ASSEMBLEA COSTITUENTE
COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE
SECONDA SOTTOCOMMISSIONE
2.
RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI SABATO 27 LUGLIO 1946
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Discussione sulle autonomie locali
Ambrosini, Relatore – Perassi, Relatore – Presidente – Zuccarini – Einaudi – Targetti – Lussu – Cappi – Bulloni – Fabbri – Conti.
La seduta comincia alle 17.
Discussione sulle autonomie locali.
AMBROSINI, Relatore, premette che, più che fare una relazione, intende semplicemente iniziare la discussione.
Il problema dell’autonomia si affaccia e si impone per riparare agli inconvenienti dell’accentramento, cioè di tutto quel sistema che, per la diffidenza verso le popolazioni e le autorità locali, fu instaurato nel primo momento della unificazione nazionale; inconvenienti che si manifestarono subito e vennero man mano aggravandosi, determinando una situazione che occorre affrontare e superare.
Gli inconvenienti dell’accentramento sono ben noti, e cioè:
1°) la sottrazione degli affari, specialmente amministrativi, a coloro che vi sono direttamente interessati e la loro attribuzione ad organi lontani, centrali, che possono non conoscere affatto le condizioni locali e che comunque dipendono o sono influenzati dai governanti;
2°) la compressione delle energie locali, l’accumulazione delle pratiche al centro, il ritardo nello svolgimento degli affari, la diminuzione della libertà degli enti locali e conseguentemente della popolazione;
3°) circa il funzionamento del Parlamento e la missione del Deputato, l’inconveniente gravissimo è che i rappresentanti della nazione, a causa di questo sistema di accertamento, sono gravati da una infinità di sollecitazioni e di richieste da parte degli elettori, che, non arrivando a veder risolte le proprie pratiche al centro, ricorrono, come usando di un diritto, al loro deputato, il che naturalmente distrae la rappresentanza politica dal compito di curare gli interessi della nazione.
Per eliminare questi inconvenienti bisogna togliere la causa, ed è qui che soccorre il concetto dell’autonomia che, per mezzo di norme adatte, porterebbe:
1°) ad evitare i danni del centralismo statale;
2°) a stimolare e potenziare le energie locali con la partecipazione dei singoli alla vita pubblica;
3°) a stabilire l’equilibrio fra le forze politiche e quindi ad impedire l’abuso del potere e l’eventuale predominio illecito di gruppi politici di gruppi di interessi.
Per raggiungere questi scopi non basterebbe l’istituto del decentramento burocratico, né basterebbe l’istituto del decentramento autarchico, il quale assegnerebbe dei compiti ad un nuovo ente autarchico ma lasciandolo esposto alle pressioni e all’ingerenza del potere centrale e dei governanti. Occorre quindi ricorrere all’adozione dell’istituto dell’autonomia politica regionale.
L’autonomia dell’ente regione dovrebbe intendersi accentrata su un insieme di diritti della regione elevata a persona giuridica; diritti propri, diritti fondamentali sanciti nella Costituzione, e quindi non modificabili o diminuibili con una legge ordinaria e perciò garantita davanti ad una Carta costituzionale.
Si intende che questo sistema presuppone la adozione di un tipo di Costituzione rigida, perché altrimenti mancherebbe qualsiasi garanzia per il funzionamento di tutto il congegno.
La regione è indubbiamente un ente naturale che sta tra lo Stato e i comuni, ed alla quale, se si vuole far sorgere l’ente regione, si debbono attribuire dei compiti, alcuni dei quali sono oggi di spettanza degli enti locali compresi nella sua giurisdizione ed altri dello Stato. Dei compiti di spettanza degli enti locali, possono venire in considerazione quelli che si riferiscono a servizi pubblici i quali, per acquistare maggiore efficienza, hanno bisogno di una circoscrizione più vasta (servizi dell’acquedotto, dell’energia elettrica, ecc.). Ma in concreto, quando si ammette la necessità del cambiamento del sistema attuale e l’adozione dell’istituto regionale, il problema si riduce nel determinare quale caratteristica deve avere la regione ed a quali scopi concreti deve assolvere. E qui bisogna guardare alle funzioni pubbliche ed orientarsi secondo la divisione fondamentale di queste funzioni: quindi la funzione legislativa, quella esecutiva o amministrativa e quella giurisdizionale.
Anzitutto viene in considerazione la competenza legislativa o normativa. Questa competenza, che verrebbe a spettare alla regione, sarebbe di natura diversa da quella che oggi compete a tutti gli enti i quali, in virtù del loro diritto di autonomia, possono darsi delle determinate norme per regolare per lo meno l’esercizio dei loro poteri. Qui si tratterebbe di una competenza legislativa normativa, assegnata alla regione direttamente dalla Carta costituzionale e che perciò, nel caso specialmente di materie affidate alla competenza esclusiva della regione, darebbe luogo all’emanazione di vere e proprie leggi, le quali avrebbero lo stesso valore delle leggi emanate dallo Stato, tanto che, in caso di contrasto, dovrebbe esser consentito alla regione la facoltà di impugnare le stesse leggi dello Stato in difesa della propria competenza.
Detto questo in via generale, bisogna esaminare i gruppi diversi di materie che devono restare necessariamente nella competenza dello Stato e di quelle che possono essere attribuite alla regione. Ma qui basta limitarsi ad alcuni criteri di orientamento.
Vi sono materie che, per la loro stessa natura, riguardano gli interessi generali di una nazione e per le quali non può esservi dubbio che, in qualsiasi evenienza, devono rimanere di competenza dello Stato (rappresentanza all’estero, problemi di politica internazionale, questioni riguardanti la nazionalità, sistema monetario ecc., ecc.).
D’altra parte, vi sono altre materie che, per la loro natura, più si avvicinano al soddisfacimento dei bisogni locali o dei bisogni di determinati gruppi od enti territoriali che non si espandono per tutta la nazione, e che possono esser considerate è trattate con maggior comprensione e rendimento dagli organi locali nell’ambito della loro circoscrizione (per esempio: l’agricoltura, le istituzioni di beneficenza, le strade, gli acquedotti, il regime delle miniere, della pesca, del turismo, ecc.). Questo gruppo di materie attinenti a interessi prevalentemente locali dovrebbe essere attribuito alla competenza della regione in modo esclusivo, cosicché in questo campo la regione potrebbe emanare norme legislative.
Si può raffigurare un terzo gruppo di norme relative a materie nelle quali l’interesse della collettività nazionale è preponderante, ma per le quali può essere utile che gli organi legislativi centrali non vincolino in modo rigido l’esecuzione delle norme nelle singole regioni. Per questo gruppo di materie potrebbe lasciarsi agli organi legislativi centrali dello Stato la facoltà di stabilire i principî fondamentali, ed attribuire invece alla regione la facoltà di dettare le norme di esecuzione, in modo da adattare i principî fondamentali alle particolari esigenze dell’ente locale.
Infine, può raffigurarsi un altro gruppo di materie per le quali si potrebbe stabilire una competenza cosiddetta concorrente; per le quali, cioè, allo Stato spetterebbe in principio il diritto di legiferare, ma si potrebbe concedere alle regioni di dettare norme per mezzo dei propri organi, fino a quando lo Stato non avesse fatto uso della sua facoltà di dettare norme.
Per semplicità si potrebbe fissare l’attenzione sui primi tre gruppi, che in sostanza finirebbero per ridursi a due, perché la potestà normativa della regione determinata dal terzo gruppo si esplicherebbe col dettare norme di esecuzione.
La questione fondamentale consiste nel determinare quelle che sono e devono essere materie di competenza dello Stato e quelle che possono essere materie di competenza della regione. In una Carta costituzionale il problema potrebbe risolversi determinando i gruppi di norme di competenza dello Stato e quelli di competenza della regione, oppure stabilendo soltanto quali sono le materie di competenza della regione, restando sottointeso che in tutte le altre materie la competenza è dello Stato. Probabilmente questo secondo sistema è il migliore.
Si deve aggiungere che sembra opportuno dare alla regione un altro diritto nel campo generale della legislazione. Vi sono dei problemi, delle esigenze che spesso non sono contemporaneamente avvertite da tutta la popolazione dello Stato, perché toccano un interesse particolare di indole sentimentale o puramente materiale nell’ambito regionale. Ora, se si vuole che le regioni partecipino alla vita generale dello Stato, non solo con quel compito normativo che in sostanza finisce per esaurirsi nella regione, ma con un accordo più ampio e quindi con l’affermazione di un senso di maggior fiducia nello Stato e di più salda unità, si potrebbe concedere alla regione la facoltà che si può dire di iniziativa nel campo legislativo, in questo senso: la regione non diventerebbe mai uno degli organi del potere legislativo dello Stato, né potrebbe interferire nell’assoluta libertà e indipendenza del potere legislativo generale; ma nessun inconveniente deriverebbe dal fatto che l’assemblea regionale, avvertendo determinati bisogni, e in vista di interessi che la popolazione della regione può per prima avvertire o sentire, si facesse iniziatrice di una proposta di legge che fosse sottoposta al potere legislativo dello Stato, il quale rimarrebbe assolutamente libero di decidere, ma sarebbe costretto a esaminarla. Non si tratterebbe che di estendere il diritto che può competere a qualsiasi cittadino di rivolgersi all’assemblea legislativa del proprio paese, di sottoporre dei desiderata e di fare anche delle proposte. Questo diritto però acquisterebbe maggior rilievo, non solo dal punto di vista spirituale e politico, ma anche dal punto di vista giuridico, quando si stabilisse che la Camera o le Camere legislative devono, non solo esaminare i progetti che vengono presentati per avventura dall’assemblea regionale, ma anche sentire gli eventuali rappresentanti dell’assemblea regionale che essa reputasse opportuno di inviare al Parlamento per esporre le proprie ragioni.
Dal campo della legislazione passando a quello della esecuzione, è evidente che la regione deve poter esercitare la funzione esecutiva amministrativa per tutte le materie che sono di sua competenza esclusiva e per le altre che vengono a trovare la loro esplicazione nella regione. Può aggiungersi che la regione potrebbe esplicare le funzioni amministrative che sono proprie dello Stato nel caso che questi le delegasse i suoi poteri esecutivi. L’organo centrale può ritenere opportuno servirsi della amministrazione regionale per perseguire quegli scopi che sarebbero in linea di principio riservati alla propria amministrazione diretta, centrale o locale.
Viene infine la funzione giurisdizionale.
La questione qui è molto più delicata, perché l’eventuale attribuzione delle funzioni giurisdizionali alla regione metterebbe quest’ente in una posizione di assoluto primo piano e potrebbe quindi dar luogo alla affermazione di pretesa della regione come Stato.
Non si può giungere ad elevare la regione alla dignità di quello che suole chiamarsi Stato membro di uno Stato federale; ma è opportuno avvertire che vi sono casi di stati, cosiddetti federali, nei quali lo Stato membro ha la potestà legislativa e quella amministrativa, ma non anche quella giurisdizionale. Non è tuttavia il caso di irrigidirsi. Posto il principio, potrebbe ben concedersi alla regione la possibilità di istituire degli organi giurisdizionali per la decisione di ricorsi avverso atti o deliberazioni degli enti locali, congegnando il sistema in modo da non infrangere il sistema generale dell’unità della giurisdizione dello Stato. Si può aggiungere che, per andare incontro ad esigenze e desideri di regioni, si potrebbe adottare una specie di decentramento, con la istituzione nella regione di sezioni anche dei supremi tribunali giurisdizionali ed amministrativi dello Stato. Ma chi voglia attenersi al principio dell’autonomia della regione nel senso qui prospettato non può arrivare all’attribuzione alla regione della funzione giurisdizionale.
La possibilità che si conceda alla regione la facoltà di rendersi iniziatrice di progetti di legge da presentarsi al Parlamento nazionale riguarda la cooperazione della regione alla vita nazionale e naturalmente questo sarà uno dei problemi che dovrà essere esaminato. Circa la partecipazione della regione come tale alla vita nazionale, si presenta pure la possibilità che la regione concorra, anche solo parzialmente, alla formazione della seconda Camera, cioè del Senato. Si accenna qui al problema senza arrivare ad alcuna soluzione; ma indubbiamente, se si avrà la seconda Camera, la partecipazione della regione, anche limitatamente ad un numero di Senatori, potrebbe essere consigliabile.
Viene ora la questione forse più spinosa, quella della finanza della regione. Quando si trasferiscono alla regione delle funzioni, è evidente che bisogna darle pure la possibilità di esercitarle. Vi può essere una finanza esclusivamente regionale? In ogni caso, sarà sempre necessario che vi sia una finanza coordinata. Sorge poi la questione di chi deve disporre l’imposizione e del sistema di erogazione delle spese. Nel caso di regioni povere o impoverite deve poter ammettersi che lo Stato non le abbandoni, perché altrimenti l’istituto dell’autonomia politica finirebbe per danneggiare la regione.
Connesso con quello della finanza è il sistema dei controlli, specialmente quando si abbiano degli apporti da parte dello Stato, perché chi dà il contributo deve accertarsi del modo in cui questo viene effettivamente impiegato.
Altra questione di indole generale relativa all’istituzione della regione è quella del suo territorio. In Italia esistono regioni geograficamente o tradizionalmente determinate; ma bisogna tener presente la necessità che l’ente regione si istituisca in modo da essere vitale e quindi potrebbe sorgere la necessità di non seguire meccanicamente il criterio storico, ma di addivenire a fusioni o cambiamenti consigliati dalla valutazione di particolari interessi. Onde un’altra questione: quale sarebbe il potere competente per operare un eventuale cambiamento nella struttura politico-territoriale della regione? Pare indubbio che non possa essere che il potere centrale, naturalmente, sentita la regione o a richiesta della regione.
Vi è poi il problema degli organi. Si potrebbe dire con semplicità che sarà necessaria un’Assemblea, un Presidente, una Giunta, un Segretario; un Presidente che rappresenti la regione e sia il capo della amministrazione regionale; una Giunta composta da assessori preposti alle varie materie dell’amministrazione. Presidente e assessori sarebbero, naturalmente, nominati dall’Assemblea regionale.
Riguardo all’Assemblea regionale, sorge la questione della sua formazione. Indubbiamente deve essere elettiva: ma con quale criterio? Dal punto di vista generale potrebbe dirsi che la struttura della legge elettorale regionale deve essere demandata alla stessa regione. Potrebbe, d’altra parte, prendersi in considerazione la possibilità che le linee generali di questa legge elettorale fossero determinate nella Carta Costituzionale, come è avvenuto nelle Carte Costituzionali specialmente dell’altro dopoguerra. Tenuti presenti i presupposti che in Italia hanno spinto a propugnare la creazione dell’ente regione, potrebbe affacciarsi la proposta che vengano indicati i criteri fondamentali di elezione dell’Assemblea regionale su basi diverse da quelle della così detta rappresentanza diretta, del suffragio diretto, cioè della elezione fatta da collegi elettorali composti da cittadini indifferenziati. Potrebbe, cioè, affacciarsi la proposta che, per dare alla regione un carattere tutto particolare, a seconda delle sue esigenze, sia opportuno evitare quel sistema di elezione a suffragio diretto che porta concretamente la lotta elettorale sul terreno delle ideologie politiche dei partiti; la proposta che l’Assemblea regionale venga costituita sulla base di un sistema generalmente chiamato della rappresentanza degli interessi, così che nell’Assemblea regionale si rispecchiassero la struttura economico-sociale e gli interessi della regione. In tal modo i rappresentanti sarebbero maggiormente legati alla cura di quegli interessi e si affermerebbe nell’Assemblea regionale un principio diverso nel modo di valutare gli interessi particolari.
Per quanto si riferisce all’Assemblea regionale e alle norme da essa emanate, corre l’obbligo di esaminare alcuni quesiti.
Anzitutto: può l’Assemblea regionale essere sciolta? Qui si dovrà vedere quello che sarà deciso al riguardo alla prima Camera ed eventualmente anche alla seconda. Se si afferma la possibilità che l’Assemblea regionale sia sciolta, da chi potrebbe provenire l’ordine di scioglimento e, eventualmente, in quali circostanze?
Altro quesito si riferisce alle leggi votate dall’Assemblea regionale. In linea di massima dovrebbero essere senz’altro operative; ma può prospettarsi la questione se sia utile che vengano comunicate agli organi dello Stato e se sia ammissibile che gli organi centrali dello Stato avanzino un diritto di veto. Comunque, dato il sistema di divisione delle competenza tra Stato e Regione, è indubbio che, come spetta alla Regione il diritto di ricorrere ad un organo giurisdizionale (una corte costituzionale, o un organo misto, a seconda che la Carta costituzionale sarà per deliberare) avverso le disposizioni degli organi centrali dello Stato che interferiscano nei limiti della sua competenza e la violino, così è naturale che spetti agli organi centrali dello Stato la possibilità e il diritto di ricorrere avverso le leggi emanate dall’Assemblea regionale, che per avventura si reputi abbiano invaso il campo di competenza dello Stato.
Riguardando poi il problema più largo dei rapporti tra Stato e Regione, sorge il quesito: il governo dello Stato avrà un suo rappresentante nella Regione? Il Presidente della Regione può essere investito della rappresentanza dello Stato? E, comunque, il Presidente della Regione può essere chiamato a partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri nelle quali si discuta un argomento che interessi specialmente la Regione, senza naturalmente avere voto deliberativo?
Vi è poi la questione degli enti e delle istituzioni che esistono nella circoscrizione della Regione. Se si vuole modificare il sistema di accentramento attuale, non può consentirsi che si istituisca un sistema di accentramento regionale; quindi deve affermarsi nell’ordine della Regione quel principio della libertà degli enti territoriali ed istituzionali locali, i quali devono poter perseguire i loro fini liberamente a mezzo di organi elettivi. Ma su questo punto non è applicabile il concetto di autonomia politica, così come è stato delineato nei riguardi della Regione: qui può trattarsi semplicemente dell’applicazione del principio comune dell’autarchia, del ritorno all’antico sistema, con quelle modificazioni e quegli adattamenti che siano richiesti da un maggior riconoscimento della libertà locale e dell’istituzione dell’ente regionale. Basta il ritorno, in sostanza, all’antico principio dell’autarchia come libertà dell’ente territoriale o dell’istituzione di perseguire liberamente i suoi scopi e di perseguirli (perché qui si esplica il principio della libertà e del governo libero locale) per mezzo di organi eletti direttamente dagli interessati, con quelle facoltà di controllo che, pur limitate, potrebbero sembrare sempre opportune per evirare lo straripamento degli enti locali e più ancora la faziosità degli amministratori.
Tra gli enti locali, quello che maggiormente viene in discussione e per cui più grave è la controversia, è la provincia.
Bisogna distinguere la provincia come ente autarchico e come circoscrizione amministrativa. Resterà la provincia come ente autarchico? E qui c’è da domandarsi: se la Regione verrà ad avere dei compiti, taluno dei quali può essere sottratto a quelli degli enti locali, dato che la provincia come ente autarchico ha compiti ben limitati, quali di questi le resterebbero? Ancora: se si applica maggiormente il principio e la tendenza a formare consorzi tra comuni, anche limitatamente a determinati scopi e a singoli interessi, quale è il campo di azione che resterebbe alla provincia? Ed allora, data questa situazione, varrebbe la pena di conservarla o non sarebbe più utile sopprimerla come ente autarchico?
Quanto alla provincia come circoscrizione amministrativa (prefetture) la questione è ancora più delicata. Dovrebbe quest’organo, nel caso che fosse conservato, diventare un organo regionale? La soluzione, in un senso o nell’altro, potrebbe dipendere dal fatto che si stabilisca nella capitale della regione un rappresentante del Governo centrale o che il Presidente della Regione sia a sua volta investito delle funzioni e dei compiti come rappresentante del Governo centrale per la cura di quegli affari che restano allo Stato anche nell’ambito regionale.
Riguardo al Comune, non può esser dubbio che si tratta di un ente intangibile perché è proprio quello in cui si accentrano tutti i bisogni locali, che sono i bisogni rudimentali per i quali è nato questo aggregato, per i quali esso ha acquistato un insieme di poteri è di organi, la personalità giuridica e un diritto di ordinanza.
La questione più grave è quella dei controlli. Può lasciarsi agli amministratori dei Comuni la libertà assoluta? Da tante parti si è chiesto, e forse giustamente, l’abolizione del controllo di merito, attraverso il quale potevano esplicarsi, ed effettivamente si esplicavano, influenze ed ingerenze illecite. Il controllo di legittimità potrebbe restare, come potrebbe restare il controllo ispettivo. Indubbiamente (e la questione qui si riattacca al mantenimento o all’abolizione dell’ufficio del prefetto) si potrebbe anche pensare all’abolizione di tutti questi congegni e alla messa in efficienza del semplice diritto comune, che è sostanzialmente il sistema tradizionale dell’Inghilterra. Pur nella varietà della distribuzione di circoscrizioni territoriali, tutti gli enti locali inglesi godono della più assoluta libertà e non sono sottoposti ai controlli che da noi sono diventati tradizionali, e se gli organi degli enti locali – siano borghi, contee o città – esorbitano dalla sfera della propria competenza o violano i diritti di taluno, si mette in moto il diritto comune, cioè chiunque può ricorrere ai giudici ordinari. È da vedere se questo sistema potrebbe, per lo meno in tutta la sua interezza, trovare applicazione nel nostro Paese. Può darsi che sia più opportuno mantenere alcuni degli istituti tradizionali, ma corretti e adeguati in modo da non dar luogo agli inconvenienti, danni, incidenze, prepotenze e corruzioni che finora purtroppo si sono lamentati.
Concludendo: tutti i problemi che si riferiscono agli enti che esistono o che possono crearsi come enti territoriali o enti istituzionali nell’orbita della circoscrizione regionale vanno esaminati in un secondo momento e comunque sono subordinati alla direttiva generale che si seguirà per il problema fondamentale, che consiste nel riconoscimento o meno delle regioni dotate di personalità giuridica, con attribuzione di diritti propri, sanciti nella Carta Costituzionale, e quindi non modificabili con leggi ordinarie e conseguentemente garantiti col ricorso ad una Corte costituzionale.
(La riunione, sospesa alle 18.15, è ripresa alle ore 18.30).
PERASSI, Relatore, constata che la relazione del collega Ambrosini è esauriente nel modo più assoluto; anzi, è andata oltre quel che era richiesto, sia perché il Relatore è sceso a considerare utili particolari, sia perché ha fatto conoscere alcune sue preferenze personali. A prescindere da questo, sta in fatto che nella relazione Ambrosini tutti problemi sono stati posti, dai più generali ai più particolari. Non rimarrebbe pertanto che precisare sinteticamente quali sono gli aspetti da considerarsi al fine di prendere una posizione.
Il problema si accentra, soprattutto, sulla opportunità di creare in Italia l’ente «regione» e di determinarne le competenze. A questo riguardo il punto più importante consiste nel determinare la competenza legislativa. E qui si pone questa considerazione: se sia il caso di procedere a questa determinazione della competenza in via diretta o in via indiretta, cioè in relazione alla competenza dello Stato.
Senza entrare nel merito, perché qui si tratta di prospettare soltanto le due formule, queste possono essere: l’una, determinare le materie nelle quali la competenza legislativa è riservata allo Stato; l’altra, inversa, determinare direttamente la competenza della regione, senza fare una elencazione di competenze dello Stato.
Resta poi, come idea centrale da esaminare, quella di determinare in che senso e in che limiti la regione eserciterebbe la sua funzione legislativa. Qui si hanno due ipotesi: legislazione su materie determinate con una competenza piena, nel senso che in queste materie ogni regione possa fare proprie leggi con piena libertà, salvo soltanto i limiti determinati da alcuni principî costituzionali inseriti nella Carta Costituzionale dello Stato; oppure legislazione regionale, la quale dovrebbe svolgersi nell’ambito della legislazione statale, che, rispetto a certe materie, dovrebbe limitarsi a fissare i capisaldi, rendendo possibile alle singole regioni di avere una legislazione di adattamento alle condizioni locali.
Questi sono i punti fondamentali.
Naturalmente, il problema della regione si connette soprattutto al problema dell’ordinamento tributario. Anche qui, prescindendo dai particolari, possono escogitarsi diversi sistemi: il sistema di una finanza regionale autonoma, nel senso che la Costituzione determini essa stessa quali sono le fonti di imposizione per la finanza regionale; e il sistema, nettamente opposto, secondo cui le regioni, avendo la competenza tributaria più larga, concorrono alle spese dello Stato mediante contingenti. Comunque, è certo che il problema dell’ordinamento tributario e della coordinazione della finanza regionale con la finanza dello Stato è fondamentale. In ogni caso, nella Costituzione alcuni principî dovrebbero essere posti in maniera netta, allo scopo di disciplinare questa coordinazione e di evitare inconvenienti.
Altro punto è quello di sapere se tra le materie da lasciarsi alla competenza legislativa della regione entri anche l’ordinamento degli enti locali. E vi è un altro aspetto di questo problema: vedere in che modo debbano funzionare ed entro quali limiti i controlli sugli enti locali; se attraverso la regione o attraverso lo Stato.
Anche il problema della giurisdizione è stato accennato ampiamente e può avere diverse soluzioni: la regione può avere una giurisdizione propria in talune materie; la sua funzione giurisdizionale può essere limitata al campo amministrativo.
Per quanto concerne l’organizzazione della regione, si pone una domanda pregiudiziale: la Costituzione deve fissare essa stessa i criteri dell’organizzazione regionale, oppure questa materia può essere lasciata alla legislazione regionale; o i due sistemi si possono combinare? È possibile concepire che la regione abbia una organizzazione i cui principî siano fissati nella Costituzione, ma che, tuttavia, la Costituzione lasci alle singole regioni la facoltà di integrare questi principî mediante una legge organica, che renda possibile eventualmente nella regione l’adozione di certi istituti; per esempio l’istituto del referendum.
Lasciando da parte per il momento l’esame dei problemi più dettagliati, l’attenzione della Sottocommissione dovrebbe fissarsi sui problemi fondamentali: istituzione della regione; competenza legislativa, determinata o no dalla costituzione.
PRESIDENTE crede opportuno limitare la discussione intorno a questo tema iniziale: se l’ente regione debba esistere e debba entrare nell’ordinamento dello Stato, oppure no.
ZUCCARINI ha ascoltato con molta attenzione la bellissima relazione dell’onorevole Ambrosini che ha prospettato il problema della regione sotto tutti i suoi aspetti.
Si richiama ad una precedente proposta che non fu accettata, ma che poi è ritornata in questa Sottocommissione nella discussione sul problema delle autonomie.
La creazione dell’ente regione è una delle soluzioni del problema delle autonomie; ma è una conclusione, non una premessa: il problema delle autonomie locali è fondamentale, e in certo modo indipendente dalla soluzione del sistema regionale. Per poter arrivare alla soluzione regionale, era indispensabile porsi il problema centrale dell’organizzazione dello Stato. E per passare alla struttura dello Stato, importa molto definire i pilastri della costruzione statale che si dovrà articolare. Questo non è stato fatto, e non si sa quali saranno le conclusioni della prima Sottocommissione. Può avvenire che la seconda formuli delle conclusioni che male si concilieranno con la parte elaborata dalla prima Sottocommissione; come può avvenire il contrario. Il problema dell’organizzazione dello Stato è unico e deve essere risolto armonicamente. Se non si stabiliscono preventivamente i limiti delle funzioni che si intende attribuire allo Stato, il tipo cioè dello Stato verso cui occorre orientarsi, tutte le altre discussioni diventano inutili.
Il problema del comune è oggi in Italia il primo che si deve affrontare. Il comune, nella sua struttura essenziale può restare quello che è?
In questa Sottocommissione occorre stabilire anche, soprattutto, quali limiti di competenza e di attività si vogliano assegnare al comune. I comuni devono avere tutti lo stesso regolamento, la stessa struttura? O si deve invece dare ai comuni quella autonomia, che consenta loro di modificare la propria struttura interna, secondo le varie situazioni e necessità ed anche secondo le diverse entità; secondo, ad esempio, che siano di mille o di due milioni di abitanti? Non basta dire che si vuol riservare ai comuni certe facoltà; bisogna vedere se i comuni possono darsi, ciascuno, una struttura diversa, secondo i bisogni. Ci sono comuni rurali, comuni in parte rurali ed in parte urbani; ci sono dei grossi agglomerati, che devono avere una costruzione diversa.
Questa parte, a suo avviso, doveva essere affrontata anzitutto. Stabilito cosa devono essere i comuni, cosa possono fare, in quale raggio di azione possono svolgere la loro attività, si potrà pensare al raggruppamento dei comuni nella regione.
Quando si incomincia con lo stabilire di voler creare la regione, viene la domanda se essa debba essere un libero raggruppamento di comuni o di consorzi di comuni.
Il problema della provincia si pone anche così: finora si è avuta una circoscrizione ben limitata, molte volte contraria agli interessi locali che dovrebbe tutelare e rappresentare, e soprattutto con limitate attribuzioni. Ora, nella nuova struttura dello Stato, la provincia potrà costituirsi in altra forma, come consorzio di comuni per i servizi più larghi destinati agli interessi comuni?
Quando sia Stabilito quali libertà si vogliono riservare al comune e quali funzioni esso deve avere nella vita nazionale, allora si può anche parlare della regione.
La regione deve essere delimitata, organizzata quasi, dallo Statuto, oppure, stabiliti alcuni criteri di massima sui limiti di competenza dei comuni? Si intende, ad esempio, lasciare ai comuni la facoltà di modificare la loro struttura, di avere cioè nella regione una diversa consistenza, più larga o più ristretta secondo le necessità?
Non si deve poi dimenticare che, quando si vuole affrontare il problema della regione, ci si trova di fronte ad alcune esigenze e richieste di determinate regioni d’Italia. Esse non sono tutte eguali; ci sono regioni classiche, ci sono regioni sulla cui formazione ci può essere molto da dire; ci sono regioni piccolissime, come la Val d’Aosta. E allora nell’affrontare il problema della regione si deve tener conto anche di altre necessità: queste esigenze sono state in parte soddisfatte con statuti e concessioni provvisorie, che magari saranno soggette a modifiche, ma che, essendo state date, non possono essere più tolte. Quindi, nell’affrontare questo problema, si deve tener conto dello stato di fatto. C’è uno statuto per la Sicilia, più o meno approvabile; ce n’è uno in progetto per la Sardegna; ce n’è uno per l’Alto Adige, su cui i Trentini e gli Alto-atesini non sono d’accordo (c’è chi pensa di fare dell’Alto Adige una sola regione e chi vuole distinguere la provincia di Trento da quella di Bolzano, anche con una diversa organizzazione interna); c’è poi lo statuto provvisorio della piccola Val d’Aosta; ci sono un po’ dappertutto esigenze e richieste precise. Quindi, risolto il problema fondamentale del comune, esaminando quello della regione, si deve cercare di conciliare lo stato di fatto con la nuova struttura dello Stato.
Ma è un problema particolare questo? È un problema che si può assegnare ad una sezione, mentre tutte le altre funzioneranno per loro conto?
Così in tutti gli altri problemi affidati alle Sottocommissioni. Le diverse possibili strutture dello Stato – Stato che si formi dal comune al Governo centrale o inversamente dal centro alla periferia – portano a soluzioni diverse. Anche le questioni della divisione dei poteri, della prima e della seconda Camera, degli organi costituzionali per la interpretazione del diritto costituzionale, sono tutte questioni di autonomia. In fondo, in alcune Nazioni sono state risolte creando dei poteri autonomi, i quali si controllano a vicenda, per eliminare l’invadenza dell’uno o dell’altro potere. Anche questo è problema di autonomia, che ha soluzione diversa, secondo che si parta dalla periferia verso il centro, o dal centro verso la periferia.
Ecco perché una discussione preliminare sarebbe stata necessaria.
Circa le altre questioni particolari prospettate dall’onorevole Ambrosini in merito alla regione, ha alcune idee, specialmente su quella della finanza, che non concordano con quelle del Relatore, e si riserva di discuterle successivamente. Sul momento intendeva prospettare il problema delle autonomie non come un tema particolare di tutta la struttura dello Stato, ma come problema capitale.
EINAUDI si associa all’apprezzamento molto favorevole fatto da tutti i colleghi alle relazioni.
All’onorevole Zuccarini osserva che non conviene fermarsi sul punto: quale degli argomenti debba essere trattato prima; la regione o il comune o l’ordinamento generale dello Stato. Le sue esperienze in materia di elaborazione di testi legislativi, che risalgono ad un quarto di secolo, lo hanno condotto alla conclusione che l’essenziale è cominciare da un punto qualsiasi e redigere uno schema. Sarebbe conveniente che i Relatori preparassero uno schema articolato; forse alla fine della discussione gli articoli che ne usciranno saranno diversi da quelli presentati; non per questo la fatica dei Relatori sarà stata meno meritoria. Poi si dovrà armonizzare i risultati della seconda Sottocommissione con quelli delle altre, e probabilmente alla fine quello che nascerà sarà del tutto diverso da quello che provvisoriamente era stato approvato. Ma, seguitando a domandarsi quale argomento debba essere discusso prima, si finisce col non discutere nulla. Dal punto di vista metodologico non c’è un argomento più importante di un altro; bisogna pur cominciare da qualcuno.
Passando a qualche osservazione specifica, afferma che, se si vuole istituire la regione, si deve abolire la provincia, perché, se si aggiungesse la regione alla provincia, si moltiplicherebbero gli uffici e i gravami fiscali.
Per la determinazione della competenza di questi organi, occorre tener presente che noi non siamo nella situazione di un gruppo di Stati che intendono federarsi. In questa situazione – come è avvenuto in Svizzera e negli Stati Uniti d’America – gli Stati che si federano determinano essi quali sono le competenze che intendono attribuire al Governo federale e riservano a sé tutte le altre. Noi invece partiamo dallo Stato unitario, che intendiamo mantenere, ed allora la soluzione migliore è che siano attribuite dalla Carta costituzionale alla regione determinate competenze e che la regione non ne abbia nessuna di più di quelle stabilite dall’atto costituzionale. Ciò non impedisce che quando si sia constatato che le regioni dànno buona prova, si possano, con emendamenti successivi, ampliare i poteri delle regioni. L’altra via, per la quale si tratterebbe di lasciare all’ente regione la facoltà di fare tutto salvo quello che è attribuito allo Stato, al momento attuale gli pare pericolosa.
Rispetto alla finanza crede che si debba tener conto dell’esperienza, la quale dimostra che qualunque tentativo sia stato fatto di specificare le imposte da assegnare ai comuni, alle provincie o alle regioni e in genere agli enti minori è andato a vuoto, perché ha urtato contro un ostacolo essenziale; qualsiasi sistema preciso di attribuzione di un gruppo di imposte agli enti locali si dimostra o insufficiente o esuberante. È sempre accaduto così, ed è impossibile che una preordinata distribuzione delle fonti tributarie tra l’ente Stato e gli enti minori possa soddisfare allo scopo della sufficienza: non si può mai prevedere se le spese della regione potranno essere coperte da quelle imposte. Quindi il sistema è da scartare, e conviene piuttosto fare qualcosa nel senso di negare alla regione la facoltà di stabilire taluni tipi di imposta che, se la regione potesse usarli, li userebbe in senso dannoso all’interesse collettivo. Per esempio, se le si attribuisce il diritto di stabilire molte imposte indirette, come dazi, imposte sui consumi ecc., pur senza volerlo, si crea un sistema di mercato chiuso, che sarà di impedimento al traffico interregionale. Se un principio fermo deve essere scritto in una Costituzione, questo è che sia negato a qualsiasi ente locale il diritto di mettere qualsiasi impedimento al traffico tra una località e l’altra. Deve essere invece attribuita alla regione una certa lata facoltà di stabilire le imposte che non sono negate espressamente.
Ma è certo che si verificherà un inconveniente. È probabile che le imposte che possono essere stabilite diano un gettito insufficiente, specie nelle regioni meno progredite. Questa previsione, derivante dalla esperienza, potrà forse suggerire il modo di sostituire, nella regione come nella provincia o nel comune, qualche cosa ai controlli preventivi esercitati da parte dell’autorità centrale, come prefetti, giunte provinciali amministrative, ecc. Bisogna ammettere che qualche ente locale abusi dei proprî poteri e allora quali saranno i correttivi? Per le regioni che non hanno da chieder nulla allo Stato, possono essere soltanto quelli d’ispezione; e le ispezioni devono continuare ad esser fatte dalle autorità centrali, a mezzo di ispettori volanti, inviati da un’autorità competente centrale, come il Ministero dell’interno, il Ministero delle finanze, la Sanità pubblica. E quali sanzioni dovrebbero avere i risultati negativi che determinassero il biasimo degli ispettori? Non ve ne è altra all’infuori dell’appello agli elettori. I risultati delle ispezioni sono pubblici, e saranno gli elettori che, in base ad essi, si decideranno a non rieleggere gli amministratori colpevoli. Per le regioni, invece, e per i comuni per i quali le imposte assegnate sono insufficienti e che hanno da chiedere qualche cosa allo Stato, bisogna pensare a qualche altra sanzione in aggiunta a quella del ricorso agli elettori, e questa sanzione evidentemente prende nome di norme relative alla concessione di un contributo dallo Stato alla regione.
La questione dei contributi è delicatissima e forse nessun Paese è mai riuscito a risolverla. Quando lo Stato dà contributi agli enti minori che non hanno entrate sufficienti, tutti gli enti minori finiscono per chiedere sempre contributi all’ente centrale, e in questa situazione non vale stabilire in qualsiasi modo l’autonomia: gli enti locali dipenderanno dall’ente centrale che li sovvenziona. La soluzione che è stata trovata dopo molti esperimenti – si può pensare agli esperimenti svizzeri e inglesi – è quella che il contributo non sia stabilito a priori a libito delle autorità centrali, ma siano invece stabiliti dei criteri oggettivi in base ai quali l’ente locale abbia diritto ad un certo contributo. Per esempio, un municipio povero, perché la sua popolazione è scarsa, la ricchezza per testa è insufficiente, il reddito delle imposte molto basso, non potrà avere scuole al di là della seconda o della terza elementare: se si vuole che superi questo limite, è necessario un contributo. Il contributo viene allora dato in funzione di una considerazione oggettiva.
Ricorda qui di aver conosciuto un ufficiale inglese della Commissione alleata, antico segretario comunale di un comune inglese, che aveva assunto poi un altro ufficio: le sue funzioni erano di introduttore delle esigenze dei comuni presso il Ministero dell’interno, la Sanità pubblica o la Camera dei comuni per ottenere di volta in volta un atto privato, un atto speciale. Funzione giuridica, non lasciata all’arbitrio dell’autorità centrale; funzione certamente non perfetta, ma che soddisfa una esigenza giuridica: quella di eliminare l’arbitrio dell’ente centrale, il quale esercita il suo controllo sulla base di norme stabilite per legge, che non possono essere violate né dal potere centrale né da quello locale.
Circa la questione dell’elettorato, di cui è cenno nella relazione Ambrosini, dichiara di essere contrario a qualunque forma di elettorato professionale, che, a suo avviso, costituirebbe un enorme errore nella nostra legislazione. Ma è una questione generale su cui non intende dilungarsi.
In materia di elettorato una certa larghezza di criteri dovrebbe essere lasciata agli enti locali, in quanto negli enti locali ciò che importa di stabilire è il legame diretto fra comuni o regioni ed elettori. Non può essere elettore nella regione e nel comune il primo venuto: occorre che abbia dato prova con una residenza di un certo numero di anni, di non essere una persona che, stando lì quasi di passaggio, determini col proprio voto delle norme che saranno poi obbligatorie per quelli che risiedono sul posto in permanenza, mentre lui se ne sarà andato via. Quindi la possibilità di limitare il diritto elettorale, senza alcuna distinzioni di opinioni, di culto, di razza ecc.; ma relativamente alla durata dei rapporti che intercedono fra l’abitante del comune o della regione e il diritto elettorale. Il cittadino italiano ha diritto di votare sempre, perché è cittadino italiano, ma per il comune un rapporto temporale, anche di piccola durata, deve essere tenuto presente.
Su un altro punto importante richiama un recente volume dell’Olivetti, che, fra molte affermazioni forse un po’ fantastiche, ha un’idea che può essere accolta anche in misura limitata, sperimentalmente: quella della «comunità» (parola non appropriata). L’Olivetti quando parla di «comunità» probabilmente vuole riferirsi a qualche cosa di simile ai distretti nelle provincie del Veneto, minori del circondario e maggiori del mandamento. Esiste infatti una certa circoscrizione, la quale non è il comune, e di gran lunga non è la provincia; una circoscrizione che si raggruppa intorno ad un mercato, ad una cittadina di diecimila abitanti, per esempio. Questa risponde ad una situazione più propria dell’Alta e Media Italia che non dell’Italia Meridionale. Nell’Italia Meridionale esistono grosse città che raggruppano moltissimi abitanti, mentre nell’Italia Settentrionale vi sono molti borghi di tre-quattro-cinquemila abitanti, vi sono comuni di mille-millecinquecento abitanti che non hanno i mezzi per vivere, né li avranno mai e non potranno mai mantenere complessi servizi; onde la necessità di un qualche cosa che raggruppi tutti questi piccoli comuni che gravitano intorno ad un mercato centrale, che sarà un mercato economico, ma potrebbe anche essere un centro giudiziario; sarà la cittadina che è sede del tribunale o dove si trovano gli uffici del registro, delle imposte, ecc., o della pretura. Per molti servizi, come ad esempio quelli del medico condotto, del veterinario ecc., questa circoscrizione può essere attuata, se non nella maniera concepita dall’Olivetti, in modo più ristretto, in forma sperimentale, quasi di consorzio: ma l’idea non deve essere abbandonata.
Per gli enti minori è favorevole all’idea del referendum. Un po’ conservatore per tradizione, relativamente poco per le cose economiche, ma molto per le cose tradizionali, ha constatato che il referendum è un organo di conservazione di tutto ciò che è tradizionale, a cui gli abitanti tengono e che invece molte volte gli uomini politici, credendo di innovare a vantaggio della popolazione, vogliono distruggere. Il referendum, per esempio nella Svizzera, porta quasi sempre ad emendamenti di progetti di legge che sono stati votati qualche volta ad unanimità dai Grandi consigli dei Cantoni o dai consigli comunali. Così è avvenuto, per esempio, nel 1944, con un referendum nel Canton Ticino, proprio sull’elettorato. Tutto il Canton Ticino aveva votato in favore di un allargamento dei criteri dell’elettorato; ma gli elettori respinsero il disegno di legge, perché tenevano molto a che gli elettori nei comuni fossero persone che essi conoscevano, che erano vissute sul posto almeno per un certo numero di anni. Il corpo elettorale spesso risponde negativamente quando si tratta di cose che toccano le tradizioni famigliari, le istituzioni fondamentali di carattere morale, a cui molto tengono gli elettori, i quali in questa materia credono poco alle innovazioni.
Circa la giurisdizione, dubita molto della opportunità di estendere alla regione il diritto di avere una giurisdizione propria. Crede che questo urti contro l’esperienza anche di quei Paesi, nei quali si avevano tribunali locali. È una esperienza che si è fatta nella Svizzera in forma moderata, negli Stati Uniti in forma clamorosa, perché il gangsterismo nord-americano ha trovato alimento nella impotenza delle autorità di polizia e delle autorità giudiziarie federali. Perciò oggi in tutti gli Stati federali c’è la tendenza a restringere l’autorità degli organi giudiziari, della polizia locale, e aumentare l’autorità della polizia centrale. Per la stessa ragione tecnica per la quale tutti sono d’accordo che le ferrovie, le poste e telegrafi, ecc., siano di spettanza, per il loro regolamento, delle autorità centrali e non di quelle locali, si riconosce che, per praticamente amministrare la giustizia e la polizia, è assolutamente necessario che queste siano di spettanza dell’autorità centrale e non delle autorità locali.
Ciò conforta ancora la tesi che in materia di autonomia, condizione essenziale nel nostro Paese, è quella di stabilire tassativamente in precedenza quali siano le materie di competenza delle autorità locali; tutte le altre spettano all’autorità centrale. Via via, fatta la necessaria esperienza – nessuna Costituzione è perfetta – tali competenze potranno essere allargate o ristrette.
Rinnova in ultimo il desiderio che, dopo le relazioni, siano formulati degli articoli, che si possano esaminare e discutere uno ad uno, salvo a rivederli ancora in rapporto a quelli che, sulle altre materie, saranno formulati dalle altre Sottocommissioni.
TARGETTI osserva che si è parlato della regione e si sono esposte idee varie sopra le diverse facoltà, da attribuire a questo ente regionale. Ma si domanda se nessuno abbia qualche cosa da obiettare sull’opportunità di costituire questo ente.
PRESIDENTE ricorda di aver già fatto presente che questo è il problema che deve essere preliminarmente risolto. Finora coloro che hanno parlato si sono manifestati più o meno favorevoli alla costituzione dell’ente regione o hanno implicitamente rivelato di tollerarne la costituzione, forse avvertendo che non se ne può fare a meno. Ma vi sono altri iscritti a parlare. Perciò, pur rendendosi conto del desiderio dell’onorevole Einaudi che si abbia un testo di articoli, sui quali discutere e raccogliere le idee, crede che ciò sia prematuro e che si debba intanto continuare questa discussione di carattere generale.
LUSSU, per la sua esperienza politica che rimonta pure a quasi un quarto di secolo, crede di poter esprimere alcune considerazioni di chiarimento alla discussione che si deve fare.
Ritiene che, malgrado tutto, il sistema adottato sia il migliore e il più redditizio perché, dopo questa discussione, in cui sarà chiarito bene il problema nei punti fondamentali, sarà possibile in una riunione plenaria della Commissione stabilire un indirizzo sufficientemente illustrativo del lavoro al quale occorre accingersi.
Constata che il Relatore onorevole Ambrosini ha prospettato con obiettività, pur rivelando la sua simpatia per una forma di trasformazione dello Stato a base autonomistica, tre ipotesi: quella dell’accentramento statale, quella delle autonomie su base unitaria e finalmente quella dello Stato federale. Circa la centralizzazione statale il Relatore ha accennato appena al problema se debba rimanere oppure no; ma è chiaro che il centralismo statale, così com’è oggi, non risponde né alle esigenze né alle aspirazioni del paese. La critica dello Stato centralizzatore è in tutti i partiti, anche se si differenzia nelle singole zone; onde è da ritenere che la prima ipotesi possa essere trascurata.
Le altre due ipotesi: stato federale (al quale il Relatore ha accennato appena) o stato autonomistico su basi unitarie, sono quelle che si debbono considerare.
Desidera da parte sua e ritiene anzi suo dovere fare qualche considerazione, sia pure rapida, sulla prima, perché appartiene da molto tempo alla corrente politica federalista; una corrente che si ha in vari settori politici, che però non parlano esplicitamente di federalismo per una certa riluttanza a parlare di questo argomento.
Partendo dal concetto dell’unità nazionale, che sente con la stessa intensità di qualsiasi altro, partendo da un principio ispirato ad un maggiore potenziamento di tutte le forze del Paese – affinché l’Italia risorga dalla condizione miserabile in cui il fascismo l’ha piombata e torni ad essere una grande Nazione che, dopo avere civilizzato se stessa, porti un suo afflato di civiltà al mondo – deve dichiarare che segue la concezione federalista in quanto si sente fortemente italiano. Il federalismo, a suo avviso, rappresenta la corrente che pone l’antidoto ai mali che hanno condotto il paese fino alla avventura del fascismo e della guerra; rappresenta l’antitesi di quel centralismo da cui sono derivate la corruzione parlamentare, la sopraffazione del centro sulla periferia, lo strapotere della burocrazia e infine la stessa corruzione e decadenza sulla democrazia. Così come molti temevano che la Repubblica fosse un salto nel buio, mentre ora si vede che è stato un passo magnificamente fatto con le scarpe ai piedi e con gli occhi aperti, così oggi si ha paura del federalismo e non se ne parla, o se ne parla con una certa preoccupazione. Ma un salto nel buio, se mai, è stato il passaggio improvviso da una vita italiana che non era più unitaria da tanti secoli, ad una formazione di Stato burocratico centralizzato. L’unitarismo dei Giacobini in Francia fu storicamente logico, perché i Giacobini avevano ereditato lo stato unitario di Luigi XIV. In Italia, invece, se una eredità storico politica si è avuta, è stata quella dei vari stati in cui era diviso il paese, ed avrebbe dovuto condurre all’unità federale. Invece, si è creato uno stato centralizzato, che ha imposto la sua organizzazione statale a tutto il Paese. Senza voler fare una critica al sistema burocratico piemontese, non vi è dubbio che la burocrazia piemontese si è impadronita dello Stato ed ha imposto il suo sistema amministrativo a tutta l’Italia: cosa irrazionale, antistorica, da cui è derivata quella corruzione sulla quale è inutile insistere.
Il federalismo pertanto rappresenta, malgrado le diffidenze, malgrado i pericoli che molti ritengono gravi, l’aspirazione dell’opinione più consapevole del Paese e di quella parte del Paese che ha sofferto di più. Pur rispettando il pensiero di coloro che sono su un’altra linea politica, ritiene che il federalismo sia l’espressione della profonda sofferenza del Paese nel passato e l’aspirazione ad una radicale trasformazione.
Lo Stato che dovrà federarsi è la regione. Tante regioni più o meno caratterizzate costituiscono in Italia quello che in Isvizzera è il Cantone; quello che negli Stati Uniti è lo Stato federato; la base della organizzazione federale.
Da taluni si obietta che il federalismo si è avuto come sviluppo storico di fatti che hanno indotto stati preesistenti a federarsi. Così in Svizzera alcuni Cantoni si sono riuniti, hanno concluso un patto federale e vi hanno giurato fedeltà. Successivamente altri Cantoni hanno aderito alla Federazione che si era formata. Qualche cosa di simile è avvenuto in America. Ma, dicono gli avversari del federalismo, in Italia un processo verso il federalismo oggi sarebbe del tutto antistorico, perché l’Italia è costituita in stato unitario e non si parte dallo stato unitario per spezzettarlo e farne uno stato federale.
Senonché è possibile riferirsi all’ultimo esperimento di formazione di uno Stato federalista in Europa, che dimostra esattamente il contrario: lo Stato federale austriaco è sorto dal crollo dell’impero Austro-ungarico e alla fine della prima guerra mondiale si è organizzato con le popolazioni di lingua tedesca dell’ex impero e si è organizzato federalisticamente pure partendo da una regione austriaca unitaria. Caso tipico che sta a dimostrare appunto che si può passare da uno Stato non federale ad uno Stato federale.
Ed a ragione questo dovrebbe avvenire in Italia, ove si hanno alcune regioni che, dal punto di vista soprattutto geografico, non possono essere che Stati federati. Si riferisce principalmente alla Sicilia e alla Sardegna, e più alla seconda che è totalmente distaccata dal territorio nazionale. La Sardegna è più lontana da Roma di quanto non lo sia Malta da Londra, tanto che tale isolamento crea esasperazioni psicologiche che portate sul terreno politico si potrebbero definire aberrazioni. Accanto a queste due regioni ve ne sono altre, come la Calabria, l’Emilia, il Piemonte, la Toscana, l’Umbria, gli Abruzzi, il Molise e altre che hanno caratteristiche proprie che le differenziano sostanzialmente l’una dall’atra. Ed è da aggiungere che nella Val d’Aosta si parla il francese; che vi è la situazione della zona attorno a Bolzano; onde si deve concludere che, se in Europa vi è un Paese in cui si abbia la premessa logica di una organizzazione federale, questo è indubbiamente l’Italia.
Al centro rimarrà quello che deve rimanere in uno Stato moderno democratico: la direzione e la rappresentanza di una grande Nazione; l’essenziale insomma, tranne quella infinita serie di problemi che spettano solamente alla periferia e che il centro non ha alcun diritto di vedere né da vicino né da lontano.
La questione federalistica italiana deve essere concepita come potenziamento della civiltà italiana, e perciò egli la sente con grande passione. Nella organizzazione attuale la burocrazia al centro è la detentrice di tutto il potere. I funzionari sono in buona fede, molti di essi sono onesti e intelligenti; ma la burocrazia, in sé, è la negazione della vita, dell’amministrazione, dell’attività civile moderna. E tutto questo non si trasforma se non si trasforma tutta l’organizzazione dello Stato.
Forse la questione federalistica non sarà sentita dalla maggioranza: sarà un problema sollevato da una minoranza all’Assemblea. E allora, se la maggioranza non sarà per il federalismo, bisognerà vedere il problema dell’autonomia.
Venendo a questa, dichiara di concordare con l’onorevole Zuccarini sull’importanza del comuni, ma crede opportuno esaminare ora il problema dell’ente regionale; ciò che non pregiudica il problema dei comuni. In fondo, la regione è una federazione di comuni; quindi, il procedimento più razionale per l’utilità delle discussioni è quello che si è adottato.
Si afferma convinto che la provincia debba sparire perché, oltre che inutile, è dannosa. Chi ha fatto parte dei consigli provinciali sa che la provincia si occupa solo delle strade, dei manicomi e di poche altre cose: tutto fa la prefettura. La vita e la morte della provincia sono nelle mani del prefetto – il barone – che è il rappresentante dello Stato centralizzatore, con la sua burocrazia che sopprime ogni possibilità di vita, stronca ogni iniziativa con un boicottaggio permanente.
Si deve riconoscere che le popolazioni del Mezzogiorno e delle Isole sono terribilmente arretrate: perciò uomini intelligenti esulano da quei paesi. La corruzione, l’ignoranza, l’analfabetismo derivano non in piccola misura dal prepotere dei baroni imposti dal Governo centrale. Se non scomparissero le prefetture, tanto varrebbe conservare lo Stato centralizzatore: non si realizzerebbe alcun progresso.
Per quanto riguarda le elezioni nell’ambito della regione, ha una certa riluttanza a che siano fatte sulla base della rappresentanza di interessi: crede che non si possa evitare il prevalere del pensiero politico e, quindi, del partito politico.
Problema serio è quello delle finanze. Nelle regioni molto povere le finanze costituiranno un problema a sé grave. La Sardegna, per esempio, è un Paese estremamente povero, dove c’è chi muore letteralmente di fame. Ma lo Stato accentratore aggrava enormemente la situazione. Le grandi compagnie industriali e commerciali che lavorano in Sardegna hanno la loro sede fuori della Sardegna ed eludono il pagamento delle imposte locali, sottraendo all’Isola centinaia di milioni all’anno.
Quest’Isola, estremamente povera, ha però alcune fonti di ricchezza: le miniere, e lo Stato accentratore gliele sottrae. Ha le tonnare, e le tonnare sono concesse come un diritto feudale al marchese di Villamarina. Ha le saline, e lo Stato gliele toglie. Bisogna ridare alla Sardegna la possibilità di sfruttare per sé le scarse fonti di ricchezza di cui dispone.
Concludendo, si domanda ancora se debba esistere un organo intermedio fra la regione e il comune, se la provincia cioè debba essere o meno soppressa e, se soppressa, se debba o meno essere sostituita. Non ritiene giustificato il fermento che si manifesta in molti capoluoghi di provincia, per il timore di perdere di prestigio con la soppressione della provincia; il prestigio le città principali lo hanno indipendentemente dall’essere o meno un capoluogo di provincia; viene loro dai traffici, dai commerci, dalla posizione geografica, ecc.
CAPPI, rifacendosi a quanto ha detto precedentemente l’onorevole Perassi, osserva che la discussione attuale dovrebbe considerarsi preliminare, in modo da permettere alle singole sezioni di iniziare proficuamente il loro lavoro ed afferma che, senza entrare in dettagli, la Sottocommissione dovrebbe vedere quale debba essere, a grandissime linee, la struttura del nuovo Stato.
Sono state prospettate tre soluzioni, e cioè:
1°) mantenere la struttura dello Stato accentrato;
2°) stato federale. E qui bisogna vedere fino a qual punto debba arrivare l’autonomia dei singoli Stati e quali vincoli dovranno stabilirsi tra stato e stato della federazione;
3°) creazione dell’Ente regione, cioè di un ente giuridico che abbia certi poteri e certe competenze.
Ritiene che la Sottocommissione debba decidere in linea generale quali delle tre soluzioni sia da accettare, senza allargare la discussione, lasciando poi alle singole sezioni il compito di un esame più approfondito.
BULLONI osserva che, decisi i punti principali, sarebbe conveniente pregare i relatori di abbozzare un progetto particolare, così come è stato richiesto dal senatore Einaudi, da sottoporre alla Sottocommissione nella prossima seduta.
PRESIDENTE è d’opinione che la discussione non sia stata ancora abbastanza esauriente perché possa già arrivarsi a questa formulazione.
FABBRI gradirebbe che i fautori dell’istituzione dell’ente regione specificassero le materie che particolarmente dovranno essere di competenza di un tale ente. Siccome forse non si può fare a meno di essere d’accordo nel concetto che, istituita la regione, debba essere la Carta costituzionale a stabilire quali sono le materie specifiche di competenza della regione stessa, rimanendo tutto il resto delle materie di competenza dello Stato, ritiene che la discussione debba chiarire quali dovranno essere le funzioni della regione e quali i mezzi finanziari a disposizione dell’ente regione per raggiungere gli scopi prefissi. Osserva che in tal caso inevitabilmente per alcuni servizi si avrà una tendenza legislativa perfettamente opposta a tutto quello che era stato fatto prima. Si richiama in particolare alla materia mineraria, per la quale si è riconosciuto di aver realizzato un enorme progresso allorché si è arrivati all’unificazione di tutta la legislazione, prima frammentaria e diversissima fra le varie regioni d’Italia. La stessa cosa è stata fatta in materia di acquedotti, e in tutte le altre a questo connesse. Ora, se la materia mineraria, degli acquedotti ed anche delle concessioni elettriche dovesse essere di competenza della regione, si andrebbe inevitabilmente a ritroso rispetto a quello che finora è stato il movimento dell’unificazione amministrativa nazionale.
Ritiene necessario, nel caso di istituzione dell’ente regione e di conseguente soppressione totale o parziale delle provincie, stabilire quali debbano essere le materie da attribuire all’ente, e quali soprattutto i mezzi finanziari per farvi fronte.
CONTI considera necessario, ma prematuro, un progetto con l’articolazione degli argomenti. Ora il problema, di carattere pregiudiziale, è quello di precisare in linea di massima quali competenze dovranno essere attribuite alla regione. A questo scopo sarebbe opportuno, a suo avviso, nominare un Relatore o una ristretta Commissione di studio, con l’incarico di riferire alla Sottocommissione.
PRESIDENTE propone che la Sottocommissione continui lunedì 29 alle 17 la discussione sull’opportunità o meno di creare il nuovo organo regionale e, in caso affermativo, sull’opportunità di formare soltanto un organo amministrativo o di attribuirle anche poteri politici.
(Così rimane stabilito).
La seduta termina alle 20.30.
Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mannironi, Mortati, Nobile, Patricolo, Perassi, Piccioni, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Tosato, Uberti, Zuccarini.
Erano assenti: Castiglia, Leone, Maffi, Porzio, Ravagnan.
In congedo: Amendola, Calamandrei, Vanoni.