Come nasce la Costituzione

MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

4.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 30 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione sulle autonomie locali

Nobile – Ambrosini, Relatore – Mortati – Conti – Finocchiaro Aprile – Presidente – Fuschini – Bordon – Targetti – Piccioni.

La seduta comincia alle 17.

Seguito della discussione sulle autonomie locali.

NOBILE ritiene che alle quattro soluzioni del problema che si sta dibattendo, indicate dall’onorevole Bozzi, debba aggiungersene una quinta, che si trova all’estremo opposto di quella proposta dagli onorevoli Finocchiaro Aprile e Lussu.

L’onorevole Grieco ha detto che la tendenza centrifuga resa manifesta dall’insistente richiesta di autonomia è nata da un generale scoraggiamento. Egli dice di più; essa è nata dalla sconfitta e dal caos morale, intellettuale e materiale nel quale il Paese è stato precipitato. Il federalismo, il regionalismo, l’autonomismo, rispondono essi a necessità permanenti di vita del popolo italiano, o non rappresentano piuttosto un movimento di reazione a fenomeni transitori? Dubita che il movimento d’indipendenza, di cui è campione l’onorevole Finocchiaro Aprile, sarebbe esistito, o, perlomeno, avrebbe assunto l’importanza che ha oggi, se non si fosse perduta la guerra. Altrettanto si dica delle altre manifestazioni regionalistiche. L’istituzione dell’Ente regione viene considerata come una panacea per tutti i mali di cui soffre o ha sofferto il popolo italiano. Ma questo sarebbe comprensibile se la catastrofe in cui siamo caduti fosse una conseguenza della struttura unitaria e centralizzata dello Stato, o se questa struttura ne fosse stata almeno una delle cause; mentre è difficile sostenere che il fascismo, che fu uno dei maggiori responsabili della seconda guerra mondiale, non sarebbe sorto in una Italia avente una struttura statale federalistica.

Questi nuovi «ismi» sono, a suo parere, un malanno derivato dalla guerra e da una guerra perduta, senza la quale non sarebbe mai sorta l’idea – propugnata con tanto fervore e con tanta urgenza – di spezzettare l’Italia in regioni più o meno autonome. Si poteva sentire il bisogno di semplificale o decentrare l’amministrazione statale (sono vecchi problemi di cui si è sempre parlato); ma nessuno avrebbe pensato sul serio a realizzare una struttura regionale, il cui inevitabile risultato sarebbe quello di accentuare i sentimenti regionalistici già oggi esistenti.

Si rimprovera agli italiani di essere eccessivamente individualisti e campanilisti: orbene, il regionalismo è un sentimento egoistico che si estende ad un orizzonte più ampio, ma è pur sempre della medesima natura gretta e meschina.

Vi sono divisioni di animi che la guerra ha accentuato e forse la difficoltà nelle comunicazioni di idee, cose e persone, vi ha contribuito (vi sono stati periodi di tempo in cui in fatto di comunicazioni stradali, postali, telegrafiche eravamo tornati indietro di un secolo): queste privazioni, queste difficoltà, sembra che ci abbiano fatto tornare indietro anche con la vita e con i sentimenti. Il Nord inveisce contro il Sud, le Isole contro il Continente. Questo esacerbarsi di sentimenti regionalisti è certamente un male, ma, abbandonato a se stesso, sarebbe un male passeggero, mentre ora, senza volerlo, ci si accinge a cristallizzarlo in forme che non potranno più mutarsi.

Se, facendo appello all’unione di tutti gli italiani, si avviasse il Paese alla rinascita, fra qualche tempo ci troveremmo guariti di quel male, così come nel 1921-1922 eravamo già guariti dei mali di quel dopoguerra. E invece ci si propone di congegnare la Carta fondamentale dello Stato italiano in maniera da renderlo permanente.

Sa che alla maggior parte dei colleghi queste idee faranno una impressione sfavorevole, e soprattutto si duole di avere su questo  punto un pensiero così completamente opposto a quello dell’onorevole Zuccarini; ma non può tacere, anche se lo si dovesse tacciare di essere un ostinato conservatore, per quanto sarebbe erroneo vedere le sue idee sotto questa luce.

Egli è profondamente convinto della necessità di unificare tutto il mondo, se si vuol salvare l’umanità dall’immane catastrofe che è la guerra moderna.

Dividendo l’Italia in regioni, sia pure coordinate fra loro da uno Stato centrale, si marcerebbe a ritroso. La divisione del Paese in regioni autonome, che, sia pure solo in parte, si diano da se stesse leggi e si amministrino, è un regresso, non già un progresso.

Giudica assai debole l’argomento dell’onorevole Lussu, secondo cui la Sardegna è distante dal continente più che non Malta da Londra. Vero che le comunicazioni con la Sardegna sono oggi difficili e insufficienti, ed erano inadeguate ai bisogni dell’Isola anche prima della guerra; ma questo è un fenomeno transitorio. L’abolizione delle distanze nel mondo moderno costituisce la grande forza unificatrice delle comunità umane, e non è possibile ammettere che un’isola, la quale, con i mezzi di trasporto attuali, dista un’ora o forse anche mezz’ora soltanto dal continente, possa avere una vita quasi indipendente.

Circa gli Stati Uniti d’America, che sono stati citati più volte, osserva che quell’unione è dovuta al fatto che quando di quegli Stati si formarono i primi nuclei, già esisteva la trazione a vapore, la quale costituì la forza unificatrice. Se Giacomo Watt e Stephenson fossero vissuti mezzo secolo più tardi, anziché una confederazione in cui la autorità del governo centrale federale di continuo va aumentando, si sarebbe avuta un’America spezzettata in tanti stati, con lingua e costumi diversi, l’uno contro l’altro armati come in Europa.

Nel secolo in cui la distanza fra Paese e Paese è praticamente annullata, ed in cui, per questo stesso fatto, l’economia di un Paese è intimamente collegata a quella dell’altro, non si può pensare a dividere l’Italia in tante regioni autarchiche, fra le quali inevitabilmente sorgerebbero antagonismi: è profondamente erroneo pensare che da una divisione di forze si possa attendere un maggiore sviluppo economico delle singole regioni. L’unità economica del mondo, sia pure nella forma più caotica, è già un fatto reale, e la sola meta che gli uomini dovrebbero proporsi è quella di comporla in una forma organizzata. Ed invece in Italia si vorrebbero ora creare tante economie, separate o quasi.

Con l’istituzione di regimi autonomi si corre il rischio di elevare delle barriere, sia pure ideali, fra italiani, quando si dovrebbe invece unirli sempre più fra di loro. In una dieta regionale siciliana, sarda o piemontese si potrebbe perfino vedere elevata a lingua ufficiale il dialetto locale. Non sarebbe certo questo un progresso, e sarebbe, se mai da desiderare che tutti i popoli del mondo parlassero, se possibile, una medesima lingua, affinché potessero meglio intendersi ed affrettarsi fra loro, realizzando così l’ideale cristiano.

L’Italia oggi è unita e questa unità è stata penosamente conquistata con lo sforzò di generazioni, ed ora si vorrebbe disfare quel lavoro. Si lamenta che sia un Paese povero, e si insiste nel dire che questa povertà è la causa prima di molti mali, e come rimedio si propone, non già una più stretta unione, una più stretta collaborazione, come sarebbe logico, ma una divisione.

Con l’istituzione dell’ente regione si vorrebbe da un lato attuare un migliore sviluppo economico delle varie regioni, e dall’altra lato eliminare dalla vita politica l’oligarchia costituita da centri legislativi e burocratici che la governano. Ma il dividere l’Italia in regioni autonome non avrà altro risultato che quello di moltiplicare le oligarchie e con esse il danno che producono.

Certamente nessuno vuole perpetuare lo stato di cose attuale. L’amministrazione statale è divenuta una macchina pesante, mostruosamente complicata, e per giunta corrotta, ciò che in gran parte è anche conseguenza della guerra: ma allora si tratta di semplificare il meccanismo statale, di renderlo efficiente, e di eliminarne la corruzione; e questo non si ottiene complicandolo ancora più, come inevitabilmente avverrebbe se si istituissero dei governi regionali.

È noto, ad esempio, che la S.E.P.R.A.L. è un ente generatore di corruzione. Ebbene; se non si è capaci di purificarlo e di farlo veramente servire agli interessi della collettività anziché a quelli di singole persone, lo si sopprima. Certo non si rimedierebbe a questo danno, creando una S.E.P.R.A.L. in ogni regione, moltiplicando cioè per otto o per dieci il numero di questi deleteri organismi.

Così, pure, per i Provveditorati dei lavori pubblici. Qualcuno ha detto che la loro istituzione non costituisce un effettivo decentramento, ma piuttosto una complicazione, perché le vie che una proposta deve percorrere prima di essere approvata sono aumentate e non già diminuite. Forse questo non è esatto: vi sono oggi molto meno complicazioni di una volta. Comunque, la ragione per cui i Provveditorati non funzionano bene è un’altra: è la mancanza di personale capace, competente, ben pagato, ecc.

Il problema, cioè, è solo quello di riformare l’amministrazione statale, per renderla più semplice e più efficace, per eliminare gli eccessivi ed inefficaci controlli.

Può comprendere l’autonomia dei comuni, purché non sia eccessiva. È bene concedere la autonomia alle grandi città; ma non ha senso l’autonomia per tanti comuni del Mezzogiorno che, per l’inerzia, la passività e la scarsa educazione, talvolta, degli abitanti alla vita pubblica, non sanno amministrarsi. Se un comune è privo di fognatura, di acqua, di cimitero, non è con l’autonomia che si provvederà a questi bisogni fondamentali, non fornendo ad essi i mezzi e curando che questi mezzi siano bene spesi.

Si è addotto l’esempio dei piani regolatori che bisognerebbe lasciar decidere ed eseguire ad ogni singola città. Ma il Governo centrale dovrà pur dettare talune norme che salvaguardino, ad esempio, la salute pubblica, o che concernano la conservazione di monumenti nazionali. Se il problema edilizio di un paese, o la costruzione di una strada comunale, o di una scuola, o di un cimitero si possono riguardare come problemi locali, la cui risoluzione può esser lasciata all’ente locale, i problemi di una regione non sono mai di interesse soltanto regionale, ma investono anche l’interesse nazionale. La bonifica delle paludi pontine è un problema che interessa non soltanto il Lazio, ma tutta Italia. La trasformazione della costa salernitana, che vi richiami turisti dalle varie parti del mondo, è problema che interessa non solo il Mezzogiorno, ma tutta Italia. Le saline e le miniere della Sardegna interessano non solo quelle regioni ma tutto il Paese. Si è detto che le scuole elementari dovrebbero rientrare nella competenza delle singole regioni; e invece queste scuole, se fosse possibile, dovrebbero avere una regolamentazione non solo nazionale, ma addirittura mondiale.

È quindi recisamente contrario alla divisione dell’Italia in tanti enti autonomi regionali e crede che il problema da porsi e da risolversi sia solo quello di semplificare e decentrare l’amministrazione statale. È stato ricordato che quando il Regno delle due Sicilie si riunì al resto dell’Italia, esso versò nelle casse del nuovo Stato una riserva aurea di 450 milioni di lire-oro, che servì per compiere lavori pubblici nel nord. Ma non si ripara a questa ingiustizia abbandonando il Mezzogiorno perché faccia da solo. È un non senso volere che l’economia regionale si sostituisca a quella nazionale. E quando si dice che le regioni più ricche dovrebbero dare a quelle più povere, non si pensa che questo si può fare senza difficoltà nello stato unitario centralizzato, e lo si fa, mentre in uno stato federalistico darebbe luogo a difficoltà, attriti, antagonismi.

Inevitabile conseguenza delle economie regionali sarebbe questa, che aumenterebbe la distanza fra le regioni più progredite e quelle meno progredite; una Lombardia ricca, prosperosa, più avanzata anche nella vita sociale e culturale, si lascerebbe dietro, a distanza sempre più crescente, una Calabria o una Lucania, povera ed arretrata.

Per queste ragioni la sua avversione alla istituzione delle regioni, che viene presentata con colori tanto attraenti, è invincibile. Più saggiamente si agirebbe se venisse potenziato l’ente provincia, accrescendone le attribuzioni e rendendolo autonomo, per quanto è possibile. Che se poi si volesse dare una voce autorevole agli interessi peculiari di ogni regione, questo si potrebbe conseguire senza pericolose improvvisazioni, creando delle assemblee regionali, di carattere tecnico, economico, con funzione consultiva obbligatoria per il Governo centrale, e anche con facoltà di prendere l’iniziativa per leggi da proporre alla Assemblea legislativa statale. Esorta quindi i colleghi a meditare bene prima di decidere, perché l’istituzione della regione è un passo grave del quale un giorno potrebbe venire il pentimento. Non vi è alcun bisogno di introdurre nella Costituzione dell’Italia democratica novità che possono essere pericolose. La ricostruzione del Paese si fa unendo tutti i cittadini più strettamente che mai gli uni agli altri e non già approfondendo le divisioni prodotte dalla guerra, che anche da questo punto di vista ha riportato l’Italia ad un secolo addietro.

AMBROSINI, Relatore, ricorda di avere prospettato i problemi nel modo più semplice e più obiettivo possibile. L’onorevole Lussu, pur riconoscendo l’obiettività della esposizione, ha creduto rilevare in questa una propensione, del resto naturale, verso la creazione di un Ente regionale, dotato di personalità giuridica e di diritti propri, sanciti nella Carta costituzionale e garantibili in sede giurisdizionale. In realtà la Sottocommissione sembra orientarsi in questo senso e, salvo le posizioni estreme, pare sia desiderato da tutti un termine, il quale porti all’avvicinamento; e forse vi si arriverà. Peraltro, è fuori dubbio che tutti tendono a potenziare le energie nazionali, a valorizzare quanto è indispensabile per la ricostruzione, la quale non può essere che nazionale e basata, come diceva l’onorevole Grieco, sulla solidarietà nazionale. Si tratta soltanto della scelta dei mezzi più adeguati per raggiungere questo scopo.

L’onorevole Mortati sostanzialmente disse la stessa cosa dell’onorevole Grieco, perché impostò così il suo problema: occorre anzitutto stabilire che cosa vogliamo. Quando sia stabilito quello che vogliamo, si sceglieranno i mezzi più adeguati per giungervi. E questo è necessario, perché, se per avventura questi mezzi non fossero o non risultassero rispondenti allo scopo, si compirebbe fatica inutile e forse anche dannosa.

Ora, nei problemi della riforma, della struttura o dell’amministrazione dello Stato, bisogna evitare il danno dell’accentramento, ricercando mezzi più adeguati, nel campo economico e nel campo politico, per eccitare e sospingere le energie locali, che attualmente sono compresse, mortificate. Gli inconvenienti esistevano già prima del fascismo, a causa dell’ingerenza politica dei Deputati nelle pubbliche amministrazioni e sui prefetti, di questi sugli enti locali e del governo centrale su tutti.

Quindi il problema va riguardato dal punto di vista economico-sociale ed anche da quello politico. Sì debbono tener di mira questi due fini e vedere se la soluzione regionale può portare, se non alla scomparsa dei mali, almeno alla loro attenuazione, ed alla restituzione alle amministrazioni locali, da un lato, ed ai deputati eletti all’Assemblea Nazionale, dall’altro, della vera libertà di compiere il proprio dovere, senza interferenze di natura politica ed amministrativa, che portano ad una servitù ed a una tirannia reciproca.

Il Relatore dice che si è sforzato di non lasciarsi guidare da pregiudiziali teoriche, in modo da riguardare i fatti ed impostare le questioni secondo la realtà effettiva, i bisogni più direttamente sentiti, le eventuali proposte più adeguate alla eliminazione degli inconvenienti o dei mali accennati. Ora – salvo alcune posizioni estreme – da quasi tutti i settori sembra si sia disposti al riconoscimento della necessità, o della opportunità della creazione, del riconoscimento o della utilizzazione della regione, considerata da taluno dal punto di vista del decentramento istituzionale autarchico, cioè da un punto di vista che va più in là del decentramento burocratico, e da altri, invece, da un punto di vista non solo amministrativo, ma anche costituzionale, cioè dal punto di vista dell’autonomia, che si usa dire politica per distinguerla dall’amministrativa; di quella autonomia, nella quale la regione ha diritti propri fondamentali, sanciti e garantiti dalla Costituzione.

Il Relatore nota che la prima soluzione che si presenta, nel caso che si adotti in via di massima l’istituto regionale, è quella di applicarlo integralmente allo Stato, dividendone in regioni tutto il territorio.

Nel caso, invece, che non si adotti questa soluzione generale, sarà da decidere se la regione possa essere costituita secondo l’esempio dato dalla Costituzione spagnola del 1931: cioè, a richiesta delle popolazioni interessate. La Costituzione spagnola dice che lo Stato spagnolo è composto dai comuni raggruppati in provincie o da regioni autonome, che eventualmente si costituiscano ed aggiunge che una provincia, la quale in un primo tempo abbia chiesto di far parte di una regione e che si sia quindi sottratta alla compagine amministrativa dello Stato, può chiedere il ritorno al suo precedente stato giuridico di provincia, cioè, dello Stato. È un esempio di Costituzione nella quale l’Ente regione può esistere e può non esistere, nella quale la provincia può essere aggregata direttamente alle dipendenze dello Stato, e può invece essere aggregata alla regione.

È stato detto che per lo meno per quattro regioni – la Sicilia, la Sardegna, la Vai d’Aosta e il Trentino – l’autonomia ormai deve considerarsi cosa acquisita. Per due di queste regioni ci sono già degli ordinamenti stabiliti. Per la Sardegna esistono un Alto Commissario e una Consulta regionale che in fatto ha attuato una forma di autonomia. Per il Trentino l’esigenza è anche maggiore, per ragioni non solo interne ma anche internazionali. L’ex Ambasciatore inglese a. Roma, Lord Perth, ha detto alla Camera dei Comuni che, se le ventuno Nazioni non adotteranno la soluzione dell’annessione all’Austria, il Tirolo meridionale dovrà avere la più ampia autonomia. Comunque sia, il sistema potrebbe consistere nella concessione della autonomia a determinate regioni, per le quali essa è assolutamente necessaria, se si vogliono guardare le cose dal punto di vista della realtà.

Per quelle alle quali è stata già concessa, e specie per la Sicilia, l’autonomia deve considerarsi irrevocabile. Per altre regioni dovrà necessariamente arrivarsi ad una identica soluzione.

Data la situazione particolare di talune regioni, come quelle suaccennate, e l’opportunità che a tale particolare situazione si adegui il rispettivo statuto, sorge la questione se sia conveniente e financo possibile (nel caso che l’istituto regionale si applichi per tutto il territorio dello Stato) che venga adottato uno statuto uniforme per tutte le regioni.

Il Relatore dice che in via di massima potrebbero dettarsi nella Costituzione i principî fondamentali, lasciando poi alle Regioni, e precisamente alle Assemblee rappresentative regionali, la possibilità di elaborare specificamente lo statuto in modo più rispondente ai propri bisogni; statuto che dovrebbe essere sottoposto all’approvazione del potere legislativo dello Stato.

Venendo ad esaminare le materie da affidare alla competenza specifica delle regioni, salvo a vedere poi se debba usarsi una formula o l’altra, osserva che si tratta di quel gruppo di materie che interessano principalmente gli affari locali, pur ammettendo che con questa distinzione non ponesi un criterio assoluto e che occorre sempre un criterio relativo e di opportunità per giudicare la prevalenza dell’interesse locale, perché l’interesse nazionale esiste sempre, non è isolabile. Si tratta di vedere qual è l’interesse prevalente, se quello locale o quello nazionale. E là dove sia decisamente stabilito che l’interesse prevalente è quello locale, potrebbe senza alcun danno concedersi alla regione anche la potestà legislativa.

Per venire al concreto, senza lasciarci fuorviare da esempi di legislazioni straniere dalle quali è necessario differenziarsi, sottopone all’attenzione dei colleghi una distinzione dal punto di vista generale, e poi una indicazione di materie dal punto di vista particolare.

Dice che due potrebbero essere i gruppi di materie da affidarsi alla competenza normativa della regione: materie di competenza legislativa primaria, e materie di competenza legislativa secondaria o integrativa.

Non parlerebbe di legislazione esclusiva, perché è questo un termine che può suonare troppo rigido: parlerebbe piuttosto di legislazione primaria, e non userebbe altre specificazioni, restando inteso che il primo gruppo di materie dovrebbe competere alla regione, perché sono materie di prevalente interesse locale; aggiungendo che sino a quando l’Assemblea regionale non avrà legiferato su tali materie, resteranno naturalmente in vigore le norme della legislazione nazionale.

Un secondo gruppo di materie potrebbe dar luogo alla legislazione secondaria, per cui la regione legifera secondo le norme di principio segnate dalle leggi dello Stato. Non sarebbero norme di sola attuazione, norme regolamentari: sarebbero vere e proprie leggi, naturalmente nel quadro dei principî fondamentali stabiliti dalla legislazione nazionale.

Detto questo in via generale, passando alle specificazioni, prospetta a titolo puramente indicativo la formula seguente:

«1°) La regione ha potestà legislativa nelle seguenti materie (e questa potrebbe essere la legislazione primaria): agricoltura e foreste, strade, ponti, comunicazioni, porti, lavori pubblici in generale, con esclusione delle opere di interesse nazionale, acquedotti, pesca e caccia, urbanistica, antichità e belle arti, turismo, istruzione elementare, scuole tecniche e professionali, pubblica beneficenza, ordinamento degli uffici regionali.

Osserva che vi sono materie per le quali è molto difficile decidere. Nella prima redazione della formula aveva indicato, dopo «agricoltura e foreste», anche «industria e commercio», ma non si dissimula che nei riguardi di questo ramo di attività possono esservi elementi che interferiscono con l’interesse di altre regioni o addirittura di tutta la Nazione; per il che potrebbe essere opportuno includerle nel secondo gruppo.

Ricorda che per il regime minerario è stato affermato che la sua unificazione ha fatto buona prova. Potrebbe vedersi se non sia il caso di collocare queste materie nel secondo gruppo, perché sembra fuor di dubbio che, pur potendo essere opportuno un criterio di massima generale che regoli la materia, le singole regioni hanno delle esigenze particolari per ragioni obiettive e per ragioni psicologiche particolari.

Per il secondo gruppo, ha considerato due modi diversi di prospettare la norma tenendo conto delle esigenze diverse e quasi delle pregiudiziali diverse. Una dizione potrebbe essere la seguente:

«2°) Entro i limiti della legislazione di principio emanata dallo Stato, compete alla regione la potestà legislativa nelle seguenti materie…».

La seconda dizione sarebbe questa:

«2°) La regione può dettare norme legislative per le seguenti materie, in armonia alle norme di principio rispetto ad esse fissate nelle leggi dello Stato».

Le materie sarebbero: rapporti di lavoro; riforme economiche e sociali; disciplina del credito, delle assicurazioni, del risparmio; istruzione media e superiore; igiene e assistenza sanitaria; ordinamento degli enti locali; ecc.., e le altre materie di interesse prevalentemente regionale (da indicarsi).

Ritiene che potrebbe attribuirsi alla Giunta regionale il potere regolamentare. Ha accennato in via generale ai gruppi di materie specifiche per rispondere alle sollecitazioni di alcuni colleghi; ma crede necessario che la precisa indicazione delle materie di competenza legislative della regione sia affidata ad una sezione della Sottocommissione.

MORTATI ritiene opportuno precisare i limiti della discussione. La determinazione delle materie da attribuire ad un eventuale ente decentrato non gli sembra sia da fare in sede di discussione generale: questo si dovrebbe discutere dopo.

CONTI concorda; tuttavia crede fosse necessario accennare al problema della competenza della regione perché, in sostanza, si può concretare un pensiero intorno all’autonomia secondo l’idea che ci si forma della competenza della regione..

FINOCCHIARO APRILE ricorda che riguardo alla Sicilia esiste già uno statuto pubblicato anche sulla Gazzetta Ufficiale. Non sa se questo decreto sia entrato o stia per entrare in attuazione; sa che sono stati interpellati alcuni organi consultivi dello Stato per sapere se il Parlamento siciliano – conseguenza di questa autonomia – debba essere eletto e convocato. In quello sono indicate moltissime delle cose di cui si sta occupando la Sottocommissione.

Domanda ora se questa può continuare ad occuparsi di autonomia per quanto riguarda la Sicilia, quando vi è già uno statuto che è diventato una legge dello Stato, o se ha competenza per chiedere modificazioni dello statuto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Prega il Presidente di interpellare il Governo circa l’entrata in vigore di quel decreto, per chiarire il fatto strano che lo si sia emanato alla vigilia della riunione dell’Assemblea Costituente alla quale è così tolto, in certo senso, il diritto di legiferare su questa materia.

PRESIDENTE avverte che la Sottocommissione non è investita della discussione del problema della Sicilia, ma del problema nazionale, di cui la Sicilia rappresenta una parte. Ritiene che, di fronte alla Costituzione, tutte le leggi già emanate siano suscettibili di modificazione, e ricorda che nel decreto col quale viene emanato lo statuto della regione siciliana, un inciso stabilisce che quello statuto sarà sottoposto all’Assemblea Costituente per essere coordinato con la nuova Costituzione. Quindi è naturale che se ne parli.

Eventualmente l’onorevole Finocchiaro Aprile potrà rivolgersi direttamente al Governo per chiedere i chiarimenti del caso. I poteri della Costituente in relazione allo statuto siciliano sono indicati da quell’inciso ed è questa la sola base sulla quale la Sottocommissione si può porre. La stessa questione potrebbe sorgere anche per tutte le altre leggi che sono passibili di modificazione, ma che intanto sono applicate.

FUSCHINI ritiene necessario che la Sottocommissione abbia idee molto chiare e precise su quello che dovrà essere il progetto da sottoporre all’Assemblea Costituente. Essa deve dare all’Assemblea Costituente la sensazione che quello che propone costituisce un progetto ponderato, nel quale le diverse tesi hanno trovato un punto di comune consenso.

Come si è già detto, lo Stato italiano è oggi afflitto da un accentramento che ha soffocato gli enti locali e non ha loro consentito di dare tutto il rendimento possibile e che quindi bisogna orientarsi verso un decentramento delle funzioni e della attività amministrativa statale.

Questo è il punto fondamentale: si soffre di un accentramento burocratico, amministrativo, di funzioni, per cui il comune e la provincia non hanno avuto la possibilità di vivere ed i cittadini italiani hanno dovuto sempre subire la volontà della amministrazione centrale. Ma non si tratta di un’esigenza che possa essere suddivisa tra le regioni del sud e quelle del nord, fra Sicilia, Sardegna e Val d’Aosta; è un’esigenza di tutto il Paese. È una esigenza sentita da tutte le provincie. Il voler fare una distinzione tra le provincie che vogliono essere costituite in regione e quelle che non lo vogliono è un errore iniziale che bisogna evitare.

Si deve dare un nuovo ordinamento allo Stato e occorre prospettare alle popolazioni quello che secondo l’orientamento che deriva dalle discussioni può apparire il sistema migliore, affinché il male della centralizzazione scompaia dalla vita amministrativa del nostro Stato. Se si ammettesse la facoltà delle provincie di costituirsi o meno in regione, si creerebbe un tale stato di diversità di rapporti politici, economici ed amministrativi, per cui sarebbe difficile farne una sintesi e si avrebbero delle provincie che rimarrebbero allo stato in cui si trovano, senza nessun giovamento. Lo Stato deve essere unitario ed avere una sua organizzazione uniforme e si deve, invece, arrivare al decentramento, non soltanto per favorire determinati interessi locali, ma soprattutto per un interesse di carattere generale dello Stato, che svolgerà così nel modo migliore i propri compiti.

L’idea di una confederazione di Stati gli appare una fantasia, perché, se è già difficile arrivare alla costituzione dell’ente regione, sarebbe ancora più difficile arrivare alla costituzione di stati regionali. Né è possibile ricostituire i sette stati italiani come erano prima del 1859. Sarebbe una incongruenza storica e una creazione artificiosa.

La sua affermazione che la regione non può essere facoltativa, ma deve essere determinata da una norma generale della Costituzione, rispecchia una reale necessità di organizzazione: altrimenti si avrebbe un mosaico di organizzazioni statali contrario a quello spirito moderno, che tende al raggiungimento del massimo risultato col minimo mezzo. Si deve avere, dunque, una norma uniforme per tutto il territorio dello Stato e, se mai, si potrà tener presente che vi sono regioni con particolari caratteristiche, come la Sicilia, la Sardegna e la Val d’Aosta, che meritano ogni considerazione.

Se si ammettesse la regione facoltativa, si verrebbe meno anche ad un’altra esigenza di carattere costituzionale. Riferendosi al sistema bicamerale, al quale il partito cui egli appartiene è favorevole, e attribuendo al Senato una forma elettiva, osserva che una delle basi elettorali per la creazione del Senato è appunto la costituzione della regione.

Crede che si debba poi andare molto cauti quanto alla potestà legislativa della regione e che sarebbe opportuno sottoporre questo argomento ad un esame molto attento della Sottocommissione.

È favorevole alla limitazione dei compiti e delle materie da assegnare alla competenza dell’ente regione, salvo una disposizione che consenta, dopo un esperimento, di aumentare tali compiti, allo scopo di poter procedere gradualmente nella organizzazione del nuovo ente. Si può discutere molto su questo; ma, avendo vissuto anche negli uffici ministeriali, egli sa quanto sia difficile creare e fare muovere degli organismi burocratici che rispondano a determinate esigenze, particolarmente se nuovi.

A proposito del mantenimento della provincia è stato detto che è sufficiente, come organo intermedio tra il comune e lo Stato, la regione. Il comune dovrà essere valorizzato più di quanto non lo sia stato finora. L’autonomia comunale è un dato di diritto che deve diventare una realtà. Si deve dare al comune una efficienza di carattere amministrativo, che rispecchi una maggiore libertà e una maggiore responsabilità da parte degli amministratori; il che potrà dare una nuova spinta realizzatrice all’attività comunale. Ma non crede si possa dall’attività comunale andare direttamente a quella regionale; né è questa, come potrebbe sembrare, una contraddizione. Il nucleo provinciale oggi è un dato di fatto e un dato di diritto, per eliminare il quale si dovrebbero compiere sforzi eccessivi e dispendiosi, giacché le riforme vanno riguardate non soltanto per quello che creano, ma anche per le reazioni che producono. Bisogna stare attenti alla forza delle reazioni che sarebbero provocate dalla soppressione della provincia come ente giuridico autarchico.

Non crede sia necessario, per creare la regione, abolire la provincia come ente autarchico. Può riconoscere che le prefetture vanno, in certo senso, abolite per quanto bisogna riconoscere che il potere centrale, specialmente per le questioni di ordine generale e pubblico non potrà fare a meno di tenere un suo rappresentante in determinati centri della periferia, regionale o provinciale, perché non potrà rimanere all’oscuro di tutto quello che avviene nelle province: esso deve poter provvedere allo stesso ordine pubblico, e vigilare se tutti gli organismi locali funzionino dal punto di vista politico e amministrativo così che siano salvaguardati gli interessi generali della Nazione e quindi anche quelli locali. Quando siano affidati alla regione determinati servizi, come strade, trasporti, igiene, se questi servizi non funzionano, bisogna che l’organo centrale ne sia informato. Quindi, il potere centrale deve vigilare costantemente e vigilare non vuol dire impedire agli organi locali di agire, ma vedere se adempiano alle funzioni loro demandate dalla legge.

Esclude che il controllo di legittimità debba rimanere affidato ai prefetti, potendo essere affidato ad un organismo diverso dalla prefettura, ad un organismo elettivo e nello stesso tempo burocratico, che non abbia funzione politica, come è la Corte dei conti per i Ministeri.

Ripete che sopprimere la provincia significherebbe, a suo avviso, determinare un grande disordine nella vita del Paese. Una decisione recisa che togliesse alla provincia la sua personalità giuridica, farebbe rimanere però degli uffici, che non avrebbero più l’autorità necessaria per soddisfare le esigenze delle popolazioni, che desiderano essere qualche cosa nella amministrazione degli enti locali.

L’amministrazione provinciale potrà essere riveduta e modificata secondo i dati della esperienza, ma dovrà rimanere per una migliore tutela degli interessi locali.

La provincia è diventata un centro economico, un centro amministrativo, un centro commerciale, un centro di confluenza di interessi i più svariati ed i più attinenti alla vita delle popolazioni. Distruggendola nella sua vitalità, nella sua essenza di ente giuridico, rimarrebbe un organismo privo di quella consistenza amministrativa, che sarà necessaria anche per soddisfare alle esigenze della regione. Non si deve creare la regione per sottrarre dei compiti alla provincia, ma per dare ad essa compiti nuovi. Come il comune esercita funzioni proprie dello Stato, così la provincia potrà esercitare funzioni proprie della regione, se non dello Stato. Si deve creare la regione togliendo delle attribuzioni, e delle funzioni allo Stato. Quindi, il proposito di abolire la provincia deve essere meditato. È vero che nel provvedimento per la Sicilia le province risultano abolite; ma ciò ha suscitato delle reazioni piuttosto gravi e non è il caso di provocarne in tutto il territorio nazionale. Proprio quando si ha bisogno della massima tranquillità nelle popolazioni non si devono creare ragioni di turbamento. Gli sembra un principio di sana politica portare innovazioni che non creino dissapori e contrasti tali da mettere in pericolo l’ordine pubblico.

Il problema della finanza è gravissimo per la regione, ma non crede sia il caso di preoccuparsene molto, perché è tutto il sistema tributario che va riveduto; e va riveduto in modo tale da avere un’unica imposizione, un unico accertamento ed una distribuzione dei proventi tributari in maniera rispondente alle esigenze della regione, in rapporto alle spese che la regione sopporterà per i servizi già svolti dallo Stato.

Naturalmente le regioni, come i comuni, potranno applicare tasse speciali per i servizi che esse renderanno ai cittadini. La finanza locale dovrebbe quindi essere riveduta in senso regionale.

Conclude osservando che il problema dei controlli non può essere eliminato, né lo potrebbe anche se si volesse, per ipotesi, eliminare del tutto il controllo dello Stato. Ricorda che nel progetto elaborato dalla Commissione per la riforma della pubblica amministrazione è prevista la istituzione di una Commissione di controllo regionale elettiva. Vi potranno poi essere forme di controlli con ispezioni così dette volanti, che sono le più idonee alle esigenze di una buona amministrazione. Snellire e semplificare il controllo è utile; ma sarebbe un errore l’abolirlo; lo stesso errore in cui è caduto il fascismo: il controllo della Corte dei conti sui bilanci dello Stato non era efficiente, perché era sopraffatto e continuamente violentato dal potere politico. Occorre invece il controllo, tanto al centro quanto negli organi locali, indipendente dall’amministrazione, perché l’amministrazione è elemento attivo e non può controllare se stessa. Bisogna che il controllo sia esplicato da un organo distinto e superiore all’amministrazione attiva, così per i comuni, come per le province e per le regioni.

(La seduta, sospesa alle ore 19, è ripresa alle ore 19.15).

BORDON non è dell’avviso dell’onorevole Nobile, il quale ha prospettato una quinta soluzione, mentre l’onorevole Tosato ne aveva prospettato quattro: centralista, federativa, Stato federale, Stato regionale. Quella sostenuta dall’onorevole Nobile risponderebbe alla prima domanda e cioè se si debba rimanere allo statu quo. Ora, sembra che tale questione sia ormai sentita da tutti come superata. Non crede che si senta soltanto ora il disagio dell’accentramento, disagio che era una realtà acquisita anche molto tempo prima del fascismo. Nel 1860-61 si era creduto di disattendere le voci che si richiamavano alla necessità di un decentramento federativo; ma si è poi veduto che l’accentramento non rispondeva agli scopi nazionali. Già in uno studio del Sighele, sulla gente nostra, si diceva che era un errore aver voluto fare l’italiano di tipo unico ed è un errore l’aver voluto accentrare, mentre le regioni sono molto diverse le une dalle altre. Non si tratta dunque di una necessità che sorga oggi, ma di una necessità già sentita da molto tempo; una necessità che poi si è andata accentuando e che ora è intensamente sentita per particolari circostanze.

Il fascismo non ha fatto altro che accentuare e peggiorare l’accentramento: perciò egli non può accogliere la soluzione dell’onorevole Nobile. Non si tratta di dividere, come egli ha detto, il sistema unitario della Patria; si tratta di dividere soltanto l’amministrazione: la divisione non tocca che l’apparato amministrativo, non il Paese, sul cui concetto unitario tutti sono d’accordo.

Scartata quindi senz’altro questa soluzione che pare non risponda alla situazione e alle esigenze della Nazione, rimarrebbero in sostanza le tre altre soluzioni.

Crede che a ragione l’onorevole Lussu abbia sollevato la questione federativa come un problema che va esaminato. La Costituente deve dare una Costituzione allo Stato e non può assolvere questo incarico gravissimo ed importantissimo se non dopo aver esaminato tutti gli aspetti del problema, fra cui anche quello federativo.

Col federalismo non crede si possa arrivare agli estremi cui è arrivato l’onorevole Finocchiaro Aprile; non crede sia oggi possibile fare una Confederazione di Stati, perché bisognerebbe far risorgere gli Stati italiani. Questa soluzione estrema non risponde alle esigenze del Paese, e sarebbe anche difficile ad attuarsi; creerebbe disagi e inconvenienti molto gravi.

Ma quando si parla di federalismo, non è detto si debba intenderlo soltanto nel senso di una confederazione di grandi stati: lo si può attuare anche sotto altre forme ed esattamente è stata ricordata la Repubblica austriaca, che attua appunto il principio federale con le sue diete federali, e giustamente è stato pur rilevato come lo Stato federale sia qualche cosa di diverso dalla Confederazione di Stati. In altre parole, non bisogna far confusioni fra il federalismo e le applicazioni che ne possono derivare: sarebbe esprimere un concetto semplicistico individuare nel federalismo soltanto la possibilità di Confederazioni di grandi Stati, dato che vi possono essere anche altre forme federali.

Lo Stato federale va esaminato sotto un punto di vista pratico. Poiché dobbiamo dare una nuova Costituzione allo Stato, è venuto il momento di dargli una Costituzione a largo respiro, veramente democratica, degna di questo nome. Senza pronunciarsi sul problema se si debba scartare senz’altro l’idea federale, esorta ad esaminarla, per vedere se sia possibile una proposta che si adatti alla nuova Costituzione. Personalmente ritiene che lo Stato federale, se fosse uno Stato unitario con diversi cantoni, potrebbe rappresentare una soluzione, perché se vi sono nel nostro Paese delle regioni che non hanno raggiunto una maturità democratica, ve ne sono per contro altre democraticissime e che potrebbero adattarsi benissimo al nuovo assetto di Stato federativo formato a cantone. E non vede come a priori si possa dire che questo rappresenterebbe un inconveniente. Non sarebbe neppure un salto nel buio, ma una riforma che avrebbe già larghe premesse democratiche, sovrattutto nel nord Italia. Né sarebbe leso il concetto unitario. Non si potrebbe avere alcun timore in questo senso in Italia, ove esiste una Nazione sola, quando lo Stato federale elvetico, costituito da tre nazioni, ciò nonostante, secondo che un’esperienza secolare dimostra, ha risposto, anche attraverso duri cimenti cui è stato sottoposto, alle esigenze del Paese.

Sotto il punto di vista locale della Val d’Aosta, questo concetto ha già trovato qualche richiamo: in una «carta» che fu redatta il 19 dicembre 1943, in periodo cospirativo, allorché le Valli alpine si erano pronunciate per uno Stato federale, si auspicava che il futuro Stato italiano venisse organizzato con criteri federalistici, fosse, cioè, costituito da unità amministrative e politiche autonome sul tipo cantonale. Non è quindi un’idea nuova: è stata sostenuta già da tempo e sarebbe consigliabile, perché risponderebbe ai bisogni particolari della Val d’Aosta, dare a questa un potere normativo assai più esteso di quello che si potrebbe avere con una semplice autonomia.

Comprende che possano aversi delle opposizioni all’idea dello Stato federale formato in cantoni: vedrà l’Assemblea se questa sia una proposta accettabile. Se non dovesse accoglierla, evidentemente non si potrebbe sostenere uno Stato federale soltanto per la Val d’Aosta, e quindi si dovrebbe lasciar cadere la proposta, alla quale del resto ritiene che le altre regioni italiane dovrebbero essere favorevoli. Il nostro Paese è profondamente diverso da zona a zona, e proprio per questo motivo l’accentramento ha avuto un esito fallimentare. Uno Stato cantonale risponderebbe alla diversità delle esigenze da regione a regione. Comunque, se questa soluzione sarà scartata, si ripiegherà sul piano dell’autonomia.

La Val d’Aosta ha già avuto un’autonomia che è in attuazione, ma vorrebbe fosse ancora maggiormente ampliata. Essa accetta lo Stato regionale autonomo con le precisazioni che ha fatto l’onorevole Grieco, cioè non crede che si possano mettere sullo stesso piano tutte le regioni d’Italia; perché vi sono delle regioni che hanno sentito questo problema e lo hanno posto come questione di vita e di morte. E fra queste regioni è la Valle d’Aosta, che è una zona che ha particolari esigenze e caratteristiche a sé, come è stato riconosciuto quando le si è concessa l’autonomia. Essa è una zona di frontiera ed ha ottenuto anche particolare riguardo per la sua posizione rispetto alla Francia ed alla Svizzera, come zona franca.

Sullo stesso piano della Valle d’Aosta si trovano l’Alto Adige, la Sicilia, la Sardegna, per le quali tutte è necessaria una autonomia a largo respiro, autonomia in cui la potestà legislativa sia diretta e larghissima.

Si deve quindi tener presente la necessità della più larga potestà legislativa che deve differenziare queste zone dalle altre regioni. La Valle d’Aosta non può accettare alcuna limitazione e domanderà che le sia riconosciuta nella Costituzione l’autonomia regionale con la più ampia potestà legislativa e con la potestà di zona franca, che è stata sancita dalle leggi in vigore.

TARGETTI rileva che la possibilità di mutare la struttura dello Stato secondo il criterio federalistico è stata indirettamente esclusa anche da quelli che sono sempre stati i più convinti fautori del federalismo i quali, forse, a riconoscere questa impossibilità sono arrivati considerando obiettivamente le particolari specialissime condizioni nelle quali si trova il Paese, e che sono dovute – non è male ripeterlo – all’azione combinata della monarchia e del regime fascista.

Sono però tutti concordi nel riconoscere la necessità di decentrare, di spogliare, nei limiti del possibile, lo Stato delle sue facoltà e dei suoi poteri. La creazione dell’Ente regione trova moltissimi fautori. Si dovranno tuttavia tenere presenti alcuni dati di fatto posti in rilevo dall’onorevole Rossi per aggiungerli alle ragioni fatte valere da altri in favore del mantenimento in vita dell’ente autarchico provincia.

Esistono in realtà diversità di bisogni anche nel seno delle regioni geograficamente configurate. Se si toglie il Piemonte, la Lombardia e il Veneto, è forse difficile trovare in Italia regioni monolitiche; nessuna di esse presenta unità di interessi. Questo fatto, se non infirma tutte le ragioni a favore della costituzione dell’Ente regione, deve però concorrere con gli altri motivi che militano in favore del mantenimento della provincia. Abolire la provincia significherebbe accrescere senza dubbio gli attriti fra i vari ex capoluogo di provincia, perché il capoluogo di regione sarebbe istintivamente portato a far prevalere i propri interessi su quelli degli altri centri della regione.

Nega che la provincia abbia solo modeste funzioni: chi vuol compiere sul serio il suo dovere di Deputato provinciale ha modo di constatare che il lavoro non manca. Ma il grande argomento in favore della provincia è questo: si sta compiendo uno sforzo per trovare la strada migliore per decentrare; ma, distruggendo un ente locale autonomo come la provincia, si finisce con l’accentrare nella regione quel tanto che è decentrato, cioè col fare proprio l’opposto di quello che si vuole.

Nega pure che, creato l’Ente regione, vengano a mancare alla provincia le ragioni di esistenza, perché l’Ente regione nascerà e vivrà a tutto detrimento dello Stato. La regione non assumerà funzioni che oggi sono della provincia: essa ridurrà la competenza delle amministrazioni centrali. Ricorda che lo stesso Minghetti, sostenitore ad oltranza del regionalismo, manteneva non solo il comune, ma anche la provincia.

Di più l’abolizione della provincia determinerebbe un grave malcontento e conseguentemente ostacoli e contrarietà al funzionamento della regione.

La provincia quindi deve essere mantenuta, salvo poi decidere i poteri che le si debbono attribuire.

PICCIONI intende fare alcune considerazioni di carattere prevalentemente pratico per vedere se si può giungere ad una conclusione.

Anzitutto deve risultare chiara la visione che si ha dello Stato e della sua struttura. Se si concepisce lo Stato come espressione massima, unitaria, indifferenziata, della organizzazione giuridica della società, il centralismo statale ha più di una giustificazione; se si concepisce invece lo Stato come il potere massimo della società organizzata, ma che non deve comprimere gli organismi naturali che vivono nella società stessa, bisogna, nella struttura politica e amministrativa, adattare questo concetto dello Stato alla funzionalità effettiva di questo in rapporto agli altri organismi.

Uno dei limiti fondamentali alla capacità dello Stato è dato dalla esistenza, anteriore a quella dello Stato, di nuclei ed organismi naturali ai quali deve essere consentito di esercitare la loro funzione per l’ordinamento migliore della società. Tra questi organismi, che limitano il potere dello Stato, sono in prima linea i comuni e successivamente le regioni.

Il concetto di autonomia non deve essere circoscritto e limitato soltanto all’ente regione. Il comune è il primo organismo che va difeso di fronte al potere e al prepotere dello Stato; in fatto di autonomie il comune non va posto in secondo o terzo piano, ma va tenuto in primo piano, non soltanto per liberarlo dagli impacci statali, ma per rendergli tutta la sua forza evolutiva ed espansiva nell’ambito della sua attività specifica.

Dal punto di vista di una concezione organica della società, le provincie non costituiscono un problema serio, perché sono in un certo senso una costruzione artificiosa imposta dal criterio che ha dominato l’ordinamento statale nostro, in rispondenza al fine centralizzatore dello Stato. Questo è tanto vero che il fascismo ad un certo momento, senza reazioni né scompensi di alcun genere, ha creato quindici provincie nuove, ritagliate abusivamente dal territorio di altre provincie. È quindi la provincia una circoscrizione puramente artificiosa, dettata da considerazioni di carattere prevalentemente politico; è un organismo amministrativo sempre centralizzante. Di fronte alla provincia sorge quindi il problema delle difficoltà di carattere pratico, che possono derivare dalla sua soppressione; ma dal punto di vista organico, la provincia non dovrebbe costituire un ostacolo serio per un ordinamento diverso, più logico, più coerente.

Si osserva che le provincie hanno già una tradizione di 70-80 anni. Ma, se si analizza a fondo la posizione delle provincie, ci si imbatte in una situazione di equivoco fondamentale: quando si parla di provincia, in sede di riforma strutturale dell’ordinamento statale, si pensa alla provincia ente autarchico, mentre volgarmente, quando si parla di provincia si pensa alla prefettura. Quali sono gli interessi, le convergenze, che si dicono coalizzate o create intorno alla provincia? Il capo della provincia, nella interpretazione ordinaria, non è il presidente della deputazione provinciale, ma è il prefetto, con tutta la sua burocrazia, con tutte le sue attività, ed è difficile constatare una altrettanto forte confluenza di sentimenti, di aderenze alla provincia come amministrazione provinciale. La provincia in definitiva amministra i manicomi, le strade provinciali, le scuole professionali (che non ci sono) i brefotrofi, la maternità e infanzia (che è anche in compartecipazione con lo Stato). Ora, quando si tratterà di analizzare le funzioni della regione meglio coordinate e meglio disciplinate, tutto questo non sarà sufficiente per legittimare la permanenza di un organismo, quale è quello provinciale, una volta che tutti sono d’accordo sulla soppressione della provincia come prefettura. Lasciare in piedi questa larva di amministrazione provinciale, con le debolissime competenze concrete che ha, sarebbe una esagerazione, rispetto a tutto il rimanente quadro dell’organismo amministrativo che è auspicato.

Né si potrebbero aumentare le competenze della provincia, perché bisogna scegliere: o rimanere attaccati all’ordinamento amministrativo dello Stato com’è, oppure, se si ha il desiderio di rinnovarlo secondo una direttiva più naturale e più organica, si deve avere il coraggio di superare le difficoltà più o meno artificiose di cui si parla in rapporto alla soppressione della provincia. Con questo non si nega che non vi possano essere resistenze da parte di città che si vedrebbero private della loro dignità di capoluogo di provincia; ma non è certo la burocrazia provinciale che dà il grado di superiore decoro ad una città rispetto ad un’altra. E poi, anche in queste città l’istituzione della regione renderà indispensabile la costituzione di un certo organismo decentrato della funzione regionale, il quale sostituisca in maniera più seria e più attiva le forme improduttive finora create per reggere la provincia.

Si vuole, solo per prevenire le eventuali reazioni, che rimanga a queste città la denominazione di provincie, come organi di decentramento della funzione regionale? È questione di nome e di psicologia collettiva, che può essere considerata. Ma bisogna essere concordi nel ritenere che la provincia, come ente autarchico in seno all’ordinamento nuovo, non ha possibilità di sopravvivenza, perché altrimenti si creerebbero dualismi e duplicati sterili, che potrebbero mettere in pericolo la fecondità del nuovo ordinamento regionale.

Le regioni devono essere concepite come organismi naturali, che vanno riattivati, per ragioni storiche, geografiche, linguistiche, per ragioni di costumi, di caratteristiche economiche e produttive proprie, che in Italia più che in qualsiasi altro Paese europeo sono differenziate per la stessa configurazione geografica del Paese. In Francia si può comprendere l’ordinamento statale centralizzato, prescindendo da altre considerazioni, per la struttura del Paese e la sua configurazione geografica; ma in Italia è inconcepibile, per le notevoli differenze specie fra Nord e Sud. Perciò appunto, malgrado il livellamento perseguito durante settanta anni dal potere centrale, la regione ha resistito ed ha una individualità ancora viva e operante che può avere nelle linee marginali delle sfumature più o meno rilevabili, ma che si dimostra ben precisa quando si parla di regioni come il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Lazio, gli Abruzzi, ecc.

Ora è giunto il momento di ricondurre la evoluzione storica sulle sue direttive naturali; e la regione dovrebbe essere un elemento di trasformazione della vita, dello Stato, e soprattutto del costume politico del Paese. La regione deve essere sentita, non soltanto in riferimento alle esigenze strutturali e amministrative, ma anche come affermazione di una esigenza profondamente democratica. Si deve, in essa, vedere un baluardo per le libertà dei cittadini e per le libertà democratiche del Paese.

In contrasto con quello che ha detto l’onorevole Nobile, concorda con coloro che, come l’onorevole Lussu e qualche altro, ritengono che il centralismo statale, così come si era organizzato fino al 1922, sia stato uno dei fattori più efficienti (non l’unico, perché vi sono anche i fattori economici, sociali, ecc.) per la nascita o, se non per la nascita, per l’affermazione trionfale del fascismo. Se il Paese fosse stato ordinato in maniera diversa, si sarebbe potuto avere un tentativo di quel genere, ma non avrebbe avuto la sciagurata fortuna che arrise al fascismo.

Né è, dal punto di vista storico, esatto che il regionalismo, l’autonomismo, siano frutto della disfatta: può essere esatto solo dal punto di vista di una coincidenza casuale. Frutto della disfatta si può dire che è nella misura stessa in cui il fascismo è frutto del centralismo statale. Se vi fosse stato un ordinamento diverso, evidentemente la guerra sciagurata a cui siamo arrivati avrebbe trovato una forte remora nella resistenza e negli interventi di solidarietà diverse, quali potevano essere quelle fra regione e regione, opponentisi alla politica nazionalistica e imperialistica del fascismo.

Anche per le esigenze politiche è quindi favorevole alla creazione dell’ente regione. Ed anche per esigenze di carattere più pratico; per esempio quella della divisione dei poteri, perché pensa alla possibilità di un’organizzazione del potere locale accanto al potere statale, cioè di una divisione dei poteri che è certamente di grande rendimento ed economia. Si può realizzare attraverso la regione, il principio del minimo mezzo. Episodi che sono stati riferiti e che tutti conoscono sono infinitamente illustrativi al riguardo. Una quantità notevolissima di funzioni statali, esercitate o istituite nell’ente regione, evidentemente costituiscono un mezzo più economico per il rendimento politico e amministrativo. È già stato svolto il concetto della maggiore agilità e snellezza nella funzionalità dello Stato che, diminuito di tutte le funzioni amministrative che non sono specifiche sue proprie, può dedicarsi in maniera più ferma e più sicura alle funzioni caratteristiche dello Stato, che sono funzioni politiche nel senso più pieno e più alto della parola.

Si deve ora determinare l’ordinamento della regione.

Tutti concordano nel riconoscere che l’ente regione che si vuole istituire deve essere riconosciuto come un ente autarchico, in quel senso specifico che il Relatore Ambrosini ha indicato, cioè nel senso che abbia propri fini da raggiungere e mezzi adeguati al raggiungimento. Questi fini sono quelli determinati dagli interessi locali che caratterizzano ciascuna regione. Se si pone questa prima specificazione della figura dell’ente regione, le discussioni e le sottilizzazioni sulla competenza legislativa dell’ente regione (cioè sulla sua autonomia vera e propria, perché per autonomia questo logicamente e seriamente si deve intendere) oltrepassano la questione delle necessità intrinseche dell’ente.

Qui bisogna esser chiari ed assumere le proprie responsabilità. Non si può pensare di creare l’ente regione senza dargli la possibilità di raggiungere i fini per i quali viene istituito. E per raggiungere questi fini non basta una potestà legislativa, delegata, secondaria, perché allora rimarrebbe sempre all’ente la camicia di Nesso del centralismo statale, e non si creerebbero dei poteri locali.

Circa la potestà legislativa, richiama le enunciazioni dell’onorevole Grieco, il quale sembra voler riconoscere all’ente regione una potestà legislativa; e si dichiara d’accordo con lui, purché si tratti di potestà autonoma, non delegata, non secondaria, ma primaria, come diceva il Relatore Ambrosini.

Ora, una volta fissati i fini per i quali la regione si istituisce, i suoi obiettivi, le sue funzioni di rinnovamento della struttura politica e amministrativa della nazione, non si debbono lesinare i mezzi necessari allo svolgimento delle sue funzioni, perché altrimenti si compirebbe opera inutile. Quindi potestà legislativa, entro i limiti delle competenze specifiche della regione e nell’ambito dell’ordinamento generale dello Stato. Un altro limite alla potestà legislativa dovrebbe servire, in certo senso, a superare le scrupolose successive specificazioni che a tale riguardo ha creduto di fare il Relatore Ambrosini: il limite naturale è quello dell’interesse locale. È evidente che la potestà legislativa, oltre che rimanere nei limiti dell’ordinamento generale e delle competenze specifiche, non deve andare al di là dell’interesse locale che caratterizza tutto l’ordinamento regionale.

Poi bisogna decidere sugli organi rappresentativi degli interessi locali e del popolo della regione stessa; e qui sorge una questione più sottile, sulla quale bisogna esser cauti nell’assumere una posizione decisa. In riferimento ai concetti specificati sui comuni, si può riconoscere all’Ente regione una funzione rappresentativa anche di tutti i comuni, non soltanto dei cittadini della regione stessa. A questo si dovrà riflettere quando si tratterà di discutere la formazione degli organi dell’Ente regione: se si deve parlare di suffragio diretto, universale ecc., oppure se si deve parlare di una commistione del suffragio diretto con una rappresentanza diretta dei comuni, perché è evidente che la vita locale trova prima una sua specificazione nei comuni e poi una sua integrazione nella regione, e combinare insieme l’uno e l’altro elemento in un sistema organico sarebbe quanto di meglio si potrebbe auspicare.

Si è pure concordi nell’ammettere che, per dar vita all’Ente regione, occorre l’autonomia finanziaria vera e propria, perché se non si pone come premessa fondamentale l’autonomia finanziaria, tutto il resto rimane abbandonato alla discrezionalità del potere centrale. A parte quello che i tecnici della finanza potranno dire al riguardo, un’esigenza è certa, ed è che anche l’ordinamento finanziario della regione dovrebbe trovare il suo collocamento organico nella riforma generale tributaria dello Stato; così come l’autonomia finanziaria del comune, se questo deve essere efficiente e vivo, deve essere pure considerata nel quadro generale di quella riforma.

Occorreranno poi delle forme di controllo. Per i conflitti di competenza tutti sono d’accordo che questi dovranno essere devoluti alla Corte suprema di garanzia.

Sulla forma della costituzione degli organi regionali sembra raggiunto un accordo: Consiglio regionale, Giunta esecutiva, Presidente del Consiglio, Presidente della Giunta. Scarsi consensi ha invece ottenuto l’idea di avere un rappresentante statale nella regione, come un tipo di governatore, o di prefetto, e personalmente egli non è certo favorevole a far ricomparire la figura del prefetto in più vasto raggio e su più vasta sfera. Un ordinamento regionale costituito democraticamente e seriamente è più che sufficiente per garantire le varie funzioni che anche lo Stato ha diritto di esercitare nell’ambito della regione.

Si parte, in fondo, sempre da un falso presupposto, da un residuo; e bisogna che tutti compiano uno sforzo estremamente forte per distaccarsi completamente dalla concezione dello Stato così come si è avuto finora, per aderire ad una concezione nuova, diversa. Ora, anche dal punto di vista della rappresentanza dello Stato nella regione, bisogna tener presente che la legittimità, i poteri dello Stato derivano dalla stessa forza da cui derivano i poteri locali, regionali; onde non si deve fare una discriminazione così sostanziale fra il potere centrale – come se si trattasse di un’investitura per diritto divino – e il potere regionale, che viene costituito sulla stessa base e proviene dalla stessa fonte.

Certamente vi deve e vi può essere una forma di controllo o, se si vuole, di coordinamento, da parte del potere centrale delle funzioni della regione, che possono interferire l’una con l’altra e coordinarsi in un interesse che supera lo stretto ambito regionale. Ma queste sono tutte funzioni integrative che possono essere sviluppate in vario modo, senza necessità di porre nella regione un rappresentante diretto e ufficiale del potere centrale.

Ci sono poi altri controlli, previsti per l’ordinamento dello Stato, come, ad esempio, il controllo sul consuntivo amministrativo della Giunta. Questo dovrà essere affidato al Consiglio regionale, così come il controllo sul consuntivo dello Stato è affidato al Parlamento. Il controllo, invece, sul consuntivo contabile dovrà essere esercitato da una Corte mista di rappresentanti dello Stato e di rappresentanti della regione, perché, qualunque sia il sistema tributario attraverso il quale si possa realizzare in qualche forma l’autonomia finanziaria della regione, sarebbe pressoché impossibile, per le considerazioni svolte dall’onorevole Einaudi, fare a meno di contributi integrativi dello Stato. Se lo Stato, sia pure in base a disposizioni fondamentali, oggettive – come diceva l’onorevole Einaudi – e non sulla base di un capriccio dello Stato stesso o di insistenze da parte di una o dell’altra regione, deve intervenire nella finanza regionale, esso deve avere la possibilità di un controllo diretto. Ogni altra ingerenza però dovrebbe essere esclusa, tranne quella di appositi organi per l’azione contenziosa e giurisdizionale, senza arrivare fino a dare una funzione giurisdizionale alla regione stessa.

Non vuole affrontare la questione e si limita a rilevare che il sistema più logico e pratico è quello di specificare le competenze della regione, lasciando che tutto il resto rimanga allo Stato. Solo su un punto desidera fare un’osservazione: sull’istruzione, circa la quale si sono avute indicazioni divergenti. L’onorevole Grieco ha detto che è un aspetto del problema che andrebbe approfondito, prima di prendere un indirizzo in un senso o nell’altro. L’onorevole Nobile ha detto che affiderebbe l’istruzione elementare addirittura ad un organo mondiale. Crede, invece, che questa sia da restituire ai comuni, perché è una delle forme di attività che devono aderire il più strettamente possibile alle esigenze locali fondamentali. L’istruzione secondaria dovrebbe essere passata all’Ente regione, salvo il compito del potere centrale di indicare i criteri tecnici dell’ordinamento scolastico, lo sviluppo degli studi, ecc. Ma, quando lo Stato abbia stabilito i programmi scolastici, in modo che non vi sia disparità fra regione e regione, l’ordinamento concreto della scuola deve essere lasciato all’iniziativa, alla valutazione della regione. Non vi è necessità, ad esempio, di dare in una regione industriale ampio sviluppo agli studi classici. Per le università e gli istituti superiori si affaccia un altro concetto di autonomia. Non si è fatto un guadagno sottoponendole all’ordinamento unitario dello Stato: nei paesi liberi e democratici le università trovano, nella loro autonomia, un motivo serio e profondo per servire al più ampio sviluppo della scienza. Allo Stato devono rimanere solo le funzioni ispettive ed un controllo attraverso l’esame di Stato, il quale ultimo, in un regime libero, rappresenta una garanzia per gli scopi generali che lo Stato deve salvaguardare.

La discussione ha chiarito molti punti che conducono a questa conclusione: l’ordinamento centralizzato dello Stato deve essere trasformato. Su questo non ci può essere dubbio; e l’ordinamento regionale è il mezzo più efficiente per arrivare a questa trasformazione dell’ordinamento statale; trasformazione che non deve essere considerata come panacea universale, ma deve consentire di rendere più democratica la vita del Paese e, quindi, più efficienti i suoi risultati costruttivi.

La seduta termina alle 20.50.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Ravagnan, Rossi, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.

Erano assenti: Canevari, Leone, Maffi, Porzio.

In congedo: Amendola, Calamandrei, Patricolo, Vanoni.