniziale o alla determinazione del numero delle sezioni da costituire per una più proficua suddivisione del lavoro.

Quella decisione di massima indica i problemi della struttura dello Stato specificandoli in quattro divisioni principali: Parlamento, Capo dello Stato, Governo, ed Organi di garanzia, intesi questi in senso abbastanza largo. Poi è stato affidato alla seconda Sottocommissione anche il problema dell’autonomia che, come è già stato rilevato con larga giustificazione, è il tema pregiudiziale ad ogni altro.

Propone pertanto di affrontare il problema dell’autonomia, tenendolo per ora distaccato dai quattro temi specifici suddetti.

Dopo che si sarà chiarito il problema dell’autonomia, si potrà vedere in qual modo procedere del lavoro sui singoli temi.

Si potrebbe anche pensare di passare subito alla formazione delle sezioni nominando un relatore sopra ogni tema, ma in tal caso le quattro sezioni dovrebbero provvisoriamente sospendere l’inizio dei propri lavori, in attesa che il tema della autonomia sia portato alle prime conclusioni.

AMBROSINI osserva che lo schema proposto dal Presidente è molto semplice. Indubbiamente il problema dell’autonomia investe tutte le questioni istituzionali ed è opportuno trattarlo pregiudizialmente, anche senza arrivare a decisioni.

BORDON è pure d’accordo che si debba procedere innanzitutto all’esame del problema delle autonomie perché pregiudiziale. I lavori sugli altri argomenti potranno proficuamente svolgersi soltanto dopo che si sarà raggiunto un orientamento sulla questione della autonomia.

MORTATI trova opportuno che la Commissione si suddivida anzitutto in sezioni, che il Presidente propone nel numero di quattro e che potrebbero essere anche cinque.

II problema dell’autonomia è così complesso ed investe talmente tutta la struttura dello Stato, che una sua trattazione isolata non gioverebbe alla chiarificazione. Ogni sezione potrebbe esaminare il problema dal punto di vista dei problemi di sua competenza, in modo che dalla riunione dei risultati delle Sezioni si possa ricavare un giudizio più esatto.

Per la stessa ragione per cui in seduta plenaria si è escluso di procedere ad una discussione preliminare sull’autonomia, crede che la stessa esclusione debba farsi nella Sottocommissione.

Per la suddivisione interna del lavoro, propone che si abbiano cinque sezioni: la) per il problema dell’autonomia; 2a) per quello degli organi del potere costituente e legislativo, ed è forse opportuno avvicinare i due temi; 3a) per la funzione legislativa e costituente, in modo da separare in un esame distinto gli organi e le funzioni; 4a) per gli organi e le funzioni amministrative; 5a) per i principî costituzionali di garanzia del diritto.

CODACCI PISANELLI si associa alla proposta Mortati di non esaminare pregiudizialmente il problema dell’autonomia; il che corrisponde anche al fatto che la Commissione plenaria ha deciso di assegnare il tema dell’autonomia non alla prima, ma alla seconda Sottocommissione, perché l’orientamento è, evidentemente, verso un concetto di decentramento amministrativo.

Quanto alla suddivisione in sezioni, ritiene sia più opportuno che queste siano quattro, anziché cinque.

LUSSU si rimette alle decisioni che saranno prese per la suddivisione del lavoro: circa il modo di procedere  in questo, osserva che la proposta del Presidente risponde a quello che è stato deciso in Commissione plenaria ed è la più razionale. La questione delle autonomie deve essere chiarita all’inizio, altrimenti si rischierebbe di compiere un lavoro che poi si dovrebbe ricominciare dopo che fossero chiariti i principî fondamentali. Per esempio, se si adottasse il concetto del federalismo, tutta la struttura organizzativa dello Stato dovrebbe seguire l’indirizzo federalista.

PERASSI concorda col collega Lussu e non sa spiegarsi come l’onorevole Codacci Pisanelli possa dire che già si abbia una presa di posizione sul problema delle autonomie, mentre in seduta plenaria si è discusso soltanto sulla sua assegnazione alla prima o alla seconda Sottocommissione, lasciandone del tutto impregiudicata la soluzione, e solo riconoscendone il carattere pregiudiziale rispetto a tutti gli altri. E appunto perché è un problema pregiudiziale, ritiene che non sia conveniente dividerlo fra le singole sezioni e che, data la sua natura, debba essere esaminato da tutta la Sottocommissione.

Può darsi che ad un certo punto sia opportuno formare un’apposita sezione, ma una prima delibazione deve farla la Sottocommissione.

NOBILE riconosce che la questione dell’autonomia deve essere delibata, ma non ritiene che si possa decidere per un tipo di autonomia e poi procedere al lavoro di Sottocommissioni, perché non si ha la facoltà di prendere una decisione.

Più utile sarebbe, a suo avviso, costituire una sezione incaricata di riferire al più presto sulla questione dell’autonomia. Ciò servirà ad orientare sulle conseguenze possibili per i lavori delle Sottocommissioni. Ma pensa che si dovranno prendere in esame tutti i varî schemi.

CAPPI concorda sul principio che le conclusioni sul tema delle autonomie siano pregiudiziali alle conclusioni sugli altri temi, cosicché non basta una semplice delibazione; ma osserva che, per arrivare a delle conclusioni, occorre un tempo notevole, durante il quale la Sottocommissione rimarrebbe inerte, ciò che lo rende molto perplesso.

PICCIONI ritiene che si possa trovare una linea di convergenza tra le due impostazioni. L’indirizzo fondamentale secondo il quale la struttura costituzionale, amministrativa, legislativa dello Stato deve essere ideata ha una influenza ed un peso notevole, perché l’organizzazione sarà diversa a seconda che si segua il principio autonomistico o il principio centralizzatore. Sotto questo profilo, l’esame del principio autonomistico deve avere nella Sottocommissione una certa prevalenza e priorità sul resto.

Ma si domanda se sia opportuno costituire una Sezione che studi soltanto il principio autonomistico, lasciando nel frattempo le altre inoperose, o se – invece – – non sia più opportuno esaminare il principio autonomistico in Sottocommissione, e pensa che sia questa la soluzione più opportuna, perché si tratta di un principio che si ripercuote su tutti i singoli argomenti che le sezioni dovranno esaminare.

Praticamente si può procedere anzitutto ad uno scambio di idee da cui risulteranno le divergenze e i contrasti, per poi nominare uno o due relatori, che cerchino di precisare e concretare meglio il pensiero prevalente nella Sottocommissione.

Una volta stabilito in modo concreto il principio autonomistico nei termini in cui dovrebbe essere tenuto presente nella formulazione della struttura del nuovo Stato, la Sottocommissione potrà cominciare a lavorare in concreto.

Propone perciò che si affronti la questione generale del principio autonomistico, per nominare un relatore il quali concreti i criteri che saranno stati accettati a maggioranza o ad unanimità, criteri che dovranno servire di orientamento per il lavoro delle altre Sottocommissioni.

GRIECO concorda completamente nella proposta Piccioni e nella sua motivazione.

MORTATI insiste nella sua proposta per varie ragioni. Quando si dice che il problema delle autonomie è pregiudiziale, si intende riferirsi non alla determinazione degli enti che dovranno essere dichiarati autonomi e alle forme di autonomia che dovranno essere concesse, ma alla struttura complessiva dello Stato, al principio fondamentale ispiratore di tutti i suoi istituti. Quindi il risultato cui tutti tendono è il medesimo. Ma sul metodo vi è disaccordo e bisogna vedere quale sia più opportuno per affrontare la discussione su tutta la struttura dello Stato. Il principio autonomistico è possibile risolverlo in sede di delibazione astratta, o non guadagna piuttosto di concretezza, se è esaminato prima nei suoi vari aspetti e nelle sue applicazioni? Egli crede che, dopo fatto questo esame differenziato e minuto, sia possibile discutere in seduta plenaria con maggiore consapevolezza circa le ripercussioni sui singoli istituti concreti, e che a questo modo la discussione guadagni in solidità; altrimenti, si perde tempo in una discussione preliminare e non approfondita.

Chiede quindi che si proceda alla divisione della Sottocommissione in Sezioni, ciascuna delle quali esaminerà il principio autonomistico, in relazione al suo tema specifico. La sezione delle autonomie locali dovrebbe esaminare l’autonomia in sé e per sé; non nelle sue ripercussioni sui vari istituti dello Stato.

LA ROCCA crede che la questione delle autonomie debba essere preliminare e pregiudiziale, perché finirà con l’improntare di sé tutto il lavoro. Se si esamina quale deve essere la struttura dei vari organi dello Stato, lasciando in sospeso e impregiudicata la questione delle autonomie, si rischia di compiere un lavoro perfettamente inutile.

CONTI osserva che l’onorevole Mortati suggerisce un metodo che potrebbe dare risultati eccellenti. Se si esamina in ogni sezione il problema della struttura dello Stato in relazione e al principio autonomistico e al principio accentratore, ne può venire un lavoro imponente, del quale la Commissione plenaria potrebbe servirsi. Ma teme che il tempo richiesto sarebbe enormemente lungo.

Trova molto più semplice e più utile il piano proposto dal collega Piccioni, che tende a che ci si renda conto della portata del problema autonomistico, vedendone i risultati, per poi, in relazione a quest’esame, procedere al lavoro delle sezioni. A questo piano si associa.

E si potrà procedere speditamente se la discussione sulle autonomie sarà concreta.

PRESIDENTE riassume la discussione e pone ai voti la proposta di discutere pregiudizialmente la questione delle autonomie.

(È approvata).

Invita quindi l’Assemblea a pronunciarsi circa il modo col quale procedere a questa trattazione: se cioè affrontare il problema in seduta plenaria della Sottocommissione  oppure procedere alla formazione di una sezione speciale, salvo a vedere poi se deve essere una sezione a sé, o una specie di intersezione.

FABBRI ha l’impressione che vi sia un certo dissenso, e indubbiamente esso sorgerà poi, sulle applicazioni del concetto dell’autonomia: forse non è eguale in tutti il concetto del contenuto dell’autonomia in sé e per sé. Perciò non ritiene superflua una discussione preliminare di carattere generale, che può chiarire dei concetti quasi elementari sull’autonomia, attraverso informazioni complete e precise, date da chi abbia già acquisito i concetti essenziali e sappia quindi perfettamente, per maturità di studi, che cosa s’intende oggi nella dottrina e nella pratica sotto il concetto di autonomia. Trova quindi opportuno nominare un relatore a questo scopo.

Non crede sia il caso di costituire una sottosezione, o comitato, i cui componenti potrebbero anche trovarsi d’accordo su un concetto dell’autonomia, che non fosse quello della generalità dei membri di tutta la Sottocommissione. Non è possibile continuare a parlare di autonomia in una situazione in cui molti non sanno esattamente di che cosa veramente si tratti.

LUSSU ricorda che su questa questione si è discusso in seduta plenaria della Commissione, e si è accennato ad un comitato di studio di cinque o sette persone, che avrebbe dovuto approfondire il problema in pochi giorni. Oggi si propone la nomina di un relatore. Crede che il sistema più pratico sarebbe questo: che la Sottocommissione nominasse un comitato di cinque o sette membri, che nel termine di cinque o sei giorni fosse in grado di riferire in merito; dopo di che un relatore potrebbe portare in seduta plenaria della Commissione il pensiero della Sottocommissione. Si avrà così un indirizzo, poiché tutto sarà stato chiarito e regolato.

TOSATO propone che oggi o domani la Sottocommissione discuta il problema, allo scopo di arrivare ad una delimitazione di carattere generale e trovare un orientamento comune, per procedere poi alla nomina della Sezione incaricata specificatamente di concretare il principio autonomistico. Questa Sezione lavorerà insieme con le altre incaricate dell’esame di altri temi.

PRESIDENTE, all’onorevole Fabbri, il quale chiede in linea preliminare una illustrazione dei concetti teorici, di carattere elementare, del problema, in modo che si possa meglio procedere sul terreno dei fatti concreti, osserva che anche se non si incarica nessuno di fare questa illustrazione preliminare, gli stessi relatori che si sono impegnati a portare in discussione la questione concreta si preoccuperanno certo di farla precedere da alcune delucidazioni preliminari.

Chiede che l’Assemblea decida se discutere la questione in seduta plenaria o nominare un piccolo comitato o sezione, incaricato di riferire in merito entro un termine di pochissimi giorni.

MANNIRONI è del parere che sia necessario fare la discussione generale, perché potrà servire non soltanto di orientamento, ma di base per gli ulteriori lavori di tutta la Sottocommissione. Propone quindi di costituire oggi le varie Sezioni, con l’assegnazione dei singoli componenti, e procedere domani alla discussione generale del tema in seno a tutta la Sottocommissione, in maniera che coloro che faranno parte della sezione apposita che si dovrà occupare dell’autonomia abbiano uno schema generico che potrà servire da base per il loro lavoro.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta di fare domani in seduta di Sottocommissione una discussione generale sul tema delle autonomie.

(È approvata).

FUSCHINI crede opportuno che uno o due relatori espongano il concetto generale dell’autonomia.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Fuschini e propone di incaricare gli onorevoli Perassi e Ambrosini di fare l’impostazione generale del tema dell’autonomia. Raccomanda che l’esposizione sia alquanto succinta, perché si ha bisogno soprattutto di alcune idee fondamentali.

(Così rimane stabilito).

Passando alla suddivisione della Sottocommissione in sezioni, ricorda che si prevedevano quattro divisioni fondamentali della materia, e quindi quattro sezioni.

CONTI teme che questa ripartizione sia intempestiva. Infatti, se si approva il concetto delle autonomie, evidentemente occorrerà occuparsi della struttura eventuale della regione; onde occorrerà un’altra Sezione. Crede quindi logico che le Sezioni siano costituite dopo la discussione generale, quando si avrà un materiale più ampio, sul quale basare le suddivisioni.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta che la suddivisione della Sottocommissione in Sezioni venga rinviata a quando la discussione sulle autonomie abbia posto la Sottocommissione in grado di farla consapevolmente.

(È approvata).

Avverte che, per procedere con la necessaria alacrità, occorrerà riunirsi domani.

AMBROSINI è disposto a riferire anche domani.

PRESIDENTE rinvia la prosecuzione dei lavori a domani alle 17.

La seduta termina alle 11.30.

Erano presenti: Ambrosini, Amendola, Bocconi, Bordon, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Rossi, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Castiglia, Leone, Maffi, Porzio, Ravagnan.

In congedo: Calamandrei, Einaudi, Vanoni.

MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

5.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

La Rocca – Einaudi – Bulloni – Fabbri – Patricolo – Presidente – Tosato – Lussu – Mortati – Leone Giovanni – Perassi – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.5.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

LA ROCCA, dopo l’elevata discussione che ha avuto luogo finora, crede non rimanga ormai che rivedere con chiarezza taluni punti di vista.

Tutti sono d’accordo che bisogna ad ogni costo eliminare i danni di uno Stato burocratico ed accentratore che si è dimostrato negatore della vita nazionale e che, invece di far fiorire le energie latenti del paese, le ha soffocate, dimostrando di non conoscere, o di trascurare e tradire addirittura i bisogni e le aspirazioni vive della periferia, la quale da questa noncuranza od avversa volontà si è vista impedita nel suo cammino.

Nella discussione sono affiorate le varie concezioni che si hanno dello Stato.

Anche i commissari comunisti hanno la loro: e cioè che lo Stato non è la realtà dell’idea morale, alla Hegel; e sono confortati dal pensiero che gli studiosi cominciano ad essere concordi su questo; che lo Stato è sorto sulla base d’inconciliabili contrasti sociali: che, espresso dal seno della società, si è a poco a poco staccato dalla società e sovrapposto ad essa, divenendo lo strumento di dominio delle classi che si sono succedute al potere, nelle varie tappe del processo storico: lo stato dei patrizi nell’antichità, dei signori nel medioevo, dei capitalisti nella società moderna.

È stato detto che l’eccessivo centralismo fu una delle cause del trionfo del fascismo; e può anche darsi che l’eccessivo centralismo vi abbia contribuito. Ma il fascismo ha altre radici.

Tutti sono d’accordo che bisogna evitare certe pericolose forme di accentramento. Ma non si può non far tesoro dell’esperienza storica. È conosciuta la Costituzione di Weimar, che è stata il modello delle altre: repubblica; tutti i poteri emanano dal popolo; il governo centrale da soltanto le direttive; la nazione si organizza intorno ai länder, con potestà legislativa piena. Tuttavia questo Stato, così decentrato, non ha impedito che si affermasse l’hitlerismo, che è qualcosa di peggio del fascismo. Quindi bisogna procedere con cautela nell’esame.

Tutti vogliono impedire che il fascismo ritorni; e vogliono una riforma radicale soprattutto affinché scompaia in Italia ogni diversità strutturale. Vogliono che finisca l’unità unicamente apparente (territoriale e più o meno politica) ma che si risolve in una disparità economica e sociale e finisce col minare le basi stesse dell’unità nazionale.

Infine tutti vogliono che la trasformazione di struttura segni la rinascita del Paese, il quale deve essere oggi considerato, più che un insieme organico ed armonioso retto dal principio della concordia discorde, un insieme che presenta disparità manifeste nella struttura organica, che presenta squilibri, sproporzioni, ingiustizie, che non aiutano certo il formarsi della vera unità nazionale.

Questa unità organica manca per il modo con cui l’unità del Paese si è venuta formando, manca a causa dello squilibrio fra nord e sud. L’unità si è costituita sopra una base economica a danno delle popolazioni del Mezzogiorno, il quale da taluni gruppi industriali e bancari del nord è stato ridotto insieme con le isole a vere colonie di sfruttamento. La questione meridionale è un problema essenziale della politica nazionale, e si è risolta nella subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione: il Mezzogiorno – comprese le isole di Sardegna e di Sicilia – è stato spogliato e paga le spese degli altri. Quindi lo scopo da raggiungere è quello di portare tutte queste regioni allo stesso livello economico delle altre.

La preoccupazione, in rapporto a questa trasformazione radicale, è che si possa comunque aprire un varco al passaggio di forze centrifughe che possano minacciare o addirittura spezzare l’unità nazionale. E appunto perciò egli è contro la tesi federalista e qualsiasi tesi regionalista che praticamente possa sboccare in federalismo. Il federalismo è vincolo fra vari Stati sovrani che s’impegnano a delegare ad un potere centrale una parte della loro sovranità, ed è stato sostenuto con calore dall’onorevole Lussu come la sintesi più razionale del processo storico e evolutivo del Paese.

Non può essere d’accordo con lui e con gli altri che ne condividono l’opinione.

Il cammino storico e del progresso è stato sempre nel senso del graduale passaggio dal piccolo al grande gruppo, dall’organizzazione federativa a quella nazionale; ha proceduto sempre dai più piccoli aggruppamenti ai più grandi, dalla federazione allo Stato unitario; e adesso tende anche ad un più ampio allargamento che oltrepassa lo Stato. E questo perché le possibilità di soluzione dei problemi economici, che sono fra loro quanto mai connessi, non possono essere ricercate nello sparpagliamento delle forze, ma nell’aggruppamento. Intende riferirsi soprattutto al problema economico, perché, pur ammettendo che esso non rappresenta l’unico determinante, bisogna riconoscere che esso costituisce il fattore decisivo, la grande forza motrice di tutti gli avvenimenti storici; onde nella trasformazione strutturale dello Stato non si può non tenerne conto.

L’organizzazione federale rappresenta una grande garanzia di libertà e di democrazia là dove la federazione è la risultante di un naturale processo storico accompagnato da una progressiva autoeducazione della coscienza civile, come è avvenuto negli Stati Uniti e nella Svizzera.

Parla della soluzione federalistica, non perché tenga a battere questa tesi, ma perché non vorrebbe che si adottasse una soluzione regionalistica che praticamente fosse come la sorella di quella federalistica. Questo intende ben chiarire.

In Italia una soluzione in senso federale non sarebbe la risultante naturale di un processo evolutivo e rinnegherebbe un secolo di storia patria, senza far altro che inasprire gli squilibri e il dislivello fra le regioni, in ispecie fra quelle del nord e del sud; avrebbe quindi il torto di portare avanti forze retrograde che esistono e lavorano per spezzare la unità nazionale. Nella profonda tendenza autonomistica del sud si deve vedere una giusta reazione al tentativo del nord di sopraffare il Mezzogiorno d’Italia. Ma la questione del Mezzogiorno e delle isole non può essere risolta che in senso unitario, nel quadro di un generale ordinamento, senza dividere e frazionare il corpo dello Stato, del Paese, senza creare tanti compartimenti stagni. Nel 1848 la soluzione federalistica sarebbe stata un avviamento all’unità del Paese: oggi sarebbe un indietreggiamento: sarebbe quanto mai regressiva.

La soluzione unitaria, comunque si sia compiuta ed effettuata, ha rappresentato un fatto progressivo anche nei riguardi del Mezzogiorno. Come uno dei rappresentanti di Napoli, riconosce che il sud soffre delle conseguenze dell’unità compiutasi a danno di tutte le popolazioni meridionali. E non è il caso di ricordare i milioni dell’ex Regno delle Due Sicilie spesi per la costruzione di ferrovie, ponti e strade del nord, sotto la specie delle necessità strategiche e che accrebbero lo sviluppo del nord. Pur compiuta male, l’unificazione costituì un progresso, e oggi tornare indietro significherebbe farsi giudicare male dall’avvenire, e farsi maledire dal popolo italiano. Anche la soluzione unitaria di Bismarck che pure è stata ricordata, fu opera progressiva, anche se compiuta col metodo di un Junker, perché riunì tutta la nazione tedesca. La nazione unitaria è un prodotto del capitalismo nella fase ascendente e progressiva: bisognava creare un mercato unico, un’unica legislazione, un unico sistema monetario; bisognava abbattere le barriere che ostacolavano i traffici e gli scambi. In fondo la feudalità fu distrutta dalle forze produttive formatesi nel seno della vecchia società e che erano compresse nei limiti provinciali; e la borghesia ha avuto una funzione progressiva nell’evoluzione sociale, quando ha creato la Nazione, ed ha creato, non solamente il mercato e l’economia nazionale, ma il mercato e l’economia mondiale.

Oggi non si potrebbe tornare indietro: l’economia nazionale non esiste più da sola: non è che un anello di una catena che si chiama economia mondiale. Oggi le forze produttive cresciute nel seno della società tendono a superare i confini nazionali.

Afferma di volere una trasformazione profonda: non federalismo, e neanche un regionalismo troppo spinto, che sia federalismo mascherato, trasformazione, basata sulla creazione di un ente che si interponga fra il comune e la nazione. Questo corpo intermedio può essere la regione, e si tratta di definirlo.

Dal punto di vista territoriale sarà facile mettersi d’accordo: si adotteranno criteri etnici, geografici, storici, culturali, ecc. Ma il problema più importante è quello di stabilire quali debbano essere le attribuzioni delle regioni, per impedire che queste possano di fatto, se non di nome, essere quasi degli Stati autonomi nello Stato italiano.

Vuole la creazione dell’ente regione come ente giuridico; ma, appunto perché aderisce alla realtà obiettiva – che non va mai dimenticata per sostituire ad essa il proprio desiderio – vuole tenere in considerazione tutto il complesso di tratti caratteristici, di condizioni strutturali, di tradizioni che sostanziano le diverse regioni.

Sono state ricordate le drammatiche condizioni della Sardegna e della Sicilia, e si è detto che vi sono quattro regioni in Italia che hanno bisogno di autonomia piena, affinché possano provvedere direttamente ai loro bisogni. È d’accordo con questa tesi; ma il problema consiste nello stabilire fino a qual punto concedere l’autonomia piena ed una potestà legislativa primaria; e se veramente occorre concederla a tutte le regioni.

Una più larga autonomia, con potestà legislativa primaria, bisognerebbe concederla a quattro regioni: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige, tanto più che esiste già uno statuto speciale per la Sicilia, per la Sardegna e per la Val d’Aosta, ed è in via di concessione per l’Alto Adige. Ma che fare per le altre regioni? Si dice che è necessario che ogni regione provveda a risolvere i suoi problemi e che le Assemblee regionali diventeranno magnifiche palestre politiche. Ma quali potestà si debbono concedere a queste altre regioni che si vogliono costituire? Si deve indubbiamente abolire la provincia come ente autarchico e conservarla come centro burocratico. Città come Milano, Napoli, Firenze, ecc., ben conoscono i loro bisogni, che sono quelli di grandi comuni, ed è giusto che non abbiano le mani legate dall’autorità centrale. Ma quali limiti si debbono porre a questa potestà?

Riconosce che si devono costituire, oltre le quattro accennate, secondo il criterio che la Sottocommissione riterrà opportuno, le regioni come enti e chiede che si conceda ad esse una facoltà legislativa delegata.

Si presentano, ad esempio, tre grandi problemi: ricostruzione, riforma agraria e nazionalizzazione di taluni complessi industriali, di taluni strumenti di produzione. Se si concede una potestà primaria a tutte le regioni d’Italia, si può giungere a concedere l’autonomia fuori del quadro nazionale. Esistono delle ingiustizie; esistono delle regioni più popolose, più progredite, più ricche: se si consenta alla regione di chiudersi in se stessa, si rischia di fare una politica antinazionale non facilmente sanabile; si rischia che la regione povera continui a vivere nella sua miseria, anche se non vedrà più sfruttate le sue risorse e non vedrà più il suo denaro emigrare, a vantaggio di determinati gruppi di speculatori. Si possono avere delle regioni più progredite ed avanzate che continuino a progredire, e quelle arretrate, che avrebbero più bisogno di avanzare, fermarsi se non addirittura regredire.

La riforma agraria deve essere attuata su una scala vasta, nel quadro, nazionale, specie nei riguardi del Mezzogiorno che è la parte più arretrata. La ricostruzione pone il problema di chi deve pagarne le spese. Se essa è lasciata all’arbitrio di ogni regione, si possono determinare disparità enormi. Onde la necessità di una potestà legislativa delegata. Bisogna eliminare gli impacci; bisogna costituire, per tutto il popolo italiano, la garanzia che ci sarà una marcia unica in senso progressivo, portando le regioni più povere e arretrate al livello di quelle più fornitele avanzate.

Con una potestà legislativa primaria a tutte le regioni, si rischia di creare un grande squilibrio nell’applicazione di determinate norme fondamentali. All’insieme delle regioni (a parte le su indicate) bisogna concedere una larga possibilità di iniziativa e non potestà legislativa.

Contrariamente a quello che altri ha sostenuto, ritiene ammissibile nella regione, in certi limiti, anche la potestà giurisdizionale, con una sezione di Corte di cassazione per regione. Può essere aderente alla diversità dei bisogni delle varie regioni. Di una sola cosa si preoccupa: se si crea l’ente regione, si deve riorganizzare lo Stato sulla base regionale, ma in una miniera differenziata, cioè dando la autonomia a quelle regioni che più ne hanno bisogno, e costituendo le altre in enti affinché suscitino le loro energie e risolvano i loro problemi senza impacci ed eccitino le autorità centrali a provvedere, ma con delle garanzie, in modo che non si crei eventualmente una diversità tale per cui il regionalismo possa poi portare su un terreno del tutto diverso.

In materia finanziaria, l’onorevole Einaudi non vuole le imposte indirette perché impacciano i traffici. Ma se si ammettono le imposte dirette, allo Stato che resta? In ogni caso, si badi a non costringere il contribuente a pagare due o tre volte.

È dunque perfettamente d’accordo sullo schema e sull’indirizzo generale, ma non sui limiti della potestà legislativa. Si deve fare in modo che le regioni più arretrate si mettano al medesimo livello delle regioni più avanzate e cioè che tutta la Nazione abbia lo stesso ritmo di marcia. Soltanto così avremo compiuto opera utile per il nostro Paese e per la nostra rinascita. Così solo avremo messo in atto l’unità economica e quindi spirituale e morale di tutti gli italiani intorno alla nuova bandiera.

EINAUDI in materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l’ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l’ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l’impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l’ente intermedio mediante il contributo dello Stato. È un sistema che è stato qualche volta anch’esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello Stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l’esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall’ente minore, il comune, sia che partano dall’ente maggiore, lo Stato. Quindi necessità di fatto che l’ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo Stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all’origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo Stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest’unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo Stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito, che siano meglio adatte l’uno alla natura unitaria dello Stato, l’altro alla natura piccola, locale del comune.

Presa questa via che è la sola possibile, quali limiti si possono mettere alla finanza regionale?

Innanzi tutto qualche limite di esclusione. Si devono escludere tutte quelle imposte che, se diventassero imposte regionali, costituirebbero un impedimento alla vita economica unitaria. Le riforme che si vogliono attuare devono tener conto delle necessità economiche del Paese. Per limitarci in un primo momento alle imposte sul consumo, si devono escludere dal campo di applicazione delle regioni tutte quelle imposte che sminuirebbero l’unità economica del Paese. Non si può dare alle singole regioni il diritto di stabilire un’imposta di fabbricazione sullo zucchero, senza avere per conseguenza che ogni regione diventerebbe un campo chiuso. Se una regione stabilisce un’imposta di fabbricazione di mille lire ed un’altra regione la stabilisce di ottocento, quella che l’ha stabilita di mille deve mettere un dazio contro l’altra regione che l’ha stabilita di ottocento, perché altrimenti rovinerebbe la propria industria. Tutto ciò che costituisce barriera, vincolo, ecc., al commercio fra una regione e un’altra è una materia imponibile che deve essere sottratta alla regione.

L’atto fondamentale dovrebbe quindi sancire un principio il quale contempli i casi singoli di esclusione nei quali la regione non può intervenire perché il suo intervento sarebbe dannoso all’economia del Paese.

Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni dànno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all’imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient’altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos’altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovraimposizione sui redditi che si formano nell’ambito della provincia. Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull’imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo Stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello Stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo Stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello Stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello Stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo Stato italiano od anche all’infuori dello Stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello Stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importali e goduti nello Stato. È lo Stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo Stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all’infuori dei loro confini e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o provincie. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l’origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle provincie, per impedire che comuni e provincie colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l’idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l’imposta sul valore locativo. Anche l’imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall’imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo Stato. Lo Stato deve abbracciare tutto. Lo Stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello Stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo Stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l’eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

Ricorda di avere redatto una relazione alla Consulta sul decreto sull’imposta di lusso, presentato e fatto approvare dal Ministro Scoccimarro, relazione favorevole in principio e contraria per le applicazioni, perché quel decreto, sebbene giusto in linea di principio, dal punto di vista della tecnica non era accettabile. In principio quel progetto si informava all’idea di creare una imposta che conglobasse insieme le due vecchie imposte di famiglia e sul valore locativo, tenendo conto anche di tutti gli altri coefficienti visibili del reddito e del consumo. In sostanza tutto il reddito prodotto è, parlando in generale, tassabile dallo Stato. Questo reddito, consumato e goduto, deve avere necessariamente delle manifestazioni locali ed in quanto sia goduto e consumato costituisce la materia imponibile dei comuni e dell’ente regione. Certamente, non si tratta di tassare un reddito nuovo: lo si vede soltanto in momenti diversi, i quali sono appropriati alla natura dell’ente che deve imporre l’imposta.

La distinzione avrà maggiore o minore successo a seconda dei metodi di applicazione, in quanto che, se si continuasse nella via attuale, qualunque sistema sarà inventato e legiferato produrrà sempre risultati dannosi. Finché si dimenticherà che Stato, provincie, regioni e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile e cioè il reddito, e si guarderà alle singole imposte invece che al loro insieme, i contribuenti saranno sovratassati e continueranno a reagire con la frode; e questa sarà tale solo di nome. È molto difficile sapere oggi quello che paga il contribuente italiano.

Un calcolo fatto dell’onere complessivo che il contribuente italiano dovrebbe sopportare per le tre imposte reali, quella complementare sul reddito e quella ordinaria sul patrimonio, tenendo conto delle sovrimposte locali, dà i seguenti risultati. Partendo dall’ipotesi che si tratti della famiglia media italiana, cioè composta dei genitori e due figli, il proprietario della terra dovrebbe pagare aliquote che vanno dal 49 al 96 per cento. Se si trattasse poi di un celibe, questo dovrebbe pagare come minimo il 42 per cento e come massimo il 108 per cento. Ora, non è possibile pensare ad aliquote di questo genere; il sistema è assurdo e non può essere applicato. Se si tratta di un proprietario di fabbricati, sempre ammogliato con due figli, dovrebbe pagare dal 53,3 al 73,7 per cento; se è un industriale, o commerciante che abbia un’azienda individuale, l’aliquota andrebbe dal 45,6 al 71,9; se è una società, l’aliquota andrebbe dal 44,1 al 71,3. Un professionista che vive del suo lavoro pagherebbe il 15,7 per i redditi minimi e il 63,1 per i redditi massimi.

A questo riguardo oggi non si deve pensare che esistano redditi molto elevati, specialmente per talune categorie; per esempio un professore universitario che aveva nel 1914 un reddito dii 10.000 lire corrispondenti almeno ad 1 milione di lire attuali, e paga circa 1’8 per cento, ha oggi un reddito di 200 mila lire e dovrebbe pagarne per imposte almeno il 15 per cento.

Quindi, tutte le riforme che si possono escogitare saranno inutili se non si troverà un modo per attribuire una parte al comune e alla regione, ma sempre in maniera che non si eccedano certi limiti nel complesso della tassazione. Notisi che le percentuali dette sopra si riferiscono solo alle imposte dirette. Accanto a queste vi sono le imposte di successione, sugli affari e sui consumi.

Ammesso che le imposte dirette nel sistema fiscale delle provincie e dei comuni diano la percentuale maggiore, poiché l’inverso accade per lo Stato, è chiaro che a quelle aliquote occorrerebbe aggiungere almeno altrettanto; sicché il contribuente, per compiere il proprio dovere, dovrebbe soccombere.

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e provincie dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle provincie la tendenza ad ottenere l’autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell’ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L’amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c’è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l’eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l’autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia. Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo Stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le provincie che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le provincie più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo Stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la Confederazione interviene a favore dei singoli Cantoni e soprattutto a favore dei Cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i Cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l’industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un Cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla Confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo Stato, dalla provincia o dalla regione all’ente minore.

In varî modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell’imponibile lo Stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l’avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere.

Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell’economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l’esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all’ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l’interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti Stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell’imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un’attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo Stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l’Ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

Passando ad un punto più generale, osserva che l’onorevole Piccioni, affermando giustamente che è preferibile la regione alla provincia, ha dato di questa sua affermazione una spiegazione dicendo che la provincia è una creazione artificiosa, mentre la regione è una creazione naturale. Pur consentendo nella preferenza, non può condividerne la spiegazione. L’evoluzione storica del Piemonte certamente non la giustifica. Nelle Langhe, una propagine collinosa del Monferrato, i vecchi contadini, quando vanno a Cuneo dicono che vanno in Piemonte, perché nella loro mente il paese in cui vivono non è Piemonte. E in realtà il Piemonte è una creazione storica recente, nata non prima ma dopo le provincie. Prima della Rivoluzione francese, la denominazione. «Piemonte» era ristretta al piccolo territorio della regione pedemontana. La Val d’Aosta, il Monferrato, le Langhe non erano Piemonte. Il Piemonte è una creazione di Napoleone I che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono «divisioni militari» e poi «provincie». Le vecchie provincie, in parte, diventarono circondari; poi i circondari furono aboliti. Quindi storicamente si va dai piccoli circondari alle quattro divisioni, diventate provincie, e la regione è il punto di arrivo. Appunto per questo la regione può essere una creazione sana; se fosse un punto, di partenza, sarebbe una creazione artificiale.

Uno scrittore francese ha affermato che molte istituzioni statali sono al di sopra ed al di là della natura dell’uomo; comunque è certo che vi è un contrasto tra i moderni ordinamenti territoriali e la capacità dell’uomo a dominarli. È quindi impossibile che un amministratore domini tutta la materia di una regione. Il Piemonte, ad esempio, ha tre milioni e mezzo di abitanti, e il futuro Presidente regionale non potrà conoscere intimamente tutte le esigenze degli abitanti. In molti campi, che si possono chiamare economici e che sono quelli spiritualmente meno interessanti in quanto si tratta di tecnica (strade, ponti, costruzioni in genere) la regione potrà essere uno strumento adatto. Ma vi sono altri campi dell’attività politico-amministrativa in cui è indispensabile il contatto diretto dell’amministratore con gli amministrati; è necessario che l’amministratore si faccia conoscere dai suoi amministrati e sappia apprezzare le esigenze migliori, spirituali dell’uomo. Quindi si può creare la regione, ma non si deve eccedere nel fissarne i compiti. Alcune funzioni affidate ad essa provocherebbero gli stessi inconvenienti cui si va incontro quando sono attribuite allo Stato. Richiama a questo proposito il problema della scuola elementare in cui è evidente lo stretto legame fra genitori, alunni e insegnanti. Molti comuni sono troppo piccoli per poter far fronte alle esigenze dell’insegnamento; possono far fronte solo alle prime due classi elementari. Le esigenze odierne richieggono che, oltre alla terza e alla quarta, si dia grande sviluppo alle scuole di avviamento e scuole tecniche. Occorre, quindi, ricercare un quid medium, un consorzio tra comuni o, magari, il «collegio» (meglio che la «comunità»), quella circoscrizione che a un dipresso, è la tradizionale del collegio uninominale, in cui l’eletto conosceva i propri elettori e riusciva a farsi conoscere. Il «collegio» dovrebbe comprendere non più di 80-100.000 abitanti; a capo starà la cittadina od il borgo col suo mercato centrale in cui si riuniscono gli abitanti una volta la settimana; il Pretore, l’Ufficio del Registro, ecc. Questa unità sarà la più adatta per far fronte a quel decongestionamento delle grandi città che è un’esigenza fondamentale della vita moderna.

Questa circoscrizione intermedia fra la regione e il comune, che non è la provincia, non dovrà essere obbligatoria, ma dovrà essere incoraggiata da favori legislativi; si chiamerà collegio, o consorzio o distretto e dovrà fronteggiare le spese che oltrepassano le forze del comune e che da un punto di vista non materiale, superano le forze dell’uomo che governa la regione.

BULLONI si dichiara favorevole alla riforma della struttura dello Stato attraverso l’istituzione dell’ente regione come organo di decentramento politico, con potestà normativa nelle materie riservatele dalla Carta costituzionale, e regolamentare per l’attuazione delle leggi dello Stato; potestà garantibili in sede giurisdizionale. Tra le varie ragioni che raccomandano tale istituzione occorre tener presente la necessità di resistere non solo allo strapotere dei cento legislatori e dei cento burocrati, ma anche allo strapotere economico delle cento famiglie, se tante ve ne sono in Italia, che, attraverso gli organismi centrali, sopraffanno la volontà popolare.

Passando a trattare del problema finanziario, osserva che l’autonomia politica ed amministrativa reclama necessariamente l’autonomia finanziaria: la regione deve avere un bilancio proprio che non deve formare oggetto di un capitolo speciale del bilancio dello Stato. Saranno gli esperti a dar pratica attuazione a questa autonomia, ma qui si deve affermare il principio della autonomia finanziaria della regione. La Costituzione potrà rimandare per questa parte ad una legge costituzionale finanziaria che sia in armonia con la riforma tributaria generale del Paese.

L’amministrazione della giustizia deve essere sottratta all’influenza regionale; ma ciò non impedisce che si possa tornare alle Corti di cassazione regionali.

Anche la polizia deve essere sottratta alle influenze locali, per le necessità del reclutamento e dell’impiego e quindi deve appartenere allo Stato. Alla regione potranno essere affidate polizie speciali che abbiano stretta attinenza alle materie amministrate dalla regione: la polizia stradale, forestale, portuale, ecc. Si tratterà di vedere se, per economia, queste varie polizie debbano avere una scuola centrale da cui escano gli allievi per essere distribuiti nelle varie regioni.

In ogni regione ci potrà essere un prefetto di polizia, il quale obbedirà alle leggi fondamentali dello Stato e alle particolari leggi della regione.

La provincia dovrà rimanere come ente autarchico, e deve anzi accrescersi delle materie che la regione affiderà alla sua competenza. Per la modestia delle competenze attuali, la provincia come ente locale, nella sua attività amministrativa è poco sentita; ma non si deve dimenticare che le provincie hanno una tradizione locale, che, come tutte le tradizioni, deve essere salvaguardata; hanno generalmente una buona burocrazia e un patrimonio gelosamente sorvegliato e controllato dagli abitanti (sanatori, manicomi, ospedali e altri patrimoni immobiliari cospicui).

Si deve certo favorire ogni manifestazione e ogni attività che chiami il popolo all’esercizio della vita pubblica; ma per soddisfare a questa, che è una necessità dell’ordine democratico, non è il caso di mantenere in vita il Consiglio provinciale. Si moltiplicherebbero senza buona ragione questi organi. Istituita la regione, la cui Assemblea rappresenterà una sicura palestra per la preparazione degli uomini alla vita politica; mantenuti i consigli comunali, le cui materie richiamano da vicino la partecipazione dei componenti alla discussione dei problemi della vita amministrativa del comune, sarebbe eccessivo il mantenimento dei Consigli provinciali.

I Consigli comunali dovranno nominare una Giunta o Deputazione provinciale, la quale amministrerà la provincia; la Giunta o Deputazione provinciale nominerà un suo presidente, che sostituirà il prefetto nel compito specifico della coordinazione di tutti i servizi che interessano la vita amministrativa della provincia e nella esecuzione del mandato amministrativo per le materie specificamente riservate all’amministrazione provinciale.

La scuola elementare dovrà essere affidata all’organismo amministrativo più naturale, più vicino all’ambiente famigliare, che conosce le necessità di indirizzo educativo, professionale, sociale dei figli, cioè al comune. Sussistono difficoltà derivanti dalla insufficienza di alcuni comuni a provvedere ai bisogni della scuola; ma un saggio ordinamento scolastico potrà riparare a questa insufficienza.

FABBRI osserva che la Sottocommissione, come conclusione dei suoi lavori, dovrà riassumere in pochi principî basilari i termini degli articoli della Costituzione, rimanendone i presupposti nel pensiero dei commissari a giustificazione di quegli articoli. Vale a dire che nella Costituzione non potrà trovare posto quasi nulla di quello che è stato detto qui.

La questione, fondamentale, a suo avviso, è quella della istituzione dell’ente regione come ente autarchico, dotato di facoltà normative. Contemporaneamente si tratta di stabilire se deve essere soppressa la provincia, quale ente autarchico dotato di autonomia.

Non concepisce la soppressione della provincia come eliminazione della maggior parte dei servizi che oggi le sono attribuiti e che potranno diventare notevolmente maggiori domani, quando una somma di servizi economici e amministrativi dovranno localmente trovare la loro esplicazione e si accentreranno in determinati servizi locali che potranno avere anche per sede quelli che sono oggi i capoluoghi di provincia. Saranno servizi di carattere amministrativo e di carattere economico, i quali si esplicheranno nelle provincie dagli impiegati regionali; ma non sarà più l’autarchia e l’autonomia delle provincie, né come patrimonio, né come facoltà normativa, ecc., perché altrimenti, col proposito di decentrare e di innovare, non si farebbe che aggiungere un ente a quelli che già oggi esistono.

Ritiene assurda la pretesa di sottrarre la regione a qualunque ingerenza da parte dello Stato. Pensa che si debba avere una dotazione specifica di pertinenza della regione; e non avrebbe, ad esempio, alcuna difficoltà a stabilire fin da ora che la totalità delle tre imposte dirette fondamentali: terreni, fabbricati, ricchezza mobile, fosse interamente devoluta ai comuni e alla regione, salvo a stabilire la ripartizione tra i servizi comunali e i servizi della regione. Ma è ben lontano dal ritenere che vi possa essere sovranità o potestà legislativa della regione in ordine a queste imposte: l’aliquota massima e minima, con una leggera oscillazione fra minimo e massimo, deve essere stabilita dalla legge dello Stato, perché una regione potrebbe trovare conveniente un’aliquota più favorevole, per esempio, di ricchezza mobile, per attirare l’impianto di nuove industrie nel suo territorio, per fare particolari facilitazioni a impianti commerciali, ecc.; ma fondamentalmente il regime tributario deve essere unitario; e poiché non v’è che il reddito che si possa colpire, non possono e non debbono appartenere alla facoltà normativa della regione, entro i limiti della legge generale dello Stato, se non i redditi insottraibili al concetto territoriale.

Un altro concetto fondamentale che, a suo avviso, dovrebbe essere sancito nella Carta Costituzionale è che soltanto per legge si possano determinare le regioni, i loro confini, i capoluoghi. Ciò non dovrebbe significare che le regioni vengano poi sottratte ad ogni forma di controllo e di aderenza alla politica generali dello Stato. Così come vi è ora una Direzione generale della finanza locale, potrà esservi una Direzione generale della finanza regionale, alla quale dovrebbe fra l’altro essere attribuito il compito della integrazione del bilancio annuale dello Stato, con quella azione compensativa che, avendo il significato di solidarietà nazionale, è da tutti auspicata, ma che alcuni commissari vorrebbero realizzare attraverso stanze di compensazione fra regioni povere e regioni ricche. Dovrebbe, in altre parole, realizzarsi tale compensazione attraverso la distribuzione tra le varie regioni, tenendo presenti le necessità di quelle più povere, delle risorse del bilancio dello Stato.

Ritiene inoltre che nelle leggi istitutive delle singole regioni dovrebbero prevedersi opportune particolari disposizioni, in relazione alle caratteristiche politiche ed economiche di ciascuna regione. Così come per quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige) dovrebbero prevedersi autonomie particolarmente accentuate – e si augura che a queste regioni se ne aggiunga una quinta: la Venezia Giulia –, per una sesta regione, il Lazio, sarebbero opportuni speciali precetti legislativi, dato che buona parte delle spese di Roma sono sostenute dalla generalità dei cittadini.

Non vorrebbe però che si istituisse un ennesimo ministero, quello delle regioni, e approfitta dell’occasione per affermare l’opportunità di un altro principio statutario: quello che la creazione di nuovi Ministeri debba venire stabilita soltanto per legge, e ciò sopra tutto per evitare che si ripeta quanto è già avvenuto in Italia, vale a dire che si istituiscano nuovi Ministeri, non in considerazione di necessità amministrative, ma per facilitare la risoluzione delle crisi ministeriali e l’assegnazione proporzionale dei Ministeri ai vari partiti politici.

Ritiene che i Comuni debbano avere la maggiore autonomia; ma sottostare sempre al controllo di legittimità e, entro certi limiti, al controllo di merito; entrambi i controlli dovrebbero essere esplicati, in via preventiva, dalla regione.

L’istituzione della regione non dovrebbe, a suo avviso, avere la conseguenza di innovare profondamente in materia di giurisdizione ordinaria e amministrativa. Dovendosi sopprimere le provincie, non vi è più motivo per conservare le Giunte provinciali amministrative, ma la competenza di questa giurisdizione dovrebbe passare ad una Giunta regionale amministrativa, la quale potrebbe anche suddividersi in più sezioni – e non gli sembra che vi siano motivi di aprioristica opposizione a che tali sezioni possano avere competenza territoriale provinciale o pluri-provinciale – e dovrebbe essere comunque giudice di primo grado, sottoposta al sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato. Del pari dovranno essere mantenute, conformemente all’ordinamento politico, amministrativo, finanziario e sociale del nuovo Stato, le Intendenze di finanza, le Carriere di commercio, le Organizzazioni sindacali, ecc.

Critica a questo proposito la direttiva della Confederazione generale del lavoro di insistere per la stipulazione di contratti di lavoro a carattere nazionale, contratti che non di rado influiscono in senso negativo sul sorgere in determinate località di nuove iniziative industriali. Se si vuole realmente favorire lo sviluppo industriale, non bisogna pretendere che lo status dell’operaio sia uguale in tutte le parti d’Italia. Gli esponenti della Confederazione del lavoro sostengono che il livellamento lo fanno, così, dal basso verso l’alto; ma in tal modo non contribuiscono al progresso perché, quando l’operaio del meridione è meno disciplinato di quello del Nord, e tuttavia si pretende che la sua paga sia eguale, si ottiene il risultato di avere nuove industrie nell’Italia settentrionale e non nell’Italia meridionale.

PATRICOLO ha ascoltato con molto interesse l’esposizione dell’onorevole Einaudi, ma teme che si sia invertito l’ordine logico dello studio: si è cercato di stabilire i tributi che la regione potrà imporre, prima di aver studiato quali servigi essa dovrà rendere.

Né vedrebbe con preoccupazione il fatto che lo Stato dovesse rinunziare del tutto a determinate imposte le quali, anziché nelle sue casse, andrebbero in quelle della regione, perché l’autonomia regionale importa un decentramento amministrativo da cui deriva uno sgravio per il bilancio statale.

Quella che si deve fissare anzitutto è l’entità dell’autonomia ragionale, cioè i servigi che la regione dovrà rendere ai suoi cittadini, dopo di che si potrà parlare di tassazione e vedere se le imposte dovranno essere prelevate dal cittadino della regione, oppure se si dovrà trasferire alla regione parte delle imposte che vanno allo Stato.

PRESIDENTE constata che la discussione è stata abbastanza approfondita e che la sezione, che pensa verrà costituita per l’ulteriore esame del tema particolare della autonomia, avrà quindi a sua disposizione un materiale assai abbondante per le sue conclusioni.

Desidera ora esprimere il suo personale pensiero su alcune delle questioni che sono state sollevate.

È caratteristico che il tema posto sia quello dell’autonomia, e immediatamente si sia trasformato in quello della regione. E vero che alcuni dei commissari, e particolarmente l’onorevole Zuccarini, hanno cercato di ricondurre l’Assemblea al tema iniziale, ma a certe cose che vengono in modo naturale evidentemente non ci si può opporre: il problema dell’autonomia è oggi in Italia sentito essenzialmente come il problema della regione.

La questione fondamentale che si pone è se deve o non deve costituirsi la regione. Onde, le varie posizioni.

Pochi hanno sostenuto una delle tesi estreme secondo cui non è necessario procedere a questa trasformazione veramente sostanziale della struttura dello Stato, e che può esser sufficiente un semplice decentramento col quale si dia una determinata autonomia di funzioni agli enti autarchici attuali, comune e provincia.

Pochi pure hanno sostenuto l’altra tesi estrema tendente alla creazione di uno Stato confederale.

Il pensiero e l’opinione della grande maggioranza si sono volti al concetto della trasformazione della struttura amministrativa, inserendo in questa struttura il nuovo ente regione.

Visto che la grande maggioranza è favorevole alla creazione dell’ente regione, si pone la seconda questione, se debba essere regione obbligatoria o regione facoltativa, e personalmente ritiene che l’ente regione debba essere accettato nella struttura dello Stato italiano come una forma generale, e quindi obbligatoria. Non è pensabile una struttura che da una parte si presenti attraverso determinate caratteristiche e dall’altra attraverso caratteristiche del tutto diverse. Ad un’altra sottoquestione gli onorevoli Grieco e La Rocca hanno dato una risposta alla quale personalmente aderisce: stabilito che si debba avere una struttura uniforme a base regionale, è tuttavia evidente che debba sussistere una certa differenziazione fra le autonomie godute da talune e da altre regioni, ed in modo particolare da quei quattro territori ai quali già il nuovo Stato in formazione ha riconosciuto una esigenza particolare autonomistica, tanto che posseggono una caratteristica autonomia o che ne hanno una in via di regolamentazione.

La terza questione che è stata toccata e sulla quale la sezione dovrà formulare qualche conclusione è se la creazione dell’ente regione porti la soppressione dell’ente provincia, ed anche a questo proposito vi sono tesi favorevoli e contrarie. Personalmente pensa che, creandosi la regione, la provincia, come ente autarchico, debba scomparire e debba o possa restare, come parecchi colleghi hanno sostenuto con abbondanza di argomentazioni, solo come un centro particolare di uffici, cioè come un centro che rappresenti propaggini, diffuse nel territorio regionale, del centro dirigente e fornito di particolari potestà della regione stessa. Il progetto delineato dall’onorevole Bulloni a questo proposito, risolve la questione della coesistenza della provincia e della regione nel senso che la provincia continua a sussistere, ma non più col suo Consiglio provinciale, bensì con una Giunta provinciale, il cui Presidente dovrebbe assolvere a certe funzioni particolari, in sostituzione del prefetto che, per unanime aspirazione, dovrebbe scomparire. Comunque, il tema da affrontare e che la sezione dovrà risolvere è quello della coesistenza o meno della provincia e della regione.

Vi è poi il problema delle potestà e delle funzioni della regione, al quale proposito l’argomento generale per cui tutti si sono dichiarati favorevoli alla creazione dell’ente regione è la necessità della lotta efficace contro l’accentramento delle funzioni statali e di un’azione tendente ad un funzionamento di carattere decentrato dell’apparato della vita pubblica. Non dovrà essere dimenticata questa premessa generale quando si passerà a precisare in maniera definitiva le competenze e le funzioni della regione, perché l’accentramento si fa in generale avvertire più gravemente (anche gli esempi che sono stati portati suonano in questo senso) non nel momento della decisione di particolari provvedimenti legislativi, ma nel momento della loro applicazione. I siciliani, che da parecchi giorni attendono che un servizio automobilistico venga organizzato, non chiedono allo Stato di emanare un certo provvedimento legislativo, ma di tradurre in realtà concreta certe disposizioni che già esistono. Da questo punto di vista, si raggiungerebbe largamente lo scopo al quale si tende, cioè quello dello snellimento delle funzioni, della rapidità nell’esecuzione delle decisioni prese, quando si desse alla regione nel campo esecutivo, e cioè nella funzione amministrativa, più larghe possibilità.

Non sa se, dando alla regione grandi facoltà nel campo legislativo, si raggiungerebbe lo scopo di fare aderire i provvedimenti legislativi che vengono emanati alla situazione locale. Non gli sembra fondata l’opinione che una Assemblea legislativa nazionale non riesca ad avvertire esigenze di carattere locale: quando si tratta di esigenze di territori abbastanza vasti, anche una Assemblea nazionale, attraverso gli strumenti di accertamento, di controllo, di indagine e di inchiesta di cui può disporre lo Stato, riesce ad ottenere tutti gli elementi necessari per giungere ad una elaborazione legislativa soddisfacente.

Competenze della regione, in linea generale possono essere: quella legislativa, nelle sue varie sottospecie, quella regolamentare e quella esecutiva. Personalmente pensa che una competenza legislativa debba essere affidata alla regione, ma in un campo relativamente limitato. Da parte di tutti si è detto che deve esserle affidata la facoltà legislativa nelle materie attinenti alla vita particolare della regione. Quando si crea qualche materia che tocchi le esigenze e le necessità interne di una regione, senza colpire materia consimile o analoga di regioni confinanti, ricorrono alla mente la pesca, la caccia, ecc. Senonché un corso d’acqua può attraversare numerose regioni ed a seconda del modo in cui è regolamentato il diritto di pesca in un tratto del corso d’acqua si influisce sopra diritti analoghi di pesca in altri tratti di quel corso. Così avviene per la caccia con la trasmigrazione degli uccelli, onde delle leggi della Stato possono cercar d’impedire che certe cacciagioni vengano distrutte in talune zone del territorio. Non intende, facendo questi esempi, dire che su queste materie non dovrebbe concedersi una facoltà legislativa alle regioni, perché altrimenti non si capisce quale attività legislativa si potrebbe concedere: lo dice per mostrare che bisogna andare molto cauti in questa materia e fare gran conto delle avvertenze e degli inviti enunciati dall’onorevole Einaudi. È molto difficile stabilire dei limiti per i quali una attività legislativa di una regione non venga ad interferire o danneggiare l’attività corrispondente dell’altra regione. La proposta dell’onorevole Zuccarini di stabilire accordi fra regioni confinanti scivola sul terreno pericoloso del tipo federalistico mascherato dal quale personalmente desidera di restare lontano.

A proposito del problema dell’istruzione, pensa che l’istruzione elementare debba restare di competenza esclusiva dello Stato, perché essa rappresenta forse lo strumento maggiore col quale può essere costituita una coscienza unitaria di carattere nazionale nel Paese. Si aveva l’abitudine di parlare dell’esercito come di un crogiuolo in cui le popolazioni trovavano una loro unità: ciò era in parte vero, e lo era anche perché, almeno in certi momenti, nell’esercito si impartiva una istruzione elementare agli analfabeti che concorreva a questo scopo. D’altra parte, se l’istruzione primaria fosse lasciata agli organi autarchici locali, se ne avrebbe una distribuzione non eguale in tutto il territorio nazionale, come avviene in America dove l’istruzione è sviluppatissima o meno a seconda dell’importanza che si dà ad essa da parte di uno Stato in confronto di un altro.

Altro punto da considerare è quello della finanza regionale, e taluno ha detto che questo problema è bene trattarlo, ma non è necessario approfondirlo ora, perché occorre anzitutto procedere ad una riorganizzazione generale del sistema tributario dello Stato.

Crede, comunque, che si dovrà dare una indicazione del modo in cui dovrebbe essere attuata l’organizzazione tributaria generale dello Stato italiano. Così, se nella Costituzione, quando si parla della regione, non si dicesse già qualche cosa sui fondamenti che debbono regolare il bilancio della regione, si lascerebbe incompiuta quell’opera che alla Sottocommissione è stata affidata.

È favorevole alla formazione della camera di compensazione che è stata proposta. Malgrado i dubbi da taluno espressi in proposito, pensa che una camera di compensazione amministrata da un consiglio composto da un rappresentante per ogni regione, e presieduta da una persona nominata dal Parlamento nazionale, potrebbe concorrere ad accrescere la solidarietà fra le varie regioni.

Poi vi è la questione dei controlli. Si domanda: dovrà essere esercitato un controllo e in quale maniera l’attività della regione potrà essere controllata? Pensa che un controllo sopra l’attività della regione debba esistere, ma che debba essere un controllo che trovi la propria origine sulla base elettiva. Così come il controllo dei comuni è esercitato da una Giunta provinciale amministrativa – che deve essere trasformata e diventare di carattere elettivo – le regioni potrebbero essere controllate da una Giunta parlamentare nazionale, in modi che potranno essere poi stabiliti. Se poi si tiene presente – ciò di cui non si è ancora parlato in maniera esplicita – che la seconda Camera, se si giungerà a stabilirne l’esistenza, sarà una Camera essenzialmente a base regionale, questa sarà appunto indicata per creare nel proprio seno organismi di controllo della regione, e con ciò si stabilirà una connessione maggiore, più organica, fra il nuovo ente regione e gli organismi centrali dello Stato.

Sulla struttura interna della regione, cioè sugli organi dei quali essa deve essere costituita, si è detto che essa deve riprodurre, in genere, la struttura di tutti gli enti giuridici autarchici: un’assemblea rappresentativa, un organismo esecutivo e un Presidente. A questo proposito (lo dice perché nel primo progetto preparato dal Ministero dell’interno, per la riorganizzazione delle amministrazioni comunali e provinciali, il problema era stato risolto in maniera diversa) crede che si debbano avere un Presidente dell’Assemblea regionale e un Presidente della Giunta regionale, e non si debbano riunire le due cariche nella stessa persona.

Altro problema che si pone è quello del metodo di elezione dell’Assemblea. Si è accennato alla possibilità che non si ricorra ad elezioni di carattere diretto, ma ad un corpo elettorale diversamente congegnato. Egli crede che la base elettiva dell’Assemblea regionale debba essere quella del suffragio universale diretto, e che non si possa opporre che si farebbe così una ripetizione della elezione per il Parlamento: la stessa cosa allora si potrebbe dire per il consiglio comunale.

Coglie l’occasione per accennare al problema della differenziazione della seconda Camera nei confronti della prima: tale differenziazione, a suo avviso, dovrebbe essere data dal modo particolare in cui la seconda Camera sarà eletta: cioè a base di suffragio universale diretto per l’Assemblea parlamentare, e a base di suffragio universale indiretto per la seconda Camera. È stato fatto presente autorevolmente che è necessario che, non appena la Costituente si scioglierà, vi sia già la possibilità di procedere non soltanto alla formazione della prima Camera, ma anche a quella della seconda; perché il Capo definitivo dello Stato molto probabilmente sarà eletto dalle due Camere riunite. Pertanto, è evidente che, se non si potesse immediatamente passare alla formazione della seconda Camera, o bisognerebbe prorogare la elezione del Capo definitivo dello Stato o bisognerebbe tener sospesa anche la elezione della prima Camera; posizioni queste ambedue insostenibili. Ora, gli organismi appositi dello Stato attuale – che saranno ereditati dal nuovo Stato, perché rappresentano apparecchi tecnici – potrebbero frattanto incominciare a preparare le basi regionali necessarie per l’elezione della seconda Camera.

Ha rappresentate queste considerazioni, perché gli sono state fatte presenti, col desiderio implicito che egli ne facesse parte ai membri della Sottocommissione.

Ultimo punto, sul quale la sezione dovrà fornire alcune conclusioni articolate, è quello che si riferisce ai rapporti fra lo Stato e la regione: se debba esistere o no un organo di collegamento e, ove debba esistere, quale debba essere. Si è parlato di un Governatore; altri ha detto che il Presidente dell’Assemblea regionale debba, di diritto, divenire rappresentante del Governo nella regione. Personalmente propende per una soluzione, la quale eviti che nella regione sia presente un funzionario dello Stato e deleghi a qualche persona, che promani dalla stessa formazione della regione, le funzioni di collegamento fra Stato e regione.

Ricorda che in seduta plenaria di Commissione si è detto che il problema dell’autonomia deve essere risolto pregiudizialmente, anche per l’utilità dei lavori della prima e della terza Sottocommissione in alcuni dei loro momenti ed aspetti. Crede che sarebbe utile poter trasmettere senz’altro al Presidente della Commissione, affinché la comunichi alle altre due Sottocommissioni, almeno una conclusione iniziale, nella quale si affermi, per esempio, che la Sottocommissione è giunta a stabilire che l’ente regionale deve essere costituito. A questa prima determinazione altre potranno essere aggiunte, che sono forse necessarie, per dare i primi lineamenti, molto rudimentali, all’ente regione.

TOSATO propone il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione:

premesso che l’ordinamento costituzionale dello Stato dev’essere aderente alla struttura naturale della Nazione;

riconosciuto che l’unità nazionale italiana presenta una varietà insopprimibile di nuclei regionali diversi fra di loro per il costume, la tradizione, il dialetto, le condizioni topografiche, il clima, le risorse naturali, e che, quindi, le varie regioni dimostrano esigenze economiche, sociali e amministrative, almeno parzialmente, diverse;

considerata la necessità che l’attività pubblica sia adeguata e corrispondente alle diversità indicate;

ritenuto che a tal fine non basta lo sviluppo delle autarchie comunali ed, eventualmente, provinciali ma, al tempo stesso, occorre procedere al riconoscimento di tutte le regioni italiane come persone giuridiche pubbliche territoriali;

ritenuto anche che il riconoscimento dell’Ente regione rappresenta uno strumento particolarmente atto a promuovere l’educazione politica e il consolidamento delle libertà democratiche, l’equilibrio economico politico fra le diverse parti del territorio dello Stato e una radicale riorganizzazione della burocrazia;

demanda ad una apposita sezione della Sottocommissione la formulazione concreta di un ordinamento che, previa determinazione delle singole regioni, assicuri alle medesime il potere di provvedere, con la necessaria autosufficienza finanziaria, alla cura degli interessi prevalentemente regionali non solo in via amministrativa, ma anche in via legislativa, nei limiti della Costituzione e delle leggi statali intese alla tutela degli interessi generali e al coordinamento degli interessi interregionali».

LUSSU crede che tale ordine del giorno sia troppo vasto e troppo motivato.

MORTATI osserva che questa risoluzione dovrebbe mirare ad affermare alcuni principî emersi dalla discussione, per dare una direttiva al lavoro delle sezioni. Il problema base è quello della struttura generale dello Stato; ammessa la struttura decentrata, questa influirà su tutta la configurazione della nuova Costituzione. Occorre pertanto che la Sottocommissione stabilisca i punti direttivi basilari, ché altrimenti il lavoro preliminare sarebbe superfluo. Ritiene che quattro siano i punti principali del problema e cioè:

1°) affermazione dell’autonomia costituzionale delle regioni (costituzionale nel senso che dovrà essere garantita dalla Costituzione e che sia estesa alla materia legislativa);

2°) autonomia finanziaria dell’ente regione (che può essere formulata in via generale, salvo in un secondo periodo a concretarne i limiti);

3) ordinamento decentrato dell’ente regione (per evitare l’inconveniente, da molti paventato, che il nuovo ente non sia a sua volta fonte di accentramento);

4°) utilizzazione delle regioni al fine della istituzione di uno o più organi centrali a carattere perequativo (il lavoro della sezione competente dovrebbe essere rivolto a trovare i congegni atti a realizzare questa perequazione che è necessaria, data la diversa struttura economica e l’entità demografica varia delle singole regioni, per correggerne le deviazioni o le sperequazioni. Se non si ricorresse a questo correttivo, si potrebbe pregiudicare una delle finalità essenziali del nuovo ente).

Richiama l’attenzione della Sottocommissione su questi quattro punti e sulla opportunità di una deliberazione di massima allo scopo di vincolare le determinazioni e le specificazioni affidate alle sezioni.

LEONE GIOVANNI ritiene di ravvisare nella relazione testé fatta dal Presidente la constatazione dell’accordo raggiunto, in linea di massima, sulla istituzione della regione e sui poteri – sempre determinati in linea generale – del nuovo ente, e cioè potere legislativo e potere tributario. Comunque, occorre stabilire una identità di vedute su questi punti basilari; salvo a rinviare la discussione sui limiti dei poteri. Aggiunge che l’ordine del giorno Tosato non pone, secondo il suo punto di vista, alcun vincolo alla delimitazione di questi poteri, anzi lascia l’adito alle sezioni di stabilire un progetto concreto per la creazione dell’ente regione.

PERASSI concorda sulla necessità che la Sottocommissione precisi alcuni punti, tenendo presente che la questione per ora deve solo esaminarsi in sede pregiudiziale. Ritiene che i punti salienti emersi fin qui dalla discussione siano i seguenti:

1°) istituzione dell’ente regione. A questo proposito bisognerebbe precisare se la regione debba essere o meno istituita in tutto il territorio dello Stato. Si dichiara favorevole alla istituzione della regione in tutto il territorio, salvo poi a discutere l’altra questione, e cioè se tutte le regioni debbano avere necessariamente la stessa competenza; né è da escludersi la possibilità che certe regioni abbiano una competenza in certe materie diversa, più ampia di altre;

2°) determinazione della competenza della regione, prendendo posizione netta sulla questione, che è stata tanto discussa, se debba avere o no competenza legislativa. La conclusione dovrebbe precisarlo, indicando le competenze legislative nei diversi modi che si possono formulare, come già è stato varie volte accennato, ossia: a) competenza legislativa su certe materie da indicarsi nella Costituzione e sulle quali la Regione abbia una potestà legislativa primaria, col solo limite di principî generalissimi iscritti nella Costituzione, principî che limitano anche la legislazione dello Stato; b) competenza legislativa su materie sempre da determinarsi nella Costituzione, con tutte le conseguenze che ne derivano, e sulle quali le regioni abbiano la potestà di emanare norme giuridiche destinate a svolgersi nell’ambito di norme più generali indicate in leggi ordinarie dello Stato, allo scopo soprattutto di rendere possibile una legislazione regionale su queste materie che meglio tenga conto della varietà delle esigenze regionali. È questa la categoria forse destinata ad essere la più ricca di applicazioni pratiche;

3°) questione della organizzazione della regione; nel senso di stabilire se la regione debba avere organi suoi propri o invece organi in qualche maniera connessi con quelli dello Stato. Crede tutti siano d’accordo nell’affermare il principio che gli organi della regione debbano essere tutti di emanazione regionale, a carattere elettivo, e non di provenienza dello Stato.

Le altre questioni – la cui importanza nessuno mette in dubbio – dovrebbero essere studiate dalle sezioni cui il problema verrà rinviato. La stessa questione finanziaria – salvo a fare, se possibile, qualche osservazione di principio – è così notevole e complessa, che conviene lasciare ad una sezione di studiarla in maniera più particolareggiata. Così anche il problema se la Provincia, che è autarchica, debba restare o debba sopprimersi, non può risolversi in un senso o nell’altro in questo momento e conviene lasciarla allo studio di una sezione, perché tra l’altro si porrà questa domanda: la materia degli ordinamenti degli enti locali potrà inserirsi nella lista delle materie attribuita alla competenza legislativa della regione? Se, per ipotesi, si arrivasse a questa soluzione, sarebbe possibile che una regione, tenendo conto delle sue esigenze particolari, ammettesse nel suo ambito l’esistenza di comuni e di provincie e che un’altra, invece, usando della facoltà attribuitale dalla Costituzione, ritenesse che nel suo ambito non c’è posto per i comuni, o altri enti.

Quindi ritiene che non convenga pregiudicare questo punto con una decisione di massima; e così per altri problemi più particolareggiati. L’essenziale è che in questo momento, tenendo conto del modo come la questione è stata rinviata a questa Sottocommissione e delle ripercussioni che le decisioni di questa devono avere sull’attività delle altre Sottocommissioni e sezioni, occorrerebbe limitarsi a prendere posizione precisa sui punti fondamentalissimi che ha indicato.

FABBRI chiede se il proponente avrebbe difficoltà a sostituire al termine: «potestà legislativa», nell’ambito delle leggi dello Stato: «potestà normativa», perché il concetto di una potestà normativa che si esplica nel solo ambito delle leggi emanate da un altro organo può determinare un equivoco. Egli è disposto ad andare oltre una semplice potestà regolamentare, ma non arriverebbe a chiamare «legislativa» la competenza della regione; e perciò parlerebbe di competenza «normativa» nei limiti delle leggi dello Stato.

LUSSU ha l’impressione si sia compiuto un lavoro molto proficuo, ma che da questo momento si stia prendendo un’altra via col rischio di perdere del tempo.

Non trova quest’ordine del giorno, pur concordando a grandi linee su di esso, rispondente né al tono né alle conclusioni della discussione. Gli sembra troppo lungo e contenente anche concetti che non sono stati esposti.

La discussione è stata esauriente su quasi tutti i punti; ma non si può dire che tutti i punti siano stati chiariti in modo tale per cui si possa già arrivare ad una conclusione. Per esempio, sulla potestà legislativa della regione, sulla conservazione o meno della provincia – per citare solo due problemi – vi sarebbe ancor molto da dire e si potrebbe ricominciare la discussione. Solo due punti sono stati chiariti in modo tale per cui si può dire che è acquisito il favore generale della grande maggioranza:

1°) costituzione dell’ente regione, esclusi i criteri federale e confederale nonché quello del puro e semplice decentramento amministrativo;

2°) particolare organizzazione di quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige).

Crede quindi che la Sottocommissione dovrebbe approvare con un voto questi due punti, deferendo ad una più ristretta Commissione di studio l’incarico di riferire sui problemi di dettaglio.

PICCIONI rileva che, oltre alla soluzione proposta, vi è anche quella di non prendere alcuna deliberazione, rinviando la prosecuzione della discussione ad una sezione della Sottocommissione; soluzione quest’ultima che tuttavia non corrisponde alla economia e alla praticità dei lavori.

Ritiene pertanto opportuno fissare qualche punto su cui il consenso della Sottocommissione si è già fatto palese. Il primo di tali punti coincide con quello indicato dall’onorevole Lussu (istituzione dell’ente regione); punti successivi e necessari potrebbero riguardare le caratteristiche principali della regione: autarchia, autonomia, rappresentanza della popolazione, anche attraverso il suffragio universale. Si potrebbe inoltre stabilire se la regione debba avere una sua autosufficienza finanziaria.

Non è d’accordo, sul secondo dei due punti fissati dall’onorevole Lussu, in quanto non ritiene opportuna una discriminazione preventiva tra le regioni, ammettendo tuttavia che le quattro regioni nominate dall’onorevole Lussu hanno particolari esigenze, delle quali si potrà tenere conto dopo che sia stata stabilita la disciplina generale del nuovo ente regione.

Quanto agli altri punti dibattuti, come la competenza legislativa, regolamentare, ecc., essi potranno venire deferiti alle sezioni.

In ogni modo, occorre che la Sottocommissione si pronunci, accettando o l’ordine del giorno Tosato, o le conclusioni dell’onorevole Lussu, o conclusioni diverse.

PRESIDENTE crede che occorra decidere se la discussione deve concludersi con un ordine del giorno, sul quale sarà possibile mettersi d’accordo domani, oppure se la discussione deve sospendersi a questo punto con la nomina delle sezioni.

Mette ai voti la proposta che la discussione deve concludersi con una risoluzione.

(È approvata).

Rinvia a domani l’esame dell’ordine del giorno Tosato e degli altri che eventualmente saranno presentati.

La seduta termina alle 21.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.

MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

4.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Nobile – Ambrosini, Relatore – Mortati – Conti – Finocchiaro Aprile – Presidente – Fuschini – Bordon – Targetti – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

NOBILE ritiene che alle quattro soluzioni del problema che si sta dibattendo, indicate dall’onorevole Bozzi, debba aggiungersene una quinta, che si trova all’estremo opposto di quella proposta dagli onorevoli Finocchiaro Aprile e Lussu.

L’onorevole Grieco ha detto che la tendenza centrifuga resa manifesta dall’insistente richiesta di autonomia è nata da un generale scoraggiamento. Egli dice di più; essa è nata dalla sconfitta e dal caos morale, intellettuale e materiale nel quale il Paese è stato precipitato. Il federalismo, il regionalismo, l’autonomismo, rispondono essi a necessità permanenti di vita del popolo italiano, o non rappresentano piuttosto un movimento di reazione a fenomeni transitori? Dubita che il movimento d’indipendenza, di cui è campione l’onorevole Finocchiaro Aprile, sarebbe esistito, o, perlomeno, avrebbe assunto l’importanza che ha oggi, se non si fosse perduta la guerra. Altrettanto si dica delle altre manifestazioni regionalistiche. L’istituzione dell’Ente regione viene considerata come una panacea per tutti i mali di cui soffre o ha sofferto il popolo italiano. Ma questo sarebbe comprensibile se la catastrofe in cui siamo caduti fosse una conseguenza della struttura unitaria e centralizzata dello Stato, o se questa struttura ne fosse stata almeno una delle cause; mentre è difficile sostenere che il fascismo, che fu uno dei maggiori responsabili della seconda guerra mondiale, non sarebbe sorto in una Italia avente una struttura statale federalistica.

Questi nuovi «ismi» sono, a suo parere, un malanno derivato dalla guerra e da una guerra perduta, senza la quale non sarebbe mai sorta l’idea – propugnata con tanto fervore e con tanta urgenza – di spezzettare l’Italia in regioni più o meno autonome. Si poteva sentire il bisogno di semplificale o decentrare l’amministrazione statale (sono vecchi problemi di cui si è sempre parlato); ma nessuno avrebbe pensato sul serio a realizzare una struttura regionale, il cui inevitabile risultato sarebbe quello di accentuare i sentimenti regionalistici già oggi esistenti.

Si rimprovera agli italiani di essere eccessivamente individualisti e campanilisti: orbene, il regionalismo è un sentimento egoistico che si estende ad un orizzonte più ampio, ma è pur sempre della medesima natura gretta e meschina.

Vi sono divisioni di animi che la guerra ha accentuato e forse la difficoltà nelle comunicazioni di idee, cose e persone, vi ha contribuito (vi sono stati periodi di tempo in cui in fatto di comunicazioni stradali, postali, telegrafiche eravamo tornati indietro di un secolo): queste privazioni, queste difficoltà, sembra che ci abbiano fatto tornare indietro anche con la vita e con i sentimenti. Il Nord inveisce contro il Sud, le Isole contro il Continente. Questo esacerbarsi di sentimenti regionalisti è certamente un male, ma, abbandonato a se stesso, sarebbe un male passeggero, mentre ora, senza volerlo, ci si accinge a cristallizzarlo in forme che non potranno più mutarsi.

Se, facendo appello all’unione di tutti gli italiani, si avviasse il Paese alla rinascita, fra qualche tempo ci troveremmo guariti di quel male, così come nel 1921-1922 eravamo già guariti dei mali di quel dopoguerra. E invece ci si propone di congegnare la Carta fondamentale dello Stato italiano in maniera da renderlo permanente.

Sa che alla maggior parte dei colleghi queste idee faranno una impressione sfavorevole, e soprattutto si duole di avere su questo  punto un pensiero così completamente opposto a quello dell’onorevole Zuccarini; ma non può tacere, anche se lo si dovesse tacciare di essere un ostinato conservatore, per quanto sarebbe erroneo vedere le sue idee sotto questa luce.

Egli è profondamente convinto della necessità di unificare tutto il mondo, se si vuol salvare l’umanità dall’immane catastrofe che è la guerra moderna.

Dividendo l’Italia in regioni, sia pure coordinate fra loro da uno Stato centrale, si marcerebbe a ritroso. La divisione del Paese in regioni autonome, che, sia pure solo in parte, si diano da se stesse leggi e si amministrino, è un regresso, non già un progresso.

Giudica assai debole l’argomento dell’onorevole Lussu, secondo cui la Sardegna è distante dal continente più che non Malta da Londra. Vero che le comunicazioni con la Sardegna sono oggi difficili e insufficienti, ed erano inadeguate ai bisogni dell’Isola anche prima della guerra; ma questo è un fenomeno transitorio. L’abolizione delle distanze nel mondo moderno costituisce la grande forza unificatrice delle comunità umane, e non è possibile ammettere che un’isola, la quale, con i mezzi di trasporto attuali, dista un’ora o forse anche mezz’ora soltanto dal continente, possa avere una vita quasi indipendente.

Circa gli Stati Uniti d’America, che sono stati citati più volte, osserva che quell’unione è dovuta al fatto che quando di quegli Stati si formarono i primi nuclei, già esisteva la trazione a vapore, la quale costituì la forza unificatrice. Se Giacomo Watt e Stephenson fossero vissuti mezzo secolo più tardi, anziché una confederazione in cui la autorità del governo centrale federale di continuo va aumentando, si sarebbe avuta un’America spezzettata in tanti stati, con lingua e costumi diversi, l’uno contro l’altro armati come in Europa.

Nel secolo in cui la distanza fra Paese e Paese è praticamente annullata, ed in cui, per questo stesso fatto, l’economia di un Paese è intimamente collegata a quella dell’altro, non si può pensare a dividere l’Italia in tante regioni autarchiche, fra le quali inevitabilmente sorgerebbero antagonismi: è profondamente erroneo pensare che da una divisione di forze si possa attendere un maggiore sviluppo economico delle singole regioni. L’unità economica del mondo, sia pure nella forma più caotica, è già un fatto reale, e la sola meta che gli uomini dovrebbero proporsi è quella di comporla in una forma organizzata. Ed invece in Italia si vorrebbero ora creare tante economie, separate o quasi.

Con l’istituzione di regimi autonomi si corre il rischio di elevare delle barriere, sia pure ideali, fra italiani, quando si dovrebbe invece unirli sempre più fra di loro. In una dieta regionale siciliana, sarda o piemontese si potrebbe perfino vedere elevata a lingua ufficiale il dialetto locale. Non sarebbe certo questo un progresso, e sarebbe, se mai da desiderare che tutti i popoli del mondo parlassero, se possibile, una medesima lingua, affinché potessero meglio intendersi ed affrettarsi fra loro, realizzando così l’ideale cristiano.

L’Italia oggi è unita e questa unità è stata penosamente conquistata con lo sforzò di generazioni, ed ora si vorrebbe disfare quel lavoro. Si lamenta che sia un Paese povero, e si insiste nel dire che questa povertà è la causa prima di molti mali, e come rimedio si propone, non già una più stretta unione, una più stretta collaborazione, come sarebbe logico, ma una divisione.

Con l’istituzione dell’ente regione si vorrebbe da un lato attuare un migliore sviluppo economico delle varie regioni, e dall’altra lato eliminare dalla vita politica l’oligarchia costituita da centri legislativi e burocratici che la governano. Ma il dividere l’Italia in regioni autonome non avrà altro risultato che quello di moltiplicare le oligarchie e con esse il danno che producono.

Certamente nessuno vuole perpetuare lo stato di cose attuale. L’amministrazione statale è divenuta una macchina pesante, mostruosamente complicata, e per giunta corrotta, ciò che in gran parte è anche conseguenza della guerra: ma allora si tratta di semplificare il meccanismo statale, di renderlo efficiente, e di eliminarne la corruzione; e questo non si ottiene complicandolo ancora più, come inevitabilmente avverrebbe se si istituissero dei governi regionali.

È noto, ad esempio, che la S.E.P.R.A.L. è un ente generatore di corruzione. Ebbene; se non si è capaci di purificarlo e di farlo veramente servire agli interessi della collettività anziché a quelli di singole persone, lo si sopprima. Certo non si rimedierebbe a questo danno, creando una S.E.P.R.A.L. in ogni regione, moltiplicando cioè per otto o per dieci il numero di questi deleteri organismi.

Così, pure, per i Provveditorati dei lavori pubblici. Qualcuno ha detto che la loro istituzione non costituisce un effettivo decentramento, ma piuttosto una complicazione, perché le vie che una proposta deve percorrere prima di essere approvata sono aumentate e non già diminuite. Forse questo non è esatto: vi sono oggi molto meno complicazioni di una volta. Comunque, la ragione per cui i Provveditorati non funzionano bene è un’altra: è la mancanza di personale capace, competente, ben pagato, ecc.

Il problema, cioè, è solo quello di riformare l’amministrazione statale, per renderla più semplice e più efficace, per eliminare gli eccessivi ed inefficaci controlli.

Può comprendere l’autonomia dei comuni, purché non sia eccessiva. È bene concedere la autonomia alle grandi città; ma non ha senso l’autonomia per tanti comuni del Mezzogiorno che, per l’inerzia, la passività e la scarsa educazione, talvolta, degli abitanti alla vita pubblica, non sanno amministrarsi. Se un comune è privo di fognatura, di acqua, di cimitero, non è con l’autonomia che si provvederà a questi bisogni fondamentali, non fornendo ad essi i mezzi e curando che questi mezzi siano bene spesi.

Si è addotto l’esempio dei piani regolatori che bisognerebbe lasciar decidere ed eseguire ad ogni singola città. Ma il Governo centrale dovrà pur dettare talune norme che salvaguardino, ad esempio, la salute pubblica, o che concernano la conservazione di monumenti nazionali. Se il problema edilizio di un paese, o la costruzione di una strada comunale, o di una scuola, o di un cimitero si possono riguardare come problemi locali, la cui risoluzione può esser lasciata all’ente locale, i problemi di una regione non sono mai di interesse soltanto regionale, ma investono anche l’interesse nazionale. La bonifica delle paludi pontine è un problema che interessa non soltanto il Lazio, ma tutta Italia. La trasformazione della costa salernitana, che vi richiami turisti dalle varie parti del mondo, è problema che interessa non solo il Mezzogiorno, ma tutta Italia. Le saline e le miniere della Sardegna interessano non solo quelle regioni ma tutto il Paese. Si è detto che le scuole elementari dovrebbero rientrare nella competenza delle singole regioni; e invece queste scuole, se fosse possibile, dovrebbero avere una regolamentazione non solo nazionale, ma addirittura mondiale.

È quindi recisamente contrario alla divisione dell’Italia in tanti enti autonomi regionali e crede che il problema da porsi e da risolversi sia solo quello di semplificare e decentrare l’amministrazione statale. È stato ricordato che quando il Regno delle due Sicilie si riunì al resto dell’Italia, esso versò nelle casse del nuovo Stato una riserva aurea di 450 milioni di lire-oro, che servì per compiere lavori pubblici nel nord. Ma non si ripara a questa ingiustizia abbandonando il Mezzogiorno perché faccia da solo. È un non senso volere che l’economia regionale si sostituisca a quella nazionale. E quando si dice che le regioni più ricche dovrebbero dare a quelle più povere, non si pensa che questo si può fare senza difficoltà nello stato unitario centralizzato, e lo si fa, mentre in uno stato federalistico darebbe luogo a difficoltà, attriti, antagonismi.

Inevitabile conseguenza delle economie regionali sarebbe questa, che aumenterebbe la distanza fra le regioni più progredite e quelle meno progredite; una Lombardia ricca, prosperosa, più avanzata anche nella vita sociale e culturale, si lascerebbe dietro, a distanza sempre più crescente, una Calabria o una Lucania, povera ed arretrata.

Per queste ragioni la sua avversione alla istituzione delle regioni, che viene presentata con colori tanto attraenti, è invincibile. Più saggiamente si agirebbe se venisse potenziato l’ente provincia, accrescendone le attribuzioni e rendendolo autonomo, per quanto è possibile. Che se poi si volesse dare una voce autorevole agli interessi peculiari di ogni regione, questo si potrebbe conseguire senza pericolose improvvisazioni, creando delle assemblee regionali, di carattere tecnico, economico, con funzione consultiva obbligatoria per il Governo centrale, e anche con facoltà di prendere l’iniziativa per leggi da proporre alla Assemblea legislativa statale. Esorta quindi i colleghi a meditare bene prima di decidere, perché l’istituzione della regione è un passo grave del quale un giorno potrebbe venire il pentimento. Non vi è alcun bisogno di introdurre nella Costituzione dell’Italia democratica novità che possono essere pericolose. La ricostruzione del Paese si fa unendo tutti i cittadini più strettamente che mai gli uni agli altri e non già approfondendo le divisioni prodotte dalla guerra, che anche da questo punto di vista ha riportato l’Italia ad un secolo addietro.

AMBROSINI, Relatore, ricorda di avere prospettato i problemi nel modo più semplice e più obiettivo possibile. L’onorevole Lussu, pur riconoscendo l’obiettività della esposizione, ha creduto rilevare in questa una propensione, del resto naturale, verso la creazione di un Ente regionale, dotato di personalità giuridica e di diritti propri, sanciti nella Carta costituzionale e garantibili in sede giurisdizionale. In realtà la Sottocommissione sembra orientarsi in questo senso e, salvo le posizioni estreme, pare sia desiderato da tutti un termine, il quale porti all’avvicinamento; e forse vi si arriverà. Peraltro, è fuori dubbio che tutti tendono a potenziare le energie nazionali, a valorizzare quanto è indispensabile per la ricostruzione, la quale non può essere che nazionale e basata, come diceva l’onorevole Grieco, sulla solidarietà nazionale. Si tratta soltanto della scelta dei mezzi più adeguati per raggiungere questo scopo.

L’onorevole Mortati sostanzialmente disse la stessa cosa dell’onorevole Grieco, perché impostò così il suo problema: occorre anzitutto stabilire che cosa vogliamo. Quando sia stabilito quello che vogliamo, si sceglieranno i mezzi più adeguati per giungervi. E questo è necessario, perché, se per avventura questi mezzi non fossero o non risultassero rispondenti allo scopo, si compirebbe fatica inutile e forse anche dannosa.

Ora, nei problemi della riforma, della struttura o dell’amministrazione dello Stato, bisogna evitare il danno dell’accentramento, ricercando mezzi più adeguati, nel campo economico e nel campo politico, per eccitare e sospingere le energie locali, che attualmente sono compresse, mortificate. Gli inconvenienti esistevano già prima del fascismo, a causa dell’ingerenza politica dei Deputati nelle pubbliche amministrazioni e sui prefetti, di questi sugli enti locali e del governo centrale su tutti.

Quindi il problema va riguardato dal punto di vista economico-sociale ed anche da quello politico. Sì debbono tener di mira questi due fini e vedere se la soluzione regionale può portare, se non alla scomparsa dei mali, almeno alla loro attenuazione, ed alla restituzione alle amministrazioni locali, da un lato, ed ai deputati eletti all’Assemblea Nazionale, dall’altro, della vera libertà di compiere il proprio dovere, senza interferenze di natura politica ed amministrativa, che portano ad una servitù ed a una tirannia reciproca.

Il Relatore dice che si è sforzato di non lasciarsi guidare da pregiudiziali teoriche, in modo da riguardare i fatti ed impostare le questioni secondo la realtà effettiva, i bisogni più direttamente sentiti, le eventuali proposte più adeguate alla eliminazione degli inconvenienti o dei mali accennati. Ora – salvo alcune posizioni estreme – da quasi tutti i settori sembra si sia disposti al riconoscimento della necessità, o della opportunità della creazione, del riconoscimento o della utilizzazione della regione, considerata da taluno dal punto di vista del decentramento istituzionale autarchico, cioè da un punto di vista che va più in là del decentramento burocratico, e da altri, invece, da un punto di vista non solo amministrativo, ma anche costituzionale, cioè dal punto di vista dell’autonomia, che si usa dire politica per distinguerla dall’amministrativa; di quella autonomia, nella quale la regione ha diritti propri fondamentali, sanciti e garantiti dalla Costituzione.

Il Relatore nota che la prima soluzione che si presenta, nel caso che si adotti in via di massima l’istituto regionale, è quella di applicarlo integralmente allo Stato, dividendone in regioni tutto il territorio.

Nel caso, invece, che non si adotti questa soluzione generale, sarà da decidere se la regione possa essere costituita secondo l’esempio dato dalla Costituzione spagnola del 1931: cioè, a richiesta delle popolazioni interessate. La Costituzione spagnola dice che lo Stato spagnolo è composto dai comuni raggruppati in provincie o da regioni autonome, che eventualmente si costituiscano ed aggiunge che una provincia, la quale in un primo tempo abbia chiesto di far parte di una regione e che si sia quindi sottratta alla compagine amministrativa dello Stato, può chiedere il ritorno al suo precedente stato giuridico di provincia, cioè, dello Stato. È un esempio di Costituzione nella quale l’Ente regione può esistere e può non esistere, nella quale la provincia può essere aggregata direttamente alle dipendenze dello Stato, e può invece essere aggregata alla regione.

È stato detto che per lo meno per quattro regioni – la Sicilia, la Sardegna, la Vai d’Aosta e il Trentino – l’autonomia ormai deve considerarsi cosa acquisita. Per due di queste regioni ci sono già degli ordinamenti stabiliti. Per la Sardegna esistono un Alto Commissario e una Consulta regionale che in fatto ha attuato una forma di autonomia. Per il Trentino l’esigenza è anche maggiore, per ragioni non solo interne ma anche internazionali. L’ex Ambasciatore inglese a. Roma, Lord Perth, ha detto alla Camera dei Comuni che, se le ventuno Nazioni non adotteranno la soluzione dell’annessione all’Austria, il Tirolo meridionale dovrà avere la più ampia autonomia. Comunque sia, il sistema potrebbe consistere nella concessione della autonomia a determinate regioni, per le quali essa è assolutamente necessaria, se si vogliono guardare le cose dal punto di vista della realtà.

Per quelle alle quali è stata già concessa, e specie per la Sicilia, l’autonomia deve considerarsi irrevocabile. Per altre regioni dovrà necessariamente arrivarsi ad una identica soluzione.

Data la situazione particolare di talune regioni, come quelle suaccennate, e l’opportunità che a tale particolare situazione si adegui il rispettivo statuto, sorge la questione se sia conveniente e financo possibile (nel caso che l’istituto regionale si applichi per tutto il territorio dello Stato) che venga adottato uno statuto uniforme per tutte le regioni.

Il Relatore dice che in via di massima potrebbero dettarsi nella Costituzione i principî fondamentali, lasciando poi alle Regioni, e precisamente alle Assemblee rappresentative regionali, la possibilità di elaborare specificamente lo statuto in modo più rispondente ai propri bisogni; statuto che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione del potere legislativo dello Stato.

Venendo ad esaminare le materie da affidare alla competenza specifica delle regioni, salvo a vedere poi se debba usarsi una formula o l’altra, osserva che si tratta di quel gruppo di materie che interessano principalmente gli affari locali, pur ammettendo che con questa distinzione non ponesi un criterio assoluto e che occorre sempre un criterio relativo e di opportunità per giudicare la prevalenza dell’interesse locale, perché l’interesse nazionale esiste sempre, non è isolabile. Si tratta di vedere qual è l’interesse prevalente, se quello locale o quello nazionale. E là dove sia decisamente stabilito che l’interesse prevalente è quello locale, potrebbe senza alcun danno concedersi alla regione anche la potestà legislativa.

Per venire al concreto, senza lasciarci fuorviare da esempi di legislazioni straniere dalle quali è necessario differenziarsi, sottopone all’attenzione dei colleghi una distinzione dal punto di vista generale, e poi una indicazione di materie dal punto di vista particolare.

Dice che due potrebbero essere i gruppi di materie da affidarsi alla competenza normativa della regione: materie di competenza legislativa primaria, e materie di competenza legislativa secondaria o integrativa.

Non parlerebbe di legislazione esclusiva, perché è questo un termine che può suonare troppo rigido: parlerebbe piuttosto di legislazione primaria, e non userebbe altre specificazioni, restando inteso che il primo gruppo di materie dovrebbe competere alla regione, perché sono materie di prevalente interesse locale; aggiungendo che sino a quando l’Assemblea regionale non avrà legiferato su tali materie, resteranno naturalmente in vigore le norme della legislazione nazionale.

Un secondo gruppo di materie potrebbe dar luogo alla legislazione secondaria, per cui la regione legifera secondo le norme di principio segnate dalle leggi dello Stato. Non sarebbero norme di sola attuazione, norme regolamentari: sarebbero vere e proprie leggi, naturalmente nel quadro dei principî fondamentali stabiliti dalla legislazione nazionale.

Detto questo in via generale, passando alle specificazioni, prospetta a titolo puramente indicativo la formula seguente:

«1°) La regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie (e questa potrebbe essere la legislazione primaria): agricoltura e foreste, strade, ponti, comunicazioni, porti, lavori pubblici in generale, con esclusione delle opere di interesse nazionale, acquedotti, pesca e caccia, urbanistica, antichità e belle arti, turismo, istruzione elementare, scuole tecniche e professionali, pubblica beneficenza, ordinamento degli uffici regionali.

Osserva che vi sono materie per le quali è molto difficile decidere. Nella prima redazione della formula aveva indicato, dopo «agricoltura e foreste», anche «industria e commercio», ma non si dissimula che nei riguardi di questo ramo di attività possono esservi elementi che interferiscono con l’interesse di altre regioni o addirittura di tutta la Nazione; per il che potrebbe essere opportuno includerle nel secondo gruppo.

Ricorda che per il regime minerario è stato affermato che la sua unificazione ha fatto buona prova. Potrebbe vedersi se non sia il caso di collocare queste materie nel secondo gruppo, perché sembra fuor di dubbio che, pur potendo essere opportuno un criterio di massima generale che regoli la materia, le singole regioni hanno delle esigenze particolari per ragioni obiettive e per ragioni psicologiche particolari.

Per il secondo gruppo, ha considerato due modi diversi di prospettare la norma tenendo conto delle esigenze diverse e quasi delle pregiudiziali diverse. Una dizione potrebbe essere la seguente:

«2°) Entro i limiti della legislazione di principio emanata dallo Stato, compete alla regione la potestà legislativa nelle seguenti materie…».

La seconda dizione sarebbe questa:

«2°) La regione può dettare norme legislative per le seguenti materie, in armonia alle norme di principio rispetto ad esse fissate nelle leggi dello Stato».

Le materie sarebbero: rapporti di lavoro; riforme economiche e sociali; disciplina del credito, delle assicurazioni, del risparmio; istruzione media e superiore; igiene e assistenza sanitaria; ordinamento degli enti locali; ecc.., e le altre materie di interesse prevalentemente regionale (da indicarsi).

Ritiene che potrebbe attribuirsi alla Giunta regionale il potere regolamentare. Ha accennato in via generale ai gruppi di materie specifiche per rispondere alle sollecitazioni di alcuni colleghi; ma crede necessario che la precisa indicazione delle materie di competenza legislative della regione sia affidata ad una sezione della Sottocommissione.

MORTATI ritiene opportuno precisare i limiti della discussione. La determinazione delle materie da attribuire ad un eventuale ente decentrato non gli sembra sia da fare in sede di discussione generale: questo si dovrebbe discutere dopo.

CONTI concorda; tuttavia crede fosse necessario accennare al problema della competenza della regione perché, in sostanza, si può concretare un pensiero intorno all’autonomia secondo l’idea che ci si forma della competenza della regione..

FINOCCHIARO APRILE ricorda che riguardo alla Sicilia esiste già uno statuto pubblicato anche sulla Gazzetta Ufficiale. Non sa se questo decreto sia entrato o stia per entrare in attuazione; sa che sono stati interpellati alcuni organi consultivi dello Stato per sapere se il Parlamento siciliano – conseguenza di questa autonomia – debba essere eletto e convocato. In quello sono indicate moltissime delle cose di cui si sta occupando la Sottocommissione.

Domanda ora se questa può continuare ad occuparsi di autonomia per quanto riguarda la Sicilia, quando vi è già uno statuto che è diventato una legge dello Stato, o se ha competenza per chiedere modificazioni dello statuto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Prega il Presidente di interpellare il Governo circa l’entrata in vigore di quel decreto, per chiarire il fatto strano che lo si sia emanato alla vigilia della riunione dell’Assemblea Costituente alla quale è così tolto, in certo senso, il diritto di legiferare su questa materia.

PRESIDENTE avverte che la Sottocommissione non è investita della discussione del problema della Sicilia, ma del problema nazionale, di cui la Sicilia rappresenta una parte. Ritiene che, di fronte alla Costituzione, tutte le leggi già emanate siano suscettibili di modificazione, e ricorda che nel decreto col quale viene emanato lo statuto della regione siciliana, un inciso stabilisce che quello statuto sarà sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione. Quindi è naturale che se ne parli.

Eventualmente l’onorevole Finocchiaro Aprile potrà rivolgersi direttamente al Governo per chiedere i chiarimenti del caso. I poteri della Costituente in relazione allo statuto siciliano sono indicati da quell’inciso ed è questa la sola base sulla quale la Sottocommissione si può porre. La stessa questione potrebbe sorgere anche per tutte le altre leggi che sono passibili di modificazione, ma che intanto sono applicate.

FUSCHINI ritiene necessario che la Sottocommissione abbia idee molto chiare e precise su quello che dovrà essere il progetto da sottoporre all’Assemblea Costituente. Essa deve dare all’Assemblea Costituente la sensazione che quello che propone costituisce un progetto ponderato, nel quale le diverse tesi hanno trovato un punto di comune consenso.

Come si è già detto, lo Stato italiano è oggi afflitto da un accentramento che ha soffocato gli enti locali e non ha loro consentito di dare tutto il rendimento possibile e che quindi bisogna orientarsi verso un decentramento delle funzioni e della attività amministrativa statale.

Questo è il punto fondamentale: si soffre di un accentramento burocratico, amministrativo, di funzioni, per cui il comune e la provincia non hanno avuto la possibilità di vivere ed i cittadini italiani hanno dovuto sempre subire la volontà della amministrazione centrale. Ma non si tratta di un’esigenza che possa essere suddivisa tra le regioni del sud e quelle del nord, fra Sicilia, Sardegna e Val d’Aosta; è un’esigenza di tutto il Paese. È una esigenza sentita da tutte le provincie. Il voler fare una distinzione tra le provincie che vogliono essere costituite in regione e quelle che non lo vogliono è un errore iniziale che bisogna evitare.

Si deve dare un nuovo ordinamento allo Stato e occorre prospettare alle popolazioni quello che secondo l’orientamento che deriva dalle discussioni può apparire il sistema migliore, affinché il male della centralizzazione scompaia dalla vita amministrativa del nostro Stato. Se si ammettesse la facoltà delle provincie di costituirsi o meno in regione, si creerebbe un tale stato di diversità di rapporti politici, economici ed amministrativi, per cui sarebbe difficile farne una sintesi e si avrebbero delle provincie che rimarrebbero allo stato in cui si trovano, senza nessun giovamento. Lo Stato deve essere unitario ed avere una sua organizzazione uniforme e si deve, invece, arrivare al decentramento, non soltanto per favorire determinati interessi locali, ma soprattutto per un interesse di carattere generale dello Stato, che svolgerà così nel modo migliore i propri compiti.

L’idea di una confederazione di Stati gli appare una fantasia, perché, se è già difficile arrivare alla costituzione dell’ente regione, sarebbe ancora più difficile arrivare alla costituzione di stati regionali. Né è possibile ricostituire i sette stati italiani come erano prima del 1859. Sarebbe una incongruenza storica e una creazione artificiosa.

La sua affermazione che la regione non può essere facoltativa, ma deve essere determinata da una norma generale della Costituzione, rispecchia una reale necessità di organizzazione: altrimenti si avrebbe un mosaico di organizzazioni statali contrario a quello spirito moderno, che tende al raggiungimento del massimo risultato col minimo mezzo. Si deve avere, dunque, una norma uniforme per tutto il territorio dello Stato e, se mai, si potrà tener presente che vi sono regioni con particolari caratteristiche, come la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta, che meritano ogni considerazione.

Se si ammettesse la regione facoltativa, si verrebbe meno anche ad un’altra esigenza di carattere costituzionale. Riferendosi al sistema bicamerale, al quale il partito cui egli appartiene è favorevole, e attribuendo al Senato una forma elettiva, osserva che una delle basi elettorali per la creazione del Senato è appunto la costituzione della regione.

Crede che si debba poi andare molto cauti quanto alla potestà legislativa della regione e che sarebbe opportuno sottoporre questo argomento ad un esame molto attento della Sottocommissione.

È favorevole alla limitazione dei compiti e delle materie da assegnare alla competenza dell’ente regione, salvo una disposizione che consenta, dopo un esperimento, di aumentare tali compiti, allo scopo di poter procedere gradualmente nella organizzazione del nuovo ente. Si può discutere molto su questo; ma, avendo vissuto anche negli uffici ministeriali, egli sa quanto sia difficile creare e fare muovere degli organismi burocratici che rispondano a determinate esigenze, particolarmente se nuovi.

A proposito del mantenimento della provincia è stato detto che è sufficiente, come organo intermedio tra il comune e lo Stato, la regione. Il comune dovrà essere valorizzato più di quanto non lo sia stato finora. L’autonomia comunale è un dato di diritto che deve diventare una realtà. Si deve dare al comune una efficienza di carattere amministrativo, che rispecchi una maggiore libertà e una maggiore responsabilità da parte degli amministratori; il che potrà dare una nuova spinta realizzatrice all’attività comunale. Ma non crede si possa dall’attività comunale andare direttamente a quella regionale; né è questa, come potrebbe sembrare, una contraddizione. Il nucleo provinciale oggi è un dato di fatto e un dato di diritto, per eliminare il quale si dovrebbero compiere sforzi eccessivi e dispendiosi, giacché le riforme vanno riguardate non soltanto per quello che creano, ma anche per le reazioni che producono. Bisogna stare attenti alla forza delle reazioni che sarebbero provocate dalla soppressione della provincia come ente giuridico autarchico.

Non crede sia necessario, per creare la regione, abolire la provincia come ente autarchico. Può riconoscere che le prefetture vanno, in certo senso, abolite per quanto bisogna riconoscere che il potere centrale, specialmente per le questioni di ordine generale e pubblico non potrà fare a meno di tenere un suo rappresentante in determinati centri della periferia, regionale o provinciale, perché non potrà rimanere all’oscuro di tutto quello che avviene nelle province: esso deve poter provvedere allo stesso ordine pubblico, e vigilare se tutti gli organismi locali funzionino dal punto di vista politico e amministrativo così che siano salvaguardati gli interessi generali della Nazione e quindi anche quelli locali. Quando siano affidati alla regione determinati servizi, come strade, trasporti, igiene, se questi servizi non funzionano, bisogna che l’organo centrale ne sia informato. Quindi, il potere centrale deve vigilare costantemente e vigilare non vuol dire impedire agli organi locali di agire, ma vedere se adempiano alle funzioni loro demandate dalla legge.

Esclude che il controllo di legittimità debba rimanere affidato ai prefetti, potendo essere affidato ad un organismo diverso dalla prefettura, ad un organismo elettivo e nello stesso tempo burocratico, che non abbia funzione politica, come è la Corte dei conti per i Ministeri.

Ripete che sopprimere la provincia significherebbe, a suo avviso, determinare un grande disordine nella vita del Paese. Una decisione recisa che togliesse alla provincia la sua personalità giuridica, farebbe rimanere però degli uffici, che non avrebbero più l’autorità necessaria per soddisfare le esigenze delle popolazioni, che desiderano essere qualche cosa nella amministrazione degli enti locali.

L’amministrazione provinciale potrà essere riveduta e modificata secondo i dati della esperienza, ma dovrà rimanere per una migliore tutela degli interessi locali.

La provincia è diventata un centro economico, un centro amministrativo, un centro commerciale, un centro di confluenza di interessi i più svariati ed i più attinenti alla vita delle popolazioni. Distruggendola nella sua vitalità, nella sua essenza di ente giuridico, rimarrebbe un organismo privo di quella consistenza amministrativa, che sarà necessaria anche per soddisfare alle esigenze della regione. Non si deve creare la regione per sottrarre dei compiti alla provincia, ma per dare ad essa compiti nuovi. Come il comune esercita funzioni proprie dello Stato, così la provincia potrà esercitare funzioni proprie della regione, se non dello Stato. Si deve creare la regione togliendo delle attribuzioni, e delle funzioni allo Stato. Quindi, il proposito di abolire la provincia deve essere meditato. È vero che nel provvedimento per la Sicilia le province risultano abolite; ma ciò ha suscitato delle reazioni piuttosto gravi e non è il caso di provocarne in tutto il territorio nazionale. Proprio quando si ha bisogno della massima tranquillità nelle popolazioni non si devono creare ragioni di turbamento. Gli sembra un principio di sana politica portare innovazioni che non creino dissapori e contrasti tali da mettere in pericolo l’ordine pubblico.

Il problema della finanza è gravissimo per la regione, ma non crede sia il caso di preoccuparsene molto, perché è tutto il sistema tributario che va riveduto; e va riveduto in modo tale da avere un’unica imposizione, un unico accertamento ed una distribuzione dei proventi tributari in maniera rispondente alle esigenze della regione, in rapporto alle spese che la regione sopporterà per i servizi già svolti dallo Stato.

Naturalmente le regioni, come i comuni, potranno applicare tasse speciali per i servizi che esse renderanno ai cittadini. La finanza locale dovrebbe quindi essere riveduta in senso regionale.

Conclude osservando che il problema dei controlli non può essere eliminato, né lo potrebbe anche se si volesse, per ipotesi, eliminare del tutto il controllo dello Stato. Ricorda che nel progetto elaborato dalla Commissione per la riforma della pubblica amministrazione è prevista la istituzione di una Commissione di controllo regionale elettiva. Vi potranno poi essere forme di controlli con ispezioni così dette volanti, che sono le più idonee alle esigenze di una buona amministrazione. Snellire e semplificare il controllo è utile; ma sarebbe un errore l’abolirlo; lo stesso errore in cui è caduto il fascismo: il controllo della Corte dei conti sui bilanci dello Stato non era efficiente, perché era sopraffatto e continuamente violentato dal potere politico. Occorre invece il controllo, tanto al centro quanto negli organi locali, indipendente dall’amministrazione, perché l’amministrazione è elemento attivo e non può controllare se stessa. Bisogna che il controllo sia esplicato da un organo distinto e superiore all’amministrazione attiva, così per i comuni, come per le province e per le regioni.

(La seduta, sospesa alle ore 19, è ripresa alle ore 19.15).

BORDON non è dell’avviso dell’onorevole Nobile, il quale ha prospettato una quinta soluzione, mentre l’onorevole Tosato ne aveva prospettato quattro: centralista, federativa, Stato federale, Stato regionale. Quella sostenuta dall’onorevole Nobile risponderebbe alla prima domanda e cioè se si debba rimanere allo statu quo. Ora, sembra che tale questione sia ormai sentita da tutti come superata. Non crede che si senta soltanto ora il disagio dell’accentramento, disagio che era una realtà acquisita anche molto tempo prima del fascismo. Nel 1860-61 si era creduto di disattendere le voci che si richiamavano alla necessità di un decentramento federativo; ma si è poi veduto che l’accentramento non rispondeva agli scopi nazionali. Già in uno studio del Sighele, sulla gente nostra, si diceva che era un errore aver voluto fare l’italiano di tipo unico ed è un errore l’aver voluto accentrare, mentre le regioni sono molto diverse le une dalle altre. Non si tratta dunque di una necessità che sorga oggi, ma di una necessità già sentita da molto tempo; una necessità che poi si è andata accentuando e che ora è intensamente sentita per particolari circostanze.

Il fascismo non ha fatto altro che accentuare e peggiorare l’accentramento: perciò egli non può accogliere la soluzione dell’onorevole Nobile. Non si tratta di dividere, come egli ha detto, il sistema unitario della Patria; si tratta di dividere soltanto l’amministrazione: la divisione non tocca che l’apparato amministrativo, non il Paese, sul cui concetto unitario tutti sono d’accordo.

Scartata quindi senz’altro questa soluzione che pare non risponda alla situazione e alle esigenze della Nazione, rimarrebbero in sostanza le tre altre soluzioni.

Crede che a ragione l’onorevole Lussu abbia sollevato la questione federativa come un problema che va esaminato. La Costituente deve dare una Costituzione allo Stato e non può assolvere questo incarico gravissimo ed importantissimo se non dopo aver esaminato tutti gli aspetti del problema, fra cui anche quello federativo.

Col federalismo non crede si possa arrivare agli estremi cui è arrivato l’onorevole Finocchiaro Aprile; non crede sia oggi possibile fare una Confederazione di Stati, perché bisognerebbe far risorgere gli Stati italiani. Questa soluzione estrema non risponde alle esigenze del Paese, e sarebbe anche difficile ad attuarsi; creerebbe disagi e inconvenienti molto gravi.

Ma quando si parla di federalismo, non è detto si debba intenderlo soltanto nel senso di una confederazione di grandi stati: lo si può attuare anche sotto altre forme ed esattamente è stata ricordata la Repubblica austriaca, che attua appunto il principio federale con le sue diete federali, e giustamente è stato pur rilevato come lo Stato federale sia qualche cosa di diverso dalla Confederazione di Stati. In altre parole, non bisogna far confusioni fra il federalismo e le applicazioni che ne possono derivare: sarebbe esprimere un concetto semplicistico individuare nel federalismo soltanto la possibilità di Confederazioni di grandi Stati, dato che vi possono essere anche altre forme federali.

Lo Stato federale va esaminato sotto un punto di vista pratico. Poiché dobbiamo dare una nuova Costituzione allo Stato, è venuto il momento di dargli una Costituzione a largo respiro, veramente democratica, degna di questo nome. Senza pronunciarsi sul problema se si debba scartare senz’altro l’idea federale, esorta ad esaminarla, per vedere se sia possibile una proposta che si adatti alla nuova Costituzione. Personalmente ritiene che lo Stato federale, se fosse uno Stato unitario con diversi cantoni, potrebbe rappresentare una soluzione, perché se vi sono nel nostro Paese delle regioni che non hanno raggiunto una maturità democratica, ve ne sono per contro altre democraticissime e che potrebbero adattarsi benissimo al nuovo assetto di Stato federativo formato a cantone. E non vede come a priori si possa dire che questo rappresenterebbe un inconveniente. Non sarebbe neppure un salto nel buio, ma una riforma che avrebbe già larghe premesse democratiche, sovrattutto nel nord Italia. Né sarebbe leso il concetto unitario. Non si potrebbe avere alcun timore in questo senso in Italia, ove esiste una Nazione sola, quando lo Stato federale elvetico, costituito da tre nazioni, ciò nonostante, secondo che un’esperienza secolare dimostra, ha risposto, anche attraverso duri cimenti cui è stato sottoposto, alle esigenze del Paese.

Sotto il punto di vista locale della Val d’Aosta, questo concetto ha già trovato qualche richiamo: in una «carta» che fu redatta il 19 dicembre 1943, in periodo cospirativo, allorché le Valli alpine si erano pronunciate per uno Stato federale, si auspicava che il futuro Stato italiano venisse organizzato con criteri federalistici, fosse, cioè, costituito da unità amministrative e politiche autonome sul tipo cantonale. Non è quindi un’idea nuova: è stata sostenuta già da tempo e sarebbe consigliabile, perché risponderebbe ai bisogni particolari della Val d’Aosta, dare a questa un potere normativo assai più esteso di quello che si potrebbe avere con una semplice autonomia.

Comprende che possano aversi delle opposizioni all’idea dello Stato federale formato in cantoni: vedrà l’Assemblea se questa sia una proposta accettabile. Se non dovesse accoglierla, evidentemente non si potrebbe sostenere uno Stato federale soltanto per la Val d’Aosta, e quindi si dovrebbe lasciar cadere la proposta, alla quale del resto ritiene che le altre regioni italiane dovrebbero essere favorevoli. Il nostro Paese è profondamente diverso da zona a zona, e proprio per questo motivo l’accentramento ha avuto un esito fallimentare. Uno Stato cantonale risponderebbe alla diversità delle esigenze da regione a regione. Comunque, se questa soluzione sarà scartata, si ripiegherà sul piano dell’autonomia.

La Val d’Aosta ha già avuto un’autonomia che è in attuazione, ma vorrebbe fosse ancora maggiormente ampliata. Essa accetta lo Stato regionale autonomo con le precisazioni che ha fatto l’onorevole Grieco, cioè non crede che si possano mettere sullo stesso piano tutte le regioni d’Italia; perché vi sono delle regioni che hanno sentito questo problema e lo hanno posto come questione di vita e di morte. E fra queste regioni è la Valle d’Aosta, che è una zona che ha particolari esigenze e caratteristiche a sé, come è stato riconosciuto quando le si è concessa l’autonomia. Essa è una zona di frontiera ed ha ottenuto anche particolare riguardo per la sua posizione rispetto alla Francia ed alla Svizzera, come zona franca.

Sullo stesso piano della Valle d’Aosta si trovano l’Alto Adige, la Sicilia, la Sardegna, per le quali tutte è necessaria una autonomia a largo respiro, autonomia in cui la potestà legislativa sia diretta e larghissima.

Si deve quindi tener presente la necessità della più larga potestà legislativa che deve differenziare queste zone dalle altre regioni. La Valle d’Aosta non può accettare alcuna limitazione e domanderà che le sia riconosciuta nella Costituzione l’autonomia regionale con la più ampia potestà legislativa e con la potestà di zona franca, che è stata sancita dalle leggi in vigore.

TARGETTI rileva che la possibilità di mutare la struttura dello Stato secondo il criterio federalistico è stata indirettamente esclusa anche da quelli che sono sempre stati i più convinti fautori del federalismo i quali, forse, a riconoscere questa impossibilità sono arrivati considerando obiettivamente le particolari specialissime condizioni nelle quali si trova il Paese, e che sono dovute – non è male ripeterlo – all’azione combinata della monarchia e del regime fascista.

Sono però tutti concordi nel riconoscere la necessità di decentrare, di spogliare, nei limiti del possibile, lo Stato delle sue facoltà e dei suoi poteri. La creazione dell’Ente regione trova moltissimi fautori. Si dovranno tuttavia tenere presenti alcuni dati di fatto posti in rilevo dall’onorevole Rossi per aggiungerli alle ragioni fatte valere da altri in favore del mantenimento in vita dell’ente autarchico provincia.

Esistono in realtà diversità di bisogni anche nel seno delle regioni geograficamente configurate. Se si toglie il Piemonte, la Lombardia e il Veneto, è forse difficile trovare in Italia regioni monolitiche; nessuna di esse presenta unità di interessi. Questo fatto, se non infirma tutte le ragioni a favore della costituzione dell’Ente regione, deve però concorrere con gli altri motivi che militano in favore del mantenimento della provincia. Abolire la provincia significherebbe accrescere senza dubbio gli attriti fra i vari ex capoluogo di provincia, perché il capoluogo di regione sarebbe istintivamente portato a far prevalere i propri interessi su quelli degli altri centri della regione.

Nega che la provincia abbia solo modeste funzioni: chi vuol compiere sul serio il suo dovere di Deputato provinciale ha modo di constatare che il lavoro non manca. Ma il grande argomento in favore della provincia è questo: si sta compiendo uno sforzo per trovare la strada migliore per decentrare; ma, distruggendo un ente locale autonomo come la provincia, si finisce con l’accentrare nella regione quel tanto che è decentrato, cioè col fare proprio l’opposto di quello che si vuole.

Nega pure che, creato l’Ente regione, vengano a mancare alla provincia le ragioni di esistenza, perché l’Ente regione nascerà e vivrà a tutto detrimento dello Stato. La regione non assumerà funzioni che oggi sono della provincia: essa ridurrà la competenza delle amministrazioni centrali. Ricorda che lo stesso Minghetti, sostenitore ad oltranza del regionalismo, manteneva non solo il comune, ma anche la provincia.

Di più l’abolizione della provincia determinerebbe un grave malcontento e conseguentemente ostacoli e contrarietà al funzionamento della regione.

La provincia quindi deve essere mantenuta, salvo poi decidere i poteri che le si debbono attribuire.

PICCIONI intende fare alcune considerazioni di carattere prevalentemente pratico per vedere se si può giungere ad una conclusione.

Anzitutto deve risultare chiara la visione che si ha dello Stato e della sua struttura. Se si concepisce lo Stato come espressione massima, unitaria, indifferenziata, della organizzazione giuridica della società, il centralismo statale ha più di una giustificazione; se si concepisce invece lo Stato come il potere massimo della società organizzata, ma che non deve comprimere gli organismi naturali che vivono nella società stessa, bisogna, nella struttura politica e amministrativa, adattare questo concetto dello Stato alla funzionalità effettiva di questo in rapporto agli altri organismi.

Uno dei limiti fondamentali alla capacità dello Stato è dato dalla esistenza, anteriore a quella dello Stato, di nuclei ed organismi naturali ai quali deve essere consentito di esercitare la loro funzione per l’ordinamento migliore della società. Tra questi organismi, che limitano il potere dello Stato, sono in prima linea i comuni e successivamente le regioni.

Il concetto di autonomia non deve essere circoscritto e limitato soltanto all’ente regione. Il comune è il primo organismo che va difeso di fronte al potere e al prepotere dello Stato; in fatto di autonomie il comune non va posto in secondo o terzo piano, ma va tenuto in primo piano, non soltanto per liberarlo dagli impacci statali, ma per rendergli tutta la sua forza evolutiva ed espansiva nell’ambito della sua attività specifica.

Dal punto di vista di una concezione organica della società, le provincie non costituiscono un problema serio, perché sono in un certo senso una costruzione artificiosa imposta dal criterio che ha dominato l’ordinamento statale nostro, in rispondenza al fine centralizzatore dello Stato. Questo è tanto vero che il fascismo ad un certo momento, senza reazioni né scompensi di alcun genere, ha creato quindici provincie nuove, ritagliate abusivamente dal territorio di altre provincie. È quindi la provincia una circoscrizione puramente artificiosa, dettata da considerazioni di carattere prevalentemente politico; è un organismo amministrativo sempre centralizzante. Di fronte alla provincia sorge quindi il problema delle difficoltà di carattere pratico, che possono derivare dalla sua soppressione; ma dal punto di vista organico, la provincia non dovrebbe costituire un ostacolo serio per un ordinamento diverso, più logico, più coerente.

Si osserva che le provincie hanno già una tradizione di 70-80 anni. Ma, se si analizza a fondo la posizione delle provincie, ci si imbatte in una situazione di equivoco fondamentale: quando si parla di provincia, in sede di riforma strutturale dell’ordinamento statale, si pensa alla provincia ente autarchico, mentre volgarmente, quando si parla di provincia si pensa alla prefettura. Quali sono gli interessi, le convergenze, che si dicono coalizzate o create intorno alla provincia? Il capo della provincia, nella interpretazione ordinaria, non è il presidente della deputazione provinciale, ma è il prefetto, con tutta la sua burocrazia, con tutte le sue attività, ed è difficile constatare una altrettanto forte confluenza di sentimenti, di aderenze alla provincia come amministrazione provinciale. La provincia in definitiva amministra i manicomi, le strade provinciali, le scuole professionali (che non ci sono) i brefotrofi, la maternità e infanzia (che è anche in compartecipazione con lo Stato). Ora, quando si tratterà di analizzare le funzioni della regione meglio coordinate e meglio disciplinate, tutto questo non sarà sufficiente per legittimare la permanenza di un organismo, quale è quello provinciale, una volta che tutti sono d’accordo sulla soppressione della provincia come prefettura. Lasciare in piedi questa larva di amministrazione provinciale, con le debolissime competenze concrete che ha, sarebbe una esagerazione, rispetto a tutto il rimanente quadro dell’organismo amministrativo che è auspicato.

Né si potrebbero aumentare le competenze della provincia, perché bisogna scegliere: o rimanere attaccati all’ordinamento amministrativo dello Stato com’è, oppure, se si ha il desiderio di rinnovarlo secondo una direttiva più naturale e più organica, si deve avere il coraggio di superare le difficoltà più o meno artificiose di cui si parla in rapporto alla soppressione della provincia. Con questo non si nega che non vi possano essere resistenze da parte di città che si vedrebbero private della loro dignità di capoluogo di provincia; ma non è certo la burocrazia provinciale che dà il grado di superiore decoro ad una città rispetto ad un’altra. E poi, anche in queste città l’istituzione della regione renderà indispensabile la costituzione di un certo organismo decentrato della funzione regionale, il quale sostituisca in maniera più seria e più attiva le forme improduttive finora create per reggere la provincia.

Si vuole, solo per prevenire le eventuali reazioni, che rimanga a queste città la denominazione di provincie, come organi di decentramento della funzione regionale? È questione di nome e di psicologia collettiva, che può essere considerata. Ma bisogna essere concordi nel ritenere che la provincia, come ente autarchico in seno all’ordinamento nuovo, non ha possibilità di sopravvivenza, perché altrimenti si creerebbero dualismi e duplicati sterili, che potrebbero mettere in pericolo la fecondità del nuovo ordinamento regionale.

Le regioni devono essere concepite come organismi naturali, che vanno riattivati, per ragioni storiche, geografiche, linguistiche, per ragioni di costumi, di caratteristiche economiche e produttive proprie, che in Italia più che in qualsiasi altro Paese europeo sono differenziate per la stessa configurazione geografica del Paese. In Francia si può comprendere l’ordinamento statale centralizzato, prescindendo da altre considerazioni, per la struttura del Paese e la sua configurazione geografica; ma in Italia è inconcepibile, per le notevoli differenze specie fra Nord e Sud. Perciò appunto, malgrado il livellamento perseguito durante settanta anni dal potere centrale, la regione ha resistito ed ha una individualità ancora viva e operante che può avere nelle linee marginali delle sfumature più o meno rilevabili, ma che si dimostra ben precisa quando si parla di regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Lazio, gli Abruzzi, ecc.

Ora è giunto il momento di ricondurre la evoluzione storica sulle sue direttive naturali; e la regione dovrebbe essere un elemento di trasformazione della vita, dello Stato, e soprattutto del costume politico del Paese. La regione deve essere sentita, non soltanto in riferimento alle esigenze strutturali e amministrative, ma anche come affermazione di una esigenza profondamente democratica. Si deve, in essa, vedere un baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese.

In contrasto con quello che ha detto l’onorevole Nobile, concorda con coloro che, come l’onorevole Lussu e qualche altro, ritengono che il centralismo statale, così come si era organizzato fino al 1922, sia stato uno dei fattori più efficienti (non l’unico, perché vi sono anche i fattori economici, sociali, ecc.) per la nascita o, se non per la nascita, per l’affermazione trionfale del fascismo. Se il Paese fosse stato ordinato in maniera diversa, si sarebbe potuto avere un tentativo di quel genere, ma non avrebbe avuto la sciagurata fortuna che arrise al fascismo.

Né è, dal punto di vista storico, esatto che il regionalismo, l’autonomismo, siano frutto della disfatta: può essere esatto solo dal punto di vista di una coincidenza casuale. Frutto della disfatta si può dire che è nella misura stessa in cui il fascismo è frutto del centralismo statale. Se vi fosse stato un ordinamento diverso, evidentemente la guerra sciagurata a cui siamo arrivati avrebbe trovato una forte remora nella resistenza e negli interventi di solidarietà diverse, quali potevano essere quelle fra regione e regione, opponentisi alla politica nazionalistica e imperialistica del fascismo.

Anche per le esigenze politiche è quindi favorevole alla creazione dell’ente regione. Ed anche per esigenze di carattere più pratico; per esempio quella della divisione dei poteri, perché pensa alla possibilità di un’organizzazione del potere locale accanto al potere statale, cioè di una divisione dei poteri che è certamente di grande rendimento ed economia. Si può realizzare attraverso la regione, il principio del minimo mezzo. Episodi che sono stati riferiti e che tutti conoscono sono infinitamente illustrativi al riguardo. Una quantità notevolissima di funzioni statali, esercitate o istituite nell’ente regione, evidentemente costituiscono un mezzo più economico per il rendimento politico e amministrativo. È già stato svolto il concetto della maggiore agilità e snellezza nella funzionalità dello Stato che, diminuito di tutte le funzioni amministrative che non sono specifiche sue proprie, può dedicarsi in maniera più ferma e più sicura alle funzioni caratteristiche dello Stato, che sono funzioni politiche nel senso più pieno e più alto della parola.

Si deve ora determinare l’ordinamento della regione.

Tutti concordano nel riconoscere che l’ente regione che si vuole istituire deve essere riconosciuto come un ente autarchico, in quel senso specifico che il Relatore Ambrosini ha indicato, cioè nel senso che abbia propri fini da raggiungere e mezzi adeguati al raggiungimento. Questi fini sono quelli determinati dagli interessi locali che caratterizzano ciascuna regione. Se si pone questa prima specificazione della figura dell’ente regione, le discussioni e le sottilizzazioni sulla competenza legislativa dell’ente regione (cioè sulla sua autonomia vera e propria, perché per autonomia questo logicamente e seriamente si deve intendere) oltrepassano la questione delle necessità intrinseche dell’ente.

Qui bisogna esser chiari ed assumere le proprie responsabilità. Non si può pensare di creare l’ente regione senza dargli la possibilità di raggiungere i fini per i quali viene istituito. E per raggiungere questi fini non basta una potestà legislativa, delegata, secondaria, perché allora rimarrebbe sempre all’ente la camicia di Nesso del centralismo statale, e non si creerebbero dei poteri locali.

Circa la potestà legislativa, richiama le enunciazioni dell’onorevole Grieco, il quale sembra voler riconoscere all’ente regione una potestà legislativa; e si dichiara d’accordo con lui, purché si tratti di potestà autonoma, non delegata, non secondaria, ma primaria, come diceva il Relatore Ambrosini.

Ora, una volta fissati i fini per i quali la regione si istituisce, i suoi obiettivi, le sue funzioni di rinnovamento della struttura politica e amministrativa della nazione, non si debbono lesinare i mezzi necessari allo svolgimento delle sue funzioni, perché altrimenti si compirebbe opera inutile. Quindi potestà legislativa, entro i limiti delle competenze specifiche della regione e nell’ambito dell’ordinamento generale dello Stato. Un altro limite alla potestà legislativa dovrebbe servire, in certo senso, a superare le scrupolose successive specificazioni che a tale riguardo ha creduto di fare il Relatore Ambrosini: il limite naturale è quello dell’interesse locale. È evidente che la potestà legislativa, oltre che rimanere nei limiti dell’ordinamento generale e delle competenze specifiche, non deve andare al di là dell’interesse locale che caratterizza tutto l’ordinamento regionale.

Poi bisogna decidere sugli organi rappresentativi degli interessi locali e del popolo della regione stessa; e qui sorge una questione più sottile, sulla quale bisogna esser cauti nell’assumere una posizione decisa. In riferimento ai concetti specificati sui comuni, si può riconoscere all’Ente regione una funzione rappresentativa anche di tutti i comuni, non soltanto dei cittadini della regione stessa. A questo si dovrà riflettere quando si tratterà di discutere la formazione degli organi dell’Ente regione: se si deve parlare di suffragio diretto, universale ecc., oppure se si deve parlare di una commistione del suffragio diretto con una rappresentanza diretta dei comuni, perché è evidente che la vita locale trova prima una sua specificazione nei comuni e poi una sua integrazione nella regione, e combinare insieme l’uno e l’altro elemento in un sistema organico sarebbe quanto di meglio si potrebbe auspicare.

Si è pure concordi nell’ammettere che, per dar vita all’Ente regione, occorre l’autonomia finanziaria vera e propria, perché se non si pone come premessa fondamentale l’autonomia finanziaria, tutto il resto rimane abbandonato alla discrezionalità del potere centrale. A parte quello che i tecnici della finanza potranno dire al riguardo, un’esigenza è certa, ed è che anche l’ordinamento finanziario della regione dovrebbe trovare il suo collocamento organico nella riforma generale tributaria dello Stato; così come l’autonomia finanziaria del comune, se questo deve essere efficiente e vivo, deve essere pure considerata nel quadro generale di quella riforma.

Occorreranno poi delle forme di controllo. Per i conflitti di competenza tutti sono d’accordo che questi dovranno essere devoluti alla Corte suprema di garanzia.

Sulla forma della costituzione degli organi regionali sembra raggiunto un accordo: Consiglio regionale, Giunta esecutiva, Presidente del Consiglio, Presidente della Giunta. Scarsi consensi ha invece ottenuto l’idea di avere un rappresentante statale nella regione, come un tipo di governatore, o di prefetto, e personalmente egli non è certo favorevole a far ricomparire la figura del prefetto in più vasto raggio e su più vasta sfera. Un ordinamento regionale costituito democraticamente e seriamente è più che sufficiente per garantire le varie funzioni che anche lo Stato ha diritto di esercitare nell’ambito della regione.

Si parte, in fondo, sempre da un falso presupposto, da un residuo; e bisogna che tutti compiano uno sforzo estremamente forte per distaccarsi completamente dalla concezione dello Stato così come si è avuto finora, per aderire ad una concezione nuova, diversa. Ora, anche dal punto di vista della rappresentanza dello Stato nella regione, bisogna tener presente che la legittimità, i poteri dello Stato derivano dalla stessa forza da cui derivano i poteri locali, regionali; onde non si deve fare una discriminazione così sostanziale fra il potere centrale – come se si trattasse di un’investitura per diritto divino – e il potere regionale, che viene costituito sulla stessa base e proviene dalla stessa fonte.

Certamente vi deve e vi può essere una forma di controllo o, se si vuole, di coordinamento, da parte del potere centrale delle funzioni della regione, che possono interferire l’una con l’altra e coordinarsi in un interesse che supera lo stretto ambito regionale. Ma queste sono tutte funzioni integrative che possono essere sviluppate in vario modo, senza necessità di porre nella regione un rappresentante diretto e ufficiale del potere centrale.

Ci sono poi altri controlli, previsti per l’ordinamento dello Stato, come, ad esempio, il controllo sul consuntivo amministrativo della Giunta. Questo dovrà essere affidato al Consiglio regionale, così come il controllo sul consuntivo dello Stato è affidato al Parlamento. Il controllo, invece, sul consuntivo contabile dovrà essere esercitato da una Corte mista di rappresentanti dello Stato e di rappresentanti della regione, perché, qualunque sia il sistema tributario attraverso il quale si possa realizzare in qualche forma l’autonomia finanziaria della regione, sarebbe pressoché impossibile, per le considerazioni svolte dall’onorevole Einaudi, fare a meno di contributi integrativi dello Stato. Se lo Stato, sia pure in base a disposizioni fondamentali, oggettive – come diceva l’onorevole Einaudi – e non sulla base di un capriccio dello Stato stesso o di insistenze da parte di una o dell’altra regione, deve intervenire nella finanza regionale, esso deve avere la possibilità di un controllo diretto. Ogni altra ingerenza però dovrebbe essere esclusa, tranne quella di appositi organi per l’azione contenziosa e giurisdizionale, senza arrivare fino a dare una funzione giurisdizionale alla regione stessa.

Non vuole affrontare la questione e si limita a rilevare che il sistema più logico e pratico è quello di specificare le competenze della regione, lasciando che tutto il resto rimanga allo Stato. Solo su un punto desidera fare un’osservazione: sull’istruzione, circa la quale si sono avute indicazioni divergenti. L’onorevole Grieco ha detto che è un aspetto del problema che andrebbe approfondito, prima di prendere un indirizzo in un senso o nell’altro. L’onorevole Nobile ha detto che affiderebbe l’istruzione elementare addirittura ad un organo mondiale. Crede, invece, che questa sia da restituire ai comuni, perché è una delle forme di attività che devono aderire il più strettamente possibile alle esigenze locali fondamentali. L’istruzione secondaria dovrebbe essere passata all’Ente regione, salvo il compito del potere centrale di indicare i criteri tecnici dell’ordinamento scolastico, lo sviluppo degli studi, ecc. Ma, quando lo Stato abbia stabilito i programmi scolastici, in modo che non vi sia disparità fra regione e regione, l’ordinamento concreto della scuola deve essere lasciato all’iniziativa, alla valutazione della regione. Non vi è necessità, ad esempio, di dare in una regione industriale ampio sviluppo agli studi classici. Per le università e gli istituti superiori si affaccia un altro concetto di autonomia. Non si è fatto un guadagno sottoponendole all’ordinamento unitario dello Stato: nei paesi liberi e democratici le università trovano, nella loro autonomia, un motivo serio e profondo per servire al più ampio sviluppo della scienza. Allo Stato devono rimanere solo le funzioni ispettive ed un controllo attraverso l’esame di Stato, il quale ultimo, in un regime libero, rappresenta una garanzia per gli scopi generali che lo Stato deve salvaguardare.

La discussione ha chiarito molti punti che conducono a questa conclusione: l’ordinamento centralizzato dello Stato deve essere trasformato. Su questo non ci può essere dubbio; e l’ordinamento regionale è il mezzo più efficiente per arrivare a questa trasformazione dell’ordinamento statale; trasformazione che non deve essere considerata come panacea universale, ma deve consentire di rendere più democratica la vita del Paese e, quindi, più efficienti i suoi risultati costruttivi.

La seduta termina alle 20.50.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Leone, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Patricolo, Vanoni.

LUNEDÌ 29 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

3.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 29 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Finocchiaro Aprile – Rossi Paolo – Lami Starnuti – Uberti – Conti – Tosato – Bozzi – Mortati – ManniRoni – Lussu – Grieco – Fuschini – Presidente.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

FINOCCHIARO APRILE rileva che l’onorevole Lussu ha sollevato una questione meritevole della maggiore attenzione.

Si richiama alla discussione fatta sull’ordine dei lavori e all’opinione allora espressa dall’onorevole Zuccarini che la questione preliminare da prendere in esame fosse quella della struttura dello Stato. La Sottocommissione preferì iniziare la discussione sulle autonomie; ma l’onorevole Lussu ha poi giustamente rilevato che questo problema deve essere esaminato non solo sotto il profilo dello Stato unitario, ma anche sotto quello dello Stato federale e crede che l’onorevole Lussu abbia perfettamente ragione.

Riprende questo tema, pur sapendo che nella Commissione prevale l’idea unitaria e si vuole il mantenimento del sistema della unità italiana creato da Cavour e sul quale si sono modellati tutti gli ordinamenti dello Stato.

Dopo aver ricordato che l’idea unitaria al tempo del Risorgimento non fu la sola, pur essendo stata l’idea sostenuta strenuamente da Giuseppe Mazzini, ma che vi fu anche l’idea federalista che ebbe in Carlo Cattaneo un sostenitore altrettanto tenace, avverte che, come l’onorevole Lussu ha considerata la situazione dal suo punto di vista sardo, egli intende considerarla particolarmente dal punto di vista siciliano.

Non vuol rifare la storia di quest’ultimi anni, ma deve confermare quel che disse già nel suo discorso alla Costituente: il solo modo per dirimere il contrasto che è evidente tra la Sicilia e le altre Regioni italiane, è quello della elevazione della Sicilia e di altri paesi italiani a Stati, e l’unione di questi Stati in una grande confederazione italiana, mediterranea ed eventualmente europea. Né è vero che, sostenendo la confederazione di questi Stati, si compie opera antitaliana, ché anzi il sistema della confederazione degli Stati è quello che meglio di ogni altro cementa la unità dei popoli di una stessa lingua. È sempre avvenuto così: avvenne così in Germania, in America, in Svizzera, ed avverrà in tutti i Paesi che adotteranno il sistema della confederazione di Stati. Respinge, quindi, l’accusa di aver voluto creare una situazione contro l’Italia. Ciò non è vero: il Movimento per l’indipendenza della Sicilia compie, al contrario, opera eminentemente italiana.

Passando a considerare il problema dal punto di vista giuridico, costituzionale, tecnico, afferma che col sistema delle autonomie non si ovvierebbe agli inconvenienti che si sono deplorati dal 1860 in poi: e aggiunge che il sistema delle autonomie non può essere adottato per tutte le regioni italiane, anzi alcune di esse, come il Piemonte, la Lombardia, la Liguria, il Veneto, non hanno alcun bisogno dell’autonomia. Non si deve confondere l’autonomia col decentramento; e per molte regioni italiane il decentramento sarebbe più che sufficiente; mentre vi sono regioni, e precisamente la Sicilia e la Sardegna, per le quali la semplice autonomia, quale viene prospettata, non servirà che a ben poco, se non pure a nulla. Esse hanno bisogno di autonomie larghe, complete, non soltanto per i piccoli affari di ordinaria amministrazione, ma anche nel campo economico, finanziario, tributario, doganale. Qui ci si vuole limitare a modeste riforme di scarso interesse e che non toccano i gangli vitali di queste regioni. In tal modo non si concluderà niente. Così la esclusione, voluta dall’onorevole Einaudi, dell’autonomia giurisdizionale è un errore, perché la Sicilia ha una secolare tradizione di indipendenza giurisdizionale ed ha avuto fino a poco tempo fa la sua Corte di Cassazione, che era forse la migliore per la saggezza della sua giurisprudenza, tanto che quando esisteva un contrasto tra la Corte di Firenze e quella di Roma, quella che lo decideva era molto spesso la Corte di Cassazione di Palermo.

Anche per il problema finanziario, l’onorevole Einaudi parte da un punto di vista rigidamente unitario. Da quel punto di vista egli ha ragione; ma, parlando di autonomie, non si può rimanere legati al sistema unitario così come egli vorrebbe, perché si va verso una forma diversa di unità. Vi sono varie forme di unità, e una di queste è anche la confederazione di Stati. Quando, nel 1870, Bismarck creò la confederazione germanica, bavaresi, sassoni, prussiani, brandeburghesi, ecc., si sentivano tutti tedeschi come gli altri, e contribuivano tutti alla prosperità, alla ricchezza e alla gloria della Germania. Perché questo non si deve fare in paesi di lingua italiana?

Il sistema della confederazione di Stati è il più adatto nelle circostanze presenti. Non può sfuggire ad uomini politici un fatto che non è privo di importanza. Non si può dire che l’Italia meridionale, da Roma in giù, e le maggiori isole abbiano fatta nel referendum istituzionale un’affermazione nettamente monarchica; egli è d’avviso diametralmente opposto, convinto che non questo abbia voluto fare l’Italia meridionale (sono passati molti anni da quando si poteva dire che nel Mezzogiorno, come in Sicilia e in Sardegna, tutti erano monarchici), ma abbia piuttosto voluto cogliere l’occasione per fare una manifestazione decisamente antiunitaria. Quando alla Sicilia e alla Sardegna, che sono repubblicane (non al numero dei voti, ma agli spiriti si deve guardare), si sarà data la dignità di Stati, e questi stati saranno tutti confederati nell’interesse comune italiano, i dissensi che ci sono stati verranno a cessare, mentre permarrebbero se permanesse la situazione attuale.

Pensa quindi che il problema vada affrontato più nettamente, più risolutamente e non soltanto col proposito di fare qualche cosa che debba servire momentaneamente a tener buone le popolazioni. Non è questo che ci vuole per l’Italia meridionale. È stato eletto Presidente provvisorio della Repubblica un uomo degnissimo come Enrico De Nicola, meridionale e monarchico, ma non è da pensare seriamente che soltanto per questa nomina l’Italia meridionale, la Sicilia e la Sardegna siano paghe. Occorre qualche cosa di molto serio, e il sistema dell’autonomia non risolverà il problema, anzi lo aggraverà.

Parla perché ha il dovere di parlare, non per convincere i presenti, che hanno orientamenti chiari e definiti; ma perché ha ricevuto un mandato non imperativo, e tuttavia molto preciso e desidera che negli atti rimanga traccia di queste sue affermazioni.

L’idea della Confederazione di Stati non deve essere scartata. Ha torto, a suo avviso, l’onorevole Grieco quando dice che, adottando questo sistema, si dovrebbero ricreare gli Stati per poi confederarli e che ciò costituirebbe un errore. Non vede quale danno ne potrebbe derivare. Erano certamente degli Stati piuttosto forti quelli di prima: il Regno delle Due Sicilie era il perno della vita politica ed economica italiana: basta pensare che nelle sue casse nel 1860, al momento del trapasso, vi erano 428 milioni d’oro, mentre nelle casse di tutti gli altri ex Stati riuniti non ce ne era nemmeno la metà: basta pensare al gettito della vendita dei beni delle soppresse corporazioni religiose, dalla quale si ricavarono circa 650 milioni che furono per la quasi totalità destinati al porto di Genova e alle ferrovie del Veneto e ad altre opere pubbliche dell’Alta Italia. E tutto questo deve far riconoscere pure che vi è un diritto nelle popolazioni siciliane ad avere qualche cosa di più della semplice autonomia.

Esorta ad esaminare il problema della confederazione di Stati italiani e a non abbandonarlo soltanto perché una enorme maggioranza della Commissione è unitaria. Esaminare questo problema potrebbe significare risolverlo.

Comunque, ha adempiuto al suo dovere, perché ognuno deve assumere le proprie responsabilità.

ROSSI PAOLO afferma che l’esigenza comunemente sentita non è, a suo avviso, né quella di una forma federativa, né quella di una forma regionalistica. Alla tesi federalista inclinano, evidentemente, siciliani, sardi e valdostani; ma il loro è un problema particolare che non deve influenzare tutta intera la struttura italiana. I loro casi specifici, ben noti, saranno regolati a parte. La federazione di Stati sarebbe una federazione di circondari, perché le regioni sono territorialmente così limitate che non si potrebbe parlare di Stati. Semmai si dovrebbe parlare di cantoni. Né l’esigenza vera è quella della creazione del nuovo ente regione, ma di un largo, profondo, sincero, efficiente decentramento amministrativo, al quale risultato si può arrivare benissimo anche senza costruire dal niente l’ente regione.

La creazione di una regione con piena competenza legislativa sarebbe una riforma completamente antistorica perché il processo comune di tutti gli Stati federativi è precisamente quello contrario, cioè di diminuire sempre più la competenza legislativa nei cantoni dello Stato per accrescere la competenza federale.

Per quanto riguarda l’autonomia giurisdizionale, richiama al fatto che il 90 per cento dei giudizi non sono giudizi di successione, o di filiazione, o di alimenti, ma giudizi di diritto mercantile, onde sarebbe proprio sul diritto mercantile che si determinerebbero differenze tra regione e regione. E facile immaginare cosa succederebbe se, oltre tutte le questioni di competenza territoriale, sorgesse anche l’eccezione di carenza di giurisdizione: i rapporti commerciali sarebbero praticamente impediti. Sarebbe dunque un grande regresso politico ed economico per il Paese avere varie giurisdizioni per limitate regioni.

Vero è che si potrebbero costituire delle regioni senza autonomia giurisdizionale e senza autonomia tributaria; ma non varrebbe la pena di introdurre questa grande innovazione quando le regioni non fossero autonome in nessuno di questi campi.

Ritiene inoltre che sia difficile in Italia determinare in modo soddisfacente, economicamente e politicamente, il territorio delle singole regioni. Vero è che l’Italia nasce dall’unione di molti staterelli, quasi nessuno di essi ha conservato per un periodo notevole una costante uniformità territoriale: quasi tutti hanno subito di secolo in secolo, di decennio in decennio, di anno in anno, di semestre in semestre, profonde modificazioni territoriali. Ci sono certo delle regioni – come appunto le Isole – che posseggono inconfondibili caratteristiche geografiche, etniche ed economiche; ma ciò non accade per tutta l’Italia.

Cita in proposito due esempi. Appena si è parlato della costituzione dell’ente regione, reclami molto vivaci sono stati fatti dalla provincia di Savona, la quale ha un porto in concorrenza con quello di Genova e un numero di abitanti notevolmente inferiore a Genova, ed osserva che, ove fosse istituito un Consiglio regionale, i consiglieri genovesi sarebbero in maggioranza e determinerebbero con quelli delle regioni finitime rapporti contrari agli interessi del porto di Savona. Essa perciò chiede di essere salvata dall’unione con Genova.

All’onorevole Finocchiaro Aprile, che ha ricordato la Liguria come un esempio caratteristico di unità regionale, fa quindi osservare come la Liguria offra questo contrasto fra Genova e Savona.

Recentemente si discuteva della ricostituzione della Corte di appello di Lucca, che dovrebbe avere competenza su tutta la zona nord-ovest della Toscana: Pisa, Livorno, Massa e Carrara. Ebbene, a parte Firenze, dove gli avvocati vorrebbero accentrare tutte le cause, Massa, col suo Consiglio dell’Ordine professionale, vi si è opposta, chiedendo l’unione con Genova. Né se ne capisce bene la ragione: certo non si tratta di maggiore facilità di comunicazioni, perché il viaggio tra Genova e Massa è molto più lungo che non fra Massa e Lucca.

Ci sono dunque nelle varie regioni dei motivi psicologici difficilissimi a penetrarsi, ma dei quali è pur necessario tener conto.

Infine bisogna fare attenzione che l’auspicato decentramento da istituirsi contro l’accentramento statale non si risolva in un accentramento regionale. Soppresse le provincie, molti sindaci e segretari comunali, che oggi lamentano di dover mettersi in viaggio per raggiungere il non lontano capoluogo di provincia, riterrebbero impossibile un viaggio di otto ore per andare al capoluogo di regione.

Questo vale per il caso che non si voglia mantenere la provincia; perché, se si vuole mantenerla, sorge un’altra osservazione. Si lamenta oggi una burocrazia che appesantisce. Ma se, per snellirla, oltre la burocrazia comunale, quella provinciale e quella centrale – e quest’ultima non si può sopprimere per il suo necessario sindacato di legittimità – se ne crea un’altra, regionale, invece di alleggerire, si appesantisce ancora di più.

Bisogna poi tener conto del fatto che le diverse provincie hanno interessi non complementari fra loro, ma concorrenti, e mal si adatterebbero quindi all’unità regionale.

A suo avviso, la soluzione migliore, perché più rispondente ad una formazione naturale, è quella di concedere ai comuni ed alle singole provincie già esistenti amplissime autonomie amministrative, da attuarsi concretamente così:

1°) abolizione dei prefetti;

2°) riduzione del controllo dello Stato al semplice sindacato di legittimità, senza alcuna interferenza circa il merito dei singoli provvedimenti;

3°) riconoscimento di una competenza regolamentare, se non normativa in senso assoluto, in numerose materie, come l’insegnamento professionale e industriale, la tutela del patrimonio agricolo, idrico, zootecnico, la tutela della circolazione stradale, ecc.;

4°) congrua elasticità di bilancio. (E qui occorrerà ascoltare dei tecnici, perché i mezzi debbono essere forniti con sicurezza e non si deve ricorrere all’integrazione dà parte dello Stato);

5°) riconoscimento di un potere di iniziativa legislativa.

A questo proposito richiama l’accenno fatto dal Relatore Ambrosini alla possibilità di concedere alle provincie ed ai comuni una iniziativa legislativa che sia meno vana del vecchio principio di petizione. Si dovrebbe fissare un termine entro cui quella iniziativa dovesse essere sottoposta all’autorità centrale.

La legge fondamentale potrebbe poi prevedere il libero e spontaneo raggruppamento di una o più provincie mediante referendum, e allora si avrebbe una unione naturale e le regioni si formerebbero per virtù propria.

LAMI STARNUTI non è in tutto d’accordo con l’onorevole Rossi e, per quanto dissenta in parte dalla relazione dell’onorevole Ambrosini, dichiara di essere in linea di massima favorevole all’ente regione.

Esiste la necessità politica ed amministrativa di spezzare l’attuale accentramento dello Stato e di dare al nuovo Stato una struttura agile e snella per cui tutti gli interessi locali trovino la loro soluzione nel luogo dove gli interessi sorgono, anziché nel centro dello Stato. Problema, quindi, non di semplice decentramento burocratico, ma di decentramento autarchico territoriale, e se si intende sottrarre allo Stato la quasi totalità delle sue attuali attribuzioni amministrative, la provincia non è in grado di provvedere alle funzioni che le si dovrebbero attribuire nell’ipotesi che non si facesse luogo alla creazione dell’ente regione.

Capisce le ragioni che hanno mosso l’onorevole Rossi per sostenere che il decentramento amministrativo debba trovare la sua sede nella provincia che è un ente locale già esistente, anziché in un ente locale di nuova formazione come la regione. Si possono ferire degli interessi locali precostituiti, sollevare opposizioni o proteste delle città capoluoghi di provincia, che si riterranno non solo sminuite ma anche danneggiate, perché la costituzione della regione dovrebbe portare all’abolizione della provincia come persona giuridica. Non crede, infatti, sia il caso di aggiungere la regione alla provincia, perché la provincia non potrebbe avere grandi funzioni, e perché questo triplice ordinamento locale finirebbe per costituire un aumento della burocrazia ed un aggravio per i contribuenti. Pensa però che i capoluoghi di provincia, con la costituzione della regione, non perderebbero interamente gli uffici amministrativi che ora hanno, perché la regione dovrebbe a sua volta far luogo ad un decentramento amministrativo di carattere burocratico e istituzionale e gli uffici decentrati della regione dovrebbero trovare necessariamente sede nell’attuale capoluogo di provincia. Quindi una lesione degli interessi materiali ora costituiti nei capoluoghi di provincia non si avrebbe.

Non sarebbe esatto obiettare che, se la regione costituisce un decentramento burocratico, permane tuttavia l’aggravamento della burocrazia, perché la regione dovrebbe rappresentare un alleggerimento ed un risparmio nel personale burocratico dello Stato.

È dunque favorevole alla costituzione dell’ente regione come strumento di decentramento amministrativo autarchico, che ritiene necessario per dare allo Stato italiano una veste e una struttura più agile, più corrispondente ai bisogni della nazione.

E pensa alla regione nel suo territorio tradizionale e storico, perché non è vero che non sia già prestabilito il territorio regionale. Quale che sia stata, nelle vicende storiche d’Italia, la fluttuazione di piccole parti del territorio nazionale, la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto, e gran parte delle altre regioni d’Italia sono fissate in modo preciso nei loro caratteri distintivi.

Pensa però che la creazione di Enti regionali dovrebbe esser fatta non soltanto per opera dei legislatori, ma con il contributo attivo delle popolazioni che vivono nel territorio di quelle regioni. Alla regione si dovrebbe lasciare, non la facoltà, come vorrebbe l’onorevole Zuccarini, di darsi lo Statuto, ma la facoltà di darsi la delimitazione territoriale. Se una regione pensa che la sua convenienza politica, amministrativa ed economica sia quella di non racchiudere in una unica circoscrizione amministrativa tutto il territorio della regione, dovrebbe poterlo fare. Se Savona ritiene che nella regione potrebbe essere sacrificata da Genova, l’Ente regionale dovrebbe tuttavia avere l’imparzialità che ha lo Stato verso tutte le parti del suo territorio e cercare, nella concordia delle popolazioni liguri, la scissione della regione in due parti. Alla stessa stregua due regioni limitrofe potrebbero riunirsi. Non si ha che richiamare i criteri amministrativi e giuridici della vecchia legge comunale e provinciale del 1915, per intendere subito come questo movimento di aggregazione e di separazione potrebbe avvenire.

Circa la competenza della Regione è d’avviso che questa debba avere una vera e propria competenza legislativa solo per alcune materie, come la pesca, la caccia, le scuole professionali; ma fuori di queste materie e di poche altre, la Regione non dovrebbe avere che una competenza di regolamento per la esecuzione della legislazione unitaria deliberata dallo Stato italiano. Invece le funzioni amministrative della Regione dovrebbero essere le più estese possibili, con sottrazione allo Stato di quasi tutte le attribuzioni di carattere amministrativo, così che non gli rimangano che quelle attinenti veramente e propriamente allo Stato politico.

Aderisce al concetto che la Regione abbia un diritto di iniziativa, nel vero significato della espressione, e che possa partecipare alla formazione della seconda Assemblea legislativa nazionale, se la si avrà.

Circa l’autonomia degli Enti locali è contrario al mantenimento della tutela. Concepisce la vigilanza come un controllo sulla legittimità degli atti amministrativi dell’Ente locale, e come un diritto di sostituzione da parte dello Stato o di un organo precostituito, in caso di inattività dell’Ente locale rispetto ad obblighi suoi di carattere giuridico. La tutela di merito esercitata dalla Giunta provinciale amministrativa o da qualunque altro organo, comunque concepito, dovrebbe essere abolita. Taluno teme che questa mancanza di tutela possa costituire un pericolo, ma egli pensa che contro questo eventuale pericolo dovrebbe stare esclusivamente il diritto popolare di referendum, che non è soltanto un mezzo di conservazione, come dice l’onorevole Einaudi, ma è un mezzo di partecipazione diretta della popolazione alle cose amministrative e politiche sue; un modo, anche, di impedire il formarsi delle oligarchie dei partiti.

Sull’accenno, che non ritiene completamente esatto, dell’onorevole Einaudi ad un caso di referendum svizzero, precisa che si trattava di una legge sulla concessione della cittadinanza votata dal Gran Consiglio del Canton Ticino all’unanimità, con il voto favorevole di tutti i partiti. Si era richiesto da una parte della popolazione il referendum e, questo indetto, cinque partiti del Gran Consiglio cantonale avevano fatto campagna insieme in favore della legge; ma il corpo elettorale si ribellò alla coalizione dei partiti. Fu un uso della sovranità forse sbagliato, perché la legge era ben fatta; ma un atto veramente mirabile di sovranità popolare. Qualche volta il popolo, che scende direttamente alle urne, sbaglia: ma è meglio che paghi i suoi errori, anziché gli errori che commettono i suoi rappresentanti amministrativi o politici.

Nella Regione, a suo avviso, dovrebbe essere un Governatore o, se la parola è brutta, un Consigliere di Stato, rappresentante dello Stato, a simbolo del carattere unitario dello Stato repubblicano, per funzionare da tramite tra gli Enti locali e il centro, e compiere l’ufficio di controllo di legittimità sull’attività amministrativa degli Enti locali. Questo Consigliere di Stato dovrebbe essere anche capo della polizia e rispondere dell’ordine pubblico, perché è bene che l’ordine pubblico sia affidato ad un funzionario superiore anziché ai Commissari locali o ai Questori dei vecchi capoluoghi di provincia.

Ritiene che tra le varie funzioni della Regione debba essere anche quella di polizia concorrente con la polizia di Stato. Non deve spaventare la presenza di due polizie: in Italia si sono avute sempre due polizie: i carabinieri e la pubblica sicurezza; l’una che sorveglia la città, l’altra le campagne, e senza gravi inconvenienti. Anzi questa duplice polizia può costituire un elemento e una garanzia di libertà: se uno degli Enti preposti alla tutela dell’ordine pubblico e dei diritti dei cittadini venisse meno in momenti eccezionali alla sua funzione, potrebbe sopperire onestamente la funzione dell’altro Ente.

UBERTI ritiene che nell’istituzione dell’Ente regione si debba essere particolarmente preoccupati di rimanere aderenti ad una realtà storica, per non creare una cosa astratta, non rispondente alle situazioni reali.

Non crede soddisfacente l’opposizione dell’onorevole Rossi, che preferisce il decentramento amministrativo, in quanto permette di realizzare tutti i vantaggi del sistema unitario, senza i danni attuali del centralismo. È in corso tutto un movimento di continuo sviluppo del centralismo. Anche oggi, che non v’è più il regime fascista, si assiste al costituirsi nella Camera di commercio, accanto agli organi locali, con gli stessi funzionari locali, l’U.P.I.C., cioè la rappresentanza locale del Ministero dell’industria e commercio. A Venezia l’onorevole Lombardi lo ha difeso con grande energia, manifestando la diffidenza dello Stato verso gli organi locali. Nel campo agricolo le Cattedre ambulanti d’agricoltura, che certamente assolvevano al loro compito, sono divenute strumento del Ministero dell’agricoltura. Il decentramento amministrativo del Magistrato delle Acque si è risolto con la istituzione del Provveditorato delle opere pubbliche, che in realtà non è un decentramento, perché si tratta di elementi distaccati dal Ministero dei lavori pubblici e perché tutte le sue decisioni devono essere approvate dal Ministero, per cui si è realizzato un peggioramento. In tutte le nuove leggi si vede un continuo aumento dei poteri centralizzati, ed è contro di questo che si eleva il malcontento delle popolazioni.

Ora, nella regione c’è una volontà realizzatrice: non si chiede la resurrezione di antichi Stati, ma la possibilità di intervenire e deliberare in tutte quelle questioni che hanno carattere locale. Il Veneto domanda perché nelle sue questioni si debba deliberare insieme con quelle che riguardano la Sicilia, la Calabria o la Sardegna, che hanno problemi completamente diversi o contrastanti. La possibilità di adeguare la legislazione alla realtà della vita ha una importanza essenziale: una legge è tanto più perfetta quanto più realizza la migliore aderenza ai bisogni locali; altrimenti si deve, per forza di cose, arrivare ad un minimo comune denominatore, che non può raggiungere mai gli scopi che si vogliono raggiungere.

La regione si potrebbe realizzare senza turbare la forma unitaria dello Stato: massimo potenziamento dell’iniziativa privata, libertà delle popolazioni, legislazione aderente ai bisogni della vita locale.

Non crede però che si debba sopprimere la provincia, la quale è una entità economica vera e propria, rappresenta una confluenza di interessi che non si può distruggere, ed ha i suoi compiti, sia pure limitati. Bisogna, invece, abolire l’intervento dello Stato nell’amministrazione locale dei comuni e della provincia, a mezzo del prefetto. L’esperienza compiuta in dieci mesi lo ha confermato nel convincimento contrario a questo regime centralizzatore, perché, o il prefetto ha iniziativa, e allora interviene in tutte le questioni e tutti si rivolgono a lui, oppure tende a lasciar fare, ed allora si ha uno svuotamento completo di questa autorità dall’amministrazione centrale.

Egli nega che il prefetto svolga una notevole attività politica. Quello che può fare è di intervenire in tutti gli atti di merito dei comuni, e questo dovrebbe essere eliminato, perché la principale aspirazione dei comuni è di poter deliberare nel merito senza attendere l’approvazione della Prefettura. Restituire ai comuni la loro indipendenza sarebbe già una grande conquista e per questo basterebbe trasformare la Giunta provinciale amministrativa, composta a maggioranza di membri governativi, rendendola a maggioranza di organi elettivi. Oggi, col sistema del Segretario comunale nominato dal Governo, si ha una intromissione continua di questo, per cui il comune non ha nemmeno la libertà di nominarsi il suo più diretto collaboratore.

Tornando alla regione, ritiene che, per creare un ente regione vitale, non sia il caso di dargli funzioni eccessive, per evitare un insuccesso. Quindi, non gli attribuirebbe un potere giurisdizionale. L’Austria, che è l’unico Stato veramente organizzato a regioni, non ha dato poteri giurisdizionali alle regioni. In Italia la Sicilia rivuole la sua antica Corte di cassazione, ma questa dovrà, se mai, funzionare nell’ambito statale.

Richiama la gamma di attribuzioni che il Relatore Ambrosini ha indicato per la regione, tra cui, per delegazione, tutta l’attività amministrativa statale. Non vede perché lo Stato dovrebbe dirigere l’amministrazione anche localmente, quando può delegare direttamente alla regione tutti i suoi compiti amministrativi. La regione potrà occuparsi di tutta la materia dei lavori pubblici, mentre attualmente tutte le questioni sono risolte da un unico Ministero che non sa neanche quali sono i lavori più o meno urgenti e che risponde soltanto a chi lo sollecita di più. Tutti i lavori pubblici, le bonifiche, le irrigazioni dovrebbero essere affidati alla regione. Sarà stabilito il quantum da spendere; ma una volta determinato questo, ogni regione deve poterlo utilizzare in relazione ai propri bisogni effettivi.

Nell’agricoltura solo la regione può avere una visione esatta delle proprie necessità. Si è veduto, per esempio, in occasione del lodo sulla mezzadria, quali diverse ripercussioni si siano avute da regione a regione. Si possono fissare delle norme generali, ma le riforme devono essere adeguate alle necessità locali affinché rispondano al bisogno di aumentare la produzione e di soddisfare le necessità dei cittadini. È evidente che la regione emiliana è profondamente diversa da quella pugliese. Anche nella distribuzione delle terre è diverso il criterio da seguire, per esempio, a seconda che nella zona sia o non sia possibile lo sviluppo della cooperazione. Si faranno leggi agrarie veramente efficienti, quando queste risponderanno perfettamente alla realtà della produzione e ai bisogni delle popolazioni. Per ciò, stabilite le norme generali, le applicazioni concrete devono essere fatte regionalmente.

Evidentemente, non si può dare alla regione il carattere di uno Stato, ma le si deve dare quello di un ente amministrativo che risponda ai bisogni sentiti e profondi delle popolazioni. Oggi, invece, esiste una frattura netta fra popolazione e Stato, determinata dal centralismo per il quale bisogna rivolgersi ad un direttore generale o ad un altro funzionario della capitale per risolvere un problema locale.

Altrettanto vale per i piani regolatori delle città. Chi mai più delle città dovrebbe essere responsabile della propria conservazione e del proprio sviluppo? Invece attualmente le città fanno i loro piani regolatori e poi interviene il centro, approvandoli o non approvandoli e la popolazione locale si vede denegato il diritto di deliberare su una questione che interessa così da vicino la sua vita.

Ha citato solo alcuni problemi, ma ve ne è una infinità in tutta la vita amministrativa. Per colmare il distacco fra popolo e Stato non v’è altro rimedio che quello di creare un ente con funzioni amministrative, e con qualche funzione propria normativa. E se domani si dimostrerà che altre incombenze siano da dare alla regione, nulla vieta che un emendamento alla Costituzione possa essere apportato in tal senso.

Non crede che, lasciando sussistere la provincia, si abbia il pericolo di creare un accentramento regionale, pericolo effettivamente avvertito, per cui Savona non vuole essere unita a Genova, la Lunigiana a Firenze ed in Sicilia le deputazioni provinciali si oppongono ad un loro assorbimento nella Regione. D’altra parte, v’è tutta una serie di importanti problemi regionali che è giusto siano risolti insieme dalle diverse provincie, e saranno risolti meglio che non a Roma.

A chi dice che non è possibile, se si crea la regione, lasciar sussistere la provincia, obietta che le regioni austriache sono poco più estese delle nostre provincie. Tutta l’Austria conta 5 milioni di abitanti; ha nove provincie e tuttavia ha il distretto, pura entità amministrativa. La comparazione con altre costituzioni, cioè, ammette che, nell’ambito della regione, possa rimanere la provincia, che potrebbe diventare un organo consorziale per determinati problemi, che oggi non trovano soluzione per il disaccordo dei comuni.

Sulla questione finanziaria osserva che quasi tutte le legislazioni la rimandano a leggi costituzionali, ma particolari. La nostra questione finanziaria non può non essere legata alla riforma tributaria generale dello Stato, perché, se si attribuiscono alla regione o una percentuale delle entrate attuali o particolari imposte, si rischia, come diceva l’onorevole Einaudi, di avere o la insufficienza o la eccessività. Occorre fare una analisi concreta, in rapporto ai definitivi compiti da attribuire alla regione ed alle sue necessità finanziarie. In molte legislazioni di Stati a sistema federale si ha l’imposizione dello Stato federale; ma dove questa non esiste, si può avere una unica imposizione da ripartire in percentuali fra i vari enti, per non creare imposte nuove. Onde una riforma tributaria generale che stabilisca quale percentuale del gettito debba essere devoluta alla regione. Gli inconvenienti cui si può andare incontro non sono argomento contro una determinata tesi; si tratta di questioni pratiche risolubili. Fondamentale è che il creare un’amministrazione finanziaria della regione accanto a quella dello Stato significherebbe moltiplicare gli organi, col pericolo non solo della doppia imposizione, ma della sperequazione fra le imposte. Ricorda in proposito che nell’antica legislazione austriaca imperiale, oltre alle 21 imposte, esisteva una quotizzazione a favore della regione.

Conclude che la creazione dell’Ente regione dà la risoluzione effettiva di un problema, che diversamente non sarebbe risolto e che non deve essere esasperato, arrivando alla forma federalistica, né minimizzato, persistendo nell’accentramento. La burocrazia centrale è allarmata ed armata contro l’autonomia locale, mentre non vi è motivo perché le esperienze dell’amministrazione centrale siano trasferite, per la parte esecutiva, alla competenza della regione. Superate queste difficoltà, creata la regione, anche coloro che forse la considerarono con qualche timore di diminuzione della vita unitaria del Paese, troveranno invece la possibilità di realizzare nella varietà e difformità delle regioni un’unità di maggiore contenuto e di assicurare alle iniziative locali piena efficienza e sviluppo.

CONTI rileva che da parte degli antiregionalisti si fa una manifestazione di conservatorismo veramente preoccupante. Mentre è stata eletta in Italia una Costituente per dare all’Italia una nuova Costituzione, da parte conservatrice – che sembra dovrebbe essere la parte rivoluzionaria del consesso – si vogliono adattare alcune piccole riforme sul tronco del vecchio regime.

Pensa che dovrebbe essere ben inciso nelle menti quello che ha detto l’onorevole Uberti, a cui desidera aggiungere qualche considerazione su un aspetto particolare non illustrato.

In fondo a tutto il problema che si sta ora agitando intorno alla Costituente dello Stato è un fatto fondamentale, generatore di tutto il male della vita del nostro Paese: in definitiva l’Italia è governata da non più di cento persone, che legiferano, e da non più di un centinaio di burocrati. In Italia si vive perché cento Deputati sui cinque o seicento governano l’Italia. Si può modificare come si vuole la burocrazia, metterle il berretto frigio invece della parrucca monarchica: si avrà sempre una burocrazia di cento persone, che domina tutta la vita italiana.

La via per rompere queste oligarchie, per spezzare questo andamento fatale alla vita del Paese è quella di trasformare l’organizzazione dello Stato, di creare la democrazia. Se non che, si continua a sbandierare la democrazia illudendo se stessi e gli altri. Per creare la democrazia bisogna far partecipare gli italiani alla vita legislativa, amministrativa, governativa del Paese. La pretesa di pochi Deputati di legiferare per l’Emilia e per le Puglie, per la Calabria e per il Piemonte, per la Sicilia e per il Veneto, insomma per tutta l’Italia, è assurda.

Bisogna, dunque, creare la democrazia, e a questo proposito ricorda un pensiero epigrafico dell’onorevole Einaudi: «la democrazia si crea con la molteplicità delle assemblee nella vita del Paese».

Quando si discuterà della regione, della provincia, sarà favorevole a queste, e ad altre forme di democrazia, al Consiglio comunale per primo, al Consiglio regionale e ad altri Consigli e consessi popolari nei quali si dibatteranno i problemi e si troveranno le soluzioni adeguate.

Se il male dell’Italia sta in questo fatto riconosciuto da tutti, in questo gruppo di oligarchi burocratico e parlamentarista, in questo nucleo di despoti della vita italiana, la regione rappresenta la soluzione efficace. La regione si creerà con le norme che saranno elaborate ed egli affretta col desiderio più vivo il momento in cui si cominceranno a scrivere quella decina o ventina di articoli che regoleranno la competenza e le attribuzioni della regione. Sono stati ricordati gli inconvenienti che si sono manifestati negli Stati Uniti ed in Svizzera; ma questi non costituiscono un argomento probante. Quando si sarà elaborata la Costituzione, si potranno riscontrare degli inconvenienti e degli errori, e si dovrà correggerli.

La creazione dell’Ente regione significa creazione di una forma nuova nella vita italiana per provvedere agli interessi degli italiani in quei modi che si fisseranno sulla carta.

Circa la questione della competenza, ricorda un progetto di statuto della Generalidad di Catalogna, progetto che non fu approvato e nel quale sono concretate le competenze della regione: tutta una serie di attribuzioni che nello statuto definitivo si ridussero appena ad un quarto. La competenza sarà quella che verrà stabilita.

Così per quanto riguarda la delimitazione territoriale, può darsi che vi siano delle regioni ben delimitate per le quali la discussione è semplice e facile (Giuseppe Ferrari, quando vagheggiava la federazione italiana, parlava di otto centri, che però non sono stati mai precisati nei suoi scritti); ma il miglior sistema è quello di accogliere un concetto democratico: fissare dei sicuri raggruppamenti di popolazione, e poi, col metodo democratico più serio, accogliere l’espressione della volontà dei cittadini. La Liguria, per esempio, è abbastanza ben delimitata; altre regioni lo sono più vagamente. Come vi è oggi una delimitazione di territori per la provincia, domani vi sarà per la regione, in modo tale da consentire gli sviluppi dei lavori legislativi, amministrativi ecc.

Circa il problema della provincia, avverte di essere stato sempre un nemico accanito dei Prefetti, e afferma che ci si deve avviare verso l’abolizione completa di questi funzionari che gli italiani detestano ormai concordemente. Resta il problema posto dalla tradizione, dalle abitudini, perché da quando si è creata la provincia, si sono avviate verso questo centro le attività tendenti al soddisfacimento di certe necessità. E si può mantenere la provincia come organo di decentramento della regione. Non crede opportuno conservare i Consigli provinciali, di cui si può fare benissimo a meno una volta che vi sia un’Assemblea regionale.

Richiama ancora l’attenzione sul fatto fondamentale e funesto della «oligarchia governamentale», che risiede a Roma, di pretesi legislatori, di burocrati. Anche i sapienti hanno dato prova di incapacità: grandissimi uomini di Stato nel Parlamento italiano sono falliti. Quindi creazione di Assemblee regionali.

Il Consiglio comunale rappresenta il primo grado. I comuni liberi nelle grandi città riusciranno a trattenere nel loro ambito una quantità di cittadini, i quali essendo oggi inutilizzati nel loro paese per un’attività pubblica, emigrano e vanno tutti a finire a Roma o nelle altre grandi città. Una vita comunale attiva, viva e prospera, in virtù dell’attività di tutti, tratterrà nei capoluoghi molti elementi che altrimenti andrebbero a confluire nelle grandi città. Nelle Assemblee regionali poi saranno portate numerose altre persone, che altrimenti sarebbero sacrificate dal punto di vista della partecipazione alla vita attiva. Tanti candidati delle lotte elettorali che non hanno potuto giungere al Parlamento Nazionale, potrebbero trovare posto degnissimo e con grande utilità nell’Assemblea regionale, dove potrebbero svolgere magnificamente una funzione utile per il Paese.

Il Parlamento centrale – la Camera dei Deputati – dovrebbe essere costituito da pochissimi elementi: il numero di 556 è esagerato, 300 sarebbero già troppi per fare quel poco che rimarrebbe da fare, perché, se le competenze legislative regionali saranno allargate e sarà sottratto al Parlamento centrale tutto quel groviglio di materie sul quale esso non dice mai una parola competente ed utile, il numero dei Deputati potrà essere grandemente ridotto. L’Assemblea regionale sarà il luogo in cui potranno convenire molte competenze specifiche, risolvendo anche il concetto della rappresentanza organica, per la trattazione di problemi inerenti all’agricoltura, al commercio, alle scuole medie ecc.

Quando sarà decisa la formazione della Regione e quando sarà stato adeguatamente studiato il complesso delle competenze e dei compiti da attribuire al nuovo ente, si sarà compiuta opera utile per il Paese. Se si negasse al Paese questa soluzione, non si compirebbe quell’opera che esso aspetta, perché la sua aspettativa è proprio questa.

TOSATO, dopo la discussione analitica, ritiene opportuno riportare il problema ai suoi termini sintetici, non tanto perché la discussione analitica non sia necessaria, ché anzi attraverso l’analisi si sente ancora più viva l’esigenza delle autonomie, ma per avviare la discussione verso la decisione.

Osserva che tutti sono ormai concordi sulla necessità e sull’opportunità di un certo decentramento: le differenze si riscontrano solo circa la intensità, il grado e le modalità del decentramento. Ritiene che le tesi prospettate finora possano ridursi sostanzialmente a quattro: una tesi estrema, la quale vorrebbe trasformare l’Italia da Stato unitario a Stato confederale; alla quale ne corrisponde un’altra, pure estrema, che sostanzialmente nega l’autonomia e si limiterebbe soltanto a soddisfare l’esigenza di un maggior decentramento sia per i comuni che per le provincie; e due altre che si possono definire intermedie, che vorrebbero, l’una trasformare l’Italia in Stato federale e l’altra che, anziché di federalismo, parla semplicemente di autonomia regionale.

Per quanto riguarda la tesi della confederazione di Stati osserva che, a parte ogni altra considerazione, essa non sia attuale perché, per arrivare ad una confederazione, occorrerebbe anzitutto scindere l’Italia in tanti Stati e poi fra i diversi Stati ristabilire un certo collegamento che, in ogni caso, non darebbe vita ad uno Stato unitario ma ad una semplice confederazione.

Non crede accettabile questa tesi, non fosse altro che per ragioni pratiche.

A proposito dell’altra tesi estrema, rileva che il principio di un semplice ampliamento delle autarchie comunali e provinciali è stato sostenuto dall’onorevole Rossi, il quale ha fatto presenti alcune difficoltà relative all’autonomia regionale, inerenti soprattutto al fatto che sorgerebbero conflitti fra provincia e provincia e che, con l’istituzione dell’Ente regione, si avrebbe un nuovo centralismo. Ma la tesi dell’onorevole Rossi, che vorrebbe un ampliamento della potestà regolamentare dei comuni e soprattutto delle provincie, non gli sembra accettabile perché, pur essendo effettivamente sentito il bisogno – per far corrispondere l’azione dello Stato alle esigenze locali – di dare agli enti locali una certa autonomia in determinate materie ora sottratte alla loro competenza (autonomia legislativa), si verrebbe a creare in Italia una tale pluralità e molteplicità di legislazioni locali che importerebbe delle difficoltà forse insormontabili. Se si vuole invece soddisfare effettivamente l’esigenza a cui corrisponde la tendenza autonomista, è necessario che questa esigenza sia soddisfatta nell’ambito di un ente più vasto della provincia, che non può essere che la Regione. Riguardo alle altre difficoltà prospettate dall’onorevole Rossi osserva che già dalla relazione dell’onorevole Ambrosini risulta che, se in determinate materie è utile ed opportuno attribuire alla Regione una competenza legislativa esclusiva, vi sono tuttavia delle altre materie in cui la competenza legislativa della Regione potrebbe considerarsi secondaria e dipendente dalla legislazione direttiva di pertinenza dello Stato. In tal modo, tutte le difficoltà prospettate (ad esempio le questioni tra il porto di Savona e quello di Genova) potrebbero essere risolte attraverso questa legislazione direttiva.

Circa le altre due tesi, ritiene che occorra abbandonare ogni questione di parole che diventa assolutamente inutile, per andare direttamente verso la realtà. È d’avviso che tra queste due tesi non vi sia sostanzialmente alcuna differenza in quanto, attribuendo alla Regione una potestà legislativa esclusiva, sia pur limitata a determinate materie, si cade senz’altro nel principio federalistico. A parte tutte le discussioni di carattere teorico sulla natura dello Stato federale, tutto il problema si riduce alla necessità di dare un sempre più ampio respiro alle esigenze locali, in modo che le Regioni possano – come crede fermamente – disciplinare in autonomia determinate materie. Bisogna quindi arrivare alla creazione dell’Ente regione, attribuendogli una tale potestà legislativa; salvo poi a vedere se questa potestà legislativa dovrà avere un ambito maggiore o minore; discussione di dettaglio che non tocca la questione di principio.

L’unica vera difficoltà che si prospetta contro la creazione dell’Ente regione è che, accanto al centralismo statale, si verrebbe a creare un centralismo regionale. A questo proposito ritiene che si debbano tener presenti alcune considerazioni. L’Ente regione non deve essere qualcosa che si sostituisca ad una realtà effettiva, ché in questo modo si creerebbe un ente artificiale; l’Ente regione deve essere creato per rispondere a determinate esigenze storiche concrete e non deve innovare radicalmente la struttura degli enti locali. Il comune deve restare; si prospetta soltanto il bisogno di svincolarlo, se non da tutti, dalla gran parte dei controlli di merito. Per quanto riguarda la provincia, crede siano ormai tutti convinti che non trattasi di un ente artificiale ma di una realtà storica, di un centro di interessi, che deve considerarsi come una comunità effettiva nella vita dello Stato italiano. Il problema si riduce a quello dei rapporti tra provincia e regione e viceversa.

Se si vuole essere pratici e concreti e aderire alle effettive esigenze, bisogna considerare la regione innanzi tutto come un ente con potestà normativa; le provincie debbono restare, anzi dovrebbero accrescere la loro competenza, in relazione alla soppressione della prefettura. Tutta la serie di doppioni, che esistono oggi tra la provincia come ente autarchico e la provincia come ente amministrativo (prefettura), scomparirebbero, determinandosi in tal modo un notevole alleggerimento burocratico. La provincia verrebbe così ad avere anche altri importantissimi compiti, principale fra tutti quello di seguire le norme emanate dalla Regione. Per questo non è necessario creare una burocrazia regionale, perché, se la Regione dovesse avere oltre alla competenza normativa anche qualche competenza amministrativa, questa dovrebbe limitarsi a quella parte di attività attualmente di competenza dell’amministrazione governativa locale che dallo Stato dovrebbe passare alla provincia (la quale dovrebbe conservare la sua personalità giuridica, perché intorno ad essa esiste tutto un complesso di interessi anche patrimoniali che ne sono il fondamento).

Si sono ricordati i Provveditorati alle opere pubbliche: sarebbe questa una delle attività locali che dovrebbero passare sotto il controllo della Regione la quale, diventando organo direttivo di questa attività statale, non avrebbe alcuna necessità di creare una burocrazia.

In conclusione, scartata l’ipotesi della confederazione, scartata l’ipotesi di un semplice decentramento amministrativo con l’estensione della podestà regolamentare, si vede che le due tesi, dello Stato federale e dell’autonomia regionale, coincidono e tutto il problema si risolve nella determinazione della sfera di competenza normativa della Regione.

(La seduta, sospesa alle 19.05, è ripresa alle 19.15).

BOZZI ritiene che dalla discussione fino ad ora svoltasi un punto di partenza possa risultare pacifico e comune a tutti: l’esigenza di una maggiore espansione delle autonomie locali. I diversi punti di vista si cominciano a delineare quando si tratta di dare consistenza al contenuto giuridico – poteri e limiti – di queste autonomie.

Concorda sulla necessità di dare un colpo decisivo al centralismo burocratico: ma non soltanto a quello statale, sibbene anche ad ogni altra forma di centralismo che comunque potesse soffocare, comprimere, mortificare la libera espansione e la vitalità delle autonomie locali. Con un sistema che sostituisse al centralismo statale un centralismo regionale, non verrebbe raggiunto lo scopo desiderato, anzi, sotto alcuni profili, quello regionale potrebbe essere peggiore del centralismo statale.

Appunto per ovviare a queste conseguenze, occorre, a suo avviso, prendere le mosse dall’ente locale primigenio: il comune.

Ritiene che una riforma della struttura comunale dovrebbe soprattutto imperniarsi, da un lato su di una discriminazione, con effetti giuridici, dei comuni in funzione non soltanto della quantità della popolazione, ma anche della diversa natura dell’aggregato sociale – ed ognuno pensa già al comune rurale – e dall’altro sulla necessità di svincolare il comune dalla maglia rigida dei controlli attuali; controlli oggi in gran parte accentrati nella autorità prefettizia.

Sotto quest’ultimo punto di vista, precisa che non si tratta di eliminare ogni controllo, dato che la necessità di un controllo può ritenersi giustificata se non altro dal fatto che la sua esistenza acuisce il senso di responsabilità della autorità al controllo stesso sottoposta, ma di creare un sistema di controllo, indiscutibilmente di legittimità, forse anche di merito, che non sia espressione di un prepotere centrale. Oggi la vita dei comuni è grama, non solo per la pressoché generale deficienza di mezzi economici e finanziari, ma anche in conseguenza degli eccessivi controlli.

Per ciò che riguarda la provincia, concorda con l’opinione di coloro che ritengono dovere questo ente rimanere in vita, tanto nell’ipotesi che si voglia dar luogo alle autonomie regionali, quanto in quella contraria.

Precisa che intende parlare della provincia come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia e di autonomia insieme, cioè di poteri che si esplicano nel campo amministrativo e normativo, prescindendo quindi dal secondo aspetto, vale a dire da quello di circoscrizione amministrativa, a capo della quale sta il prefetto. Storicamente la provincia come ente autarchico territoriale è stata trapiantata in Italia in seguito alla riorganizzazione amministrativa che seguì l’occupazione francese nei primi anni del secolo scorso. In fondo non si tratta che del dipartimento francese che si è portato in Italia. Tuttavia, la provincia è diventata un centro di attività e di interessi che è oggi difficilmente sradicabile. Tentare di eliminare la provincia significherebbe andare incontro a resistenze, attive e passive, che renderebbero difficile il compito.

Ritiene che anche nell’ambito della regione la provincia possa a buon diritto sussistere come persona giuridica di diritto pubblico, soggetto di autarchia, soprattutto in quanto potrà servire da tramite tra il comune e la regione, contribuendo ad evitare un accentramento regionale. Oggi i comuni sono gravati di funzioni complesse, cui non sempre possono adempiere. Molti dei compiti dei comuni potrebbero essere attribuiti alle provincie, le quali dovrebbero essere soprattutto viste, a suo avviso, come consorzi di comuni.

È pertanto favorevole a conservare la provincia, come organo di attuazione della funzione amministrativa della regione, e come forma di decentramento intraregionale.

Viene poi il problema della regione. Se la regione si deve creare, essa deve essere munita di una autonomia politica o legislativa, perché altrimenti si creerebbe una superstruttura non giovevole.

Quindi, bisogna attribuire alla regione una potestà normativa primaria, cioè la potestà per la regione di creare delle leggi formali; oltre che leggi secondarie, di adattamento e di attuazione.

Si deve creare la regione dappertutto?

Quando si parla di autonomia regionale si considerano la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta; ma è vero che una esigenza nella stessa misura e intensità sia avvertita da tutte le altre regioni?

Propone di configurare la regione facoltativa; cioè la Costituzione dovrebbe stabilire alcuni principî fondamentali, e poi dovrebbe essere rimesso ad un atto di libera determinazione, di libera volontà, delle provincie il chiedere uno statuto regionale, che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione degli organi parlamentari riuniti.

Si può obiettare: ma così si verrebbe a creare uno Stato di varia struttura.

Precisa la sua proposta nel senso di rimettere alle regioni non soltanto la composizione di ogni eventuale conflitto territoriale; ma rimettere alla loro volontà, manifestata col referendum, l’esistenza stessa del nuovo ente.

Pensa che questo sistema consentirebbe di risolvere la questione con un gradualismo che permetterebbe di fare delle esperienze. La Costituzione spagnola segue un orientamento di questo genere.

In fondo non si può rispettare l’esigenza di una perfetta architettura giuridica, ma si debbono piegare gli schemi giuridici alle reali esigenze degli aggregati sociali.

Concludendo: potenziamento dei comuni, svincolandoli dal regime dei controlli quale oggi è; varietà di tipi di comune, a seconda della varietà dell’aggregato sociale; mantenimento della provincia come persona giuridica pubblica soggetto di autarchia e di autonomia e come strumento capace di evitare raffermarsi di un accentramento regionale; affermazione della regione (Ente dotato anche di potestà legislativa primaria), come espressione di libera manifestazione degli stessi aggregati provinciali.

MORTATI ritiene che in questa discussione compito della Sottocommissione sia quello di individuare gli elementi che consentano una soluzione; e per raffigurare questi elementi essenziali bisogna considerare anzitutto gli scopi del decentramento, appunto per stabilire poi i mezzi giuridici per il raggiungimento di questi scopi.

Questi scopi sono stati accennati, ed è bene riassumerli perché sono così connessi fra loro che bisogna cercare di raggiungerli tutti; altrimenti l’istituto del decentramento verrebbe meno alle sue esigenze fondamentali.

Gli scopi sono tre:

1°) innanzi tutto l’avvicinamento dell’amministrazione agli interessi locali; al duplice scopo dell’educazione politica dei cittadini e dell’adattamento alle esigenze locali;

2°) garanzia di libertà quale può essere data da un saldo gruppo omogeneo;

3°) infine, e questo non è stato accentuato sufficientemente nella sua funzione essenziale, equilibrio delle regioni fra loro, superando l’inconveniente, che si verifica in tutta la storia d’Italia, della sopraffazione da parte delle regioni più popolate e più ricche di quelle meno popolate e più povere. Occorre creare e rafforzare una coscienza regionale creando gli istituti adatti al suo sorgere e le possibilità di equilibrio, così da far valere in modo più efficace gli interessi delle regioni meno dotate.

Per raggiungere questi scopi, occorre innanzi tutto una vera autonomia, non soltanto amministrativa, ma costituzionale, garantita dalla Costituzione con un tribunale apposito per risolvere gli eventuali conflitti di competenza. Occorre poi una certa autosufficienza: è assurdo conferire l’autogoverno senza una sufficiente autonomia finanziaria, senza un minimo di mezzi economici per far fronte alle spese della regione. Una vera autonomia suppone, inoltre, che si possa fare a meno del controllo esterno, cioè dell’intervento di organi dello Stato centrali. Quindi anche l’esame di legittimità degli atti dovrebbe essere affidato in proprio agli enti locali; occorrerebbe cioè ricorrere al controllo interno nell’ambito degli stessi enti, attraverso l’interessamento dei cittadini alla cosa pubblica, con mezzi (come per esempio: un sistema di azioni popolari) che diano agli amministrati le possibilità più efficaci di controllo, dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi.

Bisogna inoltre evitare un accentramento regionale che sarebbe più pericoloso dell’accentramento burocratico statale; bisogna, cioè, che alla regione competano prevalentemente le funzioni direttive, normative, mentre il compito dell’esecuzione dovrebbe essere lasciato agli enti locali minori, cioè ai comuni e ad un ente intermedio che non dovrebbe essere l’attuale provincia, ma un gruppo sociale minore che si dovrebbe creare attraverso adattamenti successivi, essendo evidentemente impossibile farlo sorgere da un giorno all’altro. Questo ente intermedio dovrebbe essere più ristretto dell’attuale provincia, e con carattere più omogeneo. Si potrebbe, per esempio, pensare a quel consorzio di comuni di cui è stato parlato, organizzato secondo l’identità degli interessi e delle aspirazioni, e la possibilità di un’azione comune nei vari campi. Così l’amministrazione sarebbe meglio avvicinata agli amministrati e potrebbe meglio operarsi una selezione delle capacità in base alla conoscenza personale dei portatori delle medesime.

Il concetto di comunità, che è stato recentemente illustrato dall’Olivetti, ma che deriva dalla concezione cattolica di una società organica, potrebbe essere utilizzato quando si volesse procedere alla costituzione di questi aggregati intermedi fra regione e comune, perché precisamente soddisfa alle esigenze che si sono indicate.

Un’altra funzione della regione potrebbe essere quella dell’esercizio, in virtù di delegazione, di compiti statali, in modo da evitare duplicazione di uffici e giungere ad una riduzione del personale. Invece dovrebbero rimanere alla cura di uffici direttamente gestiti dallo Stato altri compiti, come per esempio quello della pubblica sicurezza, per i quali più sensibile è l’esigenza dell’unità d’azione e più rilevante l’interesse politico generale.

Un ultimo punto essenziale è quello della costituzione dei nessi fra centro e periferia, perché non si può negare l’esigenza unitaria dello Stato moderno in alcuni campi. Questo vale specialmente nel campo economico, dove, pur volendo lasciare alla regione una certa latitudine di azione, è necessario preoccuparsi contemporaneamente di non compromettere la realizzazione di piani nazionali. Non sa se e quanto l’economia si indirizzi verso forme di economia pianificata; ma se queste esigenze di pianificazione ci saranno, bisogna che siano attuate non da una burocrazia più o meno competente e responsabile, ma dalle autorità regionali; è necessario che queste autorità regionali siano inserite nell’ordinamento centrale, in modo che i piani siano concretati attraverso la partecipazione attiva delle medesime. E questo inserimento dovrebbe avvenire in modo da correggere la sperequazione attuale tra le regioni d’Italia più numerose e più ricche e le regioni più povere e meno popolate.

Il punto accennato è di straordinaria importanza, e dalla sua felice soluzione dipende la possibilità di un proficuo impiego di un regime decentrato.

Si pensi, per esempio, all’influenza che sulla disciplina dell’economia da parte delle singole regioni esercita la politica doganale. Ora, se alle decisioni su tale politica non partecipassero organi formati con il concorso delle regioni, con le forme perequative accennate, potrebbe essere reso vano ogni sforzo di autonomia delle singole regioni.

La necessità di utilizzare le regioni nella formazione di organi centrali dello Stato porta ad escludere la tesi sostenuta dall’onorevole Bozzi sulla possibilità di una regione opzionale. Sta bene lasciare un certo potere di autogoverno alle regioni, e quindi di adattamento della loro organizzazione alle esigenze di ciascuna di esse; ma accanto a questa discrezionalità di organizzazione interna bisogna mantenere un tipo strutturale uniforme. Questo è, a suo avviso, un elemento fondamentale per giungere all’accettazione della tesi regionalista.

Fa presente, infine, un ultimo punto che riguarda la concretezza del lavoro della Sottocommissione. Si avvertirà ad un certo momento il bisogno di dire qualcosa sul modo di concretare questi enti regione. Sarebbe opportuno perciò avere a disposizione taluni dati positivi, statistici ed economici, che potrebbero guidare il lavoro della Sottocommissione ed indirizzarla nelle proposte da fare circa la delimitazione territoriale. Propone quindi di prendere in considerazione questo aspetto pratico della questione, promovendo la formazione di una segreteria con compiti di raccolta di dati, anche presso organi centrali o locali, e di elaborazione dei medesimi.

MANNIRONI interviene in questa discussione per portarvi un contributo che deriva da una sua esperienza di vita regionale.

La Sardegna, forse per la prima, ottenne la possibilità di vivere in un regime relativamente autonomistico. Prima ancora che in Sicilia, si era costituita in Sardegna una Consulta regionale, la quale doveva affiancare l’opera di un Alto Commissario, nominato dal Governo centrale. Era un primo esperimento; ma non era tutto, anzi basta pensare al fatto che l’Alto Commissario era di nomina governativa per escludere che si potesse parlare di autonomia. Tuttavia la Consulta regionale, che funziona affiancando l’opera dell’Alto Commissario ed esercitando un potere di consulenza, ha potuto dimostrare fino a qual punto di maturità le popolazioni sarde fossero giunte per una vita autonomistica, e ha dato anche un saggio delle possibilità e delle realizzazioni a cui si può arrivare.

Alla Sardegna questa concessione fu fatta per prima, perché l’esigenza autonomistica è colà vivamente sentita, soprattutto per ragioni geografiche ed economiche. Ma oggi l’onorevole Uberti, che è un veneto, ha pur dichiarato di sentire al pari dei sardi l’esigenza autonomistica; ed altri colleghi vivono egualmente questa necessità, e la sentono soprattutto come espressione di quel corpo elettorale che li ha inviati alla Costituente.

Dall’insieme della discussione fin qui svolta risulta quindi che tutti sono già orientati verso questa forma di decentramento e di autonomia regionale. Riconosce anch’egli che non bisogna fare questioni di nomi; bisognerebbe che ciascuno cercasse in questa discussione di arrivare il più possibile al concreto, dimenticando l’attaccamento a teorie e tesi politiche finora abbracciate.

Ora, che si tratti di una forma di federalismo o di una forma di regionalismo poco importa (le definizioni sono sempre pericolose); importante è venire al concreto e vedere fino a qual punto si può consentire alla regione di vivere una vita autonoma.

Qualcuno ha parlato di creazione della regione. È un termine erroneo: lo Stato, la legge non crea la regione; la riconosce, perché la regione esiste come entità economica, storica, geografica, linguistica ecc. Perciò, non può accettare la tesi dell’onorevole Bozzi. La regione esiste, e deve essere riconosciuta per tutta l’Italia: altrimenti si avrebbero delle regioni esistenti autonomamente ed altre no, e delle situazioni pericolose ai fini stessi dell’unità nazionale.

Scendendo al concreto e preoccupandosi delle realizzazioni definitive, osserva che la prima preoccupazione che si deve avere è quella di stabilire quali sono i limiti dell’autonomia da concedere alla regione e dei poteri da darle. La regione è uno degli enti, si potrebbe dire, di diritto naturale, come il comune, e quindi un ente insopprimibile; un ente che esiste e che bisogna riconoscere proprio perché in questa maniera, non solo si favorisce l’educazione politica dei cittadini, ma si dà loro giustamente modo di provvedere essi stessi ai loro immediati bisogni attraverso gli organi e gli enti che sono più vicini a loro.

I compiti della regione possono èssere definiti in rapporto al comune e allo Stato, per via di esclusione, e vi si può arrivare meglio tenendo conto della configurazione territoriale di questi enti. Lo Stato provvede a tutti i bisogni generali dei cittadini, ai fini della difesa, della rappresentanza diplomatica, dell’istruzione superiore, delle leggi di economia generale, al sistema delle telecomunicazioni, alla polizia generale. Tutte quelle che non sono esigenze generali rientreranno invece nei compiti della regione, la quale ha esigenze particolari sue, che sono la somma delle esigenze dei comuni. In sostanza, la regione dovrebbe essere quell’ente che difende meglio la libertà dei comuni, provvede alle loro immediate esigenze, tutelandole rispetto allo strapotere dell’organismo statale. Quindi, alla regione potranno essere affidati compiti in materia di agricoltura, di industria, di pesca, di caccia, di lavori pubblici, di lavoro, di previdenza, di assistenza, di beneficenza e vari altri che possono essere sottratti alla competenza esclusiva dello Stato.

Non crede che possa sorgere un conflitto tra le competenze della regione e quelle dello Stato quando siano fin da principio completamente e chiaramente definiti i poteri dell’un ente e dell’altro; e soprattutto questi poteri dovranno essere definiti nella Carta costituzionale, in cui bisogna preoccuparsi di essere chiari. In ogni caso all’eventuale insorgere di contrasti e di conflitti di competenza fra i due enti potrebbe benissimo provvedere il Tribunale costituzionale, utilmente intervenendo anche in questa sede e in questi casi.

Affinché la regione possa assolvere i suoi compiti, essa deve avere una autonomia effettiva, non fittizia, e quella potestà legislativa cui da altri si è accennato, che potrà pure essere determinata in origine, per evitare conflitti di competenza con lo Stato, e che dovrà essere limitata alle specifiche materie già ricordate. E questa potestà legislativa potrà essere riconosciuta anche nel senso che alla regione sia riconosciuto il potere di emanare norme di attuazione delle leggi generali che fossero emanate dallo Stato.

Un altro problema è quello del modo in cui dovrà essere organizzata la regione. Crede che in questa sede si dovranno fissare delle norme generali e, per essere autonomisti rispettosi della volontà della regione, si dovrà consentire che, entro il quadro generale fissato dalla Costituente, ogni singola regione provveda al proprio ordinamento. Ricorda in proposito che quando la Consulta espresse parere favorevole al decreto che riconosceva l’autonomia della Sicilia, fu proposto che quel decreto fosse esteso automaticamente anche alla Sardegna; ma in Sardegna, e proprio in seno alla Consulta regionale, si ebbe una reazione vivissima a quel provvedimento, perché non si vuole quella forma di autonomia che è stata concessa alla Sicilia; non si vuole quella estensione automatica e si chiede di essere sentiti, perché quella che può essere una giusta esigenza per la Sicilia, non lo è per la Sardegna.

LUSSU rettifica, avendo assistito alla riunione della Consulta Sarda, precisando che i monarchici dicevano di non volere che l’autonomia fosse concessa per decreto regio. Parve perciò strano a molta parte dell’opinione pubblica che questa forma di diffidenza verso un decreto regio l’avessero proprio i monarchici. Egli ebbe l’impressione, e con lui molti altri, che dietro quell’atteggiamento fosse un motivo elettoralistico piuttosto che di interesse regionale effettivo.

MANNIRONI dissente dal rilievo dell’onorevole Lussu, perché non erano soltanto i monarchici a reclamare la concessione dell’autonomia per decreto regio: esponenti di varie correnti politiche, da quella democristiana a quella comunista, erano d’accordo, perché si sentivano regionalisti e l’onorevole Lussu, che avvertì l’opportunità di discolparsi in sede di Consulta regionale del suo intervento, sentì in quel momento quali fossero gli umori: era una reazione in senso autonomistico.

LUSSU afferma che nessuno degli oratori in quella sede manifestò queste esigenze particolari, che dovevano essere espressione locale: la preoccupazione era che l’autonomia potesse essere concessa per decreto regio. Ed erano tutti monarchici, tranne alcuni comunisti, che per l’occasione erano coi monarchici.

MANNIRONI, indipendentemente da questo episodio, sulla cui valutazione c’è disparità di vedute, afferma che, a voler essere coerenti con se stessi e partendo dagli stessi presupposti autonomistici, si deve fare in modo che la regione possa creare una specie di costituente iniziale in seno alla regione stessa e provvedere al suo organamento e alla sua costituzione, naturalmente entro linee generali che dovranno essere fissate dalla Costituente.

Queste linee generali dovranno essere quelle che ha lo Stato in Italia; cioè gli organi che presiedono alla regione dovranno essere elettivi, eletti a suffragio universale, segreto, con sistema proporzionale. Dovrà, cioè, valere per le elezioni regionali, con le opportune modifiche e i necessari adattamenti, quella stessa legge che vale per l’Assemblea nazionale. L’Assemblea regionale dovrà nominare un Consiglio; dovrà avere quindi un capo, che si potrà chiamare presidente, governatore, o altrimenti, e che sarà l’organo esecutivo della volontà dell’Assemblea regionale.

Ma la regione, affinché possa adempiere a questi suoi compiti, oltre alla potestà legislativa, dovrà avere anche una sua autonomia finanziaria. Si rende conto delle preoccupazioni e delle difficoltà che ha sollevato l’onorevole Einaudi: sono argomenti che rendono perplessi, perché provengono da una fonte non sospetta e soprattutto da un competente in materia. Ma se alla regione non si concedesse un minimo, perlomeno, di autonomia finanziaria, l’esperimento regionalista non sortirebbe buon fine; si ridurrebbe ad una forma di decentramento che non muterebbe la situazione, non farebbe altro che trasformare il centralismo dello Stato lasciando sempre lo Stato dominatore dì tutte le situazioni, non dando alcun sviluppo e respiro alle energie regionali, che più direttamente ed utilmente possono occuparsi dei problemi locali. Se non si dà alla regione un minimo di autonomia finanziaria non si risolve nemmeno la questione del Mezzogiorno. Come ebbe a dire l’onorevole Labriola nel suo ultimo discorso in Assemblea: giacché il Mezzogiorno insiste nel volere questa autonomia, per risolvere da sé i suoi problemi, bisognerà che questo esperimento lo si lasci fare. Non si può ignorare questa esigenza delle popolazioni meridionali; la si deve tenere presente in sede di Costituente, dove sono rappresentati tutti gli indirizzi politici, ma anche tutti gli interessi delle varie regioni italiane.

Questa autonomia finanziaria sarà necessaria affinché le regioni, che si considerano ingiustamente sfruttate, possano avere la possibilità di rimediarvi. Vi saranno regioni non autosufficienti e tra queste sarà la Sardegna, la quale è certamente una terra molto povera, con i tre quarti o quattro quinti della sua superficie incolta e in gran parte improduttiva; ma ve ne saranno altre autosufficienti. Quindi la necessità dell’intervento dello Stato per costituire una specie di stanza di compensazione, un piano di solidarietà fra le regioni, perché è giusto che le regioni ricche contribuiscano ad integrare i bilanci insufficienti delle regioni povere. Questo è un punto delicato della questione; tuttavia non così grave da potersi ritenere insuperabile. La regione potrà contare sui demani regionali, su determinate imposte: le si potranno assegnare tutte le imposte dirette sui terreni e sui fabbricati; le si potrà consentire l’istituzione di altre imposte, come le si potrà concedere una percentuale sulle imposte di ricchezza mobile e di produzione, che è giusto siano prelevate direttamente dallo Stato.

Le regioni dovranno fare il bilancio preventivo, che potrà essere studiato da organi misti regionali e statali, i quali considereranno fino a qual punto le attività basteranno per supplire alle passività e stabiliranno le necessità di integrazione.

Crede che questa autonomia finanziaria, anche se limitata, non debba costituire un ostacolo insuperabile per coloro che si preoccupano sempre del concetto unitario solo in questo senso, che se alla regione sarà concessa una larga autonomia legislativa in campo economico, potrà sorgere il pericolo di conflitti di interessi economici tra regione e regione. Se ne è avuto un esperimento recentissimo in Sardegna, quando questa ha costituito una specie di mercato chiuso perché l’Alto Commissario aveva impedito l’esportazione di determinati generi dalla Sardegna nella penisola, determinando così un’economia chiusa che potrebbe essere causa di veri conflitti, se alle stesse misure pervenissero altre regioni, le quali non invierebbero più alla Sardegna generi di cui questa ha bisogno.

Questo porta a concludere che nel campo della economia è giusto che intervengano norme generali dello Stato, per evitare che si costituiscano questi mercati chiusi, che sarebbero dannosissimi.

Circa la provincia, ritiene assolutamente impossibile sopprimerla quando, se non è un ente così ben definito storicamente e geograficamente come la regione, è tuttavia entrato ormai nella coscienza pubblica ed ha coagulato intorno a sé molti interessi economici.

D’altra parte la provincia potrà essere un utilissimo organo di decentramento regionale. Di questo ha fatto un’esperienza, quando si è compiuto uno studio preliminare per la riforma delle Camere di commercio, e vi erano taluni che sostenevano la necessità di abolire le Camere di commercio provinciali per creare una Camera regionale. Se si dovessero costringere tutte le categorie di produttori, che attualmente gravitano intorno alle Camere di commercio, a far capo ad un’unica Camera regionale, si creerebbero degli intralci di natura burocratica, arrecando danni indubbiamente gravi. La provincia è un ente insopprimibile: non sarà la provincia di oggi; sarà la provincia intesa come consorzio dei comuni, tutrice della libertà dei comuni ed organo di controllo. Crede che la Giunta provinciale amministrativa sia necessaria per il controllo di legittimità e anche di merito e pensa che i comuni non avranno a dolersene quando questi controlli verranno esercitati, non più dal prefetto, ma da una Giunta provinciale amministrativa a carattere elettivo. Inoltre, alla provincia si possono assegnare altri compiti oltre quelli che ha già oggi: assistenza e beneficenza, consigli provinciali scolastici, ecc.

Vi sono, in sostanza, numerosi interessi che possono essere direttamente curati in sede provinciale, considerata questa come organo utile di decentramento regionale, perché, se si vuole decentrare e abolire il centralismo statale, si deve anche evitare di creare un centralismo regionale, che sarebbe altrettanto nocivo e pericoloso.

Conclude esprimendo l’avviso che la soluzione migliore sia quella di una forma di larga autonomia regionale, riconoscendo alla regione la sua qualità di Ente autonomo autarchico, con autonomia finanziaria controllata e conservando anche la provincia; e propone che in seno a questa Sottocommissione si costituisca una sezione apposita che si occupi concretamente del problema delle autonomie.

GRIECO trova la discussione assai interessante e ricca di numerosi problemi, ai quali occorrerà dare soluzione.

Malgrado le divergenze, alcune delle quali anche profonde, crede che si stiano facendo dei passi in avanti, sia pure stentati, verso un incontro, e vorrebbe dare un contributo, anche modesto, al raggiungimento di questo incontro.

Si limiterà ai due temi indicati, a conclusione della sua interessantissima relazione, dall’onorevole Ambrosini, e ribaditi anche dal Presidente.

Sono stati posti due problemi pregiudiziali: si deve creare l’Ente regionale o no? Quali i doveri e le competenze della Regione? Intende rispondere a queste due domande, salvo a parlare a suo tempo in modo particolareggiato su altre importantissime questioni. Ma è stato domandato che sia data una risposta alla questione federale, ed anche questa darà.

Concorda col collega Bozzi, che ha invitato ad evitare gli schemi ed a far sorgere soluzioni e proposte dalla realtà: si deve ricercare quale forma statale sia oggi la più efficace a risolvere i problemi della ricostruzione del Paese, i problemi economici, politici, culturali, per fondare una nuova e più solida democrazia. Dice questo perché, leggendo degli articoli e udendo dei discorsi fatti fuori di qui, si è formato la convinzione che esista, in alcuni regionalisti o federalisti, anche accesi, l’opinione che una delle cause principali, fondamentali dei nostri mali debba ricercarsi nel fatto che l’Italia mancò di larghe autonomie interne. Anzi, fuori di qui qualcuno ha sostenuto addirittura che, se l’Italia si fosse unita in sistema federativo, non avrebbe avuto il regime fascista. Non può accogliere le argomentazioni di questi autonomisti, perché pensa che il fascismo sia sorto e si sia affermato per altre cause. Difatti il fascismo è sorto anche in Paesi dove erano tradizioni federali, e vi è da temere che, se il popolo degli Stati Uniti non starà con gli occhi aperti e molto bene aperti, potrà trovarsi domani di fronte a movimenti di tipo fascista, nonostante la propaganda sul sistema costituzionale americano.

Ritiene che la creazione di uno Stato unitario italiano nel secolo scorso sia stato un fatto progressivo, anche nelle condizioni troppo spesso deplorevoli e deplorate nelle quali questa unità si realizzò, e che su questo punto avessero ragione gli unitari, nel secolo scorso, e non i federalisti. Riconosce però che Carlo Cattaneo aveva ragione quando indicava la urgenza della soluzione di problemi economici e sociali delle varie regioni italiane, corrispondenti, press’a poco, ai vecchi staterelli. Quei problemi gli unitari non li videro. Se la rivoluzione del secolo scorso avesse avuto almeno il contenuto che voleva darle Cattaneo, si sarebbe formato un altro Stato, senza dubbio più solidamente democratico, più moderno; quasi certamente non si sarebbe avuta una monarchia in Italia; molto probabilmente non si sarebbe avuto più tardi il fascismo.

Lo Stato unitario fu una conseguenza dello sviluppo della lotta nazionale tendente a superare lo spezzettamento secolare del Paese. Bisognava abbattere le frontiere interne, creare un mercato nazionale: questa è la formula economica dell’unità, da cui derivano o a cui si legano elementi culturali e anche sentimentali, che contribuiscono sempre fortemente al fatto di una rivoluzione nazionale. Lo Stato unitario era una esigenza dello sviluppo economico, culturale, politico delle forze nazionali dell’epoca. Che questo sviluppo sia stato poi rachitico, essendosi elusi i problemi sociali ed economici sollevati da Cattaneo, e soprattutto la riforma agraria, specie nel Mezzogiorno, questa è un’altra questione. Non sarà male, dinanzi ai problemi attuali della ricostruzione, rileggere Cattaneo.

Non vuole pensare cosa sarebbe stata l’Italia, come un insieme di Stati federati Del resto ciò non ha importanza. Però ottantacinque anni di vita unitaria statale, con tutte le colpe enormi, qualche volta criminali, commesse dalle classi dirigenti – delle quali ha fatto un’appassionata, per quanto parziale (come quantità) denunzia l’onorevole Lussu, che tutta la parte comunista condivide assolutamente, come condivide assolutamente i giusti risentimenti delle popolazioni siciliane – e nonostante la relativamente debole coscienza nazionale degli italiani, questo secolo o quasi di vita unitaria rappresenta qualche cosa nella nostra vita nazionale, economica e politica: è un’esperienza comune di successi ed anche di sventure e di disastri; ma da questa esperienza dobbiamo muovere per andare avanti, per rifare insieme l’Italia nel progresso. Dice queste parole pensatamente, con la conoscenza che ha anch’egli della realtà italiana. C’è molto scoraggiamento nel nostro popolo e questo aiuta lo sviluppo di tendenze centrifughe, ed i rappresentanti nazionali debbono lottare decisamente contro questo scoraggiamento ed unire tutte le forze vive nazionali per difendere l’unità e muovere uniti verso il rinnovamento del Paese.

Il federalismo oggi, come il piano integrale delle autonomie proposte dall’onorevole Zuccarini, non rappresenterebbero un passo avanti, ma un serio passo indietro.

Come è stato detto giustamente dall’onorevole Rossi, tutta la vita delle Nazioni, nei loro rapporti economici e culturali, tende, per la esigenza che nasce dallo sviluppo delle loro forze interne, ad attenuare i particolarismi nazionali. È una caratteristica dell’epoca nostra quella di tendere ad una sfera di azione, che si può chiamare intra-nazionale (non dice internazionale): cioè ad accordi ed intese particolari fra gruppi di Nazioni. Ed anche il divenire – nella misura in cui si può vedere e prevedere – dell’umanità, non sarà nel ripiegamento delle Nazioni in se stesse, ma nel loro aggruppamento. Ora, se questa è una realtà, come lo è infatti, non comprende perché si dovrebbe creare oggi una sorta di frontiere interne; perché frontiere interne nascerebbero, quando fossero date alle Regioni la potestà legislativa e l’autonomia finanziaria ed economica.

Domanda se è possibile ricostruire l’Italia, lasciando ad ipotetici Stati autonomi, confederati o federati, di provvedere da sé, con proprie leggi, alla propria ricostruzione: personalmente non lo crede. Il piano federale dell’onorevole Lussu non renderebbe un servizio né all’Italia né alla Sardegna. Creando oggi una Repubblica sarda, in qual misura si agevolerebbe la soluzione dei problemi della Sardegna? I problemi che l’onorevole Lussu vuole risolvere, e che tutti vogliono risolvere con lui, non li potrà risolvere la Sardegna senza l’aiuto ed il concorso di tutta la Nazione italiana, dello Stato italiano. E se un federalista sardo dissennato – che ritiene non esista – pensasse di risolvere i problemi della Sardegna ricorrendo all’aiuto economico straniero, non solo farebbe dell’Isola una dipendenza straniera, col pericolo di spezzare l’unità statale italiana, ma non risolverebbe i problemi della economia sarda: al posto dei capitalisti continentali, i sardi vedrebbero i capitalisti stranieri. Questo sarebbe il risultato.

Riconosce che non si può essere, in principio, né assolutamente federalisti, né assolutamente antifederalisti; e lo ricorda a coloro i quali ritengono che il problema del federalismo sarebbe qualche cosa di permanente ed immanente. Ritiene che la questione debba essere posta politicamente, cioè in vista di obiettivi politici da raggiungere. E l’obiettivo che si deve raggiungere è il consolidamento della Repubblica, attraverso la ricostruzione economica unitaria del Paese, sulla base di una solidarietà nazionale. Del resto, ha udito parlare di stanze di compensazione: un autonomista realista, come il collega che ha proposto la creazione di una stanza di compensazione, sente che la Regione sarda non sarebbe autosufficiente, avrebbe bisogno di aiuto.

LUSSU crede che questo potrebbe dirsi all’onorevole Finocchiaro Aprile, ma non a lui, che ha accennato (ed è questione sulla quale occorrerà tornare) alla miseria della Sardegna, che non è solo conseguenza dello sfruttamento locale, che esiste in ogni parte, ma anche dello sfruttamento da parte dello Stato centralizzato, ed a cui si ovvia precisamente sradicando queste possibilità di sfruttamento. Con le saline, le miniere e le tonnare si può ricostruire la Sardegna, senza bisogno di ricorrere a casse di compensazione, ridando a questa Regione la sua naturale ricchezza.

GRIECO riconosce che i problemi che l’onorevole Lussu pone sono problemi reali, ma crede che non comportino necessariamente, per la loro soluzione, la creazione di una Repubblica sarda.

Si deve, dunque, cercar di ricostruire il Paese attraverso criteri unitari. Insiste su questo. Si vedrà il peso che avrà il criterio unitario nella ricostruzione. Lo Stato unitario è oggi minacciato da forze centrifughe, le quali sono alle volte legittimiste, nemiche della Repubblica. Potrebbe accadere di vedere impugnata la bandiera federalista dai gruppi legittimisti, che fino a ieri erano ferocemente unitari e centralisti. Questo conferma che il problema del federalismo e dell’antifederalismo non è problema di principio, ma mezzo per il raggiungimento di certi obiettivi.

La stessa opera di ricostruzione richiede l’unità nazionale e non la suddivisione interna. Da tempo si è persuasi che senza un intervento dello Stato, senza la mobilitazione di tutte le risorse di tutti i cittadini italiani, è impossibile rimettere in marcia vari importanti settori dell’economia nazionale. Per esempio, i comunisti pensano che occorrerà procedere a delle nazionalizzazioni (problema molto importante); essi domandano, e molti dei presenti sono d’accordo, che si proceda di urgenza a trasformazioni e ad una riforma agraria. Ma queste ed altre riforme esigono una larga mobilitazione di risorse che solo lo Stato unitario può mettere in movimento. Questo indirizzo nella ricostruzione, che porta ad un progressivo miglioramento delle condizioni delle grandi masse lavoratrici, ad uno sviluppo delle forze produttive, è contrastante con la creazione di Stati interni italiani, ma è nell’interesse delle nostre stesse Regioni. Per la realizzazione di un simile piano di ricostruzione, a suo avviso, occorrono non già delle ipotetiche repubbliche autonome, quale una Repubblica calabrese o calabro-lucana, ma l’Italia unita che aiuti la Calabria e la Lucania a rinascere ed in qualche zona a nascere, perché queste nostre Regioni da molto tempo sono state veramente abbandonate al loro destino.

Si dichiara, dunque, contrario ad ogni tipo di federazione o confederazione dello Stato italiano nell’interesse delle Regioni prese isolatamente e della Repubblica presa nel suo insieme.

Però riconosce la necessità di apportare cambiamenti seri, modificazioni profonde del vecchio Stato italiano per metterlo in grado di assolvere ai nuovi compiti che stanno dinanzi al Paese. Occorre allargare le basi popolari della democrazia in Italia, arricchire i quadri dirigenti di nuove forze, avvicinare il potere al popolo, mettere in gara, in una nobile fruttuosa emulazione ricostruttiva, le nostre popolazioni e dare un colpo a quella mostruosa macchina burocratica, contro la quale numerosi colleghi si sono levati con indignazione. Quindi è d’accordo con coloro che chiedono la creazione in Italia dell’Ente regione, che potrebbe favorire il superamento dei contrasti e dello spirito di concorrenza fra le provincie denunciato dall’onorevole Rossi. Però non vorrebbe che dietro l’Ente regione si nascondesse una specie di federalismo mascherato.

Dichiara, innanzi tutto, che riconosce la legittimità storica e politica della rivendicazione di statuti regionali particolari e particolarmente ampi alla Sardegna, alla Sicilia, al Trentino e alla Val d’Aosta. Non si può non riconoscere la giustezza di queste rivendicazioni per alcune Regioni, specialmente per la Sicilia, ma anche per altre. Queste rivendicazioni sono chieste dalle masse popolari ed è un atto doveroso di riparazione per tutte le colpe che lo Stato unitario ha commesso verso di esse l’aderirvi. Ma la questione non si pone alla stessa maniera per tutte le Regioni. Anzi in alcune di esse non esiste un problema simile, perché un problema politico-sociale non è quello che si pongono o pongono certi gruppi di uomini politici o di studiosi «problemisti», ma quello che sorge dalla vita stessa del popolo, e non sembra che esista un movimento popolare regionalista nell’Emilia, nella Lombardia, nel Lazio, in Toscana, nella Campania, nelle Marche, e in altre regioni.

Ricorda di avere, in una Commissione volontaria interpartitaria, dove si studiavano questi problemi, affacciato un giorno lo stesso argomento che affaccia ora, ed alcuni colleghi giuristi gli dissero che voleva dar vita ad un monstrum giuridico. Vero è che si potrebbe dare l’esempio di altri mostri, come il progetto di Costituzione spagnola che conteneva lo Statuto della Catalogna e dei Paesi baschi, e che ammetteva anche la creazione volontaria dell’ente regione, e persino il volontario ritorno di una regione già autonoma al regime centralizzato, ogni volta che lo volesse. Naturalmente, non è questo che egli invita a fare; ma vuole fare osservare che questo statuto era proprio il contrario di uno statuto eguale per tutte le regioni; ed era giusto, perché rispondeva ad una esigenza storica e reale della Spagna e negava l’egualitarismo formale che è spesso la fonte di molte ingiustizie.

Ripete quindi che gli Statuti regionali già concessi in Italia possono essere modificati, o migliorati col concorso delle singole regioni, ma debbono restare come Statuti particolari. Avremo, così, in Italia un tipo misto di regioni autonome e di semplici regioni.

Dall’impostazione generale che dà alla questione, pensa che l’ente regione (non la regione autonoma, che è particolare) potrebbe nascere in tutto il Paese. Esso non dovrebbe avere una competenza legislativa in generale, ma solo per certe materie che dovrebbero essere indicate, pur ammettendo il principio di una delega normativa ogni volta che l’Assemblea nazionale la dia con una legge. Invece le regioni autonome avrebbero maggiori potestà, senza però giungere a competenza legislativa e normativa in genere, che porterebbe ad un federalismo mascherato, con tutte le conseguenze che ha indicate, deleterie per la economia, per la vita, per l’unità del Paese.

Secondo il suo modo di vedere, la Regione ordinaria dovrebbe avere una competenza amministrativa, ma anche una competenza economico-tecnica per una serie di attività oggi statali, e quindi una funzione che va al di là del semplice decentramento e una competenza normativa per certe branche, nel quadro delle leggi dello Stato, e una delegazione normativa da parte dell’Assemblea legislativa, per leggi determinate. Ha citato la riforma agraria: è evidente che una riforma agraria, per essere efficiente dovrà, nel quadro dei principî e degli scopi decisi dall’Assemblea nazionale, essere attuata dalle regioni. Le Assemblee regionali avrebbero il compito di procedere all’attuazione della riforma sulla base dei principî fissati dalla stessa legge generale, ma attraverso norme regionali. Gli uffici amministrativi attuali della provincia potrebbero essere assorbiti da analoghi uffici regionali. La provincia dovrebbe cessare come ente autarchico, rimanendo come circoscrizione per certe amministrazioni. Quando è tolto alla provincia il carattere di ente autarchico, si può vedere che cosa resta a questa circoscrizione, come organizzazione amministrativa dello Stato (e ciò può essere discusso in relazione alle idee che presiederanno ad una riforma dell’Amministrazione statale), e cosa la provincia può rappresentare come organizzazione interna della Regione.

Si potrebbero assegnare alla Regione le questioni delle strade non nazionali, degli acquedotti, dei beni demaniali, delle foreste, della caccia, della pesca. Non sarebbe del parere di passare all’Ente le miniere, né, salvo un’attenta discussione sulla questione, di assegnargli in blocco tutto il problema della istruzione; passerebbero invece alla Regione le scuole professionali, nonché i compiti scolastici, ecc. Tutti gli organi della Regione: Assemblea, Giunta, Presidente, dovrebbero essere elettivi.

Naturalmente è per la soppressione del prefetto; non condivide l’opinione di quanti propongono la creazione della figura del Governatore (che crede non piacerebbe a nessuno) e ritiene che al Presidente della regione potrebbero essere attribuite le funzioni di rappresentante dello Stato.

Circa il territorio della Regione, conserverebbe quello attuale, salvo piccole rettifiche necessarie. Ha sentito molte idee in proposito ed ha visto altrove ritagliare con le forbici a pezzetti il territorio italiano; ha sentito anche una volta un collega il quale esigeva l’annessione alla sua regione della Spezia, come al suo hinterland naturale.

Da quello che ha detto risulta che non accetta il dilemma: Stato centralizzato o decentralizzato, sebbene sia per tutte le ragionevoli e sane decentralizzazioni; non approva né uno Stato federale né uno Stato definito regionale (forse qui è questione di parole). La Repubblica deve restare uno Stato unitario, una organizzazione di regioni autonome e di Regioni unite, le cui competenze saranno fissate dalla Costituzione. I compiti particolari delle regioni autonome e delle altre regioni dovrebbero o far parte integrante della Costituzione o essere affidate a leggi costituzionali a parte.

E poiché si parla di problemi per i quali si può non essere tutti preparati, ad esempio quello della finanza, per questa materia riterrebbe opportuno affidarla a qualche riconosciuta competenza.

PRESIDENTE crede che si potrebbe pregare l’onorevole Einaudi di fare uno studio in proposito. Si potrebbe anche sentire se non esista qualche componente della Commissione economica del Ministero della Costituente, al quale potrebbe essere affidato il compito di una breve relazione in proposito.

FUSCHINI ricorda che della Sottocommissione fa parte l’onorevole Vanoni, che potrebbe mettere a disposizione la sua competenza.

LUSSU suggerisce che il Presidente chieda ufficialmente alla Ragioneria generale dello Stato ed alla Corte dei conti, quanto le varie Regioni dànno allo Stato e quanto lo Stato dà a queste Regioni.

PRESIDENTE, per quanto lo si possa fare, non crede che la Carta Costituzionale possa scendere a questi particolari.

La seduta termina alle 21.05.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Cappi, Leone, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Einaudi, Patricolo, Vanoni.

SABATO 27 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

2.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 27 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Discussione sulle autonomie locali

Ambrosini, Relatore – Perassi, Relatore – Presidente – Zuccarini – Einaudi – Targetti – Lussu – Cappi – Bulloni – Fabbri – Conti.

La seduta comincia alle 17.

Discussione sulle autonomie locali.

AMBROSINI, Relatore, premette che, più che fare una relazione, intende semplicemente iniziare la discussione.

Il problema dell’autonomia si affaccia e si impone per riparare agli inconvenienti dell’accentramento, cioè di tutto quel sistema che, per la diffidenza verso le popolazioni e le autorità locali, fu instaurato nel primo momento della unificazione nazionale; inconvenienti che si manifestarono subito e vennero man mano aggravandosi, determinando una situazione che occorre affrontare e superare.

Gli inconvenienti dell’accentramento sono ben noti, e cioè:

1°) la sottrazione degli affari, specialmente amministrativi, a coloro che vi sono direttamente interessati e la loro attribuzione ad organi lontani, centrali, che possono non conoscere affatto le condizioni locali e che comunque dipendono o sono influenzati dai governanti;

2°) la compressione delle energie locali, l’accumulazione delle pratiche al centro, il ritardo nello svolgimento degli affari, la diminuzione della libertà degli enti locali e conseguentemente della popolazione;

3°) circa il funzionamento del Parlamento e la missione del Deputato, l’inconveniente gravissimo è che i rappresentanti della nazione, a causa di questo sistema di accertamento, sono gravati da una infinità di sollecitazioni e di richieste da parte degli elettori, che, non arrivando a veder risolte le proprie pratiche al centro, ricorrono, come usando di un diritto, al loro deputato, il che naturalmente distrae la rappresentanza politica dal compito di curare gli interessi della nazione.

Per eliminare questi inconvenienti bisogna togliere la causa, ed è qui che soccorre il concetto dell’autonomia che, per mezzo di norme adatte, porterebbe:

1°) ad evitare i danni del centralismo statale;

2°) a stimolare e potenziare le energie locali con la partecipazione dei singoli alla vita pubblica;

3°) a stabilire l’equilibrio fra le forze politiche e quindi ad impedire l’abuso del potere e l’eventuale predominio illecito di gruppi politici di gruppi di interessi.

Per raggiungere questi scopi non basterebbe l’istituto del decentramento burocratico, né basterebbe l’istituto del decentramento autarchico, il quale assegnerebbe dei compiti ad un nuovo ente autarchico ma lasciandolo esposto alle pressioni e all’ingerenza del potere centrale e dei governanti. Occorre quindi ricorrere all’adozione dell’istituto dell’autonomia politica regionale.

L’autonomia dell’ente regione dovrebbe intendersi accentrata su un insieme di diritti della regione elevata a persona giuridica; diritti propri, diritti fondamentali sanciti nella Costituzione, e quindi non modificabili o diminuibili con una legge ordinaria e perciò garantita davanti ad una Carta costituzionale.

Si intende che questo sistema presuppone la adozione di un tipo di Costituzione rigida, perché altrimenti mancherebbe qualsiasi garanzia per il funzionamento di tutto il congegno.

La regione è indubbiamente un ente naturale che sta tra lo Stato e i comuni, ed alla quale, se si vuole far sorgere l’ente regione, si debbono attribuire dei compiti, alcuni dei quali sono oggi di spettanza degli enti locali compresi nella sua giurisdizione ed altri dello Stato. Dei compiti di spettanza degli enti locali, possono venire in considerazione quelli che si riferiscono a servizi pubblici i quali, per acquistare maggiore efficienza, hanno bisogno di una circoscrizione più vasta (servizi dell’acquedotto, dell’energia elettrica, ecc.). Ma in concreto, quando si ammette la necessità del cambiamento del sistema attuale e l’adozione dell’istituto regionale, il problema si riduce nel determinare quale caratteristica deve avere la regione ed a quali scopi concreti deve assolvere. E qui bisogna guardare alle funzioni pubbliche ed orientarsi secondo la divisione fondamentale di queste funzioni: quindi la funzione legislativa, quella esecutiva o amministrativa e quella giurisdizionale.

Anzitutto viene in considerazione la competenza legislativa o normativa. Questa competenza, che verrebbe a spettare alla regione, sarebbe di natura diversa da quella che oggi compete a tutti gli enti i quali, in virtù del  loro diritto di autonomia, possono darsi delle determinate norme per regolare per lo meno l’esercizio dei loro poteri. Qui si tratterebbe di una competenza legislativa normativa, assegnata alla regione direttamente dalla Carta costituzionale e che perciò, nel caso specialmente di materie affidate alla competenza esclusiva della regione, darebbe luogo all’emanazione di vere e proprie leggi, le quali avrebbero lo stesso valore delle leggi emanate dallo Stato, tanto che, in caso di contrasto, dovrebbe esser consentito alla regione la facoltà di impugnare le stesse leggi dello Stato in difesa della propria competenza.

Detto questo in via generale, bisogna esaminare i gruppi diversi di materie che devono restare necessariamente nella competenza dello Stato e di quelle che possono essere attribuite alla regione. Ma qui basta limitarsi ad alcuni criteri di orientamento.

Vi sono materie che, per la loro stessa natura, riguardano gli interessi generali di una nazione e per le quali non può esservi dubbio che, in qualsiasi evenienza, devono rimanere di competenza dello Stato (rappresentanza all’estero, problemi di politica internazionale, questioni riguardanti la nazionalità, sistema monetario ecc., ecc.).

D’altra parte, vi sono altre materie che, per la loro natura, più si avvicinano al soddisfacimento dei bisogni locali o dei bisogni di determinati gruppi od enti territoriali che non si espandono per tutta la nazione, e che possono esser considerate è trattate con maggior comprensione e rendimento dagli organi locali nell’ambito della loro circoscrizione (per esempio: l’agricoltura, le istituzioni di beneficenza, le strade, gli acquedotti, il regime delle miniere, della pesca, del turismo, ecc.). Questo gruppo di materie attinenti a interessi prevalentemente locali dovrebbe essere attribuito alla competenza della regione in modo esclusivo, cosicché in questo campo la regione potrebbe emanare norme legislative.

Si può raffigurare un terzo gruppo di norme relative a materie nelle quali l’interesse della collettività nazionale è preponderante, ma per le quali può essere utile che gli organi legislativi centrali non vincolino in modo rigido l’esecuzione delle norme nelle singole regioni. Per questo gruppo di materie potrebbe lasciarsi agli organi legislativi centrali dello Stato la facoltà di stabilire i principî fondamentali, ed attribuire invece alla regione la facoltà di dettare le norme di esecuzione, in modo da adattare i principî fondamentali alle particolari esigenze dell’ente locale.

Infine, può raffigurarsi un altro gruppo di materie per le quali si potrebbe stabilire una competenza cosiddetta concorrente; per le quali, cioè, allo Stato spetterebbe in principio il diritto di legiferare, ma si potrebbe concedere alle regioni di dettare norme per mezzo dei propri organi, fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della sua facoltà di dettare norme.

Per semplicità si potrebbe fissare l’attenzione sui primi tre gruppi, che in sostanza finirebbero per ridursi a due, perché la potestà normativa della regione determinata dal terzo gruppo si esplicherebbe col dettare norme di esecuzione.

La questione fondamentale consiste nel determinare quelle che sono e devono essere materie di competenza dello Stato e quelle che possono essere materie di competenza della regione. In una Carta costituzionale il problema potrebbe risolversi determinando i gruppi di norme di competenza dello Stato e quelli di competenza della regione, oppure stabilendo soltanto quali sono le materie di competenza della regione, restando sottointeso che in tutte le altre materie la competenza è dello Stato. Probabilmente questo secondo sistema è il migliore.

Si deve aggiungere che sembra opportuno dare alla regione un altro diritto nel campo generale della legislazione. Vi sono dei problemi, delle esigenze che spesso non sono contemporaneamente avvertite da tutta la popolazione dello Stato, perché toccano un interesse particolare di indole sentimentale o puramente materiale nell’ambito regionale. Ora, se si vuole che le regioni partecipino alla vita generale dello Stato, non solo con quel compito normativo che in sostanza finisce per esaurirsi nella regione, ma con un accordo più ampio e quindi con l’affermazione di un senso di maggior fiducia nello Stato e di più salda unità, si potrebbe concedere alla regione la facoltà che si può dire di iniziativa nel campo legislativo, in questo senso: la regione non diventerebbe mai uno degli organi del potere legislativo dello Stato, né potrebbe interferire nell’assoluta libertà e indipendenza del potere legislativo generale; ma nessun inconveniente deriverebbe dal fatto che l’assemblea regionale, avvertendo determinati bisogni, e in vista di interessi che la popolazione della regione può per prima avvertire o sentire, si facesse iniziatrice di una proposta di legge che fosse sottoposta al potere legislativo dello Stato, il quale rimarrebbe assolutamente libero di decidere, ma sarebbe costretto a esaminarla. Non si tratterebbe che di estendere il diritto che può competere a qualsiasi cittadino di rivolgersi all’assemblea legislativa del proprio paese, di sottoporre dei desiderata e di fare anche delle proposte. Questo diritto però acquisterebbe maggior rilievo, non solo dal punto di vista spirituale e politico, ma anche dal punto di vista giuridico, quando si stabilisse che la Camera o le Camere legislative devono, non solo esaminare i progetti che vengono presentati per avventura dall’assemblea regionale, ma anche sentire gli eventuali rappresentanti dell’assemblea regionale che essa reputasse opportuno di inviare al Parlamento per esporre le proprie ragioni.

Dal campo della legislazione passando a quello della esecuzione, è evidente che la regione deve poter esercitare la funzione esecutiva amministrativa per tutte le materie che sono di sua competenza esclusiva e per le altre che vengono a trovare la loro esplicazione nella regione. Può aggiungersi che la regione potrebbe esplicare le funzioni amministrative che sono proprie dello Stato nel caso che questi le delegasse i suoi poteri esecutivi. L’organo centrale può ritenere opportuno servirsi della amministrazione regionale per perseguire quegli scopi che sarebbero in linea di principio riservati alla propria amministrazione diretta, centrale o locale.

Viene infine la funzione giurisdizionale.

La questione qui è molto più delicata, perché l’eventuale attribuzione delle funzioni giurisdizionali alla regione metterebbe quest’ente in una posizione di assoluto primo piano e potrebbe quindi dar luogo alla affermazione di pretesa della regione come Stato.

Non si può giungere ad elevare la regione alla dignità di quello che suole chiamarsi Stato membro di uno Stato federale; ma è opportuno avvertire che vi sono casi di stati, cosiddetti federali, nei quali lo Stato membro ha la potestà legislativa e quella amministrativa, ma non anche quella giurisdizionale. Non è tuttavia il caso di irrigidirsi. Posto il principio, potrebbe ben concedersi alla regione la possibilità di istituire degli organi giurisdizionali per la decisione di ricorsi avverso atti o deliberazioni degli enti locali, congegnando il sistema in modo da non infrangere il sistema generale dell’unità della giurisdizione dello Stato. Si può aggiungere che, per andare incontro ad esigenze e desideri di regioni, si potrebbe adottare una specie di decentramento, con la istituzione nella regione di sezioni anche dei supremi tribunali giurisdizionali ed amministrativi dello Stato. Ma chi voglia attenersi al principio dell’autonomia della regione nel senso qui prospettato non può arrivare all’attribuzione alla regione della funzione giurisdizionale.

La possibilità che si conceda alla regione la facoltà di rendersi iniziatrice di progetti di legge da presentarsi al Parlamento nazionale riguarda la cooperazione della regione alla vita nazionale e naturalmente questo sarà uno dei problemi che dovrà essere esaminato. Circa la partecipazione della regione come tale alla vita nazionale, si presenta pure la possibilità che la regione concorra, anche solo parzialmente, alla formazione della seconda Camera, cioè del Senato. Si accenna qui al problema senza arrivare ad alcuna soluzione; ma indubbiamente, se si avrà la seconda Camera, la partecipazione della regione, anche limitatamente ad un numero di Senatori, potrebbe essere consigliabile.

Viene ora la questione forse più spinosa, quella della finanza della regione. Quando si trasferiscono alla regione delle funzioni, è evidente che bisogna darle pure la possibilità di esercitarle. Vi può essere una finanza esclusivamente regionale? In ogni caso, sarà sempre necessario che vi sia una finanza coordinata. Sorge poi la questione di chi deve disporre l’imposizione e del sistema di erogazione delle spese. Nel caso di regioni povere o impoverite deve poter ammettersi che lo Stato non le abbandoni, perché altrimenti l’istituto dell’autonomia politica finirebbe per danneggiare la regione.

Connesso con quello della finanza è il sistema dei controlli, specialmente quando si abbiano degli apporti da parte dello Stato, perché chi dà il contributo deve accertarsi del modo in cui questo viene effettivamente impiegato.

Altra questione di indole generale relativa all’istituzione della regione è quella del suo territorio. In Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale e quindi potrebbe sorgere la necessità di non seguire meccanicamente il criterio storico, ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazione di particolari interessi. Onde un’altra questione: quale sarebbe il potere competente per operare un eventuale cambiamento nella struttura politico-territoriale della regione? Pare indubbio che non possa essere che il potere centrale, naturalmente, sentita la regione o a richiesta della regione.

Vi è poi il problema degli organi. Si potrebbe dire con semplicità che sarà necessaria un’Assemblea, un Presidente, una Giunta, un Segretario; un Presidente che rappresenti la regione e sia il capo della amministrazione regionale; una Giunta composta da assessori preposti alle varie materie dell’amministrazione. Presidente e assessori sarebbero, naturalmente, nominati dall’Assemblea regionale.

Riguardo all’Assemblea regionale, sorge la questione della sua formazione. Indubbiamente deve essere elettiva: ma con quale criterio? Dal punto di vista generale potrebbe dirsi che la struttura della legge elettorale regionale deve essere demandata alla stessa regione. Potrebbe, d’altra parte, prendersi in considerazione la possibilità che le linee generali di questa legge elettorale fossero determinate nella Carta Costituzionale, come è avvenuto nelle Carte Costituzionali specialmente dell’altro dopoguerra. Tenuti presenti i presupposti che in Italia hanno spinto a propugnare la creazione dell’ente regione, potrebbe affacciarsi la proposta che vengano indicati i criteri fondamentali di elezione dell’Assemblea regionale su basi diverse da quelle della così detta rappresentanza diretta, del suffragio diretto, cioè della elezione fatta da collegi elettorali composti da cittadini indifferenziati. Potrebbe, cioè, affacciarsi la proposta che, per dare alla regione un carattere tutto particolare, a seconda delle sue esigenze, sia opportuno evitare quel sistema di elezione a suffragio diretto che porta concretamente la lotta elettorale sul terreno delle ideologie politiche dei partiti; la proposta che l’Assemblea regionale venga costituita sulla base di un sistema generalmente chiamato della rappresentanza degli interessi, così che nell’Assemblea regionale si rispecchiassero la struttura economico-sociale e gli interessi della regione. In tal modo i rappresentanti sarebbero maggiormente legati alla cura di quegli interessi e si affermerebbe nell’Assemblea regionale un principio diverso nel modo di valutare gli interessi particolari.

Per quanto si riferisce all’Assemblea regionale e alle norme da essa emanate, corre l’obbligo di esaminare alcuni quesiti.

Anzitutto: può l’Assemblea regionale essere sciolta? Qui si dovrà vedere quello che sarà deciso al riguardo alla prima Camera ed eventualmente anche alla seconda. Se si afferma la possibilità che l’Assemblea regionale sia sciolta, da chi potrebbe provenire l’ordine di scioglimento e, eventualmente, in quali circostanze?

Altro quesito si riferisce alle leggi votate dall’Assemblea regionale. In linea di massima dovrebbero essere senz’altro operative; ma può prospettarsi la questione se sia utile che vengano comunicate agli organi dello Stato e se sia ammissibile che gli organi centrali dello Stato avanzino un diritto di veto. Comunque, dato il sistema di divisione delle competenza tra Stato e Regione, è indubbio che, come spetta alla Regione il diritto di ricorrere ad un organo giurisdizionale (una corte costituzionale, o un organo misto, a seconda che la Carta costituzionale sarà per deliberare) avverso le disposizioni degli organi centrali dello Stato che interferiscano nei limiti della sua competenza e la violino, così è naturale che spetti agli organi centrali dello Stato la possibilità e il diritto di ricorrere avverso le leggi emanate dall’Assemblea regionale, che per avventura si reputi abbiano invaso il campo di competenza dello Stato.

Riguardando poi il problema più largo dei rapporti tra Stato e Regione, sorge il quesito: il governo dello Stato avrà un suo rappresentante nella Regione? Il Presidente della Regione può essere investito della rappresentanza dello Stato? E, comunque, il Presidente della Regione può essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri nelle quali si discuta un argomento che interessi specialmente la Regione, senza naturalmente avere voto deliberativo?

Vi è poi la questione degli enti e delle istituzioni che esistono nella circoscrizione della Regione. Se si vuole modificare il sistema di accentramento attuale, non può consentirsi che si istituisca un sistema di accentramento regionale; quindi deve affermarsi nell’ordine della Regione quel principio della libertà degli enti territoriali ed istituzionali locali, i quali devono poter perseguire i loro fini liberamente a mezzo di organi elettivi. Ma su questo punto non è applicabile il concetto di autonomia politica, così come è stato delineato nei riguardi della Regione: qui può trattarsi semplicemente dell’applicazione del principio comune dell’autarchia, del ritorno all’antico sistema, con quelle modificazioni e quegli adattamenti che siano richiesti da un maggior riconoscimento della libertà locale e dell’istituzione dell’ente regionale. Basta il ritorno, in sostanza, all’antico principio dell’autarchia come libertà dell’ente territoriale o dell’istituzione di perseguire liberamente i suoi scopi e di perseguirli (perché qui si esplica il principio della libertà e del governo libero locale) per mezzo di organi eletti direttamente dagli interessati, con quelle facoltà di controllo che, pur limitate, potrebbero sembrare sempre opportune per evirare lo straripamento degli enti locali e più ancora la faziosità degli amministratori.

Tra gli enti locali, quello che maggiormente viene in discussione e per cui più grave è la controversia, è la provincia.

Bisogna distinguere la provincia come ente autarchico e come circoscrizione amministrativa. Resterà la provincia come ente autarchico? E qui c’è da domandarsi: se la Regione verrà ad avere dei compiti, taluno dei quali può essere sottratto a quelli degli enti locali, dato che la provincia come ente autarchico ha compiti ben limitati, quali di questi le resterebbero? Ancora: se si applica maggiormente il principio e la tendenza a formare consorzi tra comuni, anche limitatamente a determinati scopi e a singoli interessi, quale è il campo di azione che resterebbe alla provincia? Ed allora, data questa situazione, varrebbe la pena di conservarla o non sarebbe più utile sopprimerla come ente autarchico?

Quanto alla provincia come circoscrizione amministrativa (prefetture) la questione è ancora più delicata. Dovrebbe quest’organo, nel caso che fosse conservato, diventare un organo regionale? La soluzione, in un senso o nell’altro, potrebbe dipendere dal fatto che si stabilisca nella capitale della regione un rappresentante del Governo centrale o che il Presidente della Regione sia a sua volta investito delle funzioni e dei compiti come rappresentante del Governo centrale per la cura di quegli affari che restano allo Stato anche nell’ambito regionale.

Riguardo al Comune, non può esser dubbio che si tratta di un ente intangibile perché è proprio quello in cui si accentrano tutti i bisogni locali, che sono i bisogni rudimentali per i quali è nato questo aggregato, per i quali esso ha acquistato un insieme di poteri è di organi, la personalità giuridica e un diritto di ordinanza.

La questione più grave è quella dei controlli. Può lasciarsi agli amministratori dei Comuni la libertà assoluta? Da tante parti si è chiesto, e forse giustamente, l’abolizione del controllo di merito, attraverso il quale potevano esplicarsi, ed effettivamente si esplicavano, influenze ed ingerenze illecite. Il controllo di legittimità potrebbe restare, come potrebbe restare il controllo ispettivo. Indubbiamente (e la questione qui si riattacca al mantenimento o all’abolizione dell’ufficio del prefetto) si potrebbe anche pensare all’abolizione di tutti questi congegni e alla messa in efficienza del semplice diritto comune, che è sostanzialmente il sistema tradizionale dell’Inghilterra. Pur nella varietà della distribuzione di circoscrizioni territoriali, tutti gli enti locali inglesi godono della più assoluta libertà e non sono sottoposti ai controlli che da noi sono diventati tradizionali, e se gli organi degli enti locali – siano borghi, contee o città – esorbitano dalla sfera della propria competenza o violano i diritti di taluno, si mette in moto il diritto comune, cioè chiunque può ricorrere ai giudici ordinari. È da vedere se questo sistema potrebbe, per lo meno in tutta la sua interezza, trovare applicazione nel nostro Paese. Può darsi che sia più opportuno mantenere alcuni degli istituti tradizionali, ma corretti e adeguati in modo da non dar luogo agli inconvenienti, danni, incidenze, prepotenze e corruzioni che finora purtroppo si sono lamentati.

Concludendo: tutti i problemi che si riferiscono agli enti che esistono o che possono crearsi come enti territoriali o enti istituzionali nell’orbita della circoscrizione regionale vanno esaminati in un secondo momento e comunque sono subordinati alla direttiva generale che si seguirà per il problema fondamentale, che consiste nel riconoscimento o meno delle regioni dotate di personalità giuridica, con attribuzione di diritti propri, sanciti nella Carta Costituzionale, e quindi non modificabili con leggi ordinarie e conseguentemente garantiti col ricorso ad una Corte costituzionale.

(La riunione, sospesa alle 18.15, è ripresa alle ore 18.30).

PERASSI, Relatore, constata che la relazione del collega Ambrosini è esauriente nel modo più assoluto; anzi, è andata oltre quel che era richiesto, sia perché il Relatore è sceso a considerare utili particolari, sia perché ha fatto conoscere alcune sue preferenze personali. A prescindere da questo, sta in fatto che nella relazione Ambrosini tutti problemi sono stati posti, dai più generali ai più particolari. Non rimarrebbe pertanto che precisare sinteticamente quali sono gli aspetti da considerarsi al fine di prendere una posizione.

Il problema si accentra, soprattutto, sulla opportunità di creare in Italia l’ente «regione» e di determinarne le competenze. A questo riguardo il punto più importante consiste nel determinare la competenza legislativa. E qui si pone questa considerazione: se sia il caso di procedere a questa determinazione della competenza in via diretta o in via indiretta, cioè in relazione alla competenza dello Stato.

Senza entrare nel merito, perché qui si tratta di prospettare soltanto le due formule, queste possono essere: l’una, determinare le materie nelle quali la competenza legislativa è riservata allo Stato; l’altra, inversa, determinare direttamente la competenza della regione, senza fare una elencazione di competenze dello Stato.

Resta poi, come idea centrale da esaminare, quella di determinare in che senso e in che limiti la regione eserciterebbe la sua funzione legislativa. Qui si hanno due ipotesi: legislazione su materie determinate con una competenza piena, nel senso che in queste materie ogni regione possa fare proprie leggi con piena libertà, salvo soltanto i limiti determinati da alcuni principî costituzionali inseriti nella Carta Costituzionale dello Stato; oppure legislazione regionale, la quale dovrebbe svolgersi nell’ambito della legislazione statale, che, rispetto a certe materie, dovrebbe limitarsi a fissare i capisaldi, rendendo possibile alle singole regioni di avere una legislazione di adattamento alle condizioni locali.

Questi sono i punti fondamentali.

Naturalmente, il problema della regione si connette soprattutto al problema dell’ordinamento tributario. Anche qui, prescindendo dai particolari, possono escogitarsi diversi sistemi: il sistema di una finanza regionale autonoma, nel senso che la Costituzione determini essa stessa quali sono le fonti di imposizione per la finanza regionale; e il sistema, nettamente opposto, secondo cui le regioni, avendo la competenza tributaria più larga, concorrono alle spese dello Stato mediante contingenti. Comunque, è certo che il problema dell’ordinamento tributario e della coordinazione della finanza regionale con la finanza dello Stato è fondamentale. In ogni caso, nella Costituzione alcuni principî dovrebbero essere posti in maniera netta, allo scopo di disciplinare questa coordinazione e di evitare inconvenienti.

Altro punto è quello di sapere se tra le materie da lasciarsi alla competenza legislativa della regione entri anche l’ordinamento degli enti locali. E vi è un altro aspetto di questo problema: vedere in che modo debbano funzionare ed entro quali limiti i controlli sugli enti locali; se attraverso la regione o attraverso lo Stato.

Anche il problema della giurisdizione è stato accennato ampiamente e può avere diverse soluzioni: la regione può avere una giurisdizione propria in talune materie; la sua funzione giurisdizionale può essere limitata al campo amministrativo.

Per quanto concerne l’organizzazione della regione, si pone una domanda pregiudiziale: la Costituzione deve fissare essa stessa i criteri dell’organizzazione regionale, oppure questa materia può essere lasciata alla legislazione regionale; o i due sistemi si possono combinare? È possibile concepire che la regione abbia una organizzazione i cui principî siano fissati nella Costituzione, ma che, tuttavia, la Costituzione lasci alle singole regioni la facoltà di integrare questi principî mediante una legge organica, che renda possibile eventualmente nella regione l’adozione di certi istituti; per esempio l’istituto del referendum.

Lasciando da parte per il momento l’esame dei problemi più dettagliati, l’attenzione della Sottocommissione dovrebbe fissarsi sui problemi fondamentali: istituzione della regione; competenza legislativa, determinata o no dalla costituzione.

PRESIDENTE crede opportuno limitare la discussione intorno a questo tema iniziale: se l’ente regione debba esistere e debba entrare nell’ordinamento dello Stato, oppure no.

ZUCCARINI ha ascoltato con molta attenzione la bellissima relazione dell’onorevole Ambrosini che ha prospettato il problema della regione sotto tutti i suoi aspetti.

Si richiama ad una precedente proposta che non fu accettata, ma che poi è ritornata in questa Sottocommissione nella discussione sul problema delle autonomie.

La creazione dell’ente regione è una delle soluzioni del problema delle autonomie; ma è una conclusione, non una premessa: il problema delle autonomie locali è fondamentale, e in certo modo indipendente dalla soluzione del sistema regionale. Per poter arrivare alla soluzione regionale, era indispensabile porsi il problema centrale dell’organizzazione dello Stato. E per passare alla struttura dello Stato, importa molto definire i pilastri della costruzione statale che si dovrà articolare. Questo non è stato fatto, e non si sa quali saranno le conclusioni della prima Sottocommissione. Può avvenire che la seconda formuli delle conclusioni che male si concilieranno con la parte elaborata dalla prima Sottocommissione; come può avvenire il contrario. Il problema dell’organizzazione dello Stato è unico e deve essere risolto armonicamente. Se non si stabiliscono preventivamente i limiti delle funzioni che si intende attribuire allo Stato, il tipo cioè dello Stato verso cui occorre orientarsi, tutte le altre discussioni diventano inutili.

Il problema del comune è oggi in Italia il primo che si deve affrontare. Il comune, nella sua struttura essenziale può restare quello che è?

In questa Sottocommissione occorre stabilire anche, soprattutto, quali limiti di competenza e di attività si vogliano assegnare al comune. I comuni devono avere tutti lo stesso regolamento, la stessa struttura? O si deve invece dare ai comuni quella autonomia, che consenta loro di modificare la propria struttura interna, secondo le varie situazioni e necessità ed anche secondo le diverse entità; secondo, ad esempio, che siano di mille o di due milioni di abitanti? Non basta dire che si vuol riservare ai comuni certe facoltà; bisogna vedere se i comuni possono darsi, ciascuno, una struttura diversa, secondo i bisogni. Ci sono comuni rurali, comuni in parte rurali ed in parte urbani; ci sono dei grossi agglomerati, che devono avere una costruzione diversa.

Questa parte, a suo avviso, doveva essere affrontata anzitutto. Stabilito cosa devono essere i comuni, cosa possono fare, in quale raggio di azione possono svolgere la loro attività, si potrà pensare al raggruppamento dei comuni nella regione.

Quando si incomincia con lo stabilire di voler creare la regione, viene la domanda se essa debba essere un libero raggruppamento di comuni o di consorzi di comuni.

Il problema della provincia si pone anche così: finora si è avuta una circoscrizione ben limitata, molte volte contraria agli interessi locali che dovrebbe tutelare e rappresentare, e soprattutto con limitate attribuzioni. Ora, nella nuova struttura dello Stato, la provincia potrà costituirsi in altra forma, come consorzio di comuni per i servizi più larghi destinati agli interessi comuni?

Quando sia Stabilito quali libertà si vogliono riservare al comune e quali funzioni esso deve avere nella vita nazionale, allora si può anche parlare della regione.

La regione deve essere delimitata, organizzata quasi, dallo Statuto, oppure, stabiliti alcuni criteri di massima sui limiti di competenza dei comuni? Si intende, ad esempio, lasciare ai comuni la facoltà di modificare la loro struttura, di avere cioè nella regione una diversa consistenza, più larga o più ristretta secondo le necessità?

Non si deve poi dimenticare che, quando si vuole affrontare il problema della regione, ci si trova di fronte ad alcune esigenze e richieste di determinate regioni d’Italia. Esse non sono tutte eguali; ci sono regioni classiche, ci sono regioni sulla cui formazione ci può essere molto da dire; ci sono regioni piccolissime, come la Val d’Aosta. E allora nell’affrontare il problema della regione si deve tener conto anche di altre necessità: queste esigenze sono state in parte soddisfatte con statuti e concessioni provvisorie, che magari saranno soggette a modifiche, ma che, essendo state date, non possono essere più tolte. Quindi, nell’affrontare questo problema, si deve tener conto dello stato di fatto. C’è uno statuto per la Sicilia, più o meno approvabile; ce n’è uno in progetto per la Sardegna; ce n’è uno per l’Alto Adige, su cui i Trentini e gli Alto-atesini non sono d’accordo (c’è chi pensa di fare dell’Alto Adige una sola regione e chi vuole distinguere la provincia di Trento da quella di Bolzano, anche con una diversa organizzazione interna); c’è poi lo statuto provvisorio della piccola Val d’Aosta; ci sono un po’ dappertutto esigenze e richieste precise. Quindi, risolto il problema fondamentale del comune, esaminando quello della regione, si deve cercare di conciliare lo stato di fatto con la nuova struttura dello Stato.

Ma è un problema particolare questo? È un problema che si può assegnare ad una sezione, mentre tutte le altre funzioneranno per loro conto?

Così in tutti gli altri problemi affidati alle Sottocommissioni. Le diverse possibili strutture dello Stato – Stato che si formi dal comune al Governo centrale o inversamente dal centro alla periferia – portano a soluzioni diverse. Anche le questioni della divisione dei poteri, della prima e della seconda Camera, degli organi costituzionali per la interpretazione del diritto costituzionale, sono tutte questioni di autonomia. In fondo, in alcune Nazioni sono state risolte creando dei poteri autonomi, i quali si controllano a vicenda, per eliminare l’invadenza dell’uno o dell’altro potere. Anche questo è problema di autonomia, che ha soluzione diversa, secondo che si parta dalla periferia verso il centro, o dal centro verso la periferia.

Ecco perché una discussione preliminare sarebbe stata necessaria.

Circa le altre questioni particolari prospettate dall’onorevole Ambrosini in merito alla regione, ha alcune idee, specialmente su quella della finanza, che non concordano con quelle del Relatore, e si riserva di discuterle successivamente. Sul momento intendeva prospettare il problema delle autonomie non come un tema particolare di tutta la struttura dello Stato, ma come problema capitale.

EINAUDI si associa all’apprezzamento molto favorevole fatto da tutti i colleghi alle relazioni.

All’onorevole Zuccarini osserva che non conviene fermarsi sul punto: quale degli argomenti debba essere trattato prima; la regione o il comune o l’ordinamento generale dello Stato. Le sue esperienze in materia di elaborazione di testi legislativi, che risalgono ad un quarto di secolo, lo hanno condotto alla conclusione che l’essenziale è cominciare da un punto qualsiasi e redigere uno schema. Sarebbe conveniente che i Relatori preparassero uno schema articolato; forse alla fine della discussione gli articoli che ne usciranno saranno diversi da quelli presentati; non per questo la fatica dei Relatori sarà stata meno meritoria. Poi si dovrà armonizzare i risultati della seconda Sottocommissione con quelli delle altre, e probabilmente alla fine quello che nascerà sarà del tutto diverso da quello che provvisoriamente era stato approvato. Ma, seguitando a domandarsi quale argomento debba essere discusso prima, si finisce col non discutere nulla. Dal punto di vista metodologico non c’è un argomento più importante di un altro; bisogna pur cominciare da qualcuno.

Passando a qualche osservazione specifica, afferma che, se si vuole istituire la regione, si deve abolire la provincia, perché, se si aggiungesse la regione alla provincia, si moltiplicherebbero gli uffici e i gravami fiscali.

Per la determinazione della competenza di questi organi, occorre tener presente che noi non siamo nella situazione di un gruppo di Stati che intendono federarsi. In questa situazione – come è avvenuto in Svizzera e negli Stati Uniti d’America – gli Stati che si federano determinano essi quali sono le competenze che intendono attribuire al Governo federale e riservano a sé tutte le altre. Noi invece partiamo dallo Stato unitario, che intendiamo mantenere, ed allora la soluzione migliore è che siano attribuite dalla Carta costituzionale alla regione determinate competenze e che la regione non ne abbia nessuna di più di quelle stabilite dall’atto costituzionale. Ciò non impedisce che quando si sia constatato che le regioni dànno buona prova, si possano, con emendamenti successivi, ampliare i poteri delle regioni. L’altra via, per la quale si tratterebbe di lasciare all’ente regione la facoltà di fare tutto salvo quello che è attribuito allo Stato, al momento attuale gli pare pericolosa.

Rispetto alla finanza crede che si debba tener conto dell’esperienza, la quale dimostra che qualunque tentativo sia stato fatto di specificare le imposte da assegnare ai comuni, alle provincie o alle regioni e in genere agli enti minori è andato a vuoto, perché ha urtato contro un ostacolo essenziale; qualsiasi sistema preciso di attribuzione di un gruppo di imposte agli enti locali si dimostra o insufficiente o esuberante. È sempre accaduto così, ed è impossibile che una preordinata distribuzione delle fonti tributarie tra l’ente Stato e gli enti minori possa soddisfare allo scopo della sufficienza: non si può mai prevedere se le spese della regione potranno essere coperte da quelle imposte. Quindi il sistema è da scartare, e conviene piuttosto fare qualcosa nel senso di negare alla regione la facoltà di stabilire taluni tipi di imposta che, se la regione potesse usarli, li userebbe in senso dannoso all’interesse collettivo. Per esempio, se le si attribuisce il diritto di stabilire molte imposte indirette, come dazi, imposte sui consumi ecc., pur senza volerlo, si crea un sistema di mercato chiuso, che sarà di impedimento al traffico interregionale. Se un principio fermo deve essere scritto in una Costituzione, questo è che sia negato a qualsiasi ente locale il diritto di mettere qualsiasi impedimento al traffico tra una località e l’altra. Deve essere invece attribuita alla regione una certa lata facoltà di stabilire le imposte che non sono negate espressamente.

Ma è certo che si verificherà un inconveniente. È probabile che le imposte che possono essere stabilite diano un gettito insufficiente, specie nelle regioni meno progredite. Questa previsione, derivante dalla esperienza, potrà forse suggerire il modo di sostituire, nella regione come nella provincia o nel comune, qualche cosa ai controlli preventivi esercitati da parte dell’autorità centrale, come prefetti, giunte provinciali amministrative, ecc. Bisogna ammettere che qualche ente locale abusi dei proprî poteri e allora quali saranno i correttivi? Per le regioni che non hanno da chieder nulla allo Stato, possono essere soltanto quelli d’ispezione; e le ispezioni devono continuare ad esser fatte dalle autorità centrali, a mezzo di ispettori volanti, inviati da un’autorità competente centrale, come il Ministero dell’interno, il Ministero delle finanze, la Sanità pubblica. E quali sanzioni dovrebbero avere i risultati negativi che determinassero il biasimo degli ispettori? Non ve ne è altra all’infuori dell’appello agli elettori. I risultati delle ispezioni sono pubblici, e saranno gli elettori che, in base ad essi, si decideranno a non rieleggere gli amministratori colpevoli. Per le regioni, invece, e per i comuni per i quali le imposte assegnate sono insufficienti e che hanno da chiedere qualche cosa allo Stato, bisogna pensare a qualche altra sanzione in aggiunta a quella del ricorso agli elettori, e questa sanzione evidentemente prende nome di norme relative alla concessione di un contributo dallo Stato alla regione.

La questione dei contributi è delicatissima e forse nessun Paese è mai riuscito a risolverla. Quando lo Stato dà contributi agli enti minori che non hanno entrate sufficienti, tutti gli enti minori finiscono per chiedere sempre contributi all’ente centrale, e in questa situazione non vale stabilire in qualsiasi modo l’autonomia: gli enti locali dipenderanno dall’ente centrale che li sovvenziona. La soluzione che è stata trovata dopo molti esperimenti – si può pensare agli esperimenti svizzeri e inglesi – è quella che il contributo non sia stabilito a priori a libito delle autorità centrali, ma siano invece stabiliti dei criteri oggettivi in base ai quali l’ente locale abbia diritto ad un certo contributo. Per esempio, un municipio povero, perché la sua popolazione è scarsa, la ricchezza per testa è insufficiente, il reddito delle imposte molto basso, non potrà avere scuole al di là della seconda o della terza elementare: se si vuole che superi questo limite, è necessario un contributo. Il contributo viene allora dato in funzione di una considerazione oggettiva.

Ricorda qui di aver conosciuto un ufficiale inglese della Commissione alleata, antico segretario comunale di un comune inglese, che aveva assunto poi un altro ufficio: le sue funzioni erano di introduttore delle esigenze dei comuni presso il Ministero dell’interno, la Sanità pubblica o la Camera dei comuni per ottenere di volta in volta un atto privato, un atto speciale. Funzione giuridica, non lasciata all’arbitrio dell’autorità centrale; funzione certamente non perfetta, ma che soddisfa una esigenza giuridica: quella di eliminare l’arbitrio dell’ente centrale, il quale esercita il suo controllo sulla base di norme stabilite per legge, che non possono essere violate né dal potere centrale né da quello locale.

Circa la questione dell’elettorato, di cui è cenno nella relazione Ambrosini, dichiara di essere contrario a qualunque forma di elettorato professionale, che, a suo avviso, costituirebbe un enorme errore nella nostra legislazione. Ma è una questione generale su cui non intende dilungarsi.

In materia di elettorato una certa larghezza di criteri dovrebbe essere lasciata agli enti locali, in quanto negli enti locali ciò che importa di stabilire è il legame diretto fra comuni o regioni ed elettori. Non può essere elettore nella regione e nel comune il primo venuto: occorre che abbia dato prova con una residenza di un certo numero di anni, di non essere una persona che, stando lì quasi di passaggio, determini col proprio voto delle norme che saranno poi obbligatorie per quelli che risiedono sul posto in permanenza, mentre lui se ne sarà andato via. Quindi la possibilità di limitare il diritto elettorale, senza alcuna distinzioni di opinioni, di culto, di razza ecc.; ma relativamente alla durata dei rapporti che intercedono fra l’abitante del comune o della regione e il diritto elettorale. Il cittadino italiano ha diritto di votare sempre, perché è cittadino italiano, ma per il comune un rapporto temporale, anche di piccola durata, deve essere tenuto presente.

Su un altro punto importante richiama un recente volume dell’Olivetti, che, fra molte affermazioni forse un po’ fantastiche, ha un’idea che può essere accolta anche in misura limitata, sperimentalmente: quella della «comunità» (parola non appropriata). L’Olivetti quando parla di «comunità» probabilmente vuole riferirsi a qualche cosa di simile ai distretti nelle provincie del Veneto, minori del circondario e maggiori del mandamento. Esiste infatti una certa circoscrizione, la quale non è il comune, e di gran lunga non è la provincia; una circoscrizione che si raggruppa intorno ad un mercato, ad una cittadina di diecimila abitanti, per esempio. Questa risponde ad una situazione più propria dell’Alta e Media Italia che non dell’Italia Meridionale. Nell’Italia Meridionale esistono grosse città che raggruppano moltissimi abitanti, mentre nell’Italia Settentrionale vi sono molti borghi di tre-quattro-cinquemila abitanti, vi sono comuni di mille-millecinquecento abitanti che non hanno i mezzi per vivere, né li avranno mai e non potranno mai mantenere complessi servizi; onde la necessità di un qualche cosa che raggruppi tutti questi piccoli comuni che gravitano intorno ad un mercato centrale, che sarà un mercato economico, ma potrebbe anche essere un centro giudiziario; sarà la cittadina che è sede del tribunale o dove si trovano gli uffici del registro, delle imposte, ecc., o della pretura. Per molti servizi, come ad esempio quelli del medico condotto, del veterinario ecc., questa circoscrizione può essere attuata, se non nella maniera concepita dall’Olivetti, in modo più ristretto, in forma sperimentale, quasi di consorzio: ma l’idea non deve essere abbandonata.

Per gli enti minori è favorevole all’idea del referendum. Un po’ conservatore per tradizione, relativamente poco per le cose economiche, ma molto per le cose tradizionali, ha constatato che il referendum è un organo di conservazione di tutto ciò che è tradizionale, a cui gli abitanti tengono e che invece molte volte gli uomini politici, credendo di innovare a vantaggio della popolazione, vogliono distruggere. Il referendum, per esempio nella Svizzera, porta quasi sempre ad emendamenti di progetti di legge che sono stati votati qualche volta ad unanimità dai Grandi consigli dei Cantoni o dai consigli comunali. Così è avvenuto, per esempio, nel 1944, con un referendum nel Canton Ticino, proprio sull’elettorato. Tutto il Canton Ticino aveva votato in favore di un allargamento dei criteri dell’elettorato; ma gli elettori respinsero il disegno di legge, perché tenevano molto a che gli elettori nei comuni fossero persone che essi conoscevano, che erano vissute sul posto almeno per un certo numero di anni. Il corpo elettorale spesso risponde negativamente quando si tratta di cose che toccano le tradizioni famigliari, le istituzioni fondamentali di carattere morale, a cui molto tengono gli elettori, i quali in questa materia credono poco alle innovazioni.

Circa la giurisdizione, dubita molto della opportunità di estendere alla regione il diritto di avere una giurisdizione propria. Crede che questo urti contro l’esperienza anche di quei Paesi, nei quali si avevano tribunali locali. È una esperienza che si è fatta nella Svizzera in forma moderata, negli Stati Uniti in forma clamorosa, perché il gangsterismo nord-americano ha trovato alimento nella impotenza delle autorità di polizia e delle autorità giudiziarie federali. Perciò oggi in tutti gli Stati federali c’è la tendenza a restringere l’autorità degli organi giudiziari, della polizia locale, e aumentare l’autorità della polizia centrale. Per la stessa ragione tecnica per la quale tutti sono d’accordo che le ferrovie, le poste e telegrafi, ecc., siano di spettanza, per il loro regolamento, delle autorità centrali e non di quelle locali, si riconosce che, per praticamente amministrare la giustizia e la polizia, è assolutamente necessario che queste siano di spettanza dell’autorità centrale e non delle autorità locali.

Ciò conforta ancora la tesi che in materia di autonomia, condizione essenziale nel nostro Paese, è quella di stabilire tassativamente in precedenza quali siano le materie di competenza delle autorità locali; tutte le altre spettano all’autorità centrale. Via via, fatta la necessaria esperienza – nessuna Costituzione è perfetta – tali competenze potranno essere allargate o ristrette.

Rinnova in ultimo il desiderio che, dopo le relazioni, siano formulati degli articoli, che si possano esaminare e discutere uno ad uno, salvo a rivederli ancora in rapporto a quelli che, sulle altre materie, saranno formulati dalle altre Sottocommissioni.

TARGETTI osserva che si è parlato della regione e si sono esposte idee varie sopra le diverse facoltà, da attribuire a questo ente regionale. Ma si domanda se nessuno abbia qualche cosa da obiettare sull’opportunità di costituire questo ente.

PRESIDENTE ricorda di aver già fatto presente che questo è il problema che deve essere preliminarmente risolto. Finora coloro che hanno parlato si sono manifestati più o meno favorevoli alla costituzione dell’ente regione o hanno implicitamente rivelato di tollerarne la costituzione, forse avvertendo che non se ne può fare a meno. Ma vi sono altri iscritti a parlare. Perciò, pur rendendosi conto del desiderio dell’onorevole Einaudi che si abbia un testo di articoli, sui quali discutere e raccogliere le idee, crede che ciò sia prematuro e che si debba intanto continuare questa discussione di carattere generale.

LUSSU, per la sua esperienza politica che rimonta pure a quasi un quarto di secolo, crede di poter esprimere alcune considerazioni di chiarimento alla discussione che si deve fare.

Ritiene che, malgrado tutto, il sistema adottato sia il migliore e il più redditizio perché, dopo questa discussione, in cui sarà chiarito bene il problema nei punti fondamentali, sarà possibile in una riunione plenaria della Commissione stabilire un indirizzo sufficientemente illustrativo del lavoro al quale occorre accingersi.

Constata che il Relatore onorevole Ambrosini ha prospettato con obiettività, pur rivelando la sua simpatia per una forma di trasformazione dello Stato a base autonomistica, tre ipotesi: quella dell’accentramento statale, quella delle autonomie su base unitaria e finalmente quella dello Stato federale. Circa la centralizzazione statale il Relatore ha accennato appena al problema se debba rimanere oppure no; ma è chiaro che il centralismo statale, così com’è oggi, non risponde né alle esigenze né alle aspirazioni del paese. La critica dello Stato centralizzatore è in tutti i partiti, anche se si differenzia nelle singole zone; onde è da ritenere che la prima ipotesi possa essere trascurata.

Le altre due ipotesi: stato federale (al quale il Relatore ha accennato appena) o stato autonomistico su basi unitarie, sono quelle che si debbono considerare.

Desidera da parte sua e ritiene anzi suo dovere fare qualche considerazione, sia pure rapida, sulla prima, perché appartiene da molto tempo alla corrente politica federalista; una corrente che si ha in vari settori politici, che però non parlano esplicitamente di federalismo per una certa riluttanza a parlare di questo argomento.

Partendo dal concetto dell’unità nazionale, che sente con la stessa intensità di qualsiasi altro, partendo da un principio ispirato ad un maggiore potenziamento di tutte le forze del Paese – affinché l’Italia risorga dalla condizione miserabile in cui il fascismo l’ha piombata e torni ad essere una grande Nazione che, dopo avere civilizzato se stessa, porti un suo afflato di civiltà al mondo – deve dichiarare che segue la concezione federalista in quanto si sente fortemente italiano. Il federalismo, a suo avviso, rappresenta la corrente che pone l’antidoto ai mali che hanno condotto il paese fino alla avventura del fascismo e della guerra; rappresenta l’antitesi di quel centralismo da cui sono derivate la corruzione parlamentare, la sopraffazione del centro sulla periferia, lo strapotere della burocrazia e infine la stessa corruzione e decadenza sulla democrazia. Così come molti temevano che la Repubblica fosse un salto nel buio, mentre ora si vede che è stato un passo magnificamente fatto con le scarpe ai piedi e con gli occhi aperti, così oggi si ha paura del federalismo e non se ne parla, o se ne parla con una certa preoccupazione. Ma un salto nel buio, se mai, è stato il passaggio improvviso da una vita italiana che non era più unitaria da tanti secoli, ad una formazione di Stato burocratico centralizzato. L’unitarismo dei Giacobini in Francia fu storicamente logico, perché i Giacobini avevano ereditato lo stato unitario di Luigi XIV. In Italia, invece, se una eredità storico politica si è avuta, è stata quella dei vari stati in cui era diviso il paese, ed avrebbe dovuto condurre all’unità federale. Invece, si è creato uno stato centralizzato, che ha imposto la sua organizzazione statale a tutto il Paese. Senza voler fare una critica al sistema burocratico piemontese, non vi è dubbio che la burocrazia piemontese si è impadronita dello Stato ed ha imposto il suo sistema amministrativo a tutta l’Italia: cosa irrazionale, antistorica, da cui è derivata quella corruzione sulla quale è inutile insistere.

Il federalismo pertanto rappresenta, malgrado le diffidenze, malgrado i pericoli che molti ritengono gravi, l’aspirazione dell’opinione più consapevole del Paese e di quella parte del Paese che ha sofferto di più. Pur rispettando il pensiero di coloro che sono su un’altra linea politica, ritiene che il federalismo sia l’espressione della profonda sofferenza del Paese nel passato e l’aspirazione ad una radicale trasformazione.

Lo Stato che dovrà federarsi è la regione. Tante regioni più o meno caratterizzate costituiscono in Italia quello che in Isvizzera è il Cantone; quello che negli Stati Uniti è lo Stato federato; la base della organizzazione federale.

Da taluni si obietta che il federalismo si è avuto come sviluppo storico di fatti che hanno indotto stati preesistenti a federarsi. Così in Svizzera alcuni Cantoni si sono riuniti, hanno concluso un patto federale e vi hanno giurato fedeltà. Successivamente altri Cantoni hanno aderito alla Federazione che si era formata. Qualche cosa di simile è avvenuto in America. Ma, dicono gli avversari del federalismo, in Italia un processo verso il federalismo oggi sarebbe del tutto antistorico, perché l’Italia è costituita in stato unitario e non si parte dallo stato unitario per spezzettarlo e farne uno stato federale.

Senonché è possibile riferirsi all’ultimo esperimento di formazione di uno Stato federalista in Europa, che dimostra esattamente il contrario: lo Stato federale austriaco è sorto dal crollo dell’impero Austro-ungarico e alla fine della prima guerra mondiale si è organizzato con le popolazioni di lingua tedesca dell’ex impero e si è organizzato federalisticamente pure partendo da una regione austriaca unitaria. Caso tipico che sta a dimostrare appunto che si può passare da uno Stato non federale ad uno Stato federale.

Ed a ragione questo dovrebbe avvenire in Italia, ove si hanno alcune regioni che, dal punto di vista soprattutto geografico, non possono essere che Stati federati. Si riferisce principalmente alla Sicilia e alla Sardegna, e più alla seconda che è totalmente distaccata dal territorio nazionale. La Sardegna è più lontana da Roma di quanto non lo sia Malta da Londra, tanto che tale isolamento crea esasperazioni psicologiche che portate sul terreno politico si potrebbero definire aberrazioni. Accanto a queste due regioni ve ne sono altre, come la Calabria, l’Emilia, il Piemonte, la Toscana, l’Umbria, gli Abruzzi, il Molise e altre che hanno caratteristiche proprie che le differenziano sostanzialmente l’una dall’atra. Ed è da aggiungere che nella Val d’Aosta si parla il francese; che vi è la situazione della zona attorno a Bolzano; onde si deve concludere che, se in Europa vi è un Paese in cui si abbia la premessa logica di una organizzazione federale, questo è indubbiamente l’Italia.

Al centro rimarrà quello che deve rimanere in uno Stato moderno democratico: la direzione e la rappresentanza di una grande Nazione; l’essenziale insomma, tranne quella infinita serie di problemi che spettano solamente alla periferia e che il centro non ha alcun diritto di vedere né da vicino né da lontano.

La questione federalistica italiana deve essere concepita come potenziamento della civiltà italiana, e perciò egli la sente con grande passione. Nella organizzazione attuale la burocrazia al centro è la detentrice di tutto il potere. I funzionari sono in buona fede, molti di essi sono onesti e intelligenti; ma la burocrazia, in sé, è la negazione della vita, dell’amministrazione, dell’attività civile moderna. E tutto questo non si trasforma se non si trasforma tutta l’organizzazione dello Stato.

Forse la questione federalistica non sarà sentita dalla maggioranza: sarà un problema sollevato da una minoranza all’Assemblea. E allora, se la maggioranza non sarà per il federalismo, bisognerà vedere il problema dell’autonomia.

Venendo a questa, dichiara di concordare con l’onorevole Zuccarini sull’importanza del comuni, ma crede opportuno esaminare ora il problema dell’ente regionale; ciò che non pregiudica il problema dei comuni. In fondo, la regione è una federazione di comuni; quindi, il procedimento più razionale per l’utilità delle discussioni è quello che si è adottato.

Si afferma convinto che la provincia debba sparire perché, oltre che inutile, è dannosa. Chi ha fatto parte dei consigli provinciali sa che la provincia si occupa solo delle strade, dei manicomi e di poche altre cose: tutto fa la prefettura. La vita e la morte della provincia sono nelle mani del prefetto – il barone – che è il rappresentante dello Stato centralizzatore, con la sua burocrazia che sopprime ogni possibilità di vita, stronca ogni iniziativa con un boicottaggio permanente.

Si deve riconoscere che le popolazioni del Mezzogiorno e delle Isole sono terribilmente arretrate: perciò uomini intelligenti esulano da quei paesi. La corruzione, l’ignoranza, l’analfabetismo derivano non in piccola misura dal prepotere dei baroni imposti dal Governo centrale. Se non scomparissero le prefetture, tanto varrebbe conservare lo Stato centralizzatore: non si realizzerebbe alcun progresso.

Per quanto riguarda le elezioni nell’ambito della regione, ha una certa riluttanza a che siano fatte sulla base della rappresentanza di interessi: crede che non si possa evitare il prevalere del pensiero politico e, quindi, del partito politico.

Problema serio è quello delle finanze. Nelle regioni molto povere le finanze costituiranno un problema a sé grave. La Sardegna, per esempio, è un Paese estremamente povero, dove c’è chi muore letteralmente di fame. Ma lo Stato accentratore aggrava enormemente la situazione. Le grandi compagnie industriali e commerciali che lavorano in Sardegna hanno la loro sede fuori della Sardegna ed eludono il pagamento delle imposte locali, sottraendo all’Isola centinaia di milioni all’anno.

Quest’Isola, estremamente povera, ha però alcune fonti di ricchezza: le miniere, e lo Stato accentratore gliele sottrae. Ha le tonnare, e le tonnare sono concesse come un diritto feudale al marchese di Villamarina. Ha le saline, e lo Stato gliele toglie. Bisogna ridare alla Sardegna la possibilità di sfruttare per sé le scarse fonti di ricchezza di cui dispone.

Concludendo, si domanda ancora se debba esistere un organo intermedio fra la regione e il comune, se la provincia cioè debba essere o meno soppressa e, se soppressa, se debba o meno essere sostituita. Non ritiene giustificato il fermento che si manifesta in molti capoluoghi di provincia, per il timore di perdere di prestigio con la soppressione della provincia; il prestigio le città principali lo hanno indipendentemente dall’essere o meno un capoluogo di provincia; viene loro dai traffici, dai commerci, dalla posizione geografica, ecc.

CAPPI, rifacendosi a quanto ha detto precedentemente l’onorevole Perassi, osserva che la discussione attuale dovrebbe considerarsi preliminare, in modo da permettere alle singole sezioni di iniziare proficuamente il loro lavoro ed afferma che, senza entrare in dettagli, la Sottocommissione dovrebbe vedere quale debba essere, a grandissime linee, la struttura del nuovo Stato.

Sono state prospettate tre soluzioni, e cioè:

1°) mantenere la struttura dello Stato accentrato;

2°) stato federale. E qui bisogna vedere fino a qual punto debba arrivare l’autonomia dei singoli Stati e quali vincoli dovranno stabilirsi tra stato e stato della federazione;

3°) creazione dell’Ente regione, cioè di un ente giuridico che abbia certi poteri e certe competenze.

Ritiene che la Sottocommissione debba decidere in linea generale quali delle tre soluzioni sia da accettare, senza allargare la discussione, lasciando poi alle singole sezioni il compito di un esame più approfondito.

BULLONI osserva che, decisi i punti principali, sarebbe conveniente pregare i relatori di abbozzare un progetto particolare, così come è stato richiesto dal senatore Einaudi, da sottoporre alla Sottocommissione nella prossima seduta.

PRESIDENTE è d’opinione che la discussione non sia stata ancora abbastanza esauriente perché possa già arrivarsi a questa formulazione.

FABBRI gradirebbe che i fautori dell’istituzione dell’ente regione specificassero le materie che particolarmente dovranno essere di competenza di un tale ente. Siccome forse non si può fare a meno di essere d’accordo nel concetto che, istituita la regione, debba essere la Carta costituzionale a stabilire quali sono le materie specifiche di competenza della regione stessa, rimanendo tutto il resto delle materie di competenza dello Stato, ritiene che la discussione debba chiarire quali dovranno essere le funzioni della regione e quali i mezzi finanziari a disposizione dell’ente regione per raggiungere gli scopi prefissi. Osserva che in tal caso inevitabilmente per alcuni servizi si avrà una tendenza legislativa perfettamente opposta a tutto quello che era stato fatto prima. Si richiama in particolare alla materia mineraria, per la quale si è riconosciuto di aver realizzato un enorme progresso allorché si è arrivati all’unificazione di tutta la legislazione, prima frammentaria e diversissima fra le varie regioni d’Italia. La stessa cosa è stata fatta in materia di acquedotti, e in tutte le altre a questo connesse. Ora, se la materia mineraria, degli acquedotti ed anche delle concessioni elettriche dovesse essere di competenza della regione, si andrebbe inevitabilmente a ritroso rispetto a quello che finora è stato il movimento dell’unificazione amministrativa nazionale.

Ritiene necessario, nel caso di istituzione dell’ente regione e di conseguente soppressione totale o parziale delle provincie, stabilire quali debbano essere le materie da attribuire all’ente, e quali soprattutto i mezzi finanziari per farvi fronte.

CONTI considera necessario, ma prematuro, un progetto con l’articolazione degli argomenti. Ora il problema, di carattere pregiudiziale, è quello di precisare in linea di massima quali competenze dovranno essere attribuite alla regione. A questo scopo sarebbe opportuno, a suo avviso, nominare un Relatore o una ristretta Commissione di studio, con l’incarico di riferire alla Sottocommissione.

PRESIDENTE propone che la Sottocommissione continui lunedì 29 alle 17 la discussione sull’opportunità o meno di creare il nuovo organo regionale e, in caso affermativo, sull’opportunità di formare soltanto un organo amministrativo o di attribuirle anche poteri politici.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 20.30.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Castiglia, Leone, Maffi, Porzio, Ravagnan.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.