Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
partner di progetto

MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

5.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 31 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

La Rocca – Einaudi – Bulloni – Fabbri – Patricolo – Presidente – Tosato – Lussu – Mortati – Leone Giovanni – Perassi – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.5.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

LA ROCCA, dopo l’elevata discussione che ha avuto luogo finora, crede non rimanga ormai che rivedere con chiarezza taluni punti di vista.

Tutti sono d’accordo che bisogna ad ogni costo eliminare i danni di uno Stato burocratico ed accentratore che si è dimostrato negatore della vita nazionale e che, invece di far fiorire le energie latenti del paese, le ha soffocate, dimostrando di non conoscere, o di trascurare e tradire addirittura i bisogni e le aspirazioni vive della periferia, la quale da questa noncuranza od avversa volontà si è vista impedita nel suo cammino.

Nella discussione sono affiorate le varie concezioni che si hanno dello Stato.

Anche i commissari comunisti hanno la loro: e cioè che lo Stato non è la realtà dell’idea morale, alla Hegel; e sono confortati dal pensiero che gli studiosi cominciano ad essere concordi su questo; che lo Stato è sorto sulla base d’inconciliabili contrasti sociali: che, espresso dal seno della società, si è a poco a poco staccato dalla società e sovrapposto ad essa, divenendo lo strumento di dominio delle classi che si sono succedute al potere, nelle varie tappe del processo storico: lo stato dei patrizi nell’antichità, dei signori nel medioevo, dei capitalisti nella società moderna.

È stato detto che l’eccessivo centralismo fu una delle cause del trionfo del fascismo; e può anche darsi che l’eccessivo centralismo vi abbia contribuito. Ma il fascismo ha altre radici.

Tutti sono d’accordo che bisogna evitare certe pericolose forme di accentramento. Ma non si può non far tesoro dell’esperienza storica. È conosciuta la Costituzione di Weimar, che è stata il modello delle altre: repubblica; tutti i poteri emanano dal popolo; il governo centrale da soltanto le direttive; la nazione si organizza intorno ai länder, con potestà legislativa piena. Tuttavia questo Stato, così decentrato, non ha impedito che si affermasse l’hitlerismo, che è qualcosa di peggio del fascismo. Quindi bisogna procedere con cautela nell’esame.

Tutti vogliono impedire che il fascismo ritorni; e vogliono una riforma radicale soprattutto affinché scompaia in Italia ogni diversità strutturale. Vogliono che finisca l’unità unicamente apparente (territoriale e più o meno politica) ma che si risolve in una disparità economica e sociale e finisce col minare le basi stesse dell’unità nazionale.

Infine tutti vogliono che la trasformazione di struttura segni la rinascita del Paese, il quale deve essere oggi considerato, più che un insieme organico ed armonioso retto dal principio della concordia discorde, un insieme che presenta disparità manifeste nella struttura organica, che presenta squilibri, sproporzioni, ingiustizie, che non aiutano certo il formarsi della vera unità nazionale.

Questa unità organica manca per il modo con cui l’unità del Paese si è venuta formando, manca a causa dello squilibrio fra nord e sud. L’unità si è costituita sopra una base economica a danno delle popolazioni del Mezzogiorno, il quale da taluni gruppi industriali e bancari del nord è stato ridotto insieme con le isole a vere colonie di sfruttamento. La questione meridionale è un problema essenziale della politica nazionale, e si è risolta nella subordinazione del Mezzogiorno al Settentrione: il Mezzogiorno – comprese le isole di Sardegna e di Sicilia – è stato spogliato e paga le spese degli altri. Quindi lo scopo da raggiungere è quello di portare tutte queste regioni allo stesso livello economico delle altre.

La preoccupazione, in rapporto a questa trasformazione radicale, è che si possa comunque aprire un varco al passaggio di forze centrifughe che possano minacciare o addirittura spezzare l’unità nazionale. E appunto perciò egli è contro la tesi federalista e qualsiasi tesi regionalista che praticamente possa sboccare in federalismo. Il federalismo è vincolo fra vari Stati sovrani che s’impegnano a delegare ad un potere centrale una parte della loro sovranità, ed è stato sostenuto con calore dall’onorevole Lussu come la sintesi più razionale del processo storico e evolutivo del Paese.

Non può essere d’accordo con lui e con gli altri che ne condividono l’opinione.

Il cammino storico e del progresso è stato sempre nel senso del graduale passaggio dal piccolo al grande gruppo, dall’organizzazione federativa a quella nazionale; ha proceduto sempre dai più piccoli aggruppamenti ai più grandi, dalla federazione allo Stato unitario; e adesso tende anche ad un più ampio allargamento che oltrepassa lo Stato. E questo perché le possibilità di soluzione dei problemi economici, che sono fra loro quanto mai connessi, non possono essere ricercate nello sparpagliamento delle forze, ma nell’aggruppamento. Intende riferirsi soprattutto al problema economico, perché, pur ammettendo che esso non rappresenta l’unico determinante, bisogna riconoscere che esso costituisce il fattore decisivo, la grande forza motrice di tutti gli avvenimenti storici; onde nella trasformazione strutturale dello Stato non si può non tenerne conto.

L’organizzazione federale rappresenta una grande garanzia di libertà e di democrazia là dove la federazione è la risultante di un naturale processo storico accompagnato da una progressiva autoeducazione della coscienza civile, come è avvenuto negli Stati Uniti e nella Svizzera.

Parla della soluzione federalistica, non perché tenga a battere questa tesi, ma perché non vorrebbe che si adottasse una soluzione regionalistica che praticamente fosse come la sorella di quella federalistica. Questo intende ben chiarire.

In Italia una soluzione in senso federale non sarebbe la risultante naturale di un processo evolutivo e rinnegherebbe un secolo di storia patria, senza far altro che inasprire gli squilibri e il dislivello fra le regioni, in ispecie fra quelle del nord e del sud; avrebbe quindi il torto di portare avanti forze retrograde che esistono e lavorano per spezzare la unità nazionale. Nella profonda tendenza autonomistica del sud si deve vedere una giusta reazione al tentativo del nord di sopraffare il Mezzogiorno d’Italia. Ma la questione del Mezzogiorno e delle isole non può essere risolta che in senso unitario, nel quadro di un generale ordinamento, senza dividere e frazionare il corpo dello Stato, del Paese, senza creare tanti compartimenti stagni. Nel 1848 la soluzione federalistica sarebbe stata un avviamento all’unità del Paese: oggi sarebbe un indietreggiamento: sarebbe quanto mai regressiva.

La soluzione unitaria, comunque si sia compiuta ed effettuata, ha rappresentato un fatto progressivo anche nei riguardi del Mezzogiorno. Come uno dei rappresentanti di Napoli, riconosce che il sud soffre delle conseguenze dell’unità compiutasi a danno di tutte le popolazioni meridionali. E non è il caso di ricordare i milioni dell’ex Regno delle Due Sicilie spesi per la costruzione di ferrovie, ponti e strade del nord, sotto la specie delle necessità strategiche e che accrebbero lo sviluppo del nord. Pur compiuta male, l’unificazione costituì un progresso, e oggi tornare indietro significherebbe farsi giudicare male dall’avvenire, e farsi maledire dal popolo italiano. Anche la soluzione unitaria di Bismarck che pure è stata ricordata, fu opera progressiva, anche se compiuta col metodo di un Junker, perché riunì tutta la nazione tedesca. La nazione unitaria è un prodotto del capitalismo nella fase ascendente e progressiva: bisognava creare un mercato unico, un’unica legislazione, un unico sistema monetario; bisognava abbattere le barriere che ostacolavano i traffici e gli scambi. In fondo la feudalità fu distrutta dalle forze produttive formatesi nel seno della vecchia società e che erano compresse nei limiti provinciali; e la borghesia ha avuto una funzione progressiva nell’evoluzione sociale, quando ha creato la Nazione, ed ha creato, non solamente il mercato e l’economia nazionale, ma il mercato e l’economia mondiale.

Oggi non si potrebbe tornare indietro: l’economia nazionale non esiste più da sola: non è che un anello di una catena che si chiama economia mondiale. Oggi le forze produttive cresciute nel seno della società tendono a superare i confini nazionali.

Afferma di volere una trasformazione profonda: non federalismo, e neanche un regionalismo troppo spinto, che sia federalismo mascherato, trasformazione, basata sulla creazione di un ente che si interponga fra il comune e la nazione. Questo corpo intermedio può essere la regione, e si tratta di definirlo.

Dal punto di vista territoriale sarà facile mettersi d’accordo: si adotteranno criteri etnici, geografici, storici, culturali, ecc. Ma il problema più importante è quello di stabilire quali debbano essere le attribuzioni delle regioni, per impedire che queste possano di fatto, se non di nome, essere quasi degli Stati autonomi nello Stato italiano.

Vuole la creazione dell’ente regione come ente giuridico; ma, appunto perché aderisce alla realtà obiettiva – che non va mai dimenticata per sostituire ad essa il proprio desiderio – vuole tenere in considerazione tutto il complesso di tratti caratteristici, di condizioni strutturali, di tradizioni che sostanziano le diverse regioni.

Sono state ricordate le drammatiche condizioni della Sardegna e della Sicilia, e si è detto che vi sono quattro regioni in Italia che hanno bisogno di autonomia piena, affinché possano provvedere direttamente ai loro bisogni. È d’accordo con questa tesi; ma il problema consiste nello stabilire fino a qual punto concedere l’autonomia piena ed una potestà legislativa primaria; e se veramente occorre concederla a tutte le regioni.

Una più larga autonomia, con potestà legislativa primaria, bisognerebbe concederla a quattro regioni: la Sicilia, la Sardegna, la Val d’Aosta e l’Alto Adige, tanto più che esiste già uno statuto speciale per la Sicilia, per la Sardegna e per la Val d’Aosta, ed è in via di concessione per l’Alto Adige. Ma che fare per le altre regioni? Si dice che è necessario che ogni regione provveda a risolvere i suoi problemi e che le Assemblee regionali diventeranno magnifiche palestre politiche. Ma quali potestà si debbono concedere a queste altre regioni che si vogliono costituire? Si deve indubbiamente abolire la provincia come ente autarchico e conservarla come centro burocratico. Città come Milano, Napoli, Firenze, ecc., ben conoscono i loro bisogni, che sono quelli di grandi comuni, ed è giusto che non abbiano le mani legate dall’autorità centrale. Ma quali limiti si debbono porre a questa potestà?

Riconosce che si devono costituire, oltre le quattro accennate, secondo il criterio che la Sottocommissione riterrà opportuno, le regioni come enti e chiede che si conceda ad esse una facoltà legislativa delegata.

Si presentano, ad esempio, tre grandi problemi: ricostruzione, riforma agraria e nazionalizzazione di taluni complessi industriali, di taluni strumenti di produzione. Se si concede una potestà primaria a tutte le regioni d’Italia, si può giungere a concedere l’autonomia fuori del quadro nazionale. Esistono delle ingiustizie; esistono delle regioni più popolose, più progredite, più ricche: se si consenta alla regione di chiudersi in se stessa, si rischia di fare una politica antinazionale non facilmente sanabile; si rischia che la regione povera continui a vivere nella sua miseria, anche se non vedrà più sfruttate le sue risorse e non vedrà più il suo denaro emigrare, a vantaggio di determinati gruppi di speculatori. Si possono avere delle regioni più progredite ed avanzate che continuino a progredire, e quelle arretrate, che avrebbero più bisogno di avanzare, fermarsi se non addirittura regredire.

La riforma agraria deve essere attuata su una scala vasta, nel quadro, nazionale, specie nei riguardi del Mezzogiorno che è la parte più arretrata. La ricostruzione pone il problema di chi deve pagarne le spese. Se essa è lasciata all’arbitrio di ogni regione, si possono determinare disparità enormi. Onde la necessità di una potestà legislativa delegata. Bisogna eliminare gli impacci; bisogna costituire, per tutto il popolo italiano, la garanzia che ci sarà una marcia unica in senso progressivo, portando le regioni più povere e arretrate al livello di quelle più fornitele avanzate.

Con una potestà legislativa primaria a tutte le regioni, si rischia di creare un grande squilibrio nell’applicazione di determinate norme fondamentali. All’insieme delle regioni (a parte le su indicate) bisogna concedere una larga possibilità di iniziativa e non potestà legislativa.

Contrariamente a quello che altri ha sostenuto, ritiene ammissibile nella regione, in certi limiti, anche la potestà giurisdizionale, con una sezione di Corte di cassazione per regione. Può essere aderente alla diversità dei bisogni delle varie regioni. Di una sola cosa si preoccupa: se si crea l’ente regione, si deve riorganizzare lo Stato sulla base regionale, ma in una miniera differenziata, cioè dando la autonomia a quelle regioni che più ne hanno bisogno, e costituendo le altre in enti affinché suscitino le loro energie e risolvano i loro problemi senza impacci ed eccitino le autorità centrali a provvedere, ma con delle garanzie, in modo che non si crei eventualmente una diversità tale per cui il regionalismo possa poi portare su un terreno del tutto diverso.

In materia finanziaria, l’onorevole Einaudi non vuole le imposte indirette perché impacciano i traffici. Ma se si ammettono le imposte dirette, allo Stato che resta? In ogni caso, si badi a non costringere il contribuente a pagare due o tre volte.

È dunque perfettamente d’accordo sullo schema e sull’indirizzo generale, ma non sui limiti della potestà legislativa. Si deve fare in modo che le regioni più arretrate si mettano al medesimo livello delle regioni più avanzate e cioè che tutta la Nazione abbia lo stesso ritmo di marcia. Soltanto così avremo compiuto opera utile per il nostro Paese e per la nostra rinascita. Così solo avremo messo in atto l’unità economica e quindi spirituale e morale di tutti gli italiani intorno alla nuova bandiera.

EINAUDI in materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l’ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l’ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l’impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l’ente intermedio mediante il contributo dello Stato. È un sistema che è stato qualche volta anch’esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello Stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l’esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall’ente minore, il comune, sia che partano dall’ente maggiore, lo Stato. Quindi necessità di fatto che l’ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo Stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all’origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo Stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest’unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo Stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito, che siano meglio adatte l’uno alla natura unitaria dello Stato, l’altro alla natura piccola, locale del comune.

Presa questa via che è la sola possibile, quali limiti si possono mettere alla finanza regionale?

Innanzi tutto qualche limite di esclusione. Si devono escludere tutte quelle imposte che, se diventassero imposte regionali, costituirebbero un impedimento alla vita economica unitaria. Le riforme che si vogliono attuare devono tener conto delle necessità economiche del Paese. Per limitarci in un primo momento alle imposte sul consumo, si devono escludere dal campo di applicazione delle regioni tutte quelle imposte che sminuirebbero l’unità economica del Paese. Non si può dare alle singole regioni il diritto di stabilire un’imposta di fabbricazione sullo zucchero, senza avere per conseguenza che ogni regione diventerebbe un campo chiuso. Se una regione stabilisce un’imposta di fabbricazione di mille lire ed un’altra regione la stabilisce di ottocento, quella che l’ha stabilita di mille deve mettere un dazio contro l’altra regione che l’ha stabilita di ottocento, perché altrimenti rovinerebbe la propria industria. Tutto ciò che costituisce barriera, vincolo, ecc., al commercio fra una regione e un’altra è una materia imponibile che deve essere sottratta alla regione.

L’atto fondamentale dovrebbe quindi sancire un principio il quale contempli i casi singoli di esclusione nei quali la regione non può intervenire perché il suo intervento sarebbe dannoso all’economia del Paese.

Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni dànno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all’imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient’altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos’altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovraimposizione sui redditi che si formano nell’ambito della provincia. Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull’imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo Stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello Stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo Stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello Stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello Stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo Stato italiano od anche all’infuori dello Stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello Stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importali e goduti nello Stato. È lo Stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo Stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all’infuori dei loro confini e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o provincie. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l’origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle provincie, per impedire che comuni e provincie colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l’idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l’imposta sul valore locativo. Anche l’imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall’imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo Stato. Lo Stato deve abbracciare tutto. Lo Stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello Stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo Stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l’eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

Ricorda di avere redatto una relazione alla Consulta sul decreto sull’imposta di lusso, presentato e fatto approvare dal Ministro Scoccimarro, relazione favorevole in principio e contraria per le applicazioni, perché quel decreto, sebbene giusto in linea di principio, dal punto di vista della tecnica non era accettabile. In principio quel progetto si informava all’idea di creare una imposta che conglobasse insieme le due vecchie imposte di famiglia e sul valore locativo, tenendo conto anche di tutti gli altri coefficienti visibili del reddito e del consumo. In sostanza tutto il reddito prodotto è, parlando in generale, tassabile dallo Stato. Questo reddito, consumato e goduto, deve avere necessariamente delle manifestazioni locali ed in quanto sia goduto e consumato costituisce la materia imponibile dei comuni e dell’ente regione. Certamente, non si tratta di tassare un reddito nuovo: lo si vede soltanto in momenti diversi, i quali sono appropriati alla natura dell’ente che deve imporre l’imposta.

La distinzione avrà maggiore o minore successo a seconda dei metodi di applicazione, in quanto che, se si continuasse nella via attuale, qualunque sistema sarà inventato e legiferato produrrà sempre risultati dannosi. Finché si dimenticherà che Stato, provincie, regioni e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile e cioè il reddito, e si guarderà alle singole imposte invece che al loro insieme, i contribuenti saranno sovratassati e continueranno a reagire con la frode; e questa sarà tale solo di nome. È molto difficile sapere oggi quello che paga il contribuente italiano.

Un calcolo fatto dell’onere complessivo che il contribuente italiano dovrebbe sopportare per le tre imposte reali, quella complementare sul reddito e quella ordinaria sul patrimonio, tenendo conto delle sovrimposte locali, dà i seguenti risultati. Partendo dall’ipotesi che si tratti della famiglia media italiana, cioè composta dei genitori e due figli, il proprietario della terra dovrebbe pagare aliquote che vanno dal 49 al 96 per cento. Se si trattasse poi di un celibe, questo dovrebbe pagare come minimo il 42 per cento e come massimo il 108 per cento. Ora, non è possibile pensare ad aliquote di questo genere; il sistema è assurdo e non può essere applicato. Se si tratta di un proprietario di fabbricati, sempre ammogliato con due figli, dovrebbe pagare dal 53,3 al 73,7 per cento; se è un industriale, o commerciante che abbia un’azienda individuale, l’aliquota andrebbe dal 45,6 al 71,9; se è una società, l’aliquota andrebbe dal 44,1 al 71,3. Un professionista che vive del suo lavoro pagherebbe il 15,7 per i redditi minimi e il 63,1 per i redditi massimi.

A questo riguardo oggi non si deve pensare che esistano redditi molto elevati, specialmente per talune categorie; per esempio un professore universitario che aveva nel 1914 un reddito dii 10.000 lire corrispondenti almeno ad 1 milione di lire attuali, e paga circa 1’8 per cento, ha oggi un reddito di 200 mila lire e dovrebbe pagarne per imposte almeno il 15 per cento.

Quindi, tutte le riforme che si possono escogitare saranno inutili se non si troverà un modo per attribuire una parte al comune e alla regione, ma sempre in maniera che non si eccedano certi limiti nel complesso della tassazione. Notisi che le percentuali dette sopra si riferiscono solo alle imposte dirette. Accanto a queste vi sono le imposte di successione, sugli affari e sui consumi.

Ammesso che le imposte dirette nel sistema fiscale delle provincie e dei comuni diano la percentuale maggiore, poiché l’inverso accade per lo Stato, è chiaro che a quelle aliquote occorrerebbe aggiungere almeno altrettanto; sicché il contribuente, per compiere il proprio dovere, dovrebbe soccombere.

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e provincie dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle provincie la tendenza ad ottenere l’autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell’ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L’amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c’è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l’eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l’autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia. Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo Stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le provincie che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le provincie più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo Stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la Confederazione interviene a favore dei singoli Cantoni e soprattutto a favore dei Cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i Cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l’industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un Cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla Confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo Stato, dalla provincia o dalla regione all’ente minore.

In varî modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell’imponibile lo Stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l’avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere.

Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell’economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l’esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all’ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l’interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti Stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell’imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un’attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo Stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l’Ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

Passando ad un punto più generale, osserva che l’onorevole Piccioni, affermando giustamente che è preferibile la regione alla provincia, ha dato di questa sua affermazione una spiegazione dicendo che la provincia è una creazione artificiosa, mentre la regione è una creazione naturale. Pur consentendo nella preferenza, non può condividerne la spiegazione. L’evoluzione storica del Piemonte certamente non la giustifica. Nelle Langhe, una propagine collinosa del Monferrato, i vecchi contadini, quando vanno a Cuneo dicono che vanno in Piemonte, perché nella loro mente il paese in cui vivono non è Piemonte. E in realtà il Piemonte è una creazione storica recente, nata non prima ma dopo le provincie. Prima della Rivoluzione francese, la denominazione. «Piemonte» era ristretta al piccolo territorio della regione pedemontana. La Val d’Aosta, il Monferrato, le Langhe non erano Piemonte. Il Piemonte è una creazione di Napoleone I che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono «divisioni militari» e poi «provincie». Le vecchie provincie, in parte, diventarono circondari; poi i circondari furono aboliti. Quindi storicamente si va dai piccoli circondari alle quattro divisioni, diventate provincie, e la regione è il punto di arrivo. Appunto per questo la regione può essere una creazione sana; se fosse un punto, di partenza, sarebbe una creazione artificiale.

Uno scrittore francese ha affermato che molte istituzioni statali sono al di sopra ed al di là della natura dell’uomo; comunque è certo che vi è un contrasto tra i moderni ordinamenti territoriali e la capacità dell’uomo a dominarli. È quindi impossibile che un amministratore domini tutta la materia di una regione. Il Piemonte, ad esempio, ha tre milioni e mezzo di abitanti, e il futuro Presidente regionale non potrà conoscere intimamente tutte le esigenze degli abitanti. In molti campi, che si possono chiamare economici e che sono quelli spiritualmente meno interessanti in quanto si tratta di tecnica (strade, ponti, costruzioni in genere) la regione potrà essere uno strumento adatto. Ma vi sono altri campi dell’attività politico-amministrativa in cui è indispensabile il contatto diretto dell’amministratore con gli amministrati; è necessario che l’amministratore si faccia conoscere dai suoi amministrati e sappia apprezzare le esigenze migliori, spirituali dell’uomo. Quindi si può creare la regione, ma non si deve eccedere nel fissarne i compiti. Alcune funzioni affidate ad essa provocherebbero gli stessi inconvenienti cui si va incontro quando sono attribuite allo Stato. Richiama a questo proposito il problema della scuola elementare in cui è evidente lo stretto legame fra genitori, alunni e insegnanti. Molti comuni sono troppo piccoli per poter far fronte alle esigenze dell’insegnamento; possono far fronte solo alle prime due classi elementari. Le esigenze odierne richieggono che, oltre alla terza e alla quarta, si dia grande sviluppo alle scuole di avviamento e scuole tecniche. Occorre, quindi, ricercare un quid medium, un consorzio tra comuni o, magari, il «collegio» (meglio che la «comunità»), quella circoscrizione che a un dipresso, è la tradizionale del collegio uninominale, in cui l’eletto conosceva i propri elettori e riusciva a farsi conoscere. Il «collegio» dovrebbe comprendere non più di 80-100.000 abitanti; a capo starà la cittadina od il borgo col suo mercato centrale in cui si riuniscono gli abitanti una volta la settimana; il Pretore, l’Ufficio del Registro, ecc. Questa unità sarà la più adatta per far fronte a quel decongestionamento delle grandi città che è un’esigenza fondamentale della vita moderna.

Questa circoscrizione intermedia fra la regione e il comune, che non è la provincia, non dovrà essere obbligatoria, ma dovrà essere incoraggiata da favori legislativi; si chiamerà collegio, o consorzio o distretto e dovrà fronteggiare le spese che oltrepassano le forze del comune e che da un punto di vista non materiale, superano le forze dell’uomo che governa la regione.

BULLONI si dichiara favorevole alla riforma della struttura dello Stato attraverso l’istituzione dell’ente regione come organo di decentramento politico, con potestà normativa nelle materie riservatele dalla Carta costituzionale, e regolamentare per l’attuazione delle leggi dello Stato; potestà garantibili in sede giurisdizionale. Tra le varie ragioni che raccomandano tale istituzione occorre tener presente la necessità di resistere non solo allo strapotere dei cento legislatori e dei cento burocrati, ma anche allo strapotere economico delle cento famiglie, se tante ve ne sono in Italia, che, attraverso gli organismi centrali, sopraffanno la volontà popolare.

Passando a trattare del problema finanziario, osserva che l’autonomia politica ed amministrativa reclama necessariamente l’autonomia finanziaria: la regione deve avere un bilancio proprio che non deve formare oggetto di un capitolo speciale del bilancio dello Stato. Saranno gli esperti a dar pratica attuazione a questa autonomia, ma qui si deve affermare il principio della autonomia finanziaria della regione. La Costituzione potrà rimandare per questa parte ad una legge costituzionale finanziaria che sia in armonia con la riforma tributaria generale del Paese.

L’amministrazione della giustizia deve essere sottratta all’influenza regionale; ma ciò non impedisce che si possa tornare alle Corti di cassazione regionali.

Anche la polizia deve essere sottratta alle influenze locali, per le necessità del reclutamento e dell’impiego e quindi deve appartenere allo Stato. Alla regione potranno essere affidate polizie speciali che abbiano stretta attinenza alle materie amministrate dalla regione: la polizia stradale, forestale, portuale, ecc. Si tratterà di vedere se, per economia, queste varie polizie debbano avere una scuola centrale da cui escano gli allievi per essere distribuiti nelle varie regioni.

In ogni regione ci potrà essere un prefetto di polizia, il quale obbedirà alle leggi fondamentali dello Stato e alle particolari leggi della regione.

La provincia dovrà rimanere come ente autarchico, e deve anzi accrescersi delle materie che la regione affiderà alla sua competenza. Per la modestia delle competenze attuali, la provincia come ente locale, nella sua attività amministrativa è poco sentita; ma non si deve dimenticare che le provincie hanno una tradizione locale, che, come tutte le tradizioni, deve essere salvaguardata; hanno generalmente una buona burocrazia e un patrimonio gelosamente sorvegliato e controllato dagli abitanti (sanatori, manicomi, ospedali e altri patrimoni immobiliari cospicui).

Si deve certo favorire ogni manifestazione e ogni attività che chiami il popolo all’esercizio della vita pubblica; ma per soddisfare a questa, che è una necessità dell’ordine democratico, non è il caso di mantenere in vita il Consiglio provinciale. Si moltiplicherebbero senza buona ragione questi organi. Istituita la regione, la cui Assemblea rappresenterà una sicura palestra per la preparazione degli uomini alla vita politica; mantenuti i consigli comunali, le cui materie richiamano da vicino la partecipazione dei componenti alla discussione dei problemi della vita amministrativa del comune, sarebbe eccessivo il mantenimento dei Consigli provinciali.

I Consigli comunali dovranno nominare una Giunta o Deputazione provinciale, la quale amministrerà la provincia; la Giunta o Deputazione provinciale nominerà un suo presidente, che sostituirà il prefetto nel compito specifico della coordinazione di tutti i servizi che interessano la vita amministrativa della provincia e nella esecuzione del mandato amministrativo per le materie specificamente riservate all’amministrazione provinciale.

La scuola elementare dovrà essere affidata all’organismo amministrativo più naturale, più vicino all’ambiente famigliare, che conosce le necessità di indirizzo educativo, professionale, sociale dei figli, cioè al comune. Sussistono difficoltà derivanti dalla insufficienza di alcuni comuni a provvedere ai bisogni della scuola; ma un saggio ordinamento scolastico potrà riparare a questa insufficienza.

FABBRI osserva che la Sottocommissione, come conclusione dei suoi lavori, dovrà riassumere in pochi principî basilari i termini degli articoli della Costituzione, rimanendone i presupposti nel pensiero dei commissari a giustificazione di quegli articoli. Vale a dire che nella Costituzione non potrà trovare posto quasi nulla di quello che è stato detto qui.

La questione, fondamentale, a suo avviso, è quella della istituzione dell’ente regione come ente autarchico, dotato di facoltà normative. Contemporaneamente si tratta di stabilire se deve essere soppressa la provincia, quale ente autarchico dotato di autonomia.

Non concepisce la soppressione della provincia come eliminazione della maggior parte dei servizi che oggi le sono attribuiti e che potranno diventare notevolmente maggiori domani, quando una somma di servizi economici e amministrativi dovranno localmente trovare la loro esplicazione e si accentreranno in determinati servizi locali che potranno avere anche per sede quelli che sono oggi i capoluoghi di provincia. Saranno servizi di carattere amministrativo e di carattere economico, i quali si esplicheranno nelle provincie dagli impiegati regionali; ma non sarà più l’autarchia e l’autonomia delle provincie, né come patrimonio, né come facoltà normativa, ecc., perché altrimenti, col proposito di decentrare e di innovare, non si farebbe che aggiungere un ente a quelli che già oggi esistono.

Ritiene assurda la pretesa di sottrarre la regione a qualunque ingerenza da parte dello Stato. Pensa che si debba avere una dotazione specifica di pertinenza della regione; e non avrebbe, ad esempio, alcuna difficoltà a stabilire fin da ora che la totalità delle tre imposte dirette fondamentali: terreni, fabbricati, ricchezza mobile, fosse interamente devoluta ai comuni e alla regione, salvo a stabilire la ripartizione tra i servizi comunali e i servizi della regione. Ma è ben lontano dal ritenere che vi possa essere sovranità o potestà legislativa della regione in ordine a queste imposte: l’aliquota massima e minima, con una leggera oscillazione fra minimo e massimo, deve essere stabilita dalla legge dello Stato, perché una regione potrebbe trovare conveniente un’aliquota più favorevole, per esempio, di ricchezza mobile, per attirare l’impianto di nuove industrie nel suo territorio, per fare particolari facilitazioni a impianti commerciali, ecc.; ma fondamentalmente il regime tributario deve essere unitario; e poiché non v’è che il reddito che si possa colpire, non possono e non debbono appartenere alla facoltà normativa della regione, entro i limiti della legge generale dello Stato, se non i redditi insottraibili al concetto territoriale.

Un altro concetto fondamentale che, a suo avviso, dovrebbe essere sancito nella Carta Costituzionale è che soltanto per legge si possano determinare le regioni, i loro confini, i capoluoghi. Ciò non dovrebbe significare che le regioni vengano poi sottratte ad ogni forma di controllo e di aderenza alla politica generali dello Stato. Così come vi è ora una Direzione generale della finanza locale, potrà esservi una Direzione generale della finanza regionale, alla quale dovrebbe fra l’altro essere attribuito il compito della integrazione del bilancio annuale dello Stato, con quella azione compensativa che, avendo il significato di solidarietà nazionale, è da tutti auspicata, ma che alcuni commissari vorrebbero realizzare attraverso stanze di compensazione fra regioni povere e regioni ricche. Dovrebbe, in altre parole, realizzarsi tale compensazione attraverso la distribuzione tra le varie regioni, tenendo presenti le necessità di quelle più povere, delle risorse del bilancio dello Stato.

Ritiene inoltre che nelle leggi istitutive delle singole regioni dovrebbero prevedersi opportune particolari disposizioni, in relazione alle caratteristiche politiche ed economiche di ciascuna regione. Così come per quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige) dovrebbero prevedersi autonomie particolarmente accentuate – e si augura che a queste regioni se ne aggiunga una quinta: la Venezia Giulia –, per una sesta regione, il Lazio, sarebbero opportuni speciali precetti legislativi, dato che buona parte delle spese di Roma sono sostenute dalla generalità dei cittadini.

Non vorrebbe però che si istituisse un ennesimo ministero, quello delle regioni, e approfitta dell’occasione per affermare l’opportunità di un altro principio statutario: quello che la creazione di nuovi Ministeri debba venire stabilita soltanto per legge, e ciò sopra tutto per evitare che si ripeta quanto è già avvenuto in Italia, vale a dire che si istituiscano nuovi Ministeri, non in considerazione di necessità amministrative, ma per facilitare la risoluzione delle crisi ministeriali e l’assegnazione proporzionale dei Ministeri ai vari partiti politici.

Ritiene che i Comuni debbano avere la maggiore autonomia; ma sottostare sempre al controllo di legittimità e, entro certi limiti, al controllo di merito; entrambi i controlli dovrebbero essere esplicati, in via preventiva, dalla regione.

L’istituzione della regione non dovrebbe, a suo avviso, avere la conseguenza di innovare profondamente in materia di giurisdizione ordinaria e amministrativa. Dovendosi sopprimere le provincie, non vi è più motivo per conservare le Giunte provinciali amministrative, ma la competenza di questa giurisdizione dovrebbe passare ad una Giunta regionale amministrativa, la quale potrebbe anche suddividersi in più sezioni – e non gli sembra che vi siano motivi di aprioristica opposizione a che tali sezioni possano avere competenza territoriale provinciale o pluri-provinciale – e dovrebbe essere comunque giudice di primo grado, sottoposta al sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato. Del pari dovranno essere mantenute, conformemente all’ordinamento politico, amministrativo, finanziario e sociale del nuovo Stato, le Intendenze di finanza, le Carriere di commercio, le Organizzazioni sindacali, ecc.

Critica a questo proposito la direttiva della Confederazione generale del lavoro di insistere per la stipulazione di contratti di lavoro a carattere nazionale, contratti che non di rado influiscono in senso negativo sul sorgere in determinate località di nuove iniziative industriali. Se si vuole realmente favorire lo sviluppo industriale, non bisogna pretendere che lo status dell’operaio sia uguale in tutte le parti d’Italia. Gli esponenti della Confederazione del lavoro sostengono che il livellamento lo fanno, così, dal basso verso l’alto; ma in tal modo non contribuiscono al progresso perché, quando l’operaio del meridione è meno disciplinato di quello del Nord, e tuttavia si pretende che la sua paga sia eguale, si ottiene il risultato di avere nuove industrie nell’Italia settentrionale e non nell’Italia meridionale.

PATRICOLO ha ascoltato con molto interesse l’esposizione dell’onorevole Einaudi, ma teme che si sia invertito l’ordine logico dello studio: si è cercato di stabilire i tributi che la regione potrà imporre, prima di aver studiato quali servigi essa dovrà rendere.

Né vedrebbe con preoccupazione il fatto che lo Stato dovesse rinunziare del tutto a determinate imposte le quali, anziché nelle sue casse, andrebbero in quelle della regione, perché l’autonomia regionale importa un decentramento amministrativo da cui deriva uno sgravio per il bilancio statale.

Quella che si deve fissare anzitutto è l’entità dell’autonomia ragionale, cioè i servigi che la regione dovrà rendere ai suoi cittadini, dopo di che si potrà parlare di tassazione e vedere se le imposte dovranno essere prelevate dal cittadino della regione, oppure se si dovrà trasferire alla regione parte delle imposte che vanno allo Stato.

PRESIDENTE constata che la discussione è stata abbastanza approfondita e che la sezione, che pensa verrà costituita per l’ulteriore esame del tema particolare della autonomia, avrà quindi a sua disposizione un materiale assai abbondante per le sue conclusioni.

Desidera ora esprimere il suo personale pensiero su alcune delle questioni che sono state sollevate.

È caratteristico che il tema posto sia quello dell’autonomia, e immediatamente si sia trasformato in quello della regione. E vero che alcuni dei commissari, e particolarmente l’onorevole Zuccarini, hanno cercato di ricondurre l’Assemblea al tema iniziale, ma a certe cose che vengono in modo naturale evidentemente non ci si può opporre: il problema dell’autonomia è oggi in Italia sentito essenzialmente come il problema della regione.

La questione fondamentale che si pone è se deve o non deve costituirsi la regione. Onde, le varie posizioni.

Pochi hanno sostenuto una delle tesi estreme secondo cui non è necessario procedere a questa trasformazione veramente sostanziale della struttura dello Stato, e che può esser sufficiente un semplice decentramento col quale si dia una determinata autonomia di funzioni agli enti autarchici attuali, comune e provincia.

Pochi pure hanno sostenuto l’altra tesi estrema tendente alla creazione di uno Stato confederale.

Il pensiero e l’opinione della grande maggioranza si sono volti al concetto della trasformazione della struttura amministrativa, inserendo in questa struttura il nuovo ente regione.

Visto che la grande maggioranza è favorevole alla creazione dell’ente regione, si pone la seconda questione, se debba essere regione obbligatoria o regione facoltativa, e personalmente ritiene che l’ente regione debba essere accettato nella struttura dello Stato italiano come una forma generale, e quindi obbligatoria. Non è pensabile una struttura che da una parte si presenti attraverso determinate caratteristiche e dall’altra attraverso caratteristiche del tutto diverse. Ad un’altra sottoquestione gli onorevoli Grieco e La Rocca hanno dato una risposta alla quale personalmente aderisce: stabilito che si debba avere una struttura uniforme a base regionale, è tuttavia evidente che debba sussistere una certa differenziazione fra le autonomie godute da talune e da altre regioni, ed in modo particolare da quei quattro territori ai quali già il nuovo Stato in formazione ha riconosciuto una esigenza particolare autonomistica, tanto che posseggono una caratteristica autonomia o che ne hanno una in via di regolamentazione.

La terza questione che è stata toccata e sulla quale la sezione dovrà formulare qualche conclusione è se la creazione dell’ente regione porti la soppressione dell’ente provincia, ed anche a questo proposito vi sono tesi favorevoli e contrarie. Personalmente pensa che, creandosi la regione, la provincia, come ente autarchico, debba scomparire e debba o possa restare, come parecchi colleghi hanno sostenuto con abbondanza di argomentazioni, solo come un centro particolare di uffici, cioè come un centro che rappresenti propaggini, diffuse nel territorio regionale, del centro dirigente e fornito di particolari potestà della regione stessa. Il progetto delineato dall’onorevole Bulloni a questo proposito, risolve la questione della coesistenza della provincia e della regione nel senso che la provincia continua a sussistere, ma non più col suo Consiglio provinciale, bensì con una Giunta provinciale, il cui Presidente dovrebbe assolvere a certe funzioni particolari, in sostituzione del prefetto che, per unanime aspirazione, dovrebbe scomparire. Comunque, il tema da affrontare e che la sezione dovrà risolvere è quello della coesistenza o meno della provincia e della regione.

Vi è poi il problema delle potestà e delle funzioni della regione, al quale proposito l’argomento generale per cui tutti si sono dichiarati favorevoli alla creazione dell’ente regione è la necessità della lotta efficace contro l’accentramento delle funzioni statali e di un’azione tendente ad un funzionamento di carattere decentrato dell’apparato della vita pubblica. Non dovrà essere dimenticata questa premessa generale quando si passerà a precisare in maniera definitiva le competenze e le funzioni della regione, perché l’accentramento si fa in generale avvertire più gravemente (anche gli esempi che sono stati portati suonano in questo senso) non nel momento della decisione di particolari provvedimenti legislativi, ma nel momento della loro applicazione. I siciliani, che da parecchi giorni attendono che un servizio automobilistico venga organizzato, non chiedono allo Stato di emanare un certo provvedimento legislativo, ma di tradurre in realtà concreta certe disposizioni che già esistono. Da questo punto di vista, si raggiungerebbe largamente lo scopo al quale si tende, cioè quello dello snellimento delle funzioni, della rapidità nell’esecuzione delle decisioni prese, quando si desse alla regione nel campo esecutivo, e cioè nella funzione amministrativa, più larghe possibilità.

Non sa se, dando alla regione grandi facoltà nel campo legislativo, si raggiungerebbe lo scopo di fare aderire i provvedimenti legislativi che vengono emanati alla situazione locale. Non gli sembra fondata l’opinione che una Assemblea legislativa nazionale non riesca ad avvertire esigenze di carattere locale: quando si tratta di esigenze di territori abbastanza vasti, anche una Assemblea nazionale, attraverso gli strumenti di accertamento, di controllo, di indagine e di inchiesta di cui può disporre lo Stato, riesce ad ottenere tutti gli elementi necessari per giungere ad una elaborazione legislativa soddisfacente.

Competenze della regione, in linea generale possono essere: quella legislativa, nelle sue varie sottospecie, quella regolamentare e quella esecutiva. Personalmente pensa che una competenza legislativa debba essere affidata alla regione, ma in un campo relativamente limitato. Da parte di tutti si è detto che deve esserle affidata la facoltà legislativa nelle materie attinenti alla vita particolare della regione. Quando si crea qualche materia che tocchi le esigenze e le necessità interne di una regione, senza colpire materia consimile o analoga di regioni confinanti, ricorrono alla mente la pesca, la caccia, ecc. Senonché un corso d’acqua può attraversare numerose regioni ed a seconda del modo in cui è regolamentato il diritto di pesca in un tratto del corso d’acqua si influisce sopra diritti analoghi di pesca in altri tratti di quel corso. Così avviene per la caccia con la trasmigrazione degli uccelli, onde delle leggi della Stato possono cercar d’impedire che certe cacciagioni vengano distrutte in talune zone del territorio. Non intende, facendo questi esempi, dire che su queste materie non dovrebbe concedersi una facoltà legislativa alle regioni, perché altrimenti non si capisce quale attività legislativa si potrebbe concedere: lo dice per mostrare che bisogna andare molto cauti in questa materia e fare gran conto delle avvertenze e degli inviti enunciati dall’onorevole Einaudi. È molto difficile stabilire dei limiti per i quali una attività legislativa di una regione non venga ad interferire o danneggiare l’attività corrispondente dell’altra regione. La proposta dell’onorevole Zuccarini di stabilire accordi fra regioni confinanti scivola sul terreno pericoloso del tipo federalistico mascherato dal quale personalmente desidera di restare lontano.

A proposito del problema dell’istruzione, pensa che l’istruzione elementare debba restare di competenza esclusiva dello Stato, perché essa rappresenta forse lo strumento maggiore col quale può essere costituita una coscienza unitaria di carattere nazionale nel Paese. Si aveva l’abitudine di parlare dell’esercito come di un crogiuolo in cui le popolazioni trovavano una loro unità: ciò era in parte vero, e lo era anche perché, almeno in certi momenti, nell’esercito si impartiva una istruzione elementare agli analfabeti che concorreva a questo scopo. D’altra parte, se l’istruzione primaria fosse lasciata agli organi autarchici locali, se ne avrebbe una distribuzione non eguale in tutto il territorio nazionale, come avviene in America dove l’istruzione è sviluppatissima o meno a seconda dell’importanza che si dà ad essa da parte di uno Stato in confronto di un altro.

Altro punto da considerare è quello della finanza regionale, e taluno ha detto che questo problema è bene trattarlo, ma non è necessario approfondirlo ora, perché occorre anzitutto procedere ad una riorganizzazione generale del sistema tributario dello Stato.

Crede, comunque, che si dovrà dare una indicazione del modo in cui dovrebbe essere attuata l’organizzazione tributaria generale dello Stato italiano. Così, se nella Costituzione, quando si parla della regione, non si dicesse già qualche cosa sui fondamenti che debbono regolare il bilancio della regione, si lascerebbe incompiuta quell’opera che alla Sottocommissione è stata affidata.

È favorevole alla formazione della camera di compensazione che è stata proposta. Malgrado i dubbi da taluno espressi in proposito, pensa che una camera di compensazione amministrata da un consiglio composto da un rappresentante per ogni regione, e presieduta da una persona nominata dal Parlamento nazionale, potrebbe concorrere ad accrescere la solidarietà fra le varie regioni.

Poi vi è la questione dei controlli. Si domanda: dovrà essere esercitato un controllo e in quale maniera l’attività della regione potrà essere controllata? Pensa che un controllo sopra l’attività della regione debba esistere, ma che debba essere un controllo che trovi la propria origine sulla base elettiva. Così come il controllo dei comuni è esercitato da una Giunta provinciale amministrativa – che deve essere trasformata e diventare di carattere elettivo – le regioni potrebbero essere controllate da una Giunta parlamentare nazionale, in modi che potranno essere poi stabiliti. Se poi si tiene presente – ciò di cui non si è ancora parlato in maniera esplicita – che la seconda Camera, se si giungerà a stabilirne l’esistenza, sarà una Camera essenzialmente a base regionale, questa sarà appunto indicata per creare nel proprio seno organismi di controllo della regione, e con ciò si stabilirà una connessione maggiore, più organica, fra il nuovo ente regione e gli organismi centrali dello Stato.

Sulla struttura interna della regione, cioè sugli organi dei quali essa deve essere costituita, si è detto che essa deve riprodurre, in genere, la struttura di tutti gli enti giuridici autarchici: un’assemblea rappresentativa, un organismo esecutivo e un Presidente. A questo proposito (lo dice perché nel primo progetto preparato dal Ministero dell’interno, per la riorganizzazione delle amministrazioni comunali e provinciali, il problema era stato risolto in maniera diversa) crede che si debbano avere un Presidente dell’Assemblea regionale e un Presidente della Giunta regionale, e non si debbano riunire le due cariche nella stessa persona.

Altro problema che si pone è quello del metodo di elezione dell’Assemblea. Si è accennato alla possibilità che non si ricorra ad elezioni di carattere diretto, ma ad un corpo elettorale diversamente congegnato. Egli crede che la base elettiva dell’Assemblea regionale debba essere quella del suffragio universale diretto, e che non si possa opporre che si farebbe così una ripetizione della elezione per il Parlamento: la stessa cosa allora si potrebbe dire per il consiglio comunale.

Coglie l’occasione per accennare al problema della differenziazione della seconda Camera nei confronti della prima: tale differenziazione, a suo avviso, dovrebbe essere data dal modo particolare in cui la seconda Camera sarà eletta: cioè a base di suffragio universale diretto per l’Assemblea parlamentare, e a base di suffragio universale indiretto per la seconda Camera. È stato fatto presente autorevolmente che è necessario che, non appena la Costituente si scioglierà, vi sia già la possibilità di procedere non soltanto alla formazione della prima Camera, ma anche a quella della seconda; perché il Capo definitivo dello Stato molto probabilmente sarà eletto dalle due Camere riunite. Pertanto, è evidente che, se non si potesse immediatamente passare alla formazione della seconda Camera, o bisognerebbe prorogare la elezione del Capo definitivo dello Stato o bisognerebbe tener sospesa anche la elezione della prima Camera; posizioni queste ambedue insostenibili. Ora, gli organismi appositi dello Stato attuale – che saranno ereditati dal nuovo Stato, perché rappresentano apparecchi tecnici – potrebbero frattanto incominciare a preparare le basi regionali necessarie per l’elezione della seconda Camera.

Ha rappresentate queste considerazioni, perché gli sono state fatte presenti, col desiderio implicito che egli ne facesse parte ai membri della Sottocommissione.

Ultimo punto, sul quale la sezione dovrà fornire alcune conclusioni articolate, è quello che si riferisce ai rapporti fra lo Stato e la regione: se debba esistere o no un organo di collegamento e, ove debba esistere, quale debba essere. Si è parlato di un Governatore; altri ha detto che il Presidente dell’Assemblea regionale debba, di diritto, divenire rappresentante del Governo nella regione. Personalmente propende per una soluzione, la quale eviti che nella regione sia presente un funzionario dello Stato e deleghi a qualche persona, che promani dalla stessa formazione della regione, le funzioni di collegamento fra Stato e regione.

Ricorda che in seduta plenaria di Commissione si è detto che il problema dell’autonomia deve essere risolto pregiudizialmente, anche per l’utilità dei lavori della prima e della terza Sottocommissione in alcuni dei loro momenti ed aspetti. Crede che sarebbe utile poter trasmettere senz’altro al Presidente della Commissione, affinché la comunichi alle altre due Sottocommissioni, almeno una conclusione iniziale, nella quale si affermi, per esempio, che la Sottocommissione è giunta a stabilire che l’ente regionale deve essere costituito. A questa prima determinazione altre potranno essere aggiunte, che sono forse necessarie, per dare i primi lineamenti, molto rudimentali, all’ente regione.

TOSATO propone il seguente ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione:

premesso che l’ordinamento costituzionale dello Stato dev’essere aderente alla struttura naturale della Nazione;

riconosciuto che l’unità nazionale italiana presenta una varietà insopprimibile di nuclei regionali diversi fra di loro per il costume, la tradizione, il dialetto, le condizioni topografiche, il clima, le risorse naturali, e che, quindi, le varie regioni dimostrano esigenze economiche, sociali e amministrative, almeno parzialmente, diverse;

considerata la necessità che l’attività pubblica sia adeguata e corrispondente alle diversità indicate;

ritenuto che a tal fine non basta lo sviluppo delle autarchie comunali ed, eventualmente, provinciali ma, al tempo stesso, occorre procedere al riconoscimento di tutte le regioni italiane come persone giuridiche pubbliche territoriali;

ritenuto anche che il riconoscimento dell’Ente regione rappresenta uno strumento particolarmente atto a promuovere l’educazione politica e il consolidamento delle libertà democratiche, l’equilibrio economico politico fra le diverse parti del territorio dello Stato e una radicale riorganizzazione della burocrazia;

demanda ad una apposita sezione della Sottocommissione la formulazione concreta di un ordinamento che, previa determinazione delle singole regioni, assicuri alle medesime il potere di provvedere, con la necessaria autosufficienza finanziaria, alla cura degli interessi prevalentemente regionali non solo in via amministrativa, ma anche in via legislativa, nei limiti della Costituzione e delle leggi statali intese alla tutela degli interessi generali e al coordinamento degli interessi interregionali».

LUSSU crede che tale ordine del giorno sia troppo vasto e troppo motivato.

MORTATI osserva che questa risoluzione dovrebbe mirare ad affermare alcuni principî emersi dalla discussione, per dare una direttiva al lavoro delle sezioni. Il problema base è quello della struttura generale dello Stato; ammessa la struttura decentrata, questa influirà su tutta la configurazione della nuova Costituzione. Occorre pertanto che la Sottocommissione stabilisca i punti direttivi basilari, ché altrimenti il lavoro preliminare sarebbe superfluo. Ritiene che quattro siano i punti principali del problema e cioè:

1°) affermazione dell’autonomia costituzionale delle regioni (costituzionale nel senso che dovrà essere garantita dalla Costituzione e che sia estesa alla materia legislativa);

2°) autonomia finanziaria dell’ente regione (che può essere formulata in via generale, salvo in un secondo periodo a concretarne i limiti);

3) ordinamento decentrato dell’ente regione (per evitare l’inconveniente, da molti paventato, che il nuovo ente non sia a sua volta fonte di accentramento);

4°) utilizzazione delle regioni al fine della istituzione di uno o più organi centrali a carattere perequativo (il lavoro della sezione competente dovrebbe essere rivolto a trovare i congegni atti a realizzare questa perequazione che è necessaria, data la diversa struttura economica e l’entità demografica varia delle singole regioni, per correggerne le deviazioni o le sperequazioni. Se non si ricorresse a questo correttivo, si potrebbe pregiudicare una delle finalità essenziali del nuovo ente).

Richiama l’attenzione della Sottocommissione su questi quattro punti e sulla opportunità di una deliberazione di massima allo scopo di vincolare le determinazioni e le specificazioni affidate alle sezioni.

LEONE GIOVANNI ritiene di ravvisare nella relazione testé fatta dal Presidente la constatazione dell’accordo raggiunto, in linea di massima, sulla istituzione della regione e sui poteri – sempre determinati in linea generale – del nuovo ente, e cioè potere legislativo e potere tributario. Comunque, occorre stabilire una identità di vedute su questi punti basilari; salvo a rinviare la discussione sui limiti dei poteri. Aggiunge che l’ordine del giorno Tosato non pone, secondo il suo punto di vista, alcun vincolo alla delimitazione di questi poteri, anzi lascia l’adito alle sezioni di stabilire un progetto concreto per la creazione dell’ente regione.

PERASSI concorda sulla necessità che la Sottocommissione precisi alcuni punti, tenendo presente che la questione per ora deve solo esaminarsi in sede pregiudiziale. Ritiene che i punti salienti emersi fin qui dalla discussione siano i seguenti:

1°) istituzione dell’ente regione. A questo proposito bisognerebbe precisare se la regione debba essere o meno istituita in tutto il territorio dello Stato. Si dichiara favorevole alla istituzione della regione in tutto il territorio, salvo poi a discutere l’altra questione, e cioè se tutte le regioni debbano avere necessariamente la stessa competenza; né è da escludersi la possibilità che certe regioni abbiano una competenza in certe materie diversa, più ampia di altre;

2°) determinazione della competenza della regione, prendendo posizione netta sulla questione, che è stata tanto discussa, se debba avere o no competenza legislativa. La conclusione dovrebbe precisarlo, indicando le competenze legislative nei diversi modi che si possono formulare, come già è stato varie volte accennato, ossia: a) competenza legislativa su certe materie da indicarsi nella Costituzione e sulle quali la Regione abbia una potestà legislativa primaria, col solo limite di principî generalissimi iscritti nella Costituzione, principî che limitano anche la legislazione dello Stato; b) competenza legislativa su materie sempre da determinarsi nella Costituzione, con tutte le conseguenze che ne derivano, e sulle quali le regioni abbiano la potestà di emanare norme giuridiche destinate a svolgersi nell’ambito di norme più generali indicate in leggi ordinarie dello Stato, allo scopo soprattutto di rendere possibile una legislazione regionale su queste materie che meglio tenga conto della varietà delle esigenze regionali. È questa la categoria forse destinata ad essere la più ricca di applicazioni pratiche;

3°) questione della organizzazione della regione; nel senso di stabilire se la regione debba avere organi suoi propri o invece organi in qualche maniera connessi con quelli dello Stato. Crede tutti siano d’accordo nell’affermare il principio che gli organi della regione debbano essere tutti di emanazione regionale, a carattere elettivo, e non di provenienza dello Stato.

Le altre questioni – la cui importanza nessuno mette in dubbio – dovrebbero essere studiate dalle sezioni cui il problema verrà rinviato. La stessa questione finanziaria – salvo a fare, se possibile, qualche osservazione di principio – è così notevole e complessa, che conviene lasciare ad una sezione di studiarla in maniera più particolareggiata. Così anche il problema se la Provincia, che è autarchica, debba restare o debba sopprimersi, non può risolversi in un senso o nell’altro in questo momento e conviene lasciarla allo studio di una sezione, perché tra l’altro si porrà questa domanda: la materia degli ordinamenti degli enti locali potrà inserirsi nella lista delle materie attribuita alla competenza legislativa della regione? Se, per ipotesi, si arrivasse a questa soluzione, sarebbe possibile che una regione, tenendo conto delle sue esigenze particolari, ammettesse nel suo ambito l’esistenza di comuni e di provincie e che un’altra, invece, usando della facoltà attribuitale dalla Costituzione, ritenesse che nel suo ambito non c’è posto per i comuni, o altri enti.

Quindi ritiene che non convenga pregiudicare questo punto con una decisione di massima; e così per altri problemi più particolareggiati. L’essenziale è che in questo momento, tenendo conto del modo come la questione è stata rinviata a questa Sottocommissione e delle ripercussioni che le decisioni di questa devono avere sull’attività delle altre Sottocommissioni e sezioni, occorrerebbe limitarsi a prendere posizione precisa sui punti fondamentalissimi che ha indicato.

FABBRI chiede se il proponente avrebbe difficoltà a sostituire al termine: «potestà legislativa», nell’ambito delle leggi dello Stato: «potestà normativa», perché il concetto di una potestà normativa che si esplica nel solo ambito delle leggi emanate da un altro organo può determinare un equivoco. Egli è disposto ad andare oltre una semplice potestà regolamentare, ma non arriverebbe a chiamare «legislativa» la competenza della regione; e perciò parlerebbe di competenza «normativa» nei limiti delle leggi dello Stato.

LUSSU ha l’impressione si sia compiuto un lavoro molto proficuo, ma che da questo momento si stia prendendo un’altra via col rischio di perdere del tempo.

Non trova quest’ordine del giorno, pur concordando a grandi linee su di esso, rispondente né al tono né alle conclusioni della discussione. Gli sembra troppo lungo e contenente anche concetti che non sono stati esposti.

La discussione è stata esauriente su quasi tutti i punti; ma non si può dire che tutti i punti siano stati chiariti in modo tale per cui si possa già arrivare ad una conclusione. Per esempio, sulla potestà legislativa della regione, sulla conservazione o meno della provincia – per citare solo due problemi – vi sarebbe ancor molto da dire e si potrebbe ricominciare la discussione. Solo due punti sono stati chiariti in modo tale per cui si può dire che è acquisito il favore generale della grande maggioranza:

1°) costituzione dell’ente regione, esclusi i criteri federale e confederale nonché quello del puro e semplice decentramento amministrativo;

2°) particolare organizzazione di quattro regioni (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta e Alto Adige).

Crede quindi che la Sottocommissione dovrebbe approvare con un voto questi due punti, deferendo ad una più ristretta Commissione di studio l’incarico di riferire sui problemi di dettaglio.

PICCIONI rileva che, oltre alla soluzione proposta, vi è anche quella di non prendere alcuna deliberazione, rinviando la prosecuzione della discussione ad una sezione della Sottocommissione; soluzione quest’ultima che tuttavia non corrisponde alla economia e alla praticità dei lavori.

Ritiene pertanto opportuno fissare qualche punto su cui il consenso della Sottocommissione si è già fatto palese. Il primo di tali punti coincide con quello indicato dall’onorevole Lussu (istituzione dell’ente regione); punti successivi e necessari potrebbero riguardare le caratteristiche principali della regione: autarchia, autonomia, rappresentanza della popolazione, anche attraverso il suffragio universale. Si potrebbe inoltre stabilire se la regione debba avere una sua autosufficienza finanziaria.

Non è d’accordo, sul secondo dei due punti fissati dall’onorevole Lussu, in quanto non ritiene opportuna una discriminazione preventiva tra le regioni, ammettendo tuttavia che le quattro regioni nominate dall’onorevole Lussu hanno particolari esigenze, delle quali si potrà tenere conto dopo che sia stata stabilita la disciplina generale del nuovo ente regione.

Quanto agli altri punti dibattuti, come la competenza legislativa, regolamentare, ecc., essi potranno venire deferiti alle sezioni.

In ogni modo, occorre che la Sottocommissione si pronunci, accettando o l’ordine del giorno Tosato, o le conclusioni dell’onorevole Lussu, o conclusioni diverse.

PRESIDENTE crede che occorra decidere se la discussione deve concludersi con un ordine del giorno, sul quale sarà possibile mettersi d’accordo domani, oppure se la discussione deve sospendersi a questo punto con la nomina delle sezioni.

Mette ai voti la proposta che la discussione deve concludersi con una risoluzione.

(È approvata).

Rinvia a domani l’esame dell’ordine del giorno Tosato e degli altri che eventualmente saranno presentati.

La seduta termina alle 21.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.