Come nasce la Costituzione

SABATO 27 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxxxv.

SEDUTA DI SABATO 27 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Svolgimento di mozioni (Seguito):

Saragat

Ronchi, Alto Commissario per l’alimentazione

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 11.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Svolgimento di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito dello svolgimento di mozioni.

L’onorevole Saragat ha facoltà di svolgere la seguente mozione, firmata anche dagli onorevoli Canevari, Zagari, Vigorelli, Simonini, Persico, Piemonte, Villani, Cartia, Lami Starnuti, Cairo:

«L’Assemblea Costituente, considerati la gravità della crisi economica del Paese ed i preoccupanti sviluppi della situazione internazionale, ritiene necessaria una nuova formazione di Governo più rispondente di quella attuale agli interessi solidali della Nazione e delle classi lavoratrici. Conseguentemente nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno».

SARAGAT. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho l’impressione che il problema che si dibatte in questa Assemblea, in questo momento, va al di là delle sorti del Governo. Tutti noi sentiamo oggi che maturano sul piano nazionale e sul piano internazionale degli avvenimenti ancora più gravi di quelli attuali. E tutti sentiamo che i prossimi mesi possono essere decisivi per la storia dell’Europa e pertanto per la storia del nostro Paese.

È innegabile che c’è nell’aria come una preoccupazione diffusa e c’è il desiderio, in molti, di vedere quale è la formula politica che offrirebbe maggiori garanzie al Paese per metterlo al riparo dalle possibili tempeste di domani. È chiaro quindi che da parte dei partiti politici c’è un tentativo di prendere posizione, non tanto di fronte a questo Governo, quanto di fronte a quella eventuale nuova formazione che le circostanze potrebbero suggerire di dover fare.

Noi abbiamo udito ieri il discorso di Nenni; abbiamo creduto di vedere in quel discorso il tentativo di estrarre dalla situazione presente i lineamenti di una nuova politica, ma questa preoccupazione, questa presa di posizione ci è parsa ancora più evidente nel discorso, più importante, dell’onorevole Togliatti. Il discorso dell’onorevole Togliatti non è stato, in fondo, un attacco violento contro questo Governo; si è limitato ad attaccare un settore della politica, la politica del Ministro dell’interno. L’onorevole Togliatti si è preoccupato soprattutto di confutare la tesi di coloro i quali pensano che nei prossimi mesi il partito comunista può avere una funzione eminente sui banchi dell’opposizione e forse non potrebbe averla sui banchi del Governo.

Questa impostazione dell’onorevole Togliatti prova come anche da parte comunista, anzi principalmente da parte comunista, ci si preoccupi di delineare la fisionomia di una possibile nuova formazione di Governo. Naturalmente, il Governo si difenderà, come è naturale che faccia; ma possiamo dire che, fin da ora, l’opinione pubblica è già orientata su un altro problema. L’opinione pubblica non si preoccupa tanto di sapere se questo Governo rimarrà in carica oppure sarà abbattuto, quanto di vedere se si potrà estrarre da questa Assemblea una nuova formazione politica, se da questo dibattito si potrà delineare qualche cosa che il Paese, in fondo, attende e che si ha l’impressione che risponderebbe meglio agli interessi del Paese e delle classi lavoratrici.

È quindi col proposito di portare un contributo a questo esame, che tutti gli uomini politici e tutti i partiti oggi fanno, che il nostro gruppo interviene in questo dibattito e vi interviene con una sua mozione di sfiducia.

Vedete; se noi avessimo dovuto discutere la mozione di sfiducia dell’onorevole Nenni, ci saremmo trovati in questa curiosa situazione: parafrasando una espressione dello stesso oratore in occasione di una crisi precedente, noi avremmo dovuto dire no al Governo e no alla mozione di sfiducia. No al Governo per le ragioni che spiegherò in seguito, no alla mozione di sfiducia Nenni per un dissenso reale che ci separa non tanto dalle parole degli oratori dell’estrema sinistra, quanto dalle cose che stanno nascoste dietro queste parole.

Si è notato – e ci voleva poco a notarlo – che esiste un dissenso fra le opposizioni di sinistra; si è notato che queste opposizioni vanno all’attacco del Governo in ordine sparso. Ci voleva poco, ripeto, a notarlo. L’onorevole Lombardi del Partito d’azione deplora questa situazione e crede che dipenda unicamente dalla mancanza di un programma comune. Evidentemente c’è anche questo, è chiaro; ma c’è qualche cosa di più, c’è un dissenso di carattere politico.

Noi non intendiamo qui sollevare questo dissenso per inasprire quello che già ci separa; ma unicamente perché il Paese ha diritto di sapere perché oggi l’opposizione non è unita in questa battaglia e poi perché questo esame è anche utile da un altro punto di vista. Secondo il fine che ci proponiamo, di cercare di delimitare una nuova posizione politica, è bene si sappia quali sono le forze che si possono raggruppare per una certa azione e quelle che, più principalmente, potrebbero unirsi a noi.

Perché le opposizioni di sinistra non hanno potuto mettersi d’accordo? Quando noi ascoltiamo un discorso di alto tono, come quello che ha pronunziato ieri l’onorevole Togliatti, non possiamo sottrarci ad un doppio sentimento: da un lato ad un sentimento di ripulsione e dall’altro ad un sentimento di ammirazione. Un sentimento di repulsione per un certo tono che esiste nel suo discorso e che ci ha lasciato credere che le parole non corrispondano al suo convincimento profondo; un senso di ammirazione quando sentiamo che l’oratore diventa eloquente e che parla di cose che sente veramente.

C’è stato un punto del discorso che mi ha veramente commosso: quando l’oratore ha parlato del problema dei salari, quando ci ha fatto vedere come la classe lavoratrice italiana ha fatto un passo avanti. Egli ci ha fatto vedere che questa classe lavoratrice ha inteso come il problema del salario non sia un semplice rapporto tra padrone e lavoratore, ma si inquadri in una lotta più vasta. Abbiamo udito un oratore che sente profondamente ciò che dice ed in quel punto è stato veramente eloquente. E la ragione di questa ammirazione che sentiamo per questi uomini dell’estrema sinistra deriva da questo fatto: sappiamo che dietro questi uomini c’è una parte importante della classe lavoratrice italiana: i dirigenti comunisti questo lo sanno e ne usano e qualche volta anche ne abusano, come se fossero essi soli ad avere un seguito di lavoratori. In realtà, tutti i partiti democratici sono invece partiti di lavoratori: non parlo soltanto dei socialisti. Il gruppo comunista rappresenta 105 deputati su 556 e non voglio credere che il popolo italiano sia costituito da un quinto di lavoratori e da quattro quinti di fannulloni.

Io mi sono mescolato giorni or sono alla folla imponente di cittadini convenuti in Roma, attrattivi da ideali ben lontani dal comunismo: ebbene io ho constatato che si trattava di veri, di autentici lavoratori. Ma, detto questo, debbo pur riconoscere che il nucleo più compatto della classe lavoratrice è dietro ai comunisti ed è per questo che noi li rispettiamo profondamente.

Queste sono cose che per un socialista hanno grande importanza, anche se i comunisti dimenticano qualche volta che fra i socialisti vi sono pure persone degne del loro rispetto. Noi non porteremo comunque il nostro discorso con spirito polemico contro di essi; ma si ricordino almeno questo: si ricordino che abbiamo combattuto tanti anni insieme nelle lotte contro il fascismo.

E ci limiteremo a soggiungere, ci limiteremo a domandar loro se essi veramente pensano – e forse lo pensano – che la fedeltà verso la classe lavoratrice si commisuri dal successo immediato che un determinato movimento politico, un determinato partito può riportare o meno. Se, per la verità, c’è un partito il quale proprio non dovrebbe credere a questo è precisamente il partito comunista, il quale, come è noto, alle origini aveva ben scarso seguito ed anche oggi, in alcuni Paesi, non si può dire che abbia un seguito notevole. Non è dunque, non può essere dunque per il fatto che vi siano milioni e milioni di organizzati dietro un determinato partito, che si deve pensare che quel partito abbia il monopolio della fedeltà alla classe lavoratrice.

Io credo si debba usare un altro criterio, credo cioè che si debba tener conto della difesa che un partito fa degli interessi permanenti della classe lavoratrice. (Applausi a sinistra). Quali sono questi interessi? Questi interessi sono, a mio avviso, essenzialmente tre. Il primo è costituito dalla difesa della pace, il secondo dalla difesa delle pubbliche libertà, il terzo dalla lotta economica per salvare le classi lavoratrici stesse dalla miseria.

Se noi, dunque, ci poniamo ad esaminare la condotta dei singoli partiti in rapporto a questi tre obiettivi, allora soltanto avremo un criterio veramente sicuro per valutare il loro grado di fedeltà alla classe lavoratrice. E allora vedremo come il partito, il modesto partito che io ho l’onore di rappresentare, non sia secondo a nessuno in questa fedeltà.

E se un dissenso esiste, compagni comunisti, fra voi e noi, esso è precisamente in rapporto ad una diversa valutazione intorno al modo di servire la pace, intorno al modo di servire le pubbliche libertà, di lottare concretamente contro la miseria. Ma veniamo al concreto. Se noi ci poniamo ad esaminare la politica dell’estrema sinistra – e ripeto che questo esame io mi accingo a fare unicamente in funzione dell’obiettivo che mi sono prefisso, per vedere cioè di delineare una nuova configurazione politica, una nuova azione di governo – se noi dunque, dicevo, ci poniamo ad esaminare questa politica dell’estrema sinistra, noi scopriamo facilmente quale sia il suo difetto essenziale, quello che gli impedisce di fare veramente, come essa crede, gli interessi della classe lavoratrice italiana in questo momento. Noi vediamo che la politica dell’estrema sinistra è subordinata ad un criterio fondamentale, che è questo: l’estrema sinistra pensa che tutti i problemi della vita dello Stato, oggi, devono essere subordinati al problema della conquista del potere. Questa formula è stata tradotta, in modo lapidario, dall’onorevole Nenni, quando ha detto: «Dal Governo al potere».

Ebbene, questa formula, che apparentemente si direbbe che risponda veramente agli interessi delle classi lavoratrici (che cosa di più suggestivo può esserci, per un operaio del sentirsi dire che deve andare al potere?), è quella che, a mio avviso, ha compromesso la marcia in avanti della classe lavoratrice italiana in questi ultimi tre anni. Infatti, come sono andate le cose in questi ultimi tre anni?

Noi possiamo dire questo: che tutta la storia del Governo tripartitico, in cui i partiti di estrema sinistra erano rappresentati, non è che la storia di partiti di sinistra i quali hanno lasciato il corpo per l’ombra; il corpo, cioè le riforme concrete che avrebbero potuto realizzare giorno per giorno, per il miraggio di un potere che pensavano di poter esercitare poi in modo egemonico da soli. Così è avvenuto che oggi si rischia di non avere il potere e di non avere nemmeno le riforme concrete che la classe lavoratrice avrebbe potuto realizzare in questi ultimi tre anni.

Noi, invece, più modestamente, non inalberiamo questa formula della conquista egemonica del potere, ma pensiamo di poter più concretamente servire la classe lavoratrice, proponendo ogni giorno la soluzione di un problema concreto; e pensiamo che così si potrà veramente avviare la classe lavoratrice ai fastigi del potere.

Ma oltre a questa divergenza di politica generale, altre divergenze ci separano, tanto sul piano della politica estera che su quello della politica interna. E anche qui si vedrà chi veramente serve gli interessi della classe lavoratrice.

Per quanto riguarda la politica estera, non è stato un caso, onorevoli colleghi, che in questa Assemblea, in occasione della ratifica del Trattato di pace i nostri voti si siano separati da quelli dell’estrema sinistra. Era una valutazione diversa che noi davamo agli interessi del popolo italiano. Ma non voglio approfondire questo aspetto del problema. Più grave, invece, mi pare la divergenza sorta tra noi e loro nei confronti del piano Marshall. E anche qui si tratta di vedere chi serve meglio gli interessi della classe lavoratrice italiana.

Io intendo tutte le ragioni dell’estrema sinistra e i timori, in parte giustificati, dell’estrema sinistra per un possibile controllo dell’economia americana sull’economia europea. Ma a me pare che la posizione da essi assunta non sia una posizione costruttiva e non corrisponda agli interessi del nostro Paese. Tutti sanno che il popolo italiano ha bisogno di una certa quantità di grano, di carbone, di materie prime; e tutti sanno che queste materie prime non possono venirci che dagli Stati Uniti. Eppure la posizione che l’estrema sinistra ha preso di fronte a questo problema è stata una posizione negativa, di critica totale, radicale; quando, invece, un esame un po’ più serio delle cose avrebbe potuto benissimo permettere di trovare una soluzione di compromesso.

Il piano Marshall rappresenta, per un Paese come l’America, l’alternativa di pace di un problema che avrebbe potuto anche risolversi con un’alternativa di guerra; è un tentativo di arrestare la marcia dei movimenti totalitari in Europa, aiutando l’Europa a risollevarsi sul piano economico. E mi pare che interesse dj tutti coloro che hanno veramente a cuore lo sviluppo della classe lavoratrice, la difesa della pace, sia di favorire lo sviluppo dell’economia europea, appunto per impedire il sorgere di movimenti a carattere totalitario, i quali provocherebbero fatalmente una guerra.

C’è chi pensa in realtà che non ci sia, in materia di politica estera, più nulla da fare, perché i giochi sono già fatti, e c’è chi si installa in una situazione ipotetica, per cui il mondo sarebbe già diviso in due blocchi ostili; e vi si installa, non già perché sia compiaciuto di questa situazione, ma perché pensa che veramente non ci sia altro da fare che schierarsi con l’uno o con l’altro. E allora si dice che è donchisciottesco ostinarsi a pensare, come noi pensiamo, che ci sia una terza via.

Io invece sono perfettamente convinto che questa terza via esiste; e basterà guardare con maggiore serenità i problemi internazionali per vedere che c’è sì un blocco orientale, che c’è un’America, ma c’è in mezzo un’Europa che non dipende affatto né dall’uno né dall’altra. Il che significa che esiste ancora una possibilità di creare per questo continente una fascia protettiva, una zona di pace, purché lo si voglia. Dunque non è vero che vi sia una situazione di scelta fra l’uno e l’altro blocco. C’è una terza via, che è quella che noi indichiamo al popolo italiano. Chi sta difendendo la pace? Chi indica questa terza strada, oppure chi dice che non c’è che da schierarsi o per l’uno o per l’altro?

Ora io penso che non si lavori per la difesa della pace e per la difesa delle classi lavoratrici, anche se si affermi di essere fedeli alle classi lavoratrici, quando, come ha fatto un oratore di estrema sinistra, l’onorevole Nenni, si dice alla classe lavoratrice che, se ci sarà una guerra, il nostro posto è già scelto, perché sarà una guerra fra sfruttatori e sfruttati.

Ma io penso che si inganna la classe lavoratrice dicendo queste cose, perché se una guerra ci sarà, gli sfruttati saranno da entrambi i lati! (Applausi). Sarà una guerra in cui il proletariato russo si troverà a battersi contro il proletariato inglese e americano sotto la direzione sapiente dei signori di Wall Street, dei Lord d’Inghilterra e degli enigmatici burocrati di Mosca. Questa è la situazione obiettiva! Io credo che non si difenda la pace proponendo una scelta tra i due blocchi, ma la si difende e la si serve indicando questa terza via che è una via di ricostruzione dell’Europa su basi democratiche e pacifiche.

E poi c’è il problema della politica interna. Anche qui vi sono dissensi seri che ci separano dall’estrema sinistra. Ci sono due problemi: il problema della difesa delle pubbliche libertà e il problema della ricostruzione economica.

Difesa delle pubbliche libertà: ho detto nella prima parte di questa mia breve esposizione che quando sento parlare l’onorevole Togliatti provo insieme un sentimento di ammirazione e uno di avversione. Un sentimento di avversione ho provato ieri quando ho sentito che parlava in difesa della pubblica libertà, e dirò subito perché. Certo che le critiche che egli ha mosso al Governo sono giustificate e penso che il Governo debba provvedere; ma che valore volete che abbiano le vostre giuste critiche e le vostre giuste proteste sulla libertà democratica e sulla libertà di riunione quando non c’è uno – dico uno – dei compagni del nostro Gruppo il quale non si veda ogni giorno, nei pubblici comizi, messo in condizioni, da parte dei comunisti di non potere esercitare questa pubblica libertà che è la libertà di riunione? (Applausi).

D’altro canto molti nostri compagni, i quali rivendicano quel diritto che l’onorevole Togliatti giustamente riafferma, di fare della politica nelle fabbriche, se ne trovano impediti. Eppure essi non pretendono altro che di portarvi la voce della democrazia socialista come avrebbero fatto Turati, Treves e Buozzi. No; questo non lo possono fare! (Applausi).

E quando voi esaltate – giustamente – la difesa dei sacrosanti diritti dell’opposizione, che valore posso io dare a queste vostre parole quando, il giorno stesso, io vedo nei vostri giornali l’apologia di un cappio che ha strozzato una libera voce?… (Applausi a sinistra, al centro e a destra).

Ma è tutta l’impostazione politica, che voi date, che mi pare non corrisponda agli interessi della classe lavoratrice. Voi praticate nella politica interna una curiosa tattica; voi parlate da un lato di unità, unità generica, e poi nella sostanza delle cose praticate una politica di blocco di sinistra, la quale fatalmente tende a riprodurre sul piano nazionale quella stessa divisione di blocchi che minaccia oggi il mondo sul piano internazionale.

Voi proiettate sulla situazione interna una situazione che esiste già sul piano mondiale e che noi consideriamo dannosa agli interessi della democrazia. In realtà questa vostra politica non fa che isolarvi progressivamente e, quando ieri Togliatti parlava, gli applausi erano limitati al vostro settore. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Alla politica di blocchi di sinistra, che noi respingiamo, potrà rispondere, a più o meno breve scadenza, una politica dei blocchi di destra. Ma voi pensate che questo possa giovare gli interessi della classe lavoratrice? Non lo pensate.

Voi ponete il problema della collaborazione al Governo e siete nel vostro pieno diritto, però dovete domandarvi in coscienza se non state facendo di tutto per offrire argomenti ai vostri avversari. Voi fate dell’ironia sulla posizione di un partito come il nostro che si ostina a difendere l’ultimo margine di autonomia che ancora resta nel nostro Paese. È facile fare dell’ironia. Ma noi crediamo che soltanto se questo margine di autonomia si allargherà, in modo da comprendere tutta la Nazione, si potrà salvare l’avvenire del nostro Paese.

Quando io sento dire da molti: il mio partito avrà successo, il mio partito non avrà successo, io dico che il problema è mal posto. Il giorno in cui in Europa i partiti socialisti dovessero scomparire, l’Europa sarebbe alla vigilia di un avvenimento molto ma molto grave.

Io ricordo una frase famosa che un oratore francese, Briand, un giorno disse alla Assemblea di Ginevra: «Bisogna veramente che gli uomini muoiano perché la gente si renda conto che avevano ragione?».

Noi potremmo dire: bisogna davvero che questi partiti di democrazia socialista che ancora ci sono in Europa scompaiano, perché l’Europa si renda conto di che cosa rappresentavano per la difesa della libertà, della democrazia e della pace? (Applausi).

Ed ecco perché noi, preoccupati della difesa, degli interessi permanenti della classe lavoratrice abbiamo posto come obiettivo della nostra politica un Governo a direzione socialista. Noi sappiamo che oggi non esistono ancora le condizioni obiettive per questa forma di Governo, ma noi abbiamo aggiunto nel nostro ultimo convegno, che non avremmo fatto nulla che avesse potuto turbare il processo di sviluppo verso la realizzazione di questo nostro ideale, che avremmo invece fatto di tutto per avanzare in questa direzione.

Noi vediamo con preoccupazione di fronte a noi un Governo di centro-destra, ed abbiamo l’impressione, anzi la convinzione che, se non sorge da questa Assemblea una forza profondamente democratica di sinistra, la quale sia in grado di poter modificare il corso delle cose, questo Governo sarà fatalmente trascinato, per la logica stessa degli avvenimenti, ancor più verso destra. So benissimo che l’onorevole De Gasperi risponderà riaffermando la sua fedeltà ai principî democratici, ma ci sono situazioni in cui la forza delle cose è più forte della volontà degli uomini. La logica del vostro Governo vi spinge fatalmente verso posizioni che domani potranno allontanarvi molto dallo spirito democratico del popolo italiano. La critica quindi che muoviamo a questo Governo, è una critica di carattere economico, ma anche di carattere politico. E quando noi parliamo di critica di carattere economico, non ci riferiamo particolarmente all’azione dell’onorevole Einaudi. Sarebbe di pessimo gusto rendere responsabile l’onorevole Einaudi di una situazione di cui è responsabile tutto quanto il Governo. Sono certo che il Governo non cercherà di fare dell’onorevole Einaudi un capro espiatorio, come già avvenne per l’onorevole Corbino. Del resto ci sono alcuni provvedimenti che ci fanno riconoscere che l’onorevole Einaudi ha agito da perfetto democratico. Ma è tutta l’impostazione della politica governativa sul piano economico e sociale che dobbiamo considerare come negativa dal punto di vista degli interessi permanenti del Paese. E la critica di questo Governo, se avrete pazienza di ascoltarmi, la farò nell’atto stesso in cui verrò esponendo le linee di un’azione costruttiva, quella stessa che abbiamo proposto con il discorso dell’onorevole Tremelloni di qualche mese fa e che non fu accettata; azione costruttiva che non è campata in aria, ma che è nella possibilità nostra di realizzare, solo che sorga da questa Assemblea una forza politica consapevole. E pongo senz’altro il problema, che fu trattato con sufficienza alcuni mesi fa dalla stampa italiana, ma che oggi attira l’attenzione di tutti: il problema della pianificazione.

Ma c’è voluta la spinta del piano Marshall per far vedere al mondo che qualche cosa non funziona più nel sistema liberista. Con le leggi del liberismo noi finiremo per avere tutte le fabbriche chiuse e la carestia in larghe zone del nostro Paese.

Dico subito che la posizione del nostro partito, nei confronti della politica economica che dovrebbe essere svolta in Italia per evitare l’aggravarsi della crisi attuale, non è determinata da astrattismi o finalismi, ma da una visione concreta e seria del problema.

Noi pensiamo – e su questo penso che tutti possiamo essere d’accordo – che è necessario raggiungere prima di tutto una maggiore efficienza nella produzione, una maggiore velocità negli scambi, una maggiore giustizia nella ripartizione, un maggior coordinamento nell’organizzazione dell’intero processo economico. Ma che cosa dobbiamo fare per arrivare a questi risultati? Non voglio riprendere la controversia sollevata dai sostenitori dell’economia liberistica e dai sostenitori dell’economia controllata. Però vi è un fatto positivo che nessuno potrebbe negare, ed è questo: che dopo la seconda guerra mondiale qualche cosa di nuovo si è determinato nel meccanismo dell’economia del mondo, qualche cosa di nuovo si è determinato nell’economia europea; e nessuno potrebbe negare il fatto concreto che assistiamo ad un rafforzamento quasi da per tutto dell’economia controllata, dell’economia collettiva e ad un indebolimento delle posizioni dell’economia liberistica.

Quasi tutti i Paesi d’Europa hanno un loro piano economico nazionale: lo hanno i Paesi dell’Europa orientale – ed alcuni sono notevoli, particolarmente quello cecoslovacco – lo hanno i Paesi dell’Europa occidentale, come la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda, i quali controllano degli immensi imperi coloniali, ed hanno rapporti di scambio assai più intensi del nostro con gli Stati Uniti d’America. E malgrado le difficoltà che tali piani incontrano, malgrado le reazioni di varia origine che essi incontrano nella loro applicazione, noi osserviamo che questi piani hanno dato modo ai Governi, che li hanno applicati, di potere controllare la situazione economica dei loro rispettivi Paesi. E abbiamo visto come con questi piani si siano potute stabilizzare certe aree territoriali europee. E, senza volere avanzare pronostici superficiali e prematuri, per quanto concerne il piano Marshall, possiamo affermare che esso riflette non soltanto i bisogni reali di tutta l’Europa, ma che è dal successo o meno di questo piano che dipende la possibilità o meno per l’Europa di ricostruire la sua economia.

Ma come sarà possibile, onorevoli colleghi, inserire l’economia italiana nel quadro della più vasta economia europea e mondiale, se noi perseguiamo in questo momento direttive, che sono agli antipodi di quanto avviene in tutti i Paesi dell’Europa e del mondo? Come sarà possibile fare sentire il nostro peso politico, il nostro peso economico, difendere saggiamente i nostri interessi, dedurre i più vantaggiosi risultati dalle quote a noi assegnate, se il potere pubblico non dispone della organizzazione, della documentazione e degli uomini necessari per tale compito?

La verità è che l’Italia è l’unico Paese dell’Europa occidentale ed orientale che, dopo avere partecipato alla guerra di liberazione, non ha saputo realizzare nemmeno la più modesta riforma industriale. È l’unico Paese, in cui il settore industriale nazionalizzato è rimasto nei limiti della eredità impostaci dal fascismo. Eppure, dopo la liberazione, la classe lavoratrice italiana ha acconsentito alla soppressione delle leggi fasciste sulla socializzazione, nella certezza che la nuova Italia democratica avrebbe fatto qualcosa di più importante e di più serio.

Come meravigliarsi se oggi i lavoratori sono dominati da un senso profondo di sfiducia, che incide indubbiamente sulla loro volontà produttiva?

Dopo la liberazione in Italia si era costituita una certa organizzazione, capace di avviare il Paese verso quelle formule economiche che sono oggi sostenute negli altri Paesi. Di questo non si è fatto più nulla.

Naturalmente, questo processo di smantellamento di quel poco che di economia organizzata si era potuto creare immediatamente dopo la caduta del fascismo, è stato facilitato dalle successive mutazioni del clima politico del nostro Paese e dall’assoluta carenza dei partiti di sinistra, che sono stati al Governo. Che i partiti di destra abbiano interesse di fare questo, sono d’accordo. È dovere dei partiti di sinistra di impedirlo. Sono essi che non hanno agito.

Una voce a sinistra. Lei non era al Governo?

SARAGAT. No, non ero al Governo.

Noi pensiamo, vedete, che l’attuale indirizzo deve, nel suo orientamento generale, essere decisamente capovolto. Pensiamo che non si tratta di semplici ritocchi o di mezzi termini: siamo di fronte ad un grosso problema organizzativo che si traduce però in termini politici.

Vedete intanto come la pianificazione che non fa il Governo la stanno facendo gli altri, per interessi privati. E chi è che la sta facendo? La Confederazione dell’industria.

Nessuna organizzazione padronale in Europa e forse in nessuno Stato del mondo ha attualmente una interferenza negli atti del Governo paragonabile a quella che ha da noi la massima organizzazione degli industriali. Siamo tornati, non voglio esagerare, ai tempi in cui le diverse corporazioni fasciste non facevano altro che mettere il sigillo di Stato sugli ordini che ricevevano dagli organismi da esse controllati.

Comunque, vi sono sintomi di preoccupazione in seno al Governo e ve ne diamo atto. Non possiamo infatti che compiacerci della creazione del Consiglio economico nazionale, che del resto abbiamo noi stessi propugnato attraverso la stampa clandestina. Ma è evidente che, finché la classe lavoratrice sarà tenuta ai margini e trattata come semplice merce di lavoro – come accade oggi – finché essa non sarà convinta di lavorare anche un po’ per se stessa e per il Paese e non soltanto per gli interessi di gruppi limitati di industriali, non potremo pretendere dalla classe lavoratrice quell’apporto che è assolutamente necessario per un’opera di ricostruzione economica del nostro Paese. Non è possibile che mentre la Confindustria tende al monopolio della risoluzione di tutti i problemi economici, la Confederazione generale del lavoro sia confinata in un’attività puramente sindacale che manca al suo scopo perché attraverso il controllo del meccanismo economico è molto facile agli industriali recuperare sul piano dei prezzi quello che essi hanno dovuto cedere sul piano dei salari. Questo complesso di inferiorità della Confederazione generale del lavoro di fronte alle Confederazione degli industriali deve assolutamente cessare se non vogliamo cadere nel circolo vizioso della lotta tra i prezzi ed i salari.

C’è un altro problema per cui la pianificazione si presenta come assolutamente inevitabile: quello dei prestiti esteri. In Francia le spese per la ricostruzione sono state valutate in 3000 miliardi. Ora, se noi facessimo un esame analogo in Italia, paragonata la ricchezza nostra a quella francese, verremmo a constatare – quantunque in Italia quest’esame non sia stato fatto per i servizi pubblici – che ci occorre una somma assolutamente superiore alle possibilità che abbiamo dal punto di vista delle imposte e del reddito nazionale. È certo che noi, per poter realizzare un piano di ricostruzione, abbiamo bisogno di prestiti per molti e molti milioni di dollari. Ora è chiaro che questa distribuzione del credito che ci può venire dall’estero non è possibile se non si organizza sulla base di un piano ispirato da criteri che solo un Governo veramente democratico può tracciare.

Un altro esempio. Ci troviamo in questo momento di fronte a difficoltà di carattere monetario e queste difficoltà hanno posto in primo piano il problema della restrizione dei crediti. Anche qui vediamo che il problema della pianificazione si pone come una esigenza assoluta. È noto che le disposizioni dell’onorevole Einaudi, tendenti a limitare il rapporto tra capitali in giacenza ed investimenti, contenente l’obbligo di versare al Tesoro i depositi, hanno indotto le banche a ridurre i crediti.

Io non voglio discutere il provvedimento in sé. Con questo sistema noi vediamo che si limita il volume totale del credito. Ma, che cosa avviene? Avviene che si limita il volume totale del credito ma non si disciplina, da parte del pubblico potere, il suo impiego nei singoli settori, lasciando di ciò arbitre singolarmente le banche. Ora è avvenuto che il controllo avviene per la quantità totale del credito, ma non per la qualità dei singoli crediti. Le banche, pur restando nei limiti fissati da Einaudi, possono prestare a chi vogliono, cioè a chi paga un interesse maggiore, cioè a chi specula sull’aumento dei prezzi, attraverso l’accaparramento, ed a colui che ha delle giacenze; a coloro insomma che fabbricano beni di lusso e non già invece a coloro che per la necessità delle cose si trovano in questo momento a disporre di poco denaro e a non poter pagare interessi.

In conseguenza di questo stato di cose è accaduto che la restrizione del credito ha servito a mettere in difficoltà le industrie, senza determinare nessuna liquidazione di giacenze, appunto perché coloro che avevano giacenze disponevano di grosse somme di denaro, e senza determinare nessun ribasso di prezzi, i quali sono enormemente aumentati.

È necessario, quindi, fare bensì un controllo dei crediti, ma estenderlo anche al piano qualitativo. E questo è possibile fare soltanto se si entra nel criterio di organizzare tutta quanta l’economia italiana sulla base di un piano veramente organico.

La politica antinflazionistica di Einaudi può essere difesa, e la difendiamo, ma purché essa si spinga alle sue logiche, legittime conseguenze. In difetto di ciò questa politica provoca quei danni che noi abbiamo lamentato e che lamentano tanto gli operai quanto gli industriali.

E potrei continuare sul terreno della pianificazione accennando alla perequazione dei redditi che senza l’intervento statale non è realizzabile.

Com’è possibile risolvere il problema della perequazione dei redditi in Italia, ossia la distribuzione equa dei beni, quando c’è una tale miseria in giro, quando mancano le condizioni per il funzionamento di un vero meccanismo liberistico? L’Italia abbandonata a se stessa sul piano del liberismo, di fronte alle altre potenze mondiali, sarebbe in condizione di assoluta inferiorità, e deve quindi ricorrere ad un sistema di economia pianificata. Ma nei rapporti fra classi e classi, le classi più povere, nei confronti di quelle ricche, si trovano nella situazione in cui si trova l’Italia nei confronti delle grandi potenze mondiali, per cui senza un sistema pianificatore che riesca a distribuire le ricchezze, l’equilibrio non l’otterremo mai.

Occorrono quindi delle misure decisive, un orientamento radicalmente mutato della politica del Governo. In questo senso, noi non possiamo accettare quanto è stato fatto fino ad oggi.

Gli argomenti che sono stati sollevati ieri ci lasciano piuttosto indifferenti. Non è sulla critica di dettaglio che si può esaminare l’azione di questo Governo. Si è rimproverata l’inflazione. Penso che si abbia torto, perché se ben consideriamo, in realtà, l’aumento di circolazione, dovuto a cause stagionali, non è superiore a quello avuto nel periodo corrispondente dell’anno passato.

La critica che noi muoviamo al Governo è ben più radicale: in un momento in cui tutti vanno verso un sistema di economia pianificata, il Governo, invece, tende verso una forma di liberismo che è in contraddizione con gli interessi del Paese. Questa è la critica sostanziale che facciamo a questo Governo. È un Governo questo che indipendentemente dalle sue intenzioni è portato sempre più verso destra. E noi pensiamo che il nostro dovere sia in questo momento di suscitare in quest’Assemblea una nuova forza politica la quale sia in grado di correggere questi difetti e di prospettare i lineamenti di una politica nuova.

Non vi starò a dire, onorevoli colleghi, che oggi la situazione è particolarmente grave. Questo voi lo sapete; del resto, il ruolo delle cassandre è un ruolo che in politica è perfettamente inutile.

Il problema che sta di fronte a noi in questo momento, che sta di fronte a tutti gli italiani, è un problema che trascende di gran lunga le sorti di questo Governo.

Siamo in un momento in cui tutti gli errori possono avere delle conseguenze molto gravi, ma è forse anche il momento in cui ci si offre per l’ultima volta l’occasione di rimediare agli errori del passato e di orientarci per una strada più giusta. Se ci lasceremo sfuggire questa occasione non so se potremo poi, domani, riacciuffarla o arrestare la marcia del Paese, non dico verso la catastrofe ma verso una situazione peggiore. Perché, vedete, è una illusione immaginare che quanto più la situazione si aggravi tanto maggiore diventi nel popolo la coscienza dei rimedi necessari. È precisamente il contrario che avviene. Noi possiamo risanare una certa situazione quando il male non è già troppo grave; ma quando il male fosse gravissimo non potremmo più arrestarlo.

Gli uomini non si battono se non hanno una certa speranza o una certa possibilità di successo. Avviene come dell’ammalato, che quando è in stato grave, non può più nemmeno deglutire le medicine. Se lasceremo la situazione aggravarsi, è certo che il Paese si abbandonerà alla deriva. Oggi, abbiamo la convinzione che è possibile arrestare questo processo di sbandamento e ricorrere ai rimedi, ma il problema essenziale è di aprire una prospettiva di salute al popolo italiano.

Vi è chi si diverte a tracciare quadri foschi dell’avvenire. Penso che dal punto di vista politico sia un errore. Si tratta invece di far intendere al popolo italiano che esistono ancora delle prospettive di salute e di speranza. Certo che, se ci si installa nella mentalità che il mondo è diviso in due blocchi e che non si tratta che di scegliere, il Paese sarà destinato fatalmente a dividersi esso pure in due blocchi. Noi pensiamo invece che esiste una terza via: che non è affatto vero che il mondo è condannato a dividersi in due blocchi, che non è affatto vero che l’Italia sia destinata fatalmente a lacerarsi, e che esiste infine la possibilità di un raggruppamento di forze di sinistra profondamente democratiche.

Ecco perché diciamo al popolo che la pace può essere salvata, che la democrazia si può consolidare e che la ricostruzione economica può essere accelerata. Ma per fare questo bisogna adeguare la direzione della pubblica cosa alle esigenze profonde del Paese in questo momento. Bisogna che il processo di polarizzazione al quale stiamo assistendo venga arrestato e che a questo processo succeda un processo di concentrazione di tutte le forze sinceramente democratiche, sinceramente di sinistra.

Noi lavoriamo per questo obiettivo. Non so se lo raggiungeremo o meno, ma il nostro dovere è di marciare in questa direzione e noi marceremo in questa direzione con la piena coscienza di servire gli interessi del Paese indifferenti alle ironie ed ingiurie e domani anche alla violenza. Noi sappiamo che questa è la strada giusta e sappiamo che seguendo questa strada un giorno incontreremo quelle classi lavoratrici che oggi forse non ci seguono ancora. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ronchi, Alto Commissario per l’alimentazione.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Onorevoli deputati, apro una breve parentesi nell’appassionata ed elevata discussione politica per riferire sulla situazione alimentare, situazione che è sostanzialmente anche al centro della discussione.

Riferisco sulla situazione alimentare per rispondere a qualche critica che è stata avanzata; ma soprattutto anche, per una necessaria chiarificazione all’Assemblea ed al Paese dei suoi termini concreti.

Non dirò cose nuove, perché per le comunicazioni del Governo, per le divulgazioni della stampa, per le molte discussioni che tutti i giorni fervono intorno al problema alimentare, più o meno questa situazione è anche nota. Però mi sforzerò di fare una sintesi dello straordinariamente poliedrico problema, soprattutto per mettere in rilievo le cause del disagio alimentare, perché per l’esperienza acquisita sia dato vedere, in rapporto a detta esperienza, quelle che possono essere le possibili soluzioni, per ristabilire una sufficiente tranquillità nel popolo che lavora e che da lunghi anni ormai sopporta le più dure sofferenze. Il carovita: senza alcun dubbio, il carovita sta in prevalente dipendenza dal fattore alimentare.

Le nostre statistiche, quelle dell’Istituto centrale di statistica, come di altri organi di studio, assegnano infatti una percentuale dell’80 per cento del costo della vita da ascriversi al fattore alimentare; percentuale che incide quindi duramente negli spostamenti del costo totale.

Io osservo che, per quanto si riferisce ai generi alimentari, l’aumento ha le sue origini molto lontane, perché sostanzialmente la marcia si inizia nel 1935, all’epoca della guerra etiopica; marcia che si è poi accelerata nel 1940, che ha assunto proporzioni allarmanti dopo il 1943, che ha segnato dal 1945 un aumento del 2.600 per cento ed è giunta, nel luglio 1947, sino a toccare il 6.200 per cento.

Ora, io ho qui dei diagrammi molto semplici da cui risulta come questo ritmo ognor crescente abbia subito delle oscillazioni nel tempo e, soprattutto, come abbia subito in questi ultimi anni degli spostamenti repentini in alto, segnando delle punte per esempio nei decorsi mesi di aprile e maggio ed anche una nel mese di luglio, per effetto dell’aggiornamento del prezzo del pane. Sostanzialmente tuttavia questo ritmo non ha subito un particolare peggioramento in questa ultima fase, in questi ultimi tre mesi cioè in cui ha operato questo Governo. (Interruzione dell’onorevole Bordon).

Lo dimostreremo con fatti concreti. Ora, è chiaro che il problema esiste; nessuno lo nega ed ha riflessi, badate, particolarmente duri in tutte le categorie della popolazione, ma soprattutto nei confronti di alcune categorie, quelle che non sono in grado di difendersi, attraverso la manovra della scala mobile: non è il caso di parlare di coloro che sono di condizione abbiente. È certo che il fattore gioca – ed è per questo che la questione è straordinariamente delicata – soprattutto in relazione alla percentuale sul costo totale. Se infatti esso gioca soltanto sull’80 per cento nel quadro medio statistico, gioca evidentemente sul cento per cento nei confronti dei ceti meno abbienti, che sono coloro i quali possono opporre una minore difesa nei confronti tra il reddito e l’aumento del costo.

Ora, a noi incombe il dovere di esaminare serenamente le possibilità di trovare un rimedio, di venire incontro a queste particolari situazioni di disagio, per assicurare o accelerare la fine del tormento.

Quali sono le cause del disagio alimentare? È noto come, prima della guerra, esistesse un pareggio del bilancio alimentare del Paese tra la produzione, col movimento importazioni ed esportazioni, in confronto ai consumi.

Aggiungo che la differenza a carico delle importazioni dava un coefficiente di fabbisogno complementare delle nostre risorse del 6-10 per cento alle importazioni stesse, quindi, una percentuale relativamente minima.

Attualmente la situazione si è spostata, tanto che nel bilancio tra produzione, importazioni, esportazioni del 1946, le importazioni pesarono – in questo bilancio – per il 25 per cento; non solo, ma nel nostro piano per il 1947-48, le nostre richieste aumentano questo spostamento fino al 30 per cento. È questa la vera, sostanziale causa del disagio alimentare, stante la difficoltà di realizzare le necessarie importazioni.

Ora, consentitemi un breve rilievo, un breve cenno a elementi di carattere strettamente tecnico. Il tenore di vita del popolo italiano ha raggiunto nel 1928 la posizione di massimo favore, con una media di consumi per abitante valutata a 2850 calorie. Questa valutazione calorica risultò ridotta, nel 1931-1940, a 2600 ed è declinata nel 1942 a 2250. Dopo il 1944 è discesa ancora.

Ora, per quanto possano valere questi indici, è evidente che esiste una diminuzione, e siamo arrivati ora ad un deficit che è veramente preoccupante e che costituisce la vera e sostanziale causa del grande disagio attuale.

ZANARDI. E quante sono le calorie adesso?

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Attualmente siamo intorno alle 2.000 calorie.

ZANARDI. Sono poche.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Comunque, analizziamo le cause di questo fenomeno. Incominciamo dai cereali. Certo che alla base del nostro sistema alimentare sta il problema dei cereali, i quali rappresentavano prima della guerra il 64 per cento della razione calorica media del popolo italiano, con spostamenti però anche notevoli, perché a nord noi avevamo un minore consumo di cereali, mentre a sud ne avevamo un maggior consumo in rapporto alle particolari condizioni alimentari e al tenor di vita delle varie regioni.

Naturalmente questa situazione è purtroppo profondamente mutata, e lo rileviamo da poche cifre. La disponibilità per abitante nel 1935-39 di cereali era di chilogrammi 210. Siamo scesi, nel biennio 1945-47, comprese naturalmente produzione ed importazione, a 141; con lieve miglioramento nel 1946-47 sino a 163. Quindi, la diminuzione che è stata segnata in questo ultimo biennio nei riguardi delle disponibilità di cereali è stata ben del 33 per cento, e, come è noto, è dovuta essenzialmente all’enorme caduta della produzione cerealicola che è passata, per il girano, dalla media 75 milioni anteguerra alla media del biennio di 51 milioni e 500.000; per il granturco, da 30 milioni a 16 milioni; per il risone, da sette e mezzo a quattro milioni e 200. Il tutto, non sufficientemente compensato dalle importazioni.

Le importazioni, specialmente attraverso il generoso e magnifico concorso dell’U.N.R.R.A., hanno di molto ridotto il pauroso vuoto, con una cifra media, realizzata nelle due annate, di 17 milioni circa, cui l’U.N.R.R.A. ha concorso con 8 milioni 350 mila in media annua, rimanendo però sempre una grande deficienza complessiva, aggravata dal fatto dell’aumento della popolazione.

Particolarmente grave si presenta poi nell’attuale annata la situazione del consumo cerealicolo. Infatti essa è caratterizzata dalle seguenti cifre:

Produzione: grano 46 milioni; cereali minori 2.800.000; mais 20 milioni; risone 5.600.000; totale: 75 milioni di quintali di cereali circa, in confronto alle disponibilità medie anteguerra che erano di oltre 116 milioni, cioè con una diminuzione del 35,7 per cento; e, se escludiamo il mais destinato all’alimentazione umana, con una diminuzione del 34 per cento, che rimane al di sotto della campagna decorsa per ben 16 milioni di quintali di grano, pari cioè al 24 per cento delle relative produzioni nazionali dell’anno scorso e del 38 per cento al di sotto di quelle dell’anteguerra. È sperabile solo un lieve miglioramento per le discrete prospettive del raccolto – ora iniziato – del mais e del risone.

Ora, questa è la causa dell’appesantimento della nostra situazione alimentare.

Sono, in sostanza, 16 milioni di quintali di grano in meno che circolano nel nostro Paese in questa annata, e di questi una parte non sono affluiti all’ammasso, e quindi abbiamo praticamente in questo momento una razione di 200 grammi di pane effettiva e di un chilo di generi da minestra mensile in confronto di 235 grammi dell’anno scorso e due chili mensili di generi da minestra. Non solo, ma anche quella corrente di grano che praticamente circolava nell’interno del Paese, negli scambi diretti fra produttore e consumatore, oppure per le innumerevoli vie della borsa nera, è straordinariamente ridotta, il che spiega la deficienza di afflusso anche in questo campo ed il fortissimo rialzo dei prezzi della borsa nera. Ora, tale deficiente produzione ha intanto prodotto questi effetti: lo ammasso del grano diede l’anno scorso 23 milioni di quintali. Per quest’anno sono previsti 12 milioni. E badate che quando noi parliamo di 12 milioni verso cui punta attualmente il Ministero dell’Agricoltura, diciamo già uno sforzo considerevole di disciplina perché se noi calcoliamo che legittimamente 36-37 milioni sono sempre rimasti presso gli agricoltori, bisogna anche riconoscere che in fondo se l’ammasso darà 12 milioni, darà nel complesso tutto quello che ci può dare.

Ma un altro fatto è derivato da questa deficienza di produzione, e pertanto deficienza di ammasso, ed è la straordinaria precarietà in cui si sono venute a trovare tutte le provincie della Repubblica.

A questo proposito è necessario fare una chiarificazione. Quando noi parliamo di 10-12 milioni di quintali di grano all’ammasso non si pensi, come purtroppo accade, che questo grano si trovi più o meno accentrato in determinati magazzini, in determinate zone e facilmente spostabile. No, la situazione è ben diversa: il grano è sparso in innumerevoli magazzini, in migliaia di località spesso anche impervie; non solo, ma noi abbiamo zone che hanno una produzione sufficiente al fabbisogno locale ed hanno anche una quota esportabile e ne abbiamo moltissime invece dove c’è deficienza, ed altre ancora che sono assolutamente sprovviste di produzione locale. Ed allora il problema della manovra diventa estremamente difficile specialmente se le quantità esportabili sono modeste come in questa annata per cui le popolazioni, che sono straordinariamente sensibili, oppongono una netta resistenza all’uscita del loro grano per l’approvvigionamento delle zone deficitarie. Noi ci siamo trovati, nei primi di luglio, in condizioni di estrema difficoltà appunto per questa resistenza opposta nelle varie provincie, derivante da uno stato d’animo psicologico contro il quale è difficile poter lottare. Comunque, alla fine di luglio, vista la difficoltà di ottenere l’applicazione dei nostri piani in riunioni che furono tenute nelle varie regioni produttrici del Paese da me insieme all’onorevole Marazza, con l’intervento energico del Ministro dell’interno e con la collaborazione dei Prefetti e di molti valorosi funzionari, è stato possibile rimuovere tutte le difficoltà; ed abbiamo così potuto assicurare l’approvvigionamento delle zone deficitarie. Ma questo stato di difficoltà negli spostamenti dalle zone approvvigionanti alle zone da approvvigionare, dalle zone di produzione alle zone di consumo, ha creato un’altra difficoltà che perdura tuttora e contro la quale abbiamo messo in opera tutti i mezzi che erano necessari. Ed è la situazione dell’industria molitoria e dell’industria della pastificazione. È da tener presente che nel nostro paese queste industrie hanno subito una falcidia enorme nella provvista della materia prima; lavoravano infatti per un consumo che si aggirava intorno agli 80 milioni di quintali di grano; adesso lavorano per un quantitativo straordinariamente più ristretto; perché anche le importazioni dall’estero molte volte sono fatte in farina; tanto che ci si riduce o ci si ridurrà ad un lavoro tra i 35 e 40 milioni, mentre lavoravano anche per l’esportazione e in quantità cospicue.

Quindi, esiste una crisi veramente grave di lavorazione.

Ed allora, di fronte a questa crisi, noi ci siamo trovati ad urtare contro la resistenza delle provincie esportatrici dove i mugnai e gli operai dell’arte bianca opposero ostacoli allo spostamento del grano, pretendendo lo spostamento della farina; hanno opposto resistenza alla spedizione anche della farina per pasta, pretendendo di fare la pasta da spedire verso le altre regioni. Anche queste difficoltà le abbiamo in parte superate.

In grave crisi, per effetto di queste resistenze, si sono venuti a trovare alcuni centri molitori importanti ed alcuni centri di pastificazione, come per esempio Napoli, Messina, Genova, cioè zone che non dispongono di un retroterra agricolo e che devono essere approvvigionate da altre zone. Però, anche questo problema è in via d’assestamento, e già abbiamo raggiunto una situazione relativamente normalizzata. A Napoli siamo riusciti a normalizzare la distribuzione del pane e della pasta, sempre nella razione di un chilo al mese. Stiamo normalizzando una delle situazioni più difficili anche per le difficoltà tecniche dell’ambiente, cioè la situazione della Calabria. Rimane una situazione sempre delicata e difficile, questa, per la richiesta degli arretrati nella distribuzione di alcuni mesi relativi alla campagna decorsa. Devo onestamente riconoscere che questa richiesta ha un suo giusto fondamento. Però le nostre disponibilità sono quelle che sono. Agiremo in rapporto a queste disponibilità, soprattutto attraverso particolari afflussi per qualche distribuzione straordinaria. Naturalmente, con questa deficienza così grave di produzione, noi abbiamo, per contro, una necessità di vistose importazioni.

Anche su questo punto devo dire che si sono fatti tutti gli sforzi per ottenere dai consessi internazionali quanto necessita al Paese. Fin dall’aprile-maggio il Comitato interministeriale della ricostruzione segnalò al Consiglio internazionale di emergenza per l’alimentazione quelle che erano, già allora, le prospettive delle nostre necessità granarie. A Parigi noi presentammo la nostra situazione alla Conferenza internazionale dei cereali: le nostre richieste furono allora precisate in ben 34 milioni di quintali, in confronto alla media dei 17 milioni delle importazioni degli anni precedenti. Queste nostre richieste hanno urtato ed urtano tuttora contro una difficilissima situazione mondiale, che va tenuta presente ogni qualvolta si esamini questa nostra situazione alimentare.

Le richieste a Parigi dei Paesi importatori erano rappresentate da 49 Nazioni per cinquecento milioni di quintali di cereali. Le disponibilità, accertate a Parigi e che ora sono diminuite, dei paesi esportatori – sostanzialmente tre – erano di 320 milioni di quintali; quindi, un deficit enorme.

Da cosa deriva questo deficit? Dall’enorme caduta della produzione in tutta l’Europa ed anche nei Paesi orientali, per quel che si riferisce al riso, dalla pratica assenza dei Paesi dell’Europa sud-orientale; noi importavamo quantitativi cospicui dal Bacino danubiano, dal quale ancora oggi non ci sono favorevoli prospettive, perché le prime avvisaglie le abbiamo avute adesso, ma per quantità modeste. Quindi, questo enorme deficit è praticamente incolmabile, anche perché alle conferenze di Parigi e di Ginevra si sono presentati alcuni popoli, come gli indiani e i cinesi, popoli che hanno necessità veramente straordinarie.

Ed allora il problema nostro qual è? Quello di fare valere, attraverso i contatti diretti, assillanti e continui al Comitato di emergenza, attraverso un’azione che è condotta con grande energia dalla nostra delegazione tecnica a Washington e dal nostro ambasciatore Tarchiani, di fare valere le nostre richieste per avere assegnazioni adeguate al nostro fabbisogno. Abbiamo contratto queste nostre richieste, scendendo da 34 a 29 milioni; ed ora, poiché marciamo ancora con razione ridotta, le richieste stesse sono scese a 27 milioni; e su questa base in questo momento ci stiamo battendo.

Però, finora, su questo quantitativo di assegnazioni assicurate non abbiamo avuto che 7 milioni e 750.000 quintali tra le assegnazioni dirette del Nord America e gli acquisti che si vanno facendo nelle poche zone dove ci sono le disponibilità.

Certo, tutte le possibilità future di un miglioramento essenziale della situazione alimentare dipendono in sostanza dalla possibilità di coprire questo deficit. Tutte le nostre attività sono ora rivolte verso questo obbiettivo, perché se le assegnazioni che ci sono state fatte dal Comitato internazionale di emergenza dovessero rimanere nelle 115.000 tonnellate mensili attuali, indubbiamente noi ci troveremmo di fronte a ben gravi difficoltà per il prossimo avvenire. Questo è bene dirlo, perché non è possibile, non è assolutamente possibile, per quanto si possa spingere (come stanno spingendo generosamente alcuni uomini che operano nell’interno del Paese), le operazioni dell’ammasso fino al massimo del reperimento (con quel controllo fatto azienda per azienda, attraverso un’azione che è straordinariamente mal vista, in condizioni veramente penose, condotta con decisione da detti uomini che sono da considerarsi assai benemeriti), non è possibile, dicevo, mai colmare questo enorme deficit qualunque possa essere il gettito delle risorse nazionali. Per questo io chiedo da questa tribuna, ai molti sollecitatori che vengono da più parti d’Italia a chiedere assegnazioni di cereali: non ci mettano in croce. Purtroppo non è possibile fare dei miglioramenti, perché nella precaria situazione in cui siamo è nostro dovere difendere le scorte con tutti i mezzi e con ogni energia. Io ho dovuto anche giorni fa, in una riunione, oppormi ad un’altra richiesta che viene ripetutamente avanzata ed affacciata: anche questa è una delle tante proposte che sembrano allettanti. Ci si chiede di abbandonare la posizione dell’ammasso e di consentire delle forme di ammasso a carattere cosiddetto integrativo contro un miglioramento di prezzo.

Ci si chiede la libertà, da parte dei pastificatori ed anche da parte dei panificatori, di andare in campagna e di prendersi il grano. Signori, anche su questo punto la nostra resistenza deve esser mantenuta al cento per cento, perché risulterebbero gravemente compromesse le operazioni dell’ammasso che sono in corso: infatti, evidentemente, nessuno più porterebbe il grano all’ammasso se sapesse che ha legalizzata la possibilità di cederlo in altre condizioni di mercato. Il rimedio diventerebbe peggiore del male, perché, evidentemente, coloro che dispongono ai grano non è che di fronte alla libertà lo farebbero affluire immediatamente sul mercato. Certo in un primo tempo potrà anche esserci un certo afflusso, ma poi, in un secondo tempo, il giuoco dell’accaparramento diventerà indubbiamente più forte, per cui le difficoltà diventeranno ancora più gravi. Non solo, ma noi andremo soprattutto anche a peggiorare la situazione relativamente tranquilla delle zone cerealicole. Quando avvenisse lo sblocco, fatalmente anche queste regioni si vedrebbero rapidamente spogliate delle ultime riserve, e noi creeremmo anche in queste una situazione di disagio, mentre oggi c’è una situazione relativamente attenuata per gli scambi diretti tra produttori e consumatori. Infine, noi svaluteremmo in pieno l’azione che stiamo facendo e la comprometteremmo rispetto agli organi internazionali, perché a Parigi tutti i rappresentanti di tutte le nazioni furono concordi nel ritenere che le nazioni importatrici dovessero fare il massimo sforzo nell’azione di reperimento, perché soltanto da questo sforzo si doveva acquistare il pieno diritto ad avere un’equa assegnazione sulle possibilità mondiali.

Tali le ragioni per cui abbiamo respinto le richieste che ogni giorno ci vengono fatte per queste concessioni. Devo dire che la posizione dei cereali io la considero quasi l’ultima trincea della resistenza, ché ove venisse infranta non c’è dubbio che noi precipiteremmo rapidamente nel caos. Dobbiamo quindi ciò evitare con ogni energia.

Veniamo agli altri settori alimentari: olii e grassi alimentari. In questo settore si profila un notevole miglioramento, soprattutto per la produzione olearia che si prospetta quest’anno, sotto ogni riguardo, veramente favorevole. Le notizie che abbiamo sono sostanzialmente buone. La direttiva è quella di procedere all’ammasso per contingente ed abbiamo già stabilito che, dal 1° di novembre la razione, per le categorie meno abbienti, sarà portata da duecento a trecento grammi. Questo in vista dell’afflusso all’ammasso ed in vista anche di possibili importazioni, che saranno soprattutto assicurate dal prossimo trattato con l’Argentina, del quale parlerà il Ministro competente.

Zucchero. Lo zucchero è un altro genere controllato al cento per cento. Purtroppo, anche qui, le avversità stagionali sono state veramente del tutto sfavorevoli, per cui ancora oggi è incerto l’esito della produzione. Si parlava, fino alla metà di agosto, di una disponibilità di due milioni e mezzo, anzi due milioni e settecentomila; poi, la cifra è scesa a due milioni e mezzo e attualmente siamo verso i due milioni e trecentomila. Il Consiglio dei Ministri, nel mese di agosto, in vista delle maggiori possibilità che erano offerte, e in vista della necessità di venire incontro decisamente ad alcune categorie, specialmente ai ragazzi e ai vecchi, decise un aumento delle razioni: portando la razione per i ragazzi fino ai nove anni da 300 a 500 grammi, per quelli fino a 18 anni a 400 grammi e per i vecchi oltre i 65 anni fino a 400 grammi. Ora, con questo abbiamo indubbiamente sacrificato l’industria, specialmente l’industria delle marmellate che per noi ha uno straordinario interesse. Però anche questo lo si è fatto a ragion veduta, perché fortunatamente sul mercato mondiale, la produzione ha pressoché raggiunto le esigenze del consumo, per cui le prospettive di importazione di zucchero sono favorevoli. E si spera, pertanto, che l’industria si possa approvvigionare e sia in grado di integrare eventuali nostre deficienze anche per la razione alimentare.

Latte alimentare: anche questo settore è straordinariamente delicato. Le nostre cure sono per assicurare l’approvvigionamento di detto prodotto essenziale specialmente per alcune categorie della popolazione.

Le operazioni di reperimento sono secondo il sistema a contingente, sistema che ha i suoi vantaggi e che ha però anche le sue deficienze. Comunque il nostro criterio attuale è di perfezionare il sistema in modo da assicurare l’afflusso con l’obbligo diretto ai produttori di consegna, in modo da ottenere quei quantitativi che sono necessari nel quadro del piano di distribuzione, secondo le esigenze delle varie città e soprattutto delle grandi città.

Certo che nel settore caseario, che pur formerà oggetto da parte mia di un rilievo in relazione a quanto è stato detto ieri dall’onorevole Nenni, devo segnalare un fenomeno che si è verificato, cioè quello del frazionamento della produzione casearia, della polverizzazione: la grande industria ha ceduto in parte le sue armi in confronto alle resistenze offerte dalle categorie interessate, le quali più o meno si sono attrezzate a produrre burro e formaggio, probabilmente in relazione alla possibilità di sfuggire meglio la disciplina. Con la disciplina del latte è legata anche la disciplina del burro, che dovrà assicurare un quantitativo di 150 mila quintali al razionamento dei grassi alimentari.

Altri prodotti: è noto come la vasta gamma dei prodotti freschi e conservati sia prevalentemente ormai lasciata al libero mercato. Una posizione di discreta efficienza è stata raggiunta dal patrimonio zootecnico su cui dirà probabilmente il Ministro dell’Agricoltura. A me basta rilevare come in sostanza ci si vada avvicinando alle posizioni dell’anteguerra. Così per gli ortofrutticoli che hanno raggiunto e superato molte delle posizioni anteguerra. Settore anche questo indubbiamente di grande interesse, di grandissimo interesse, in quanto ha giovato enormemente agli effetti del temperamento della situazione alimentare. Noi eravamo fortemente esportatori di ortaggi o frutta.

Io non sto qui a tediare l’Assemblea con le moltissime cifre di cui dispongo, ma posso assicurare che i quantitativi che vengono ora consumati salgono a cifre notevolissime: così, per gli ortaggi, mentre nell’anteguerra si esportavano due milioni seicentomila quintali, oggi se ne esportano appena seicentottantamila, mentre l’aumento della produzione è stato di circa il 10 per cento.

Così pure dicasi per la frutta fresca: noi esportavamo cinque milioni di quintali, mentre oggi l’esportazione è ridotta a due milioni di quintali. Quindi sono tutti prodotti che circolano nel consumò interno. (Interruzione a sinistra). Ora, il consumo interno di questi prodotti è arrivato al massimo, risultando aumentato dal 15 al 20 per cento. Fortunata possibilità in questo nostro Paese, che ha potuto reggere nei momenti più gravi mercé il consumo di questi prodotti; fortunata possibilità, anche perché rappresentano ancora la nostra gran speranza per l’avvenire.

Scambi con l’estero. Di questo parlerà il Ministro competente; a me basti ricordare che, a parte il problema del grano, i nostri sforzi sono rivolti ad assicurare il massimo dei prodotti all’importazione.

È inutile che io ricordi cosa è stata l’U.N.R.R.A., il mirabile concorso di questa istituzione, che ha indubbiamente giovato a sollevare le sorti della nostra alimentazione, oltre che quelle della nostra economia. Oggi all’U.N.R.R.A. si è sostituita l’A.U.S.A., altro organismo che ci sostiene: le possibilità però sono notevolmente diminuite.

Tuttavia, il movimento delle importazioni, specialmente per alcuni prodotti, presenta delle prospettive relativamente favorevoli. Per il merluzzo e il baccalà si profila la possibilità di importazione di 500 mila quintali, in confronto ai 600 mila quintali dell’anteguerra.

Anche per la carne congelata, sia per le iniziative in corso – secondo le possibilità offerte dai provvedimenti recenti del Ministro Merzagora – sia per il trattato argentino, noi calcoliamo di poter meglio integrare le nostre risorse, che potrebbero arrivare fino a 140 mila quintali.

Per tali prodotti esiste una notevole difficoltà di manovra. Certo, noi operiamo la distribuzione con criteri sufficientemente perequativi, con criteri cioè che cercano di andare incontro alle situazioni di maggiore sofferenza.

Ho tolto di mezzo le singole assegnazioni, le assegnazioni dirette, straordinariamente pericolose, perché dal centro noi non possiamo identificare nei singoli richiedenti se sono quelli che hanno più o meno diritto. Nel gioco perequativo noi non possiamo distribuire altro che in rapporto a quelle che sono le esigenze fondamentali delle singole province. Solo in provincia gli organi locali, sotto il controllo locale, sono in condizioni di poter stabilire la perequazione tra le varie categorie della popolazione, distribuendo soprattutto con il criterio della omogeneità della categoria che deve essere beneficiata. Naturalmente, rimane al centro soltanto la distribuzione ad eventuali grandi organismi a carattere nazionale.

A proposito di queste zone o categorie di maggior sofferenza, consentitemi di fare qualche precisazione. Prima di tutto, esiste una differenza enorme fra le zone cerealicole e quelle non cerealicole, dato che il problema pane è quello essenziale, come abbiamo visto.

Sono in condizioni di maggior sofferenza evidentemente quelle zone dove manca la produzione di cereali; sono in condizioni di maggior sofferenza tutte quelle zone dove esiste un minor potere d’acquisto; sono in condizioni di maggior sofferenza tutte quelle categorie e tutti quegli individui che dispongono di un minor potere d’acquisto rispetto alla composizione familiare.

Sono in condizioni di maggior sofferenza tutte le valli alpine ed appenniniche, verso le quali si rivolge tutta la nostra simpatia, per quanto sia estremamente difficile provvedere e colmare i loro bisogni. Sono in condizioni di difficoltà i grandi centri fra i quali vi sono distinzioni enormi da fare: fra i centri, cioè, dove, con i grandi complessi industriali, ci sono possibilità di acquisto che mettono in istato di difesa i centri stessi e gli altri che non dispongono che di mezzi limitati, come certe città del Mezzogiorno.

Noi conosciamo sostanzialmente queste condizioni di fatto, ed è naturale che le nostre preoccupazioni convergano in modo preminente verso la sorte dei meno abbienti. Quando diciamo meno abbienti, vogliamo soprattutto riferirci ai minorati, ai mutilati, ai disoccupati, ai pensionati, agli operai, e agli impiegati statali e parastatali le cui condizioni assumono aspetti di singolare gravità, in relazione naturalmente ai rispettivi carichi di famiglia.

Lo stato di difficoltà dei tempi normali per costoro si esaspera, come fu già accennato, nel continuo e triste peggiorare della situazione dei prezzi.

MANCINI. Alle provincie e alle regioni meno abbienti di cereali bisogna pensare.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Vengo anche a quelle. Come si superano queste difficoltà? Vediamolo obiettivamente e serenamente. E qui vengo alle due tesi sostenute o affacciate ieri dall’onorevole Nenni, che pure costituiscono oggetto delle nostre preoccupazioni: libertà o vincolo totale? Ci sarebbe veramente anche una terza tesi, che è quella sostanzialmente che trionfa, ed è la via di mezzo. È evidente infatti che chi parla di libertà si riferisce all’assurdo; nessuno di noi, in questo periodo, ha pensato di poter puntare sulla libertà, perché evidentemente è impossibile arrivare alla libera concorrenza in condizioni di tanta carenza di disponibilità di generi alimentari; non esiste concorrenza, quando da una parte c’è un detentore che detiene le merci e ne dispone come crede, mentre dall’altra parte c’è la pressione continua ed assillante del consumatore che non ha facoltà di scelta. Evidentemente, se noi accordassimo la libertà completa, daremmo un privilegio pieno, completo, a tutti coloro che dispongono di questi mezzi, di questi prodotti alimentari.

D’altra parte, e lo hanno provato anche di recente alcune nazioni (basta pensare alla Francia, che diede piena libertà al pane, e poi venne rapidamente di nuovo al tesseramento), in periodi di libertà completa, i fenomeni dell’accaparramento assumerebbero proporzioni gravissime e metterebbero praticamente il Paese in condizioni di estrema, insuperabile difficoltà. Questo io vi posso dire, anche per l’esperienza personale di un mio viaggio in Brasile (nel paese delle libertà, in un paese di grande prosperità economica), dove rimanemmo alcuni giorni senza pane nella grande città di San Paolo. Quindi, quella della libertà completa è una tesi inammissibile, specialmente per i prodotti di massa.

E in fondo anche i liberisti più convinti, più o meno riconoscono la necessità di alcune discipline.

Allettante, come fu prospettata ieri dall’onorevole Nenni, è anche la tesi vincolistica. Io passo per un vincolista, e non posso non essere sostanzialmente un vincolista, perché so perfettamente come un prodotto, se può essere veramente controllato in tutte le sue fasi, può venire convogliato al consumo ad un determinato prezzo; e si può procedere ad una perequazione del consumo soltanto se c’è questo controllo dalla produzione al consumo stesso.

Però, anche qui non bisogna farsi illusioni. Il blocco totale peggiorerebbe la situazione. Ove dovessimo arrivare al totale vincolo, al blocco totale dei prodotti, noi peggioreremmo anziché migliorare la nostra situazione alimentare. E perché? È facile rispondere quando noi esaminiamo serenamente ed obiettivamente quelle che sono le condizioni generali del nostro Paese: una produzione straordinariamente frazionata, con prodotti solo in parte di grande massa, mentre abbiamo una vasta gamma di prodotti che affluiscono al mercato anche in quantitativi relativamente considerevoli, ma che effluiscono soprattutto verso determinate zone di consumo, non si distribuiscono, cioè, totalmente su tutta la massa della popolazione. E ciò sia per le abitudini, che stanno un po’ in relazione all’ambiente, sia per le straordinariamente diverse condizioni del tenore di vita tra le varie regioni. Quindi è evidente che è estremamente difficile ridurre tutti sullo stesso piano distributivo, perché è già di per se stesso difficile, badate, il problema del pane. Noi sappiamo che il razionamento del pane è quello che ha creato in sostanza (a parte il fatto che è stato imposto dalla necessità) le maggiori difficoltà dei nostro sistema alimentare, perché le condizioni sono profondamente diverse da zona a zona, sono profondamente diverse da individuo a individuo, da famiglia a famiglia. Ci sono famiglie a cui la attuale razione è sufficiente, ci sono invece famiglie che si trovano in enormi difficoltà, soprattutto dove ci sono ragazzi di 10, 12, 15 anni, che hanno bisogno di pane.

TONELLO. Ha visto il prezzo delle carni? Lo danno ai maiali il frumento!

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Parleremo anche delle carni.

Ora, è estremamente difficile perequare queste situazioni, fra le zone dove si mangia carne e dove non si mangia carne, fra le zone dove si consuma molto latte e dove non si consuma, fra le zone dove si consuma molto pesce e dove non se ne consuma.

Ma a queste difficoltà si aggiungono quelle del reperimento, perché, quando la produzione è estremamente frazionata fra migliaia e migliaia di produttori, nelle condizioni particolari in cui si trova il nostro Paese, è estremamente difficile provvedere ad un’azione di reperimento per una gran massa di prodotti, mentre è già difficile per l’olio e per il grano. E vediamo che queste difficoltà si moltiplicano quando andiamo alla carne e agli altri innumerevoli prodotti, da quelli caseari ai fichi secchi e alle castagne.

In tempi fascisti tentarono di fare questo blocco totale, ma ormai, dagli elementi acquisiti dall’esperienza di quello che avvenne già allora – quando la gente portava, più o meno, per le molte costrizioni, ma portava sempre in quantitativi estremamente modesti – si è visto che questi vincoli dettero praticamente un frutto molto, ma molto, ridotto. Ma quello che devo mettere in rilievo dinanzi all’Assemblea è come questi blocchi parziali – che porterebbero innanzitutto come risultato un modesto quantitativo disponibile per la distribuzione – apporterebbero anche ad un minimo quoziente di distribuzione, ad un minimo quantitativo; e lo posso comprovare, con elementi che ho in mano, proprio per la carne.

Tenete presente innanzitutto che da calcoli fatti – e del resto dalle stesse proposte che erano state fatte dalla C.G.I.L., la quale mi proponeva praticamente di mettere il blocco sul 50 per cento del bestiame – tenuto conto delle enormi difficoltà di imporre questa disciplina, che significa andare presso le stalle e portar via gli animali ai contadini, e soprattutto con le difficoltà di una organizzazione che sempre si mostrò difettosa, un simile progetto è estremamente difficile tradurre in pratica.

Ma, a parte tutto, penso che in Italia noi – vincolando il 50 per cento delle disponibilità – riusciremmo sì e no ad ottenere un 50 per cento di reperimenti; ragion per cui, dalle disponibilità attuali che, come è noto, superano i tre milioni di quintali di carne, sì e no potremmo arrivare ad un milione di quintali. Per cui, come quoziente di distribuzione (perché più grave diventa il fenomeno distributivo su tutta la massa della popolazione), arriveremmo a dare sì e no 50 grammi alla settimana.

Ora, se pensate che il consumo attuale, per esempio, di Milano, è di 19 chilogrammi all’anno per persona, cioè 370 grammi alla settimana, allora è evidente che se noi adottassimo una disciplina di questo genere, mentre non porteremmo certo giovamento nelle varie regioni dove andremmo a distribuire detti modesti quozienti, metteremmo una grande città industriale come Milano ed una grande massa di cittadini in una condizione di straordinaria difficoltà.

Quindi rimettere in piedi una organizzazione di questo genere sarebbe un assurdo.

Veniamo alle castagne ed ai fichi secchi, due prodotti che nel nostro Paese acquistano una importanza rilevante. Questi prodotti si distribuiscono regolarmente quando camminano per le innumerevoli strade del commercio libero arrivando a saturare il fabbisogno degli abituali consumatori. Orbene, io ho calcolato che se dovessimo fare una distribuzione di castagne a tutti, potremmo darne solo cento grammi al mese, tenuto conto di quel che si potrebbe reperire; né si potrebbero fare distinzioni pratiche, perché quando andiamo a distribuire, non possiamo identificare i normali consumatori né fare particolari distinzioni. Mentre ingenti quantitativi, anzi la massa della produzione resterebbe praticamente paralizzata, occultata presso i produttori e gli accaparratori, affluendo a consumo solo per le vie del mercato nero a prezzi elevatissimi. D’altra parte io devo ricordare un esempio classico, anzi devo ricordare due momenti del passato. Come ricorderanno alcuni autorevoli membri dell’Assemblea che parteciparono alle giornate della liberazione di Milano, allora i decreti del C.L.N.A.I. stabilirono, in conformità agli accordi presi in periodo clandestino, la conservazione di tutte le discipline alimentari.

Il secondo fatto saliente da ricordare è quello di Milano, organizzata in tempo fascista dai repubblichini e dai tedeschi, con una distribuzione fondata prevalentemente sulle mense popolari. Chi arrivava allora a Milano trovava aboliti i liberi ristoratori, abolito il libero commercio e tutti affluivano alle mense cosiddette del popolo. Ed allora io ricordo che con quelle mense non si poteva vivere. Le avevano create per eccesso di vincolismo: avevano messo una così grande città in condizione di estrema ed assoluta sofferenza, per cui chi non trovava modo di collocarsi presso qualche famiglia, era in condizioni di non potersi praticamente sostenere, non solo, ma tale rigorosità non migliorava le condizioni generali della popolazione, perché le singole famiglie erano in condizioni di estrema precarietà per i loro rifornimenti.

D’altra parte, l’abolizione delle discipline non è stata poi praticamente decretata dai vari Governi che si sono succeduti. Si è manifestata una situazione di insofferenza generale, che era dei produttori, che era degli industriali, che era dei commercianti, ma che era anche dei consumatori, i quali premevano perché si sciogliessero gli eccessivi legami che praticamente rendevano la vita insopportabile a vasti strati della popolazione.

Quindi, ecco perché non si può andare verso queste estreme conseguenze, mentre invece, come ho precedentemente detto, bisogna conservare le discipline dei prodotti di massa: cereali, zucchero e, entro certi limiti, anche olio, grassi, ecc.

Assicurare il pane, la minestra, il condimento, il latte, venire incontro a particolari categorie attraverso i generi di importazione. Certo, così noi assicuriamo oggi solo un quantitativo modesto.

È stato sempre detto che la tessera non è sufficiente: l’importante è che la tessera rappresenti una quota parte stabile, sicura, tranquilla al 50-60 per cento (così secondo i nostri calcoli) della razione calorica media. I confronti con altre Nazioni che sono vincolate più di noi non reggono. Si tenga presente che le risorse degli altri paesi sono superiori alle nostre, per cui sono in grado – sia per i sistemi alimentari più uniformi, sia per la massa di manovra veramente più ingente di produzione od importazioni – di assicurare razioni molto più elevate delle nostre.

Dall’insufficienza della razione è sorto il problema del sistema differenziato. In linea di principio, nessuno credo si opponga a tale sistema; perché è evidente come tutti non possiamo non essere preoccupati del problema di venire incontro a quelle che sono le maggiori sofferenze: il problema più grave e più delicato.

Io l’ho sposato, il sistema del tesseramento differenziato, del resto già applicato in parte e non da ora, a sostegno di alcune categorie. Basti pensare agli innumerevoli quantitativi di generi alimentari che vanno a favore delle mense operaie, delle varie istituzioni, di tutti quegli organismi che sono stati creati per l’assistenza dei meno abbienti. Però, il problema grave del tesseramento differenziato, come fu studiato – e fu certamente, a mio avviso, una notevole iniziativa del passato Governo – e come fu attuato, non ha dato i risultati che il Governo si aspettava.

Ha rappresentato uno sforzo considerevole per venire incontro ai meno abbienti, ma la verità è che nel momento in cui si è passati all’applicazione, tutte le categorie hanno premuto per entrare in quella categoria «A» che doveva essere riservata veramente alle categorie più sofferenti. Da questo è venuto praticamente un insuccesso del sistema; e le cifre sui risultati provvisori del censimento che furono già esposte, ma che amo qui ripetere in Assemblea, sono in proposito molto chiare.

Categoria A. Sono 27.983.133 non produttori, cioè quelli da tesserare o tesserati. Anche in questa categoria ci sono 6.020.183 di produttori. Nel totale sono circa 34 milioni della categoria «A».

Sapete che la categoria «A» è costituita dalle categorie che hanno un reddito al di sotto delle 30 mila, e comunque comprende tutte le categorie operaie.

Categoria B. Produttori: 3.725.821; non produttori: 3.483.480.

In sostanza, 3.483.480 tesserati.

Categoria C. Produttori 3.459.984; non produttori: 2.090.962.

In sostanza n. 2.090.962 tesserati.

In sostanza sono 33 milioni e 561 tesserati, di cui quasi 28 milioni appartenenti alla categoria A e 2 milioni o poco più alla categoria C. Ma le stesse proposte, venute da tutte le parti, e l’esame dei ricorsi, che si sta facendo, porteranno uno spostamento ulteriore dalla categoria C verso la A; per cui avremo probabilmente un allargamento della categoria dei così detti meno abbienti.

Ed allora questi inconvenienti ci metteranno in estrema difficoltà, nel non poter fare un’efficace applicazione pratica. Peraltro, non è stata scartata la possibilità applicativa, perché, come ho già accennato, per l’olio si farà un aumento della razione di 100 grammi a favore della categoria A. È possibile farlo per l’olio, perché, oltre ai quantitativi che riusciremo ad ammassare, resteranno in circolazione quantitativi ingenti.

Per i cereali il problema è estremamente grave e difficile.

È stato proposto dalla Confederazione generale del lavoro di ridurre la razione alla categoria C di 100 grammi. È esclusa la possibilità di togliere il pane e la pasta a questa categoria; alla quale, del resto, appartengono innumerevoli famiglie, le quali, per avere un reddito di 50 mila lire, non si trovano in condizioni felicissime, specialmente se hanno un forte carico di famiglia. D’altra parte, non possiamo logicamente legalizzare il mercato nero. Il pane è necessario a tutti, anche alle famiglie più abbienti.

Ma andiamo ai calcoli. Un giornale di stamane dice che noi giochiamo sulle cifre. Facile dimostrare il contrario. Riducendo di 100 grammi la razione ai due milioni di consumatori della categoria C, otteniamo un’economia mensile di 61 mila quintali, i quali, ripartiti su 27 milioni di consumatori della categoria A – destinati forse a diventare 30 milioni – porterebbero ad un aumento di appena grammi 7,6 a persona. Di fronte a questo insensibile vantaggio, vale la pena di affrontare il tesseramento differenziato che creerebbe una condizione di particolare disagio a molte famiglie?

Ma c’è un’altra considerazione di ordine generale.

Nelle nostre discussioni quotidiane presso il Comitato di emergenza internazionale, dove i nostri rappresentanti si logorano, la discussione sulla razione è continua. Vorremmo puntare verso la normalizzazione della razione, che dovrebbe essere di 235 grammi di pane giornalieri e 2 chilogrammi di generi da minestra mensili.

Si discute all’estero di questa opportunità; ma pensate se possono acconsentire ad un ulteriore aumento, quando rappresentanti del Comitato di emergenza sono venuti nei miei uffici a domandare qual è l’effetto, qual è l’economia che otterremo attraverso l’applicazione del sistema differenziato! Niente di meno consideravano la possibilità che questa economia, derivante dalla riduzione delle razioni alla categoria C, andasse a scomputo delle assegnazioni internazionali! Evidentemente noi possiamo trovare la maniera di ripartire meglio tra di noi, ma non dobbiamo presentarci comunque di fronte a questi consessi, dove si ragiona in condizioni di assoluta freddezza, a fare delle economie che ridurrebbero la massa delle possibilità alimentari nell’interesse del Paese.

Ora, certo per il prossimo anno, si andrà verso il contingentamento anche per i cereali, di cui vi parlerà il Ministro dell’agricoltura, e mi auguro che molta parte di detto problema potrà trovare allora la sua soluzione. Certo è che io penso che non si debba abbandonare il sistema: ho trovato sempre favorevoli anche tutti gli altri membri del Governo. Non lo si deve abbandonare, bensì – come ho accennato – revisionarlo. Il problema non è facile, ma io ho già emanato disposizioni per cercare di venire incontro alle vere sofferenze che sono quelle dei minorati, invalidi, disoccupati permanenti, degli impiegati ed operai degli enti statali e parastatali, e di tutti coloro i quali, pur giovandosi del sistema della scala mobile, si trovano, con un forte carico di famiglia, sottoposti alle conseguenze del carovita. Tali disposizioni tendono anche a fare ulteriori discriminazioni nella stessa categoria A, perché a favore di dette categorie minorate si possano meglio concentrare i mezzi che possiamo avere eventualmente disponibili. Del resto, basti ricordare tutta l’assistenza fatta a molte di queste categorie, con il potenziamento dei pacchi A.V.I.S.S., con lo sviluppo dei ristoranti popolari ed altri mezzi, che hanno giovato ad alleggerire la loro situazione. Ci si accusa di eccesso di liberismo: mi si consenta di dire che per la parte alimentare questo non è avvenuto, ma sono state mantenute invece tutte le discipline così come erano e si è rafforzata adesso quella del settore del latte alimentare. Fu soltanto ridotto al 35 per cento il coefficiente a carico delle merci di importazione, e ciò per due evidenti ragioni: primo, per facilitare l’afflusso dai mercati esteri; in secondo luogo, anche, perché i gravami dei prezzi assunti da dette merci erano tali che il vincolo totale rappresentava di per se stesso un’enorme difficoltà di collocamento, mentre il vincolo parziale a prezzi relativamente equi permette veramente di utilizzare queste merci a favore di quelle categorie che meritano di essere assistite.

Il problema dei prezzi. Questo dei prezzi è certo un problema di carattere essenziale: l’onorevole Nenni lo ha accennato ieri ed io ho qui dei diagrammi dimostrativi sull’andamento del fenomeno, che terrò ben volentieri a disposizione dei membri dell’Assemblea che vorranno prenderne visione. Mi riferisco ora a quei generi a cui ha accennato l’onorevole Nenni. Certo si è avuto un notevole aumento dei prezzi del grano in borsa nera. Tale fenomeno è una dimostrazione chiara e netta dell’effetto della disciplina stringente degli uffici che si occupano del reperimento dei cereali, ed è anche l’effetto della scarsissima produzione che ha privato gli stessi produttori di quei quantitativi tanto spesso oggetto di scambio diretto con i consumatori. Comunque, sta di fatto che esiste in circolazione una massa straordinariamente ridotta di grano. Queste le cause del rialzo; in ogni modo si tratta di un genere totalmente vincolato.

Bestiame da macello. Anche questo ha subito fortissimi aumenti, ma l’apice dell’aumento è stato raggiunto in maggio; successivamente abbiamo avuto una relativa stabilità. Quindi, non è vero che con questo Governo vi sia stato un sensibile peggioramento della situazione. Certo la carne è carissima (lo sappiamo tutti), però in questi ultimi mesi ha segnato una relativa stabilità. Nell’industria dei salumi. adesso si è verificata una punta per l’effetto dell’aumento subìto dai prezzi dei suini. Fenomeno che non mi è sfuggito, ma che sta in relazione con l’altro fenomeno, molto delicato: quello della deficienza dei mangimi. Ora, anche per il vincolo che noi poniamo ad una parte della produzione suina, io ho voluto sincerarmi dei costi di produzione ed ho visto che nelle condizioni odierne il prezzo dei suini è sostanzialmente parificato al costo di produzione.

CREMASCHI OLINDO. Ci parli della libertà di macellazione dei suini da lei consentita in agosto e settembre.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Questa libertà è stata concessa nel momento della massima depressione nella produzione, che praticamente era controproducente alla nostra disciplina. Abbiamo affrontato il problema ora più decisamente, attraverso una forma di carattere forfetario che è quella che ci garantirà quantitativi considerevoli di grassi suini, mentre abbiamo dato la libertà agli allevamenti familiari, che interessano una vasta massa di contadini che hanno bisogno di carne di maiale come un mezzo integratore della loro alimentazione. (Applausi al centro).

Comunque, per tutti gli altri prodotti, a cui ha accennato l’onorevole Nenni, trattasi di prodotti, come i fagioli o le uova e il pollame, che furono disciplinati nel tempo fascista e che ebbero come unico risultato di far sparire queste merci completamente dalle grandi città. Quindi, un ritorno a quelle discipline è assolutamente impossibile.

Come arrestare allora la corsa dei prezzi, che angoscia noi tutti, e come arginare le correnti speculative che essa alimenta, effetto esse e non causa, come molti erroneamente vorrebbero far apparire, del rialzo dei prezzi? Sono d’avviso che bisogna rafforzare il sistema di controllo degli organi centrali e periferici in un’azione di difesa elastica del consumatore. Però, non dobbiamo anche qui farci eccessive illusioni perché, come nel caso dei suini, come possiamo noi costringere a consegnare i suini ad un prezzo più basso di quello che è il costo di produzione?

Una voce al centro. Anche per il grano è avvenuto questo.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Il problema del grano verrà risolto con un altro sistema. Comunque, la verità è che il nostro sistema alimentare è prevalentemente appesantito dalla deficienza dei cereali. Se riusciremo a superare questa difficoltà, non c’è dubbio che le condizioni generali saranno migliorate. I recenti provvedimenti fatti per potenziare il sistema di difesa dei prezzi credo che, ove applicati con grande energia, potranno dare certamente i loro frutti perché non è vero che il calmiere non serva. Certo il calmiere ribassista, applicato come fu applicato in taluni casi, con drastiche misure di ribasso, ha sempre avuto effetti controproducenti; ma un calmiere che rappresenti un controllo sostanziale della situazione generale del Paese e delle singole zone, non c’è dubbio che può avere il suo effetto, purché non sia regolato da leggi anti-economiche, ma sia intimamente legato con l’andamento economico del Paese. (Commenti a sinistra).

A questo punto devo anche accennare a un altro organo di difesa, molto importante, che è in questi giorni ritornato alla ribalta: gli enti di consumo.

Ora, devo ricordare che la prima iniziativa di potenziamento di questi enti risale al 1945, quando io ebbi l’occasione di studiarli insieme all’allora Ministro Molè. Furono preparati provvedimenti di importante mole. Forse le intenzioni dei proponenti (nobilissime del resto) e dei sostenitori di quel tempo sono andate anche al di là del possibile, perché nell’applicazione pratica il sistema urtò contro difficoltà di ordine finanziario che impedirono al Governo di allora di portare a compimento l’iniziativa. Fu ripresa l’anno scorso col noto decreto del settembre, decreto che si dimostrò solo in parte insufficiente, perché all’ombra di quel decreto si realizzarono notevoli iniziative. Però gli inconvenienti erano soprattutto di carattere finanziario, per cui gli organismi sorti nelle varie parti d’Italia si trovarono di fronte a notevoli difficoltà in quanto la garanzia dello Stato, prevista da quel decreto, era una garanzia insufficiente e quindi gli enti reclamarono un allargamento di queste garanzie agli effetti del loro potenziamento.

Io ho sostenuto – ed ho trovato una larga comprensione in tutti i Ministri – la necessità di venire incontro a detti organismi, che ritengo di grande importanza agli effetti di un’azione calmieratrice, purché l’organizzazione sia adeguata, come aggiungerò fra poco.

Il decreto che è in corso di emanazione provvede ad accordare la garanzia solidale da parte dello Stato, cioè quella richiesta dai banchieri.

Già il precedente decreto aveva consentito ad alcune banche di fare anticipazioni agli enti comunali per miliardi di lire. Evidentemente non è un problema semplicemente di finanziamento; è un problema anche di sufficienti garanzie.

Una voce. Di uomini soprattutto.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Ora, consentitemi di chiarire alcuni punti essenziali nei riguardi di questi organismi che sono avversati oggi dalle categorie commerciali, mentre il provvedimento è criticato anche dagli stessi rappresentanti degli enti di consumo.

La verità è che l’ente di consumo ha una sua funzione particolare e specifica, mentre si vanno allentando gradatamente le bardature statali. Mano a mano che andremo verso una normalità e verso una liberazione da molti vincoli, vi è la necessità di creare la difesa capillare del consumatore, che non può svolgersi altro che nell’ambito del comune organo adatto per assicurare la protezione del consumatore. Però la sua funzione non è quella di sostituire il commercio: il commercio ha una sua funzione che è praticamente insostituibile; la funzione dell’ente invece è quella di moderare, di smorzare le punte speculative, è quella di calmierare la produzione dei mercati con l’afflusso di merci che specialmente in momenti di emergenza possono avere una grandissima importanza.

Abbiamo esteso anche la facoltà della distribuzione dei generi razionati, perché i generi razionati oggi vengono distribuiti – da sei anni a questa parte – attraverso determinate categorie di commercianti, che hanno indubbiamente agito secondo le nostre direttive, ma secondo margini di compenso difficilmente identificabili nella linea di precisa e, comunque, di assoluta equità, in quanto è estremamente difficile, dove non c’è un sistema di concorrenza, stabilire quale è l’effettivo peso dei vantaggi da dare alle categorie intermedie. Invece, l’intervento degli enti, che non sostituiranno tutta la vasta gamma dei distributori, ma si metteranno in una condizione di relativa concorrenza, ci permetterà di controllare costi e di renderli più adeguati nell’interesse della distribuzione e del consumo.

Comunque, devo anche dire a questo proposito come questo problema degli enti di consumo sia molto legato ad una necessità assoluta. Ripeto, sono favorevole agli enti di consumo, anzi li ritengo di basilare importanza in questo momento; però, prima di tutto, non possono e non devono creare nuove ed inutili attrezzature, né devono pensare di sostituirsi alla rete di distribuzione diretta ai consumatori. La loro funzione deve rimanere prevalentemente grossista e deve associarsi intimamente al vasto movimento cooperativo, da riorganizzarsi su basi serie e, soprattutto, perfette sotto l’aspetto tecnico ed economico. (Applausi al centro).

MANCINI. Ma con tutte queste riserve non si farà niente! (Commenti).

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. E allora questi enti di consumo devono sorgere non sotto forma elefantiaca; devono svilupparsi gradatamente, perché si lega con l’organizzazione la possibilità di disporre di uomini capaci, onesti, pronti ad agire e anche a sacrificarsi per queste necessità di ordine generale. Io ricordo che questi uomini non difettano nel nostro Paese: mi basti citare un uomo, che è scomparso di recente, un generoso pugliese stabilito a Milano, il colonnello Mattia, che guidò le mense popolari ed è immaturamente scomparso dopo aver sfamato con la sua energia, con la sua attività e con la sua onestà, vaste categorie di consumatori milanesi.

Ora, il problema è soprattutto, oltre che un problema di mezzi, anche un problema di uomini. Partano quindi tutti gli enti di consumo, partano pure con mezzi limitati, ché forse la limitazione di mezzi li metterà su una linea più severa; ma si mantengano fedeli alle sagge discipline economiche.

Noi li aiuteremo; non mancherà il credito.

Io dissi di recente al rappresentante di un ente: con la garanzia solidale dello Stato, non mancheranno le possibilità, ma a condizione che l’ente operi con saggezza e si metta sulla strada della sana economia. (Commenti). E, d’altra parte, è certo che, se tutti questi enti potranno disporre di un uomo del tipo del povero colonnello Mattia, è certo che noi li vedremo largamente prosperare e svilupparsi, insieme con l’affermarsi e l’incrementarsi dell’ordinamento cooperativo.

Io vi assicuro che una delle maggiori difficoltà in questo campo deriva dal fatto che non c’è una larga rete cooperativa. Le cooperative infatti sono oggi così frazionate che riesce estremamente difficile poter provvedere alla distribuzione attraverso esse, perché è evidente che le distribuzioni diventano sempre più difficoltose quando si affidano a cooperative che sono ben lungi dal rappresentare tutta la vasta gamma delle categorie cui la merce dev’essere distribuita.

Volgendo verso la conclusione del mio discorso, sento la necessità di riaffermare che la soluzione del problema alimentare è legato a quello del grano, verso la cui soluzione tendono tutte le forze del Governo e dei valorosi rappresentanti distaccati all’estero che si battono presso i vari Governi amici.

Dopo questo che è, come ho detto, il problema preminente, abbiamo questi altri capisaldi della nostra azione di Governo: mantenere la disciplina in atto, rigida per i cereali (in attesa di passare al contingente) e per lo zucchero; per contingente negli olii, grassi, latte, prodotti d’importazione e se sarà necessario anche in altri settori; perfezionamento, nel miglior modo possibile, degli organi di controllo dei prezzi; potenziamento degli enti di consumo, con l’esercizio, fin dove è possibile, di una disciplina dei mercati.

Onorevoli deputati, sono alla fine della mia esposizione. Consentitemi però ancora una considerazione di carattere personale. Io vedevo, giorni or sono, proprio dinanzi alla porta del mio ufficio, un richiamo, un rimprovero solenne: un richiamo alla fame e un rimprovero solenne a noi, quasi fossimo noi un po’ i responsabili di questa situazione. Non mi lagnerò io, onorevoli deputati, né si lagneranno con me i numerosi funzionari che io sento il dovere qui di ricordare, così del centro, come della periferia, perché se è vero che ve ne può essere qualcuno disonesto, è anche vero però che ve ne sono moltissimi che si sono encomiabilmente sacrificati. (Applausi).

Non ci lagneremo noi già, perché sappiamo qual è la situazione di pena in cui versano i più derelitti quando lottano con le difficoltà della vita: consentitemi però che io vi dica che non conviene a nessuno di esasperare questa situazione, di fronte alle immense difficoltà in cui si dibatte il Paese. Non conviene a nessuno, perché quelli che vennero prima di noi e quelli che verranno dopo di noi si trovarono e si troveranno di fronte alle stesse difficoltà; né conviene drammatizzare le situazioni, perché questo nostro Paese dispone indubbiamente di ancora innumerevoli risorse. E poiché il problema essenziale è il problema del grano, io penso anche che, come non mancò in passato il generosissimo concorso dell’U.N.R.R.A. – concorso che, forse, il popolo italiano inconsapevolmente non ha ancora apprezzato nella sua entità veramente mirabile, ma che noi soprattutto abbiamo pesato nella quotidiana passione della distribuzione al consumo; – io penso che non verrà a mancare neanche nel prossimo avvenire la generosa solidarietà internazionale, che essa ci sosterrà in attesa che questo nostro popolo – che è soprattutto un grande popolo di contadini, di agricoltori, di imprenditori, di tecnici – compirà il miracolo della ricostruzione, restituendo al Paese la sua prosperità agricola, capace di sostenere, come fu nel passato, ripeto, il 90-95 per cento del consumo alimentare nazionale. E la ricostruzione della nostra economia agricola verrà – per la conoscenza che ho di queste categorie, capaci di compiere sforzi prodigiosi – verrà forse prima di quanto noi non pensiamo, e sarà la base essenziale per la ripresa dell’indipendenza economica del nostro Paese. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato ad una prossima seduta.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, per sapere quali provvedimenti abbiano adottato o intendano adottare per alleviare i danni arrecati dal recente nubifragio in provincia di Forlì».

«Macrelli».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Risponderò mercoledì prossimo.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere il numero esatto dei feriti accolti o medicati all’ospedale di Gorizia attorno al 16 corrente e in seguito ai noti incidenti.

«Pecorari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere se sia giusto che una regione come la Calabria continui ad essere trascurata come ai tempi del suo predecessore. Infatti risulta che per solo pane la provincia di Cosenza ha un arretrato di oltre 17 mila quintali di farina; mentre le altre due provincie, pur avendo un fabbisogno giornaliero superiore, hanno ciascuna un arretrato di 11 mila quintali di farina. Si fa osservare che il grano proveniente dal piroscafo Mazzini di cui nella risposta a una precedente interrogazione, non è stato sufficiente a coprirli perché si sarebbe dovuto sospendere la corresponsione delle razioni correnti. Per saldare gli arretrati bisogna corrisponderli in aggiunta alla razione giornaliera.

«Mancini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se, in accoglimento degli ordini del giorno indirizzatigli dagli insegnanti elementari reduci, ex partigiani ed assimilati, non ritenga equo disporre:

  1. a) che le cattedre di insegnamento elementare attualmente vacanti siano assegnate mediante concorso per soli titoli, nella misura del 50 per cento, ai reduci ed agli ex partigiani, in analogia con quanto già applicato nel 1919 a favore degli ex combattenti della guerra 1915-18;
  2. b) che i concorsi per titoli si svolgano nell’ambito provinciale, considerando titolo di preferenza la residenza in provincia da almeno cinque anni. Nel caso in cui i posti disponibili non fossero coperti, potranno esservi ammessi reduci ed ex partigiani delle provincie viciniori, che abbiano adito ai concorsi nelle rispettive provincie e ne siano rimasti esclusi per mancanza di posti;
  3. c) che i rappresentanti della Associazione reduci e della Associazione partigiani siano chiamati a far parte delle Commissioni provinciali per la valutazione dei titoli;
  4. d) che qualora i posti disponibili risultassero inferiori al numero dei concorrenti, siano riservati posti ai reduci ed agli ex partigiani sempre nella misura del 50 per cento nei concorsi degli anni successivi sino ad esaurimento della categoria. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Scarpa, Fornara, Scalfaro, Jacometti».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 14.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 29 settembre 1947.

Alle ore 16:

Interrogazioni.