ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCXI.
SEDUTA DI GIOVEDÌ 31 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedo:
Presidente
Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):
Presidente
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Damiani
Jacini
Giannini
Caroleo
Badini Confalonieri
Sforza, Ministro degli affari esteri
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Nenni
Gronchi, Relatore della maggioranza
Ruini
Orlando Vittorio Emanuele
Selvaggi
Corbino
Scotti Alessandro
Perassi
Bassano
Patricolo
Togliatti
Laconi
Condorelli
Votazione segreta:
Presidente
Chiusura della votazione segreta:
Presidente
Sui lavori dell’Assemblea:
Micheli
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Presidente
Risultato della votazione segreta:
Presidente
Interrogazioni, interpellanze e mozione (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 9.30.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lombardi Riccardo.
(È concesso).
Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.
PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte ad interrogazioni presentate da onorevoli deputati.
Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.
Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
Restano da svolgere alcuni degli ordini del giorno presentati. L’onorevole Damiani ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, certa della rinascita dell’Italia nel nuovo clima di solidarietà internazionale, delibera di ratificare il Trattato per chiudere un triste periodo di errori, cui tutto il mondo concorse».
Ha facoltà di svolgerlo.
DAMIANI. Onorevoli colleghi, io sarò brevissimo; non parlerò più di dieci minuti.
PRESIDENTE. Sarà un esempio per gli altri.
DAMIANI. L’onorevole Sforza ha dichiarato che se entro il 10 agosto l’Italia non avrà ratificato il Trattato, corriamo il rischio di vedere ritardato di un anno il nostro ingresso all’O.N.U.
Chi ha sostenuto l’indipendenza dei due fatti non ha potuto dimostrare matematicamente il suo asserto. Tanto più che oggi i giornali pubblicano due nuove notizie che confortano la tesi favorevole alla ratifica. La prima ci fa sapere, secondo un portavoce del Foreign Office, che l’Unione sovietica subordina la ratifica dei trattati a quella preventiva degli Stati ex-nemici; la seconda riguarda il veto russo all’ammissione fra le Nazioni Unite degli Stati vinti che non hanno ratificato il rispettivo Trattato di pace. Quindi, di fronte a questa situazione, l’Italia non può assumersi gravi responsabilità verso il suo popolo, essendo per noi assolutamente necessario rientrare nella catena della piena e viva collaborazione internazionale.
Questa settimana di dibattito, che chiamerei settimana di passione e di dolore nazionale, ha rivelato al mondo l’alto senso di dignità e di realtà del popolo italiano. Le mutilazioni che ci impone il duro Trattato dobbiamo subirle come una imposizione che non possiamo respingere, ma il dolore dà al popolo italiano la forza di risollevarsi fidando nelle sue grandi risorse morali e di lavoro.
La revisione non potrà essere negata.
Noi non possiamo isolarci dal mondo, ma nemmeno il mondo può fare a meno dell’Italia.
Un russo, Giacomo Novicow, pubblicò nel 1902 un volume sulla missione dell’Italia. L’eminente sociologo, obiettivo analizzatore della fisiologia dei popoli, fu ardente amico dell’Italia, ne conobbe l’alto potenziale umanistico, scientifico, artistico, civile e sociale e nel quadro armonico che egli si fece di un mondo concepito a razionale e naturale unità di forze, disciplinate ed equilibrate al fine del bene comune, egli vide ed esaltò la nobile e feconda missione dell’Italia sia nel campo intellettuale, dato che essa fu madre del diritto, delle scienze e delle arti, ed è sempre nuova generatrice di alte e forti energie, di genio e di lavoro, sia nel campo internazionale per le sue possibilità di iniziativa per unire i popoli.
Il fervente federalista Novicow, venendo sulla strada già tracciata da Mazzini, fin dal 1900 si fece sostenitore di quella chiara, giusta e naturale teoria che oggi, rifiorita nel cuore di milioni di uomini, costituisce la più grande forza che lo spirito possa opporre al disordine e ad una miope politica di astuzie e di egoismi, che rinverdendo i decrepiti e anacronistici nazionalismi e imperialismi, condurrebbe il mondo a morte.
L’Italia – col Trattato o senza Trattato – è viva, vigorosa ed eterna.
Essa, non soltanto per il mutato clima dei tempi, ma per la sua debolezza militare, non ha più possibilità di intervenire con la forza in una politica che sulla forza fosse basata.
Noi siamo il popolo che più sentiamo l’attuale fase evolutiva verso un mondo ascendente all’unità, perché Iddio ci ha dotato di alto senso storico, politico, etico e sociale. Siamo il popolo più internazionalista. Noi abbiamo preso la via giusta delle due che sul bivio della storia invitano e tentano l’umanità alla salvezza o alla distruzione. Questa alta missione storica di fattore riequilibratore, di combattente per la pace, di sollecitatore di soluzioni armoniche tra le forze contrapposte, di avvicinatore delle parti divise da un complesso di malintesi di carattere ideologico ed economico, questo alto compito umano di suscitatore di un sano ottimismo, mentre rauche e livide si fanno le lingue pessimistiche che annunciano un nuovo cataclisma, proprio dall’Italia deve essere esplicata con la virtù del suo spirito vibrante di ideale e di saggezza.
Cosa rimane a noi se non la forza della nostra volontà, della nostra energia, capacità, intelletto, sensibilità, lavoro?
Questo oscuro trattato segnerà il limite di una triste epoca, limite fino al quale la mentalità di un cupo medioevo ha potuto spingersi.
Esso sarà superato certamente dall’avvento delle forze del bene che stanno fiorendo e germogliando in tutti i continenti.
Occorre aver fede in un avvenire migliore. I popoli tendono a unirsi e si uniranno, e i dettagli della situazione presente, che oggi tanto ci affliggono, saranno le briciole di un triste passato che la nuova era di luce disperderà definitivamente.
A Londra, nel febbraio scorso, 72 membri del Parlamento britannico si pronunciarono a favore di una federazione mondiale.
Truman, il 4 luglio, invita e sospinge alla solidarietà internazionale.
«Noi dobbiamo mirare – egli afferma – non ad assicurare la pace per il nostro tempo, bensì la pace per tutti i tempi a venire».
Perón, nel suo discorso del 6 luglio, rivolge un caldo appello a tutti i popoli perché la nuova fede federalista mondiale li illumini e li guidi.
Marshall sollecita la ricostruzione economica dell’Europa su un piano di generale concorso di tutte le forze europee per l’instaurazione di un nuovo ordine continentale.
Ai Paesi che ancora non hanno partecipato ai lavori preliminari per la definizione del piano sarà incessantemente ripetuto l’invito e tutti si augurano la collaborazione dell’Oriente europeo alla formazione della nuova struttura comune per tutti i popoli civili.
Coudenhove-Kalergi ha riunito, il 4 luglio, i parlamentari di quasi tutti i Paesi europei a Gstaad per la costituzione di un libero Parlamento europeo, e l’8 settembre i deputati di molte nazioni torneranno a riunirsi in un grande congresso nella stessa Gstaad.
L’Italia ha dato il maggior numero di adesioni all’iniziativa di Coudenhove-Kalergi: 310 sono stati i deputati italiani che hanno risposto sì al suo primo quesito se erano favorevoli ad una Federazione europea.
Oltre 200 sono i deputati italiani che costituiscono il gruppo parlamentare per la Unione Europea.
Dal 17 al 24 agosto, con la partecipazione di oltre 20 nazioni, di tutti i continenti, avrà luogo a Montreux un congresso per l’Unione Mondiale e dal 27 al 30 agosto un secondo congresso per l’Unione Europea.
All’Università internazionale di Lugano dal 31 agosto al 28 settembre avrà luogo un corso di «Educazione alla pace e alla cooperazione dei popoli».
In tutto il mondo fioriscono movimenti federalisti e se ne incontrano decine in ogni Paese. Recentemente in America, è stata calcolata al 67 percento la popolazione favorevole ad un Governo Mondiale. In tutto il mondo si pubblicano libri sulle possibilità reali di una Federazione mondiale.
Reves, nella sua «Anatomia della pace» scrive:
«La credenza diffusa che sia impossibile qualsiasi ordine legale unificato tra l’Unione Sovietica e le Democrazie occidentali a causa delle differenze fondamentali nei loro sistemi economici, non è più valida del pregiudizio vecchio di secoli che cattolici e protestanti non possano vivere pacificamente nella stessa comunità.
«I conflitti tra Stati sovrani sono inevitabili non a causa di differenze nei loro sistemi sociali-economici, ma a causa del potere sovrano non integrato delle unità sociali divise».
L’onorevole Nobile, nel suo recente libro L’Umanità al bivio, conclude che il sistema delle sovranità nazionali è oggi il nostro peggiore nemico: «Occorre lottare strenuamente contro esso e il disordine economico, che ne è conseguenza, per far trionfare sullo spirito dei gretti, malefici, feroci nazionalismi quello della solidarietà fra tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, religione, cultura».
L’O.N.U. e le organizzazioni internazionali derivate: U.N.E.S.C.O., F.A.O., U.N.R.R.A., e tante altre per il potenziamento sul piano mondiale delle più sane forze culturali sociali ed economiche, sono il preludio della nuova storia.
Se in ogni paese si indicesse un referendum sulla Federazione Mondiale, il risultato sarebbe senz’altro positivo. I popoli debbono essere coscienti della loro qualità di protagonisti della storia e devono determinare i fatti positivi che generano la pace e l’armonia. Noi dobbiamo credere, fermamente credere nel valore e nella forza dello spirito, che Dio ha dotato di virtù sublimi, se vogliamo risollevarci dal dolore ed operare in pro dell’umanità umiliata ed affronta, che soffre e che spera.
Il sospetto, l’ipocrisia e l’egoismo immiseriscono e distruggono; essi debbono esser vinti dalla comprensione e dalla fede.
Roosevelt disse: «Le Nazioni Unite vogliono lavorare all’instaurazione di un ordine internazionale nel quale lo spirito di Cristo guidi i cuori degli uomini e delle Nazioni». L’Italia vuole entrare nell’O.N.U. appunto per adempiere, alla luce di quel principio, l’alta missione cui è particolarmente chiamata. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Jacini ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, mentre rinnova la più viva protesta contro le clausole del Trattato di pace, che disconoscono l’apporto decisivo recato dal Corpo di liberazione e dai Partigiani italiani alla causa comune, delibera di autorizzare il Governo a dar piena esecuzione ai Trattato medesimo, non appena esso entri in vigore a termini dell’articolo 90».
Ha facoltà di svolgerlo.
JACINI. Onorevoli colleghi, il doloroso episodio che ha chiuso la seduta di ieri ha confermato quella che era in me opinione già radicata; e cioè che tutta questa discussione avrebbe dovuto, per carità di patria, essere impostata diversamente. Noi non potevamo certo pretendere che una parte dei nostri colleghi si adagiasse all’opinione dell’altra per amore di unità esteriore, per formare una specie di fronte unico dinanzi allo straniero; ma ben potevamo imporre a noi stessi un contegno così sobrio, un’argomentazione così contenuta e castigata, una manifestazione così moderata dei nostri dissensi, da dare a tutto il mondo una manifestazione di quella sostanziale solidarietà di idee che è pure in noi quando, di comune accordo, riteniamo tutti ingiusto e difficilmente sopportabile questo Trattato che ci viene imposto.
Purtroppo non è stato così. Purtroppo i dissensi si sono manifestati con una violenza e con una incoerenza davvero deplorevoli; onde a me non resta che trarne per mio conto questo proposito, di mantenere le mie brevi parole entro limiti tali, da non riaccendere un nuovo contrasto, da non offrire di nuovo uno spettacolo, alla Nazione e al mondo, così diverso da quello che la Camera italiana avrebbe pur dovuto presentare.
Io noto, con qualche stupore, una certa diversità di impostazione fra coloro che sostengono una stessa tesi, e cioè la tesi della non ratifica o della non immediata ratifica del Trattato.
Tra le parole del senatore Croce e quelle di altri colleghi, specie di questa parte dell’Assemblea (Accenna a destra), mi è parso infatti di notare un sostanziale e profondo divario, anche se le conclusioni erano in apparenza uguali. Nelle parole di Benedetto Croce vibrava una contenuta passione, una protesta fondata su ragioni morali; protesta alla quale tutti i settori di questa Assemblea non possono che aderire, anche se molti di noi non ne traggono quelle conseguenze politiche che al senatore Croce è piaciuto di trarne. Ma, sull’insieme della sua argomentazione, ripeto, non poteva esservi dissenso.
Invece, da qualche altra parte dell’Assemblea hanno riecheggiato rimpianti, che non mi sembrava dovessero udirsi in quest’Aula. Mi è sembrato, cioè, che da alcuni si rimpiangesse, non tanto o non soltanto il prezzo troppo duro pagato per la sconfitta, l’ingiustizia della pace che ci viene imposta, ma proprio la sconfitta medesima; quasi che fosse pensabile, quasi che fosse sopportabile alla mente di un Italiano che il conflitto potesse avere un esito diverso da quello che effettivamente ha avuto.
Onorevoli colleghi, io sono stato due volte, durante l’ultima guerra, richiamato in servizio militare, ed ho fatto il mio dovere di soldato, di ufficiale e di gentiluomo. Ma non è mai venuta meno in fondo al mio animo la convinzione che la guerra era perduta, che la sconfitta era inevitabile, che la sconfitta era necessaria; necessaria per quella fatalità, per quella giustizia immanente della storia, la quale non è se non l’estrinsecazione della giustizia trascendente di Dio.
Vi sarebbe stato, o signori, qualcosa di assai più grave della sconfitta; la situazione sarebbe oggi assai più grave di quella davanti alla quale ci troviamo, se, anziché la sconfitta noi avessimo avuto la vittoria delle potenze del male, e se a quella vittoria noi fossimo rimasti, in qualche misura, associati. (Applausi). Quando da parte di qualcuno si dice che la nostra cobelligeranza doveva essere negoziata, ciò può corrispondere ad una esatta, se pur miope visione della contingenza momentanea; ma non dimentichiamo che la cobelligeranza era per noi un diritto prima che un dovere, e soddisfaceva ad una nostra profonda aspirazione. Tutto quello che possiamo rimpiangere è che essa ci sia stata concessa troppo tardi ed in misura troppo ristretta. Moralmente la cobelligeranza non poteva essere negoziata, perché rispondeva ad un postulato fondamentale della coscienza italiana. E quando l’onorevole Patrissi dice che la guerra del 1915 e la guerra del 1939 sono sostanzialmente una cosa sola e rispondono ad un medesimo piano nazionale, egli – mi pendoni la parola forse un po’ forte – pronuncia una bestemmia, perché la guerra del 1939, nello spirito che l’ha animata come nei risultati che ha conseguito, è stata l’antitesi e la distruzione della guerra del 1915. La guerra del 1915 è guerra alla quale tutto il popolo italiano ha partecipato con le più profonde radici del proprio spirito; la guerra del 1939 è guerra che il popolo italiano ha condotto per un semplice concetto di onore militare, ha subito come una dolorosa necessità, e che ha profondamente rimpianto di dover condurre; onde i risultati sono stati quelli che dovevano necessariamente corrispondere ad uno stato d’animo siffatto.
Comunque, i vincitori ci obbligano oggi a pagare per questa guerra uno scotto che è indubbiamente sproporzionato, perché non tiene conto dell’apporto considerevole e concreto che alla risoluzione finale del conflitto hanno dato le nostre forze militari organizzate ed i nostri partigiani.
Onorevoli colleghi, se lo scotto è così alto, gli è perché i nostri nemici di ieri sentono ancora nelle carni il danno positivo che noi abbiamo loro inflitto; è perché il nostro esercito, trascinato in una guerra che non voleva, si è tuttavia battuto con strenua abnegazione; le nostre fanterie, accompagnate da carri armati di modello antiquato, hanno fatto tutto il loro dovere; le nostre artiglierie, con un armamento anacronistico, hanno sparato giusto; la nostra marina, cieca, priva di una propria aviazione, priva di porta-aerei, si è tuttavia battuta su tutti i mari; la nostra aviazione, alla deficienza di materiali ha supplito con la mirabile abnegazione dei suoi uomini. Io vorrei che sulle tombe ignorate dei nostri soldati caduti, dalle sabbie infuocate dell’Egitto alle steppe gelate della Russia, fiorisse la riconoscenza della Patria; che si potesse incidere su quelle tombe ciò che Luigi I di Baviera volle scolpito sulla stele, che a Monaco ricorda il sacrificio dei bavaresi caduti combattendo nelle schiere napoleoniche nella campagna di Russia: «Auch sie starben für’s Vaterland»: «anch’essi sono morti per la Patria». (Approvazioni).
Questo valore del nostro esercito, questa efficienza della nostra offesa, è stata riconosciuta dal maresciallo Alexander, dal generale Clark, dall’ammiraglio Cunningham e da molti altri; e noi possiamo ben accontentarci di queste testimonianze di ex nemici divenuti amici, e respingere come immonda, con la punta dei nostri stivali, l’oscena accusa formulata in un noto discorso del signor Wischinski, camuffata ed edulcorata poi dalle interpretazioni di una ufficiosa agenzia; la quale peraltro si è dimenticata di includere nella smentita la prima frase, che io non voglio ripetervi qui per carità di Patria e per rispetto di me medesimo; frase che crea fra noi e l’amico popolo jugoslavo un diaframma, che non sarà allontanato se non il giorno in cui la frase stessa verrà ritirata o smentita.
Questo debito che gli alleati ci impongono di pagare, noi l’abbiamo riconosciuto. La necessità della ratifica è stata, su proposta dell’onorevole Nitti, votata all’unanimità dalla Commissione dei Trattati. Noi abbiamo, in un primo tempo, autorizzato l’ambasciatore di Soragna ad apporre la propria firma al Trattato di pace; successivamente abbiamo votato a maggioranza in seno alla Commissione dei Trattati in favore della ratifica, e abbiamo consegnato tale voto, e guisa di viatico, nelle mani del nostro Ministro che si recava a Parigi. Che cosa dovrebbe ora spingerci a non ratificare? Quali vantaggi possiamo riprometterci da una non ratifica?
Il solo fatto che secondo alcuni può consigliarci a non ratificare è questo, che la Russia sinora non ha ratificato: la Russia, notate bene, cioè la sola fra le Potenze vincitrici, che alla nostra domanda di revisione abbia risposto con un no secco ed assoluto, ammonendoci che bisognava sottostare in qualsiasi modo alle condizioni imposteci, perché il Trattato, così com’era, rappresentava quanto di meglio l’Italia potesse attendersi in ogni caso.
Ed è proprio per aspettare la ratifica della Russia che noi dovremmo sospendere un atto libero della nostra volontà? (Commenti a sinistra).
La ratifica che cosa significa? Significa uscire dalle condizioni precarie in cui ci troviamo oggi; liquidare, sia pure a prezzo caro ed ingiusto, il nostro debito; sederci dall’altra parte del tavolo, entrare nel novero dei popoli creditori.
Perché dovremmo rimandare dunque la ratifica?
Non per ragioni giuridiche, perché il carattere coatto di questa pattuizione è nella sua stessa natura; trattato viene da trattare, e questa pattuizione non è stata trattata, quindi il Trattato è di per sé stesso coatto, indipendentemente dalla ratifica che noi possiamo o non possiamo apportarvi.
Non per ragioni pratiche, perché la clausole alle quali il Governo sottopone la ratifica fanno sì che essa non divenga operante se non il giorno in cui vi sia il concorso da parte di tutte le potenze vincitrici. Quindi quelli che potrebbero essere i temuti inconvenienti di una ratifica data in anticipo sono a priori eliminati dalla cautela di tale formula.
Non, infine, in attesa di non so quale sperabile evento: ma quale evento? Si dice che vi sia una probabilità su un milione che esso si verifichi. Ma io anche questa probabilità non la vedo e, per la natura stessa dell’atteggiamento che andiamo ad adottare, ove una simile ipotesi si verificasse, ebbene, noi saremmo ancora in tempo a tornare a discutere sull’argomento; questa nostra ratifica in realtà non è tale ma si riduce ad un’autorizzazione, data al Governo, di procedere alla ratifica quando si siano verificate determinate circostanze.
Si parla infine di fierezza nazionale: in questi giorni si è molto abusato di questo motivo. Ma io domando se vi sembri che vi sia da parte nostra maggior fierezza nel pagare, nel gettare sul tavolo il prezzo del nostro debito, o se ve ne sia una maggiore ne1 piatire indefinitamente, per qualche mese o per qualche anno, in attesa di un indeterminato evento o di un supposto mutamento di spirito da parte di taluno dei nostri vincitori.
Io ritengo che la fierezza stia in questo caso, nel porre la parola fine sotto i nostri debiti e nel portarci dall’altra parte della barriera.
La verità è che tutti quanti – e non soltanto da quei banchi (Accenna a sinistra) – tutti aspettano la parola di Mosca. Non hanno impressionato l’onorevole Orlando gli applausi scroscianti che hanno da quel settore accompagnato le sue più accese formulazioni nazionalistiche? Ha pensato l’onorevole Orlando se quegli applausi vi sarebbero stati, e quali sarebbero stati, ove invece della ratifica della Russia si attendesse, poniamo, la ratifica dell’Inghilterra o quella degli Stati Uniti? Molto probabilmente i consensi sarebbero diventati dissensi, e la situazione in quest’aula sarebbe stata completamente cambiata. (Approvazioni al centro).
Io voglio ricordare qui un episodio, che farà piacere molto probabilmente ai miei amici comunisti, in quanto è tratto da quella storia della Russia zarista che la storiografia ufficiale sovietica ha completamente incorporata e fatta propria. Nel cosiddetto periodo «dei disordini», che va dalla morte di Ivan il Terribile all’assunzione del potere da parte di Pietro il Grande, un’ambasceria moscovita venne in Italia e si fermò anche a Firenze, nella Firenze medicea del secolo XVII. Ebbene, il più grande stupore – ci dicono le cronache – il più grande stupore che quei barbuti ambasciatori abbiano provato, proveniva dal vedere come il Granduca mediceo non si prosternasse a terra e non battesse la fronte sul tappeto al solo udir pronunciare il nome dello zar. Amici, ho paura che vi sia molta gente in Italia che, in ritardo di tre secoli, pensa ancora come quegli ambasciatori moscoviti! (Commenti a sinistra). È un’opinione, basata su un dato storico; ci sono dei curiosi ricorsi nella storia!
Onorevoli colleghi, io non voglio abusare del tempo vostro e dell’Assemblea; voglio dire soltanto questo: l’Italia oggi chiude la partita per iniziare la sua faticosa ascesa. Nella storia millenaria del nostro Paese ricorrono gli episodi di questo genere; cadute alle quali succedono lunghi periodi di ricostruzione e di palingenesi. Se qualcuno di voi vorrà prendersi la briga di sfogliare gli annali del Parlamento subalpino dopo la sconfitta di Novara, dopo il 1849, troverà una situazione psicologica molto vicina alla nostra attuale. Anche allora erano forti i dissensi, anche allora vi erano alcuni che non volevano accettare il fatto compiuto a nessun patto, che avrebbero voluto una resistenza senza scopo e senza contenuto. Anche allora vi furono uomini cauti e prudenti che vollero invece accettare il fatto compiuto; e badate: il fatto compiuto significava allora consegnare all’Austria le chiavi di casa – le chiavi della fortezza di Alessandria – consegnare allo straniero – come purtroppo oggi avviene – alcuni punti vitali della nostra frontiera; ma da quel momento era pur possibile intraprendere, in un’atmosfera di serenità austera e di concentrata volontà, la ricostruzione morale e materiale del Paese.
Questa è la situazione in cui l’Italia si trova attualmente, questa è l’opera alla quale ci accingiamo; per attendere alla quale abbiamo bisogno di porre la parola fine a questo disgraziato e deprecato conflitto, in cui la frenetica volontà di un uomo ci ha spinti, e avviarci a quella lenta e faticosa ricostruzione che darà al nostro Paese un avvenire, non certo roseo né florido, ma un avvenire degno delle nostre grandi e millenarie tradizioni. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. L’onorevole Giannini ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, ritenendo non urgente la discussione sulla ratifica del Trattato di pace, la rinvia a data da destinarsi».
Ha facoltà di svolgerlo.
GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi avevamo chiesto di non discutere la ratifica del Trattato di pace. Alla prima proposta fatta in questo senso dall’onorevole Orlando noi ci associammo facendo nostra quella proposta e chiedendo che su di essa si svolgesse con urgenza la votazione. Avemmo il consenso di altri partiti coi quali di solito non ci troviamo d’accordo.
Sventuratamente, quella proposta non fu approvata e ciò che noi avevamo previsto è accaduto. Avevamo previsto che la discussione sul Trattato di pace non si poteva fare, e non si poteva fare perché è una discussione nella quale tutti possono avere ragione, nella quale tutti possono portare ragioni valide a sostegno della propria tesi. È un discussione che si fa mentre ancora le ferite da ogni parte riportate bruciano, mentre i rancori sono ancora recenti, mentre le delusioni e i dolori ancora stringono il nostro cuore forse più della miseria che ci opprime.
In queste condizioni di spirito, le quali non sono soltanto quelle dell’Assemblea ma quelle dell’intero Paese, non era possibile, e non è stato possibile, condurre una discussione serena sul Trattato di pace. Ciò che è avvenuto lo prova. Noi prendiamo amaramente atto del fatto di avere avuto ragione a proporre quanto avevamo proposto.
Che la discussione sulla ratifica del Trattato fosse difficile e dovesse necessariamente trascendere, ne abbiamo avuto le prove durante tutta la discussione, alla quale io personalmente ho invano tentato di sottrarmi, andando perfino a curare le avventure e le sventure di una crisi comunale di una grande città italiana, quasi a provare che ritenevo più importante la soluzione di un problema amministrativo locale che non quella che – senza offesa per nessuno – mi permetto di chiamare logomachia intorno ad un fatto che può essere modificato solamente da circostanze e da forze che sono estranee a noi; e non da noi, né dalle nostre parole né dai nostri rancori né, soprattutto, dalle nostre lotte che ci fanno assomigliare ai polli di Renzo che si beccavano l’un l’altro credendosi scambievolmente autori del proprio martirio.
Noi abbiamo avuto una prova della pericolosità di questa discussione ieri, ascoltando un grande parlamentare verso il quale la nostra reverenza non è mai mancata; ne abbiamo una prova oggi ascoltando l’onorevole Jacini, il quale è arrivato al punto di dire che la sconfitta dell’Italia era necessaria. Onorevole Jacini, mi onoro di non essere della sua opinione; e, per quanto mi costi, e per quanto io abbia pagato, tengo a dire a lei e agli altri colleghi di questa Assemblea che a qualunque costo io avrei preferito la vittoria dell’Italia alla sconfitta.
Mi rendo conto che da tutte le parti della Assemblea possono essere lanciate accuse e tutte con fondamento. Possono esserci accuse alla borghesia. Onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, fate bene ad accusare la borghesia. Noi facciamo bene a difenderla e a ricordare che le cause che hanno travolto spiritualmente la borghesia italiana hanno trovato anche nel vostro disorientamento dei fondati motivi. C’è chi accusa la monarchia: a ragione, perché la monarchia ha commesso gravissimi errori; ma i monarchici hanno anche essi ragione, quando oppongono circostanze, uomini, fatti a suffragio della loro tesi. In queste condizioni, noi non dovevamo discutere il Trattato di pace il quale, onorevole Sforza – lei sa la deferenza che ho per lei – non è la condanna di un regime, ma è solo la sconfitta di un popolo militarmente più debole: e niente altro che questo.
Ci si parla di collaborazione internazionale che potremmo esercitare ratificando, e non esercitare non ratificando. Io mi permetto di ritenere che la collaborazione internazionale, se noi non la volessimo, dovremmo fornirla lo stesso; e se la volessimo e non la volessero gli altri, noi non la otterremmo.
Mi sembra opportuno che si rettifichi in quest’Aula, almeno dalla mia povera voce, un’affermazione dell’onorevole Conte Sforza, cioè che noi ci siamo estraniati dalla vita internazionale, che abbiamo voluto essere soli in un superbo isolamento diplomatico, durante 22 anni.
No, onorevole Sforza! Noi abbiamo aderito a un altro blocco. Questo blocco ha perduto; noi ne paghiamo le conseguenze. Non si può dire che un popolo era isolato, unicamente perché non andava con certi paesi. Isolamento c’è quando si è soli, non quando si è in compagnie che possono non essere gradite a una parte del mondo, la quale ha ragione unicamente perché ha vinto e non perché sia depositaria della virtù, della giustizia e di tutta la somma degli altri lucenti valori umani.
Mi basta ricordare un solo fatto: noi abbiamo avuto durante il periodo della dittatura nazista una ignobile persecuzione contro un popolo: il popolo ebreo. Oggi questa persecuzione continua nelle medesime forme, con la medesima mancanza di pietà, con il medesimo ritmo: esercitata semplicemente da altri uomini, da altri popoli, i quali fino a pochi anni fa condannavano quella persecuzione, combattevano per essa e hanno fatto combattere per essa tutto il mondo.
Ciò vi prova, onorevoli colleghi, che non esiste un gruppo di Nazioni che si sia battuto per la civiltà e per il progresso contro un gruppo di nazioni che si siano battute per l’anticiviltà e per l’antiprogresso.
Non esiste, onorevole Jacini, un gruppo di nazioni che rappresenti il bene, e un gruppo di nazioni che rappresenti il male; esistono gruppi di nazioni che hanno contrastanti interessi, e in questo contrasto i più forti vincono. Noi abbiamo perduto; accettiamo la sconfitta, ma al di sopra della nostra sconfitta deve risplendere la nostra dignità e il nostro onore, a cui noi non rinunceremo mai.
Questo è quello che io ed i miei amici sentiamo il bisogno di dire. (Applausi a destra).
A noi non interessa la revisione del Trattato di pace che ci si promette come un premio. Noi non ci lasciamo illudere da questi specchietti per allodole assonnate. Noi vogliamo sapere in che cosa consiste la revisione.
Che cosa è questa revisione? Quali diritti ci darà questa revisione? Ci restituiranno le nostre colonie? Ci restituiranno la nostra flotta? Ci daranno che cosa? Noi vogliamo sapere che cosa è la revisione, perché siamo stati già ingannati sulle libertà che hanno detto ci avrebbero date e non ci hanno date, sulla libertà di stampa, di pensiero, sulla democrazia che ci hanno promessa! Tutte le promesse che ci hanno fatto si sono rivelate in pratica nient’altro che trucchi, nient’altro che turlupinature. Noi non vogliamo essere turlupinati anche sulla revisione e chiediamo ci si dica in che cosa consiste questa revisione.
A questo punto, m’incombe l’obbligo di accennare a quella che è effettivamente la ratifica del Trattato di pace, secondo la mia interpretazione personale, interpretazione che non deve compromettere nessuno, se non me.
Io la darei questa ratifica e la darei perché non ha nessuna importanza. Il Trattato di pace, onorevoli colleghi, non è una conclusione, come molti ritengono. Il Trattato di pace, così come è concepito, così come è fatto, così come appare, è un punto di partenza non un punto di arrivo.
La conclusione noi l’abbiamo avuta con la catastrofe militare, perché solamente quella conta. Se avessimo vinto, altro sarebbe stato il linguaggio che si sarebbe sentito in questa Assemblea, altre sarebbero state le opinioni in tutti i Paesi del mondo. Ma probabilmente uguali sarebbero state le infamie e le sopraffazioni che si compiono oggi a opera dei più forti contro i più deboli, degli armati contro gli inermi.
Il Trattato di pace, per me, non significa niente.
Io non mi sarei degnato di discuterlo. Non ritengo necessario incomodare un maestro come Vittorio Emanuele Orlando per dimostrarci che questo Trattato è sballato ed ineseguibile, che non sarà eseguito, non solamente perché noi non lo eseguiremo, ma perché gli altri contraenti non saranno in condizioni di imporcene l’esecuzione.
Non c’era bisogno di incomodare Vittorio Emanuele Orlando per dimostrare l’antigiuridicità del Trattato, tutto il suo assurdo concettuale, e mi permetto di dire anche letterario. Sarebbe bastato l’ultimo mozzorecchi delle nostre Preture, il meno diligente fra gli allievi dei nostri Licei, per trovare in quel miserabile documento di rancore e di odio tutti i difetti che le nostre menti più elevate vi hanno trovato.
Senonché, la ratifica di questo Trattato si è posta come un problema d’una gravità tale che l’approvazione o non approvazione di esso involge gravissime responsabilità politiche. Ed è qui che io desidero dire al Presidente del Consiglio qualche parola, oserei dire, quasi in segreto, a quattr’occhi: perché è stato presentato nel modo come è stato presentato il decreto sulla ratifica del Trattato? L’onorevole Presidente del Consiglio sapeva di poter contare su amici sicuri che nulla gli hanno chiesto e nulla gli chiederanno mai, salvo il piacere di poter collaborare con lui da lontano e senza splendore alla sua opera politica. Ma si è reso conto l’onorevole De Gasperi che egli ha messo in imbarazzo i suoi amici, ed i suoi amici migliori, in questa discussione sulla ratifica: perché anche i partiti politici sono composti di uomini, e dietro i partiti politici c’è una Nazione, e in questa Nazione c’è gente che soffre non solamente la fame materiale, ma la fame spirituale, che ha dei rancori, che ha degli odî, che avrebbe delle vendette da compiere? Come ha fatto l’onorevole De Gasperi – lui così accorto in politica – a non rendersi conto che non avrebbe potuto avere l’appoggio di chi avrebbe voluto anche darglielo in questa sua impresa? Egli, rispondendo ieri all’onorevole Orlando, ha parlato della sua buona fede, della buona fede dell’onorevole Sforza. Chi ha messo in dubbio questa buona fede? C’è stato forse qualcuno che ha accusato gli onorevoli De Gasperi e Sforza di ritrarre vantaggi personali dalla ratifica? Non ho udito queste parole, e se le avessi udite avrei protestato. Si tratta di buona fede politica, caro onorevole De Gasperi, ed è veramente strano, paradossale addirittura, che l’ultimo venuto nella politica come me, debba dire a lei, che è un consumato politico, che non basta essere in buona fede: bisogna anche smembrarlo.
L’onorevole Orlando ha detto ieri una frase che ha rinfocolato le passioni che si riflettono in quest’Assemblea. Ripeto la sua frase perché è necessario spiegarne l’intimo significato. Io non ho avuto il piacere di vedere l’onorevole Orlando da ieri sera; parlo quindi a nome esclusivamente mio, e non desidero si pensi che io voglia spiegare quello che egli ha detto e che non ha bisogno di interpretazioni. Ma darò la mia personale interpretazione. Egli ha parlato di cupidigia del servilismo, di cui sarebbero affetti gli uomini i quali vogliono andare incontro senza nessuna necessità al desiderio degli stranieri. Bene, in tutto quello che questa frase non ha di ingiurioso e di personale – e non può averlo, perché l’onorevole Orlando è innanzitutto un avversario cavalleresco – io voglio dire che in qualche parte di questa frase io vorrei solidarizzare; in quella parte che vuol dire non cupidigia del servilismo – forse letterariamente non è una delle frasi più felici – bensì quella «voluttà del martirio» che ha esaltato molti e grandi uomini politici italiani, una «mentalità di colpa». Noi ci siamo presentati non soltanto nelle assise internazionali, ma anche nelle nostre intime riunioni, come dei colpevoli; abbiamo tenuto ad avere la corda al collo.
Siamo arrivati all’assurdo, liquidato alcuni giorni fa, d’accusare un funzionario italiano, un tal Cortese, d’aver fatto assassinare re Alessandro di Serbia ed il Ministro Barthou a Marsiglia alcuni anni fa! Per questo peccato, che non ha commesso, il funzionario è rimasto in prigione alcuni anni. Non è del funzionario che mi preoccupa, perché isolatamente noi possiamo sempre essere chiamati al martirio, e c’è anche chi è pronto a questa eventualità. Voglio dire che noi abbiamo messo sotto processo l’Italia, mettendo sotto processo questo signor Cortese, del quale era la prima volta che io sentivo fare il nome. Noi abbiamo coinvolto l’Italia in questo assassinio. Perché? Per voluttà di martirio, per mentalità di colpa; perché noi non abbiamo potuto e saputo liberarci di quella maledetta mentalità di Guelfi e di Ghibellini, di Palleschi e di Piagnoni, di Pazzi e di Barbi, i quali da secoli dividono gli animi e i cuori degli italiani. Ed anche oggi, di fronte al nemico (il quale non ci considera, non ha paura di noi, il quale ci calcola semplicemente come una pedina nel suo giuoco, da muovere come gli pare, quando gli pare, secondo il suo interesse, non il nostro, non guidato da nessun sentimentalismo, ma unicamente dal senso dei suoi affari) noi anche oggi diamo lo spettacolo di questa divisione; e anche nella discussione del Trattato di Pace abbiamo ancora combattuto tra fascismo e antifascismo, i due eterni termini antitetici, che, da quando è caduto l’impero Romano, si ripetono in Italia sotto nomi sempre diversi, ma che sono sempre espressione di quella nostra maledetta mentalità settaria, della quale non riusciamo a liberarci.
Ora, se un rimprovero io devo fare al Governo – non solo a questo ma anche a quelli che lo hanno preceduto; ed il mio rimprovero risale al 1914 – questo rimprovero è la voluttà di martirio, è la mentalità della colpa, della quale ci accusiamo sempre, al cospetto degli stranieri, che sono tutti nemici e lo saranno sempre, principalmente perché essi non potranno mai dimenticare di avere avuto in noi i loro maestri e i loro padroni.
Voglio dire che a questa colpevolezza che parte da noi, vuole attribuirsi, a questo martirio, che parte di noi vuole volontariamente abbracciare, in cambio di nulla, perché non abbiamo nemmeno la speranza del Paradiso – per i martiri politici non c’è Paradiso – noi ci opponiamo con tutta la nostra forza di uomini nuovi che respingono ogni responsabilità col passato. Noi dobbiamo affermare che in Italia non c’è nessuna colpa da purgare, non c’è nessun onore da riconquistare; non c’è che un errore da pagare, una sconfitta di cui subire le conseguenze.
Non c’è altro che questo. Noi non abbiamo mandato né abbiamo finanziato in Russia le spedizioni dei Gramschwell, di Denikin, di Wrangel, di Koltciak, di Iudenick. Noi, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, non abbiamo fatto lo sbarco ad Arcangelo per strozzare in fasce la rivoluzione bolscevica. Noi siamo stati il primo Paese del mondo che ha riconosciuto la Russia Sovietica e se la Russia Sovietica è stato il primo Paese del mondo che ha riconosciuto il Governo Badoglio, onorevole Togliatti, ha compiuto un gesto, un simpatico gesto di restituzione. Noi non abbiamo responsabilità, oltre quelle che ci sono state imposte dalle necessità.
Si parla dell’autarchia. Io credo che tutti in questa Assemblea sanno cosa ho fatto io sotto il fascismo per non fare politica. Ho fatto canzonette e ho scritto commedie gialle: ho avvilito la mia penna, che pur valeva qualcosa, come si è dimostrato in seguito, in fatiche ancora più mercantili, perché non sapevo capire, non riuscivo a capire quella politica. Spero che non mi sarà rivolta una accusa di filofascismo, e se mi sarà rivolta risponderò come potrò. Noi abbiamo avuto un’autarchia fascista, che è stata la vera causa determinante della guerra. I popoli produttori se ne infischiano di come si saluta in Italia. Non hanno alcun interesse a farci salutare col braccio teso o col pugno chiuso, a farci portare la camicia nera o azzurra, la camicia rossa o grigia: essi, al massimo, sperano di venderci quelle camicie e di farcele pagare a caro prezzo. (Commenti).
L’autarchia è stata voluta dal fascismo; ma perché? Chi ci ha imposto l’autarchia se non i paesi ricchi, che hanno chiuso le porte alla nostra emigrazione di poveri, ai nostri operai che andavano in cerca di lavoro perché in Italia non ne trovavano? I paesi ricchi hanno sprangato le loro porte a questa fiumana di lavoratori, che pure nel secolo scorso accolsero e sfruttarono per creare la loro civiltà. E li hanno respinti con questa scusa magnifica: noi non possiamo abbassare il nostro regime interno ed il nostro tenore di vita. Hanno tenuto alti i tenori, e hanno cantato finché hanno voluto. Poi hanno dovuto entrare nella guerra, e hanno dovuto rimetterci quello che ci hanno rimesso, e che ci rimetteranno ancora di più in futuro perché, essi, che hanno distrutto il mondo col loro egoismo, oggi debbono ricostruirlo, perché altrimenti morranno anch’essi di fame. (Commenti).
Questo avrei voluto sentire e non ho sentito in questa discussione, che non volevo e che mi è costata lotte anche con i più cari amici ai quali ho invano tentato di spiegare che noi non dovevamo immischiarcene. Avrei voluto almeno sentire una voce contro la continua truffa che ci è stata fatta in nome delle «Carte Atlantiche» e su tante altre promesse sballate, vili e menzognere, con le quali si è avvelenata l’opinione pubblica italiana e mondiale. Questo era il compito della nostra politica estera, perché quando si perde una battaglia, come quando si perde una partita, non si perde mai tutto, rimane sempre qualche cosa.
Oh! Se ci fossimo costituiti come i difensori, gli avvocati degli sconfitti, se avessimo gridato ogni giorno i nostri diritti e avessimo ogni giorno e ogni minuto richiamato i vincitori alle loro promesse e detto: Voi avete vinto perché ci avete promesso le quattro libertà, che ora non ci date; voi avete vinto perché ci avete promesso l’indipendenza che oggi ci negate; voi avete vinto perché ci avete promesso le materie prime che ora non ci volete dare! Ogni giorno, ogni minuto avrebbero potuto essere ripetute queste accuse. E queste accuse non sono state fatte, perché noi abbiamo avuto uomini che non hanno avuto il coraggio di rimanere un giorno solo Ministri, il tempo strettamente necessario per pronunciare questa protesta, e quindi esser cacciati dagli alleati. Questo è quello che non è successo e che avrebbe dovuto succedere. (Applausi).
Onorevoli colleghi, io sono profondamente rattristato di dover dire questo; profondamente rattristato, perché sono convinto che la discussione di un Trattato di pace non è un affare di famiglia. È un affare che la famiglia fa in presenza dello straniero, il quale è sempre e spiritualmente presente. In presenza degli estranei le famiglie per bene non si strappano i capelli e non lavano i panni sporchi. È questo purtroppo che noi abbiamo fatto e che continueremo a fare, se non rinvieremo questa discussione e non aspetteremo un giorno, una settimana, un mese, un anno (che importa) che si creino le condizioni più favorevoli all’approvazione del Trattato di pace, che può essere fatta, come ho già avuto l’onore di proporre, da undici deputati, uno per Gruppo, senza discutere, dando a questa approvazione il significato che deve avere, e non facendo a coloro che si sono macchiati di vergogna nell’imporci questo Trattato, l’onore di una discussione che noi giuristi, anche se non abbiamo compiuto gli studi regolari di giurisprudenza, siamo in grado di demolire, come si demolisce un castello di carte.
Questo è quello che avevo chiesto, questo è quello che vi chiedo oggi. Per cui, onorevole signor Presidente, io mi permetto di chiederle di mettere in votazione subito il mio ordine del giorno che rinvia la discussione, anche per riflesso alle notizie che sono apparse stamane sui giornali, e che lasciano una volta ancora di più intendere quale valore abbiano le parole vociferate di libertà, di civiltà, di progresso, e quale sia il freddo e spietato interesse che si nasconde dietro quelle parole.
Onorevoli colleghi, io di solito non faccio discorsi melanconici, ma oggi sento vicino a me la presenza di qualcosa che mi impedisce di continuare. Noi dobbiamo parlare anche di questi italiani che non ci sono più, e non fermarci a fare un miserabile calcolo sul perché essi siano caduti. Essi sono stati tutti indistintamente assassinati, assassinati da coloro che hanno fatto prevalere il loro freddo egoismo monetario, economico, finanziario, commerciale, marittimo, ed hanno, in nome di questi interessi, scatenato una guerra e sono pronti a scatenarne un’altra.
Noi abbiamo modo – noi che siamo depositari di una superiore genialità politica – di mettere in imbarazzo tutto il mondo, vittorioso che sia, semplicemente richiamandolo alle sue promesse, agli impegni che ha liberamente assunti, alle carte che ha firmate, e che non si possono lacerare senza offendere suscettibilità e pudori che anche nelle popolazioni nemiche si sentono: perché noi non dobbiamo solamente considerare quelle che sono le classi dirigenti dei paesi nemici ed ex nemici; ma anche quello che c’è nel cuore dei loro popoli, i quali sono stati tutti indistintamente colpiti dalla sventura.
Noi dobbiamo rinunciare a quella impossibile utopia che è ormai lo stato nazionale: troppo debole per difendersi, troppo ristretto per vivere da solo, troppo povero per essere indipendente; e contribuire a formare le grandi agglomerazioni continentali, la prima delle quali dovrà essere quella degli Stati Uniti d’Europa, di una Unione Europea nella quale noi potremo e dovremo comporre tutti i nostri dissidi.
Io non sono mai stato comunista o socialista, mai fascista o nazionalista; non sono mai stato niente. Voglio dirvi però che in questo concetto degli Stati Uniti d’Europa io non vedo che differenza c’è fra me ed un padre jugoslavo che ha perduto il figlio, un padre tedesco, un padre russo, un padre inglese, che hanno perduto il figlio. Non c’è nessuna differenza, siamo tutti fratelli, così come mi sento fratello di Gasparotto, di Benedetti, di chiunque altro abbia sofferto ed abbia pianto.
È per questo, onorevoli colleghi, di qualsiasi parte dell’Assemblea, che io vi invito, invoco, scongiuro (come ha detto il nostro illustre maestro Orlando) di rinviare questa discussione che ci avvilisce e ci disonora, e principalmente ci diminuisce. Cogliamo almeno questa possibilità di dimostrare la nostra grandezza d’animo, la nostra intelligenza, che supera di milioni di cubiti quella dei giuristi avversari.
Per concludere, voglio ricordarvi un solo fatto – e speriamo che riesca a dirlo meglio, per non finire in tristezza anche quest’altro punto. Ci è stato parlato, da parte dell’onorevole Orlando, d’un possibile intervento del Lussemburgo, dell’Etiopia, dell’Albania, in base agli articoli del Trattato di pace che non mi sono degnato di leggere, perché avevo cose molto più importanti da fare che leggere quelle sciocchezze.
Vorrei proprio vedere, il giorno in cui ci fosse un Ministro degli esteri capace di discutere con uno di questi vincitori quali il Lussemburgo, l’Albania, l’Abissinia o altri che venissero a dirci: voi avete violato l’articolo 15 o l’articolo 16; questo ministro degli esteri risponderebbe: «Ah sì? Vediamo; nominiamo una Commissione, studiamo un po’ il caso». È quando si vincono le cause in Cassazione che deve incominciare la liquidazione dei danni. Vorrei rassicurare l’onorevole Orlando di questo: che il Trattato di pace, che questo articolo 15, questo articolo 16 e non so qual altro articolo 17, 31, 46 non saranno mai applicati, e che verrà il momento in cui quel Trattato di pace si potrà mettere in una busta e rinviarlo come si rinviano i documenti che si denunciano unilateralmente dalla parte che non li accetta.
L’importante è togliere da questa discussione tutto il suo contenuto sentimentale, tutto il suo contenuto passionale. L’onorevole Sforza, in una non dimenticata occasione, affermò che la politica estera non è fatta né di sentimenti né di risentimenti. Ebbene, anche in questa occasione vale la sua dottissima frase di allora; noi non possiamo continuare a discutere di questo Trattato di pace senza ingiuriarci, senza vilipenderci. E non so come ieri non siamo finiti a pugni nell’emiciclo, facendo pesare, su questo Trattato di pace, una tale atmosfera di tristezza che è meglio io non la rievochi qui oggi, altrimenti non sappiamo come andremo a finire.
Signor Presidente, io reitero la mia richiesta rispettosa, di mettere ai voti il mio ordine del giorno, per modesto che sia, con il quale si chiede di rinviare questa discussione a un giorno da determinarsi. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, preso atto delle conclusioni della Commissione dei Trattati e udito il Ministro degli affari esteri, ritiene doversi convalidare, per quanto necessario, la firma apposta per l’Italia al Trattato di pace il 10 febbraio 1947, e autorizza il Governo a prestare acquiescenza alle condizioni imposte dalle Potenze vincitrici, nel senso di non opporsi all’attuazione dei duri patti, per servire la pace del mondo con fede nel definitivo trionfo del senso di giustizia di tutti i popoli».
Ha facoltà di svolgerlo.
CAROLEO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, assistendo all’elevato dibattito da questa solitaria tribuna, che non conta nulla, ma di cui non è minore, rispetto alle altre, la commozione di partecipare a questo rito celebrativo del più grave lutto della Patria, io mi sono spesso domandato e mi domando ancora se esista un vero e profondo dissenso fra le tante opinioni e tendenze manifestate dagli oratori che mi hanno autorevolmente preceduto, e se lo sdegnoso monito del filosofo onorevole Croce, e le fiere espressioni del giurista onorevole Ruini e la proposta di rinvio del venerando rappresentante del valore e dell’onore dell’esercito italiano e l’attesa prudente dell’onorevole Togliatti e la vibrante, se pur doverosamente diplomatica protesta, del nostro Ministro degli esteri e la tesi conciliatrice del maestro onorevole Nitti e l’emendamento del Governo, non siano se non i volti diversi di una stessa passione, di uno stesso affanno: la difesa della dignità della nazione.
Ed io non dispero che in questa nobile Assemblea, la quale rappresenta il popolo italiano unito nel dolore delle mutilazioni e nella fede della rinascita e non diviso in questo momento e su codesto assorbente tema da ideologie di partito e neppure, me lo consenta l’onorevole Pacciardi, dai futili pretesti istituzionali, si trovi alfine la formula che raccolga l’unanime consenso di tutti i nostri cuori, di tutti i cuori italiani; e vorrei che questa formula ci venisse dall’italiano più degno, o meglio ancora dalla concordia di tutti i maggiori esponenti di tutti i partiti politici, i quali non possono e non debbono offrire al Paese in ansia l’amaro spettacolo del contrasto, dopo che su tanti altri meno gravi problemi si sono sempre studiati di trovare una via di intesa attraverso l’emendamento o l’articolo aggiuntivo, ora per le norme della Carta costituzionale, ora per quelle sull’imposta sul patrimonio.
È vero che l’anomala compagine ministeriale (per me l’anomalia consiste nel mancato rispetto di quel principio di rappresentanza proporzionale dei partiti, ch’è il fondamento della legge elettorale, applicata in Italia il 2 giugno) può rendere difficile questo compito; ma ha detto lo stesso onorevole Togliatti che la coscienza di ognuno di noi riacquista in questa grave ora l’indipendenza da ogni tirannia di aggruppamento politico; e d’altro lato è vero che i partiti fuori del Governo sono una grande parte, oltre la metà, del popolo nostro ed essi rappresentano per di più quelle categorie lavoratrici e proletarie, che anche per la santa causa di Trieste hanno dato il maggior contributo di purissimo sangue italiano.
Il Trattato è iniquo; sbiadisce al confronto la condanna morale inflitta dalla storia alla leggenda di Brenno, ricordata da molti colleghi; il condottiero Gallo chiedeva oro ai romani; qui, accanto all’abbondante moneta, si è voluto ferire a morte la potenza, il prestigio, l’onore dell’Italia!
In relazione ai tempi, in riferimento a quel grande, universale, naturale principio del rispetto della personalità umana, che tanti progressi ha fatto dalle predicazioni di Cristo alla rivoluzione francese, riaffermato nella Carta atlantica e di cui è pure menzione nell’articolo 15 del Trattato, si può dire che non sia stato scritto durante i secoli documento più ingiusto. Non c’è articolo, non c’è clausola in cui non si contenga una cessione, una rinunzia del popolo italiano; e sono brandelli di carne viva, che si staccano da noi. Avrebbe potuto essere peggiore? Poteva essere migliore? Io non intendo fare recriminazioni e critiche a chicchessia. Riconosco invece lealmente che i nostri governanti, i nostri uomini politici, di qualunque partito, hanno fatto del loro meglio per rendere meno duri i patti, superando anche i rancori del passato.
Dare una colpa agli appassionati, se pure sfortunati difensori dei diritti dell’Italia, significa attenuare di fronte alla storia la responsabilità dei vincitori, ugualmente decisi, ugualmente spietati, per la nostra rovina.
Chi non ha chiesto per sé, ha disposto per altri delle nostre cose, e non certo per fine altruistico. Tutti concordi e implacabili i vincitori nello spogliarci, nel lasciarci inermi accanto a vicini, che, per l’altrui forza, hanno abusato di noi. Perfino nelle clausole finali del Trattato si è voluto dimenticare che noi siamo un popolo di 46 milioni di uomini civili e liberi e ci si è imposta l’onta di una specie di consiglio di tutela, il cui funzionamento potrà anche oltrepassare il termine dei 18 mesi previsti per l’applicazione e l’interpretazione della volontà dei vincitori.
Ma, una volta detto e riconosciuto tutto questo col nodo alla gola, occorre guardare in faccia alla realtà, sia pure a denti stretti, con le savie considerazioni pratiche del collega onorevole Bastianetto. Questo Trattato è una sentenza, egli dice, ed è purtroppo nel vero, perché la sentenza altro non è che la legge applicata al caso concreto.
Il Trattato è una legge internazionale, che si elabora e si forma su per giù con procedimenti quasi analoghi a quelli in uso presso i singoli popoli per le leggi interne nazionali.
La base del diritto, di qualunque diritto umano, è la forza. Questa si traduce in maggioranza più o meno democratica nelle ordinarie Assemblee legislative, nelle quali molto spesso restano, anche travolte notevoli ragioni delle minoranze, forse degne di poziore tutela. Si ricorre poi all’impiego degli organi di polizia, quando la legge passa, all’interno, nella fase esecutiva. Questa stessa forza si traduce in potenza militare per i trattati dei vincitori, per le leggi internazionali di qualunque specie, e l’esecuzione di esse è affidata alla minaccia o all’uso delle armi.
Può un cittadino, può una qualsiasi minoranza durare a lungo fuori della convivenza politica nazionale, fuori dell’osservanza delle leggi del proprio paese? Che cosa è avvenuto in Italia dei diversi milioni di monarchici dopo il 2 giugno? È anche inutile creare contro di essi delle antidemocratiche leggi repressive. Vivono pacificamente nel suolo patrio e anche quelli fra loro, che non hanno fatto molti inchini alla Repubblica, dopo il sovrano responso popolare del 2 giugno, sono in linea – e molti hanno anche giurato – per servire con dignità e con fede (sì, anche con fede, onorevoli colleghi del partito repubblicano storico) le nuove istituzioni democratiche di questo nostro libero Paese.
Può un’intera nazione rimanere a lungo staccata dal consorzio dei paesi civili, dalla convivenza internazionale, fuori del rispetto delle tante leggi che, bene o male, rappresentano, sia pure in nome del comune principio della forza, tutto un sistema di diritto dei popoli, per le molteplici indispensabili relazioni tra loro? Possiamo, in altri termini, essere e rimanere dei fuori-legge, dei soggetti incapaci nella sfera del diritto internazionale?
Ecco che il problema diventa squisitamente giuridico, oltre che morale, e qualunque problema di tal natura, nel campo internazionale, è anche e soprattutto un problema politico. Si giunge così a quello stato di necessità, che è diffuso nella coscienza di tutto il nostro popolo, e che ha finito col costituire qui dentro il minimo comune denominatore di ogni opinione e di ogni tendenza.
Dobbiamo ubbidire alla legge internazionale, che questa volta è per noi, sventuratamente, dura e ingiusta sentenza.
Ma, intendiamoci bene: non al di là della misura dei nostri obblighi; non al di là di quanto ci è strettamente richiesto da questa condanna; niente di più di quanto può essere necessario perché la sanzione si adempia, salvo revisione, in tutto il suo contenuto, senza inutile e intollerabile sacrifizio del nostro onore.
Il Trattato, a cui siamo ineluttabilmente rassegnati a dare piena e incondizionata esecuzione, non ci chiede nessuna ratifica per il suo perfezionamento e ancor meno per la sua efficacia esecutiva. Lo scheletrico, incidentale, sforzato accenno di ratifica fatto anche per noi nell’articolo 90, è solo un pudico riguardo, dal quale vogliamo spontaneamente dispensare i nostri vincitori, anche perché questa loro concessione, in apparenza generosa, non è meno offensiva di tutto il resto: «Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».
Il Trattato, come appare dal suo contesto, come si desume dal complesso procedimento di elaborazione, dalle enunciazioni della Carta atlantica ai patti di armistizio, alle deliberazioni del Consiglio dei ministri degli esteri e della Conferenza di Parigi, è perfetto con la firma delle due parti: del popolo vinto e delle Potenze vincitrici. Per le altre nazioni, alleate e associate, è ammesso un potere di adesione, che, se non espresso attraverso la firma contestuale, può anche esercitarsi successivamente, a mezzo di separato atto. La ratifica (che, nell’ordinaria prassi internazionale, può anche essere indispensabile elemento di conferma di patti liberamente stipulati tra due o più nazioni, a mezzo di rispettivi plenipotenziari, il cui operato, per l’importanza degli impegni che possono discenderne, esige sempre la convalida del Paese interessato) nel caso attuale, cioè nel caso del nostro Trattato – sentenza, ha solo funzione di clausola esecutiva, e tale efficacia è espressamente riconosciuta soltanto agli strumenti di ratifica dell’Unione Sovietica, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, e della Francia.
Vi è anche un potere di esecutorietà accordato alle successive ratifiche delle altre Potenze alleate ed associate e solo per quanto riguarda il momento di entrata in vigore del Trattato nei rispettivi confronti. Dell’Italia nessun cenno più in questo stadio finale dell’elaborato, e il congegno manifestamente risponde a quel minimo di rispetto umano accentuato dal nostro grande filosofo. Non si può costringere l’impiccato a gridare: muoio contento. Dal Trattato ciò non poteva esserci richiesto, e per la verità, è l’unica cosa che non ci è stata imposta.
Siamo però tenuti ancora ad un adempimento, che indubbiamente rientra fra gli elementi costitutivi delle stipulazioni del Trattato e di cui dobbiamo pure preoccuparci per la serietà del nostro Paese, se non vogliamo essere tacciati di cosiddetto machiavellismo.
Dobbiamo firmare validamente, dobbiamo cioè confermare la sottoscrizione apposta dal nostro Governo, con le riserve che vi sono note.
L’ordine del giorno, che ho l’onore di sottoporvi, soddisfa a questa esigenza, con l’aggiunta della piena assicurazione della nostra fedeltà ad ogni vincolo. A quando l’inevitabile convalida? Subito, senza frapporre il menomo dubbio, perché abbiamo svariate ragioni per accelerare come meglio ci sarà possibile il ripristino della nostra sovranità. Il Trattato è da tempo perfetto per chi ce lo ha imposto, e qualcuno lo ha già parzialmente eseguito in nostro danno, anche prima dell’entrata in vigore.
Chi mai possiamo voler servire, inserendoci il più rapidamente possibile nei binari della legge internazionale? Tutti e nessuno, la pace del mondo e noi stessi, che degnamente, gloriosamente abbiamo fatto parte nei secoli della grande famiglia umana. Nessuna preoccupazione di operare contro questa o quella Potenza; e, ora che la questione è sorta, la convalida come il rinvio ci esporrebbero ugualmente al sospetto di aver voluto cedere alle sollecitazioni dell’una o dell’altra parte. Ma la convalida ci è richiesta dalla lettera del Trattato e chi opera secondo il dettato della legge non fa ingiuria ad alcuno; nel caso obbediamo alla volontà di chi ha vinto.
Nudi e inermi, come ci hanno lasciati, non potremo servire in guerra né l’occidente né l’oriente; ma non ci lasceremo indebolire nello spirito né dalla fame, né dalla bomba atomica, e non cederemo alle lusinghe, alle elemosine o alle minacce per essere armati contro un popolo o contro l’altro. Ne abbiamo assunto solenne impegno nella nostra Carta fondamentale. Avremo soltanto fede nel lavoro, unica e grande forza creatrice di ricchezza, e ci stringeremo, ci aiuteremo tra i ridotti confini ormai aperti al mondo, e formeremo in Italia un blocco di cuori, che nutrisca di amore cristiano e preservi dall’odio qualunque coalizione di popoli.
E per i nostri fratelli della Venezia Giulia che attendono trepidanti le decisioni di questa Assemblea? Trieste, ardente sogno della nostra giovinezza, meta ultima della nostra unità, oggi spasimo lacerante di tutti gli italiani e di quanti combattemmo per la sua liberazione, sarà perduta per sempre per questa Madre Italia?
No! Se è vero che la giustizia non è solo fondamento di regni o di repubbliche; ma è anche e soprattutto la più salda base dell’universo. (Applausi).
PRESIDENTE. È stato presentato il seguente ordine del giorno:
«La Costituente italiana,
preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;
ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;
ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;
rivolge
a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai principî della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace, indicare al mondo vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».
«Badini Confalonieri, Villabruna, Morelli Renato, Cifaldi, Porzio, Rubilli, Cavalli, Belotti, Perrone Capano, Morelli Luigi, Caroleo, Bovetti, Del Curto, De Caro Raffaele, Roselli, Codacci Pisanelli, Valmarana, Foresi, Mazzei, Rodi, La Pira, Arata, Pallastrelli, Lami Starnuti, Tozzi Condivi, Bubbio, Bergamini, Benedettini, Marzarotto, Condorelli, Perugi, Perassi, Venditti, Quintieri Adolfo, Nasi, Fresa, Cevolotto, De Unterrichter Jervolino Maria, Scotti Alessandro, Conci Elisabetta, Carboni Enrico, Nicotra Maria, Carbonari, Chatrian, Castelli Avolio, Corsanego, Cappelletti, Pecorari, Dugoni, Togni, Corsi, Giolitti, Iotti Leonilde, Cremaschi Olindo, Fiore, Gavina, Ferrari, Pollastrini Elettra, Fedeli Aldo, Treves, Camposarcuno, Bulloni, Coppi, Bertola, Corbino, Scalfaro, Martino Gaetano, Coccia, Geuna, Bonino, Fabbri, Zerbi, Cassiani, Caccuri, Chiaramello, Crispo, Grilli, Bosco Lucarelli, Canevari, Faccio, Cappi, Einaudi, Romano, Martinelli, Canepa, Ruini, Nitti, Magrini, Colitto, Coppa, Gasparotto, Medi, Miccolis, Recca, Rodinò Mario, Rodinò Ugo, Jacini, Bencivenga, Garlato, Saggin, Fusco, Petrilli, Titomanlio Vittoria, Mazza, Murdaca, Zuccarini, Clerici, Cannizzo, Merighi, Montini, Mortati, De Vita, Rescigno, Mastino Gesumino, De Palma, Carboni Angelo, Segala, Bennani, Corbi, Lozza, Platone, Gullo Fausto, Laconi, Bozzi, Di Giovanni, Lombardi Carlo, Vicentini, Bertone, Preziosi, Nobile, Cartia, Veroni, Micheli, Tosi, Rossi Paolo, Viale, Pignatari, Bastianetto, Ermini, Quarello, Gullo Rocco, Bocconi, Cappugi, Cimenti, Bonomi Paolo, Stampacchia, De Michelis, Scarpa, Nobili Tito Oro, Arcaini, Biagioni, Mattarella, Tega, Persico, Trimarchi, Rapelli, Cairo, Caporali, Franceschini, Piemonte, Sampietro, Pella, De Mercurio, Penna Ottavia, Arcangeli, Macrelli, Binni, Giacchero, Zanardi, Guidi Cingolani Angela Maria, Restagno, Uberti, Spallicci, Delli Castelli Filomena, Cremaschi Carlo, Taviani, Tonello, Valenti, Bettiol, Pera, Angelini, La Malfa, Pellizzari, Grassi, Vanoni, Tessitori, MenTasti, Priolo, Longhena, Lazzati, Giannini, Giordani, Lizier, Germano, Guariento, Gatta, Pat, Moro, Fantoni, Mastrojanni, Gui, Ciccolungo, Froggio, Russo Perez, Motolese, Gabrieli, Proia, Sartor, Gonella, Colonnetti, Paratore, Avanzini, Cappa, Castelli Edgardo, Balduzzi, Caristia, Zaccagnini, Gotelli Angela, Federici Maria, Azzi, Di Vittorio, Spataro, Ghiostergi, Bellusci, Morini, Paolucci, Foa, Finocchiaro Aprile, Cianca, Carmagnola, Parri, Monticelli, Lussu, Caiati, Pastore Giulio, Codignola, Siles, Filippini, Preti, Moranino, Villani, Bassano, Scoccimarro, Vischioni, Damiani, Togliatti, Sicignano, Barontini Anelito, Silipo, Farina Giovanni, Merlin Angelina, Ghidini, Sapienza, Moscatelli, Allegato, Caprani, Imperiale, Santi, Cavallotti, Grieco, Bolognesi, Assennato, Li Causi, Saccenti, Sullo, Musolino, Montagnana Rita, Marconi, Capua, Pesenti, Cavallari, Reale Eugenio, Magnani, Cacciatore, Noce Teresa, Carpano Maglioli, Fedeli Armando, Barbareschi, Lopardi, Farini Carlo, Grazia Verenin, Calosso, Vernocchi, Faralli, Colombo, Ferreri, Gortani, Romita, Orlando Camillo, Baracco, Viale».
L’onorevole Badini Confalonieri ha facoltà di svolgerlo.
BADINI CONFALONIERI. Onorevoli colleghi, il fatto – unico nella storia dell’Assemblea Costituente italiana – di un ordine del giorno che viene sottoposto alla vostra approvazione dopo essere stato sottoscritto da circa 300 deputati, dirò meglio da tutti i deputati presenti all’atto della raccolta delle firme, mi esime da un particolareggiato svolgimento dell’ordine del giorno stesso.
Non uno solo dei deputati presenti rifiutò la propria sottoscrizione, a qualunque parte dell’Assemblea egli appartenesse, perché tutti vollero essere fedeli al mandato ricevuto e tutti sapevano l’unanimità degli spiriti che animava ed anima il popolo italiano.
Non è qui mestieri di dimostrare il nostro buon diritto, che per la verità non è se non può essere misconosciuto.
Occorre piuttosto porre l’accento sul fatto che questa Italia – una nelle sue molte storie, una nei suoi molti errori, una nei suoi troppi dolori – è una ancora nell’offrire – gli occhi negli occhi, il cuore nel cuore – la sua amicizia alla sorella latina. Una amicizia sincera, solida; non contingente, perché si fonda non soltanto sopra quella fraternità d’armi che fiammeggiò dalle Argonne a Vittorio Veneto e che si rinnovellò – all’ombra del proclama di Paul Reynaud – nella guerra partigiana insieme combattuta, ma ancora in una più intima e più continua fraternità di lavoro, che indusse molte braccia italiane a trovare in Francia la loro seconda Patria, consce che se nel passato ci unisce una comune civiltà, latina e cristiana, nel presente e nel futuro è una comune necessità che ci vuole avvinti.
Ricordando una celebre frase di Jaurès, l’onorevole De Moro-Giafferi disse alla Camera francese, all’atto della ratifica, che codesto Trattato è uno di quegli atti che per un giorno si felicitano e in seguito si deplorano, perché la Francia e l’Italia sono due popoli complementari ed egli non poteva ammettere che due popoli viventi l’uno a lato dell’altro restassero coi loro rancori. Noi domandiamo, domandiamo esplicitamente, domandiamo solennemente al popolo francese e ai suoi liberi rappresentanti di poter superare questi rancori e – parafrasando il discorso che il loro Presidente Ramadier pronunciò nella scorsa settimana – la mano tesa nella mano, diciamo che l’amicizia italo-francese «è un fatto naturale e non si può andare contro le leggi naturali della vita».
Voglia Iddio che codesto appello, che non ambizione di rivincita, ma desiderio profondo di solidarietà umana ed europea ha stillato, non cada nel vuoto di inutili tardive recriminazioni, ma trasformi il dolore nostro di oggi in un sereno, sicuro pegno di vera pace tra due popoli, che la storia ha chiamato ad amarsi e non ad odiarsi!
Ed è tale l’identità dei sentimenti che nel difficile storico momento che attraversiamo ci lega al popolo francese, che possiamo concludere con le identiche parole con le quali concludeva – or sono due giorni – il suo discorso alla Camera francese Paul Reynaud: «L’ora è giunta di dominare i nazionalismi esasperati da qualunque parte provengano e di essere semplicemente umani».
Non altro noi chiediamo al popolo francese. (Applausi).
PRESIDENTE. Si è concluso lo svolgimento degli ordini del giorno presentati in sede di questa discussione.
Ha facoltà di parlare, pertanto, il Ministro degli affari esteri, onorevole Sforza.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, qui si tratta di compiere tutto il nostro dovere di fronte al popolo italiano ed al suo avvenire. Devo quindi esprimermi chiaramente e senza nessun lenocinio retorico, del quale, per mia fortuna, sono incapace. Comincerò col rispondere partitamente ai vari colleghi, che esposero all’Assemblea dei dubbi e delle domande di carattere specifico, cioè, mi pare, all’onorevole Ruini, all’onorevole Russo Perez, all’onorevole Valiani, agli onorevoli Togliatti, Nenni ed altri. Risponderò invece sinteticamente alle varie questioni di carattere generale, riaffermando così quello che rimane, dopo matura considerazione, il mio pensiero.
L’onorevole Ruini, in un discorso estremamente interessante – ed a proposito del quale non mi lagno che egli abbia cercato di temperare quello che ha chiamato il mio ottimismo – sottolineava alcuni punti che, secondo lui, dovevano mostrare un suo realismo più completo del mio, come quando parlò di una prossima probabile crisi economica americana.
Questo è un argomento che può, da un celato lato, non toccarci; ma, di fronte alle speranze, agli atteggiamenti o alla politica che noi dobbiamo seguire circa la Conferenza di Parigi e circa il piano Marshall, è chiaro che dei dubbi sulla stabilità economica degli Stati Uniti possono avere una certa influenza.
È, per ciò, che io vorrei sottoporre all’onorevole Ruini un paio di punti che, a mio avviso, possono rassicurarci sulla solidità della situazione economica americana e quindi sulle possibilità feconde per l’avvenire che il piano Marshall presenta.
RUINI. Io non ho mai sollevato dubbi sulla solidità americana. Ho detto che forse, per evitare una crisi futura, non basta il piano Marshall, ma sarà necessario l’adeguamento fra importazioni ed esportazioni.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Ad ogni modo, queste sono le ragioni pratiche, che, non degli americani, ma dei profondi conoscitori stranieri della situazione americana portano per farci credere in una permanente solidità economica degli Stati Uniti.
Le ragioni sono essenzialmente due.
Primo: esiste oggi in America una tale sorveglianza del credito, che è impossibile che la speculazione determini una sovraproduzione, come quella che provocò la crisi del 1929.
Oggi nessuno può lavorare in borsa in America, se non deposita in contanti il 90 per cento dell’operazione – e fu la mancanza di queste misure che provocò la grave crisi del 1929.
Secondo: le tasse in America sono altissime. Vi è un movimento demagogico naturale per farle abbassare. Ma il Governo ha dichiarato che le tasse saranno mantenute altissime. Perché? Perché, solamente in caso di contrazione del credito esso abbasserebbe le tasse. E così avrebbe un formidabile riflusso di capitali verso l’industria privata, il che eviterebbe quella crisi, che, nel 1929, ebbe la sua principale causa nella diminuzione dei crediti.
Ma dovevo anche rispondere all’onorevole Ruini su un punto, in cui il mio dovere di Ministro è profondamente impegnato. Egli fece una critica molto vivace all’Ufficio Economico del Ministero degli affari esteri ed al suo direttore generale, dottor Grazzi. A questo proposito io potrei dirvi che, contrariamente a lui, ho una stima profonda del valore tecnico e professionale del Grazzi.
Ma la mia opinione può valere poco. Vi darò dunque dei fatti. Da quando il Grazzi è stato nominato Direttore generale degli affari economici si sono completati o creati ex novo degli accordi economici con i paesi seguenti: Svezia, Polonia, Francia, Paesi Bassi, Grecia, Turchia, Uruguay, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Germania (Germania vuol qui dire, le autorità di occupazione), Cecoslovacchia (accordo, questo, difficilissimo del quale è per me grato dire in questa Assemblea che il nostro collega Chiostergi fu veramente lo spirito animatore, assistito da un altro nostro collega, l’onorevole Novella, che a Praga si occupò esclusivamente degli interessi della patria, senza nessuna idea preconcetta di partito). Ieri abbiamo firmato un accordo con la Cina; abbiamo firmato l’altro giorno un accordo con le Filippine. Sono in corso gli «accordi Lombardo» con gli Stati Uniti; altri accordi sono in fattura coll’Argentina. I fatti provano che attivo e fecondo agente sia Grazzi. Anche se fosse un men buono agente dovrei deplorare che qui si critichino dei funzionari. I Ministri sono qui per essere criticati, essi. Del resto, l’onorevole Ruini sarebbe stato molto probabilmente più nel vero, se avesse espresso dubbi sulla mia competenza economica piuttosto che su quella del dottor Grazzi.
RUINI. Io ho dichiarato soltanto che non eravamo ben preparati…
PRESIDENTE. Onorevole Ruini, la prego di non interrompere.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Rimango in argomento ricordando che giorni fa l’onorevole Nitti parlò in termini sarcastici dell’Ambasciatore Brosio. L’onorevole Nitti ha troppa esperienza degli affari di Stato, come ex Primo Ministro, per non dolersi dopo, riflettendo, di aver gettato un’ombra di sarcasmo e di ridicolo su un ambasciatore in carica in un posto difficilissimo. Ma io glie ne sono grato se ciò, per poco che valga, mi permette di affermare all’Assemblea che l’Ambasciatore Brosio è uno dei nostri agenti più operosi, più leali e più consci del loro dovere: che è profondamente rispettato dal Governo presso il quale è accreditato e dai suoi colleghi delle potenze estere.
Vengo all’onorevole Russo Perez.
Vi sono tre punti che l’onorevole Russo Perez ha sollevato nel suo discorso: uno, l’oro della Banca d’Italia asportato dai tedeschi; l’altro, una pretesa mia lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942; terzo, il rapporto fra gli accordi economici e finanziari, già conclusi o in corso e la ratifica del Trattato.
Per la questione dell’oro, la tesi italiana è per la restituzione integrale dell’oro italiano, appoggiandola al fatto che detto oro è stato ben individuato e rinvenuto integralmente. Gli alleati, invece, sosterrebbero la tesi di ammettere l’Italia alla partizione dell’oro monetario rinvenuto in Germania. L’azione a sostegno della tesi italiana è stata svolta alla Commissione Tripartita per la restituzione dell’oro. L’azione è tuttora in corso.
Circa una mia pretesa lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942, lettera cui ha fatto allusione anche l’onorevole Selvaggi ieri, debbo confermare quello che già chiarii scrivendo al Corriere della Nazione, che pubblicò il 7 febbraio la mia smentita; cioè che tal lettera era un falso completo, senza la più lontana ombra di verità; tocca al Corriere della Nazione di dolersi con l’onorevole Russo Perez e con l’onorevole Selvaggi, se essi non leggono quel giornale. Del resto, come potrei io aver scritta quella lettera? Basta il più modesto senso storico per rendersene conto; infatti un’autentica mia lettera all’ex re, lettera che ebbe larga circolazione clandestina in Italia negli anni della guerra, diceva così verso la fine:
«So bene che intorno a Vostra Maestà si dice con sicurezza che gli Stati Uniti sono divisi tra isolazionisti e interventisti, che l’America è antimilitare, che l’America non sarà pronta in tempo, che l’Inghilterra sarà sconfitta prima che Washington si sia preparata.
«Non creda a queste fole. Io conosco gli Stati Uniti; vi sono stato dieci volte durante questi ultimi fascistici anni. L’America stupirà il mondo con una preparazione militare ed economica, davanti a cui tutto finirà per piegarsi.
«Se Vostra Maestà darà il suo nome e la sua firma a questa guerra insensata, bisogna che ella sappia che ciò finirà per significare la più terribile delle rovine per l’Italia.
«Pensi per lo meno all’esercito, se, come me, ella ne ha a cuore la fama e il prestigio. Pensi a quanto potrà accadere in una guerra che sarà lunga, lunghissima, con tutte le nostre risorse già sperperate dal fascismo e con un Paese che non sentirà mai un conflitto combattuto al lato dei tedeschi.
«E se quanto sto per aggiungere l’interessa più dell’esercito e della nostra Italia, comprenda bene che il disastro sarà così spaventevole e la perdita dell’onore nazionale sarà così cocente che finiranno per distruggere alla lunga ogni legame di fedeltà e di affetto fra il popolo e la Corona».
Questa lettera la scrissi il 30 maggio del 1940. Era concepibile che gli scrivessi un’altra lunga lettera di avvertimenti e di consigli nel 1942? Era una impossibilità assoluta, a parte la mia smentita più formale. E spero che di questa fola non si parli più.
Terzo punto di Russo Perez: accordi economici. Ho già risposto all’onorevole Ruini, ma per lei aggiungerò che stiamo trattando con molti paesi una serie di accordi finanziari che regolano il problema delle riparazioni e quello dei beni italiani all’estero. Per alcuni di questi Paesi la ratifica agisce come sospensiva, per altri essa rappresenta un elemento importante per il maggior successo dei negoziati in corso. Si tratta, in sostanza, di una azione politica che tende al superamento ed alla attenuazione di certe clausole del trattato. Il rinvio e il rigetto della ratifica ne pregiudicherebbe la definizione.
All’onorevole Spano, che parlò con accoramento della situazione degli italiani che vivono in Tunisia, io dirò che in un certo senso sono d’accordo con lui quando egli lamentò che in casi dolorosi come questo sono sempre i cenci che vanno all’aria, per usare un vecchio sconsolato proverbio. Ma quello che è certo è che noi facciamo quanto possiamo perché ciò non sia. Anche a Parigi, in conversazioni intime che ebbi durante la Conferenza l’altro giorno, ricordai, spiegai, parlai degli interessi degli italiani, modesti e grandi, in Tunisia. E ne parlai anche in un senso che oserei dire francese, perché la Francia deve sapere che se si allontanano gli elementi italiani dalla Tunisia, chi ne soffrirà saranno tutti gli interessi europei ma prima quelli della Francia stessa. Senza una forte base demografica italiana nell’Africa del Nord, si può dire addio per sempre ad ogni speranza di interessi europei nell’Africa del Nord. (Applausi al centro).
Circa le espulsioni, devo dire però che noi abbiamo ottenuto la revoca di un grande numero di esse, persino per italiani che si erano arruolati nell’esercito italiano in Tunisia durante la guerra. Non si può dunque negare che con queste misure recenti, si ha una certa diminuzione di quelle asperità, che erano probabilmente una delle conseguenze degli odii della guerra, anche perché, lo ripeto, è profondamente un interesse francese che gli interessi italiani siano salvaguardati nell’Africa del Nord.
All’onorevole Valiani vorrei rispondere in modo preciso, perché egli ha sollevato un punto importante: egli si è posto il problema della ratifica jugoslava. Noi non dobbiamo ratificare, egli ha detto, perché verremmo a trovarci, nel caso che la Jugoslavia non ratificasse, ad avere rinunciato alla sovranità su Trieste, senza la contropartita di un impegno jugoslavo.
Ma, onorevole Valiani, lei capovolge la situazione. Come non vedere che l’unica nostra garanzia, proprio su questo punto, è che il trattato porti la firma delle quattro grandi Potenze? A queste firme sono seguite tre ratifiche. (Interruzione del deputato Valiani).
Quando la Russia avrà ratificato, non so se la Jugoslavia vorrà non ratificare, ma, se dovesse avvenire che pure la Jugoslavia non volesse ratificare, pensa l’onorevole Valiani che essa farebbe ciò per migliorare il confine a nostro favore? E, nel caso opposto, non è questa proprio la ragione per noi di ratificare, cooperare, per quanto possibile, ad una distensione internazionale in una zona così sensibile? Oppure vede l’onorevole Valiani un altro modo più energico, più efficace… (Interruzione del deputato Valiani).
PRESIDENTE. È una figura retorica, la domanda dell’onorevole Sforza.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. In verità, l’onorevole Valiani ha portato un argomento a favore di chi pensa che a noi convenga uscire da questa perenne incertezza.
Resta bene inteso, tuttavia – e sono grato all’onorevole Valiani che mi permetta di affermarlo qui – che il Governo italiano, nei riguardi delle clausole relative agli italiani della Venezia Giulia, considera che esse rappresentano un tutto inscindibile, il che vuol dire che il Governo italiano non ritiene nemmeno possibile il dubbio che alla rinunzia della nostra sovranità su Trieste non si accompagni la contemporanea creazione dello Stato libero quale è previsto dal trattato.
L’onorevole Valiani ha parlato anche delle Colonie. Per quanto riguarda le Colonie, non posso che ripetere quello che già dissi venerdì scorso: cioè che il Trattato niente decide sulle Colonie. Ammette solo che se ne cominci a discutere. Ora, l’atto della ratifica incide anche su questo nostro fondamentale interesse. È bensì vero che affidamenti precisi non possiamo dire onestamente di averne, ma possiamo riconoscere che, impostare questi problemi rinviando la ratifica, significherebbe non avere nemmeno la possibilità di chiedere e lottare in una atmosfera di maggiore fiducia e simpatia.
L’onorevole Nitti mi scuserà se, per risparmio di tempo, io risponderò solo a una domanda precisa che egli mi pose circa l’O.N.U., di cui ha parlato con un pessimismo che spero esagerato. Ecco dunque come sta questa questione dell’O.N.U. Le disposizioni statutarie fissano, per l’ammissione di nuovi membri, le seguenti condizioni: 1° che lo Stato sia «amante della pace»; 2° che esso accetti gli obblighi contenuti nello Statuto e, a giudizio dell’organizzazione, sia capace e disposto ad adempiere a tali obblighi. Inoltre l’articolo 2, al paragrafo primo, afferma che «l’organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza dei suoi membri».
Non vedo dunque perché l’onorevole Nitti non abbia trovato in queste forme un espresso richiamo alla nostra ratifica. Pure, per quanto riguarda la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite, è evidente che se l’Italia è pronta alla ratifica del Trattato potrà allora soltanto sostenere di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per trovarsi nelle condizioni richieste dallo Statuto.
Vi sono poi pur sempre, in questo trattato ingiusto, iniquo e, soprattutto miope, quale tutti noi lo consideriamo, delle affermazioni che sono a nostro favore. Ve n’è più di una in questo trattato di affermazioni a nostro favore, tanto che si direbbe sia stato compiuto da una maggioranza ostile e, insieme, da qualcuno che di tanto in tanto intravedeva l’avvenire e cercava di fare entrare un raggio di luce alfine di conferire un po’ di nobiltà allo sciagurato strumento.
Al quarto capoverso del preambolo del Trattato si legge infatti: «Premesso che le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia desiderano concludere un trattato di pace che, conformandosi ai principî di giustizia, regoli le questioni che ancora sono pendenti a seguito degli avvenimenti di cui nelle premesse che precedono, e che costituisca la base di amichevoli relazioni fra di esse, permettendo così alle Potenze Alleate ed Associate di appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche per aderire a qualsiasi convenzione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni Unite». Questo non si può negare che non sia un impegno solenne dei Quattro, nei confronti del quale abbiamo diritto di pretendere piena conferma dei fatti.
Chiarito quanto precede, non vorrei, anche per rispetto del tempo dei colleghi, e per la maggior gravità che ha assunto la discussione, seguire l’onorevole Nitti nelle acide polemiche che egli svolse; forse la sua intenzione fu ottima, come quando cercò attaccare certe eccessive posizioni nazionalistiche. Fu certo a fin di bene che egli affermò che, anche da parte nostra e da molti decenni, i vari Ministri degli esteri d’Italia si eran resi colpevoli di trucchi machiavellici.
Io non voglio qui riprendere la discussione dal Nitti qui iniziata sul machiavellismo, discussione cui altri colleghi han poi dato in quest’Aula il loro contributo: se lo dovessi fare, direi una cosa semplicissima, che da parte di tutti si è dimenticata; direi, cioè, che il machiavellismo non fu affatto l’idea infernale, satanica con cui il Segretario fiorentino ci avrebbe diffamati, come ha preteso l’onorevole Nitti. In verità, quanto il Machiavelli scrisse fu semplicemente la descrizione obiettiva di ciò che si pensava in tutta l’Europa alla fine del secolo XV e all’inizio del secolo XVI. Dire che il Machiavelli è stato «machiavellico» nel senso che questa parola ha preso, equivarrebbe a dire che un grande scienziato che scrive un libro sul cancro o sulla sifilide, è partigiano del cancro e della sifilide. (Approvazioni al centro). Nient’altro.
Checché ne sia di ciò, quello che volevo dire all’onorevole Nitti – e sono certo che in cuor suo egli finirà per essere d’accordo meco – è che bisogna fare una distinzione. A me duole doverla fare, perché so che bisogna guardare avanti e non indietro e che bisogna finirla con una serie di odî che altrimenti avveleneranno la nostra vita. Ma bisogna pur riconoscere che, finché il fascismo non venne, l’insieme della politica estera italiana fu degno della perfetta lealtà dei nostri Governi. E Nitti ha torto quando cita, per esempio, a proposito dei nostri contemporanei contatti con la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza, la famosa, insultante frase di Bülov contro il «giro di valzer». Perché dobbiamo prendere come Vangelo l’opinione di uno straniero? In realtà, non vi fu niente di più perfetto, di più leale, di più corretto della politica della diplomazia italiana fino alla guerra mondiale. Uomini come Robilant, come Visconti Venosta, come Prinetti sono stati modelli insuperati di specchiata onestà ed è assurdo che sia proprio un italiano che tenti abbassarli. Certo, so quello che l’onorevole Nitti pensa sull’onorevole Sonnino; anch’io gli ho mosso molte critiche; ma quelli di Sonnino furono errori di scarsa immaginazione; mai ci fu in lui la menoma idea morbosa e malefica di creare il male, di creare l’intrigo.
No, onorevole Nitti, questa fama di scarsa fede politica noi la dobbiamo solo alla politica dei vent’anni di fascismo, che fu amico prima della Jugoslavia – seguendo Mussolini nei primi anni del suo governo la mia politica – e poi diventò nemico; che dette appoggio incondizionato a Dollfuss, e poi l’abbandonò a Hitler; che finse di appoggiare la politica europeistica stabilita a Locarno; e poi vantò in scritti pubblici di essere andato a Locarno per pugnalare la politica di Locarno, perché a Stresa promise una cosa che poi fu smentita dall’avventura etiopica; perché presentò l’Etiopia con entusiasmo alla Società delle Nazioni come un grande Stato civilizzato e poi assalì l’Etiopia; perché coll’Albania prima fece un patto di amicizia eterna, e poi, un tragico giorno di venerdì santo la occupò senza nessuna preventiva azione o spiegazione; perché fu il primo a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica, e poi si alleò con la Germania contro l’Unione Sovietica; e dappertutto fu così: in Cina, Ciano per lunghi anni fece una politica sinofila, e poi la attaccò e le dichiarò guerra. Così fu per la Grecia; prima una lunga politica di amicizia, e poi, in sei ore, il più insensato, il più sleale, il più brutale ultimatum.
Di questo dobbiamo renderci conto, quando si sente che si parla attraverso il mondo di una scarsa fede diplomatica dell’Italia. Non insultiamo il nostro passato! La politica italiana, dal 1860 al 1922, può stare alla pari, come cristallina onestà, come buona volontà internazionale, come lealtà verso gli interessi superiori della pace, può stare alla pari, dico, di quella di qualunque altra Potenza, e per parte mia credo che è molto al di sopra. (Applausi al centro).
Vengo ora al discorso dell’onorevole Togliatti. Il suo discorso è in parte di politica estera e in parte, nel fondo, di politica interna; per quest’ultima, lascio al Presidente del Consiglio di parlarne.
Sul fondo del discorso concernente la politica estera in generale, risponderò più in là, quando parlerò dei problemi generali, cioè specialmente dei nostri rapporti con l’Unione Sovietica.
Qui – poiché in questa parte voglio trattare solo di singole fasi del dibattito – vorrei solo sollevare e chiarire alcuni punti, non dirò personali, perché le persone sono nulla e non ne parlerò un sol momento, ma perché mi pare che sia meglio chiarire la situazione su certi episodi.
Perché l’onorevole Togliatti, quando accennò alla partenza dell’onorevole Nenni dal Ministero, fece delle allusioni agli oscuri raggiri e ai tenebrosi intrighi che obbligarono l’onorevole Nenni ad uscire dal Governo?
Signori, in quest’Aula, la dignità personale di ognuno di noi, il valore personale di ognuno di noi è un patrimonio comune di tutti, ed io credo che sarebbe stato bene ricordare che, quando l’onorevole Nenni offrì all’onorevole De Gasperi le sue dimissioni da Ministro degli esteri, egli ciò fece per una ragione sola, la quale mostra che, qualche volta almeno, il livello della vita politica italiana resta altissimo; egli si dimise perché sentì che, essendo andato al Governo come rappresentante di un partilo di tanti membri, non aveva più diritto di rimanere quando il suo partito era stato dimezzato. Questo fu atto di cavalleresca lealtà politica, ed era meglio riconoscerlo anziché andare a creare, in odio all’onorevole De Gasperi, non so quale misterioso intrigo da romanzo. (Applausi al centro).
Un’altra osservazione vorrei fare all’onorevole Togliatti circa le critiche che fece alla mia azione a Parigi. Ma non creda l’onorevole Togliatti che io non mi renda conto della profonda sincerità interiore del suo pensiero; egli temeva e teme, egli sospettava e sospetta; e, dando troppo corpo ai suoi timori e sospetti, vede prove contrarie a suoi rispettabilissimi sentimenti anche là dove non esistono affatto. Per esempio, egli, spulciando il mio primo discorso alla Conferenza di Parigi per cercarvi prove di uno sbandamento della nostra politica estera, citò un frammento del mio discorso, aggrottò le sopracciglia e di che, mio Dio, mi rimproverò? Di aver nientemeno detto che per un’unione europea io ero pronto – ma qui cito fra virgolette – «ad accettare, l’Italia, non lui (cioè Sforza), tutti i sacrifici».
Personalmente son grato all’onorevole Togliatti; delle varie leggende intorno a me, questa mi piace; poco mi cale si rida del mio amore per l’universalismo, della mia fede nell’unione europea, della mia fede persino (scusate, se qualcuno vuol sogghignare sogghigni pure) della mia fede, dico, che i nostri figli abbiano un giorno a non più vedere la guerra.
Per sorridere di questo mio umanitarismo, l’onorevole Togliatti citò la frase che vi ho detta. Ma debbo fare all’onorevole Togliatti una osservazione semplicissima: che il fare una citazione tronca equivale a falsare il pensiero di qualcuno. Se lei, onorevole Togliatti, avesse letto qualche parola di più avrebbe trovato che nella mia frase non vi era nulla da criticare neppure dal punto di vista del più duro degli egoismi nazionali, che sembra le stiano tanto a cuore. Io dissi infatti: «Noi desideriamo assicurarvi che siamo pronti a tutte le intese, a tutti gli accordi, affinché l’economia dell’Europa si sviluppi, si armonizzi, diventi un insieme fecondo»; cioè noi siamo pronti a tutti i sacrifici, a tutti gli accordi che ci permetteranno di guadagnare il cento per cento sui nostri pretesi sacrifici perché in una Europa in pace e organizzata l’Italia con la sua attività, con il suo talento troverebbe mille modi di essere più ricca che non lo sia in una Europa divisa, in un’Europa autarchica, separata da troppe barriere doganali.
Ma vi è un altro punto in cui sono certo che l’onorevole Togliatti, ripensandoci, sarà completamente d’accordo meco. Egli temeva (ma perché non so) ch’io fossi compartecipe di chi sa quale segreto misterioso complotto per ignorare o allontanare l’Unione Sovietica, per riprendere il folle tentativo dei reazionari del 1919-20 che vollero circondare l’Unione Sovietica di un filo di ferro spinato. Anzi, questa frase andava ripetuta in francese, perché l’inventò Clemenceau: «Le fil de fer barbelé autour de la Russie». Togliatti, nella sua tema, certo sbagliatissima per ciò che mi concerne, che io fossi, sia pur lontanamente, compartecipe di una simile politica; che questo Governo, sia pur lontanamente, fosse compartecipe di tali piani, ne andò a cercare la prova in un innocente finale letterario del mio discorso; finale di cui mi pento solamente perché è un finale letterario. Già; perché comincio a persuadermi che la letteratura e la retorica sono il veleno più orribile degli italiani nella politica. Mi permetta, onorevole Togliatti, che io parli con tutta franchezza a lei che è un uomo di cui, nelle nostre conversazioni di letteratura, di problemi storici, di problemi filosofici, ho constatato l’alta cultura umanistica. Come mai lei semplicemente non si è accorto che alla fine del mio discorso avevo fatto un plagio, come se ne fanno così spesso, perché è impossibile non ripetere cose che sono state dette da altri?
Io dissi: «Stiamo attenti, si sappia che dobbiamo riuscire e che nessun sacrificio nazionale sarà troppo grande, nonostante il compito non sia facile. Noi dobbiamo sormontare gli egoismi nazionali ed augurarci che i tedeschi, moralmente guariti, rientrino nella nostra comunità di produzione e di lavoro. Noi dobbiamo tentare ancora di ricondurre al nostro fianco i Paesi assenti; noi dobbiamo riuscire. Se noi non riuscissimo, potrebbe darsi che questa gloriosa Europa che ha guidato il mondo con la forza dello spirito ridivenga ciò che essa fu diecimila anni fa: una povera, piccola insignificante penisola dell’Asia».
È proprio strano che un uomo di alta cultura come l’onorevole Togliatti si sia tanto allarmato per questa frase. Lo avete tutti sentito in quest’Aula: «Che cosa ha voluto dire con ciò Sforza? Ha egli pensato che la Russia è in Asia? Che all’infuori, dunque, di questa Russia e di questa Asia l’Europa diventi quella piccola penisola, ecc., ecc.». No, no, onorevole Togliatti, ecco la modesta verità. Io arrivai a Parigi ammalato. La mattina della seduta solenne dovetti scrivere rapidamente il mio discorso. Forse non ero in vena di immaginazione soggettiva molto grande; e questa ultima frase mi tornò in mente da una mia lettura di gioventù. È una frase famosa di Ernesto Renan pronunciata prima del 1870 quando la Russia era europeissima, quando la frase Euro-Asia non era stata neppure coniata e nessuno supponeva che qualcuno sorgerebbe un giorno a dire che la Russia fosse un continente a parte, metà Europa e metà Asia. Sia dunque ben inteso che io credo profondamente all’unità europea, compresa la Russia, tal quale come il grande scrittore francese da cui io ripetei l’immagine non concepiva neppure una Europa senza la Russia.
Vede, onorevole Togliatti, a che cosa si arriva quando si vive in eccessivo timore, quando si vive in eccessiva sfiducia, in eccessivi sospetti.
Ma veniamo a cose più serie.
L’onorevole Togliatti si è lamentato che da me e dal Ministero degli affari esteri non si siano usate sufficienti prove di energia per venire ad una intesa con la Jugoslavia. Io devo dirgli che sono stato molto sorpreso di questa sua critica, ma in un certo senso ho anche ammirato, perché mi son detto che il mio antico e caro collaboratore Eugenio Reale ha spinto veramente troppo oltre il dovere professionale del segreto di Stato. Sia ben inteso che io lo autorizzo a dire al suo amico e capo Togliatti tutto quello che sa. Eugenio Reale, essendo stato accanto a me a Palazzo Chigi, sa che non è quasi passato giorno in quei mesi di collaborazione in cui non abbia insistito presso gli Jugoslavi o presso i negoziatori italiani, prima presso Merzagora, che fu un entusiastico fautore di un’intesa economica con la Jugoslavia, poi col dottor Mattioli, che ha portato a fine un’ottima intesa economica coi nostri vicini, perché le trattative fossero condotte al più presto a termine, e nel modo più favorevole ad una collaborazione duratura e profonda. Ma dopo lunghi anni di silenzio, dopo abissi di ire e dolori, che c’è di strano se ogni tanto si deve notare che quello che si sperava di fare in quindici giorni non si può fare, ohimè, che in un tempo più lungo? Ho avuto ieri nuove assicurazioni e da parte jugoslava e da parte del negoziatore economico italiano che le cose si avviano ad una sodisfacente soluzione, come è naturale che sia, se non siamo pazzi, perché non ci sono al mondo due paesi che siano economicamente così perfettamente complementari come l’Italia e la Jugoslavia.
Io sono impaziente di firmare l’accordo con la Jugoslavia; sarei felicissimo di firmarlo stasera e debbo dire che tanto ci ha guidato il sentimento dell’urgenza di questo accordo, che, per troppa fretta, abbiamo commesso uno sbaglio – il tempo degli uomini infallibili è passato – uno sbaglio di cui mi pento e mi dolgo. Noi non tenemmo in abbastanza considerazione gli interessi essenziali dei pescatori italiani dell’Adriatico. Il collega Bastianetto ha scritto, a questo proposito, una memoria che è un piccolo capolavoro.
Ebbene, onorevole Togliatti, lei è certamente d’accordo nel riconoscere che le cose non si fanno senza tempo, fatica ed errori; ed è certamente d’accordo, anche se ora cerchiamo di creare un codicillo, una appendice, uno scambio di lettere che completi il trattato, e che renda sicuri i pescatori dell’Adriatico i quali, ridotti alla rovina, sarebbero in Italia un elemento di lotta e di rancori contro quella intesa italo-jugoslava, che è per me una delle basi necessarie alla resurrezione economica e politica dell’Italia. (Applausi).
Molti qui, per fortuna, Jacini, Giannini con commosse parole, poco fa Caroleo, hanno parlato della necessità di addivenire ad una unione europea; ma, signori, guardiamo la realtà in faccia: quando si vogliono le unioni, quando si vogliono le intimità, bisogna cominciare da chi ci sta accanto. Per questo io diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea» e poi gettano oltraggi alla Francia, e diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea», ma dicono che gli jugoslavi sono nostri nemici naturali e che non si può perdonare il passato. La prova del nostro buon volere consisterà nel volere l’intesa con i vicini immediati.
E agli jugoslavi ed ai francesi dico sempre: badate, se non lo fate per amore, fatelo per interesse, perché il solo modo per l’Italia e la Francia, il solo modo per l’Italia e la Jugoslavia di essere più forti e più rispettate è di non essere più incatenate a passatistici rancori. Se ci saranno buoni rapporti fra noi e gli jugoslavi, l’Italia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale, ma anche la Jugoslavia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale. Questi sono i miei costanti pensieri; sono pensieri del resto, onorevole Togliatti, per i quali io ho sofferto venticinque anni di persecuzioni fasciste, e mi stupisco molto che ciò almeno non basti per lei ad assicurarla dell’onestà del mio pensiero. (Applausi al centro).
Spero di non essere indiscreto se faccio un’altra osservazione. Lei, onorevole Togliatti, non è solamente uno scrittore ed un politico, ma è lo voglia o no, un’alta autorità dello Stato, come capo di un grande partito e come membro influentissimo di passati Governi. Questo crea dei doveri. Ora, c’è un fatto. Tutti i popoli hanno delle qualità e dei difetti. Noi italiani abbiamo qualità e difetti, i francesi hanno qualità e difetti, gli slavi hanno qualità e difetti; non credo di offendere gli slavi che hanno tanti mirabili pregi dicendo che – e da zaristici prima e da sovietici ora – il loro difetto, piccolo forse in sé, ma grave in politica, è questo: sono sospettosi. (Commenti a sinistra).
Che l’onorevole Togliatti, cui sta a cuore (ma forse non più che a molti altri in quest’Aula) l’intesa e l’amicizia più profonda fra l’Italia e l’Unione Sovietica, critichi duramente il Governo, quando ha fatti precisi da portare qui per smascherare una politica che possa portare a pericolose relazioni fra l’Italia c l’Unione Sovietica: egli non ha solamente il diritto, ma il dovere di farlo. Ma io credo che, data l’alta autorità che possiede, egli non serve gli stessi interessi dei buoni rapporti fra l’Italia ed il mondo sovietico, che come lui noi desideriamo altamente, quando dà corpo alle ombre, quando crea dei sospetti, quando inventa dei timori per i quali non c’è nessuna base.
TOGLIATTI. Non ho inventato nulla. Ho citato fatti!
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Anche sulla mia azione verso la Jugoslavia ha citato fatti?
L’onorevole Togliatti ha poi sollevato due altre questioni.: la prima è il Trattato di commercio con gli Stati Uniti. Voglio rassicurare lui, e l’Assemblea sulla situazione. L’onorevole Lombardo prosegue i suoi lavori, il Governo degli Stati Uniti ci ha consegnato un progetto che venticinque amministrazioni italiane hanno studiato a Roma; le conversazioni preliminari si inizieranno a Roma in agosto, al ritorno della missione Lombardo. Il negoziato ufficiale sarà aperto a Roma in settembre. Spero che una prossima discussione di politica estera – che questa stessa nostra discussione ha mostrato tanto utile e necessaria – permetta a tutti di dare consigli. E certissimo che fra due Potenze dalla situazione economica così disparata, come l’Italia da un lato e gli Stati Uniti dall’altro, non sarà sempre facile creare un perfetto parallelismo ed una perfetta perequazione; ma è quello che vogliamo fare e che tenteremo di fare; e saremo contentissimi di avvertimenti e consigli che ci mettano sull’avviso, quando questo sarà necessario.
TOGLIATTI. Devo dire, anche a questo proposito, che non ho inventato.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Infatti in questo mio appunto che scrissi mentre l’onorevole Togliatti parlava, leggo: «Ha ragione quando pone in guardia contro certe formulazioni».
Vengo all’onorevole Nenni. L’onorevole Nenni, nel suo discorso di ieri, ha sollevato una o due questioni, cui mi pare di dovere rispondere.
Egli ha detto che io chiesi il voto dell’Assemblea, perché l’Italia potesse andare a Parigi. No; credo che ella sia in errore, onorevole Nenni. Io chiesi solo un succedaneo, un Ersatz che permettesse alle Potenze di riceverci con parità di posizione; e perciò chiesi un voto della Commissione dei trattati; tanto più che era chiaro il desiderio delle Potenze di avere un Paese dell’importanza dell’Italia alla conferenza. Ed il voto della Commissione dei trattati calmò gli scrupoli giuridici dei loro tecnici e ci permise quella piena ammissione che tutti conosciamo. L’onorevole Nenni fece poi questa precisa questione, in cui sento gli stessi dubbi e gli stessi sospetti, che ho riscontrato nell’onorevole Togliatti. L’onorevole Nenni ha domandato: «Se invece della ratifica russa, mancasse la ratifica americana, vorreste voi ratificare?».
Ma, insomma, certamente no, non vorremmo ratificare; ma non è perché si tenga all’America più che all’Unione Sovietica, in questo campo; ma perché l’America era il solo grande paese, dove c’era un forte movimento comprendente anche membri del Congresso, che erano contrari al Trattato ed alla ratifica; era chiaro, quindi, che se l’America non avesse ratificato, era per noi un interesse supremo non ratificare, perché il nostro principale propugnatore, il più entusiastico difensore dei nostri diritti era l’America. Invece, con la Russia era un’altra cosa; e di ciò non ne dobbiamo volere affatto alla Russia.
NENNI. La Russia ha sostenuto a Parigi delle tesi a noi favorevoli; su altre è stata sfavorevole. (Commenti al centro).
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Sul fondo della questione bisogna ragionare con una parola che odio, e che uso forse per la prima volta in vita mia: realismo. Perché odio la parola «realismo»? Perché il realismo è cosa bella e completa solamente se sa che anche l’idealismo fa parte del realismo, sia pure per il trenta o quaranta per cento. E chi dice solo realismo, senza pensare all’idealismo, è falso realista, perché non sa cos’è il realismo completo.
Ma, venendo al punto, è con perfetto realismo che osservo all’onorevole Nenni che, sull’insieme globale del Trattato, quando la sera del 10 febbraio 1947 inviai a tutte le Potenze firmatarie la nota di cui detti lettura al principio del mio discorso dell’altro giorno, ricevetti o silenzio o parole di simpatia. La sola risposta fredda definitiva, senza ombre, fu la risposta sovietica: «Perché vi lamentate? Il Trattato è giustissimo e non vi è nessuna ragione che voi non lo ratifichiate, né che voi ne chiediate mai la revisione».
Non avevo mai detto ciò; ma debbo aggiungere, poiché odio i volgari discorsi antisovietici che cercano di creare delle leggende là dove non ce ne è nessun bisogno, che in questa risposta di Molotov non c’è nulla di particolarmente ostile all’Italia: esso è un fatto di realistica politica estera. La Russia, che ha sofferto orribilmente come perdite di uomini e distruzioni di città, è però dal punto di vista territoriale, la potenza che ha più guadagnato. Ed ora, dappoiché mondo è mondo, quando ci sono dei Trattati collettivi (lo si vide nel 1815 col Trattato di Vienna) le potenze che hanno avuto i maggiori guadagni territoriali sono contrarissime e nemicissime delle potenze che parlano di revisione. L’odio dell’impero austriaco dopo il 1815 verso l’Italia, non ebbe che questa ragione: non tanto l’odio per il liberalismo italiano, non tanto, in seguito, l’odio e la suspicione per quella che fu l’azione meravigliosa di Cavour, ma semplicemente perché l’impero austriaco era un «beato possidente» e noi volevamo diminuire quel «beato possidente».
Questa fu la ragione della risposta di Molotov. (Applausi a destra). Io non voglio criticarla, ma è un fatto che ciò sia. Questo spiega, in risposta a quanto ha detto l’onorevole Nenni, perché se gli Stati Uniti fossero stati contrari alla ratifica, noi saremmo stati ugualmente contrari.
L’amico Nenni mi ha lanciato un’accusa che, quando penso alla mia travagliata esistenza per difendere i miei principî politici, mi ha fatto sorridere. L’accusa che io sono stato tentato da «una via di comodità». Caro Nenni, se noi non fossimo dei servitori fedeli dell’Italia, la via della comodità per noi era di andare su un viale circondato da festoni e da frasi retoriche di cui fra due o tre anni si vedrebbe che non erano che fango e idiozia. (Applausi al centro). La comodità era di andare lungo la via della non ratifica perché quella è la via che da soggetti di storia che volevamo divenire, ci avrebbe ridotti a oggetti di storia; saremmo diventati forse come la Repubblica di Venezia dieci anni prima del Trattato di Campoformio, prima che il disonore e la rovina cadessero su di lei: quella era la via comoda.
L’onorevole Nenni fece anche una critica in cui sentii un’ombra di solidarietà interiore meco, tanto sono stati, in questo momento, intrecciati indissolubilmente, sentimenti opposti che, se non ci fossero state idee di «assalto alla diligenza», questa discussione avrebbe potuto diventare un esempio meraviglioso al mondo, perché avremmo potuto mostrare all’Europa degli italiani divisi da motivi ideali e da motivi teorici, ma profondamente d’accordo su alcuni concetti morali essenziali. (Applausi prolungati al centro – Rumori – Commenti).
Ed io voglio qui dire una delle ragioni intime per le quali ieri mi trovai perfettamente d’accordo con Nenni, quando Nenni fece una allusione lontana, ma per noi, che sappiamo le cose, chiarissima.
Una voce a sinistra. Non basta saperle. Bisogna capirle!
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Verrò a lezione da lei. (Applausi al centro).
Una voce a sinistra. Si sta così comodi nella diligenza!
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Nenni fece un’allusione, a mio avviso, profonda e verissima quando pose in guardia contro il rinnovarsi di certi miti, di certe malattie xenofobe che possono avvelenare il Paese. Io sento questo così profondamente, anche dal punto di vista dei successi diplomatici futuri dell’Italia, che questa è una delle ragioni, che, dopo molto esitare, dopo aver visto i lati di una politica e poi i lati di un’altra politica, finirono per decidermi che la ratifica con tutti i suoi dolori e con tutte le sue tristezze era ancora il minor male. Nenni conosce bene i miti del 1919; avevamo vinto, ma ci si impediva di saperlo e la stampa gialla trasformò quasi in sconfitta la vittoria.
Questa volta, certo, non abbiamo avuto vittoria, ma chi ha profonda fede nell’Italia, come noi l’abbiamo, sa che un punto fermo, un capitolo nuovo, una ratifica che ci prepari nuove vie dell’avvenire, può spazzar via quei miti pazzeschi e ingannatori di xenofobia e di nazionalismo esaltato, che fecero tanto danno a noi nel 1919. Nenni è stato in Francia, Pacciardi è stato in Francia (e dal suo soggiorno in Francia ha tratto qualche motivo per quel nobilissimo suo discorso che resterà a onore eterno del Partito repubblicano) ed essi sanno che tutti i nazionalismi più sciocchi, furono in parte eliminati dalla vita della Francia, per l’azione di un grande patriota francese, che, come è naturale, non ricevette che insulti e contumelie dai superpatrioti, Jules Ferry. Il Ferry, ai francesi che parlavano di Strasburgo, ai francesi che parlavano di «blessures éternelles» disse: «Creiamo una Francia più ricca, più forte, più prospera, più grande, ed in questo modo ci rispetteranno ancora di più in Alsazia; invece così siamo un Paese diviso da rancori nazionalisti che fanno di noi una potenza del passato». Così Ferry diede alla Francia il più grande impero coloniale che la Francia abbia posseduto e così per la grandezza della Francia venne un rinnovato amore negli alsaziani per la Francia che si faceva onore e mostrava vita, non pergamene del passato e vieti archi di trionfo. Questo vogliamo per l’Italia, e quando diciamo «ratifica», lo diciamo perché così daremo nuova vita e nuova forza anche ai fratelli che soffrono ma non si allontaneranno da noi, perché se vedranno un’Italia grande e prospera e non avvelenata dalla retorica, sapranno che l’Italia è una cosa viva nella quale credere sempre. (Applausi).
Mi si permetta ora di esaminare nel loro complesso le argomentazioni di carattere più generale.
La discussione ora conclusa mi è parsa utile, se non altro perché ha confermato che tutto il popolo italiano ritiene questo Trattato ingiusto e crudele e – vorrei aggiungere – miope. Le numerose argomentazioni a favore della ratifica sono state sempre legate all’urgenza della ratifica, e questo lo dico per coloro che tentano ad ogni costo di distinguere due questioni che non esistono, perché la questione è una sola: ratificare o no. Il dilemma è questo: o ratificare per riacquistare la sovranità del nostro territorio, per uscire dall’armistizio, per raggiungere la libertà di decisione sulle cose nostre e metterci in condizioni di far sentire la nostra voce fra le Nazioni; oppure non ratificare, sperando di conseguire i medesimi risultati in un altro modo.
Ma quelli che sono per la seconda soluzione, avrebbero dovuto precisare quale sia, secondo loro, questo modo. Io non ne vedo che uno, e non mi sento di avallarlo: speculare sulle discordie, sulle avventure, sui pericoli internazionali. Io spero che all’Italia sia risparmiato tutto quello che precederebbe e seguirebbe il verificarsi di simili eventualità. E se nessuno qui ha veramente pensato a qualche cosa di simile, allora è necessario non perdersi in frasi e guardare la realtà.
Se la seconda alternativa non è nei propositi di nessuno, non c’è che la prima: ratificare per tornare ad avere quella autonomia che la realtà ci consente; ratificare per poter cominciare a lottare per l’avvenire d’Italia.
Il Trattato è quello che è, ma non ci si prospetta la scelta d’altro trattato. L’alternativa è: o questo trattato o nessuno; cioè niente su cui fondare una politica, nessuna certezza circa i limiti delle altrui possibilità o velleità di disporre ancora delle cose nostre.
La ratifica è dunque necessaria, perché l’Italia vuole riacquistare al più presto la sua indipendenza nazionale, e nello stesso tempo abbandonare il fatale indirizzo isolazionista, sul piano internazionale, che, cominciato col fascismo, si concluse con la violenza e il sangue della guerra del 1940.
L’isolazionismo si abbandona offrendo e chiedendo delle garanzie, giocando la carta della collaborazione internazionale; certo senza troppe ottimistiche illusioni, ma anche senza quelle diffidenze preconcette e ostinate colle quali nessuna direttiva e nessun calcolo si possono fondare. La democrazia italiana vuole, in nome della pace, collaborare con gli Alleati; e per questo accettiamo di subire un trattato ingiusto ed iniquo per l’Italia, ma che fu l’unico compromesso fra le varie ambizioni e passioni alleate, nei nostri confronti.
Un compromesso raggiunto costituisce pur sempre una garanzia anche per gli sconfitti, una garanzia che, come bene ha spiegato l’onorevole Adonnino, limita l’arbitrio e le possibilità dei vincitori, di incrudelire, magari a dispetto l’uno dell’altro, e di aggravare il Trattato, addossandoci sacrifici ulteriori.
«Da che mondo è mondo – e qui cito le parole testuali dell’onorevole Adonnino – da che mondo è mondo, da che storia è storia, tutti gli sconfitti hanno sempre firmato i trattati di pace, anche i più gravi. Perché? Perché, è naturale, non l’hanno fatto certo con l’animo lieto di benedire la gravezza che i trattati imponevano loro, ma l’hanno fatto per limitare questi sacrifici; l’hanno fatto per impedire che il nemico andasse ancora oltre».
Infatti, onorevoli colleghi, a stretto rigore, è necessario ammettere che le conseguenze del disastro fascista, se noi non ratifichiamo, possono essere peggiorate, non certo migliorate. Vi fu bene a Parigi chi propose soluzioni ancora più gravi di quelle che sono state adottate e nulla impedisce di credere che, di fronte ad una nostra non escludibile situazione difficile, si verifichino pericolose resipiscenze, non già per quello spirito di vendetta a cui si accennò da taluni oratori, ma come conseguenza di ulteriori e differenti compromessi.
L’attuale momento internazionale è più delicato di quello in cui si svolse la Conferenza di Parigi: di fuori dal Trattato qual è, non ci si prospettano compromessi più favorevoli. La ratifica, insomma, rappresenta un baluardo che se ci impedirà, in ogni caso, di cadere più in basso, ci permetterà in molti casi di marciare avanti.
Ma veniamo ai punti essenziali. Che vi chiediamo noi? Vi chiediamo di autorizzare il Governo a depositare la ratifica con tutte le altre quattro Potenze, cioè anche con la Russia. L’Italia deve ratificare, l’Italia non ha libertà di altra scelta; ma la sua ratifica sarà depositata subito prima, insieme, o subito dopo quella dei Quattro.
Badate bene, io mi rifiuto di vedere in qualsiasi oppositore un desiderio nascosto di manovre parlamentari e elettorali; l’argomento è troppo grave per l’Italia per essere utilizzato a tali fini. Ma vi è piuttosto un’incomprensione. Coloro i quali ci dicono: noi non ratificheremo mai, finisca come finisca, io posso capire che respingano l’odierna proposta del Governo. In un certo senso, io mi inchino ad essi. Dopo tutto, non c’è fra essi una persona che ho fraternamente amato per tanti anni, Benedetto Croce?
Ma se ci si dice: noi vogliamo ratificare solo dopo i Quattro e quindi rinviamo la nostra ratifica, allora io rispondo: ma, con la formula che noi vi proponiamo, l’Italia consacra questo punto: che il Trattato, nei confronti di tutte o di una sola delle grandi Potenze, entra in vigore – o no, se la situazione diplomatica cambia – in pieno accordo coi Quattro. Noi appunto in questo modo ci leghiamo definitivamente le mani, diciamo cioè una volta per tutte: questo Trattato o marcia con tutti o non marcia con nessuno.
Se supponete che noi, speculando su un preteso desiderio della Russia di non ratificare, volessimo fare entrare questo Trattato in vigore soltanto verso la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, e la Francia, vi avremmo detto: non ratifichiamo oggi il Trattato; rinviamo tutto a settembre o dopo; forse allora l’America, l’Inghilterra, o che so io, ci proporranno un altro Trattato. Ma questo sarebbe stato furbesco machiavellismo, e noi non vogliamo niente di ciò.
A destra e all’estrema sinistra si è parlato molto dell’articolo 90. È una questione procedurale di cui fra breve non resterà alcuna traccia. Ma poiché ora se ne discute, sarà bene chiarire due punti che sono stati sollevati:
1°) si è detto che non conviene controfirmare una sentenza, che secondo l’articolo 90 non è ancora perfetta, aggiungendo che il Trattato, finché non sarà reso perfetto dalla ratifica dei Quattro, è addirittura giuridicamente inesistente;
2°) che, per chi ben consideri l’articolo 90, la nostra ratifica prematura non rappresenterebbe altro che una adesione politica a guelli dei Quattro che hanno già ratificato, e non avrebbe nessun valore giuridico in sé e per sé.
La verità è, per entrambi i punti, diversa.
Con la firma dei loro plenipotenziari, i vari Governi si sono già impegnati internazionalmente alla esecuzione delle clausole del Trattato.
La ratifica è un atto soprattutto interno con il quale si dà esecuzione nell’ordinamento interno di uno Stato ad un valido impegno internazionale.
Ma per noi italiani, e qui replico al secondo punto, la ratifica ha un valore giuridico superiore a quello che ha per tutti gli altri, e non ha nessun colore politico particolare; tutt’altro. Perché questo? Perché, come ben sapete, il 10 febbraio, a Parigi, all’atto della firma del Trattato, noi abbiamo depositato la formale dichiarazione che la firma rimaneva subordinata alla ratifica che spetta alla somma decisione di codesta Assemblea.
Per concludere, il Trattato esiste giuridicamente dopo che è stato firmato e la nostra ratifica è essenziale al Trattato, soprattutto in nome della riserva da noi depositata all’atto della firma. Ma non per questo il Trattato entra ancora in vigore, giacché, sempre per l’articolo 90, occorre il deposito delle raffiche da parte dei Quattro. A questo riguardo, debbo ricordarvi due cose: per quanto riguarda noi, la formula dell’onorevole Ruini garantisce l’assoluta identità della posizione italiana verso ciascuno dei Quattro, e che cioè la nostra ratifica sarà fatta valida solo col deposito delle ratifiche di tutti i Quattro.
Per quanto riguarda poi i Quattro, essi sono tuttora legati dall’intesa per cui il deposito delle rispettive ratifiche a Parigi sarà fatto contemporaneamente. Quindi essi, internazionalmente, sono tutti allo stesso punto. Quanto al piano interno di ciascun Paese, bisogna tener presente che, mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra, ed in Francia la procedura costituzionale per la ratifica è complessa e lunga, nell’Unione Sovietica essa è semplicissima, poiché è di competenza dello stesso Presidente del Soviet Supremo che ha autorizzato la firma. Ora, se è possibile che il potere legislativo sconfessi quello esecutivo, è azzardato ammettere che lo stesso organo si sconfessi da sé. Del resto, come ho più volte detto e ripetuto, tutte le informazioni, anche le più recenti, ci fan credere che la ratifica russa sia quanto mai prossima e così il deposito dei Quattro a Parigi. Anzi, per quanto riguarda l’atteggiamento dell’Unione sovietica nei nostri confronti, ho una precisa ragione di ritenere che il pensiero russo al riguardo sia che il deposito delle ratifiche dei Quattro debba suggellare e non precedere un concreto atto da parte italiana che dia già per scontata la nostra ratifica.
Tutto ciò ribadisce, evidentemente, l’assurdità di una interpretazione antirussa della nostra ratifica. Ho mostrato poc’anzi l’infondatezza politica e ora l’infondatezza giuridica di tale interpretazione.
Lasciatemi adesso passare ad un altro argomento, che altrettanto e più è stato discusso a destra e all’estrema sinistra.
Si è detto che la pronta adesione del Governo italiano alla Conferenza di Parigi per il piano Marshall non sarebbe che una prova di più per dimostrare una nostra pretesa eccessiva condiscendenza verso il mondo occidentale.
Consentitemi di lumeggiare una volta ancora tale atteggiamento e dimostrarvi che quelle critiche sono del tutto infondate. Si è detto che il piano Marshall non è un piano; ma questo è vero solo in quanto esso deve tuttora essere tradotto in cifre e volumi, in bilanci ed annualità che rappresentino la media solidale delle esigenze fondamentali della ricostruzione europea. No: il piano Marshall è in senso concreto e sostanziale un piano, poiché costituisce un’impostazione fondamentale, e, soggiungo, l’unica possibile, per la soluzione dei problemi europei del dopoguerra: lo sforzo solidale dei popoli europei per raggiungere un più alto tenore di produzione e di vita, ridonando pienamente all’Europa la sua funzione nel mondo. Il finanziamento e l’aiuto americano sono subordinati a tale sforzo. Gli Stati rappresentati a Parigi hanno unanimemente riconosciuto che un piano di ricostruzione europea non poteva impostarsi senza l’Italia, senza la piena collaborazione di un popolo di 46 milioni di uomini sobri, attivissimi, intelligenti, di un popolo che in questi pochi anni del dopoguerra, nonostante difficoltà enormi, ha già dato all’Europa la prova della sua strenua volontà di vita e di lavoro. È perciò che, malgrado le speciali ancora vigenti condizioni della posizione internazionale del nostro Paese, l’Italia doveva essere chiamata a partecipare alla Conferenza di Parigi.
Taluno ha detto che la linea di condotta del Governo italiano alla Conferenza di Parigi si sarebbe troppo esercitata in schermaglie di prestigio. Niente di più inesatto. Se per prestigio si intende il riconoscimento dell’importanza del fattore italiano nel piano di ricostruzione europea, esso era già conseguito di fatto della nostra partecipazione di uguali fra uguali alla Conferenza. Se poi si vuol confondere le questioni di prestigio con la nostra presenza in tale o tal altra delle Commissioni della Conferenza, a cominciare dalla suprema, quella esecutiva, si tenga ben presente che la Conferenza di Parigi è una conferenza tecnica e che la nostra presenza era pertanto necessaria a noi e agli altri appunto in quelle Commissioni nelle quali particolarmente si svolgono lavori su cui abbiamo qualche cosa da dire a vantaggio dell’Italia e a vantaggio di quella unità economica e politica europea che per me si confonde cogli interessi dell’Italia. Nella Commissione suprema dei Cinque già si rileva un principio di solidarietà di due grandi da una parte e di due piccoli dall’altra. L’Italia in mezzo, fra questi due grandi e questi due piccoli, può esercitare un’azione di saggezza e di armonia che mi auguro e spero ed ho ragione di sperare che sarà conseguita.
Chi teme che la nostra azione sul piano di collaborazione europea possa portarci ad una politica di dipendenza confonde la dipendenza con la interdipendenza, che è ormai condizione e caratteristica di ogni rapporto economico nel mondo moderno. Solo gente con la testa indietro, come certi dannati dell’inferno di Dante, può immaginare una politica italiana di assoluta indipendenza. Una politica italiana di assoluta indipendenza è una politica di suicidio. Non vi sarebbe produzione senza mercati di materie prime e di consumo. Interdipendenza nel piano di collaborazione europea significa coordinamento di sforzi per un maggior benessere ed una più alta civiltà di tutti noi italiani e francesi e britannici e russi e così via.
Ed io vorrei che all’estero su questo punto si rendessero conto di quanto la maggioranza di questa Assemblea è stata d’accordo in questo principio. L’onorevole Giannini stesso, in un discorso, sulla cui prima parte avrei riserve da fare, mi trova pienamente consenziente con l’ultima, perché è solamente colla concezione di interdipendenza che noi possiamo sperare nella grandezza futura dell’Italia!
L’Italia si presenta di fronte al piano di collaborazione europea con un suo principalissimo elemento: il proprio inesausto potenziale d’ingegno e di lavoro. Il nobilissimo primato italiano nel campo del lavoro caratterizza il nostro apporto e ne costituisce l’aspetto sociale. Dire quindi che abbiamo imprudentemente promesso questo o quello, che ci siamo impegnati a tale o tal altro apporto (come ho sentito ripetere) è falsissimo. Falso oltre tutto, perché il lavoro dei Comitati tecnici di Parigi, dal punto di vista serio e costruttivo, comincerà solamente in agosto, cioè quando giungeranno le risposte ai questionari. Finora si è alle prese di contatto e si saprà come giudicare, criticare e approvare solo dopo l’arrivo delle risposte.
Vorrei dire una parola (perché un’esposizione non sarebbe completa senza un accenno a questo problema) su ciò che noi pensiamo circa la Germania. Circa il problema dell’area politica germanica nei confronti del piano di collaborazione, il nostro atteggiamento si è affermato fin dal principio nel senso che l’area germanica non possa essere esclusa dal piano, sia in generale per la sua importanza nel quadro della produzione e del consumo continentale, sia in particolare per quanto concerne noi italiani.
E per mostrare a tutti, critici e non critici, l’assoluta continuità del nostro pensiero, credo di non rubarvi troppo tempo se vi leggo il passaggio essenziale delle istruzioni che io stesso scrissi per la Conferenza di Mosca circa il problema germanico. Questo dissi e questo mantengo. Cito e leggo il documento di allora: «Il Governo italiano ritiene che un grave errore verrebbe commesso ove si ritenesse che la pacificazione definitiva dell’Europa possa essere il risultato di un semplice rapporto di forze senza riferimento ad un superiore principio di carattere morale e politico.
«È evidente che dopo questa orribile guerra occorrono dalla Germania riparazioni e garanzie efficaci, ma esse non saranno date che se guidate da principî che riflettano gli interessi, anzi le idealità di tutti e non da punti di vista particolaristici. La Germania deve riparare i danni ed i lutti causati dalla sua selvaggia aggressione, deve dare per l’avvenire garanzie affinché si raggiunga lo stroncamento di quelle forze che nel giro di trenta anni hanno due volte gettato il mondo nel. baratro. Ma appunto per questo il popolo germanico non deve essere messo fuori della comunità europea. Esso deve essere guadagnato alla democrazia ed allo spirito di collaborazione economica internazionale. Non dimentichiamoci che più ci allontaniamo dall’antico concetto di una comunità cristiana dei popoli e più dobbiamo riconoscere che la colpa mostruosa dei tedeschi diventa quasi un monito e simbolo di un male che in forma meno selvaggia potrebbe in un dato momento ripetersi presso altri popoli».
Questo dissi nel marzo, lo ripeto ora.
Nessuno ha pensato o pensa a Parigi a costituire un blocco occidentale, cioè un ordigno di guerra. L’Italia non si è allineata ciecamente dietro nessuno. Ha pensato solo a se stessa. Soltanto, lo dichiaro altamente, essa sa che il miglior modo di pensare a se stessa è di armonizzare i propri interessi con quel nascente panorama internazionale economico di cui ha parlato avant’ieri così nobilmente Luigi Einaudi.
A parte le disquisizioni giuridiche, di cui non resterà traccia, che cosa è scaturito da questo dibattito? Che due sono le concezioni per l’avvenire. Una fidente nell’Italia e nel concetto mazziniano del nostro divenire, e questa politica, questo programma sono quelli che l’onorevole Einaudi ha formulato così onestamente, così luminosamente e, con altrettanta fermezza se pur con minore autorità, io stesso.
L’altra è un’atmosfera di sospetti, di timori, di diffidenze, di perplessità. Di queste diffidenze, di questi timori, colui che se ne è quasi fatto araldo con maggiore pessimismo, un pessimismo senza speranze, è stato l’onorevole Nitti. Io, a questo concetto dell’onorevole Nitti sento di non avere autorità sufficiente per replicare. Ma gli vorrei citare qualcuno cui egli forse risparmia i suoi sarcasmi e le sue ironie ed è l’onorevole Nitti stesso. (Ilarità).
Io ricordo – e ricordo con affetto e con simpatia – quando nel lontano 1919 egli era Presidente del Consiglio, ed io ero un semplice modestissimo giovane Sottosegretario di Stato agli esteri. Ricordo un suo discorso che forse è uscito dalla memoria di molti, ma che a me fece molta impressione. Fu in questa Aula che egli disse, descrivendo gli orrori, gli odi, le antipatie, le gelosie dell’Europa di allora – che pure era un paradiso terrestre in confronto dell’Europa odierna – egli disse che bisognava fare di tutto per cercare di eliminare tali odi, tali rancori, che questo era possibile; che questa era una necessità ed una missione bellissima dell’Italia. E finì con una frase che fece sorridere molti praticoni e molti realisti di quest’Aula (parlo di quella del 1919); la frase fu: «L’Uomo di Stato che avrà più fortemente cooperato alla sanità dell’Europa e alla salute dell’Italia sarà colui che riuscirà finalmente a far nascere un sorriso su tutti i volti della gente straziata dell’Europa».
Ebbene, onorevole Nitti, mi permetta di non essere d’accordo col Nitti del 1947, perché sono d’accordo col Nitti del 1919. Forse sono la stessa cosa, con questa piccola differenza: che si è ottimisti se si è nel Governo e pessimisti se si è fuori del Governo. (Applausi al centro).
Ho finito. Io credo, onorevoli colleghi, che potete e dovete sentire che noi possiamo sbagliarci, ma che siamo arrivati alla tesi che sosteniamo dopo penosi momenti di studio, di meditazioni, di ansietà. È chiaro che noi non abbiamo altro interesse che quello dell’Italia e quello della pace europea che per me si identifica assolutamente coll’interesse dell’Italia. Quando queste polemiche, quando questi episodi saranno usciti dalla memoria, io vi assicuro – e questo sarà il solo accenno personale che mi sarò permesso durante il mio dire – che conserverò un ricordo commosso e rispettoso di un fatto che sto per dirvi, e che vi dico perché taluno in questa discussione ha a volte voluto distinguere Sforza da De Gasperi. Io vi dico con verità profonda – e perdonatemi se vi faccio una confidenza di carattere così intimo – che quando tutto questo sarà nebbia del passato, sarà per me un sacro ricordo di essere stato accanto per giorni e giorni al pensiero di De Gasperi, di averlo visto esitante in un senso e poi in un altro, di averlo visto soffrire perché non vedeva chiaro quale era il suo dovere; ma poi, al mio ritorno da Parigi, dopo una conversazione di lunghe ore, mi disse: «Durante la tua assenza, ho pensato, ho riflettuto, mi sono reso conto che se non vogliamo fare dell’Italia una navicella in balìa del vento, se vogliamo dare all’Italia dei fondamenti sicuri per l’avvenire, dobbiamo ratificare, accada quello che vuol accadere; non mi importa niente di essere Presidente del Consiglio, non mi importa niente di rimanere al potere, ma voglio servire la mia coscienza». Fu a quel momento che io mi dissi: «Tanto meglio per l’Italia, se ogni tanto ci sono degli uomini che preferiscono la coscienza al potere». (Vivissimi applausi – Il Presidente del Consiglio si leva in piedi e abbraccia l’oratore).
Questa, o signori, è la nostra cupidigia di servilità: servire l’Italia! Servirla nella pace! (Vivissimi prolungati applausi – Moltissime congratulazioni– Grida di Viva l’Italia!).
(La seduta, sospesa alle 13, è ripresa alle 14.15).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, tenterò di riassumere il significato di questo dibattito; soprattutto, richiamerò però l’attenzione vostra sul senso vero del voto che l’Assemblea è chiamata a dare.
Permettete che vi rilegga la dichiarazione che ho fatta all’Assemblea, quando comunicai che il Governo aveva deciso di firmare il Trattato:
«Potrà la firma avere carattere consensuale?
«Gli Alleati non ci faranno il torto di credere che la nostra resistenza al Trattato sia stata una meschina ed ipocrita manovra. Dalla più profonda intimità del mio spirito ho espresso io stesso nelle solenni conferenze internazionali, in forma pacata ma ferma, la nostra convinzione di uomini liberi e democratici; il modo con cui fu combinato questo Trattato e i termini nei quali fu imposto non ne fanno uno strumento atto a realizzare un nuovo assetto internazionale del mondo.
«A noi non è stata concessa nessuna partecipazione né alla negoziazione, né alle deliberazioni; del Trattato non abbiamo, quindi, né davanti alla nostra Nazione, né innanzi al mondo internazionale, corresponsabilità veruna.
«La nostra firma non può mutare la realtà, come si è svolta e quale fu denunziata in ogni fase della Conferenza.
«Essa non può cancellare il fatto che, nonostante la Carta Atlantica e la stessa recente costituzione francese, il Trattato dispone dei popoli senza consultarli, né può eliminare il fatto, purtroppo incontrovertibile, che la nostra economia da sola, nonostante ogni buon volere, non può portare il peso di cui il Trattato la grava.
«Mancheremmo alla lealtà, se intendessimo avallare con la nostra firma l’immeritata umiliazione imposta alla flotta – nonostante la sua efficace e riconosciuta partecipazione alla guerra accanto agli Alleati – l’insufficiente considerazione del nostro contributo alla lotta per la liberazione, e se lasciassimo credere che ci acquieteremo alla totale eliminazione delle Colonie e alla rinuncia a qualsiasi rivendicazione nei confronti della Germania.
«Non rifiutare la firma richiesta vuol dire, dunque, che il Governo italiano non intende pregiudizialmente fare atto di resistenza contro l’esecuzione del Trattato nell’eventualità che esso, perfezionato dal consesso dei parlamenti, in forza delle prevedute ratifiche, entrasse in vigore; significa che l’Italia vuole dare prova di buona volontà e di ogni sforzo ragionevole possibile per liquidare la guerra; vuol dire che l’Italia, nonostante il contenuto del Trattato, non dispera, non vuole disperare del suo avvenire e dell’avvenire del mondo».
Queste le dichiarazioni, che abbiamo qui pronunciate all’atto della firma. Queste le dichiarazioni, che bisogna premettere ad ogni conclusione del nostro dibattito.
Il significato del voto, dunque, per quanto riguarda le clausole, è questo: il voto non può implicare una adesione intrinseca, ma solo un impegno ad eseguire lealmente.
È in fondo, considerate bene, anche la formula di Benedetto Croce. Quando Benedetto Croce dice: non possiamo approvare questo documento; quando aggiunge: il Governo italiano non si opporrà all’esecuzione del dettato e se sarà necessario con i suoi decreti e con qualche singolo provvedimento legislativo lo perfezionerà, ma questo non importa approvazione; quando afferma: non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta; che cosa fa se non ripetere con altre parole, forse più indovinate, il senso ed il significato che io stesso qui attribuivo alla nostra firma?
Non dimenticate, amici miei – e già l’onorevole Sforza l’ha accennato nel suo discorso – che cosa è il Trattato.
Il relatore alla Camera francese, Gorse, disse chiaro: «Più che di fare la pace dei vincitori con l’Italia, si trattò di fare la pace fra i vincitori».
Ed il relatore al Senato americano Vanderberg, che, come sapete, partecipò a tutti i negoziati e alla compilazione del Trattato, dichiarò: «Vi sono molte obiezioni contro le clausole del Trattato, ma è quanto di meglio si è potuto negoziare nelle presenti circostanze. E una volta consumato il Trattato (mi piace quella parola «consumato») il Governo italiano potrà lavorare per la revisione delle clausole criticabili».
Nella relazione al Senato americano è detto: «Se molte delle clausole del Trattato sembrano eccessivamente dure per l’Italia, il Trattato stesso costituisce un punto di incontro (il che vuol dire un compromesso) fra quei Paesi che in passato hanno sofferto l’aggressione fascista e gli altri, fra cui gli Stati Uniti, i quali ritengono che il contributo dato dalla nuova Italia alla sconfitta della Germania debba avere il suo peso nel controbilanciare le richieste più gravi».
Eccovi nei documenti ufficiali fissato il significato vero del compromesso internazionale. Quando il Presidente degli Stati Uniti dice: «Alcuni termini del Trattato non sono in pieno accordo con i nostri desideri, ma il ristabilimento della pace fornisce le basi per la costruzione di una Italia forte, libera e democratica, e quando l’Italia sarà entrata nell’O.N.U. sarà possibile apportare al Trattato quelle modifiche, che potranno essere necessarie in base all’esperienza futura», egli conferma questo concetto di compromesso, dinanzi al quale non si precludono le speranze dell’avvenire.
Noi siamo stati durante tutta questa discussione perplessi: abbiamo avuto delle esitazioni ed abbiamo dovuto pesare il pro ed il contro nelle nostre coscienze, ma non noi soli. Uomini imparziali, che hanno assistito alla elaborazione del Trattato ed hanno avuto parte nelle negoziazioni del Trattato stesso, hanno avuta la medesima impressione. Vi cito Spaak che nell’ottobre del 1946 diceva: «Confesso che parecchie volte ho votato contro la mia coscienza. Dovetti ogni volta affrontare il dilemma, che mi si sarebbe dovuto risparmiare o respingere una soluzione che avevano accettata i «Quattro», e che non erano disposti a modificare colla prospettiva di demolire un edificio di cui i costruttori proclamavano la fragilità, o dar torto ad uomini che, secondo la mia coscienza, avevano ragione».
Questa relatività del compromesso internazionale, questa costrizione in cui le coscienze stesse sono state forzate per arrivare ad una conclusione ed evitare il peggio, è la caratteristica fondamentale di questo Trattato e questa caratteristica si impone anche alla nostra considerazione.
Il Governo russo, in seguito alla nostra campagna per la revisione, iniziata dal Ministro Nenni e proseguita dal Ministro Sforza dopo la nota del 10 febbraio, accentuò – e lo ha detto stamattina il Ministro stesso – la definitività del Trattato, respingendo la valutazione italiana, che esso fosse iniquo. Anche il Governo russo, come l’inglese, ammise che modificazioni sarebbero potute intervenire circa le clausole, che stabilissero diritti particolari a favore di una sola o di più Potenze, ma che – leggo il telegramma di Mosca del 19 febbraio – «le disposizioni del Trattato potevano essere modificate solo dietro accordo di tutti gli altri interessati». Ecco di nuovo il carattere di ferreo compromesso.
Dunque, ad un anno di distanza – ricordo la Conferenza di Parigi dei «Quattro» ove parlai il 10 agosto – la nostra posizione internazionale è ancora quella del «Lussemburgo».
Ora permettetemi, onorevoli colleghi, di richiamare la vostra attenzione sulla strana relatività dei casi e delle fortune di questa nostra evoluzione. Quando parlai a Parigi, feci fra l’altro la proposta di un modesto rinvio di un anno per la questione adriatica. Non rinvio del Trattato, come fu poi falsamente inteso, ma rinvio delle formule che riguardavano la questione adriatica, come si erano rinviate quelle sulla questione delle Colonie, dicendo: «Il Trattato entra in vigore e l’Italia lo approverà; ma lasciamo libera ancora alla elaborazione ed alla discussione, soprattutto fra italiani e slavi, la questione adriatica». Si alzò allora Molotov per farmi questa accusa: «Evidentemente c’è chi spera che, se non adesso, sarà prima o poi possibile annullare la decisione di compromesso raggiunto dal Consiglio dei Ministri degli esteri riguardo a Trieste. Se ne può concludere che taluno, rilevando le divergenze manifestatesi alla Conferenza di Parigi, progetta di sfruttare tali divergenze per scopi egoistici».
Alle dichiarazioni di Molotov fecero eco altre dichiarazioni sulla stampa italiana, sulle quali voglio sorvolare, per non accendere troppo la polemica. Ma debbo pur rilevare, che io mai avrei potuto immaginare che da quella parte (indica la sinistra) potesse essere sostenuto un rinvio, che un anno fa veniva interpretato come un tentativo di mettere discordia fra le grandi Potenze. (Applausi al centro –Commenti e interruzioni a sinistra).
Mi si rimproverava allora di non insistere abbastanza, perché «tutti i problemi legati alla pace, allo sgombero del nostro territorio ed alla nostra ammissione all’O.N.U., venissero risolti al più presto».
De Gasperi – si scriveva – ha chiesto invece che la questione di Trieste venisse rinviata. E l’uomo più autorevole di quel settore, in una intervista del 20 agosto all’Unità diceva: «Ritengo la proposta di rinvio sbagliata, e non solo per il motivo accennato da De Gasperi stesso, che ogni rinvio significa prolungamento dell’occupazione straniera, del suo schiacciante carico finanziario, e così via. L’essenziale è che se ci stanno a cuore le sorti del nostro Paese e vogliamo lavorare sul serio a migliorarne la posizione internazionale, dobbiamo mettere fine al più presto alla situazione in cui l’Italia è diventata lo zimbello dei gruppi reazionari che speculano sui suoi problemi e sulle sue miserie per gli scopi della loro politica imperialistica e per seminare discordia fra gli italiani, come se si trattasse di popoli coloniali dell’India o dell’Africa. (Commenti a sinistra). Un rinvio prolunga questa situazione in modo pericoloso e la porta verso la putrefazione. (Commenti). A meno che non si voglia speculare noi stessi su una probabilità di guerra. Ma questo sarebbe assurdo e criminale ed in contrasto con ogni sana concezione della funzione dell’Italia nel mondo».
Amici miei, perché cito queste parole? Forse perché non ammetto che nella vita politica, mutando le circostanze, si possano mutare opinioni? Mi aspettavo però di tutto da quella parte, fuorché si sostenesse il rinvio dopo che nei momenti più solenni dei nostri rapporti internazionali si era preso tale atteggiamento.
Ci sono delle manchettes che certe volte bisognerebbe fotografare.
Diceva l’Unità del 15 agosto: «Ogni rinvio della conclusione del nostro Trattato di pace è una minaccia per la nostra indipendenza. Una politica estera deve difendere innanzi tutto l’Italia da questa minaccia».
Ed è quello che noi stiamo facendo.
Allora Pacciardi, in un articolo del 18 agosto, prese un altro atteggiamento corrispondente al nobile e disinteressato discorso che egli ha qui ripetuto e del quale io, come italiano, e non come Presidente del Consiglio (perché nessun impegno c’è fra lui e me, nessun contratto né da una parte né dall’altra, nessuna speculazione politica), onestamente lo ringrazio. (Applausi).
Devo dire che anche Nenni (mi si permetta che io ora dica bene di lui, in contrapposto al molto male che dovrò dire poi), anche l’amico Nenni in una intervista allora diceva: «Comunque sia, quanto avviene alla Conferenza di Parigi, mi conferma l’impressione che riportai dal mio recente viaggio (vi ricorderete che fece un viaggio nei paesi nordici) e cioè che il Trattato è il risultato di un compromesso raggiunto in condizioni talmente difficili che nessuno dei Quattro osa rimetterlo in discussione. Questo, naturalmente, nulla toglie al dolore della protesta elevata con tanta dignità dal Presidente del Consiglio, che riceverà dalla storia, anche la più immediata, la sua consacrazione, poiché a Parigi nessuno può illudersi, ritengo, di costruire per l’eternità. Non sarà ancora asciugato l’inchiostro col quale saranno stati redatti i Trattati, che già si sarà iniziata la fase della revisione».
Come potevo pensare, amico Nenni, che in questo momento avreste votato per il rinvio?
NENNI. E come potevo pensare io che l’Unione Sovietica non avrebbe ancora ratificato?
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E come potevo pensare che anche da parte degli amici di Togliatti si subisca la tentazione di votare per il rinvio, quando, non più tardi del 7 giugno, in un articolo di critica all’azione e all’opera dell’Ambasciatore Tarchiani in America si concludeva: «Per gli Stati Uniti, così come per l’Inghilterra, che lo ha già ratificato, così come per la Francia e per l’Unione Sovietica che si accingono a farlo, la ratifica del Trattato con l’Italia significa un impegno preso e che sarà mantenuto: ma significa anche, per noi, la possibilità dell’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite, la fine del regime armistiziale e dell’occupazione straniera, la nuova vita del nostro paese su un piede di stabilità e di eguaglianza internazionale. Entro questi limiti la ratifica del Trattato (ingiusto ed eccessivo, ma inevitabile) è ormai un fatto scontato, e rappresenta un doloroso capitolo definitivamente chiuso: deve essere posto perciò su un piano superiore alle meschinità». (Approvazioni al centro).
Io vi domando soltanto una cosa: per quanto accorto io possa essere, come prevedere che la campagna contro il Trattato sarebbe venuta da quella parte, dopo tutti questi precedenti?
Egregi colleghi, parlo con la benevola e amichevole intenzione di dimostrarvi che voi, votando contro il rinvio, non fareste logicamente che attenervi alla linea di condotta precedentemente presa.
Ed ora parliamo della formula della ratifica o meno del Trattato. Mi si dice: hai cambiato atteggiamento anche tu. Se fosse vero, non avrei nessuna esitazione a confessarlo. Finché si è in guerra e in battaglia si usano tutti i mezzi, e se a un certo momento può giovare il dire che qui si troverà una resistenza disperata, anche se si sa poi di non poterla fare, lo si dice e lo si fa per vedere, se questo giovi a demolire certe obiezioni e certe ragioni. (Approvazioni al centro).
Io richiamo l’attenzione dell’Assemblea su questa questione che è molto seria; parlo a nome di un Governo italiano costretto a proporre deliberazioni sul Trattato. Siamo in un momento, che veramente supera le nostre forze e le questioni di Governo o di settore. È una questione italiana, storica, ed io voglio richiamare la vostra attenzione sulla formula che ho usato a Parigi evitando le parole «accettare o non accettare, firmare o non firmare» perché non c’era soltanto questa alternativa, ma c’è anche l’altra di dover firmare o subire. Ed allora ho scelto la parola, che storicamente vale di più: «corresponsabilità».
Rileggo le parole che ho detto a Parigi: «Per mesi e mesi ho inteso la necessità di potervi esprimere, in una sintesi generale, il pensiero d’Italia, ed oggi ancora, comparendo qui nella veste di ex nemico – veste che non fu mai quella del popolo italiano – dinanzi a voi affaticati dal lungo travaglio, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal volere intralciare, mentre intendiamo favorire la vostra opera, in quanto essa contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.
«Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri contrastanti: da una parte abbiamo l’ansia, il dolore angoscioso, la preoccupazione per le conseguenze che derivano dal Trattato; dall’altra bisogna riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.
«Tale fede è pure la mia ed io sono venuto a proclamarla qui al vostro cospetto; e sono venuti a proclamarla qui, con me, due autorevoli colleghi: l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione democratica dell’altro dopoguerra, l’altro Presidente dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, entrambi degni interpreti di questa Assemblea, cui spetterà di decidere se sia il Trattato tale, da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano».
Noi oggi dichiariamo – e già da tutte le manifestazioni dei diversi settori dell’Assemblea risulta questa concordia – che non possiamo assumere la corresponsabilità del Trattato, in quanto esso contiene soluzioni ingiuste ed inaccettabili dall’Italia. Tuttavia nulla faremo per ostacolare l’attuazione dell’accordo raggiunto tra i vincitori e qualora tale accordo fosse mantenuto, daremo la nostra ratifica e coopereremo lealmente all’applicazione del Trattato con tutte le nostre possibilità.
Dunque il Trattato non è che un compromesso fra i Quattro che noi applicheremo per amor di pace. Ma esso è anche un edificio composito dal quale nessun contraente può immaginare di ricavare semplicemente quel tanto che può essergli utile e, in particolare, riferendomi ad un’obiezione sollevata dall’onorevole Valiani, il Governo dichiara – l’onorevole Sforza lo ha già detto stamattina – di considerare le clausole territoriali del Trattato che riguardano la Venezia Giulia un tutto inscindibile, per cui – non è male che lo ripetiamo – mancando, ad esempio, la ratifica jugoslava, tutte le clausole di ordine territoriale sono perente, compresa quella relativa al territorio libero della città di Trieste.
Questo è il significato dell’autorizzazione, che noi chiediamo alla Costituente; e noi siamo contrari a rinvii e a sospensioni, perché un simile atteggiamento ci attirerebbe il sospetto di non essere leali e di voler mercanteggiare con uno dei Quattro, o con due dei Quattro e accrescerebbe il turbamento in quest’ora così fluida, che noi speriamo venga fra poco superata.
Il nostro voto significa fede nella pace; il nostro voto significa fede nell’opera ricostruttiva della cooperazione internazionale, significa orrore contro ogni voce, ogni possibilità di guerra: l’Italia, una volta rientrata nei consessi internazionali, non parlerà solo per patrocinare la causa sua, ma parlerà anche in pro di tutte le Nazioni che si inspirano al diritto, di tutte le Nazioni che hanno fede nella libertà e ripudiano il ricorso alla forza per la risoluzione dei problemi di politica internazionale. (Applausi al centro).
L’onorevole Togliatti mi ha accusato di politica unilaterale, anzi di politica di partito nelle questioni che riguardano i nostri rapporti con l’estero. Io dubito che mai vi sia stato un Governo, cosiddetto di colore, il quale, nella collaborazione e nei suoi organi di politica estera, sia stato così largo come è stato il nostro; infatti non vi sono oggi, fra tutti gli Ambasciatori e i Capi missione, se non due soli che appartengono al gruppo della Democrazia cristiana. Tutti gli altri appartengono a partiti di sinistra o di centro (Rumori a sinistra), indipendentemente se questi siano dentro o fuori il Governo. (Rumori a sinistra). E reclamo per me questa larghezza di spirito, perché quando si tratta di interessi pubblici non si può guardare semplicemente a provenienze di partito! (Applausi al centro).
E non parlo solo degli Ambasciatori. Parliamo anche delle missioni particolari: della missione in Jugoslavia, della missione in America, della missione per la Cecoslovacchia e di quella per l’Argentina. In queste missioni le persone direttive non appartengono né al mio indirizzo, né al partito liberale. Abbiamo scelto le persone migliori, le abbiamo pregate di collaborare con noi, ci hanno dato la loro collaborazione e ne siamo loro grati e riconoscenti, perché intendiamo così collaborare, all’infuori delle contese di partito, per la grandezza d’Italia e per fare uscire il popolo dalle immense difficoltà in cui si dibatte! (Applausi al centro).
Voi non avete fiducia in me (Commenti), perché dite che io sono l’uomo dell’America, l’uomo della destra, l’uomo del capitale e dei dollari. Per i dollari vi confesso che ho un certo debole! (Si ride). Infatti penso tutti i giorni: potessi avere un po’ di dollari per comprare il pane e per acquistare il carbone per le nostre industrie! (Applausi al centro).
Però l’amico Nenni mi ha reso un grande servigio, come spesso egli fa. (Si ride). Quando ha lasciato il Governo ha scritto un articolo in cui ha fissato ben chiare le ragioni della sua dipartita. Così questa non si può attribuire ad un urto di politica estera tra me e lui, come si è voluto insinuare, ma a ragioni, direi, di carattere interno di gruppo. «Aggiungerò – egli ha scritto sull’Avanti – che ad attenuare l’inquietudine legittima che ha sollevato la nostra rinuncia ad una delle posizioni chiave del Governo, ha molto influito la personalità dell’uomo chiamato a dirigere la politica estera della Repubblica. Il conte Sforza, per i servigi eminenti che ha resi alla democrazia europea durante il suo volontario esilio, per le sue vaste relazioni internazionali, per l’esperienza che tutti gli riconoscono, è quant’altri mai in grado di rappresentare e di far valere nel mondo le esigenze di giustizia, di indipendenza, di autonomia della Nazione italiana. Non c’è da temere che egli compia l’errore di prendere sul serio i politici da strapazzo e gli strateghi da caffè, per i quali, oltre l’Adriatico ed oltre la linea Trieste-Stettino si stenderebbe un immenso territorio nemico, nei cui confronti la nostra funzione sarebbe di costituirci in avanguardia della cosiddetta civiltà cristiana o, per parlare più chiaramente e realisticamente, costituirci mercenari del capitalismo occidentale».
Se non vi fidate di me, fidatevi del conte Sforza, presentatovi con tali credenziali. (Applausi al centro).
L’amico Nenni, nominato Ministro degli esteri, forse anche perché poteva scrivere di meno, era divenuto una persona molto saggia. (Si ride). Egli aveva fatto molta esperienza e, alla fine delle sue esperienze, pronunciava nel discorso di Canzo le seguenti parole, che cito perché, quando si ascolta l’onorevole Togliatti sembra che tutte le colpe siano nostre e che quando si tratta di rapporti col mondo slavo tutte le colpe siano dell’Italia; possibile che non ce ne sia qualcuna anche dall’altra parte? Diceva dunque Nenni, forte delle sue esperienze: «È mancato in questo campo come in quello della delimitazione della frontiera la collaborazione italo-jugoslava. Noi non possiamo che deplorarlo ed augurarci che non sia più così nell’avvenire, ma lo deplorerà anche Belgrado che in questo campo si è lasciata guidare da propositi di intransigenza incompatibili cogli interessi dei nostri due popoli».
Ebbene, questo è il punto di vista che, almeno quando si vuol giudicare il proprio Governo o i propri mandatari, bisogna tener presente. Perché si fa quello che si può. Ma attribuire a noi tutte le colpe sarebbe ripetere l’errore di un discorso di ieri, che ha cominciato con l’attribuire il Trattato soprattutto alla responsabilità di tre anni di politica estera, quasi il Trattato non fosse una conseguenza diretta del ventennio fascista. (Applausi al centro).
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Non ho detto questo!
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E allora faccio ammenda. Ma siccome si tratta ora di responsabilità del Governo italiano e in modo particolare dell’onorevole Bonomi, io mi rimetto a quello che egli crederà di dichiarare.
Ma l’onorevole Togliatti ha fatto un’altra accusa a prova della mia unilateralità: «Volete scommettere – dice – che l’onorevole De Gasperi non conosce nemmeno il testo esatto dell’intervista tra me e Tito nell’occasione del mio viaggio a Belgrado?». Ed io dico: No, il testo preciso non lo conosco; ma avevo un Ministro degli esteri, che si chiamava Nenni e che era in migliori rapporti di me con Togliatti; egli ha avuto comunicazioni da lui e queste comunicazioni sono state riferite anche in seno al Consiglio dei Ministri. Si seppe quindi cosa fu detto nei colloqui e il Consiglio dei Ministri prese l’atteggiamento fissato nel noto ordine del giorno in cui è detto: «Il Consiglio dei Ministri è stato informato di un colloquio avuto dal Ministro degli esteri in mattinata con l’onorevole Togliatti di ritorno da Belgrado, dove a titolo strettamente privato, egli ha esaminato con il Maresciallo Tito le questioni della pace tra l’Italia e la Jugoslavia, attualmente all’ordine del giorno davanti alla Conferenza dei Quattro a New York. Il Governo ravvisa nella rinuncia jugoslava alla rivendicazione su Trieste, nell’annuncio dell’imminente rimpatrio dei prigionieri italiani dalla Jugoslavia, nel proposito di negoziare un trattato di commercio tra i due Paesi, degli elementi nuovi che facilitano la possibilità di negoziati diretti nel quadro delle trattative generali per la conclusione della pace. Esso però non può prendere in considerazione la cessione alla Jugoslavia di Gorizia, parte integrante del territorio italiano, come tale dai Quattro unanimemente riconosciuta all’Italia, e richiamandosi alla sua ultima nota ai «Quattro» riafferma il principio che la frontiera debba essere tracciata seguendo la linea etnica e ricorrendo al plebiscito quando la applicazione di essa sollevi contestazioni».
Questa fu la decisione del Consiglio dei Ministri, formulata con molta abilità da Nenni e con minore abilità da me.
Ora voglio completare quello cui l’onorevole Nenni ha già accennato. Non è vero, che la cosa sia stata messa a dormire.
Nenni, d’accordo con me, a mezzo degli Ambasciatori che stavano a New York per la formulazione definitiva del Trattato dinanzi ai «Quattro», ha cercato di arrivare al sodo di questa intervista, di arrivare a vedere, all’infuori delle confidenze che erano state personali fra il Maresciallo Tito e Togliatti, quale posizione ufficiale venisse assunta da parte degli slavi. Ed una lunga serie di telegrammi del Ministro e di risposte dei nostri rappresentanti, riferiscono sui colloqui intervenuti con l’Ambasciatore Simic e con il Delegato Bebler e mettono in risalto quello che si può considerare il succo ufficiale di queste trattative.
Nell’ultimo colloquio, senza essere arrivati a nessuna conclusione precisa, si diceva che si sarebbe visto volentieri l’invio a Belgrado di una missione italiana, la quale, benché di carattere soprattutto economico, servisse a creare quella atmosfera di avvicinamento, che potesse poi portare a qualche conclusione anche nella questione territoriale. Ed ecco qui che l’attività di Nenni si è rivolta a preparare questa missione, e l’attività del nuovo Ministro degli esteri Sforza, ha continuato a svolgersi su questa linea, tanto che ne è venuta fuori la missione Merzagora-Mattioli, e finalmente siamo arrivati alla ripresa ufficiale dei rapporti jugoslavi ed italiani con la nomina di un nostro Ministro a Belgrado e del Ministro di Belgrado a Roma.
Ora, se ci fosse bisogno di una nuova dichiarazione (non ce ne sarebbe perché le prove le abbiamo date), se ci fosse bisogno di ricalcare la dichiarazione fatta oggi dal Ministro degli esteri, sono qui a dirvi che siamo pronti in qualunque momento a riprendere le trattative anche sulla questione territoriale, anche su arrangiamenti che si manifestassero necessari, di carattere economico, di carattere politico, ecc. All’atto della attuazione, anche se si dovrà applicare il Trattato come è, noi riconosciamo che per il territorio libero di Trieste, come per la soluzione di altri problemi, abbiamo bisogno di cooperazione, affinché non soffrano troppo i loro e i nostri conterranei; siamo sempre disposti a trattare, purché non ci si voglia esporre alle accuse di doppio gioco. Tutto quello che si fa deve essere fatto in pubblico, nel quadro delle Nazioni Unite, nel quadro a cui ci obbliga il Trattato. Non vogliamo si dica, che contemporaneamente trattiamo in un senso e nell’altro.
Siamo insomma pronti a qualunque trattativa, che porti il consenso dei Quattro maggiori responsabili del Trattato. E faccio appello di nuovo alla Jugoslavia di non credere a quello che si stampa nei giornali, cioè che il presente Governo sarebbe antislavo. Il presente Governo è italiano, agisce nell’interesse dell’Italia, vuole un accordo colla Jugoslavia, vuole una amicizia con la Jugoslavia anche per la difesa delle minoranze. E lì la situazione è così tesa, che abbiamo visto una città intera, nonostante le nostre obiezioni, partire; esiliarsi volontariamente dalla Patria antica. Ed io mi domando, quando ho visto questi profughi, e li vedo tutti i giorni, se ci può essere ancora per gli Alleati e per il mondo intero una prova più palmare dell’ingiustizia di un Trattato, che porta all’esilio volontario e fa sì che uomini, che avevano una casa, una.officina, un campo, tutto abbandonano ed emigrano con vecchi e bambini. (Vivi, prolungati generali applausi – Il Presidente della Assemblea, i deputati ed i membri del Governo si levano in piedi – Interruzione dell’onorevole Scoccimarro).
Amico Scoccimarro, siamo d’accordo in questo momento; se in questo momento siamo d’accordo, perché turbare questa concordia e questa manifestazione?
L’Italia non può guardare ad una sola frontiera. Voltiamoci dall’altra parte e diciamo nella stessa forma che noi siamo disposti ad ogni trattativa, che possa trovare, finalmente, una soluzione umana e moderna del problema coloniale. Nel Trattato c’è la rinuncia alla nostra sovranità sotto il titolo antico. Ma noi non abbiamo rinunciato alla cooperazione del nostro lavoro, alla amministrazione fiduciaria di territori, che dovranno essere affidati a qualcuno. E nelle colonie prefasciste a chi meglio potrebbe essere affidata l’Amministrazione, sotto il controllo delle Nazioni Unite, se non a chi vi ha profuso tanti uomini, tanti mezzi, tanto lavoro e che ha braccia pronte a riprendere questo lavoro?
Parlavo ieri con un colonizzatore della Somalia arrivato in questi giorni e che mi riferiva del lavoro che si sta facendo, e come, nella disgrazia comune, colonizzatori italiani e somali si sono affratellati, e gli uni hanno sentito che dovevano trattare i somali come li trattavano prima del fascismo, e gli altri hanno capito che gli italiani sono diventati un altro popolo, una vera democrazia pronta a ricostruire assieme a loro la prosperità di quelle colonie. (Applausi al centro – Interruzione del deputato Scoccimarro).
Ora, amico Nenni, vi voglio portare un’altra prova della mia ingenuità. Non potevo pensare che l’onorevole Nenni sarebbe stato avversario della nostra tesi in questo momento, quando nell’Assemblea Costituente del 18 febbraio, trattandosi della firma, diceva: «Noi mancheremmo al nostro dovere verso il Paese, se lasciassimo credere che l’atteggiamento del Governo e del Paese poteva essere diverso da quello che è stato e noi commetteremmo una grave colpa non solo nei confronti della generazione attuale, ma delle generazioni future, se lasciassimo sussistere il dubbio che potevamo sottrarci all’obbligo della esecuzione. La verità, signori, è che la situazione creata dalla disfatta è tale che, se anche le condizioni del Trattato fossero state per evenienza peggiori di quelle che sono, noi non avremmo potuto che eseguirle».
Onorevole Nenni, allora vedevate la situazione con alto senso di responsabilità. Provatevi a fare un certo sforzo e a vederla così anche al presente. In questo momento lasciamo da parte le piccole differenze, che ci possono dividere…
NENNI. Fra qualche settimana, se lei aspetta le condizioni.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Si creano le condizioni. Vengo a questo.
Ed ora vengo ai quattro punti di Togliatti, che mi sono apparsi come quattro condizioni, per prendere una decisione qualunque. Non voglio, naturalmente, speculare su questa decisione. Io non faccio appello qui a nessun sentimento, né antigovernativo, né governativo. Dico che la questione è assolutamente superiore a qualsiasi questione di favore o di opposizione al Ministero.
Quelle che io dico sono parole sacrosante, come ha accennato Sforza, uscite dall’animo mio nella confidenza di un colloquio segreto. Dissi e dico che non m’importa niente né della formazione del Ministero, né della sua costituzione, né se abbiamo un Ministero A o un Ministero B: quello che importa sapere è quello che ho il dovere di fare in questo momento storico per la mia Nazione e a servizio del mio popolo. (Applausi al centro).
Allora vengo ai quattro punti dell’onorevole Togliatti. Egli ci ha detto anzitutto che dobbiamo aver cura dell’indipendenza del nostro Paese. Evidentemente intendeva parlare dell’indipendenza politica, perché poi accenna alla costituzione dei Governi.
Ed è vero. Nel passato abbiamo avuto una situazione armistiziale avvilente. Dovemmo, ogni volta che entravamo in un Ministero, controfirmare tutti l’armistizio, assumere la responsabilità dell’armistizio, che era stato firmato fuori di noi a conclusione di una tragedia, in cui non avevamo avuto che una parte passiva. Dovevamo firmare: potevamo anche non firmare. Ma, quando penso all’amico Bonomi, che dall’inizio ha dovuto rifarsi un dicastero, una polizia, dei carabinieri, ricorrendo ai minimi mezzi; sviluppando faticosamente ciò che a Salerno era appena iniziato…! Abbiamo avuto un’illusione, autorevole amico Orlando; forse abbiamo avuto una illusione di più. Abbiamo pensato che, se il Governo, che ci avrebbe rappresentati alla Conferenza internazionale, fosse stato un Governo, che avesse lavorato per l’antifascismo e nel senso della cooperazione cogli Alleati fin dal primo inizio, avrebbe trovato più facile ascolto di un Governo come quello del Maresciallo Badoglio, che ci fosse andato con tutte le responsabilità della guerra precedente.
Ci siamo sbagliati? Non lo so. Bisognerebbe fare la prova del contrario. Ma so che questo fu il nostro proposito e il significato del nostro sacrificio.
Ora lo straniero…, onorevole Orlando, non si può, in una guerra europea che ha un significato, direi, di guerra civile in tutto il mondo, oltre che di guerra tra le singole Nazioni, non si può spiegare tutto semplicemente, nel senso antico: patria e straniero. Vi sono degli stranieri per i quali è lecito, doveroso collaborare; vi sono altri, contro i quali bisogna combattere. Quindi, non è che noi in quel momento potevamo mettere sullo stesso livello lo straniero tedesco, che bisognava ricacciare, e lo straniero, che veniva – anche per i suoi interessi – ma anche nell’intima convinzione, credo, di liberare l’Italia da una dittatura pericolosa.
Se la guerra fosse finita diversamente, se quell’altro straniero avesse potuto mettere radici in Italia, cosa sarebbe avvenuto della nostra libertà? Come chiamare indiscriminatamente straniero quello che ci è venuto in aiuto? Si è detto tanto male degli Alleati in questi giorni, ed in parte a ragione, specialmente dei giuristi, che hanno compilato il Trattato. È doveroso, però, un segno di gratitudine per quelli che sono venuti a battersi e sono morti in terra italiana. (Applausi generali).
Se poi l’onorevole Togliatti intendeva alludere alla formazione del presente Governo, qui siamo proprio nel campo della suspicione.
A questo riguardo Togliatti assomiglia molto agli slavi, se è vera la caratteristica che ha dato di loro stamattina il Ministro Sforza, di essere particolarmente sospettosi (Si ride); ciò che sarebbe consono, a tutta la tradizione di Bisanzio. (Interruzione a sinistra). Io dico: l’ultima crisi – torniamo sempre al dente che duole (Si ride) – venne fatta per problemi interni, economici e finanziari ed il Capo dello Stato liberamente incaricò prima Nitti, non so se d’accordo con gli slavi o con gli inglesi (Ilarità), poi Orlando, non so se d’accordo con lo straniero americano, infine me. Dunque, su basi parlamentari, libere, si è formato il Ministero attuale. Non riconosco altra origine, e respingo come un’accusa infondata quella di favorire in qualunque maniera lo straniero o chicchessia che non rappresenti collaborazione utile o non venga incontro agli interessi dell’Italia. (Applausi al centro).
Con ciò, amico Togliatti, credo (per quel che possono valere le mie parole, perché se alle mie parole non si presta fiducia, è inutile parlare) di aver fatto dichiarazioni tali, che vi possono liberare dal sospetto che questo possa essere un Governo il quale subisca l’influenza di una delle grandi Potenze.
Nel secondo punto Togliatti dice: parliamo di esclusione di un intervento economico straniero. Qui, evidentemente, così come l’ho ricavato dall’Unità, voleva dire intromissione e ingerenza indebita. Togliatti molto bene ha distinto tra aiuti e crediti. Ha detto che bisogna finirla con gli aiuti ed insistere per i crediti. È proprio ciò che stiamo facendo. Credo che gli aiuti, quelli post U.N.R.R.A., siano gli ultimi che riceviamo. Ma abbiamo bisogno, di questi 130 milioni di dollari (possiamo domandarlo al Ministro del commercio estero) per comperare il pane per i prossimi mesi, ed il carbone. Non è umiliazione questa, perché chi ce li deve dare se non chi li ha, e chi li deve chiedere se non chi ne ha bisogno? (Applausi prolungati al centro).
Per il resto, trattiamo per ottenere i crediti e tutto il camminare che si è fatto nel viaggio in America non è stato certo il viaggio di un mendicante. È uscito, proprio in questi giorni un libro, in cui si espone veridicamente il diario di tutto quanto io ho fatto in America. Invito i colleghi a leggerlo, specie quelli che dubitano: dicano se l’atteggiamento di un uomo che si è comportato come me, che ha parlato come ho parlato, che ha detto quello che ho detto, che a Cleveland ha citato, per farla sua, una espressione del Presidente Cleveland: «L’indipendenza dei popoli è legata al loro onore, e guai a chi lo dimentica»; dicano se tale uomo abbia mancato di provvedere alla dignità di un delegato del popolo italiano (Applausi prolungati al centro). Su vari banchi si è espressa la facile, ma perniciosa immaginazione che l’America abbia una gran voglia di regalare prestiti e soprattutto all’Italia, anzi che ne abbia urgente bisogno per i suoi stessi interessi; io vi dico invece che il chiedere e l’ottenere è faticoso, che bisogna meritare questi crediti e che vengono richieste tutte le garanzie possibili e la garanzia maggiore (Rumori a sinistra) è la potenzialità delle industrie e la forza del nostro popolo lavoratore. A queste garanzie ci siamo richiamati in America, non in ginocchio e non a testa bassa, ma in piedi e francamente, come uomini che sanno che domani potranno restituire. Questa è la seconda questione, e mi pare di aver risposto in modo sodisfacente.
Mi sono molto affaticato per trovare una risposta sodisfacente a Togliatti perché ci tengo molto, a parte qualsiasi questione di voto, che se dobbiamo essere avversari, in lui ci sia l’opinione che quando dico qualcosa e lo affermo perentoriamente, questo corrisponde alla verità, almeno alla verità come la vede la mia coscienza. (Commenti a sinistra).
La terza questione riguarda i blocchi. Si è detto: nessun blocco, nessuna partecipazione a blocchi contro la Russia con lo scopo di isolarla. Ora devo dire, che anche questo è un discorso vecchio. In tutti i miei discorsi ho rilevato, sia in quelli di politica interna, che in quelli di politica internazionale, l’importanza meritoria del contributo alla guerra della Russia. Ho rilevato il contributo della sua esperienza sociale, perché non sono abbastanza cieco da non vedere che vi possono essere dei difetti anche nella democrazia americana, per mancanza di certe leggi sociali, e da non vedere, viceversa, i vantaggi che vi possono essere nel sistema di un paese in cui la ricchezza è minore, il tenore di vita dei lavoratori è più basso, ma dove si tenta un grande sforzo verso la giustizia sociale.
Mai si distoglie il mio sguardo da questa diversità di contributi, che possono confluire e spingere innanzi il carro del progresso nel mondo, e mai l’ho celato anche a Molotov, ogni volta che mi sono incontrato a Parigi e a Londra con lui. Ho creduto mio dovere di tentare di persuaderlo (peccato che io non conosca bene il russo!) che in me cristiano cattolico tale convinzione sociale e religiosa allargava, anziché restringere il mio sguardo su quello che può essere progresso, su quello che può essere anelito verso la giustizia, sia pure accanto alle obiezioni che si possono avere contro questo o quel sistema.
Togliatti dice: «Ma siete andati in tutte le direzioni; Nenni è andato nei Paesi settentrionali, Sforza nell’America del Sud e poi De Gasperi nell’America del Nord». Ma io in America fui invitato da un organismo internazionale, non ufficiale, dal quale si sviluppò poi un viaggio di carattere ufficioso e poi ufficiale. E potevo io, in un momento in cui mi presentavo per la prima volta ad una Nazione che era stata la più generosa verso di noi, non soltanto di aiuti materiali, ma anche di riconoscimenti dal punto di vista politico, della libertà, della democrazia, rinunciare di mettermi a contatto coll’opinione pubblica americana e con migliaia e migliaia di italiani, ai quali dobbiamo tanto per gli aiuti che ci hanno dato durante questo periodo, ed ai quali dovremo ancora tanto se quegli americani si manterranno fermi nel loro proposito verso di noi come hanno promesso? E non può essere diversamente, perché gli americani, che sono di origine italiana, se sono leali cittadini della loro nuova patria, non dimenticano e non dimenticheranno mai di essere di sangue e di stirpe italiana.
È vero che in questa discussione ed in queste relazioni ho ammesso che credo alla esistenza anche di un lievito idealistico nella fermentazione ideale e spirituale tra Italia e America, appunto perché non è sempre un problema di cifre od un problema economico quello che si considera. Naturalmente il problema economico e finanziario esiste; ma chi credesse che il problema sia esclusivamente economico ripeterebbe l’errore di Mussolini e di Hitler, i quali hanno creduto che ci fosse soltanto un interesse economico da regolare. Ma l’America ha speso in questa guerra 400 miliardi di dollari per aiutare quei Paesi che tentavano di crearsi una vita veramente democratica, ha dato 14 miliardi di dollari di merci alla Russia, con molta generosità, pur di vincere contro il nazismo e il fascismo.
Volete voi che noi neghiamo questo contributo ideale? Volete che lo addebitiamo alle semplici speculazioni economiche, e volete che crediamo che tutto quello che si fa in America si faccia soltanto per evitare una crisi americana?
Non sarebbe spiegabile tutto quanto l’America ha fatto fin qui, tutti i sacrifici sostenuti con la massima generosità, se nel suo dinamismo non ci fosse anche un lievito morale e spirituale. Qui non entro nel dettaglio della esegesi che ha fatto l’onorevole Togliatti alle parole e ai discorsi di Truman, che si possono e si debbono interpretare anche un po’ diversamente da quanto egli non abbia fatto; ma è certo che esiste un fattore spirituale di cui dobbiamo tener conto in considerazione anche dei problemi di altra natura.
Io a questo riguardo debbo dire di desiderare vivamente che, appena il Trattato sarà definito, si riprendano le relazioni più amichevoli anche con la Russia, lo desidero pure per gli altri Paesi orientali e lo desidero non soltanto per la pace del mondo, ma anche per gli interessi dell’Italia, per gli interessi della nostra zona economica che costituisce, in parte, un complemento di quella orientale e soprattutto perché sarà grande fortuna per noi, popolo di frontiera, se a noi riuscirà di essere, tra le due civiltà, come un ponte di conciliazione. Certamente siamo nati e sorti nella civiltà occidentale, la quale, per dire meglio, non è occidentale né orientale, ma è civiltà italica ed è civiltà che viene da Roma. (Applausi al centro).
Ad ogni modo, non certo io ho preso il partito per un blocco, come ha detto l’onorevole Nenni, e non ho, in questo senso, cambiato fronte. L’anno scorso, il 15 agosto, in un’intervista, rispondendo a Molotov, io dicevo: «Noi non intendiamo partecipare a blocchi; diamo la massima importanza alle relazioni economiche con la Russia, ma è naturale che, nella nostra situazione, i nostri rapporti con l’America siano più intensi. Si pensi al grano, al carbone, all’U.N.R.R.A., al prestito, alla ripresa industriale dei tessuti e si dica se questo punto di vista non sia comprensibile e ragionevole».
Questo era il mio punto di vista del 15 agosto dello scorso anno, questo è il mio punto di vista di oggi. Ma se vi è bisogno di affermare che noi non prendiamo parte in alcuna forma, in alcuna misura, ad eventuali tentativi – posto che se ne facciano – di isolamento della Russia, o a tentativi che potessero portare a blocchi più tardi, io torno a fare questa dichiarazione, con il senso di responsabilità che mi incombe, con il desiderio e la volontà che ho oggi di rappresentare l’opinione e gli interessi del Paese.
Le osservazioni dell’onorevole Nenni sul piano Marshall non sono contradittorie con ciò che si è fatto da noi. Anche noi abbiamo trattato con la Jugoslavia, con la Cecoslovacchia e con la Polonia; noi cerchiamo la ricostruzione della unità produttiva ed economica tedesca; noi abbiamo la coscienza della necessità di alimentare la nostra cerealicoltura, ma anche di difendere la nostra industria; noi sappiamo che le esigenze più vitali sono quelle del lavoro che debbono superare quelle della materia e della macchina.
Ma ho udito delle dichiarazioni dell’onorevole Nenni secondo cui i socialisti, qualora venisse respinto il rinvio, si asterrebbero: perché, onorevoli socialisti, quando si tratterà di votare un testo che è stato modificato, per tenere conto anche dei vostri desideri, voi vorreste tenere un atteggiamento di questo genere?
Il Governo sapeva bene in qual forma avrebbe dovuto dare la ratifica, come era prescritto anche dall’articolo 90; ma, sentite le obiezioni formulate in seno alla Commissione dei Trattati ed anche quelle che sono emerse da alcuni colloqui privati con lo stesso onorevole Nenni, noi abbiamo elaborato un’altra formula la quale poi disgraziatamente ha assunto il nome di formula «democristiana», perché essa era nata in una discussione del mio Gruppo con qualche variazione rispetto a quella originaria proposta dall’onorevole Nenni; ma se questa è la condizione perché sia votata e approvata, ebbene riconosciamo i diritti d’autore e diciamola pure formula di Nenni. (Ilarità al centro – Commenti a sinistra).
NENNI. Né il Ministro degli esteri, né il Presidente del Consiglio ci hanno ancora detto che cosa pensano di fronte alla nuova nota sovietica di stamane.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Neanche lei conosce il testo della nuova nota sovietica. (Ilarità).
Verrò subito a questo argomento ma intanto ho bisogno, scusate, di una piccola parentesi, per una questione particolare che mi sta – ed è naturale – specialmente a cuore. L’amico Ruini è un po’ preoccupato per la formula dell’accordo per l’Alto Adige, là dove si parla di un potere autonomo regionale. Badate che già a Parigi, prima ancora che l’accordo che era stato ufficiosamente concluso fosse ufficialmente firmato, già a Parigi io ho dichiarato: «È stato raggiunto – questo è il discorso del Lussemburgo – un accordo su un’ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente». Quindi, è chiaro che è riservata alla Costituente l’approvazione dell’estensione di questa autonomia, e quindi il contenuto specifico del potere autonomo. Con ciò credo di averlo tranquillizzato, a meno che la Costituente non faccia come con la Sicilia, si che trascini talmente il coordinamento da mettere il Governo in grave imbarazzo.
L’accordo venne firmato a Parigi il 5 settembre, badate, nel solo testo inglese. Mentre il Trattato fa legge nei testi francese, inglese e russo, il testo che fa legge per l’accordo è solo l’inglese, perché così è stato stabilito tra Grüber e me dopo che l’elaborazione dell’abbozzo era stata fatta in inglese dall’ambasciatore Carandini. Di qui l’origine di questo testo ufficiale. È stato, comunque, allegato al Trattato con questa formula: che è il testo inglese quello che vale.
Questo devo dire e constatare, perché non sorgano dubbi sulla interpretazione, anche perché alcuni interessati circoli dell’Alto Adige hanno tentato di modificare quello che dell’accordo è il vero significato.
Ed ora cerchiamo di riassumere; e se non dovessi dire tutto, prego l’onorevole Nenni di avvertirmi di ciò su cui desidera una più precisa risposta.
NENNI. Desidero sapere quello che né il Ministro degli affari esteri né il Presidente del Consiglio ci hanno detto: che cosa è – secondo le informazioni diplomatiche che il Governo certamente deve avere e che io semplice deputato non posso avere – che cosa è e quali conseguenze giuridiche e politiche ha sul Trattato l’ultimo atteggiamento dell’Unione Sovietica?
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Noi non abbiamo né conosciamo la nota sovietica, perché è un testo confidenziale fra la Russia e l’Inghilterra; potremo sapere solo quello che ci verrà trasmesso dai nostri ambasciatori; sappiamo però che la Russia non dichiara affatto di non ratificare, anzi dice il contrario, ma fa questione di tempo e di procedura.
Una voce a sinistra. Allora aspettiamo.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La vostra conclusione non è logica, perché noi affermiamo che noi dobbiamo decidere in modo autonomo, secondo quelli che riteniamo gli interessi del nostro Paese.(Commenti a sinistra).
Il Governo non ritiene che l’Assemblea possa e debba assumersi la responsabilità di respingere e di non eseguire il Trattato. L’enorme maggioranza della Commissione per i Trattati ha condiviso questo punto di vista.
E tale è il pensiero espresso dalla maggioranza degli oratori dell’Assemblea. L’annullamento del compromesso dei Quattro porterebbe ad un grave turbamento internazionale e riaprirebbe la questione italiana esponendoci a pericoli di intimazioni perentorie e di azioni coercitive. Data la nostra situazione economica, noi saremmo esposti o ad un unilaterale servilismo aggrappandoci all’uno o all’altro dei Quattro o ad una totale umiliazione, quando questi Quattro facessero tutti fronte contro di noi. (Commenti a sinistra). È facile prevedere che il turbamento si propagherebbe agli altri paesi in posizione analoga. Noi correremmo, inoltre, il rischio di perdere le concessioni assicurate o previste negli accordi recenti circa le navi sequestrate, i beni italiani all’estero, ecc. Si riaprirebbero le questioni territoriali e quelle delle riparazioni, non forse per parte della Russia, ma per parte di quegli Stati che solo la pressione della Russia ha ridotto a minori richieste, come ricorderete. Si ritarderebbe ogni decisione sulle nostre colonie, e continuando il regime armistiziale, verremmo esclusi da ogni collaborazione internazionale.
La pace mondiale, l’interesse del popolo italiano, che al di là di ogni formula giuridica sta riprendendo la sua vita economica col concorso dei popoli amici, esigono questo sacrificio. Noi questo sacrificio compiamo per parte nostra, ed ora tocca a voi decidere. Noi del Governo lo compiamo, con coraggio e con fierezza assolvendo un duro compito del destino, quale è quello di pagare per colpe non nostre e per le conseguenze di una guerra che abbiamo invano deprecato.
Il popolo sa che le nostre mani sono pure del sangue versato, e che i nostri propositi sono puri e disinteressati, e che mettiamo sull’altare della Patria quale olocausto, la nostra reputazione, il nostro credito politico e ogni calcolo elettorale!
Noi non crediamo alle collere del popolo contro di noi (come ci si è minacciato), perché abbiamo fede che esso si è maturato, che esso alberga nel suo animo il senso della realtà e della giustizia.
Certo sarebbe stato più facile il nostro compito, se avessimo potuto servire il popolo nei tempi della vittoria, ma il coraggio civile più alto e disinteressato è quello di chi serve nel momento della sconfitta! (Applausi al centro). E sa affrontare l’impopolarità per trarlo dall’abisso in cui un nazionalismo orgoglioso e sentimentale, aggiunto ad uno spirito di aggressione, lo ha precipitato.
Io sento in questo momento che i combattenti, i veri combattenti, che i morti di queste due guerre non sono contro di me, combattente io pure per la pace, perché essi sono morti per la libertà e l’indipendenza dell’Italia, e questa è la nostra meta comune!
Si è parlato dei marinai e delle navi. Ogni sforzo è stato fatto durante le trattative pubbliche e private; in molte ripetute conferenze, ogni sforzo è stato fatto per ottenere mutamenti di formule, mutamenti di esecuzione.
Abbiamo ottenuto soltanto degli addolcimenti pratici per cui continuiamo anche oggi a lavorare, affinché non ci sia lo scandalo a cui ha accennato l’onorevole Orlando. Questa è la nostra posizione. I marinai d’Italia sono tornati a navigare liberamente nei nostri mari, e nei porti toccati si è levato verso di essi il plauso riconoscente di tutto il popolo d’Italia. È stata ed è preoccupazione costante del Ministro e del Governo di tutelare la dignità di quella Marina italiana che nella lotta di liberazione ha sacrificato eletti, eroici equipaggi e centosettantacinquemila tonnellate di navi. (Vivissimi, generali, prolungati applausi – L’Assemblea si leva in piedi – Si grida: Viva la Marina!). Oggi ho sentito con sincera commozione l’onorevole Giannini, quando ha ricordato la vittima che gli è vicina e quanti altri deputati hanno avuto i loro figli o parenti rimasti vittime di questa guerra. Ma oggi sento che noi combattiamo per la stessa mèta, per una Italia indipendente e per una Italia prospera che possa risalire ancora alla gloria del servizio per la Patria.
La comprensione di tanti eroismi, di tante volontà è completa nei compagni d’arme delle Grandi Potenze. Noi oggi operiamo perché questa comprensione sia completa anche in coloro che devono interpretare ed applicare l’articolo 57 del Trattato di pace.
Avendo avvicinato i profughi di Pola ed i cittadini di Trieste e di Gorizia con i quali ho combattuto tutto questo periodo, trasfondendo il mio sentimento nel loro, posso dire che, pur piangendo sopra questa orrenda ed iniqua mutilazione, essi condividono la speranza che l’avvenire non sia precluso all’Italia ed alla nostra civiltà italica. (Applausi al centro). Vedano gli Alleati, ai quali, invano, in molte conferenze private ho cercato di far comprendere la valutazione che di questo Trattato faceva il popolo italiano; vedano gli Alleati dalle dichiarazioni che sono state fatte qui, dallo stesso sdegno del maggiore fra noi, onorevole Orlando, vedano quanto io avessi ragione di insistere; vedano quanto sia difficile poter spiegare al popolo italiano che un Trattato così ingiusto debba avere la sua attuazione nell’interesse della pace del mondo; vedano quanto siano stati ingiusti a presentarci un Trattato quasi che su questi banchi sedesse un Governo responsabile dell’aggressione e della guerra contro vari paesi.
Ebbene noi dimostreremo loro, di essere noi – non loro – all’avanguardia di un mondo nuovo che non dispera della fratellanza fra i popoli; e, lasciatemelo dire, quando ho sentito la alata esposizione dell’onorevole Einaudi, che dovrebbe essere il rappresentante tipico di quella, che indiscriminatamente si dice reazione, ed ho sentito poi le combinazioni complicate e le cautele esecutive dell’onorevole Togliatti, mi sono chiesto: quale dei due uomini guarda più in avanti e quale si attarda all’indietro?
Quale di questi due uomini rappresenta l’avvenire dei rapporti internazionali? Può essere che Einaudi si illuda, ma sua è la gioventù e sua è la speranza in un mondo migliore. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).
No, dimostreremo ai nostri contraenti che siamo noi, l’Italia, piccolo paese, ma grande Paese, non loro, i Grandi, all’avanguardia di un mondo nuovo per la fratellanza dei popoli.
L’Italia democratica, onorevole Orlando, non è in ginocchio, non è prona: è in piedi. Ratificherà il Trattato come è previsto dall’articolo 90; cioè prenderà atto del Trattato imposto, e lo eseguirà lealmente entro i limiti delle sue possibilità; ma di questo Trattato, essa proclama, dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose, e dinanzi agli uomini, che non assume nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo. (Applausi – Commenti a sinistra).
Una parola ancora.
Ho parlato finora del subire o non subire il Trattato. Ora parlo del rinvio. Si sarebbe potuto rinviare. Credete davvero che il Governo non troverebbe comodo di rinviare?
Ma voi non pensate che rinviando non rinviate il vostro problema di coscienza? No, non lo potete fare. Non fate che prolungare lo spasimo, riprodurre lo stesso martirio delle vostre indecisioni. Domando a coloro i quali sono per approvare o meglio per subire, per concedere la ratifica: che cosa credete di guadagnare rinviando di 15 giorni, di un mese? Oggi, ormai, dopo quanto è stato detto, il rinvio non potrebbe avere altro significato che di rifiuto, o per lo meno autorizzerebbe un gravissimo dubbio e sospetto sulla nostra volontà di chiudere questo periodo di guerra e di armistizio. Noi non vogliamo aumentare le ragioni di turbamento: non vogliamo lasciarci prendere dall’ingranaggio, caro Nenni, dei contrasti fra i Grandi, che forse non sono originati nemmeno dal caso italiano. Vogliamo dare subito la sensazione che noi automaticamente, per la visione che abbiamo dei nostri interessi, siamo disposti a ratificare, e precisamente ratificare nel modo previsto dall’articolo 90. Questa non è la tesi inglese, non è la tesi russa; questa è la tesi dei Quattro ed è l’atteggiamento più neutrale, più imparziale che possiamo prendere, e anche il più reale, realistico.
E da principio abbiamo presentato una proposta semplicemente per ratificare; poi, per tener conto delle obiezioni fatte da parecchi membri tra cui molti autorevoli, di un ex Ministro come Nenni, abbiamo accettato, una formula credendo di raggiungere quella maggioranza che tutti auspicavamo, la diminuzione di un dibattito, che tutti dicevano fosse meglio non affrontare. Ebbene, io vi dico: abbiamo affrontato questo dibattito, abbiamo detto tutto il nostro pensiero e, tolto qualche raro incidente, lo abbiamo detto senza offenderci e, mi pare, avvicinandoci a maggiore e mutua comprensione.
Io vi domando se a questo momento, procedendo con questo spirito ed in tali termini ciò non significhi scegliere la procedura più comune prevista dai Quattro, e quindi la più oggettiva che noi possiamo pensare.
Dirò poi il mio pensiero sopra i singoli ordini del giorno e sopra i testi e gli emendamenti.
Mi basta concludere; ed io vorrei che questa conclusione ci ravvicinasse tutti e ci desse la sensazione di quell’unità dell’Assemblea, di quella unità della rappresentanza di cui il Paese ha sete, per poter non disperare della triste avventura che ha fatto.
In questa ora agitata l’Italia riafferma la sua fede nella pace e nella collaborazione internazionale. Sarebbe ideale se una simile affermazione fosse dell’intera Assemblea, ma quello che importa soprattutto è che essa sia un’affermazione chiara, onesta, senza riserve e senza equivoci, e che dimostri in noi una volontà nazionale autonoma che, sulla via del sacrificio, ci incammini verso la nuova dignità e indipendenza della Nazione. (Applausi prolungati al centro e a destra).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Relatore della maggioranza, onorevole Gronchi.
GRONCHI, Relatore della maggioranza. Onorevoli colleghi, viviamo certamente in una strana atmosfera in questa Assemblea.
Un avvenimento di questa gravità, per il presente e sovra tutto per il futuro del nostro Paese, trova in quest’aula rissose divisioni piuttosto che concorde serenità di valutazioni, trova i rappresentanti del popolo italiano più preoccupati delle proprie posizioni politiche che non della posizione dell’Italia, nel momento che attraversiamo. Tanto che, anche le voci, nelle quali ha risuonato l’eco delle nostre sofferenze di uomini, di cittadini, di padri, sono parse più inspirate a una retorica convenzionale che non ad una espressione di sentimenti profondi.
La decisione che noi stiamo per prendere voglio augurarmi che ci accomuni in una visione più alta del nostro dovere e della nostra responsabilità.
Si è fatto in questo momento e durante questa discussione ripetuta allusione alla opportunità di rinvii, di protrazioni, che, facendoci soprassedere alla decisione definitiva, potessero meglio rispondere a questo senso di responsabilità.
Io voglio ricordare un precedente storico, senza avere, con ciò, la pretesa di ravvicinare, con stretta analogia, due momenti così diversi. Non ci sono nella storia di un popolo né in quella dell’umanità due momenti che si somiglino identicamente. Ma vi sono analogie e rispondenze, che valgono la pena di essere meditate.
Il 6 agosto 1849 fu firmato a Milano il Trattato di pace, dopo la sciagurata campagna che culminò a Novara, ed il 24 settembre Cesare Balbo, nella sua qualità di presidente della Commissione, che riferiva sulle condizioni del Trattato di pace, propose alla Camera di approvare il Trattato medesimo, senza discussioni, con la protesta del silenzio. Altri si oppose vivacemente; altri ancora proposero un rinvio sotto le più diverse motivazioni, come diverse sono le motivazioni che ora si accampano, per chiedere, giustificare e sostenere un rinvio.
Si ebbe, quindi, un certo periodo, durante il quale, anche per una crisi ministeriale, il Trattato di pace non venne in discussione più nella Camera Subalpina.
Il 13 novembre la discussione si riprese. Allora Balbo invitò nuovamente la Camera a votare, protestando col silenzio contro la durezza e l’iniquità del Trattato.
Ma, contro la nuova proposta di rinvio, si alzò l’uomo, che ha rappresentato in quell’epoca storica quanto di fede, di speranza, di volontà di resurrezione l’Italia aveva, Camillo di Cavour.
«Io credo – egli disse – che questa discussione tenga gli animi nostri angosciati e sospesi. Io sono persuaso che i lavori parlamentari, che pur sono così folti, non possono procedere con quella regolarità, con quella sperabile rapidità, finché questo vitale argomento non sia sciolto.
«Questo è per la considerazione interna.
«In quanto all’estero, io credo che la sospensione della discussione del Trattato abbia gravissimi danni e che prendendo lo stato dell’Europa qual è e non quale potremmo desiderare che sia, non si può disconoscere che questa eccessiva difficoltà, che da varie parti si oppone all’adozione del Trattato, questo continuo rimandarlo non possono che avere risultati fatali per la nostra diplomazia e per i nostri rapporti internazionali». E concludeva: «Questa non è una questione tra il Ministero e noi. La questione del Trattato è una questione tra noi e la fatalità e quando anche non vi fosse più questo Ministero e se ve ne fosse un altro, scelto da qualsiasi parte della Camera, saremmo costretti ugualmente a riconoscere questa legge fatale. Si parla molto di onore e di dignità. Io per me non credo che la dignità e l’onore nostro ci guadagnino molto nel protrarre più a lungo questa discussione, perché noi siamo tutti ugualmente convinti che le parole, anche nobilissime, che qui pronunciamo in nulla possano modificare questa nostra dolorosa situazione».
Io credo che anche i colleghi siano colpiti dalla notevole analogia del momento che noi attraversiamo e che l’augurio che io facevo, che si dimenticasse la situazione interna che si è venuta determinando, nell’assumere questa tremenda e dolorosa responsabilità di fronte al Paese, trovi eco e rispondenza in ogni parte dell’Assemblea. Ed è singolare che da ogni parte dell’Assemblea per arrivare alle più opposte conclusioni si sia partiti dal punto di vista di una esigenza comunemente riconosciuta, cioè quella di serbare intatta, lucente direi, l’indipendenza, l’autonomia e l’integrità morale e politica del nostro Paese.
Su questo terreno è comprensibile più la posizione di coloro che si schierano in linea di principio contro il Trattato che non la posizione degli altri che si schierano per un rinvio del Trattato medesimo. Per lo meno, la posizione di non tutti è così chiara, tranne quella dei colleghi socialisti e comunisti per i quali i motivi del dissenso sono evidenti ed innegabili: motivi ideologici, determinati dalla non ancora avvenuta ratifica della Russia, motivi interni determinati dalla fisionomia attuale del Ministero.
Ma tutte le ragioni valide sono per la non ratifica del Trattato in linea di principio. Nessuna, mi perdonino i colleghi, io ne trovo per il rinvio della discussione sulla ratifica del Trattato stesso. Anche l’onorevole Orlando – e mi duole di non vederlo in questo momento fra di noi – che ha così appassionatamente parlato di dignità, di tutela del nostro onore, che si è rammaricato così vivacemente ed anche in larga parte inopportunamente che questo atteggiamento somigliasse troppo ad una «cupidigia di servilismo», anche l’onorevole Orlando si è rifatto a questo concetto della indipendenza. Ma il dissenso non è su questo punto sul quale, dicevo, unanimemente si fa riconoscimento di una tale necessità: è sul modo di mantenere tale indipendenza. Ed è lecito chiederci, anche di fronte a lui, se la protesta che involontariamente – io lo dico senza mancanza di rispetto né al suo passato né alla sua canizie – assume talvolta l’eco un po’ teatrale ed orpellata di una retorica di maniera, se questo suo atteggiamento non abbia per avventura in passato costato assai caro al nostro Paese (Approvazioni al centro); se non debbo ricordare come un atto, che egli chiamerebbe di coraggio contro un atto di servilismo, la protesta parigina contro quel tale atteggiamento della Conferenza di Versailles che produsse il suo ritorno in Italia, con le accoglienze deliranti e trionfali, non privò l’Italia di tutti i mandati su tutte le colonie e non trovò gli alleati poco sensibili a questa nobilissima manifestazione di protesta e intenti, invece, curvi sul realismo egoistico di interessi che si andavano in quel momento determinando e risolvendo. (Applausi al centro).
E quando io sento che egli stesso, per giustificare la convenienza e l’opportunità della ratifica, parla di scusa della necessità, io dico che siamo più lineari, coraggiosi e forniti di senso di responsabilità noi che nessuna scusa intendiamo trovare a questo nostro atteggiamento e che ci sentiamo di assumere con coraggio, con fierezza, con convinzione, dinanzi al popolo e dinanzi all’Europa, questa responsabilità di proporvi, onorevoli colleghi, la ratifica del Trattato.
Anche il collega Russo Perez, che ha allineato una serie di ragioni su questo dibattito, lo ha fatto più per il Trattato in sé medesimo che per il rinvio. Ce ne sono talune che illuminano il suo punto di vista alquanto differente, mi pare, da quello del suo maggior collega, onorevole Giannini. Egli ha detto: «Dell’O.N.U. non ci interessa niente. Non c’è nessun segno di rinascita cristiana. Gronchi ha l’ottimismo di Candide, quando nella sua relazione scrive che il mondo va indirizzandosi verso concezioni nuove sotto la duplice spinta dell’idealismo delle classi operaie e del tradizionale idealismo cristiano».
Sono ragioni certo le quali militano però contro la ratifica del Trattato e non contro la tempestività di questa ratifica ed io non gliele invidio, perché un mondo nel quale non trovassero più posto la speranza di una civiltà migliore, che non può essere formata e consolidata su equilibri di interessi ma soltanto sulla maggiore profondità, nell’animo collettivo, di ragioni ideali e spirituali, è un mondo nel quale noi dobbiamo disperare di vedere non dico scomparire, ma anche diradarsi quei terribili bagni di sangue, che sono le guerre. (Applausi al centro).
Noi vogliamo credere a questo e diciamo che riterremmo di mancare ad una nostra missione se non insistessimo su questa propaganda.
O colleghi socialisti e comunisti, che avete avuto in passato assai più vivo che oggi (oggi è una strana involuzione la vostra) il senso dell’internazionalismo e che avete veduto attraverso il manifestarsi della inutilità o della inefficienza delle varie internazionali, dalla prima alla quarta, che non hanno impedito alcuna guerra, anzi non dico non hanno impedito, ma non hanno allontanato, non hanno creato all’interno dei paesi nessuna barriera contro nessuna guerra, perché ciascuno di questi organismi è finito per sentirsi più immerso nel senso, non nazionale, ma nazionalistico che non librato in questo superiore senso di solidarietà universale e internazionale; o colleghi socialisti e comunisti, voi dovreste accentuare, in questo vostro momento, questo vostro senso dell’internazionalità e della solidarietà europea, e dovreste essere al nostro fianco, su diversi terreni, ma verso una finalità convergente, perché se non saranno le forze popolari a creare barriere a nazionalismi risorgenti, non vi sarà nessuna classe intellettuale, borghese o non, che crei questa atmosfera di civiltà nuova. (Applausi di centro).
Le ragioni che si portano contro la tempestività della ratifica del Trattato sono inficiate, secondo me, da questa considerazione: che nessuno di coloro che oggi parlano contro la tempestività della ratifica ha parlato contro la nostra partecipazione alla conferenza di Parigi.
Ora, onorevoli colleghi, se c’è un atto di unilateralità, un atto che può mostrarci parteggianti per un blocco europeo rispetto ad un altro blocco, questo fatto è proprio la nostra partecipazione alla Conferenza di Parigi, perché noi abbiamo di fronte non una Russia che la nega, ma abbiamo soltanto di fronte una Russia che non ha ancora adempiuto a questo suo atto.
Di fronte alla Conferenza di Parigi, noi siamo dinanzi ad una Nazione che ha manifestato la sua decisa opposizione. Come mai, onorevoli colleghi, che riconoscete opportuna, necessaria ed indispensabile la nostra presenza a Parigi, non sentite che proprio lì vi sarebbe il pericolo di uno schieramento in due blocchi, e che a questa presenza avreste dovuto opporvi tempestivamente senza che questo pericolo si possa ravvisare nella nostra ratifica, come oggi vi chiediamo?
Anche l’onorevole Valiani, che pure ha fatto un sostanzioso discorso su questo argomento, ha fondato tutte le sue argomentazioni sulla necessità di una nostra posizione neutrale, o almeno superiore alla contesa fra le Nazioni; ma il problema anche qui si riferisce non tanto alla tempestività della ratifica, che non vi ha ancora influenza, ma contro, forse, il suo stesso pensiero, all’atto della ratifica in sé medesima. (Interruzione del deputato Valiani).
Togliatti è poi dilaniato da tremende perplessità: quali sono le ragioni nascoste che determinano la necessità di una ratifica così frettolosa? Quali sono le ragioni del voltafaccia del partito democratico cristiano che, con la disinvoltura che ognuno gli riconosce, ha mutato fronte e marcia da qualche tempo in così opposta direzione?
L’una e l’altra cosa, onorevoli colleghi comunisti, se ha un valore polemico nella dialettica del vostro maggiore collega, non ha certamente fondamento concreto nella realtà, poiché le ragioni dell’attuale proposta di ratifica credo che ora possano dirsi palesi dopo che ha parlato l’onorevole Sforza, dopo che ha parlato l’onorevole De Gasperi, dopo che io avrò aggiunto qualche modesta, supplementare argomentazione.
E quanto al misterioso voltafaccia del nostro partito, ma volete voi inchiodarci, attraverso il succedersi di avvenimenti così diversi, ad una posizione stabile consolidata e considerare contraddittorio, o peggio speculatorio, ogni adeguamento del nostro atteggiamento alla realtà? Io rileggevo in questi giorni un libro di Clemenceau «Grandeur et misère d’une victoire» che – Clemenceau se ne intendeva, da quel mirabile e tenace costruttore della grandezza della Francia che egli era – reca questa osservazione: C’è forse un uomo sulla terra il quale sia in grado di formulare una raccomandazione o un indirizzo di politica estera non dico per l’eternità, ma anche solo per sei mesi o per un anno?
Ed è naturale, onorevoli colleghi; quando noi facemmo la nostra prima manifestazione contro l’accettazione del Trattato di pace, noi uscivamo proprio dalla finale formulazione di questo Trattato medesimo, ma speravamo ancora di potere influire sui Parlamenti e sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi perché il dettato dei Quattro a New York potesse essere modificato e, sperando, noi avevamo il dovere di accentuare questa posizione di opposizione che oggi non smentiamo né ritiriamo, ma alla quale noi sovrapponiamo una visione realistica di certe necessità sopravvenute.
E non è da meravigliarsi se noi, in quel momento, ci arrestavamo a quella prima parte e dicevamo che non ci saremmo sentiti, allo stato attuale delle cose, di assumerci la responsabilità di proporre l’accettazione del Trattato. Molte cose sono sopravvenute dopo e poiché la storia cammina nonostante ì partiti e nonostante le loro formule, i loro calcoli, le loro speculazioni elettorali, la storia ci ha posto di fronte ad una situazione dalla quale abbiamo acquisito la persuasione che occorre uscirne.
È quindi in una questione di tanta complessità e di tanta altezza che noi ci sentiamo un po’ come gli uomini che dirigono un’azienda la quale abbia un suo settore che ha proceduto disastrosamente ed ha messo in pericolo la vitalità di tutta intiera l’azienda; e noi abbiamo ragionato così, come ragionano i saggi amministratori: tutto questo è perduto, per quanto non per nostra colpa, ed ora si ricomincia da capo, purché l’azienda – perdonate la banalità del paragone – purché l’azienda viva.
Purché dunque l’Italia viva, purché dunque l’Italia riprenda il suo posto fra le Nazioni, noi le offriamo il sacrificio di questa umiliazione.
Ma l’onorevole Nenni dice: qualche probabilità – forse una su un milione – che questo Trattato venga modificato esiste alfine e, se esiste, noi dobbiamo tenerne conto, per quanto difficile questa probabilità possa reputarsi. Onorevoli colleghi, la fantasia può giocare dei brutti tiri, e li giocheremmo a noi, se noi pensassimo ad una possibilità di miglioramento su questa via. Per noi la via attraverso la quale il Trattato, che già si comincia a svuotare, può trovare più radicali revisioni, è una via che non esce da questo dilemma: o la forza che sia capace di imporla, o la creazione di rapporti internazionali, che gradualmente la rendano possibile. (Approvazioni al centro).
Nessuno di noi può pensare oggi che la forza sia lo strumento della nostra revisione, poiché noi per lungo tempo saremo un popolo militarmente debole e non atto ad incutere timori ai grandissimi o della bomba atomica o della guerra biologica. Ma possiamo fin da ora – e non c’è tempo da perdere, onorevoli colleghi – possiamo e dobbiamo creare i rapporti internazionali che ci diano la possibilità di creare le condizioni le più rapide possibili di una revisione. Ecco perché noi sentiamo di dover chiudere questa pagina, per conquistare la nostra libertà e la nostra autonomia, per ristabilire rapporti nuovi su un grado di eguaglianza e preparare le possibilità di questa revisione. (Applausi al centro).
Ora, chi nega la ratifica e chi nega la tempestività della ratifica difende certamente con fondate ragioni degli argomenti giuridici, ma compromette seriamente, se non irrimediabilmente, il lato politico della questione; poiché di questo si tratta.
Ma, si dice: la ratifica è un atto di accettazione implicita; anzi, da molte parti si è insistito sullo stato di necessità che deve essere palese, evidentissimo, innegabile; stato di ineluttabilità, poiché altrimenti come ci giudicherà – si è detto – il popolo italiano, con le sue collere minacciate?
Il Governo è andato incontro con una formula ai desideri di varie parti dell’Assemblea. Noi, della maggioranza della Commissione, ed io personalmente, ci saremmo meno preoccupati di dimostrare questo stato di ineluttabilità o di necessità, perché secondo noi la ratifica non è una accettazione; e non è un’accettazione, perché – e non so qui, per lealtà, se esprimo il pensiero di molti o il pensiero mio personale in una materia così opinabile, perché così controversa – secondo me, la ratifica non è un elemento di validità del Trattato. Noi non abbiamo partecipato in nulla determinatamente alla formulazione del Trattato: è mancata, quindi, ogni efficacia giuridica ai nostri interventi, così come sono stati ammessi o tollerati. La ratifica, perciò – se voi leggete l’articolo 89 – è soltanto il mezzo attraverso il quale noi e gli altri Paesi ex-nemici diventiamo parte del Trattato, cioè siamo ammessi a godere i cosiddetti – Dio ci liberi! – benefici del Trattato. Cosicché si può dire che la ratifica non pregiudica un giudizio sul Trattato ma è soltanto una delle condizioni di pace, perché è la condizione attraverso la quale il Trattato può entrare in vigore nei nostri confronti.
PATRICOLO. Non è una condizione essenziale!
GRONCHI, Relatore della maggioranza. Sì che lo è; è essenziale, in quanto noi non godremmo dei vantaggi se non lo abbiamo ratificato. Quindi, per quanto riguarda almeno il lato attivo, la ratifica è essenziale per noi, e, ripeto, non implicando nessun giudizio sul Trattato, non implica, non pregiudica nessuna libera accettazione del Trattato medesimo, ed è da considerare un puro e semplice adempimento di una delle clausole o di una delle condizioni.
Se questo è vero, l’attuazione di tale condizione diventa soltanto un problema politico, diventa, cioè, il problema della scelta del momento nel quale adempiere questa condizione, perché è legittimo che noi cerchiamo che da tale adempimento venga il maggior numero di benefici per il nostro Paese. Quindi ogni giudizio giuridico, a nostro modesto avviso, deve cedere terreno ad un giudizio più largamente politico.
È questo il momento? È questo il problema al quale si deve rispondere e sul quale si sarebbe dovuta concentrare maggiormente la nostra attenzione. È questo il momento più favorevole per l’Italia perché essa adempia a questa condizione di pace? Io rispondo di sì; e non vi sembri un paradosso se io rispondo di sì proprio per questo stato di latente tensione che esiste fra i potenti della storia contemporanea. Ché, se questi potenti avessero trovato il minimo denominatore comune sul quale adagiare le loro inquietudini o le loro reciproche diffidenze, sul quale costituire la speranza di qualche anno di lavoro comune, noi avremmo ben poco da fare, miseri e disarmati come siamo. Noi non avremmo altro che da fare proteste colorite e vibranti, quali piacciono all’animo di taluni di noi, oppure assoggettarci a seguire la volontà irresistibile dei più potenti.
Ma appunto perché questa situazione non esiste, appunto perché esiste invece questa tensione che potrebbe (non è vano pessimismo né pessimismo di maniera) diventare pericolosa, questo è il momento in cui l’Italia può, entrando da uguale nel consesso internazionale, adempiere una sua determinante funzione.
E il piano Marshall medesimo risponde ad una esigenza parallela, sia pure in un campo più ristretto, ma che obbedisce alle stesse leggi e alle stesse esigenze.
Ma con quale posizione ritorna qui quello che io dicevo essere il punto di vista comune a tutti? Esigenza di autonomia e di indipendenza. Ma chi più di noi vuole e sente questa necessità?
Guardate, non soltanto per ragioni d’interesse. Io ho sentito l’amico Nenni il quale ha detto cose sane e giuste circa la complementarietà delle economie dell’Europa sudorientale e la nostra necessità di espansione verso quei Paesi, la necessità di non creare delle barriere. Ma queste che sono sane e fondate ragioni non sono sufficienti. Tu, amico Nenni, che cercavi in questi fatti una dimostrazione la più irrefutabile del valore anche attuale del determinismo o materialismo storico, lasciati dire che in questo caso tu ti metti sullo stesso terreno e sulla stessa logica del capitalismo, perché dai come forze operanti nella storia dei popoli solo gli interessi materiali, i quali, sì, valgono anch’essi, ma guai quando predominano e restano soli a determinare l’indirizzo dei popoli! (Applausi al centro).
Quindi, autonomia e indipendenza. E non ho aspettato questa discussione per affermarla. I colleghi che hanno avuto la benevolenza di ascoltarmi quando io feci quelle scandalose dichiarazioni in sede dell’ultimo voto di fiducia al Governo, si ricorderanno che io toccai anche questo punto e, definendo quest’abusata e calunniata posizione di centro del nostro partito, io allargai lo sguardo per un momento, sia pure di scorcio, sul problema internazionale al di sopra del problema interno e dissi che, come nella politica interna noi interpretavamo la nostra funzione di attrarre i partiti cosiddetti rivoluzionari, cioè quelli che, almeno ideologicamente, preferirebbero la violenza non liberatrice al progressivismo più lento e naturalmente meno popolare della democrazia, la quale realizza solo a gradi le varie forme di ascesa delle masse popolari, così sul terreno internazionale noi sentivamo che non esisterà nessun equilibrio europeo, se noi non riusciamo a reinserire nella vita europea il popolo russo rispettando le sue ideologie e le sue forme, ma facendogli sentire questa solidarietà inevitabile, ineluttabile, che non è soltanto materiale ma che risponde ad un concetto più elevato di convivenza umana che si identifica con la civiltà. Se questo popolo non rientra nella convivenza europea, figuriamoci se pensiamo di rendere più spessa la resistente cortina di ferro e se pensiamo al di là di Stettino e di Trieste: hic sunt leones, come dicevano i geografi antichi per le terre che non conoscevano.
Il piano Marshall offre certo dei grossi pericoli; ed è per questo che la nostra presenza è tempestiva e necessaria; e tutto quello che si può fare per renderla operante è tempestivo e necessario.
Io non credo ad una grande volontà di predominio del popolo americano. Quanto al popolo inglese, sebbene esso sia soprattutto inglese prima che laburista – e lo dico senza ironia, perché un popolo ha la psicologia collettiva che le sue tradizioni gli creano – il popolo inglese pesa da lungo tempo sul piano mondiale, sul piano imperiale, perché la sua lunga esperienza ha come sedimentato più o meno oscuramente sulla coscienza collettiva ed ha determinato un certo indirizzo morale e intellettuale.
Ma esso è temperato oggi da una fervida concezione sociale e socialista, per cui non dovreste essere proprio voi a temere che la presenza di Bevin nella Conferenza possa essere identificata come la presenza di un astuto predone che specula sulla povertà e difficoltà degli altri.
Ma anche il popolo americano, io dicevo, ha un qualche fervore idealistico che non esclude una retta e vigile difesa degli interessi materiali. Non lo insegnerò a voi, se avete tempo – ne abbiamo purtroppo molto poco – di leggere la letteratura amena ed i romanzi di questi ultimi tempi. Voi avete sentito in talune manifestazioni, il fervore di qualcosa di nuovo: e di solito la letteratura annuncia le forme nuove del pensiero, è come la foriera dei grandi orientamenti che mutano nell’anima collettiva di un popolo. Ma comunque va riconosciuto con estremo senso di oggettività che nella sua formulazione quale la immaginò Marshall stesso nel suo ormai famoso discorso, niente aveva il piano che potesse far dubitare in una volontà assoluta di predominio. Egli diceva: «Non sarebbe né opportuno né efficace che il nostro Governo cominciasse ad elaborare unilateralmente un programma destinato a rimettere in piedi economicamente l’Europa. Questo compito spetta agli europei. L’iniziativa, a mio parere, deve venire dall’Europa perché il compito del nostro Paese dovrebbe consistere nel contribuire amichevolmente con quello che secondo, ecc. ecc.».
Se poi osservate, alla Conferenza di Parigi furono invitate 22 Nazioni (scusatemi questo accenno statistico che è significativo, per me) e di queste 22 nazioni otto appartengono alla costellazione rossa: l’Albania, la Finlandia, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, la Jugoslavia, l’Ungheria – tre sono Stati neutrali che non hanno mai avuto soverchie tenerezze per il mondo inglese: Svizzera, Svezia, Norvegia – e se aggiungete la Russia avreste avuto la maggioranza degli Stati invitati alla Conferenza di Parigi. Il che può avere un valore relativo, naturalmente; ma significa che nessuno si era preoccupato di crearsi una maggioranza predeterminata per imprimere alla Conferenza un determinato e decisivo atteggiamento; significa che questa parola della «porta aperta» lasciata anche agli altri non era una frase ma una possibilità di cui tutti potevano profittare e se la rottura è avvenuta, è avvenuta su un terreno di suspicione, sul terreno ideologico. Naturalmente ciascun Paese provvede alle proprie direttive, ai propri interessi, come crede. Perciò questo non ha carattere di biasimo; ma io crederei che avrebbero provveduto meglio ai propri interessi quei Paesi che avessero partecipato alla Conferenza di Parigi, per discutere in concreto i dettagli del programma, le linee direttive concrete, attraverso le quali questo programma si sarebbe realizzato. E solo su constatate divergenze effettivamente esistenti su queste direttive, una rottura, una frattura avrebbe potuto avvenire ed essere giustificata. Ecco perché è necessaria la nostra presenza e la nostra presenza con quello spirito del quale io vi parlavo e del quale nessuno ha il diritto di dubitare in questo momento. Se poi si vuole spingere il nostro sospetto alla politica americana, la quale sarebbe animata, attraverso possibili trattati di commercio, da mire egemoniche che rovinano non so quali delle nostre industrie, se le pesanti o le leggere, se le siderurgiche o le tessili, che dire amico Nenni, del fatto che questo trattato di commercio è discusso proprio da uno dei vostri, dall’amico Ivan Matteo Lombardo, dell’invio del quale taluni hanno piuttosto severamente biasimato il Presidente del Consiglio non ritenendolo, non per le sue qualità personali al di sopra di ogni discussione, ma per la sua colorazione politica come il non più adatto a negoziare accordi nello stato psicologico attuale dell’America?
Ora la nostra posizione è quindi chiara. Quelli i quali pensano che noi, senza una profonda convinzione ci siamo schierati per questa utilità ai fini nazionali della immediata ratifica del Trattato, dovrebbero pensare che essi ci attribuiscono o una caratteristica di avventatezza, o una specie di spirito esagerato di sacrificio per una infatuazione non sufficientemente matura, perché tutti converranno che l’atteggiamento è il più lontano possibile dalla comodità. Le elezioni non sono lontane. Noi non siamo di quelli che dispregiano, onorevole Giannini, i fattori spirituali e morali della vita di un popolo; noi li rispettiamo altamente e non solo alludo ai fattori religiosi, ma ai fattori più larghi per la vita dello spirito e per l’amore del proprio Paese. Noi ne sentiamo la immensa importanza per la vita di un popolo. Anche se non ne fossimo convinti, l’esperienza del fascismo alla sua nascita dovrebbe darcene la più irrefutabile dimostrazione. Ricordiamo come il fascismo fermentò sul mito della vittoria mutilata e come su questo stato d’animo d’ingenua dedizione al proprio Paese, su questo senso di umiliazione che invocava la sensazione della giustizia e provocava legittima reazione dell’animo, si insinuò il fascismo primigenio, il rivendicatore della dignità dei combattenti, di coloro che portando i nastrini azzurri – non vi dispiaccia, il fatto è accaduto a me – si sentivano sputare addosso col grido: sei macchiato di sangue! Su uno stato di reazione che una larga parte dell’opinione pubblica credette di ravvisare come interpretato da questo fascismo nascente. Pericoloso sarebbe se ci dimenticassimo di questo.
GIANNINI. Giusto, è giusto, ma perché lo racconta proprio a me?
GRONCHI, Relatore della maggioranza. No, le do ragione.
TONELLO. Era lei Ministro. Sono ancora vivo.
GRONCHI, Relatore della maggioranza. Non dica della banalità, altrimenti identifico nelle sue file dei fascisti del 1937-38, non dei collaboratori del 1922. (Commenti).
Noi non dimentichiamo questi valori ed è perciò che la nostra posizione di fautori della ratifica del Trattato non è la più comoda, né elettoralmente la più producente.
Noi sappiamo che saremo anche mal compresi, noi sappiamo – perdonatemi – che la non buona fede di qualche avversario speculerà su questa situazione e ci arrecherà forse danno non lieve, ma rispettate almeno la posizione di uomini che pur sapendo le difficoltà della loro situazione, sentono che devono mettere in seconda linea i propri interessi personali e di parte per servire quelli che essi in buona fede credono gli interessi del Paese. Questa è la sola testimonianza a cui noi teniamo. E, concludendo, lasciate che io dica: in questa infuocata discussione cerchiamo di trovare i toni della misura, dell’equilibrio e della consapevolezza. Il popolo italiano è uno di quelli che, com’è facile al subitaneo e avvampante entusiasmo, così è facile a immediata depressione. Oggi si è sentito, sulle labbra di qualcuno, il tono di questa ribellione eroica o romantica che non può essere identificata con la dignità e con l’onore, perché la dignità e l’onore sono ancora in coloro che questi accenti non sentono o non possono adoperare. Cerchiamo di dare al nostro popolo la sensazione precisa, perché questo è il nostro dovere, del momento che attraversiamo e delle sue esigenze.
Se noi vogliamo tener fede al metodo democratico, noi dobbiamo rivolgerci direttamente a quest’animo popolare non soltanto con l’emotività delle parole, ma con la fredda considerazione dei fatti, con quel realismo che, ben diceva Sforza, non comprenda visioni idealistiche, ma con quel realismo che ci fa curvare sui problemi e vederli quali essi sono, al di sopra di ogni deformazione partigiana.
Questa è la nostra posizione, che vi preghiamo non di condividere, se la vostra persuasione è diversa, ma di rispettare. E rispettandola, noi eleveremo il nostro dibattito a quella altezza che dimostrerà veramente come, primi fra tutti, i rappresentanti del popolo italiano in questa Assemblea, si rendono conto che qua non vi è una questione misera di politica interna o di politica elettorale, o di parte, ma vi è soltanto se mai, una diversa, ma egualmente rispettabile, valutazione degli interessi del Paese. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Sospendo la seduta per alcuni minuti.
(La seduta sospesa alle 16.45, è ripresa alle 17.15).
PRESIDENTE. Prima di invitare il Presidente del Consiglio ad esprimere il suo avviso sugli ordini del giorno che sono stati presentati, do lettura dell’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, al quale l’onorevole Nitti ha dato la sua firma. Quest’ordine del giorno ha subito alcune modificazioni. Lo leggo nel suo nuovo testo:
«L’Assemblea Costituente
esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.
«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale e durissime per un popolo che ha dato un inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa, ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.
«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».
L’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha facoltà di parlare.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Accetto senz’altro quest’ordine del giorno. Mi permetto peraltro di suggerire che al posto delle parole «Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, ecc.», al fine di non disconoscere quanto è stato strappato, dopo lunghe trattative, per il preambolo, nel quale in realtà si ricorda l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano, si dica: «Né il Trattato tiene adeguato conto, ecc.».
RUINI. Sta bene.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quanto agli altri ordini del giorno, posso accettare come raccomandazione quello dell’onorevole Caroleo. Così pure accetto senz’altro l’ordine del giorno dell’onorevole Gasparotto, che riguarda soprattutto la Marina da guerra. Non posso, invece, accettare l’ordine del giorno dell’onorevole Benedettini.
L’ordine del giorno dell’onorevole Labriola è accettabile, per quanto l’espressione: «sia pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico», svaluti troppo il nostro spirito di sacrificio.
Posso accettare anche l’ordine del giorno dell’onorevole Jacini, nonché quello dell’onorevole Saragat per quanto abbia una dizione generica.
Non posso accettare, naturalmente, né l’ordine del giorno dell’onorevole Orlando, né quello dell’onorevole Selvaggi e nemmeno quelli proposti dagli onorevoli Corbino e Giannini.
L’ordine del giorno Damiani è pure accettabile.
Accetto infine pienamente l’ordine del giorno degli onorevoli Badini Confalonieri ed altri.
PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha accettato gli ordini del giorno Nitti-Ruini, Caroleo, Gasparotto, Jacini, Saragat, Damiani e Badini Confalonieri. Quanto agli altri ordini del giorno quello dell’onorevole Giannini giunge, forse, con alquanto ritardo, perché afferma di non ritenere urgente la discussione che è già avvenuta. Ad ogni modo esso coincide con l’ordine del giorno Corbino che propone puramente e semplicemente il rinvio della votazione. Quest’ordine del giorno ha quindi la precedenza. Ora interpellerò gli altri presentatori di ordini del giorno non accettati dal Governo, perché dichiarino se intendono mantenerli o meno.
Onorevole Orlando?
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Lo ritiro.
PRESIDENTE. Onorevole Selvaggi?
SELVAGGI. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Giannini?
GIANNINI. Il mio ordine del giorno è stato presentato come un accorgimento per poter parlare; comunque lo ritiro, associandomi all’ordine del giorno dell’onorevole Corbino.
PRESIDENTE. Onorevole Corbino?
CORBINO. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Allora voteremo per primo l’ordine del giorno dell’onorevole Corbino. Per questa votazione è pervenuta richiesta di scrutinio segreto dagli onorevoli Giannini, Puoti, Bencivenga, Miccolis, Colitto, Nasi, Perugi, Rodi, Condorelli, Lucifero, Tumminelli, Perrone Capano, Coppa, Marinaro, Mazza, Benedetti, Penna Ottavia, Capua, Mastrojanni, Rodinò Mario, Patricolo, De Falco, Musotto, Fusco, Maltagliati, Fiorentino, Cevolotto, Corbino, Lombardi Riccardo, Costantini, Schiavetti, Vernocchi, Tega, Merighi, Romita, De Michelis, Malagugini, Lopardi, Veroni, Lucifero, Fioritto, Fogagnolo, Tomba, Gullo Fausto, Preziosi, Quintieri Quinto, D’Amico, Nobile, Merlin Angelina, Carpano Maglioli, Dugoni, Nenni, Vischioni, Sansone, Cacciatore, Fornara, Jacometti, Morandi e Faralli.
Nel caso che questa votazione si concludesse con il rigetto dell’ordine del giorno, passeremo agli emendamenti proposti all’unico articolo del disegno di legge.
Votazione segreta.
PRESIDENTE. Indico la votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini.
(Segue la votazione).
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione, e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.
(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).
Risultato della votazione segreta.
PRESIDENTE: Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini:
Presenti e votanti 456
Maggioranza 229
Voti favorevoli 204
Voti contrari 252
(L’Assemblea non approva).
Hanno preso parte alla votazione:
Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.
Badini Confaloneri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.
Cacciatore – Caccuri – Caiati – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffì – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Cortese – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo – Croce.
Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.
Einaudi – Ermini.
Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao –Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschi – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.
Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.
Imperiale – Iotti Leonilde.
Jacini – Jacometti – Jervolino.
Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.
Macrelli – Maffi – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.
Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.
Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.
Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Pellegrini – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.
Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.
Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.
Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Segni – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.
Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.
Uberti.
Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.
Zaccagnini – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.
Sono in congedo:
Abozzi.
Bellavista – Bianchi Bianca
Cairo – Cannizzo.
Galioto.
Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.
Marazza.
Persico.
Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.
Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. Dovendosi ritenere assorbito – dato il risultato della votazione – l’ordine del giorno Selvaggi, procediamo alla votazione degli ordini del giorno accettati dal Governo.
Il primo è quello degli onorevoli Nitti e Ruini, che rileggo con la modificazione suggerita dall’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri:
«L’Assemblea Costituente
esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.
«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione, non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale, e durissime per un popolo che ha dato inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene adeguato conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile, insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.
«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».
Pongo ai voti l’ordine del giorno testé letto. Chi lo approva è pregato di alzarsi.
(Segue la votazione).
Data l’imponente maggioranza che si manifesta nella votazione, non è necessario procedere a controprova. Dichiaro, quindi, approvato l’ordine del giorno Nitti-Ruini.
Gli altri ordini del giorno accettati dal Governo possono considerarsi assorbiti.
Secondo l’ordine del giorno Nitti-Ruini, testé approvato, passiamo all’esame dell’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo presentato dal Governo.
Se ne dia lettura.
SCHIRATTI, Segretario, legge:
«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».
PRESIDENTE. Sono stati presentati quattro emendamenti. Gli onorevoli Bassano e Patricolo hanno già svolto i rispettivi seguenti emendamenti sostitutivi:
«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».
«Il Governo della Repubblica è autorizzato a dare esecuzione alle clausole contenute nell’Atto di Parigi del 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».
L’onorevole Scotti Alessandro ha presentato il seguente emendamento sostitutivo:
«Il Governo è autorizzato a non opporsi all’esecuzione del Trattato, quando entrerà in vigore a norma dell’articolo 90, ed a dichiarare alle Potenze alleate ed associate, firmatarie del Trattato, che la Repubblica italiana considera la loro ratifica quale formale atto restaurativo dello stato di pace».
Onorevole Scotti, lo mantiene?
SCOTTI. Lo ritiro. Dichiaro peraltro di astenermi dalla votazione del disegno di legge, dando a questa astensione il preciso significato che deriva dal contenuto del mio emendamento.
PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituire le parole: dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90, con le seguenti: condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze nominativamente menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo fa suo l’emendamento dell’onorevole Perassi, con la soppressione della parola «nominativamente».
PERASSI. Sta bene.
PRESIDENTE. Onorevole Bassano, mantiene il suo emendamento?
BASSANO. Il mio emendamento si ispira agli stessi criteri giuridici dell’emendamento dell’onorevole Perassi, il quale peraltro, lascia maggiori possibilità al Governo. Perciò non ho difficoltà a ritirare il mio emendamento.
PRESIDENTE. Onorevole Patricolo, mantiene il suo emendamento?
PATRICOLO. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Patriocolo, del quale ho già dato lettura. Chi lo approva è pregato di alzarsi.
(Non è approvato).
Resta dunque da votare l’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo del Governo, che, dopo la dichiarazione dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, risulta così formulato:
«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».
Trattandosi di un articolo unico la sua votazione equivale alla votazione del disegno di legge; pertanto procederemo senz’altro alla votazione a scrutinio segreto, a norma del Regolamento.
TOGLIATTI. Non possono più aver luogo dichiarazioni di voto?
PRESIDENTE. No, poiché si tratta di votazione a scrutinio segreto.
LACONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LACONI. Desidererei qualche chiarimento su questa procedura.
PRESIDENTE. È la procedura prevista dall’articolo 105 del Regolamento: il disegno di legge constando di un articolo unico, si procede senz’altro alla votazione per scrutinio segreto. Avverto, piuttosto, dato che da qualche collega mi si è affacciata analoga richiesta, che si può dichiarare l’astensione dal voto. Passando dinanzi ai Segretari che registrano i votanti, chi vuole astenersi ne fa prender nota, a norma degli articoli 107 e 108 del Regolamento.
Ha chiesto di parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.
CONDORELLI. Mi pare che si debba discutere l’emendamento Perassi.
PRESIDENTE. L’emendamento Perassi è stato fatto proprio dal Governo. Esso quindi è ormai incorporato nell’articolo unico del disegno di legge.
Votazione segreta.
PRESIDENTE. Indico la votazione segreta sull’emendamento Perassi.
(Segue la votazione).
Le urne resteranno aperte.
Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. Procediamo intanto alla votazione dell’ordine del giorno che porta la firma dell’onorevole Badini Confalonieri e di diverse centinaia di membri di quest’Assemblea, e che rileggo:
«La Costituente italiana,
preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;
ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;
ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;
rivolge
a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai princìpi della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace indicare al mondo le vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».
Chi lo approva è pregato di alzarsi.
(Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, prolungati, generali applausi).
Dichiaro approvato l’ordine del giorno all’unanimità.
Auspico e mi attendo che questa voce, che parte dall’Assemblea Costituente ed interpreta il pensiero di tutti gli italiani, sia ascoltata e più ancora compresa, dai francesi, e che rappresenti un impulso irresistibile alla ricostituzione integrale di quei rapporti di fraternità e di collaborazione feconda che sono esistiti per tanto tempo nel passato fra le due Nazioni e devono necessariamente ristabilirsi; e che nello stesso tempo sia sentita come un saluto dagli abitanti del confine, i quali devono essere sicuri che il popolo italiano, nei suoi rappresentanti ed in ogni singolo suo componente, non può dimenticarli e non li dimenticherà mai. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).
Chiusura della votazione segreta.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.
(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).
Sui lavori dell’Assemblea.
MICHELI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICHELI. Consenta l’Assemblea che io possa presentare in questo momento finalmente una proposta di rinvio, con la sicurezza che essa volentieri sarà accolta. Nella proposta io vorrei far rivivere qui quella che era la consuetudine dell’antico Parlamento libero, in cui al termine delle sessioni di lavori, meno faticosi di quelli, certo, che abbiamo fatto noi, l’onorevole Cavagnari e prima di lui altri e dopo di lui altri ancora, chiedevano al Presidente che volesse fare esso la proposta delle vacanze. E con l’applauso generale di tutti allora venivano chiuse le sedute ed altri lunghi applausi al Presidente venivano dalla tribuna della stampa: erano i nostri collaboratori della stampa che lo salutavano, dopo aver mandato un ventaglio con tutte le firme. Non so se questo sia predisposto anche ora; certo che oggi, dato il caldo enorme, ci vorrebbe un mulino a vento. (Si ride).
Signor Presidente! Onorevoli colleghi! Oggi possiamo dire, oramai, di «esser usciti fuor del pelago alla riva». (Approvazioni). Primo pelago, perché ce ne aspetta un altro, dopo, io spero, settembre avanzato (Commenti), periodo che mi auguro, signor Presidente, sia meno intenso e meno faticoso per lei e per tutti noi di quello che abbiamo attraversato.
C’è un po’ l’abitudine, fuori di qui, di far la critica dell’opera dell’Assemblea Costituente, come prima la si faceva del Parlamento; infatti dicono: questa brava gente non conclude niente, non fa che delle ciarle e delle chiacchiere, come se noi avessimo potuto diversamente esplicare quella che è l’opera nostra se non discutendo e quindi, discorrendo. Ma io osservo che gli elettori ci hanno mandato qui per fare la Costituzione ed altre leggi minori, il che non si può esplicare in altro modo, se non attraverso discorsi più o meno apprezzati od apprezzabili, ma che rappresentavano discussioni necessarie nel contrasto fra le varie tendenze che dividono la nostra Assemblea.
Io ho voluto farmi dare un modesto saggio statistico, che ella potrà integrare, dei nostri lavori. Da esso risulta che dal 6 febbraio ad oggi abbiamo tenuto 182 sedute: per la Costituzione, 91 e per la patrimoniale, 21, le altre per altri argomenti. Purtroppo vi sono state 29 sedute notturne delle quali – il signor Presidente lo sa – io sono stato costante oppositore e tale mi sono confermato perché ho visto che nelle sedute notturne un po’ per la stanchezza, o per la luce artificiale o per altro, questa riscalda gli ambienti e finisce poi per riscaldare più facilmente anche gli animi; così tutti gli incidenti più clamorosi – Dio mio! non gravi cose, si capisce – sono avvenuti nelle sedute notturne.
Abbiamo svolto 224 interrogazioni e ben 11 interpellanze. Di troppe forse ci siamo dichiarati insoddisfatti. Ma l’importante è che per un po’ di mesi – un paio, io spero – avremo la soddisfazione di non sentirne più parlare.
Ad ogni modo questa chiusura dei nostri lavori, questo taglio netto, per usare parole meno drastiche, per andare a riposare era, mi pare, oramai necessario e urgente, signor Presidente, perché in questi ultimi tempi abbiamo visto, non poche cose inconsuete: quando l’amico Tonello è arrivato ad interrompere in materia internazionale (Si ride), cosa tanto lontana dalle sue consuetudini, ed un altro buon collega si è argomentato di trasformare in versi più o meno asclepiadei e spesso zoppicanti, una discussione dell’Assemblea, ed ho visto altri colleghi, che avevano l’abitudine d’intervenire su quasi tutti gli argomenti, da due o tre giorni, tacere, io ho detto: è segno che ormai il caldo dominatore è tale che, per superarlo, non c’è che un po’ di riposo. Bisogna ritemprarci tornando ciascuno alla libera aria delle natie case, del mare, dei monti.
Anche per questo ho creduto opportuno di fare questa proposta che con piacere vedo ottenere il consenso di tutti. A questo punto allora credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea presentando al Signor Presidente i nostri ringraziamenti per averci così valorosamente guidati nella bisogna per molti di noi nuova e inusitata, e particolarmente per lei difficile ed aspra. (I componenti del Governo e tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, generali, prolungati applausi all’indirizzo del Presidente – Ad essi si associano le tribune della stampa). Si comprende come nell’animosità del dibattito, fra tante vivaci persone, ciascuna delle quali riteneva di aver in suo saldo possesso la verità politica e sociale, non era possibile astrarre da quello che si discute per rimanere in una sfera quasi trascendentale. È umano. Diversamente, avremmo avuto un Presidente gelido, e quasi assente, quale certo non occorreva per dibattiti come sono stati i nostri. (Approvazioni).
Noi abbiamo ammirato, signor Presidente, i di lei sforzi per restare sempre al di sopra della mischia. Qualche volta, quando le più tumultuose contestazioni venivano da qualche parte che poteva essere meno distante dal suo cuore (Si ride), maggiore sforzo vi è stato non sempre agevolato, e alle volte con qualche ritardo, dalla comprensione dei colleghi (Approvazioni).
E con lei ringrazio e saluto i colleghi tutti della Presidenza; compresi anche gli zelanti Segretari. Ma per primo il nostro ottimo amico Conti (Vivissimi, generali applausi) che abbiamo visto con tanto piacere oggi ritornare, in mezzo a noi, come prima, anche perché l’Assemblea era desiderosa di tributargli questo plauso finale come riconoscimento della faticosa opera di aver condotto in porto questa nostra difficile e contrastata legge sopra la imposta patrimoniale, diventata nella discussione ancor più straordinaria, la quale, disse il nostro collega Corbino ieri, abbiamo visto con gioia terminare. Ora, effettivamente la gioia ci sarà stata per noi che finalmente avevamo finito, ma gioia per i contribuenti io temo che ne sia stata molto poca o niuna, e peggio ancora quando comincerà ad applicarsi. (Si ride). Ed infatti, quando io votai l’altro giorno, dissi al Ministro delle finanze, nel deporre con disciplina di gregario il mio voto, che non corrispondeva colla mia convinzione dissi: «Poca gioia è nell’urna» (Si ride).
E così, io saluto gli altri colleghi alla Vicepresidenza, gli amici che sono i più vicini al mio cuore: Pecorari e Bosco Lucarelli, perché rappresentano, nella Presidenza, Trieste ed il Mezzogiorno; ed in modo particolare l’onorevole Targetti, il quale fa parte a buon diritto del gruppo di quei sottili toscani, cui ha accennato ieri con tante vivaci parole l’onorevole Orlando. Egli rappresenta lassù, nell’alto seggio, il dolce stil novo (Vivissimi generali applausi), ed ha l’impegno di risciacquare in Arno il nostro dire, qualche volta allobrogo o peggio.
Ricordiamo tutti insieme il triplice collegio dei nostri Questori vigilanti e diligenti che, con tanta cura, dirigono tutte le cose nostre in questa grande azienda della Assemblea e che, con prudente circospezione, si aggirano tra i nostri banchi, a portar pace nei momenti più difficili; e per questo noi possiamo perdonare loro se i telefoni talvolta non funzionano, se talune lampadine non si accendono, o se mancano addirittura… (Si ride) e tante altre cose ancora che discrimineremo meglio in Comitato segreto.
Ma io non posso dimenticare in questa mia rapida scorsa il personale della Camera (Vivi applausi), che ci ha donato sempre tutta la sua operosa, zelante e continua collaborazione. A cominciare dal Segretario generale, così abile e rapido nel pescare i precedenti, da trovarne qualcuno anche se non c’è, perché al postutto servirà da precedente per la prossima volta. (Ilarità – Applausi).
Ed, andando innanzi, gli stenografi, che facciamo impazzire attraverso il tono dei nostri discorsi, così spesso interrotti da noi stessi. E dove metto i resocontisti? Io ricordo sempre, con grande simpatia, quel meraviglioso resoconto sommario nel quale, a qualunque ora l’Assemblea si chiuda, ogni mattina, leggiamo, pubblicato con molta grazia, quanto avevamo avuto intenzione di dire (Si ride – Applausi); ed il personale d’Aula e fuori di essa, quello di tutto interno il complesso organismo della nostra antica Camera dei deputati, comprese le ultime reclute; l’antica gloriosa Camera che è rimasta con la sua bella tradizione e tramutata, quasi migliorandosi, al servigio di questa nostra Assemblea Costituente. (Applausi).
Per ultimo, permettetemi di inviare, – ed anche qui io credo di poter interpretare il sentimento di tutta l’Assemblea senza distinzione di parte – un saluto riconoscente ai diciotto nostri colleghi del Comitato coordinatore ed anche ai Settantacinque – ed io credo di poterlo fare anche quest’ultimo, per quanto io appartenga ad esso, per il fatto che non sono mai stato convocato, e quindi non vi ebbi nessun merito. Essi ci hanno preparato, attraverso pazienti e lunghi studi e dibattiti, risultanti da verbali diligentissimi, quelle relazioni che hanno poi servito di guida alle nostre discussioni sul progetto di Costituzione; ai Vicepresidenti delle Sottocommissioni, ai Relatori, valorosissimi tutti, e all’onorevole Ambrosini in ispecie, meraviglioso creatore e uomo di sagace pensiero, ed è giustificato il rammarico per le sostituzioni talvolta perpetrate nel suo progetto, in alcuna delle quali per vero ebbe luogo una vera e propria sostituzione d’infante (Ilarità), attraverso l’indiscussa ed eloquente attività del Presidente onorevole Ruini, verso il quale io debbo pure oggi fare onorevole ammenda se qualche cosa mi fosse sfuggito di men che riguardoso verso di lui…
RUINI. No, no!
MICHELI. …quando, in una seduta nella quale mi sono visto davanti non un emendamento sostitutivo ma un testo completamente nuovo, io avevo la necessità di investirlo da ogni parte per poterne rinviare la discussione… (Si ride) e così fu infatti.
E al signor Presidente io chiedo venia ed ai colleghi di avere così a lungo indugiato in questo mandato che volonterosamente ho assunto; di averlo adempiuto forse in forma non sufficientemente austera, come era forse opportuno in un’Assemblea che sempre aveva discusso di cose così gravi e così importanti e dopo che il Presidente, con le sue parole ispirate e vigorose, aveva oggi sollevato l’entusiasmo dell’Assemblea nei riguardi dei nostri confini orientali. Ed io ho creduto di aggiungere qualche «sorrisa paroletta breve», perché, andando via di qui, dopo tante battaglie lo facessimo con l’animo pieno di serenità, con l’intenzione di ritrovarci più sereni ancora presto sì, ma non tanto presto (Ilarità), in modo da poter continuare, sotto così esperte guide, in feconda e concorde attività, quella Costituzione che il popolo italiano ha il diritto di domandarci. (Vivissimi applausi).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi associo, a nome del Governo, come promotore delle leggi, ai sensi di ringraziamento rivolti in modo particolare al Presidente e ai Vicepresidenti per la preziosa, benevola collaborazione che è stata da loro prestata, a tutti i funzionari e al personale in genere della Camera, e in modo speciale ai relatori e membri della Commissione che così intelligentemente hanno collaborato all’opera legislativa della Costituente. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. Mentre ancora si procede al computo dei voti dello scrutinio segreto, chiudiamo intanto, onorevoli colleghi, le nostre vele. L’onorevole Micheli ha già detto, in modo veramente brioso, quanto io avrei voluto dire, tanto che non c’è necessità che io ripeta quanto egli ha già esposto. Posso soltanto esporre, in maniera sintetica, qualche dato statistico inerente ai nostri lavori. Io non nutro per le statistiche quella sfiducia che mostra di sentire l’onorevole Micheli: non la nutro per lo meno per quello che riguarda le statistiche nostre; perché, se è logico non fidarsi degli altri, possiamo e dobbiamo almeno fidarci di quelli che sono i risultati del lavoro nostro.
L’onorevole Micheli ha già ricordato che abbiamo tenuto, dal 6 febbraio ad oggi, 182 sedute, in 176 giorni, di cui 146 lavorativi. Possiamo di conseguenza constatare che, in realtà, non soltanto abbiamo avuto una seduta ogni giorno, ma spesso due e alcune volte anche tre. Di queste, alcune si sono spinte, come l’onorevole Micheli poc’anzi ricordava, nelle ore notturne, e sei al di là delle 24.
Di queste sedute plenarie, 91 sono state dedicate al progetto di Costituzione; 28 alla discussione di comunicazioni del Governo: è da ricordare infatti che due volte il Governo è mutato e si è dovuto discutere intorno al suo nuovo programma. Otto sedute sono state poi ancora dedicate all’esame della legge comunale e provinciale, 6 all’esame del disegno di legge relativo all’industria cinematografica, 4 all’approvazione di Trattati internazionali, 2 infine alla discussione intorno alla proroga della durata della nostra Assemblea.
Non debbo ricordare le sedute consacrate all’esame del progetto di legge relativo alla ratifica del Trattato. Credo che nessuno di noi, che vi abbiamo assistito e partecipato con ansia e dolore, in alcuni momenti anche con una certa ira repressa, non verso di noi, ma contro altri, potrà mai dimenticare queste sedute; e non è quindi necessario che io mi ci soffermi in modo particolare.
In 40 sedute, poi, si sono svolte le discussioni per interpellanze, mozioni e interrogazioni. E abbiate pazienza se ricordo così pedissequamente il nostro lavoro. Bene ha detto l’onorevole Micheli: è bene che si sappia nel Paese non soltanto ciò che non abbiamo potuto fare, ma ciò che in realtà abbiamo fatto.
L’Assemblea plenaria ha esaminato 24 disegni di legge di iniziativa governativa e uno di iniziativa della Presidenza: quello per la prima proroga dei poteri dell’Assemblea Costituente.
Le Commissioni legislative hanno tenuto 126 riunioni; ed anzi, i Presidenti di queste Commissioni esprimono il desiderio che anche se questa sera l’Assemblea inizia il suo periodo di riposo, i membri delle Commissioni, o alcuni di essi, per un paio di giorni almeno si ritrovino, per portare a termine un certo lavoro urgente che tuttora sta sul tavolo delle Commissioni.
Le Commissioni legislative hanno esaminato 278 schemi di provvedimenti: di questi, 271 sono stati rinviati al Governo, perché vi desse corso; 3 sono stati rimessi all’Assemblea Costituente; 4 sono stati ritirati dal Governo.
Per il progetto di Costituzione, che è il nostro lavoro fondamentale, rammento che fino adesso abbiamo approvato le disposizioni generali, i tre Titoli della parte prima: quelli relativi ai rapporti civili, ai rapporti etico-sociali, ai rapporti economici; il Titolo V della seconda parte relativo alle Regioni, di cui, però, abbiamo approvato soltanto undici articoli; cinque ce li ritroveremo nel mese di settembre. Complessivamente, abbiamo già approvato 64 articoli della Costituzione; ma ne restano ancora, egregi colleghi, nel progetto che abbiamo sott’occhio, 65, che concernono tutta la struttura, l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, e in più 9 articoli di disposizioni transitorie.
L’Assemblea ha esplicato anche con una notevole minuzia il sindacato politico sull’attività del Governo. Sono state svolte e discusse: 2 mozioni, 11 interpellanze e 224 interrogazioni orali. Questo per i colleghi, i quali frequentemente si lamentano che alle interrogazioni non si dia corso. Il fatto è che più ne esaminano, e più ne affluiscono; e anche per quelle che richiedono risposta scritta, su 882 ben 601 hanno avuto risposta dai Ministri competenti.
Infine, sono state molto numerose le votazioni: ne abbiamo fatto, fra l’altro, 25 per appello nominale e 28 a scrutinio segreto. Noi adoperiamo largamente strumenti molto delicati di consultazione delle nostre opinioni.
In questa maniera, onorevoli colleghi, ho fatto il bilancio materiale dei nostri lavori, quello che si può misurare a numeri, giorni, ore, articoli, testi legislativi e voti. Non farò il bilancio morale; non dirò di quanto l’Assemblea abbia potuto contribuire con la propria attività collegiale, ma più ancora con l’opera singola di ogni deputato, al superamento spirituale del nostro passato di sciagure; di quanto l’Assemblea abbia immesso nella coscienza democratica della Nazione; di quanto abbia fatto per affermare l’idea repubblicana; come abbia posto e se abbia posto riparo ai propositi, sia pure non ben definiti, delle forze anti-democratiche. Non lo faccio, perché forse, nel fare questo bilancio, non ci si troverebbe tutti così d’accordo come nel fare il bilancio dei dati puramente materiali. D’altra parte, dato il regime provvisorio nel quale sta oggi la Repubblica italiana, non è forse compito immediato dell’Assemblea quello di realizzare gli scopi ai quali ora ho accennato. La Camera legislativa, quando avremo ultimata la Costituzione, darà essa il ritmo nuovo allo Stato italiano e sarà investita completamente di questi impegni. Ma credo di poter egualmente affermare che la stragrande maggioranza dell’Assemblea sta fermamente sul terreno repubblicano, per le libertà democratiche, secondo la volontà popolare, come si è espressa nelle elezioni del 2 di giugno.
La sessione che riapriremo il 9 settembre avrà qualche cosa di preciso da fare, tuttavia, a questo proposito.
Mi basta ricordare i disegni di legge per il consolidamento della Repubblica, che non sono ancora usciti dalla fase dell’esame dei lavori in Commissione, ma che certamente, alla ripresa dei nostri lavori, verranno all’Assemblea per la loro ultima decisione.
Non voglio tuttavia più rubare neanche un minuto ai colleghi che sono giustamente impazienti di poter mettere un punto fermo a questa lunga sessione dei nostri lavori. Credo che potremo ritrovarci il 9 settembre. Lo spazio è abbastanza lungo e la temperatura a quell’epoca si sarà un poco rinfrescata. Non dovremo più sopportare i duri sacrifici fisici che in queste ultime settimane abbiamo dovuto affrontare e che abbiamo abbastanza coraggiosamente affrontati.
Io propongo di ritrovarci il 9 settembre: sono 40 giorni di riposo e penso che siano sufficienti per potere tornare ai nostri lavori.
E per concludere, io adesso non mi rimetterò sulle tracce dell’onorevole Micheli per ringraziare partitamente tutti coloro che fra noi, e siamo in fondo tutti, hanno dato contributo alla migliore utilità del nostro lavoro, dai membri della Presidenza ai membri dell’Assemblea, ai rappresentati della stampa, ai collaboratori a qualunque titolo al lavoro dell’Assemblea Costituente, che non si svolge tutto nella solennità dell’Aula, ma che largamente si riparte negli studi, negli uffici e anche nei corridoi, dove i collaboratori che l’onorevole Micheli ha ricordato stanno diuturnamente ad attendere che noi completiamo il lavoro svolto qui nell’Aula.
E pertanto, senza dilungarmi, a lei, onorevole Micheli, porgo vivi ringraziamenti per le parole buone che ha avuto per me e per il suo plauso. Faccio quanto più posso; facciamo tutti quanto più possiamo; forse faremo di più man mano che avremo acquistato una maggiore esperienza nel manovrare il complicato e difficile strumento della vita parlamentare, che appare soltanto ai facili e ai leggeri un giuoco qualsiasi, ma che è in realtà, invece, uno degli strumenti più raffinati della vita moderna di un popolo civile. (Applausi prolungati e generali).
Onorevoli colleghi, l’onorevole Micheli, con estrema delicatezza, ha voluto lasciare a me il compito di pronunciare quest’ultimo saluto: a nome di tutta l’Assemblea rivolgo il mio pensiero reverente ed affettuoso al Presidente della Repubblica (Vivissimi, generali e prolungati applausi. Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi) che, avendo accettato di restare ancora al posto più alto del nuovo Stato democratico italiano, deve – e noi glielo chiediamo insistentemente – temprare anche lui le sue forze in questo periodo di pausa dei nostri lavori, che non sarà pausa completa per i suoi, ma che tuttavia gli permetterà di ritrovare quel refrigerio e quella tranquillità che noi gli auguriamo e gli desideriamo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).
MICHELI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICHELI. Onorevole Presidente, volevo ricordare solo questo. Io non mi oppongo alla sua proposta, ma forse lei non ha ricordato che il giorno 8 settembre partiranno per il Congresso interparlamentare europeo 45 o 50 nostri colleghi, che resteranno via otto giorni. Fra essi vi sono molti di noi interessati a fondo nello svolgimento dei lavori. Volevo fare solamente questa osservazione e niente altro. Non neghi, onorevole Presidente, la possibilità ad alcuno di noi di aprirsi una carriera internazionale. (Si ride).
Siccome poi mi è stato accennato a qualche dimenticanza nella quale sarei incorso, avverto che ciò è avvenuto perché mi son voluto mantenere fedele alla consuetudine lasciando al Presidente il compito di un più augusto saluto, perché la proposta partisse dalla fonte più autorevole ed alta. (Applausi vivissimi).
Così sono lieto di terminare augurando alle gentili colleghe nostre che con tanta comprensione hanno preso parte, pur nuove all’arringo, ai nostri lavori ed a voi, colleghi tutti, buone vacanze. (Vivissimi applausi).
Risultato della votazione segreta
PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge:
«Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, Armato a Parigi il 10 febbraio 1947»:
Presenti 410
Votanti 330
Astenuti 80
Maggioranza 166
Voti favorevoli 262
Voti contrari 68
(L’Assemblea approva).
Hanno preso parte alla votazione:
Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Azzi.
Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Basile – Bassano – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bocconi – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.
Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Croce.
Damiani – D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Dominedò – Dossetti – Dugoni.
Einaudi – Ermini.
Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Firrao – Foa – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.
Galati – Garlato – Gasparotto – Gatta – Germano – Geuna – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.
Jacini – Jervolino.
La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Longhena – Lozza – Lucifero – Lussu.
Macrelli – Magrassi – Magrini – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Molè – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Motolese – Mùrdaca – Murgia.
Nasi – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Notarianni – Numeroso.
Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.
Pacciardi – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Ponti – Porzio – Preti – Proia – Puoti.
Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.
Rapelli – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Paolo – Ruini – Rumor.
Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segala – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Silone – Simonini – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.
Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togni – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.
Uberti.
Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Volpe.
Zaccagnini – Zagari – Zerbi – Zotta – Zuccarini.
Si sono astenuti:
Allegato – Amendola – Assennato.
Baldassari – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bernamonti – Bianchi Bruno – Bibolotti – Bitossi – Bosi – Bucci.
Caprani – Cavallotti – Cerreti – Colombi Arturo – Corbi – Cremaschi Olindo.
D’Amico Michele – Di Vittorio – D’Onofrio.
Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fiore.
Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giolitti – Gorreri – Grieco – Gullo Fausto.
Imperiale – Iotti Leonilde.
Laconi – Landi – Leone Francesco – Lombardi Carlo – Longo.
Maffi – Magnani – Maltagliati – Marchesi – Massini – Massola – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Moranino – Musolino.
Negro – Novella.
Pajetta Gian Carlo – Pastore Raffaele – Pellegrini – Perlingieri – Pesenti – Platone – Pratolongo.
Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi.
Saccenti – Santi – Scarpa – Scoccimarro – Sereni – Sicignano – Silipo – Spano. Togliatti.
Sono in congedo:
Abozzi.
Bellavista – Bianchi Bianca.
Cairo – Cannizzo.
Galioto.
Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.
Marazza.
Persico.
Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.
Interrogazioni, interpellanze e mozione.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze e di una mozione pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere quale azione abbia svolta o intenda svolgere ulteriormente per ottenere la liberazione degli italiani deportati in Jugoslavia, «la cui sorte tristamente ignota – come dice il recente messaggio ricevuto dall’interrogante – da ventisei mesi cagiona lutti e miserie indicibili».
«Gasparotto».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e delle finanze, per conoscere le ragioni per le quali, nel procedimento per avocazione di profitti di regime promosso dall’Intendenza di finanza di Roma a carico del noto profittatore e sostenitore del regime fascista, Giorgio Berlutti, editore dell’altrettanto nota «Libreria del Littorio» e di altri organismi di propaganda, che vivevano parassitariamente a carico del contribuente e dello Stato:
1°) non sia stato assoggettato a sequestro conservativo anche il giornale Il Globo, di cui il Berlutti è proprietario insieme con la Federazione dei dirigenti industriali, per cui si assiste oggi allo spettacolo che il più diffuso organo economico-finanziario italiano si trova nelle mani dell’editore ufficiale del partito fascista e di uno degli scrittori di propaganda più attivi dello stesso partito;
2°) l’Avvocatura generale dello Stato non abbia validamente tutelato gli interessi dello Stato, impedendo che il sequestro già dato dal Presidente del Tribunale di Roma il 1° marzo 1947 venisse revocato – limitatamente alla Casa editrice R. Carabba di Lanciano – come invece è avvenuto il 3 aprile successivo;
3°) sia stato nominato sequestratario dei beni del Berlutti il professore Alfonso Linguiti, il quale, per i suoi trascorsi politici, meriterebbe egli stesso di essere sottoposto a procedimento per avocazione; e, infine, le ragioni per le quali il medesimo professore Linguiti non sia stato almeno sostituito in conseguenza del fatto che non ha dato la minima esecuzione al detto sequestro, durante i 34 giorni in cui tale provvedimento è rimasto in vita, limitatamente alla Casa editrice R. Carabba.
«Pesenti, Foa, Dugoni, Cevolotto, Sapienza, De Vita».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali siano i criteri seguiti dal Commissariato degli alloggi di Roma nell’esprimere alla locale Prefettura il proprio parere sul termine di tempo da assegnarsi agli impiegati statali per cercarsi altro alloggio, nel caso in cui essi siano costretti a lasciare quello attualmente occupato in seguito a sentenza di sfratto emessa dall’autorità giudiziaria su richiesta dei proprietari di casa, che intendano occupare essi stessi l’alloggio; se gli risulti, come risulta agli interroganti, che molto spesso il Commissariato degli alloggi esprima il parere di assegnare un termine breve, pur sapendo che oggi, a Roma, un impiegato dello Stato che sia onesto, in nessun modo è in grado di trovarsi altra abitazione; quali provvedimenti ritenga opportuno emanare per risolvere il grave, urgente problema riferentesi agli impiegati statali, che, risiedendo a Roma già da anni e trovandosi nelle condizioni anzidette, sono nella necessità di procurarsi un alloggio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Nobile, Bozzi, De Vita, Pacciardi, Di Vittorio».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere per quali motivi sul tratto ferroviario Campobasso-Benevento non viene istituito un servizio di automotrice – specialmente in coincidenza con i rapidi per Roma – già promesso da tempo.
«Il tratto Campobasso-Benevento è di chilometri 84 e si impiegano ore 3.31 a percorrerlo con l’attuale servizio di treni.
«Il Molise è privo di comunicazioni ferroviarie con Roma a causa della distruzione della ferrovia, operata dai tedeschi.
«Il servizio di autocorriera che è stato istituito è costosissimo ed insufficiente.
«Le comunicazioni con Napoli sono lente e impongono sacrifici di tempo e di danaro.
«Il Molise, avendo sofferto danni incalcolabili a causa della guerra, esige che gli siano ridati i mezzi che consentano di riprendere con rapidità i suoi traffici e le sue comunicazioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Camposarcuno, Ciampitti, Colitto, Morelli Luigi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere le ragioni per le quali per la fissazione del prezzo del citrato di calcio è stato richiamato in vigore il vecchio decreto del 1929, mentre è evidente la necessità e la giustizia che il prezzo fosse sottoposto al Comitato interministeriale dei prezzi, il quale l’anno scorso ne fissò la misura in modo meno irrisorio di quello stabilito per la campagna in corso (1946-47).
«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali sono i criteri per ritenere che le richieste delle categorie agrumarie sarebbero in contrasto con il decreto-legge 10 ottobre 1929, n. 1942, e se non crede opportuno di aumentare il prezzo fissato che non ha tenuto presente, in confronto del prezzo fissato per l’anno scorso, né il cresciuto costo della mano d’opera, né l’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla produzione del citrato di calcio, né le condizioni del mercato valutario, infliggendo una falcidia ingiustificata al compenso dovuto alla fatica e alle spese degli agrumicoltori, dei piccoli produttori di citrato di calcio, dei lavoratori manuali e delle altre categorie interessate, che in Sicilia, e specialmente nella provincia di Messina, da questo cespite traggono la loro sola fonte di vita, e anziché ottenere tutela e protezione, hanno avuto da questa arbitraria decisione gravi e immeritati danni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Basile».
«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per conoscere se non siasi potuto ottenere alcuna ufficiale conferma della presenza in varie regioni dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche di italiani prigionieri di guerra, e quale esito abbiano avuto per ottenere di essi il sollecito rimpatrio.
«Micheli».
«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che hanno determinato l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica a disporre che siano senz’altro indetti in tutti i comuni i concorsi per medici condotti, veterinari ed ostetriche sulla base della legge sanitaria del 1935 mortificatrice di ogni autonomia comunale e se non creda di far revocare le disposizioni come sopra impartite e sollecitare quelle provvidenze legislative che salvaguardino i diritti degli enti locali e vengano incontro ai legittimi desideri delle categorie interessate.
«Tessitori, Fantoni, Schiratti, Garlato, Gortani».
«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga opportuno – attraverso ad un attento riesame della questione – di disporre per l’esonero dal pagamento del tributo sugli utili di guerra a carico degli agenti e rappresentanti di commercio a far tempo dal 1° gennaio 1939 (o, in via subordinata, dal 1° gennaio 1945), come già attuato nei confronti dei piccoli affittuari agricoli, degli esercenti piccole attività industriali e commerciali e degli artigiani, a tal fine trasferiti dalla categoria B alla categoria C-1.
«Militano a favore degli agenti e rappresentanti di commercio validi argomenti che l’interrogante sintetizza:
1°) gli agenti e rappresentanti non sono «intermediari», ma bensì «ausiliari» del commercio;
2°) la legge 1° luglio 1940 fu emanata imperante l’abrogato Codice di commercio, che considerava commercianti appunto gli «intermediari» (mediatori, commissionari, numeri 21 e 22 dell’articolo 4);
3°) la legge comune e quella tributaria hanno sempre disconosciuto la qualifica di «commercianti» negli agenti e rappresentanti;
4°) la legge fondamentale tributaria iscrive gli agenti e rappresentanti in categoria C-1 e non in categoria B;
5°) gli agenti e rappresentanti sono gli unici iscritti alla categoria C-1 che siano soggetti all’imposta sugli utili di congiuntura; non sono infatti tassati gli altri professionisti aventi reddito di puro lavoro di natura incerta e variabile;
6°) agenti e rappresentanti non hanno da ricostruire monte merci né da ammortizzare impianti e pertanto appare iniquo l’accantonamento della così detta quota indispensabile.
«Chiabamello»
«L’Assemblea Costituente,
considerato che nella decisione presa dal Ministro delle finanze in merito alla concessione in uso del Villaggio Alpino denominato Colonia Valgrande di Comelico (Belluno) si riscontra un grave difetto di valutazione, essendosi trascurato:
1°) che la Colonia in parola è stata costruita con i mezzi finanziari offerti da operai, impiegati, industriali e Istituti bancari della provincia di Treviso fin dal 1929, allo scopo di assicurare ai figli più bisognosi dei lavoratori di quella provincia svago e ristoro durante le stagioni estiva ed invernale;
2°) di prendere in considerazione la proposta dell’Intendenza di finanza di Belluno – competente per territorio – al superiore Ministero delle finanze, nell’aprile 1947, con la quale – a conclusione dell’esame della pratica avviata durante sedici mesi con l’E.N.A.L. di Treviso – la Colonia di cui trattasi, si proponeva venisse concessa in affitto all’E.N.A.L. di Treviso;
invita, il Governo a revocare la decisione presa dal Ministro delle finanze in ordine alla concessione in affitto della Colonia di Valgrande di Comelico, e riconosce che per ragioni di equità e di giustizia essa debba venire assegnata in uso all’E.N.A.L. provinciale di Treviso.
«Ghidetti, Pellegrini, Costantini, Bellusci, Tonello, Nobile, Zanardi, Montemartini, Crispo, Foa, Cevolotto».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
Così pure le interpellanze e la mozione saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.
E con ciò, cari colleghi, a rivederci al 9 settembre.
La seduta termina alle 19.30.