Come nasce la Costituzione

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GIOVEDÌ 31 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXI.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 31 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Damiani

Jacini

Giannini

Caroleo

Badini Confalonieri

Sforza, Ministro degli affari esteri

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Nenni

Gronchi, Relatore della maggioranza

Ruini

Orlando Vittorio Emanuele

Selvaggi

Corbino

Scotti Alessandro

Perassi

Bassano

Patricolo

Togliatti

Laconi

Condorelli

Votazione segreta:

Presidente

Chiusura della votazione segreta:

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Micheli

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni, interpellanze e mozione (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 9.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lombardi Riccardo.

(È concesso).

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviato risposte scritte ad interrogazioni presentate da onorevoli deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi.

Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

Restano da svolgere alcuni degli ordini del giorno presentati. L’onorevole Damiani ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, certa della rinascita dell’Italia nel nuovo clima di solidarietà internazionale, delibera di ratificare il Trattato per chiudere un triste periodo di errori, cui tutto il mondo concorse».

Ha facoltà di svolgerlo.

DAMIANI. Onorevoli colleghi, io sarò brevissimo; non parlerò più di dieci minuti.

PRESIDENTE. Sarà un esempio per gli altri.

DAMIANI. L’onorevole Sforza ha dichiarato che se entro il 10 agosto l’Italia non avrà ratificato il Trattato, corriamo il rischio di vedere ritardato di un anno il nostro ingresso all’O.N.U.

Chi ha sostenuto l’indipendenza dei due fatti non ha potuto dimostrare matematicamente il suo asserto. Tanto più che oggi i giornali pubblicano due nuove notizie che confortano la tesi favorevole alla ratifica. La prima ci fa sapere, secondo un portavoce del Foreign Office, che l’Unione sovietica subordina la ratifica dei trattati a quella preventiva degli Stati ex-nemici; la seconda riguarda il veto russo all’ammissione fra le Nazioni Unite degli Stati vinti che non hanno ratificato il rispettivo Trattato di pace. Quindi, di fronte a questa situazione, l’Italia non può assumersi gravi responsabilità verso il suo popolo, essendo per noi assolutamente necessario rientrare nella catena della piena e viva collaborazione internazionale.

Questa settimana di dibattito, che chiamerei settimana di passione e di dolore nazionale, ha rivelato al mondo l’alto senso di dignità e di realtà del popolo italiano. Le mutilazioni che ci impone il duro Trattato dobbiamo subirle come una imposizione che non possiamo respingere, ma il dolore dà al popolo italiano la forza di risollevarsi fidando nelle sue grandi risorse morali e di lavoro.

La revisione non potrà essere negata.

Noi non possiamo isolarci dal mondo, ma nemmeno il mondo può fare a meno dell’Italia.

Un russo, Giacomo Novicow, pubblicò nel 1902 un volume sulla missione dell’Italia. L’eminente sociologo, obiettivo analizzatore della fisiologia dei popoli, fu ardente amico dell’Italia, ne conobbe l’alto potenziale umanistico, scientifico, artistico, civile e sociale e nel quadro armonico che egli si fece di un mondo concepito a razionale e naturale unità di forze, disciplinate ed equilibrate al fine del bene comune, egli vide ed esaltò la nobile e feconda missione dell’Italia sia nel campo intellettuale, dato che essa fu madre del diritto, delle scienze e delle arti, ed è sempre nuova generatrice di alte e forti energie, di genio e di lavoro, sia nel campo internazionale per le sue possibilità di iniziativa per unire i popoli.

Il fervente federalista Novicow, venendo sulla strada già tracciata da Mazzini, fin dal 1900 si fece sostenitore di quella chiara, giusta e naturale teoria che oggi, rifiorita nel cuore di milioni di uomini, costituisce la più grande forza che lo spirito possa opporre al disordine e ad una miope politica di astuzie e di egoismi, che rinverdendo i decrepiti e anacronistici nazionalismi e imperialismi, condurrebbe il mondo a morte.

L’Italia – col Trattato o senza Trattato – è viva, vigorosa ed eterna.

Essa, non soltanto per il mutato clima dei tempi, ma per la sua debolezza militare, non ha più possibilità di intervenire con la forza in una politica che sulla forza fosse basata.

Noi siamo il popolo che più sentiamo l’attuale fase evolutiva verso un mondo ascendente all’unità, perché Iddio ci ha dotato di alto senso storico, politico, etico e sociale. Siamo il popolo più internazionalista. Noi abbiamo preso la via giusta delle due che sul bivio della storia invitano e tentano l’umanità alla salvezza o alla distruzione. Questa alta missione storica di fattore riequilibratore, di combattente per la pace, di sollecitatore di soluzioni armoniche tra le forze contrapposte, di avvicinatore delle parti divise da un complesso di malintesi di carattere ideologico ed economico, questo alto compito umano di suscitatore di un sano ottimismo, mentre rauche e livide si fanno le lingue pessimistiche che annunciano un nuovo cataclisma, proprio dall’Italia deve essere esplicata con la virtù del suo spirito vibrante di ideale e di saggezza.

Cosa rimane a noi se non la forza della nostra volontà, della nostra energia, capacità, intelletto, sensibilità, lavoro?

Questo oscuro trattato segnerà il limite di una triste epoca, limite fino al quale la mentalità di un cupo medioevo ha potuto spingersi.

Esso sarà superato certamente dall’avvento delle forze del bene che stanno fiorendo e germogliando in tutti i continenti.

Occorre aver fede in un avvenire migliore. I popoli tendono a unirsi e si uniranno, e i dettagli della situazione presente, che oggi tanto ci affliggono, saranno le briciole di un triste passato che la nuova era di luce disperderà definitivamente.

A Londra, nel febbraio scorso, 72 membri del Parlamento britannico si pronunciarono a favore di una federazione mondiale.

Truman, il 4 luglio, invita e sospinge alla solidarietà internazionale.

«Noi dobbiamo mirare – egli afferma – non ad assicurare la pace per il nostro tempo, bensì la pace per tutti i tempi a venire».

Perón, nel suo discorso del 6 luglio, rivolge un caldo appello a tutti i popoli perché la nuova fede federalista mondiale li illumini e li guidi.

Marshall sollecita la ricostruzione economica dell’Europa su un piano di generale concorso di tutte le forze europee per l’instaurazione di un nuovo ordine continentale.

Ai Paesi che ancora non hanno partecipato ai lavori preliminari per la definizione del piano sarà incessantemente ripetuto l’invito e tutti si augurano la collaborazione dell’Oriente europeo alla formazione della nuova struttura comune per tutti i popoli civili.

Coudenhove-Kalergi ha riunito, il 4 luglio, i parlamentari di quasi tutti i Paesi europei a Gstaad per la costituzione di un libero Parlamento europeo, e l’8 settembre i deputati di molte nazioni torneranno a riunirsi in un grande congresso nella stessa Gstaad.

L’Italia ha dato il maggior numero di adesioni all’iniziativa di Coudenhove-Kalergi: 310 sono stati i deputati italiani che hanno risposto sì al suo primo quesito se erano favorevoli ad una Federazione europea.

Oltre 200 sono i deputati italiani che costituiscono il gruppo parlamentare per la Unione Europea.

Dal 17 al 24 agosto, con la partecipazione di oltre 20 nazioni, di tutti i continenti, avrà luogo a Montreux un congresso per l’Unione Mondiale e dal 27 al 30 agosto un secondo congresso per l’Unione Europea.

All’Università internazionale di Lugano dal 31 agosto al 28 settembre avrà luogo un corso di «Educazione alla pace e alla cooperazione dei popoli».

In tutto il mondo fioriscono movimenti federalisti e se ne incontrano decine in ogni Paese. Recentemente in America, è stata calcolata al 67 percento la popolazione favorevole ad un Governo Mondiale. In tutto il mondo si pubblicano libri sulle possibilità reali di una Federazione mondiale.

Reves, nella sua «Anatomia della pace» scrive:

«La credenza diffusa che sia impossibile qualsiasi ordine legale unificato tra l’Unione Sovietica e le Democrazie occidentali a causa delle differenze fondamentali nei loro sistemi economici, non è più valida del pregiudizio vecchio di secoli che cattolici e protestanti non possano vivere pacificamente nella stessa comunità.

«I conflitti tra Stati sovrani sono inevitabili non a causa di differenze nei loro sistemi sociali-economici, ma a causa del potere sovrano non integrato delle unità sociali divise».

L’onorevole Nobile, nel suo recente libro L’Umanità al bivio, conclude che il sistema delle sovranità nazionali è oggi il nostro peggiore nemico: «Occorre lottare strenuamente contro esso e il disordine economico, che ne è conseguenza, per far trionfare sullo spirito dei gretti, malefici, feroci nazionalismi quello della solidarietà fra tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro razza, religione, cultura».

L’O.N.U. e le organizzazioni internazionali derivate: U.N.E.S.C.O., F.A.O., U.N.R.R.A., e tante altre per il potenziamento sul piano mondiale delle più sane forze culturali sociali ed economiche, sono il preludio della nuova storia.

Se in ogni paese si indicesse un referendum sulla Federazione Mondiale, il risultato sarebbe senz’altro positivo. I popoli debbono essere coscienti della loro qualità di protagonisti della storia e devono determinare i fatti positivi che generano la pace e l’armonia. Noi dobbiamo credere, fermamente credere nel valore e nella forza dello spirito, che Dio ha dotato di virtù sublimi, se vogliamo risollevarci dal dolore ed operare in pro dell’umanità umiliata ed affronta, che soffre e che spera.

Il sospetto, l’ipocrisia e l’egoismo immiseriscono e distruggono; essi debbono esser vinti dalla comprensione e dalla fede.

Roosevelt disse: «Le Nazioni Unite vogliono lavorare all’instaurazione di un ordine internazionale nel quale lo spirito di Cristo guidi i cuori degli uomini e delle Nazioni». L’Italia vuole entrare nell’O.N.U. appunto per adempiere, alla luce di quel principio, l’alta missione cui è particolarmente chiamata. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Jacini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, mentre rinnova la più viva protesta contro le clausole del Trattato di pace, che disconoscono l’apporto decisivo recato dal Corpo di liberazione e dai Partigiani italiani alla causa comune, delibera di autorizzare il Governo a dar piena esecuzione ai Trattato medesimo, non appena esso entri in vigore a termini dell’articolo 90».

Ha facoltà di svolgerlo.

JACINI. Onorevoli colleghi, il doloroso episodio che ha chiuso la seduta di ieri ha confermato quella che era in me opinione già radicata; e cioè che tutta questa discussione avrebbe dovuto, per carità di patria, essere impostata diversamente. Noi non potevamo certo pretendere che una parte dei nostri colleghi si adagiasse all’opinione dell’altra per amore di unità esteriore, per formare una specie di fronte unico dinanzi allo straniero; ma ben potevamo imporre a noi stessi un contegno così sobrio, un’argomentazione così contenuta e castigata, una manifestazione così moderata dei nostri dissensi, da dare a tutto il mondo una manifestazione di quella sostanziale solidarietà di idee che è pure in noi quando, di comune accordo, riteniamo tutti ingiusto e difficilmente sopportabile questo Trattato che ci viene imposto.

Purtroppo non è stato così. Purtroppo i dissensi si sono manifestati con una violenza e con una incoerenza davvero deplorevoli; onde a me non resta che trarne per mio conto questo proposito, di mantenere le mie brevi parole entro limiti tali, da non riaccendere un nuovo contrasto, da non offrire di nuovo uno spettacolo, alla Nazione e al mondo, così diverso da quello che la Camera italiana avrebbe pur dovuto presentare.

Io noto, con qualche stupore, una certa diversità di impostazione fra coloro che sostengono una stessa tesi, e cioè la tesi della non ratifica o della non immediata ratifica del Trattato.

Tra le parole del senatore Croce e quelle di altri colleghi, specie di questa parte dell’Assemblea (Accenna a destra), mi è parso infatti di notare un sostanziale e profondo divario, anche se le conclusioni erano in apparenza uguali. Nelle parole di Benedetto Croce vibrava una contenuta passione, una protesta fondata su ragioni morali; protesta alla quale tutti i settori di questa Assemblea non possono che aderire, anche se molti di noi non ne traggono quelle conseguenze politiche che al senatore Croce è piaciuto di trarne. Ma, sull’insieme della sua argomentazione, ripeto, non poteva esservi dissenso.

Invece, da qualche altra parte dell’Assemblea hanno riecheggiato rimpianti, che non mi sembrava dovessero udirsi in quest’Aula. Mi è sembrato, cioè, che da alcuni si rimpiangesse, non tanto o non soltanto il prezzo troppo duro pagato per la sconfitta, l’ingiustizia della pace che ci viene imposta, ma proprio la sconfitta medesima; quasi che fosse pensabile, quasi che fosse sopportabile alla mente di un Italiano che il conflitto potesse avere un esito diverso da quello che effettivamente ha avuto.

Onorevoli colleghi, io sono stato due volte, durante l’ultima guerra, richiamato in servizio militare, ed ho fatto il mio dovere di soldato, di ufficiale e di gentiluomo. Ma non è mai venuta meno in fondo al mio animo la convinzione che la guerra era perduta, che la sconfitta era inevitabile, che la sconfitta era necessaria; necessaria per quella fatalità, per quella giustizia immanente della storia, la quale non è se non l’estrinsecazione della giustizia trascendente di Dio.

Vi sarebbe stato, o signori, qualcosa di assai più grave della sconfitta; la situazione sarebbe oggi assai più grave di quella davanti alla quale ci troviamo, se, anziché la sconfitta noi avessimo avuto la vittoria delle potenze del male, e se a quella vittoria noi fossimo rimasti, in qualche misura, associati. (Applausi). Quando da parte di qualcuno si dice che la nostra cobelligeranza doveva essere negoziata, ciò può corrispondere ad una esatta, se pur miope visione della contingenza momentanea; ma non dimentichiamo che la cobelligeranza era per noi un diritto prima che un dovere, e soddisfaceva ad una nostra profonda aspirazione. Tutto quello che possiamo rimpiangere è che essa ci sia stata concessa troppo tardi ed in misura troppo ristretta. Moralmente la cobelligeranza non poteva essere negoziata, perché rispondeva ad un postulato fondamentale della coscienza italiana. E quando l’onorevole Patrissi dice che la guerra del 1915 e la guerra del 1939 sono sostanzialmente una cosa sola e rispondono ad un medesimo piano nazionale, egli – mi pendoni la parola forse un po’ forte – pronuncia una bestemmia, perché la guerra del 1939, nello spirito che l’ha animata come nei risultati che ha conseguito, è stata l’antitesi e la distruzione della guerra del 1915. La guerra del 1915 è guerra alla quale tutto il popolo italiano ha partecipato con le più profonde radici del proprio spirito; la guerra del 1939 è guerra che il popolo italiano ha condotto per un semplice concetto di onore militare, ha subito come una dolorosa necessità, e che ha profondamente rimpianto di dover condurre; onde i risultati sono stati quelli che dovevano necessariamente corrispondere ad uno stato d’animo siffatto.

Comunque, i vincitori ci obbligano oggi a pagare per questa guerra uno scotto che è indubbiamente sproporzionato, perché non tiene conto dell’apporto considerevole e concreto che alla risoluzione finale del conflitto hanno dato le nostre forze militari organizzate ed i nostri partigiani.

Onorevoli colleghi, se lo scotto è così alto, gli è perché i nostri nemici di ieri sentono ancora nelle carni il danno positivo che noi abbiamo loro inflitto; è perché il nostro esercito, trascinato in una guerra che non voleva, si è tuttavia battuto con strenua abnegazione; le nostre fanterie, accompagnate da carri armati di modello antiquato, hanno fatto tutto il loro dovere; le nostre artiglierie, con un armamento anacronistico, hanno sparato giusto; la nostra marina, cieca, priva di una propria aviazione, priva di porta-aerei, si è tuttavia battuta su tutti i mari; la nostra aviazione, alla deficienza di materiali ha supplito con la mirabile abnegazione dei suoi uomini. Io vorrei che sulle tombe ignorate dei nostri soldati caduti, dalle sabbie infuocate dell’Egitto alle steppe gelate della Russia, fiorisse la riconoscenza della Patria; che si potesse incidere su quelle tombe ciò che Luigi I di Baviera volle scolpito sulla stele, che a Monaco ricorda il sacrificio dei bavaresi caduti combattendo nelle schiere napoleoniche nella campagna di Russia: «Auch sie starben für’s Vaterland»: «anch’essi sono morti per la Patria». (Approvazioni).

Questo valore del nostro esercito, questa efficienza della nostra offesa, è stata riconosciuta dal maresciallo Alexander, dal generale Clark, dall’ammiraglio Cunningham e da molti altri; e noi possiamo ben accontentarci di queste testimonianze di ex nemici divenuti amici, e respingere come immonda, con la punta dei nostri stivali, l’oscena accusa formulata in un noto discorso del signor Wischinski, camuffata ed edulcorata poi dalle interpretazioni di una ufficiosa agenzia; la quale peraltro si è dimenticata di includere nella smentita la prima frase, che io non voglio ripetervi qui per carità di Patria e per rispetto di me medesimo; frase che crea fra noi e l’amico popolo jugoslavo un diaframma, che non sarà allontanato se non il giorno in cui la frase stessa verrà ritirata o smentita.

Questo debito che gli alleati ci impongono di pagare, noi l’abbiamo riconosciuto. La necessità della ratifica è stata, su proposta dell’onorevole Nitti, votata all’unanimità dalla Commissione dei Trattati. Noi abbiamo, in un primo tempo, autorizzato l’ambasciatore di Soragna ad apporre la propria firma al Trattato di pace; successivamente abbiamo votato a maggioranza in seno alla Commissione dei Trattati in favore della ratifica, e abbiamo consegnato tale voto, e guisa di viatico, nelle mani del nostro Ministro che si recava a Parigi. Che cosa dovrebbe ora spingerci a non ratificare? Quali vantaggi possiamo riprometterci da una non ratifica?

Il solo fatto che secondo alcuni può consigliarci a non ratificare è questo, che la Russia sinora non ha ratificato: la Russia, notate bene, cioè la sola fra le Potenze vincitrici, che alla nostra domanda di revisione abbia risposto con un no secco ed assoluto, ammonendoci che bisognava sottostare in qualsiasi modo alle condizioni imposteci, perché il Trattato, così com’era, rappresentava quanto di meglio l’Italia potesse attendersi in ogni caso.

Ed è proprio per aspettare la ratifica della Russia che noi dovremmo sospendere un atto libero della nostra volontà? (Commenti a sinistra).

La ratifica che cosa significa? Significa uscire dalle condizioni precarie in cui ci troviamo oggi; liquidare, sia pure a prezzo caro ed ingiusto, il nostro debito; sederci dall’altra parte del tavolo, entrare nel novero dei popoli creditori.

Perché dovremmo rimandare dunque la ratifica?

Non per ragioni giuridiche, perché il carattere coatto di questa pattuizione è nella sua stessa natura; trattato viene da trattare, e questa pattuizione non è stata trattata, quindi il Trattato è di per sé stesso coatto, indipendentemente dalla ratifica che noi possiamo o non possiamo apportarvi.

Non per ragioni pratiche, perché la clausole alle quali il Governo sottopone la ratifica fanno sì che essa non divenga operante se non il giorno in cui vi sia il concorso da parte di tutte le potenze vincitrici. Quindi quelli che potrebbero essere i temuti inconvenienti di una ratifica data in anticipo sono a priori eliminati dalla cautela di tale formula.

Non, infine, in attesa di non so quale sperabile evento: ma quale evento? Si dice che vi sia una probabilità su un milione che esso si verifichi. Ma io anche questa probabilità non la vedo e, per la natura stessa dell’atteggiamento che andiamo ad adottare, ove una simile ipotesi si verificasse, ebbene, noi saremmo ancora in tempo a tornare a discutere sull’argomento; questa nostra ratifica in realtà non è tale ma si riduce ad un’autorizzazione, data al Governo, di procedere alla ratifica quando si siano verificate determinate circostanze.

Si parla infine di fierezza nazionale: in questi giorni si è molto abusato di questo motivo. Ma io domando se vi sembri che vi sia da parte nostra maggior fierezza nel pagare, nel gettare sul tavolo il prezzo del nostro debito, o se ve ne sia una maggiore ne1 piatire indefinitamente, per qualche mese o per qualche anno, in attesa di un indeterminato evento o di un supposto mutamento di spirito da parte di taluno dei nostri vincitori.

Io ritengo che la fierezza stia in questo caso, nel porre la parola fine sotto i nostri debiti e nel portarci dall’altra parte della barriera.

La verità è che tutti quanti – e non soltanto da quei banchi (Accenna a sinistra)tutti aspettano la parola di Mosca. Non hanno impressionato l’onorevole Orlando gli applausi scroscianti che hanno da quel settore accompagnato le sue più accese formulazioni nazionalistiche? Ha pensato l’onorevole Orlando se quegli applausi vi sarebbero stati, e quali sarebbero stati, ove invece della ratifica della Russia si attendesse, poniamo, la ratifica dell’Inghilterra o quella degli Stati Uniti? Molto probabilmente i consensi sarebbero diventati dissensi, e la situazione in quest’aula sarebbe stata completamente cambiata. (Approvazioni al centro).

Io voglio ricordare qui un episodio, che farà piacere molto probabilmente ai miei amici comunisti, in quanto è tratto da quella storia della Russia zarista che la storiografia ufficiale sovietica ha completamente incorporata e fatta propria. Nel cosiddetto periodo «dei disordini», che va dalla morte di Ivan il Terribile all’assunzione del potere da parte di Pietro il Grande, un’ambasceria moscovita venne in Italia e si fermò anche a Firenze, nella Firenze medicea del secolo XVII. Ebbene, il più grande stupore – ci dicono le cronache – il più grande stupore che quei barbuti ambasciatori abbiano provato, proveniva dal vedere come il Granduca mediceo non si prosternasse a terra e non battesse la fronte sul tappeto al solo udir pronunciare il nome dello zar. Amici, ho paura che vi sia molta gente in Italia che, in ritardo di tre secoli, pensa ancora come quegli ambasciatori moscoviti! (Commenti a sinistra). È un’opinione, basata su un dato storico; ci sono dei curiosi ricorsi nella storia!

Onorevoli colleghi, io non voglio abusare del tempo vostro e dell’Assemblea; voglio dire soltanto questo: l’Italia oggi chiude la partita per iniziare la sua faticosa ascesa. Nella storia millenaria del nostro Paese ricorrono gli episodi di questo genere; cadute alle quali succedono lunghi periodi di ricostruzione e di palingenesi. Se qualcuno di voi vorrà prendersi la briga di sfogliare gli annali del Parlamento subalpino dopo la sconfitta di Novara, dopo il 1849, troverà una situazione psicologica molto vicina alla nostra attuale. Anche allora erano forti i dissensi, anche allora vi erano alcuni che non volevano accettare il fatto compiuto a nessun patto, che avrebbero voluto una resistenza senza scopo e senza contenuto. Anche allora vi furono uomini cauti e prudenti che vollero invece accettare il fatto compiuto; e badate: il fatto compiuto significava allora consegnare all’Austria le chiavi di casa – le chiavi della fortezza di Alessandria – consegnare allo straniero – come purtroppo oggi avviene – alcuni punti vitali della nostra frontiera; ma da quel momento era pur possibile intraprendere, in un’atmosfera di serenità austera e di concentrata volontà, la ricostruzione morale e materiale del Paese.

Questa è la situazione in cui l’Italia si trova attualmente, questa è l’opera alla quale ci accingiamo; per attendere alla quale abbiamo bisogno di porre la parola fine a questo disgraziato e deprecato conflitto, in cui la frenetica volontà di un uomo ci ha spinti, e avviarci a quella lenta e faticosa ricostruzione che darà al nostro Paese un avvenire, non certo roseo né florido, ma un avvenire degno delle nostre grandi e millenarie tradizioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Giannini ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, ritenendo non urgente la discussione sulla ratifica del Trattato di pace, la rinvia a data da destinarsi».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi avevamo chiesto di non discutere la ratifica del Trattato di pace. Alla prima proposta fatta in questo senso dall’onorevole Orlando noi ci associammo facendo nostra quella proposta e chiedendo che su di essa si svolgesse con urgenza la votazione. Avemmo il consenso di altri partiti coi quali di solito non ci troviamo d’accordo.

Sventuratamente, quella proposta non fu approvata e ciò che noi avevamo previsto è accaduto. Avevamo previsto che la discussione sul Trattato di pace non si poteva fare, e non si poteva fare perché è una discussione nella quale tutti possono avere ragione, nella quale tutti possono portare ragioni valide a sostegno della propria tesi. È un discussione che si fa mentre ancora le ferite da ogni parte riportate bruciano, mentre i rancori sono ancora recenti, mentre le delusioni e i dolori ancora stringono il nostro cuore forse più della miseria che ci opprime.

In queste condizioni di spirito, le quali non sono soltanto quelle dell’Assemblea ma quelle dell’intero Paese, non era possibile, e non è stato possibile, condurre una discussione serena sul Trattato di pace. Ciò che è avvenuto lo prova. Noi prendiamo amaramente atto del fatto di avere avuto ragione a proporre quanto avevamo proposto.

Che la discussione sulla ratifica del Trattato fosse difficile e dovesse necessariamente trascendere, ne abbiamo avuto le prove durante tutta la discussione, alla quale io personalmente ho invano tentato di sottrarmi, andando perfino a curare le avventure e le sventure di una crisi comunale di una grande città italiana, quasi a provare che ritenevo più importante la soluzione di un problema amministrativo locale che non quella che – senza offesa per nessuno – mi permetto di chiamare logomachia intorno ad un fatto che può essere modificato solamente da circostanze e da forze che sono estranee a noi; e non da noi, né dalle nostre parole né dai nostri rancori né, soprattutto, dalle nostre lotte che ci fanno assomigliare ai polli di Renzo che si beccavano l’un l’altro credendosi scambievolmente autori del proprio martirio.

Noi abbiamo avuto una prova della pericolosità di questa discussione ieri, ascoltando un grande parlamentare verso il quale la nostra reverenza non è mai mancata; ne abbiamo una prova oggi ascoltando l’onorevole Jacini, il quale è arrivato al punto di dire che la sconfitta dell’Italia era necessaria. Onorevole Jacini, mi onoro di non essere della sua opinione; e, per quanto mi costi, e per quanto io abbia pagato, tengo a dire a lei e agli altri colleghi di questa Assemblea che a qualunque costo io avrei preferito la vittoria dell’Italia alla sconfitta.

Mi rendo conto che da tutte le parti della Assemblea possono essere lanciate accuse e tutte con fondamento. Possono esserci accuse alla borghesia. Onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, fate bene ad accusare la borghesia. Noi facciamo bene a difenderla e a ricordare che le cause che hanno travolto spiritualmente la borghesia italiana hanno trovato anche nel vostro disorientamento dei fondati motivi. C’è chi accusa la monarchia: a ragione, perché la monarchia ha commesso gravissimi errori; ma i monarchici hanno anche essi ragione, quando oppongono circostanze, uomini, fatti a suffragio della loro tesi. In queste condizioni, noi non dovevamo discutere il Trattato di pace il quale, onorevole Sforza – lei sa la deferenza che ho per lei – non è la condanna di un regime, ma è solo la sconfitta di un popolo militarmente più debole: e niente altro che questo.

Ci si parla di collaborazione internazionale che potremmo esercitare ratificando, e non esercitare non ratificando. Io mi permetto di ritenere che la collaborazione internazionale, se noi non la volessimo, dovremmo fornirla lo stesso; e se la volessimo e non la volessero gli altri, noi non la otterremmo.

Mi sembra opportuno che si rettifichi in quest’Aula, almeno dalla mia povera voce, un’affermazione dell’onorevole Conte Sforza, cioè che noi ci siamo estraniati dalla vita internazionale, che abbiamo voluto essere soli in un superbo isolamento diplomatico, durante 22 anni.

No, onorevole Sforza! Noi abbiamo aderito a un altro blocco. Questo blocco ha perduto; noi ne paghiamo le conseguenze. Non si può dire che un popolo era isolato, unicamente perché non andava con certi paesi. Isolamento c’è quando si è soli, non quando si è in compagnie che possono non essere gradite a una parte del mondo, la quale ha ragione unicamente perché ha vinto e non perché sia depositaria della virtù, della giustizia e di tutta la somma degli altri lucenti valori umani.

Mi basta ricordare un solo fatto: noi abbiamo avuto durante il periodo della dittatura nazista una ignobile persecuzione contro un popolo: il popolo ebreo. Oggi questa persecuzione continua nelle medesime forme, con la medesima mancanza di pietà, con il medesimo ritmo: esercitata semplicemente da altri uomini, da altri popoli, i quali fino a pochi anni fa condannavano quella persecuzione, combattevano per essa e hanno fatto combattere per essa tutto il mondo.

Ciò vi prova, onorevoli colleghi, che non esiste un gruppo di Nazioni che si sia battuto per la civiltà e per il progresso contro un gruppo di nazioni che si siano battute per l’anticiviltà e per l’antiprogresso.

Non esiste, onorevole Jacini, un gruppo di nazioni che rappresenti il bene, e un gruppo di nazioni che rappresenti il male; esistono gruppi di nazioni che hanno contrastanti interessi, e in questo contrasto i più forti vincono. Noi abbiamo perduto; accettiamo la sconfitta, ma al di sopra della nostra sconfitta deve risplendere la nostra dignità e il nostro onore, a cui noi non rinunceremo mai.

Questo è quello che io ed i miei amici sentiamo il bisogno di dire. (Applausi a destra).

A noi non interessa la revisione del Trattato di pace che ci si promette come un premio. Noi non ci lasciamo illudere da questi specchietti per allodole assonnate. Noi vogliamo sapere in che cosa consiste la revisione.

Che cosa è questa revisione? Quali diritti ci darà questa revisione? Ci restituiranno le nostre colonie? Ci restituiranno la nostra flotta? Ci daranno che cosa? Noi vogliamo sapere che cosa è la revisione, perché siamo stati già ingannati sulle libertà che hanno detto ci avrebbero date e non ci hanno date, sulla libertà di stampa, di pensiero, sulla democrazia che ci hanno promessa! Tutte le promesse che ci hanno fatto si sono rivelate in pratica nient’altro che trucchi, nient’altro che turlupinature. Noi non vogliamo essere turlupinati anche sulla revisione e chiediamo ci si dica in che cosa consiste questa revisione.

A questo punto, m’incombe l’obbligo di accennare a quella che è effettivamente la ratifica del Trattato di pace, secondo la mia interpretazione personale, interpretazione che non deve compromettere nessuno, se non me.

Io la darei questa ratifica e la darei perché non ha nessuna importanza. Il Trattato di pace, onorevoli colleghi, non è una conclusione, come molti ritengono. Il Trattato di pace, così come è concepito, così come è fatto, così come appare, è un punto di partenza non un punto di arrivo.

La conclusione noi l’abbiamo avuta con la catastrofe militare, perché solamente quella conta. Se avessimo vinto, altro sarebbe stato il linguaggio che si sarebbe sentito in questa Assemblea, altre sarebbero state le opinioni in tutti i Paesi del mondo. Ma probabilmente uguali sarebbero state le infamie e le sopraffazioni che si compiono oggi a opera dei più forti contro i più deboli, degli armati contro gli inermi.

Il Trattato di pace, per me, non significa niente.

Io non mi sarei degnato di discuterlo. Non ritengo necessario incomodare un maestro come Vittorio Emanuele Orlando per dimostrarci che questo Trattato è sballato ed ineseguibile, che non sarà eseguito, non solamente perché noi non lo eseguiremo, ma perché gli altri contraenti non saranno in condizioni di imporcene l’esecuzione.

Non c’era bisogno di incomodare Vittorio Emanuele Orlando per dimostrare l’antigiuridicità del Trattato, tutto il suo assurdo concettuale, e mi permetto di dire anche letterario. Sarebbe bastato l’ultimo mozzorecchi delle nostre Preture, il meno diligente fra gli allievi dei nostri Licei, per trovare in quel miserabile documento di rancore e di odio tutti i difetti che le nostre menti più elevate vi hanno trovato.

Senonché, la ratifica di questo Trattato si è posta come un problema d’una gravità tale che l’approvazione o non approvazione di esso involge gravissime responsabilità politiche. Ed è qui che io desidero dire al Presidente del Consiglio qualche parola, oserei dire, quasi in segreto, a quattr’occhi: perché è stato presentato nel modo come è stato presentato il decreto sulla ratifica del Trattato? L’onorevole Presidente del Consiglio sapeva di poter contare su amici sicuri che nulla gli hanno chiesto e nulla gli chiederanno mai, salvo il piacere di poter collaborare con lui da lontano e senza splendore alla sua opera politica. Ma si è reso conto l’onorevole De Gasperi che egli ha messo in imbarazzo i suoi amici, ed i suoi amici migliori, in questa discussione sulla ratifica: perché anche i partiti politici sono composti di uomini, e dietro i partiti politici c’è una Nazione, e in questa Nazione c’è gente che soffre non solamente la fame materiale, ma la fame spirituale, che ha dei rancori, che ha degli odî, che avrebbe delle vendette da compiere? Come ha fatto l’onorevole De Gasperi – lui così accorto in politica – a non rendersi conto che non avrebbe potuto avere l’appoggio di chi avrebbe voluto anche darglielo in questa sua impresa? Egli, rispondendo ieri all’onorevole Orlando, ha parlato della sua buona fede, della buona fede dell’onorevole Sforza. Chi ha messo in dubbio questa buona fede? C’è stato forse qualcuno che ha accusato gli onorevoli De Gasperi e Sforza di ritrarre vantaggi personali dalla ratifica? Non ho udito queste parole, e se le avessi udite avrei protestato. Si tratta di buona fede politica, caro onorevole De Gasperi, ed è veramente strano, paradossale addirittura, che l’ultimo venuto nella politica come me, debba dire a lei, che è un consumato politico, che non basta essere in buona fede: bisogna anche smembrarlo.

L’onorevole Orlando ha detto ieri una frase che ha rinfocolato le passioni che si riflettono in quest’Assemblea. Ripeto la sua frase perché è necessario spiegarne l’intimo significato. Io non ho avuto il piacere di vedere l’onorevole Orlando da ieri sera; parlo quindi a nome esclusivamente mio, e non desidero si pensi che io voglia spiegare quello che egli ha detto e che non ha bisogno di interpretazioni. Ma darò la mia personale interpretazione. Egli ha parlato di cupidigia del servilismo, di cui sarebbero affetti gli uomini i quali vogliono andare incontro senza nessuna necessità al desiderio degli stranieri. Bene, in tutto quello che questa frase non ha di ingiurioso e di personale – e non può averlo, perché l’onorevole Orlando è innanzitutto un avversario cavalleresco – io voglio dire che in qualche parte di questa frase io vorrei solidarizzare; in quella parte che vuol dire non cupidigia del servilismo – forse letterariamente non è una delle frasi più felici – bensì quella «voluttà del martirio» che ha esaltato molti e grandi uomini politici italiani, una «mentalità di colpa». Noi ci siamo presentati non soltanto nelle assise internazionali, ma anche nelle nostre intime riunioni, come dei colpevoli; abbiamo tenuto ad avere la corda al collo.

Siamo arrivati all’assurdo, liquidato alcuni giorni fa, d’accusare un funzionario italiano, un tal Cortese, d’aver fatto assassinare re Alessandro di Serbia ed il Ministro Barthou a Marsiglia alcuni anni fa! Per questo peccato, che non ha commesso, il funzionario è rimasto in prigione alcuni anni. Non è del funzionario che mi preoccupa, perché isolatamente noi possiamo sempre essere chiamati al martirio, e c’è anche chi è pronto a questa eventualità. Voglio dire che noi abbiamo messo sotto processo l’Italia, mettendo sotto processo questo signor Cortese, del quale era la prima volta che io sentivo fare il nome. Noi abbiamo coinvolto l’Italia in questo assassinio. Perché? Per voluttà di martirio, per mentalità di colpa; perché noi non abbiamo potuto e saputo liberarci di quella maledetta mentalità di Guelfi e di Ghibellini, di Palleschi e di Piagnoni, di Pazzi e di Barbi, i quali da secoli dividono gli animi e i cuori degli italiani. Ed anche oggi, di fronte al nemico (il quale non ci considera, non ha paura di noi, il quale ci calcola semplicemente come una pedina nel suo giuoco, da muovere come gli pare, quando gli pare, secondo il suo interesse, non il nostro, non guidato da nessun sentimentalismo, ma unicamente dal senso dei suoi affari) noi anche oggi diamo lo spettacolo di questa divisione; e anche nella discussione del Trattato di Pace abbiamo ancora combattuto tra fascismo e antifascismo, i due eterni termini antitetici, che, da quando è caduto l’impero Romano, si ripetono in Italia sotto nomi sempre diversi, ma che sono sempre espressione di quella nostra maledetta mentalità settaria, della quale non riusciamo a liberarci.

Ora, se un rimprovero io devo fare al Governo – non solo a questo ma anche a quelli che lo hanno preceduto; ed il mio rimprovero risale al 1914 – questo rimprovero è la voluttà di martirio, è la mentalità della colpa, della quale ci accusiamo sempre, al cospetto degli stranieri, che sono tutti nemici e lo saranno sempre, principalmente perché essi non potranno mai dimenticare di avere avuto in noi i loro maestri e i loro padroni.

Voglio dire che a questa colpevolezza che parte da noi, vuole attribuirsi, a questo martirio, che parte di noi vuole volontariamente abbracciare, in cambio di nulla, perché non abbiamo nemmeno la speranza del Paradiso – per i martiri politici non c’è Paradiso – noi ci opponiamo con tutta la nostra forza di uomini nuovi che respingono ogni responsabilità col passato. Noi dobbiamo affermare che in Italia non c’è nessuna colpa da purgare, non c’è nessun onore da riconquistare; non c’è che un errore da pagare, una sconfitta di cui subire le conseguenze.

Non c’è altro che questo. Noi non abbiamo mandato né abbiamo finanziato in Russia le spedizioni dei Gramschwell, di Denikin, di Wrangel, di Koltciak, di Iudenick. Noi, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, non abbiamo fatto lo sbarco ad Arcangelo per strozzare in fasce la rivoluzione bolscevica. Noi siamo stati il primo Paese del mondo che ha riconosciuto la Russia Sovietica e se la Russia Sovietica è stato il primo Paese del mondo che ha riconosciuto il Governo Badoglio, onorevole Togliatti, ha compiuto un gesto, un simpatico gesto di restituzione. Noi non abbiamo responsabilità, oltre quelle che ci sono state imposte dalle necessità.

Si parla dell’autarchia. Io credo che tutti in questa Assemblea sanno cosa ho fatto io sotto il fascismo per non fare politica. Ho fatto canzonette e ho scritto commedie gialle: ho avvilito la mia penna, che pur valeva qualcosa, come si è dimostrato in seguito, in fatiche ancora più mercantili, perché non sapevo capire, non riuscivo a capire quella politica. Spero che non mi sarà rivolta una accusa di filofascismo, e se mi sarà rivolta risponderò come potrò. Noi abbiamo avuto un’autarchia fascista, che è stata la vera causa determinante della guerra. I popoli produttori se ne infischiano di come si saluta in Italia. Non hanno alcun interesse a farci salutare col braccio teso o col pugno chiuso, a farci portare la camicia nera o azzurra, la camicia rossa o grigia: essi, al massimo, sperano di venderci quelle camicie e di farcele pagare a caro prezzo. (Commenti).

L’autarchia è stata voluta dal fascismo; ma perché? Chi ci ha imposto l’autarchia se non i paesi ricchi, che hanno chiuso le porte alla nostra emigrazione di poveri, ai nostri operai che andavano in cerca di lavoro perché in Italia non ne trovavano? I paesi ricchi hanno sprangato le loro porte a questa fiumana di lavoratori, che pure nel secolo scorso accolsero e sfruttarono per creare la loro civiltà. E li hanno respinti con questa scusa magnifica: noi non possiamo abbassare il nostro regime interno ed il nostro tenore di vita. Hanno tenuto alti i tenori, e hanno cantato finché hanno voluto. Poi hanno dovuto entrare nella guerra, e hanno dovuto rimetterci quello che ci hanno rimesso, e che ci rimetteranno ancora di più in futuro perché, essi, che hanno distrutto il mondo col loro egoismo, oggi debbono ricostruirlo, perché altrimenti morranno anch’essi di fame. (Commenti).

Questo avrei voluto sentire e non ho sentito in questa discussione, che non volevo e che mi è costata lotte anche con i più cari amici ai quali ho invano tentato di spiegare che noi non dovevamo immischiarcene. Avrei voluto almeno sentire una voce contro la continua truffa che ci è stata fatta in nome delle «Carte Atlantiche» e su tante altre promesse sballate, vili e menzognere, con le quali si è avvelenata l’opinione pubblica italiana e mondiale. Questo era il compito della nostra politica estera, perché quando si perde una battaglia, come quando si perde una partita, non si perde mai tutto, rimane sempre qualche cosa.

Oh! Se ci fossimo costituiti come i difensori, gli avvocati degli sconfitti, se avessimo gridato ogni giorno i nostri diritti e avessimo ogni giorno e ogni minuto richiamato i vincitori alle loro promesse e detto: Voi avete vinto perché ci avete promesso le quattro libertà, che ora non ci date; voi avete vinto perché ci avete promesso l’indipendenza che oggi ci negate; voi avete vinto perché ci avete promesso le materie prime che ora non ci volete dare! Ogni giorno, ogni minuto avrebbero potuto essere ripetute queste accuse. E queste accuse non sono state fatte, perché noi abbiamo avuto uomini che non hanno avuto il coraggio di rimanere un giorno solo Ministri, il tempo strettamente necessario per pronunciare questa protesta, e quindi esser cacciati dagli alleati. Questo è quello che non è successo e che avrebbe dovuto succedere. (Applausi).

Onorevoli colleghi, io sono profondamente rattristato di dover dire questo; profondamente rattristato, perché sono convinto che la discussione di un Trattato di pace non è un affare di famiglia. È un affare che la famiglia fa in presenza dello straniero, il quale è sempre e spiritualmente presente. In presenza degli estranei le famiglie per bene non si strappano i capelli e non lavano i panni sporchi. È questo purtroppo che noi abbiamo fatto e che continueremo a fare, se non rinvieremo questa discussione e non aspetteremo un giorno, una settimana, un mese, un anno (che importa) che si creino le condizioni più favorevoli all’approvazione del Trattato di pace, che può essere fatta, come ho già avuto l’onore di proporre, da undici deputati, uno per Gruppo, senza discutere, dando a questa approvazione il significato che deve avere, e non facendo a coloro che si sono macchiati di vergogna nell’imporci questo Trattato, l’onore di una discussione che noi giuristi, anche se non abbiamo compiuto gli studi regolari di giurisprudenza, siamo in grado di demolire, come si demolisce un castello di carte.

Questo è quello che avevo chiesto, questo è quello che vi chiedo oggi. Per cui, onorevole signor Presidente, io mi permetto di chiederle di mettere in votazione subito il mio ordine del giorno che rinvia la discussione, anche per riflesso alle notizie che sono apparse stamane sui giornali, e che lasciano una volta ancora di più intendere quale valore abbiano le parole vociferate di libertà, di civiltà, di progresso, e quale sia il freddo e spietato interesse che si nasconde dietro quelle parole.

Onorevoli colleghi, io di solito non faccio discorsi melanconici, ma oggi sento vicino a me la presenza di qualcosa che mi impedisce di continuare. Noi dobbiamo parlare anche di questi italiani che non ci sono più, e non fermarci a fare un miserabile calcolo sul perché essi siano caduti. Essi sono stati tutti indistintamente assassinati, assassinati da coloro che hanno fatto prevalere il loro freddo egoismo monetario, economico, finanziario, commerciale, marittimo, ed hanno, in nome di questi interessi, scatenato una guerra e sono pronti a scatenarne un’altra.

Noi abbiamo modo – noi che siamo depositari di una superiore genialità politica – di mettere in imbarazzo tutto il mondo, vittorioso che sia, semplicemente richiamandolo alle sue promesse, agli impegni che ha liberamente assunti, alle carte che ha firmate, e che non si possono lacerare senza offendere suscettibilità e pudori che anche nelle popolazioni nemiche si sentono: perché noi non dobbiamo solamente considerare quelle che sono le classi dirigenti dei paesi nemici ed ex nemici; ma anche quello che c’è nel cuore dei loro popoli, i quali sono stati tutti indistintamente colpiti dalla sventura.

Noi dobbiamo rinunciare a quella impossibile utopia che è ormai lo stato nazionale: troppo debole per difendersi, troppo ristretto per vivere da solo, troppo povero per essere indipendente; e contribuire a formare le grandi agglomerazioni continentali, la prima delle quali dovrà essere quella degli Stati Uniti d’Europa, di una Unione Europea nella quale noi potremo e dovremo comporre tutti i nostri dissidi.

Io non sono mai stato comunista o socialista, mai fascista o nazionalista; non sono mai stato niente. Voglio dirvi però che in questo concetto degli Stati Uniti d’Europa io non vedo che differenza c’è fra me ed un padre jugoslavo che ha perduto il figlio, un padre tedesco, un padre russo, un padre inglese, che hanno perduto il figlio. Non c’è nessuna differenza, siamo tutti fratelli, così come mi sento fratello di Gasparotto, di Benedetti, di chiunque altro abbia sofferto ed abbia pianto.

È per questo, onorevoli colleghi, di qualsiasi parte dell’Assemblea, che io vi invito, invoco, scongiuro (come ha detto il nostro illustre maestro Orlando) di rinviare questa discussione che ci avvilisce e ci disonora, e principalmente ci diminuisce. Cogliamo almeno questa possibilità di dimostrare la nostra grandezza d’animo, la nostra intelligenza, che supera di milioni di cubiti quella dei giuristi avversari.        

Per concludere, voglio ricordarvi un solo fatto – e speriamo che riesca a dirlo meglio, per non finire in tristezza anche quest’altro punto. Ci è stato parlato, da parte dell’onorevole Orlando, d’un possibile intervento del Lussemburgo, dell’Etiopia, dell’Albania, in base agli articoli del Trattato di pace che non mi sono degnato di leggere, perché avevo cose molto più importanti da fare che leggere quelle sciocchezze.

Vorrei proprio vedere, il giorno in cui ci fosse un Ministro degli esteri capace di discutere con uno di questi vincitori quali il Lussemburgo, l’Albania, l’Abissinia o altri che venissero a dirci: voi avete violato l’articolo 15 o l’articolo 16; questo ministro degli esteri risponderebbe: «Ah sì? Vediamo; nominiamo una Commissione, studiamo un po’ il caso». È quando si vincono le cause in Cassazione che deve incominciare la liquidazione dei danni. Vorrei rassicurare l’onorevole Orlando di questo: che il Trattato di pace, che questo articolo 15, questo articolo 16 e non so qual altro articolo 17, 31, 46 non saranno mai applicati, e che verrà il momento in cui quel Trattato di pace si potrà mettere in una busta e rinviarlo come si rinviano i documenti che si denunciano unilateralmente dalla parte che non li accetta.

L’importante è togliere da questa discussione tutto il suo contenuto sentimentale, tutto il suo contenuto passionale. L’onorevole Sforza, in una non dimenticata occasione, affermò che la politica estera non è fatta né di sentimenti né di risentimenti. Ebbene, anche in questa occasione vale la sua dottissima frase di allora; noi non possiamo continuare a discutere di questo Trattato di pace senza ingiuriarci, senza vilipenderci. E non so come ieri non siamo finiti a pugni nell’emiciclo, facendo pesare, su questo Trattato di pace, una tale atmosfera di tristezza che è meglio io non la rievochi qui oggi, altrimenti non sappiamo come andremo a finire.

Signor Presidente, io reitero la mia richiesta rispettosa, di mettere ai voti il mio ordine del giorno, per modesto che sia, con il quale si chiede di rinviare questa discussione a un giorno da determinarsi. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle conclusioni della Commissione dei Trattati e udito il Ministro degli affari esteri, ritiene doversi convalidare, per quanto necessario, la firma apposta per l’Italia al Trattato di pace il 10 febbraio 1947, e autorizza il Governo a prestare acquiescenza alle condizioni imposte dalle Potenze vincitrici, nel senso di non opporsi all’attuazione dei duri patti, per servire la pace del mondo con fede nel definitivo trionfo del senso di giustizia di tutti i popoli».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, assistendo all’elevato dibattito da questa solitaria tribuna, che non conta nulla, ma di cui non è minore, rispetto alle altre, la commozione di partecipare a questo rito celebrativo del più grave lutto della Patria, io mi sono spesso domandato e mi domando ancora se esista un vero e profondo dissenso fra le tante opinioni e tendenze manifestate dagli oratori che mi hanno autorevolmente preceduto, e se lo sdegnoso monito del filosofo onorevole Croce, e le fiere espressioni del giurista onorevole Ruini e la proposta di rinvio del venerando rappresentante del valore e dell’onore dell’esercito italiano e l’attesa prudente dell’onorevole Togliatti e la vibrante, se pur doverosamente diplomatica protesta, del nostro Ministro degli esteri e la tesi conciliatrice del maestro onorevole Nitti e l’emendamento del Governo, non siano se non i volti diversi di una stessa passione, di uno stesso affanno: la difesa della dignità della nazione.

Ed io non dispero che in questa nobile Assemblea, la quale rappresenta il popolo italiano unito nel dolore delle mutilazioni e nella fede della rinascita e non diviso in questo momento e su codesto assorbente tema da ideologie di partito e neppure, me lo consenta l’onorevole Pacciardi, dai futili pretesti istituzionali, si trovi alfine la formula che raccolga l’unanime consenso di tutti i nostri cuori, di tutti i cuori italiani; e vorrei che questa formula ci venisse dall’italiano più degno, o meglio ancora dalla concordia di tutti i maggiori esponenti di tutti i partiti politici, i quali non possono e non debbono offrire al Paese in ansia l’amaro spettacolo del contrasto, dopo che su tanti altri meno gravi problemi si sono sempre studiati di trovare una via di intesa attraverso l’emendamento o l’articolo aggiuntivo, ora per le norme della Carta costituzionale, ora per quelle sull’imposta sul patrimonio.

È vero che l’anomala compagine ministeriale (per me l’anomalia consiste nel mancato rispetto di quel principio di rappresentanza proporzionale dei partiti, ch’è il fondamento della legge elettorale, applicata in Italia il 2 giugno) può rendere difficile questo compito; ma ha detto lo stesso onorevole Togliatti che la coscienza di ognuno di noi riacquista in questa grave ora l’indipendenza da ogni tirannia di aggruppamento politico; e d’altro lato è vero che i partiti fuori del Governo sono una grande parte, oltre la metà, del popolo nostro ed essi rappresentano per di più quelle categorie lavoratrici e proletarie, che anche per la santa causa di Trieste hanno dato il maggior contributo di purissimo sangue italiano.

Il Trattato è iniquo; sbiadisce al confronto la condanna morale inflitta dalla storia alla leggenda di Brenno, ricordata da molti colleghi; il condottiero Gallo chiedeva oro ai romani; qui, accanto all’abbondante moneta, si è voluto ferire a morte la potenza, il prestigio, l’onore dell’Italia!

In relazione ai tempi, in riferimento a quel grande, universale, naturale principio del rispetto della personalità umana, che tanti progressi ha fatto dalle predicazioni di Cristo alla rivoluzione francese, riaffermato nella Carta atlantica e di cui è pure menzione nell’articolo 15 del Trattato, si può dire che non sia stato scritto durante i secoli documento più ingiusto. Non c’è articolo, non c’è clausola in cui non si contenga una cessione, una rinunzia del popolo italiano; e sono brandelli di carne viva, che si staccano da noi. Avrebbe potuto essere peggiore? Poteva essere migliore? Io non intendo fare recriminazioni e critiche a chicchessia. Riconosco invece lealmente che i nostri governanti, i nostri uomini politici, di qualunque partito, hanno fatto del loro meglio per rendere meno duri i patti, superando anche i rancori del passato.

Dare una colpa agli appassionati, se pure sfortunati difensori dei diritti dell’Italia, significa attenuare di fronte alla storia la responsabilità dei vincitori, ugualmente decisi, ugualmente spietati, per la nostra rovina.

Chi non ha chiesto per sé, ha disposto per altri delle nostre cose, e non certo per fine altruistico. Tutti concordi e implacabili i vincitori nello spogliarci, nel lasciarci inermi accanto a vicini, che, per l’altrui forza, hanno abusato di noi. Perfino nelle clausole finali del Trattato si è voluto dimenticare che noi siamo un popolo di 46 milioni di uomini civili e liberi e ci si è imposta l’onta di una specie di consiglio di tutela, il cui funzionamento potrà anche oltrepassare il termine dei 18 mesi previsti per l’applicazione e l’interpretazione della volontà dei vincitori.

Ma, una volta detto e riconosciuto tutto questo col nodo alla gola, occorre guardare in faccia alla realtà, sia pure a denti stretti, con le savie considerazioni pratiche del collega onorevole Bastianetto. Questo Trattato è una sentenza, egli dice, ed è purtroppo nel vero, perché la sentenza altro non è che la legge applicata al caso concreto.

Il Trattato è una legge internazionale, che si elabora e si forma su per giù con procedimenti quasi analoghi a quelli in uso presso i singoli popoli per le leggi interne nazionali.

La base del diritto, di qualunque diritto umano, è la forza. Questa si traduce in maggioranza più o meno democratica nelle ordinarie Assemblee legislative, nelle quali molto spesso restano, anche travolte notevoli ragioni delle minoranze, forse degne di poziore tutela. Si ricorre poi all’impiego degli organi di polizia, quando la legge passa, all’interno, nella fase esecutiva. Questa stessa forza si traduce in potenza militare per i trattati dei vincitori, per le leggi internazionali di qualunque specie, e l’esecuzione di esse è affidata alla minaccia o all’uso delle armi.

Può un cittadino, può una qualsiasi minoranza durare a lungo fuori della convivenza politica nazionale, fuori dell’osservanza delle leggi del proprio paese? Che cosa è avvenuto in Italia dei diversi milioni di monarchici dopo il 2 giugno? È anche inutile creare contro di essi delle antidemocratiche leggi repressive. Vivono pacificamente nel suolo patrio e anche quelli fra loro, che non hanno fatto molti inchini alla Repubblica, dopo il sovrano responso popolare del 2 giugno, sono in linea – e molti hanno anche giurato – per servire con dignità e con fede (sì, anche con fede, onorevoli colleghi del partito repubblicano storico) le nuove istituzioni democratiche di questo nostro libero Paese.

Può un’intera nazione rimanere a lungo staccata dal consorzio dei paesi civili, dalla convivenza internazionale, fuori del rispetto delle tante leggi che, bene o male, rappresentano, sia pure in nome del comune principio della forza, tutto un sistema di diritto dei popoli, per le molteplici indispensabili relazioni tra loro? Possiamo, in altri termini, essere e rimanere dei fuori-legge, dei soggetti incapaci nella sfera del diritto internazionale?

Ecco che il problema diventa squisitamente giuridico, oltre che morale, e qualunque problema di tal natura, nel campo internazionale, è anche e soprattutto un problema politico. Si giunge così a quello stato di necessità, che è diffuso nella coscienza di tutto il nostro popolo, e che ha finito col costituire qui dentro il minimo comune denominatore di ogni opinione e di ogni tendenza.

Dobbiamo ubbidire alla legge internazionale, che questa volta è per noi, sventuratamente, dura e ingiusta sentenza.

Ma, intendiamoci bene: non al di là della misura dei nostri obblighi; non al di là di quanto ci è strettamente richiesto da questa condanna; niente di più di quanto può essere necessario perché la sanzione si adempia, salvo revisione, in tutto il suo contenuto, senza inutile e intollerabile sacrifizio del nostro onore.

Il Trattato, a cui siamo ineluttabilmente rassegnati a dare piena e incondizionata esecuzione, non ci chiede nessuna ratifica per il suo perfezionamento e ancor meno per la sua efficacia esecutiva. Lo scheletrico, incidentale, sforzato accenno di ratifica fatto anche per noi nell’articolo 90, è solo un pudico riguardo, dal quale vogliamo spontaneamente dispensare i nostri vincitori, anche perché questa loro concessione, in apparenza generosa, non è meno offensiva di tutto il resto: «Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».

Il Trattato, come appare dal suo contesto, come si desume dal complesso procedimento di elaborazione, dalle enunciazioni della Carta atlantica ai patti di armistizio, alle deliberazioni del Consiglio dei ministri degli esteri e della Conferenza di Parigi, è perfetto con la firma delle due parti: del popolo vinto e delle Potenze vincitrici. Per le altre nazioni, alleate e associate, è ammesso un potere di adesione, che, se non espresso attraverso la firma contestuale, può anche esercitarsi successivamente, a mezzo di separato atto. La ratifica (che, nell’ordinaria prassi internazionale, può anche essere indispensabile elemento di conferma di patti liberamente stipulati tra due o più nazioni, a mezzo di rispettivi plenipotenziari, il cui operato, per l’importanza degli impegni che possono discenderne, esige sempre la convalida del Paese interessato) nel caso attuale, cioè nel caso del nostro Trattato – sentenza, ha solo funzione di clausola esecutiva, e tale efficacia è espressamente riconosciuta soltanto agli strumenti di ratifica dell’Unione Sovietica, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, e della Francia.

Vi è anche un potere di esecutorietà accordato alle successive ratifiche delle altre Potenze alleate ed associate e solo per quanto riguarda il momento di entrata in vigore del Trattato nei rispettivi confronti. Dell’Italia nessun cenno più in questo stadio finale dell’elaborato, e il congegno manifestamente risponde a quel minimo di rispetto umano accentuato dal nostro grande filosofo. Non si può costringere l’impiccato a gridare: muoio contento. Dal Trattato ciò non poteva esserci richiesto, e per la verità, è l’unica cosa che non ci è stata imposta.

Siamo però tenuti ancora ad un adempimento, che indubbiamente rientra fra gli elementi costitutivi delle stipulazioni del Trattato e di cui dobbiamo pure preoccuparci per la serietà del nostro Paese, se non vogliamo essere tacciati di cosiddetto machiavellismo.

Dobbiamo firmare validamente, dobbiamo cioè confermare la sottoscrizione apposta dal nostro Governo, con le riserve che vi sono note.

L’ordine del giorno, che ho l’onore di sottoporvi, soddisfa a questa esigenza, con l’aggiunta della piena assicurazione della nostra fedeltà ad ogni vincolo. A quando l’inevitabile convalida? Subito, senza frapporre il menomo dubbio, perché abbiamo svariate ragioni per accelerare come meglio ci sarà possibile il ripristino della nostra sovranità. Il Trattato è da tempo perfetto per chi ce lo ha imposto, e qualcuno lo ha già parzialmente eseguito in nostro danno, anche prima dell’entrata in vigore.

Chi mai possiamo voler servire, inserendoci il più rapidamente possibile nei binari della legge internazionale? Tutti e nessuno, la pace del mondo e noi stessi, che degnamente, gloriosamente abbiamo fatto parte nei secoli della grande famiglia umana. Nessuna preoccupazione di operare contro questa o quella Potenza; e, ora che la questione è sorta, la convalida come il rinvio ci esporrebbero ugualmente al sospetto di aver voluto cedere alle sollecitazioni dell’una o dell’altra parte. Ma la convalida ci è richiesta dalla lettera del Trattato e chi opera secondo il dettato della legge non fa ingiuria ad alcuno; nel caso obbediamo alla volontà di chi ha vinto.

Nudi e inermi, come ci hanno lasciati, non potremo servire in guerra né l’occidente né l’oriente; ma non ci lasceremo indebolire nello spirito né dalla fame, né dalla bomba atomica, e non cederemo alle lusinghe, alle elemosine o alle minacce per essere armati contro un popolo o contro l’altro. Ne abbiamo assunto solenne impegno nella nostra Carta fondamentale. Avremo soltanto fede nel lavoro, unica e grande forza creatrice di ricchezza, e ci stringeremo, ci aiuteremo tra i ridotti confini ormai aperti al mondo, e formeremo in Italia un blocco di cuori, che nutrisca di amore cristiano e preservi dall’odio qualunque coalizione di popoli.

E per i nostri fratelli della Venezia Giulia che attendono trepidanti le decisioni di questa Assemblea? Trieste, ardente sogno della nostra giovinezza, meta ultima della nostra unità, oggi spasimo lacerante di tutti gli italiani e di quanti combattemmo per la sua liberazione, sarà perduta per sempre per questa Madre Italia?

No! Se è vero che la giustizia non è solo fondamento di regni o di repubbliche; ma è anche e soprattutto la più salda base dell’universo. (Applausi).

PRESIDENTE. È stato presentato il seguente ordine del giorno:

«La Costituente italiana,

preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;

ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;

ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;

rivolge

a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai principî della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace, indicare al mondo vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».

«Badini Confalonieri, Villabruna, Morelli Renato, Cifaldi, Porzio, Rubilli, Cavalli, Belotti, Perrone Capano, Morelli Luigi, Caroleo, Bovetti, Del Curto, De Caro Raffaele, Roselli, Codacci Pisanelli, Valmarana, Foresi, Mazzei, Rodi, La Pira, Arata, Pallastrelli, Lami Starnuti, Tozzi Condivi, Bubbio, Bergamini, Benedettini, Marzarotto, Condorelli, Perugi, Perassi, Venditti, Quintieri Adolfo, Nasi, Fresa, Cevolotto, De Unterrichter Jervolino Maria, Scotti Alessandro, Conci Elisabetta, Carboni Enrico, Nicotra Maria, Carbonari, Chatrian, Castelli Avolio, Corsanego, Cappelletti, Pecorari, Dugoni, Togni, Corsi, Giolitti, Iotti Leonilde, Cremaschi Olindo, Fiore, Gavina, Ferrari, Pollastrini Elettra, Fedeli Aldo, Treves, Camposarcuno, Bulloni, Coppi, Bertola, Corbino, Scalfaro, Martino Gaetano, Coccia, Geuna, Bonino, Fabbri, Zerbi, Cassiani, Caccuri, Chiaramello, Crispo, Grilli, Bosco Lucarelli, Canevari, Faccio, Cappi, Einaudi, Romano, Martinelli, Canepa, Ruini, Nitti, Magrini, Colitto, Coppa, Gasparotto, Medi, Miccolis, Recca, Rodinò Mario, Rodinò Ugo, Jacini, Bencivenga, Garlato, Saggin, Fusco, Petrilli, Titomanlio Vittoria, Mazza, Murdaca, Zuccarini, Clerici, Cannizzo, Merighi, Montini, Mortati, De Vita, Rescigno, Mastino Gesumino, De Palma, Carboni Angelo, Segala, Bennani, Corbi, Lozza, Platone, Gullo Fausto, Laconi, Bozzi, Di Giovanni, Lombardi Carlo, Vicentini, Bertone, Preziosi, Nobile, Cartia, Veroni, Micheli, Tosi, Rossi Paolo, Viale, Pignatari, Bastianetto, Ermini, Quarello, Gullo Rocco, Bocconi, Cappugi, Cimenti, Bonomi Paolo, Stampacchia, De Michelis, Scarpa, Nobili Tito Oro, Arcaini, Biagioni, Mattarella, Tega, Persico, Trimarchi, Rapelli, Cairo, Caporali, Franceschini, Piemonte, Sampietro, Pella, De Mercurio, Penna Ottavia, Arcangeli, Macrelli, Binni, Giacchero, Zanardi, Guidi Cingolani Angela Maria, Restagno, Uberti, Spallicci, Delli Castelli Filomena, Cremaschi Carlo, Taviani, Tonello, Valenti, Bettiol, Pera, Angelini, La Malfa, Pellizzari, Grassi, Vanoni, Tessitori, MenTasti, Priolo, Longhena, Lazzati, Giannini, Giordani, Lizier, Germano, Guariento, Gatta, Pat, Moro, Fantoni, Mastrojanni, Gui, Ciccolungo, Froggio, Russo Perez, Motolese, Gabrieli, Proia, Sartor, Gonella, Colonnetti, Paratore, Avanzini, Cappa, Castelli Edgardo, Balduzzi, Caristia, Zaccagnini, Gotelli Angela, Federici Maria, Azzi, Di Vittorio, Spataro, Ghiostergi, Bellusci, Morini, Paolucci, Foa, Finocchiaro Aprile, Cianca, Carmagnola, Parri, Monticelli, Lussu, Caiati, Pastore Giulio, Codignola, Siles, Filippini, Preti, Moranino, Villani, Bassano, Scoccimarro, Vischioni, Damiani, Togliatti, Sicignano, Barontini Anelito, Silipo, Farina Giovanni, Merlin Angelina, Ghidini, Sapienza, Moscatelli, Allegato, Caprani, Imperiale, Santi, Cavallotti, Grieco, Bolognesi, Assennato, Li Causi, Saccenti, Sullo, Musolino, Montagnana Rita, Marconi, Capua, Pesenti, Cavallari, Reale Eugenio, Magnani, Cacciatore, Noce Teresa, Carpano Maglioli, Fedeli Armando, Barbareschi, Lopardi, Farini Carlo, Grazia Verenin, Calosso, Vernocchi, Faralli, Colombo, Ferreri, Gortani, Romita, Orlando Camillo, Baracco, Viale».

L’onorevole Badini Confalonieri ha facoltà di svolgerlo.

BADINI CONFALONIERI. Onorevoli colleghi, il fatto – unico nella storia dell’Assemblea Costituente italiana – di un ordine del giorno che viene sottoposto alla vostra approvazione dopo essere stato sottoscritto da circa 300 deputati, dirò meglio da tutti i deputati presenti all’atto della raccolta delle firme, mi esime da un particolareggiato svolgimento dell’ordine del giorno stesso.

Non uno solo dei deputati presenti rifiutò la propria sottoscrizione, a qualunque parte dell’Assemblea egli appartenesse, perché tutti vollero essere fedeli al mandato ricevuto e tutti sapevano l’unanimità degli spiriti che animava ed anima il popolo italiano.

Non è qui mestieri di dimostrare il nostro buon diritto, che per la verità non è se non può essere misconosciuto.

Occorre piuttosto porre l’accento sul fatto che questa Italia – una nelle sue molte storie, una nei suoi molti errori, una nei suoi troppi dolori – è una ancora nell’offrire – gli occhi negli occhi, il cuore nel cuore – la sua amicizia alla sorella latina. Una amicizia sincera, solida; non contingente, perché si fonda non soltanto sopra quella fraternità d’armi che fiammeggiò dalle Argonne a Vittorio Veneto e che si rinnovellò – all’ombra del proclama di Paul Reynaud – nella guerra partigiana insieme combattuta, ma ancora in una più intima e più continua fraternità di lavoro, che indusse molte braccia italiane a trovare in Francia la loro seconda Patria, consce che se nel passato ci unisce una comune civiltà, latina e cristiana, nel presente e nel futuro è una comune necessità che ci vuole avvinti.

Ricordando una celebre frase di Jaurès, l’onorevole De Moro-Giafferi disse alla Camera francese, all’atto della ratifica, che codesto Trattato è uno di quegli atti che per un giorno si felicitano e in seguito si deplorano, perché la Francia e l’Italia sono due popoli complementari ed egli non poteva ammettere che due popoli viventi l’uno a lato dell’altro restassero coi loro rancori. Noi domandiamo, domandiamo esplicitamente, domandiamo solennemente al popolo francese e ai suoi liberi rappresentanti di poter superare questi rancori e – parafrasando il discorso che il loro Presidente Ramadier pronunciò nella scorsa settimana – la mano tesa nella mano, diciamo che l’amicizia italo-francese «è un fatto naturale e non si può andare contro le leggi naturali della vita».

Voglia Iddio che codesto appello, che non ambizione di rivincita, ma desiderio profondo di solidarietà umana ed europea ha stillato, non cada nel vuoto di inutili tardive recriminazioni, ma trasformi il dolore nostro di oggi in un sereno, sicuro pegno di vera pace tra due popoli, che la storia ha chiamato ad amarsi e non ad odiarsi!

Ed è tale l’identità dei sentimenti che nel difficile storico momento che attraversiamo ci lega al popolo francese, che possiamo concludere con le identiche parole con le quali concludeva – or sono due giorni – il suo discorso alla Camera francese Paul Reynaud: «L’ora è giunta di dominare i nazionalismi esasperati da qualunque parte provengano e di essere semplicemente umani».

Non altro noi chiediamo al popolo francese. (Applausi).

PRESIDENTE. Si è concluso lo svolgimento degli ordini del giorno presentati in sede di questa discussione.

Ha facoltà di parlare, pertanto, il Ministro degli affari esteri, onorevole Sforza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, qui si tratta di compiere tutto il nostro dovere di fronte al popolo italiano ed al suo avvenire. Devo quindi esprimermi chiaramente e senza nessun lenocinio retorico, del quale, per mia fortuna, sono incapace. Comincerò col rispondere partitamente ai vari colleghi, che esposero all’Assemblea dei dubbi e delle domande di carattere specifico, cioè, mi pare, all’onorevole Ruini, all’onorevole Russo Perez, all’onorevole Valiani, agli onorevoli Togliatti, Nenni ed altri. Risponderò invece sinteticamente alle varie questioni di carattere generale, riaffermando così quello che rimane, dopo matura considerazione, il mio pensiero.

L’onorevole Ruini, in un discorso estremamente interessante – ed a proposito del quale non mi lagno che egli abbia cercato di temperare quello che ha chiamato il mio ottimismo – sottolineava alcuni punti che, secondo lui, dovevano mostrare un suo realismo più completo del mio, come quando parlò di una prossima probabile crisi economica americana.

Questo è un argomento che può, da un celato lato, non toccarci; ma, di fronte alle speranze, agli atteggiamenti o alla politica che noi dobbiamo seguire circa la Conferenza di Parigi e circa il piano Marshall, è chiaro che dei dubbi sulla stabilità economica degli Stati Uniti possono avere una certa influenza.

È, per ciò, che io vorrei sottoporre all’onorevole Ruini un paio di punti che, a mio avviso, possono rassicurarci sulla solidità della situazione economica americana e quindi sulle possibilità feconde per l’avvenire che il piano Marshall presenta.

RUINI. Io non ho mai sollevato dubbi sulla solidità americana. Ho detto che forse, per evitare una crisi futura, non basta il piano Marshall, ma sarà necessario l’adeguamento fra importazioni ed esportazioni.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Ad ogni modo, queste sono le ragioni pratiche, che, non degli americani, ma dei profondi conoscitori stranieri della situazione americana portano per farci credere in una permanente solidità economica degli Stati Uniti.

Le ragioni sono essenzialmente due.

Primo: esiste oggi in America una tale sorveglianza del credito, che è impossibile che la speculazione determini una sovraproduzione, come quella che provocò la crisi del 1929.

Oggi nessuno può lavorare in borsa in America, se non deposita in contanti il 90 per cento dell’operazione – e fu la mancanza di queste misure che provocò la grave crisi del 1929.

Secondo: le tasse in America sono altissime. Vi è un movimento demagogico naturale per farle abbassare. Ma il Governo ha dichiarato che le tasse saranno mantenute altissime. Perché? Perché, solamente in caso di contrazione del credito esso abbasserebbe le tasse. E così avrebbe un formidabile riflusso di capitali verso l’industria privata, il che eviterebbe quella crisi, che, nel 1929, ebbe la sua principale causa nella diminuzione dei crediti.

Ma dovevo anche rispondere all’onorevole Ruini su un punto, in cui il mio dovere di Ministro è profondamente impegnato. Egli fece una critica molto vivace all’Ufficio Economico del Ministero degli affari esteri ed al suo direttore generale, dottor Grazzi. A questo proposito io potrei dirvi che, contrariamente a lui, ho una stima profonda del valore tecnico e professionale del Grazzi.

Ma la mia opinione può valere poco. Vi darò dunque dei fatti. Da quando il Grazzi è stato nominato Direttore generale degli affari economici si sono completati o creati ex novo degli accordi economici con i paesi seguenti: Svezia, Polonia, Francia, Paesi Bassi, Grecia, Turchia, Uruguay, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Germania (Germania vuol qui dire, le autorità di occupazione), Cecoslovacchia (accordo, questo, difficilissimo del quale è per me grato dire in questa Assemblea che il nostro collega Chiostergi fu veramente lo spirito animatore, assistito da un altro nostro collega, l’onorevole Novella, che a Praga si occupò esclusivamente degli interessi della patria, senza nessuna idea preconcetta di partito). Ieri abbiamo firmato un accordo con la Cina; abbiamo firmato l’altro giorno un accordo con le Filippine. Sono in corso gli «accordi Lombardo» con gli Stati Uniti; altri accordi sono in fattura coll’Argentina. I fatti provano che attivo e fecondo agente sia Grazzi. Anche se fosse un men buono agente dovrei deplorare che qui si critichino dei funzionari. I Ministri sono qui per essere criticati, essi. Del resto, l’onorevole Ruini sarebbe stato molto probabilmente più nel vero, se avesse espresso dubbi sulla mia competenza economica piuttosto che su quella del dottor Grazzi.

RUINI. Io ho dichiarato soltanto che non eravamo ben preparati…

PRESIDENTE. Onorevole Ruini, la prego di non interrompere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Rimango in argomento ricordando che giorni fa l’onorevole Nitti parlò in termini sarcastici dell’Ambasciatore Brosio. L’onorevole Nitti ha troppa esperienza degli affari di Stato, come ex Primo Ministro, per non dolersi dopo, riflettendo, di aver gettato un’ombra di sarcasmo e di ridicolo su un ambasciatore in carica in un posto difficilissimo. Ma io glie ne sono grato se ciò, per poco che valga, mi permette di affermare all’Assemblea che l’Ambasciatore Brosio è uno dei nostri agenti più operosi, più leali e più consci del loro dovere: che è profondamente rispettato dal Governo presso il quale è accreditato e dai suoi colleghi delle potenze estere.

Vengo all’onorevole Russo Perez.

Vi sono tre punti che l’onorevole Russo Perez ha sollevato nel suo discorso: uno, l’oro della Banca d’Italia asportato dai tedeschi; l’altro, una pretesa mia lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942; terzo, il rapporto fra gli accordi economici e finanziari, già conclusi o in corso e la ratifica del Trattato.

Per la questione dell’oro, la tesi italiana è per la restituzione integrale dell’oro italiano, appoggiandola al fatto che detto oro è stato ben individuato e rinvenuto integralmente. Gli alleati, invece, sosterrebbero la tesi di ammettere l’Italia alla partizione dell’oro monetario rinvenuto in Germania. L’azione a sostegno della tesi italiana è stata svolta alla Commissione Tripartita per la restituzione dell’oro. L’azione è tuttora in corso.

Circa una mia pretesa lettera a Vittorio Emanuele III nel 1942, lettera cui ha fatto allusione anche l’onorevole Selvaggi ieri, debbo confermare quello che già chiarii scrivendo al Corriere della Nazione, che pubblicò il 7 febbraio la mia smentita; cioè che tal lettera era un falso completo, senza la più lontana ombra di verità; tocca al Corriere della Nazione di dolersi con l’onorevole Russo Perez e con l’onorevole Selvaggi, se essi non leggono quel giornale. Del resto, come potrei io aver scritta quella lettera? Basta il più modesto senso storico per rendersene conto; infatti un’autentica mia lettera all’ex re, lettera che ebbe larga circolazione clandestina in Italia negli anni della guerra, diceva così verso la fine:

«So bene che intorno a Vostra Maestà si dice con sicurezza che gli Stati Uniti sono divisi tra isolazionisti e interventisti, che l’America è antimilitare, che l’America non sarà pronta in tempo, che l’Inghilterra sarà sconfitta prima che Washington si sia preparata.

«Non creda a queste fole. Io conosco gli Stati Uniti; vi sono stato dieci volte durante questi ultimi fascistici anni. L’America stupirà il mondo con una preparazione militare ed economica, davanti a cui tutto finirà per piegarsi.

«Se Vostra Maestà darà il suo nome e la sua firma a questa guerra insensata, bisogna che ella sappia che ciò finirà per significare la più terribile delle rovine per l’Italia.

«Pensi per lo meno all’esercito, se, come me, ella ne ha a cuore la fama e il prestigio. Pensi a quanto potrà accadere in una guerra che sarà lunga, lunghissima, con tutte le nostre risorse già sperperate dal fascismo e con un Paese che non sentirà mai un conflitto combattuto al lato dei tedeschi.

«E se quanto sto per aggiungere l’interessa più dell’esercito e della nostra Italia, comprenda bene che il disastro sarà così spaventevole e la perdita dell’onore nazionale sarà così cocente che finiranno per distruggere alla lunga ogni legame di fedeltà e di affetto fra il popolo e la Corona».

Questa lettera la scrissi il 30 maggio del 1940. Era concepibile che gli scrivessi un’altra lunga lettera di avvertimenti e di consigli nel 1942? Era una impossibilità assoluta, a parte la mia smentita più formale. E spero che di questa fola non si parli più.

Terzo punto di Russo Perez: accordi economici. Ho già risposto all’onorevole Ruini, ma per lei aggiungerò che stiamo trattando con molti paesi una serie di accordi finanziari che regolano il problema delle riparazioni e quello dei beni italiani all’estero. Per alcuni di questi Paesi la ratifica agisce come sospensiva, per altri essa rappresenta un elemento importante per il maggior successo dei negoziati in corso. Si tratta, in sostanza, di una azione politica che tende al superamento ed alla attenuazione di certe clausole del trattato. Il rinvio e il rigetto della ratifica ne pregiudicherebbe la definizione.

All’onorevole Spano, che parlò con accoramento della situazione degli italiani che vivono in Tunisia, io dirò che in un certo senso sono d’accordo con lui quando egli lamentò che in casi dolorosi come questo sono sempre i cenci che vanno all’aria, per usare un vecchio sconsolato proverbio. Ma quello che è certo è che noi facciamo quanto possiamo perché ciò non sia. Anche a Parigi, in conversazioni intime che ebbi durante la Conferenza l’altro giorno, ricordai, spiegai, parlai degli interessi degli italiani, modesti e grandi, in Tunisia. E ne parlai anche in un senso che oserei dire francese, perché la Francia deve sapere che se si allontanano gli elementi italiani dalla Tunisia, chi ne soffrirà saranno tutti gli interessi europei ma prima quelli della Francia stessa. Senza una forte base demografica italiana nell’Africa del Nord, si può dire addio per sempre ad ogni speranza di interessi europei nell’Africa del Nord. (Applausi al centro).

Circa le espulsioni, devo dire però che noi abbiamo ottenuto la revoca di un grande numero di esse, persino per italiani che si erano arruolati nell’esercito italiano in Tunisia durante la guerra. Non si può dunque negare che con queste misure recenti, si ha una certa diminuzione di quelle asperità, che erano probabilmente una delle conseguenze degli odii della guerra, anche perché, lo ripeto, è profondamente un interesse francese che gli interessi italiani siano salvaguardati nell’Africa del Nord.

All’onorevole Valiani vorrei rispondere in modo preciso, perché egli ha sollevato un punto importante: egli si è posto il problema della ratifica jugoslava. Noi non dobbiamo ratificare, egli ha detto, perché verremmo a trovarci, nel caso che la Jugoslavia non ratificasse, ad avere rinunciato alla sovranità su Trieste, senza la contropartita di un impegno jugoslavo.

Ma, onorevole Valiani, lei capovolge la situazione. Come non vedere che l’unica nostra garanzia, proprio su questo punto, è che il trattato porti la firma delle quattro grandi Potenze? A queste firme sono seguite tre ratifiche. (Interruzione del deputato Valiani).

Quando la Russia avrà ratificato, non so se la Jugoslavia vorrà non ratificare, ma, se dovesse avvenire che pure la Jugoslavia non volesse ratificare, pensa l’onorevole Valiani che essa farebbe ciò per migliorare il confine a nostro favore? E, nel caso opposto, non è questa proprio la ragione per noi di ratificare, cooperare, per quanto possibile, ad una distensione internazionale in una zona così sensibile? Oppure vede l’onorevole Valiani un altro modo più energico, più efficace… (Interruzione del deputato Valiani).

PRESIDENTE. È una figura retorica, la domanda dell’onorevole Sforza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. In verità, l’onorevole Valiani ha portato un argomento a favore di chi pensa che a noi convenga uscire da questa perenne incertezza.

Resta bene inteso, tuttavia – e sono grato all’onorevole Valiani che mi permetta di affermarlo qui – che il Governo italiano, nei riguardi delle clausole relative agli italiani della Venezia Giulia, considera che esse rappresentano un tutto inscindibile, il che vuol dire che il Governo italiano non ritiene nemmeno possibile il dubbio che alla rinunzia della nostra sovranità su Trieste non si accompagni la contemporanea creazione dello Stato libero quale è previsto dal trattato.

L’onorevole Valiani ha parlato anche delle Colonie. Per quanto riguarda le Colonie, non posso che ripetere quello che già dissi venerdì scorso: cioè che il Trattato niente decide sulle Colonie. Ammette solo che se ne cominci a discutere. Ora, l’atto della ratifica incide anche su questo nostro fondamentale interesse. È bensì vero che affidamenti precisi non possiamo dire onestamente di averne, ma possiamo riconoscere che, impostare questi problemi rinviando la ratifica, significherebbe non avere nemmeno la possibilità di chiedere e lottare in una atmosfera di maggiore fiducia e simpatia.

L’onorevole Nitti mi scuserà se, per risparmio di tempo, io risponderò solo a una domanda precisa che egli mi pose circa l’O.N.U., di cui ha parlato con un pessimismo che spero esagerato. Ecco dunque come sta questa questione dell’O.N.U. Le disposizioni statutarie fissano, per l’ammissione di nuovi membri, le seguenti condizioni: 1° che lo Stato sia «amante della pace»; 2° che esso accetti gli obblighi contenuti nello Statuto e, a giudizio dell’organizzazione, sia capace e disposto ad adempiere a tali obblighi. Inoltre l’articolo 2, al paragrafo primo, afferma che «l’organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza dei suoi membri».

Non vedo dunque perché l’onorevole Nitti non abbia trovato in queste forme un espresso richiamo alla nostra ratifica. Pure, per quanto riguarda la nostra posizione rispetto alle Nazioni Unite, è evidente che se l’Italia è pronta alla ratifica del Trattato potrà allora soltanto sostenere di aver fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per trovarsi nelle condizioni richieste dallo Statuto.

Vi sono poi pur sempre, in questo trattato ingiusto, iniquo e, soprattutto miope, quale tutti noi lo consideriamo, delle affermazioni che sono a nostro favore. Ve n’è più di una in questo trattato di affermazioni a nostro favore, tanto che si direbbe sia stato compiuto da una maggioranza ostile e, insieme, da qualcuno che di tanto in tanto intravedeva l’avvenire e cercava di fare entrare un raggio di luce alfine di conferire un po’ di nobiltà allo sciagurato strumento.

Al quarto capoverso del preambolo del Trattato si legge infatti: «Premesso che le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia desiderano concludere un trattato di pace che, conformandosi ai principî di giustizia, regoli le questioni che ancora sono pendenti a seguito degli avvenimenti di cui nelle premesse che precedono, e che costituisca la base di amichevoli relazioni fra di esse, permettendo così alle Potenze Alleate ed Associate di appoggiare le domande che l’Italia presenterà per entrare a far parte delle Nazioni Unite ed anche per aderire a qualsiasi convenzione stipulata sotto gli auspici delle predette Nazioni Unite». Questo non si può negare che non sia un impegno solenne dei Quattro, nei confronti del quale abbiamo diritto di pretendere piena conferma dei fatti.

Chiarito quanto precede, non vorrei, anche per rispetto del tempo dei colleghi, e per la maggior gravità che ha assunto la discussione, seguire l’onorevole Nitti nelle acide polemiche che egli svolse; forse la sua intenzione fu ottima, come quando cercò attaccare certe eccessive posizioni nazionalistiche. Fu certo a fin di bene che egli affermò che, anche da parte nostra e da molti decenni, i vari Ministri degli esteri d’Italia si eran resi colpevoli di trucchi machiavellici.

Io non voglio qui riprendere la discussione dal Nitti qui iniziata sul machiavellismo, discussione cui altri colleghi han poi dato in quest’Aula il loro contributo: se lo dovessi fare, direi una cosa semplicissima, che da parte di tutti si è dimenticata; direi, cioè, che il machiavellismo non fu affatto l’idea infernale, satanica con cui il Segretario fiorentino ci avrebbe diffamati, come ha preteso l’onorevole Nitti. In verità, quanto il Machiavelli scrisse fu semplicemente la descrizione obiettiva di ciò che si pensava in tutta l’Europa alla fine del secolo XV e all’inizio del secolo XVI. Dire che il Machiavelli è stato «machiavellico» nel senso che questa parola ha preso, equivarrebbe a dire che un grande scienziato che scrive un libro sul cancro o sulla sifilide, è partigiano del cancro e della sifilide. (Approvazioni al centro). Nient’altro.

Checché ne sia di ciò, quello che volevo dire all’onorevole Nitti – e sono certo che in cuor suo egli finirà per essere d’accordo meco – è che bisogna fare una distinzione. A me duole doverla fare, perché so che bisogna guardare avanti e non indietro e che bisogna finirla con una serie di odî che altrimenti avveleneranno la nostra vita. Ma bisogna pur riconoscere che, finché il fascismo non venne, l’insieme della politica estera italiana fu degno della perfetta lealtà dei nostri Governi. E Nitti ha torto quando cita, per esempio, a proposito dei nostri contemporanei contatti con la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza, la famosa, insultante frase di Bülov contro il «giro di valzer». Perché dobbiamo prendere come Vangelo l’opinione di uno straniero? In realtà, non vi fu niente di più perfetto, di più leale, di più corretto della politica della diplomazia italiana fino alla guerra mondiale. Uomini come Robilant, come Visconti Venosta, come Prinetti sono stati modelli insuperati di specchiata onestà ed è assurdo che sia proprio un italiano che tenti abbassarli. Certo, so quello che l’onorevole Nitti pensa sull’onorevole Sonnino; anch’io gli ho mosso molte critiche; ma quelli di Sonnino furono errori di scarsa immaginazione; mai ci fu in lui la menoma idea morbosa e malefica di creare il male, di creare l’intrigo.

No, onorevole Nitti, questa fama di scarsa fede politica noi la dobbiamo solo alla politica dei vent’anni di fascismo, che fu amico prima della Jugoslavia – seguendo Mussolini nei primi anni del suo governo la mia politica – e poi diventò nemico; che dette appoggio incondizionato a Dollfuss, e poi l’abbandonò a Hitler; che finse di appoggiare la politica europeistica stabilita a Locarno; e poi vantò in scritti pubblici di essere andato a Locarno per pugnalare la politica di Locarno, perché a Stresa promise una cosa che poi fu smentita dall’avventura etiopica; perché presentò l’Etiopia con entusiasmo alla Società delle Nazioni come un grande Stato civilizzato e poi assalì l’Etiopia; perché coll’Albania prima fece un patto di amicizia eterna, e poi, un tragico giorno di venerdì santo la occupò senza nessuna preventiva azione o spiegazione; perché fu il primo a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica, e poi si alleò con la Germania contro l’Unione Sovietica; e dappertutto fu così: in Cina, Ciano per lunghi anni fece una politica sinofila, e poi la attaccò e le dichiarò guerra. Così fu per la Grecia; prima una lunga politica di amicizia, e poi, in sei ore, il più insensato, il più sleale, il più brutale ultimatum.

Di questo dobbiamo renderci conto, quando si sente che si parla attraverso il mondo di una scarsa fede diplomatica dell’Italia. Non insultiamo il nostro passato! La politica italiana, dal 1860 al 1922, può stare alla pari, come cristallina onestà, come buona volontà internazionale, come lealtà verso gli interessi superiori della pace, può stare alla pari, dico, di quella di qualunque altra Potenza, e per parte mia credo che è molto al di sopra. (Applausi al centro).

Vengo ora al discorso dell’onorevole Togliatti. Il suo discorso è in parte di politica estera e in parte, nel fondo, di politica interna; per quest’ultima, lascio al Presidente del Consiglio di parlarne.

Sul fondo del discorso concernente la politica estera in generale, risponderò più in là, quando parlerò dei problemi generali, cioè specialmente dei nostri rapporti con l’Unione Sovietica.

Qui – poiché in questa parte voglio trattare solo di singole fasi del dibattito – vorrei solo sollevare e chiarire alcuni punti, non dirò personali, perché le persone sono nulla e non ne parlerò un sol momento, ma perché mi pare che sia meglio chiarire la situazione su certi episodi.

Perché l’onorevole Togliatti, quando accennò alla partenza dell’onorevole Nenni dal Ministero, fece delle allusioni agli oscuri raggiri e ai tenebrosi intrighi che obbligarono l’onorevole Nenni ad uscire dal Governo?

Signori, in quest’Aula, la dignità personale di ognuno di noi, il valore personale di ognuno di noi è un patrimonio comune di tutti, ed io credo che sarebbe stato bene ricordare che, quando l’onorevole Nenni offrì all’onorevole De Gasperi le sue dimissioni da Ministro degli esteri, egli ciò fece per una ragione sola, la quale mostra che, qualche volta almeno, il livello della vita politica italiana resta altissimo; egli si dimise perché sentì che, essendo andato al Governo come rappresentante di un partilo di tanti membri, non aveva più diritto di rimanere quando il suo partito era stato dimezzato. Questo fu atto di cavalleresca lealtà politica, ed era meglio riconoscerlo anziché andare a creare, in odio all’onorevole De Gasperi, non so quale misterioso intrigo da romanzo. (Applausi al centro).

Un’altra osservazione vorrei fare all’onorevole Togliatti circa le critiche che fece alla mia azione a Parigi. Ma non creda l’onorevole Togliatti che io non mi renda conto della profonda sincerità interiore del suo pensiero; egli temeva e teme, egli sospettava e sospetta; e, dando troppo corpo ai suoi timori e sospetti, vede prove contrarie a suoi rispettabilissimi sentimenti anche là dove non esistono affatto. Per esempio, egli, spulciando il mio primo discorso alla Conferenza di Parigi per cercarvi prove di uno sbandamento della nostra politica estera, citò un frammento del mio discorso, aggrottò le sopracciglia e di che, mio Dio, mi rimproverò? Di aver nientemeno detto che per un’unione europea io ero pronto – ma qui cito fra virgolette – «ad accettare, l’Italia, non lui (cioè Sforza), tutti i sacrifici».

Personalmente son grato all’onorevole Togliatti; delle varie leggende intorno a me, questa mi piace; poco mi cale si rida del mio amore per l’universalismo, della mia fede nell’unione europea, della mia fede persino (scusate, se qualcuno vuol sogghignare sogghigni pure) della mia fede, dico, che i nostri figli abbiano un giorno a non più vedere la guerra.

Per sorridere di questo mio umanitarismo, l’onorevole Togliatti citò la frase che vi ho detta. Ma debbo fare all’onorevole Togliatti una osservazione semplicissima: che il fare una citazione tronca equivale a falsare il pensiero di qualcuno. Se lei, onorevole Togliatti, avesse letto qualche parola di più avrebbe trovato che nella mia frase non vi era nulla da criticare neppure dal punto di vista del più duro degli egoismi nazionali, che sembra le stiano tanto a cuore. Io dissi infatti: «Noi desideriamo assicurarvi che siamo pronti a tutte le intese, a tutti gli accordi, affinché l’economia dell’Europa si sviluppi, si armonizzi, diventi un insieme fecondo»; cioè noi siamo pronti a tutti i sacrifici, a tutti gli accordi che ci permetteranno di guadagnare il cento per cento sui nostri pretesi sacrifici perché in una Europa in pace e organizzata l’Italia con la sua attività, con il suo talento troverebbe mille modi di essere più ricca che non lo sia in una Europa divisa, in un’Europa autarchica, separata da troppe barriere doganali.

Ma vi è un altro punto in cui sono certo che l’onorevole Togliatti, ripensandoci, sarà completamente d’accordo meco. Egli temeva (ma perché non so) ch’io fossi compartecipe di chi sa quale segreto misterioso complotto per ignorare o allontanare l’Unione Sovietica, per riprendere il folle tentativo dei reazionari del 1919-20 che vollero circondare l’Unione Sovietica di un filo di ferro spinato. Anzi, questa frase andava ripetuta in francese, perché l’inventò Clemenceau: «Le fil de fer barbelé autour de la Russie». Togliatti, nella sua tema, certo sbagliatissima per ciò che mi concerne, che io fossi, sia pur lontanamente, compartecipe di una simile politica; che questo Governo, sia pur lontanamente, fosse compartecipe di tali piani, ne andò a cercare la prova in un innocente finale letterario del mio discorso; finale di cui mi pento solamente perché è un finale letterario. Già; perché comincio a persuadermi che la letteratura e la retorica sono il veleno più orribile degli italiani nella politica. Mi permetta, onorevole Togliatti, che io parli con tutta franchezza a lei che è un uomo di cui, nelle nostre conversazioni di letteratura, di problemi storici, di problemi filosofici, ho constatato l’alta cultura umanistica. Come mai lei semplicemente non si è accorto che alla fine del mio discorso avevo fatto un plagio, come se ne fanno così spesso, perché è impossibile non ripetere cose che sono state dette da altri?

Io dissi: «Stiamo attenti, si sappia che dobbiamo riuscire e che nessun sacrificio nazionale sarà troppo grande, nonostante il compito non sia facile. Noi dobbiamo sormontare gli egoismi nazionali ed augurarci che i tedeschi, moralmente guariti, rientrino nella nostra comunità di produzione e di lavoro. Noi dobbiamo tentare ancora di ricondurre al nostro fianco i Paesi assenti; noi dobbiamo riuscire. Se noi non riuscissimo, potrebbe darsi che questa gloriosa Europa che ha guidato il mondo con la forza dello spirito ridivenga ciò che essa fu diecimila anni fa: una povera, piccola insignificante penisola dell’Asia».

È proprio strano che un uomo di alta cultura come l’onorevole Togliatti si sia tanto allarmato per questa frase. Lo avete tutti sentito in quest’Aula: «Che cosa ha voluto dire con ciò Sforza? Ha egli pensato che la Russia è in Asia? Che all’infuori, dunque, di questa Russia e di questa Asia l’Europa diventi quella piccola penisola, ecc., ecc.». No, no, onorevole Togliatti, ecco la modesta verità. Io arrivai a Parigi ammalato. La mattina della seduta solenne dovetti scrivere rapidamente il mio discorso. Forse non ero in vena di immaginazione soggettiva molto grande; e questa ultima frase mi tornò in mente da una mia lettura di gioventù. È una frase famosa di Ernesto Renan pronunciata prima del 1870 quando la Russia era europeissima, quando la frase Euro-Asia non era stata neppure coniata e nessuno supponeva che qualcuno sorgerebbe un giorno a dire che la Russia fosse un continente a parte, metà Europa e metà Asia. Sia dunque ben inteso che io credo profondamente all’unità europea, compresa la Russia, tal quale come il grande scrittore francese da cui io ripetei l’immagine non concepiva neppure una Europa senza la Russia.

Vede, onorevole Togliatti, a che cosa si arriva quando si vive in eccessivo timore, quando si vive in eccessiva sfiducia, in eccessivi sospetti.

Ma veniamo a cose più serie.

L’onorevole Togliatti si è lamentato che da me e dal Ministero degli affari esteri non si siano usate sufficienti prove di energia per venire ad una intesa con la Jugoslavia. Io devo dirgli che sono stato molto sorpreso di questa sua critica, ma in un certo senso ho anche ammirato, perché mi son detto che il mio antico e caro collaboratore Eugenio Reale ha spinto veramente troppo oltre il dovere professionale del segreto di Stato. Sia ben inteso che io lo autorizzo a dire al suo amico e capo Togliatti tutto quello che sa. Eugenio Reale, essendo stato accanto a me a Palazzo Chigi, sa che non è quasi passato giorno in quei mesi di collaborazione in cui non abbia insistito presso gli Jugoslavi o presso i negoziatori italiani, prima presso Merzagora, che fu un entusiastico fautore di un’intesa economica con la Jugoslavia, poi col dottor Mattioli, che ha portato a fine un’ottima intesa economica coi nostri vicini, perché le trattative fossero condotte al più presto a termine, e nel modo più favorevole ad una collaborazione duratura e profonda. Ma dopo lunghi anni di silenzio, dopo abissi di ire e dolori, che c’è di strano se ogni tanto si deve notare che quello che si sperava di fare in quindici giorni non si può fare, ohimè, che in un tempo più lungo? Ho avuto ieri nuove assicurazioni e da parte jugoslava e da parte del negoziatore economico italiano che le cose si avviano ad una sodisfacente soluzione, come è naturale che sia, se non siamo pazzi, perché non ci sono al mondo due paesi che siano economicamente così perfettamente complementari come l’Italia e la Jugoslavia.

Io sono impaziente di firmare l’accordo con la Jugoslavia; sarei felicissimo di firmarlo stasera e debbo dire che tanto ci ha guidato il sentimento dell’urgenza di questo accordo, che, per troppa fretta, abbiamo commesso uno sbaglio – il tempo degli uomini infallibili è passato – uno sbaglio di cui mi pento e mi dolgo. Noi non tenemmo in abbastanza considerazione gli interessi essenziali dei pescatori italiani dell’Adriatico. Il collega Bastianetto ha scritto, a questo proposito, una memoria che è un piccolo capolavoro.

Ebbene, onorevole Togliatti, lei è certamente d’accordo nel riconoscere che le cose non si fanno senza tempo, fatica ed errori; ed è certamente d’accordo, anche se ora cerchiamo di creare un codicillo, una appendice, uno scambio di lettere che completi il trattato, e che renda sicuri i pescatori dell’Adriatico i quali, ridotti alla rovina, sarebbero in Italia un elemento di lotta e di rancori contro quella intesa italo-jugoslava, che è per me una delle basi necessarie alla resurrezione economica e politica dell’Italia. (Applausi).

Molti qui, per fortuna, Jacini, Giannini con commosse parole, poco fa Caroleo, hanno parlato della necessità di addivenire ad una unione europea; ma, signori, guardiamo la realtà in faccia: quando si vogliono le unioni, quando si vogliono le intimità, bisogna cominciare da chi ci sta accanto. Per questo io diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea» e poi gettano oltraggi alla Francia, e diffido di quelli che gridano: «Unione europea, unione europea», ma dicono che gli jugoslavi sono nostri nemici naturali e che non si può perdonare il passato. La prova del nostro buon volere consisterà nel volere l’intesa con i vicini immediati.

E agli jugoslavi ed ai francesi dico sempre: badate, se non lo fate per amore, fatelo per interesse, perché il solo modo per l’Italia e la Francia, il solo modo per l’Italia e la Jugoslavia di essere più forti e più rispettate è di non essere più incatenate a passatistici rancori. Se ci saranno buoni rapporti fra noi e gli jugoslavi, l’Italia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale, ma anche la Jugoslavia varrà il venti per cento di più sulla bilancia internazionale. Questi sono i miei costanti pensieri; sono pensieri del resto, onorevole Togliatti, per i quali io ho sofferto venticinque anni di persecuzioni fasciste, e mi stupisco molto che ciò almeno non basti per lei ad assicurarla dell’onestà del mio pensiero. (Applausi al centro).

Spero di non essere indiscreto se faccio un’altra osservazione. Lei, onorevole Togliatti, non è solamente uno scrittore ed un politico, ma è lo voglia o no, un’alta autorità dello Stato, come capo di un grande partito e come membro influentissimo di passati Governi. Questo crea dei doveri. Ora, c’è un fatto. Tutti i popoli hanno delle qualità e dei difetti. Noi italiani abbiamo qualità e difetti, i francesi hanno qualità e difetti, gli slavi hanno qualità e difetti; non credo di offendere gli slavi che hanno tanti mirabili pregi dicendo che – e da zaristici prima e da sovietici ora – il loro difetto, piccolo forse in sé, ma grave in politica, è questo: sono sospettosi. (Commenti a sinistra).

Che l’onorevole Togliatti, cui sta a cuore (ma forse non più che a molti altri in quest’Aula) l’intesa e l’amicizia più profonda fra l’Italia e l’Unione Sovietica, critichi duramente il Governo, quando ha fatti precisi da portare qui per smascherare una politica che possa portare a pericolose relazioni fra l’Italia c l’Unione Sovietica: egli non ha solamente il diritto, ma il dovere di farlo. Ma io credo che, data l’alta autorità che possiede, egli non serve gli stessi interessi dei buoni rapporti fra l’Italia ed il mondo sovietico, che come lui noi desideriamo altamente, quando dà corpo alle ombre, quando crea dei sospetti, quando inventa dei timori per i quali non c’è nessuna base.

TOGLIATTI. Non ho inventato nulla. Ho citato fatti!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Anche sulla mia azione verso la Jugoslavia ha citato fatti?

L’onorevole Togliatti ha poi sollevato due altre questioni.: la prima è il Trattato di commercio con gli Stati Uniti. Voglio rassicurare lui, e l’Assemblea sulla situazione. L’onorevole Lombardo prosegue i suoi lavori, il Governo degli Stati Uniti ci ha consegnato un progetto che venticinque amministrazioni italiane hanno studiato a Roma; le conversazioni preliminari si inizieranno a Roma in agosto, al ritorno della missione Lombardo. Il negoziato ufficiale sarà aperto a Roma in settembre. Spero che una prossima discussione di politica estera – che questa stessa nostra discussione ha mostrato tanto utile e necessaria – permetta a tutti di dare consigli. E certissimo che fra due Potenze dalla situazione economica così disparata, come l’Italia da un lato e gli Stati Uniti dall’altro, non sarà sempre facile creare un perfetto parallelismo ed una perfetta perequazione; ma è quello che vogliamo fare e che tenteremo di fare; e saremo contentissimi di avvertimenti e consigli che ci mettano sull’avviso, quando questo sarà necessario.

TOGLIATTI. Devo dire, anche a questo proposito, che non ho inventato.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Infatti in questo mio appunto che scrissi mentre l’onorevole Togliatti parlava, leggo: «Ha ragione quando pone in guardia contro certe formulazioni».

Vengo all’onorevole Nenni. L’onorevole Nenni, nel suo discorso di ieri, ha sollevato una o due questioni, cui mi pare di dovere rispondere.

Egli ha detto che io chiesi il voto dell’Assemblea, perché l’Italia potesse andare a Parigi. No; credo che ella sia in errore, onorevole Nenni. Io chiesi solo un succedaneo, un Ersatz che permettesse alle Potenze di riceverci con parità di posizione; e perciò chiesi un voto della Commissione dei trattati; tanto più che era chiaro il desiderio delle Potenze di avere un Paese dell’importanza dell’Italia alla conferenza. Ed il voto della Commissione dei trattati calmò gli scrupoli giuridici dei loro tecnici e ci permise quella piena ammissione che tutti conosciamo. L’onorevole Nenni fece poi questa precisa questione, in cui sento gli stessi dubbi e gli stessi sospetti, che ho riscontrato nell’onorevole Togliatti. L’onorevole Nenni ha domandato: «Se invece della ratifica russa, mancasse la ratifica americana, vorreste voi ratificare?».

Ma, insomma, certamente no, non vorremmo ratificare; ma non è perché si tenga all’America più che all’Unione Sovietica, in questo campo; ma perché l’America era il solo grande paese, dove c’era un forte movimento comprendente anche membri del Congresso, che erano contrari al Trattato ed alla ratifica; era chiaro, quindi, che se l’America non avesse ratificato, era per noi un interesse supremo non ratificare, perché il nostro principale propugnatore, il più entusiastico difensore dei nostri diritti era l’America. Invece, con la Russia era un’altra cosa; e di ciò non ne dobbiamo volere affatto alla Russia.

NENNI. La Russia ha sostenuto a Parigi delle tesi a noi favorevoli; su altre è stata sfavorevole. (Commenti al centro).

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Sul fondo della questione bisogna ragionare con una parola che odio, e che uso forse per la prima volta in vita mia: realismo. Perché odio la parola «realismo»? Perché il realismo è cosa bella e completa solamente se sa che anche l’idealismo fa parte del realismo, sia pure per il trenta o quaranta per cento. E chi dice solo realismo, senza pensare all’idealismo, è falso realista, perché non sa cos’è il realismo completo.

Ma, venendo al punto, è con perfetto realismo che osservo all’onorevole Nenni che, sull’insieme globale del Trattato, quando la sera del 10 febbraio 1947 inviai a tutte le Potenze firmatarie la nota di cui detti lettura al principio del mio discorso dell’altro giorno, ricevetti o silenzio o parole di simpatia. La sola risposta fredda definitiva, senza ombre, fu la risposta sovietica: «Perché vi lamentate? Il Trattato è giustissimo e non vi è nessuna ragione che voi non lo ratifichiate, né che voi ne chiediate mai la revisione».

Non avevo mai detto ciò; ma debbo aggiungere, poiché odio i volgari discorsi antisovietici che cercano di creare delle leggende là dove non ce ne è nessun bisogno, che in questa risposta di Molotov non c’è nulla di particolarmente ostile all’Italia: esso è un fatto di realistica politica estera. La Russia, che ha sofferto orribilmente come perdite di uomini e distruzioni di città, è però dal punto di vista territoriale, la potenza che ha più guadagnato. Ed ora, dappoiché mondo è mondo, quando ci sono dei Trattati collettivi (lo si vide nel 1815 col Trattato di Vienna) le potenze che hanno avuto i maggiori guadagni territoriali sono contrarissime e nemicissime delle potenze che parlano di revisione. L’odio dell’impero austriaco dopo il 1815 verso l’Italia, non ebbe che questa ragione: non tanto l’odio per il liberalismo italiano, non tanto, in seguito, l’odio e la suspicione per quella che fu l’azione meravigliosa di Cavour, ma semplicemente perché l’impero austriaco era un «beato possidente» e noi volevamo diminuire quel «beato possidente».

Questa fu la ragione della risposta di Molotov. (Applausi a destra). Io non voglio criticarla, ma è un fatto che ciò sia. Questo spiega, in risposta a quanto ha detto l’onorevole Nenni, perché se gli Stati Uniti fossero stati contrari alla ratifica, noi saremmo stati ugualmente contrari.

L’amico Nenni mi ha lanciato un’accusa che, quando penso alla mia travagliata esistenza per difendere i miei principî politici, mi ha fatto sorridere. L’accusa che io sono stato tentato da «una via di comodità». Caro Nenni, se noi non fossimo dei servitori fedeli dell’Italia, la via della comodità per noi era di andare su un viale circondato da festoni e da frasi retoriche di cui fra due o tre anni si vedrebbe che non erano che fango e idiozia. (Applausi al centro). La comodità era di andare lungo la via della non ratifica perché quella è la via che da soggetti di storia che volevamo divenire, ci avrebbe ridotti a oggetti di storia; saremmo diventati forse come la Repubblica di Venezia dieci anni prima del Trattato di Campoformio, prima che il disonore e la rovina cadessero su di lei: quella era la via comoda.

L’onorevole Nenni fece anche una critica in cui sentii un’ombra di solidarietà interiore meco, tanto sono stati, in questo momento, intrecciati indissolubilmente, sentimenti opposti che, se non ci fossero state idee di «assalto alla diligenza», questa discussione avrebbe potuto diventare un esempio meraviglioso al mondo, perché avremmo potuto mostrare all’Europa degli italiani divisi da motivi ideali e da motivi teorici, ma profondamente d’accordo su alcuni concetti morali essenziali. (Applausi prolungati al centro – Rumori – Commenti).

Ed io voglio qui dire una delle ragioni intime per le quali ieri mi trovai perfettamente d’accordo con Nenni, quando Nenni fece una allusione lontana, ma per noi, che sappiamo le cose, chiarissima.

Una voce a sinistra. Non basta saperle. Bisogna capirle!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Verrò a lezione da lei. (Applausi al centro).

Una voce a sinistra. Si sta così comodi nella diligenza!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Nenni fece un’allusione, a mio avviso, profonda e verissima quando pose in guardia contro il rinnovarsi di certi miti, di certe malattie xenofobe che possono avvelenare il Paese. Io sento questo così profondamente, anche dal punto di vista dei successi diplomatici futuri dell’Italia, che questa è una delle ragioni, che, dopo molto esitare, dopo aver visto i lati di una politica e poi i lati di un’altra politica, finirono per decidermi che la ratifica con tutti i suoi dolori e con tutte le sue tristezze era ancora il minor male. Nenni conosce bene i miti del 1919; avevamo vinto, ma ci si impediva di saperlo e la stampa gialla trasformò quasi in sconfitta la vittoria.

Questa volta, certo, non abbiamo avuto vittoria, ma chi ha profonda fede nell’Italia, come noi l’abbiamo, sa che un punto fermo, un capitolo nuovo, una ratifica che ci prepari nuove vie dell’avvenire, può spazzar via quei miti pazzeschi e ingannatori di xenofobia e di nazionalismo esaltato, che fecero tanto danno a noi nel 1919. Nenni è stato in Francia, Pacciardi è stato in Francia (e dal suo soggiorno in Francia ha tratto qualche motivo per quel nobilissimo suo discorso che resterà a onore eterno del Partito repubblicano) ed essi sanno che tutti i nazionalismi più sciocchi, furono in parte eliminati dalla vita della Francia, per l’azione di un grande patriota francese, che, come è naturale, non ricevette che insulti e contumelie dai superpatrioti, Jules Ferry. Il Ferry, ai francesi che parlavano di Strasburgo, ai francesi che parlavano di «blessures éternelles» disse: «Creiamo una Francia più ricca, più forte, più prospera, più grande, ed in questo modo ci rispetteranno ancora di più in Alsazia; invece così siamo un Paese diviso da rancori nazionalisti che fanno di noi una potenza del passato». Così Ferry diede alla Francia il più grande impero coloniale che la Francia abbia posseduto e così per la grandezza della Francia venne un rinnovato amore negli alsaziani per la Francia che si faceva onore e mostrava vita, non pergamene del passato e vieti archi di trionfo. Questo vogliamo per l’Italia, e quando diciamo «ratifica», lo diciamo perché così daremo nuova vita e nuova forza anche ai fratelli che soffrono ma non si allontaneranno da noi, perché se vedranno un’Italia grande e prospera e non avvelenata dalla retorica, sapranno che l’Italia è una cosa viva nella quale credere sempre. (Applausi).

Mi si permetta ora di esaminare nel loro complesso le argomentazioni di carattere più generale.

La discussione ora conclusa mi è parsa utile, se non altro perché ha confermato che tutto il popolo italiano ritiene questo Trattato ingiusto e crudele e – vorrei aggiungere – miope. Le numerose argomentazioni a favore della ratifica sono state sempre legate all’urgenza della ratifica, e questo lo dico per coloro che tentano ad ogni costo di distinguere due questioni che non esistono, perché la questione è una sola: ratificare o no. Il dilemma è questo: o ratificare per riacquistare la sovranità del nostro territorio, per uscire dall’armistizio, per raggiungere la libertà di decisione sulle cose nostre e metterci in condizioni di far sentire la nostra voce fra le Nazioni; oppure non ratificare, sperando di conseguire i medesimi risultati in un altro modo.

Ma quelli che sono per la seconda soluzione, avrebbero dovuto precisare quale sia, secondo loro, questo modo. Io non ne vedo che uno, e non mi sento di avallarlo: speculare sulle discordie, sulle avventure, sui pericoli internazionali. Io spero che all’Italia sia risparmiato tutto quello che precederebbe e seguirebbe il verificarsi di simili eventualità. E se nessuno qui ha veramente pensato a qualche cosa di simile, allora è necessario non perdersi in frasi e guardare la realtà.

Se la seconda alternativa non è nei propositi di nessuno, non c’è che la prima: ratificare per tornare ad avere quella autonomia che la realtà ci consente; ratificare per poter cominciare a lottare per l’avvenire d’Italia.

Il Trattato è quello che è, ma non ci si prospetta la scelta d’altro trattato. L’alternativa è: o questo trattato o nessuno; cioè niente su cui fondare una politica, nessuna certezza circa i limiti delle altrui possibilità o velleità di disporre ancora delle cose nostre.

La ratifica è dunque necessaria, perché l’Italia vuole riacquistare al più presto la sua indipendenza nazionale, e nello stesso tempo abbandonare il fatale indirizzo isolazionista, sul piano internazionale, che, cominciato col fascismo, si concluse con la violenza e il sangue della guerra del 1940.

L’isolazionismo si abbandona offrendo e chiedendo delle garanzie, giocando la carta della collaborazione internazionale; certo senza troppe ottimistiche illusioni, ma anche senza quelle diffidenze preconcette e ostinate colle quali nessuna direttiva e nessun calcolo si possono fondare. La democrazia italiana vuole, in nome della pace, collaborare con gli Alleati; e per questo accettiamo di subire un trattato ingiusto ed iniquo per l’Italia, ma che fu l’unico compromesso fra le varie ambizioni e passioni alleate, nei nostri confronti.

Un compromesso raggiunto costituisce pur sempre una garanzia anche per gli sconfitti, una garanzia che, come bene ha spiegato l’onorevole Adonnino, limita l’arbitrio e le possibilità dei vincitori, di incrudelire, magari a dispetto l’uno dell’altro, e di aggravare il Trattato, addossandoci sacrifici ulteriori.

«Da che mondo è mondo – e qui cito le parole testuali dell’onorevole Adonnino – da che mondo è mondo, da che storia è storia, tutti gli sconfitti hanno sempre firmato i trattati di pace, anche i più gravi. Perché? Perché, è naturale, non l’hanno fatto certo con l’animo lieto di benedire la gravezza che i trattati imponevano loro, ma l’hanno fatto per limitare questi sacrifici; l’hanno fatto per impedire che il nemico andasse ancora oltre».

Infatti, onorevoli colleghi, a stretto rigore, è necessario ammettere che le conseguenze del disastro fascista, se noi non ratifichiamo, possono essere peggiorate, non certo migliorate. Vi fu bene a Parigi chi propose soluzioni ancora più gravi di quelle che sono state adottate e nulla impedisce di credere che, di fronte ad una nostra non escludibile situazione difficile, si verifichino pericolose resipiscenze, non già per quello spirito di vendetta a cui si accennò da taluni oratori, ma come conseguenza di ulteriori e differenti compromessi.

L’attuale momento internazionale è più delicato di quello in cui si svolse la Conferenza di Parigi: di fuori dal Trattato qual è, non ci si prospettano compromessi più favorevoli. La ratifica, insomma, rappresenta un baluardo che se ci impedirà, in ogni caso, di cadere più in basso, ci permetterà in molti casi di marciare avanti.

Ma veniamo ai punti essenziali. Che vi chiediamo noi? Vi chiediamo di autorizzare il Governo a depositare la ratifica con tutte le altre quattro Potenze, cioè anche con la Russia. L’Italia deve ratificare, l’Italia non ha libertà di altra scelta; ma la sua ratifica sarà depositata subito prima, insieme, o subito dopo quella dei Quattro.

Badate bene, io mi rifiuto di vedere in qualsiasi oppositore un desiderio nascosto di manovre parlamentari e elettorali; l’argomento è troppo grave per l’Italia per essere utilizzato a tali fini. Ma vi è piuttosto un’incomprensione. Coloro i quali ci dicono: noi non ratificheremo mai, finisca come finisca, io posso capire che respingano l’odierna proposta del Governo. In un certo senso, io mi inchino ad essi. Dopo tutto, non c’è fra essi una persona che ho fraternamente amato per tanti anni, Benedetto Croce?

Ma se ci si dice: noi vogliamo ratificare solo dopo i Quattro e quindi rinviamo la nostra ratifica, allora io rispondo: ma, con la formula che noi vi proponiamo, l’Italia consacra questo punto: che il Trattato, nei confronti di tutte o di una sola delle grandi Potenze, entra in vigore – o no, se la situazione diplomatica cambia – in pieno accordo coi Quattro. Noi appunto in questo modo ci leghiamo definitivamente le mani, diciamo cioè una volta per tutte: questo Trattato o marcia con tutti o non marcia con nessuno.

Se supponete che noi, speculando su un preteso desiderio della Russia di non ratificare, volessimo fare entrare questo Trattato in vigore soltanto verso la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, e la Francia, vi avremmo detto: non ratifichiamo oggi il Trattato; rinviamo tutto a settembre o dopo; forse allora l’America, l’Inghilterra, o che so io, ci proporranno un altro Trattato. Ma questo sarebbe stato furbesco machiavellismo, e noi non vogliamo niente di ciò.

A destra e all’estrema sinistra si è parlato molto dell’articolo 90. È una questione procedurale di cui fra breve non resterà alcuna traccia. Ma poiché ora se ne discute, sarà bene chiarire due punti che sono stati sollevati:

1°) si è detto che non conviene controfirmare una sentenza, che secondo l’articolo 90 non è ancora perfetta, aggiungendo che il Trattato, finché non sarà reso perfetto dalla ratifica dei Quattro, è addirittura giuridicamente inesistente;

2°) che, per chi ben consideri l’articolo 90, la nostra ratifica prematura non rappresenterebbe altro che una adesione politica a guelli dei Quattro che hanno già ratificato, e non avrebbe nessun valore giuridico in sé e per sé.

La verità è, per entrambi i punti, diversa.

Con la firma dei loro plenipotenziari, i vari Governi si sono già impegnati internazionalmente alla esecuzione delle clausole del Trattato.

La ratifica è un atto soprattutto interno con il quale si dà esecuzione nell’ordinamento interno di uno Stato ad un valido impegno internazionale.

Ma per noi italiani, e qui replico al secondo punto, la ratifica ha un valore giuridico superiore a quello che ha per tutti gli altri, e non ha nessun colore politico particolare; tutt’altro. Perché questo? Perché, come ben sapete, il 10 febbraio, a Parigi, all’atto della firma del Trattato, noi abbiamo depositato la formale dichiarazione che la firma rimaneva subordinata alla ratifica che spetta alla somma decisione di codesta Assemblea.

Per concludere, il Trattato esiste giuridicamente dopo che è stato firmato e la nostra ratifica è essenziale al Trattato, soprattutto in nome della riserva da noi depositata all’atto della firma. Ma non per questo il Trattato entra ancora in vigore, giacché, sempre per l’articolo 90, occorre il deposito delle raffiche da parte dei Quattro. A questo riguardo, debbo ricordarvi due cose: per quanto riguarda noi, la formula dell’onorevole Ruini garantisce l’assoluta identità della posizione italiana verso ciascuno dei Quattro, e che cioè la nostra ratifica sarà fatta valida solo col deposito delle ratifiche di tutti i Quattro.

Per quanto riguarda poi i Quattro, essi sono tuttora legati dall’intesa per cui il deposito delle rispettive ratifiche a Parigi sarà fatto contemporaneamente. Quindi essi, internazionalmente, sono tutti allo stesso punto. Quanto al piano interno di ciascun Paese, bisogna tener presente che, mentre negli Stati Uniti, in Inghilterra, ed in Francia la procedura costituzionale per la ratifica è complessa e lunga, nell’Unione Sovietica essa è semplicissima, poiché è di competenza dello stesso Presidente del Soviet Supremo che ha autorizzato la firma. Ora, se è possibile che il potere legislativo sconfessi quello esecutivo, è azzardato ammettere che lo stesso organo si sconfessi da sé. Del resto, come ho più volte detto e ripetuto, tutte le informazioni, anche le più recenti, ci fan credere che la ratifica russa sia quanto mai prossima e così il deposito dei Quattro a Parigi. Anzi, per quanto riguarda l’atteggiamento dell’Unione sovietica nei nostri confronti, ho una precisa ragione di ritenere che il pensiero russo al riguardo sia che il deposito delle ratifiche dei Quattro debba suggellare e non precedere un concreto atto da parte italiana che dia già per scontata la nostra ratifica.

Tutto ciò ribadisce, evidentemente, l’assurdità di una interpretazione antirussa della nostra ratifica. Ho mostrato poc’anzi l’infondatezza politica e ora l’infondatezza giuridica di tale interpretazione.

Lasciatemi adesso passare ad un altro argomento, che altrettanto e più è stato discusso a destra e all’estrema sinistra.

Si è detto che la pronta adesione del Governo italiano alla Conferenza di Parigi per il piano Marshall non sarebbe che una prova di più per dimostrare una nostra pretesa eccessiva condiscendenza verso il mondo occidentale.

Consentitemi di lumeggiare una volta ancora tale atteggiamento e dimostrarvi che quelle critiche sono del tutto infondate. Si è detto che il piano Marshall non è un piano; ma questo è vero solo in quanto esso deve tuttora essere tradotto in cifre e volumi, in bilanci ed annualità che rappresentino la media solidale delle esigenze fondamentali della ricostruzione europea. No: il piano Marshall è in senso concreto e sostanziale un piano, poiché costituisce un’impostazione fondamentale, e, soggiungo, l’unica possibile, per la soluzione dei problemi europei del dopoguerra: lo sforzo solidale dei popoli europei per raggiungere un più alto tenore di produzione e di vita, ridonando pienamente all’Europa la sua funzione nel mondo. Il finanziamento e l’aiuto americano sono subordinati a tale sforzo. Gli Stati rappresentati a Parigi hanno unanimemente riconosciuto che un piano di ricostruzione europea non poteva impostarsi senza l’Italia, senza la piena collaborazione di un popolo di 46 milioni di uomini sobri, attivissimi, intelligenti, di un popolo che in questi pochi anni del dopoguerra, nonostante difficoltà enormi, ha già dato all’Europa la prova della sua strenua volontà di vita e di lavoro. È perciò che, malgrado le speciali ancora vigenti condizioni della posizione internazionale del nostro Paese, l’Italia doveva essere chiamata a partecipare alla Conferenza di Parigi.

Taluno ha detto che la linea di condotta del Governo italiano alla Conferenza di Parigi si sarebbe troppo esercitata in schermaglie di prestigio. Niente di più inesatto. Se per prestigio si intende il riconoscimento dell’importanza del fattore italiano nel piano di ricostruzione europea, esso era già conseguito di fatto della nostra partecipazione di uguali fra uguali alla Conferenza. Se poi si vuol confondere le questioni di prestigio con la nostra presenza in tale o tal altra delle Commissioni della Conferenza, a cominciare dalla suprema, quella esecutiva, si tenga ben presente che la Conferenza di Parigi è una conferenza tecnica e che la nostra presenza era pertanto necessaria a noi e agli altri appunto in quelle Commissioni nelle quali particolarmente si svolgono lavori su cui abbiamo qualche cosa da dire a vantaggio dell’Italia e a vantaggio di quella unità economica e politica europea che per me si confonde cogli interessi dell’Italia. Nella Commissione suprema dei Cinque già si rileva un principio di solidarietà di due grandi da una parte e di due piccoli dall’altra. L’Italia in mezzo, fra questi due grandi e questi due piccoli, può esercitare un’azione di saggezza e di armonia che mi auguro e spero ed ho ragione di sperare che sarà conseguita.

Chi teme che la nostra azione sul piano di collaborazione europea possa portarci ad una politica di dipendenza confonde la dipendenza con la interdipendenza, che è ormai condizione e caratteristica di ogni rapporto economico nel mondo moderno. Solo gente con la testa indietro, come certi dannati dell’inferno di Dante, può immaginare una politica italiana di assoluta indipendenza. Una politica italiana di assoluta indipendenza è una politica di suicidio. Non vi sarebbe produzione senza mercati di materie prime e di consumo. Interdipendenza nel piano di collaborazione europea significa coordinamento di sforzi per un maggior benessere ed una più alta civiltà di tutti noi italiani e francesi e britannici e russi e così via.

Ed io vorrei che all’estero su questo punto si rendessero conto di quanto la maggioranza di questa Assemblea è stata d’accordo in questo principio. L’onorevole Giannini stesso, in un discorso, sulla cui prima parte avrei riserve da fare, mi trova pienamente consenziente con l’ultima, perché è solamente colla concezione di interdipendenza che noi possiamo sperare nella grandezza futura dell’Italia!

L’Italia si presenta di fronte al piano di collaborazione europea con un suo principalissimo elemento: il proprio inesausto potenziale d’ingegno e di lavoro. Il nobilissimo primato italiano nel campo del lavoro caratterizza il nostro apporto e ne costituisce l’aspetto sociale. Dire quindi che abbiamo imprudentemente promesso questo o quello, che ci siamo impegnati a tale o tal altro apporto (come ho sentito ripetere) è falsissimo. Falso oltre tutto, perché il lavoro dei Comitati tecnici di Parigi, dal punto di vista serio e costruttivo, comincerà solamente in agosto, cioè quando giungeranno le risposte ai questionari. Finora si è alle prese di contatto e si saprà come giudicare, criticare e approvare solo dopo l’arrivo delle risposte.

Vorrei dire una parola (perché un’esposizione non sarebbe completa senza un accenno a questo problema) su ciò che noi pensiamo circa la Germania. Circa il problema dell’area politica germanica nei confronti del piano di collaborazione, il nostro atteggiamento si è affermato fin dal principio nel senso che l’area germanica non possa essere esclusa dal piano, sia in generale per la sua importanza nel quadro della produzione e del consumo continentale, sia in particolare per quanto concerne noi italiani.

E per mostrare a tutti, critici e non critici, l’assoluta continuità del nostro pensiero, credo di non rubarvi troppo tempo se vi leggo il passaggio essenziale delle istruzioni che io stesso scrissi per la Conferenza di Mosca circa il problema germanico. Questo dissi e questo mantengo. Cito e leggo il documento di allora: «Il Governo italiano ritiene che un grave errore verrebbe commesso ove si ritenesse che la pacificazione definitiva dell’Europa possa essere il risultato di un semplice rapporto di forze senza riferimento ad un superiore principio di carattere morale e politico.

«È evidente che dopo questa orribile guerra occorrono dalla Germania riparazioni e garanzie efficaci, ma esse non saranno date che se guidate da principî che riflettano gli interessi, anzi le idealità di tutti e non da punti di vista particolaristici. La Germania deve riparare i danni ed i lutti causati dalla sua selvaggia aggressione, deve dare per l’avvenire garanzie affinché si raggiunga lo stroncamento di quelle forze che nel giro di trenta anni hanno due volte gettato il mondo nel. baratro. Ma appunto per questo il popolo germanico non deve essere messo fuori della comunità europea. Esso deve essere guadagnato alla democrazia ed allo spirito di collaborazione economica internazionale. Non dimentichiamoci che più ci allontaniamo dall’antico concetto di una comunità cristiana dei popoli e più dobbiamo riconoscere che la colpa mostruosa dei tedeschi diventa quasi un monito e simbolo di un male che in forma meno selvaggia potrebbe in un dato momento ripetersi presso altri popoli».

Questo dissi nel marzo, lo ripeto ora.

Nessuno ha pensato o pensa a Parigi a costituire un blocco occidentale, cioè un ordigno di guerra. L’Italia non si è allineata ciecamente dietro nessuno. Ha pensato solo a se stessa. Soltanto, lo dichiaro altamente, essa sa che il miglior modo di pensare a se stessa è di armonizzare i propri interessi con quel nascente panorama internazionale economico di cui ha parlato avant’ieri così nobilmente Luigi Einaudi.

A parte le disquisizioni giuridiche, di cui non resterà traccia, che cosa è scaturito da questo dibattito? Che due sono le concezioni per l’avvenire. Una fidente nell’Italia e nel concetto mazziniano del nostro divenire, e questa politica, questo programma sono quelli che l’onorevole Einaudi ha formulato così onestamente, così luminosamente e, con altrettanta fermezza se pur con minore autorità, io stesso.

L’altra è un’atmosfera di sospetti, di timori, di diffidenze, di perplessità. Di queste diffidenze, di questi timori, colui che se ne è quasi fatto araldo con maggiore pessimismo, un pessimismo senza speranze, è stato l’onorevole Nitti. Io, a questo concetto dell’onorevole Nitti sento di non avere autorità sufficiente per replicare. Ma gli vorrei citare qualcuno cui egli forse risparmia i suoi sarcasmi e le sue ironie ed è l’onorevole Nitti stesso. (Ilarità).

Io ricordo – e ricordo con affetto e con simpatia – quando nel lontano 1919 egli era Presidente del Consiglio, ed io ero un semplice modestissimo giovane Sottosegretario di Stato agli esteri. Ricordo un suo discorso che forse è uscito dalla memoria di molti, ma che a me fece molta impressione. Fu in questa Aula che egli disse, descrivendo gli orrori, gli odi, le antipatie, le gelosie dell’Europa di allora – che pure era un paradiso terrestre in confronto dell’Europa odierna – egli disse che bisognava fare di tutto per cercare di eliminare tali odi, tali rancori, che questo era possibile; che questa era una necessità ed una missione bellissima dell’Italia. E finì con una frase che fece sorridere molti praticoni e molti realisti di quest’Aula (parlo di quella del 1919); la frase fu: «L’Uomo di Stato che avrà più fortemente cooperato alla sanità dell’Europa e alla salute dell’Italia sarà colui che riuscirà finalmente a far nascere un sorriso su tutti i volti della gente straziata dell’Europa».

Ebbene, onorevole Nitti, mi permetta di non essere d’accordo col Nitti del 1947, perché sono d’accordo col Nitti del 1919. Forse sono la stessa cosa, con questa piccola differenza: che si è ottimisti se si è nel Governo e pessimisti se si è fuori del Governo. (Applausi al centro).

Ho finito. Io credo, onorevoli colleghi, che potete e dovete sentire che noi possiamo sbagliarci, ma che siamo arrivati alla tesi che sosteniamo dopo penosi momenti di studio, di meditazioni, di ansietà. È chiaro che noi non abbiamo altro interesse che quello dell’Italia e quello della pace europea che per me si identifica assolutamente coll’interesse dell’Italia. Quando queste polemiche, quando questi episodi saranno usciti dalla memoria, io vi assicuro – e questo sarà il solo accenno personale che mi sarò permesso durante il mio dire – che conserverò un ricordo commosso e rispettoso di un fatto che sto per dirvi, e che vi dico perché taluno in questa discussione ha a volte voluto distinguere Sforza da De Gasperi. Io vi dico con verità profonda – e perdonatemi se vi faccio una confidenza di carattere così intimo – che quando tutto questo sarà nebbia del passato, sarà per me un sacro ricordo di essere stato accanto per giorni e giorni al pensiero di De Gasperi, di averlo visto esitante in un senso e poi in un altro, di averlo visto soffrire perché non vedeva chiaro quale era il suo dovere; ma poi, al mio ritorno da Parigi, dopo una conversazione di lunghe ore, mi disse: «Durante la tua assenza, ho pensato, ho riflettuto, mi sono reso conto che se non vogliamo fare dell’Italia una navicella in balìa del vento, se vogliamo dare all’Italia dei fondamenti sicuri per l’avvenire, dobbiamo ratificare, accada quello che vuol accadere; non mi importa niente di essere Presidente del Consiglio, non mi importa niente di rimanere al potere, ma voglio servire la mia coscienza». Fu a quel momento che io mi dissi: «Tanto meglio per l’Italia, se ogni tanto ci sono degli uomini che preferiscono la coscienza al potere». (Vivissimi applausi – Il Presidente del Consiglio si leva in piedi e abbraccia l’oratore).

Questa, o signori, è la nostra cupidigia di servilità: servire l’Italia! Servirla nella pace! (Vivissimi prolungati applausi – Moltissime congratulazioni– Grida di Viva l’Italia!).

(La seduta, sospesa alle 13, è ripresa alle 14.15).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, tenterò di riassumere il significato di questo dibattito; soprattutto, richiamerò però l’attenzione vostra sul senso vero del voto che l’Assemblea è chiamata a dare.

Permettete che vi rilegga la dichiarazione che ho fatta all’Assemblea, quando comunicai che il Governo aveva deciso di firmare il Trattato:

«Potrà la firma avere carattere consensuale?

«Gli Alleati non ci faranno il torto di credere che la nostra resistenza al Trattato sia stata una meschina ed ipocrita manovra. Dalla più profonda intimità del mio spirito ho espresso io stesso nelle solenni conferenze internazionali, in forma pacata ma ferma, la nostra convinzione di uomini liberi e democratici; il modo con cui fu combinato questo Trattato e i termini nei quali fu imposto non ne fanno uno strumento atto a realizzare un nuovo assetto internazionale del mondo.

«A noi non è stata concessa nessuna partecipazione né alla negoziazione, né alle deliberazioni; del Trattato non abbiamo, quindi, né davanti alla nostra Nazione, né innanzi al mondo internazionale, corresponsabilità veruna.

«La nostra firma non può mutare la realtà, come si è svolta e quale fu denunziata in ogni fase della Conferenza.

«Essa non può cancellare il fatto che, nonostante la Carta Atlantica e la stessa recente costituzione francese, il Trattato dispone dei popoli senza consultarli, né può eliminare il fatto, purtroppo incontrovertibile, che la nostra economia da sola, nonostante ogni buon volere, non può portare il peso di cui il Trattato la grava.

«Mancheremmo alla lealtà, se intendessimo avallare con la nostra firma l’immeritata umiliazione imposta alla flotta – nonostante la sua efficace e riconosciuta partecipazione alla guerra accanto agli Alleati – l’insufficiente considerazione del nostro contributo alla lotta per la liberazione, e se lasciassimo credere che ci acquieteremo alla totale eliminazione delle Colonie e alla rinuncia a qualsiasi rivendicazione nei confronti della Germania.

«Non rifiutare la firma richiesta vuol dire, dunque, che il Governo italiano non intende pregiudizialmente fare atto di resistenza contro l’esecuzione del Trattato nell’eventualità che esso, perfezionato dal consesso dei parlamenti, in forza delle prevedute ratifiche, entrasse in vigore; significa che l’Italia vuole dare prova di buona volontà e di ogni sforzo ragionevole possibile per liquidare la guerra; vuol dire che l’Italia, nonostante il contenuto del Trattato, non dispera, non vuole disperare del suo avvenire e dell’avvenire del mondo».

Queste le dichiarazioni, che abbiamo qui pronunciate all’atto della firma. Queste le dichiarazioni, che bisogna premettere ad ogni conclusione del nostro dibattito.

Il significato del voto, dunque, per quanto riguarda le clausole, è questo: il voto non può implicare una adesione intrinseca, ma solo un impegno ad eseguire lealmente.

È in fondo, considerate bene, anche la formula di Benedetto Croce. Quando Benedetto Croce dice: non possiamo approvare questo documento; quando aggiunge: il Governo italiano non si opporrà all’esecuzione del dettato e se sarà necessario con i suoi decreti e con qualche singolo provvedimento legislativo lo perfezionerà, ma questo non importa approvazione; quando afferma: non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta; che cosa fa se non ripetere con altre parole, forse più indovinate, il senso ed il significato che io stesso qui attribuivo alla nostra firma?

Non dimenticate, amici miei – e già l’onorevole Sforza l’ha accennato nel suo discorso – che cosa è il Trattato.

Il relatore alla Camera francese, Gorse, disse chiaro: «Più che di fare la pace dei vincitori con l’Italia, si trattò di fare la pace fra i vincitori».

Ed il relatore al Senato americano Vanderberg, che, come sapete, partecipò a tutti i negoziati e alla compilazione del Trattato, dichiarò: «Vi sono molte obiezioni contro le clausole del Trattato, ma è quanto di meglio si è potuto negoziare nelle presenti circostanze. E una volta consumato il Trattato (mi piace quella parola «consumato») il Governo italiano potrà lavorare per la revisione delle clausole criticabili».

Nella relazione al Senato americano è detto: «Se molte delle clausole del Trattato sembrano eccessivamente dure per l’Italia, il Trattato stesso costituisce un punto di incontro (il che vuol dire un compromesso) fra quei Paesi che in passato hanno sofferto l’aggressione fascista e gli altri, fra cui gli Stati Uniti, i quali ritengono che il contributo dato dalla nuova Italia alla sconfitta della Germania debba avere il suo peso nel controbilanciare le richieste più gravi».

Eccovi nei documenti ufficiali fissato il significato vero del compromesso internazionale. Quando il Presidente degli Stati Uniti dice: «Alcuni termini del Trattato non sono in pieno accordo con i nostri desideri, ma il ristabilimento della pace fornisce le basi per la costruzione di una Italia forte, libera e democratica, e quando l’Italia sarà entrata nell’O.N.U. sarà possibile apportare al Trattato quelle modifiche, che potranno essere necessarie in base all’esperienza futura», egli conferma questo concetto di compromesso, dinanzi al quale non si precludono le speranze dell’avvenire.

Noi siamo stati durante tutta questa discussione perplessi: abbiamo avuto delle esitazioni ed abbiamo dovuto pesare il pro ed il contro nelle nostre coscienze, ma non noi soli. Uomini imparziali, che hanno assistito alla elaborazione del Trattato ed hanno avuto parte nelle negoziazioni del Trattato stesso, hanno avuta la medesima impressione. Vi cito Spaak che nell’ottobre del 1946 diceva: «Confesso che parecchie volte ho votato contro la mia coscienza. Dovetti ogni volta affrontare il dilemma, che mi si sarebbe dovuto risparmiare o respingere una soluzione che avevano accettata i «Quattro», e che non erano disposti a modificare colla prospettiva di demolire un edificio di cui i costruttori proclamavano la fragilità, o dar torto ad uomini che, secondo la mia coscienza, avevano ragione».

Questa relatività del compromesso internazionale, questa costrizione in cui le coscienze stesse sono state forzate per arrivare ad una conclusione ed evitare il peggio, è la caratteristica fondamentale di questo Trattato e questa caratteristica si impone anche alla nostra considerazione.

Il Governo russo, in seguito alla nostra campagna per la revisione, iniziata dal Ministro Nenni e proseguita dal Ministro Sforza dopo la nota del 10 febbraio, accentuò – e lo ha detto stamattina il Ministro stesso – la definitività del Trattato, respingendo la valutazione italiana, che esso fosse iniquo. Anche il Governo russo, come l’inglese, ammise che modificazioni sarebbero potute intervenire circa le clausole, che stabilissero diritti particolari a favore di una sola o di più Potenze, ma che – leggo il telegramma di Mosca del 19 febbraio – «le disposizioni del Trattato potevano essere modificate solo dietro accordo di tutti gli altri interessati». Ecco di nuovo il carattere di ferreo compromesso.

Dunque, ad un anno di distanza – ricordo la Conferenza di Parigi dei «Quattro» ove parlai il 10 agosto – la nostra posizione internazionale è ancora quella del «Lussemburgo».

Ora permettetemi, onorevoli colleghi, di richiamare la vostra attenzione sulla strana relatività dei casi e delle fortune di questa nostra evoluzione. Quando parlai a Parigi, feci fra l’altro la proposta di un modesto rinvio di un anno per la questione adriatica. Non rinvio del Trattato, come fu poi falsamente inteso, ma rinvio delle formule che riguardavano la questione adriatica, come si erano rinviate quelle sulla questione delle Colonie, dicendo: «Il Trattato entra in vigore e l’Italia lo approverà; ma lasciamo libera ancora alla elaborazione ed alla discussione, soprattutto fra italiani e slavi, la questione adriatica». Si alzò allora Molotov per farmi questa accusa: «Evidentemente c’è chi spera che, se non adesso, sarà prima o poi possibile annullare la decisione di compromesso raggiunto dal Consiglio dei Ministri degli esteri riguardo a Trieste. Se ne può concludere che taluno, rilevando le divergenze manifestatesi alla Conferenza di Parigi, progetta di sfruttare tali divergenze per scopi egoistici».

Alle dichiarazioni di Molotov fecero eco altre dichiarazioni sulla stampa italiana, sulle quali voglio sorvolare, per non accendere troppo la polemica. Ma debbo pur rilevare, che io mai avrei potuto immaginare che da quella parte (indica la sinistra) potesse essere sostenuto un rinvio, che un anno fa veniva interpretato come un tentativo di mettere discordia fra le grandi Potenze. (Applausi al centro –Commenti e interruzioni a sinistra).

Mi si rimproverava allora di non insistere abbastanza, perché «tutti i problemi legati alla pace, allo sgombero del nostro territorio ed alla nostra ammissione all’O.N.U., venissero risolti al più presto».

De Gasperi – si scriveva – ha chiesto invece che la questione di Trieste venisse rinviata. E l’uomo più autorevole di quel settore, in una intervista del 20 agosto all’Unità diceva: «Ritengo la proposta di rinvio sbagliata, e non solo per il motivo accennato da De Gasperi stesso, che ogni rinvio significa prolungamento dell’occupazione straniera, del suo schiacciante carico finanziario, e così via. L’essenziale è che se ci stanno a cuore le sorti del nostro Paese e vogliamo lavorare sul serio a migliorarne la posizione internazionale, dobbiamo mettere fine al più presto alla situazione in cui l’Italia è diventata lo zimbello dei gruppi reazionari che speculano sui suoi problemi e sulle sue miserie per gli scopi della loro politica imperialistica e per seminare discordia fra gli italiani, come se si trattasse di popoli coloniali dell’India o dell’Africa. (Commenti a sinistra). Un rinvio prolunga questa situazione in modo pericoloso e la porta verso la putrefazione. (Commenti). A meno che non si voglia speculare noi stessi su una probabilità di guerra. Ma questo sarebbe assurdo e criminale ed in contrasto con ogni sana concezione della funzione dell’Italia nel mondo».

Amici miei, perché cito queste parole? Forse perché non ammetto che nella vita politica, mutando le circostanze, si possano mutare opinioni? Mi aspettavo però di tutto da quella parte, fuorché si sostenesse il rinvio dopo che nei momenti più solenni dei nostri rapporti internazionali si era preso tale atteggiamento.

Ci sono delle manchettes che certe volte bisognerebbe fotografare.

Diceva l’Unità del 15 agosto: «Ogni rinvio della conclusione del nostro Trattato di pace è una minaccia per la nostra indipendenza. Una politica estera deve difendere innanzi tutto l’Italia da questa minaccia».

Ed è quello che noi stiamo facendo.

Allora Pacciardi, in un articolo del 18 agosto, prese un altro atteggiamento corrispondente al nobile e disinteressato discorso che egli ha qui ripetuto e del quale io, come italiano, e non come Presidente del Consiglio (perché nessun impegno c’è fra lui e me, nessun contratto né da una parte né dall’altra, nessuna speculazione politica), onestamente lo ringrazio. (Applausi).

Devo dire che anche Nenni (mi si permetta che io ora dica bene di lui, in contrapposto al molto male che dovrò dire poi), anche l’amico Nenni in una intervista allora diceva: «Comunque sia, quanto avviene alla Conferenza di Parigi, mi conferma l’impressione che riportai dal mio recente viaggio (vi ricorderete che fece un viaggio nei paesi nordici) e cioè che il Trattato è il risultato di un compromesso raggiunto in condizioni talmente difficili che nessuno dei Quattro osa rimetterlo in discussione. Questo, naturalmente, nulla toglie al dolore della protesta elevata con tanta dignità dal Presidente del Consiglio, che riceverà dalla storia, anche la più immediata, la sua consacrazione, poiché a Parigi nessuno può illudersi, ritengo, di costruire per l’eternità. Non sarà ancora asciugato l’inchiostro col quale saranno stati redatti i Trattati, che già si sarà iniziata la fase della revisione».

Come potevo pensare, amico Nenni, che in questo momento avreste votato per il rinvio?

NENNI. E come potevo pensare io che l’Unione Sovietica non avrebbe ancora ratificato?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E come potevo pensare che anche da parte degli amici di Togliatti si subisca la tentazione di votare per il rinvio, quando, non più tardi del 7 giugno, in un articolo di critica all’azione e all’opera dell’Ambasciatore Tarchiani in America si concludeva: «Per gli Stati Uniti, così come per l’Inghilterra, che lo ha già ratificato, così come per la Francia e per l’Unione Sovietica che si accingono a farlo, la ratifica del Trattato con l’Italia significa un impegno preso e che sarà mantenuto: ma significa anche, per noi, la possibilità dell’ingresso dell’Italia nelle Nazioni Unite, la fine del regime armistiziale e dell’occupazione straniera, la nuova vita del nostro paese su un piede di stabilità e di eguaglianza internazionale. Entro questi limiti la ratifica del Trattato (ingiusto ed eccessivo, ma inevitabile) è ormai un fatto scontato, e rappresenta un doloroso capitolo definitivamente chiuso: deve essere posto perciò su un piano superiore alle meschinità». (Approvazioni al centro).

Io vi domando soltanto una cosa: per quanto accorto io possa essere, come prevedere che la campagna contro il Trattato sarebbe venuta da quella parte, dopo tutti questi precedenti?

Egregi colleghi, parlo con la benevola e amichevole intenzione di dimostrarvi che voi, votando contro il rinvio, non fareste logicamente che attenervi alla linea di condotta precedentemente presa.

Ed ora parliamo della formula della ratifica o meno del Trattato. Mi si dice: hai cambiato atteggiamento anche tu. Se fosse vero, non avrei nessuna esitazione a confessarlo. Finché si è in guerra e in battaglia si usano tutti i mezzi, e se a un certo momento può giovare il dire che qui si troverà una resistenza disperata, anche se si sa poi di non poterla fare, lo si dice e lo si fa per vedere, se questo giovi a demolire certe obiezioni e certe ragioni. (Approvazioni al centro).

Io richiamo l’attenzione dell’Assemblea su questa questione che è molto seria; parlo a nome di un Governo italiano costretto a proporre deliberazioni sul Trattato. Siamo in un momento, che veramente supera le nostre forze e le questioni di Governo o di settore. È una questione italiana, storica, ed io voglio richiamare la vostra attenzione sulla formula che ho usato a Parigi evitando le parole «accettare o non accettare, firmare o non firmare» perché non c’era soltanto questa alternativa, ma c’è anche l’altra di dover firmare o subire. Ed allora ho scelto la parola, che storicamente vale di più: «corresponsabilità».

Rileggo le parole che ho detto a Parigi: «Per mesi e mesi ho inteso la necessità di potervi esprimere, in una sintesi generale, il pensiero d’Italia, ed oggi ancora, comparendo qui nella veste di ex nemico – veste che non fu mai quella del popolo italiano – dinanzi a voi affaticati dal lungo travaglio, ho fatto uno sforzo per contenere il sentimento e dominare la parola, onde sia palese che siamo lungi dal volere intralciare, mentre intendiamo favorire la vostra opera, in quanto essa contribuisca ad un assetto più giusto del mondo.

«Chi si fa interprete oggi del popolo italiano è combattuto da doveri contrastanti: da una parte abbiamo l’ansia, il dolore angoscioso, la preoccupazione per le conseguenze che derivano dal Trattato; dall’altra bisogna riaffermare la fede della nuova democrazia italiana nel superamento della crisi della guerra e nel rinnovamento del mondo operato con validi strumenti di pace.

«Tale fede è pure la mia ed io sono venuto a proclamarla qui al vostro cospetto; e sono venuti a proclamarla qui, con me, due autorevoli colleghi: l’uno già Presidente del Consiglio, prima che il fascismo stroncasse l’evoluzione democratica dell’altro dopoguerra, l’altro Presidente dell’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, entrambi degni interpreti di questa Assemblea, cui spetterà di decidere se sia il Trattato tale, da autorizzarla ad assumerne la corresponsabilità, senza correre il rischio di compromettere la libertà e lo sviluppo democratico del popolo italiano».

Noi oggi dichiariamo – e già da tutte le manifestazioni dei diversi settori dell’Assemblea risulta questa concordia – che non possiamo assumere la corresponsabilità del Trattato, in quanto esso contiene soluzioni ingiuste ed inaccettabili dall’Italia. Tuttavia nulla faremo per ostacolare l’attuazione dell’accordo raggiunto tra i vincitori e qualora tale accordo fosse mantenuto, daremo la nostra ratifica e coopereremo lealmente all’applicazione del Trattato con tutte le nostre possibilità.

Dunque il Trattato non è che un compromesso fra i Quattro che noi applicheremo per amor di pace. Ma esso è anche un edificio composito dal quale nessun contraente può immaginare di ricavare semplicemente quel tanto che può essergli utile e, in particolare, riferendomi ad un’obiezione sollevata dall’onorevole Valiani, il Governo dichiara – l’onorevole Sforza lo ha già detto stamattina – di considerare le clausole territoriali del Trattato che riguardano la Venezia Giulia un tutto inscindibile, per cui – non è male che lo ripetiamo – mancando, ad esempio, la ratifica jugoslava, tutte le clausole di ordine territoriale sono perente, compresa quella relativa al territorio libero della città di Trieste.

Questo è il significato dell’autorizzazione, che noi chiediamo alla Costituente; e noi siamo contrari a rinvii e a sospensioni, perché un simile atteggiamento ci attirerebbe il sospetto di non essere leali e di voler mercanteggiare con uno dei Quattro, o con due dei Quattro e accrescerebbe il turbamento in quest’ora così fluida, che noi speriamo venga fra poco superata.

Il nostro voto significa fede nella pace; il nostro voto significa fede nell’opera ricostruttiva della cooperazione internazionale, significa orrore contro ogni voce, ogni possibilità di guerra: l’Italia, una volta rientrata nei consessi internazionali, non parlerà solo per patrocinare la causa sua, ma parlerà anche in pro di tutte le Nazioni che si inspirano al diritto, di tutte le Nazioni che hanno fede nella libertà e ripudiano il ricorso alla forza per la risoluzione dei problemi di politica internazionale. (Applausi al centro).

L’onorevole Togliatti mi ha accusato di politica unilaterale, anzi di politica di partito nelle questioni che riguardano i nostri rapporti con l’estero. Io dubito che mai vi sia stato un Governo, cosiddetto di colore, il quale, nella collaborazione e nei suoi organi di politica estera, sia stato così largo come è stato il nostro; infatti non vi sono oggi, fra tutti gli Ambasciatori e i Capi missione, se non due soli che appartengono al gruppo della Democrazia cristiana. Tutti gli altri appartengono a partiti di sinistra o di centro (Rumori a sinistra), indipendentemente se questi siano dentro o fuori il Governo. (Rumori a sinistra). E reclamo per me questa larghezza di spirito, perché quando si tratta di interessi pubblici non si può guardare semplicemente a provenienze di partito! (Applausi al centro).

E non parlo solo degli Ambasciatori. Parliamo anche delle missioni particolari: della missione in Jugoslavia, della missione in America, della missione per la Cecoslovacchia e di quella per l’Argentina. In queste missioni le persone direttive non appartengono né al mio indirizzo, né al partito liberale. Abbiamo scelto le persone migliori, le abbiamo pregate di collaborare con noi, ci hanno dato la loro collaborazione e ne siamo loro grati e riconoscenti, perché intendiamo così collaborare, all’infuori delle contese di partito, per la grandezza d’Italia e per fare uscire il popolo dalle immense difficoltà in cui si dibatte! (Applausi al centro).

Voi non avete fiducia in me (Commenti), perché dite che io sono l’uomo dell’America, l’uomo della destra, l’uomo del capitale e dei dollari. Per i dollari vi confesso che ho un certo debole! (Si ride). Infatti penso tutti i giorni: potessi avere un po’ di dollari per comprare il pane e per acquistare il carbone per le nostre industrie! (Applausi al centro).

Però l’amico Nenni mi ha reso un grande servigio, come spesso egli fa. (Si ride). Quando ha lasciato il Governo ha scritto un articolo in cui ha fissato ben chiare le ragioni della sua dipartita. Così questa non si può attribuire ad un urto di politica estera tra me e lui, come si è voluto insinuare, ma a ragioni, direi, di carattere interno di gruppo. «Aggiungerò – egli ha scritto sull’Avanti – che ad attenuare l’inquietudine legittima che ha sollevato la nostra rinuncia ad una delle posizioni chiave del Governo, ha molto influito la personalità dell’uomo chiamato a dirigere la politica estera della Repubblica. Il conte Sforza, per i servigi eminenti che ha resi alla democrazia europea durante il suo volontario esilio, per le sue vaste relazioni internazionali, per l’esperienza che tutti gli riconoscono, è quant’altri mai in grado di rappresentare e di far valere nel mondo le esigenze di giustizia, di indipendenza, di autonomia della Nazione italiana. Non c’è da temere che egli compia l’errore di prendere sul serio i politici da strapazzo e gli strateghi da caffè, per i quali, oltre l’Adriatico ed oltre la linea Trieste-Stettino si stenderebbe un immenso territorio nemico, nei cui confronti la nostra funzione sarebbe di costituirci in avanguardia della cosiddetta civiltà cristiana o, per parlare più chiaramente e realisticamente, costituirci mercenari del capitalismo occidentale».

Se non vi fidate di me, fidatevi del conte Sforza, presentatovi con tali credenziali. (Applausi al centro).

L’amico Nenni, nominato Ministro degli esteri, forse anche perché poteva scrivere di meno, era divenuto una persona molto saggia. (Si ride). Egli aveva fatto molta esperienza e, alla fine delle sue esperienze, pronunciava nel discorso di Canzo le seguenti parole, che cito perché, quando si ascolta l’onorevole Togliatti sembra che tutte le colpe siano nostre e che quando si tratta di rapporti col mondo slavo tutte le colpe siano dell’Italia; possibile che non ce ne sia qualcuna anche dall’altra parte? Diceva dunque Nenni, forte delle sue esperienze: «È mancato in questo campo come in quello della delimitazione della frontiera la collaborazione italo-jugoslava. Noi non possiamo che deplorarlo ed augurarci che non sia più così nell’avvenire, ma lo deplorerà anche Belgrado che in questo campo si è lasciata guidare da propositi di intransigenza incompatibili cogli interessi dei nostri due popoli».

Ebbene, questo è il punto di vista che, almeno quando si vuol giudicare il proprio Governo o i propri mandatari, bisogna tener presente. Perché si fa quello che si può. Ma attribuire a noi tutte le colpe sarebbe ripetere l’errore di un discorso di ieri, che ha cominciato con l’attribuire il Trattato soprattutto alla responsabilità di tre anni di politica estera, quasi il Trattato non fosse una conseguenza diretta del ventennio fascista. (Applausi al centro).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Non ho detto questo!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. E allora faccio ammenda. Ma siccome si tratta ora di responsabilità del Governo italiano e in modo particolare dell’onorevole Bonomi, io mi rimetto a quello che egli crederà di dichiarare.

Ma l’onorevole Togliatti ha fatto un’altra accusa a prova della mia unilateralità: «Volete scommettere – dice – che l’onorevole De Gasperi non conosce nemmeno il testo esatto dell’intervista tra me e Tito nell’occasione del mio viaggio a Belgrado?». Ed io dico: No, il testo preciso non lo conosco; ma avevo un Ministro degli esteri, che si chiamava Nenni e che era in migliori rapporti di me con Togliatti; egli ha avuto comunicazioni da lui e queste comunicazioni sono state riferite anche in seno al Consiglio dei Ministri. Si seppe quindi cosa fu detto nei colloqui e il Consiglio dei Ministri prese l’atteggiamento fissato nel noto ordine del giorno in cui è detto: «Il Consiglio dei Ministri è stato informato di un colloquio avuto dal Ministro degli esteri in mattinata con l’onorevole Togliatti di ritorno da Belgrado, dove a titolo strettamente privato, egli ha esaminato con il Maresciallo Tito le questioni della pace tra l’Italia e la Jugoslavia, attualmente all’ordine del giorno davanti alla Conferenza dei Quattro a New York. Il Governo ravvisa nella rinuncia jugoslava alla rivendicazione su Trieste, nell’annuncio dell’imminente rimpatrio dei prigionieri italiani dalla Jugoslavia, nel proposito di negoziare un trattato di commercio tra i due Paesi, degli elementi nuovi che facilitano la possibilità di negoziati diretti nel quadro delle trattative generali per la conclusione della pace. Esso però non può prendere in considerazione la cessione alla Jugoslavia di Gorizia, parte integrante del territorio italiano, come tale dai Quattro unanimemente riconosciuta all’Italia, e richiamandosi alla sua ultima nota ai «Quattro» riafferma il principio che la frontiera debba essere tracciata seguendo la linea etnica e ricorrendo al plebiscito quando la applicazione di essa sollevi contestazioni».

Questa fu la decisione del Consiglio dei Ministri, formulata con molta abilità da Nenni e con minore abilità da me.

Ora voglio completare quello cui l’onorevole Nenni ha già accennato. Non è vero, che la cosa sia stata messa a dormire.

Nenni, d’accordo con me, a mezzo degli Ambasciatori che stavano a New York per la formulazione definitiva del Trattato dinanzi ai «Quattro», ha cercato di arrivare al sodo di questa intervista, di arrivare a vedere, all’infuori delle confidenze che erano state personali fra il Maresciallo Tito e Togliatti, quale posizione ufficiale venisse assunta da parte degli slavi. Ed una lunga serie di telegrammi del Ministro e di risposte dei nostri rappresentanti, riferiscono sui colloqui intervenuti con l’Ambasciatore Simic e con il Delegato Bebler e mettono in risalto quello che si può considerare il succo ufficiale di queste trattative.

Nell’ultimo colloquio, senza essere arrivati a nessuna conclusione precisa, si diceva che si sarebbe visto volentieri l’invio a Belgrado di una missione italiana, la quale, benché di carattere soprattutto economico, servisse a creare quella atmosfera di avvicinamento, che potesse poi portare a qualche conclusione anche nella questione territoriale. Ed ecco qui che l’attività di Nenni si è rivolta a preparare questa missione, e l’attività del nuovo Ministro degli esteri Sforza, ha continuato a svolgersi su questa linea, tanto che ne è venuta fuori la missione Merzagora-Mattioli, e finalmente siamo arrivati alla ripresa ufficiale dei rapporti jugoslavi ed italiani con la nomina di un nostro Ministro a Belgrado e del Ministro di Belgrado a Roma.

Ora, se ci fosse bisogno di una nuova dichiarazione (non ce ne sarebbe perché le prove le abbiamo date), se ci fosse bisogno di ricalcare la dichiarazione fatta oggi dal Ministro degli esteri, sono qui a dirvi che siamo pronti in qualunque momento a riprendere le trattative anche sulla questione territoriale, anche su arrangiamenti che si manifestassero necessari, di carattere economico, di carattere politico, ecc. All’atto della attuazione, anche se si dovrà applicare il Trattato come è, noi riconosciamo che per il territorio libero di Trieste, come per la soluzione di altri problemi, abbiamo bisogno di cooperazione, affinché non soffrano troppo i loro e i nostri conterranei; siamo sempre disposti a trattare, purché non ci si voglia esporre alle accuse di doppio gioco. Tutto quello che si fa deve essere fatto in pubblico, nel quadro delle Nazioni Unite, nel quadro a cui ci obbliga il Trattato. Non vogliamo si dica, che contemporaneamente trattiamo in un senso e nell’altro.

Siamo insomma pronti a qualunque trattativa, che porti il consenso dei Quattro maggiori responsabili del Trattato. E faccio appello di nuovo alla Jugoslavia di non credere a quello che si stampa nei giornali, cioè che il presente Governo sarebbe antislavo. Il presente Governo è italiano, agisce nell’interesse dell’Italia, vuole un accordo colla Jugoslavia, vuole una amicizia con la Jugoslavia anche per la difesa delle minoranze. E lì la situazione è così tesa, che abbiamo visto una città intera, nonostante le nostre obiezioni, partire; esiliarsi volontariamente dalla Patria antica. Ed io mi domando, quando ho visto questi profughi, e li vedo tutti i giorni, se ci può essere ancora per gli Alleati e per il mondo intero una prova più palmare dell’ingiustizia di un Trattato, che porta all’esilio volontario e fa sì che uomini, che avevano una casa, una.officina, un campo, tutto abbandonano ed emigrano con vecchi e bambini. (Vivi, prolungati generali applausi – Il Presidente della Assemblea, i deputati ed i membri del Governo si levano in piedi – Interruzione dell’onorevole Scoccimarro).

Amico Scoccimarro, siamo d’accordo in questo momento; se in questo momento siamo d’accordo, perché turbare questa concordia e questa manifestazione?

L’Italia non può guardare ad una sola frontiera. Voltiamoci dall’altra parte e diciamo nella stessa forma che noi siamo disposti ad ogni trattativa, che possa trovare, finalmente, una soluzione umana e moderna del problema coloniale. Nel Trattato c’è la rinuncia alla nostra sovranità sotto il titolo antico. Ma noi non abbiamo rinunciato alla cooperazione del nostro lavoro, alla amministrazione fiduciaria di territori, che dovranno essere affidati a qualcuno. E nelle colonie prefasciste a chi meglio potrebbe essere affidata l’Amministrazione, sotto il controllo delle Nazioni Unite, se non a chi vi ha profuso tanti uomini, tanti mezzi, tanto lavoro e che ha braccia pronte a riprendere questo lavoro?

Parlavo ieri con un colonizzatore della Somalia arrivato in questi giorni e che mi riferiva del lavoro che si sta facendo, e come, nella disgrazia comune, colonizzatori italiani e somali si sono affratellati, e gli uni hanno sentito che dovevano trattare i somali come li trattavano prima del fascismo, e gli altri hanno capito che gli italiani sono diventati un altro popolo, una vera democrazia pronta a ricostruire assieme a loro la prosperità di quelle colonie. (Applausi al centro – Interruzione del deputato Scoccimarro).

Ora, amico Nenni, vi voglio portare un’altra prova della mia ingenuità. Non potevo pensare che l’onorevole Nenni sarebbe stato avversario della nostra tesi in questo momento, quando nell’Assemblea Costituente del 18 febbraio, trattandosi della firma, diceva: «Noi mancheremmo al nostro dovere verso il Paese, se lasciassimo credere che l’atteggiamento del Governo e del Paese poteva essere diverso da quello che è stato e noi commetteremmo una grave colpa non solo nei confronti della generazione attuale, ma delle generazioni future, se lasciassimo sussistere il dubbio che potevamo sottrarci all’obbligo della esecuzione. La verità, signori, è che la situazione creata dalla disfatta è tale che, se anche le condizioni del Trattato fossero state per evenienza peggiori di quelle che sono, noi non avremmo potuto che eseguirle».

Onorevole Nenni, allora vedevate la situazione con alto senso di responsabilità. Provatevi a fare un certo sforzo e a vederla così anche al presente. In questo momento lasciamo da parte le piccole differenze, che ci possono dividere…

NENNI. Fra qualche settimana, se lei aspetta le condizioni.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Si creano le condizioni. Vengo a questo.

Ed ora vengo ai quattro punti di Togliatti, che mi sono apparsi come quattro condizioni, per prendere una decisione qualunque. Non voglio, naturalmente, speculare su questa decisione. Io non faccio appello qui a nessun sentimento, né antigovernativo, né governativo. Dico che la questione è assolutamente superiore a qualsiasi questione di favore o di opposizione al Ministero.

Quelle che io dico sono parole sacrosante, come ha accennato Sforza, uscite dall’animo mio nella confidenza di un colloquio segreto. Dissi e dico che non m’importa niente né della formazione del Ministero, né della sua costituzione, né se abbiamo un Ministero A o un Ministero B: quello che importa sapere è quello che ho il dovere di fare in questo momento storico per la mia Nazione e a servizio del mio popolo. (Applausi al centro).

Allora vengo ai quattro punti dell’onorevole Togliatti. Egli ci ha detto anzitutto che dobbiamo aver cura dell’indipendenza del nostro Paese. Evidentemente intendeva parlare dell’indipendenza politica, perché poi accenna alla costituzione dei Governi.

Ed è vero. Nel passato abbiamo avuto una situazione armistiziale avvilente. Dovemmo, ogni volta che entravamo in un Ministero, controfirmare tutti l’armistizio, assumere la responsabilità dell’armistizio, che era stato firmato fuori di noi a conclusione di una tragedia, in cui non avevamo avuto che una parte passiva. Dovevamo firmare: potevamo anche non firmare. Ma, quando penso all’amico Bonomi, che dall’inizio ha dovuto rifarsi un dicastero, una polizia, dei carabinieri, ricorrendo ai minimi mezzi; sviluppando faticosamente ciò che a Salerno era appena iniziato…! Abbiamo avuto un’illusione, autorevole amico Orlando; forse abbiamo avuto una illusione di più. Abbiamo pensato che, se il Governo, che ci avrebbe rappresentati alla Conferenza internazionale, fosse stato un Governo, che avesse lavorato per l’antifascismo e nel senso della cooperazione cogli Alleati fin dal primo inizio, avrebbe trovato più facile ascolto di un Governo come quello del Maresciallo Badoglio, che ci fosse andato con tutte le responsabilità della guerra precedente.

Ci siamo sbagliati? Non lo so. Bisognerebbe fare la prova del contrario. Ma so che questo fu il nostro proposito e il significato del nostro sacrificio.

Ora lo straniero…, onorevole Orlando, non si può, in una guerra europea che ha un significato, direi, di guerra civile in tutto il mondo, oltre che di guerra tra le singole Nazioni, non si può spiegare tutto semplicemente, nel senso antico: patria e straniero. Vi sono degli stranieri per i quali è lecito, doveroso collaborare; vi sono altri, contro i quali bisogna combattere. Quindi, non è che noi in quel momento potevamo mettere sullo stesso livello lo straniero tedesco, che bisognava ricacciare, e lo straniero, che veniva – anche per i suoi interessi – ma anche nell’intima convinzione, credo, di liberare l’Italia da una dittatura pericolosa.

Se la guerra fosse finita diversamente, se quell’altro straniero avesse potuto mettere radici in Italia, cosa sarebbe avvenuto della nostra libertà? Come chiamare indiscriminatamente straniero quello che ci è venuto in aiuto? Si è detto tanto male degli Alleati in questi giorni, ed in parte a ragione, specialmente dei giuristi, che hanno compilato il Trattato. È doveroso, però, un segno di gratitudine per quelli che sono venuti a battersi e sono morti in terra italiana. (Applausi generali).

Se poi l’onorevole Togliatti intendeva alludere alla formazione del presente Governo, qui siamo proprio nel campo della suspicione.

A questo riguardo Togliatti assomiglia molto agli slavi, se è vera la caratteristica che ha dato di loro stamattina il Ministro Sforza, di essere particolarmente sospettosi (Si ride); ciò che sarebbe consono, a tutta la tradizione di Bisanzio. (Interruzione a sinistra). Io dico: l’ultima crisi – torniamo sempre al dente che duole (Si ride) venne fatta per problemi interni, economici e finanziari ed il Capo dello Stato liberamente incaricò prima Nitti, non so se d’accordo con gli slavi o con gli inglesi (Ilarità), poi Orlando, non so se d’accordo con lo straniero americano, infine me. Dunque, su basi parlamentari, libere, si è formato il Ministero attuale. Non riconosco altra origine, e respingo come un’accusa infondata quella di favorire in qualunque maniera lo straniero o chicchessia che non rappresenti collaborazione utile o non venga incontro agli interessi dell’Italia. (Applausi al centro).

Con ciò, amico Togliatti, credo (per quel che possono valere le mie parole, perché se alle mie parole non si presta fiducia, è inutile parlare) di aver fatto dichiarazioni tali, che vi possono liberare dal sospetto che questo possa essere un Governo il quale subisca l’influenza di una delle grandi Potenze.

Nel secondo punto Togliatti dice: parliamo di esclusione di un intervento economico straniero. Qui, evidentemente, così come l’ho ricavato dall’Unità, voleva dire intromissione e ingerenza indebita. Togliatti molto bene ha distinto tra aiuti e crediti. Ha detto che bisogna finirla con gli aiuti ed insistere per i crediti. È proprio ciò che stiamo facendo. Credo che gli aiuti, quelli post U.N.R.R.A., siano gli ultimi che riceviamo. Ma abbiamo bisogno, di questi 130 milioni di dollari (possiamo domandarlo al Ministro del commercio estero) per comperare il pane per i prossimi mesi, ed il carbone. Non è umiliazione questa, perché chi ce li deve dare se non chi li ha, e chi li deve chiedere se non chi ne ha bisogno? (Applausi prolungati al centro).

Per il resto, trattiamo per ottenere i crediti e tutto il camminare che si è fatto nel viaggio in America non è stato certo il viaggio di un mendicante. È uscito, proprio in questi giorni un libro, in cui si espone veridicamente il diario di tutto quanto io ho fatto in America. Invito i colleghi a leggerlo, specie quelli che dubitano: dicano se l’atteggiamento di un uomo che si è comportato come me, che ha parlato come ho parlato, che ha detto quello che ho detto, che a Cleveland ha citato, per farla sua, una espressione del Presidente Cleveland: «L’indipendenza dei popoli è legata al loro onore, e guai a chi lo dimentica»; dicano se tale uomo abbia mancato di provvedere alla dignità di un delegato del popolo italiano (Applausi prolungati al centro). Su vari banchi si è espressa la facile, ma perniciosa immaginazione che l’America abbia una gran voglia di regalare prestiti e soprattutto all’Italia, anzi che ne abbia urgente bisogno per i suoi stessi interessi; io vi dico invece che il chiedere e l’ottenere è faticoso, che bisogna meritare questi crediti e che vengono richieste tutte le garanzie possibili e la garanzia maggiore (Rumori a sinistra) è la potenzialità delle industrie e la forza del nostro popolo lavoratore. A queste garanzie ci siamo richiamati in America, non in ginocchio e non a testa bassa, ma in piedi e francamente, come uomini che sanno che domani potranno restituire. Questa è la seconda questione, e mi pare di aver risposto in modo sodisfacente.

Mi sono molto affaticato per trovare una risposta sodisfacente a Togliatti perché ci tengo molto, a parte qualsiasi questione di voto, che se dobbiamo essere avversari, in lui ci sia l’opinione che quando dico qualcosa e lo affermo perentoriamente, questo corrisponde alla verità, almeno alla verità come la vede la mia coscienza. (Commenti a sinistra).

La terza questione riguarda i blocchi. Si è detto: nessun blocco, nessuna partecipazione a blocchi contro la Russia con lo scopo di isolarla. Ora devo dire, che anche questo è un discorso vecchio. In tutti i miei discorsi ho rilevato, sia in quelli di politica interna, che in quelli di politica internazionale, l’importanza meritoria del contributo alla guerra della Russia. Ho rilevato il contributo della sua esperienza sociale, perché non sono abbastanza cieco da non vedere che vi possono essere dei difetti anche nella democrazia americana, per mancanza di certe leggi sociali, e da non vedere, viceversa, i vantaggi che vi possono essere nel sistema di un paese in cui la ricchezza è minore, il tenore di vita dei lavoratori è più basso, ma dove si tenta un grande sforzo verso la giustizia sociale.

Mai si distoglie il mio sguardo da questa diversità di contributi, che possono confluire e spingere innanzi il carro del progresso nel mondo, e mai l’ho celato anche a Molotov, ogni volta che mi sono incontrato a Parigi e a Londra con lui. Ho creduto mio dovere di tentare di persuaderlo (peccato che io non conosca bene il russo!) che in me cristiano cattolico tale convinzione sociale e religiosa allargava, anziché restringere il mio sguardo su quello che può essere progresso, su quello che può essere anelito verso la giustizia, sia pure accanto alle obiezioni che si possono avere contro questo o quel sistema.

Togliatti dice: «Ma siete andati in tutte le direzioni; Nenni è andato nei Paesi settentrionali, Sforza nell’America del Sud e poi De Gasperi nell’America del Nord». Ma io in America fui invitato da un organismo internazionale, non ufficiale, dal quale si sviluppò poi un viaggio di carattere ufficioso e poi ufficiale. E potevo io, in un momento in cui mi presentavo per la prima volta ad una Nazione che era stata la più generosa verso di noi, non soltanto di aiuti materiali, ma anche di riconoscimenti dal punto di vista politico, della libertà, della democrazia, rinunciare di mettermi a contatto coll’opinione pubblica americana e con migliaia e migliaia di italiani, ai quali dobbiamo tanto per gli aiuti che ci hanno dato durante questo periodo, ed ai quali dovremo ancora tanto se quegli americani si manterranno fermi nel loro proposito verso di noi come hanno promesso? E non può essere diversamente, perché gli americani, che sono di origine italiana, se sono leali cittadini della loro nuova patria, non dimenticano e non dimenticheranno mai di essere di sangue e di stirpe italiana.

È vero che in questa discussione ed in queste relazioni ho ammesso che credo alla esistenza anche di un lievito idealistico nella fermentazione ideale e spirituale tra Italia e America, appunto perché non è sempre un problema di cifre od un problema economico quello che si considera. Naturalmente il problema economico e finanziario esiste; ma chi credesse che il problema sia esclusivamente economico ripeterebbe l’errore di Mussolini e di Hitler, i quali hanno creduto che ci fosse soltanto un interesse economico da regolare. Ma l’America ha speso in questa guerra 400 miliardi di dollari per aiutare quei Paesi che tentavano di crearsi una vita veramente democratica, ha dato 14 miliardi di dollari di merci alla Russia, con molta generosità, pur di vincere contro il nazismo e il fascismo.

Volete voi che noi neghiamo questo contributo ideale? Volete che lo addebitiamo alle semplici speculazioni economiche, e volete che crediamo che tutto quello che si fa in America si faccia soltanto per evitare una crisi americana?

Non sarebbe spiegabile tutto quanto l’America ha fatto fin qui, tutti i sacrifici sostenuti con la massima generosità, se nel suo dinamismo non ci fosse anche un lievito morale e spirituale. Qui non entro nel dettaglio della esegesi che ha fatto l’onorevole Togliatti alle parole e ai discorsi di Truman, che si possono e si debbono interpretare anche un po’ diversamente da quanto egli non abbia fatto; ma è certo che esiste un fattore spirituale di cui dobbiamo tener conto in considerazione anche dei problemi di altra natura.

Io a questo riguardo debbo dire di desiderare vivamente che, appena il Trattato sarà definito, si riprendano le relazioni più amichevoli anche con la Russia, lo desidero pure per gli altri Paesi orientali e lo desidero non soltanto per la pace del mondo, ma anche per gli interessi dell’Italia, per gli interessi della nostra zona economica che costituisce, in parte, un complemento di quella orientale e soprattutto perché sarà grande fortuna per noi, popolo di frontiera, se a noi riuscirà di essere, tra le due civiltà, come un ponte di conciliazione. Certamente siamo nati e sorti nella civiltà occidentale, la quale, per dire meglio, non è occidentale né orientale, ma è civiltà italica ed è civiltà che viene da Roma. (Applausi al centro).

Ad ogni modo, non certo io ho preso il partito per un blocco, come ha detto l’onorevole Nenni, e non ho, in questo senso, cambiato fronte. L’anno scorso, il 15 agosto, in un’intervista, rispondendo a Molotov, io dicevo: «Noi non intendiamo partecipare a blocchi; diamo la massima importanza alle relazioni economiche con la Russia, ma è naturale che, nella nostra situazione, i nostri rapporti con l’America siano più intensi. Si pensi al grano, al carbone, all’U.N.R.R.A., al prestito, alla ripresa industriale dei tessuti e si dica se questo punto di vista non sia comprensibile e ragionevole».

Questo era il mio punto di vista del 15 agosto dello scorso anno, questo è il mio punto di vista di oggi. Ma se vi è bisogno di affermare che noi non prendiamo parte in alcuna forma, in alcuna misura, ad eventuali tentativi – posto che se ne facciano – di isolamento della Russia, o a tentativi che potessero portare a blocchi più tardi, io torno a fare questa dichiarazione, con il senso di responsabilità che mi incombe, con il desiderio e la volontà che ho oggi di rappresentare l’opinione e gli interessi del Paese.

Le osservazioni dell’onorevole Nenni sul piano Marshall non sono contradittorie con ciò che si è fatto da noi. Anche noi abbiamo trattato con la Jugoslavia, con la Cecoslovacchia e con la Polonia; noi cerchiamo la ricostruzione della unità produttiva ed economica tedesca; noi abbiamo la coscienza della necessità di alimentare la nostra cerealicoltura, ma anche di difendere la nostra industria; noi sappiamo che le esigenze più vitali sono quelle del lavoro che debbono superare quelle della materia e della macchina.

Ma ho udito delle dichiarazioni dell’onorevole Nenni secondo cui i socialisti, qualora venisse respinto il rinvio, si asterrebbero: perché, onorevoli socialisti, quando si tratterà di votare un testo che è stato modificato, per tenere conto anche dei vostri desideri, voi vorreste tenere un atteggiamento di questo genere?

Il Governo sapeva bene in qual forma avrebbe dovuto dare la ratifica, come era prescritto anche dall’articolo 90; ma, sentite le obiezioni formulate in seno alla Commissione dei Trattati ed anche quelle che sono emerse da alcuni colloqui privati con lo stesso onorevole Nenni, noi abbiamo elaborato un’altra formula la quale poi disgraziatamente ha assunto il nome di formula «democristiana», perché essa era nata in una discussione del mio Gruppo con qualche variazione rispetto a quella originaria proposta dall’onorevole Nenni; ma se questa è la condizione perché sia votata e approvata, ebbene riconosciamo i diritti d’autore e diciamola pure formula di Nenni. (Ilarità al centro – Commenti a sinistra).

NENNI. Né il Ministro degli esteri, né il Presidente del Consiglio ci hanno ancora detto che cosa pensano di fronte alla nuova nota sovietica di stamane.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Neanche lei conosce il testo della nuova nota sovietica. (Ilarità).

Verrò subito a questo argomento ma intanto ho bisogno, scusate, di una piccola parentesi, per una questione particolare che mi sta – ed è naturale – specialmente a cuore. L’amico Ruini è un po’ preoccupato per la formula dell’accordo per l’Alto Adige, là dove si parla di un potere autonomo regionale. Badate che già a Parigi, prima ancora che l’accordo che era stato ufficiosamente concluso fosse ufficialmente firmato, già a Parigi io ho dichiarato: «È stato raggiunto – questo è il discorso del Lussemburgo – un accordo su un’ampia autonomia regionale da sottoporsi alla Costituente». Quindi, è chiaro che è riservata alla Costituente l’approvazione dell’estensione di questa autonomia, e quindi il contenuto specifico del potere autonomo. Con ciò credo di averlo tranquillizzato, a meno che la Costituente non faccia come con la Sicilia, si che trascini talmente il coordinamento da mettere il Governo in grave imbarazzo.

L’accordo venne firmato a Parigi il 5 settembre, badate, nel solo testo inglese. Mentre il Trattato fa legge nei testi francese, inglese e russo, il testo che fa legge per l’accordo è solo l’inglese, perché così è stato stabilito tra Grüber e me dopo che l’elaborazione dell’abbozzo era stata fatta in inglese dall’ambasciatore Carandini. Di qui l’origine di questo testo ufficiale. È stato, comunque, allegato al Trattato con questa formula: che è il testo inglese quello che vale.

Questo devo dire e constatare, perché non sorgano dubbi sulla interpretazione, anche perché alcuni interessati circoli dell’Alto Adige hanno tentato di modificare quello che dell’accordo è il vero significato.

Ed ora cerchiamo di riassumere; e se non dovessi dire tutto, prego l’onorevole Nenni di avvertirmi di ciò su cui desidera una più precisa risposta.

NENNI. Desidero sapere quello che né il Ministro degli affari esteri né il Presidente del Consiglio ci hanno detto: che cosa è – secondo le informazioni diplomatiche che il Governo certamente deve avere e che io semplice deputato non posso avere – che cosa è e quali conseguenze giuridiche e politiche ha sul Trattato l’ultimo atteggiamento dell’Unione Sovietica?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Noi non abbiamo né conosciamo la nota sovietica, perché è un testo confidenziale fra la Russia e l’Inghilterra; potremo sapere solo quello che ci verrà trasmesso dai nostri ambasciatori; sappiamo però che la Russia non dichiara affatto di non ratificare, anzi dice il contrario, ma fa questione di tempo e di procedura.

Una voce a sinistra. Allora aspettiamo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La vostra conclusione non è logica, perché noi affermiamo che noi dobbiamo decidere in modo autonomo, secondo quelli che riteniamo gli interessi del nostro Paese.(Commenti a sinistra).

Il Governo non ritiene che l’Assemblea possa e debba assumersi la responsabilità di respingere e di non eseguire il Trattato. L’enorme maggioranza della Commissione per i Trattati ha condiviso questo punto di vista.

E tale è il pensiero espresso dalla maggioranza degli oratori dell’Assemblea. L’annullamento del compromesso dei Quattro porterebbe ad un grave turbamento internazionale e riaprirebbe la questione italiana esponendoci a pericoli di intimazioni perentorie e di azioni coercitive. Data la nostra situazione economica, noi saremmo esposti o ad un unilaterale servilismo aggrappandoci all’uno o all’altro dei Quattro o ad una totale umiliazione, quando questi Quattro facessero tutti fronte contro di noi. (Commenti a sinistra). È facile prevedere che il turbamento si propagherebbe agli altri paesi in posizione analoga. Noi correremmo, inoltre, il rischio di perdere le concessioni assicurate o previste negli accordi recenti circa le navi sequestrate, i beni italiani all’estero, ecc. Si riaprirebbero le questioni territoriali e quelle delle riparazioni, non forse per parte della Russia, ma per parte di quegli Stati che solo la pressione della Russia ha ridotto a minori richieste, come ricorderete. Si ritarderebbe ogni decisione sulle nostre colonie, e continuando il regime armistiziale, verremmo esclusi da ogni collaborazione internazionale.

La pace mondiale, l’interesse del popolo italiano, che al di là di ogni formula giuridica sta riprendendo la sua vita economica col concorso dei popoli amici, esigono questo sacrificio. Noi questo sacrificio compiamo per parte nostra, ed ora tocca a voi decidere. Noi del Governo lo compiamo, con coraggio e con fierezza assolvendo un duro compito del destino, quale è quello di pagare per colpe non nostre e per le conseguenze di una guerra che abbiamo invano deprecato.

Il popolo sa che le nostre mani sono pure del sangue versato, e che i nostri propositi sono puri e disinteressati, e che mettiamo sull’altare della Patria quale olocausto, la nostra reputazione, il nostro credito politico e ogni calcolo elettorale!

Noi non crediamo alle collere del popolo contro di noi (come ci si è minacciato), perché abbiamo fede che esso si è maturato, che esso alberga nel suo animo il senso della realtà e della giustizia.

Certo sarebbe stato più facile il nostro compito, se avessimo potuto servire il popolo nei tempi della vittoria, ma il coraggio civile più alto e disinteressato è quello di chi serve nel momento della sconfitta! (Applausi al centro). E sa affrontare l’impopolarità per trarlo dall’abisso in cui un nazionalismo orgoglioso e sentimentale, aggiunto ad uno spirito di aggressione, lo ha precipitato.

Io sento in questo momento che i combattenti, i veri combattenti, che i morti di queste due guerre non sono contro di me, combattente io pure per la pace, perché essi sono morti per la libertà e l’indipendenza dell’Italia, e questa è la nostra meta comune!

Si è parlato dei marinai e delle navi. Ogni sforzo è stato fatto durante le trattative pubbliche e private; in molte ripetute conferenze, ogni sforzo è stato fatto per ottenere mutamenti di formule, mutamenti di esecuzione.

Abbiamo ottenuto soltanto degli addolcimenti pratici per cui continuiamo anche oggi a lavorare, affinché non ci sia lo scandalo a cui ha accennato l’onorevole Orlando. Questa è la nostra posizione. I marinai d’Italia sono tornati a navigare liberamente nei nostri mari, e nei porti toccati si è levato verso di essi il plauso riconoscente di tutto il popolo d’Italia. È stata ed è preoccupazione costante del Ministro e del Governo di tutelare la dignità di quella Marina italiana che nella lotta di liberazione ha sacrificato eletti, eroici equipaggi e centosettantacinquemila tonnellate di navi. (Vivissimi, generali, prolungati applausi – L’Assemblea si leva in piedi – Si grida: Viva la Marina!). Oggi ho sentito con sincera commozione l’onorevole Giannini, quando ha ricordato la vittima che gli è vicina e quanti altri deputati hanno avuto i loro figli o parenti rimasti vittime di questa guerra. Ma oggi sento che noi combattiamo per la stessa mèta, per una Italia indipendente e per una Italia prospera che possa risalire ancora alla gloria del servizio per la Patria.

La comprensione di tanti eroismi, di tante volontà è completa nei compagni d’arme delle Grandi Potenze. Noi oggi operiamo perché questa comprensione sia completa anche in coloro che devono interpretare ed applicare l’articolo 57 del Trattato di pace.

Avendo avvicinato i profughi di Pola ed i cittadini di Trieste e di Gorizia con i quali ho combattuto tutto questo periodo, trasfondendo il mio sentimento nel loro, posso dire che, pur piangendo sopra questa orrenda ed iniqua mutilazione, essi condividono la speranza che l’avvenire non sia precluso all’Italia ed alla nostra civiltà italica. (Applausi al centro). Vedano gli Alleati, ai quali, invano, in molte conferenze private ho cercato di far comprendere la valutazione che di questo Trattato faceva il popolo italiano; vedano gli Alleati dalle dichiarazioni che sono state fatte qui, dallo stesso sdegno del maggiore fra noi, onorevole Orlando, vedano quanto io avessi ragione di insistere; vedano quanto sia difficile poter spiegare al popolo italiano che un Trattato così ingiusto debba avere la sua attuazione nell’interesse della pace del mondo; vedano quanto siano stati ingiusti a presentarci un Trattato quasi che su questi banchi sedesse un Governo responsabile dell’aggressione e della guerra contro vari paesi.

Ebbene noi dimostreremo loro, di essere noi – non loro – all’avanguardia di un mondo nuovo che non dispera della fratellanza fra i popoli; e, lasciatemelo dire, quando ho sentito la alata esposizione dell’onorevole Einaudi, che dovrebbe essere il rappresentante tipico di quella, che indiscriminatamente si dice reazione, ed ho sentito poi le combinazioni complicate e le cautele esecutive dell’onorevole Togliatti, mi sono chiesto: quale dei due uomini guarda più in avanti e quale si attarda all’indietro?

Quale di questi due uomini rappresenta l’avvenire dei rapporti internazionali? Può essere che Einaudi si illuda, ma sua è la gioventù e sua è la speranza in un mondo migliore. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

No, dimostreremo ai nostri contraenti che siamo noi, l’Italia, piccolo paese, ma grande Paese, non loro, i Grandi, all’avanguardia di un mondo nuovo per la fratellanza dei popoli.

L’Italia democratica, onorevole Orlando, non è in ginocchio, non è prona: è in piedi. Ratificherà il Trattato come è previsto dall’articolo 90; cioè prenderà atto del Trattato imposto, e lo eseguirà lealmente entro i limiti delle sue possibilità; ma di questo Trattato, essa proclama, dinanzi a Dio, moderatore di tutte le cose, e dinanzi agli uomini, che non assume nessuna corresponsabilità, né per gli effetti che avrà in Italia, né per gli effetti che avrà nella ricostruzione del mondo. (Applausi – Commenti a sinistra).

Una parola ancora.

Ho parlato finora del subire o non subire il Trattato. Ora parlo del rinvio. Si sarebbe potuto rinviare. Credete davvero che il Governo non troverebbe comodo di rinviare?

Ma voi non pensate che rinviando non rinviate il vostro problema di coscienza? No, non lo potete fare. Non fate che prolungare lo spasimo, riprodurre lo stesso martirio delle vostre indecisioni. Domando a coloro i quali sono per approvare o meglio per subire, per concedere la ratifica: che cosa credete di guadagnare rinviando di 15 giorni, di un mese? Oggi, ormai, dopo quanto è stato detto, il rinvio non potrebbe avere altro significato che di rifiuto, o per lo meno autorizzerebbe un gravissimo dubbio e sospetto sulla nostra volontà di chiudere questo periodo di guerra e di armistizio. Noi non vogliamo aumentare le ragioni di turbamento: non vogliamo lasciarci prendere dall’ingranaggio, caro Nenni, dei contrasti fra i Grandi, che forse non sono originati nemmeno dal caso italiano. Vogliamo dare subito la sensazione che noi automaticamente, per la visione che abbiamo dei nostri interessi, siamo disposti a ratificare, e precisamente ratificare nel modo previsto dall’articolo 90. Questa non è la tesi inglese, non è la tesi russa; questa è la tesi dei Quattro ed è l’atteggiamento più neutrale, più imparziale che possiamo prendere, e anche il più reale, realistico.

E da principio abbiamo presentato una proposta semplicemente per ratificare; poi, per tener conto delle obiezioni fatte da parecchi membri tra cui molti autorevoli, di un ex Ministro come Nenni, abbiamo accettato, una formula credendo di raggiungere quella maggioranza che tutti auspicavamo, la diminuzione di un dibattito, che tutti dicevano fosse meglio non affrontare. Ebbene, io vi dico: abbiamo affrontato questo dibattito, abbiamo detto tutto il nostro pensiero e, tolto qualche raro incidente, lo abbiamo detto senza offenderci e, mi pare, avvicinandoci a maggiore e mutua comprensione.

Io vi domando se a questo momento, procedendo con questo spirito ed in tali termini ciò non significhi scegliere la procedura più comune prevista dai Quattro, e quindi la più oggettiva che noi possiamo pensare.

Dirò poi il mio pensiero sopra i singoli ordini del giorno e sopra i testi e gli emendamenti.

Mi basta concludere; ed io vorrei che questa conclusione ci ravvicinasse tutti e ci desse la sensazione di quell’unità dell’Assemblea, di quella unità della rappresentanza di cui il Paese ha sete, per poter non disperare della triste avventura che ha fatto.

In questa ora agitata l’Italia riafferma la sua fede nella pace e nella collaborazione internazionale. Sarebbe ideale se una simile affermazione fosse dell’intera Assemblea, ma quello che importa soprattutto è che essa sia un’affermazione chiara, onesta, senza riserve e senza equivoci, e che dimostri in noi una volontà nazionale autonoma che, sulla via del sacrificio, ci incammini verso la nuova dignità e indipendenza della Nazione. (Applausi prolungati al centro e a destra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Relatore della maggioranza, onorevole Gronchi.

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Onorevoli colleghi, viviamo certamente in una strana atmosfera in questa Assemblea.

Un avvenimento di questa gravità, per il presente e sovra tutto per il futuro del nostro Paese, trova in quest’aula rissose divisioni piuttosto che concorde serenità di valutazioni, trova i rappresentanti del popolo italiano più preoccupati delle proprie posizioni politiche che non della posizione dell’Italia, nel momento che attraversiamo. Tanto che, anche le voci, nelle quali ha risuonato l’eco delle nostre sofferenze di uomini, di cittadini, di padri, sono parse più inspirate a una retorica convenzionale che non ad una espressione di sentimenti profondi.

La decisione che noi stiamo per prendere voglio augurarmi che ci accomuni in una visione più alta del nostro dovere e della nostra responsabilità.

Si è fatto in questo momento e durante questa discussione ripetuta allusione alla opportunità di rinvii, di protrazioni, che, facendoci soprassedere alla decisione definitiva, potessero meglio rispondere a questo senso di responsabilità.

Io voglio ricordare un precedente storico, senza avere, con ciò, la pretesa di ravvicinare, con stretta analogia, due momenti così diversi. Non ci sono nella storia di un popolo né in quella dell’umanità due momenti che si somiglino identicamente. Ma vi sono analogie e rispondenze, che valgono la pena di essere meditate.

Il 6 agosto 1849 fu firmato a Milano il Trattato di pace, dopo la sciagurata campagna che culminò a Novara, ed il 24 settembre Cesare Balbo, nella sua qualità di presidente della Commissione, che riferiva sulle condizioni del Trattato di pace, propose alla Camera di approvare il Trattato medesimo, senza discussioni, con la protesta del silenzio. Altri si oppose vivacemente; altri ancora proposero un rinvio sotto le più diverse motivazioni, come diverse sono le motivazioni che ora si accampano, per chiedere, giustificare e sostenere un rinvio.

Si ebbe, quindi, un certo periodo, durante il quale, anche per una crisi ministeriale, il Trattato di pace non venne in discussione più nella Camera Subalpina.

Il 13 novembre la discussione si riprese. Allora Balbo invitò nuovamente la Camera a votare, protestando col silenzio contro la durezza e l’iniquità del Trattato.

Ma, contro la nuova proposta di rinvio, si alzò l’uomo, che ha rappresentato in quell’epoca storica quanto di fede, di speranza, di volontà di resurrezione l’Italia aveva, Camillo di Cavour.

«Io credo – egli disse – che questa discussione tenga gli animi nostri angosciati e sospesi. Io sono persuaso che i lavori parlamentari, che pur sono così folti, non possono procedere con quella regolarità, con quella sperabile rapidità, finché questo vitale argomento non sia sciolto.

«Questo è per la considerazione interna.

«In quanto all’estero, io credo che la sospensione della discussione del Trattato abbia gravissimi danni e che prendendo lo stato dell’Europa qual è e non quale potremmo desiderare che sia, non si può disconoscere che questa eccessiva difficoltà, che da varie parti si oppone all’adozione del Trattato, questo continuo rimandarlo non possono che avere risultati fatali per la nostra diplomazia e per i nostri rapporti internazionali». E concludeva: «Questa non è una questione tra il Ministero e noi. La questione del Trattato è una questione tra noi e la fatalità e quando anche non vi fosse più questo Ministero e se ve ne fosse un altro, scelto da qualsiasi parte della Camera, saremmo costretti ugualmente a riconoscere questa legge fatale. Si parla molto di onore e di dignità. Io per me non credo che la dignità e l’onore nostro ci guadagnino molto nel protrarre più a lungo questa discussione, perché noi siamo tutti ugualmente convinti che le parole, anche nobilissime, che qui pronunciamo in nulla possano modificare questa nostra dolorosa situazione».

Io credo che anche i colleghi siano colpiti dalla notevole analogia del momento che noi attraversiamo e che l’augurio che io facevo, che si dimenticasse la situazione interna che si è venuta determinando, nell’assumere questa tremenda e dolorosa responsabilità di fronte al Paese, trovi eco e rispondenza in ogni parte dell’Assemblea. Ed è singolare che da ogni parte dell’Assemblea per arrivare alle più opposte conclusioni si sia partiti dal punto di vista di una esigenza comunemente riconosciuta, cioè quella di serbare intatta, lucente direi, l’indipendenza, l’autonomia e l’integrità morale e politica del nostro Paese.

Su questo terreno è comprensibile più la posizione di coloro che si schierano in linea di principio contro il Trattato che non la posizione degli altri che si schierano per un rinvio del Trattato medesimo. Per lo meno, la posizione di non tutti è così chiara, tranne quella dei colleghi socialisti e comunisti per i quali i motivi del dissenso sono evidenti ed innegabili: motivi ideologici, determinati dalla non ancora avvenuta ratifica della Russia, motivi interni determinati dalla fisionomia attuale del Ministero.

Ma tutte le ragioni valide sono per la non ratifica del Trattato in linea di principio. Nessuna, mi perdonino i colleghi, io ne trovo per il rinvio della discussione sulla ratifica del Trattato stesso. Anche l’onorevole Orlando – e mi duole di non vederlo in questo momento fra di noi – che ha così appassionatamente parlato di dignità, di tutela del nostro onore, che si è rammaricato così vivacemente ed anche in larga parte inopportunamente che questo atteggiamento somigliasse troppo ad una «cupidigia di servilismo», anche l’onorevole Orlando si è rifatto a questo concetto della indipendenza. Ma il dissenso non è su questo punto sul quale, dicevo, unanimemente si fa riconoscimento di una tale necessità: è sul modo di mantenere tale indipendenza. Ed è lecito chiederci, anche di fronte a lui, se la protesta che involontariamente – io lo dico senza mancanza di rispetto né al suo passato né alla sua canizie – assume talvolta l’eco un po’ teatrale ed orpellata di una retorica di maniera, se questo suo atteggiamento non abbia per avventura in passato costato assai caro al nostro Paese (Approvazioni al centro); se non debbo ricordare come un atto, che egli chiamerebbe di coraggio contro un atto di servilismo, la protesta parigina contro quel tale atteggiamento della Conferenza di Versailles che produsse il suo ritorno in Italia, con le accoglienze deliranti e trionfali, non privò l’Italia di tutti i mandati su tutte le colonie e non trovò gli alleati poco sensibili a questa nobilissima manifestazione di protesta e intenti, invece, curvi sul realismo egoistico di interessi che si andavano in quel momento determinando e risolvendo. (Applausi al centro).

E quando io sento che egli stesso, per giustificare la convenienza e l’opportunità della ratifica, parla di scusa della necessità, io dico che siamo più lineari, coraggiosi e forniti di senso di responsabilità noi che nessuna scusa intendiamo trovare a questo nostro atteggiamento e che ci sentiamo di assumere con coraggio, con fierezza, con convinzione, dinanzi al popolo e dinanzi all’Europa, questa responsabilità di proporvi, onorevoli colleghi, la ratifica del Trattato.

Anche il collega Russo Perez, che ha allineato una serie di ragioni su questo dibattito, lo ha fatto più per il Trattato in sé medesimo che per il rinvio. Ce ne sono talune che illuminano il suo punto di vista alquanto differente, mi pare, da quello del suo maggior collega, onorevole Giannini. Egli ha detto: «Dell’O.N.U. non ci interessa niente. Non c’è nessun segno di rinascita cristiana. Gronchi ha l’ottimismo di Candide, quando nella sua relazione scrive che il mondo va indirizzandosi verso concezioni nuove sotto la duplice spinta dell’idealismo delle classi operaie e del tradizionale idealismo cristiano».

Sono ragioni certo le quali militano però contro la ratifica del Trattato e non contro la tempestività di questa ratifica ed io non gliele invidio, perché un mondo nel quale non trovassero più posto la speranza di una civiltà migliore, che non può essere formata e consolidata su equilibri di interessi ma soltanto sulla maggiore profondità, nell’animo collettivo, di ragioni ideali e spirituali, è un mondo nel quale noi dobbiamo disperare di vedere non dico scomparire, ma anche diradarsi quei terribili bagni di sangue, che sono le guerre. (Applausi al centro).

Noi vogliamo credere a questo e diciamo che riterremmo di mancare ad una nostra missione se non insistessimo su questa propaganda.

O colleghi socialisti e comunisti, che avete avuto in passato assai più vivo che oggi (oggi è una strana involuzione la vostra) il senso dell’internazionalismo e che avete veduto attraverso il manifestarsi della inutilità o della inefficienza delle varie internazionali, dalla prima alla quarta, che non hanno impedito alcuna guerra, anzi non dico non hanno impedito, ma non hanno allontanato, non hanno creato all’interno dei paesi nessuna barriera contro nessuna guerra, perché ciascuno di questi organismi è finito per sentirsi più immerso nel senso, non nazionale, ma nazionalistico che non librato in questo superiore senso di solidarietà universale e internazionale; o colleghi socialisti e comunisti, voi dovreste accentuare, in questo vostro momento, questo vostro senso dell’internazionalità e della solidarietà europea, e dovreste essere al nostro fianco, su diversi terreni, ma verso una finalità convergente, perché se non saranno le forze popolari a creare barriere a nazionalismi risorgenti, non vi sarà nessuna classe intellettuale, borghese o non, che crei questa atmosfera di civiltà nuova. (Applausi di centro).

Le ragioni che si portano contro la tempestività della ratifica del Trattato sono inficiate, secondo me, da questa considerazione: che nessuno di coloro che oggi parlano contro la tempestività della ratifica ha parlato contro la nostra partecipazione alla conferenza di Parigi.

Ora, onorevoli colleghi, se c’è un atto di unilateralità, un atto che può mostrarci parteggianti per un blocco europeo rispetto ad un altro blocco, questo fatto è proprio la nostra partecipazione alla Conferenza di Parigi, perché noi abbiamo di fronte non una Russia che la nega, ma abbiamo soltanto di fronte una Russia che non ha ancora adempiuto a questo suo atto.

Di fronte alla Conferenza di Parigi, noi siamo dinanzi ad una Nazione che ha manifestato la sua decisa opposizione. Come mai, onorevoli colleghi, che riconoscete opportuna, necessaria ed indispensabile la nostra presenza a Parigi, non sentite che proprio lì vi sarebbe il pericolo di uno schieramento in due blocchi, e che a questa presenza avreste dovuto opporvi tempestivamente senza che questo pericolo si possa ravvisare nella nostra ratifica, come oggi vi chiediamo?

Anche l’onorevole Valiani, che pure ha fatto un sostanzioso discorso su questo argomento, ha fondato tutte le sue argomentazioni sulla necessità di una nostra posizione neutrale, o almeno superiore alla contesa fra le Nazioni; ma il problema anche qui si riferisce non tanto alla tempestività della ratifica, che non vi ha ancora influenza, ma contro, forse, il suo stesso pensiero, all’atto della ratifica in sé medesima. (Interruzione del deputato Valiani).

Togliatti è poi dilaniato da tremende perplessità: quali sono le ragioni nascoste che determinano la necessità di una ratifica così frettolosa? Quali sono le ragioni del voltafaccia del partito democratico cristiano che, con la disinvoltura che ognuno gli riconosce, ha mutato fronte e marcia da qualche tempo in così opposta direzione?

L’una e l’altra cosa, onorevoli colleghi comunisti, se ha un valore polemico nella dialettica del vostro maggiore collega, non ha certamente fondamento concreto nella realtà, poiché le ragioni dell’attuale proposta di ratifica credo che ora possano dirsi palesi dopo che ha parlato l’onorevole Sforza, dopo che ha parlato l’onorevole De Gasperi, dopo che io avrò aggiunto qualche modesta, supplementare argomentazione.

E quanto al misterioso voltafaccia del nostro partito, ma volete voi inchiodarci, attraverso il succedersi di avvenimenti così diversi, ad una posizione stabile consolidata e considerare contraddittorio, o peggio speculatorio, ogni adeguamento del nostro atteggiamento alla realtà? Io rileggevo in questi giorni un libro di Clemenceau «Grandeur et misère d’une victoire» che – Clemenceau se ne intendeva, da quel mirabile e tenace costruttore della grandezza della Francia che egli era – reca questa osservazione: C’è forse un uomo sulla terra il quale sia in grado di formulare una raccomandazione o un indirizzo di politica estera non dico per l’eternità, ma anche solo per sei mesi o per un anno?

Ed è naturale, onorevoli colleghi; quando noi facemmo la nostra prima manifestazione contro l’accettazione del Trattato di pace, noi uscivamo proprio dalla finale formulazione di questo Trattato medesimo, ma speravamo ancora di potere influire sui Parlamenti e sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi perché il dettato dei Quattro a New York potesse essere modificato e, sperando, noi avevamo il dovere di accentuare questa posizione di opposizione che oggi non smentiamo né ritiriamo, ma alla quale noi sovrapponiamo una visione realistica di certe necessità sopravvenute.

E non è da meravigliarsi se noi, in quel momento, ci arrestavamo a quella prima parte e dicevamo che non ci saremmo sentiti, allo stato attuale delle cose, di assumerci la responsabilità di proporre l’accettazione del Trattato. Molte cose sono sopravvenute dopo e poiché la storia cammina nonostante ì partiti e nonostante le loro formule, i loro calcoli, le loro speculazioni elettorali, la storia ci ha posto di fronte ad una situazione dalla quale abbiamo acquisito la persuasione che occorre uscirne.

È quindi in una questione di tanta complessità e di tanta altezza che noi ci sentiamo un po’ come gli uomini che dirigono un’azienda la quale abbia un suo settore che ha proceduto disastrosamente ed ha messo in pericolo la vitalità di tutta intiera l’azienda; e noi abbiamo ragionato così, come ragionano i saggi amministratori: tutto questo è perduto, per quanto non per nostra colpa, ed ora si ricomincia da capo, purché l’azienda – perdonate la banalità del paragone – purché l’azienda viva.

Purché dunque l’Italia viva, purché dunque l’Italia riprenda il suo posto fra le Nazioni, noi le offriamo il sacrificio di questa umiliazione.

Ma l’onorevole Nenni dice: qualche probabilità – forse una su un milione – che questo Trattato venga modificato esiste alfine e, se esiste, noi dobbiamo tenerne conto, per quanto difficile questa probabilità possa reputarsi. Onorevoli colleghi, la fantasia può giocare dei brutti tiri, e li giocheremmo a noi, se noi pensassimo ad una possibilità di miglioramento su questa via. Per noi la via attraverso la quale il Trattato, che già si comincia a svuotare, può trovare più radicali revisioni, è una via che non esce da questo dilemma: o la forza che sia capace di imporla, o la creazione di rapporti internazionali, che gradualmente la rendano possibile. (Approvazioni al centro).

Nessuno di noi può pensare oggi che la forza sia lo strumento della nostra revisione, poiché noi per lungo tempo saremo un popolo militarmente debole e non atto ad incutere timori ai grandissimi o della bomba atomica o della guerra biologica. Ma possiamo fin da ora – e non c’è tempo da perdere, onorevoli colleghi – possiamo e dobbiamo creare i rapporti internazionali che ci diano la possibilità di creare le condizioni le più rapide possibili di una revisione. Ecco perché noi sentiamo di dover chiudere questa pagina, per conquistare la nostra libertà e la nostra autonomia, per ristabilire rapporti nuovi su un grado di eguaglianza e preparare le possibilità di questa revisione. (Applausi al centro).

Ora, chi nega la ratifica e chi nega la tempestività della ratifica difende certamente con fondate ragioni degli argomenti giuridici, ma compromette seriamente, se non irrimediabilmente, il lato politico della questione; poiché di questo si tratta.

Ma, si dice: la ratifica è un atto di accettazione implicita; anzi, da molte parti si è insistito sullo stato di necessità che deve essere palese, evidentissimo, innegabile; stato di ineluttabilità, poiché altrimenti come ci giudicherà – si è detto – il popolo italiano, con le sue collere minacciate?

Il Governo è andato incontro con una formula ai desideri di varie parti dell’Assemblea. Noi, della maggioranza della Commissione, ed io personalmente, ci saremmo meno preoccupati di dimostrare questo stato di ineluttabilità o di necessità, perché secondo noi la ratifica non è una accettazione; e non è un’accettazione, perché – e non so qui, per lealtà, se esprimo il pensiero di molti o il pensiero mio personale in una materia così opinabile, perché così controversa – secondo me, la ratifica non è un elemento di validità del Trattato. Noi non abbiamo partecipato in nulla determinatamente alla formulazione del Trattato: è mancata, quindi, ogni efficacia giuridica ai nostri interventi, così come sono stati ammessi o tollerati. La ratifica, perciò – se voi leggete l’articolo 89 – è soltanto il mezzo attraverso il quale noi e gli altri Paesi ex-nemici diventiamo parte del Trattato, cioè siamo ammessi a godere i cosiddetti – Dio ci liberi! – benefici del Trattato. Cosicché si può dire che la ratifica non pregiudica un giudizio sul Trattato ma è soltanto una delle condizioni di pace, perché è la condizione attraverso la quale il Trattato può entrare in vigore nei nostri confronti.

PATRICOLO. Non è una condizione essenziale!

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Sì che lo è; è essenziale, in quanto noi non godremmo dei vantaggi se non lo abbiamo ratificato. Quindi, per quanto riguarda almeno il lato attivo, la ratifica è essenziale per noi, e, ripeto, non implicando nessun giudizio sul Trattato, non implica, non pregiudica nessuna libera accettazione del Trattato medesimo, ed è da considerare un puro e semplice adempimento di una delle clausole o di una delle condizioni.

Se questo è vero, l’attuazione di tale condizione diventa soltanto un problema politico, diventa, cioè, il problema della scelta del momento nel quale adempiere questa condizione, perché è legittimo che noi cerchiamo che da tale adempimento venga il maggior numero di benefici per il nostro Paese. Quindi ogni giudizio giuridico, a nostro modesto avviso, deve cedere terreno ad un giudizio più largamente politico.

È questo il momento? È questo il problema al quale si deve rispondere e sul quale si sarebbe dovuta concentrare maggiormente la nostra attenzione. È questo il momento più favorevole per l’Italia perché essa adempia a questa condizione di pace? Io rispondo di sì; e non vi sembri un paradosso se io rispondo di sì proprio per questo stato di latente tensione che esiste fra i potenti della storia contemporanea. Ché, se questi potenti avessero trovato il minimo denominatore comune sul quale adagiare le loro inquietudini o le loro reciproche diffidenze, sul quale costituire la speranza di qualche anno di lavoro comune, noi avremmo ben poco da fare, miseri e disarmati come siamo. Noi non avremmo altro che da fare proteste colorite e vibranti, quali piacciono all’animo di taluni di noi, oppure assoggettarci a seguire la volontà irresistibile dei più potenti.

Ma appunto perché questa situazione non esiste, appunto perché esiste invece questa tensione che potrebbe (non è vano pessimismo né pessimismo di maniera) diventare pericolosa, questo è il momento in cui l’Italia può, entrando da uguale nel consesso internazionale, adempiere una sua determinante funzione.

E il piano Marshall medesimo risponde ad una esigenza parallela, sia pure in un campo più ristretto, ma che obbedisce alle stesse leggi e alle stesse esigenze.

Ma con quale posizione ritorna qui quello che io dicevo essere il punto di vista comune a tutti? Esigenza di autonomia e di indipendenza. Ma chi più di noi vuole e sente questa necessità?

Guardate, non soltanto per ragioni d’interesse. Io ho sentito l’amico Nenni il quale ha detto cose sane e giuste circa la complementarietà delle economie dell’Europa sudorientale e la nostra necessità di espansione verso quei Paesi, la necessità di non creare delle barriere. Ma queste che sono sane e fondate ragioni non sono sufficienti. Tu, amico Nenni, che cercavi in questi fatti una dimostrazione la più irrefutabile del valore anche attuale del determinismo o materialismo storico, lasciati dire che in questo caso tu ti metti sullo stesso terreno e sulla stessa logica del capitalismo, perché dai come forze operanti nella storia dei popoli solo gli interessi materiali, i quali, sì, valgono anch’essi, ma guai quando predominano e restano soli a determinare l’indirizzo dei popoli! (Applausi al centro).

Quindi, autonomia e indipendenza. E non ho aspettato questa discussione per affermarla. I colleghi che hanno avuto la benevolenza di ascoltarmi quando io feci quelle scandalose dichiarazioni in sede dell’ultimo voto di fiducia al Governo, si ricorderanno che io toccai anche questo punto e, definendo quest’abusata e calunniata posizione di centro del nostro partito, io allargai lo sguardo per un momento, sia pure di scorcio, sul problema internazionale al di sopra del problema interno e dissi che, come nella politica interna noi interpretavamo la nostra funzione di attrarre i partiti cosiddetti rivoluzionari, cioè quelli che, almeno ideologicamente, preferirebbero la violenza non liberatrice al progressivismo più lento e naturalmente meno popolare della democrazia, la quale realizza solo a gradi le varie forme di ascesa delle masse popolari, così sul terreno internazionale noi sentivamo che non esisterà nessun equilibrio europeo, se noi non riusciamo a reinserire nella vita europea il popolo russo rispettando le sue ideologie e le sue forme, ma facendogli sentire questa solidarietà inevitabile, ineluttabile, che non è soltanto materiale ma che risponde ad un concetto più elevato di convivenza umana che si identifica con la civiltà. Se questo popolo non rientra nella convivenza europea, figuriamoci se pensiamo di rendere più spessa la resistente cortina di ferro e se pensiamo al di là di Stettino e di Trieste: hic sunt leones, come dicevano i geografi antichi per le terre che non conoscevano.

Il piano Marshall offre certo dei grossi pericoli; ed è per questo che la nostra presenza è tempestiva e necessaria; e tutto quello che si può fare per renderla operante è tempestivo e necessario.

Io non credo ad una grande volontà di predominio del popolo americano. Quanto al popolo inglese, sebbene esso sia soprattutto inglese prima che laburista – e lo dico senza ironia, perché un popolo ha la psicologia collettiva che le sue tradizioni gli creano – il popolo inglese pesa da lungo tempo sul piano mondiale, sul piano imperiale, perché la sua lunga esperienza ha come sedimentato più o meno oscuramente sulla coscienza collettiva ed ha determinato un certo indirizzo morale e intellettuale.

Ma esso è temperato oggi da una fervida concezione sociale e socialista, per cui non dovreste essere proprio voi a temere che la presenza di Bevin nella Conferenza possa essere identificata come la presenza di un astuto predone che specula sulla povertà e difficoltà degli altri.

Ma anche il popolo americano, io dicevo, ha un qualche fervore idealistico che non esclude una retta e vigile difesa degli interessi materiali. Non lo insegnerò a voi, se avete tempo – ne abbiamo purtroppo molto poco – di leggere la letteratura amena ed i romanzi di questi ultimi tempi. Voi avete sentito in talune manifestazioni, il fervore di qualcosa di nuovo: e di solito la letteratura annuncia le forme nuove del pensiero, è come la foriera dei grandi orientamenti che mutano nell’anima collettiva di un popolo. Ma comunque va riconosciuto con estremo senso di oggettività che nella sua formulazione quale la immaginò Marshall stesso nel suo ormai famoso discorso, niente aveva il piano che potesse far dubitare in una volontà assoluta di predominio. Egli diceva: «Non sarebbe né opportuno né efficace che il nostro Governo cominciasse ad elaborare unilateralmente un programma destinato a rimettere in piedi economicamente l’Europa. Questo compito spetta agli europei. L’iniziativa, a mio parere, deve venire dall’Europa perché il compito del nostro Paese dovrebbe consistere nel contribuire amichevolmente con quello che secondo, ecc. ecc.».

Se poi osservate, alla Conferenza di Parigi furono invitate 22 Nazioni (scusatemi questo accenno statistico che è significativo, per me) e di queste 22 nazioni otto appartengono alla costellazione rossa: l’Albania, la Finlandia, la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Romania, la Jugoslavia, l’Ungheria – tre sono Stati neutrali che non hanno mai avuto soverchie tenerezze per il mondo inglese: Svizzera, Svezia, Norvegia – e se aggiungete la Russia avreste avuto la maggioranza degli Stati invitati alla Conferenza di Parigi. Il che può avere un valore relativo, naturalmente; ma significa che nessuno si era preoccupato di crearsi una maggioranza predeterminata per imprimere alla Conferenza un determinato e decisivo atteggiamento; significa che questa parola della «porta aperta» lasciata anche agli altri non era una frase ma una possibilità di cui tutti potevano profittare e se la rottura è avvenuta, è avvenuta su un terreno di suspicione, sul terreno ideologico. Naturalmente ciascun Paese provvede alle proprie direttive, ai propri interessi, come crede. Perciò questo non ha carattere di biasimo; ma io crederei che avrebbero provveduto meglio ai propri interessi quei Paesi che avessero partecipato alla Conferenza di Parigi, per discutere in concreto i dettagli del programma, le linee direttive concrete, attraverso le quali questo programma si sarebbe realizzato. E solo su constatate divergenze effettivamente esistenti su queste direttive, una rottura, una frattura avrebbe potuto avvenire ed essere giustificata. Ecco perché è necessaria la nostra presenza e la nostra presenza con quello spirito del quale io vi parlavo e del quale nessuno ha il diritto di dubitare in questo momento. Se poi si vuole spingere il nostro sospetto alla politica americana, la quale sarebbe animata, attraverso possibili trattati di commercio, da mire egemoniche che rovinano non so quali delle nostre industrie, se le pesanti o le leggere, se le siderurgiche o le tessili, che dire amico Nenni, del fatto che questo trattato di commercio è discusso proprio da uno dei vostri, dall’amico Ivan Matteo Lombardo, dell’invio del quale taluni hanno piuttosto severamente biasimato il Presidente del Consiglio non ritenendolo, non per le sue qualità personali al di sopra di ogni discussione, ma per la sua colorazione politica come il non più adatto a negoziare accordi nello stato psicologico attuale dell’America?

Ora la nostra posizione è quindi chiara. Quelli i quali pensano che noi, senza una profonda convinzione ci siamo schierati per questa utilità ai fini nazionali della immediata ratifica del Trattato, dovrebbero pensare che essi ci attribuiscono o una caratteristica di avventatezza, o una specie di spirito esagerato di sacrificio per una infatuazione non sufficientemente matura, perché tutti converranno che l’atteggiamento è il più lontano possibile dalla comodità. Le elezioni non sono lontane. Noi non siamo di quelli che dispregiano, onorevole Giannini, i fattori spirituali e morali della vita di un popolo; noi li rispettiamo altamente e non solo alludo ai fattori religiosi, ma ai fattori più larghi per la vita dello spirito e per l’amore del proprio Paese. Noi ne sentiamo la immensa importanza per la vita di un popolo. Anche se non ne fossimo convinti, l’esperienza del fascismo alla sua nascita dovrebbe darcene la più irrefutabile dimostrazione. Ricordiamo come il fascismo fermentò sul mito della vittoria mutilata e come su questo stato d’animo d’ingenua dedizione al proprio Paese, su questo senso di umiliazione che invocava la sensazione della giustizia e provocava legittima reazione dell’animo, si insinuò il fascismo primigenio, il rivendicatore della dignità dei combattenti, di coloro che portando i nastrini azzurri – non vi dispiaccia, il fatto è accaduto a me – si sentivano sputare addosso col grido: sei macchiato di sangue! Su uno stato di reazione che una larga parte dell’opinione pubblica credette di ravvisare come interpretato da questo fascismo nascente. Pericoloso sarebbe se ci dimenticassimo di questo.

GIANNINI. Giusto, è giusto, ma perché lo racconta proprio a me?

GRONCHI, Relatore della maggioranza. No, le do ragione.

TONELLO. Era lei Ministro. Sono ancora vivo.

GRONCHI, Relatore della maggioranza. Non dica della banalità, altrimenti identifico nelle sue file dei fascisti del 1937-38, non dei collaboratori del 1922. (Commenti).

Noi non dimentichiamo questi valori ed è perciò che la nostra posizione di fautori della ratifica del Trattato non è la più comoda, né elettoralmente la più producente.

Noi sappiamo che saremo anche mal compresi, noi sappiamo – perdonatemi – che la non buona fede di qualche avversario speculerà su questa situazione e ci arrecherà forse danno non lieve, ma rispettate almeno la posizione di uomini che pur sapendo le difficoltà della loro situazione, sentono che devono mettere in seconda linea i propri interessi personali e di parte per servire quelli che essi in buona fede credono gli interessi del Paese. Questa è la sola testimonianza a cui noi teniamo. E, concludendo, lasciate che io dica: in questa infuocata discussione cerchiamo di trovare i toni della misura, dell’equilibrio e della consapevolezza. Il popolo italiano è uno di quelli che, com’è facile al subitaneo e avvampante entusiasmo, così è facile a immediata depressione. Oggi si è sentito, sulle labbra di qualcuno, il tono di questa ribellione eroica o romantica che non può essere identificata con la dignità e con l’onore, perché la dignità e l’onore sono ancora in coloro che questi accenti non sentono o non possono adoperare. Cerchiamo di dare al nostro popolo la sensazione precisa, perché questo è il nostro dovere, del momento che attraversiamo e delle sue esigenze.

Se noi vogliamo tener fede al metodo democratico, noi dobbiamo rivolgerci direttamente a quest’animo popolare non soltanto con l’emotività delle parole, ma con la fredda considerazione dei fatti, con quel realismo che, ben diceva Sforza, non comprenda visioni idealistiche, ma con quel realismo che ci fa curvare sui problemi e vederli quali essi sono, al di sopra di ogni deformazione partigiana.

Questa è la nostra posizione, che vi preghiamo non di condividere, se la vostra persuasione è diversa, ma di rispettare. E rispettandola, noi eleveremo il nostro dibattito a quella altezza che dimostrerà veramente come, primi fra tutti, i rappresentanti del popolo italiano in questa Assemblea, si rendono conto che qua non vi è una questione misera di politica interna o di politica elettorale, o di parte, ma vi è soltanto se mai, una diversa, ma egualmente rispettabile, valutazione degli interessi del Paese. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta per alcuni minuti.

(La seduta sospesa alle 16.45, è ripresa alle 17.15).

PRESIDENTE. Prima di invitare il Presidente del Consiglio ad esprimere il suo avviso sugli ordini del giorno che sono stati presentati, do lettura dell’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, al quale l’onorevole Nitti ha dato la sua firma. Quest’ordine del giorno ha subito alcune modificazioni. Lo leggo nel suo nuovo testo:

«L’Assemblea Costituente

esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.

«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale e durissime per un popolo che ha dato un inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa, ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.

«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».

L’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha facoltà di parlare.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Accetto senz’altro quest’ordine del giorno. Mi permetto peraltro di suggerire che al posto delle parole «Né il Trattato tiene conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, ecc.», al fine di non disconoscere quanto è stato strappato, dopo lunghe trattative, per il preambolo, nel quale in realtà si ricorda l’aiuto degli elementi democratici del popolo italiano, si dica: «Né il Trattato tiene adeguato conto, ecc.».

RUINI. Sta bene.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Quanto agli altri ordini del giorno, posso accettare come raccomandazione quello dell’onorevole Caroleo. Così pure accetto senz’altro l’ordine del giorno dell’onorevole Gasparotto, che riguarda soprattutto la Marina da guerra. Non posso, invece, accettare l’ordine del giorno dell’onorevole Benedettini.

L’ordine del giorno dell’onorevole Labriola è accettabile, per quanto l’espressione: «sia pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico», svaluti troppo il nostro spirito di sacrificio.

Posso accettare anche l’ordine del giorno dell’onorevole Jacini, nonché quello dell’onorevole Saragat per quanto abbia una dizione generica.

Non posso accettare, naturalmente, né l’ordine del giorno dell’onorevole Orlando, né quello dell’onorevole Selvaggi e nemmeno quelli proposti dagli onorevoli Corbino e Giannini.

L’ordine del giorno Damiani è pure accettabile.

Accetto infine pienamente l’ordine del giorno degli onorevoli Badini Confalonieri ed altri.

PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri ha accettato gli ordini del giorno Nitti-Ruini, Caroleo, Gasparotto, Jacini, Saragat, Damiani e Badini Confalonieri. Quanto agli altri ordini del giorno quello dell’onorevole Giannini giunge, forse, con alquanto ritardo, perché afferma di non ritenere urgente la discussione che è già avvenuta. Ad ogni modo esso coincide con l’ordine del giorno Corbino che propone puramente e semplicemente il rinvio della votazione. Quest’ordine del giorno ha quindi la precedenza. Ora interpellerò gli altri presentatori di ordini del giorno non accettati dal Governo, perché dichiarino se intendono mantenerli o meno.

Onorevole Orlando?

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Selvaggi?

SELVAGGI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini?

GIANNINI. Il mio ordine del giorno è stato presentato come un accorgimento per poter parlare; comunque lo ritiro, associandomi all’ordine del giorno dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino?

CORBINO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora voteremo per primo l’ordine del giorno dell’onorevole Corbino. Per questa votazione è pervenuta richiesta di scrutinio segreto dagli onorevoli Giannini, Puoti, Bencivenga, Miccolis, Colitto, Nasi, Perugi, Rodi, Condorelli, Lucifero, Tumminelli, Perrone Capano, Coppa, Marinaro, Mazza, Benedetti, Penna Ottavia, Capua, Mastrojanni, Rodinò Mario, Patricolo, De Falco, Musotto, Fusco, Maltagliati, Fiorentino, Cevolotto, Corbino, Lombardi Riccardo, Costantini, Schiavetti, Vernocchi, Tega, Merighi, Romita, De Michelis, Malagugini, Lopardi, Veroni, Lucifero, Fioritto, Fogagnolo, Tomba, Gullo Fausto, Preziosi, Quintieri Quinto, D’Amico, Nobile, Merlin Angelina, Carpano Maglioli, Dugoni, Nenni, Vischioni, Sansone, Cacciatore, Fornara, Jacometti, Morandi e Faralli.

Nel caso che questa votazione si concludesse con il rigetto dell’ordine del giorno, passeremo agli emendamenti proposti all’unico articolo del disegno di legge.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini.

(Segue la votazione).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione, e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE: Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sull’ordine del giorno Corbino-Giannini:

Presenti e votanti   456

Maggioranza         229

Voti favorevoli      204

Voti contrari         252

(L’Assemblea non approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Badini Confaloneri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffì – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Cortese – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo – Croce.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao –Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschi – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Pellegrini – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Segni – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani  – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Dovendosi ritenere assorbito – dato il risultato della votazione – l’ordine del giorno Selvaggi, procediamo alla votazione degli ordini del giorno accettati dal Governo.

Il primo è quello degli onorevoli Nitti e Ruini, che rileggo con la modificazione suggerita dall’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri:

«L’Assemblea Costituente

esprime il dolore e la protesta dell’Italia perché non è questa la pace che ha meritato.

«Le condizioni che le sono imposte dal Trattato sono in contradizione, non solo con le solenni affermazioni dei vincitori, ma con i principî della giustizia internazionale, e durissime per un popolo che ha dato inestimabile contributo alla civiltà del mondo e dovrà, passata l’ora della sua oppressione, contribuire ancora alla nuova civiltà per la sua vitalità sempre rinascente nei secoli. Né il Trattato tiene adeguato conto che il popolo italiano è insorto contro il regime fascista, responsabile, insieme alle forze che dall’estero lo hanno sostenuto, della guerra funesta, ed ha combattuto a fianco delle Potenze Unite contro la Germania per la vittoria delle democrazie. Riconosce che, nonostante tutto, l’Italia dovrà per lo stato di necessità in cui viene messa ratificare il Trattato; e lo farà quando si verificheranno le condizioni obiettive di fronte alle quali è costretta a tale ratifica. L’Italia rivendica ad un tempo il suo incancellabile diritto alla revisione delle condizioni di pace.

«Ciò premesso, l’Assemblea Costituente passa all’esame dell’articolo unico del disegno di legge».

Pongo ai voti l’ordine del giorno testé letto. Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Segue la votazione).

Data l’imponente maggioranza che si manifesta nella votazione, non è necessario procedere a controprova. Dichiaro, quindi, approvato l’ordine del giorno Nitti-Ruini.

Gli altri ordini del giorno accettati dal Governo possono considerarsi assorbiti.

Secondo l’ordine del giorno Nitti-Ruini, testé approvato, passiamo all’esame dell’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo presentato dal Governo.

Se ne dia lettura.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

PRESIDENTE. Sono stati presentati quattro emendamenti. Gli onorevoli Bassano e Patricolo hanno già svolto i rispettivi seguenti emendamenti sostitutivi:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a dare esecuzione alle clausole contenute nell’Atto di Parigi del 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

L’onorevole Scotti Alessandro ha presentato il seguente emendamento sostitutivo:

«Il Governo è autorizzato a non opporsi all’esecuzione del Trattato, quando entrerà in vigore a norma dell’articolo 90, ed a dichiarare alle Potenze alleate ed associate, firmatarie del Trattato, che la Repubblica italiana considera la loro ratifica quale formale atto restaurativo dello stato di pace».

Onorevole Scotti, lo mantiene?

SCOTTI. Lo ritiro. Dichiaro peraltro di astenermi dalla votazione del disegno di legge, dando a questa astensione il preciso significato che deriva dal contenuto del mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire le parole: dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90, con le seguenti: condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze nominativamente menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo fa suo l’emendamento dell’onorevole Perassi, con la soppressione della parola «nominativamente».

PERASSI. Sta bene.

PRESIDENTE. Onorevole Bassano, mantiene il suo emendamento?

BASSANO. Il mio emendamento si ispira agli stessi criteri giuridici dell’emendamento dell’onorevole Perassi, il quale peraltro, lascia maggiori possibilità al Governo. Perciò non ho difficoltà a ritirare il mio emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Patricolo, mantiene il suo emendamento?

PATRICOLO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Patriocolo, del quale ho già dato lettura. Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Non è approvato).

Resta dunque da votare l’articolo unico del disegno di legge nel nuovo testo del Governo, che, dopo la dichiarazione dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, risulta così formulato:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella di tutte le Potenze menzionate nell’articolo 90 del detto Trattato».

Trattandosi di un articolo unico la sua votazione equivale alla votazione del disegno di legge; pertanto procederemo senz’altro alla votazione a scrutinio segreto, a norma del Regolamento.

TOGLIATTI. Non possono più aver luogo dichiarazioni di voto?

PRESIDENTE. No, poiché si tratta di votazione a scrutinio segreto.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Desidererei qualche chiarimento su questa procedura.

PRESIDENTE. È la procedura prevista dall’articolo 105 del Regolamento: il disegno di legge constando di un articolo unico, si procede senz’altro alla votazione per scrutinio segreto. Avverto, piuttosto, dato che da qualche collega mi si è affacciata analoga richiesta, che si può dichiarare l’astensione dal voto. Passando dinanzi ai Segretari che registrano i votanti, chi vuole astenersi ne fa prender nota, a norma degli articoli 107 e 108 del Regolamento.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Mi pare che si debba discutere l’emendamento Perassi.

PRESIDENTE. L’emendamento Perassi è stato fatto proprio dal Governo. Esso quindi è ormai incorporato nell’articolo unico del disegno di legge.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico la votazione segreta sull’emendamento Perassi.

(Segue la votazione).

Le urne resteranno aperte.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Procediamo intanto alla votazione dell’ordine del giorno che porta la firma dell’onorevole Badini Confalonieri e di diverse centinaia di membri di quest’Assemblea, e che rileggo:

«La Costituente italiana,

preso atto con commozione delle parole di saggezza pronunciate da autorevoli rappresentanti alla Camera francese in occasione della ratifica del Trattato di pace con l’Italia e delle ripetute testimonianze di un profondo comune desiderio di far rivivere tra i nostri due popoli un’amicizia, che va oltre gli stessi comuni interessi materiali;

ascoltato l’angosciato appello delle popolazioni di frontiera che il Trattato di pace assegna alla Francia;

ricordata la solenne promessa fatta dal Governo francese nel giugno 1940 al popolo italiano, che è consacrata dal sangue di tanti giovani delle due Nazioni caduti insieme combattendo per una causa comune;

rivolge

a tutto il popolo di Francia un caldo appello perché, richiamandosi ai princìpi della Carta Atlantica trasfusi nella Costituzione della IV Repubblica, voglia, di là dalle clausole stesse del Trattato di pace indicare al mondo le vie della vera pace e voglia evitare che sull’amicizia tra i nostri due popoli, fattore indispensabile per la rinascita dell’Europa, venga a pesare l’amarezza di mutilazioni che modificano una frontiera assestatasi in lungo processo di secoli sullo spartiacque alpino».

Chi lo approva è pregato di alzarsi.

(Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Dichiaro approvato l’ordine del giorno all’unanimità.

Auspico e mi attendo che questa voce, che parte dall’Assemblea Costituente ed interpreta il pensiero di tutti gli italiani, sia ascoltata e più ancora compresa, dai francesi, e che rappresenti un impulso irresistibile alla ricostituzione integrale di quei rapporti di fraternità e di collaborazione feconda che sono esistiti per tanto tempo nel passato fra le due Nazioni e devono necessariamente ristabilirsi; e che nello stesso tempo sia sentita come un saluto dagli abitanti del confine, i quali devono essere sicuri che il popolo italiano, nei suoi rappresentanti ed in ogni singolo suo componente, non può dimenticarli e non li dimenticherà mai. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Sui lavori dell’Assemblea.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Consenta l’Assemblea che io possa presentare in questo momento finalmente una proposta di rinvio, con la sicurezza che essa volentieri sarà accolta. Nella proposta io vorrei far rivivere qui quella che era la consuetudine dell’antico Parlamento libero, in cui al termine delle sessioni di lavori, meno faticosi di quelli, certo, che abbiamo fatto noi, l’onorevole Cavagnari e prima di lui altri e dopo di lui altri ancora, chiedevano al Presidente che volesse fare esso la proposta delle vacanze. E con l’applauso generale di tutti allora venivano chiuse le sedute ed altri lunghi applausi al Presidente venivano dalla tribuna della stampa: erano i nostri collaboratori della stampa che lo salutavano, dopo aver mandato un ventaglio con tutte le firme. Non so se questo sia predisposto anche ora; certo che oggi, dato il caldo enorme, ci vorrebbe un mulino a vento. (Si ride).

Signor Presidente! Onorevoli colleghi! Oggi possiamo dire, oramai, di «esser usciti fuor del pelago alla riva». (Approvazioni). Primo pelago, perché ce ne aspetta un altro, dopo, io spero, settembre avanzato (Commenti), periodo che mi auguro, signor Presidente, sia meno intenso e meno faticoso per lei e per tutti noi di quello che abbiamo attraversato.

C’è un po’ l’abitudine, fuori di qui, di far la critica dell’opera dell’Assemblea Costituente, come prima la si faceva del Parlamento; infatti dicono: questa brava gente non conclude niente, non fa che delle ciarle e delle chiacchiere, come se noi avessimo potuto diversamente esplicare quella che è l’opera nostra se non discutendo e quindi, discorrendo. Ma io osservo che gli elettori ci hanno mandato qui per fare la Costituzione ed altre leggi minori, il che non si può esplicare in altro modo, se non attraverso discorsi più o meno apprezzati od apprezzabili, ma che rappresentavano discussioni necessarie nel contrasto fra le varie tendenze che dividono la nostra Assemblea.

Io ho voluto farmi dare un modesto saggio statistico, che ella potrà integrare, dei nostri lavori. Da esso risulta che dal 6 febbraio ad oggi abbiamo tenuto 182 sedute: per la Costituzione, 91 e per la patrimoniale, 21, le altre per altri argomenti. Purtroppo vi sono state 29 sedute notturne delle quali – il signor Presidente lo sa – io sono stato costante oppositore e tale mi sono confermato perché ho visto che nelle sedute notturne un po’ per la stanchezza, o per la luce artificiale o per altro, questa riscalda gli ambienti e finisce poi per riscaldare più facilmente anche gli animi; così tutti gli incidenti più clamorosi – Dio mio! non gravi cose, si capisce – sono avvenuti nelle sedute notturne.

Abbiamo svolto 224 interrogazioni e ben 11 interpellanze. Di troppe forse ci siamo dichiarati insoddisfatti. Ma l’importante è che per un po’ di mesi – un paio, io spero – avremo la soddisfazione di non sentirne più parlare.

Ad ogni modo questa chiusura dei nostri lavori, questo taglio netto, per usare parole meno drastiche, per andare a riposare era, mi pare, oramai necessario e urgente, signor Presidente, perché in questi ultimi tempi abbiamo visto, non poche cose inconsuete: quando l’amico Tonello è arrivato ad interrompere in materia internazionale (Si ride), cosa tanto lontana dalle sue consuetudini, ed un altro buon collega si è argomentato di trasformare in versi più o meno asclepiadei e spesso zoppicanti, una discussione dell’Assemblea, ed ho visto altri colleghi, che avevano l’abitudine d’intervenire su quasi tutti gli argomenti, da due o tre giorni, tacere, io ho detto: è segno che ormai il caldo dominatore è tale che, per superarlo, non c’è che un po’ di riposo. Bisogna ritemprarci tornando ciascuno alla libera aria delle natie case, del mare, dei monti.

 

Anche per questo ho creduto opportuno di fare questa proposta che con piacere vedo ottenere il consenso di tutti. A questo punto allora credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea presentando al Signor Presidente i nostri ringraziamenti per averci così valorosamente guidati nella bisogna per molti di noi nuova e inusitata, e particolarmente per lei difficile ed aspra. (I componenti del Governo e tutti i deputati si levano in piedi – Vivissimi, generali, prolungati applausi all’indirizzo del Presidente – Ad essi si associano le tribune della stampa). Si comprende come nell’animosità del dibattito, fra tante vivaci persone, ciascuna delle quali riteneva di aver in suo saldo possesso la verità politica e sociale, non era possibile astrarre da quello che si discute per rimanere in una sfera quasi trascendentale. È umano. Diversamente, avremmo avuto un Presidente gelido, e quasi assente, quale certo non occorreva per dibattiti come sono stati i nostri. (Approvazioni).

Noi abbiamo ammirato, signor Presidente, i di lei sforzi per restare sempre al di sopra della mischia. Qualche volta, quando le più tumultuose contestazioni venivano da qualche parte che poteva essere meno distante dal suo cuore (Si ride), maggiore sforzo vi è stato non sempre agevolato, e alle volte con qualche ritardo, dalla comprensione dei colleghi (Approvazioni).

E con lei ringrazio e saluto i colleghi tutti della Presidenza; compresi anche gli zelanti Segretari. Ma per primo il nostro ottimo amico Conti (Vivissimi, generali applausi) che abbiamo visto con tanto piacere oggi ritornare, in mezzo a noi, come prima, anche perché l’Assemblea era desiderosa di tributargli questo plauso finale come riconoscimento della faticosa opera di aver condotto in porto questa nostra difficile e contrastata legge sopra la imposta patrimoniale, diventata nella discussione ancor più straordinaria, la quale, disse il nostro collega Corbino ieri, abbiamo visto con gioia terminare. Ora, effettivamente la gioia ci sarà stata per noi che finalmente avevamo finito, ma gioia per i contribuenti io temo che ne sia stata molto poca o niuna, e peggio ancora quando comincerà ad applicarsi. (Si ride). Ed infatti, quando io votai l’altro giorno, dissi al Ministro delle finanze, nel deporre con disciplina di gregario il mio voto, che non corrispondeva colla mia convinzione dissi: «Poca gioia è nell’urna» (Si ride).

E così, io saluto gli altri colleghi alla Vicepresidenza, gli amici che sono i più vicini al mio cuore: Pecorari e Bosco Lucarelli, perché rappresentano, nella Presidenza, Trieste ed il Mezzogiorno; ed in modo particolare l’onorevole Targetti, il quale fa parte a buon diritto del gruppo di quei sottili toscani, cui ha accennato ieri con tante vivaci parole l’onorevole Orlando. Egli rappresenta lassù, nell’alto seggio, il dolce stil novo (Vivissimi generali applausi), ed ha l’impegno di risciacquare in Arno il nostro dire, qualche volta allobrogo o peggio.

Ricordiamo tutti insieme il triplice collegio dei nostri Questori vigilanti e diligenti che, con tanta cura, dirigono tutte le cose nostre in questa grande azienda della Assemblea e che, con prudente circospezione, si aggirano tra i nostri banchi, a portar pace nei momenti più difficili; e per questo noi possiamo perdonare loro se i telefoni talvolta non funzionano, se talune lampadine non si accendono, o se mancano addirittura… (Si ride) e tante altre cose ancora che discrimineremo meglio in Comitato segreto.

Ma io non posso dimenticare in questa mia rapida scorsa il personale della Camera (Vivi applausi), che ci ha donato sempre tutta la sua operosa, zelante e continua collaborazione. A cominciare dal Segretario generale, così abile e rapido nel pescare i precedenti, da trovarne qualcuno anche se non c’è, perché al postutto servirà da precedente per la prossima volta. (Ilarità – Applausi).

Ed, andando innanzi, gli stenografi, che facciamo impazzire attraverso il tono dei nostri discorsi, così spesso interrotti da noi stessi. E dove metto i resocontisti? Io ricordo sempre, con grande simpatia, quel meraviglioso resoconto sommario nel quale, a qualunque ora l’Assemblea si chiuda, ogni mattina, leggiamo, pubblicato con molta grazia, quanto avevamo avuto intenzione di dire (Si ride – Applausi); ed il personale d’Aula e fuori di essa, quello di tutto interno il complesso organismo della nostra antica Camera dei deputati, comprese le ultime reclute; l’antica gloriosa Camera che è rimasta con la sua bella tradizione e tramutata, quasi migliorandosi, al servigio di questa nostra Assemblea Costituente. (Applausi).

Per ultimo, permettetemi di inviare, – ed anche qui io credo di poter interpretare il sentimento di tutta l’Assemblea senza distinzione di parte – un saluto riconoscente ai diciotto nostri colleghi del Comitato coordinatore ed anche ai Settantacinque – ed io credo di poterlo fare anche quest’ultimo, per quanto io appartenga ad esso, per il fatto che non sono mai stato convocato, e quindi non vi ebbi nessun merito. Essi ci hanno preparato, attraverso pazienti e lunghi studi e dibattiti, risultanti da verbali diligentissimi, quelle relazioni che hanno poi servito di guida alle nostre discussioni sul progetto di Costituzione; ai Vicepresidenti delle Sottocommissioni, ai Relatori, valorosissimi tutti, e all’onorevole Ambrosini in ispecie, meraviglioso creatore e uomo di sagace pensiero, ed è giustificato il rammarico per le sostituzioni talvolta perpetrate nel suo progetto, in alcuna delle quali per vero ebbe luogo una vera e propria sostituzione d’infante (Ilarità), attraverso l’indiscussa ed eloquente attività del Presidente onorevole Ruini, verso il quale io debbo pure oggi fare onorevole ammenda se qualche cosa mi fosse sfuggito di men che riguardoso verso di lui…

RUINI. No, no!

MICHELI. …quando, in una seduta nella quale mi sono visto davanti non un emendamento sostitutivo ma un testo completamente nuovo, io avevo la necessità di investirlo da ogni parte per poterne rinviare la discussione… (Si ride) e così fu infatti.

E al signor Presidente io chiedo venia ed ai colleghi di avere così a lungo indugiato in questo mandato che volonterosamente ho assunto; di averlo adempiuto forse in forma non sufficientemente austera, come era forse opportuno in un’Assemblea che sempre aveva discusso di cose così gravi e così importanti e dopo che il Presidente, con le sue parole ispirate e vigorose, aveva oggi sollevato l’entusiasmo dell’Assemblea nei riguardi dei nostri confini orientali. Ed io ho creduto di aggiungere qualche «sorrisa paroletta breve», perché, andando via di qui, dopo tante battaglie lo facessimo con l’animo pieno di serenità, con l’intenzione di ritrovarci più sereni ancora presto sì, ma non tanto presto (Ilarità), in modo da poter continuare, sotto così esperte guide, in feconda e concorde attività, quella Costituzione che il popolo italiano ha il diritto di domandarci. (Vivissimi applausi).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi associo, a nome del Governo, come promotore delle leggi, ai sensi di ringraziamento rivolti in modo particolare al Presidente e ai Vicepresidenti per la preziosa, benevola collaborazione che è stata da loro prestata, a tutti i funzionari e al personale in genere della Camera, e in modo speciale ai relatori e membri della Commissione che così intelligentemente hanno collaborato all’opera legislativa della Costituente. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Mentre ancora si procede al computo dei voti dello scrutinio segreto, chiudiamo intanto, onorevoli colleghi, le nostre vele. L’onorevole Micheli ha già detto, in modo veramente brioso, quanto io avrei voluto dire, tanto che non c’è necessità che io ripeta quanto egli ha già esposto. Posso soltanto esporre, in maniera sintetica, qualche dato statistico inerente ai nostri lavori. Io non nutro per le statistiche quella sfiducia che mostra di sentire l’onorevole Micheli: non la nutro per lo meno per quello che riguarda le statistiche nostre; perché, se è logico non fidarsi degli altri, possiamo e dobbiamo almeno fidarci di quelli che sono i risultati del lavoro nostro.

L’onorevole Micheli ha già ricordato che abbiamo tenuto, dal 6 febbraio ad oggi, 182 sedute, in 176 giorni, di cui 146 lavorativi. Possiamo di conseguenza constatare che, in realtà, non soltanto abbiamo avuto una seduta ogni giorno, ma spesso due e alcune volte anche tre. Di queste, alcune si sono spinte, come l’onorevole Micheli poc’anzi ricordava, nelle ore notturne, e sei al di là delle 24.

Di queste sedute plenarie, 91 sono state dedicate al progetto di Costituzione; 28 alla discussione di comunicazioni del Governo: è da ricordare infatti che due volte il Governo è mutato e si è dovuto discutere intorno al suo nuovo programma. Otto sedute sono state poi ancora dedicate all’esame della legge comunale e provinciale, 6 all’esame del disegno di legge relativo all’industria cinematografica, 4 all’approvazione di Trattati internazionali, 2 infine alla discussione intorno alla proroga della durata della nostra Assemblea.

Non debbo ricordare le sedute consacrate all’esame del progetto di legge relativo alla ratifica del Trattato. Credo che nessuno di noi, che vi abbiamo assistito e partecipato con ansia e dolore, in alcuni momenti anche con una certa ira repressa, non verso di noi, ma contro altri, potrà mai dimenticare queste sedute; e non è quindi necessario che io mi ci soffermi in modo particolare.

In 40 sedute, poi, si sono svolte le discussioni per interpellanze, mozioni e interrogazioni. E abbiate pazienza se ricordo così pedissequamente il nostro lavoro. Bene ha detto l’onorevole Micheli: è bene che si sappia nel Paese non soltanto ciò che non abbiamo potuto fare, ma ciò che in realtà abbiamo fatto.

L’Assemblea plenaria ha esaminato 24 disegni di legge di iniziativa governativa e uno di iniziativa della Presidenza: quello per la prima proroga dei poteri dell’Assemblea Costituente.

Le Commissioni legislative hanno tenuto 126 riunioni; ed anzi, i Presidenti di queste Commissioni esprimono il desiderio che anche se questa sera l’Assemblea inizia il suo periodo di riposo, i membri delle Commissioni, o alcuni di essi, per un paio di giorni almeno si ritrovino, per portare a termine un certo lavoro urgente che tuttora sta sul tavolo delle Commissioni.

Le Commissioni legislative hanno esaminato 278 schemi di provvedimenti: di questi, 271 sono stati rinviati al Governo, perché vi desse corso; 3 sono stati rimessi all’Assemblea Costituente; 4 sono stati ritirati dal Governo.

Per il progetto di Costituzione, che è il nostro lavoro fondamentale, rammento che fino adesso abbiamo approvato le disposizioni generali, i tre Titoli della parte prima: quelli relativi ai rapporti civili, ai rapporti etico-sociali, ai rapporti economici; il Titolo V della seconda parte relativo alle Regioni, di cui, però, abbiamo approvato soltanto undici articoli; cinque ce li ritroveremo nel mese di settembre. Complessivamente, abbiamo già approvato 64 articoli della Costituzione; ma ne restano ancora, egregi colleghi, nel progetto che abbiamo sott’occhio, 65, che concernono tutta la struttura, l’organizzazione e il funzionamento dello Stato, e in più 9 articoli di disposizioni transitorie.

L’Assemblea ha esplicato anche con una notevole minuzia il sindacato politico sull’attività del Governo. Sono state svolte e discusse: 2 mozioni, 11 interpellanze e 224 interrogazioni orali. Questo per i colleghi, i quali frequentemente si lamentano che alle interrogazioni non si dia corso. Il fatto è che più ne esaminano, e più ne affluiscono; e anche per quelle che richiedono risposta scritta, su 882 ben 601 hanno avuto risposta dai Ministri competenti.

Infine, sono state molto numerose le votazioni: ne abbiamo fatto, fra l’altro, 25 per appello nominale e 28 a scrutinio segreto. Noi adoperiamo largamente strumenti molto delicati di consultazione delle nostre opinioni.

In questa maniera, onorevoli colleghi, ho fatto il bilancio materiale dei nostri lavori, quello che si può misurare a numeri, giorni, ore, articoli, testi legislativi e voti. Non farò il bilancio morale; non dirò di quanto l’Assemblea abbia potuto contribuire con la propria attività collegiale, ma più ancora con l’opera singola di ogni deputato, al superamento spirituale del nostro passato di sciagure; di quanto l’Assemblea abbia immesso nella coscienza democratica della Nazione; di quanto abbia fatto per affermare l’idea repubblicana; come abbia posto e se abbia posto riparo ai propositi, sia pure non ben definiti, delle forze anti-democratiche. Non lo faccio, perché forse, nel fare questo bilancio, non ci si troverebbe tutti così d’accordo come nel fare il bilancio dei dati puramente materiali. D’altra parte, dato il regime provvisorio nel quale sta oggi la Repubblica italiana, non è forse compito immediato dell’Assemblea quello di realizzare gli scopi ai quali ora ho accennato. La Camera legislativa, quando avremo ultimata la Costituzione, darà essa il ritmo nuovo allo Stato italiano e sarà investita completamente di questi impegni. Ma credo di poter egualmente affermare che la stragrande maggioranza dell’Assemblea sta fermamente sul terreno repubblicano, per le libertà democratiche, secondo la volontà popolare, come si è espressa nelle elezioni del 2 di giugno.

La sessione che riapriremo il 9 settembre avrà qualche cosa di preciso da fare, tuttavia, a questo proposito.

Mi basta ricordare i disegni di legge per il consolidamento della Repubblica, che non sono ancora usciti dalla fase dell’esame dei lavori in Commissione, ma che certamente, alla ripresa dei nostri lavori, verranno all’Assemblea per la loro ultima decisione.

Non voglio tuttavia più rubare neanche un minuto ai colleghi che sono giustamente impazienti di poter mettere un punto fermo a questa lunga sessione dei nostri lavori. Credo che potremo ritrovarci il 9 settembre. Lo spazio è abbastanza lungo e la temperatura a quell’epoca si sarà un poco rinfrescata. Non dovremo più sopportare i duri sacrifici fisici che in queste ultime settimane abbiamo dovuto affrontare e che abbiamo abbastanza coraggiosamente affrontati.

Io propongo di ritrovarci il 9 settembre: sono 40 giorni di riposo e penso che siano sufficienti per potere tornare ai nostri lavori.

E per concludere, io adesso non mi rimetterò sulle tracce dell’onorevole Micheli per ringraziare partitamente tutti coloro che fra noi, e siamo in fondo tutti, hanno dato contributo alla migliore utilità del nostro lavoro, dai membri della Presidenza ai membri dell’Assemblea, ai rappresentati della stampa, ai collaboratori a qualunque titolo al lavoro dell’Assemblea Costituente, che non si svolge tutto nella solennità dell’Aula, ma che largamente si riparte negli studi, negli uffici e anche nei corridoi, dove i collaboratori che l’onorevole Micheli ha ricordato stanno diuturnamente ad attendere che noi completiamo il lavoro svolto qui nell’Aula.

E pertanto, senza dilungarmi, a lei, onorevole Micheli, porgo vivi ringraziamenti per le parole buone che ha avuto per me e per il suo plauso. Faccio quanto più posso; facciamo tutti quanto più possiamo; forse faremo di più man mano che avremo acquistato una maggiore esperienza nel manovrare il complicato e difficile strumento della vita parlamentare, che appare soltanto ai facili e ai leggeri un giuoco qualsiasi, ma che è in realtà, invece, uno degli strumenti più raffinati della vita moderna di un popolo civile. (Applausi prolungati e generali).

Onorevoli colleghi, l’onorevole Micheli, con estrema delicatezza, ha voluto lasciare a me il compito di pronunciare quest’ultimo saluto: a nome di tutta l’Assemblea rivolgo il mio pensiero reverente ed affettuoso al Presidente della Repubblica (Vivissimi, generali e prolungati applausi. Il Presidente, i componenti del Governo, tutti i deputati si levano in piedi) che, avendo accettato di restare ancora al posto più alto del nuovo Stato democratico italiano, deve – e noi glielo chiediamo insistentemente – temprare anche lui le sue forze in questo periodo di pausa dei nostri lavori, che non sarà pausa completa per i suoi, ma che tuttavia gli permetterà di ritrovare quel refrigerio e quella tranquillità che noi gli auguriamo e gli desideriamo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Onorevole Presidente, volevo ricordare solo questo. Io non mi oppongo alla sua proposta, ma forse lei non ha ricordato che il giorno 8 settembre partiranno per il Congresso interparlamentare europeo 45 o 50 nostri colleghi, che resteranno via otto giorni. Fra essi vi sono molti di noi interessati a fondo nello svolgimento dei lavori. Volevo fare solamente questa osservazione e niente altro. Non neghi, onorevole Presidente, la possibilità ad alcuno di noi di aprirsi una carriera internazionale. (Si ride).

Siccome poi mi è stato accennato a qualche dimenticanza nella quale sarei incorso, avverto che ciò è avvenuto perché mi son voluto mantenere fedele alla consuetudine lasciando al Presidente il compito di un più augusto saluto, perché la proposta partisse dalla fonte più autorevole ed alta. (Applausi vivissimi).

Così sono lieto di terminare augurando alle gentili colleghe nostre che con tanta comprensione hanno preso parte, pur nuove all’arringo, ai nostri lavori ed a voi, colleghi tutti, buone vacanze. (Vivissimi applausi).

Risultato della votazione segreta

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge:

«Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, Armato a Parigi il 10 febbraio 1947»:

Presenti                 410

Votanti                 330

Astenuti                80

Maggioranza         166

Voti favorevoli      262

Voti contrari         68

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Basile – Bassano – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bocconi – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Caroleo – Caronia – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Crispo – Croce.

Damiani – D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Dominedò – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Firrao – Foa  – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Garlato – Gasparotto – Gatta – Germano – Geuna – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Jacini – Jervolino.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Longhena – Lozza – Lucifero – Lussu.

Macrelli – Magrassi – Magrini – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marconi – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Molè – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Motolese – Mùrdaca – Murgia.

Nasi – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pignedoli – Ponti – Porzio – Preti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Paolo – Ruini – Rumor.

Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sapienza – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segala – Segni – Selvaggi – Sforza – Siles – Silone  – Simonini – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togni – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi  – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zagari – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Allegato – Amendola – Assennato.

Baldassari – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bernamonti – Bianchi Bruno – Bibolotti – Bitossi – Bosi – Bucci.

Caprani – Cavallotti – Cerreti – Colombi Arturo – Corbi – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – Di Vittorio – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fiore.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giolitti – Gorreri – Grieco – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Laconi – Landi – Leone Francesco – Lombardi Carlo – Longo.        

Maffi – Magnani – Maltagliati – Marchesi – Massini – Massola – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Moranino – Musolino.

Negro – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Pastore Raffaele – Pellegrini – Perlingieri – Pesenti – Platone – Pratolongo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Santi – Scarpa – Scoccimarro – Sereni – Sicignano – Silipo – Spano. Togliatti.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca.

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo – Lombardi Riccardo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Interrogazioni, interpellanze e mozione.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze e di una mozione pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere quale azione abbia svolta o intenda svolgere ulteriormente per ottenere la liberazione degli italiani deportati in Jugoslavia, «la cui sorte tristamente ignota – come dice il recente messaggio ricevuto dall’interrogante – da ventisei mesi cagiona lutti e miserie indicibili».

«Gasparotto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e delle finanze, per conoscere le ragioni per le quali, nel procedimento per avocazione di profitti di regime promosso dall’Intendenza di finanza di Roma a carico del noto profittatore e sostenitore del regime fascista, Giorgio Berlutti, editore dell’altrettanto nota «Libreria del Littorio» e di altri organismi di propaganda, che vivevano parassitariamente a carico del contribuente e dello Stato:

1°) non sia stato assoggettato a sequestro conservativo anche il giornale Il Globo, di cui il Berlutti è proprietario insieme con la Federazione dei dirigenti industriali, per cui si assiste oggi allo spettacolo che il più diffuso organo economico-finanziario italiano si trova nelle mani dell’editore ufficiale del partito fascista e di uno degli scrittori di propaganda più attivi dello stesso partito;

2°) l’Avvocatura generale dello Stato non abbia validamente tutelato gli interessi dello Stato, impedendo che il sequestro già dato dal Presidente del Tribunale di Roma il 1° marzo 1947 venisse revocato – limitatamente alla Casa editrice R. Carabba di Lanciano – come invece è avvenuto il 3 aprile successivo;

3°) sia stato nominato sequestratario dei beni del Berlutti il professore Alfonso Linguiti, il quale, per i suoi trascorsi politici, meriterebbe egli stesso di essere sottoposto a procedimento per avocazione; e, infine, le ragioni per le quali il medesimo professore Linguiti non sia stato almeno sostituito in conseguenza del fatto che non ha dato la minima esecuzione al detto sequestro, durante i 34 giorni in cui tale provvedimento è rimasto in vita, limitatamente alla Casa editrice R. Carabba.

«Pesenti, Foa, Dugoni, Cevolotto, Sapienza, De Vita».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali siano i criteri seguiti dal Commissariato degli alloggi di Roma nell’esprimere alla locale Prefettura il proprio parere sul termine di tempo da assegnarsi agli impiegati statali per cercarsi altro alloggio, nel caso in cui essi siano costretti a lasciare quello attualmente occupato in seguito a sentenza di sfratto emessa dall’autorità giudiziaria su richiesta dei proprietari di casa, che intendano occupare essi stessi l’alloggio; se gli risulti, come risulta agli interroganti, che molto spesso il Commissariato degli alloggi esprima il parere di assegnare un termine breve, pur sapendo che oggi, a Roma, un impiegato dello Stato che sia onesto, in nessun modo è in grado di trovarsi altra abitazione; quali provvedimenti ritenga opportuno emanare per risolvere il grave, urgente problema riferentesi agli impiegati statali, che, risiedendo a Roma già da anni e trovandosi nelle condizioni anzidette, sono nella necessità di procurarsi un alloggio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Nobile, Bozzi, De Vita, Pacciardi, Di Vittorio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere per quali motivi sul tratto ferroviario Campobasso-Benevento non viene istituito un servizio di automotrice – specialmente in coincidenza con i rapidi per Roma – già promesso da tempo.

«Il tratto Campobasso-Benevento è di chilometri 84 e si impiegano ore 3.31 a percorrerlo con l’attuale servizio di treni.

«Il Molise è privo di comunicazioni ferroviarie con Roma a causa della distruzione della ferrovia, operata dai tedeschi.

«Il servizio di autocorriera che è stato istituito è costosissimo ed insufficiente.

«Le comunicazioni con Napoli sono lente e impongono sacrifici di tempo e di danaro.

«Il Molise, avendo sofferto danni incalcolabili a causa della guerra, esige che gli siano ridati i mezzi che consentano di riprendere con rapidità i suoi traffici e le sue comunicazioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Camposarcuno, Ciampitti, Colitto, Morelli Luigi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere le ragioni per le quali per la fissazione del prezzo del citrato di calcio è stato richiamato in vigore il vecchio decreto del 1929, mentre è evidente la necessità e la giustizia che il prezzo fosse sottoposto al Comitato interministeriale dei prezzi, il quale l’anno scorso ne fissò la misura in modo meno irrisorio di quello stabilito per la campagna in corso (1946-47).

«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali sono i criteri per ritenere che le richieste delle categorie agrumarie sarebbero in contrasto con il decreto-legge 10 ottobre 1929, n. 1942, e se non crede opportuno di aumentare il prezzo fissato che non ha tenuto presente, in confronto del prezzo fissato per l’anno scorso, né il cresciuto costo della mano d’opera, né l’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla produzione del citrato di calcio, né le condizioni del mercato valutario, infliggendo una falcidia ingiustificata al compenso dovuto alla fatica e alle spese degli agrumicoltori, dei piccoli produttori di citrato di calcio, dei lavoratori manuali e delle altre categorie interessate, che in Sicilia, e specialmente nella provincia di Messina, da questo cespite traggono la loro sola fonte di vita, e anziché ottenere tutela e protezione, hanno avuto da questa arbitraria decisione gravi e immeritati danni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per conoscere se non siasi potuto ottenere alcuna ufficiale conferma della presenza in varie regioni dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche di italiani prigionieri di guerra, e quale esito abbiano avuto per ottenere di essi il sollecito rimpatrio.

«Micheli».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che hanno determinato l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica a disporre che siano senz’altro indetti in tutti i comuni i concorsi per medici condotti, veterinari ed ostetriche sulla base della legge sanitaria del 1935 mortificatrice di ogni autonomia comunale e se non creda di far revocare le disposizioni come sopra impartite e sollecitare quelle provvidenze legislative che salvaguardino i diritti degli enti locali e vengano incontro ai legittimi desideri delle categorie interessate.

«Tessitori, Fantoni, Schiratti, Garlato, Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga opportuno – attraverso ad un attento riesame della questione – di disporre per l’esonero dal pagamento del tributo sugli utili di guerra a carico degli agenti e rappresentanti di commercio a far tempo dal 1° gennaio 1939 (o, in via subordinata, dal 1° gennaio 1945), come già attuato nei confronti dei piccoli affittuari agricoli, degli esercenti piccole attività industriali e commerciali e degli artigiani, a tal fine trasferiti dalla categoria B alla categoria C-1.

«Militano a favore degli agenti e rappresentanti di commercio validi argomenti che l’interrogante sintetizza:

1°) gli agenti e rappresentanti non sono «intermediari», ma bensì «ausiliari» del commercio;

2°) la legge 1° luglio 1940 fu emanata imperante l’abrogato Codice di commercio, che considerava commercianti appunto gli «intermediari» (mediatori, commissionari, numeri 21 e 22 dell’articolo 4);

3°) la legge comune e quella tributaria hanno sempre disconosciuto la qualifica di «commercianti» negli agenti e rappresentanti;

4°) la legge fondamentale tributaria iscrive gli agenti e rappresentanti in categoria C-1 e non in categoria B;

5°) gli agenti e rappresentanti sono gli unici iscritti alla categoria C-1 che siano soggetti all’imposta sugli utili di congiuntura; non sono infatti tassati gli altri professionisti aventi reddito di puro lavoro di natura incerta e variabile;

6°) agenti e rappresentanti non hanno da ricostruire monte merci né da ammortizzare impianti e pertanto appare iniquo l’accantonamento della così detta quota indispensabile.

«Chiabamello»

«L’Assemblea Costituente,

considerato che nella decisione presa dal Ministro delle finanze in merito alla concessione in uso del Villaggio Alpino denominato Colonia Valgrande di Comelico (Belluno) si riscontra un grave difetto di valutazione, essendosi trascurato:

1°) che la Colonia in parola è stata costruita con i mezzi finanziari offerti da operai, impiegati, industriali e Istituti bancari della provincia di Treviso fin dal 1929, allo scopo di assicurare ai figli più bisognosi dei lavoratori di quella provincia svago e ristoro durante le stagioni estiva ed invernale;

2°) di prendere in considerazione la proposta dell’Intendenza di finanza di Belluno – competente per territorio – al superiore Ministero delle finanze, nell’aprile 1947, con la quale – a conclusione dell’esame della pratica avviata durante sedici mesi con l’E.N.A.L. di Treviso – la Colonia di cui trattasi, si proponeva venisse concessa in affitto all’E.N.A.L. di Treviso;

invita, il Governo a revocare la decisione presa dal Ministro delle finanze in ordine alla concessione in affitto della Colonia di Valgrande di Comelico, e riconosce che per ragioni di equità e di giustizia essa debba venire assegnata in uso all’E.N.A.L. provinciale di Treviso.

«Ghidetti, Pellegrini, Costantini, Bellusci, Tonello, Nobile, Zanardi, Montemartini, Crispo, Foa, Cevolotto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze e la mozione saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

E con ciò, cari colleghi, a rivederci al 9 settembre.

La seduta termina alle 19.30.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccx.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Votazione segreta del disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Commemorazione di Camillo Prampolini:

Simonini

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Nenni

Selvaggi

Saragat

Orlando

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Chiusura della votazione segreta:

Presidente

Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente:

Presidente

Gronchi

Vernocchi

Corbino

Scoccimarro

Crispo

Colitto

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Votazione segreta del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Ricordo che nella seduta di stamane è stata ultimata la discussione sul disegno di legge per la convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria sul patrimonio.

Indico la votazione a scrutinio segreto su questo disegno di legge.

(Segue la votazione).

Avverto che le urne rimarranno aperte.

Commemorazione di Camillo Prampolini.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Esattamente 17 anni or sono, il 30 luglio 1930, a Milano, povero, come povero era sempre vissuto, pochi giorni dopo aver preso possesso di una modesta casetta che l’affetto, l’amicizia, la solidarietà dei suoi compagni gli avevano offerto, moriva in Milano Camillo Prampolini. È difficile dire in poche parole di Camillo Prampolini. La sua opera, la sua azione sono soprattutto legate allo sviluppo economico sociale e politico della Valle Padana. Ma egli fu anche, sotto certi aspetti, e come lo fu, benché modesto e schivo degli onori, per il suo valore, per la sua capacità, uomo politico nazionale.

Egli onorò anche questa Assemblea e lungamente la onorò, come ebbe a riconoscere e dichiarare un grande illustre Presidente della Camera dei Deputati che un giorno lo invitava a continuare un discorso nel quale egli denunciava le condizioni delle classi lavoratrici della terra di quel tempo, della Valle Padana, e lo invitava a continuare quel suo discorso appellandolo apostolo di pace che con le sue parole «onorava il Parlamento e il Paese».

Camillo Prampolini è stato della generazione eroica del movimento socialista uno degli apostoli. Forse un giorno, quando saranno superate le attuali contingenze e gli uomini potranno dedicarsi con maggiore tranquillità e passione allo studio degli avvenimenti e degli sviluppi politici e sociali del nostro Paese, forse allora potrà rifulgere in pieno quella che è stata e resta la figura nobile di questo onesto, modesto, grande uomo del quale si onora e per il quale si onora il movimento socialista. Ed io sono lieto che in questa occasione socialisti di tutte le correnti e di tutte le sponde, fra loro certamente non opposte, se pur diverse, si siano trovati uniti nel volerlo ricordare.

Al ricordo di Prampolini permettetemi di associare anche, perché proprio il 30 luglio ricorre l’anniversario della sua morte, quello di un altro uomo, che accanto a Prampolini, nella nostra terra padana e qui in Parlamento, onorò il movimento socialista: Giovanni Zibordi. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo di potere – a nome dell’Assemblea intera – far eco e dare la mia adesione alle parole pronunciate dall’onorevole Simonini. Il nome di Camillo Prampolini sta all’alba del movimento socialista italiano. Ma per trascorrere di tempo e volger di vicende, con l’affermarsi di altri uomini – gareggianti in spirito di sacrificio e profondità di loro studi e capacità pratiche di organizzazione nel quadro dell’azione sociale e politica dei lavoratori – il suo nome non si è mai offuscato. Ed anche oggi, pronunciandolo, noi sentiamo che non tanto rievochiamo, così, un’ombra venerata ma di tempi lontani e superati, quanto un’energia spirituale, che ancora oggi ci sospinge, conforta ed ammaestra.

Né vi è contesa né vi può essere contesa fra le diverse correnti nelle quali purtroppo il grande fiume del socialismo, allontanandosi nel tempo dalla sua prima modesta sorgente, si è suddiviso. Poiché nel grande e generoso patrimonio di pensieri e di affetti che Camillo Prampolini ha lasciato, ognuno trova da attingere per nutrire nel bene e migliorare la propria opera.

L’Assemblea Costituente, che sta redigendo una legge fondamentale per la Repubblica italiana, assidendola sui diritti del lavoro, si unisce nel ricordo di Camillo Prampolini che ai lavoratori aprì le vie dell’ascesa e delle civili conquiste. (Vivissimi, generali applausi).

Ha chiesto di parlare il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.

DE GASP ERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo si associa con reverenza e con commozione alla rievocazione delle nobili figure di Camillo Prampolini e di Giovanni Zibordi. (Applausi).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI. Onorevoli colleghi, giunti ormai alla fine di questa discussione, credo si possa dire che il solo punto acquisito è che non esistevano e non esistono ragioni di carattere internazionale, e di carattere nazionale, tali da giustificare l’iniziativa presa dal Governo circa la anticipata ratifica del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio scorso.

Non esistono ragioni di carattere internazionale in quanto la dimostrazione è stata data che la mancanza della firma di uno degli Stati promotori del Trattato rende il Trattato stesso ineseguibile in condizioni tali che il nostro voto non gli dà la vita che ancora non ha, né gliela toglierebbe se l’avesse. Non esistono le condizioni di politica interna, nelle quali noi pensavamo che questa discussione dovesse farsi; perché il Governo che l’ha promossa non è rappresentativo dei settori popolari e repubblicani del Paese, ed è legato, per la sua origine, a particolari interessi internazionali.

Vorrei aggiungere che con la ratifica anticipata del trattato, ci si domanda di accettare uno stato di diritto e di fatto, che non corrisponde più alla situazione che vi dette origine, la quale si è trasformata proprio a causa del piano Marshall e delle conseguenze che il piano ha avuto nei rapporti tra gli autori del Trattato che oggi dovremmo ratificare.

Credo anche di poter dire che è mancata da parte del Governo la piena coscienza della sua responsabilità, di fronte alla quale esso avrebbe dovuto accettare la proposta del collega Valiani di convocare l’Assemblea in seduta segreta. Penso che se la seduta segreta non c’è stata, è perché il Governo non aveva niente da dire di eccezionalmente importante, come non ha avuto niente da dire in seduta di Commissione dei trattati, dove non c’erano né una tribuna diplomatica, né una tribuna dei giornalisti e dove quindi era possibile abbandonarsi alle comunicazioni più confidenziali. La verità è che il Governo si è avventurato in questa discussione, senza misurarne le conseguenze, senza rendersi conto che esercitava un vero e proprio ricatto sull’Assemblea e sul Paese (Commenti al centro – Applausi a sinistra). Signori, la prova della mancanza di serietà del Governo sta nel fatto che esso è venuto davanti alla Commissione dei trattati a sostenere l’urgenza della ratifica per potere andare alla conferenza di Parigi, per ripiegare in seguito su una posizione analoga alla nostra, accettando la subordinazione della nostra ratifica a quella delle quattro Potenze e chiedendoci in definitiva un voto che potrebbe restare privo di conseguenze.

Infatti, ammettiamo per un momento l’ipotesi – da non scartarsi a priori – che l’Unione Sovietica non firmi o non ratifichi più il Trattato; avremo allora discusso per quindici giorni ed avremo rischiato di lacerare spiritualmente la Nazione, per dare un voto privo di conseguenze giuridiche e politiche, un voto nella notte e nel buio. (Rumori al centro).

Vedremo più tardi che cosa si può dire dell’atteggiamento delle Quattro Potenze davanti al Trattato, ma reputo che siamo tutti d’accordo nel pensiero che, se ci fosse una possibilità su un milione di vedere il Trattato, a seguito della mancata ratifica di una delle Quattro Potenze che l’hanno promosso, restare lettera morta o ridursi a carta straccia, mancheremmo al dovere verso noi stessi e verso il Paese, se tale possibilità non secondassimo rinviando la nostra ratifica al momento in cui le condizioni previste dall’articolo 90 si saranno verificate ed il Trattato sarà diventato definitivo ed eseguibile.

In tali condizioni, onorevoli membri del Governo, io considero un mistero il fatto che voi non abbiate accettato la proposta dell’onorevole Orlando, nelle condizioni in cui fu formulata, un mistero che diventerebbe ancora più impenetrabile se la proposta di rinvio fosse di nuovo respinta. (Commenti).

Prima di chiarire questo mistero o di cercare di chiarirlo, desidero ripetere che il Gruppo parlamentare socialista, come ha votato, nello spirito in cui essa fu presentata, la sospensiva dell’onorevole Orlando all’inizio della discussione, così la rivoterà ove sia ripresentata, pronto a prendere l’iniziativa se altri non lo facessero e ad insistervi, ponga o no il Governo la questione di fiducia.

Ci sono, signori, due fatti nuovi ed una situazione nuova. Il primo fatto nuovo – l’ho già detto – è la mancata ratifica di una potenza che, al pari dell’onorevole Orlando, vorrei poter chiamare «x», per non accendere attorno ad essa discussioni e passioni di carattere ideologico e politico.

L’altro fatto nuovo è il cambiamento di fronte del Presidente del Consiglio, di alcuni dei suoi più autorevoli Ministri e del Gruppo della democrazia cristiana (Commenti al centro), cambiamento di fronte del quale, fino a questo momento, non ci è stata data nessuna spiegazione.

Un anno fa l’onorevole De Gasperi voleva dimettersi dal Governo per non arrendersi alla decisione dei Ventuno a Parigi, ed alcune settimane or sono noi lo abbiamo visto prendere su di sé personalmente la responsabilità della firma, senza neppure coprirsi con un voto dell’Assemblea, che eravamo ponti a dargli.

Il 23 ottobre scorso, mentre un socialista stava per andare al Ministero degli esteri, il Gruppo della democrazia cristiana votava un ordine del giorno contro la firma e la ratifica del Trattato. Oggi, questo medesimo Gruppo ci domanda la ratifica del Trattato in condizioni del tutto eccezionali, allorché il Trattato non ha vita e addirittura non esiste come strumento esecutivo.

Signori, noi socialisti abbiamo una certa dimestichezza col metodo dialettico, che consiste nell’adoperare le parole non nel loro senso assoluto ed astratto, come ce ne offriva un esempio commovente, l’altro giorno, il nostro amico Canepa, quando con virgiliano candore parlava del disarmo universale o dell’esercito internazionale di cui si dovrebbe occupare fra qualche settimana l’O.N.U. Il metodo dialettico insegna ad adoperare le parole nel loro riferimento coi fatti concreti e positivi. Da questo punto di vista, riconosco che le parole «ratificare», «ratificare subito», «non ratificare», «non ratificare subito» acquistano, in rapporto alla concreta situazione di alcune settimane or sono e di oggi, un senso preciso che m’induce a riconoscere la logica dell’onorevole De Gasperi e quella del Gruppo parlamentare democristiano.

Che cosa ha sempre pensato l’onorevole De Gasperi del Trattato? Non parlo dell’apprezzamento morale e politico ma della sua esecuzione. Il Gruppo democristiano, l’onorevole De Gasperi, i suoi Ministri in materia più autorevoli (per esempio l’onorevole Gonella, che non è al banco del Governo, ciò che è naturale dopo una certa indicazione dell’Assemblea… (Applausi a sinistra – Rumori al centro) e che vedrei volentieri al suo banco di deputato (Commenti – Vivaci proteste al centro), potrebbe spiegarci perché egli giudica con animo così diverso un problema sul quale, in Consiglio dei Ministri fu sempre così intransigente.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Citeremo la sua logica: citeremo qualche cosa! (Applausi al centro).

Una voce al centro. Lui è dialettico! (Commenti).

NENNI. Io sono meno misterioso di De Gasperi, e non seguirò l’esempio di De Gasperi il quale non ha dato nessuna spiegazione…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le darò domani!

NENNI. …nessuna spiegazione dei suoi voltafaccia. Io indicherò invece quali sono state e sono le nostre perplessità.

Dicevo dunque, onorevoli colleghi, che il Presidente del Consiglio, i suoi più autorevoli Ministri democristiani, anche Don Luigi Sturzo – il quale di fronte al Trattato ha avuto una posizione di assoluta intransigenza mossa da considerazioni di ordine morale e storico, piuttosto che politico – hanno sempre sperato che il Senato americano non avrebbe ratificato il Trattato; ipotesi questa che secondo le nostre affermazioni era da scartarsi, per quanto meritasse tutta la nostra attenzione.

Senonché, quando De Gasperi è andato in America, egli si è trovato al famoso banchetto dove il ministro segretario al dipartimento di Stato, signor Byrnes, lo ha salutato non precisamente come l’uomo della provvidenza (Proteste al centro) ma in ogni modo come colui che avrebbe ratificato il Trattato contro gli estremismi di destra e di sinistra…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ha letto lei, il testo.

NENNI. Ho letto ciò che è stato pubblicato.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io l’ho smentito già allora!

NENNI. Così è stato pubblicato e non è stato smentito. (Rumori – Proteste al centro). È da questo momento e dal ritorno del Presidente del Consiglio dall’America che data il voltafaccia del Presidente del Consiglio e della democrazia cristiana di fronte al Trattato, né gliene faccio carico essendo naturale che venuta a mancare l’ipotesi della non ratifica americana anche l’atteggiamento di coloro che su di essa avevano contato doveva modificarsi.

Senonché, fra l’uno atteggiamento e l’altro, ci sono anche altre cose: c’è la presa di posizione del Presidente Truman, col messaggio del 12 marzo, che ha avuto tanta importanza anche nella recente crisi ministeriale; c’è l’evoluzione subita dalla politica mondiale in rapporto al messaggio del 12 marzo. Ieri Togliatti diceva che uno degli elementi negativi della politica estera di De Gasperi è che essa è stata unilaterale. Signori, la prova più evidente dell’unilateralità di questa politica l’abbiamo in codesta discussione.

Io domando all’onorevole De Gasperi: se sotto il Trattato mancasse la ratifica americana, chiederebbe egli all’Assemblea Costituente italiana di ratificare? (Commenti al centro). Se mancassero la ratifica inglese o quella francese, verrebbe in mente ad uno solo dei nostri Ministri, ad uno solo dei Gruppi dell’Assemblea, di domandare la ratifica anticipata del Parlamento italiano ad un testo senza vita e senza valore esecutivo?

Signori, sono sicuro che, nella vostra buona fede tutti, a questo quesito, rispondete «no». E siamo allora al punto dolente della questione. Io condivido l’impressione, già espressa da altri, che per De Gasperi l’Europa finisce alla linea Trieste-Stettino. Mi sono perfino domandato se le sue naturali preoccupazioni di cattolico militante non contribuivano a fargli dimenticare che l’Europa finisce agli Urali; se, intravedendo, al di là di quello che i giornalisti chiamano le rideau de fer, la rossastra figura del Maligno (Si ride), egli non sia portato ad esorcizzare il nemico con un vade retro Satana.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono vissuto venti anni al di là di quella linea, onorevole Nenni! (Approvazioni al centro).

NENNI. Può darsi, ma ella onorevole De Gasperi dimostra oggi, con la sua politica, la parzialità della sua comprensione del mondo, e dà la prova che mentre era disposto, ed aveva ragione, a considerare la mancata ratifica del Senato americano come un avvenimento fondamentale, considera invece che la mancata ratifica sovietica non ha nessuna importanza, non altera i termini del problema, non modifica la situazione giuridica politica.

Ebbene, onorevole De Gasperi, una gran parte del Paese, non per ragioni ideologiche, ma per una concreta visione degli interessi della Nazione, non è affatto disposta a considerare come trascurabile tutto ciò che avviene all’est.

Certo, onorevole De Gasperi, noi siamo molto sensibili, specialmente in questi banchi socialisti, all’opinione espressa dai nostri amici inglesi e francesi; siamo molto sensibili, soprattutto in questi banchi, all’opinione del Ministro Bevin, ma io credo di non sorprendere i nostri amici inglesi se dico che in questa questione non ci può essere coincidenza fra gli interessi inglesi e quelli italiani e il nostro dovere è di attenerci all’interesse italiano. (Applausi a sinistra).

Onorevole De Gasperi, eccomi a dire quale è stata e quale è la nostra posizione nei confronti del Trattato. Prima di tutto, come lo abbiamo giudicato? Il Ministro Sforza ha espresso l’opinione di tutta l’Assemblea allorché nel suo discorso ha detto che il Trattato è una pace degli alleati fra di loro. Qualche cosa del genere abbiamo sempre detto noi, sostenendo che il Trattato è un compromesso fra gli alleati, del quale noi abbiamo fatto le spese. Il nostro giudizio, sul Trattato, è stato sempre di un realismo brutale, non turbato da considerazioni sentimentali, non appesantito da valutazioni morali o storiche. Fino dall’inizio, abbiamo detto che il problema non era quello di firmare o ratificare, non firmare o non ratificare, ma eseguire o non eseguire, e siccome consideravamo e consideriamo che il nostro Paese sia in condizioni di non eseguire, così abbiamo sempre detto e diciamo che quando il Trattato ci sia presentato perfetto giuridicamente e politicamente in tutte le disposizioni dell’articolo 90, non resta a noi nazione italiana, che firmare (e l’abbiamo fatto); o ratificare, e lo dovremo fare non appena il Trattato abbia acquistato il carattere esecutivo che oggi non ha.

Si è parlato del mio discorso di Canzo e si è creduto di trovare una contraddizione fra l’atteggiamento che assumiamo oggi (di fronte a un Trattato che consideriamo – non mi stancherò di ripeterlo – senza valore esecutivo) e quanto io dicevo nell’ottobre scorso.

Mi scusi l’Assemblea se, contrariamente all’onorevole De Gasperi il quale non ci ha dato nessuna spiegazione dell’evoluzione del suo pensiero, io mi richiamo al discorso di Canzo per dimostrare la perfetta logica del nostro atteggiamento. S’era all’indomani dell’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno. Ed io mi ponevo il quesito «che fare adesso?» e rispondevo così:

«Prima di tutto, ripresentare il problema ai Quattro nella sua complessità. E poi, come lo abbiamo fatto per venticinque anni contro il fascismo, anche quando pareva che urtassimo al granito o all’acciaio, non rinunciare mai alla difesa del nostro diritto e inscrivere la nostra integrità territoriale e la nostra indipendenza nazionale politica ed economica fra gli obiettivi permanenti della nostra politica estera e della nostra politica generale.

«Niente isterismi, ma neppure niente rinunzie. L’Europa si troverà, da ora in poi, davanti ad una Italia che vuole collaborare all’opera comune di progresso, che vuole vivere in pace coi suoi vicini, che fonda la sua azione sul principio della solidarietà internazionale, che non punta sugli anglo-americani contro l’Unione Sovietica o Sull’Unione Sovietica contro gli anglo-americani, ma sull’unione di tutte le forze democratiche dell’Europa e del mondo, che rinunzia ai miti insanguinati dell’impero e della potenza militare, ma che mantiene aperte le sue sacrosante rivendicazioni, decisa a farle trionfare appellandosi al diritto ed alla ragione».

Ciò voleva dire che finché fosse esistita la possibilità di trattare sul Trattato, noi lo avremmo fatto.

E, signori, qual è stato il mio atteggiamento come Ministro degli esteri, dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Quattro? Io inviavo allora, d’accordo naturalmente con il mio Presidente del Consiglio, ai Quattro ministri degli esteri la nota seguente: «Il Ministro degli esteri della Repubblica italiana ha preso conoscenza del Trattato di pace quale è stato definitivamente redatto nella riunione di New York dei Ministri degli esteri della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il Ministro degli esteri constata che non è stata accolta nessuna delle richieste di modifica delle primitive clausole del Trattato presentate dal Governo italiano alla Conferenza di Parigi. Il Trattato urta la coscienza nazionale, specie per le clausole territoriali. In queste condizioni il Ministro degli esteri si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di chiedere che sia riconosciuto il principio della revisione del Trattato sulla base di accordi bilaterali con gli stati interessati sotto il controllo e nell’ambito dell’O.N.U.».

Signori, è forse questo l’atteggiamento di qualcuno, deciso come che sia a firmare e ratificare? Dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno, io avevo annunciato il nostro ricorso ai Quattro; dopo la decisione dei Quattro, preannunciavo il ricorso all’O.N.U., mentre cercavo, attraverso accordi bilaterali, di iniziare la revisione del Trattato.

 Se non ci fossero state le mie dimissioni, sarei andato il 21 gennaio a Londra (Commenti) e malgrado la riluttanza del Foreign Office avevo pregato il Ministro Bevin di mettere all’ordine del giorno delle nostre discussioni il problema del ritorno degli italiani in Africa come mandatari dell’O.N.U., e in una posizione non di conquistatori ma di collaboratori del movimento di indipendenza degli arabi.

Avevo pregato il Ministro degli esteri francese dell’epoca, Léon Blum, di ricevermi al ritorno da Londra e lo avevo pregato di ricercare con me se non ci fosse una formula la quale consentisse all’Italia e alla Francia di risolvere direttamente la questione di Briga e di Tenda.

Avevo fatto presente al Ministro Molotov il mio desiderio di andare a Mosca al più presto possibile, per iniziare le discussioni e le trattative per il trattato di commercio e per dare alla Repubblica sovietica la prova dell’interesse profondo che la diplomazia e la Nazione italiana attribuiscono a questo grande Paese dalle infinite possibilità nel campo che ci interessa, quello degli scambi commerciali.

E debbo dire, a rettifica parziale di ciò che affermò ieri il mio amico Togliatti, che cercai di approfondire col Ministro jugoslavo Simic e col Governo di Belgrado tutte le possibilità concrete offerte dall’incontro Tito-Togliatti, di arrivare ad un accordo diretto fra l’Italia e la Jugoslavia su una linea etnica di confine accettabile per entrambi, oppure sull’estensione del territorio libero di Trieste fino a Pola, in modo da comprendervi la maggior parte degli italiani dell’Istria.

Quando lasciai il Ministero il Governo jugoslavo era riluttante ad una discussione sulla questione territoriale; ma aveva accettato di normalizzare i nostri rapporti con la nomina di un rappresentante jugoslavo in Italia e quella di un rappresentante italiano a Belgrado. Né io sono in grado di dire gli sviluppi ulteriori di tale questione.

Mi sembra così di aver dimostrato che, nei limiti delle possibilità di allora, io feci quanto era possibile per porre la questione della revisione in termini concreti e nel solo modo possibile, non l’eventuale e problematica discussione all’O.N.U., ma le trattative con i Governi ed i Paesi interessati a stabilire buone relazioni con noi, liquidando gli errori del Trattato di pace.

Signori, quando il terzo Ministero De Gasperi si è presentato davanti all’Assemblea, ho avuto occasione di fare delle riserve sulla procedura del Governo di firmare senza consultare l’Assemblea, ed ho annunciato che se fossimo stati consultati noi socialisti avremmo dato parere favorevole alla firma. Similmente se oggi il Trattato fosse perfetto, noi saremmo favorevoli alla ratifica, senonché un tale stato di necessità non esiste e io dico che se ci fosse una possibilità su un milione che il Trattato divenga un pezzo di carta straccia, sarebbe deplorevole che sotto quel pezzo di carta ci fosse anche la firma della Repubblica italiana. (Applausi).

Tutta la questione è qui, onorevole De Gasperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La firma c’è già e col suo consenso. (Commenti).

NENNI. La firma c’è già, ma impegna il Governo. Ella stessa, onorevole De Gasperi, e il Ministro Sforza con la dichiarazione con la quale accompagnò la firma, vollero salvaguardare il diritto dell’Assemblea di ratificare o meno, né credo di interpretare male il pensiero del Governo di allora se dico che non impegnando l’Assemblea per la firma, esso intendeva di preservare la nostra libertà di ratificare nel momento giudicato il più opportuno. Perciò capisco l’onorevole De Gasperi e non capisco l’onorevole Sforza. Capisco l’onorevole De Gasperi perché egli lega la anticipata ratifica alla sua politica generale ed interna. Capisco l’onorevole De Gasperi perché per lui la ratifica, nelle attuali condizioni, significa accettazione a priori della divisione dell’Europa in due blocchi e presa di posizione in favore di uno dei blocchi. (Applausi a sinistra – Commenti al centro).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. È il contrario!

NENNI. Non capisco l’onorevole Sforza perché sono sicuro che egli ed i suoi collaboratori valutano l’importanza di mantenere aperta ancora per qualche settimana o qualche mese la questione della ratifica. Non capisco l’onorevole Sforza perché penso che nel dissidio europeo e mondiale, egli non ha preso finora nessuna posizione definitiva.

Quando io cerco le ragioni del Ministro degli esteri, e tengo naturalmente conto di quanto egli ci ha detto in Commissione dei trattati, non trovo un motivo, una spiegazione al suo atteggiamento se non quella della comodità, che non mi pare degna né del Ministro né dei suoi collaboratori a Palazzo Chigi.

Concludendo su questa questione, in perfetta coerenza col nostro costante atteggiamento, noi socialisti diciamo:

1°) che la ratifica è una dolorosa necessità ed è anche allo stato delle cose un obbligo di lealtà, ma solo quando siano state adempiute le condizioni poste dagli alleati per dare validità al Trattato;

2°) che nelle condizioni attuali la ratifica anticipata è un errore tecnico, politico e morale, in rapporto alla generazione presente ed alle generazioni di domani;

3°) che noi consideriamo il Trattato ingiusto, senza perciò abbandonarci al pessimismo di coloro che, ripetendo l’errore del 1919, gridano alla inutilità e al tradimento dei sacrifici e del sangue versato dal settembre 1943 all’aprile 1945 dai marinai, aviatori, soldati del Corpo italiano di liberazione e dai partigiani.

Signori, se la guerra si fosse conclusa nel settembre del 1943, con la capitolazione senza condizioni, oggi il nostro Paese non discuterebbe, in una relativa condizione di libertà, se ratificare o non ratificare il Trattato di pace, ma sarebbe diviso, come la Germania, in quattro zone di occupazione, con gli angloamericani che occuperebbero le isole e la penisola fino alla Valle Padana, i sovietici sul Tagliamento, la Francia in Liguria ed in Piemonte.

Avere impedito ciò, torna ad onore imperituro dei Comitati di Liberazione Nazionale e dei partigiani. (Applausi a sinistra).

Signori, codesta parte del dibattito, alla quale ho portato il mio modesto contributo, a nostro giudizio era inutile e pericolosa; utile invece è la discussione sul piano Marshall e la Conferenza di Parigi.

Della Conferenza di Parigi e del piano Marshall si sono prospettate tesi, delle quali, a mio giudizio, talune hanno peccato di eccessivo ottimismo, talune di eccessivo pessimismo.

Non c’è ancora nessuna ragione perché possiamo attenderci un miglioramento rapido e sensibile delle condizioni del nostro Paese, in rapporto con le trattative internazionali in corso, né c’è motivo di considerare tutto morto e fallito.

Pare a me che nella fase attuale delle trattative internazionali, piuttosto che ad un piano Marshall siamo di fronte ad un piano Bevin. (Commenti).

Il Ministro britannico degli esteri, spinto dalla grave situazione economica del suo Paese e dal suo idealismo socialista, ha colto a volo l’accenno, contenuto in un discorso del Ministro Marshall circa la opportunità che l’Europa si metta d’accordo e proceda senz’altro ad una intesa per presentare una domanda cumulativa di aiuti all’America.

Credo che quando gli Americani parlano di paesi europei, si riferiscano ai paesi fuori della influenza sovietica, agli stati della seconda zona, dove per combattere l’influenza della Russia e del comunismo, l’America è disposta ad intervenire economicamente per arrestare lo sviluppo del «comunismo della miseria».

Il Ministro Bevin ha probabilmente data un’altra interpretazione al discorso Marshall, allorché, mosso dall’ardente desiderio di realizzare l’unità dell’Europa, ha convocato a Parigi per il 27 giugno i «Tre Grandi». Purtroppo i fatti non hanno corrisposto alle speranze del Ministro Bevin. Non solo l’unità dell’Europa non si è fatta, ma si è creata una divisione che, se dovesse approfondirsi, condurrebbe l’Europa e il mondo verso un disastro.

Di chi la colpa? Signori, per parte mia, ammiro coloro che, su dati sommari, elementari, sono arrivati a delle conclusioni definitive.

Luigi Salvatorelli, storico emerito, uomo di principî democratici, in un articolo recente nel Messaggero ha emesso senz’altro la sua sentenza. Ai suoi occhi, è l’Unione Sovietica che avrebbe, con le sue mani, creato il blocco occidentale.

Altri hanno emesso giudizi radicalmente contrari. Non mi fido né degli uni né degli altri.

Molti avvenimenti devono ancora prodursi perché noi possiamo renderci conto dei motivi profondi della rottura del 27 giugno a Parigi.

Secondo me, la rottura ha una delle sue cause nel fatto che il Ministro Bevin ha interpretato il discorso Marshall come un superamento del piano Truman; il Ministro Molotov ha visto nel discorso e nel piano Marshall un tentativo di trasferire il piano Truman dalla politica all’economia.

Signori, chi ha ragione, chi ha torto? Noi cominceremo a capire quando vedremo come funzionerà il patronato economico dell’America sull’Europa. Se sarà un patronato politico, tipo Grecia, allora vorrà dire che il piano Marshall è una applicazione di quello Truman: se avremo un intervento economico, senza pretese di egemonia politica, allora vorrà dire che il piano Truman non è destinato a generalizzarsi a tutta l’Europa. Allo stato attuale delle cose, ogni giudizio appare avventato.

D’altra parte, per noi Assemblea Costituente, per voi Governo, la ricerca delle responsabilità è meno importante del fatto. Ora il fatto esiste, brutale, inquietante. C’è una rottura, c’è una lacerazione dell’Europa. Dire in queste condizioni che a Parigi è nata una grande speranza, è contrario alla verità delle cose. La Conferenza di Parigi è stata la più grave delusione dalla fine della guerra ad oggi, una delusione che pertanto non comporta soltanto le conclusioni negative di chi pensa e dice: non interessiamoci più della Conferenza di Parigi, non occupiamoci più dell’idea Marshall, né del piano Marshall. Occupiamocene, onorevole Ministro degli esteri, ma valutando i pericoli insiti nella situazione che è grave per il mondo, per l’Europa e gravissima per noi. Occupiamocene sapendo che se l’Europa dovesse restare divisa in due blocchi opposti, essa sarebbe rovinata.

I paesi dell’Europa occidentale hanno delle economie concorrenti e non complementari. Ognuno di essi produce le cose, le macchine che gli altri producono o vorrebbero produrre. L’economia occidentale è quella che il mio vecchio amico Vandervelde chiamava du cheval vapeur in contrapposto all’economia orientale du cheval animal. La complementarietà è fra le due economie occidentale e orientale.

Se abbiamo coscienza di ciò, allora dobbiamo stare a Parigi, per concorrere modestamente a superare la divisione fra ovest ed est e non cedere alla vanità di vedere nelle conferenze internazionali delle tribune di propaganda. Abbiamo bisogno di ben altro.

Tutto il dramma della moderna politica estera – credo che Sforza sarà d’accordo con me – è nelle parole che ha pronunziato l’altro giorno il Ministro Bevin, rispondendo ai suoi critici, che lo rimproveravano di non aver abbastanza iniziativa, con parole che sarebbero naturali sulle labbra del Ministro dell’industria e commercio e sembrano straordinarie – e non lo sono – su quelle del Ministro degli esteri: «che cosa volete che faccia se non ho una tonnellata di carbone da offrire a nessuno?!».

Questa è la politica estera moderna! Le tonnellate di carbone, le tonnellate di grano, le materie prime, da mettere in competizione: questa la politica estera dei tempi nostri! Noi non abbiamo carbone, non abbiamo materie prime, né grano ma soltanto la forza del nostro lavoro, che dobbiamo cercare di valorizzare al massimo.

Fare una buona politica estera di trattati di commercio, di trattati di emigrazione: ecco ciò che noi vogliamo; capire che l’indipendenza e il prestigio del paese non sono in rapporto con la posizione della poltrona del nostro Ministro al tavolo della Conferenza di Parigi, ma con la rinascita economica del paese. Il materialismo storico non si era mai presa una tale rivincita, in questo campo della politica estera che pareva quello della politica pura!

Ecco, signori, le ragioni della nostra angoscia di fronte alla Conferenza di Parigi. Vera angoscia di socialisti, di europei, soprattutto di italiani, che sanno che il problema dell’Italia non si risolve in occidente, come – del resto – non si risolve in oriente, ma si risolve soltanto se, con i nostri modesti sforzi, possiamo contribuire ad unire l’occidente con l’oriente.

Vorrei adesso richiamare l’attenzione del Governo su cinque problemi.

Il primo è che esso non deve perdere di vista alla Conferenza di Parigi la connessione fra i crediti e il grano americano e i mercati orientali. Non possiamo fare a meno dei crediti americani; non possiamo fare a meno del grano americano; ma non possiamo nemmeno fare a meno dei mercati orientali, perché, coi crediti che ci verranno, o che speriamo ci vengano dall’America, continueremo ad indebitarci rischiando di diventare una Nazione vassalla, mentre è soltanto riconquistando i mercati orientali che possiamo sperare di risanare la nostra economia, comprando non con delle valute, ma con delle macchine, dei tessuti, coi prodotti della nostra industria e del nostro artigianato.

Il secondo è che il Governo deve tener conto degli interessi della nostra industria meccanica e della nostra industria tessile. Si è smentito – lo ha smentito il collega Tremelloni – che esista a Parigi un piano di limitazioni della nostra produzione meccanica, siderurgica e tessile. Però il fatto solo che di ciò si parli dimostra che c’è una tendenza naturale in questo senso.

Non paghi il Governo effimere promesse con la contrazione della nostra produzione industriale e con la rinuncia alla industrializzazione del Mezzogiorno. In questo caso, gli interessi dell’industria sono gli interessi non solo di coloro che amministrano e sfruttano le aziende, ma di milioni di operai. Noi pensiamo alla socializzazione prossima o futura delle industrie, ma si socializza soltanto ciò che esiste. Non si socializza la miseria.

Terzo punto. A Parigi c’è un piano di valorizzazione economica dell’Africa. Ne ha parlato il Ministro Morrison alla Camera dei Comuni, esponendo in questa materia il piano del Governo laburista britannico. Tutta una sezione del piano francese Monnet è consacrata alla valorizzazione dell’Africa. Signori, mi pare venuto il momento di dire che da un piano di valorizzazione dell’Africa, l’Italia e gli Italiani non possono essere esclusi. Ci sono 180 mila famiglie italiane reduci dall’Africa che conoscono nelle nostre città la più nera miseria, che come coloni, come commercianti, come artigiani, come operai hanno dato un contributo insostituibile alla organizzazione della vita economica delle ex colonie italiane. Nessuno, su questi banchi, pensa che l’Italia possa tornare in Africa come potenza conquistatrice, oppressiva, sfruttatrice…

CONDORELLI. Non l’ha mai voluto nessuno!

NENNI. …tutti pensiamo che l’Italia può e deve tornare in Africa come elemento di progresso e di civiltà, come alleata naturale del mondo arabo nello sforzo teso verso l’indipendenza del continente nero.

Il quarto problema è quello tedesco, non nel suo complesso, ma sotto l’aspetto particolare del carbone della Ruhr. Sul carbone della Ruhr ci sono piani di ogni genere: c’è il piano americano, che affida la soluzione alla libera iniziativa, e cioè ai magnati che finanziarono l’hitlerismo e sarebbero felici di ricominciare a farlo; c’è il piano britannico della socializzazione del sottosuolo renano e dei complessi industriali della Ruhr; c’è il piano francese della internazionalizzazione; c’è il piano sovietico dell’unità economica della Germania.

Non c’è un piano italiano, né io ne chiedo uno, visto che i nostri interessi sono limitati. L’Italia non può però rimanere esclusa dalla distribuzione del carbone della Ruhr: sia pure per via di compensazioni interne fra i paesi europei, l’Italia deve avere la sua quota parte, senza di che la ricostruzione italiana resterebbe esclusivamente affidata alle importazioni del carbone americano troppo caro e troppo lontano.

Signori, mi rimane da parlare di un ultimo punto, il più essenziale, quello del nostro avvenire come Paese indipendente. Se noi mettiamo un dito nell’ingranaggio dei blocchi contrapposti, finiremo per essere trascinati. La difesa di un popolo povero e la difesa di un Paese disarmato è nella sua neutralità politica. Noi domandiamo al Governo una politica di neutralità. Noi domandiamo al Governo di non assumere impegni politici all’ovest; noi gli domanderemmo, se fosse necessario, di non assumerne all’est. Noi domandiamo una strenua difesa della neutralità che ci è imposta dalla storia e dalla geografia, Posti al limite di due civiltà, noi non possiamo interamente identificarci né nell’una né nell’altra.

Negli ultimi cinquant’anni, il destino del nostro popolo e della nostra Nazione è stato tradito e fuorviato dalle classi dirigenti tutte le volte che hanno voluto incorporarci in un sistema di alleanza contro un altro.

L’onorevole De Gasperi parlava recentemente, nel suo discorso di Trento, della fama di machiavellismo che ci siamo fatti in Europa e nel mondo. Da che deriva? Da una duplicità dei nostri ideali, da una perversità dei nostri costumi, dalla malafede dei nostri uomini politici? No, deriva dalle contradizioni in mezzo alle quali ci siamo dibattuti e che non abbiamo mai potuto risolvere in un sistema politico determinato di alleanze.

Ci fecero aderire alla Triplice alleanza, e nel 1900 dovemmo correggere la Triplice con giri di valzer a Parigi e a Londra, per poi nel 1914-15 passare, in piena guerra, ad altre alleanze.

Mussolini ci condusse all’Asse e per uscirne dovemmo, in piena guerra e in piena disfatta, cercare protezione ed aiuto presso le Potenze stesse contro le quali il nostro Paese era stato trascinato in guerra.

Sono abbastanza obiettivo per dire che una politica contraria avrebbe dato gli stessi risultati. E allora domando: onorevoli colleghi, vogliamo ricominciare fra occidente ed oriente le oscillazioni che la nostra politica ha conosciuto fra la Triplice alleanza e l’Intesa cordiale, fra l’Asse e gli Alleati della grande guerra?

Se noi facessimo questo, ci condanneremmo a divisioni interne che paralizzerebbero i nostri sforzi di rinascita e torneremmo ad essere sul piano internazionale una foglia sbattuta una volta verso un blocco, una volta verso l’altro blocco. Da un simile tragico destino ci può salvare soltanto una politica che porti il suo modesto contributo al tentativo della pacificazione europea e che non prenda impegni politici nel conflitto fra le grandi Potenze.

Signori, ho letto un discorso attribuito al signor Eden. In esso si dice che se la guerra scoppiasse, i primi paesi a farne le spese sarebbero la Finlandia e l’Italia. Credo che nel pensiero dell’ex ministro Eden ciò significhi che noi saremmo immediatamente occupati dalle potenze occidentali per diventare un campo di battaglia, una pista di lancio della guerra aerea, un deposito di bombe atomiche e quindi un bersaglio di bombe atomiche. Basta affacciare una simile ipotesi per diffidare di ogni atto della nostra politica interna ed estera il quale dia un’impressione di parzialità o di presa di posizione per gli uni contro gli altri. Ecco perché noi riteniamo che non è possibile ratificare, oggi, il Trattato di pace, quando la nostra ratifica può dar luogo al sospetto che prendiamo posizione nell’urto fra le potenze. Ecco perché alla fine, come all’inizio del mio discorso, a nome del gruppo socialista ripeto: Saremmo grati al Governo se accettasse la sospensiva. Voteremo la sospensiva. Ma se il Governo non l’accettasse, gli lasceremo allora la responsabilità di una decisione che, presa in un momento propizio, poteva e potrebbe unire tutti gli italiani nella coscienza della ingiustizia patita e nella volontà della rinascita; ma che, presa oggi, ci divide all’interno e ci rende sospetti all’estero. (Vivissimi applausi a sinistra – Congratulazioni).

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che gli onorevoli Bennani, Grilli, Vigorelli, Moscatelli, Ghidini, Canevari, Treves, Bocconi, Badini Confalonieri e Cifaldi hanno chiesto la chiusura della discussione. (Applausi).

Pongo ai voti tale proposta, avvertendo che, ove sia approvata, tutti gli oratori iscritti decadono dal diritto; potranno solo parlare, per un tempo massimo di venti minuti, i presentatori degli ordini del giorno non svolti, salvo le repliche della Commissione e del Governo.

Pongo ai voti la proposta di chiusura.

(È approvata).

Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che mi è pervenuta la seguente lettera:

«Onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente, La prego di comunicare all’Assemblea le mie dimissioni dall’ufficio di Vicepresidente. Con osservanza. – Giovanni Conti».

Voci. No, No!

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Questa mattina l’onorevole Corbino ha avuto occasione di invitare la Assemblea, e l’Assemblea gli ha dato immediatamente cordiale consenso, a far sì che l’onorevole Conti non mettesse in atto il proposito che aveva manifestato.

Oggi, di fronte alla lettera formale di dimissioni, noi desideriamo esprimere il rammarico che il nostro collega abbia voluto trarre tali conseguenze da un incidente che vorrei chiamare quasi banale, perché non ha comunque l’importanza che può essergli stata attribuita in un momento di eccitazione. E preghiamo il Presidente della Assemblea di farsi interprete presso l’onorevole Conti del nostro voto unanime che egli rimanga al posto finora da lui tenuto con tanta imparzialità e capacità e con senso così vivo del decoro di questo consesso. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. Mi associo, a nome del Gruppo parlamentare socialista, alle parole pronunciate dall’onorevole Gronchi.

Vorrei proporre all’Assemblea di respingere le dimissioni presentate, come manifestazione della nostra solidarietà e come affermazione di quella stima che abbiamo per l’onorevole Conti. (Vivissimi applausi).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Devo ripetere quanto ho avuto occasione di dire questa mattina a proposito del nostro collega Conti e pregarlo, a nome di questo settore, di recedere dal suo proposito, continuando a rimanere nel suo ufficio. (Applausi).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. II Gruppo comunista si associa alle parole espresse all’indirizzo dell’onorevole Conti e dichiara che, se le dimissioni venissero mantenute, nella nomina per un nuovo Vicepresidente, voterebbe ancora il nome dell’onorevole Conti. (Vivissimi, generali applausi).

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Anche a nome del Gruppo liberale, esprimo lo stesso desiderio e lo stesso invito. (Applausi).

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. A nome del mio Gruppo, mi associo alle parole espresse dai precedenti colleghi. (Applausi).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta formulata dai vari oratori, che le dimissioni presentate con questa lettera dall’onorevole Conti non vengano accettate e che l’onorevole Conti sia riconfermato al posto che ha tenuto finora con così piena approvazione da parte dell’Assemblea.

(La proposta è approvata all’unanimità – Vivissimi, generali, prolungati applausi).

La seduta è sospesa per alcuni minuti.

(La seduta, sospesa alle 19.25, è ripresa alle 19.45).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio:

Presenti e votanti   439

Maggioranza         220

Voti favorevoli      358

Voti contrari            81

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Beffato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Costa – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo –Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Germano – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Vererin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzatto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo– Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sapienza – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti– Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Vinciguerra – Vischioni.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zappetti – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Abozzi.

Bellavista – Bianchi Bianca.

Cairo – Cannizzo.

Galioto.

Lombardo Ivan Matteo.

Marazza.

Persico.

Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.

Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’onorevole Selvaggi ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente italiana, di fronte al Trattato imposto e alle sue iniquità, eleva una solenne protesta nel nome dei morti, dei nostri figli, di questa Italia la cui vita esuberante e le cui forze di ripresa sapranno dimostrare al mondo di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito».

Ha facoltà di svolgerlo.

SELVAGGI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho aderito volentieri alla richiesta di chiusura della discussione, perché mi è parso che tutti gli argomenti possibili siano stati sufficientemente trattati.

Questo dibattito non è stata una discussione sul Trattato di pace, poiché la tesi sostenuta da tutti noi è stata sempre che si trattava d’un Trattato imposto e che pertanto non poteva essere discusso, ma, se mai, subito e non accettato, ma è stata una discussione sulla politica estera; sulla politica estera di un triennio, poiché noi dobbiamo partire dalla data dell’8 settembre, per vedere quale politica estera è stata fatta, per domandarci se era possibile ottenere un Trattato migliore.

Noi dovevamo scontare e pagare una sconfitta militare, ma dovevamo anche domandarci se, coi sacrifici fatti dal popolo italiano dopo l’8 settembre, si poteva ottenere qualcosa di meglio, qualcosa che meno offendesse la dignità della nostra Nazione.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre, ci furono due fatti importanti: la dichiarazione di guerra alla Germania e la cobelligeranza, e poi l’accordo Prunas-Russia.

Il primo fu un atto positivo autonomo, la prima iniziativa che l’Italia prendeva dopo l’armistizio-capitolazione; ed infatti fu seguito da una dichiarazione, anzi, dall’impegno di Quebec, fra Roosevelt e Churchill, che l’armistizio sarebbe stato modificato in relazione all’apporto italiano alla guerra contro la Germania.

Il secondo atto, il riconoscimento da parte della Russia del Governo italiano, anch’esso atto autonomo, fu negativo e influì sulla successiva politica estera italiana, perché insospettì l’altra parte, gli anglo-americani.

A questo punto s’inserirono i Comitati di liberazione nazionale ed i Governi che ne furono l’espressione.

La prima dichiarazione di politica estera l’abbiamo nel settembre del 1945, quando l’onorevole De Gasperi tornò da Londra e da Parigi. Egli disse allora: «Nulla è pregiudicato». Ed il popolo italiano si mise nella euforica aspettativa che ben poco gli sarebbe stato tolto. Questo fu errore grave di impostazione della nostra politica estera e dei nostri contatti diplomatici; infatti nel gennaio del 1946 l’onorevole De Gasperi doveva dichiarare che egli non aveva carte. Noi ci eravamo messi nella nostra azione di politica estera su di un piano, che era stato un piano della propaganda dei vincitori, piano che voleva dividere l’Italia dal fascismo, e non ci eravamo accorti che i nostri vincitori erano passati, appena ottenuta la vittoria, sul piano cinico della realtà, sul piano del Vae victis!. Noi ci battevamo: mea culpa, ci accusavamo di colpe non nostre, dimostravamo di rassegnarci a dover subire ogni qualsiasi imposizione.

La difesa della nostra politica estera non è stata unilaterale. L’onorevole Togliatti ieri e l’onorevole Nenni oggi hanno detto che è stata unilaterale. Se fosse stata unilaterale, sarebbe stata una politica nazionale nell’interesse dell’Italia, mentre non ha potuto essere nazionale, proprio perché i Governi non erano uniformi; erano discordi i partiti al Governo ed hanno impedito una politica nazionale e lineare. È molto facile oggi esprimere delle critiche, dire che la colpa è dell’onorevole Bonomi e dei circoli che gli erano intorno. Ma se i Comitati di liberazione nazionale avevano tutto in mano, quali altri circoli potevano impedire una politica nazionale? Anche nel settore diplomatico, non si è stati sufficientemente efficaci. Cosa si è controbattuto alla propaganda slava, che ha riempito e, direi, letteralmente inondato i circoli politici inglesi ed americani di pubblicazioni sulla Jugoslavia? Noi abbiamo contrapposto un modestissimo «Libro bianco» e non ci siamo accorti che la propaganda slava – che ancor oggi è forte proprio in Inghilterra – è riuscita a far entrare nella testa di molti che la Venezia Giulia non è territorio italiano ma è territorio slavo.

Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il 25 luglio, che cosa ha significato l’8 settembre, cioè l’apertura di quella fortezza europea che gli stessi americani credevano impossibile ad effettuare.

Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il contributo di sangue versato dagli italiani dopo l’8 settembre, da parte delle truppe dell’esercito regolare, della marina, della aeronautica, da parte dei patrioti, i quali non hanno fatto il giuoco del cavallo vincente, perché non si affrontano i plotoni di esecuzione se non per ideali altissimi, quali quello della libertà e quello della patria. Si continuò a recitare il mea culpa dinanzi a Tito, la cui vittoria era costata il sangue di ventimila soldati italiani.

Contemporaneamente, a Vienna, un Governo messo a capo di un popolo che ha fatto fino in fondo la guerra nazista, avanzava pretese territoriali nei nostri confronti e manovrava tra le contrastanti forze d’Europa. Ma non si era nemmeno tentato di fare quello che altri popoli hanno fatto: un Governo in esilio al quale tutti gli italiani avessero potuto appellarsi ed avvicinarsi. Questo chiedo in modo particolare all’onorevole Sforza, che ancora nel 1942 dava garanzia a nome altrui.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Mai!

SELVAGGI. Sì, e la lettera al Re d’Italia?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È un falso!

SELVAGGI. Ne prendo atto. L’onorevole De Gasperi dunque disse: non abbiamo carte! Ma in quella tremenda partita di poker che è la politica internazionale, dichiarare prima ancora d’iniziare il giuoco una cosa come questa è, a mio giudizio, estremamente grave. Soprattutto quando si ha a che fare con dei carnivori dalle mandibole possenti quali erano coloro che volevano assidersi a nostri giudici. Credo che mai un Governo si sia trovato da vinto in posizione più favorevole di quella in cui si è trovato il Governo italiano, fra potenze divise da ambizioni antitetiche ed inconciliabili, tra le quali – ripeto la frase pronunciata nel suo discorso dell’altro giorno dall’onorevole Sforza – «il nostro Trattato costituiva un compromesso ed un atto di pace». Eravamo cioè soggetto e non oggetto: eravamo elemento indispensabile per questo compromesso e per questo atto di pace. Riconosco e do atto che l’eredità, che è stata assunta dai Governi che hanno preceduto l’attuale, è stata dura, ma ciò nonostante resta il fatto che noi siamo andati a Londra e a Parigi con il saio dei penitenti, mentre avremmo potuto additare con l’indice molti di quelli che si erigevano a nostri giudici e che potevano essere al banco degli accusati come noi, perché essi avevano civettato con il fascismo e con il nazismo. Basti il ricordo di Monaco del 1938, quando fu tradita l’Europa intera.

Ma, a parte il 25 luglio, la cobelligeranza e la dichiarazione di guerra, due carte c’erano: la promessa fatta durante la guerra dalle nazioni alleate ed associate, e la dichiarazione di Quebec che erano un vero e proprio patto, un do ut des, perché da parte nostra si entrava in guerra contro la Germania e ci si disponeva a versare dell’altro sangue; dall’altra parte si prendeva l’impegno di modificare gradualmente le clausole dell’armistizio in relazione al nostro sacrificio. Ma vi sono anche dei dati precisi.

Dopo l’8 settembre, i tedeschi hanno fatto 600.000 prigionieri italiani; di questi 30.000 sono morti in campi di concentramento e soltanto 23.000 hanno aderito ai nazisti. Per contro, dei 700.000 prigionieri in mano inglese, 578.000 hanno chiesto, dopo l’8 settembre, di poter collaborare e cooperare alla guerra. Questo era l’indice dell’orientamento di un popolo.

Non esistette praticamente una politica estera, perché le lotte interne, perché quella politique d’abord di Nenni, avevano la preminenza di fronte agli interessi nazionali verso l’estero.

E così siamo giunti a quel fatale giorno della firma; ma dobbiamo domandarci se dal punto di vista della politica interna, se dal punto di vista degli strumenti diplomatici, siamo stati all’altezza della situazione. Indubbiamente, un nesso vi è fra politica interna e politica estera, se non così stretto come lo si vuol fare apparire. Troppo ci si è fidati che il democratico cristiano Bidault potesse favorire il democratico cristiano De Gasperi e il laburista Bevin il socialista Nenni. Signori, questi uomini, prima di essere uomini di parte, sono uomini del loro Paese. Bevin è prima inglese e poi laburista. Dobbiamo imparare anche noi ad essere prima di tutto italiani e poi uomini di parte.

JACINI. Non abbiamo niente da imparare.

SELVAGGI. Abbiamo da imparare, onorevole Jacini.

Al momento della firma, l’onorevole De Gasperi si assunse una gravissima responsabilità, della quale gliene ho dato e gliene do atto: fu un atto di coraggio. Non so però se in quest’atto di coraggio non ci sia stato anche un certo senso di paura, che non arrivassero aiuti e rifornimenti.

E poi vi era una speranza: la speranza della revisione. Lo disse egli stesso nelle dichiarazioni che fece in quel momento, che nel lasso di tempo che sarebbe intercorso fra la firma e la ratifica qualcosa avrebbe potuto modificare le clausole dell’armistizio. Non mi pare che molto si sia modificato. Viceversa, temo che se la ratifica viene presentata sotto lo stesso aspetto, con la stessa speranza, avremo delle forti disillusioni, e le disillusioni sono molto, molto pericolose.

E siamo al punto della ratifica. Sono state analizzate un po’ da tutti le ragioni addotte dal Governo il quale chiedeva con urgenza, con immediatezza che si procedesse alla ratifica. Si chiedeva questo per un complesso di ragioni che vanno dal piano Marshall, che era imminente, all’O.N.U., ad una politica autonoma, ad un fatto politico e non ad un fatto giuridico. Mi sembra che tutti questi argomenti siano un po’ caduti e la riprova è data dalla nuova formula che ci viene presentata per la ratifica. Non si tratta più di ratificare, quindi di eseguire, ma si tratta di prendere un impegno di eseguire ad una data, che non sappiamo quando sarà. Cioè, non c’è più l’urgenza, non c’è più l’immediatezza.

Due soli aspetti degli argomenti presentati dal Governo vorrei chiarire. Il primo è quello che si riferisce alle pressioni che possono essere venute per questa ratifica nostra. Ma, a questo proposito, io vorrei domandare: di fronte a queste pressioni, è stato chiesto se veramente chi ce le faceva riteneva che la ratifica fosse nel nostro interesse o non riteneva, invece, che fosse precisamente nell’interesse proprio?

E se così era, dovevamo contrattare qualche garanzia. Dovevamo, cioè, per esempio, chiedere una interpretazione di quel famoso articolo 90: dovevamo chiedere che ci fosse accordato un termine dalla ratifica russa dopo del quale poter trattare direttamente. Allora sì che io avrei capito un principio, un inizio di revisione.

Certo, può darsi benissimo che ci siano delle ragioni segrete, riservate che noi non conosciamo. L’onorevole Sforza ne ha fatto anche un vago accenno. Ma, se ci sono, l’onorevole Sforza avrebbe dovuto chiedere una seduta segreta per riferircene. C’è un precedente poi che mi autorizza a formulare una ipotesi di questo genere; ed è il precedente del Trattato di Rapallo, con la clausola segreta su Porto Barros che fu conosciuta soltanto dopo che l’onorevole Sforza l’aveva smentita.

L’altro punto riguarda la nostra entrata nell’O.N.U. In verità, onorevoli colleghi, troppe illusioni noi ci facciamo a proposito di questa entrata nell’O.N.U. Prima di tutto è da osservare che, per i due articoli 53 e 107 dello Statuto dell’O.N.U., noi siamo in condizioni di potervi entrare soltanto in una patente condizione di inferiorità, perché vi possiamo entrare soltanto come Stato nemico, neppure come ex nemico. In secondo luogo, l’O.N.U. non è fatta, come si crede, per la revisione o – come dice l’onorevole De Gasperi – per lo svuotamento dei Trattati; essa è invece fatta proprio, tutto al contrario, per il mantenimento dello status quo.

L’O.N.U. esclude quindi per statuto ogni possibilità revisionistica per quello che concerne questo nostro infausto Trattato. Forse l’onorevole Sforza, quando ci ha parlato di questo, ha pensato allo statuto della Società delle Nazioni; all’articolo 141, se non erro, che prevedeva la revisione dei Trattati che fossero risultati non applicabili.

Si è poi parlato anche del discorso di Truman: ma, onorevoli colleghi, il discorso di Truman non è che un’opinione personale del medesimo. Si afferma solo un principio che i vincitori, specie se soddisfatti, non comprendono. E allora che cosa resta? Non restano che delle speranze e delle prospettive. C’è un solo punto che, a mio parere, è fondamentale a sostegno della tesi che l’onorevole De Gasperi ci presenta ed è il nesso logico tra la firma del Trattato e la ratifica del Trattato. Se infatti la firma del Trattato, da parte del Governo, è stata un atto sostanziale – ed è per questo che noi a suo tempo ci siamo dichiarati contrari – la ratifica non costituisce che un atto complementare e formale in quanto ci siamo già impegnati.

Ma la nostra ratifica non rende ancora perfetto il Trattato. Non lo rende perfetto, perché esso deve essere anche ratificato da tutte e quattro le grandi Potenze. Ora, ci si è domandato perché la Russia non abbia ancora ratificato; la Russia, come ebbe a dichiarare Molotov, ha considerato il nostro Trattato come il migliore che l’Italia potesse avere. Quindi questo significa che è anche passibile di peggioramento.

Quali problemi si sono aperti oggi per la Russia, e che impongono ad una diplomazia esperta, come quella russa, di avere delle carte in mano? C’è ancora il problema austriaco, il problema tedesco, il problema di Trieste che si regge soltanto sull’accordo Tito-Morgan, che lascia quella zona aperta all’infiltrazione slava e chiusa all’italianità.

L’onorevole Nenni ha domandato – se per caso gli Stati Uniti non avessero firmato – se l’onorevole De Gasperi ci avrebbe chiesto la ratifica del Trattato. Io sono contro la ratifica, in ogni caso, ma vorrei chiarire questo punto. Se si tratta dell’interesse italiano, se si tratta, cioè, di fare qualche cosa che sia utile al Paese, se, cioè, proprio la mancata ratifica russa – e quindi un rinvio o una nostra mancata ratifica – possa significare un danno per il nostro Paese, allora, la tesi dell’onorevole De Gasperi è esattissima, cioè la ratifica è necessaria.

E ciò, in relazione alla situazione che si è verificata col piano Marshall. Il piano Marshall è stato definito dall’onorevole Sforza una improvvisazione anglosassone. Effettivamente, dal modo come si sono svolte le cose, si è trattato di una improvvisazione tecnica – per lo meno – ma non credo politica.

Che cosa è questo piano Marshall o che cosa dovrebbe essere?

A mio parere, esso ha due aspetti, uno squisitamente economico, e risponde ad una frase che è stata abbastanza usata: aiutati che il ciel ti aiuta. L’America ci ha detto: «Io posso venirvi incontro e darvi quello che vi serve, ma mettetevi d’accordo». Ma questo l’America l’ha detto a tutta l’Europa, compresa la Russia. Se un disaccordo c’è stato a Parigi per questo piano Marshall, per cui questo si è limitato ad una parte dei paesi europei, questo è stato un disaccordo su un problema politico.

Ma, allora, noi abbiamo un compito che possiamo bene eseguire, proprio fra questi due blocchi che si sono formati fra l’occidente e l’oriente; ma sia chiaro che il blocco occidentale si è formato perché preesisteva un blocco orientale slavo, che si era formato già da tempo e che non è di oggi.

Non dimentichiamo che questa situazione è molto analoga a quella del 1912, quando il panslavismo intendeva formare il blocco di tutti i popoli slavi.

Di fronte a questa situazione, noi abbiamo un problema, ed è quello di far sì che questo piano si mantenga sul terreno economico, che è quello al quale possiamo contribuire col nostro lavoro ed è quello dal quale possiamo avere quegli aiuti che ci sono indispensabili, perché, quello che ha impressionato favorevolmente a Parigi, è stata la Fiera di Milano e la Mostra ferroviaria di Roma, che sono stati gli indici della capacità di ripresa del nostro popolo, capacità che molti ci invidiano.

Dobbiamo inserirci in questo piano ed essere presenti in questo programma economico, insistere perché esso sia aperto a tutti, perché se tutti potranno entrare in questo programma economico generale, anche i problemi politici saranno superati e forse allora soltanto il nostro contributo sarà decisivo e potremo conciliare un’antitesi fra i due blocchi, che noi soprattutto dobbiamo temere. Perché noi la revisione l’avremo, perché i vincitori dovranno rendersi conto, di fronte alla storia, che hanno assunto una terribile responsabilità, quella di privare un popolo di territori che sono entro i confini che Dio ha dato a questo popolo, e che sono stati conquistati col sangue di 700.000 figli!

Oggi, mi pare che il problema si ponga in termini molto chiari. Se, prima che questa discussione si fosse iniziata, si poteva ancora parlare di rinviare la questione della ratifica, non mi pare che questo problema possa sussistere oggi. Abbiamo discusso per una settimana sulla politica estera; abbiamo anche discusso sulla ratifica o meno o sul rinvio della ratifica; oggi il problema di un rinvio, a mio parere, non si pone più: oggi ognuno deve assumere di fronte alla propria coscienza, per coerenza politica, la propria responsabilità, per un «sì» o un «no», si ratifica o non si ratifica. Non è più il caso di rinviare; non faremmo una figura seria di fronte all’estero – e questo dibattito ha valore di fronte al mondo più ancora che di fronte al nostro Paese – se noi ancora rinviassimo questa discussione o la decisione su di essa.

Appunto perché il Trattato è un Trattato imposto, che noi subiamo, non dobbiamo dubitare della buona fede di chi si assume la responsabilità della ratifica o di chi si assume la responsabilità di dire «no» alla ratifica. È per tutti, credo, il più doloroso sacrificio che si possa fare; sacrificio dal quale, però, dobbiamo augurarci che sorga una nuova era di pace all’interno e nel mondo intiero.

Questa responsabilità di un «sì» o di un «no» spetta all’Assemblea per diritto suo: è nella sua legge istitutiva. Non è un problema politico, non è un problema di Governo; è un diritto dell’Assemblea; è una responsabilità nostra, di fronte alla quale noi ci troviamo individualmente, un problema di coerenza, un problema morale.

Di fronte a questo problema morale, io dichiaro che non posso ratificare, che sono contro la ratifica, perché ritengo che la revisione potrebbe venire soltanto non ratificando, perché ci sono due articoli che offendono la dignità degli italiani, la dignità dei nostri morti: l’articolo 15 e l’articolo 16 che riguardano coloro che hanno tradito mentre i nostri soldati combattevano e morivano.

Tuttavia io credo che, di fronte all’interesse generale del Paese, di fronte alla dignità nostra, noi possiamo, noi dobbiamo, al di sopra delle fazioni che ci dividono, trovare un denominatore comune; e su questo denominatore comune che è l’oggetto dell’ordine del giorno da me presentato, elevare la nostra protesta contro tanta iniquità che è stata perpetrata ai danni del popolo italiano: una protesta nel nome dei nostri morti, dei nostri figli, di questa Italia, la cui vita esuberante e la cui forza di ripresa sapranno dimostrare al mondo intero di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Saragat ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, subendo lo stato di necessità e in considerazione dei superiori interessi solidali della Patria e della pace, approva il testo dell’articolo unico presentato dal Governo.

L’onorevole Saragat ha facoltà di svolgerlo.

SARAGAT. Signor Presidente, non mi è possibile riassumere in venti minuti gli argomenti a sostegno dell’ordine del giorno che ho presentato. Sono quindi costretto a rinunciare a parlare, riservandomi di chiedere la parola in sede di dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente, non essendo ancora il Trattato diventato esecutivo per il difetto delle condizioni richieste dall’articolo 90, delibera di rinviare l’approvazione del disegno di legge».

L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha facoltà di svolgerlo.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. La dichiarazione fatta dall’onorevole Saragat mi crea un caso di coscienza, perché l’onorevole Saragat ha detto che, non potendo osservare il limite dei venti minuti, preferisce rinunciare ora alla parola e parlar dopo per dichiarazione di voto: il che fa supporre che la dichiarazione di voto non abbia limiti di tempo. (Commenti).

Ora, io mi trovo in condizioni perfettamente simmetriche: quindi, o rinuncio alla parola, riservandomi di parlare in sede di dichiarazione di voto…

Voci. No! No!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …oppure parlo ora, ma non in venti minuti.

Voci. Parli! parli!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io mi permetto di fare alcune osservazioni. Problemi di questo genere si risolvono in via di consenso; ma evidentemente non in via di un accordo di carattere personale, a meno che non restiamo d’intesa che il Regolamento non vale per nessuno. È evidente che io non desidero – e l’ho dimostrato – restare nell’orbita del tempo rigidamente stabilito, ma suppongo che, se la chiusura è stata chiesta e votata, ognuno che l’ha chiesta e specialmente ognuno che l’ha votata sapeva ciò che essa avrebbe significato.

Di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat, l’onorevole Orlando a sua volta ha tratto delle conseguenze. Se l’onorevole Orlando parlasse – come egli ha diritto di parlare – ma molto al di fuori di quell’ambito di comprensione che ognuno di noi ha sempre dimostrato, specialmente nei confronti dei nostri colleghi che chiamerò maggiori, è evidente che si porrebbe a me personalmente il problema di coscienza di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat.

E vorrei precisare a questo proposito che è evidente che non si può fare, in sede di dichiarazione di voto, ciò che non si può fare in sede di svolgimento di un ordine del giorno. La dichiarazione di voto è ancor più stringata e riassuntiva che non lo svolgimento di ordini del giorno. È evidente che la dichiarazione di voto è uno svolgimento che ha altro tipo di struttura che non lo svolgimento dell’ordine del giorno, ma proprio quel suo tipo di svolgimento dev’essere contenuto in un limite minore che non lo svolgimento dell’ordine del giorno.

Ciò ho voluto dire perché – l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele me lo insegna – la legge che il Parlamento si dà per il suo funzionamento ha una sua ragion d’essere e, come ogni legge più ampia, ha un valore impegnativo.

Detto questo, do facoltà di parlare all’onorevole Orlando Vittorio Emanuele per svolgere il suo ordine del giorno.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Da parte mia, prendo impegno di contenermi entro quel tempo in cui si usa o si tollera che si vada al di là dei limiti fissati. (Si ride – Applausi).

E allora, secondo il titolo di un famoso monologo, condensiamo.

Argomenti di esordio ne avrei parecchi.

Per esempio, vorrei spiegare come, a proposito del Trattato di Versaglia, avesse ragione Nitti quando diceva che poteva firmarlo e non volle, e avevo ragione io quando, alla mia volta, dicevo che potevo firmarlo e non volli. Ed ecco. Io, come Presidente del Consiglio, provochi la crisi il 19 giugno del 1919 e mi succedette il Ministero Nitti, costituitosi il 23 giugno o il 29 giugno, a Parigi si firmava il Trattato di pace colla Germania. Io avrei dovuto firmarlo come Presidente della Delegazione, poiché rappresentavo l’Italia alla Conferenza, non per la mia qualità di Presidente del Consiglio, ma per le credenziali che mi affidavano la Presidenza della Delegazione. Nitti, nuovo Presidente del Consiglio, poteva, e normalmente avrebbe dovuto, esonerarmi senz’altro da questo mandato specifico per assumerlo egli stesso col suo Ministro degli esteri. Preferì correttamente di lasciare a noi il compito della firma conclusiva, dato che noi avevamo operato e, direi, sofferto, durante tutto il periodo della preparazione; la sostituzione come delegati avvenne subito dopo la firma. In questo senso, dunque, è giusto dire che egli preferì di non firmare. In conseguenza di ciò, io, alla mia volta, avrei dovuto firmare come Presidente della Delegazione, qualità che avevo serbata sia pure per quei pochi giorni. Or io ero a Roma, dove ero venuto per la crisi; ma l’apporre la firma a un documento storico di così enorme importanza avrebbe indotto a sacrifici di gran lunga maggiori del viaggio che sarebbe occorso per recarmi a Parigi. Invece, io preferii non muovermi da Roma e in questo senso può dirsi che non volli firmare quel Trattato. Il che indica pure che non l’ammiravo affatto; ma se, a questo punto, spontanea viene la suggestione del confronto di esso con l’attuale documento, di quanto si avvantaggia il primo! Non sarebbe però questo un momento adeguato per tali discussioni. Meglio è parlarne in altra sede.

Avrei pure voluto, in questa occasione, parlare a proposito di quella famosa frase «la guerra continua» del manifesto badogliano, la cui origine mi è stata attribuita, dapprima in maniera obiettiva, poi con commenti estensivi di una disapprovazione, necessariamente vaga, perché dietro quelle tre parole non c’era altro. Or io riconosco alla stampa, in tutte le sue forme, come giornale, come diario, come storia, come politica, riconosco il diritto di ricostruire fatti e di esprimere giudizi come meglio o peggio creda. Non riconosco però il diritto di chiamare davanti a sé l’uomo politico come un incolpato che debba giustificarsi. Di fronte a tutto quanto si è potuto dire a proposito di tutta la grande storia cui ho partecipato, io rispondo, se lo credo, quando lo credo, e, soprattutto, in quella sede che mi appare legittima. Nel caso attuale, il momento storico cui si riferiva quel mio intervento era estremamente delicato; complessi e formidabili erano gli argomenti che vi si collegavano. Posso oggi, ma solo oggi, discorrerne qui, al cospetto di un’Assemblea che rappresenta il Paese e in una discussione attinente al tema. Non altrove, né altrimenti.

Con quella brevità imposta dall’ora, dirò dunque che, in sostanza, io che non ebbi più rapporti politici col Re dopo quello che fu il vero colpo di Stato del 3 gennaio 1925; avevo mandato l’ultima avvertenza, nel dicembre del 1924. E diceva quel mio messaggio: finora può il Re riprendere la situazione in mano, e dominarla; d’ora in poi non lo potrà più; prima d’ora sentivo che del mio consiglio si sarebbe fatto a meno, ma senza danno irreparabile; dopo di ora, il consiglio non sarebbe più utile poiché l’autorità della Corona verrà a cessare costituzionalmente, col cessare dell’autorità del Parlamento. Tutti sanno quel che seguì. Non ebbi altri rapporti politici col Capo dello Stato. Con le mie dimissioni nel 1925, dopo la magnifica battaglia antifascista di Palermo, dichiarai di ritirarmi da ogni forma di attività politica, poiché, dissi, la forma di regime non consentiva ad un uomo della mia fede di restare nella vita pubblica, neanche all’opposizione.

Questa lunghissima interruzione dei miei rapporti con la Corona ebbe una parentesi quando si preparava il 25 luglio 1943. Allora fui richiesto di consiglio. In generale, chi dà un consiglio per accondiscendere ad una richiesta, dovrebbe aspirare a questa garanzia minima: che non si cerchi, dopo gli eventi, di riversare sul consigliere una quota di responsabilità di un’azione cui questi non ha partecipato; il che vale tanto più, quando il dare un consiglio costituisce un dovere verso il rappresentante della sovranità dello Stato. Ci fu chi non osservò questo dovere. Comunque, i consigli che diedi non furono seguiti. Non furono seguiti, nel modo con cui l’intervento ebbe luogo. Poiché il trionfo del fascismo si era affermato con un colpo di Stato contro il Parlamento, contro la libertà e contro gli organi costituzionali, io pensavo che vi dovesse corrispondere un colpo di Stato inverso, diretto alla reintegrazione dello stato giuridico violato, e quindi attraverso un intervento della Corona, che sotto la sua esclusiva iniziativa e responsabilità restituisse al Paese quelle garanzie parlamentari e quella libertà statutaria che gli erano state tolte.

Non mi fu detto, né io pensavo, che si sarebbe ricorso ad una forma pseudo-parlamentare di un voto di sfiducia, come sarebbe stata la votazione del 24 luglio in Gran Consiglio, famosa votazione, poi tragica. Gli eventi dimostrarono come l’uso di una tal forma fosse un grave errore, anche a parte ogni riflesso interno, soprattutto nei rapporti internazionali, poiché si determinò un dubbio sulla sincerità della rottura definitiva con il fascismo, essendo il mutamento avvenuto sulla base di un voto dato dai gerarchi e che poteva supporsi derivato da una loro persistente autorità.

Or per l’appunto, in quel momento, la questione più essenziale, questione di vita o di morte, e nel tempo stesso la più delicata e la più pericolosa, era di sciogliersi dall’alleanza nazista e di liberarsi da quella guerra sciagurata: il quale argomento, dunque, era compreso ed anzi dominava nelle conversazioni cui presi parte e per cui preparai, sempre richiesto, bozze di atti o proclami che sarebbero potuti occorrere. Or su quel punto il mio consiglio fu questo: prima fase, prima dichiarazione: la guerra continua e l’Italia non manca agli impegni contratti. Come poteva essere diversamente? Era una questione di onore, che si poneva al di sopra di tutti gli interessi politici e di tutti i pericoli paventati; era anche una questione di tecnica militare, a causa della impossibilità materiale di una immediata separazione fra due eserciti, che avevano combattuto e combattevano insieme. Pensate! In quel momento, combattevano fianco e fianco, proprio nella mia Sicilia, truppe tedesche e truppe italiane. Come potevano, immediatamente, rompersi l’unità del fronte e l’unità del comando?

Prima dichiarazione, dunque: la guerra continua. Ma questa prima fase doveva superarsi rapidissimamente, nelle prime 24 ore. Nelle seconde 24 ore, doveva iniziarsi una seconda fase con questa comunicazione all’Ambasciatore tedesco: «L’Italia non è in condizione di andare avanti; l’Italia deve chiedere l’armistizio. Lo chiederà per voi, non per sé, sacrificando, se occorre, se stessa per tener fede all’alleanza contratta». Come? Chiedendo agli alleati di concedere il tempo tecnicamente necessario, alle truppe tedesche, per ritirarsi: lealtà elementare, necessità militare. Ricordo che indicai un precedente da me vissuto, per dimostrare che gli alleati non potevano rifiutare il loro consenso, poiché l’avevano già dato un’altra volta in condizioni eguali: il precedente dell’armistizio chiesto dall’esercito bulgaro nel settembre del 1919, in cui la Bulgaria aveva curato di stipulare un termine di 15 giorni per dar modo alle due divisioni austriache e tedesche, impegnate nel fronte macedone, di ritirarsi. Termine che fu accordato, proprio da quelle medesime nazioni cui ora si doveva chiedere. Vi era poi un’altra questione, che doveva trattarsi nelle condizioni dell’armistizio: l’occupazione interalleata avvenuta. Noi tenevamo dei territori anche per conto della Germania e così reciprocamente. Questa comunicazione costituiva la seconda fase nelle seconde 24 ore.

Doveva poi seguire la terza fase, con la stessa rapidità. A queste dichiarazioni del Governo italiano doveva darsi pubblicità e diffusione larghissime. Con l’aiuto della radio tutto il mondo doveva conoscerle. Si determinava così per l’Italia una situazione di una lealtà perfetta e, in pratica, la più favorevole, relativamente alle formidabili difficoltà. La Germania, infatti, o poteva aderire, e noi ci saremmo trovati nella più onorevole maniera a trattare con gli alleati un armistizio in quelle chiare condizioni; o la Germania, come per verità io pensavo, si sarebbe orgogliosamente rifiutata, ed allora era la guerra immediata fra noi e la Germania, per una causa nobilissima di perfetta lealtà italiana. E questa guerra noi avremmo combattuta quando in Italia le divisioni tedesche erano cinque o sei, in luogo delle 27, che Hitler vi concentrò, poi, fra luglio e settembre! E ci saremmo trovati spontaneamente accanto agli Alleati; e non avremmo avuto la vergogna e la rovina dell’armistizio!

Questo era il contenuto della mia frase: «la guerra continua». Beninteso: io non intendo trarre da questi ricordi alcuna gloria o semplicemente alcun merito: so bene che altro è un consiglio astratto, altro un’azione concreta. E ne avrei taciuto certamente, come è mio costume, se non fossi stato costretto da una pubblicazione proveniente da una fonte che ignoro e che riferiva quelle parole in forma tronca, interpretata poi da altri in un senso diverso ed anzi difforme dal mio pensiero.

Ma lasciamo stare queste vecchie storie e veniamo al solenne tema odierno.

L’onorevole Togliatti, ieri, nel considerare la situazione italiana, diceva: «dove andiamo?». È un problema angoscioso. Poi egli rispose che andare bisogna con la visione di una politica estera da fare, con un sistema di politica estera da seguire. Vi corrisponde il discorso di oggi dell’onorevole Nenni. «Dove andiamo?». Onorevoli colleghi, è certamente un problema, questo, che può essere di vita o di morte per l’Italia nostra, ma è problema che io non mi pongo; mi giova in ciò la mia vecchiezza, poiché mi mancherà il tempo di godere del meglio o di soffrire del peggio.

Ma la questione del «dove andiamo»? è preceduta da quest’altra: «dove siamo?». E la questione «dove siamo?» è preceduta da quest’altra: «come ci siamo arrivati?». Problemi non scindibili; quando sapremo bene «dove siamo?» avremo necessariamente conosciuto «come ci siamo arrivati?».

Questo secondo problema è per se stesso storico, ma in un certo senso si collega con tutta la politica attuale; però, in questo secondo senso, quando alludo ai nessi della politica passata con quella attuale, vogliate credere, colleghi tutti, in qualunque settore sediate, e voi particolarmente che siete al banco del Governo e che non avete mai potuto concepire dubbi sulla mia lealtà politica e oso aggiungere anche sul mio perfetto disinteresse, vogliate credere che io non intendo menomamente ricercare le colpe o i torti di questo o quel Gabinetto, o Partito, o Ministro, né sollevare dai ricordi delle azioni od omissioni nella storia politica di questo triennio, il problema delle responsabilità. Io penso che sia un ben piccolo argomento, in confronto di così grande tragedia, l’attribuire questa o quella colpa all’onorevole Tizio o all’onorevole Caio. Ma l’esame di tali questioni, se si eleva dalle persone alle cose, ha un’importanza che non si può trascurare senza una leggerezza imperdonabile, e questa importanza si pone sotto due aspetti: 1°) per trarre dal passato il più realistico insegnamento per il futuro; 2°) per servire di guida nella giusta comprensione della situazione attuale. Come ci siamo arrivati?

Sono tre anni di vita vissuti, e quali anni! Per il 1870-71, la Francia trovò e mantiene l’espressione: l’année terrible; per noi sono, invece ben tre questi anni terribili. Cos’è avvenuto in questo periodo così denso di storia, come mai, incomparabilmente, alcun altro periodo? E più particolarmente, cos’è successo che ci riguarda, che ci tocca?

Ahimè! Per varie ragioni, vere e proprie discussioni di politica estera non sono mai in questa Assemblea avvenute. Tutti gli eventi che si sono seguiti, tutti i problemi che vi si collegano – e son tanti e così complessi e così formidabili! – possono dirsi affatto nuovi – non voglio dire ignoti – in questa Assemblea in cui dovrebbe manifestarsi la massima espressione del pensiero politico d’Italia. Ognuno intende come sia impossibile l’esaminare oggi quei problemi anche di sfuggita. E allora ho pensato di trattarne uno solo, semplicemente come un esempio, cioè come mezzo di dimostrazione di un assunto, come un caso che serve ad una dimostrazione. Non ho assolutamente nessun secondo fine, che mi abbia indotto a scegliere questo fra i vari momenti storici attraversati. Non so e non m’importa di sapere chi fosse il Presidente del Consiglio e chi il Ministro degli esteri: mi potrebbero solo interessare quei chiarimenti di fatto, che potesse darmi l’attuale Ministro, non come persona, che non c’entra, ma come capo dell’ufficio rappresentativo della diplomazia italiana. Purtroppo però vi è da ritenere che nulla gli risulti, come implicitamente apparirà dalla stessa esposizione del precedente.

Or, dunque, il 27 luglio 1944 il New York Times (voi sapete l’autorità di questo giornale, il quale non pubblicherebbe notizie di questa importanza senza un sicuro controllo) riprodusse una notizia che proveniva dall’Associateti Press, fonte per se stessa autorevole, che diceva:

«Washington, 26 luglio. Si è appresa oggi una proposta britannica nel senso che gli Alleati stipulino una pace provvisoria con l’Italia, la quale ha ora la condizione combinata di nemica sconfitta e di cobelligerante. Questa proposta è nelle mani delle autorità militari. Il piano prevede la discussione con la Russia e con gli altri Paesi interessati alla sistemazione italiana. Ciò servirebbe a regolare le relazioni dell’Italia con le Nazioni Unite e a chiarire la posizione dei prigionieri di guerra italiani, che furono tanto tempo e così ingiustamente trattenuti.

«Il Governo d’Italia ha chiesto che l’armistizio degli Alleati con l’Italia sia pubblicato, presumibilmente in vista del fatto che la reazione pubblica ai suoi termini forzerebbe una revisione».

Su questa notizia sopravvenne un articolo pubblicato nei giornali del tempo (credo nel Giornale d’Italia) da Don Luigi Sturzo, che si trovava allora in America, nel quale egli diceva: «Mi ricordai allora che alla fine di giugno o al principio di luglio era stato riferito da Londra che il Gabinetto britannico aveva discusso la richiesta del Governo italiano del riconoscimento dell’Italia come alleata, e questo formava il substrato di quella proposta».

Volli profittare della presenza qui dell’insigne uomo ed ho avuto con lui un lungo colloquio proprio in questi giorni. Egli mi ha dato tutti i particolari dei passi da lui allora fatti, recandosi espressamente a Washington, ricorrendo a fonti della cui autorità nessuno vorrà dubitare. La conclusione cui si perviene è sicura: vi fu quella proposta britannica e fu accolta dal dipartimento di Stato americano. E badate alla coincidenza cronologica con altri eventi, onde si può risalire alle cause determinanti. La notizia è data dall’Associated Press il 27 luglio; il 5 giugno 1944 avviene lo sbarco a Cherbourg; il 15 agosto lo sbarco in Provenza; nella stessa estate coincide il risoluto inizio della marcia in avanti degli eserciti sovietici per la cacciata dei Tedeschi dal territorio nazionale.

Quale il rapporto causale fra questi eventi coincidenti nel tempo? Evidente. Quegli sbarchi in Francia erano stati richiesti dalla Russia, che faceva valere verso gli Alleati gli impegni da essi assunti dell’apertura di un secondo fronte in Europa. Il nuovo ingente sforzo militare richiesto dagli Alleati doveva determinare quel rallentamento delle operazioni militari in Italia, il quale culminò nel famoso arresto dell’autunno del 1944, sulla linea gotica. Il fronte italiano era in certo senso abbandonato a se stesso: tragica situazione, cui corrisposero le dichiarazioni di Alexander, tremende, quando disse che la campagna d’Italia aveva ormai il solo scopo di attirare e mantenere in Italia truppe tedesche. Tremende parole, per le quali facilmente poteva prevedersi la sensazione di dolore e di pena, che doveva destare in Italia l’attribuire al nostro fronte la missione di trattenere qui quanti più tedeschi fosse possibile, con un prolungamento, presentato come indefinito, di quella crudele separazione delle due Italie, che virtualmente era guerra civile. Sempre con quel suo proclama, Alexander dichiarò che i partigiani dovevano considerarsi in stato di «smobilitazione». Come si smobilita il partigiano sulla montagna, che è il suo fronte di battaglia? Come può egli tornare a casa se non per consegnarsi al plotone di esecuzione? Tremendo proclama, che dava il senso immediato di un sacrificio immane, che si chiedeva all’Italia, a quell’Italia in cui pur si combatteva, in cui pur sostavano corpi d’armata alleati, che non potevano restare indifesi, tanto più quanto meno potevano essere protetti dall’invio di altre truppe.

Ecco, dunque, il nesso causale che lega quegli eventi: il bisogno, avvertito dagli Alleati, di dare un compenso all’Italia in un momento in cui essa doveva sopportare un così immane sacrificio per una causa che, per ciò solo, diventava più che mai comune. Questo compenso, che spontaneamente prendeva le mosse dalla concessione dell’inestimabile beneficio dell’alleanza, si concretò alla fine nel comunicato di Hyde Park del 26 settembre 1944, dopo un incontro Roosevelt-Churchill, che faceva all’Italia le seguenti concessioni:

1°) la Commissione alleata di controllo si sarebbe chiamata semplicemente «Commissione alleata». Si levava la parola «controllo». Questo fu il primo beneficio. Cospicuo, come ognun vede;

2°) uno scambio di rappresentanti diretti sarebbe avvenuto tra Roma, Londra e Washington; Mosca non aveva aspettato e aveva consentito reciprocità di rappresentanza diplomatica, gratuitamente, sin dal 14 marzo. In ottobre avvenne, con Inghilterra e Stati Uniti, lo scambio degli ambasciatori, che non presentarono però credenziali, come del resto non le hanno presentate sinora;

3°) aiuti sanitari e rifornimenti essenziali all’Italia, mediante l’U.N.R.R.A.;

4°) modifica della legge per il commercio col nemico, in guisa da permettere all’Italia la ripresa dei rapporti commerciali con gli Alleati.

Si aggiungeva che tutti questi provvedimenti avevano lo scopo essenziale di «gettare nella lotta – parole testuali – tutte le risorse dell’Italia e del popolo italiano per la sconfitta della Germania e del Giappone». Quale abisso fra la prima forma (l’alleanza conteneva tutto) e quella finale! Dalla montagna quale piccolo topo era nato! Come avvenne un mutamento così disastrosamente radicale? Temo che di questa storia si siano perdute le tracce e che lo stesso Ministro degli esteri ed il Presidente del Consiglio non ne siano informati. Ma, a parte l’enigma che tormenterà gli storici futuri, vi è una materia viva che qui interessa, come lezione da trarre dalle cose; e a tal fine può bastare un semplice processo induttivo. È certo che la situazione dianzi descritta determinava negli alleati la spontanea suggestione di dare all’Italia un compenso, e quello cui pensarono pure spontaneamente era di un valore inestimabile. Dunque, essi, in quel momento avevano bisogno dell’Italia. Questo proposito in seguito svanisce; dunque, un’altra forza si oppose e prevalse. Ma come si può non pensare che, se da parte dell’Italia fosse stata opposta una resistenza più risoluta, più energica, più decisa a tutto (per esempio, le dimissioni in massa dei Governo, con conseguente impossibilità di sostituirlo), la forza che si oppose a quella prima proposta sarebbe potuta essere superata? Ecco l’utilità dell’insegnamento che deve trarsi dalle stesse delusioni sofferte: la nostra politica è stata sempre quella di accondiscendere; è stata politica di assoluta remissività. Il motto, per cui il rispetto verso un’autorità si circonda di misticismo: Parum de principe, nihil de deo, si rovesciò: parum de deo, nihil de principe… alleato! Se in quel momento si fosse osato e si fosse detto: non possiamo restare in questa condizione di abbandono militare senza che la solidarietà del popolo non ne resti turbata e scossa; occorre una concessione che sia di conforto e di incitamento insomma, se si fosse mostrata allora la decisione energica di chi non vuol soffrire un torto, proprio in un momento in cui gli stessi alleati lo ammettevano spontaneamente, si deve riconoscere che le cose sarebbero potute andare altrimenti. Invece, si è ceduto e questa è stata la politica dell’Italia per tre anni. (Commenti al centro).

Venne assunta e mantenuta un’aria di umiltà sino a vedere i Ministri d’Italia deferire a funzionari relativamente modesti. Del resto, e da un punto di vista più generale, governare sotto il controllo dello straniero, mai! (Commenti e interruzioni al centro). Eh! sì, lo so che c’era l’armistizio, ma non è pensabile una clausola che obbligasse i Ministri italiani ad essere organi sovrani ed uffici subordinati nel tempo stesso! (Rumori al centro). Resistere si poteva e si doveva, anche sotto l’aspetto dell’utilità. Io non escludo, che la politica in una grande storia imponga, nell’interesse dello Stato, atti di remissione, e persino di umiliazione. Per ciò ho detto che non intendo qui far questione di responsabilità contro alcuno. Ci sono momenti in cui l’uomo di Stato si deve umiliare e se obbedisce a questo imperativo, è quello un momento di grandezza per lui. Il verso il mio paese non ho nessun titolo che sia di credito da parte mia… (Interruzioni al centro). Ripeto: non ho verso il mio Paese nessun credito, perché la Patria ha tutti i diritti sopra i suoi figli sino al sacrificio della vita. Eppure, poiché l’onore vale più della vita, per una sola cosa, dico la verità, mi sento creditore verso il mio Paese: l’umiliazione, che consapevolmente dovetti soffrire quando tornai a Parigi dopo la partenza determinata dal famoso proclama di Wilson…

Voci al centro. Eravamo vincitori allora!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Eravamo vincitori; ma quando si tratta di accettare un’umiliazione, vuol dire che le condizioni, in quell’atto stesso, sono simili a quelle dei vinti, non dubitate! (Vivi commenti al centro). Se con queste interruzioni dimostrate di non aver il senso di quella fierezza e di quella dignità, che, soprattutto in certi momenti, un uomo di Stato, rappresentante di un grande Paese, deve imporsi, il resto del mio discorso non è per voi. (Applausi prolungati a sinistra e a destra). Or questa politica di continua remissione… (Interruzione del deputato Aldisio).

GIANNINI. Ma non si può più parlare in questa Assemblea! (Commenti e rumori a sinistra).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io ho il diritto e il dovere di denunziarla. (Interruzioni del deputato Villani). Ho detto e ripeto che non cerco di accusare alcuno né di fare questioni di responsabilità. Aggiungo che considero come un’offesa fatta a me stesso credere che io, per la vita spesa al servizio dello Stato, pretenda di crearmi una situazione di privilegio fra voi. No, interrompete pure quanto volete, ma, almeno, interrompete con intelligenza! (Applausi a sinistra e a destra).

PRESIDENTE. Penso che la cosa migliore sia che nessuno più interrompa né con intelligenza né senza. Prosegua, onorevole Orlando.

VERNOCCHI. Non lo dica a noi.

PRESIDENTE. Lo dico a tutti.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta, come si mantiene tutt’ora nella forma e nel tempo e nel modo con cui si chiede questa ratifica. Badate, ogni spirito o intento di partito è da me ben lontano. Sono politicamente un solo; ma nel tempo stesso nessuno più di me anela all’unione di tutti gli italiani. Nella mia opera, nei miei discorsi, purtroppo inascoltati, ho sempre detto: verso lo straniero, unione; la divisione in partiti è privilegio di un popolo libero. Il mio attuale dissenso con molti di voi non infrange questa unità, poiché dopo la discussione, dopo il contrasto, e la critica, indispensabili ad un giusto giudizio, l’unità si ricompone nell’unità della coscienza collettiva, come avviene nell’unità della coscienza individuale, dopo l’urto di motivi contrastanti nell’individuo stesso. In un certo senso, si può dire che, in ognuno di noi, nel suo foro interno, esista ed agisca un’assemblea parlamentare simile a questa nostra. Di fronte ad una decisione individuale da prendere, noi abbiamo interiormente partiti in contrasto, si agitano discussioni, vi sono perplessità, incertezze; infine, le decisioni di un uomo si prendono per la prevalenza dei motivi, come qui con un voto di maggioranza. Io vi prego di ritenere che in questo momento io sono una parte di voi, così come voi, che mi interrompete, siete una parte di me; qui discutiamo insieme perché dai nostri contrasti sorga una decisione la quale ritrovi la sua unità nella comunione dell’intento: che questa decisione sia la migliore possibile per la salvezza del nostro Paese, per la resurrezione, per la grandezza di esso. Dicevo che vi è questo senso di pavidità quando si parla… de principe, cioè degli alleati. Io non so se Nitti se ne sia andato. (Voci: È qua). Ebbene, quando egli parlava, l’altro giorno, io avvertii un particolare stato d’animo in una parte dell’Assemblea che l’ascoltava; lo avvertii con quella specie di sesto senso, che l’oratore acquista nei rapporti col pubblico: e fra gli oratori mi classifico per quel lungo corso della mia vita che mi ha fatto parlare tante volte a pubblici così diversi e da così varie tribune. Ed io, dunque, avvertii che quando egli fece delle allusioni alla sconfitta francese, vi fu un bisbiglio sommesso, come in un’assemblea di religiosi una frase che desse scandalo. Sì, una sconfitta ci sarà stata, ma il dirlo è un’indiscrezione; si tratta di vincitori e bisogna usare forme riguardose. Badate, i francesi che sono gente di spirito sono essi stessi i primi a riconoscere la gravità di quella loro disfatta e a dedicare tutta una ricca bibliografia sulle cause di essa. Riprendendo il tema di Nitti, dirò anche io che, insomma, i nostri soldati si sono battuti in una guerra ingiusta, infame quanto volete, ma per l’onore della bandiera si sono battuti e sono caduti da valorosi, cui va tutta l’ammirazione e tutto il rispetto, anche dell’avversario. (Applausi a destra).

E il nostro collaborazionismo, effetto puro della coazione nazista, fu molto più limitato per tempo e per spazio; e in quanto ai personaggi più rappresentativi, al nostro Farinacci si contrappone un cardinale Baudrillart, membro dell’Accademia, grande storico o grande patriota, e a Starace si contrappone Charles Maurras, anch’egli della Accademia, uno dei più grandi scrittori francesi contemporanei. Lasciamo stare; la Francia è vittoriosa e noi abbiamo tradito la causa della libertà e dobbiamo essere rieducati alla scuola della democrazia. Cosa volete? La storia ha di questi paradossi. Ma egli è che una vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese. Nessuno, e tanto meno io, contesterà la opportunità dell’adesione nostra all’invito di concorrere al piano Marshall; ma il «sì» pronunciato dall’onorevole Ministro Sforza a Parigi fu, con il colore e il calore della sua parola, aleggiato dallo stesso conte Sforza come pronto, fervido, immediato. È sempre così: nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e di essere ripresi in grazia. Ebbene, in quell’occasione dell’invito a Parigi, l’onorevole Sforza, in sede di Commissione dei Trattati, pronunciò una frase particolarmente felice e giusta, a proposito della quale si verificò uno di quelli che io chiamo plagi involontari, e cioè quando due persone, indipendentemente l’una dall’altra, e reciprocamente ignorandosi, coincidano in un medesimo pensiero e lo esprimano con una medesima frase. Io, infatti, onorevole Sforza, avevo per l’appunto pensato ciò che lei disse e nella forma stessa. Ella disse: ma insomma, a Parigi, valsero assai più che qualunque mia parola, a darmi autorità come Ministro d’Italia, l’Esposizione ferroviaria di Roma e la Fiera Campionaria di Milano. Perfettamente! Ma che cosa significa ciò? Significa che l’Italia vale per quel che è, non per le finezze, le astuzie, l’abilità di una diplomazia flessibile. Or l’Italia è grande, perché è l’Italia: quia nominor leo. Ma bisogna averne il sentimento.

Così, io mi avvicino al problema che per l’abito della remissività pesa su molti qua dentro come un incubo: cosa succederebbe se non si ratificasse? Or la migliore risposta a questa domanda consiste nel ritorcerla: cosa credete che possa succedere di peggio della ratifica stessa?

Riconosco spontaneamente che a questa maniera di considerare la politica estera corrisponde un sentimento che sembra di scarso interesse nel Paese: corrispondenza che giustifica in parte l’Assemblea in quanto organo rappresentativo di questo stesso Paese. In questo momento, si riscontra nel popolo nostro come uno squilibrio, fra il senso che l’italiano ha di sé stesso come individuo in rapporto ad altri individui e il senso che egli ha dello stato della sua Patria come unità collettiva, di cui sente di esser parte. Normalmente tra quei due sensi si stabilisce un equilibrio, come liquidi che si livellano in vasi comunicanti. L’individuo comprende, nel suo complesso psicologico, il senso di grandezza o di miseria dello Stato cui appartiene. Il romano antico, anche se era un proletario, avvertiva con fierezza la potenza della sua Patria: civis romanus sum. L’Italiano del 1943 aveva la tragica visione della disfatta e come rovina individuale e come disfacimento dello Stato. Ma in questi anni successivi questa correlazione è venuta man mano scomparendo. Per le sue qualità, onde nei secoli è stato educato a lottare contro le avversità, l’italiano è venuto migliorando il complesso delle sue condizioni di vita, mentre quelle del Paese, come unità di Stato, son rimaste le stesse: cioè senza effettiva indipendenza e con autorità quasi nulla; e sono precisamente le condizioni che questa cosiddetta ratifica riassume, riconosce e consacra. È umano il desiderio di non esser turbati da ammonimenti penosi e così l’italiano preferisce ignorare in quali condizioni questo orrendo Trattato ponga l’Italia. Da parte sua, il Governo fa il possibile per nasconderle. Da ciò la relativa indifferenza che il popolo dimostra verso questo epilogo della sua tragedia, onde i giornali, che sono i termometri dell’interesse del pubblico verso i vari argomenti, riservano il maggiore spazio della loro prima pagina (e non ne hanno che due) a qualche delitto o processo celebre, al campionato di calcio o al giro ciclistico di Francia. Ma in verità vi dico, o colleghi: diffidate di questa apparente indifferenza, diffidate. Il cervello di questo nostro organismo collettivo è ancora «schoccato», per usare un neologismo brutto, ma espressivo, degli psichiatri; è ancora sotto il colpo tremendo della catastrofe sofferta. Ma guai se si risveglia. Le collere del popolo, quando ha attraversato vicende così atroci, possono essere terribili, specie perché il fondo dell’anima italiana è profondamente patriottico e l’esasperazione di questo sentimento può dar vita a quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo. Ne soffrimmo per ventidue anni e i mali attuali ne sono la conseguenza.

Badate, ripeto. Il popolo attualmente non ha l’idea giusta delle condizioni cui è ridotta l’Italia da questo Trattato, che stiamo discutendo, per ratificarlo senza necessità! E bisogna illuminarlo e soprattutto non fargli credere (e non credere voi stessi) che il resistere all’ingiustizia ci esponga a chissà quali oscuri pericoli, poiché oltre i danni estremi che ci sono stati inflitti, non si potrebbe andare, senza destare l’opposizione invincibile delle stesse gelosie e rivalità internazionali. Anche di ciò posso portare un esempio di un’efficacia incomparabile, di cui dirò le fonti a tutti accessibili, senza che occorra che io le convalidi con altre da me raccolte in Sicilia, che non derivano dalla pubblica sicurezza e che anzi con essa non han nulla di comune, ma che come valore di informazioni non lasciano nulla a desiderare.

Or, nell’Umanità dell’11 luglio 1947, recentissimo dunque, c’era un articolo non firmato – in generale gli articoli vi sono firmati – non firmato, ma scritto da persona di primo piano, che sapeva bene quello che diceva.

Ebbene, questo articolo conteneva un singolare ricordo storico – ripeto che l’autore aveva tutta l’aria di essere bene informato, specialmente di cose inglesi – diceva ad un certo punto: «L’abbandono di parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria…». Notate il significato profondo di questo ravvicinamento della Sicilia con Pantelleria. Piccola isola questa, cara al mio cuore ed a quello di Maffi, che vi fu relegato – ma ne parla con memore ammirazione ed affetto – cara bella isola, ma pur piccola isola in confronto della massima isola mediterranea. Che, dunque, si parli di un controllo sopra Pantelleria, abbinandolo con uno sulla Sicilia, ha un significato eufemistico che fa fremere.

Bene, l’articolo diceva: «L’abbandono da parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria fu dovuto sostanzialmente ad un’azione informativa condotta sull’opinione pubblica, quando a Londra non esisteva ancora ombra di diplomazia italiana».

Dunque, stando a questo autorevole scrittore, ci sarebbe stata quell’intenzione, sì; però una indagine condotta sull’opinione pubblica, persuase che era meglio abbandonarla. Quale opinione pubblica? Quella dell’Italia no, perché l’Italia era divisa in quattro o cinque compartimenti fra loro non comunicanti. L’eufemismo è trasparente, lo si vede come attraverso un vetro, anche per quanto riguarda questa curiosa «azione informativa» condotta su di un’opinione pubblica non altrimenti identificata, che poteva anche essere quella… americana, francese, russa; e allora l’eufemismo significa che questo «controllo» che si sarebbe esteso su tutto il Mediterraneo, non piaceva alle altre… opinioni pubbliche! Fu grazie a questa azione informativa che l’Italia sfuggì ad una minaccia: che sarebbe stata la più grave fra quante hanno pesato su di noi. Ecco, dunque, dove sta una garanzia, forse più forte di tutte e che sostituisce le carte che mancano. Ecco la risposta alla domanda: che cosa succede se rifiutiamo la ratifica? Succede che resta l’Italia, alla quale ben può dirsi che sia capitato il peggio sotto forma di questo Trattato, che è feroce, ma che segna pur tuttavia un limite al di là del quale ogni ulteriore pretesa straniera viene contenuta dallo stesso gioco delle aspirazioni, delle gelosie, delle rivalità internazionali.

Ma, riprendendo nei suoi sviluppi l’accennato episodio così significativo, esso ha pure delle coincidenze con un articolo, di cui non ho conservato la data, ma è qui presente l’autore. È un mirabile articolo nella Voce Repubblicana di Randolfo Pacciardi, il quale articolo cominciava così: «Un membro della Commissione Alleata di controllo – si chiamava ancora di controllo, non c’era venuta come concessione graziosa la soppressione di queste parole, il che riporta l’articolo ad una data anteriore al settembre del 1944 – ha affermato pubblicamente che la Sicilia non è matura per un regime democratico». Io vorrei conoscerlo questo membro, dico la verità (Ilarità), e avere con lui un contraddittorio davanti a dei neutrali, perché io lo devo convincere che o è un ignorante o è uno sciocco! (Applausi generali).

PACCIARDI. Non ricordo bene.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ma guardi che c’è. L’articolo continua: «Molti hanno rilevato l’errore di questa affermazione. Ma che cosa significa essa dal punto di vista internazionale? – diceva giustamente Pacciardi – La Sicilia è parte integrante dello Stato italiano, e quando lo straniero stacca una regione italiana dal complesso nazionale e ci dice che quella regione non è matura per un regime democratico, abbiamo diritto di domandarci che cosa significa. Il Texas non ha lo stesso sviluppo politico dello Stato di Nuova York, ma gli Americani troverebbero assai curioso che noi dicessimo che il Texas non è maturo per la democrazia». E continua (è molto bello tutto l’articolo, ma io debbo qui limitarmi a citarne solo quest’altra parte): «I nostri confini meridionali non si discutono; bisognerebbe occupare militarmente non soltanto la Sicilia, ma tutta l’Italia per un secolo, per impedire che la generosa isola, da cui partì la falange garibaldina per l’unità nazionale, sia unita nella forma che gli Italiani stessi desidereranno di dare alla Nazione italiana».

Per un secolo avrebbero dovuto occupare l’Italia! Non poteva dirsi né più energicamente, né più nobilmente. Ma oggi, per evitare la firma spontanea di un Trattato disonorante, io non le chiedo che di aspettare soltanto un mese, onorevole Pacciardi! (Applausi a destra e a sinistra).

Occorrerebbe ora considerare – io la prego, signor Presidente, di scusarmi se mi dilungo…

ROMITA. Non glielo ricordi!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, verso l’autorità del Presidente io sono sempre disciplinato; se egli trova che io troppo ecceda, desisto.

Occorrerebbe dunque considerare come sia venuto formandosi questo singolare Trattato, del quale, pur sempre con esclusione rigorosa, quando non fu anche scortese, dell’Italia da ogni negoziato, le condizioni nei nostri riguardi ebbero questo carattere: di diventare sempre più dure. Soprattutto a Parigi, dove era avvenuta la effettiva definizione di tutte le clausole per la volontà assoluta dei quattro Grandi, ricordate in qual modo? Il pubblico italiano veniva a conoscere attraverso indiscrezioni di stampa, sapientemente manovrate, che si era discussa una data questione e, dopo varie alternative di timore e di speranza, veniva a sapere che fra le varie tesi era prevalsa la peggiore. Ma dopo qualche tempo apprendeva che la questione era stata ripresa e che la soluzione finale era… ancora peggiore. All’italiano, col solito sistema ottimistico, si era fatto vagamente sperare, dopo il disastro di Parigi, che a Nuova York qualcuna delle più dure clausole fosse potuta essere migliorata. Nessun miglioramento avvenne; ma le modificazioni non mancarono del tutto: alcune ne furono introdotte, ma tutte in senso peggiorativo per noi! Insomma tutto questo lungo procedimento è stato per l’Italia una via crucis; sempre di male in peggio.

Questa constatazione paradossale ha trovato non solo una conferma ma una espressione particolarmente incisiva proprio nella relazione della maggioranza della Commissione, affidata (Rivolgendosi al centro) ad uno dei vostri migliori, a quell’onorevole Gronchi, verso cui io provo una simpatia particolare, perché egli è un Toscano intellettualmente fine come i Toscani sanno essere, anche se la finezza è qualche volta sottigliezza. Or fra i Toscani egli è forse il più sottile di tutti; e la frase di cui si è servito questa volta, si risolve in un tale epigramma che vien fatto di domandarsi: «Ma l’ha fatto apposta?». (Ilarità). Non lo credo; sinceramente, non lo credo. Ma direi quasi che quanto più quel senso dell’espressione non fosse stato voluto ma gli fosse stato invece suggerito dal subcosciente, tanto maggior valore acquisterebbe, perché tanto più spontaneo. Nella relazione, dunque, della maggioranza della Commissione, l’onorevole Gronchi ha avuto cura di enumerare in forma sistematica le ragioni per cui convenga ratificare subito. E viene così un numero 2° in cui si dice: «Lontana è da noi ogni idea di speculare sui dissensi altrui od ogni speranza di trarne qualche profitto…».

Consentite, onorevoli colleghi, che a proposito di quest’ultima frase, io apra qui una parentesi. Il tempo stringe è posso accennare solo per incidenza ad un argomento di una tale autonomia logica e politica che si dovrebbe considerarlo adeguatamente in una sede propria: si tratta infatti, dello spirito generale che dovrebbe animare la nostra politica estera. Io qui mi pongo all’estremo, in una posizione intransigente, poiché dissento profondamente dai mezzi con cui è stata sinora condotta questa nostra politica, la quale culmina nell’atto che oggi ci si richiede: di accettare un Trattato disonorante senza almeno la scusa della necessità. Ma non dissento sugli scopi essenziali. Assicurare la pace: ma chi è quel pazzo delinquente che in Italia possa in questo momento non desiderare la pace? Io più di ogni altro, perché nessuno più di me ha presenti i tremendi lutti, che sarebbero riserbati al Paese proprio per questo Trattato costruito appositamente in vista di un’Italia destinata ad essere il campo di battaglia di una guerra futura. Ed è pure il mio augurio più fervido, se anche affidato ad una opera pur troppo modesta, che si raggiunga l’unione, l’accordo fra Oriente e Occidente, che si crei una salda unione internazionale per la pace; tutte queste cose sono anche per me sommamente desiderabili, ed hanno, se mai, questo solo difetto: che tendono a divenire degli slogan ripetuti in maniera automatica senza più penetrarne il profondo significato.

Ma chiudiamo la parentesi.

Continua la relazione della maggioranza: «Se un simile modo di concepire il ruolo dell’Italia non dovesse essere respinto per molte e validissime ragioni morali e politiche, sarebbe pur sempre contro di esso una constatazione amara: che cioè la nostra pace, da Potsdam in poi» (e Potsdam – osservo io – succede al famoso periodo che si concluse così ironicamente, ad Hyde Park) «la nostra pace, da Potsdam in poi, ha conosciuto soltanto peggioramenti e aggravamenti, e che ogni transazione successiva fra i Grandi si è risolta con un ulteriore crescente nostro danno. Il ratificare, dunque, vale a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».

Una voce a destra. È un bell’elogio per il vostro Ministro degli esteri!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Per carità, ratifichiamo subito! Guai se si ritarda, guai! Chissà dove ci porta ogni nuova attesa! È una rovina di più che ci aspetta! Questo dice Gronchi con spietata chiarezza. Perciò io vi dicevo che questo giudizio, pronunziato in sede così solenne, si risolve in un epigramma, sia pure involontario. E tanto più s’impone la ricerca del modo con cui si è pervenuti a questo incomparabile paradosso storico, la quale ricerca, come ho detto e ripeto, non serve per attribuire responsabilità politiche ma per trarre insegnamenti che ci proteggano dalla persistenza in un sistema fallito, così miseramente fallito. Se, per riferirmi a quanto diceva ieri Togliatti, fu sempre fatto difetto nell’azione di Governo una decisione ferma e risoluta, un senso di fierezza e di dignità, non dovrebbe esser questa una ragione sufficiente per la condanna del sistema? Per raggiungere questo scopo io, nel silenzio degli altri, mi sono dovuto assumere il compito duro e amaro di precisare con franchezza, anche se dovesse sembrare brutale, come il Trattato cui siamo pervenuti, attraverso un triennio di questa politica, ferisca la libertà, l’indipendenza e l’onore stesso dell’Italia.

Nell’accingermi a questa dimostrazione, necessariamente rapida, non mi soffermerò sull’angoscia delle mutilazioni sofferte. Esse aprono nel corpo della Patria ferite che non potranno mai rimarginarsi senza una restaurazione. Trieste, travestita in uno Stato ridicolo, se non fosse anche tragico, che manca di tutto, a cominciare dalla sovranità per finire con l’acqua da bere, e Pola e Fiume e Zara: nomi di città che ricapitolano tutte le ansie e tutte le speranze, tutti i dolori e tutte le gioie della storia d’Italia dal 1860 al 1919, redente dal sangue di seicentomila caduti, fiore della giovinezza italiana; città, che dànno al mondo la lezione eroica di un plebiscito in cui il voto è espresso col sacrificio supremo dell’abbandono in massa della propria terra e di ogni cosa diletta più caramente; la feroce amputazione di questa Venezia Giulia, che da secoli difende la sua italianità contro tutte le invasioni di tutti i barbari calati in Italia in tutti i tempi, onde, fucinata in queste prove, è quella, fra tutte le altre Regioni, dove l’italianità è più profonda, più intima, più pura. Questa inaudita violenza contro una giustizia, che pure gli stessi Alleati avevano riconosciuta e proclamata, superò le peggiori aspettative, e tuttavia non bastò; anche al confine di occidente è stata imposta una mutilazione in cui l’arbitrio prescinde da ogni ipocrisia con cui giustificarsi. Sia pure per un ingiusto, crudele destino, l’Istria nei secoli è stata la posta di un gioco tremendo. Perduta, ripresa, riperduta; auguriamo, speriamo, di riprenderla. Ma il Moncenisio? Ma la Val di Roja? Chi ne ha mai contestata l’italianità nel nostro versante? e il Col di Tenda? L’Alpe, questa cintura che separa l’Italia, ma nel tempo stesso la protegge contro l’invasione, tende, attraverso quel colle ad addolcirsi verso l’Appennino, così puramente, così esclusivamente italiano. Con pensiero commovente quei due sindaci montanari, e per ciò incorruttibili, il sindaco di Tenda e il sindaco di Briga, issavano la bandiera tricolore sul loro Municipio; ed è proprio notizia di ieri l’altro quella del reclutamento militare: si sono presentati alla leva tutti gli iscritti, quasi tutti validi. Bella, brava gente! È magnifico! Onde oggi il dolore e le proteste del vecchio Piemonte, pilone dell’estremo Nord, trovano la loro espressione accorata in una voce di Sicilia, pilone dell’estremo Sud, congiunto all’altro, attraverso il grande ponte d’Italia.

Ma ogni rimpianto per questi brani di carne, anzi di organi vitali, strappati alla Patria, viene dai cinici, che si dicono realisti, qualificato come rettorica nazionalista. Procediamo oltre.

Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia quella indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15, il quale dice:

«L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ecc.».

Questo articolo si collega con quella rieducazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità. Voi capite che qualunque degli Stati che figurano vincitori – anche l’Etiopia, che è compresa tra questi ed è tra i firmatari del Trattato – può sollevare la questione se le libertà fondamentali siano state rispettate a proposito di una qualsiasi legge italiana, per esempio di una legge per l’istruzione, come quella che potrebbe presentare l’onorevole Gonella (Si ride – Commenti) e che fosse da alcuni, anche in Italia, considerata come lesiva della libertà di coscienza, che è libertà fondamentale. Un Paese che nell’esercizio del più sovrano dei diritti, che è il potere legislativo, sia soggetto a tali controlli, non è più un Paese indipendente! Qualche cosa di simile poteva forse avvenire nell’antico impero Ottomano, la vecchia Turchia; ma la nuova Turchia ha superato questa possibilità d’interventi. L’Italia l’ammette con questo articolo 15, che vorreste approvare d’urgenza, senza necessità, ma bensì come un’accettazione, sia pure rassegnata, ma pur sempre volontaria.

Poi c’è l’articolo 16, il quale si presenta a prima vista semplicemente privo di senso, perché dice:

«L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle Forze armate, pel solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia o d’aver agito in favore della causa delle Potenze alleate od associate».

Salvo l’oscura allusione agli «appartenenti alle Forze armate», l’articolo manca di serietà quando dispone che l’onorevole De Gasperi non potrebbe incriminare me o l’onorevole Pacciardi o – persino – se stesso, per avere espresso simpatia alla causa degli alleati! E c’è poi l’articolo 17 che dice:

«L’Italia, la quale, in conformità dell’articolo 30 della Convenzione di armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici».

Or ecco. Non c’è nessuno che sia stato più intransigente di me contro il fascismo. Nessuno più di me avverte l’inesorabile nesso causale, che lega la nostra presente catastrofe a quel terribile fenomeno verso cui non abbiamo neanche il conforto di una immunizzazione, come c’è stata negli altri Paesi. Perché non è vero che il fascismo sia stato un fenomeno esclusivamente italiano. Gli stessi Inglesi hanno avuto qualche anticipazione di metodi fascisti verso la fine del Governo di Cromwell: lord Protettore è affine, anche nel significato della parola, a Duce o a Führer. Certamente egli fu un grand’uomo; e fu fortuna dell’Inghilterra che quella parentesi nella grande storia delle libertà di essa non abbia nociuto ma giovato alla sua potenza. Eppure il ricordo di questo Protettore fu così esecrato da arrivare sino alla profanazione di una tomba e ad atti feroci contro un cadavere. La Francia ebbe il suo secondo Impero, che rassomiglia al fascismo come due gocce d’acqua. E finì nel disastro, come fu per l’Italia. Il ricordo però, direi l’orrore per quel regime, per quel periodo si perpetuò talmente che a Milano, dove si era preparata una statua equestre per Napoleone III, artisticamente assai bella, non si poté farla uscire dal magazzino dov’era custodita, perché discretamente il Governo italiano era avvertito che l’impressione in Francia sarebbe stata penosa…

Il fascismo è come il vaiolo: chi lo ha avuto ha almeno il vantaggio che non lo avrà più. (Ilarità). In Italia, purtroppo, dobbiamo sentir parlare di neofascismo; temo che in gran parte ciò si debba agli errori dell’immediato antifascismo.

Non è già, dunque, che l’articolo 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo all’accusa della violazione dell’articolo 17. Intanto, tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata; e del resto, le organizzazioni di cui si vieta la rinascita sono anche quelle politiche: ogni associazione, la stessa organizzazione dei partiti può esservi compresa. Che cosa sono, poi, questi «diritti democratici», la cui privazione violerebbe l’articolo 17? Vorrei conoscere il collega che ha inventato frasi così bislacche. Certo è che vi è qui un vastissimo campo, a proposito del quale il nostro Ministero degli esteri potrà bruscamente ricevere da parte di un diplomatico etiopico o lussemburghese una protesta formale perché un qualsiasi provvedimento avrebbe violato l’articolo 17. E badate che le censure contro provvedimenti od atti accusati aver carattere fascistico, sono continue e reciproche anche in questa Aula: in discussioni di politica interna sono forme polemiche quasi ordinarie. Quante volte non abbiamo inteso noi un deputato di quei settori (Accenna all’estrema sinistra) accusare di fascismo questo o quell’atto di Governo, questa o quell’altra opinione e quante volte la stessa accusa è stata ritorta dai settori opposti! Lo straniero, pertanto, che vorrà sollevare una questione di quel genere, potrà sempre fondarsi sull’autorità di ammissioni italiane, ed anche autorevoli, a favore del suo assunto!

E non mi sento di andare oltre. C’è tutta una collezione di articoli, mortificanti quando non sono umilianti. Quelli sul disarmo sono orribili. Si potrà entrare in ogni casa italiana per vedere se c’è nascosto un ordigno più progredito, utile all’offesa e difesa militare. Le poche truppe che ci lasciano devono avere un armamento ridotto, che può dirsi primitivo in questa epoca dei carri armati e dei cannoni a grande portata. Al Paese di Galileo, di Volta, di Marconi è vietato persino di fare scoperte che valorizzino di più il proprio esercito. È già una prepotenza odiosa; ma chi può dire se e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!

Or questa non è più indipendenza. La sovranità italiana non è più completa, e, in questa materia delicatissima, un limite qualunque si pone per sé come una negazione totale. Anche grammaticalmente, sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativo, lo si annulla.

L’indipendenza sovrana del nostro Stato vien dunque meno formalmente, cioè come diritto. Ma che dire dell’indipendenza come fatto? Argomento forse ancor più doloroso. Non è più un segreto l’intervento degli stati maggiori e degli ammiragliati nella formazione di questa camicia di forza, che toglie all’Italia ogni possibilità di difendersi. Questa imposizione di pace è fatta in maniera da trasformare immediatamente l’Italia nel campo di battaglia della guerra futura, fra Occidente ed Oriente, se questo orrore non sarà evitato. Peggio ancora, l’Italia è stata considerata come un territorio alla mercé degli eserciti combattenti, tanto di oriente che di occidente.

Tutto ciò è stato fatto consapevolmente, con quello scopo preordinato. Aperta la frontiera orientale, dove avevamo la chiusura delle Alpi culminante al monte Nevoso, l’eventuale esercito dall’oriente è già in territorio italiano e si è assicurata la demolizione delle nostre fortificazioni per venti chilometri. Quindi il giorno – Dio non voglia – (nessuno più di me può presentirne l’angoscia) in cui avvenisse l’irruzione, noi sappiamo che essa non potrà essere arrestata ma solo contenuta ritardandone l’afflusso in quella Valle Padana che è stata nei secoli, e tornerebbe ora ad essere, campo di battaglia in tutte le guerre europee. Si ripeterà quella che è stata la storia dei mille cinquecento anni seguiti alla caduta di Roma. E gli stati maggiori dell’altra parte han facilmente previsto l’evento di un insuccesso in pianura ed han pensato alle Alpi. Così si arriva alla frontiera occidentale: Briga e Tenda.

Appena si intese parlare di Briga e Tenda, nessuno poté credere che lo scopo fosse di annettersi quelle poche migliaia di montanari italianissimi. Vero è che vi è un tesoro di energia elettrica. Non so a questo proposito se l’onorevole Ministro Sforza, quando mise a disposizione del piano Marshall tutta la forza derivante dalle acque delle nostre Alpi, si sia astenuto per cortesia verso il collega Bidault, dall’includervi anche quelle della Roja e quelle del Moncenisio. Ad ogni modo prescindiamo dal lato economico; a titolo di riparazioni si potevano dare le ore di energia desiderate. Ma il passo del Col di Tenda dato alla Francia significa il punto di arresto delle invasioni orientali. Le Alpi non servono più a difendere l’Italia; ma gli altri paesi, dopo il sacrificio dell’Italia!

Quello che accadde poi, a proposito del disarmo navale, rappresenta un mistero inspiegabile o, peggio, profondamente conturbante, quando si pensa alle spiegazioni possibili, poiché qui l’incredibile è che le limitazioni sarebbero state richieste proprio dagli Stati che hanno rispetto a noi una schiacciante superiorità navale. Perché ci hanno portato via tutte le motosiluranti e tutti i sommergibili e qui hanno vietato di costruirne o di acquistarne? Non sono queste per eccellenza armi difensive? Chi dunque poteva avere interesse che l’Italia non potesse neanche difendersi? Si dice che siano stati gli Inglesi. Ma, almeno, a Parigi si erano salvati gli antisommergibili. A Nuova York però, davanti ai 21, sarebbe stata la Francia a rilevare che una tale concessione fosse eccessiva. E fu così che ci furono definitivamente negati anche gli antisommergibili!

Questo è l’atto che per beffarda antifrasi si chiama Trattato di pace, con cui l’Italia perde l’indipendenza in diritto, la perde in fatto, perché non può più difenderla; e perde l’onore. Perde l’onore! Tutto il testo e tutto il contesto, ma soprattutto lo spirito del Trattato consiste in questo, o signori: nel dare il più duro, il più inesorabile rilievo a questo punto: che durante la guerra e dopo, sinora, sempre, noi siamo stati considerati come nemici. Ce l’hanno detto in tutti i toni: nemici! Ed allora i partigiani che si sono battuti ed il corpo di liberazione e gli aviatori veramente eroici che hanno volato con i loro apparecchi vecchi, logori e stanchi, perché non davano loro quelli nuovi e buoni e partivano senza sapere se avrebbero fatto ritorno, tutti questi per chi si sono dunque battuti? Per un nemico?

Quale maggiore offesa? E noi dobbiamo tollerarla: intendo non in quanto ci venga imposta per legge di necessità, ma per atto volontario e in certo senso spontaneo? Quei nostri soldati, partigiani, aviatori, marinai sarebbero considerati peggio dei mercenari guidati dai condottieri, da un Alberigo da Barbiano o da un Muzio Attendolo Sforza (Ilarità) o da un Giovanni delle Bande Nere, perché quelli almeno si battevano per un compenso; onestamente e, in generale, valorosamente si battevano per colui che li aveva ingaggiati. Ma questi nostri, secondo la definizione del Trattato, si sarebbero battuti per un nemico!

E ancora ancora, minore sarebbe l’offesa rapporto agli uomini. Ordinati essi in unità militari, di queste, quando sono disciolte, non rimane che un nome; e l’onore dei morti e dei vivi dipende dalla causa per cui si sono battuti, giudicata secondo quella giustizia ideale, che è ben più grande di tutti i quattro Grandi messi insieme.

Ma la questione dell’onore rimane invece ed è ardente per la marina. Qui, l’uomo si fonde con la cosa: la nave. E la nave continua ad esistere con la sua bandiera e voi intendete quel che ciò significhi per il marinaio, il quale deve morire, prima della sua nave o con essa. E si sono battute queste navi, infaticabilmente, in tutti i mari, ed hanno corso tutti i rischi; hanno tutta la legione eroica dei loro morti. Ed ora si viene a dir loro: queste vostre navi debbono esserci consegnate come bottino di guerra, cioè come navi nemiche come quelle che battendosi per noi, alleati, si sarebbero battute per un nemico. Si può dare ingratitudine più atroce?

Queste navi si trovavano nel porto di Spezia o altrove; ricevono l’ordine di sottrarsi ai Tedeschi, di raggiungere Malta per mettersi a disposizione dell’Ammiragliato inglese. La flotta francese si trovò in una situazione simile, quando il 27 novembre 1940 Tolone fu occupata dai Tedeschi; le navi furono autoaffondate: bel gesto, in quanto imposto dalla impossibilità dei movimenti. Ma la nostra uscì senza alcuna protezione aerea e sapendo a quali rischi si esponeva. E la nave ammiraglia, la bella corazzata Roma, affondò sotto bombe di aeroplani tedeschi col suo Ammiraglio, coi suoi 1800 marinai. Queste navi, dicevo, hanno continuato a battersi ed ora sono bottino di guerra, e debbono ora esser consegnate come se fossero state vinte e prese! E noi, per secondare il piano Marshall o per contendere alla Bulgaria l’onore di entrar prima nell’O.N.U., approviamo tali iniquità, senza almeno la scusa di una urgenza improrogabile.

Badate! non domandate ai nostri marinai – i quali hanno fatto prodigi di disciplina, che è coraggio morale, oltre che di coraggio fisico – non domandate loro di ammainare la loro bandiera, per farla sostituire da un’altra, come dei vinti. Essi non lo tollererebbero, non potrebbero tollerarlo; vi è qualcuno, qua dentro, che darebbe loro torto? Evitatelo. Non so; credo che ci siano forme da studiare capaci di togliere alla nave la sua qualità di militare e di combattente. Credo che si dica: rendere le navi borghesi. Tra le altre cose, il Trattato impone all’Italia non solo la consegna delle navi, ma anche che esse siano rimesse in efficienza, cosa che non si chiese alla Germania, nel 1919. Il Trattato di pace con la Germania fu allora incomparabilmente più mite di questo nostro attuale. L’Italia deve spendere alcuni miliardi per mettere in efficienza le navi danneggiate nella lunga campagna fatta a favore degli stessi alleati. Così perdiamo le nostre navi migliori: le ammirabili Italia e Vittorio Veneto; nomi così cari ad ogni cuore d’italiano. Pensateci! I nostri marinai han meritato che il loro onore, per quanto possibile, sia salvo.

Ma è ormai tempo di avviarmi alla conclusione. La critica da me fatta al cosiddetto Trattato, per quanto prolungata anche troppo, resta sempre inferiore a tutto quello che si potrebbe e dovrebbe dire per un’analisi appena adeguata. Ma l’ora non lo consente. Or la conclusione è in forma di questo dilemma: dare o negare l’approvazione? Parecchi oratori, l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Corbino ed altri hanno avuto per me un pensiero affettuoso e deferente, quando hanno riconosciuto che la storia da me vissuta, l’avere avuto la fortuna e l’onore di legare il mio nome alla vittoria della Patria, vittoria che ci diede quello che ora perdiamo, costituiscono per me un titolo quasi personale, che mi consenta di rifiutare l’approvazione. In altri termini, l’approvazione per sé è cosa amarissima, ma a cui non ci si può sottrarre; a me questa esenzione è consentita. Ringrazio del pensiero, ripeto, affettuoso e deferente; ma dico subito che se pure avessi questo titolo di immunità non vorrei servirmene in via pregiudiziale.

Un’umiliazione che io riconoscessi necessaria alla salvezza del Paese dovrebbe essere accettata da me come dagli altri: nel rifiuto a priori io troverei i segni di quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo, e di esserne immune io lo dimostrai in memorandi eventi. Ché se lo storico futuro volesse riconoscere in quegli eventi un titolo, di merito per me, penso che dovrebbe riscontrarlo nell’essere io stato sempre al centro di due estremi, esposto al fuoco incrociato dell’una parte e dell’altra, in questa Italia sulla quale – o almeno su alcune regioni di essa – pesa la sciagurata tradizione delle divisioni estreme ed irriconciliabili: Guelfi e Ghibellini. Così io ebbi contro, con pari veemenza, non meno i rinunciatari che i nazionalisti. Quanto a questi ultimi, se qualcuno pensasse che io con il mio atteggiamento di intransigenza contro il Trattato, riveli tendenze nazionaliste, lo pregherei di andare alla Biblioteca della Camera e consultare il giornale, organo di quel partito: L’Idea Nazionale. Se mai vi fu un uomo cui nessun oltraggio fu risparmiato, fui io quello. Ci fu un famoso articolo che aveva questo titolo abbastanza significativo: «Tagliategli la lingua». Se quindi gli antinazionalisti vogliono tagliarmi qualche altro organo, mi rimetto alla loro discrezione. (Ilarità). Per ciò, ho detto e ripeto che se ritenessi necessario un atto di umiltà per la salvezza della Patria, chiederei di essere io stesso il primo a compierlo. Ma, per l’appunto, mi sono soffermato sulla storia di questa politica triennale fatta di sottomissione e di umiltà, perché sia a tutti presente il rapporto con lo stato cui quella politica ci ha ridotti: stato di così estrema miseria da giustificare l’atto inverso, cioè di una ribellione che si ponga, non foss’altro, come una sfida al destino, quando tutto è perduto e non resti che salvare l’onore. Ringrazio vivamente l’onorevole Gasparotto del pensiero che ha avuto, di citare oggi qui quel mio telegramma a proposito della decisione di quella che fu la battaglia di Vittorio Veneto. Or mi importa di precisare che la copia di quel telegramma egli non la ebbe da me; io non me ne sono mai vantato, ed anzi di quel mio intervento non ho mai parlato…

GASPAROTTO. Ho ben il diritto di farlo sapere.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Certamente; voglio solo dire che la rivelazione di quello storico episodio non proviene da me. Ma una volta che essa è avvenuta, ho bene il diritto di metterne in rilievo il significato, in quanto abbia rapporto col solenne momento storico attuale. E il significato è questo: che come ci sono momenti in cui bisogna umiliarsi e sottomettersi, ci sono pure i momenti in cui bisogna osare. L’uomo di Stato si rivela proprio in questi momenti, quando si tratta di assumere le grandi responsabilità dell’azione, e non già di abbandonarsi a quella sostanziale fuga da ogni responsabilità che è la sopportazione. Ed io dissi che l’episodio di quel mio telegramma dell’ottobre del 1918 poteva avere un rapporto con la discussione odierna, sotto questo aspetto: che la responsabilità da me allora assunta fu così grave che se Vittorio Veneto fosse stato una sconfitta, io avrei dovuto essere mandato in Alta Corte di Giustizia e condannato forse anche alla fucilazione. Certamente, io ritenevo e continuo a ritenere che il Capo del governo civile, nelle guerre di popolo e non solo di eserciti, come le due recenti, ha il diritto ed il dovere di ingerirsi in ciò che riguarda l’andamento della guerra anche dal lato puramente militare; da qui il mio insanabile dissenso con il Generale Cadorna. Ma non è men vero che anche quel diritto ha dei limiti ed io confesso che con quel telegramma avevo quei limiti sorpassati, esponendomi con ciò a quelle estreme conseguenze, che, qualora l’evento fosse stato avverso, avrebbero comportato un giudizio ed una severa condanna.

Per ciò, dunque, pur rinnovando i miei ringraziamenti ai colleghi che han voluto attribuire a me una specie di asilo spirituale per sottrarmi ad un voto amarissimo, dico che non intendo servirmi di questo titolo. Se io sono risolutamente, irriducibilmente ostile all’approvazione che ci si chiede, egli è perché sento come una morale impossibilità, superiore ad ogni utilità (se pure ci fosse!) di dare un consenso, sia pure coatto, ad un documento che, in fatto di iniquità e di ingiustizia, raggiunge una delle vette più elevate fra le tante prepotenze ed arbitrî onde è contaminata la storia dei rapporti internazionali. Ma tanto più poi e tanto peggio per il momento e per il modo onde il voto ci si chiede, pregiudicando dinanzi alla storia l’unica scusa e cioè di aver ceduto ed una legge di necessità. Questo sentimento ha carattere ideale; ma trova altresì conforto in una ragione d’ordine pratico, la quale avverte di essere ormai venuto il momento di interrompere il sistema di cedere ed accondiscendere finora seguito e di compiere finalmente un atto di fierezza e di dignità. Per tre anni ci siamo sottomessi continuamente, e ne vedete i risultati. Ora, basta.

Non mi soffermo sulla causa specifica della ratifica che manca. Per me basta l’articolo 90, così brutale per noi, poiché quanto all’esecuzione dell’atto prescinde totalmente dalla nostra volontà; ma, per ciò stesso, ci fa sapere che sino a quando le quattro ratifiche non siano depositate, l’atto non entra in vigore e noi non siamo obbligati a subirlo e tanto meno a riconoscerlo. Se dunque quella condizione manca, il nostro consenso si presenta libero e volontario e ciò determina la mia ribellione. Che poi la potenza la cui ratifica sinora manchi, sia la Russia o l’America o la Gran Bretagna o la Francia, mi è perfettamente indifferente. I colleghi Nenni e Togliatti, che mi furono compagni nella Commissione dei Trattati, mi han dato atto di ciò ed uno di essi ha ripetuto una mia frase detta allora, e cioè che per me la ratifica che manca basta che sia attribuita ad una potenza X.

Quanto alla Russia, peraltro, vi fu un curioso documento che l’A.N.S.A. diramò come proveniente da un portavoce di Palazzo Chigi, e secondo il quale la ratifica della Russia era lì lì per venire e sarebbe arrivata fra pochi giorni. Sono ora invece passate varie settimane e non se ne vede il principio. Ah, questi portavoce! Ad ogni modo, ripeto, a me che sia la Russia a non ratificare non importa nulla e si dovrebbe aggiungere che anche per la Russia non vi è nessun rapporto fra la sua astensione e la ratifica, che pur hanno fatta alcuni degli Stati che si dicono satelliti di essa. Il mio intento è puramente obbiettivo: il Trattato per ora è ineseguibile. Perché, dunque, questa fretta di approvarlo spontaneamente, proprio noi, i sacrificati e gli offesi?

Tutto ciò assorbe la questione della utilità poiché la soverchia di gran lunga. Ma, ad ogni modo, in che consisterebbe questa utilità? Prima ci si disse, in Commissione dei Trattati, che occorreva la ratifica per l’ammissione dell’Italia al convegno di Parigi per il piano Marshall: l’evento dimostrò che non era così. Ora ci si dice che occorre per l’ammissione all’O.N.U. Ma dove è la disposizione che subordina l’ingresso nell’O.N.U. alla ratifica? Dove è? Ho qui lo Statuto, dove si parla dell’ammissione dei nuovi membri e se ne stabiliscono le condizioni; nulla, in esse, che si colleghi con la ratifica. Se sbaglio, mi si interrompa e mi si dica quale sia l’articolo, il capoverso, la parola che importi una tale conseguenza. Dunque, questa ragione non sussiste.

Non è vero nemmeno – l’hanno ingannata, onorevole Ministro – quando si dice che se passa il 10 agosto non potremo avere questa fortuna di essere ammessi e perdiamo l’anno. Neanche ciò è vero, perché l’anno scorso il Siam fu ammesso a novembre. La procedura è la seguente. In agosto avviene un esame preliminare da parte di una Commissione, che nei suoi membri riproduce le undici potenze del Consiglio di sicurezza. Quando si trattò del Siam, siccome pendeva una contestazione con la Francia per i confini con l’Indocina, la Francia chiese ed ottenne che la domanda del Siam non fosse ammessa. Senz’altro. In seguito, il dissidio si compose e il Siam fu ammesso, come ho detto, in novembre.

A voler chiamare le cose col loro nome e senza ipocriti infingimenti, la verità è che per l’ammissione all’O.N.U. tutto dipende dall’accordo delle cinque Potenze che hanno il seggio permanente e quindi il diritto di veto. L’opposizione di una sola di esse basta a fermare l’ammissione. Dall’altro lato, per il noto contrasto tra i due gruppi di Potenze, avviene che se non si arriva ad un compromesso, l’uno impedirà l’ammissione favorita dall’altro, e reciprocamente. Così, l’anno scorso, la Russia ha messo il veto all’ammissione del Portogallo e dell’Irlanda dando per ragione che non avevano curato di avere rappresentanza diplomatica a Mosca e quindi non davano nessuna garanzia di essere amici della pace. Allora, per evidente contraccambio, gli Stati anglosassoni misero il veto all’ammissione dell’Albania voluta dai Sovieti. Il Governo britannico ha ora fatto sapere che non darà l’assenso neppure alla Romania, per i recenti episodi che voi conoscete. Quindi, è tutto un gioco di veti. Lascio poi stare, per l’ora che urge, un’altra indagine più sostanziale per cui si pretende che l’ammissione nell’O.N.U. sia un così grande beneficio da valere come una giustificazione di questa sciagurata ratifica. Io non solo contesto risolutamente che vi sia un vantaggio qualsiasi, ma ritengo invece che si tratti di cosa non desiderabile e mi asterrei, nonché dal chiederla, dall’accettarla, considerandola come un’altra mortificazione inflitta al nostro Paese. Il posto che esso prenderebbe lo graduerebbe dopo Stati minuscoli; diciamolo francamente: sarebbe come una firma apposta alla nostra rinuncia alla qualità di grande Potenza. Ammetto che questa sia purtroppo la situazione attuale; ma perché andare verso il riconoscimento di questa nostra decadenza con così premurosa e soddisfatta sollecitudine? Ma anche a parte tutto ciò, lo Statuto dell’O.N.U. contiene quei due famosi articoli, 53 e 57, che non leggo, ma il cui senso, per quanto poco chiaro, importa che, mentre la garanzia essenziale per i membri dell’O.N.U. è che nessuno possa essere aggredito senza violare solenni impegni dando luogo all’immediato soccorso di tutte le nazioni unite, a questa regola si introduce con quegli articoli un’eccezione pel caso che l’iniziativa provenga da uno degli Stati alleati ed associati contro uno Stato ex nemico. In altri termini, la Jugoslavia o l’Etiopia potrebbero aggredirci senza che noi fossimo protetti dalle garanzie che proteggono gli altri Stati dell’O.N.U.!

Il Ministro si rende conto della enormità di queste disposizioni e dice di aver avuto l’affidamento che saranno soppresse, poiché tutte le repubbliche del Sud America si son dichiarate contrarie. Sì, ma gli debbo ricordare il veto che, da solo, annulla tutte le maggioranze. In ogni caso io vorrei che quei due articoli fossero già soppressi, prima di accettare la situazione che ne deriva, la quale ci mette in uno stato di inferiorità verso gli altri membri dell’associazione, sin dal momento in cui entreremmo a farne parte.

Nessuno, dunque, dei vantaggi che si fanno sperare come conseguenza di questa approvazione anticipata può dirsi sussistente ed effettivo; la stessa condizione armistiziale continua formalmente immutata, perché il termine dei 90 giorni fissato per la cessazione di essa, non comincia a decorrere se non dal deposito delle quattro ratifiche. Ma ci fossero pure dei vantaggi, nulla essi varrebbero, per me, in confronto dei sacrifici estremi che ci si vogliono imporre, come ho dimostrato in questo mio discorso, incompleto se pur lungo. Perciò io sono, in ogni caso e in ogni tempo, contrario all’approvazione, perché non vale vivere quando si perdono le ragioni di vivere. L’Italia non può opporre al disfacimento cui l’atto la vorrebbe condannare che il fatto della sua esistenza come grande e gloriosa Nazione; e questo fatto è insopprimibile, malgrado ogni iniquità. Che se, però, questa mia decisione estrema la maggioranza di voi non crede di consentire, io posso rispettare codesta perplessità. Ma considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più caro, di più prezioso, di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria. Vi prego, vi scongiuro, onorevoli colleghi, al di là e di sopra di qualunque sentimento di parte – quale stolto potrebbe attribuirmelo? – non mettete i vostri partiti, non mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità. Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future; si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità. (Vivissimi applausi a sinistra e a destra – Proteste vivaci al centro e al banco del Governo – Rumori vivissimi – Scambio di epiteti fra sinistra e centro – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi prolungati applausi a sinistra e a destra – Proteste e rumori vivissimi al centro – Scambio di apostrofi fra il centro e le sinistre – Viva agitazione).

PRESIDENTE. Prego i colleghi di prendere posto ai loro banchi.

Voci al centro. Deve ritirare! Deve ritirare!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Suppongo che non sia possibile chiarire nulla, finché loro non vorranno tacere. Onorevole Coccia, lei ritiene con il suo chiasso di aiutare a chiarire la situazione?

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Onorevoli colleghi, io non avevo alcuna intenzione… (Prolungati rumori al centro). Queste sono le ultime parole che pronunzierò qui dentro!

PRESIDENTE. Attenda un attimo, onorevole Orlando: la prego. Onorevoli colleghi, basta!

Ogni manifestazione, anche se di giusta reazione, perde il suo valore, quando cessa di stare nei limiti di un certo ordine. Permettano dunque all’onorevole Orlando di riprendere la parola e allora, da ciò che egli dirà a chiarimento di quanto ha detto prima, risulterà il valore del suo pensiero e, se sarà quello che si è ritenuto che fosse, qualcuno potrà replicare all’oratore.

Onorevole Orlando, la prego di parlare e di tener presente che, forse, sta spirando quel limite al quale Ella stesso accennava un’ora e tre quarti fa.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Mi dispiace di dover dare spiegazioni, e le do solo per rispetto a lei! (Vivi applausi a sinistra – Commenti e vivaci proteste al centro).

GUERRIERI FILIPPO. Ricordatevi che avete davanti l’uomo di Vittorio Veneto! (Applausi – Rumori al centro).

BENEDETTINI. È il Presidente della Vittoria! (Applausi a sinistra e a destra – Rumori al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Orlando, mi perdoni, io le sono grato della deferenza particolare che mi vuole dimostrare, ma sarei lieto che le sue parole fossero non soltanto udite da tutta l’Assemblea, ma fossero dirette a tutta l’Assemblea.

La prego di parlare.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io, rispettando il Presidente, rispetto l’Assemblea! (Commenti al centro).

La parola «servilità» qualifica l’atto, e non le persone. Io stesso, proprio in questo mio discorso, ho detto di me di aver compiuto un atto di umiliazione, che credetti necessario, nell’interesse del Paese. L’atto in sé è servile, ma poiché non vi risponde l’intenzione di compierlo come tale, nessuno può restarne offeso. Ma, ad ogni modo, poiché come vi dicevo, ritengo che questo sia l’ultimo discorso che io pronunzio in quest’Aula…

Voci No. No!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io voglio che, come mi è sempre accaduto nella mia lunga vita parlamentare, il mio appello sia per la concordia o, almeno, contro l’esasperazione dei contrasti inevitabili e riunisca l’animo di tutti. E dico ai colleghi di tutte le partì dell’Assemblea: Convenite con me, obiettivamente, indipendentemente da ogni giudizio politico, indipendentemente da ogni preferenza verso questa o quella linea di condotta, convenite con me, tutti, che questo Trattato di pace è una solenne ingiustizia?

Voci da molti banchi. Si!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ed allora non ho null’altro da aggiungere. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra e a destra – Molte congratulazioni – Commenti prolungati al centro).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. (Applausi al centro – Rumori a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, il rispetto, l’ammirazione che io ho sempre nutrito per lei, la devozione che le ho sempre dimostrato, mi permettono di dire una parola franca anche in questo momento molto agitato.

Io sono stato colpito nel profondo dell’anima dalle ultime frasi, che dovevano essere un giudizio, mentre ella dichiarava che la proposta di ratifica era un’abiezione fatta per mancanza di coraggio e per cupidigia di servilità. No! onorevole Orlando: si tratta di concezione diversa degli interessi del Paese in questo momento. Domani mi riservo di dimostrare tutte le ragioni che militano per la mia concezione; e lo farò senza offendere nessuno. (Approvazioni al centro).

 Però le devo dire che sono profondamente offeso e con me sono offesi tutti coloro che hanno affrontato il nemico non soltanto come combattenti sui campi di battaglia, ma hanno affrontato il fascismo con coraggio, soffrendo giorno per giorno. (Vivissimi applausi al centro – Rumori e commenti a sinistra e a destra).

Ho anche la coscienza e la consapevolezza, nei momenti tristi, nei consessi internazionali, d’aver rappresentato degnamente, fieramente il mio Paese. (Interruzioni a sinistra – Vivissimi applausi al centro – Scambio di apostrofi fra la sinistra e il centro). Questo è stato constatato da tutti, da molti giornali, anche avversi.

Una voce a sinistra. Avete i fascisti nel Governo! (Rumori al centro).

Una voce a destra. Li avete voi i fascisti! mettete fuori i vostri fascisti, prima di parlare! (Proteste a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A coloro che ci chiedono un rinvio in nome dell’unità nazionale, si può dire, però, che la premessa indispensabile per qualsiasi… (Rumori e interruzioni a sinistra – Ripetute interruzioni del deputato Farini – Richiami del Presidente) la premessa… (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Desidero sapere se devo sospendere la seduta.

FARINE Sì! sì!

PRESIDENTE. Onorevole Farini, mi pare che lei, nel suo entusiasmo, non si renda conto di quello che significa la sospensione della seduta. (Interruzione del deputato Farini).

Onorevole Farini, non mi costringa ad applicare il Regolamento nei suoi confronti! (Commenti).

Posso comprendere tutti gli impeti di passione, ma non le forme di vana petulanza. Capisco perfettamente tutto, ma non le grida che non hanno alcuna giustificazione, da qualunque parte vengano. E prego specialmente i colleghi più autorevoli, che in certi momenti mi pare adoperino la loro autorevolezza a suscitare maggiore tumulto, di ricordarsi che io mi attendo da loro un contributo a questa mia opera di dirigere i lavori dell’Assemblea. (Approvazioni).

Continui, onorevole Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, avrei aspettato dalla sua lealtà che ella avesse dichiarato che le parole «cupidigia di servilità» non si riferivano a coloro che propongono in buona fede e con retta coscienza di ratificare il Trattato. Avrei preferito che lo avesse dichiarato.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. L’ho detto.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se questa è la sua dichiarazione, io sono lieto di accettarla, quantunque il linguaggio altrimenti doveva essere interpretato. Tuttavia sono lieto di accettarla, per questo: perché la situazione è molto difficile, la tensione degli animi è grave, senza dubbio; ma quello che non si può negare all’avversario è il coraggio, e molto meno si può negare a chi come me e il Governo sostiene in questa difficile situazione una posizione che esige maggior coraggio civile di qualsiasi rinvio e la sostiene perché crede di doverla sostenere nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione internazionale! (Vivissimi, prolungati applausi al centro – Commenti).

PRESIDENTE. Suppongo che l’Assemblea sia concorde con me sull’opportunità di rinviare il seguito della discussione a domani.

Vorrei però ricordare che per impegno non tacito, ma esplicito, preso ieri sera, dovremo finire questa discussione domani insieme con gli ordini del giorno relativi.

L’Assemblea è dunque convocata per domani mattina alle 9.30 per il seguito della discussione sul Trattato di pace.

Dovranno ancora parlare i presentatori degli ordini del giorno, onorevoli Jacini, Damiani, Giannini e Caroleo.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno soprassedere alla costituzione del Consorzio nazionale canapa, se pure con la sola partecipazione degli agricoltori, essendo tale provvedimento in contrasto con la volontà dei canapicoltori, i quali chiedono la libera disponibilità del loro prodotto. L’ammasso obbligatorio della canapa avrebbe, quale risultato, un’ulteriore riduzione di tale coltura, con grave danno dell’economia nazionale.

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quale fondamento di verità abbia la notizia, apparsa sui giornali, che in Sicilia è stata abolita la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. E per sapere, nel caso in cui la notizia sia esatta, quale atteggiamento intende prendere il Governo.

«Tremelloni, Segala, Ghidini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se sia a conoscenza del grave malcontento che serpeggia nel Corpo forestale a causa del ritardo a concretare le sue aspirazioni manifestata nel Convegno di Firenze del maggio scorso; ed in particolare per conoscere le ragioni per le quali, mentre si tolgono dal servizio attivo sottufficiali e guardie forestali provenienti dalla posizione ausiliaria, per il solo periodo di guerra, con provvedimenti anteriori al 9 dicembre 1943, uguale trattamento non si faccia agli ufficiali superiori, il che inceppa ed impedisce lo sviluppo normale degli avanzamenti e promozioni di ben 400 funzionari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria circa la distribuzione ed assegnazione dei concimi per favorire la ripresa della produzione agrumaria, tenendo presente specialmente le deplorevoli condizioni degli agrumeti della penisola sorrentina e della costiera amalfitana. Tali agrumeti si trovano in stato di preoccupante deterioramento per il lungo periodo di mancata fertilizzazione dovuta ai criteri seguiti dalle associazioni agrarie preposte alla distribuzione, le quali hanno trascurato l’agrumicoltura che rappresenta importantissima ricchezza di quelle zone ed ha il suo grande peso sulla bilancia economica del nostro Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’industria e commercio e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se è esatta la notizia secondo la quale la società generale «Montecatini» non consegna da oltre un mese perfosfato minerale agli agricoltori, che ne hanno urgente bisogno, solo per il fatto che non è stato ancora approvato un ulteriore aumento del prezzo di tale prodotto. In caso affermativo quali provvedimenti intende proporre il Ministro dell’agricoltura e delle foreste per eliminare detto arbitrario provvedimento che danneggia notevolmente la produzione agricola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente deli Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sollecitare il finanziamento della ricostruzione delle fogne di Diano Marina, secondo il progetto già approvato.

«Perché non si rinnovi l’epidemia di tifo, che l’anno scorso decimò quella cittadina, l’autorità sanitaria dichiarò indispensabili due provvedimenti: un acquedotto e le fogne.

«Il primo è in corso d’esecuzione (senza peraltro le diramazioni alle frazioni che pur vi hanno diritto; per il secondo si dice che mancano i fondi.

«Ma è assurdo che non si trovino i fondi per un’opera assolutamente necessaria a prevenire il ripetersi di una mortale epidemia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canepa, Pera, Rossi Paolo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per chiedere – in considerazione che il Ministero della difesa ha aderito alla domanda della provincia di Imperia di cederle il possesso delle caserme di Diano Marina per adibirle ad ospedale psichiatrico (di cui essa è priva) – che si provveda senza indugio a riparare i danni che il tempo e l’incuria hanno cagionato a detti edifici abbandonati, salvo poi naturalmente alla provincia sostenere le spese per il nuovo uso.

«Ogni giorno che passa senza che si metta mano ai lavori aggrava la rovina d’un ingente capitale dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canepa, Pera, Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che ritardano la sanzione dell’accordo già intervenuto fra il comune di Reggio Calabria ed il Ministero della pubblica istruzione per la nazionalizzazione del Museo civico di Reggio Calabria; sanzione in vista della quale l’Amministrazione dello Stato sta già sostenendo le spese pei lavori di adattamento dell’edificio.

«La pratica relativa, trovasi da oltre sette mesi all’esame del Ministero dell’interno e già quello della pubblica istruzione ha fatto presente la necessità che la pratica sia definita con sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sardiello».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e della marina mercantile, per conoscere che cosa si aspetti per concedere, in base ad esigenze di giustizia sociale, la libertà di lavoro e di organizzazione anche nei porti, la sola che potrà garantire un regime di concorrenza, pur mantenendo fermi i diritti e le conquiste dei lavoratori portuali e serbando anche in vita, con le adeguate e opportune riforme, gli Uffici di lavoro dei porti sotto la diretta dipendenza e responsabilità del Ministero della marina mercantile. Si chiede che le imprese e le cooperative possano liberamente funzionare nei porti e intrattenere i loro rapporti diretti, come tutte le imprese industriali, con i lavoratori, pur servendosi esclusivamente delle maestranze iscritte nei ruoli delle capitanerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Finocchiaro Aprile».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non creda debba il Governo della Repubblica provvedere finalmente ad accelerare quei lavori delle strade di serie rimaste incomprensibilmente allo stato di indicazione o poco meno, il cui elenco è stato stabilito nella provvida legge che il Ministro Baccarini propose e che porta il numero 337 del 23 luglio 1881, in modo che nel più breve termine venga assolto l’impegno che lo Stato ha assunto verso le popolazioni interessate; e questo per le strade di valico appenninico particolarmente, come quelle del Bratello, del Lagastrello, del Pradenena, ed in specie per la più urgentemente attesa – la seconda numero 161 – la quale interessa quattro provincie (Massa Carrara, Spezia, Parma e Reggio Emilia) e sarà per divenire una fra le più importanti arterie dell’Alta Italia, abbreviando notevolmente il percorso dalla Toscana a Milano. In essa, dopo gli appalti del 1922, non si continuò che un solo chilometro, giacché le complesse burocrazie statali non seppero in tanti anni risolvere un cambiamento di tracciato modificatore della legge e che non ebbe mai alcun fondamento.

«Micheli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si richiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà inscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 22.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Pesenti

Scoca

Cappi

Micheli

Scoccimarro

Dugoni

Cimenti

Piemonte

Perassi

Jacini

Corbino

Marinaro

Condorelli

Mortati

Paris

Crispo

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Codacci Pisanelli

La seduta comincia alle 9.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Russo Perez.

(È concesso).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Onorevoli colleghi, si riprende l’esame della lettera c) del secondo articolo degli emendamenti aggiuntivi, concernenti gli enti collettivi, formulati dalla Commissione.

Ricordo che il testo proposto era del seguente tenore:

«c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i benefici ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Ieri sera si era rimasti d’intesa che la Commissione avrebbe presentato questa mattina un nuovo testo che, tenendo conto della lettera c) del primo articolo, sfrondasse tutte le indicazioni superflue, in maniera da avere l’elenco di quegli altri enti i quali possono usufruire dell’esenzione.

Onorevole La Malfa, è stato preparato il nuovo testo?

LA MALFA, Relatore. Vi è un emendamento dell’onorevole Pesenti che può essere preso a base della discussione.

SCOCA. Anche noi abbiamo preparato un emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene.

Do lettura dell’emendamento proposto dall’onorevole Pesenti:

«c) le aziende autonome dello Stato, le aziende municipalizzate ed enti autonomi che esercitino pubblici servizi, le partecipanze e le università agrarie».

Nell’emendamento Pesenti restano così assorbiti tanto l’emendamento Assennato, il quale citava soltanto gli enti autonomi che esercitano pubblici servizi, quanto l’emendamento Dugoni, salvo, quest’ultimo, per la parte che propone il mantenimento nell’elencazione dei consorzi e degli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori.

Resta sempre la proposta dell’onorevole Quintieri di eliminare l’indicazione relativa alle aziende municipalizzate.

Gli onorevoli Scoca, Carbonari ed altri, presentano a loro volta il seguente emendamento sostitutivo della prima parte della lettera c) sino alle parole «aziende municipalizzate»:

«c) le aziende dello Stato delle province e dei comuni e gli enti autonomi esercenti un pubblico servizio».

Invito il Governo ad esprimere il suo avviso su questi due emendamenti.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo accetta la formula, dell’emendamento proposto dall’onorevole Scoca che assorbe parzialmente l’emendamento dell’onorevole Pesenti. Il Governo accoglie quindi l’emendamento Scoca, mentre non accoglie l’emendamento Pesenti. Chiedo scusa agli onorevoli colleghi se, per semplificazione e per brevità, ridurrò al minimo la motivazione del pensiero del Governo.

LA MALFA, Relatore. Desidererei avere un chiarimento sull’emendamento Scoca. Chiedo cioè se egli intende mantenere il resto dell’alinea c) dalle parole: «i Consorzi e gli altri enti autorizzati» in poi.

SCOCA. Sì, lo mantengo.

LA MALFA, Relatore. Mi pare allora che ci troviamo nell’identica situazione di ieri sera: non ci comprendiamo affatto. Avendo modificato la lettera c) dell’articolo 1, non possiamo conservare ora questa lettera c).

PRESIDENTE. Cominciamo con il votare la prima parte dell’alinea c); poi esamineremo la parte successiva. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Scoca.

(È approvato).

Passiamo ora alla seconda parte della lettera c). Dopo la votazione avvenuta, dell’emendamento dell’onorevole Pesenti rimane il finale tendente a mantenere le parole: «le partecipanze e le università agrarie».

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze per esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è d’accordo nel concedere l’esenzione anche per le partecipanze e le università agrarie; per quanto sia molto improbabile che le partecipanze ed università agrarie posseggano un reddito di categoria B.

Vorrei, in proposito, soggiungere che tutti gli enti elencati nella categoria c) difficilmente posseggono un reddito di categoria B; ma, la semplice possibilità che questi enti posseggano un reddito di categoria B, basta per giustificare l’elencazione che il Governo chiede di mantenere. Il fatto che si tratti di ipotesi più teoriche che pratiche serva a tranquillizzare gli onorevoli colleghi in ordine alla ripercussione di queste esenzioni sul gettito del tributo straordinario. Si tratta effettivamente di una rinuncia molto limitata al tributo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Proporrei che per le partecipanze agrarie restasse convenuto che, se possono cadere nella categoria B, si includono; se no, non si includono nel decreto. Se sono escluse, come io penso, commettiamo un’incongruenza formale e giuridica. Quindi, se l’onorevole Pesenti accetta, faremmo a priori un accertamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi pare, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, che l’elencazione degli enti considerati nella lettera c) presupponga l’esistenza di un eventuale reddito di categoria B. Per chiarire meglio il concetto, si potrebbe far precedere o seguire la lettera c) dal riferimento al reddito di categoria B. Ciò non mi sembra però necessario, perché l’esistenza di un reddito di categoria B è il presupposto indispensabile per la soggezione alla imposizione, e pertanto anche un’elencazione di esenzioni soggettive dall’imposizione stessa deve presupporre la esistenza di redditi di categoria B.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. È meglio parlare chiaro, perché ho l’impressione che qui si giochi attorno alle parole.

La lettera b) dell’articolo 1 esenta gli enti, salvo per quella parte di patrimonio che è destinata ad attività produttiva tassabile in categoria B. L’articolo 2 stabilisce delle esenzioni assolute, cioè anche se vi fosse un reddito tassabile in categoria B. Ed allora, che cosa significa la proposta di alcuni colleghi di mantenere, oltre quelle aziende che effettivamente dovrebbero essere tassate, e anzi sono tassate, in categoria B, come le aziende municipalizzate e altre – perché svolgono un’attività produttiva – che cosa significa mantenere anche, per esempio, tutti gli enti religiosi e sopprimere l’ultima parte del comma c) del secondo articolo? Significa che vi è l’intenzione di non colpire, per esempio, un convento, se questo convento ha una scuola, nella quale fa pagare delle rette; significa non voler colpire una clinica privata, se gestita da suore o da religiosi. Ora, questo, in parole chiare, è quello che vorrebbe essere sostenuto dall’emendamento che propone il mantenimento di tutte queste indicazioni.

UBERTI. Ma non è un emendamento della Commissione?

PESENTI. Io desidero che l’Assemblea sia al corrente di questi fatti, perché, appunto, girando attorno alle parole, non si venga a cadere in errore.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti, noi abbiamo fatto già una prima votazione, che assorbe una parte delle sue proposte. Rimane da decidere in ordine alla sua proposta relativa alle partecipanze ed università agrarie. Decidiamo ora su questa. Mantiene il suo emendamento, onorevole Pesenti?

PESENTI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora, poiché la votazione di poco fa ha assorbito una parte dell’emendamento dell’onorevole Pesenti, rimane la parte relativa alle partecipanze ed università agrarie. Pongo in votazione quest’ultima parte.

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Voterò per questa parte dell’emendamento Pesenti in quanto è inclusa nel seguito dell’articolo che intendiamo mantenere fermo. Ciò non implica perciò l’esclusione del resto dell’articolo stesso.

PRESIDENTE. Questo lo vedremo dopo. L’Assemblea lo potrà anche escludere. Pongo dunque ai voti le parole: «le partecipanze e le università agrarie».

(Sono approvate).

Ricordo ora che nell’emendamento presentato dall’onorevole Dugoni si conservava l’altro inciso del testo della Commissione (che in realtà nel testo precede l’indicazione delle partecipanze ed università agrarie) e cioè: «i consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Io non sono in grado di riferire su questi emendamenti il pensiero della Commissione, ma come relatore mi oppongo alla inclusione di questa categoria.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. La portata dell’emendamento è molto limitata, l’urgenza dei lavori ci porta ad abbreviare la discussione. In considerazione delle limitate dimensioni del problema, il Governo accetta che siano esenti i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Faccio notare all’Assemblea che con questa dizione verrebbe ad essere esente l’Istituto cotoniero, che impone tributi obbligatori.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Devo – e mi dispiace – ricordare quanto al riguardo è stato detto in forma impegnativa dal Governo ieri, in sede di discussione dell’emendamento dell’onorevole Pesenti, che aveva postulato il problema di questi enti. È un problema che è stato risolto con l’impegno del Governo a rivedere le disposizioni concernenti la tassazione dei redditi mobiliari di categoria B.

LA MALFA, Relatore. Prendo atto della dichiarazione del Ministro; ma qualsiasi autorità giudiziaria che dovesse decidere sull’interpretazione della dizione «consorzi ed altri enti autorizzati», nonostante la dichiarazione dei Governo, metterebbe l’Istituto cotoniero fra gli enti esenti dalla tassazione straordinaria.

SCOCA. Se sorgesse qualche dubbio circa la estensione della formula usata dal testo che abbiamo sott’occhio, si potrebbe precisare il concetto dei consorzi qui contemplati, specificando che sono compresi nella esenzione solo i consorzi di bonifica, di miglioramento e di irrigazione.

LA MALFA, Relatore. Accetto.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto anch’io.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti la formulazione:

«i consorzi di bonifica, di miglioramento e di irrigazione».

(È approvata).

Segue l’altra elencazione che, a tenore della proposta dell’onorevole Scoca, dovrebbe restare.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Faccio presente che la lettera c) aveva un significato in quanto prima elencava tutte le esclusioni, e poi, in un ultimo comma, stabiliva che queste esenzioni dall’imposta non vi erano per la parte di patrimonio destinata ad una attività produttiva.

Oggi vi è la proposta dell’onorevole Scoca di mantenere la lettera c) nonostante la diversa dizione dell’articolo 1; e di togliere anche l’ultima limitazione col preciso scopo di rendere non tassabili quelle attività strettamente economiche svolte da enti religiosi. Allora, sicuro di interpretare il pensiero di almeno una parte dell’Assemblea, ripeto che è comprensibile che una tipografia di artigianelli sia retta da enti religiosi oppure da privati cittadini; e che un collegio di rieducazione dei traviati, di reduci del carcere o simili, che sono enti particolari di assistenza che non hanno fini di lucro, debbano essere esenti (e questa è una interpretazione che può dare direttamente l’amministrazione finanziaria); ma non è giusto che sia esente una clinica, sia pure retta da suore, la quale faccia pagare delle rette, faccia concorrenza alle cliniche private e si avvalga di quegli stessi medici che prestano la loro opera in cliniche private; non è giusto che sia esente un liceo-ginnasio che faccia la concorrenza a collegi e convitti di carattere privato. Perciò propongo che la seconda parte dell’alinea sia tolta in quanto essa, o è in contrasto con l’articolo 1 già approvato, oppure stabilisce delle esenzioni più larghe che non sono giustificate.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. L’onorevole Pesenti ha creduto di interpretare il mio pensiero, ma non so su quali basi, perché io non ho ancora avuto occasione di parlare.

La ragione per cui io richiedo che il resto dell’articolo rimanga così come è, è molto chiara ed ispirata a criteri molto più ampi che non quelli indicati dall’onorevole Pesenti.

Noi abbiamo tutta una elencazione, cominciando dalle Opere Pie, gli Istituti ed Enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; poi abbiamo le società di mutuo occorso; poi abbiamo le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli, indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani, ecc.

La ragione per cui ritengo che convenga conservare queste esenzioni di carattere soggettivo è semplice. Con l’articolo 1, lettera c), abbiamo sottoposto a tassazione gli enti morali soltanto per quella parte del patrimonio la quale è destinata alla produzione di un reddito tassabile in categoria B dell’imposta di ricchezza mobile.

Vi sono degli enti, come gli enti di assistenza e di beneficenza, che per vivere, per raggiungere il loro scopo benefico, esercitano una qualche modesta attività produttiva non con lo scopo di lucro, ma unicamente per alimentare questa opera di beneficenza ed assistenza.

Ora, io dico che sarebbe un errore sottoporre all’imposta sul patrimonio questa parte del patrimonio, una volta che è accertato che l’attività di questi enti è volta al raggiungimento di scopi di alto benessere sociale, quali sono l’assistenza e la beneficenza.

Già in base alla norma approvata questi enti sarebbero esenti, e solo sarebbero soggetti per quella parte del loro patrimonio che rientra in qualche modo nell’ingranaggio delle leggi normali, nell’ambito della ricchezza mobile. Ma qui ci troviamo di fronte ad una imposta straordinaria che tassa il patrimonio e porta via una parte di esso.

Ora, se questi enti devono raggiungere scopi di beneficenza ed assistenza e per raggiungere questi scopi svolgono una certa attività soggetta a ricchezza mobile, non è giusto che una parte qualsiasi dei beni da essi posseduti venga loro sottratta perché ciò impedirebbe il raggiungimento dei fini che si propongono.

Ecco quale era il significato della mia proposta.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea mi scusi se io devo riprendere la questione dall’inizio.

Ieri, l’emendamento del Governo ha ristretto la categoria di tassazione degli enti morali disponendo che si tassino solo gli enti morali che esercitano una attività produttiva di reddito tassabile in categoria B. Questo emendamento del Governo ha ristretto enormemente la base di imposizione e, direi, ha tolto qualsiasi ragion d’essere al provvedimento. Questo si chiama provvedimento sugli enti collettivi in quanto stabilisce la tassazione della generalità di questi enti.

Oggi con l’emendamento Scoca noi diciamo all’articolo 1: non tassiamo gli enti morali. Badate che gli enti morali, le istituzioni sono in genere fondazioni di beneficenza non aventi scopo di lucro. Quindi quando diciamo all’articolo 1, lettera c): enti morali tassabili in categoria B, vogliamo dire enti non aventi scopo di lucro che esercitano, per una parte della loro attività, una attività di lucro. Guardate allora le conseguenze dell’emendamento Scoca: nel primo articolo diciamo che se questi enti, che sono senza scopo di lucro, hanno una parte di attività a scopo di lucro, li tassiamo. Nell’altro articolo diciamo che se questi enti senza scopo di lucro hanno una parte di attività a scopo di lucro, non li tassiamo. Ora, da un punto di vista formale, questa è una assurdità. Prima tassiamo la parte produttiva avente lo scopo di lucro, poi non la tassiamo. Perché? Perché quando restringiamo la categoria dell’articolo 1, diciamo: Noi tassiamo gli enti di beneficenza, che non abbiano una finalità di lucro. Quando andiamo all’articolo 2, diciamo: Ma siccome sono enti di beneficenza, anche se hanno scopo di lucro, non li tassiamo.

Ecco l’assurdità. Ma qual è la sostanza di questa questione? Mi dispiace di dover ricordare, ai colleghi democristiani, il discorso di ieri.

UBERTI. L’abbiamo sentito.

LA MALFA, Relatore. Lo ripeto, e lo porto alla conclusione.

UBERTI. A nome personale.

LA MALFA, Relatore. Sì, a nome personale; mi basta.

Come dico, quando noi escludiamo dalla tassazione straordinaria. gli enti morali in sé, senza preoccuparci dei fini che essi hanno, noi in definitiva alla tassazione degli enti collettivi togliamo gran parte delle sue ragioni. Noi possiamo fare, rispetto alla categoria «Istituzioni, enti morali, fondazioni», delle esenzioni specifiche, ben determinate. Ma con questo sistema dei due articoli che si intrecciano fra loro, noi evidentemente la categoria c) la possiamo considerare soppressa praticamente dalla legge perché io domando quali enti rimangono sotto la categoria c) quando noi escludiamo tutti gli enti elencati alla categoria c-2 – enti di beneficenza, istruzione, società di mutuo soccorso – anche se esercitano una attività produttiva. Noi prendiamo solo pochi enti: l’Istituto mobiliare e l’Istituto delle assicurazioni, e, quest’ultimo se l’onorevole Micheli ce lo permette, perché ha presentato un emendamento per cui anche l’Istituto delle assicurazioni non dovrebbe pagare…

MICHELI. L’ho ritirato.

LA MALFA, Relatore. Non troveremo più di quattro o cinque enti da classificare nella categoria c). Ora io pregherei di rilevare anche una questione di giustizia tributaria in questo campo. Giustamente diceva l’onorevole Pesenti: o noi vogliamo far prevalere il concetto di fine di beneficenza, ed allora estendiamo la categoria c) dell’articolo 1 ed esentiamo gli istituti di beneficenza, o noi vogliamo far prevalere il concetto di tassabilità in categoria B ed allora manteniamolo fermo perché, con il sistema dell’emendamento Scoca, qualsiasi attività avente attinenza agli scopi della Chiesa, qualsiasi istituto ecclesiastico che rientra in quella sfera che interessa il cattolicesimo in Italia, non sarà tassabile. (Commenti – Proteste al centro). Non sarà tassabile né nella categoria B né fuori della categoria B.

Questo ho detto, onorevoli colleghi, per la mia responsabilità di relatore e, come dicevo ieri, la Commissione nella discussione di questo problema è stata di una equanimità e di una imparzialità assoluta.

Nella redazione originale del progetto presentato dalla Commissione si facevano esenzioni che, nella legge del 1922, rispetto ai patrimoni ecclesiastici, non erano previste. Lo spirito con cui la Commissione ha considerato questo problema degli enti ecclesiastici e delle attività connesse, è stato largo. Ma, con gli emendamenti che si propongono, si va alle esenzioni totali. Ripeto che veramente qui si viene a stabilire un privilegio assoluto per una categoria. (Interruzioni al centro).

Per queste ragioni, non solo da un punto di vista formale le lettere c) degli articoli 1 e 2 non hanno più senso comune, ma dal punto di vista di giustizia tributaria determinano l’impressione che altre decisioni gravi, che abbiamo preso, di tassazione rigida, non abbiano più fondamento. Se siamo stati rigidi per quelli che hanno 100.000 lire d’imponibile, dobbiamo mantenere la stessa rigidità in altri campi.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. È inesatto il rilievo dell’onorevole La Malfa, secondo il quale, se noi manteniamo l’elencazione della lettera c) dell’articolo 2, viene meno ogni zona tassabile ai sensi dell’articolo 1.

L’onorevole La Malfa non ha osservato che, secondo la lettera c), non tutte le attività svolte – per esemplificare, come ha fatto l’onorevole Pesenti – da suore o da istituti religiosi sono esenti, ma solo quelle attività svolte da suore o da altri, i cui enti abbiano scopi di assistenza o di educazione di indigenti, di infermi, orfani, fanciulli bisognosi, combattenti e reduci.

Cosicché, se vi sono suore o conventi, che non hanno questi scopi specifici di assistenza ed esercitano attività produttive, saranno tassabili.

Per una seconda osservazione, mi rivolgo all’onorevole Scoccimarro per questa ragione: l’altra sera, per un dovere di lealtà politica, io e il mio Gruppo abbiamo mantenuto un emendamento contro il parere del Governo; mi permetto, forte di questo precedente di richiamare allo stesso dovere di lealtà politica l’onorevole Scoccimarro, perché a me consta che ieri, quando si concordò l’emendamento circa le società cooperative, e noi, Gruppo democristiano, abbandonammo una certa tesi per aderire a quella delle sinistre, ci si era detto, in persona degli onorevoli Scoccimarro e Pesenti, che si aderiva a mantenere tutta l’elencazione della lettera c), meno i benefici, maggiori o minori, sui quali ci si riservava di dare battaglia.

Invito le sinistre, per coerenza e lealtà politica, a tener fede al loro impegno.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Chiedo scusa al signor Presidente; ma debbo anzitutto rilevare che la Commissione di finanza non ha potuto riunirsi da ieri sera a stamane, di modo che tutto quanto oggi dice a questo proposito l’onorevole La Malfa è espressione del suo pensiero personale, non della Commissione.

LA MALFA, Relatore. No!

SCOCA. Ciò premesso, debbo fare alcune osservazioni su quanto ha detto l’onorevole La Malfa, ed anzitutto sulla sua affermazione che il mantenimento delle esenzioni soggettive previste nella lettera c) dell’articolo 2 svuoterebbe di contenuto la lettera c) dell’articolo 1.

È argomento impressionistico, che non ha nessuna base e nessuna consistenza. La lettera c) dell’articolo 1 contempla genericamente le istituzioni, le fondazioni e gli enti morali in genere, per la parte di patrimonio la quale sia investita nella produzione di un reddito soggetto alla imposta di ricchezza mobile. Ma, evidentemente, quando abbiamo votato questa lettera c), ci siamo riferiti a quegli enti morali che effettivamente hanno funzione produttiva nel Paese e che non hanno forma di società. Così, per esempio, vi sono istituti bancari e creditizi che non hanno forma di società anonima ed è con riferimento a questi, principalmente, che ha contenuto la lettera c) dell’articolo 1, oltre che con riferimento ad altri organismi produttivi che non hanno la forma dell’anonima o delle altre società contemplate nelle lettere a) e b).

Poi debbo rilevare l’infondatezza di un’altra pretesa contraddizione. Dice l’onorevole La Malfa che, mentre nella lettera c) dell’articolo 1 abbiamo contemplato il fine di lucro per la tassazione, nella lettera c) dell’articolo 2 contempliamo lo stesso fine di lucro per l’esenzione. Ora, intendiamoci bene. La dizione che noi approvammo non parla di fini di lucro: la dizione della lettera c) è in questi termini: «istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere che esplicano attività produttiva di reddito tassabile, ai fini della imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Di modo che prescindemmo dalla considerazione dello specifico fine di lucro e considerammo il presupposto obiettivo dell’assoggettamento alla imposta di ricchezza mobile. Occorre ora considerare quegli enti che, avendo uno scopo che li fa ritenere degni dell’esenzione dal pagamento della imposta straordinaria sul patrimonio, vadano viceversa a cadere sotto la disposizione della lettera c) dell’articolo 1.

Nella lettera c) dell’articolo 2 poi, l’assenza di fini di lucro è esplicitamente contemplata, in quanto ivi si parla di enti «senza fini di lucro». Cosicché non vi è affatto la contraddizione rilevata dall’onorevole La Malfa. Qui, debbo aggiungere che la portata delle esenzioni è molto modesta: l’ha ripetuto più volte il Ministro, il quale ha detto che la zona che va esente per effetto della lettera c) dell’articolo 2 è di limitatissime proporzioni. Si tratta di sottrarre alla imposta sul patrimonio quelle modeste attività che esercitano taluni enti di assistenza e di beneficenza, che sono soggetti alla imposta ordinaria di ricchezza mobile in virtù di norme generali, ma non possono essere soggetti alla imposta straordinaria sul patrimonio, perché il fine ultimo ed essenziale di tali enti è quello di assistenza e di beneficenza.

È quanto meno esagerato riferirsi sempre e solo ad enti religiosi mentre ci sono molti altri enti che cadono sotto la lettera c) dell’articolo 2, i quali col carattere religioso nulla hanno a che vedere. Cito, ad esempio, talune attività esercitate dall’Associazione combattenti, da quella per i liberati dal carcere ecc.

Mi richiamo – e finisco – ad un precedente affine, che abbiamo votato di recente, cioè l’esenzione che abbiamo concessa alle cooperative aventi fini mutualistici. Benché le cooperative siano soggette alla imposta sul patrimonio in base alla norma generale, abbiamo deliberato che il fine di mutualità le esonera dal pagamento della imposta sul patrimonio. Non sono sullo stesso piano il fine mutualistico e i fini di beneficenza e di assistenza? Questo domando all’Assemblea.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Farò una brevissima dichiarazione, signor Presidente. Io ho ritirato ieri il mio emendamento per le ragioni che ho brevissimamente esposto. Ma siccome il Relatore, onorevole La Malfa, ha voluto accennare ad una particolarità, che cioè la tassazione si potesse applicare all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, io devo avvertirlo che esso Istituto si trova nelle condizioni di esenzioni già stabilite unanimemente dall’Assemblea e sopra le quali non si può più ritornare. Infatti l’Istituto non è tassato in categoria B, sia perché se vi sono utili essi vanno allo Stato sia perché tutti i proventi passano alle riserve unicamente per garanzia degli assicurati.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Micheli ha risposto alle argomentazioni dell’onorevole Scoca circa gli enti di lucro.

L’onorevole Scoca ha citato alcuni istituti di credito; ma se noi parliamo di fini di lucro, allora, anche il Banco di Napoli andrebbe esentato, perché, essendo una fondazione, non ha fine di lucro, anche se esercita una attività economica.

Ad ogni modo, alle argomentazioni dell’onorevole Cappi, per cui ieri c’è stato un accordo per questa esenzione specifica e per la esenzione delle cooperative, io devo rispondere che qui non possiamo fare una sorta di camera di compensazione delle esenzioni. (Approvazioni a sinistra). Questa sarebbe una maniera poco corretta di trattare i problemi fiscali, onorevole Cappi. Si deve discutere di far pagare i cittadini, non di fare accordi reciproci sulla esenzione di questa o quella categoria.

D’altra parte, nel testo originario, in cui si parlava, nell’articolo 1 lettera c), degli enti morali che esplicano attività produttive, non c’erano le esenzioni dell’articolo 2 lettera c). E giustamente, nel disegno di legge, non c’erano perché in quel provvedimento non potevano essere ammesse. Queste esenzioni sono state prese dal progetto della Commissione; quindi, si sono sommati due emendamenti. Il progetto del Governo non contempla nessuna esenzione per l’articolo 2; stabilisce tre categorie di imposizioni e le mantiene ferme. Questo è il progetto governativo.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero rispondere all’onorevole Cappi per il richiamo fatto ad una intesa che ieri sarebbe avvenuta a proposito di quest’articolo e della questione che si discuteva sulla cooperazione. È vero che ad un certo momento l’onorevole Cappi, riferendosi personalmente a me disse: «Se noi modificassimo il nostro atteggiamento, sul problema della cooperazione, sareste voi d’accordo nel mantenere la lettera c) dell’articolo 2?». Io dissi sì, ma vorrei spiegare all’onorevole Cappi che qui c’è stato uno strano equivoco. Siccome io parlando avevo annunciato che mi proponevo di avanzare la proposta di togliere l’esenzione per gli enti di assistenza e beneficenza per porre il problema del contributo allo Stato (problema che ho trattato diverse volte in sede di discussione generale), io pensavo che la sua richiesta fosse questa: se votando in quel modo sulla cooperazione, noi lasciavamo stare l’esenzione degli enti di assistenza e beneficenza. E su questo siamo d’accordo e manteniamo quanto abbiamo detto: non dico l’impegno, perché impegno non c’è stato, dato che era una conversazione; però mi accorgo adesso che lei, onorevole Cappi, ha dato una interpretazione eccessivamente estensiva. (Commenti al centro).

CAPPI. Lei ha parlato con l’onorevole Tosi, non con me.

SCOCCIMARRO. Comunque, io qui ho fatto un discorso per sostenere che a mio giudizio – e non posso cambiare opinione su questo argomento – qualunque ente svolga una attività economica lucrativa è tenuto a corrispondere il pagamento di questa imposta. È un concetto che ho sostenuto da lungo tempo anche nella discussione generale sul provvedimento.

La tesi che io ho sempre sostenuto è che bisognava togliere dalle esenzioni anche gli enti di assistenza e beneficenza, ed ammettere il principio, invece, del contributo dello Stato, che potrebbe essere anche superiore a quella parte di imposta patrimoniale.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Volevo precisare che ieri mattina, dopo la votazione della lettera c) dell’articolo 1, io dissi che la lettera c) dell’articolo 2 avrebbe dovuto essere soppressa, o ridotta a due o tre voci. E su questo si sono trovati d’accordo anche gli onorevoli Tosi, Vicentini ed altri. Quindi, tutta la lettera c) dell’articolo 2 avrebbe dovuto cadere secondo quanto si è detto. Questo era il preciso accordo intervenuto, tanto è vero che l’onorevole Conti non lesse tutta la parte dell’articolo 2 riferentesi alla lettera c) poiché eravamo d’accordo che in grandissima parte doveva cadere.

PRESIDENTE. Desidero chiarire che, per tutto ciò che è stato detto in Aula nelle sedute precedenti, vi sono i resoconti stenografici ed i verbali che fanno testo; per quanto riguarda le discussioni fatte fuori dall’Aula, desidererei che a queste non ci si richiamasse, perché non hanno nessuna importanza agli effetti del lavoro legislativo che si svolge in Aula.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi si permetta di manifestare il mio personale rammarico per l’aspetto polemico che ha assunto questa discussione, che deve restare sul piano evidentemente tecnico, nel quadro, naturalmente, della discussione di un orientamento politico tributario. Non posso condividere l’affermazione dell’onorevole La Malfa, il quale, non soltanto ha detto che, se entrasse in vigore il proposto sistema di esenzioni, il disposto dell’articolo 1, lettera c), diverrebbe praticamente inefficace; egli ha detto che verrebbero addirittura meno le ragioni di essere del provvedimento.

Il Governo non è di questo parere, perché il più esteso campo di applicazione del provvedimento che si discute è quello delimitato dalla lettera a) relativa alle società per azioni, e dalla lettera b) relativa alle società in accomandita semplice ed in nome collettivo.

Per quanto riguarda la lettera c), il Governo ha espresso chiaramente il proprio pensiero: desidera che siano mantenute le proposte esenzioni a favore di quegli istituti ed enti che svolgono un’attività di elevatissimo interesse sociale. Questo è il significato delle esenzioni: esse riguardano istituti che possono appartenere a tutti i settori, al settore ecclesiastico come al settore laico, al settore cattolico come a quello acattolico; se poi queste attività filantropiche prevalgono in determinati settori non credo sia questa una ragione per negare un’agevolazione che il Governo intende accordare. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione della rimanente parte dell’alinea c).

Pongo ai voti la formulazione:

«le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti».

(Dopo prova e controprova è approvata).

Pongo ai voti le parole:

«le società di mutuo soccorso».

(Sono approvate).

Pongo ai voti le parole:

«le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fini di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli».

(Sono approvate).

«gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti».

(Sono approvate).

«gli istituti pubblici di istruzione».

(Sono approvate).

«i corpi scientifici, le Accademie e società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali».

(Sono approvate).

Avverto che all’ultimo inciso è proposto questo emendamento dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro ed altri:

«Sostituire alle parole: i benefici ecclesiastici maggiori o minori, le altre: i benefici ecclesiastici aventi diritto a congrua».

Quale è il parere del Ministro delle finanze?

PELLA, Ministro delle finanze. Per le ragioni esposte su questo concetto in sede di discussione dell’imposta straordinaria progressiva, il Governo respinge l’emendamento proposto e chiede sia mantenuta ferma la formula più ampia: «i benefici ecclesiastici maggiori o minori».

Il Governo desidera aggiungere che, parlando di benefici ecclesiastici maggiori o minori, dopo aver parlato di enti equiparati a norma dell’articolo 29 del Concordato, non intende che ciò possa essere interpretato nel senso che i benefici ecclesiastici maggiori e minori non siano da ritenersi compresi nell’articolo 29 del Concordato. (Interruzione del deputato Scoccimarro).

È una questione su cui il Governo può avere una sua opinione, ma non è questa la sede perché questa possa essere discussa. Desidero semplicemente, agli effetti della legge che si discute, affermare che l’aggiunta degli enti ecclesiastici maggiori e minori, dopo aver parlato dell’articolo 29, non può significare adesione al concetto di ritenere estranei all’articolo stesso i benefici ecclesiastici maggiori e minori.

Questa è la portata della dichiarazione che credo avere il dovere di fare a nome del Governo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento degli onorevoli Pesenti e Scoccimarro.

(Dopo prova e controprova non è approvato).

Pongo ai voti il testo della Commissione:

«i beni ecclesiastici maggiori o minori».

(È approvato).

Passiamo ora all’ultimo comma:

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Vi è una proposta del Governo di soppressione del comma. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. La proposta di sopprimere l’ultimo comma è conseguenza della modificazione apportata all’articolo 1 delle esenzioni che sono state comprese nell’articolo 2 lettera c). Quindi, mantengo fermo l’emendamento governativo per la soppressione di questo ultimo comma.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Ho chiesto di parlare per affermare che l’ultimo comma dell’articolo 8 è in contrasto con l’articolo 1, allo stesso modo in cui può essere in contrasto tutta la lettera c) del 2° articolo. Se non si è trovato il contrasto nella lettera c) del 2° articolo, non può esservi contrasto nemmeno all’ultimo comma.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta del Governo di sopprimere l’ultimo comma di questo articolo.

(È approvata).

Passiamo al successivo terzo articolo:

«Per le cooperative la condizione relativa ai principî ed alle discipline della mutualità, di cui all’articolo precedente, s’intende sodisfatta quando, nello statuto della società cooperativa, legalmente costituita, siano espressamente stabilite le clausole seguenti:

1°) divieto, in caso di distribuzione di dividendi, di superare la ragione dell’interesse legale, ragguagliato al capitale effettivamente versato;

2°) divieto di ogni riparto delle riserve fra i soci, durante l’esistenza della società;

3°) devoluzione, in caso di cessazione della società, dell’intero patrimonio sociale, previo rimborso del solo capitale effettivamente versato dai soci, a fini di pubblica utilità, riconosciuti tali dall’Amministrazione finanziaria.

«L’esenzione non si applica quando l’Amministrazione finanziaria constati che le clausole indicate ai numeri 1°) e 2°) non sono state, in fatto, osservate negli ultimi cinque anni».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che dopo l’emendamento che abbiamo accettato alla lettera b, dell’articolo 2, questo articolo sia inutile, perché le condizioni per il riconoscimento delle cooperative sono implicite in quell’emendamento.

PRESIDENTE. Lei, perciò, propone di sopprimere questo articolo?

LA MALFA, Relatore. Sì.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io non sono d’accordo sulla soppressione proposta dall’onorevole La Malfa. Deve essere ben chiaramente stabilito quale è il limite entro cui può operare l’Amministrazione finanziaria nei confronti delle cooperative. Non possiamo lasciare le cooperative alla mercé di questo o quell’ufficio. Quindi io chiedo che il presente articolo sia coordinato col comma b) dell’articolo precedente, ma che sia mantenuto nel suo complesso.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. L’emendamento all’articolo 2 parla di una decisione dell’Amministrazione sentito il Ministero del lavoro, che istituirà un registro delle cooperative. Quindi, dal momento che il Ministero del lavoro riconosce le cooperative in quanto le iscrive nel registro, l’articolo 3 è inutile. L’accertamento dovrebbe farlo il Ministero del lavoro, non il Ministero delle finanze.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Vorrei associarmi a quanto ha detto l’onorevole Dugoni, perché occorre porre limiti precisi e stabilire le condizioni in base alle quali avviene il riconoscimento delle cooperative.

PRESIDENTE. Prego il Ministro di esprimere il suo parere in merito.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo che rimanga fermo l’emendamento proposto dalla Commissione, perché riguarda la enunciazione di tre requisiti obiettivi, indispensabili per completare la nozione delle cooperative.

L’enunciazione stessa potrà riuscire utile anche per il Ministero del lavoro, quando dovrà dare il parere di sua competenza.

Ricordo, d’altra parte, che il Governo aveva dato parere favorevole all’emendamento votato ieri in connessione a questo emendamento n. 3. Chiedo quindi che sia mantenuto fermo l’emendamento.

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Chiedo che all’articolo 3 anziché dire «ai fini di pubblica utilità» si dica: «all’incremento di attività e di istituzioni cooperativistiche».

Noi pensiamo che tutto quello che si riferisce al movimento cooperativistico debba rimanere al movimento stesso. La dizione «ai fini di pubblica utilità» è generica, mentre in un momento nel quale si vuol valorizzare la cooperazione è giusto che le cooperative traggano beneficio da quello che viene loro dal movimento cooperativistico.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Pregherei i colleghi e l’onorevole Ministro di non insistere.

Noi abbiamo scelto quella formula alla lettera b) dell’articolo 2, perché pensavamo che garanzie sul carattere vero delle cooperative potessero esser date dall’indagine affidata al Ministero del lavoro, il quale, istituendo un registro delle cooperative, farà un accertamento non soltanto sui dati formali, ma anche sulla natura cooperativistica. Quindi, in un certo senso, l’amministrazione finanziaria ha la sua garanzia sul carattere delle cooperative dal fatto che il Ministero del lavoro deve dare il suo parere favorevole.

Se formuliamo questo articolo 3, mettiamo con esso delle condizioni obiettive all’indagine del Ministero del lavoro, che di conseguenza viene limitata, e le poniamo preventivamente, mentre non conosciamo i criteri che il Ministero vorrà seguire.

Richiamo l’attenzione sulla pericolosità di creare condizioni che, così formalmente espresse, possono prestarsi all’inclusione anche di cooperative spurie; mentre il Ministero del lavoro, facendo un accertamento concreto e diretto dirà: questa cooperativa non è una cooperativa, e lo dirà in base ad elementi di indagine, seri e concreti.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Vorrei proporre un emendamento, perché quello che dice l’onorevole La Malfa è effettivamente esatto, se si pone in relazione con la dizione letterale dell’articolo. Se si dice che «la condizione relativa ai principî e alle discipline della mutualità si intende soddisfatta quando ecc.», si pongono delle condizioni, ricorrendo le quali si deve riconoscere senz’altro che esiste il requisito della mutualità.

A me pare che occorra mutare la formula; cioè bisogna esigere che nello Statuto delle cooperative queste clausole siano inserite, ma è necessario che concorra anche il giudizio del Ministero. Tale inclusione è il minimum richiesto perché sia riconosciuto il fine di mutualità, ma ciò non basta; occorre che le disposizioni siano seriamente osservate. Da ciò il mio emendamento:

«Dopo le parole: all’articolo precedente, aggiungere le altre: è in ogni caso subordinata all’esistenza nello statuto delle seguenti clausole, sopprimendo il testo del comma».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Aderisco all’emendamento dell’emendamento.

Per quanto riguarda l’emendamento dell’onorevole Cimenti, pur non escludendo che la destinazione a scopo cooperativo rappresenti una forma di destinazione a fini di pubblica utilità, non posso accettare l’emendamento proposto.

Chiedo che resti ferma l’espressione «fini di pubblica utilità».

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Io voterò l’emendamento dell’onorevole Cimenti e credo che si possa aggiungere anche «o di pubblica utilità».

Effettivamente dicendo semplicemente «di pubblica utilità» potrebbe essere limitato il diritto di una cooperativa che si scioglie a rimandare il suo capitale ad un’altra cooperativa che si è ricostituita.

Ecco perché credo che l’una cosa possa non escludere l’altra.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei osservare che inserendosi la formula dei «fini cooperativistici» si escluderebbe, in forza di legge, il principio che lo scopo cooperativo rientra nel concetto di «pubblica utilità», mentre tutte queste esenzioni, compresa quella a favore delle cooperative, si inquadrano nel concetto di agevolare gli enti che svolgono fini di «pubblica utilità».

Vorrei pregare l’onorevole Piemonte di accontentarsi dell’assicurazione che il Ministero, in sede di istruzioni, definendo il concetto di «pubblica utilità», vi farà rientrare anche la destinazione a scopo cooperativistico.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte dell’articolo che, in base all’emendamento Scoca, dovrebbe essere così formulata: «Per le cooperative la condizione relativa ai principî ed alle discipline della mutualità di cui all’articolo precedente, è in ogni caso subordinata all’esistenza nello statuto delle seguenti clausole».

(È approvata).

Pongo ai voti le clausole:

«1°) divieto, in caso di distribuzione di dividendi, di superare la ragione dell’interesse legale, ragguagliato al capitale effettivamente versato».

(È approvata).

 

«2°) divieto di ogni riparto delle riserve fra i soci, durante l’esistenza della società».

(È approvata).

Sulla terza clausola vi sono gli emendamenti presentati dagli onorevoli Cimenti e Piemonte.

Onorevole Cimenti, mantiene il suo emendamento?

CIMENTI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Piemonte?

PIEMONTE. Anch’io lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti la terza clausola che è del seguente tenore:

«3°) devoluzione, in caso di cessazione della società, dell’intero patrimonio sociale, previo rimborso del solo capitale effettivamente versato dai soci, a fini di pubblica utilità, riconosciuti tali dall’Amministrazione finanziaria».

(È approvata).

Passiamo all’ultimo comma:

«L’esenzione non si applica quando l’Amministrazione finanziaria constati che le clausole indicate ai numeri 1°) e 2°) non sono state, in fatto, osservate negli ultimi cinque anni».

(È approvato).

Vi è ora una proposta di articolo aggiuntivo presentata dagli onorevoli Perassi e De Vita, del seguente tenore:

«Le esenzioni stabilite dai numeri 4, 5 e 6 dell’articolo 8 si applicano al patrimonio dei soggetti indicati nell’articolo 1 del Titolo III».

L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

PERASSI. L’articolo aggiuntivo è motivato dalla necessità di armonizzare, su un punto, le disposizioni relative all’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi con quelle, già approvate, dell’imposta progressiva sul patrimonio delle persone fisiche.

Gli articoli 3 e 4, che abbiamo già approvato, stabiliscono delle esenzioni soggettive, indicando cioè alcuni enti collettivi nei riguardi dei quali vi sono ragioni per escluderli dalla tassazione. Essi trovano il loro parallelo nell’articolo 7 del titolo relativo all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio delle persone fisiche che stabilisce pure delle esenzioni soggettive. Ma nella legge concernente l’imposta sul patrimonio delle persone fisiche vi è anche un articolo 8, il quale contiene delle esenzioni oggettive, indica cioè alcuni cespiti i quali non vengono considerati ai fini dell’applicazione dell’imposta.

Ora, a noi pare che talune esenzioni oggettive, che sono indicate nell’articolo 8 agli effetti dell’imposta concernente le persone fisiche, devono essere estese per evidenti ragioni, anche all’imposta straordinaria proporzionale che è stata istituita a carico degli enti collettivi.

Nell’articolo 8 si è accordata l’esenzione per i seguenti cespiti: le chiese ed ogni altro edificio destinato al culto, con il mobilio, gli arredi sacri e qualunque altro oggetto di spettanza della chiesa. A questo riguardo vorrei aprire una parentesi e fare una raccomandazione alla Commissione: in sede di coordinamento formale, sarebbe opportuno, anziché «di spettanza della chiesa», perché i beni in questo caso si suppone non siano della chiesa, come soggetto, ma di un privato, dire, come del resto era stato proposto dall’onorevole Costa, «inservienti al culto» oppure «di compendio della chiesa».

La seconda esenzione concerne i titoli del prestito della ricostruzione. Questa esenzione è prevista dall’articolo 4, ma verrebbe assorbita dall’articolo aggiuntivo da me proposto.

Infine, all’articolo 8, si prevede l’esenzione per le cose mobili che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, ecc.

A me pare che queste tre categorie di cespiti debbano avere il medesimo trattamento agli effetti dell’una e dell’altra imposta, poiché le differenze fra queste due imposte sul patrimonio non giustificherebbero un’esenzione per l’uno e non per l’altra.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta.

PRESIDENTE. E il Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto per quanto, forse, qualcuna di queste voci non potrà trovare ingresso nei patrimoni che saranno tassabili ai sensi dell’articolo 3.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo aggiuntivo 3-bis proposto dagli onorevoli Perassi e De Vita.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 4, proposto della Commissione:

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è quello risultante dalla valutazione effettuata a norma dell’articolo 18.    

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni non sono quotate in borsa, e delle società non per azioni è quello risultante dalla valutazione effettuata a norma dell’articolo 19.

«Per tutti gli altri soggetti il patrimonio è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti del presente decreto.

«Dall’imponibile, valutato come sopra, è detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato.

«I titoli del prestito della Ricostruzione, autorizzato con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 26 ottobre 1946, n. 262, che non siano stati convertiti in titoli 5 per cento, sono detratti integralmente, al prezzo di emissione».

Sui primi tre commi non sono stati presentati emendamenti. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto il testo proposto dalla Commissione.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i primi tre commi nel testo proposto dalla Commissione.

(Sono approvati).

Passiamo al quarto comma:

«Dall’imponibile, valutato come sopra, è detratta una percentuale del valore delle azioni delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

Su questo comma, vi sono emendamenti soppressi degli onorevoli Dugoni, Pesenti e Maltagliati.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione, a maggiore chiarimento del concetto di detrazione, vorrebbe che, al quarto comma, anziché «rispetto» alle altre passività, si dicesse «rispetto al loro ammontare aumentato delle passività».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro per le finanze. Il Governo non è sempre d’accordo con l’onorevole relatore; e ciascuno, in omaggio al proprio senso di responsabilità, deve, in determinati momenti, difendere quella che ritiene la soluzione più equa, più opportuna, più confacente agli scopi che questa legge vuole raggiungere. Ciò però non mi esonera dall’obbligo di felicitarmi con l’onorevole Commissione ed in particolare con l’onorevole relatore, a cui si deve personalmente la formula adottata per la risoluzione dello spinoso problema dei titoli azionari posseduti da altre società.

La formula che viene proposta, di detrazione in funzione di un certo rapporto proporzionale – che si vede nell’emendamento – forse non sarà di pieno soddisfacimento per i teorici puri e per gli amanti delle soluzioni esatte al cento per cento.

Naturalmente non soddisferà coloro che avrebbero desiderato una detrazione totale, come non soddisferà coloro che avrebbero desiderato il rigetto di qualsiasi detrazione. Ma la formula proposta è una intelligente formula di transazione, che, in sede empirica, mi sembra raggiunga quell’optimum di cui si era alla ricerca.

Per questo il Governo accetta la formula per le azioni e le quote di partecipazione; mentre per determinati titoli, deve avanzare qualche eccezione; e precisamente sui titoli di Stato. Di questi il Governo deve richiedere la detrazione dall’imponibile dei diversi enti per il loro intero valore e non solo per una quota proporzionale. Ciò per due considerazioni: la prima è di ordine generale, giacché non solo a parole, ma in forma tangibile il Governo e l’Assemblea debbono manifestare le loro intenzioni di cordialità nei confronti di quanti hanno avuto fiducia nello Stato, sottoscrivendo ai diversi prestiti.

I portatori dei titoli di Stato hanno sofferto abbondantemente in seguito alla svalutazione, che una corrente dottrinaria vede in funzione di vera e propria imposta che, volontariamente od involontariamente, lo Stato, finisce per imporre ai portatori dei titoli. Né varrebbe obbiettare che i titoli passano da un portatore all’altro, per cui l’attuale portatore non è più quello che originariamente ha sottoscritto in moneta non svalutata. Negli ultimi sei mesi si è verificato uno slittamento dei prezzi, che ha inevitabilmente inciso il portatore attuale del titolo.

Vi è poi una seconda ragione per cui il Governo ritiene d’insistere per la detrazione totale. Qualunque sia l’inquadramento che avrà questo tributo, di cui si sta discutendo, nel sistema tributario italiano ed anche se esso sarà considerato come tributo personale in largo senso – modestamente ritengo invece che debba essere collocato tra i tributi reali – è evidente che esso può considerarsi come un tributo che raggiunge i singoli elementi costitutivi del patrimonio. Un tributo, quindi, che, non ammettendosi la detrazione dei titoli di Stato, colpirebbe in primo quei titoli che, al momento dell’emissione, sono stati dichiarati esenti da qualsiasi imposta presente e futura.

Se l’opinione pubblica, fino ad un certo punto, ha dovuto prendere atto della esattezza della distinzione fra imposte personali vere e proprie ed imposte reali, per giustificare l’assoggettamento dei titoli di Stato all’imposta complementare sul reddito o all’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, malamente si convincerebbe che la clausola di esenzione non operi nei confronti dell’imposta straordinaria di cui si discute.

Per questo, vorrei pregare l’onorevole Commissione di non dolersi se il Governo chiede che l’emendamento all’articolo 4 sia rettificato, nel senso di ammettere la detrazione totale dei titoli di Stato e di quegli altri titoli che, all’atto dell’emissione, siano stati dichiarati esenti da qualsiasi imposta presente e futura. Per tutti gli altri titoli il Governo aderisce alla formula della detrazione proporzionale, di cui all’emendamento della Commissione.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Ministro delle finanze formula così il suo emendamento:

«Dopo le parole: valutato come sopra, sostituire alle parole: è detratta, fino a: soggetto, le seguenti: è detratto l’ammontare dei titoli di Stato e degli altri titoli dichiarati esenti da imposta all’atto dell’emissione. Inoltre, è detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione e degli altri titoli, che già non siano detratti per intero, posseduti dal soggetto».

JACINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

JACINI. Aderisco interamente al punto di vista svolto dal Ministro delle finanze, anche per un’altra considerazione. Io ho già avuto l’onore di fare notare all’Assemblea le condizioni particolarmente delicate in cui si trova oggi il risparmio italiano e la scarsa attrattiva che il risparmio rappresenta per i cittadini. Ora, è notorio che le Casse di risparmio sono obbligate dallo Stato a tenere nei loro forzieri enormi quantità di titoli di Stato, i quali per il solo fatto che rimangono in quelle Casse rappresentano una perdita, una detrazione del valore patrimoniale detenuto dalle Casse medesime. Perciò, se noi volessimo caricarle anche di questo tributo arrecheremmo un ulteriore gravame, che certo andrebbe a tutto danno del risparmiatore.

Per questi motivi, io aderisco toto corde alla proposta di esenzione formulata dal Ministro delle finanze.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Il criterio che la Commissione ha adottato circa la detrazione di titoli per impedire la doppia imposizione è un criterio nuovo nella legislazione italiana. I criteri adottati nelle precedenti leggi patrimoniali sono stati del tutto empirici, e, direi, talmente irrazionali da portare a certi assurdi di applicazione.

In sostanza, e mi riferisco alla proposta del Ministro delle finanze, il problema di fronte a cui si è trovata la Commissione è questo: se si ammette la detrazione dei titoli al di fuori della valutazione di quello che è il patrimonio netto di un’azienda, spesso si arriva all’assurdo che lo Stato, rispetto a quest’azienda, quando il valore di quei titoli sia superiore al patrimonio netto, deve dare una quota di imposta all’azienda e non la può prendere. Faccio un esempio concreto che riguarda appunto le Casse di risparmio e i titoli di Stato. Supponiamo che all’attivo di una Cassa di risparmio i titoli di Stato siano tali che superino il patrimonio netto della Cassa stessa. Ciò può avvenire perché dato che una Cassa di risparmio è alimentata da depositi di terzi, essa può avere impiegato in titoli di Stato più del suo patrimonio. In questo caso, la Cassa di risparmio non solo non paga nessuna imposta, ma a rigore dovrebbe avere diritto a prendere imposte, cioè cessa del tutto la materia imponibile.

Ora, questo è l’assurdo a cui si arriverebbe. Ecco perché, anche nei rispetti dei titoli di Stato, la Commissione deve mantenere la sua proposta, perché razionale. Che cosa dice la proposta della Commissione? La Cassa di risparmio è esente per quanto riguarda i titoli di Stato, in quanto il suo patrimonio netto sia investito in titoli di Stato. Ma se l’investimento in titoli di Stato è corrispettivo al deposito dei terzi, la Cassa di risparmio non può essere esente, per i titoli di Stato. Ci può essere una questione: quella dell’esenzione dei titoli dalle imposte reali.

Ora, se questa fosse una imposta come le altre, la Commissione potrebbe prendere in considerazione tutte le esenzioni; ma voi sapete che nell’imposta progressiva il contribuente è tenuto a dichiarare anche i titoli di Stato. Probabilmente il contribuente cercherà di non dichiararli, ma l’obbligo c’è, e c’è al punto che i titoli nominativi sono tassabili anche se esenti da imposta.

Ora, se noi facessimo un trattamento di favore in questa sede, faremmo un trattamento diverso agli enti e più favorevole di quello che facciamo ai privati. Il criterio è perciò quello della equità rispetto a tutti gli istituti; e quindi, se l’onorevole Ministro crede, manteniamo un criterio che può avere anche una applicazione generale in seguito, perché dà la misura di una giustizia contributiva riferendola al patrimonio netto delle aziende.

PRESIDENTE. Vi è una proposta dell’onorevole Pesenti di sopprimere il comma.

PESENTI. È la stessa proposta che fa l’onorevole Dugoni ed a cui mi associo.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Il quarto comma dell’articolo che stiamo esaminando prevede che: «Dall’imponibile, valutato come sopra, sia detratta una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione, dei titoli di Stato o garantiti dallo Stato, posseduti dal soggetto, corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto alle altre passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

Il testo è estremamente confuso. Questa impostazione si presta a due interpretazioni diverse, che danno un risultato completamente opposto, ma su questo, se del caso, ritorneremo successivamente.

Bisogna cercare, secondo me, di capire tutta l’economia dell’articolo. Al primo comma è stabilito che la tassazione delle società anonime, i cui titoli sono quotati in Borsa, si fa moltiplicando per il valore di Borsa il numero delle azioni che costituiscono il capitale sociale. Cioè, il patrimonio è tassato attraverso un’operazione meccanica, che è semplicissima: tanto il valore in Borsa, tanto il numero delle azioni, tanto di imposta. Cioè, non interessa affatto la composizione del patrimonio, la quale è un elemento che è fuori della valutazione. Noi possiamo anche supporre che ci siano delle miniere d’oro le quali esistono solo nella fantasia di un gentiluomo che ne abbia inventato l’esistenza, ed abbia creato una società, abbia fatto ammettere le azioni in Borsa, le abbia fatte quotare – non è la prima volta che ciò succede, è successo cento volte. Ebbene, anche se queste miniere non esistono, anche se questa azienda, non ha nessun patrimonio, dovrà corrispondere l’imposta in dipendenza della valutazione di queste azioni.

Questa è la posizione.

Quando, invece, si è trattato di tassare le azioni che erano all’interno del patrimonio, allora si è fatto un altro ragionamento. Si è detto: «No, non ci interessa più la valutazione in Borsa, ci interessa la composizione del patrimonio». Cioè, si sono messi insieme due elementi completamente eterogenei.

Ora, vediamo un poco come ragiona l’operatore di Borsa. L’operatore di Borsa, presso a poco, fa un ragionamento di questo genere: «Il bilancio è questo, cioè vi sono delle attività; da queste attività detraggo le passività verso terzi: questo mi dà il patrimonio netto. Divido questo valore netto per il numero delle azioni; compero queste azioni a questo valore, se me le vendono; se non me le vendono a questo valore, non le compero».

Questa è la valutazione dell’operatore di Borsa; cioè l’operatore di Borsa ha già detratto, nella sua valutazione, le passività della azienda, grosso modo. Aggiunge poi altri elementi di previsione. Ma, sostanzialmente, la base è il bilancio dell’azienda.

Invece, il testo della Commissione fa una proposta di ulteriore deduzione. Il patrimonio in Borsa è già valutato al suo valore netto: la Commissione propone che dalla valutazione così effettuata dalla Borsa si attui una detrazione, cioè quella dei titoli esistenti in portafoglio, per una parte che sarà calcolata secondo un determinato modo. E questo modo di determinazione della parte da dedurre è veramente strano, perché è una percentuale dei titoli posseduti dalla società, pari al rapporto in cui si trovano il capitale, le riserve e i fondi di rivalutazione monetaria rispetto al totale del passivo della società.

Con questo sistema, noi arriviamo, prima di tutto, a colpire di più le aziende passive e meno le aziende attive; cioè, una azienda la quale abbia già dei gravami importanti per debiti verso terzi, quell’azienda ha ancora da pagare una maggiore imposta, mentre un’altra azienda che non abbia nessun debito, si vede detratta la totalità del suo patrimonio azionario.

In secondo luogo, noi siamo in questa disgraziata situazione: che, se noi approviamo l’emendamento quale è proposto qui, noi avremo come risultato di premiare tutte le costituzioni di aziende fittizie, destinate dall’origine a frodare il Fisco, cioè si costituirà un premio alla frode per sistema.

Quindi, resti ben chiaro che noi eleviamo una protesta contro un sistema che costituisce un premio verso quelle aziende che, dal giorno della loro esistenza, cioè dal gennaio 1926 – parlo delle holdings e delle società finanziarie – non fanno altro che sistematicamente sottrarsi alle leggi fiscali. E questa, del resto, è la ragione principale della costituzione di queste società a catena.

In secondo luogo, faccio osservare che la detrazione, come è proposta dall’emendamento della Commissione, è un premio alle aziende che hanno rivalutato. Cioè, prendiamo due aziende che abbiano la stessa situazione al 1° gennaio 1946: l’una nel corso dell’annata ha rivalutato; l’altra non ha rivalutato. Che cosa succede? Che la proporzione fra le riserve e gli altri fondi rispettosi totale della passività è aumentata enormemente, perché, rivalutando, avrà moltiplicato per dieci, per otto, per quello che sarà, il suo capitale e le sue riserve: e in queste condizioni le passività vengono ad essere solo il 10 o 15 per cento del totale delle passività. Un esempio tipico è quello delle aziende elettriche, le quali, avendo tutte rivalutato, hanno praticamente ridotto ad una percentuale insignificante i debiti obbligazionari e gli altri debiti che avevano verso terzi, i quali, essendo espressi in moneta corrente, in lire, non subiscono nessuna variazione in seguito alla operazione di rivalutazione.

Infine, farò osservare che le aziende le quali sono costituite allo scopo di comperare azioni dalla Società-madre, vengono a costituire una vera e propria doppia esenzione. E mi spiego con un esempio: ammettiamo che la «Montecatini» abbia – come ha – delle società anonime, le quali abbiano per scopo di comperare azioni dalla Società anonimia «Montecatini». La «Montecatini» cede un certo numero di azioni proprie, che ha nel proprio portafoglio, a una di queste nuove società. Questa anonima, in cambio, cede le proprie azioni costitutive alla «Montecatini»; di modo che noi abbiamo questa posizione: movimento di denaro, zero. Si scambiano le azioni che costituiscono l’apporto in costituzione della società fittizia da una parte, e dall’altra, le azioni della società costituita che entrano nel portafoglio della «Montecatini». In questo momento, la società così costituita ha un grosso pacchetto azionario e non ha un centesimo di debito, perché tutto il suo capitale consiste nell’aver messo in una cassaforte queste azioni della «Montecatini». Allora si detraggono dal patrimonio della società fittizia tutti i titoli della «Montecatini», perché non ci sono passività. Dal patrimonio della «Montecatini» si deducono poi proporzionalmente per il 20, per il 30 per cento, i valori dei titoli che sono rappresentativi di questa società fittizia, in modo che si esonera in realtà la «Montecatini» da una parte dell’imposta, la società fittizia dalla totalità della sua imposta straordinaria. Questo è quello che noi otteniamo con questo sistema.

D’altra parte, io ho esaminato alcuni bilanci di holdings, di aziende finanziarie. Del resto, non ci sarebbe bisogno di dare degli esempi molto numerosi. Prendiamo ad esempio la Società Adriatica di elettricità. Questa società ha un rapporto fra capitale sociale, riserve legali, riserve diverse, residui sugli attivi di rivalutazione, del 30 per cento rispetto alla totalità del passivo; ha nel suo portafoglio circa 3 miliardi e 900 milioni di azioni. Questo significa che da 7 miliardi 800 milioni di azioni, valore di Borsa del periodo 1° gennaio-28 marzo, noi dovremo detrarre il 30 per cento delle azioni possedute, cioè oltre un miliardo: precisamente un miliardo e 300 milioni. Dal bilancio della S.T.E.T. noi ricaviamo che dobbiamo togliere ben il 47 per cento al valore fissato per il suo patrimonio dalla Borsa nel periodo 1° gennaio 28 marzo, che era all’incirca 6 miliardi. Da questi 6 miliardi dovremo togliere circa 3 miliardi 500 milioni. Dalla Società meridionale elettricità noi dobbiamo togliere il 30 per cento, cioè circa 1 miliardo 500 milioni su 4 miliardi e 500 milioni di capitale valutato alla Borsa.

Con questo noi attuiamo una vera e propria imposta degressiva perché alle Società la cui valutazione in borsa è fatta in quel determinato modo noi togliamo (caso della Società meridionale elettricità) circa un terzo dell’imposta, mentre le piccole società che non sono fittizie, che non hanno frodato il fisco e che hanno solo investito danaro per comprare macchine per dar lavoro agli operai, queste pagheranno completamente la loro imposta di modo che assisteremo al fatto che l’imposta per la Società meridionale di elettricità si ridurrà dal 5 per cento ai 3 e mezzo per cento, mentre altre aziende che dànno lavoro agli operai e non si occupano di operazioni borsistiche pagheranno intero il 5 per cento!

Quindi, avremo una imposta degressiva a favore dei grandi capitali, dei grandi sistemi di combinazioni di società a catena e di società verticali e orizzontali, di modo che, avendo l’una nel portafoglio dell’altra miliardi di azioni, noi arriveremo in realtà ad esentare una parte di questo patrimonio dall’imposta che dovrebbe sacrosantamente colpirlo: che dovrebbe tanto più colpire questo tipo di azionariato delle holdings e delle società finanziarie così care al Ministro Merzagora (ricordo fra parentesi che il Ministro Merzagora è Presidente dell’Ente per i finanziamenti industriali, che appartenendo alla Pirelli, detiene azioni della Pirelli, quindi il Ministro Pella potrebbe farsi spiegare come funzionano questi sistemi di sgravi reciproci dal Ministro Merzagora che conosce bene queste cose per la sua carica). Ebbene, io dico che questo tipo di azionariato speculativo dovrebbe essere colpito da una sovrimposta, non solo da un’imposta, perché, se queste aziende creano delle società una in testa all’altra, ci sarà una ragione: non è per divertimento, non è per pagare notai, o per altri motivi. Lo fanno perché hanno un tornaconto diretto.

Quindi io chiedo che sia soppresso il quarto comma (a parte la questione dei titoli di Stato, di cui eventualmente parlerò successivamente); chiedo che sia tolta la detrazione prevista dal 4° comma perché non vi è nessuna doppia imposizione: vi è semplicemente il modo di colpire alcune aziende che da 10 o 20 anni, dal 1926, frodano il fisco, e sarebbe opportuno mettere la mano su questo tipo di finanza che è uno dei gravi guai della nazione italiana, perché è proprio attraverso queste aziende – che sono l’una nelle braccia dell’altra in modo che la Lancia appartiene alla Breda, un pezzo della Breda appartiene alla Falk, ecc. – che noi non arriviamo a sapere chi è il vero proprietario e chi deve pagare qualche cosa. Colpendo finalmente queste aziende con un’imposta che, attraverso questo sembiante di doppia imposizione, diverrà progressiva, noi avremo invece reso un servizio alla chiarificazione della finanza italiana.

PRESIDENTE. Su questo 4° comma dell’articolo 4 è stata dunque presentata dagli onorevoli Dugoni e Pesenti una proposta di soppressione integrale. Vi sono poi emendamenti che implicano la conservazione del comma, presentati uno dal Ministro delle finanze e un altro dal Relatore onorevole La Malfa.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Vorrei rispondere al collega Dugoni, le cui argomentazioni sono assolutamente inesatte, infondate, da cima a fondo. Questo problema della doppia imposizione la Commissione se l’è posto con spirito di assoluta imparzialità, con spirito di assoluto rigore. La formula propostaci dal Governo, che è tradizionale in materia di tassazione di società, era una formula che la Commissione ha ritenuto inapplicabile e troppo favorevole alle società finanziarie, alle holdings. La formula del Governo era che il valore delle azioni in portafoglio si detrae tutto quanto dall’imponibile. Ora, per una società finanziaria che ha solo titoli in portafoglio si avrebbe questo risultato: che se questa società avesse un capitale 100 – capitale netto perché il fisco tassa il patrimonio netto – e avesse in portafoglio 1000 di titoli (e una finanziaria può avere perfettamente 1000 di titoli e 100 di patrimonio netto perché si alimenta di azioni) noi avremmo questo, assurdo, che essendo 1000 i titoli in portafoglio, questi 1000 si dovrebbero detrarre da 100 di patrimonio netto, operazione evidentemente assurda. Non si può detrarre ai fini dell’imposta un valore maggiore da un valore minore. Quindi la Commissione ha scartato una formula tradizionale della Finanza italiana (Interruzione del deputato Dugoni).

L’imposta di cui parla l’onorevole Dugoni, che è una imposta del 1937, detraeva dall’imponibile il 75 per cento sul totale.

DUGONI. Il 50 per cento.

LA MALFA, Relatore. Il 75 per cento per le società: ella non ha visto la conversione in legge. Per le società finanziarie che avessero investito in valore più del 20 per cento del valore capitale, la detrazione era del 75 per cento del valore delle azioni. E anche così si arriverebbe all’assurdo di detrarre un valore di titoli superiori al patrimonio. Quindi la detrazione è del tutto favorevole alle società finanziarie e, perciò, iniqua.

Questo è il caso favorevole alle holdings. Ma l’onorevole Dugoni non ha spiegato che esiste un limite del problema. Se una società finanziaria ha investito tutto il suo patrimonio in titoli, c’è il caso tipico della doppia imposizione. Perché? Perché l’onorevole Dugoni dimentica che la Borsa, quando valuta una società, non la valuta soltanto per i suoi beni reali, per le case, per i fabbricati, per gli immobili, ma nella valutazione comprende tutti i diritti che la società ha su altre aziende. Quindi, quando una società finanziaria ha investito il proprio patrimonio in azioni, deve essere esente dall’imposta. Altrimenti l’imposta si applicherebbe due volte, una sulla società finanziaria, e l’altra sulla azienda presso cui essa ha fatto investimenti.

Ecco i due casi limite, cioè la soluzione governativa favorevole alle holdings e la soluzione dell’onorevole Dugoni che costituirebbe un arbitrio assoluto in materia finanziaria. Vi è una idea fissa nell’onorevole Dugoni che dove vede holdings, vede nero. Ora il problema del trattamento fiscale delle holdings è un problema di giustizia tributaria come in ogni altro campo.

La soluzione della Commissione dice questo: noi non diamo esenzioni ai titoli che una società ha in portafoglio; calcoliamo quale è il patrimonio netto di questa società; vediamo quale è il valore delle azioni, e attribuiamo come detrazione, quella parte del valore delle azioni che si può ritenere investimento di fondi patrimoniali diretti.

Se una società ha preso azioni facendo un debito, non ha diritto alla detrazione. Se la società ha investito i propri fondi in azioni, cioè si è creata con i propri mezzi patrimoniali un diritto su una società o una impresa all’infuori della propria, questa ammettiamo in detrazione.

Come vedete, la soluzione adottata dalla Commissione è di un rigore assoluto ed io sono lieto che questa imposta ci abbia dato la possibilità di trovare un mezzo di tassazione delle holdings che risponda a criteri di perfetta giustizia tributaria; e cioè colpisca le holdings come non sono mai state colpite in passato. Ma le colpisca in modo che nessuno possa dire fuori di questa Aula che abbiamo voluto colpire le holdings senza tener conto delle condizioni reali in cui queste società operano. La Commissione insiste perché l’Assemblea approvi questo nuovo concetto di tassazione rispetto ai titoli posseduti in portafoglio.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei unicamente confermare che il Governo aderisce alla formula della Commissione, che è transazionale, ferma restando la richiesta della detrazione integrale dei titoli di Stato, secondo l’emendamento che è stato presentato. Il Governo ha apprezzato le ragioni esposte dall’onorevole Dugoni. L’onorevole Dugoni sa che l’Amministrazione finanziaria ha sempre resistito alla detrazione in sede d’imposta di negoziazione. È vero però quanto ha accennato l’onorevole relatore che, per le imposte sul patrimonio, era stato prevalentemente accolto il principio della detrazione.

PRESIDENTE. Passiamo dunque innanzi tutto alla votazione della proposta degli onorevoli Dugoni e Pesenti, soppressiva il quarto comma.

PESENTI. Chiedo di parlare, per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Dichiaro che mantengo la proposta soppressiva, in accordo con l’onorevole Dugoni: perché, effettivamente, data la valutazione sintetica che viene fatta nel patrimonio delle società, penso che in questa valutazione sia calcolata tutta la situazione patrimoniale e sia scontata anche l’imposta che viene a colpire i titoli azionari.

Qui non colpiamo le azioni. Le azioni sono soltanto un sistema di valutazione. Se vi fosse valutazione analitica sarei d’accordo nella detrazione.

Essendovi una valutazione sintetica, sono contrario.

Per quanto riguarda il diverso trattamento dei titoli dello Stato rispetto ai titoli azionari, io affermo che, come parere personale, ero disposto ad accettare la detrazione dei titoli di Stato, non perché fosse logico, fosse coerente rispetto a questa valutazione sintetica fatta attraverso il corso dei titoli azionari, ma soltanto per una ragione di fatto, per favorire le Casse di risparmio, in modo particolare, e gli altri enti di credito che erano stati obbligati moralmente dallo Stato ad investire i loro attivi in titoli di Stato.

Ma la proposta della Commissione di concedere uno sconto percentuale ai titoli dello Stato, mi pare che sia sufficiente.

Voglio accennare ad un fatto che, per la Centrale, ad esempio, anche secondo la proposta dell’onorevole La Malfa, la detrazione sarebbe del 64 per cento dei titoli di Stato posseduti e dei titoli azionari.

Ora, siccome poi questi titoli azionari devono essere moltiplicati per il valore di quotazione di borsa, noi possiamo avere delle detrazioni eccessive che possono perfino superare il patrimonio imponibile.

LA MALFA, Relatore. No, è assolutamente impossibile.

PESENTI. Non è vero. Mantengo perciò l’emendamento soppressivo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Siamo in sede di votazione, onorevole La Malfa. Lei può soltanto dire se conserva o non conserva la sua proposta; se aderisce o meno alla proposta dell’onorevole Pesenti.

LA MALFA, Relatore. Io devo chiarire i termini di questo problema.

PRESIDENTE. Mi sembra che sia stato chiarito abbastanza. Ha parlato lei, hanno parlato l’onorevole Ministro e gli onorevoli Dugoni e Pesenti; si affidi alla votazione dell’Assemblea!

LA MALFA, Relatore. A me non sembra che il problema sia stato chiarito!

SCOCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Voterò a favore dell’emendamento proposto dal Governo; conseguentemente voterò contro l’emendamento dell’onorevole Dugoni.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Voterò contro l’emendamento soppressivo e voterò a favore dell’emendamento del Governo, qualora l’emendamento della Commissione dovesse essere respinto.

PRESIDENTE. Pongo dunque ai voti la proposta degli onorevoli Dugoni e Pesenti di soppressione del quarto comma dell’articolo 4.

(Dopo prova e controprova, l’emendamento soppressivo non è approvato).

Porrò ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Ministro. Preciso che, a tenore di questo emendamento, la prima parte del quarto comma risulterebbe così formulata:

«Dall’imponibile valutato come sopra è detratto l’ammontare dei titoli di Stato e degli altri titoli dichiarati esenti da imposta all’atto dell’emissione».

LA MALFA, Relatore. Faccio notare che per quanto riguarda i titoli di Stato, secondo una disposizione di legge, le società devono accantonare i titoli di Stato in conto fondo di liquidazione del personale e quindi questa esenzione a favore delle società per fondi che sono di proprietà di terzi non avrebbe ragion d’essere.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la formulazione di cui ho dato lettura che costituisce la prima parte del comma, in base all’emendamento proposto dall’onorevole Ministro delle finanze.

(È approvata).

Pongo ai voti la seconda parte quale risulta in base all’emendamento del Ministro:

«Inoltre è detratta, una percentuale del valore delle azioni, delle quote di partecipazione e degli altri titoli che già non siano detratti per intero, posseduti dal soggetto».

(Dopo prova e controprova è approvata).

Segue l’ultima parte dell’articolo così modificato secondo la proposta del Relatore: «corrispondente al rapporto in cui il capitale e le riserve si trovano rispetto al loro ammontare aumentato delle passività, secondo le risultanze dell’ultimo bilancio approvato».

(È approvata).

L’ultimo, comma, del testo proposto dalla Commissione si intende assorbito dopo l’approvazione dell’articolo 3-bis proposto dagli onorevoli Perassi e De Vita.

Passiamo al quinto articolo:

«L’imposta straordinaria è applicata con le seguenti aliquote:

5 per cento per i soggetti indicati nella lettera a) dell’articolo …;

2 per cento per i soggetti indicati, nella lettera b) dell’articolo suddetto;

3 per cento per i soggetti indicati nella lettera c) dell’articolo stesso».

Su questo articolo sono stati presentati alcuni emendamenti in relazione alla aliquota. Il primo è quello dell’onorevole Dugoni, il quale propone che l’aliquota fissata per i soggetti indicati alla lettera a) sia ridotta al 3,50 per cento.

DUGONI. Ritiro l’emendamento, perché collegato alla soppressione del quarto comma dell’articolo precedente, soppressione respinta dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Allora resta l’emendamento dell’onorevole Marinaro che porterebbe la percentuale al 4 per cento. Anche il Governo propone la riduzione al 4 per cento. Ha chiesto di parlare il Ministro delle finanze. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di illustrare le ragioni per cui il Governo propone la riduzione dell’aliquota dal 5 al 4 per cento.

La misura di questa, nel periodo di studio, era rimasta incerta e oscillava tra il 4 e il 5 per cento. Il Governo, nel suo ultimo schema, aveva proposto il 4 per cento, tenendo cioè conto che, consentendosi di ricorrere, entro certi limiti, alle rivalutazioni, queste avrebbero importato l’obbligo di corrispondere l’imposta di registro per gli eventuali trasferimenti a capitale.

La parte relativa alle rivalutazioni è stata stralciata dal progetto, dietro suggerimento della Commissione. Ma il Governo, naturalmente, non può dimenticare questo problema, quanto meno sotto il profilo di politica di tesoreria ed eventualmente sotto il profilo di diritto comune, in rapporto alla sincerità dei bilanci.

È evidente che, quando il Governo si riproporrà il problema delle rivalutazioni e sceglierà una determinata soluzione, entro limiti contenuti forse in una misura relativamente modesta, dovrà nuovamente ricorrere allo strumento fiscale. Ed è in relazione a questa possibilità che si ritiene opportuno per un ragionevole senso di equilibrio, di limitare al 4 per cento l’aliquota per le società azionarie.

Correlativamente il Governo propone di ridurre al 2 per cento l’aliquota degli enti morali.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Marinaro.

MARINARO. Mi associo alle considerazioni svolte dall’onorevole Ministro, aggiungendo che c’è un’altra sostanziale ragione per ridurre al 4 per cento: i patrimoni delle società azionarie sono stati sottoposti ad imposta straordinaria proporzionale, su un valore imponibile che risulta assai più elevato di quello stabilito per ogni singolo contribuente. Il valore imponibile, infatti, è il valore accertato ai fini dell’imposta di negoziazione per il 1947, che è più elevato di quello stabilito per gli altri contribuenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione si è già espressa nel senso che, a maggioranza, non può accettare l’emendamento proposto dall’onorevole Marinaro. Propongo pertanto che l’articolo si voti per divisione.

PRESIDENTE. È evidente.

Pongo ai voti la prima parte dell’articolo con la riduzione dell’aliquota al 4 per cento secondo l’emendamento Marinaro cui il Governo si è associato:

«L’imposta straordinaria è applicata con le seguenti aliquote: 4 per cento per i soggetti indicati nella lettera a) dell’articolo…».

(È approvata).

Pongo ai voti il comma successivo, su cui non vi sono emendamenti:

«2 per cento per i soggetti indicati nella lettera b) dell’articolo suddetto.

(È approvato).

Passiamo all’ultima parte:

«3 per cento per i soggetti indicati nella lettera c) dell’articolo stesso».

L’onorevole Marinaro propone di ridurre l’aliquota al 2 per cento; all’emendamento ha aderito l’onorevole Ministro.

L’onorevole Marinaro ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MARINARO. Faccio presente che si tratta di enti che hanno fini di assistenza e beneficenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Dopo le innumerevoli esenzioni concesse a questa categoria, non mi pare che sia il caso di concedere altre agevolazioni.

PELLA, Ministro per le finanze. Mi associo alla considerazione fatta dall’onorevole relatore.

Il primitivo emendamento era anteriore alla discussione delle esenzioni. Ritengo che possa essere conservata l’aliquota del 3 per cento. Quindi, il Governo ritira l’emendamento per la categoria degli enti morali.

PRESIDENTE. Onorevole Marinaro, insiste nel suo emendamento?

MARINARO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti l’ultimo comma nel testo proposto dalla Commissione cioè conservando l’aliquota del 3 per cento.

(È approvato).

Passiamo al sesto articolo:

«Entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge di convalida del presente decreto, i soggetti tenuti a corrispondere l’imposta straordinaria prevista nell’articolo… devono presentare all’ufficio distrettuale delle imposte dirette, nella cui circoscrizione essi hanno la loro sede, la dichiarazione del loro patrimonio imponibile, in tutti i casi in cui detto patrimonio non debba essere accertato ai fini della imposta straordinaria progressiva.

«Quando si tratta di soggetti il cui patrimonio non cade sotto l’applicazione dell’imposta straordinaria progressiva, la dichiarazione deve essere fatta per un valore non inferiore a quello su cui è stata liquidata l’imposta ordinaria sul patrimonio per l’anno 1947.

«Per l’omessa od infedele dichiarazione, si applicano le sanzioni previste negli articoli 54, 56, 57 e 59».

Non essendo stati presentati emendamenti lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo al settimo articolo al quale pure non sono proposti emendamenti:

«L’imposta straordinaria, prevista nell’articolo…, è riscossa in 24 rate bimestrali uguali a partire dall’agosto 1948».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue l’ottavo articolo:

«L’Amministrazione finanziaria ha la facoltà di iscrivere a ruolo l’imposta straordinaria liquidata sull’imponibile dichiarato dal contribuente, o – quando la dichiarazione non è richiesta – sull’imponibile in base al quale è liquidata, a titolo provvisorio, l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, salvo conguaglio, in entrambi i casi, sulle risultanze dell’accertamento definitivo.

«L’imposta iscritta, a titolo provvisorio o definitivo, in ruoli, la cui riscossione si inizia dopo la rata dell’agosto 1948, è ripartita in quote uguali nelle rate residue a termini del precedente articolo.

«L’imposta iscritta in ruoli, la cui riscossione si inizia dopo la scadenza del termine fissato nell’articolo precedente, è riscossa in sei rate bimestrali uguali, con l’interesse del 2 per cento a favore dello Stato la decorrere dal 1° luglio 1952».

Anche su questo articolo non vi sono emendamenti. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue il nono articolo che è del seguente tenore:

«I ruoli dell’imposta straordinaria non sono soggetti a pubblicazione.

«Per la riscossione compete all’esattore l’aggio contrattuale, esclusa l’addizionale prevista negli articoli 5 e 8 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424».

Su questo articolo ha presentato un emendamento l’onorevole Dugoni, il quale propone di sopprimere il primo comma. Ha facoltà di svolgerlo.

DUGONI. Due brevi parole per illustrarlo. Chiedo che, data la particolare delicatezza del settore in cui noi operiamo in questo momento, sia data pubblicità ai risultati analitici della imposta, perché tutti possano controllare qual è l’effetto di questa legge e delle modificazioni che sono state proposte.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Aderisco senz’altro all’emendamento soppressivo dell’onorevole Dugoni; penso che la Commissione abbia proposto questo primo comma – e d’altra parte anche il Governo lo proponeva – per snellire il lavoro di formazione e pubblicazione dei ruoli.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di parlare.

LA MALFA, Relatore. Non comprendo le ragioni per cui si dovrebbe approvare questo emendamento.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di soppressione del primo comma formulata dall’onorevole Dugoni.

(È approvata).

Pongo ai voti il secondo comma.

(È approvato).

Passiamo al decimo articolo.

«Il credito dello Stato per l’intero ammontare del tributo ha privilegio speciale su tutti gli immobili facenti parte del patrimonio del contribuente alla data di pubblicazione della legge di convalida del presente decreto, salvi i diritti dei terzi, costituiti anteriormente alla data stessa.

«Si applicano per l’imposta straordinaria prevista nel presente titolo le disposizioni contenute nel secondo, terzo e quarto comma dell’articolo 60».

Non essendovi emendamenti, lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue l’articolo undicesimo sul quale pure non sono stati presentati emendamenti:

«Per la prescrizione dell’azione della finanza valgono le norme dell’articolo 61».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo dodicesimo, così formulato:

«I contribuenti possono versare in Tesoreria, in unica soluzione, con l’abbuono dell’interesse composto dell’8 per cento, in ragione d’anno, l’importo complessivo di tutte le rate d’imposta straordinaria ancora da scadere.

«Il riscatto può essere chiesto tanto per l’importo accertato in via provvisoria, quanto per quello accertato in via definitiva.

«Il riscatto dell’intero ammontare dell’imposta deve essere domandato al competente Ufficio distrettuale delle imposte dirette entro il giorno 10 del mese precedente a quello della scadenza della prima rata d’imposta ed il versamento in Tesoreria deve essere effettuato entro il mese di scadenza della rata stessa.

«I riscatti successivi devono essere domandati entro il 30 novembre di ciascun anno con effetto dalle rate a scadere dalla prima dell’anno successivo, ed il versamento in Tesoreria deve essere effettuato entro il 31 gennaio dell’anno successivo a quello in cui la domanda è presentata.

«Non è ammesso il riscatto delle sole ultime sei rate bimestrali.

«In tutti i casi di versamento diretto in Tesoreria non compete alcun aggio all’esattore ed al ricevitore provinciale.

«Sono altresì applicabili le norme degli articoli 52 e 53».

Non essendovi emendamenti, lo pongo di voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 13, che è del seguente tenore:

«Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali delle società ed enti, in relazione all’istituzione della presente imposta straordinaria e per eventuali emissioni di azioni od obbligazioni ai fini del pagamento dell’imposta».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. In adesione all’ordine di idee espresso dalla Commissione, di stralciare la materia delle rivalutazioni, perché materia estranea alla legge che stiamo discutendo, il Governo chiede la soppressione di questo emendamento, e dà alla richiesta il significato che il Governo provvederà a regolare la materia con proprio provvedimento. Voglio pregare gli onorevoli colleghi, di considerare che le ripercussioni di un provvedimento sulle rivalutazioni possono essere molteplici, ed è necessario, quindi, un complesso di cautele di cui il Governo si assumerà la responsabilità. Perciò, per ragioni di ordine pratico, prego l’Assemblea di affiancare col proprio voto la richiesta del Governo di sopprimere questo emendamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. La ragione di questo articolo era di allacciare questo provvedimento ad altri e dare una certa tranquillità di mercato, nel senso che tutta questa materia sarà sistemata. Però, non insisto.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Aderisco alla proposta del Ministro di sopprimere questo articolo. Desidero ricordare all’Assemblea che il provvedimento, a cui si riferisce quest’articolo, preso nell’agosto del 1946, non potrebbe essere messo in discussione senza gravissime ripercussioni nel mercato azionario. Devo poi fare espressa raccomandazione al Governo che non tolga dai suoi strumenti di controllo del mercato finanziario una disposizione che ha un carattere nettamente antinflazionistico, in un momento in cui stiamo conducendo una campagna per la stabilizzazione del potere di acquisto della moneta.

Ci sarà tempo per esaminare questo problema che, del resto, ha anche riflessi sulle conseguenze dei danni di guerra, perché in sostanza lo Stato può indirettamente agevolare coloro che hanno avuto danni di guerra, attraverso l’applicazione del congegno stabilito dal decreto dell’agosto del 1946.

Con questa intesa, io aderisco alla richiesta del Governo di sopprimere l’articolo 13.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARINARO. Avevo proposto un emendamento a questo articolo. A seguito delle dichiarazioni fatte dall’onorevole Ministro, che considero come un impegno formale del Governo, ritiro il mio emendamento.

LA MALFA, Relatore. Pregherei il Governo di considerare l’opportunità di mantenere una dizione di questo genere: «Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina di eventuali emissioni di azioni o obbligazioni, ai fini del pagamento dell’imposta».

Credo che un provvedimento del genere sia necessario come provvedimento integrativo.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, può darsi, anzi è certamente fondata la ragione addotta dall’onorevole Relatore; però vi sono altre ragioni di maggiore portata che suggeriscono di non toccare, in nessun modo, questa materia così delicata e così scottante. La minima indicazione contenuta in un testo di legge può significare, per gli iniziatissimi della materia, la traccia di un orientamento. Il Governo desidera che questa materia, sia regolata indipendentemente da qualsiasi pregiudiziale e, soprattutto, indipendentemente da qualsiasi anticipo che l’opinione pubblica interessata possa desiderare di ottenere. Per questo, io pregherei di non insistere, sia pure soltanto per una parziale conservazione dell’emendamento. Le preoccupazioni dell’onorevole La Malfa sono anche preoccupazioni del Governo. Questa imposta dovrà essere pagata a partire dal 1948. Il Governo non dovrà aspettare il 1948 per regolare questa materia.

LA MALFA, Relatore. Mi rimetto al Governo.

PRESIDENTE. Pertanto, si può considerare che quest’articolo 13 sia ritirato dalla stessa Commissione.

LA MALFA, Relatore. D’accordo.

PRESIDENTE. Abbiamo così esaurito la materia relativa alla regolamentazione dell’imposta patrimoniale straordinaria proporzionale sul patrimonio degli enti collettivi. Resta ancora da esaminare qualche emendamento, residuo della discussione che si è già svolta.

Faccio presente all’Assemblea che tra gli emendamenti rinviati figuravano anche i seguenti:

Art. 29-bis.

«Il patrimonio imponibile dalle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è valutato in base alla media dei prezzi di compenso del trimestre indicata dall’articolo 18.

«In tale valore imponibile nessuna detrazione è consentita.

«Il patrimonio imponibile delle società ed enti diversi da quelli indicati nel comma precedente è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti della presente legge.

«In tale patrimonio imponibile sono detraibili soltanto le passività afferenti ai cespiti patrimoniali che formano oggetto imponibile.

«Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani, Lombardi Riccardo».

Art. 29-ter.

«Sono soggetti ad imposta gli enti collettivi il cui patrimonio, valutato a norma dell’articolo precedente, è superiore a cinque milioni.

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinata in base alle seguenti aliquote da applicarsi nel patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente:

fino a 5 milioni, esenti

 

da 5 a 20 milioni

1%

da 20 a 50

1,50%

da 50 a 100

2%

da 100 a 250

2,50%

da 250 a 500

3%

da 500 a 1000

3,50%

da 1 a 2 miliardi

4%

da 2 a

4,50%

da 5 a 10

5%

da 10 a 20

5,50%

oltre i 20 miliardi

6%

«Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani, Lombardi, Riccardo».

Art. 29-quater.

«Sono esenti dall’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio le società cooperative di consumo.

Recca, Caccuri, Siles, Sullo, Gabrieli, Monterisi, Dominedò, Cimenti, Clerici, Coccia».

Questi emendamenti debbono considerarsi assorbiti.

Vi è ora, tra gli emendamenti rinviati, un emendamento del Governo, proposto in sede di discussione dell’articolo 2, così formulato:

«Dal valore delle azioni o di quote di partecipazione in società costituite in Italia si detrae una quota-parte proporzionale al valore dei beni posseduti dalla società all’estero, ivi assoggettabili a tributi straordinari».

Si tratta di una questione rimasta in sospeso.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. L’emendamento che aveva proposto il Governo è stato presentato in occasione della trattazione dell’articolo 2 e l’Assemblea, in parte lo ritenne parzialmente superfluo, perché assorbito dal sistema delle valutazioni ecc.; per altro verso ritenne che un collocamento di esso fosse opportuno nel campo delle valutazioni. Nel complesso l’Assemblea rinviò l’emendamento, e ci troviamo oggi a ridiscuterlo.

Io lo mantengo perché risponde ad una norma di correttezza delle valutazioni nel quadro della sistemazione generale della legge, e proporrei che il suo esatto collocamento venisse affidato alla Commissione di coordinamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Dopo l’approvazione dell’articolo relativo alla detrazione dell’imponibile, probabilmente una parte di questo emendamento del Governo potrebbe cadere.

PELLA, Ministro delle finanze. Per la progressiva.

LA MALFA, Relatore. Non voterei l’emendamento formalmente, ma lascerei alla Commissione e al Governo il compito di esaminare quanto di questo emendamento può essere introdotto agli effetti della quota proporzionale relativa agli enti collettivi.

PRESIDENTE. In sede di coordinamento si potrà vedere quale parte sia implicita e quale parte debba essere considerata invece come parte nuova e tale che possa essere inserita.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Volevo pregare l’onorevole Presidente di mettere egualmente in votazione questo emendamento perché l’Assemblea abbia modo di dichiarare esplicitamente, che condivide lo spirito di questo emendamento; salvo poi al relatore la facoltà di esaminare la sede del collocamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento proposto del Governo, alle condizioni chiarite dall’onorevole relatore e dall’onorevole Ministro delle finanze.

(È approvato).

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Presidente, era rimasta in sospeso una questione relativa all’emendamento presentato dall’onorevole Condorelli, riguardante l’articolo 25 dell’imposta progressiva. Si è trovata una formulazione che in parte va incontro alle necessità dà lui fatte presenti

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli aveva effettivamente presentato due emendamenti, di cui uno risulta ritirato mentre l’altro, in votazione, è stato respinto.

LA MALFA, Relatore. Su uno degli emendamenti vi è stata però una richiesta di sospensiva, nel senso che il Governo e la Commissione avrebbero dovuto esaminare l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ritirò, infatti, l’emendamento dopo che il Governo si era impegnato di presentare una formulazione nel senso proposto dall’emendamento.

Viene ora comunicata alla Presidenza la seguente formulazione, concordata tra Commissione e Governo:

«I titoli nominativi dello Stato dichiarati dal contribuente sono computati nella quota presuntiva, fino alla concorrenza del 50 per cento della medesima».

PELLA, Ministro delle finanze. Per lealtà, siccome il Governo ha dato una assicurazione all’onorevole Condorelli, desidererei chiedere prima all’onorevole Condorelli, se ritiene sodisfatto l’impegno del Governo con la formulazione indicata precedentemente.

Mi raccomando al senso di misura e di moderazione dell’onorevole Condorelli.

CONDORELLI. Sono sodisfatto, perché il Governo ha aderito largamente, con cortesia, a quello che avevo richiesto, cioè che il problema fosse esaminato. La soluzione, tuttavia, non mi sodisfa appieno. Chiederei un chiarimento: fra i titoli di Stato nominativi sono compresi anche i buoni postali fruttiferi?

LA MALFA. Relatore. No.

PELLA, Ministro delle finanze. I buoni postali fruttiferi non sono compresi fra i titoli nominativi e l’assicurazione che avevo data era esplicitamente diretta ai titoli nominativi.

Riconosco all’onorevole Condorelli il diritto di non ritenersi sodisfatto di questo atteggiamento del Governo, rispetto ai buoni postali fruttiferi.

Ma il punto che preoccupa il Governo è questo: per quanto riguarda i titoli nominativi, nei confronti dei quali venne data una assicurazione, ritiene l’onorevole Condorelli che la formula presentata realizzi l’assicurazione data dal Governo?

Non vorrei, che, su questo punto, si considerasse il Governo inadempiente rispetto ad una promessa fatta.

CONDORELLI. Il Governo non aveva promesso altro che di esaminare il problema. Anche se avesse risposto negativamente, dal punto di vista formale, sarei sodisfatto ugualmente.

Io trovo che la soluzione non è pienamente sodisfacente, perché non mi rendo conto del diverso trattamento fatto ai titoli di Stato nominativi e ai buoni postali fruttiferi che sono anch’essi dei titoli di Stato nominativi, anzi, intrasferibili. Non vedo la ragione della differenza.

LA MALFA, Relatore. La ragione, a mio giudizio, consiste in questo: che i buoni postali rappresentano veri e propri depositi e l’estensione ai buoni postali di questa agevolazione potrebbe avere conseguenze anche nel campo dei depositi a risparmio nominativi.

Quindi, dovremmo riesaminare tutta una materia che è già, in una certa maniera, regolata.

CONDORELLI. Questa non è una ragione sufficiente per non fare giustizia.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo aderisce al concetto espresso dal Relatore.

CONDORELLI. Chiedo che all’emendamento proposto dalla Commissione e dal Governo si aggiungano le parole: «buoni postali fruttiferi».

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo ai voti anzitutto la formulazione proposta dalla Commissione e dal Governo come emendamento da inserirsi nell’articolo 25.

(È approvato).

Pongo ai voti l’emendamento aggiuntivo dall’onorevole Condorelli.

(Non è approvato).

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione dovrebbe presentare una proposta di emendamento all’emendamento Cappi all’articolo 72, già approvato. Si tratta di una questione di ordine tecnico che riguarda l’Amministrazione finanziaria facilitandone il lavoro, senza nulla mutare della sostanza del provvedimento. (Commenti al centro).

Coll’emendamento Cappi si stabilisce una data di rateazione che determinerebbe la necessità per l’Amministrazione finanziaria di rivedere tutte le cartelle esattoriali.

Con la proposta della Commissione si allunga di qualche mese la rateazione, ma si consente all’Amministrazione finanziaria, con un’operazione automatica, di riduzione ad un terzo delle rate, di non modificare per nulla le cartelle. L’Amministrazione finanziaria risparmierebbe così tre o quattro mesi di lavoro.

PRESIDENTE. Do lettura di questa proposta dell’onorevole La Malfa. Salvo il suo collocamento, noi possiamo considerarla in questo momento come un articolo aggiuntivo; che, se approvato, sarà inserito, all’articolo 72, alla cui materia si riferisce:

«Per tutte le partite il cui imponibile sia inferiore a lire 750 mila, fermo restando il pagamento delle rate di giugno e agosto 1947, il pagamento del residuo debito d’imposta è riscosso in ventidue rate trimestrali eguali fino all’aprile 1951».

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Come presentatore dell’emendamento, accetto la proposta della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro, vuole esprimere il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo accetta la proposta della Commissione.

PRESIDENTE. Allora, la pongo ai voti.

(È approvata).

Ricordo all’Assemblea che l’onorevole Mortati, ha presentato la proposta di un articolo aggiuntivo. Ha facoltà di svolgerla.

MORTATI. Ho presentato tre emendamenti inerenti alla stessa questione. Il primo è un emendamento sostitutivo all’articolo 77, così formulato:

«Sostituire l’articolo 77 col seguente:

«Il presente decreto sarà presentato per la revisione e l’approvazione all’Assemblea Costituente».

L’emendamento sostituisce questa formula all’altra: «Il presente decreto è convalidato ecc.».

In relazione a questo emendamento vi è una proposta di emendamento all’articolo unico del progetto di legge:

«In relazione all’emendamento proposto all’articolo 77, nell’articolo unico del disegno di legge, sostituire alle parole: È convalidato, le altre: È approvato».

Vi è infine la proposta di un articolo aggiuntivo così formulato:

«Il Governo provvederà a compilare un testo unico delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143 e delle modificazioni ad esso apportate, curandone il coordinamento».

Prego l’onorevole Presidente di consentirmi di svolgere brevemente i miei emendamenti.

PRESIDENTE. Faccio osservare che gli emendamenti dell’onorevole Mortati si riferiscono al testo dell’articolo unico del disegno di legge. Sarebbe pertanto opportuno che prima si concludesse la discussione anche sugli ordini del giorno che sono stati presentati.

Vi è un primo ordine del giorno così formulato:

«L’Assemblea Costituente,

considerato

che nei luoghi di cura e di villeggiatura si praticano affitti e subaffitti esorbitanti per periodi brevissimi, praticamente svincolati da tutte le norme limitatrici vigenti, senza neppure corresponsione di contribuzioni fiscali, non registrandosi i contratti e riscuotendosi gli affitti anticipatamente;

che ciò costituisce evidente ingiusto disquilibrio in confronto degli altri locatori di immobili urbani;

invita,

il Governo a dare opportune istruzioni all’Amministrazione finanziaria ed eventualmente a predisporre opportuni provvedimenti legislativi onde impedire tali straordinarie evasioni fiscali».

«Clerici, Saggin, Baracco, Cavalli, Alberti, Bovetti».

I firmatari di questo ordine del giorno non sono presenti; s’intende quindi che vi abbiano rinunciato.

Vi è poi il seguente ordine del giorno firmato dagli onorevoli: Paris, Cartia, De Vita, Corsi, Pera, Micheli, Carboni Angelo, Lami Starnuti, Simonini, Rossi Paolo, Vigorelli, Bianchi Bianca:

«L’Assemblea Costituente,

constatato che a causa degli eventi bellici il regio decreto-legge 24 giugno 1943, n. 543, non ebbe un’applicazione contemporanea in tutto il Paese, il che determinò la mancanza di un criterio unico nell’aggiornamento degli imponibili ai valori venali del triennio 1937-39 e, in seguito al diverso grado di svalutazione della moneta nelle parti in cui era divisa l’Italia, dava luogo a notevoli sperequazioni;

che le disposizioni di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 31 ottobre 1946, n. 382, accentuarono delle sperequazioni nel confronto dei singoli contribuenti e di singole provincie, tanto da pregiudicare una equa distribuzione degli oneri fiscali;

che tali sperequazioni, per quando disposto dall’articolo 54, comma quinto, del disegno di legge sull’imposta patrimoniale progressiva già approvato, verrebbero ancor maggiormente aggravate;

chiede al governo che vengano riaperti i termini per la presentazione delle domande di rettifica degli imponibili a ruolo per l’imposta patrimoniale straordinaria proporzionale 4 per cento almeno nelle provincie dove il rapporto fra il gettito della patrimoniale ordinaria 1941 ( = 1) è quello del ruolo principale del 1947 supera del 150 per cento il rapporto medio nazionale, che è di 7,85».

L’onorevole Paris ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

PARIS. Sono stato indotto a presentare l’ordine del giorno dalla constatazione, attraverso rilievi statistici, di enormi sperequazioni tanto rispetto ai singoli contribuenti quanto alle singole regioni, sperequazioni dovute al tempo in cui venne applicata la legge del 24 giugno 1943 n. 543…

LA MALFA, Relatore. È già assorbita.

PARIS. …e la successiva del 31 ottobre 1946. L’Italia era divisa dalla «linea gotica». Queste disposizioni, applicate nel Mezzogiorno quando ancora non era venuto l’adeguamento della moneta, hanno dato delle differenze di rapporto veramente notevoli.

Io leggo soltanto qual è il rapporto, posto uno quale indice dell’imposta unitaria sul patrimonio nel 1941, in proporzione a quella del 1947. Nell’Italia settentrionale questo rapporto è di 1 a 7,85; nell’Italia centrale 6,63; nell’Italia meridionale 1 a 10,21.

Anche le singole province hanno dei rapporti la cui sproporzione è veramente notevole. Si va perfino dal 3,4 al 17,85 di Reggio Calabria e al 17,18 di Teramo.

Ma oltre alle sperequazioni per provincia vi sono quelle rispetto ai singoli contribuenti. Infatti, mentre la maggiorazione doveva essere di 10 volte per i beni immobili esclusi i fabbricati, detta maggiorazione supera delle volte perfino il 100 per cento.

Io porto qui casi relativi a contribuenti della provincia di Trento. Alcuni negozi di frutta – per esempio – hanno avuto l’imponibile maggiorato di 366 volte!

Questo è dovuto al fatto che l’aliquota dello 0,50 per cento è stata ridotta allo 0,40 per cento. Il piccolo contribuente, che non sa destreggiarsi in questo continuo rigurgito di leggi fiscali, ha soltanto guardato l’importo che doveva pagare per tasse. Poi, quando gli è stata recapitata la cartella del pagamento dell’imposta proporzionale straordinaria del 4 per cento, non è stato più in tempo a ricorrere perché i termini erano già scaduti perché tale notificazione non era prevista dalla legge. Ora, ci sono stati dei casi…

PRESIDENTE. Onorevole Paris, mi perdoni: durante la discussione di questo testo di disegno di legge il Governo ha già fatto replicate volte la dichiarazione di accettare la proposta contenuta nell’ordine del giorno che ella ha presentato insieme ad altri. Perciò la sua opera di convinzione, onorevole Paris, mira ad un risultato già raggiunto. L’onorevole Ministro delle finanze le può confermare ancora una volta queste dichiarazioni.

PARIS. Se l’onorevole Pella mi assicura che saranno riaperti i termini non soltanto per i fabbricati di cui alla circolare ministeriale, ma anche per i beni mobili, io mi terrò pago. Perché le sperequazioni vengono soprattutto in materia di tassazioni di beni immobili. Per l’Italia meridionale si verifica una sperequazione enorme per la sola imposta ordinaria del patrimonio. Il Meridione verrà a pagare 60 miliardi di più, oltre l’influenza che la cifra avrà sulla progressiva straordinaria patrimoniale. Mi pare giusto guardare, non soltanto a parole ma anche a fatti, a quelle posizioni economiche del Meridione che da tutti i partiti vengono ricordate al momento delle elezioni, ma che poi qui nessuno porta effettivamente. (Applausi).

PRESIDENTE. Prego il Ministro delle finanze di rispondere all’onorevole Paris.

PELLA, Ministro delle finanze. Comunico ancora una volta agli onorevoli colleghi ed in particolare all’onorevole Paris che:

1°) il Governo fin dal 19 giugno ha diramato una circolare a tutti gli uffici dipendenti con cui si comunicava che erano riaperti i termini fino al 31 dicembre 1947 affinché i proprietari di fabbricati potessero chiedere la rettifica dei loro imponibili. Ciò allo scopo di arrivare per tutti all’adeguamento a cinque volte l’imponibile del 1937-39;

2°) per quanto riguarda i proprietari di terreni, con successiva circolare di fine giugno – mi si perdoni se non ricordo esattamente la data – si è provveduto a disporre perché d’ufficio si proceda al lavoro di adeguamento, in quanto per i terreni, per la tecnica particolare dell’accertamento, è possibile procedere senza richiesta della parte. Quindi in questo particolare settore non c’è, da parte dei contribuenti, che da sollecitare gli uffici a procedere alla revisione.

Quali altri settori restano ancóra? Il settore delle aziende industriali e commerciali. Evidentemente, tenuto conto delle particolarità che il settore presenta, è difficile adottare un criterio generale in tema di revisione degli imponibili. Ma il Governo accoglie certamente i suggerimenti per la correzione di eventuali errori compiuti nel settore delle piccole e medie aziende.

Perciò, l’ordine del giorno dell’onorevole Paris è accettato dal Governo a titolo di raccomandazione.

PARIS. Se il Governo accetta soltanto a titolo di raccomandazione, devo insistere per la votazione.

Posso citare molti casi. Una ditta aveva un imponibile di un milione e 800.000 lire. Ha presentato ricorso entro i termini. C’è stato l’accertamento constatato in lire 55.000. Dunque, da un milione e 800,000 lire la polizia tributaria ha constatato 55.000, lire. Di questi casi ce ne sono a centinaia. Non dico che venga sospesa l’esazione: continui pure; ma almeno che il piccolo contribuente, che è il più colpito, possa avere la possibilità di presentare ricorso.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Paris chiede che venga posto in votazione il suo ordine del giorno mentre il Ministro Pella ha dichiarato di accettarlo come raccomandazione, pongo in votazione questo ordine del giorno.

(È approvato).

L’onorevole Mortati ha facoltà di illustrare gli emendamenti da lui presentati, dei quali ho dato prima lettura.

MORTATI. Mi pare che la questione sollevata dall’articolo 77 sia di notevole importanza perché attiene ai poteri normativi del Governo durante questo periodo provvisorio. Si domanda: il Governo ha pienezza di poteri normativi durante il vigore del decreto 16 marzo 1946? Si deve rispondere nel senso pienamente affermativo. Se è così, bisogna concludere per la inesattezza del termine «convalida» adoperato nel disegno di legge, articolo 77.

Perché «convalida» si riferisce a quegli atti che sono inizialmente invalidi, inficiati da qualche vizio, e che vengono sottoposti a sanatoria dall’organo competente che li risana, cioè dà loro quella validità che originariamente non avevano.

A noi interessa escludere che sugli atti normativi del Governo possa cadere il dubbio di invalidità. Quindi interessa escludere il termine «convalida» che sancirebbe questo significato di invalidità provvisoria. Ed allora si domanda con quale altro termine si potrebbe sostituire il termine «convalida» che è inesatto e politicamente pericoloso.

C’è l’onorevole Codacci Pisanelli che ha proposto le parole: «conversione in legge». Mi pare che questo termine anche sia improprio perché, riferendoci al significato tecnico-giuridico della parola «conversione», dobbiamo presupporre l’esistenza di un atto dotato di validità provvisoria, e quindi bisognoso di un atto successivo che sgravi di responsabilità chi lo ha emesso. Nella specie, mi pare che anche questa situazione non si verifichi perché l’atto del Governo è dotato di validità definitiva; e quindi la conversione dell’atto, che oggi compiamo, non ha significato costitutivo, ma semplicemente dichiarativo di una validità che già aveva.

Si domanda: Il Governo aveva i poteri di presentare dinanzi all’Assemblea una legge già in atto, una legge già completa, in tutti i suoi elementi perfetta? Io credo di sì. Aveva questi poteri in virtù dell’articolo 3 del decreto luogotenenziale 16 marzo 1946 in cui si stabilisce che il Governo dovrà sottoporre poi all’esame dell’Assemblea ogni argomento che venga dalle deliberazioni di esso.

In questo argomento, a mio avviso, può entrare tutto, anche un disegno di legge.

Quale è l’interesse del Governo a presentare un disegno di legge? È un interesse politico, cioè di far valere quella responsabilità del Governo verso l’Assemblea che è sancita dallo stesso articolo 3. Il Governo, maggiore responsabile dinanzi all’Assemblea, può avere interesse a chiedere all’Assemblea stessa una approvazione, che ha evidentemente carattere politico, di quello che ha fatto e nella specie mi pare che il Governo ha usufruito di questo potere, di questa facoltà e si è presentato dinanzi alla Assemblea per chiedere se l’Assemblea approvasse in linea politica quello che esso ha emesso. Quindi l’operazione compiuta dall’Assemblea su questa legge, già perfetta, già emanata, già entrata in vigore, è una approvazione di carattere politico. A questa approvazione di carattere politico si aggiunge un’opera di revisione chiesta dal Governo stesso ed eseguita dall’Assemblea attraverso gli emendamenti.

Quindi sostituire la parola «convalida», con la parola «approvazione» risponde a questa esigenza, che mi pare importante anche dal punto di vista politico oltre che giuridico.

Per quanto riguarda la proposta del testo unico, a me pare che questa proposta discenda dal fatto che essendosi seguita la procedura che ho esposto, noi formiamo due testi: uno il testo originario già pubblicato ed entrato in vigore; l’altro il testo che risulta dalle modificazioni. Di fatti, l’articolo unico del disegno di legge, che ci è stato sottoposto, dice: «È convalidato il decreto con le seguenti modifiche». Quindi che cosa succede? Che la pubblicazione di questa legge, una volta approvata dalla Assemblea, conterrà semplicemente l’elenco delle modifiche.

Quindi fondere in un testo unico, attraverso una coordinazione, che mi pare necessaria dato il modo con cui sono stati svolti questi emendamenti, mi sembra opportuno.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, con l’emendamento Mortati non si chiede soltanto che alla parola «convalida» sia sostituita la parola «approvazione», ma si chiede di modificare sostanzialmente l’articolo 77 in quanto si propone di dire: «Il presente decreto sarà presentato per la revisione e l’approvazione all’Assemblea Costituente».

Io dichiaro questo: che dal punto di vista giuridico non concepisco una legge di revisione, perché una legge o si applica espressamente o si applica implicitamente. Non esiste, che io sappia, l’istituto della revisione della legge.

Ma, badino i colleghi dell’Assemblea, questo emendamento significa mutare sostanzialmente l’articolo unico del disegno di legge. Il disegno di legge è un disegno col quale si chiede la convalida dell’Assemblea.

Già mi affretto a dire subito che convalidare ed emendare, dal punto di vista giuridico, sono termini antitetici ed evidentemente non si convalida laddove si emenda, perché quando si emenda, si modifica la legge. La convalida non consente possibilità di modificazione della legge o possibilità di emendarla, sicché non è possibile che oggi l’Assemblea si arroghi questo cosiddetto potere di revisione, vale a dire di trasformare la legge, sostituire alla legge un’altra legge, mutare i principî ed i criteri ai quali la legge è ispirata. Evidentemente noi supereremmo il compito che siamo chiamati ad adempiere, perché l’articolo unico del disegno di legge demanda a noi soltanto di convalidare la legge.

Io anticipo la mia dichiarazione di voto, e cioè dichiaro che voterò contro perché qui si tratta di una legge essenzialmente anticostituzionale, incostituzionale.

È stato, non a proposito, richiamato l’articolo 3 dal collega Mortati. L’articolo 3, come l’Assemblea sa, stabilisce i rapporti, e li regola, fra l’Assemblea Costituente ed il Governo e demanda al Governo la potestà legislativa, eccettuate le leggi di approvazione dei trattati internazionali e di approvazione della legge elettorale. Vero è che al capoverso è fatta facoltà al Governo di sottoporre eventualmente all’Assemblea qualunque argomento, e mi permetto di soggiungere che questa facoltà fu più tardi trasformata in obbligo per l’articolo aggiunto al Regolamento con il quale si stabilivano apposite Commissioni che ogni qual volta rilevassero l’importanza tecnica o politica di un argomento, avevano il dovere di chiedere la deliberazione dell’Assemblea…

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, nel corso della discussione, lei aveva presentato una proposta nella quale svolgeva appunto questo concetto. Non vorrei che adesso, al termine dei nostri lavori, ella volesse svolgere una questione che aveva carattere pregiudiziale.

CRISPO. Io mi occupo dell’emendamento Mortati col quale si chiede che l’Assemblea si arroghi il potere di rivedere la legge. E dichiaro che questo è assolutamente incostituzionale.

Io dichiaro che qui non è nemmeno luogo alla convalida, comunque si voglia interpretare la parola convalida.

PRESIDENTE. Le faccio osservare che, poiché la votazione sarà a scrutinio segreto, non vi è luogo a dichiarazione di voto. Il problema che lei pone doveva essere posto come pregiudiziale di tutta la votazione, perché, se eventualmente l’Assemblea avesse accettato il criterio che non poteva darsi convalida ad un disegno di legge di questo genere, non si sarebbe neppure fatta la discussione. La pregiudiziale va posta al principio e non alla fine della discussione.

CRISPO. Io mi occupo dell’articolo 77, così come viene proposto secondo l’emendamento dell’onorevole Mortati.

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, non le pare superfluo voler dimostrare che questo articolo non ha validità se è già stato applicato? Credo che le sue considerazioni non abbiano fondamento per ragioni di carattere pratico. Comunque, la prego di svolgere rapidamente il suo concetto.

CRISPO. Poche parole per svolgere il mio concetto. (Commenti – Interruzioni).

Il mio concetto è questo, signor Presidente. Poiché stiamo discutendo non un disegno di legge, ma un testo di legge già pubblicato ed in corso di attuazione, è chiaro che se questo testo di legge rientrava nell’ambito della potestà legislativa delegata al potere esecutivo, come ella, signor Presidente, m’insegna, non c’è luogo a convalida perché il disegno di legge non è che l’esplicazione formale dell’attività legislativa delegata, né può parlarsi di convalida perché la convalida, nell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946, non è in alcuna guisa contemplata. Come l’Assemblea sa, quando si delega una funzione legislativa, il potere delegante può riservarsi la convalida e può riservarsi di controllare se il potere delegato si sia contenuto nei limiti della delegazione. Ecco quindi come io pongo la questione. Il testo è stato emesso dal Governo nell’esplicazione legittima della potestà legislativa delegata e non c’è bisogno quindi dell’intervento dell’Assemblea e della sua convalida.

Si è ritenuto che la materia regolata con un testo legislativo fosse d’importanza tecnica e politica tale da esigere la deliberazione dell’Assemblea. In questo caso ci troviamo dinanzi ad una legge incostituzionale, perché il potere esecutivo, pur riconoscendo, come ha riconosciuto, che la materia dovesse essere sottoposta a deliberazione dell’Assemblea, ha emesso la legge ed ha usato l’espediente di ricorrere alla convalida dell’Assemblea di una legge incostituzionale. Comunque la convalida è incostituzionale. (Commenti).

MORTATI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORTATI. Volevo portare questa modifica all’emendamento da me proposto: invece di «revisione» dire: «esame».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di parlare.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Io vorrei pregare l’onorevole Mortati, l’onorevole Crispo e tutta l’Assemblea, di considerare che l’articolo 77 fu posto nel testo della legge in quanto il Governo credette di dover presentare per la convalida all’Assemblea l’attuale legge, che è già entrata in esecuzione. In realtà questo impegno del Governo è stato mantenuto, quindi questa disposizione, inserita dallo stesso Governo nella legge presentata all’Assemblea, si è esaurita.

Proporrei quindi che l’articolo venisse soppresso, perché non ha più ragione di essere. Il Governo ha presentato la legge per la convalida e l’Assemblea ha fatto quel che doveva fare.

Non credo di dover rispondere all’osservazione dell’onorevole Crispo che questo procedimento è incostituzionale. La questione è superata dal fatto che la legge è stata discussa dall’Assemblea e la questione sulla costituzionalità del procedimento doveva sollevarsi in via pregiudiziale. Ma l’osservazione non è vera nel merito, perché per l’ultimo comma dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946 il Governo può sempre presentare alla Costituente altri disegni di legge, oltre quelli fissati tassativamente dalla legge.

In ogni modo, questo non ha importanza. Quello che è importante è che l’articolo 77, col fatto di essere venuta la legge dinanzi all’Assemblea e di averla l’Assemblea approvata e revisionata, si è esaurito. Quindi, ne proporrei la soppressione.

Invece, ha ragione di essere il secondo articolo aggiuntivo dell’onorevole Mortati, il quale vuole che il Governo provveda a compilare un testo unico per coordinare le disposizioni del decreto legislativo del 29 marzo 1946 con quelle riguardanti le aggiunte e modifiche apportate con l’attuale legge. Questo è un articolo necessario e ringrazio l’onorevole Mortati di aver pensato, con la sua grande competenza tecnica, ad introdurre questo articolo nel disegno di legge.

PRESIDENTE. Allora, vi è la proposta del Ministro onorevole Grassi di sopprimere l’articolo 77 perché ha perso ogni ragione di essere. Pongo ai voti questa proposta soppressiva.

(È approvata).

Debbo ora porre in votazione l’altra proposta dell’onorevole Mortati.

CODACCI PISANELLI. Prima di porre in votazione la proposta Mortati, la prego di darmi la parola per illustrare i miei emendamenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Codacci Pisanelli ha presentato li seguente emendamento all’articolo unico:

«Sostituire l’espressione: È convalidato, con l’altra: È convertito in legge».

Ha poi presentato il seguente altro emendamento al titolo del disegno di legge:

«Sostituire le parole: Convalida, con l’espressione: Conversione in legge».

Ha facoltà di illustrare i suoi emendamenti.

CODACCI PISANELLI. Dopo che il problema è stato così profondamente esaminato, ritengo che innanzi tutto debba rispondersi alla questione circa la costituzionalità della legge, costituzionalità che secondo me è stata pienamente dimostrata dall’onorevole Mortati. (Interruzioni – Commenti).

Dissento invece dalla proposta di sottoporre il problema all’esame ed all’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Onorevole Codacci Pisanelli, è stata già votata la soppressione dell’articolo 77.

CODACCI PISANELLI. Sì, ma ora si tratta anche del testo unico. L’atto nuovo, che noi stiamo per emanare, secondo me, porta ad abrogare il provvedimento legislativo che il Governo ha emanato. In altri termini, come nel campo delle obbligazioni, noi abbiamo la possibilità di estinzione delle obbligazioni attraverso la novazione, così qui noi ci troviamo di fronte ad un fenomeno di novazione di norma giuridica.

Con questa nuova legge, noi sostituiamo ed abroghiamo quella precedente. Ritengo perciò che non sia necessario pensare ad un testo unico in quanto dovrebbe essere la nostra stessa legge a sostituire completamente quella precedente.

Ecco la ragione per cui io parlo di conversione in legge del decreto, anche perché sono d’accordo con l’onorevole Mortati, che si tratti di una figura diversa da quella che normalmente portava alla convalida; si tratta cioè di una figura assai più vicina alla conversione in legge.

I provvedimenti legislativi che il Governo emana vengono chiamati decreti legislativi, ma in realtà non sono tali, poiché manca una vera e propria delega da parte degli organi legislativi competenti. Siccome non c’è questa delega, ci troviamo di fronte a decreti-legge, a quelli che si chiamavano decreti-legge, e che non hanno efficacia limitata, ma, anche in passato, potevano avere efficacia illimitata nel tempo. Ci troviamo di fronte a quel potere legislativo che il Governo ha sempre esercitato nei casi di necessità e di urgenza, e che ha portato come conseguenza all’intervento degli organi legislativi competenti. Quindi vi deve essere una conversione in legge. (Commenti).

Credo, ripeto, che sia più opportuno pensare ad una conversione in legge piuttosto che ad una approvazione. Questa conversione in legge, però, dovrebbe portare ad un riesame da parte della Commissione, perché, prima di sottoporre al nostro voto finale il testo del progetto, lo coordinasse in maniera organica.

Concludo affermando l’opportunità di non pensare ad una figura così complessa come quella dell’approvazione del successivo testo unico, ma di risolvere la questione nella maniera più semplice, che ha i suoi precedenti nella nostra storia parlamentare, cioè mediante la conversione in legge del progetto presentato dal Governo.

PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti.

Passiamo ora alle votazioni, iniziando dal testo aggiuntivo proposto dall’onorevole Mortati, così formulato:

«Il Governo provvederà a compilare un testo unico delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 143, e delle modificazioni ad esso apportate, curandone il coordinamento».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo ora alle proposte di emendamento al testo dell’articolo unico del disegno di legge.

Vi è la proposta dell’onorevole Mortati del seguente tenore:

«In relazione all’emendamento proposto all’articolo 77, nell’articolo unico del disegno di legge, sostituire alle parole: È convalidato, le altre: È approvato».

LA MALFA, Relatore. La Commissione è contraria, perché la formula da usare nell’articolo 1 deve essere identica a quella dell’articolo 77 soppresso, altrimenti non potremmo realizzare la condizione posta nel decreto originario.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Veramente io sarei favorevole ad accettare l’emendamento Mortati, perché «approvazione» è più che «convalida». Non si è convalidato soltanto; l’Assemblea ha modificato, quindi «convalida» avrebbe un significato ristretto, mentre «approvazione» è un termine più ampio e per questa ragione credo che sia tecnicamente più esatto.

In ogni modo, tanto «convalidato» quanto «approvato» finisce con l’essere la stessa cosa e quindi potremmo accettare l’una o l’altra soluzione.

Non credo che valga la pena di insistere troppo.

LA MALFA, Relatore. Io credo che sia necessario usare all’articolo unico la stessa espressione usata nel decreto legislativo, perché si stabilisce la continuità dei due provvedimenti e il fatto che un provvedimento si lega all’altro. Usando «convalidato» ci atteniamo alla formula del decreto legislativo e questo non dà la possibilità di dire che, essendo il decreto in vigore, noi l’abbiamo tramutato in formula di approvazione.

L’articolo 77 può essere stato soppresso, perché abbiamo realizzato la condizione.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Volevo chiarire, tecnicamente, la questione.

In altri termini, l’Assemblea ha già soppresso l’articolo 77, mentre rimane adesso da approvare l’articolo unico della legge che dice: «È convalidato il decreto legislativo concernente l’istituzione ecc.».

Invece, la formula della Commissione aggiunge: «con le seguenti modificazioni».

Ora, le «seguenti modificazioni» spostano, secondo me, la formula della convalida. Una cosa sarebbe stata la convalida pura e semplice e un’altra cosa è l’approvazione con modificazioni ed aggiunte.

Quindi, penso che l’onorevole Mortati abbia presentato questa proposta per poter rendere più chiaro il concetto che l’approvazione dell’Assemblea non è una semplice convalida, ma è una approvazione «con le seguenti modificazioni».

È questione di tecnica, che non cambia niente della sostanza.

Mi rimetto in ogni modo all’Assemblea.

PRESIDENTE. A me pare che ciò che si può approvare da una Assemblea come la nostra, è un disegno di legge. Per mezzo dell’approvazione, il disegno diviene legge. Non è soltanto una proposta, ma acquista un potere impegnativo ed obbligatorio.

Il decreto legislativo sulla patrimoniale possedeva già questo potere; non possiamo compiere un atto che è destinato a dare un potere di tal genere, nei confronti di una misura che lo possiede già, tanto che le disposizioni sono entrate – per quanto possibile – in applicazione.

Mi pare, pertanto, che si debba parlare di convalida.

Per tener conto poi delle modificazioni anche profonde che sono state apportate al testo del decreto legislativo, si potrebbe, se mai, modificare la formula, dicendo: È convalidato il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, con le modificazioni e le aggiunte – perché in realtà si è trattato di aggiunte, non solo di modificazioni – di cui al testo degli articoli seguenti.

Poiché l’onorevole Grassi, per il Governo, ha dichiarato di rimettersi a proposito di questo testo all’Assemblea, propongo all’Assemblea di accettare questa formulazione. Qual è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione è d’accordo.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora pongo ai voti la seguente formulazione:

«È convalidato il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, con le modificazioni e le aggiunte di cui al testo degli articoli seguenti».

(È approvata).

Il disegno di legge, costituito soltanto da questo articolo unico, sarà posto in votazione a scrutinio segreto all’inizio della seduta pomeridiana. Le urne resteranno aperte anche durante lo svolgimento della discussione sul Trattato di pace.

La commissione procederà poi al coordinamento degli articoli emendati.

Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così rimane stabilito).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Ricordo che noi abbiamo discusso ed approvato gli articoli più importanti di questo disegno di legge sotto la presidenza del collega onorevole Conti. (Applausi).

Credo di interpretare il pensiero di tutti, rivolgendo a lui, nel momento in cui il disegno di legge è diventato legge, il nostro rincrescimento che, per un equivoco superficialissimo, egli non abbia potuto essere con noi a godere il piacere di aver gettato le basi della ricostruzione della nostra finanza. (Vivissimi generali applausi).

PRESIDENTE. Con questo plauso unanime l’Assemblea ha manifestato di condividere pienamente i sentimenti espressi dall’onorevole Corbino, alle cui parole non posso che dare la mia completa adesione. (Segni di assenso).

La seduta termina alle 13.20.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

Indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

 

Congedo:

Presidente

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23)

Presidente

Togliatti

Einaudi

Pacciardi

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Pella, Ministro delle finanze

Cappi

Cimenti

Caroleo

Canevari

Grazia

Dugoni

Adonnino

La Malfa, Relatore

Micheli

Pesenti

Bertone

Pallastrelli

Scoccimarro

Tosi

Pesenti

Quintieri Quinto

Corbino

Camangi

Chiostergi

Fabbri

Piemonte

Foa

Targetti

Vanoni

Gronchi

 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Marazza.

(È concesso).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi, da parecchi giorni dura questa nostra discussione sopra la proposta, presentataci dal nostro Governo, di essere autorizzato alla ratifica del Trattato di pace, preparato per l’Italia dalle quattro grandi Potenze e definitivamente redatto a Parigi alla Conferenza dei ventuno; trattato al quale già l’Italia, del resto, ha posto la propria firma, per decisione del Governo, nel mese di febbraio. Da parecchi giorni dura la discussione e nel corso di essa abbiamo sentito gli interventi di colleghi di tutte le parti, che abbiamo seguito con rispetto o per lo meno con sostenuta attenzione. Nonostante ciò, nonostante che tutte le opinioni siano ormai, credo, state espresse e nonostante l’ampia esposizione fatta dal nostro Ministro degli esteri, l’impressione nostra è che tuttora domini nell’Assemblea uno stato d’animo, se non di confusione, per lo meno di perplessità. La perplessità domina, oltre che nell’Assemblea come tale, nella coscienza di ciascuno di noi. Di fronte alla gravità dell’atto che ci viene chiesto, ciascuno di noi interroga se stesso ed è ancor oggi dubbioso.

Noi sentiamo infatti che in questo dibattito vi è qualche cosa che trascende le nostre persone, che trascende i partiti e la lotta dei partiti, che trascende l’Assemblea stessa, direi che trascende anche il presente politico del Paese con le sue incertezze, i suoi contrasti, le sue lotte, e con la sua fondamentale contraddizione, fra una spinta e una aspirazione unitaria, che fu essenziale nella vita politica italiana dalla vigilia della liberazione fino ad oggi e persiste tuttora nella maggioranza del popolo italiano, e dall’altra parte un Governo il quale invece ha voluto costituirsi come Governo di parte, e cioè forzatamente come Governo di una parte contro l’altra del Paese. La maggioranza di noi comprende come nel momento attuale, anche questo aspetto della situazione italiana sia superato dalla gravità del tema che ci è stato presentato. In sostanza, due cose dominano questo dibattito: il passato del nostro popolo prima di tutto, il passato di questa nazione italiana, la quale si è costituita ad unità attraverso sforzi durati secoli e secoli, che ha creato così tardi il proprio Stato unitario, lo ha difeso e miracolosamente è riuscita, all’ultimo momento, a salvarlo nel corso dell’ultima catastrofe che ne ha minacciato la esistenza stessa. Oltre al passato, l’avvenire della nazione italiana, il futuro che dobbiamo garantire a noi stessi e alle generazioni che verranno dopo di noi, a questo Stato unitario italiano e alla nazione unita, affinché essi possano continuare a progredire sulla via del loro destino.

Certo, di fronte alla gravità del tema che sta davanti a noi, un altro metodo di discussione e anche di ratifica avevamo pensato. Avevamo pensato a un dibattito rapido, limitato a un’espressione di pensiero da parte di alcuni elementi fra i più rappresentativi dell’Assemblea, forse di un solo oratore, il quale esprimesse quello che di comune c’è oggi nella coscienza di tutte le forze democratiche della nazione italiana e poi un voto: un voto il quale per il modo stesso come fosse dato esprimesse quell’elemento di necessità nazionale che sentiamo tutti presente quando parliamo del Trattato di pace e ne discutiamo.

In questo modo, l’atto di ratifica avrebbe potuto essere e sarebbe stato isolato dalle contingenze della nostra vita politica e forse anche dalle contingenze della nostra politica internazionale; sarebbe stato l’atto di coscienza compiuto dalla democrazia italiana nel momento in cui essa chiude un passato, registra quello che ha potuto essere salvato e si avvia verso l’avvenire.

Ad un simile metodo di discissione voi sapete, colleghi, che si era pensato: la proposta era sgorgata dalla mente di alcuni dei migliori uomini del nostro Paese, da qualcuno, anzi, che occupa un’altissima carica politica nello Stato repubblicano. Quel metodo però esigeva alcune cose. Esigeva una cosa, in particolare, che, oggi, purtroppo non abbiamo: un Governo il quale potesse dire di parlare, nel momento in cui ci propone l’atto della ratifica, a nome di tutte le parti del Paese, a nome di tutti i partiti democratici e repubblicani.

Siamo così costretti a seguire un metodo diverso e la cosa è stata condotta in modo tale che ci è impossibile stabilire un limite qualsiasi a questa nostra discussione. Noi ce ne doliamo, perché ci sembra che una ratifica fatta con quell’altro metodo meglio avrebbe corrisposto alle condizioni in cui si trova oggi il Paese, meglio avrebbe accentuato davanti a tutto il Paese che la Nazione italiana oggi, di fronte alle tragiche conseguenze della guerra, non ancora completamente liquidate, e di fronte ai compiti che si pongono per la sua rinascita, ha bisogno ancora e soprattutto di una solida sua unità, di un’unità politica la quale si rifletta prima di tutto e anzitutto nell’esecutivo della Nazione, nel Governo che ne dirige le sorti.

Le cose sono andate diversamente, e precisamente sono state condotte in modo tale che, invece di persuaderci ed unirci, ha accresciuto in tutti noi la perplessità di fronte all’atto che ci viene chiesto. Prima di tutto abbiamo diritto di essere perplessi per il modo, e vorrei dire anche per la persona che ci chiede la ratifica – uomo o partito che essa sia – per il fatto che la ratifica ci viene chiesta, e ci viene chiesta in forma urgente, precisamente dal capo e dagli uomini di quella Democrazia cristiana che prima di oggi condussero – e condussero largamente, in modo non opportuno – una campagna attorno al Trattato di pace, negando che esso potesse venir firmato e ratificato, gettando contro coloro i quali affermavano che si sarebbe anche potuto firmare e ratificare, per determinati motivi, le peggiori accuse: di non aver senso nazionale, di rinunciare alla difesa dei beni della Nazione, di capitolare di fronte alle esigenze della vita del Paese. Non voglio citare i documenti e gli scritti attraverso cui quella campagna venne fatta dagli uomini che stanno alla testa di quel partito; sta di fatto però che nel momento in cui vediamo questo stesso partito chiedere oggi la ratifica, abbiamo il diritto di essere perplessi: il voltafaccia è troppo grande. (Commenti al centro). Sono cambiate le condizioni, lo ammetto, però allora ci si disse che mai avrebbe dovuto il Trattato essere o firmato o ratificato; ho qui le citazioni e ve le risparmio. Quella campagna fu dunque grave errore dei dirigenti del Partito democratico cristiano, perché creò in seno alla Nazione una scissione che era inutile e dannosa, poiché la questione del Trattato era una di quelle che noi dovevamo avere la capacità e la forza di esaminare tutti insieme, superando ogni egoismo di partito, di Governo o di opposizione, e rifacendoci solo a quelli che sono i supremi sentimenti e interessi della Nazione.

Quel grave errore della Democrazia cristiana ne accompagnava del resto altri, e altrettanto gravi. Essa continuava una politica estera del partito democristiano profondamente sbagliata, e profondamente sbagliata perché invece di sapersi elevare alla coscienza delle necessità unitarie della vita nazionale, di ogni questione controversa inevitabilmente era tratta a fare una questione di speculazione e di lotta tra i partiti. Di questo ha sofferto tutto il Paese; e voi stessi ne avete sofferto, perché avete perduto il prestigio (Commenti al centro), che avreste invece potuto avere mostrandovi come un partito capace di tener conto di tutte le esigenze nazionali e di fare veramente una politica italiana. Ma l’Italia soprattutto ne ha sofferto, ed è quello che ci preoccupa di più. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Subiamo anche questo per amor di Patria!

TOGLIATTI. Ma la perplessità deriva anche dal momento in cui la ratifica ci viene chiesta e ci viene chiesta con urgenza, quando, secondo l’opinione degli uomini più competenti in diritto internazionale che siedono in questa Assemblea, essa non sarebbe in sé e per sé assolutamente necessaria, in quanto la necessità assoluta della ratifica sorgerà solo nel momento in cui il Trattato sarà perfetto, allo scopo di dimostrare che non facciamo resistenza alla sua esecuzione. Ma il Trattato non è perfetto ancora: manca una delle ratifiche principali, oltre a qualche ratifica secondaria. Di qui la nostra perplessità che deriva dal fatto che prima, quando mancavano parecchie delle ratifiche principali, ci si disse che bisognava attendere quello che avrebbero fatto la Commissione degli esteri del Senato americano e il Senato stesso. Va bene, se abbiamo atteso per gli uni è giusto che si attenda per gli altri. Di qui una seconda causa della nostra perplessità.

Ma credo che la causa fondamentale è che di fronte a queste due incongruenze, di cui la prima è la contraddizione, anzi il voltafaccia nella politica della Democrazia cristiana, la seconda è la richiesta della ratifica quando questa non è ancora assolutamente indispensabile, siamo inevitabilmente portati a connettere la richiesta che il Governo ci fa con tutti gli altri atti della sua politica estera.

La ratifica illogica, secondo le direttive di politica estera dei democristiani, non giustificata secondo le norme stesse del Trattato come atto di necessità nel momento presente, trova dovunque la sua giustificazione in qualche altra cosa? E in che cosa? È essa elemento necessario di una determinata politica estera? E di quale?

Siamo quindi tratti inevitabilmente al dibattito generale di politica estera, e affermo qui che questo dibattito lo abbiamo desiderato, l’abbiamo auspicato e voluto. Lo stesso nostro intervento la sera in cui si dette il precedente voto circa l’opportunità o meno di avere questa discussione in questo periodo dei nostri lavori parlamentari, fu volto a provocare questo dibattito, perché lo riteniamo non solo necessario ma indispensabile. Il Paese deve oggi sapere qual è la politica estera del suo Governo, e un’opposizione come noi siamo – insieme con voi, colleghi della sinistra – credo abbia non solo il diritto ma il dovere di parlare a questo proposito molto chiaramente, appunto per il grado di acutezza cui sono giunti i rapporti internazionali, e che avvertiamo non solo istintivamente ma per i documenti, gli atti, le discussioni che sono a nostra conoscenza.

Colleghi della Costituente, io dirò dunque senza riserva quello che noi pensiamo della politica estera di questo Governo e della situazione internazionale. Mi hanno detto che sarebbe bene che noi comunisti, ala estrema dell’opposizione al Governo, non esprimessimo in modo del tutto chiaro le nostre critiche, e ciò allo scopo di permettere che si formi un fronte più largo per il rinvio della ratifica. Vi confesso di non essere stato sensibile a questo suggerimento.

Signori della destra, se la vostra sensibilità nazionale è così piccola che voi siete disposti a modificare la vostra posizione che argomentate o cercate di argomentare con motivi profondi, unicamente perché temete questo o quell’altro schieramento parlamentare, vuol dire che le ragioni che portate sono ragioni in cui in realtà credete ben poco. Il dovere nostro è di parlare; e parleremo come parla una opposizione democratica la quale si propone, pur essendo fuori del Governo, ponendo le questioni con quella acutezza che la situazione richiede, d’influenzare il Governo stesso attraverso la opinione del Paese. Un Governo il quale voglia essere democratico, non può non tener conto di quanto una opposizione dice, soprattutto quando sa che questa opposizione rappresenta una parte così importante dell’opinione pubblica come noi rappresentiamo. In questo modo noi contribuiamo a determinare la politica estera italiana pur essendo fuori del Governo. Anche per questo gli schieramenti occasionali di Assemblea non sono il fattore determinante decisivo della nostra posizione.

Se partissimo da una visuale ristretta di partito forse potremmo anche essere soddisfatti che il partito che oggi è il partito dirigente della borghesia italiana, cioè il Partito democratico cristiano e i gruppi dell’estrema destra, diano il loro voto favorevole alla ratifica. Ricordiamo la recente storia italiana, e la recente storia tedesca. Ricordiamo quale arma terribile fu in Germania e da noi, nelle mani dei gruppi dell’estrema destra nella lotta contro la democrazia, la politica di rivincita. E in sostanza, se domani vedessimo i gruppi dell’estrema destra – come vediamo oggi il partito dirigente della borghesia italiana – votare per la ratifica, sollecitare la ratifica, dovremmo essere contenti. Quest’arma verrebbe, se non spezzata, per lo meno spuntata nelle mani dei gruppi più reazionari delle nostre classi dirigenti borghesi. Per questo consideriamo con animo diverso da quello di molti altri partiti gli schieramenti che si produrranno a questo proposito. Quello che ci interessa è di esprimere la nostra opinione davanti a questa Assemblea e davanti al popolo italiano, e perciò che il dibattito continui, che si sviluppi, fino a mettere in chiaro molte cose di più di quante non ne abbia messo sinora.

Che cosa è il Trattato? Che cosa significa il Trattato? Tutti lo sappiamo. Conosciamo la durezza di alcune delle sue clausole politiche, territoriali, economico-finanziarie, militari. Non ho bisogno di fermarmi sopra di esse. Tutti noi, quando ne parliamo, ne parliamo con amarezza, con dolore. Vi è in questo sentimento qualche cosa che è comune a tutti noi e a tutto il popolo italiano. Il nostro Paese è stato portato dalle sue classi dirigenti a un punto al quale noi speravamo e ci auguravamo che mai dovesse essere portato.

Però, quando da questo sentimento ci si sforza di passare a un giudizio storico-politico sulle cause della durezza di queste clausole, allora l’accordo non è più completo. Allora possiamo ascoltare con commozione l’onorevole Benedetto Croce esporci qui il motivo del proprio dolore ed alcune delle note da lui toccate possono suscitare anche nell’animo nostro una eco di simpatia. Non condividiamo però il suo giudizio fondamentale. Vi è qualche cosa che sfugge alla valutazione storico-politica di Benedetto Croce. Quello che gli sfugge è un elemento che è nel Trattato e non poteva non esserci: la sanzione. Dice Benedetto Croce che la sanzione è nei fatti, che il giudizio sulle guerre e sui popoli e sui loro dirigenti lo dà la storia. È vero. Terribile è la sanzione oggettiva caduta sul nostro popolo, e che si esprime con la distruzione delle nostre ricchezze, delle nostre città, delle nostre campagne. Tutto questo è già una sanzione. Però oggi le guerre non sono più quello che il senatore Croce ci dice. Esse sono diventate un’altra cosa, dal giorno in cui sono diventate guerre di popoli e di idee, che vivono nella coscienza dei popoli, si affermano attraverso conflitti armati, guerre civili dunque sempre, in sostanza. È quindi inevitabile il giudizio, la sanzione che ad esse tiene dietro. Questo infatti esige la coscienza dei popoli che teme nuove aggressioni, e per questo vuole condannato chi, aggredendo, ha scatenato la guerra. Il giudizio quindi investe tutto il nostro Paese per la politica da esso condotta negli ultimi venti anni e anche se ci addolora, non possiamo sottrarci ad esso. Questo giudizio colpisce l’Italia, tutta l’Italia così come essa è stata e la colpisce in un momento in cui si chiude un periodo della sua storia, in cui da parte delle classi dirigenti del Paese venne fatta una politica che non era una politica nazionale, ma profondamente contraria agli interessi della Nazione.

Io lo so, onorevole Nitti, la colpa non è soltanto di quelle classi dirigenti italiane che vollero il fascismo, perché esse trovarono nel mondo tutta la solidarietà di cui avevano bisogno; e oggi noi, come lei, rabbrividiamo nel vedere fra i giudici qualcuno di coloro che dovrebbe sedere invece sul banco dell’accusato. (Approvazioni).

Ma il problema dobbiamo vederlo nell’aspetto che riguarda noi come popolo italiano, come dirigenti della politica italiana. L’ho già detto: nessuno può sottrarsi alla responsabilità. Sento che non sarebbe giusto, per esempio, che io vi ricordassi come l’uomo che fondò questo nostro partito, Antonio Gramsci, nel 1928, quando davanti al Tribunale Speciale gli posero la domanda di quel che avrebbero fatto i comunisti in caso di guerra rispose una sola cosa con la sua voce esile: «Voi porterete l’Italia alla catastrofe». E poi tacque. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questo atto compiuto dal capo del nostro partito davanti a quei Tribunale, anche se quel grande con la sua vita doveva pagare quel suo giudizio. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questa grandiosa capacità di previsione per dire: la cosa non ci interessa; noi lo avevamo previsto. No, non si possono scindere le proprie responsabilità in nessun momento da quelle del proprio popolo, da quelle della Nazione. Facciamo parte di questa Nazione; con essa marciamo e condivideremo con essa tutte le sorti e il destino comune.

Certo è però che appunto perché sappiamo che vi fu colui che levò la voce per dire che si andava alla catastrofe, appunto per questo abbiamo il dovere di ricordare che vi furono anche quelli che non ebbero il coraggio di levare la voce, non ebbero il coraggio di dire che si andava alla catastrofe e avvertirne il popolo. Forse la posizione che essi avevano sulla scena politica, il fatto che erano espressioni di determinati gruppi sociali, economici e politici, impedì loro la chiarezza del giudizio e li rese complici del fascismo. Anche noi, democratici di tutti i partiti che hanno tenuto fede, sotto la tirannide, all’idea della libertà, e hanno combattuto per la redenzione della Patria dobbiamo però riconoscere che una parte di responsabilità è anche nostra, se non altro perché dovevamo essere più forti, più uniti nella lotta contro la tirannide, e allora forse saremmo riusciti a salvare il Paese dalla catastrofe, e oggi non saremmo qui a fare questa discussione dolorosa.

Dico questo perché a questa necessità fondamentale della nostra unità mi riferirò in tutto il resto della mia esposizione, prescindendo da quelle che sono le attuali posizioni di questo o quell’uomo politico, di questo o di quel partito.

Sento infatti che nel momento presente, ci troviamo in uno di quegli istanti in cui ancora una volta le sorti del nostro popolo possono decidersi in un modo o in un altro a seconda della via che sceglieremo, dell’impulso che daremo alla ricostruzione del nostro Paese, e in particolare a seconda della posizione che faremo prendere al nostro Paese nelle questioni internazionali, nella grande lotta che si svolge attorno al tema della pacifica ricostruzione del mondo intero. Evitiamo dunque errori finché siamo a tempo, e per evitarli cerchiamo di far rivivere in noi quel sentimento unitario e democratico che se più forte fosse stato nello spingerci alla lotta contro il fascismo ci avrebbe permesso di evitare al nostro Paese tante sciagure.

Il Trattato, ripeto, è quello che è, e noi oggi, non lo possiamo cambiare. Non possiamo cambiare in esso, credo, nemmeno una virgola. Però come avrebbe potuto essere il Trattato? Avrebbe potuto essere molto peggiore e avrebbe potuto essere un poco migliore. Molto peggiore sarebbe stato il nostro Trattato se non vi fosse stata la rivolta del popolo italiano contro la tirannide fascista, se non vi fosse stata la partecipazione alla guerra di liberazione voluta dal popolo, se non contro la volontà delle vecchie classi dirigenti, per lo meno spezzando la resistenza e la riluttanza di queste classi. Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se nella guerra di liberazione non fossimo riusciti, grazie alla volontà e all’entusiasmo del popolo e agli sforzi politici da noi fatti, a schierare in campo i resti di un esercito, di una marina, di una aviazione che hanno fatto il proprio dovere, nell’ultima fase della guerra, fino all’ultimo, senza chiedere nulla.

Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se non vi fosse stata la nostra guerra partigiana, se non vi fosse stata la nostra insurrezione nazionale liberatrice, la quale ci ha ridato un posto in mezzo alle Nazioni democratiche, sia pure un posto ancora limitato dove non si sta bene come si stava una volta, onorevole Orlando, ma che è ad ogni modo un posto.

Senza quella politica, la quale rese possibile la nostra partecipazione alla guerra e la nostra insurrezione e la quale fu voluta e fatta dal popolo e dai partiti popolari che hanno la grande maggioranza in questa Assemblea, il Trattato sarebbe stato molto peggiore e forse noi ci troveremmo oggi ancora nelle condizioni in cui si trova il popolo tedesco, che ignora quale sarà il proprio destino, non sa ancora se riuscirà a ricostituire l’unità della propria Nazione e a ricostruire il proprio Stato nazionale unito e indipendente.

Questo enorme vantaggio siamo riusciti a conquistarcelo attraverso il nostro lavoro, attraverso la nostra resistenza, la nostra lotta, la nostra insurrezione.

Questo io dico in particolare rivolgendomi a voi, colleghi della parte destra, che non siete capaci di aprire bocca, senza gettare contro queste, che sono state le glorie più grandi del popolo italiano in questo periodo della sua miseria, fango ed insulti; a voi che avete scritto che insurrezione nazionale non c’è mai stata; a voi che ogni giorno irridete a quello che è stato lo sforzo liberatore del popolo italiano (Applausi a sinistra); a voi che ancora oggi non avete capito che cosa abbia significato per l’Italia la politica dei Comitati di liberazione nazionale e quella unità dell’esecutivo nazionale, che avevamo creata attraverso quella politica, la sola che potesse darci la possibilità di risollevarci, di dar inizio alla redenzione del popolo italiano.

Il Trattato, dunque, avrebbe potuto essere molto peggiore. Ritengo, però, che avrebbe anche potuto essere alquanto migliore e precisamente avrebbe potuto essere migliore se dal momento in cui Roma fu liberata, lo sforzo unitaria, patriottico, nazionale, che animava le grandi masse del popolo, fosse riuscito a ispirare una differente politica estera: una politica estera la quale non fosse dominata da preoccupazioni ideologiche di parte o di classe, che dividevano il popolo e offuscavano l’interesse nazionale.

È verissimo; l’ultima guerra è stata combattuta e vinta da un’alleanza, e questa alleanza era di forze eterogenee: da un lato la democrazia socialista, l’Unione Sovietica, dall’altro grandi Paesi democratici, capitalistici ed imperialistici, uniti da una comunità di interessi, e in prima linea dall’interesse loro comune di sbarrare la strada alla barbarie nazista e fascista.

Da questa alleanza è uscita la vittoria. Se questa alleanza non ci fosse stata, vittoria per i popoli democratici e per la democrazia forse non vi sarebbe stata.

Ma poiché vi erano due forze, e queste due forze alleate erano eterogenee, immediatamente abbiamo visto alla fine della guerra, e anche prima di essa, contrasti, antagonismi, minacce di scissioni, e iniziarsi dannosissime speculazioni circa la loro possibilità.

L’errore della nostra politica estera, dal giorno della liberazione di Roma in poi, è stato di essere una politica estera eccessivamente unilaterale, orientata sopra una di queste forze, e non sopra l’unità di esse: badate, non dico sull’altra, ma su entrambe, anzi, sulla loro unità. Questo è stato l’errore della nostra politica estera.

L’atto più intelligente della nostra politica estera – permettetemi di dirlo, compagni comunisti e socialisti – è stato compiuto dal Maresciallo Badoglio nel periodo di Salerno…

CORBINO. Di Brindisi, prima.

TOGLIATTI. …o di Brindisi che fosse, quando egli ottenne il riconoscimento di un Governo italiano rappresentativo di tutta Italia da parte dell’unione Sovietica ed in quel modo riuscì a svincolare l’Italia, di fatto, dalla posizione di Stato nemico e metterla sulla strada che avrebbe potuto portarla, qualora fosse stata seguita con intelligenza, con abilità e accortezza, o ad una cobelligeranza trattata, quindi con dei corrispettivi, o per lo meno ad una differente posizione sin dall’inizio, subito dopo la liberazione.

Intervennero invece, dopo la liberazione di Roma, elementi e fattori antiunitari, fomentati al di fuori d’Italia e in Italia stessa fomentati da gruppi sociali e politici determinati, dai soliti gruppi reazionari incapaci di comprendere la necessità di una politica nazionale. In sostanza, lo dirò apertamente, onorevole Bonomi, credo che la responsabilità principale sia sua e dei circoli reazionari da cui ella lasciò che fosse ispirata la sua politica estera in quel primo periodo. Perdemmo allora ogni vantaggio già conquistato e le misere concessioni contenute nel famoso memoriale MacMillan, di cui già si parlava nel periodo salernitano, vennero nel momento in cui tutta l’Italia stava per essere liberata e in cui la guerra finiva.

Ripeto, tutti i vantaggi già acquistati furono perduti, e non si conquistarono, servendo i circoli reazionari d’Occidente, nuove posizioni. Rimanemmo nella posizione, che è quella che è sancita ancora oggi nel Trattato. Da quella politica non poteva uscire altro che questo Trattato ed io ritengo che gli storici futuri, quando con spirito di imparzialità giudicheranno quel periodo della nostra vita nazionale, riconosceranno che è stato per l’Italia uno dei periodi in cui veramente lo spirito di classe e di casta più ha danneggiato l’interesse della Nazione, perché tutte le premesse e tutte le condizioni esistevano per un’altra politica estera. Prima di tutto però occorreva che venissero liquidati i sospetti di classe, le diffidenze verso i partiti e verso le forze popolari che si orientavano in modo unitario e nazionale, occorreva fare una politica che non fosse di una delle parti, di una delle ideologie in contrasto, ma fosse di unità, veramente e soltanto nazionale e democratica, e non asservita a nessuna cricca reazionaria. Quella politica non venne fatta.

Oggi paghiamo le conseguenze, in parte, di quegli errori. Si dirà: ma voi eravate in quei Governi, perché siete stati zitti e non avete corretto quella politica estera? Non abbiamo potuto, onorevoli colleghi. Abbiamo criticato sempre, abbiamo fatto tutte le proposte che era necessario fare, ma non siamo riusciti a correggere quella politica estera, così come non siamo riusciti finora a correggere l’unilateralità dell’indirizzo della politica internazionale del nuovo Stato italiano. Questa impossibilità in cui ci siamo trovati di esercitare una influenza positiva e nazionale in questo campo decisivo della nostra vita politica, è stato del resto uno dei motivi del malcontento nostro relativamente all’azione dei successivi Governi cui partecipavamo. Non svelo nessun segreto dicendo che questo è uno dei motivi per cui a un determinato momento l’uomo più responsabile del nostro partito non volle più entrare nel Governo, per essere libero di dire che, in quel campo che è decisivo per la vita di uno Stato, il nostro Governo sbagliava.

Perché non avremmo dovuto, del resto, partecipare al Governo? In fondo la nostra partecipazione al Governo era il solo elemento che correggesse la politica estera unilaterale e non nazionale che si stava facendo, era il solo elemento che mantenesse carattere largo, unitario, al viso che la nuova Italia mostrava al mondo. Proprio a questo elemento si è voluto rinunciare alla vigilia del giorno in cui si chiedeva ratifica: ecco un altro dei motivi della nostra perplessità.

Abbiamo preso iniziative verso tutti gli Stati, abbiamo mandato delegazioni in tutte le parti del mondo, abbiamo fatto cortesie a tutti, perfino al Governo egiziano, a cui abbiamo dato parecchi miliardi, per danni di guerra in un momento in cui sapevamo benissimo che era imminente la rinuncia ai danni di guerra da parte di grandi Potenze. Nel far cortesie a tutti, ci siamo però dimenticati che vi è una delle Potenze vincitrici che si chiama l’Unione Sovietica; e mai un uomo politico nostro è andato da quella parte, allo scopo di far ivi conoscere l’Italia nuova e di trattare, di discutere, di ristabilire contatti e tenere una politica nazionale. Mai questo è avvenuto. Non potete negare, anche solo di fronte a questo fatto, che è stata fatta una politica unilaterale, e di questa politica dovevamo subire le conseguenze, e non perché da quella parte ci venisse una replica offensiva, quanto perché una politica unilaterale ha voluto dire essere alla mercé dell’altra parte.

Non parliamo poi delle nostre relazioni con la Jugoslavia, dove non soltanto vi fu deliberata ignoranza, ma ostilità. (Commenti al centro).

Se questa non vi fosse stata, probabilmente il problema delle nostre frontiere orientali avrebbe potuto essere risolto in modo diverso. (Commenti al centro). Mi rincresce di dare un dispiacere ai colleghi della Democrazia cristiana che protestano ad ogni mia parola; però, sono lieto di aver constatato che nel corso di questa discussione già da alcune parti è stata espressa una opinione che non solo mi fa piacere, ma mi sorprende perché implica un giudizio del tutto diverso da quelli che vennero espressi finora a proposito di quello che fu il contatto preso da me col-Capo del Governo di Belgrado, col Maresciallo Tito. Sono lieto di aver constatato che un simile giudizio è stato esposto anche da un collega di parte democratica cristiana; il che vuol dire che la verità si fa strada, anche se lentamente.

Oggi si parla di revisione, si parla di politica di iniziativa, si parla di migliorare le condizioni dell’Italia, riprendendo e ristabilendo relazioni normali e pacifiche con gli altri popoli. Credo di poter affermare che l’unica iniziativa concreta, seria, che è stata presa in questa direzione, allo scopo di migliorare il Trattato in una delle sue parti sostanziali, è quella che è stata presa dal nostro partito quando ha incaricato me di prendere contatto con il Governo di Belgrado. (Commenti al centro).

Voci al centro. Gorizia!

JACINI. Ci vuole un bel coraggio!

TOGLIATTI. Come andarono le cose in seguito, voi lo sapete. Purtroppo, non si riuscì a trovare un linguaggio comune per utilizzare quello che vi era di utilizzabile ai fini nazionali di quella iniziativa. Devo dire che lo steso Presidente del Consiglio De Gasperi, fino ad allora Ministro degli esteri, non conobbe mai, e tutt’ora ignora, onorevoli colleghi, quali furono i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito… (Commenti, interruzioni al centro).

Una voce al centro. Si vede che non gliel’ha comunicati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Allora, il Ministro degli esteri era l’onorevole Nenni.

TOGLIATTI. …ignora i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito e quali fossero le possibilità che quel colloquio e le cose dette in esso aprivano alla collaborazione tra i due Paesi.

E poiché è stato fatto il nome della città di Gorizia, mi si permetta di ricordare che elemento essenziale delle dichiarazioni che vennero fatte allora a me relativamente a quella frontiera, erano prima di tutto la concessione di un regime autonomo per la città di Trieste, concessione che del resto venne fatta a Parigi dall’onorevole De Gasperi al Ministro cattolico Gruber, austriaco, senza che ve ne fosse nessun bisogno; e quanto all’accenno alla città di Gorizia, ma, signori, quando si inizia una trattativa diplomatica – onorevole Sforza, lei me lo insegna – non si indicano mai le posizioni di arrivo, ma solo quelle di partenza.

Ma quella possibilità, che oggi un gran numero dei colleghi dell’Assemblea riconosce essere stata una possibilità concreta di migliorare in uno dei punti essenziali il nostro Trattato, facendo rimanere dentro alle nostre frontiere una città cara al cuore di tutti gli italiani (Commenti al centro), quella possibilità doveva essere sfruttata. Essa non lo fu e la via che da quei primi contatti era stata aperta, venne sbarrata, perché ciò contraddiceva a quello che era l’orientamento unilaterale della politica estera del nostro Paese in quel momento e lo contraddiceva in uno dei punti fondamentali.

Ed oggi l’impressione è che si perseveri in questo errore; ma in un momento in cui l’errore è molto più grave per le conseguenze stesse che ne derivano. La sostanza del Trattato infatti viene dalla guerra fascista. Miglioramenti potevano essere ottenuti attraverso una diversa politica, ma la sostanza rimane quella. Oggi invece si tratta di fare i primi passi su una strada nuova. Ebbene, qual è quella strada? Prima si poteva ancora pensare che dal momento che le due grandi forze, che hanno collaborato per la vittoria contro il fascismo e il nazismo erano alleate, facevano la guerra insieme, erano sullo stesso fronte, si poteva ancora dire che quando si parlava di rottura e conflitto tra di esse si trattasse di divergenze di opinioni, di modo diverso di pensare, di speculazioni, di rappresentazioni estranee alla realtà.

Oggi, purtroppo, incominciamo a vedere una frattura che si delinea in Europa e nel mondo. Quindi l’errore, oggi, è più grave di prima, perché i passi falsi fatti oggi possono compromettere il futuro del nostro Paese in un modo senza dubbio più grave.

E qui vengo al tema essenziale del nostro dibattito, al tema della politica estera nel momento presente, di cui la richiesta di ratifica immediata, urgente, è parte sostanziale, se ho ben compreso ciò che ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio e ciò che ha detto il nostro Ministro degli esteri all’inizio della discussione.

In questa situazione internazionale così intricata, nella quale vediamo delinearsi una frattura e agire forze che tendono a renderla permanente e ad approfondirla, facendone quasi una piaga, come ci orientiamo noi? Dove andiamo? Dove collochiamo l’Italia? Nel caso specifico si tratta della nostra adesione alla Conferenza di Parigi, del modo come essa è avvenuta e della nostra posizione verso determinate iniziative di politica estera prese dalle grandi Potenze occidentali.

Queste grandi Potenze occidentali, è vero, ci hanno aiutato e ci aiutano. Ci hanno aiutato, essenzialmente, in una cosa: a liberarci dal fascismo e dall’occupazione tedesca e per questo la nostra riconoscenza verso di loro deve essere, e sarà, imperitura.

Si è creata fra noi e le Nazioni che hanno combattuto per liberarci dal fascismo e dalla occupazione tedesca – siano esse Nazioni dell’oriente che dell’occidente – una fraternità saldata col sangue, che non dovrà mai essere smentita dalla nostra politica estera e non dovrà mai cancellarsi nella coscienza del Paese.

Ma il problema degli aiuti è un altro. E qui desidererei che noi dibattessimo la cosa sforzandoci di eliminare dal dibattito tutte quelle che sono rappresentazioni volgari di questo problema e che troppo si prestano alle speculazioni di parte.

Un aiuto c’è stato e non poteva non esserci, quando eravamo la retroguardia degli eserciti che combattevano sul nostro suolo per la liberazione: in una retroguardia non si può lasciare che la gente muoia di fame. Dovevamo essere aiutati.

Ma oggi questo periodo è finito, e ritengo sarebbe cosa molto buona per gli sviluppi della nostra politica nazionale e soprattutto per la psicologia del nostro popolo, se rinunziassimo a questo termine di «aiuti», perché esso è legato ad alcune rappresentazioni che non sono giuste. L’uso continuo di questo termine e l’abuso di esso, poi, nella polemica dei partiti – che spesso trascende e va al di là delle intenzioni di chi le dà il primo impulso – ci porta infatti a una impostazione sbagliata della politica estera italiana.

L’onorevole Ruini, nel discorso da lui fatto quando discutemmo delle dichiarazioni del Governo che sta oggi davanti a noi, cercò di svincolarsi da questo termine dicendo che vi è un conto di dare e di avere: tanto abbiamo dato, tanto abbiamo ricevuto. Egli concludeva, alla fine, che abbiamo ricevuto meno di quello che abbiamo dato.

Non so se i suoi dati fossero esatti: nessun dato di questo genere è stato, finora, pubblicato ed è male non lo si sia fatto. Se non erro, però, da parte del Governo degli Stati Uniti, la sfida è stata raccolta ed è stata raccolta in un modo abbastanza astuto, direi, perché, posti davanti al problema che l’Italia avrebbe un credito e non un debito, il Governo degli Stati Uniti ha proposto di andare ad esaminare tutto il libro del dare e dell’avere. Allora hanno trovato che al nostro passivo c’è molta roba, oltre quello che abbiamo avuto durante e subito dopo la guerra, mentre gli eserciti alleati combattevano nel nostro Paese; hanno trovato che al nostro passivo ci sono anche i crediti fatti ai precedenti Governi italiani, a differenti città italiane, a Mussolini e via dicendo.

Permettetemi di osservare che questo modo di porre il problema, anche se ha risultati immediati spiacevoli, non è del tutto sfavorevole a noi. È giusto infatti che nei rapporti economici e quindi anche nei rapporti politici con le grandi Potenze più forti di noi, noi incominciamo a svincolarci dall’idea della elemosina. Un conto di dare e di avere lo accettiamo e sta bene. Ma restare sotto l’incubo di non poter vivere se non di elemosina, questo no.

Siamo un popolo di 45 milioni di abitanti, abbiamo una nostra industria relativamente potente, abbiamo una nostra agricoltura, se pure con le sue deficienze, e, come tutti gli altri Paesi, come tutto il resto del mondo, abbiamo un conto di dare e di avere. Discutiamo dunque dei nostri debiti e dei nostri crediti, discutiamo dei vostri crediti e dei vostri debiti; ma liquidiamo quella falsa rappresentazione degli «aiuti», la quale scoraggia il popolo italiano, dandogli l’impressione che non può far niente se i potenti che siedono in qualche parte della terra non si degnano di muoversi verso di lui.

Noi abbiamo bisogno di questi potenti, ma – convinciamocene – anche loro hanno bisogno di noi e molto di più ne avranno quando saremo usciti dallo stato anormale del dopoguerra e saremo entrati nella fase normale in cui tutti i Paesi sono interdipendenti.

Ritengo quindi sia un bene che noi ci poniamo su questo terreno. Il volgare concetto di «aiuto» e quasi di elemosina, che viene diffuso particolarmente nella propaganda spicciola democristiana, per cui, quando qualcuno dice che bisogna salvaguardare la nostra indipendenza, c’è sempre qualcun’altro che risponde che noi abbiamo bisogno di «essere aiutati», è un concetto che deve essere sradicato una volta per sempre.

Da questo quanto mai errato punto di vista, deriva tutta una falsa concezione della nostra vita nazionale e della nostra politica estera, ed io sono lieto che differenti oratori, succedutisi a parlare da tutti i settori dell’Assemblea, abbiano, su questo argomento, alfine cominciato a porre le cose in modo giusto, con dignità e con fierezza, incominciando a comprendere che, pur con la nostra povertà, noi abbiamo ben dato qualche cosa al mondo, incominciando a comprendere che anche coloro che ci aiutano lo fanno forse perché ne ricavano un interesse.

Badate che se la falsa concezione dell’«aiuto» e dell’elemosina dovesse continuare a dominare fra gli uomini che ci governano, ciò potrebbe condurli a commettere fatali errori. Dobbiamo tornare ad avere trattati di commercio con tutto il mondo, a incominciare dagli Stati Uniti. Ma quali trattati di commercio faremo con questo grande Paese? Non certo trattati in cui si tenga conto soltanto della volontà di coloro che qualcuno vorrebbe considerare quasi come i padroni del nostro Paese.

A questo proposito, sono assai preoccupato circa il carattere dei trattati che sembra gli Stati Uniti abbiano proposto ad altri Paesi, è, secondo le mie informazioni, avrebbero proposto anche a noi. Non esito a dire che sono rimasto impressionato alla lettura di un progetto di questo genere. Ritengo, infatti, che un trattato di commercio il quale contenesse una clausola in cui fosse sancito che vi è libertà per i cittadini di ambo i Paesi di promuovere nell’altro Paese qualsiasi intrapresa di ordine commerciale o industriale, di acquistare, di alienare, di affittare, di edificare, ecc., che sancisse in questo campo una ampia libertà sedicente reciproca dunque, ma nel quale fosse poi inserita un’altra clausola in cui fosse detto che però, in ciascuno dei due Paesi contraenti, le norme che regolano la immigrazione e i divieti di immigrazione rimangono immutate, ritengo, ripeto, che un simile trattato sarebbe enormemente lesivo dei nostri interessi nazionali. Che cosa vorrebbe dire un simile trattato? Vorrebbe dire che i nostri imprenditori, commercianti, industriali, acquirenti di terreni, di fabbriche, ecc., sarebbero sottoposti alla concorrenza senza limiti degli imprenditori americani, molto più forti di loro. Ma il nostro lavoratore, il quale cerca e sogna di andare in America a lavorare, là troverebbe le porte sbarrate. È assurdo pensare che i nostri imprenditori vadano ad aprire delle imprese negli Stati Uniti; noi avremmo invece bisogno di ottenere dagli Stati Uniti libertà di immigrazione per la nostra mano d’opera. Questa non ci sarà data, ma l’imprenditore americano verrà liberamente da noi a schiacciare la nostra iniziativa!

Io credo che, se la riconoscenza che abbiamo per gli Stati Uniti, e se una concezione di politica estera legata all’idea degli «aiuti» e quindi del padrone che dispone di noi a suo talento, dovesse portarci all’accettazione di un simile trattato, onorevole conte Sforza, questo sarebbe un atto che andrebbe contro i nostri interessi nazionali.

Vi sono poi, sempre a questo proposito, problemi particolari molto gravi. Ritengo, per esempio, che le risorse minerarie di un Paese – e soprattutto di un Paese come il nostro – devono essere gelosamente custodite dallo Stato. Noi non sappiamo ancora quali sono le risorse minerarie del nostro suolo. Il fascismo aveva iniziato, sì, la ricerca di vene petrolifere; ma tutti noi sappiamo che le condusse con quella calma e quella tranquillità che erano necessarie affinché non venissero lesi gli interessi delle società le quali traevano enormi profitti dall’importazione e dalla lavorazione della nafta sul nostro territorio. Ma se domani, per fortuna, riuscissimo a scoprire che il nostro Paese è ricco anche di queste risorse, sarebbe una necessità essenziale, vitale per lo Stato italiano che esse rimanessero nelle mani nostre. Guai se questo non avvenisse! Se non avvenisse questo, se dovessimo, per esempio, cedere liberamente, in omaggio al principio della porta aperta, ad ogni iniziativa capitalistica straniera in questo campo; se dovessimo anche qui cedere agli stranieri piena libertà di ricerca e di sfruttamento, sappiamo che cosa diverrebbe l’Italia: qualche cosa come i piccoli staterelli del Medio Oriente, la cui indipendenza non esiste, di fatto, perché sono soltanto dei posti comandati dai grandi agenti delle compagnie petrolifere internazionali.

Anche a questo proposito, in guardia! Riconoscenza, sì; ma tutela dei nostri interessi, e tutela di quel tanto di indipendenza che anche da questo trattato ci viene ancora lasciata. Non concediamo di più di quello che ci hanno già preso; difendiamo quello che ci è rimasto, perché questa è la prima condizione per poter allargare a poco a poco il limite della nostra autonomia e della nostra indipendenza, per riuscire di nuovo a stare a fianco delle altre grandi Nazioni europee e mondiali.

Ci si dirà: Ma allora voi comunisti non volete gli aiuti degli Stati Uniti? Siete dunque dei suicidi? Volete morire di fame, quando quelli vi offrono di sfamarvi e di dissetarvi?

Non è così!

Noi vogliamo che la questione dei nostri rapporti con questa grande Potenza sia posta ed esaminata con la tranquillità e con la freddezza dell’uomo di Stato, che dirige la ripresa economica e politica di una Nazione, la quale è caduta in basso, ma non crede che questo sia eternamente il proprio destino, la quale sa e vuole risollevarsi e ridiventare un Paese indipendente, perché ne è capace.

Gli Stati Uniti hanno una formidabile forza economica, accresciutasi durante la guerra. L’onorevole Nitti già ne ha parlato qui e nella Commissione dei Trattati. Sta di fatto che mentre l’Asia e l’Europa, compresa l’Unione Sovietica, escono dalla guerra con una diminuzione dei 40 per cento della loro capacità produttiva, gli Stati Uniti ne escono con un aumento del 50 per cento dell’apparato produttivo e del 65 per cento della loro produzione industriale. È evidente: si tratta di un colosso; ma di un colosso il quale ha pure le sue contraddizioni. Questo enorme apparato industriale accresciutosi durante la guerra dovrà fra pochi mesi, per non essere scosso da una crisi tremenda, smerciare 205 miliardi di dollari di prodotti mentre il mercato interno americano va restringendosi, perché, mentre i profitti delle grandi compagnie monopolistiche sono aumentati, i salari e gli stipendi diminuiscono, il che è una legge del regime capitalistico.

Dove saranno collocati questi prodotti? Chi li comprerà se tutto il mondo è rovinato? È evidente che è nell’interesse degli Stati Uniti di piazzarne una parte all’estero e quindi è nell’interesse degli Stati Uniti di aiutare i Paesi i quali devono comperare questi prodotti. Credo che questo fatto sia ormai entrato nella coscienza comune perché l’ho sentito esprimere in forme diverse da quasi tutti gli oratori che, intervenendo nel nostro dibattito, si sono intrattenuti su questo problema.

Noi dobbiamo quindi comprendere che vi è un interesse reciproco: vi è un interesse nostro, ma noi siamo la parte debole, e vi è un interesse loro, ed essi sono la parte forte. Essi sono potenti colossi di fronte a questo piccolo Paese che oggi esce così rovinato dalla guerra.

Ebbene, che cosa dobbiamo fare, quale deve essere la nostra linea di condotta in questa situazione? Dev’essere di garantire all’Italia quei vantaggi che è possibile garantirle, senza metterci in condizione di perdere la disponibilità di noi stessi, intendo dire la disponibilità della nostra vita economica e del suo indirizzo e resistendo a quelle che possono essere – sulla base della potenza economica degli Stati Uniti – le pericolose tendenze a un dominio di tutto il mondo.

Onorevoli colleghi, da queste tendenze non è mai uscito niente di buono per l’umanità. Sono tendenze conquistatrici e devastatrici contro le quali i popoli sempre hanno saputo a un certo momento ribellarsi per difendere la loro indipendenza. L’unità del mondo non si crea imponendo a tutti i Paesi il predominio di una sola potenza strapotente, si crea attraverso la conquista e la garanzia della libertà e dell’indipendenza, direi attraverso la libera esplicazione del genio di ogni Nazione.

Noi dobbiamo stare attenti a tutte queste cose, e dobbiamo stare attenti anche se siamo oggi deboli e piccoli; direi che dobbiamo stare ancor più attenti appunto perché siamo deboli e piccoli.

E qui si colloca la posizione nostra a proposito del «piano» Marshall. Poteva l’Italia respingere l’invito alla Conferenza di Parigi? Onorevoli colleghi, non lo credo. Credo che nelle nostre condizioni quell’invito non poteva che essere accettato. Noi dovevamo andarvi; dovevamo andare a vedere di che si trattava e a trattare i nostri interessi. Ma come ci siamo andati? Con quale spirito ci siamo andati? Che cosa abbiamo fatto a Parigi e che cosa faremo? Ecco il problema!

Siamo andati a Parigi senza una consultazione né dell’Assemblea né della sua Commissione degli esteri.

Il nostro Ministro degli esteri ci è andato con quello spirito che l’onorevole Nitti chiamava afrodisiaco; ma che io, dal momento che si tratta del Ministro di un gabinetto democristiano, vorrei chiamare soltanto euforico (Ilarità); e questo spirito ha impedito al nostro Ministro degli esteri di misurare le sue parole e i suoi gesti.

Le sue dichiarazioni sono state tutte al di là della barriera di una corretta azione diplomatica corrispondente agli interessi della Nazione. Quello era il più bel giorno della sua vita; egli accettava tutto; era pronto (l’Italia, non lui) a tutti i sacrifici. Che cosa vuol dire tutto questo?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È una citazione inesatta.

TOGLIATTI. Leggemmo persino stranissime dichiarazioni del nostro Ministro degli esteri che proponeva i propri candidati alla carica di Ministro degli esteri dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche: aspirazione per lo meno esagerata da parte del Ministro degli esteri della Repubblica italiana non ancora ratificatrice del Trattato di pace, non ancora membro delle Nazioni Unite e non ancora parte, soprattutto, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. (Ilarità – Commenti). Comprendo questa vostra ilarità, onorevoli colleghi. È evidente però che quando l’onorevole Sforza discute e presenta le proprie candidature al posto di Ministro degli esteri dell’Unione Sovietica egli concepisce il proprio Paese come parte di quella grande comunità di Nazioni. La spiegazione non può essere che questa.

Ma – e la cosa è più grave – abbiamo letto persino una dichiarazione del nostro Ministro degli esteri la quale arieggiava certe posizioni pseudo dottrinarie che ci richiamavano a quell’anno 1937 in cui si riunì a Roma un Convegno che fu chiamato dai fascisti Convegno dell’Europa. Ivi si adunarono fascisti non solo italiani ma di tutti i paesi europei, convocati da Mussolini per l’occasione, e l’Europa uscì da quel convegno trasfigurata. Le sue frontiere erano spostate di alcune migliaia di chilometri, tutto allo scopo di stabilire che tutto ciò che stava al di là di quelle frontiere non era Europa, ma Asia. Le nuove frontiere d’Europa erano fissate proprio là dove comincia la terra del socialismo, dove comincia l’Unione Sovietica: tutto quello era Asia. No, onorevole Sforza, l’Unione Sovietica è parte dell’Europa.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Questa dichiarazione non l’ho mai detta!

TOGLIATTI. Perché non l’ha smentita? È troppo grave!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, perché era troppo sciocca!

TOGLIATTI. Se non erro – posso sbagliarmi – si tratta invece proprio del suo discorso alla riunione del Consiglio dei Ministri a Parigi in cui ella disse: «Se non facciamo questo, l’Europa diventerà una penisola asiatica». Si ricordi, onorevole Sforza, che non soltanto l’Unione Sovietica fa parte dell’Europa, ma che anche il socialismo fa parte dell’Europa, perché è una grande idea europea e mondiale, sorta dal cuore di tutti i popoli che sono soggetti al regime capitalistico; e perché ad essa vanno le speranze e le aspirazioni di decine, di centinaia di milioni di donne e di uomini e dell’Europa e del mondo intero. (Applausi a sinistra).

La cosa grave non è dunque che noi aderissimo a Parigi e accettassimo quell’invito che ritengo, d’altra parte, non potevamo non accettare. La gravità sta nel modo e nelle cose fatte a Parigi. Noi accettammo l’invito, inoltre, quando la rottura tra due gruppi di Potenze europee già si era realizzata.

Anche per questo motivo avremmo dovuto andare a Parigi non in quello stato euforico che si è detto, ma con preoccupazione, perché la preoccupazione, anche se non era dell’onorevole Sforza e dell’onorevole De Gasperi, era per lo meno della grandissima maggioranza del popolo italiano, il quale teme le conseguenze che può avere sul suo destino tale rottura.

Il Governo doveva spiegare all’Italia perché quella rottura fosse avvenuta e far vedere che essa non corrispondeva né a una nostra politica, né a una nostra aspirazione, né a un nostro interesse nazionale, ma che anzi essa è contraria ad ogni aspirazione e ad ogni interesse nazionale italiano.

Ecco quello che doveva risultare dal nostro intervento alla Conferenza di Parigi.

Anche quando abbiamo discusso di queste cose nella Commissione dei Trattati, invece, nulla di tutto questo si è saputo. Il conte Sforza è venuto a dirci che non sa perché quella rottura si sia verificata. Ci ha detto di aver rivolto una nota al Governo sovietico per avere spiegazioni, ma per conto suo non ha saputo spiegarci nulla. Se dovessimo credere soltanto alle dichiarazioni ufficiali, saremmo invero molto imbarazzati, perché in esse si parla soltanto, in modo molto generico, di «piano» di collaborazione internazionale, di aiuti reciproci fra gli Stati europei, ecc. Ebbene, nella mozione presentata da Molotov alla Conferenza di Parigi abbiamo trovato questi stessi concetti: necessità degli aiuti americani, saluto agli aiuti americani, necessità della collaborazione europea, necessità di un programma-bilancio comune stabilito insieme fra le varie Nazioni. Dov’è la differenza? E perché c’è stata dunque la rottura? Questo voi dovete spiegarci per farci capire la politica estera che fate seguire al nostro Paese.

Per spiegarci la rottura avvenuta alla riunione preliminare dei Ministri degli esteri, due sono, credo io, le questioni fondamentali da tenere presenti. Innanzi tutto si tratta del proposito di alcuni grandi paesi capitalistici di subordinare la ricostruzione d’Europa ai loro interessi, il che significa che questi paesi si vogliono servire degli aiuti americani e della loro ripartizione per «determinare lo sviluppo della produzione» degli altri paesi. E qui già è toccato il problema dell’indipendenza.

Sono d’accordo che una parte dell’indipendenza nazionale assoluta nei rapporti internazionali va perduta per entrambe le parti. Chi sogna l’autarchia? La sognarono i pazzi che portarono l’Italia alla rovina.

Però quando vediamo le grandi Potenze industriali rivendicare il diritto o per lo meno la facoltà di determinare la produzione dei paesi aderenti al blocco che riceve gli aiuti americani, abbiamo il diritto di essere perplessi. Che ne sarà della nostra industria? A quali interessi verrà subordinata? E saremo ancora liberi di commerciare in tutte le direzioni? Potremo concludere quei trattati di commercio che dobbiamo concludere con la Jugoslavia, con l’Ungheria, con la Bulgaria, con la Boemia, con tutta quella cerchia di Paesi le cui relazioni con noi sono essenziali per il nostro sviluppo industriale e forse anche per quello agricolo? Oppure ci troveremo di fronte una barriera?

Perché il trattato di commercio parafato or sono due mesi a Belgrado non è ancora stato firmato? Eppure se ne prevedeva la firma alla scadenza di un mese. È ciò in relazione con la nostra adesione a Parigi?

E le nostre relazioni con la Polonia per ottenere quel carbone che è indispensabile alle industrie settentrionali, perché non si sviluppano? È ciò in relazione a questioni tecnico economiche superabili o per un preciso indirizzo politico il nostro Ministro degli esteri ha trascurato queste relazioni e questi scambi internazionali?

A questo scopo è bene che il popolo italiano riceva delle assicurazioni, perché se assicurazioni a questo proposito non dovessimo ricevere vorrebbe dire che veramente voi state compromettendo seriamente l’avvenire economico d’Italia.

L’altra questione che sta al fondo della rottura realizzatasi alla riunione preliminare di Parigi è quella della Germania e del suo destino.

Anche a questo proposito non dobbiamo lasciarci trascinare da declamazioni umanitarie. Dobbiamo orientarci secondo l’interesse d’Italia e basta. Ora, l’interesse d’Italia è prima di tutto che la Germania sia una unità, perché una Germania divisa sarà una Germania con la quale noi non potremo più commerciare liberamente, né avere rapporti economici normali, perché i rapporti economici con la Germania sarebbero in questo caso regolati da altre Potenze e subordinati esclusivamente agli interessi di quelle Potenze che dominerebbero le singole zone.

Unità della Germania, quindi, ma in pari tempo democratizzazione della Germania e azione concorde degli Stati i quali sono tradizionalmente le vittime delle aggressioni tedesche, per impedire che ivi si ricostituiscano centri di forze reali i quali preparino nuove aggressioni.

Per questa ragione siamo esterrefatti della posizione assunta dai nostri delegati a Parigi quando si schierarono contro le richieste della Francia a questo proposito. Quando le forze popolari francesi chiedono che la Germania sia ricostituita in unità nazionale, ma in pari tempo sia messa in condizioni tali per cui non possa aggredire domani, di nuovo, i propri vicini, noi dobbiamo schierarci al loro fianco.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È il mio pensiero.

Una voce a sinistra. Meno male.

TOGLIATTI. Sono lieto che sia il suo pensiero e sarò ancora più lieto quando questo pensiero sarà quello espresso dai diplomatici che ella ha mandato a Parigi. Finora essi hanno espresso un pensiero diverso. (Interruzione del deputato Calosso).

In conclusione: l’invito a partecipare alla Conferenza di Parigi non poteva essere respinto e non doveva essere respinto, ma dovevamo andare a fare una politica determinata e dobbiamo rimanere per fare una politica determinata, ispirata dal solo nostro interesse nazionale. A chi ci chiede quale posizione abbiamo e quale posizione riteniamo debbasi prendere circa il «piano» Marshall, noi rispondiamo sottolineando alcune esigenze fondamentali della nostra vita nazionale.

La prima è che non ci siano interventi stranieri nella nostra politica interna.

Guai a noi, al punto in cui ci ha ridotti il Trattato, se dovessimo, oltre tutto, ammettere che i nostri Governi si facciano a seconda del beneplacito o della richiesta di una capitale straniera.

L’indipendenza del nostro Paese sarebbe per sempre perduta.

Seconda esigenza è quella della esclusione di un intervento economico straniero.

Dobbiamo organizzare la collaborazione economica, industriale e commerciale, con tutti i paesi dell’Europa e del mondo, ma in modo tale che ci permetta di sviluppare la nostra economia a seconda di quelle che sono le necessità fondamentali di sviluppo della nostra vita e forza nazionale.

In terzo luogo non dobbiamo né volere, né favorire in nessun modo la divisione dell’Europa in due blocchi, perché questo sarebbe per l’Italia, più che per qualsiasi altro Paese – perché dopo la Germania oggi noi siamo in Europa politicamente i più deboli – fonte di conseguenze estremamente gravi. Siamo veramente il vaso di coccio che andrebbe in pezzi fra i vasi di ferro. Infine, dobbiamo fare una politica estera la quale sia ostile, apertamente ostile, ad ogni tentativo di isolamento nell’Europa e nel mondo dell’Unione Sovietica e degli altri popoli liberi, democratici e civili dell’oriente europeo.

Guai a noi se aderissimo a una politica di questo genere, perché ciò vorrebbe dire che ci troveremmo alla mercé di quelli che diventerebbero gli incontrastati dominatori sia della nostra vita economica che della nostra vita politica.

Per tutti questi motivi oggi noi siamo preoccupati. Il popolo italiano è preoccupato. Andate, parlate con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, con i professionisti, con gli intellettuali: voi sentirete che questa preoccupazione oggi è generale. Nessuno comprende più che cosa sia questo piano di aiuti degli Stati Uniti. Vennero promessi una volta, e poi una volta ancora, e poi una terza volta.

Dovevano arrivare con il viaggio di De Gasperi, dovevano arrivare dopo l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal Governo, ma non arrivarono mai. Adesso c’è il «piano» Marshall e si comincia a vedere che la questione è più complicata che nei manifesti murali della Democrazia cristiana. La questione non si pone come voi l’avete posta. Si pone invece essenzialmente come esigenza di una politica estera che difenda la dignità del nostro Paese all’interno e all’estero. E mi sono portato a esaminare anche un’altra questione, di importanza non piccola. Vi è in questo famoso «piano» Marshall un elemento ideologico-politico, che è lecito discutere se noi dobbiamo accettarlo o respingerlo. E qui siamo costretti a rifarci agli autori dell’iniziativa.

In uno dei primi discorsi del Presidente Truman, questo elemento ideologico è posto in primo piano: «Noi siamo i giganti del mondo economico – diceva egli il 6 marzo – e, la cosa piaccia o non piaccia, da noi dipenderanno le relazioni economiche dell’avvenire. Il mondo attende e sorveglia ciò che faremo noi».

E quindi prosegue: «Vi è una cosa a cui gli Stati Uniti annettono più valore ancora che alla pace, ed è la libertà: libertà di culto, libertà di parola, libertà di impresa».

Che cosa è questa libertà di impresa? Vuol dire che la struttura economica del mondo dovrà essere decisa e vorrei dire imposta attraverso la forza economica gigantesca degli Stati Uniti. Che cosa dobbiamo pensare quando vediamo questo scatenarsi di ondate di articoli, di interviste, di campagne, non più soltanto contro il comunismo e contro il socialismo, ma contro ogni idea di intervento e di controllo dell’attività economica nell’interesse dei lavoratori e di lotta contro i monopoli, cioè contro quelle che sono le idee madri delle nuove democrazie europee, quali esse sorgono dopo questa seconda guerra mondiale? Che cosa dobbiamo dire di tutto ciò? Accettare, respingere, essere perplessi?

Questo elemento ideologico ci si presenta di continuo. Nelle ultime «dichiarazioni» fatte dall’autore stesso della proposta del «piano», dal signor Marshall, il 15 luglio, la cosa è sottolineata in modo anche più chiaro.

«Bisogna guardare i fatti nel viso – egli dice – Il nostro paese si trova ad un bivio nelle sue relazioni con gli amici tradizionali che esso conta fra le Nazioni del vecchio mondo.

«Esso deve adempiere il compito di aiutare questi paesi, adattarsi ai bisogni nuovi di una nuova era, oppure rassegnarsi a vederli prendere delle direzioni che non sono compatibili… con le tradizioni del nostro Paese».

Conclusione espressa apertamente dallo stesso Marshall: «In quest’ultimo caso, se le tradizioni (degli S.U.) non fossero seguite, gli Stati Uniti vedrebbe modificarsi radicalmente la loro posizione nel mondo.

«Io vi chiedo di considerare molto attentamente le conseguenze di una simile evoluzione degli avvenimenti per la prosperità e la sicurezza del nostro paese».

Queste sono le ultime dichiarazioni autentiche di commento al contenuto ideologico-politico del «piano» Marshall. Qui si parla dunque di tradizioni degli Stati Uniti alle quali si dovrebbe uniformare la vita di tutti i popoli se vogliono essere ritenuti dagli attuali «dirigenti» degli Stati Uniti popoli democratici. Qualora questo obiettivo non venga raggiunto, la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti sono messi in questione. Si tratta dunque di quella politica che gli attuali dirigenti americani ritengono utile di fare nel loro interesse. Ma cosa dobbiamo dire noi di questa politica?

Vi è senza dubbio una tradizione democratica degli Stati Uniti. È prima di tutto la tradizione di quei profughi coloni del Mayflower e dei loro discendenti che condussero una eroica guerra di indipendenza contro un paese, il quale voleva imporre loro un determinato regime economico-doganale, che era contrario allo sviluppo della loro società. Quella tradizione la capisco. Capisco la tradizione dei grandi democratici americani da Washington ad Abramo Lincoln, da Jefferson a Delano Roosevelt, l’ultimo soprattutto, che una ben diversa concezione ebbe del modo come dovevano foggiarsi i rapporti economici e politici tra i popoli dopo una seconda e così grave guerra mondiale. Anche questa tradizione, ripeto, la comprendo. Fa parte di ciò che possiamo e dobbiamo accettare. Non possiamo però accettare dagli Stati Uniti né la loro legge contro i Sindacati né il loro modo di intendere la libertà di stampa, come libertà di avvelenamento dell’opinione pubblica, attraverso le notizie della stampa gialla e delle Agenzie di informazioni vendute l’una e le altre al grande capitale. Non accettiamo le tradizioni degli Stati Uniti come vengono fatte valere in Ispagna e in Grecia, la prima che invano attende il necessario aiuto per liberarsi da una infame tirannide, la seconda dilaniata da una guerra civile scatenata per mantenere in piedi un regime fascista. (Interruzioni a destra).

Queste sono le tradizioni alle quali ci dobbiamo uniformare? Oppure accettare le tradizioni americane significa piegare il collo davanti al grande capitale monopolistico americano in lotta per instaurare il suo dominio sul mondo intiero?

Onorevoli colleghi, credo che questo non possa essere né nelle intenzioni nostre, né nelle vostre. Non è per questo che voi avete combattuto contro il fascismo, insieme con noi, per la libertà d’Italia, per dare all’Italia un regime… (Interruzione a destra).

Una voce. Per darla alla Russia.

TOGLIATTI. …un regime democratico nuovo… (Interruzioni – Rumori a destra).

Una voce a destra. Quello dell’Ungheria.

TOGLIATTI. …rinnovato nelle sue strutture economiche, allo scopo di impedire la prepotenza dei grandi monopoli industriali, finanziari, latifondistici…

Una voce. Politici.

TOGLIATTI. …politici, senza dubbio. Voi avete combattuto insieme con noi per un regime nel quale l’impiegato dello Stato possa appartenere a qualsiasi partito politico.

CAPPI. Come in Russia.

TOGLIATTI. Negli Stati Uniti oggi questo non è possibile.

CAPPI. In Russia sì.

TOGLIATTI. Noi siamo, quindi, giustamente preoccupati, perplessi; perplesso e preoccupato è oggi tutto il popolo italiano, perché da questo complesso di elementi già vediamo uscire alcuni dei motivi di quella particolare psicologia, che oggi è la psicologia con la quale si prepara la guerra. (Commenti)

Sì, o signori, noi leggiamo i giornali tutti i giorni, e vediamo su questi giornali articoli a firma di uomini politici americani, in cui si dice che gli Stati Uniti hanno fatto male finora a non fare la guerra, perché avevano la bomba atomica a loro disposizione e forse domani non ne avranno più il disgraziato monopolio esclusivo. Tutto questo abbiamo letto con ribrezzo e con orrore e a questo non possiamo non pensare quando sentiamo parlare di dominio mondiale del sistema economico americano e quando poi vediamo chiudersi con una rottura la conferenza preliminare di Parigi. Non tutti pensano che coloro i quali scrivono cose simili siano degli isterici o degli energumeni. La gran massa crede che quella sia l’opinione dei circoli dirigenti degli Stati Uniti e probabilmente quella è davvero l’opinione di determinati circoli dirigenti degli Stati Uniti, e sente paura di fronte alla tremenda minaccia di un nuovo conflitto mondiale sterminatore. Noi ci troviamo così oggi, a poco più di due anni dalla fine della guerra, di nuovo dinanzi allo stesso problema di prima, e cioè, a discutere se una nuova guerra potrà essere evitata.

Né siamo noi soli a discuterne. Pochi giorni or sono leggevo una serie di interessantissimi articoli sull’Osservatore Romano dove la questione veniva posta seriamente e seriamente veniva sostenuta la giusta tesi che, nonostante il tentativo che si fa per dividere il mondo in blocchi opposti, e nonostante i successi ottenuti da questa fatale politica di divisione in blocchi opposti, la guerra non è fatale.

Questo è giusto, e veramente quando ho letto questi articoli mi sono compiaciuto. (Rumori al centro e a destra). Me ne sono compiaciuto per un motivo quasi personale. Alcuni anni prima dello scoppio dell’ultima guerra, nel 1935 infatti, nei dibattiti che allora avevano luogo in seno al movimento operaio internazionale, ebbi a sostenere la stessa tesi contro le posizioni estremiste di quelli che dicevano che la guerra non poteva in nessun modo essere evitata. È vero, come socialisti sappiamo la grande verità di quelle parole di uno dei nostri grandi, di Giovanni Jaurès, quando disse che il capitalismo porta in sé la guerra come la nube porta in sé l’uragano.

Sappiamo che questo è vero, ma sappiamo pure che nel mondo esistono forze tali che, unendosi, possono impedire una guerra. Esse sono le grandi forze popolari e democratiche organizzate nei Sindacati e nei partiti, ma sono pure Nazioni e Stati intieri che in certi momenti possono non essere interessati ad una guerra. Tra questi Stati il nostro oggi è in prima fila: tra tutti gli Stati europei credo che quello che è meno interessato a che scoppi una nuova guerra, e quindi il più interessato a che venga fatta una politica di pace e venga evitato anche il minimo passo che porti ad una guerra è precisamente il nostro.

Voci al centro e a destra. Siamo d’accordo.

TOGLIATTI. Di qui la necessità di una politica determinata e di qui anche la necessità di una estrema prudenza nell’agitare determinati problemi in maniera tale da provocare in modo quasi inevitabile la divisione del mondo in due blocchi.

Lo stesso giornale, che testé citavo, l’Osservatore Romano sviluppando la sua tesi in successivi articoli, molto intelligentemente osservava che, affinché la guerra possa essere evitata, bisogna rinunciare a quella campagna che tende a contrapporre due ideologie, come se esse fossero inconciliabili fra di loro: l’una, la democrazia, l’altra, il socialismo e il comunismo.

Anche questo è giusto! Se si comincia a proclamare: noi siamo i colossi, da noi c’è «libertà di impresa» e dovete accettare la nostra ideologia e le nostre tradizioni altrimenti la sicurezza e il benessere degli Stati Uniti sono in pericolo, sappiamo bene cosa si vuol dire con queste parole, quando si ha una flotta, un esercito, una aviazione ed anche una riserva di bombe atomiche a disposizione. Quando si parla così si fa veramente un passo per rendere la guerra inevitabile.

Si dice: democrazia e socialismo sono forze inconciliabili. Non è vero! Tutta la lotta politica nell’Europa moderna, negli Stati che sono usciti da questo secondo conflitto mondiale si svolge proprio attorno a questa conciliazione. Democrazia e socialismo uniti debbono rinnovare l’Europa. E i nuovi Stati e regimi che si sono costituiti nei paesi dell’Europa orientale, in mezzo a contraddizioni e ad ostacoli, sono forse ili tentativo più serio che sinora sia stato fatto in questo senso.

Io non propongo al popolo italiano quella strada: gli propongo però di rimanere unito allo scopo di trovare la sua propria strada per la conciliazione dell’ideale democratico e dell’ideale del rinnovamento sociale e per la realizzazione di questi ideali. Concludendo, a breve distanza dalla catastrofe, ancora una volta la domanda che sta davanti a noi è questa: Dove andiamo? Dove va l’Italia? A questa domanda sentiamo che dobbiamo sforzarci di dare una risposta nella quale si trovi concorde il maggior numero possibile di italiani, una risposta la quale corrisponda alla coscienza e alle aspirazioni della grande maggioranza del popolo, anzi, lasciatemelo dire, trovi concorde tutta la Nazione italiana.

Questo vuol dire orientare la nostra politica estera sulla strada della collaborazione internazionale, della difesa della libertà e della indipendenza del nostro Paese, resistendo a ogni tentativo di dividere il mondo in due blocchi opposti, a ogni tentativo di isolare dal mondo le forze più avanzate del progresso sociale, a ogni tentativo di spezzare l’unità dell’Europa e del mondo perché da questo tentativo non può uscire che un primo passo verso nuovi conflitti e forse verso una nuova guerra.

Attenti, quindi, a questo pericolo.

Veramente questo è il momento in cui per dirigere la politica italiana nell’arena internazionale noi avremmo bisogno di un Governo che rappresentasse tutte le forze nazionali e democratiche. (Commenti al centro).

Una voce al centro. No: la lingua batte dove il dente duole!

TOGLIATTI. Lasciatemelo dire. Voi stessi, attraverso questa discussione, avete acquistato la consapevolezza che la nostra politica estera sarebbe stata più efficace, che altra risonanza essa avrebbe avuto nella Nazione se fosse stata la politica estera di tutto il Paese e non di una sola parte di esso. Voi stessi sentite che di ben altra autorità avete bisogno per dare rilievo e successo a una politica estera veramente democratica e nazionale!

Che cosa fare? Come voteremo noi? Che posizione prenderemo alla fine del dibattito? Avete il diritto di chiederlo. Certo, la posizione che più corrisponde alla perplessità che ho sentito prevalere nei discorsi di tutti gli oratori è quella espressa da una proposta di rinvio. Qualora questa proposta di rinvio non venisse accettata è certo che la posizione che più corrisponde ai desideri espressi dalla maggioranza degli oratori è quella che subordina la ratifica alla presenza della ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze.

Onorevoli colleghi, io sento però che questo problema del nostro voto, e del voto vostro e del voto di ciascuno dei partiti di questa Assemblea, è un piccolo problema di fronte alla ampiezza del dibattito che è stato sollevato, di fronte alla gravità estrema delle questioni che oggi stanno davanti a noi.

Decideremo del nostro voto e lo dichiareremo a seconda del modo come la discussione verrà chiusa. Ma sentiamo che questo problema per noi è di minore importanza. Non è questo che decide.

Quello che decide, onorevoli colleghi, è che attraverso a questo dibattito, attraverso a questa libera espressione di opinioni, in questa Assemblea che rappresenta tutto il popolo italiano, esca rafforzato qualcosa che è sostanziale per il nostro Paese, per la sua rinascita, per la lotta che dobbiamo condurre per la sua libertà, per la sua indipendenza, perché esso riprenda nel mondo il posto che gli spetta conformemente alle sue capacità e alle sue tradizioni, che esca rafforzata da questo dibattito, o signori, l’unità politica e morale della Nazione. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Chiedo a voi, onorevoli colleghi, venia di parlare dal banco di deputato invece che da quello del governo. Dal banco del governo si pronunciano discorsi politici, e si sostengono battaglie politiche. Queste mie parole vogliono invece essere un umile appendice di considerazioni storiche al grande discorso col quale Benedetto Croce pronunciò l’altro giorno un giudizio storico solenne sul trattato imposto a noi dalla volontà altrui.

Chiedo altresì il permesso di seguire coll’occhio il manoscritto all’uopo, contrariamente alle mie abitudini, approntato affinché la commozione del dire improvviso non turbi una espressione di pensiero, che oggi deve invece essere attentamente meditata.

Al par di voi, ho ascoltato con commozione ed ho riletto con ammirazione profonda il giudizio storico che Benedetto Croce ha pronunciato in quest’aula intorno alla ratifica del trattato di pace; giudizio che se l’autore intendesse dare un seguito alla sua storia d’Italia assai degnamente chiuderebbe quella grande opera sua. Il giudizio pronunciato in quel discorso chiude anche un’epoca nella storia d’Italia. Vorrei tentare qui a guisa, come dissi, di appendice, una ideale prosecuzione di esso, guardando non più al passato, ma all’avvenire. Invece di una magnifica pagina di storia conclusa, il mio sarà un informe tentativo di indovinare le logiche conseguenze odierne di quelli che furono i connotati essenziali delle due grandi guerre combattute in Europa nel secolo presente. Già quei connotati erano visibili nella prima guerra; ma parve allora ai più che soltanto si fosse riprodotto ancora una volta il tentativo egemonico di Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone I, contrastato ogni volta, a salvaguardia della libertà d’Europa, dalla potenza navale britannica; e furono alte le proteste fra gli storici tedeschi contro l’eterna seminatrice di discordia, contro la perfida Albione, la quale, applicando il romano detto divide et impera, si sforzava di mantenere discordi tra loro i popoli europei e di impedire avesse alfine nascimento quell’Europa una, che era stata, in varia maniera, l’ideale di poeti e pensatori, da Dante Alighieri ad Emanuele Kant ed a Giuseppe Mazzini. Sicché, vinta la Germania, distrutta la monarchia austro-ungarica e chiusasi la Russia in se stessa, parve rivivesse nel 1918 l’antica convivenza europea di stati indipendenti; ed anzi una nuova Santa alleanza, sotto le sembianze di Società delle nazioni, si costituì a garantire invano la indipendenza delle minori nazioni contro la egemonia della più potente e prepotente delle nazioni maggiori. Invano, ché la Società delle nazioni nasceva colpita a morte irrimediabilmente dallo stesso vizio capitale che aveva tolto valore alla Lega anfizionica greca, al Sacro romano impero ed alla Santa alleanza. Il vizio era chiaro: la Società delle nazioni era una lega di stati indipendenti ognuno dei quali serbava intatti un esercito proprio, un regime doganale autonomo ed una rappresentanza sovrana sia presso gli altri stati sia presso la lega medesima. Era facile prevedere, come a me accadde di prevedere nel 1917, quando la Società delle nazioni era un mero proposito di Wilson, e quando in Italia il più rumoroso promotore della sua fondazione era colui che, divenuto poscia dittatore, tanto operò per distruggere la costituita società; era facile, dico, prevedere che essa era nata morta. L’esperienza storica tante volte ripetuta dimostra, che le mere società di nazioni, le federazioni di stati sovrani sono impotenti ad impedire, anzi per lo più sono fomentatrici di guerre tra gli stessi stati sovrani federati; e presto diventano consessi vaniloquenti, alla cui ombra si tramano e si preparano guerre e si compiono le manovre necessarie ad addormentare il nemico ed a meglio opprimerlo. Sinché nella Svizzera non sorse un potere sovrano, signore unico dell’esercito e delle dogane, non fu possibile evitare le guerre civili, che erano guerre fra cantoni sovrani; e nel tempo volto dal 1776 al 1786 il pericolo di guerre fratricide fra le 13 antiche colonie nord-americane divenute stati sovrani fu sempre imminente; e solo il genio di Washington, confortato dal pensiero di Jay, di Jefferson e di Hamilton, trovò il rimedio quando sostituì alla vana ombra della federazione di stati sovrani l’idea feconda della confederazione, unica signora delle forze armate, delle dogane e della rappresentanza verso l’estero, fornita di un parlamento unico; rappresentante, in un ramo, degli stati confederati, ma nell’altro del popolo intero di tutta la confederazione.

La prima guerra mondiale fu dunque combattuta invano, perché non risolse il problema europeo. Ed un problema europeo esisteva. Scrivevo nel 1917 e ripeto ora a trenta anni di distanza: Gli stati europei sono divenuti un anacronismo storico. Così come nel secolo XVI le libere città e repubbliche ed i piccoli principati erano in Italia divenuti un anacronismo, perché l’Europa stava allora subendo un travaglio di ricostituzione territoriale e sorgevano le grandi monarchie spagnola e francese e si affacciava al nord la unificata nazione britannica, e l’indipendenza del consorzio dei piccoli principati tenuti in equilibrio dalla saggezza di Lorenzo il Magnifico, rovinò dinanzi all’urto contrastante di Spagna e di Francia, di Carlo V e di Francesco I, così sin dall’inizio del secolo presente, era divenuta anacronistica la permanenza dei tanti stati sovrani europei. A mano a mano che si perfezionavano le comunicazioni ferroviarie e la navigazione, a vapore ed a motore, prendeva il posto di quella a vela; ed i popoli erano avvicinati dal telefono, dal telegrafo con e senza fili e dalla navigazione aerea, questa nostra piccola aiuola europea apertamente palesava la sua inettitudine a sopportare tante sovranità diverse. Invano gli stati sovrani elevavano attorno a sé alte barriere doganali per mantenere la propria autosufficienza economica. Le barriere giovavano soltanto ad impoverire i popoli, ad inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare ad ognuno di essi uno strano incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche, ed a fare ad ognuno di essi pronunciare esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri, quasi essi fossero lebbrosi e quasi il restringersi feroce di ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza.

La prima guerra mondiale fu la manifestazione cruenta dell’aspirazione istintiva dell’Europa verso la sua unificazione; ma, poiché l’unità europea non si poteva ottenere attraverso una impotente Società delle nazioni, il problema si ripropose subito.

Esso non può essere risoluto se non in una di due maniere; o con la spada di Satana o con quella di Dio. (Applausi).

Questa volta Satana si chiamò Hitler, l’Attila moderno. Non val la pena di parlare del nostro dittatore di cartapesta, il quale non comprese mai la grandezza del problema. L’Attila moderno, il pazzo viennese, aveva invece, nelle sue escogitazioni frenetiche e sconnesse, visto il problema e la sua grandezza, ed aveva tentato di risolverlo. Il modo tenuto da lui e dal suo popolo fu quello della forza e del sangue. Il modo era riuscito ai romani, i quali colla forza avevano vinto uno dopo l’altro i cartaginesi, i greci e gli stati alessandrini, tutti più colti dei romani; ma questi si erano fatti perdonare poi il brutto cominciamento instaurando nel mondo mediterraneo l’impero del diritto. All’Attila redivivo il metodo della forza non riuscì; ché gli europei erano troppo amanti di libertà per non tentare ogni via per resistere al brutale dominio della forza; e troppi popoli al mondo discendono dagli europei e serbano il medesimo ideale cristiano del libero perfezionamento individuale e dell’elevazione autonoma di ogni uomo verso Dio per non sentire nell’animo profondo l’orrore verso chi alzava il grido inumano dell’ossequio verso ideali bestiali di razza, di sangue, di dominazione degli uomini eletti venuti su dalla terra generatrice di esseri autoctoni e dalla foresta primitiva.

Non è vero che le due grandi guerre mondiali siano state determinate da cause economiche. Nessuno che sappia compiere un ragionamento economico corretto può credere mai che dalla guerra alcun popolo, anche vincitore, possa trarre un qualsiasi risultato se non d’impoverimento, di miseria, di spirito di odio e di vendetta, generatori alla loro volta di miseria e di abiezione.

Vero è invece che le due grandi guerre recenti furono guerre civili, anzi guerre di religione e così sarà la terza, se, per nostra sventura, noi opereremo in guisa da provocare l’opera sua finale di distruzione. Le due guerre parvero guerre fra stati e fra propoli; ma la loro caratteristica fondamentale, quella che le distingue dalla più parte, non da tutte, le guerre passate, quella che le assimila alle più implacabili tra le guerre del passato, e queste furono le guerre di religione – ricordiamo la scomparsa della civiltà cristiana dall’Egitto a Gibilterra, la ferocia della guerra contro gli Albigesi e la distruzione operata dalla guerra dei trent’anni in Germania – sta in ciò: che quelle due grandi guerre furono combattute dentro di noi. Satana e Dio si combatterono nell’animo nostro, dentro le nostre famiglie e le nostre città. Dovunque divampò la lotta fra i devoti alla libertà e la gente pronta a servire. Se in tanta parte dell’Europa conquistata dai tedeschi, si ripeté l’esperienza che Tacito aveva scolpito con le parole solenni: Senatus, equites, populusque romanus ruere in servitium, ciò fu perché negli uomini lo spirito non è sempre pronto a vincere la materia. Non recriminiamo contro coloro che operarono male; perché la resistenza al male è sempre un miracolo, che umilmente dobbiamo riconoscere avrebbe potuto non aver luogo. Ma diciamo alto che noi riusciremo a salvarci dalla terza guerra mondiale solo se noi impugneremo per la salvezza e l’unificazione dell’Europa, invece della spada di Satana, la spada di Dio; e cioè, invece della idea della dominazione colla forza bruta, l’idea eterna dalla volontaria cooperazione per il bene comune.

Al par di ognuno di voi, il dolore per le amputazioni ai confini orientali ed occidentali è profondo nel mio cuore; e per quel che riguarda i confini occidentali, più che il dolore, viva in me l’indignazione e l’ira per la cecità con la quale uomini così fini ragionatori, cervelli così limpidi come sono i francesi si siano lasciati trascinare a ripetere i frusti argomenti che noi, cultori di storia piemontese, avevamo letto nelle istruzioni ai diplomatici ed ai generali di Luigi XIV per contrastare ai piemontesi la conquista del confine supremo delle Alpi, raggiunto finalmente, dopo secoli di lotte, nel 1713, e consacrato nel definitivo trattato dei confini del 1761.

Se ciechi furono i vincitori, non perciò dobbiamo noi essere ciechi e sperare di vedere ricostituita l’unità della patria a mezzo di nuove guerre o di nuove carneficine. Nella nuova era atomica, guerra vuol dire distruzione non forse della razza umana – ché nelle riarse pianure ridivenute paludi e foreste vergini, e nei monti selvaggi una razza che dell’uomo civile non avrà nulla, potrà salvarsi e lentamente, attraverso i secoli, risorgere a civiltà – ma certamente di quell’umanesimo per cui soltanto agli uomini è consentito di essere al mondo. Ma noi non ci salveremo dall’imbarbarimento scientifico, peggiore di gran lunga della barbarie primeva, col gareggiare con gli altri popoli nel preparare armi più micidiali di quelle da essi possedute. La sola speranza di salvare noi e gli altri sta nel farci, noi prima degli altri ed ove faccia d’uopo, noi soli, portatori di un’idea più alta di quella altrui. Solo facendoci portatori nel mondo della necessità di sostituire alla spada di Satana la spada di Dio, noi potremo riconquistare il perduto primato. Non il primato economico; che questo viene sempre dietro, umile ancella, al primato spirituale. Dico quel primato, che, nell’epoca feconda del Risorgimento, si attuava nella difesa delle idee di fratellanza, di cooperazione, di libertà, che diffuse dalla predicazione incessante di Giuseppe Mazzini e rese operanti, nei limiti della possibilità politiche, da Camillo di Cavour, avevano conquistato alla nuova Italia la simpatia, il rispetto e l’aiuto dell’Europa.

Non giova rinunciare a questa nostra tradizione del Risorgimento, pensando di poter trarre pro dalle discordie altrui. La politica dei giri di walzer, del «parecchio da guadagnare», del «sacro egoismo», che alla nostra generazione parve machiavellicamente utile, diede, quando fu recata dal dittatore alla logica conseguenza dell’autarchia economica, volta a cercar grandezza nel torbido delle sconvolte acque europee, amari frutti di bosco.

Rifacciamoci, dal Machiavelli, meditante solitario nel confino del suo rustico villaggio toscano sui teoremi della scienza politica pura, al Machiavelli uomo, al Machiavelli cittadino in Firenze, il quale non aveva, no, timore di rivolgersi al popolo, da lui reputato «capace della verità», capace cioè di apprendere il vero e di allontanarsi dai falsi profeti quando «surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei s’ingannino». Sì. Fa d’uopo che oggi nuovamente surgano gli uomini da bene, auspicati da Nicolò Machiavelli, a dimostrare ai popoli europei la via della salvezza e li persuadano ad infrangere gli idoli vani dell’onnipotenza di Stati impotenti, del totalitarismo, alleato al nazionalismo è nemico acerrimo della libertà e della indipendenza delle nazioni. (Applausi).

Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa d’oggi, smarrita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa. Esiste, in questo nostro vecchio continente, un vuoto ideale spaventoso. Quella bomba atomica, di cui tanto paventiamo, vive purtroppo in ognuno di noi. Non della bomba atomica dobbiamo sovra tutto aver timore, ma delle forze malvage le quali ne scatenarono l’uso. A questo scatenamento noi dobbiamo opporci; e la sola via d’azione che si apre dinnanzi è la predicazione della buona novella. Quale sia questa buona novella sappiamo: è l’idea di libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è un’Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell’intera comunità. Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità.

Scrivevo trent’anni fa e seguitai a ripetere invano, e ripeto oggi, spero, dopo le terribili esperienze sofferte, non più invano, che il nemico numero uno della civiltà, della prosperità, ed oggi si deve aggiungere della vita medesima dei popoli, è il mito della sovranità assoluta degli stati. Questo mito funesto è il vero generatore delle guerre; desso arma gli stati per la conquista dallo spazio vitale; desso pronuncia la scomunica contro gli emigranti dei paesi poveri; desso crea le barriere doganali e, impoverendo i popoli, li spinge ad immaginare che, ritornando all’economia predatoria dei selvaggi, essi possano conquistare ricchezza e potenza. In un’Europa in cui ogni dove si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici, in cui improvvisamente si scoprono passionali correnti patriottiche in chi sino a ieri professava idee internazionalistiche, in quest’Europa nella quale ad ogni piè sospinto si veggono con raccapriccio riformarsi tendenze bellicistiche, urge compiere un’opera di unificazione. Opera, dico, e non predicazione. Vano è predicare pace e concordia, quando alle porte urge Annibale, quando negli animi di troppi Europei tornano a fiammeggiare le passioni nazionalistiche. Non basta predicare gli Stati Uniti di Europa ed indire congressi di parlamentari. Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere doganali, nella limitazione dei sistemi ferroviari, fluviali, portuali, elettrici e simili al territorio nazionale, bensì nella scuola, nelle arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali, in tutto ciò che dà vita allo spirito e fa sì che ogni popolo sappia contribuire qualcosa alla vita spirituale degli altri popoli. Ma alla conquista di una ricca varietà di vite nazionali liberamente operanti nel quadro della unificata vita europea, noi non arriveremo mai se qualcuno dei popoli europei non se ne faccia banditore.

Auguro che questo popolo sia l’italiano. A conseguire il fine non si giungerà tuttavia mai se non ci decidiamo subito, sinché siamo in tempo, ed il tempo urge, ad entrare nei consessi internazionali oggi esistenti. Essi sono per fermo imperfetti come quelli della vecchia Società delle nazioni; ma giova farne parte per potere dentro essi bandire e spiegare la buona novella. Perciò io voterò, pur col cuore sanguinante per le Alpi violate, a favore della ratifica del trattato, come mezzo necessario per entrare a fronte alta nei consessi nelle nazioni col proposito di dare opera immediata, tenace, continua, alla creazione di un nuovo mondo europeo.

Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all’ideale della libertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l’utopia e la morte, fra l’utopia e la legge della giungla.

Che importa se noi entreremo nei consessi internazionali dopo essere stati vinti ed in condizioni di inferiorità economica! Se vogliamo mettere una pietra tombale sul passato; se vorremo non più essere costretti a chiedere aiuti ad altri, ma invece essere invitati a partecipare da paro a paro al godimento di quei beni del mondo alla cui creazione noi pure avremo contribuito, dobbiamo non aver timore di difendere le idee le quali soltanto potranno salvare l’Europa. La forza delle idee è ancora oggi – che l’Europa non è per fortuna del tutto imbarbarita e non è ancora adoratrice supina delle cose materiali – la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo. Non è nel momento in cui quattrocento milioni di indiani riconquistano, col consenso e con l’aiuto unanime del popolo britannico, la piena indipendenza, che noi vorremo negare la supremazia incoercibile dell’idea. Un uomo solo, il Mahatma Gandhi, ha dato al suo paese la libertà predicando il vangelo non della forza, ma della resistenza passiva, inerme al male.

Perché non dovremmo anche noi far trionfare in Europa gli ideali immortali, i quali hanno fatto l’Italia unita e si chiamano libertà spirituale degli uomini, elevazione di ogni uomo verso il divino, cooperazione tra i popoli, rinuncia alle pompe inutili, tra cui massima la pompa nefasta del mito della sovranità assoluta?

Difendendo i nostri ideali a viso aperto, rientrando, col proposito di difenderli a viso aperto, nella consociazione dei popoli liberi, e prendendo con quell’intendimento parte ai dibattiti fra i potenti della terra, noi avremo assolto il nostro dovere. Se, ciononostante, l’Europa vorrà rinselvatichire, non noi potremo essere rimproverati dalle generazioni venture degli italiani di non avere adempiuto sino all’ultimo al dovere di salvare quel che di divino e di umano esiste ancora nella travagliata società presente. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pacciardi. Ne ha facoltà.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, io non seguirò l’onorevole Togliatti nella interessante scorribanda di politica internazionale che ha fatto dinanzi a noi e nemmeno la fervida e commovente dichiarazione di principî dell’onorevole Einaudi; tenterò di riportare la discussione sull’oggetto del nostro ordine del giorno che è la ratifica del Trattato di pace.

Giunti a questo punto della discussione non si tratta più, ormai, io penso, che di fissare la posizione dei partiti, di andare incontro alle responsabilità. Io ho l’onore di parlare a nome del partito repubblicano, che ha preso collettivamente le sue responsabilità, rispettando, come è suo costume, sua tradizione, suo dovere, singoli casi di coscienza, rispettabili, che sono del resto un po’ in tutti i gruppi. Ha preso questa decisione di responsabilità dopo un complesso esame di coscienza, dopo una intensa e quasi lacerante elaborazione interiore che non cerchiamo di nascondere, che tutti i gruppi, del resto, conoscono, perché non si nasconde niente, e che si affida, io penso, alla vostra comprensione e al vostro rispetto.

Se c’era qualcuno in questa Assemblea che poteva quasi legittimamente esimersi dall’assumere le responsabilità, se c’era qualcuno che poteva assumere la parte bella, la parte senza rischi, la parte eroica ed altisonante, io credo che nessuno aveva maggiori titoli per recitare questa parte, del partito repubblicano italiano.

Siamo come tutti sanno, come tutti non hanno difficoltà a riconoscere, un partito di patrioti, siamo un partito la cui storia si confonde con la storia del nostro Paese e, permettetemi di dirlo poiché non riguarda me, non riguarda i miei colleghi presenti, ma riguarda le glorie d’un passato che ormai è comune, sono le pagine più belle, più pure per l’alone che le circonda, per il misticismo che le ispira, le pagine più belle della storia, del nostro Paese. Noi fummo tenacemente avversari della monarchia, sempre, e spesso solitari avversari; e per questa, starei per dire, fissazione antimonarchica, per diecine e diecine di anni noi ci siamo quasi isolati dalla vita pubblica dei nostro Paese, ci siamo quasi cinti di una specie di cintura di castità politica per ricordare agli italiani non solo cha sarebbero state sbarrate le vie del loro moderno progresso dalla presenza di questa istituzione medioevale, ma anche per ricordare loro che un regime, una famiglia allogena, un regime che non poteva essere veramente nazionale ci avrebbe condotto fatalmente ad un giorno nel quale, dovendo scegliere fra gli interessi della dinastia e gli interessi della nazione, avrebbe inesorabilmente sacrificato la nazione.

CONDORELLI. Infatti Cavour è un lazzarone

PACCIARDI. Vi dico le ragioni per cui noi, e non voi, potremmo recitare la parte bella. Per diecine e diecine di anni noi siamo stati soli o quasi nel nostro Paese a ricordare che l’unità nazionale non era ancora compiuta, i soli, o quasi, a fissare lo sguardo oltre i confini verso le balze del Trentino ed il Colle di San Giusto. E mentre nel 1914 il nazionalismo professionale era incerto se marciare con la triplice intesa o con la triplice alleanza, che era una alleanza di conservazione dinastica, noi lanciammo al Paese un manifesto che si concludeva con queste parole: «O sui campi delle Argonne con la sorella latina o a Trento e Trieste» indicando all’Italia per primi le vie del suo destino.

E siccome siamo usi a far seguire alle parole i fatti, un gruppo di nostri volontari andò a farsi massacrare in Serbia, in vista di Trieste, ed un gruppo molto più numeroso di italiani andò a profondere il suo sangue generoso nelle contrade di Francia.

Soltanto alla fine della guerra – l’onorevole Orlando spero me ne darà atto – noi ci ricordammo di essere uomini di parte, ma fin da allora ci levammo contro un vacuo, retorico, rumoroso, letterario nazionalismo, e vedemmo con infinita, con fervida simpatia il sorgere della Società delle Nazioni, come primo tentativo di costituire una Società internazionale; ideale che era stato vagheggiato concordemente da tutti i nostri apostoli del Risorgimento. E così noi fummo invisi agli interventisti ed ai neutralisti. Affrontiamo la incomprensione, la impopolarità, le defezioni; e prendemmo la nostra parte di fischi accanto ad uomini come Leonida Bissolati, come Gaetano Salvemini, come Carlo Sforza, e, ahimè, come Francesco Saverio Nitti, che era l’uomo più odiato e più insultato, in quei tempi, dai padri di coloro che oggi lo portano sugli altari.

Il resto, onorevoli colleghi, è storia che tutti sanno. Fummo, fin dall’inizio, tenacemente avversari, inconciliabilmente avversari del fascismo, quantunque esso ci offrisse l’offa, l’esca ingannevole di un tendenzialismo repubblicano, che però non ci ingannò.

Non abbiamo alcuna responsabilità, naturalmente, della guerra, che alle sorde e spesso complici democrazie europee indicammo sempre come lo sbocco sanguinante e fatale del regime di terrore che si era instaurato nel nostro Paese.

Non abbiamo alcuna responsabilità nell’armistizio, va da sé; ma non abbiamo alcuna responsabilità nemmeno nella controfirma dell’armistizio, che molti, quasi tutti i rappresentanti dei partiti di questa Assemblea hanno sottoscritto, perché noi non facevamo parte, non abbiamo mai fatto parte dei governi del Comitato di liberazione.

Non siamo legati, come ognuno sa, alla politica governativa, anzi ne siamo avversari. E consideriamo – siamo d’accordo con l’onorevole Togliatti – che questo Governo di parte non è il più adatto a risolvere i complessi problemi dell’ora.

Dunque, potremmo esimerci dall’assumere le responsabilità. Nessuno ci obbligherebbe a prendere questa posizione, se non il senso della nostra responsabilità nazionale, la nostra coscienza nazionale.

Se i monarchici avessero taciuto – ed era elegante che tacessero–, se i nazionalisti avessero taciuto, se i fascisti avessero taciuto…

Una voce a destra. Chi sono?

PACCIARDI. …noi avremmo potuto protestare anche per loro, perché avremmo saputo, io credo, trovare gli accenti della comune sofferenza, al di là degli stessi abissi di dolore, che ci hanno divisi, per elevare la comune protesta di tutti gli italiani, colpevoli e incolpevoli, che si trovano di fronte oggi ad uno stesso duro destino.

Tutti sanno che l’Italia sanguina ed espia le colpe che non sono del popolo italiano. Ho sentito con dispiacere, con meraviglia, dai banchi nazionalisti e dai banchi comunisti accomunare nella responsabilità il popolo italiano con la monarchia fascista. Io mi rifiuto di suggellare questa responsabilità.

Noi espiamo colpe che non sono nostre. Tutti sanno che quelle che stiamo oggi discutendo, discutendo talvolta in tono frivolo e leggero, in tono vorrei dire talvolta indegno della gravità dell’ora, sono le conseguenze visibili – non si deve dimenticarlo – le conseguenze visibili della politica di provocazione e di avventura della monarchia fascista…

BENEDETTINI. Ma che c’entra fascista? Lasciamo andare questo solito ritornello!

MACRELLI. Sono due termini che si identificano. Non c’è bisogno di dire monarchia fascista: basta dire monarchia.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano!

PACCIARDI. …sono le conseguenze visibili della disfatta, della resa a discrezione e dell’armistizio. E se volete andare più lontano, sono 16 conseguenze visibili di un regime che si era innestato sulla passione, sul martirio, sulla vibrazione popolare e repubblicana del Risorgimento, per sviare la istoria italiana dal suo corso.

Tutti sanno che questo regime – è inutile negarlo, non è nell’interesse nazionale negarlo – ha compiuto nel mondo un’opera nefanda e per compierla, per non avere giudici, ha dovuto prima strozzare la libertà degli italiani, onde esser libero di strozzare la libertà e l’indipendenza di alcuni popoli stranieri. Tutti sanno che contro il diritto internazionale, che si andava faticosamente elaborando dai triboli e dal martirio della prima guerra mondiale, il fascismo ha opposto – come diceva l’onorevole Einaudi – il diritto della giungla, il diritto della forza, il diritto della violenza.

E se è vero che questa infezione, questa malattia del fascismo fu malattia universale, non è meno vero – bisogna riconoscerlo – che il focolaio di infezione di questa malattia fu qui, disgraziatamente, nel nostro Paese che ebbe il triste onore di avere la «primogenitura», come si diceva, reazionaria, di essere alla testa della reazione internazionale.

Tutti conoscono la storia delle aggressioni: delle aggressioni in Etiopia, delle aggressioni alla Spagna repubblicana, delle aggressioni all’Albania, alla Grecia, alla Francia ed alla Jugoslavia e tutti sanno quale sarebbe stato il conto, l’assurdo conto che il fascismo vittorioso avrebbe presentato ai vittoriosi di oggi.

Quando si è accettata questa responsabilità, quando si è riconosciuta questa legge della forza, non si ha il diritto di dolersi se si è vittime della forza e se bisogna soggiacere alla prepotenza altrui. Per questo dico che era molto più elegante che i nostri nazionalisti e monarchici non parlassero. Noi repubblicani, noi antifascisti, avevamo ed abbiamo il diritto di protestare…

Voce a destra. E protesti, protesti!

PACCIARDI. …di protestare, perché mentre Churchill nel 1935 dichiarava agli italiani che se fosse stato italiano sarebbe stato fascista, e nel 1938, cioè proprio alla vigilia della conflagrazione europea, aveva il coraggio, in una rivista americana, di esaltare come due grandi figure universali Hitler e Mussolini, mentre Churchill faceva questo, gli antifascisti si battevano nella Spagna repubblicana contro il fascismo. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. Bella cosa! Combattete in Italia!

PACCIARDI. Voglio ancor più provocare le vostre interruzioni affermandovi che nel momento in cui l’Italia partecipava alla guerra universale aggredendo la Francia, noi non avremmo esitato un momento a contrastare, anche con le armi, il fascismo, come non esitò De Gaulle a contrastare la marcia del fascismo nel suo Paese, come non esitò il Maresciallo Tito, perché ogni paese ha avuto il suo fascismo.

Questa guerra (ecco la grande verità che dimenticano gli alleati, la grande verità che dimentica il Trattato di pace) questa guerra non è stata una guerra come tutte le altre; è stata una specie di guerra civile universale nella quale gli uomini e gli eserciti dei vari paesi si battevano gli uni contro gli altri, perché c’era una specie di fraternità che andava al di là delle frontiere, fra tutti i combattenti della democrazia e della libertà.

Il Trattato offende e vilipende soprattutto noi antifascisti.

BENEDETTINI. Offende gli italiani.

PACCIARDI. Ci offende insieme coi partigiani, insieme coi soldati, insieme coi marinai, che prima o poi si schierarono contro la gente del loro paese in favore della causa delle democrazie. Li offende e li insulta perché mentre essi credevano di combattere e di morire per gli interessi profondi e permanenti del loro proprio paese e per una visione di un mondo che fosse meno barbaro, meno ingiusto, meno caino, del mondo nel quale vivevano, sono stati considerati come una specie di quinta colonna al servizio degli eserciti stranieri.

Ecco che cosa veramente e profondamente ci offende. E se dovessimo reagire istintivamente a questo disconoscimento, se dovessimo reagire istintivamente a questa offesa, dovremmo, costi quel che costi, seguire la tesi morale di Benedetto Croce. Ci affamino pure, ci strangolino pure, continuino a considerare pure il nostro paese il bivacco degli eserciti internazionali, ma dovremmo non ratificare. E vi giuro che se si trattasse delle nostre persone, se si trattasse di noi, assumeremmo questo atteggiamento perché lo abbiamo già assunto. In venti anni di fascismo, non minacce, non lusinghe sono riuscite a farci piegare. Il nostro – non sufficientemente ricordato, sconosciuto agli stessi antifascisti – Umberto Ceva si svenava in carcere, come Jacopo Ruffini, per non rivelare i suoi complici in un momento di debolezza. Al nostro Luigi Delfini venivano strappate le unghie ad una ad una, ma non gli strapparono dalla gola strozzata una sola parola che fosse di sconfessione e di tradimento; e così tutti gli altri, appartenenti a tutti gli altri settori di questa Assemblea, come Rosselli, Matteotti, Amendola, Gramsci, tutti uomini che non avrebbero mai sottoscritto un atto non dignitoso, un atto di disonore.

Ma, onorevoli colleghi, non si tratta delle nostre persone, che non rischiano niente a protestare; anzi troverebbero sempre platee per applaudirle ed infiorarle; non si tratta delle nostre persone: si tratta della vita di un popolo.

E noi ci mettiamo moralmente, onorevoli signori del Governo, al vostro posto. Non vi abbiamo abbandonato quando alcuni di voi – di voi che provenivano dalle galere, che provenivano dalle lotte della resistenza – andarono a Parigi, introdotti dall’usciere e ricondotti dall’usciere dinnanzi a quella specie di tribunale come malfattori internazionali; non vi abbiamo abbandonato, perché abbiamo sentito che la vostra umiliazione era la nostra umiliazione nazionale. (Applausi al centro).

Abbiamo sentito che le vostre lacrime – perché so che qualcuno le ha versate davvero – erano le lacrime della nostra Nazione in catene. Non vi abbiamo abbandonato quando siete ritornati a Parigi a sottoscrivere questo Trattato ingiusto, che apriva le nostre frontiere, che apriva le porte di casa nostra, che smantellava le difese delle nostre coste e le faceva passibili di essere raggiunte da qualsiasi predone internazionale, che disperdeva la nostra flotta, che metteva sul popolo italiano, per generazioni e generazioni, taglie insopportabili.

Sapevamo che voi pagavate per noi, per tutti noi, le colpe che non erano vostre e che non sono vostre. Ecco perché, onorevoli colleghi (Si rivolge alla destra), avrei trovato nobile, per lo meno nobile, che voi non tentaste di profittare di questo atto di responsabilità che il Governo fa in buona fede, nella intenzione di servire la nostra Nazione, per speculare su un evento di questa natura.

Oggi tocca a noi, rappresentanti del popolo, rappresentanti della Nazione, tocca a noi di assumere la nostra responsabilità; tocca a noi di compiere l’ultimo gesto di contrizione nazionale.

Perché ratifichiamo? Ratifichiamo, onorevoli colleghi, perché bisogna chiudere al più presto – più presto è e meglio è – questa parentesi tragica della nostra lunga storia nazionale. Vogliamo uscire, per quanto dipende da noi, da questo stato miserando di minorità internazionale. Vogliamo al più presto ripartire da zero, magari da sotto zero, ma ripartire, per il nostro immancabile cammino di ascesa.

Perché ratifichiamo oggi e non domani, o non dopo domani? Perché non abbiamo nessun interesse ad aspettare, nessun interesse. Basta affermare solennemente che la nostra ratifica sarà esecutiva, operativa, il giorno in cui saranno depositate tutte le altre ratifiche.

Che cosa speriamo, aspettando? Speriamo in un nuovo conflitto? Disgraziati! Ma il Trattato stesso sembra congegnato apposta per delimitare fra i contendenti una striscia di terra disarmata, la terra senza padrone, dove avverrebbe l’incontro degli eserciti internazionali, e, quel che è peggio, l’incontro delle fortezze volanti internazionali, cariche, ormai, di ordigni apocalittici, per cui il nostro giardino diventerebbe una specie di voragine nell’Europa.

Non possiamo – ed anche qui sono d’accordo con l’amico Togliatti – non possiamo puntare sulla guerra, dobbiamo puntare sulla pace, perché è soltanto dalla pace che noi possiamo sperare la nostra rinascita.

Il nostro dovere, il nostro tentativo deve essere invece quello di creare una zona, la più vasta possibile, di pace. Quando si parla di due blocchi, io credo – posso sbagliarmi, ma lo credo fermamente – che se ne parli in modo non corretto e forse superficiale. Vediamo, per fortuna, delinearsi nell’Europa, che è stata schiantata dalla guerra e che non vuole una nuova guerra, vediamo delinearsi quasi distintamente una missione mediatrice: Né l’Inghilterra, né la Francia, né i paesi minori, l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la penisola Scandinava, e – tanto meno – l’Italia, nessuno di questi paesi che soffrono ancora delle sofferenze della guerra, che sanguinano ancora per la guerra, nessuno di questi paesi ha interesse ad acuire certe rivalità che sono, anch’esse, visibili. E le rivalità sono tra il Paese del grande capitalismo e il Paese del comunismo, i due colossi del mondo moderno; non tanto per i conflitti ideologici – amico Togliatti – che si possono sempre superare, piuttosto che fare la guerra, quanto perché questi due colossi hanno zone di interessi in tutti i continenti, interferenti, se non contrastanti.

Ma se noi volessimo far da soli, noi, poveri untorelli, paese disarmato, paese oggetto di storia e di politica internazionale, più che soggetto di politica internazionale, se noi dovessimo fare quest’opera di mediazione da soli, essa sarebbe inesorabilmente condannata al fallimento.

Chi non vede che qualche cosa di nuovo si delinea nel nostro continente? Io so che molti ridono del piano Marshall: noi in Italia ridiamo di tutto, con uno scetticismo che vorrebbe essere superiore e qualche volta non è se non goffo.

Abbiamo in questa Camera alcuni vecchi parlamentari che non sanno parlare come ha parlato testé l’onorevole Einaudi, vecchi parlamentari che noi rispettiamo profondamente perché ognuno di loro rappresenta una pagina di storia del nostro Paese; ma essi diffondono questo scetticismo all’acido prussico e non è bello, non è giusto, perché bisogna pure che questo popolo riabbia una fede, riabbia delle speranze. (Approvazioni).

Voi rischiate invece di avere una nazione senza idee, esposta a tutti i pericoli. In occasione del piano Marshall si sono ridestate queste speranze. L’Europa, questo nostro tribolato continente, nel giro di una sola generazione ha regalato all’umanità due guerre universali: vuol dire quindi che la sua malattia è costituzionale e profonda.

Chi vuol fare dunque opera di pace senza sanare questa malattia, senza guarire costituzionalmente l’Europa, fa un’opera infeconda. Forse da questa ispirazione, non soltanto per fini economici, è nato il cosiddetto piano Marshall. Gli è che i nostri tecnici oggi lavorano con i tecnici degli Stati occidentali dell’Europa su di un piano diverso dallo stretto piano nazionale. L’infausta politica monarchica – facciano il piacere adesso di non interrompermi l’onorevole Condorelli e soci – ci aveva crocefisso a questo dilemma: o avrebbero vinto gli Alleati, e allora avremmo probabilmente avuto, come abbiamo avuto, questo Trattato ingiusto che oggi critichiamo o avrebbe vinto Hitler e allora, la nostra situazione sarebbe stata di gran lunga più orrenda. (Applausi al centro e a sinistra).

Noi vogliamo uscire, la Repubblica sta per uscire dai corni tragici di questo dilemma.

L’Italia è per la prima volta, da pari a pari, a discutere in una conferenza internazionale. L’onorevole Togliatti diceva: Bisogna esserci. Ma – soggiungeva – bisogna esserci con una certa politica. Egli ha dato anche alcuni eccellenti consigli per la nostra politica estera. Ora, io mi permetto di osservargli che non si può ancora fare una politica estera, nessuna politica estera, né quella di Togliatti né quella di Sforza. È evidente che una politica italiana vera e propria non si può fare finché noi non avremo liquidato il passato, finché noi non potremo partecipare da pari a pari a tutti i consessi internazionali.

È per questo che io non mi sono meravigliato che la conclusione cui è pervenuto l’onorevole Togliatti sia la nostra stessa conclusione, che cioè sia necessario ratificare il Trattato. Io credo che egli, senza volerlo, sminuisca il valore di questa conclusione – mi scusi l’onorevole Togliatti – subordinandola ad un esame di politica estera che si può fare, che si deve fare, ma in altra sede e in modo più approfondito.

La Repubblica sta uscendo dunque da questo dilemma e, mentre trattiamo a Parigi con gli Stati occidentali – qui la preoccupazione dell’onorevole Togliatti è anche la nostra e credo che sia comune a tutta l’Assemblea mentre stiamo trattando con gli Stati occidentali dell’Europa, la nostra preoccupazione è – ed è certo anche quella del Ministro degli esteri – di non precluderci la strada per le trattative col mondo orientale.

Io non sono nei segreti della politica estera italiana, ma vi sono alcuni fatti visibili per tutti, oltre le dichiarazioni opportune, le riserve opportune in questo campo che ha fatto pubblicamente a Parigi, nella sede stessa della Conferenza, l’onorevole Sforza; ci sono alcuni fatti che sembrano di importanza minore ma sono molto significativi: il suo incontro a Parigi con l’ambasciatore sovietico, il suo incontro a Roma con l’ambasciatore sovietico. Non credo – io non so niente, ma non credo – che siano casuali, puramente casuali, che cioè il nostro Governo e il Ministro degli esteri non siano preoccupati, come noi siamo preoccupati, di salvaguardare la nostra libertà politica ed economica verso l’altra parte dell’Europa. E se ratificare significa affrettare soltanto la speranza di partecipare all’O.N.U. – e per carità, anche qui, non mi regalate la solita geremiade di scetticismi e di pessimismi – avremo almeno conquistato una tribuna, la più alta tribuna internazionale per difendere le ragioni del nostro Paese. E se ratificare significa anche cominciare a smobilitare, la pesante macchina dell’armistizio (pare che gli inglesi abbiano assicurato che se ne andranno il giorno della ratifica del Trattato – e noi siamo pronti ad infiorarli, come li abbiamo infiorati quando sono venuti), anche questo è certo un enorme vantaggio per il nostro Paese.

Insomma, finché rimarremo in questo stato di soggezione, finché rimarremo in questo stato di inferiorità, non si potrà nemmeno parlare di problemi di revisione. E voi, forse, conoscerete quel ch’io penso in questa materia: che le possibilità di revisione sono insite nel Trattato stesso; che, per esempio, alle nostre frontiere orientali c’è un cuneo di interessi stranieri posti fra noi e la Jugoslavia, che noi abbiamo interesse ad eliminare, ma che anche la Jugoslavia ha interesse ad eliminare. Queste ferite potranno essere sanate il giorno in cui potremo ristabilire auspicabili contatti di fraternità al di là degli odî recenti.

Ecco perché il Partito repubblicano non ha esitato a prendere queste responsabilità. Ed a chi ci dice che in questo modo noi diamo armi alla speculazione nazionalista, rispondiamo che due stesse esperienze nel giro della stessa generazione non si faranno; che ormai gli Italiani sono abbastanza maturi per capire che questa idra nazionalista, che schiacceremo o isoleremo, ha già prodotto conseguenze disastrose per il nostro povero Paese.

Signori del Governo, voi potete contare sempre sui nostri voti, tutte le volte che al di là dei nostri bisticci interni, anche onorevoli, sono in gioco i supremi interessi, le supreme ragioni dello Stato repubblicano. Noi sentiremmo di essere gli ultimi miserabili, i più bassi politicanti, se avessimo profittato, se profittassimo di questa occasione, nella quale alcuni dei vostri normali alleati giuocano al terno della popolarità il cadavere della Nazione (Applausi), per rovesciare il Governo.

Noi voteremo con vera tristezza nell’animo, lasciando a qualcuno di noi, che ha particolare posizione di coscienza, il diritto di votare in modo diverso dal nostro. Ma nei miei banchi tutti sanno che la storia d’Italia è fervida di queste dedizioni assolutamente disinteressate del partito di Mazzini alla causa nazionale! (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa fino alle 22.

A tale ora riprenderemo i lavori per continuare l’esame del disegno di legge sull’imposta patrimoniale.

Il seguito della discussione sul Trattato di pace è rinviato alla seduta di domani.

(La seduta sospesa alle 20.45 è ripresa alle 22).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947 n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Procediamo nella discussione del disegno di legge concernente l’istituzione dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Come l’Assemblea ricorda, la seduta di stamane è stata sospesa prima di procedere alla votazione dell’emendamento Cappi all’alinea b) del secondo degli articoli proposto dalla Commissione, emendamento tendente a stabilire in otto milioni il limite di esenzione per le società cooperative.

Comunico che, intanto, è pervenuto il seguente nuovo emendamento sostitutivo dell’alinea b), firmato dagli onorevoli Cerreti, Vicentini, Vanoni, Grazia e Dugoni, così formulato:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro, agricole ed i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane, che siano rette con i principî e con la disciplina della mutualità e che operino effettivamente secondo questi principî. L’esistenza di tali requisiti si deduce anche dal rapporto fra l’entità del patrimonio ed il numero dei soci ed è accertata, in caso di contestazione, dall’Amministrazione finanziaria d’intesa con il Ministero del lavoro».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Stamane l’Assemblea, la Commissione e il Governo erano alla ricerca di una formula che servisse a concedere l’esenzione là ove veramente si possono trovare le vere società cooperative.

A titolo cautelativo si era pensato di determinare un limite di cifra di capitale oppure un limite di patrimonio imponibile. È esatto che il titolo per fruire o meno di questa agevolazione non può derivare tanto da un limite di capitale o da un limite di patrimonio imponibile, quanto invece dalla esistenza dei requisiti della vera cooperativa.

Se l’emendamento testé comunicato può dal Governo essere messo in correlazione con l’emendamento di cui al successivo articolo, con cui la Commissione propone la sussistenza nella cooperativa di un triplice requisito, il Governo non ha difficoltà ad esprimere parere favorevole a questo emendamento.

PRESIDENTE. Quale è l’avviso della Commissione?

LA MALFA, Relatore. Mi rimetto al parere del Governo.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà,

CAPPI. Avevo proposto stamane un emendamento; poiché, però, è intervenuto un accordo non limitato (questo mi preme di dirlo all’Assemblea) a questo comma ed a questo punto che riguarda le cooperative ma anche ad altri punti dell’articolo 2, in base a questo accordo complessivo, dichiaro di ritirare il mio emendamento e votare per l’emendamento sostitutivo che il Presidente ha testé annunciato.

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Desidero, signor Presidente, richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi su un particolare settore della cooperazione che non può e non deve, in un articolo così essenziale ed importante, essere trascurato.

Intendo riferirmi particolarmente alle cooperative edificatrici – che non vanno confuse con le cooperative di lavoro edile – le quali recano e meglio potranno arrecare in avvenire un altissimo contributo alla ricostruzione ed alla pacificazione del Paese. Sì, anche alla pacificazione perché quando l’operaio o l’impiegato, attraverso il conferimento dei loro sudati risparmi, diventano i proprietari della loro piccola casa o del proprio modesto appartamento, essi cominciano ad acquisire il senso di quella personalità indipendente che li emancipa dalla loro condizione proletaria.

Questo capitale, dunque, apportato con tanti sacrifici e che è frutto del più sano spirito previdenziale, dovrà essere colpito dall’imposta?

Io non credo, in coscienza, che ciò possa avvenire. Come mi associo, nella mia qualità non solo di deputato ma anche di rappresentante di un vastissimo movimento cooperativo nazionale, alle proposte che portano all’esenzione a favore delle cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, ai loro consorzi, nonché delle Casse rurali ed artigiane, così debbo insistere perché le cooperative edificatrici trovino il loro posto in quella tassativa elencazione.

Non vi è dubbio che le cooperative debbono essere fornite dei particolari requisiti, citati all’articolo successivo, i quali garantiscono pienamente l’osservanza dei principî e delle discipline della mutualità: la nuova legge che è in corso di elaborazione presso il Ministero del lavoro ed alla cui nuova impostazione la Confederazione cooperativa italiana ha dato e desidera dare il proprio fattivo contributo di esperienza, garantirà ai competenti organi dello Stato, e quindi anche all’amministrazione finanziaria, che non saranno possibili speculazioni di sorta sul fatto e sul nome della vera cooperazione, fine a se stessa e, nel contempo, strumento di elevazione sociale del popolo.

PRESIDENTE. In quali termini sarebbe l’emendamento aggiuntivo?

CIMENTI. «Le società cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, edificatrici ed i loro consorzi».

PRESIDENTE. Prima di sentire il parere della Commissione sull’emendamento dell’onorevole Cimenti, domando all’onorevole Caroleo se mantiene il suo analogo emendamento.

CAROLEO. Il mio emendamento riproduce esattamente il pensiero del collega. Io ho precisato: cooperative per la costruzione di case economiche, che sono appunto le case operaie. Comunque, ritiro il mio emendamento, associandomi a quello dell’onorevole Cimenti.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei pregare gli onorevoli Cerreti e gli altri firmatari dell’emendamento nonché l’onorevole Cimenti di aggiungere all’elenco delle cooperative, così come risulta dal testo concordato, le cooperative dei pescatori, che in Italia hanno una importanza ed una tradizione notevole che non può essere dimenticata.

DUGONI. Le cooperative di lavoro comprendono anche quelle della pesca.

CANEVARI. Con la formulazione «cooperative di produzione e lavoro» si includevano tutte le cooperative che avevano lo scopo di produrre e lavorare. Ma quando avete fatta l’aggiunta «cooperative agricole», avete fatto un elenco, che reclama raggiunta delle altre cooperative.

O togliete tutte le altre e quindi anche le agricole, e allora non c’è bisogno di aggiungere altro; ma se mettete «agricole», bisogna fare l’aggiunta che dico io, vale a dire «cooperative di pescatori».

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Penso che noi possiamo accettare l’aggiunta dell’onorevole Cimenti, ma desidereremmo che fosse specificato che quando si parla di «cooperative edificatrici» si intende parlare di case popolari, poiché stiamo assistendo appunto a delle forme di cooperative spurie, le quali creano palazzi sontuosi, che nulla hanno a che vedere con le case economiche.

PRESIDENTE. Infatti, l’emendamento dell’onorevole Caroleo, su questo argomento, specificava «case economiche». Ed allora potremmo dire «edificatrici di case economiche».

GRAZIA. Sta bene raggiunta che abbiamo fatto per le cooperative agricole; perché vogliamo riferirci a determinate cooperative le quali pur avendo carattere di lavoro e non di consumo fanno soltanto affitto o servizio di macchine per lavoro, che non è propriamente di produzione, ma è ausilio a questa.

Però, riguardo a quello che dice l’onorevole Canevari, se si vuole aggiungere anche le «cooperative della pesca», nulla in contrario ad accettare il suo emendamento.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io sono d’opinione che noi non possiamo andare specificando tutti i generi di cooperative. Quindi sopprimiamo la parola «agricole» e diciamo: «Le società cooperative di consumo, produzione e lavoro, e i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane ecc.». Questo mi pare che sia il sistema più semplice e più comprensivo.

CAROLEO. Non si può comprendere nelle cooperative di produzione e lavoro le cooperative di case. Non si producono le case; le case si costruiscono.

CIMENTI. D’accordo.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento concordato che avrà luogo separatamente per le singole voci.

Pongo ai voti le parole:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro».

(Sono approvate).

«agricole».

(È approvata).

«edificatrici di case economiche».

(Sono approvate).

«della pesca».

(Sono approvate).

«e i loro consorzi».

(Sono approvate).

«nonché le casse rurali ed artigiane».

(Sono approvate).

A questo punto vi è l’emendamento dell’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

Onorevole Adonnino, insiste nel suo emendamento?

ADONNINO. Sì.

LA MALFA, Relatore. Ma continuando così non so che cosa voteremo!

ADONNINO. Sono state incluse tante altre specificazioni e non comprendo perché non ci possa essere anche quella proposta da me.

PELLA. Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Per rassicurare l’onorevole La Malfa e gli altri, che hanno qualche preoccupazione circa la perfezione forse formale più che sostanziale dell’emendamento che sta nascendo, credo che l’Assemblea sia d’accordo principalmente in questo punto: che debba essere compito, poi, della Amministrazione finanziaria compiere quel lavoro d’interpretazione della vera volontà della Assemblea coordinando il testo votato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Respingo nettamente l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino, perché con esso noi verremmo ad esentare – per esempio – la Banca cooperativa di Novara.

Pregherei poi di aggiungere, prima della parola «agricole», la parola «comprese»; così diamo un senso a questa votazione. Cioè, metterei dopo le parole «consumo, produzione e lavoro» le parole «comprese le cooperative di pesca, ecc.».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta del Relatore di premettere alla parola «agricole» già votata le parole «comprese le».

(È approvata).

Pongo ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

ADONNINO. Beninteso, si dovrà aggiungere: «fino al limite di 8 milioni di patrimonio». (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Sull’emendamento Adonnino il Governo e la Commissione hanno espresso parere contrario.

Lo pongo ai voti.

(Non è approvato). (Vivi rumori – Commenti – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi rumori – Il Presidente lascia il suo seggio).

(La seduta, sospesa alle 22.35, è ripresa alle 22.55).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Penso che nessuno si attendesse che questa ripresa serale della seduta dovesse essere interrotta dall’episodio spiacevole che si è verificato e credo che non vi sia nessuno tra di noi che non se ne rammarichi vivamente, anche e specialmente coloro che, involontariamente, ne sono stati la causa immediata.

Vi sono delle attenuanti, s’intende: la stanchezza, le sedute prolungate, la stagione, la difficoltà della materia. Tuttavia, onorevoli colleghi, penso che queste che sarebbero attenuanti per chiunque, non lo possono essere per dei deputati eletti dal popolo italiano i quali dovrebbero avere delle virtù connaturali, di cui la prima è l’autocontrollo.

Penso che il modo migliore per riparare alla innegabile spiacevolezza di questo episodio sia per l’appunto quello di riconoscere obiettivamente che l’esperienza di molti non ha ancora potuto essere completata (Commenti); e, con umiltà, lo riconosco per me stesso.

D’altra parte, è certo che il nostro collega Vicepresidente Conti non merita alcun atto men che deferente. (Si applaude a lungo vivamente all’indirizzo del Vicepresidente Conti).

Onorevoli colleghi! Noi siamo tutti stanchi ma, badate, vi è una stanchezza maggiore che si accumula in coloro che debbono dirigere le nostre discussioni e non hanno pause nella loro fatica.

Colui che presiede ha il diritto, in alcuni momenti, di essere particolarmente compreso. Il nostro collega onorevole Conti da diciotto sedute presiede una discussione faticosissima, oltremodo complicata.

Credo che tutti noi saremo unanimi nel volergli far giungere il desiderio che egli domani riprenda il suo posto. (Vivi applausi). Il modo migliore per dimostrarglielo è intanto quello di riprendere il lavoro interrotto, traendo dal piccolo incidente almeno l’ammaestramento di dare a questa discussione il carattere di una discussione parlamentare.

Forse si è trasferito un po’ troppo nell’aula il lavoro tipico della Commissione – degno e meritorio peraltro – ciò che ha un po’ stancato i colleghi, e contribuito a quello che è avvenuto poco fa.

Ma ormai è bene chiudere l’incidente e riprendere il nostro lavoro al punto in cui è stato spiacevolmente arrestato. (Vive approvazioni).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea nel manifestare l’unanime rammarico per l’incidente che è accaduto, incidente che credo abbia avuto origine più che altro da un equivoco, perché effettivamente il nostro collega Vice-Presidente Conti si è ben trovato, anche durante la discussione della patrimoniale, in altre situazioni più rumorose e, direi anche, più clamorose. Forse, il momento non era il più adatto per lui ed anche per qualcuno di quelli che in quel momento hanno forse dimostrato, verso di lui un risentimento certamente infondato, determinato più che altro dal fatto che ciascuno di noi anche in questa discussione della patrimoniale, che abbiamo dovuto esaminare per la funzione legislativa aggiunta alla Costituente, quella cioè di aver modo di interferire in questa legge, ciascuno si è un po’ appassionato ed alcuni possono essere andati al di là di quello che sarebbe opportuno in una Assemblea calma e serena, come teoricamente dovrebbe essere sempre, ed in pratica ancor più trattandosi di questioni più serie ancora, quali sono quelle finanziarie.

Ora, effettivamente i colleghi sanno che io pure, che sono quasi sempre tranquillo oltre ogni dire, qualche volta, nella discussione di questa legge patrimoniale, mi sono accalorato e mi sono appassionato particolarmente quando qualcuno dei colleghi, di pensiero diverso da quello che avevo l’onore di esprimere io, assumeva degli atteggiamenti piuttosto rumorosi nei miei riguardi. Ora, questo dico per ricordare come effettivamente la questione della legge patrimoniale, importantissima, che si è discussa qui per diciotto sedute, di giorno ed anche (ahimè!) di notte, effettivamente ha affaticato tutti gli spiriti nostri. Da notare che la fatica di noi deputati è sempre relativa – perché se siamo stanchi usciamo dall’aula – ma ha affaticato ancora di più coloro che avevano l’obbligo di presiedere per dirigere le nostre discussioni, discussioni spesso astruse e complesse, anche perché… (Commenti a sinistra).

I colleghi sono già tutti del mio parere e desiderano, mi pare, che io concluda: sono abbastanza intelligente per comprendere a volo. Questo dimostra, signor Presidente, come le sedute notturne, siano relativamente opportune, perché vede con quale spirito di inquietudine si accolgono queste mie serene parole.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Micheli!

MICHELI. Ho terminato di dir male delle sedute notturne, signor Presidente; non mi richiami perché non lo merito. Aggiungo solo che credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea, ringraziando lei di essere venuto a riassumere «ambo le chiavi del cor di Federico» non solo, ma anche di aver così autorevolmente trovato la forma per eliminare ogni equivoco che ci fosse stato fra noi, nel senso che il desiderio di tutti è che il Vicepresidente Conti ritorni ancora a presiederci in questa discussione (Vivi applausi all’indirizzo dell’onorevole Conti), in modo che questa benedetta patrimoniale sia finita, per merito suo, per merito nostro. Con maggiore o minore soddisfazione del contribuente italiano, sarà poi da vedere, ma l’onorevole Conti non c’entra.

PRESIDENTE. Procediamo dunque nell’esame degli emendamenti.

Era stata approvata poco fa la prima parte dell’emendamento presentato dall’onorevole Cerreti e da altri colleghi al comma b) del secondo articolo aggiuntivo.

Si tratta, ora, di porre ai voti la seconda parte.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Propongo che la seconda parte del testo, per ragioni formali, sia modificata nel modo seguente:

«L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazioni, spetta all’Amministrazione finanziaria d’intesa col Ministero del lavoro i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Io credo che il dire che l’amministrazione finanziaria deve procedere d’accordo con il Ministero del lavoro possa condurre a delle complicazioni. Per quanto riguarda l’indagine sulle casse rurali, sulle cooperative di consumo, che cosa c’entra il Ministero del lavoro? Sulle cooperative di lavoro, sta bene; ma è inutile dirlo: l’amministrazione finanziaria, quando crederà di servirsi degli elementi che può fornire il Ministero del lavoro, se ne servirà, ma non mi pare che si possa o si debba stabilire ciò a-priori.

In secondo luogo, osservo che, per quanto riguarda le cooperative di consumo, non basta tener conto del capitale e del modo di attività; bisogna tener conto anche del fatto se queste cooperative di consumo esercitino o meno la loro attività soltanto nell’ambito dei soci, o anche nei confronti di terzi. Ci sono infatti delle cooperative di consumo che sono enti di formidabile potenza, che hanno centinaia di milioni di patrimonio. Ora, è evidente che queste cooperative esercitano un’attività anche industriale perché hanno mattatoi, mulini, e servono il pubblico. Ve ne sono alcune – si conoscono benissimo – che servono intere città che hanno centinaia di migliaia di abitanti.

Tutte le volte, in cui noi diciamo di aiutare le cooperative, noi non alludiamo certo a quelle che entrano nell’ambito commerciale generale.

A me pare quindi che non sia assolutamente il caso di…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, mi perdoni: la cosa è superata, perché l’Assemblea ha approvato già il primo alinea in cui si parla di cooperative in modo indiscriminato.

BERTONE. Ma io mi riferisco ad altri elementi, onorevole Presidente. Penso che si dovrebbe avere anche riguardo al modo, alla natura, alla estensione dell’attività dell’ente, se limitata ai soci o estesa indiscriminatamente a tutti…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, lei pone qui la questione delle cooperative chiuse e delle cooperative aperte. Ritiene che quelle aperte debbano avere un trattamento diverso? Formuli allora un emendamento in questo senso.

PALLASTRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PALLASTRELLI. Io sono d’accordo con l’onorevole Bertone e cioè che non si dovrebbe fare alcuna specificazione circa i Ministeri che quello delle finanze dovrà sentire; ma se invece si insiste a dire che il Ministero delle finanze deve avere il parere di quello del lavoro, penso sia necessario, anzi doveroso, aggiungere che occorre pure interpellare il Ministero dell’agricoltura. So bene la ragione per la quale ci si è limitati al Ministero del lavoro, ossia perché esso è detentore del registro delle cooperative, e so anche che sotto il punto di vista strettamente giuridico si potrebbero opporre delle buone considerazioni alla mia proposta. Ma io non vorrei si escludesse il Ministero di agricoltura per tante ragioni che non mi indugio a esporre e anche per porre fine alla tendenza, se volete è motivo un po’ estraneo a ciò che stiamo trattando, a quella tendenza, ripeto, che mira a togliere al Ministero di agricoltura, ogni ingerenza nelle cooperative che agiscono nel suo settore. Io penso e mi auguro che possano sorgere molte cooperative agricole. Ed è da augurarsi anche che possano sorgere come fattore importante della auspicata riforma agraria per la quale dovremo avere un forte sviluppo di cooperative specie per i sistemi collettivi di conduzione della terra.

Perciò anche al Ministero dell’agricoltura quello delle finanze dovrebbe chiedere ciò che si vuole solo limitare al Ministero del lavoro.

PRESIDENTE. Sta bene. Vi sono dunque due proposte di emendamento: il primo è dell’onorevole Bertone, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti esclusivamente all’amministrazione finanziaria, senza il concorso di altre amministrazioni; il secondo emendamento è quello dell’onorevole Pallastrelli, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti all’Amministrazione finanziaria, d’intesa, non so se col Ministero del lavoro, ma comunque col Ministero dell’agricoltura.

PALLASTRELLI. O sia solo il Ministero delle finanze, e non si parli di altri Ministeri, oppure se si indica quello del lavoro si metta anche il Ministero dell’agricoltura.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che l’emendamento, nella sua dizione formale, sia stato concordato fra i vari gruppi nel presupposto che il Ministero del lavoro istituisca un registro delle cooperative, in cui si accerti la regolarità degli scopi delle cooperative medesime. Quindi, l’intesa col Ministero del lavoro presuppone questo registro presso il Ministero del lavoro stesso. Date questo presupposto, qualsiasi altro emendamento è inutile. Quindi pregherei il Governo di dichiarare se accetta o meno quella formulazione. È inutile una discussione che ci porta sempre fuori strada.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei far presente appunto che lo schema di disegno di legge già predisposto dal Ministro del lavoro del tempo, D’Aragona, successivamente accettato dal Ministro Romita, schema che è in attesa di essere portato davanti a questa Assemblea, prevede appunto la costituzione, per la vigilanza da esercitarsi sulle cooperative – vigilanza già richiesta da tutti i cooperatori italiani anche nei loro congressi nazionali, di un registro, che è di competenza del Ministero del lavoro.

Io, però, sono d’avviso che in luogo di mettere – come pare sia proposto nell’emendamento Pesenti – «il Ministero delle finanze, d’intesa col Ministero del lavoro», si metta che la competenza sia conferita al Ministero delle finanze, sentito il Ministero del lavoro, che ha una competenza specifica per la vigilanza da esercitarsi sul movimento delle cooperative.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Gli onorevoli colleghi avranno certamente pensato che se il Governo ha dato parere genericamente favorevole all’emendamento proposto dalla Commissione, ciò è stato soprattutto per portare un contributo di semplificazione e di acceleramento nei lavori.

Effettivamente, coll’emendamento proposto si viene a limitare la libertà dell’Amministrazione finanziaria in materia. Forse il sistema più appropriato sarebbe stato questo: dopo aver affermato che ai fini dell’accertamento del requisito della mutualità occorre anche tenere conto del rapporto tra capitale e soci, e dopo aver affermato che occorre tenere conto del parere del Ministero del lavoro, o sentire questo Ministero, sarebbe stato più opportuno mantenersi nel grande solco del normale contenzioso dell’imposta: che, cioè, in caso di contestazione, dovessero essere gli organi amministrativi a decidere anche su questo punto, tenendo conto e del parere del Ministero del lavoro, e di questo requisito obiettivo del rapporto tra capitale e soci, e degli altri requisiti contemplati dal successivo articolo. Questo sarebbe il sistema che preferirebbe il Ministero e che sembrerebbe più organico.

Se la Commissione in questo senso vuole correggere il suo emendamento, il Governo ne prenderà atto con piacere; se però non ritiene di modificare l’emendamento presentato, nessuna difficoltà ad accoglierlo da parte del Governo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Volevo far presente che il testo proposto non è della Commissione ma di gruppi vari dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Sta bene; ma la cosa non ha eccessiva importanza. Penso che l’Assemblea giudicherà in base al contenuto dell’emendamento, senza tener conto di chi precisamente ne sia l’autore.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Propongo che alle parole «d’intesa con» si sostituisca la parola «sentito».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la prima parte dell’emendamento: «L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazione, spetta all’Amministrazione finanziaria».

(È approvata).

Pongo ai voti – in base alla proposta Scoccimarro – le parole: «sentito il Ministero del lavoro».

(Sono approvate).

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pallastrelli di aggiungere le parole:

«e il Ministero dell’agricoltura».

(Non è approvata).

Pongo ora ai voti la seconda parte del comma:

«i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

(È approvata).

Si passa ora alla lettera c):

«c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i benefici ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Gli onorevoli Dugoni ed Assennato hanno proposto un emendamento per sostituire la lettera c) con la seguente formulazione: «Le aziende municipalizzate, le aziende autonome dello Stato, i consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre contributi obbligatori o esercenti pubblici servizi».

TOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSI. Ho chiesto di parlare solo per dire che voteremo contro l’emendamento Dugoni. Per accelerare la discussione abbiamo altresì preso accordi coll’onorevole Scoccimarro per approvare il testo della lettera c) fino alle parole: «aventi scopi esclusivamente culturali», lasciando le altre parole: «i benefici ecclesiastici maggiori o minori» su cui c’è un emendamento dello stesso deputato. E lì ci fermeremo per esaminare da questione. Vorremmo dunque che questo fosse noto al Governo. Quindi la lettera c) rimane tutta mantenuta fino alle parole «i benefici ecclesiastici maggiori e minori» per cui c’è un emendamento Scoccimarro.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Scoccimarro se per tutta la prima parte della lettera c) fino al punto indicato dall’onorevole Tosi c’è un accordo per conservarla.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’accordo era per conservarla. Naturalmente in sede di coordinamento, siccome è stata votata una diversa dizione dell’articolo 1 lettera c), evidentemente alcuni di questi enti ricordati devono cadere perché sono già esenti in base all’articolo 1 lettera c). Però l’onorevole Assennato fa osservare che nella lettera c) manca l’esenzione – per esempio – dell’Ente autonomo dell’acquedotto pugliese, cioè di certi enti autonomi che non sono ricordati perché non esistevano all’epoca della legge del 1922.

ASSENNATO. Si tratta di enti autonomi che svolgono pubblici servizi.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Assennato, allora il suo è un emendamento aggiuntivo.

ASSENNATO. Sì, aggiuntivo,

PRESIDENTE, Avverto che alla lettera c) l’onorevole Micheli propone di dire, oltre le amministrazioni di Stato, anche «gli istituti»; quindi: «amministrazioni e istituti di Stato».

Vi è poi un emendamento dell’onorevole Quintieri Quinto che propone che si tolgano dal comma c) le parole: «aziende municipalizzate».

L’onorevole Quintieri Quinto ha facoltà di parlare per illustrare il suo emendamento.

QUINTIERI QUINTO. Propongo da soppressione delle parole «aziende municipalizzate», prima di tutto per evitare di limitare troppo la materia su cui incide l’imposta. Le esenzioni sono già notevoli: estenderle significa gravare più ancora sulle restanti categorie che saranno colpite. Bisogna inoltre evitare un trattamento fiscale diverso per aziende che sostanzialmente hanno lo stesso campo di attività. Ci sono aziende non municipalizzate che eserciscono pubblici servizi, e non c’è ragione di stabilire fra queste due categorie una tassazione diversa. Bisogna evitare che le aziende, attraverso il differente trattamento fiscale, perdano la chiara ed esatta visione dei risultati economici raggiunti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, credo che noi andiamo da un equivoco all’altro, da una confusione all’altra, e così non so dove arriveremo. Non è possibile mantenere la lettera c) dell’articolo 2 se si modifica, come è stata modificata, la lettera c) dell’articolo 1.

Se definiamo la lettera c) dell’articolo 1 mettendovi le fondazioni e gli enti morali, non possiamo poi dire che sono esentati dall’imposta. Non possiamo parlare degli Stati esteri in categoria B di ricchezza mobile. E così via. Non so davvero che cosa significhi tutto questo pasticcio. Se manteniamo la lettera c) dell’articolo 1 dobbiamo togliere le esenzioni corrispondenti dal comma c) dell’articolo 2.

Fin da stamane ho dovuto criticare la facilità con cui stabiliamo delle categorie di privilegi e di esenzioni senza valutarne le conseguenze. Continuando con questo, metodo non so se l’Assemblea stia qui per curare gli interessi di coloro che vogliono essere esentati dall’imposta o curare gli interessi generali dello Stato. Credo che si debba deliberare la soppressione della lettera c) dell’articolo 2.

CORBINO. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei far notare che noi discutiamo di una materia estremamente complessa e nella quale è necessario conservare una armonia tra le linee generali, del disegno di legge e i dettagli che lo compongono. Vorrei perciò fare una proposta concreta. L’imposta sugli enti collettivi non era contemplata nel decreto con cui l’imposta sul patrimonio era stata già istituita dal Governo. L’abbiamo deliberata noi. La trasformazione della nostra deliberazione generica in dettagli di disposizioni tributarie, a mio giudizio, non potrebbe essere fatta se non con una calma ed una serenità che noi in questo momento abbiamo già dato prova di non avere. E allora io vorrei proporre che, approvato il principio generale dell’imposizione degli enti collettivi così come è stata stabilita dall’articolo 1, si aggiunga un altro articolo così formulato: «Con successivo provvedimento legislativo saranno emanate le norme per la riscossione dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi». Il Governo emanerà il provvedimento d’accordo con la Commissione di finanza e tenendo presenti le disposizioni generali che la Commissione di finanza ha già approvato in questa materia. E noi, nella mattinata di domani, potremo dare la convalida al provvedimento legislativo; mettere in pace i contribuenti che devono pagare, e metterci ih pace anche noi, terminando il nostro lavoro.

PRESIDENTE. La sua proposta formale è praticamente quella di chiudere la discussione a questo punto.

CORBINO. Nei dettagli sarebbe questa: che all’articolo 1 dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi, che è già stato approvato, si faccia seguire un articolo 2: «Con successivo provvedimento saranno dettate le norme per l’applicazione e la riscossione di questa imposta». Nella Commissione di finanza sono rappresentati tutti i gruppi, sono rappresentate tutte le tendenze; e quindi tutti gli interessi avranno modo di poter far sentire la loro voce; soprattutto, avrà modo di poter far sentire la sua voce il Governo che in questo momento mi pare sia sopraffatto da proposte di esenzione che ciascuno di noi avanza nell’intento di sgravare dell’imposta tutti quegli enti che prima abbiamo voluto colpire, svuotando di fatto il contenuto del capo XIV del disegno di legge.

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Avevo chiesto, veramente, di parlare prima del relatore e prima che l’onorevole Corbino facesse questa proposta di sospensiva. Ritengo opportuno esporre il mio pensiero anche se la proposta dell’onorevole Corbino dovesse essere accolta. Alla lettera c) si parla di consorzi ed altri enti autorizzati a imporre tributi obbligatori. Voglio chiedere questo chiarimento. I Consorzi di bonifica, che sono un’associazione di proprietari di terre, possono avere – ed hanno nella maggior parte dei casi – un patrimonio collettivo, alle volte anche cospicuo, di terreni e di stabili. Ora non riesco a vedere quale sarebbe la ragione dell’esenzione. Vorrei che mi si desse, per lo meno, questo chiarimento.

CHIOSTERGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.,

CHIOSTERGI. Mi oppongo alla proposta dell’onorevole Corbino. Io ritengo che – se è necessario – l’Assemblea non deve cedere in quello che è il diritto e il dovere di arrivare fino in fondo.

PRESIDENTE. L’onorevole Corbino non ha ancora presentato una proposta precisa.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Vorrei fare presente che questo progetto non è una improvvisazione dell’ultimo momento. È stato già attentamente elaborato dal Ministero delle finanze, poi è stato riesaminato a lungo dalla Commissione di finanza e viene qui dopo un attento esame.

Non è una cosa affrettata. Perciò io penso che siamo in grado di discuterlo e decidere in merito.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Devo fare osservare che la Commissione assume la completa responsabilità del progetto che ha presentato. Ma la responsabilità di quello che avviene da questa mattina deve essere assunta dal Governo, che apportando un emendamento alla lettera c), non ha tratto tutte le conseguenze ed ha messo in condizioni difficili la Commissione.

La Commissione assume la responsabilità della coerenza degli articoli che ha presentato, però quando il Governo alla lettera c) propone un emendamento che modifica la base delle proposte della Commissione, non deve essere il Presidente della Commissione a dire che la lettera c) non è più sostenibile rispetto alla lettera c) dell’articolo 1, ma deve essere il Governo ad assumere la responsabilità rispetto agli articoli 2 e seguenti.

Voce al centro. L’Assemblea ha votato!

LA MALFA, Relatore. Questo devo dire perché da qualcuno si vorrebbe dare l’impressione che nel presentare questo emendamento la Commissione ha esercitato un potere arbitrario ed ha fatto un lavoro frettoloso.

PRESIDENTE. Parliamo della questione specifica.

LA MALFA, Relatore. Tutto quanto avviene da questa mattina, deriva da questa precisa situazione in cui ci troviamo: il Governo ha presentato un emendamento che è stato approvato dall’Assemblea, esso deve guidare la discussione dell’Assemblea in maniera che dall’emendamento presentato si traggano tutte le logiche conseguenze.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Mi permetterei di aggiungere, relativamente a questo cosiddetto non esistente contrasto fra il Governo e la Commissione, nei modi come sono stati esposti dall’onorevole La Malfa, che con una dichiarazione molto precisa, (che quindi l’Assemblea poteva anche ritenere impegnativa) il Governo aveva dichiarato solennemente che, nel caso fosse stata introdotta l’imposta straordinaria proporzionale, avrebbe contemporaneamente, se non abrogato, perché non voglio alterare la portata delle sue dichiarazioni, modificato il regime delle imposte sulle rivalutazioni.

Ora, la fretta con cui questo disgraziatissimo progetto aggiuntivo è stato varato, al di fuori di ogni norma costituzionale e di ogni normale procedura, per cui io non ho che da richiamare le giustissime osservazioni che furono fatte dal nostro attuale Presidente alla fine di una recente seduta, ha portata la conseguenza che in questo progetto aggiuntivo è anche contenuto un articolo x il quale dice: «Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali delle società ed enti, ecc. ecc.».

Questa riserva incide sostanzialmente in quella tale alternativa di cui il Governo aveva fatto chiara ed esplicita ed impegnativa dichiarazione alla Costituente.

Quindi la proposta dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e coerente alle precedenti dichiarazioni del Governo in quanto se le modalità della seconda imposta proporzionale risulteranno da un successivo progetto meglio elaborato, tecnicamente non incongruente come questo, il progetto futuro del Governo, oltre ad essere sottoposto alla normale procedura dei disegni di legge, potrà contenere quella tale parte relativa alla revisione delle attuali imposte sulle rivalutazioni, senza la modificazione o abrogazione delle quali noi non teniamo conto che gli enti collettivi, una delle principali ossature dell’economia del Paese, finiranno in pratica per avere l’imposta ordinaria con quei tali multipli di imponibile e concentrazioni decennali di cui si è parlato, l’imposta straordinaria di cui stiamo parlando adesso con tutte le assunzioni della cosiddetta responsabilità da parte della Commissione, ma senza nessuna analoga assunzione di responsabilità da parte del Governo, ed avremo contemporaneamente l’esistenza dell’imposta sulle rivalutazioni la quale, sostanzialmente, ferma l’opera ricostruttiva del Paese…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, l’Assemblea ha già votato il primo di questi articoli; perciò la questione è risolta.

FABBRI. Io sono molto deferente alla sua logica, ma mi permetto dirle che la proposta dell’onorevole Corbino è di conferma del principio votato, e sta bene; ma è aggiuntiva di un progetto di legge che dia luogo da parte del Governo e della Commissione all’assetto tributario degli enti collettivi. Ora, in questo stesso progetto di legge – ed è inutile che io faccia la questione più tardi – è contenuta una riserva per la revisione di imposte che attualmente rimangono in atto. La proposta di sospensiva dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e tanto più ragionevole in quanto questa futura presentazione delle nuove norme potrà essere comprensiva anche del contenuto di questo articolo dove c’è una riserva (relativamente ad una anteriore e precisa dichiarazione del Governo) proprio a proposito della eventuale introduzione dell’imposta straordinaria…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, ma io ho già qui una proposta concreta dell’onorevole Corbino. Questo che lei dice si riferisce al testo dell’articolo 13.

FABBRI. Allora domando che questo articolo 13 sia aggiunto all’emendamento Corbino in quanto la ragione di sospensiva sarà comprensiva dell’argomento complesso che consta di due parti organiche, secondo la dichiarazione impegnativa del Governo, la quale, o rimane tale, e allora ho ragione io, o viene revocata, ed allora si vedrà l’opinione dell’Assemblea.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare che l’imposta straordinaria sugli enti collettivi è una questione diversa dell’imposta sulla rivalutazione degli impianti. Noi possiamo benissimo esaminare l’imposta straordinaria ed affrontare in seguito il problema delle rivalutazioni (sul quale sono d’accordo con lei, onorevole Fabbri, che il 25 per cento deve essere riveduto). Perciò non vediamo il motivo del rinvio che ora si chiede.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. È inutile che io dica agli onorevoli colleghi che, per il semplice fatto che il Governo è presente a questa discussione, il Governo si assume tutta la responsabilità dei suoi atteggiamenti. Vorrei però che si tenesse presente che forse si comincia ad intendere la portata di quella che era l’intenzione del Governo di deferire all’autorità dell’Assemblea la risoluzione dei problemi più importanti. Non ho che da rammaricarmi che possano essere state fraintese le intenzioni del Governo e di chi vi parla. Non desiderio di evadere la responsabilità, che anzi il Governo rivendica a se stesso nella totalità, ma atto di ossequio ed atto di omaggio all’Assemblea Costituente e nulla più.

Per quanto riguarda il merito delle osservazioni fatte, ho da tempo chiesto la parola per esprimere il pensiero del Governo in particolare modo sulla lettera c) dell’emendamento numero due, in correlazione all’emendamento dal Governo accettato stamani sull’emendamento numero uno.

È noto certamente alla Commissione, se non agli onorevoli colleghi dell’Assemblea, che il Governo aveva presentato, in via di contributo tecnico, un suo schema alla Commissione, nel quale era appunto introdotto il concetto di tassare gli enti morali per la zona del reddito di categoria B. Quindi, l’emendamento presentato stamani non ha alcun carattere di novità e di sorpresa; e la riaffermazione d’un concetto che esplicitamente era contenuto nel progetto presentato dinanzi alla Commissione. Ed ho spiegato stamani per quale ragione il Governo insisteva nel suo ordine di idee.

Resta in questo momento da chiedersi se abbia ancora ragion d’essere un sistema di esenzioni obiettive, quale quello contenuto nella elencazione di cui alla lettera c). Accantono in questo momento il problema secondario della revisione di questo elenco, perché io penso che qualcuno degli enti morali ivi indicati effettivamente potrebbe non avere più ragione di essere come può darsi che qualche altro ente – come giustamente propone l’onorevole Assennato – debba essere incluso.

Ed io ritengo – ed è qui che il Governo si assume veramente una responsabilità sul piano di un indirizzo di politica tributaria – ritengo veramente che un sistema di esenzioni soggettive debba essere anche, per quanto la portata all’atto pratico sia infinitamente piccola, di esenzione soggettiva per quegli enti morali che, nel quadro di una più ampia attività, possono svolgere episodicamente una qualche attività industriale o commerciale, che possa far nascere l’applicazione di un’imposta di ricchezza mobile in categoria B.

Onorevoli colleghi, per impostare esattamente il problema, teniamo conto che questa ipotesi vale e per il settore religioso e per il settore non religioso; e vorrei dire che la lettera c) esplicitamente parla di settori appartenenti a tutti i culti; quindi, un concetto molto largo e neutrale rispetto a quella che può essere una considerazione di ordine religioso.

Ora, il Governo non deve essere preoccupato soltanto di affastellare tributi su tributi e di cogliere soltanto l’esito tributario di gettito del tributo, ma, principalmente davanti a un tributo straordinario, quale quello di cui discutiamo, e di un tributo così contrastato nella sua stessa impostazione iniziale, il Governo, dico, deve tener conto d’un concetto fondamentale: se, in sede di applicazione del tributo mobiliare ordinario, il reddito è tassabile per il semplice fatto che si produce, indipendentemente dalla sua destinazione finale, analogo concetto il Governo non ritiene che si possa adottare ai fini dell’applicazione di questo tributo. Devesi tener conto di quella che è la destinazione finale del reddito: se la destinazione finale è scopo di beneficenza, di assistenza, filantropico, noi riteniamo che sussista il requisito per concedere una esenzione soggettiva. Ripeto, il settore su cui si estende questo sistema di applicazione è molto ridotto.

Il giorno in cui potremo fare una statistica e tradurre in cifre che cosa significa questa rinuncia, ritengo che ci troveremo davanti a cifre molto basse. Perciò il Governo, che stamattina aveva proposto un secondo emendamento, cioè di sopprimere l’ultimo periodo dell’emendamento n. 2, lasciando in piedi la lettera c), conferma in questo momento l’opportunità di lasciare in piedi la lettera c), integrata nel senso accennato dall’onorevole Assennato e depurata di qualche ente che effettivamente non riuscirebbe ad essere agganciato alle ipotesi pratiche di legame ad un reddito di categoria B.

Per quanto riguarda la proposta di rinvio dell’onorevole Corbino, veramente in questo caso il Governo deferisce la decisione all’Assemblea. lì Governo, se viene investito del problema di varare un separato provvedimento d’accordo con l’onorevole Commissione, non solo si impegna di vararlo, ma prega addirittura l’Assemblea di fissare un termine.

Se invece l’Assemblea preferisce che si continui stanotte per portare a termine l’esame del progetto, il Governo è a disposizione in tal senso.

CORBINO. Faccio osservare che il mio emendamento è nel senso indicato dall’onorevole Ministro: con successivo provvedimento da emanare, per esempio, entro un mese, o entro quel termine che vorrà fissare l’Assemblea, la legislazione avrà il suo seguito.

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Corbino pone una questione di procedura e di regolamento; essa avrebbe dovuto essere presentata prima che si iniziasse l’esame dell’articolo. Oramai la questione è stata toccata ed in parte risolta con le votazioni avvenute stasera. Se si accettasse la proposta dell’onorevole Corbino, bisognerebbe considerate come non avvenute queste votazioni e ricominciare da capo.

D’altra parte, è evidente che l’Assemblea, volendo, può sempre prendere in considerazione proposte di questo genere. Ma è necessario, evidentemente, che l’Assemblea deliberi di considerare come non avvenute le votazioni fatte.

L’Assemblea dovrà dunque decidere sulla proposta dell’onorevole Corbino di votare un articolo 2 con il quale si dichiari: «Con successivo provvedimento saranno dettate norme per l’applicazione e la riscossione dell’imposta di cui all’articolo 1».

Porrò ai voti tale proposta.

BERTONE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Il Gruppo per il quale ho l’onore di parlare accetta la proposta Corbino e voterà a favore. Il principio della tassabilità degli enti collettivi è acquisito e fermo e non si torna più indietro. Si tratta ora di stabilire i dettagli e le modalità della tassabilità e della tassazione. Evidentemente, poiché l’Assemblea ne è investita, potrebbe discutere e della tassazione e delle modalità della tassazione. Ma, onorevoli colleghi, rendiamoci conto del modo in cui avviene questa discussione. La verità è che se noi affrontiamo queste discussioni, non la finiremo né in due, né in tre, né in cinque giorni, perché basta vedere che per un articolo, che è stato già votato, e ora ci si ritorna su, c’è da ritenere che la discussione si protragga per un tempo che non possiamo definire. Perciò, l’affidare al Governo ed alla Commissione di stabilire un provvedimento definitivo con cui si dovrà procedere alla tassazione degli enti collettivi, mi pare che sia buona norma, conforme anche al principio costituzionale che il potere legislativo è delegato al Governo; e in verità noi qui stiamo varando un vero e proprio provvedimento legislativo.

Non aggiungo altro. Ritengo sia conveniente aderire alla proposta Corbino.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Dichiaro che avrei votato a favore dell’emendamento Corbino se il Governo si fosse impegnato a tener conto di quanto è già stato approvato dall’Assemblea su questo articolo. L’Assemblea su alcuni punti si è già pronunciata, e, credo, si è legalmente pronunciata.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Non ho esaminato dal punto di vista tecnico-formale come si possa o non si possa inserire formalmente quanto è stato già approvato; ma il Governo parte indubbiamente dal principio che quanto è stato già votato, da stamane fino a stasera, ha potere vincolante rispetto al nuovo provvedimento. Che poi tutto questo possa essere trasfuso nel nuovo provvedimento o non, è questione strettamente tecnica da esaminare.

FOA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Dichiaro che voterò contro la proposta Corbino perché ritengo che la sua accettazione costituirebbe una seria incrinatura nella fiducia che l’Assemblea Costituente deve avere in se stessa e nella capacità di svolgere i suoi lavori. Per la prima volta, essa si arresterebbe di fronte ad una complicazione di lavoro, quando questa complicazione non dipende in realtà da difetti o da colpe della Commissione da essa delegata, ma da una situazione nuova creata stamane da un emendamento proposto dal Governo e accettato, direi, con leggerezza dalla maggioranza dell’Assemblea. (Commenti – Proteste al centro). Con leggerezza, perché la Commissione… (Interruzione del deputato Fuschini).

Oltre tutto, io non vedo come si possa delegare al Governo di adottare questo provvedimento, di concerto con la Commissione di finanza, perché è evidente che qualunque conflitto sorga tra il Governo e la Commissione di finanza, non potrebbe essere in altro modo risolto se non rinviando all’Assemblea, cosa che non potrebbe avvenire prima della ripresa dei lavori.

Credo, perciò, che questo provvedimento, presentato come una delega al Governo, non sarebbe altro se non la rinunzia da parte dell’Assemblea di portare a termine un lavoro, che si trova già all’ordine del giorno.

Questa credo che sia una diminuzione gravissima del nostro mandato, e perciò dichiaro che voterò contro. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

Voci Ai voti!

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea, dopo l’articolo 2, dovrebbe affrontare – come discussione di una certa importanza – solo altri due articoli, l’articolo sulle detrazioni e l’articolo sulle aliquote, dopo di che dovrebbe esaminare il progetto per l’imposta sugli enti collettivi.

Credo, quindi, che la proposta degli onorevoli colleghi che vogliono sospendere la discussione di questo progetto indichi una stanchezza per lo meno prematura.

Noi, qui, siamo arrestati da un fatto di grande semplicità, cioè l’armonizzazione della lettera c) dell’articolo 2 con la lettera c) dell’articolo 1, che non presenta affatto difficoltà, tanto che la Commissione si sente di proporre la soppressione della lettera c) dell’articolo 2, ciò che non presenta alcun inconveniente, dopo che il Governo ha proposto l’emendamento alla lettera c) dell’articolo 1, che l’Assemblea ha approvato.

Aggiungo che le dichiarazioni dell’onorevole Pella sulla lettera c) dell’articolo 1 non sono ancora chiare.

Ma siccome c’è una proposta di sospensiva, mi riservo di discutere sulle dichiarazioni del Ministro Pella dopo la votazione circa la proposta dell’onorevole Corbino.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare all’Assemblea che su questo problema della tassazione degli enti collettivi già una volta è stata presentata proposta di sospensiva e di rinvio e l’Assemblea l’ha respinta. Ora è la seconda volta che si ripresenta la stessa proposta e mi parrebbe strano che l’Assemblea, arrivata a metà del suo lavoro, cambiasse opinione.

Devo poi far notare che non riesco a concepire come la Commissione, se fosse investita dal Governo di un provvedimento di questa natura, non lo rimandasse qui all’Assemblea, dovendo esso far parte dell’imposta straordinaria sul patrimonio…

MARINARO. La Commissione non è stata mai investita dal Governo!

SCOCCIMARRO. La Commissione si sentirebbe moralmente obbligata a rimandare all’Assemblea il provvedimento che il Governo presentasse, per cui questo vorrebbe dire che dovremmo riprendere la discussione dopo le vacanze.

Ancora una ultima osservazione: credo – sarà perché io non ho molta esperienza parlamentare – che sia la prima volta che nel nostro Parlamento, e forse anche in altri Parlamenti, si comincia a discutere una legge e ci si ferma, poi, a metà strada dicendo: «Il Governo la finisca lui».

Quindi, non possiamo accettare la proposta Corbino, e, se viene mantenuta, chiediamo l’appello nominale. (Applausi a sinistra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io non pensavo affatto di ledere i diritti dell’Assemblea proponendo quello che ho proposto; non c’era la più piccola intenzione in questo senso da parte mia. Desidero solo far rilevare che i poteri di emanare leggi li ha il Governo e, in materia fiscale, il Governo ha emanato in questi giorni provvedimenti che importano 80 miliardi di imposte da parte dei consumatori. Nessuno di noi si è sentito offeso nella sua dignità perché il Governo ha preso questi provvedimenti.

Io desidero invece che questo benedetto disegno di legge per l’imposta sul patrimonio sia varato al più presto possibile e non ho mai detto che debba essere rimandato. Non ho voluto quindi intendere che il suo esame vada, nel prosieguo, deferito al Governo. In questo caso, è il Governo che avrebbe dovuto fare questa legge. Il Governo l’ha portata qui per un riguardo all’Assemblea. Ma ora le questioni di massima le abbiamo esaminate e l’Assemblea si è pronunciata su di esse; non sono rimaste pertanto che le questioni di dettaglio.

Ora, su questo punto, chi sa quanto noi dovremmo discutere: dal momento quindi che gli elementi fondamentali, come ho già detto e come tutti noi sappiamo, sono ormai acquisiti e dal momento che la Commissione, la quale esprime tutte le correnti dell’Assemblea, ha già raggiunto un accordo, che cosa resta? Non restano che delle preoccupazioni concernenti il dettaglio.

E se io ho sollevato queste preoccupazioni nell’Assemblea, non le ho sollevate per tutelare i contribuenti, ma per impedire che, attraverso formule che noi qui talvolta improvvisiamo, si venga a determinare il fatto che dei contribuenti che dovrebbero pagare, non paghino. Ecco dunque lo scopo concreto, reale della mia proposta. Non c’è alcuna volontà di togliere all’Assemblea il più piccolo dei suoi poteri.

Se il progetto che il Governo preparerà entro un mese, da quando la Commissione avrà a sua volta adempiuto al proprio esame, non sarà trovato corrispondente a quelle che possono essere le esigenze politiche dell’Assemblea, la Commissione lo porterà all’Assemblea, ma porterà solo questo provvedimento, mentre il resto avrà già cominciato a camminare per conto proprio e sarà già andato in applicazione.

Quindi, onorevole Scoccimarro, tenga conto di queste buone mie disposizioni. Per dimostrarle del resto, come io intenda di pormi nella condizione più neutrale, le dirò che io stesso che ho fatto la proposta mi asterrò dalla votazione. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, lei si astiene dalla votazione, ma conserva la proposta?

CORBINO. Perfettamente. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. È evidente che una questione già decisa dall’Assemblea in un certo senso, non può essere riproposta. Debbo però precisare, per quanto riguarda l’eccezione posta dall’onorevole Scoccimarro, che l’onorevole Marinaro aveva già posto la questione di escludere in linea di principio la tassazione degli enti collettivi: la sua proposta è stata respinta, e l’Assemblea ha votato un articolo in cui questa imposizione è prevista.

La proposta dell’onorevole Corbino non può considerarsi la riproduzione della proposta dell’onorevole Marinaro, perché, una volta approvata la proposta Corbino, non verrebbe annullata la votazione di principio già avvenuta. L’onorevole Corbino propone che tutto lo sviluppo conseguente del meccanismo di applicazione e di riscossione di questa imposta, venga, se mai, rinviato ad un altro provvedimento.

Ritengo così risolta la questione di procedura che l’onorevole Scoccimarro ha presentato.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Debbo ricordare che noi abbiamo ancora in sospeso, nell’ambito dell’imposta patrimoniale, gli emendamenti agli articoli 29-bis, 29-ter, 29-quater.

Quindi, se anche approvassimo la proposta dell’onorevole Corbino, dovremmo dopo discutere questi emendamenti che fanno parte integrante della legge.

PRESIDENTE. Sta bene.

Avverto che sulla proposta dell’onorevole Corbino è stata chiesta dall’onorevole Scoccimarro ed altri la votazione per appello nominale.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Io non credo di potermi appellare a nessuna norma particolare del Regolamento, ma mi permetto di porre all’onorevole Presidente questo problema: se un deputato presenta una proposta, evidentemente, la presenta perché l’Assemblea si pronunci sulla proposta stessa e l’approvi. Ora, se il proponente di un emendamento dichiara che non lo voterà, io domando al signor Presidente se questo non equivalga ad un ritiro dell’emendamento stesso. (Commenti a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Targetti, il problema che lei pone, è un problema, in fondo, di tattica parlamentare.

Poiché l’onorevole Corbino non dichiara di ritirare la sua proposta, l’atteggiamento, personale, del proponente non può essere interpretato come un ritiro della proposta stessa.

È stato chiesto – ripeto – l’appello nominale sulla proposta dell’onorevole Corbino (Commenti prolungati).

CORBINO. Non voglio far perdere tempo, e ritiro la proposta.

MICHELI. Chiedo di parlare!

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io non ripeto la proposta della motivata sospensiva della discussione, che è stata ritirata, ma faccio la proposta pura e semplice di sospendere la seduta per rinviarla a domattina. Ciascuno è giudice della propria resistenza: io sono giudice ed interprete della mia, e dovrei andarmene!

PRESIDENTE. Desidero far presente la necessità che si affronti qualche ora di più di lavoro pur di giungere ad una conclusione. Occorre completare oggi l’esame dell’articolo ed impegnarsi a giungere domani alla conclusione (Approvazioni).

MICHELI. Onorevole Presidente, io non ho ritirato la mia proposta.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo dunque ai voti la proposta dell’onorevole Micheli di rinviare la seduta.

(Non è approvata – Commenti).

Onorevoli colleghi, faccio presente che il Relatore onorevole La Malfa ha dichiarato di ritenere che dopo approvata la lettera c) dell’articolo primo nella formulazione proposta dal Governo, deve cadere la lettera c) dell’articolo 2.

L’onorevole Ministro delle finanze ritiene invece che la lettera c) dell’articolo 2 possa essere conservata, salvo alcune modificazioni che servano a metterla in armonia con la votazione di stamane.

Dovremo allora passare alla votazione della lettera c) dell’articolo 2.

LA MALFA, Relatore. Non è possibile: c’è un assoluto contrasto con quanto è stato votato in precedenza!

Propongo di sopprimere la prima parte del comma e cioè le parole: «lo Stato per tutti i suoi beni».

PELLA, Ministro delle finanze. Sono d’accordo per la soppressione.

PRESIDENTE. La pongo ai voti.

(È approvata).

Seguono le parole: «le amministrazioni di Stato».

L’onorevole Micheli ha proposto si dica: «le amministrazioni e gli istituti di Stato».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Proporrei di cancellare anche le parole «le amministrazioni di Stato» e, naturalmente, di non aggiungere «gli istituti».

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con il relatore.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli, mantiene il suo emendamento?

MICHELI. Per la medesima ragione per la quale sono stati esclusi i «beni dello Stato, e le Amministrazioni dello Stato» restano esclusi anche gli «Istituti dello Stato» che io avevo proposto. Viene a cessare quella che era la ragione del mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta soppressiva presentata dal Relatore.

(È approvata).

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. Mi permetto di proporre alla Commissione di considerare analiticamente tutti i capitoli di questa lettera c): perché qui prendiamo decisioni che sono di estrema gravità. Faccio una proposta formale di sospensiva per il seguito della lettera c); perché non possiamo continuare ad esaminare una materia così delicata affrettatamente, nelle ore notturne.

PRESIDENTE. Faccio presente che questo testo è in discussione da ieri mattina. Ella, onorevole Vanoni, ha avuto 48 ore di tempo per fare delle proposte.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Ho l’impressione che convenga sottolineare ancora la limitata portata di questa lettera c) dopo che si è affermato che gli enti morali (decisione di questa mattina in ordine all’emendamento n. 1) sono tassabili soltanto per quella zona in cui producono redditi di categoria B. Si tratta ora di vedere se vi è qualche particolare ente che per le sue finalità altamente filantropiche meriti una maggiore agevolazione, cioè di non tassarlo anche se per avventura ha qualche modesto reddito di categoria B. Il pensiero del Governo è in questo senso: di abbandonare modeste zone di categoria B quando sono soverchiate da una superiore finalità filantropica dell’Ente. Questa è la limitata portata della lettera c) che stiamo discutendo, nello spirito con cui viene esaminata dal Governo.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Concordo pienamente con quanto ha detto il Ministro, che si tratta cioè esclusivamente di riconoscere alcuni enti che sono tassabili in categoria B) ma che per motivi particolari noi vogliamo esentare cioè enti che non siano di categoria B). Perciò faccio la proposta di passare all’articolo successivo. Vuol dire che ritorneremo all’esame di questa lettera c) domattina, dopo aver proceduto al coordinamento.

PRESIDENTE. Comunico che vi è una proposta dell’onorevole Tosi di sostituire l’intero alinea c) con la seguente dizione:

«Sono esenti i soggetti di cui alla lettera c) dell’articolo precedente quando l’attività produttiva di reddito tassabile di ricchezza mobile che essi esplicano è connessa con attività di educazione, istruzione, assistenza, beneficenza e avviamento professionale dei soggetti stessi».

Vi è inoltre la proposta dell’onorevole Vanoni che, salvo le votazioni già avvenute, la redazione del comma b) venga rimessa alla Commissione perché lo elabori in connessione con quanto questa sera è stato detto e lo ripresenti domani nel nuovo testo conseguente.

LA MALFA, Relatore. È il Governo che ha presentato l’emendamento all’articolo 2.

PELLA, Ministro delle finanze. Dichiaro, a scopo di maggiore semplificazione, che appunto in quella zona configurata dall’emendamento Tosi noi riteniamo che i modesti redditi di categorie B, di scuole artigiane e simili non possano dare luogo all’applicazione di questo straordinario tributo. Perciò, se si vuole ridurre la portata di questa lettera c) alla zona dell’emendamento Tosi, il Governo pur di semplificare, lo accetta.

PRESIDENTE. Vi è allora da votare l’emendamento sostitutivo proposto dall’onorevole Tosi.

PESENTI. Questo testo è insufficiente! Insisto perché la discussione sia rinviata a domattina in modo che sia possibile concordare un testo completo.

GRONCHI. Noi appoggiamo la proposta dell’onorevole Pesenti.

PRESIDENTE. Vi è dunque una proposta di rinvio dell’onorevole Pesenti. Prego però di tener presente che si tratta di rinvio a domani mattina. (Commenti).

Domattina perciò l’emendamento dovrà essere pronto in maniera che, riprendendo i nostri lavori, si possa continuare senz’altro nella discussione.

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pesenti, cui ha aderito anche l’onorevole Gronchi.

(È approvata).

Rinvio il seguito della discussione a domattina alle 9,30 e prego i colleghi di assumere l’impegno di votare entro le sedute di domani la legge nel suo complesso. (Segni di assenso).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Faccio la proposta formale che venga messo ai voti l’impegno che domani notte la seduta non si toglierà se tutta la legge non sarà approvata. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Non credo che questa votazione sia necessaria, dopo l’assenso con il quale l’Assemblea ha accolto il mio invito. Resta dunque inteso che entro domani, l’esame del progetto sulla patrimoniale dovrà essere completamente esaurito.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda di prendere a carico dei responsabili dell’arresto arbitrario di alcuni socialisti, comunisti ed organizzatori sindacali, avvenuto due giorni dopo la pacifica dimostrazione di solidarietà all’Amministrazione social-comunista di Caorle, fatta dalla grande maggioranza della popolazione, sdegnata per gli insulti proferiti contro la stessa, nella persona del sindaco, da pochi facinorosi, fra i quali vi era il noto fascista bastonatore, podestà del paese per molti anni, la mattina del 20 luglio, in occasione di un comizio socialista.

«Tonetti, Pellegrini, Costa, Giacometti, Tonello».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dei trasporti, del tesoro e dell’industria e commercio, per conoscere se non si ritiene necessario ed urgente disporre una inchiesta sulla gestione dell’A.R.A.R.

«L’opinione pubblica si preoccupa vivamente della regolarità e della onestà del funzionamento di questa organizzazione che, improvvisata dal Governo Parri in pochi giorni, da anni riceve e custodisce, tratta, transige ed aliena e vende nell’interesse del pubblico erario tutto un assortimento di beni, inventariati all’ingrosso, che hanno valore di centinaia di miliardi e ciò senza che finora sia mai stato esercitato, da persone estranee all’abituale ingranaggio dell’ente, un effettivo controllo sulla regolarità e sulla bontà dell’operato dell’ente stesso, sulla misura delle sue spese e sulla rispondenza dei risultati raggiunti con quelli che un’amministrazione sana ed oculata avrebbe dovuto ottenere.

«Sta di fatto che da tempo circolano, con riferimento all’A.R.A.R., voci di inauditi arricchimenti da parte di funzionari e di speculatori e la stampa ha in questi giorni pubblicato con chiari e violenti commenti, il testo di un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. e una azienda privata, con il quale tale privata azienda risulta messa in grado di realizzare, con sicurezza, senza impegno di denari e di rischio, utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi.

«Data l’importanza degli inconvenienti ed il groviglio degli interessi che è possibile vi si annidi intorno, si richiede che la Commissione per gli accertamenti necessari venga composta, per garantirle autorità ed indipendenza, con parlamentari in grado, per competenza tecnica ed amministrativa, di valutare la realtà della posizione.

«Rodinò Mario, Monticelli, Crispo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria 1947-48 in merito agli ammassi obbligatori dei cereali e se ritenga di accedere alle generali richieste dei contadini, abolendo i detti ammassi che si sono dimostrati di grave onere per il bilancio dello Stato e di gravissimo peso per i produttori, non dando, d’altra parte, per risultato che una sensibile contrazione della produzione.

«L’interrogante fa presente che l’abolizione degli ammassi, sia pure sostituita in via provvisoria con quegli accorgimenti che potranno rivelarsi opportuni, consentirà di provvedere con maggiore sicurezza al sostentamento dei meno abbienti, specie addivenendosi alla somministrazione di una parte del salario o stipendio in natura, a cura ed a carico, naturalmente, dei datori di lavoro.

«Ricorda che, essendo imminenti i lavori preparatori per la semina, questa, nell’ipotesi della persistenza del regime di ammasso, si attuerebbe – dato lo stato d’animo diffuso nelle campagne – su scala ridottissima.

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, della difesa e dell’interno, per chiedere se abbiano piena conoscenza della enorme lentezza con cui procede la liquidazione delle pensioni di guerra militari e civili, dirette e indirette, le quali si vanno trascinando per anni tra uffici comunali, distretti e ospedali militari e direzione generale prima, tra Commissioni e Comitati centrali poi, fino a perdersi in ultimo per altri mesi dalla firma del decreto di concessione all’inizio effettivo dei pagamenti; per chiedere se siano consapevoli della giustificata esasperazione che tale lentezza suscita nelle centinaia di migliaia di invalidi e di superstiti, che ormai da anni attendono il sollievo a cui hanno diritto, e di cui il lungo ritardo tende a scemare sempre più l’efficacia; per sapere se non ritengano necessario tentare di porre rimedio a tale stato di cose, superando le difficoltà derivanti dal numero grandissimo delle istruttorie in corso; e per conoscere il loro pensiero intorno ai provvedimenti più idonei allo scopo, e intesi sia a semplificare le procedure, sia a sveltire gli uffici centrali e quelli periferici, sia ad accelerare i pagamenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere quali provvedimenti intende prendere per la soluzione del problema siderurgico degli stabilimenti altiforni ILVA di Portoferraio, facendo presente che lo stato di incertezza, protraentesi da oltre tre anni su tale questione, oltre che apportare continui moventi di agitazione in tutta la zona elbana, è causa di grave sbilancio per lo Stato, il quale, continuando ad erogare sussidi, non dà al piano di ricostruzione nessun contributo concreto e, anziché ricondurre i lavoratori all’attaccamento al lavoro, li allontana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si richiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 24.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccvii.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Pella, Ministro delle finanze

La Malfa, Relatore

Pesenti

Dugoni

Bertone

Castelli Avolio

Assennato

Micheli

Cifaldi

Scoccimarro

Adonnino

Caroleo

Foresi

Grazia

Vanoni

Canevari

Cappi

Pastore Raffaele

La seduta comincia alle 9.30.

ASSENNATO, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Diamo inizio all’esame degli emendamenti proposti dalla Commissione, relativi all’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi.

L’emendamento che costituisce il primo articolo in materia è del seguente tenore:

«È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti:

  1. a) società per azioni ed in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata;
  2. b) società in accomandita semplice, società in nome collettivo, società di fatto;
  3. c) istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere.

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito o esistente nello Stato».

Su questo articolo è stato presentato dal Governo l’emendamento seguente:

«All’alinea b) sopprimere le parale: società di fatto; all’alinea c) dopo le parole: enti morali in genere, aggiungere le parole: che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile in categoria B per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Prego l’onorevole Ministro di volere illustrare l’emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Lo illustrerò brevemente.

Per quanto riguarda la proposta di sopprimere le parole «società di fatto» contenute nel terzo comma alla lettera b), il Governo si riporta al sistema del vigente Codice civile. Il Codice stesso non prevede più le società di fatto, le quali, se praticamente ancora sussistono, derivano da società in nome collettivo o da società in accomandita semplice o, infine, da società per azioni od in accomandita per azioni o a responsabilità limitata, le quali non hanno adempiuto a tutte le formalità di legge per la regolare costituzione; si tratta cioè, di società irregolari, per mancato adempimento delle formalità costitutive.

Orbene, è da ritenere che nella nozione – per esempio – di società in accomandita semplice o in nome collettivo, senza specificazione, siano implicitamente comprese anche le società che non abbiano adempiuto tutte le formalità di legge, e ciò è necessario ed opportuno per non arrivare all’assurdo di premiare con esenzioni quelle società che hanno omesso una delle formalità prescritte dal Codice.

Se l’Assemblea ritenesse che non basta sopprimere le tre parole «società di fatto» e lasciare le parole restanti, il Governo non avrebbe nulla in contrario – in via subordinata – di sostituire alle parole «società di fatto» le parole «anche se irregolarmente costituite».

Quest’aggiunta però – ripeto – sembra al Governo superflua: ed esprimendo questo pensiero il Governo implicitamente ritiene (ed esplicitamente lo dice in questo momento) che in sede di istruzioni ministeriali, certamente l’Amministrazione finanziaria affermerà che tutte le società, sia regolarmente che irregolarmente costituite, sono soggette al tributo.

Più importante mi sembra la seconda parte dell’emendamento.

Già in precedenza, quando gli uffici ministeriali hanno predisposto alcuni emendamenti che la bontà della Commissione ha assunto poi come prima base per i propri lavori, si era proposta una formula analoga a quella contenuta nell’emendamento ministeriale.

Ho già avuto l’onore di comunicare all’Assemblea, quando la informai che il Governo desiderava lasciarla completamente libera delle sue decisioni in ordine alla istituzione o meno di un tributo addizionale nel settore degli enti collettivi, che il Governo riteneva esistessero due soluzioni, ambedue positive, di questo problema. Esisteva o la possibilità della tassazione delle rivalutazioni, alla quale personalmente aderivo, poiché mi sembrava strumento tecnicamente più perfetto, o la possibilità della tassazione degli enti collettivi sull’intero patrimonio, ipotesi alternative, nel senso che l’una deve escludere l’altra.

Dicevo allora, a nome del Governo, che la struttura di questo tributo addizionale doveva informarsi al concetto di integrare, a titolo perequativo, le tassazioni esistenti nel settore dell’economia industriale e dell’economia commerciale, per correggere errori ed imperfezioni che gli strumenti tributari possono avere determinati in questo settore nel tempo recente e nel tempo meno recente.

Lo scopo di perequazione cui ho accennato, circoscritto al settore anzi detto, mi porta ad insistere perché la tassazione dipendente da questi emendamenti trovi un limite nell’esistenza, attuale o potenziale, di un reddito di categoria B.

Siccome so che qualche onorevole collega vorrebbe trasformare la formula di reddito tassabile in categoria B in formula di reddito tassato in categoria B dico fin da questo momento che non potrei aderire a tale variante, perché, ammesso pure che sussistano deficienze da parte degli uffici nella tassazione dei redditi mobiliari, sarebbe veramente ingiustificato che tali deficienze, e cioè, in concreto, la mancanza di un reddito tassato in categoria B, portassero all’esenzione dall’imposizione straordinaria.

Per queste ragioni prego gli onorevoli colleghi di voler benevolmente accogliere l’emendamento proposto dal Governo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione aderisce alla soppressione della dizione: «società di fatto», alla lettera b).

Per quanto riguarda invece l’emendamento alla lettera c) devo dire che la Commissione ha emendato il disegno del testo fornito dal Governo per queste ragioni: in definitiva, questa imposta viene a completare il sistema di tassazione straordinaria delle due imposte, progressiva e proporzionale sul patrimonio, per prendere tutti gli enti collettivi; non soltanto quelli che esercitano un’attività produttiva tassabile nella categoria B della ricchezza mobile. Esistono moltissimi enti collettivi che non sono tassabili in questa categoria, cioè, non esercitano un’attività commerciale vera e propria, ed hanno o proprietà fondiarie o proprietà immobiliari urbane. Poi vi sono enti collettivi nel campo civile con forti patrimoni, che non rientrerebbero probabilmente in nessuna delle categorie considerate dal punto di vista della tassazione in categoria B di ricchezza mobile. Ora, dato il principio di universalità di questa imposta straordinaria, noi faremmo una condizione di privilegio a un numero di enti che rappresentano un cospicuo patrimonio complessivo; e se è opinabile l’estensione dell’imposta proporzionale straordinaria sulle società – l’Assemblea si ricorderà che su questo punto molti critici di questa imposta si sono soffermati parlando di doppia tassazione – nel caso di istituzioni, fondazioni, enti morali in genere, non v’è doppia tassazione, cioè imposta progressiva che si applica alle persone fisiche ed imposta proporzionale che si applica alle società nonostante la tassazione degli azionisti, e si deve applicare a maggior ragione a quegli enti collettivi che non sono colpiti né dall’una né dall’altra imposta. Altrimenti la Commissione deve ribadire che si stabilirebbe un privilegio per determinati enti, che possono avere pingui patrimoni e che devono quindi dare un contributo a queste esigenze straordinarie del fisco.

Pregherei l’onorevole Ministro di considerare questo aspetto del problema. Bisogna che questa legge, se è dura e rigida dal punto di vista fiscale, colpisca tutte le sfere tassabili, si tratti di enti collettivi o di persone fisiche.

Come vedete, noi abbiamo cercato di portare il sistema di questa tassazione straordinaria ai limiti del possibile. Se non abbiamo potuto considerare di andare incontro a certe esigenze, come per esempio, la violazione del segreto bancario, lo abbiamo fatto per ragioni di politica contingente, per ragioni, direi, di opportunità, ma dove è possibile colpire attività patrimoniali senza che nasca qualsiasi turbamento, senza che sia controproducente, abbiamo il diritto di colpire. Non saprei come giustificare l’esenzione dall’imposta straordinaria di istituzioni, fondazioni, enti morali, che pur non essendo tassabili in categoria B, hanno un patrimonio notevole, di carattere terriero, mobiliare e possono dare un contributo allo Stato.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Vorrei fare una piccola osservazione formale, che sotto un certo aspetto non è nemmeno un emendamento.

PRESIDENTE. A quale testo?

PESENTI. Al testo della Commissione. Proporrei di aggiungere, dopo le parole: «È istituita», le altre «ai sensi dell’articolo 2», facendo cioè un richiamo all’articolo 2.

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo.

PESENTI. Per il resto mi rimetto alle osservazioni fatte dall’onorevole La Malfa.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Di fronte agli emendamenti proposti dal Governo e ad altri emendamenti che, mi risulta, sono già annunziati, chiederei una breve sospensione della seduta per esaminare questi emendamenti e poterne discutere con piena cognizione.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. A me pare che si dovrebbe, accostandosi al concetto espresso dal Ministro e venendo incontro ai giusti pensieri della Commissione, semplificare un poco in questa materia.

Mi pare che sia un concetto non troppo simpatico introdurre gli enti morali nella categoria degli enti che devono essere tassati; poi, viceversa, si viene alla lettera C dell’articolo successivo e si dice: «sono esenti gli istituti, opere pie, ecc.». In conclusione, all’articolo 1, lettera c), diciamo che sono tassabili tutte le fondazioni ed enti morali; all’articolo 2 diciamo che sono esenti tutti gli enti morali, istituti di beneficienza e all’ultima parte, finalmente, di questo articolo 2, si stabilisce in quale limite l’esenzione possa avvenire, e cioè che essa non avviene per la parte destinata ad attività produttive. Mi sembrerebbe molto più chiaro, facile e semplice radunare tutto nell’ultima parte dell’articolo 1, lettera c) e dire: «È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti: «a)… b)», ed infine: «c) istituzioni, fondazioni ed enti morali, ecc.», e poi proseguire: «in quanto esplicano o che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile categoria B».

PRESIDENTE. Ma questo – in fondo – è l’emendamento proposto dal Governo.

BERTONE. Sono entrato in ritardo nell’Aula e non ho seguito la discussione fin dal suo inizio. Comunque, faccio presente che con la mia proposta si va incontro ad un concetto che era stato affermato nella Commissione, con antiveggenza, dall’onorevole Dugoni, il quale aveva proposto una formula che aveva trovato consenso generale; prendere cioè, come base discriminante della tassabilità o meno, l’assoggettamento all’imposta di ricchezza mobile. Mi pare che quando noi diciamo una volta per tutte che gli enti morali come istituzioni, fondazioni ed opere pie sono tassabili solo in quanto esercitino un’attività tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, potremmo metterci tutti d’accordo.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Sono contrario alla proposta del Governo. Non avrei preso nuovamente la parola dopo le spiegazioni dell’onorevole La Malfa, ma poiché vedo che la questione è portata alla discussione ed ampiamente, credo di dover aggiungere qualche parola per spiegare la mia opposizione. In seno alla Commissione si è discusso ed all’inizio si era accettata anche la prima forma proposta, dal punto di vista tecnico, dal Governo, cioè tassazione degli enti per la parte del patrimonio destinato ad attività produttive tassabili in base alla categoria B.

Allora si è osservato che parecchi enti, specie i consorzi, hanno attività patrimoniali non tassabili in categoria B, per esempio gli enti cotonieri e gli enti serici, che pure sono importanti dal punto di vista economico e che non è giusto siano esenti. È per questo che allora si è accettato – secondo quanto stabilito nella legge del 1922 – di affermare il principio generale della tassabilità di tutti gli enti (istituzioni, fondazioni ed anche enti morali) stabilendo singolarmente le esenzioni all’articolo 2. In questo articolo, elencate le esenzioni, si è ripreso ancora il concetto della tassabilità ai fini dell’imposta di ricchezza mobile. Faccio presente che si è mantenuto il concetto di tassabilità anche di enti che svolgono attività di carattere, diciamo, filantropico e religioso (perché vi sono certi enti, anche di carattere religioso, come conventi od altro, che hanno parte del loro patrimonio destinato ad attività commerciali e con questa parte del patrimonio destinato ad attività commerciali fanno concorrenza a similari attività svolte da privati, per esempio, cliniche a pagamento, scuole a pagamento ed attività similari). E questa la ragione per cui si è voluto mantenere all’articolo 1 il criterio generale della tassabilità di questi enti: per non far sfuggire certi enti, che sono enti economici e tuttavia non sono tassabili in categoria B.

Successivamente, all’articolo 2, elencate le esenzioni, si può mantenere la limitazione posta dal Governo all’articolo l:

PRESIDENTE. Cominciamo con l’esaminare la materia del primo articolo. Pongo ai voti l’emendamento del Governo, cioè la soppressione all’alinea b) delle parole «società di fatto».

Avverto che la Commissione è d’accordo sulla soppressione di queste parole.

(La soppressione è approvata).

Pongo, ora, ai voti la proposta dell’onorevole Pesenti di aggiungere all’inizio le parole «ai sensi dell’articolo 2», dopo le parole «È istituito».

(È approvata).

Vi è ora l’altro emendamento del Governo all’alinea c) dell’articolo.

DUGONI. Pregherei di mettere in votazione quest’ultima parte in un secondo momento, per dar tempo di trovare un’intesa. Avevo chiesto la sospensiva; chiedo almeno che non si voti su questo punto.

CASTELLI AVOLIO. Se noi dobbiamo sospendere la seduta per trovare una formula che esprima l’accordo fra le varie parti, è un conto, ma se la sospensiva non è approvata, noi dobbiamo passare senz’altro alla votazione dell’intero articolo, perché non vi sarebbe nessuna ragione di sospendere.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Non so se l’Assemblea voglia votare la sospensiva o meno; però, prima che l’Assemblea passi alla votazione, io desidererei che il Ministro delle finanze desse una risposta alle argomentazioni della Commissione.

Per delucidazione dell’Assemblea ricordo che nella legge del 1922 gli enti che erano esplicitamente tassati come enti collettivi erano le istituzioni, le fondazioni e gli enti morali in genere. La legge del 1922 escludeva le società ed affermava il principio della tassazione straordinaria con una dizione generica: «istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere», affermando con ciò un principio di universalità dell’imposta straordinaria. L’esclusione delle società nella legge del 1922 era giustificata dal principio della doppia tassazione.

Facendo cadere la lettera c), in un certo senso, facciamo cadere tutto il significato dell’imposta straordinaria, che la legge del 1922 affermava in pieno. Anche nella relazione del Ministro Campilli la questione era posta in termini generali, cioè si diceva di escludere le fondazioni e gli enti morali per determinate ragioni, ma non si parlava mai di istituzioni, fondazioni ed enti morali tassabili in categoria B.

Ora, io mi permetto di insistere sull’importanza della questione e sulla responsabilità che l’Assemblea assume in questo problema. Noi abbiamo cercato di impedire che questa imposta non abbia carattere universale; lo abbiamo cercato in tutti i modi, rendendoci conto che questa è una imposta gravosa, che non fa piacere al contribuente. Abbiamo cercato di estenderla in maniera che il principio di universalità non venisse meno in nessun caso.

Cambiando questa dizione, non è affatto vero che noi, onorevole Bertone, con le esenzioni che stabiliamo, finiamo con il fare un’affermazione di principio. Le esenzioni sono state infatti riprese dalla legge del 1922, con la sola differenza di una maggiore facilitazione per quanto riguarda i benefici ecclesiastici. La legge del 1922, per quanto riguarda i benefici ecclesiastici, limitava l’esenzione a quelli che non avevano diritto di congrua. Ora invece noi li abbiamo esentati tutti. Ma dopo questo passo avanti, non crediate che, per il fatto di questa esenzione, la lettera c) non colpisca un numero notevole di enti. Li colpisce lo stesso, e se noi adottassimo la dizione del Governo, verremmo a restringere fortemente il numero di enti tassabili; non solo, ma verremmo meno a quel principio della universalità dell’imposta patrimoniale che noi abbiamo detto di affermare, che noi dobbiamo assolutamente affermare.

Ora, se l’onorevole Ministro mi potesse dire che tutti gli enti morali i quali esercitano un’attività economica sono tassabili in categoria B, è evidente che allora la Commissione sarebbe disposta a rivedere il suo giudizio; ma poiché ciò non è, questa non sarebbe se non la sola eccezione che in tutto il sistema della legge l’Assemblea verrebbe a fare. Chiedo pertanto che l’onorevole Ministro voglia compiacersi di fornire un chiarimento su questo punto essenziale. Non è questa, onorevoli colleghi, una questione di lana caprina, ma è una questione fondamentale che va assolutamente chiarita.

PRESIDENTE. Mi pare che non sia il caso di eccedere alla proposta di sospensiva dell’onorevole Dugoni, perché è bene che si addivenga ora ad un chiarimento su questa questione.

Invito l’onorevole Ministro delle finanze a fornire il chiarimento richiesto dall’onorevole Relatore.

PELLA, Ministro delle finanze. È una questione di impostazione fondamentale del problema e può darsi che i differenti ordini di idee dell’onorevole Relatore e del Governo non possano trovare un denominatore comune, in quanto l’impostazione è veramente diversa.

L’onorevole Relatore tende a far rientrare l’imposizione degli enti collettivi nel sistema dell’imposta progressiva personale, con riferimento al sistema adottato nel 1922.

A prescindere dalla bontà o meno di tale sistema, dato che nessuno può escludere che non sia stato il sistema più felice, resta fermo che per il Governo l’imposta cui ho accennato dianzi, rappresenta una imposta nuova che ha una sua fisionomia propria; tanto vero che si tratta di un’imposta proporzionale, la quale colpisce determinati settori che sono stati già colpiti dall’imposta progressiva sul patrimonio.

Il problema, quindi, non è tanto di estendere l’applicazione del tributo progressivo a un determinato settore, quanto di dare una legittimazione e una disciplina ad un nuovo tributo, che non si può confondere con l’altro.

Per respingere l’eccezione di duplicazione, che si verificherebbe per i tre quarti, forse, della zona di applicazione del nuovo tributo proporzionale, il Governo non vede che una sola soluzione; di configurare il tributo stesso come uno strumento di perequazione dell’onere fiscale nel settore dell’economia industriale e dell’economia commerciale, in modo da bilanciare il peso maggiore che l’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio avrà nel settore terriero e nel settore edilizio, e in modo da integrare l’onere delle imposte che incidono sui redditi di categoria B, conseguiti nel corso della guerra e nell’immediato dopoguèrra.

Siccome la sola seria giustificazione della nuova imposizione è l’accennata funzione integrativa, il Governo non può decampare da tale ordine di idee, anche se, per avventura, marginalmente vi potesse essere qualche caso che rende perplessi. Ma i casi che rendono perplessi non sono, ad esempio, quelli dei consorzi, a cui ha accennato l’onorevole Pesenti, perché se si tratta di consorzi a sfondo economico è ben nota la prassi dell’Amministrazione finanziaria – fortunatamente affiancata dalla giurisprudenza prevalente – di colpire con l’imposta mobiliare di categoria B anche buona parte dei redditi propri di detti enti.

Per queste ragioni, pur non nascondendo la fondatezza di quanto espone l’onorevole La Malfa, almeno secondo il suo punto di vista, che non può però essere accolto dal Governo, devo insistere sull’emendamento proposto, anche dopo aver consultato i diversi Ministri tecnici interessati a questo problema.

PRESIDENTE. Possiamo allora passare alla votazione.

Pongo ai voti l’emendamento del Governo:

«All’alinea c) dopo le parole: enti morali in genere, aggiungere le parole: che esplicano un’attività produttiva di redditi tassabili ai fini dell’imposta di ricchezza mobile di categoria B, per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Ricordo che su questo emendamento del Governo, la Commissione ha espresso parere contrario.

(Dopo prova e controprova, è approvato – Commenti).

PESENTI. Chiedo la verifica del numero legale.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti, ormai la votazione è stata fatta.

Lei potrà chiedere la verifica del numero legale per la prossima votazione, ma quella ora avvenuta è perfettamente legittima e non è discutibile.

Dovrò ora porre in votazione l’ultimo comma dell’emendamento che va sotto il nome di articolo 1°:

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato».

ASSENNATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ASSENNATO. Prima che si passi alla votazione dell’ultimo comma, chiediamo di sospendere la seduta per pochi minuti onde sia possibile ai membri della Commissione di avere uno scambio di idee.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi dispiace di dover contraddire il collega onorevole Assennato, ma la Commissione era già d’accordo. Essa ha presentato un testo e rimane ferma su questo testo. Si è votato un emendamento del Governo, che è stato approvato a maggioranza.

Se l’Assemblea ritenesse di aderire alla sospensiva per trovare un accordo tra i vari Gruppi, sarebbe un’altra questione.

PRESIDENTE. Poiché la Commissione dichiara che non vede la necessità di una sospensiva, avendo già l’accordo sul progetto presentato, la richiesta dell’onorevole Assennato non può avere alcun seguito. Pongo quindi ai voti l’ultimo comma dell’emendamento.

(È approvato).

Il primo articolo si intende pertanto approvato nel seguente testo:

«È istituita ai sensi dell’articolo 2 una imposta straordinaria sul patrimonio, al 28 marzo 1947, dei seguenti soggetti:

  1. a) società per azioni ed in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata;
  2. b) società in accomandita semplice, società in nome collettivo;
  3. c) istituzioni, fondazioni ed enti morali in genere che esplicano un’attività produttiva di reddito tassabile ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B, per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività.

«L’imposta straordinaria si applica anche alle società ed enti costituiti all’estero, limitatamente al capitale comunque investito od esistente nello Stato».

Gli onorevoli Pesenti, Scoccimarro e Dugoni propongono il seguente articolo 1-bis:

«Sono altresì soggetti di imposta gli enti di cui all’articolo precedente lettera c) quando sia chiara la loro natura di enti economici».

L’onorevole Pesenti ha facoltà di svolgere questo emendamento.

PESENTI. Con la proposta del Governo rimangono fuori (perché non si tratta né di società per azioni, né in accomandita, né di società a responsabilità limitata, né di società in nome collettivo) l’ente serico e l’ente cotoniero, enti cioè che hanno un patrimonio proprio ed una natura economica. Ora, se questa è la volontà del Governo e dell’Assemblea, io dico: non accettate il mio emendamento.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Desiderò che la Presidenza esamini, con la diligenza che le è propria, l’eccezione che parte da me in questo momento per il fatto che a me pare che il collega onorevole Pesenti abbia voluto, attraverso un emendamento, rimediare a quello che era stato l’esito della votazione passata sullo stesso argomento. Ora ci sono dei rimedi che in medicina sono permessi ed anche in altre cose, ma qui no: un emendamento non è permesso quando contraddice a quello che è stato il voto precedente dell’Assemblea. (Commenti). Io non pretendo in questo caso di insegnare a nessuno, solo avanzo un mio dubbio: a me pare che la proposta dell’onorevole Pesenti, per quanto bene architettata con quella pratica della questione ch’e egli ha, contrasti con il criterio antecedente, in modo che non si possa dar luogo ad una successiva votazione. La Presidenza vorrà dirimere il dubbio, con la competenza che io riconosco in essa.

PRESIDENTE. La Presidenza si rimetterà al giudizio dell’Assemblea.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Desideravo fare una proposta sospensiva in questo senso: se credono la Commissione ed il Governo di rinviare la votazione di questo articolo in prosieguo, per dar modo di fare quelle indagini in materia che sono opportune.

Mi pare, ad udire l’emendamento dell’onorevole Pesenti, che bisogna fare molta attenzione, in quanto quello che egli dice ha un contenuto che preoccupa. Penso che non ci possa essere intenzione di sottrarre dalla tassazione enti come quelli che egli ha suggerito. Quindi sarebbe opportuno che l’esame dell’articolo fosse fatto con un certo approfondimento. Perciò propongo la sospensiva.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prima di arrivare ad una eventuale sospensione, desidero si sappia che il Governo concorda nell’ordine di idee dell’onorevole Pesenti, se effettivamente si tratta di comprendere nella tassazione soltanto quegli enti a scopo esclusivamente economico, che rientrano nella zona marginale della categoria B.

Questa dichiarazione desidero fare immediatamente se con essa si viene a dare una interpretazione eccessivamente fiscale alla mozione dei redditi della categoria B; nella previsione, però, che la dichiarazione stessa possa servire come avviamento alla ricerca di una formula di transazione. Vorrei che l’onorevole Pesenti rivedesse la forma del suo emendamento, in vista di precisare lo scopo che con lo stesso intende raggiungere.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Sono d’avviso che al testo si possa aggiungere la parola «prevalente». Mi pare che questa potrebbe essere sufficiente per acquietare tutte le inquietudini. «Sono altresì soggetti di imposta gli enti di cui alla lettera c) quando sia chiara la loro prevalente natura di enti economici».

Se andiamo al concetto di esclusività esposto dal Ministro, noi abbiamo allora una configurazione che è strettamente affiancata a quella della tassazione in categoria B. Se invece mettiamo il «prevalente», lasciamo quella sufficiente elasticità di giudizio per escludere tutte quelle istituzioni e quelle fondazioni le quali abbiano carattere esclusivamente di sostegno di una attività morale o assistenziale e invece colpiamo quelle le quali di questa attività assistenziale o morale od organizzativa fanno soltanto una specie di schermo per una vera e propria attività prevalentemente economica.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Penso che ci dobbiamo preoccupare seriamente di coloro che dovranno interpretare ed applicare la legge e quindi non creare la possibilità di equivoci e di confusioni, in modo che l’ufficio finanziario che dovrà applicare la legge si trovi a non sapere se un ente compreso nella categoria c), da noi votata un momento fa, debba essere tassato sotto un altro aspetto.

Comprendo l’obiezione sollevata dall’onorevole Pesenti e cioè che vi sono degli enti (per esempio l’ente cotoniero, l’ente serico) i quali non sono enti morali, non rientrano in quella categoria e non sono soggetti a tassazione fiscale in categoria B. Io già non riesco a comprendere come mai questi enti, se esercitano un’attività commerciale ed industriale produttiva di redditi, debbano sfuggire alla tassazione. In verità questo mi riesce alquanto oscuro, perché mi sembra che se vi è un ente che esercita una attività commerciale o industriale, e se noi colpiamo di imposta gli enti morali, le opere pie, che per una parte della loro attività danno luogo a reddito commerciale, non vedo perché non dobbiamo colpirlo. Comunque, qui bisogna essere precisi. Noi abbiamo votato un testo un momento fa, il quale è così concepito: «È istituita una imposta straordinaria sul patrimonio sui seguenti soggetti: c) istituzioni, fondazioni, enti morali in genere che esplicano una attività produttiva di reddito tassabile ai fini della ricchezza mobile in categoria B per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di tale attività».

Ora, se l’onorevole Pesenti ha pensato che vi sia qualche ente morale che non possa essere colpito, mi pare che sia in errore, perché l’ente morale, in quanto esercita una attività industriale o commerciale produttiva di reddito, è tassabile. Se ha voluto alludere ad altri enti, come penso, che non siano né opere pie, né enti morali, né istituzioni, né fondazioni, ma che siano quegli enti cui ha accennato, allora io credo che qualche temperamento si potrebbe trovare, per cui anche questi enti non sfuggano all’onere cui sono sottoposti tutti gli enti morali.

Quindi basterebbe dire: Fermo restando quanto deliberato nella lettera c) gli altri enti economici che abbiano una chiara natura economica, possono essere soggetti di imposta ecc. Bisogna, comunque, che quanto abbiamo votato nella lettera c) non sia modificabile.

GRONCHI. L’emendamento mi pare superfluo: il concetto è affermato nella lettera c).

BERTONE. Il Ministro delle finanze può dare forse qualche spiegazione. Non riesco a comprendere come vi possano essere enti che esercitano una attività commerciale o industriale, che non siano ricercati per la tassazione.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prendendo la parola stamane, già ho accennato di scorcio che il Ministero intende insistere sulla formula «tassabile in categoria B» perché per tal modo è possibile, mediante un’attività particolarmente vigile dell’Amministrazione finanziaria, acquisire alla imposizione in categoria B, settori che finora, o per incertezza di giurisprudenza e per consuetudine invalsa, erano trascurati dagli organi preposti alla tassazione della categoria B. E non ho che da augurarmi che la giurisprudenza affianchi nel prossimo futuro l’amministrazione finanziaria nei suoi sforzi.

Vi sono delle zone di particolare incertezza. Gli onorevoli colleghi non mi perdonerebbero se scendessi a troppi dettagli o se facessi qui discussioni di orientamento giurisprudenziale in particolari questioni. Ma mi sia lecito richiamare, per esempio, tutta la materia dei consorzi, in cui l’amministrazione finanziaria continua a sostenere che tutto ciò che il Consorzio realizza, come eccedenza attiva alla fine dell’esercizio rispetto all’inizio, è materia tassabile e cioè costituisce reddito di categoria B.

Non sempre l’amministrazione finanziaria ha avuto il conforto della giurisprudenza in sede amministrativa e giudiziaria.

Sopratutto allo scopo di avere, in sede legislativa, lo strumento che risolva in senso affermativo il problema, quanto meno ai fini di questa particolare imposta, il Governo, accoglie lo spirito informativo dell’emendamento Pesenti.

Per quanto riguarda gli enti ai quali l’onorevole Pesenti ha accennato, ritengo che, a rigore, già nel quadro attuale della legislazione, sarebbe possibile farli entrare nella tassazione della categoria B, dato e non concesso che già non vi siano entrati.

Ma, se sussiste qualche perplessità in materia, tale emendamento permetterà di risolvere in sede legislativa il problema e con ciò credo di non essere in contraddizione col principio fondamentale che il Governo ha posto a base del suo emendamento: che cioè l’imposta deve incidere sul settore dell’attività industriale e commerciale.

PRESIDENTE. L’onorevole La Malfa ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Non credo che ci sia conciliabilità tra l’emendamento Pesenti e quello che l’Assemblea ha deliberato per la lettera c). Aveva effettivamente ragione il collega Micheli: non facciamo rientrare dalla finestra quello che abbiamo escluso dalla porta.

Io chiedo all’onorevole Ministro: o considera gli enti economici in categoria C o non li considera; o i casi sollevati dall’onorevole Pesenti rientrano in categoria C o non vi rientrano. Dal punto di vista finanziario – e do ragione all’onorevole Bertone – non si può creare una categoria, che non è definita. Allora bisogna votare alla lettera c): «Istituzione, fondazione ed enti morali, di carattere prevalentemente economico».

A mio giudizio, dal punto di vista della tecnica finanziaria siamo di fronte a una definizione del tutto generica, che non definisce gli enti secondo gli obiettivi del fisco, ma secondo una certa interpretazione di natura economica.

Ma, a questo punto, lascio la responsabilità al Governo, che ha assunto posizione ed ha valutato cosa importi per la esenzione la formula da esso presentata.

Tuttavia, come Relatore, ho l’obbligo di chiarire un punto. Sul problema degli enti collettivi, fin dalla prima relazione ministeriale, è sorto un equivoco molto grave. Ed io devo confessare che, quando ho visto la relazione ministeriale, ho cercato di capire la natura di questo equivoco. Qual è? È il trattamento che la legge fa agli enti di carattere religioso ed ecclesiastico. Questo è l’equivoco fondamentale esistente nella legge e contenuto nella prima relazione ministeriale. Mi dispiace dire all’Assemblea che io ho trattato questa questione con estremo senso di responsabilità; sia nella mia relazione sia in tutti i lavori nessuno ha sentito dal Relatore partire una voce, che volesse significare una posizione preconcetta o faziosa in questo problema.

A questo punto, però, mi è obbligo sottoporre all’Assemblea tutta la portata del problema: lo attesto come obbligo morale. Nella relazione ho esposto tutti i termini del problema, e se l’Assemblea non l’ha avuto chiaro dianzi, mi è d’obbligo chiarirlo adesso. C’è una disposizione all’articolo 29 del Concordato, lettera h), che esenta dai tributi tutti gli enti ecclesiastici equiparabili agli istituti di beneficienza e di assistenza, in quanto siano esentabili dai tributi. Mai, nella Commissione è sorta eccezione a questo proposito. Solo l’onorevole Scoccimarro, in una seduta della Commissione, aveva proposto di non esentare dall’imposta, gli istituti di beneficienza e di assistenza, evidentemente per non applicare la norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato. Se noi non esentiamo dall’imposta gli istituti di beneficienza e di assistenza non possiamo applicare l’articolo 29, lettera h) del Concordato e quindi tutti debbono pagare.

A questo giustamente la Commissione ha risposto che gli istituti di beneficienza e di assistenza non possono essere sottoposti all’imposta straordinaria per i loro scopi. Quindi bisogna mantener fede all’articolo 29 del Concordato. Poi viene una seconda questione: il trattamento dei benefici ecclesiastici che, secondo le valutazioni che ho potuto fare, non sono esenti dall’imposta straordinaria sul patrimonio e non sono, a mio giudizio, assimilabili. Il Governo potrà dare in proposito più ampi chiarimenti e dirci quali sono gli enti ecclesiastici compresi nell’articolo 29 del Concordato. La legge sull’imposta progressiva del 1922 tassava in effetti i benefici ecclesiastici, ma concedeva anche facilitazioni, esentando i benefici ecclesiastici che avevano diritto a congrua e sottoponendo a tributo solo i benefici ecclesiastici che non avevano diritto a congrua. Ma anche a questi ultimi faceva un trattamento di favore, perché distingueva tra nuda proprietà ed usufrutto. Stabiliva l’età di trenta anni per calcolare la rendita e l’usufrutto e tassava la nuda proprietà.

L’Assemblea può essere anche più larga della legge del 1922, però con conoscenza di causa. L’obbligo del Relatore è di porre i termini del problema. L’Assemblea deciderà poi nel suo sovrano giudizio.

Il problema si è trascinato ed i colleghi della Commissione sanno che esso è stato sempre nel sottosuolo di tutta la discussione.

Quando la Commissione ha presentato il progetto, che è frutto di un compromesso, ha compiuto – e debbo dirlo agli amici democratici cristiani – un atto di responsabilità e di coraggio, perché ha esentato benefici maggiori e minori, con e senza diritto a congrua: cioè è andata oltre la legge del 1922. Però, colleghi della Democrazia cristiana, oltre i benefici, oltre gli istituti previsti dall’articolo 29, lettera h) del Concordato, ci sono altri istituti che non rientrano nella categoria B dell’imposta di ricchezza mobile. Debbo dire, in coscienza di Relatore: tassiamo almeno questi istituti.

Con la norma oggi proposta dal Governo, si esentano, egregi colleghi, enti economici che non sono tassabili in categoria B, non so se il «Touring Club» sia tassabile in categoria B, ma anche molte attività civili non tassabili in categoria B e che possono avere forti patrimoni.

E diciamo francamente che vi sono anche istituti religiosi che non rientrano nell’articolo 29, che non rientrano fra i benefici ecclesiastici e che sono tassabili. Alcuni di noi pensano che questi istituti, non essendo dimostrato che abbiano fine di culto, perché il fine di culto è accertato dall’articolo 29, non avendo un patrimonio destinato ad un’attività ecclesiastica, alcuni di noi pensano che questi istituti debbano essere tassabili. Il Governo si assume le responsabilità di adottare, per la tassazione degli enti collettivi, un criterio diverso dalla legge del 1922. Non ho nulla da eccepire dal punto di vista di logica formale. Però devo dire che il Governo si è assunto la responsabilità di esentare da un’imposta straordinaria una quantità di enti che non rientrano nella categoria B, e che sono numerosi, perché fra la categoria B e l’esenzione di cui all’articolo 2, onorevole Bertone, c’è una quantità di enti che possono essere tassati e che il Governo non ha voluto tassare.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Dopo quanto ha detto l’onorevole Relatore, riterrei che sarebbe più che opportuno rinviare l’esame di questo articolo, in modo da trovare una soluzione che sodisfacesse le diverse opinioni.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Poiché il Relatore, onorevole La Malfa, ha ricordato un momento della discussione svoltosi in seno alla Commissione a proposito di una mia proposta di esclusione dall’esenzione degli enti di assistenza e beneficienza (e questo per correggere quello che poteva divenire un difetto della legge, per colmare una lacuna della legge stessa) io devo completare le cose dette dall’onorevole La Malfa e precisare gli obiettivi ai quali tendevo.

È vero che io ho chiesto che non venissero esentati gli enti di assistenza e beneficienza: di questo problema io ho già parlato anche in sede di discussione generale. In questo modo si evita di porre in discussione l’articolo 29 del Concordato, riservandoci la possibilità di esentare gli enti religiosi che svolgono opera di culto, di assistenza e beneficienza, ma anche di chiamarli a contribuire all’imposta nella misura in cui tali enti svolgono un’attività produttiva di reddito, anche se non tassabile in ricchezza mobile, categoria B. Al fondo di tutta la questione c’è questo problema: un ente religioso, che però svolge un’attività economica, deve pagare come gli altri enti economici che producono redditi, sì o no? Noi diciamo di sì, alcuni dicono di no; questo è il problema che si deve risolvere.

Ora, io avevo proposto e ripropongo adesso che dalle esenzioni siano cancellati gli enti di assistenza e di beneficienza e che nella legge si dica esplicitamente che il Governo, per tutti gli enti di assistenza e di beneficienza religiosi e non religiosi può assegnare, in tutto o in parte, un rimborso dell’imposta pagata ed eventualmente intervenire con un aiuto che sia anche maggiore.

Così si evita di esentare gli enti che svolgono un’attività produttrice di reddito. Tanto più è doveroso oggi insistere su questo punto, in quanto, contro il mio emendamento, si è ingiustamente voluto stabilire l’esenzione da questa imposta dei benefici ecclesiastici. Perciò io ripresenterò ora un emendamento a proposito di questo articolo, in cui sia detto che i benefici ecclesiastici esenti dall’imposta straordinaria sono quelli che hanno diritto a congrua.

Io desidero che se non si vuole questo, sia chiaro che cosa significa il voto che si dà e non si diano dei voti generici, in cui taluno vota una cosa credendo di votarne un’altra. Io non dico questo per ragioni di faziosità. (Commenti al centro). Io mi aspettavo anzi che quanto dico venisse detto proprio dai vostri banchi (Accenna al centro) per un principio di equità e di giustizia. Io non dico che gli enti di assistenza e di beneficienza debbano essere tenuti in non cale, debbano essere trascurati dalla legge o privati dell’aiuto dello Stato; ma io contesto che si stabiliscano dei privilegi che non hanno giustificazione.

Io propongo, pertanto, che la lettera c) del primo comma sia emendata nel senso che i benefici i quali godano dell’esenzione siano soltanto quelli che hanno diritto a congrua.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io desidero parlare perché è opportuno che, dopo le parole dell’onorevole Scoccimarro, mi riallacci al mio ordine del giorno che ebbe l’onore dell’approvazione anche del Presidente. Mi vi riallaccio perché l’onorevole Scoccimarro ha accennato al suo intendimento di presentare un emendamento al comma che si riferisce ai benefici ecclesiastici.

PRESIDENTE. Ne parleremo poi, onorevole Micheli.

MICHELI. No, perché è una cosa già votata e quindi l’eccezione che io ho fatto per l’onorevole Pesenti e che era venuta a cadere, in quanto il suo emendamento è stato così bene mutato e predisposto, che ha superato l’eccezione fatta da me prima, ritorna invece ora, perché si è venuta a ripetere la situazione, in seguito a quanto ha detto or ora l’onorevole Scoccimarro. È vero che io potrei insorgere quando egli lo presenterà. Ma, per economia di discussione, è meglio che io lo avverta di questo, perché egli, che è tanto intelligente e amante dell’economia della discussione, possa evitare di farmi parlare un’altra volta; il che è sempre vantaggioso per l’Assemblea, che non sempre mi ascolta con la cortese attenzione che mi ha concesso questa volta.

Signor Presidente, giacché ho la parola, debbo aggiungere una dichiarazione di indole generale, che mi è suggerita dalle parole che ha detto da una parte l’onorevole Ministro, il quale ha parlato riconoscendo che sono eccessivamente fiscali certe norme che si vengono ordinando e stabilendo ora, e dall’altra parte dall’onorevole Scoccimarro, il quale ha pure riconosciuto che si tratta di una legge dura, per la quale si devono limitare le esenzioni più che sia possibile; ma qualcheduna si deve pure concedere, in quanto ci troviamo in un momento, nel quale l’equità e la giustizia di fronte al contribuente devono essere sentite da tutti. Per questo io devo elevare una voce di protesta in quest’Aula contro lo spirito che domina in questa legge; capisco e comprendo le necessità dello Stato, che sono gravissime, per cui noi dobbiamo creare una legge eccezionale, ma dobbiamo dire chiaro e forte che sono criteri eccezionali.

PRESIDENTE. C’è già stata una discussione generale.

MICHELI. Sarò brevissimo, se lei crede; e sempre nell’interesse dell’economia della discussione.

PRESIDENTE. Queste sono divagazioni, assolutamente inutili in questo momento.

MICHELI. Per dichiarazione di voto, ho diritto di parlare, signor Presidente. Riconosco che in questo momento l’Assemblea non è Costituente; l’Assemblea nostra qui adempie ora una funzione legislativa. Di fronte a questo io debbo ricordare ai colleghi che i Parlamenti furono costituiti per approvare i tributi, in difesa del contribuente; lo Stato che li escogitava si supponeva fin da allora che fosse sufficientemente forte senza bisogno di tanti volontari aiuti.

Una voce. Ma qui siamo in condizioni opposte.

MICHELI. Me le spieghi queste condizioni opposte. (Rumori a sinistra). Permettete, o colleghi, che io vi dica (Interruzioni a sinistra) che voi non ricordate chi io sia…

Voce a sinistra. Ci parli dei piccoli proprietari!

MICHELI. Caro signore, lei non ignora che è cinquant’anni che io parlo in quest’Aula in difesa della piccola proprietà. (Rumori a sinistra).

Lei doveva ancora nascere! Ora io, per terminare in modo meno bellicoso, aggiungerò un pensiero che vorrei applicare al contribuente italiano. Io lo lessi una volta a proposito dei clienti nell’albo di un albergo svizzero: «Se agli uccelli di passaggio, voi togliete le piume, torneranno; ma se togliete loro le penne, specialmente le remiganti, non torneranno più». Così per i contribuenti: se togliamo loro tutto, essi scompariranno, ed il grave danno sarà per il nostro Paese. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Io credo che si sia in condizioni di passare alla votazione dell’articolo 1-bis.

Mi pare, onorevole Cifaldi, che ella possa rinunciare alla sua proposta di rinvio.

CIFALDI. Rinunzio.

PRESIDENTE. All’obiezione dell’onorevole Micheli sulla possibilità o meno di procedere alla votazione su questo articolo, credo si possa opporre la considerazione che noi ci troviamo di fronte all’opinione della Commissione, identica a quella dell’onorevole Micheli, e all’opinione dell’onorevole Ministro, che è contraria e condivide il punto di vista dell’onorevole Pesenti. Non facciamo due votazioni per stabilire se si possa procedere. Chi voterà contro questo emendamento voterà contro l’opinione del Ministro e dell’onorevole Pesenti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Ho l’obbligo di dichiarare che di fronte all’emendamento Pesenti io non ho che un’opinione personale. Per quanto riguarda la Commissione non posso dir nulla.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Il punto di parziale divergenza con l’onorevole Pesenti era questo; alla formula, che mi sembrava vaga, «abbiano carattere e natura di enti economici», io proponevo di aggiungere: «abbiano esclusivo carattere e natura di enti economici».

La soluzione di ripiegare su un semplice concetto di prevalenza non mi tranquillizza.

Per poter dare il definitivo parere favorevole del Governo, suggerisco di aggiungere: «abbiano in assoluta prevalenza carattere e natura di enti economici». Con questa aggiunta, il Governo dà parere favorevole.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Se effettivamente ci sono le parole «assoluta prevalenza» si potrebbe essere più tranquilli, quantunque sia molto strano che sia il Ministro delle finanze il quale, invece d’allargare la sfera dei soggetti dell’imposta, cerchi di restringerla. In ogni caso però, ripeto, se ci sono le parole «assoluta prevalenza», si può anche accettare, perché è un criterio che l’Amministrazione stabilirà di volta in volta. Non si parli però di «esclusività», perché anche un ente di carattere economico come un consorzio o una società di assicurazione ci potrebbe dire che non ha esclusivamente fine di lucro, ma ha il fine di migliorare le condizioni dei suoi associati.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. D’accordo sulla «assoluta prevalenza». Ma resta però da pregare l’onorevole Pesenti (che ha anche un’esperienza specifica di Governo) di considerare che non è esatto che il Ministro delle finanze debba preoccuparsi soltanto di allargare la zona dei contribuenti, perché, se ciò fosse esatto, gli sgravi, ad esempio, non sarebbero di sua competenza.

Avrei dovuto negare l’abolizione della C-2 agli statali, avrei dovuto negare l’elevazione del minimo imponibile a 240 mila lire per la categoria C-2 ed altri sgravi su cui non mi soffermo! (Applausi al centro).

Il Ministero delle finanze deve svolgere una sua politica tributaria diretta genericamente ad incrementare il gettito delle entrate.

Ma, in certi momenti, deve tener anche conto di determinate considerazioni di ordine sociale e di ordine sistematico che possono stabilire dei limiti all’attività tributaria.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Non per entrare in una discussione di carattere politico (Commenti) ma per una semplice dichiarazione, io do atto al Ministro che ha chiarito pienamente quali sono: soggetti che vuole esentare, perché, se è vero che gli sgravi sono stati concessi altre volte in seguito alle pressioni giuste delle masse lavoratrici, in questo caso si tratta invece di esentare certi particolari soggetti, che sono appunto gli enti ecclesiastici di cui abbiamo parlato.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti allora ella accetta la dizione: «in assoluta prevalenza»?

PESENTI. Sì, l’accetto.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea voti pure, ma a me sembra un’assoluta stortura mettere questo emendamento dopo la votazione dell’articolo. Accettiamo piuttosto la sospensiva, in modo che si possa raggiungere un accordo per rettificare la lettera c). È meglio dire: «enti di natura esclusivamente economica» e far sparire la lettera b). Altrimenti nessuno capirà nulla.

PRESIDENTE. Mettiamo le cose su questo terreno. Le osservazioni dell’onorevole La Malfa possono essere accolte. Credo che questo sia il momento nel quale possiamo deliberare di sospendere la votazione di questo articolo 1-bis, per rimetterla al momento nel quale la dizione possa essere armonizzata. Si potrebbe passare all’articolo 2.

LA, MALFA, Relatore. Non si può andare avanti perché l’articolo 2 è in relazione stretta con questo. Siccome tutte queste questioni nasceranno a proposito dell’articolo 2, insisto sulla sospensiva, senza passare all’articolo 2.

PRESIDENTE. Sta bene. Sospendo la seduta per alcuni minuti.

(La seduta, sospesa alle 11.20, è ripresa alle 12).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, l’emendamento proposto dall’onorevole Pesenti corrisponde allo scopo di acquisire al particolare tributo anche quegli enti che, pur svolgendo una attività in assoluta prevalenza lucrativa, e perseguendo finalità di natura economica, già non siano per insufficienza di norme o per incertezza di interpretazione, soggetti al tributo di ricchezza mobile in categoria B.

Il Governo ha già avuto occasione di manifestare il suo pensiero, nel senso che ritiene che gli enti della specie debbano essere soggetti alla nuova imposta, in quanto è suo fermo intendimento – eventualmente anche risolvendo in sede legislativa questioni controverse in ordine alla applicabilità dell’imposta mobiliare di categoria B – che ogni attività lucrativa, che comporti il conseguimento di un reddito, non sfugga al tributo mobiliare. Se, attraverso l’integrazione legislativa o attraverso la prassi della imposta mobiliare, si raggiunge questo risultato, evidentemente, per inevitabile conseguenza, si raggiunge anche il risultato di acquisire alla tassazione straordinaria gli enti contemplati dall’emendamento Pesenti.

Dichiaro, in modo formale, che il Governo provvederà immediatamente a riesaminare, anche in sede legislativa, il problema del regime dei redditi di questi enti, in modo che, quando sussistano i presupposti per l’applicazione del tributo mobiliare, le deficienze legislative e le incertezze giurisprudenziali non concedano esenzioni che non sarebbero giustificate.

Davanti a questa assicurazione, penso che l’onorevole Pesenti non dovrebbe avere difficoltà ad aderire all’invito che gli rivolgo di ritirare l’emendamento presentato.

PRESIDENTE. Onorevole Pesenti?

PESENTI. Accetto l’invito del Governo. Vorrei pregare però l’onorevole Pella di precisare che l’accertamento di tassabilità ai fini di ricchezza mobile in categoria B, così allargata, deve avere i suoi effetti, anche per coloro che eventualmente oggi non fossero tassabili in categoria B; cioè non si tratterebbe qui evidentemente di ammettere la retroattività della legge, ma soltanto di interpretazione inclusiva di questi enti, di queste attività tassabili di categoria B.

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Assicuro l’onorevole Pesenti che – se dovranno essere emanate norme legislative – queste avranno carattere interpretativo e non innovativo; e appunto perché interpretative, con effetto, non dirò retroattivo, ma quanto meno, applicabile a tutti i casi per i quali è ancora possibile addivenire al riesame degli accertamenti, nei limiti imposti dai termini di prescrizione.

Vorrei anche rivolgere all’onorevole Pesenti la preghiera di dare il suo contributo allo studio di tali norme, appena il Governo metterà sul tappeto la questione.

PESENTI. Aderisco.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Noi saremmo stati contrari all’emendamento e quindi dichiaro, a nome del Gruppo cui appartengo, che mi compiaccio vivamente che si sia evitata questa questione, anche secondo il parere che poco fa io avevo manifestato, e cioè che non è con provvedimenti legislativi che si deve scendere ai dettagli nel risolvere la questione.

Noi abbiamo approvato con l’articolo 1 gli enti che sono sottoposti alla tassa; con l’articolo 2 approveremo le sanzioni. Se vi sarà qualche ente che sarà ricercato al di fuori delle categorie che sono state specificatamente accennate, farà la sua eccezione; l’ufficio dirà le sue ragioni; la procedura sarà salva e non avremo creato complicazioni inutili.

Le assicurazioni date dal Ministro, che cioè in via di interpretazione si vedrà di chiarire la questione che possa riguardare enti che sono specificatamente compresi nell’articolo 1 e nell’articolo 2, ci soddisfa pienamente.

PRESIDENTE. Si passa allora all’emendamento proposto dalla Commissione come secondo articolo:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria di cui all’articolo precedente:

  1. a) le società che, negli ultimi cinque anni, abbiano esercitato una attività limitata esclusivamente alla proprietà ed alla gestione di beni immobili urbani, anche se nell’atto costitutivo siano state previste operazioni di commercio;
  2. b) le società cooperative di consumo, produzione e lavoro, e i loro consorzi, che siano rette con i principî e con le discipline della mutualità e il cui capitale versato non superi le lire 300.000, salvo particolari disposizioni legislative;
  3. c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato a norma dell’articolo 29, lettera h) del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i beneficî ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile in categoria B».

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Mi sembra inutile porre in discussione la lettera c), in quanto essa deve essere soppressa in seguito alla modifica apportata alla lettera c) dell’articolo primo.

PRESIDENTE. D’accordo.

A questo testo sono stati proposti i seguenti emendamenti:

«Alla lettera b) sopprimere le parole: e il cui capitale versato non superi le lire 300.000.

«Dugoni, Scoccimarro».

«Alla lettera b), dopo le parole: e lavoro, aggiungere: e di credito e sostituire: 300.000 con 500.000.

«Adonnino».

«Sostituire la lettera b) con la seguente:

  1. b) le società cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, edilizie, della pesca, di trasporto e loro consorzi, che siano rette con i principî e con la disciplina della mutualità, secondo le leggi in vigore. Sono altresì esenti le società di mutuo soccorso legalmente costituite.

«Grazia, Cerreti».

«Alla lettera b) aggiungere: nonché le cooperative per la costruzione di case economiche.

«Caroleo».

«Alla fine della lettera c) alle parole: beneficî ecclesiastici maggiori e minori, sostituire: benefìcî ecclesiastici non aventi diritto a congrua.

«Pesenti, Scoccimarro».

Credo si possa rinunciare allo svolgimento degli emendamenti, che sono chiari nella loro dizione.

Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti alla lettera b).

LA MALFA, Relatore. Togliere del tutto la limitazione del capitale mi sembra eccessivo. Si potrebbe, eventualmente, discutere su un elevamento.

PRESIDENTE. Chiedo il pensiero del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo, per le ragioni che ha enunciate l’onorevole Relatore, che l’Assemblea voglia tener fermo il testo proposto dalla Commissione, anche perché si tratta di lire 300.000 di capitale nominale versato, e sappiamo in questa materia che le 300.000 lire lasciano intravedere una realtà patrimoniale molto più elevata.

Comunque, se l’onorevole Relatore ritiene che possa essere elevato il limite di lire 300 mila, il Governo potrebbe anche venire incontro.

Per quanto riguarda i consorzi, si potrebbe introdurre un limite di valutazione del patrimonio. Mentre per le cooperative esiste un capitale nominale a cui fare riferimento, per i consorzi, mancando un capitale, o, quando il capitale esiste, non risultando da un bilancio, si potrebbe configurare un limite di esenzione ragguagliato al patrimonio effettivo valutato in sede fiscale.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidererei far presente, a proposito del problema delle cooperative, che, se in via formale è giusto stabilire un limite di capitale, tuttavia devo ricordare che con il mutamento di valori avvenuto negli ultimi anni, anche se ci si richiama ai limiti posti dal Codice civile, quei valori non rispondono più alla realtà. E se noi oggi dovessimo escludere dalle esenzioni quelle cooperative il cui capitale versato non supera le 300.000 lire, io temo che lo scopo voluto dalla legge non venga raggiunto. È difficile che oggi esistano cooperative che abbiano versato meno di 300.000 lire, perciò qui si pone questa soluzione: o noi facciamo una rivalutazione in rapporto ai valori attuali o sopprimiamo ogni limite.

Nei limiti stabiliti dalla legge nessuna cooperativa resta esente dalla imposta straordinaria.

Sulla proposta delle 500.000 lire, non so come pronunciarmi: non so se questo è un limite giusto o no: ho l’impressione che sia troppo basso. Sono contrario alla inclusione delle cooperative di credito, che nulla hanno a che vedere con quelle di produzione, di consumo e di lavoro.

Voci al centro. Le Casse rurali!

SCOCCIMARRO. Perciò io manterrei l’emendamento di soppressione del limite di 300.000 lire. Lo scopo che il Governo si è proposto con la norma che regola le cooperative, non viene raggiunto, se viene mantenuto quel limite. Perché di cooperative che superano quel limite non ne troverete neppure una.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione propone il seguente emendamento: «…ed il cui patrimonio non superi i 2.000.000» in sostituzione della dizione: «ed il cui capitale versato non superi le lire 300.000».

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Credo che, a prescindere dal giudizio sulla cifra, l’onorevole Relatore abbia esattamente impostato il problema, in quanto la formula proposta inquadra l’esenzione che la Commissione ed il Governo intendono accordare alle cooperative, ai consorzi ed agli enti assimilabili, qualora abbiano una modesta capacità contributiva.

La tentazione di riferirsi ad un elemento automatico aveva portato l’onorevole Relatore a proporre, ed il Governo ad accogliere, il riferimento ad una cifra di capitale nominale.

Ma è esatto precisare che, mentre questa cifra di capitale nominale può avere un significato per le vecchie cooperative, ha un significato tutto diverso per le cooperative di recente costituzione.

Perciò le agevolazioni debbono essere stabilite in base a un minimo di esenzione ragguagliato ad un patrimonio effettivo.

Il limite di 2.000.000 ha il pregio della congruità per i risultati che vuol raggiungere. In siffatto ordine di idee, credo che debbano cadere le critiche formulate dall’onorevole Scoccimarro quanto alle esenzioni delle cooperative di credito, perché se è esatto che le 300 mila lire di capitale nominale versato potrebbero nascondere una realtà ben diversa, una volta limitata l’esenzione ai 2.000.000 di patrimonio effettivo, le cooperative, appartengano al settore del consumo, della produzione, della costruzione edilizia o del credito, meritano, a giudizio del Governo, di essere agevolate.

Per questo il Governo dà parere favorevole al nuovo emendamento proposto dalla Commissione.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Devo brevemente replicare, per dichiarare che non posso accettare la limitazione patrimoniale proposta dall’onorevole Relatore, per la semplice ragione che noi non conosciamo le conseguenze di questa limitazione. Se noi conoscessimo queste conseguenze, cioè quali percentuali di cooperative e quali possibilità di lavoro rimangono, noi saremmo anche disposti ad accettare una limitazione. In queste condizioni noi sappiamo che le cooperative, praticamente, solo dalla liberazione hanno ripreso una attività nel senso veramente cooperativistico. Esse hanno pertanto assunto una struttura tutta recente, che è stata creata a forza di crediti ed a forza di buona volontà, di braccia e di lavoro. Se noi oggi andiamo a colpire questi piccoli patrimoni, che si sono appena assestati, o che stanno ancora assestandosi, io credo che daremmo un colpo deciso allo sviluppo della cooperazione in Italia.

Per questa ragione, e proprio per la ragione della freschezza patrimoniale di queste aziende, io insisto che sia tolto ogni limite al capitale delle cooperative che devono essere esentate dall’applicazione dell’imposta.

ADONNINO. Riferendomi al nuovo concetto, che ci si debba riferire al patrimonio, osservo che i patrimoni fino a tre milioni, in linea generale, sono esentati.

PELLA, Ministro delle finanze. Il minimo di tre milioni riguarda l’imposta straordinaria progressiva.

ADONNINO. Chiederei che si andasse anche qui a tre milioni.

PRESIDENTE. Sicché, onorevole Adonnino, ritira la seconda parte del suo emendamento?

ADONNINO. Lo trasformo nel senso di stabilire la cifra di tre milioni di patrimonio anche per le cooperative.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. In sostanza, bisogna tener presente che la quota indice è minima, e quindi si vengono proprio a colpire dei piccoli possessori di capitale. Quindi, anche se questo si eleva di un milione o di due milioni, ci troviamo sempre nella stessa condizione: ripeto che non bisogna guardare il patrimonio della cooperativa, ma le singole quote che lo compongono.

Si sono costituite in Italia diverse piccole cooperative fra impiegati, specialmente per la costruzione di case economiche. Siccome nella dizione queste potrebbero non essere comprese tra le cooperative di consumo, di produzione e lavoro, crederei opportuno fare questa aggiunta all’emendamento dell’onorevole Cerreti.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidererei richiamare l’attenzione del Ministro su questo fatto: qual è il concetto che ispira l’esenzione delle cooperative? È forse il concetto dell’entità patrimoniale o la natura dell’organismo? Qui la legge parla chiaro, dicendo che deve trattarsi di cooperative per le quali deve essere chiaramente definito il carattere mutualistico. Ora, se questo è vero, non ha più nessun significato stabilire dei limiti quantitativi nel patrimonio, perché come noi esentiamo gli enti di assistenza e beneficienza indipendentemente dalla loro entità patrimoniale, così l’esenzione per le cooperative è giustificata dal loro carattere mutualistico e in esso trova il suo fondamento. L’esenzione è pertanto indipendente dall’entità patrimoniale della cooperativa.

FORESI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FORESI. Desideravo conoscere dalla Commissione se nelle esenzioni, di cui si parla nella lettera b), sono comprese anche le Casse rurali ed artigiane, perché esse, oltre a rientrare nella forma di cooperazione vera e propria, sono anche il motivo di essere della cooperazione.

Non vedo perché non si debbano comprendere anche queste benemerite istituzioni , che finora hanno alimentato il piccolo artigianato e la piccola agricoltura.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. Ritengo che nell’espressione letterale usata nella lettera b) dell’articolo in discussione difficilmente potrebbero rientrare le Casse rurali.

In linea di massima, siccome istituzionalmente esse svolgono la loro opera sul piano della mutualità, ritengo che le casse rurali – fermo restando il limite di esenzione accennate dall’onorevole Relatore – meriterebbero di essere incluse nell’esenzione.

Ma, a tale scopo, si rende necessario proporre un emendamento, che prego l’onorevole Foresi di presentare.

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Dichiaro di ritirare l’emendamento presentato unitamente all’onorevole Cerreti, associandomi a quello dell’onorevole Dugoni.

CAROLEO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Nel mio emendamento ho parlato di costruzione di case economiche, nelle quali c’è naturalmente anche il fine mutualistico. Sarei grato se, su questo argomento, anche l’onorevole Ministro volesse dire qualche cosa.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ministro ad accogliere la preghiera dell’onorevole Caroleo.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi sembra, se non sbaglio, che tutte queste considerazioni siano assorbite dal concetto di un minimo di esenzione generale ragguagliato al valore imponibile.

Perciò non vedo ragioni sostanziali che giustifichino la discussione che stiamo facendo. Se si accoglie la proposta dell’onorevole Relatore, consenziente il Governo, di accordare la esenzione fino al limite di due milioni di imponibile… (Commenti a sinistra).

Il punto sostanziale è questo: decidere se si vuole mantenere fermo il principio originario delle 300 mila lire – e qualche onorevole collega vorrebbe sopprimere il limite – o se invece si vuole trasformare il sistema, facendo prevalere il concetto di subordinare la esenzione all’entità dell’imponibile.

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Desidero fare osservare, a proposito di limite nelle cooperative, che la cifra non ha alcun senso, perché se andiamo a parlare di un patrimonio di cooperativa noi veniamo a stroncare tutte le cooperative di lavoro, perché basta una macchina, basta un compressore stradale, basta un autocarro perché non siano più esentate.

Oggi, quindi, qualunque cifra noi consideriamo nelle cooperative di lavoro non può non costituire un limite che non possiamo in alcun modo tollerare. Reputo quindi quanto mai logico l’emendamento proposto dall’onorevole Dugoni, perché o una cooperativa ha fini mutualistici e allora si esenta, o non li ha, e allora si tassa: è semplice.

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. La definizione di cooperativa è così elastica nel nostro diritto privato, che permette in forma cooperativa anche l’esercizio di attività che i miei colleghi di sinistra chiamerebbero capitalistica. Difficilmente quindi, io credo, noi possiamo trovare un criterio giuridico atto a farci distinguere le vere cooperative da quelle spurie. Troviamo quindi una cifra, ma credo che sia pregiudizievole… (Rumori).

Una voce a sinistra. Nessuna cifra!

VANONI. Vorrei richiamare l’attenzione dei colleghi sul fatto che ci sono delle alleanze di cooperative che sono indiscutibilmente delle vere cooperative dal punto di vista legale, ma che sono società che hanno centinaia di milioni di capitale. È giusto che esse abbiano il vantaggio dell’esenzione? (Commenti).

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Sono favorevole alla proposta di togliere quel limite di capitale versato di 300 mila lire; e ciò per tante ragioni. Prima di tutto, non si può stabilire un limite per le cooperative, e contemporaneamente lo stesso limite per i consorzi di cooperative. Trecento mila lire oggi non sono niente. Hanno ragione gli onorevoli colleghi che hanno parlato prima di me: con 300 mila lire non si fa niente, non soltanto nelle cooperative di lavoro, ma meno ancora nelle cooperative edilizie e tanto meno nelle cooperative di consumo; oggi bisogna comperare tutto a contanti.

Faccio presente, perciò, che non si può mettere lo stesso limite di 300 mila lire di capitale versato sia per le cooperative che per i consorzi di cooperative.

Voglio ricordare all’onorevole Ministro – ed egli certo lo può ricordare a me – che nelle esenzioni stabilite, già in atto, ancora oggi per le cooperative c’è una differenza che si aggira ad un decimo circa rispetto ai consorzi. Se andate ad esaminare le norme di legge relative alle cooperative di lavoro, vedrete che il limite di assunzione di lavori per le cooperative è stato portato a 5 milioni; e la proposta del Ministro dei lavori pubblici, il quale non ha potuto fino ad ora varare il provvedimento, perché attende sempre il consenso degli altri Ministeri competenti interessati in proposito, l’ha portato a 20 milioni per l’assunzione di lavori pubblici da parte delle cooperative, e ad 80-100 milioni per i relativi consorzi. Quindi, una differenza c’è. Perciò, se mettete 300 mila lire per le cooperative di consumo, dovreste mettere almeno 3 milioni per i relativi consorzi.

Ma io sono contrario per le ragioni di principio che sono state così chiaramente esposte dal collega Scoccimarro; e vorrei cogliere questa occasione per ricordare agli onorevoli colleghi che siamo già impegnati in un certo senso, perché abbiamo riconosciuto nella Carta costituzionale la funzione sociale della cooperazione, e non possiamo dimenticarcene quando si tratta di applicare norme fiscali.

Perciò ripeto – e colgo l’occasione per fare anche una dichiarazione di voto – sono per la soppressione di ogni limite.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Ho chiesto di parlare per cercare di chiarire la questione, in modo che il voto dell’Assemblea risulti chiaro. Vorrei a tale proposito rispondere ad una giusta osservazione fatta dall’onorevole Vanoni, che merita di essere presa in considerazione.

Per me, fissare un limite quantitativo di patrimonio delle cooperative vuol dire seguire un criterio completamente diverso da quello che si dovrebbe seguire, per cui l’esenzione deriva dalla natura e dalla funzione dell’ente, e non dalla sua entità patrimoniale. Ma l’onorevole Vanoni ha posto un problema veramente attuale e scottante: cioè che bisogna distinguere fra cooperative vere e spurie. Cioè false cooperative che servono da maschera agli speculatori.

Mi permetto di ricordare a questo proposito all’onorevole Ministro delle finanze che da molto tempo c’era già un’intesa fra il Ministero delle finanze e il Ministro del lavoro per regolare legislativamente il problema del controllo delle cooperative. Il Ministero del lavoro ha già compiuto un censimento ed è stato istituito un registro presso la Direzione generale della cooperazione, per cui le cooperative riconosciute tali vengono ufficialmente registrate; e solo le cooperative ufficialmente registrate usufruiscono dei benefici fiscali. Io ricordo al Ministro delle finanze che al Ministero era già predisposto un provvedimento di agevolazioni fiscali per le cooperative, provvedimento che io ho lasciato sospeso, perché a quel tempo il Ministero del lavoro non aveva compiuto la necessaria opera di selezione. Ma penso che questa, ora, sia già condotta a termine e, togliendo il limite che si pone in questa legge, per quella via si risolve il problema posto dall’onorevole Vanoni, per cui noi aiuteremo veramente le cooperative, escludendo le cooperative fittizie, che non hanno diritto di chiamarsi tali.

Perciò prego ancora una volta di approvare l’emendamento che esclude ogni limitazione, perché così approveremo il concetto per cui diamo agevolazioni alle cooperative solo perché svolgono un’attività mutualistica e non perché hanno patrimonio al disopra e al disotto di un certo limite.

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. Qui il progetto indica già una definizione delle cooperative ponendo tre condizioni che sono adempiute tutte normalmente da queste cooperative, anche spurie: il fatto della limitazione in caso di distribuzione di dividendi; il divieto di ripartire le riserve; la devoluzione del patrimonio ai fini di pubblica utilità – dopo rimborsato il capitale sociale – in caso di scioglimento; soprattutto un’ultima condizione sta scritta in tutti gli statuti sociali delle cooperative. Restano quindi fissate le condizioni a cui le cooperative devono adempiere per godere del beneficio, ma, ripeto, queste condizioni sono adempiute anche dalle cooperative spurie.

E allora cosa dobbiamo fare? Rimandare ad un provvedimento futuro, come quello della registrazione di cui ha già detto l’onorevole Scoccimarro, oppure risolvere fin d’ora questo problema?

Mi permetto di ricordare che la questione della esenzione delle cooperative dalle imposte è una questione estremamente delicata e sottile. Basti ricordare l’esempio della Francia: la Camera francese discusse per tutta una legislatura il regime fiscale delle cooperative, perché, per trovare una linea di demarcazione fra cooperative vere e cooperative non vere, fra cooperative la cui forza economica merita di essere particolarmente sostenuta e cooperative che hanno tale forza da potere essere sottoposte ad imposizioni tributarie, il Parlamento francese ha discusso per un lungo periodo di tempo.

Noi oggi ci troviamo di fronte alla necessità di risolvere in pochi minuti una questione così estremamente importante, perché poche cose sono sentite dai nostri concittadini in modo così vivo come i problemi di giustizia tributaria; e se, attraverso una norma che vuole essere di incoraggiamento alle piccole forze a riunirsi in cooperative, noi arrivassimo invece ad accordare esenzioni e situazioni di privilegio a particolari forze economiche, certamente noi faremmo una cosa non giusta e che non sarebbe affatto apprezzata dai nostri concittadini.

E allora ritorno all’idea da cui sono partito e da cui è partito anche l’onorevole, La Malfa. Dovendo ora risolvere questo problema, in attesa della desiderata registrazione, che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo fermarci alla proposta della Commissione di cui all’articolo 3, eppure dobbiamo allinearci su una limitazione quantitativa?

Ritengo sia più conveniente la seconda forma: discutiamo la quantità. Ha perfettamente ragione il collega che ci ha ricordato che oggi un autocarro può essere valutato al limite di tassazione. Per me non ha importanza che si vada a 2, 3, 10 milioni, ma, per la certezza della legge, ritengo che sia molto meglio allo stato attuale fissare un limite quantitativo piuttosto che rimandare la soluzione.

E qui aggiungerò che vi è un problema delle cooperative di credito (di cui alcune hanno veramente bisogno di essere incoraggiate e sostenute) come vi è il problema delle Casse rurali di cui ha parlato l’amico Foresi un momento fa.

Anche qui il criterio di distinzione non può essere che un criterio quantitativo. Fra grandi e piccole banche cooperative non c’è nessuna differenza sostanziale: quindi bisogna ricorrere a questo criterio della quantità. Troviamo una cifra, per quanto elevata, e vedremo che essa darà luogo a minori inconvenienti.

PRESIDENTE. Ritengo che si possa innanzi tutto votare la prima parte dell’articolo 2 su cui non è stata fatta alcuna discussione. Essa ricordo, è così formulata:

«Sono esenti dall’imposta straordinaria di cui all’articolo precedente:

  1. a) le società che, negli ultimi cinque anni, abbiano esercitato una attività limitata esclusivamente alla proprietà e alla gestione di beni immobili urbani, anche se nell’atto costitutivo siano state previste operazioni di commercio».

(È approvata).

Passiamo alla lettera b). Pongo ai voti la prima frase:

«b) le società cooperative di consumo produzione e lavoro».

(È approvata).

Vi sarebbe ora l’aggiunta «e di credito» secondo l’emendamento Adonnino.

CAPPI. Ma questa è legata al problema del limite! Se si pone un limite, io ed altri colleghi voteremmo per l’inclusione delle cooperative di credito; altrimenti no.

PRESIDENTE. Allora occorrerà risolvere prima la questione del limite.

Ricordo che il progetto della Commissione diceva inizialmente:

«Le società cooperative di consumo, produzione e lavoro e i loro consorzi, che siano rette con i principî e con le discipline della mutualità e il cui capitale versato non superi le lire 300 mila, salvo particolari disposizioni legislative».

La Commissione ha poi proposto di adottare il criterio di una limitazione del patrimonio a due milioni, mentre un emendamento Adonnino propone tre milioni.

Vi è però un emendamento soppressivo degli onorevoli Dugoni e Scoccimarro, che ha diritto alla precedenza nella votazione.

L’emendamento dice:

«Sopprimere le parole: il cui capitale versato non superi le lire 300 mila».

Lo pongo ai voti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La questione del trattamento delle cooperative e la questione del trattamento degli enti morali sono state trattate in sede di Commissione. Si è cercato di raggiungere un accordo per l’esenzione delle cooperative e di certi enti morali. Ho dichiarato in sede di Commissione che questa posizione del problema, io, come Presidente, non l’accettavo, perché le imposte non sono commerciabili esentando questa o quella categoria, ma devono essere applicate alla generalità dei cittadini. Ho votato contro l’emendamento del Governo, che secondo me ha costituito una categoria di enti privilegiati. Sono dolente di dover votare contro la soppressione di ogni limite per le cooperative; però dichiaro che, avendo il Governo stabilito una categoria di enti privilegiati, mi spiego come una parte dell’Assemblea pretenda un’altra categoria di privilegi.

CAPPI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.,

CAPPI. Anche noi voteremo contro la soppressione di quel limite, in quanto accettiamo l’emendamento della Commissione che al criterio del «capitale» sostituisce quello del «patrimonio»: patrimonio che noi vogliamo aumentare, da due a otto milioni.

PRESIDENTE. Vi è dunque ancora un altro emendamento: invece dei 2 milioni della Commissione e dei 3 milioni dell’onorevole Adonnino, l’onorevole Cappi propone 8 milioni. (Commenti a sinistra).

Pongo dunque ai voti l’emendamento soppressivo degli onorevoli Dugoni-Scoccimarro, facendo presente che in seguito all’eventuale soppressione del criterio «capitale» si passa, per forza, alla votazione sul criterio «patrimonio». È alternativo. (Commenti a sinistra).

(Dopo prova e controprova e dopo votazione per divisione, l’emendamento non è approvato – Rumori – Commenti).

Dovremo ora passare alla votazione degli emendamenti che adottano il criterio proposto dalla Commissione, del capitale cioè, anziché del patrimonio.

Vi è innanzi tutto l’emendamento Cappi:

«il cui patrimonio non superi gli otto milioni».

PASTORE RAFFAELE. Chiedo che la cifra sia portata a dieci milioni.

PRESIDENTE. Onorevole Pastore, gli emendamenti vanno presentati per iscritto, secondo le norme del Regolamento

Voci a sinistra. Chiediamo l’appello nominale!

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Vorrei un chiarimento: evidentemente per patrimonio di otto milioni si intende il patrimonio netto, dedotte tutte le passività.

CAPPI. Il patrimonio, per principio giuridico generale, si intende sempre dedotte tutte le passività. (Commenti – Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Data l’ora tarda, propongo di rinviare la votazione a questa sera. (Commenti).

Se non vi sono osservazioni, resta così stabilito.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Corbino

Patrissi

Treves

Patricolo

Pecorari

Lucifero

Rossi Maria Maddalena

Labriola

Bastianetto

Bertone

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Bulloni

Costantini

Sforza, Ministro degli affari esteri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Quando cinque mesi or sono, con le dichiarazioni del Governo relative al terzo Ministero De Gasperi, il Governo comunicò che avrebbe firmato il Trattato di pace a Parigi (mancavano allora poche ore alla cerimonia della firma), io fui il solo dei deputati di questa Assemblea che avesse avuto la possibilità di parlare perché il seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo fu poi rinviato ad una seduta posteriore all’atto della firma.

In quell’occasione io ribadii quella riserva dei diritti dell’Assemblea alla ratifica del Trattato, riserva che il Governo aveva solennemente confermato non solo nelle sue comunicazioni, ma anche in una nota speciale che il Ministro degli esteri aveva fatta pervenire ai rappresentanti dei Governi dei quattro Paesi principali che con noi dovevano firmare il Trattato.

Nessuno, credo, in quel momento, né fra noi, né fra i membri del Governo, pensava che si sarebbe presentata una situazione in cui sarebbe stato possibile discutere il problema, non dirò della ratifica o non ratifica, ma della sua intempestività. Noi eravamo convinti che le quattro Grandi Potenze, già pervenute ad un accordo di cui il nostro Paese pagava le spese, si sarebbero poi accordate su una procedura rapidissima di ratifica, in seguito alla quale anche noi avremmo potuto dare la nostra; ed eravamo tanto convinti che così sarebbe accaduto che erano state perfino intavolate delle trattative tra i rappresentanti dei vari Gruppi, perché la cerimonia della ratifica, da parte nostra, cioè da parte dell’Assemblea, avvenisse in forma solenne ed austera, corrispondente alla gravità del documento del quale noi avremmo accettato, con la nostra ratifica, la piena responsabilità. Nessuno, ripeto, pensava che si sarebbe prospettata una situazione di fronte alla quale sarebbe sorto il problema della tempestività della ratifica. Vi fu, è vero, un certo periodo nel quale parve che non fosse certa la ratifica da parte del Governo degli Stati Uniti d’America; ma poi anche questa è venuta. Nessuno credeva che la quarta ratifica, quella che oggi manca perché ai sensi dell’articolo 90 del Trattato il Trattato diventi esecutivo, fosse quella della Russia, e noi oggi siamo chiamati a pronunciarci su una ratifica che deve precedere la ratifica di una delle quattro Grandi Potenze; vi siamo chiamati sullo scorcio di una sessione che dura ormai da parecchi mesi, con una Assemblea stanca e di cui è indizio il fatto che i banchi dell’Assemblea, malgrado la gravità dell’argomento che si discute, non presentano quella compattezza e quella assiduità di presenti che pure sarebbero richieste dall’importanza delle deliberazioni che stiamo per prendere.

Perché accade tutto questo? Come mai accade tutto questo? Io vi confesso che non l’ho capito. Mi trovo un po’ come quel critico teatrale che, uscendo dalla prima rappresentazione del Parsifal in Italia, riferiva il suo giudizio dichiarando che egli era dolente che non aveva capito il fatto, perché l’opera si allontanava talmente da quelle comunemente rappresentate nei nostri teatri che per intenderne il significato bisognava conoscere l’antefatto, l’ante-antefatto, intendere le intuizioni, i leit-motif, o altro. Anche noi siamo posti di fronte ad un problema di fatti, di antefatti, di fatti dei quali qualcuno riferisce una gravità non perfettamente definita, qualche altro ci parla di vantaggi non esattamente identificati.

Ora, perché noi dovremmo mutare la posizione storica che di fronte al Trattato abbiamo assunto? La nostra posizione di fronte al Trattato è stata sempre questa: il Trattato ci è imposto; il Trattato è il risultato di un compromesso fra le quattro Grandi Potenze, in cui le ragioni dell’Italia, gli interessi dell’Italia non hanno avuto la più lieve, la più tenue considerazione. È frutto dell’accordo di quattro volontà a cui noi non abbiamo partecipato.

Di fronte alla ratifica vi sono alcuni, non molti veramente, i quali opinano che il Trattato debba essere respinto in qualunque caso, checché succeda dopo averlo respinto.

Vi è una grande maggioranza dei membri dell’Assemblea, e dei Gruppi, che pensano che di fronte ad una imposizione noi non possiamo sottrarci alla necessità dell’obbedienza, pur protestando.

Ma qualunque protesta rispetto al contenuto del Trattato verrebbe meno, perderebbe interamente qualunque valore, di fronte ad un’accettazione del Trattato prima ancora che esso diventi per noi obbligatorio, diventi una cosa alla quale il nostro paese non potrebbe sottrarsi, se non sotto la minaccia di chi sa quali complicazioni. Noi siamo come una nave che, avvistata da una nave da guerra nemica od alleata in tempo di guerra, ha l’obbligo di fermarsi: se non si ferma, si spara un colpo a salve e se al colpo a salve non si ferma, si spara decisamente.

Noi invece ci fermiamo così, per il gusto di fermarci. Perché? Per quali ragioni? Io non entro nel problema giuridico. Per me il problema che discutiamo è un problema morale ed è un problema politico, non è problema giuridico. Al problema giuridico, se mai, si arriverà quando ci saremo messi d’accordo sulla opportunità, sulla convenienza della ratifica anticipata. Vedremo dopo quale dovrebbe essere la formula più adatta. Io faccio una questione pregiudiziale: perché dobbiamo ratificare oggi quando non è necessario?

Si dice, se noi ora non ratifichiamo, chissà quali armeggi machiavellici stiamo pensando e preparando? Ora, se vogliamo entrare nel sospetto del machiavellismo, io credo che se ne possa destare di più con una ratificai anticipata, che non senza occuparci oggi della ratifica. Non siamo machiavellici quando diciamo che non vogliamo fare un atto che in questo momento non abbiamo il dovere di compiere. Potremmo essere machiavellici se lo facessimo, perché davvero si potrebbe pensare ad arcane ragioni, a non bene definiti vantaggi, che noi ci attendiamo dalla ratifica anticipata. Ci presteremmo veramente all’accusa di machiavellismo. Andiamo quindi per la nostra strada, senza preoccuparci dei sospetti, perché chi vuol sospettare su di noi e sulla nostra condotta, avrà sempre motivo di sospettare, sia che noi rinvieremo la ratifica al momento in cui essa sarà assolutamente necessaria, sia che noi oggi, accedendo all’altra tesi, voteremo la ratifica anticipata.

Pressioni, suggerimenti? Certo pressioni nel senso della ratifica non credo siano venute dalla Russia, né ne possono venire: la Russia ha un mezzo molto semplice per obbligarci a ratificare subito. Ratifichi anch’essa, depositi la sua ratifica ed immediatamente il Trattato andrà in esecuzione. La Russia è il Paese che direttamente – per quel che attiene alle riparazioni – indirettamente – per quel che attiene alle mutilazioni che ci sono imposte alla nostra frontiera orientale – avrebbe da trarre il maggior vantaggio immediato da una sua ratifica.

Pressioni degli alleati occidentali: in che senso? Per quali ragioni? In che cosa una nostra ratifica anticipata può giovare agli alleati occidentali? Saranno profondi i misteri della diplomazia, saranno non facilmente accessibili a tutti le prospettive dei vantaggi connessi a questo atto, che è contro la logica, ma non vedo in che cosa il nostro gesto potrebbe facilitare la posizione degli alleati occidentali, al punto da indurli a fare pressioni su di noi, perché noi si ratifichi anticipatamente.

Una pressione di questo genere, ove sortisse un effetto favorevole, non servirebbe neanche nei riguardi della Russia, perché gli alleati non hanno bisogno della nostra ratifica per chiedere alla Russia che provveda a dare la sua. La Russia potrà dare la sua quando vorrà, e in ogni caso la formula che ci è stata presentata è proprio la più adatta per consentire alla Russia di opporre un rifiuto. Non ci si può servire dunque della ratifica italiana per indurre la Russia a ratificare per conto suo, e, quindi, di pressioni in questo senso, non ne vedo. Non vedo neanche la possibilità di un collegamento fra quelle che possono essere le nostre necessità, rispetto a determinati problemi economici e la eventualità di pressioni da parte occidentale.

Gli aiuti americani ci sono venuti quando ancora il Trattato non era stato preparato; ci sono venuti dopo che il Trattato è stato firmato; ci sono venuti dopo che il Trattato è così, all’impiedi, allo stato latente. Perché, ad un certo istante, questi aiuti ci dovrebbero mancare, soltanto perché noi non vogliamo dare una ratifica anticipata al Trattato?

Ma allora, che cosa dobbiamo fare? Si dice da qualcuno che la nostra accettazione anticipata degli obblighi del Trattato potrebbe costituire in questo momento, nello scacchiere diplomatico, nel gioco delle influenze internazionali, una mossa avente significato antirusso. No, non posso aderire a questa tesi. Non avrebbe significato anti-russo neppure una nostra incondizionata ratifica, perché anche una nostra incondizionata ratifica (che poi sarebbe la sola posizione logica da prendere, se mai, in questo momento) potrebbe voler dire: l’Italia vuol chiudere la partita della guerra precedente; la chiude accettando un verdetto che essa sente di non dovere accettare dal punto di vista morale, ma la chiude. Non ha niente di anti-russo un gesto di questo genere; non potrebbe averlo; non dovrebbe averlo. Io dico che una ratifica fatta in questo senso non sarebbe anti-russa, come non sarebbe anti-americana se mancasse la ratifica americana. Sarebbe semplicemente anti-italiana.

Né possiamo pensare ad una negoziazione della ratifica anticipata. Che io mi sappia non c’è stato nulla che autorizzi a supporre che a corrispettivo di questo gesto da parte nostra vi siano non tanto dei vantaggi positivi, ma per lo meno l’attenuazione di tutti i pesi o di una parte dei pesi che il Trattato impone all’Italia.

Io potrei anche comprendere che, per esempio, noi fossimo posti di fronte a questa alternativa, cioè che la Francia ci dicesse: io rinuncio a Briga e Tenda. Allora potremmo discutere non soltanto perché Briga e Tenda rappresentano due Comuni rispetto ai quali il nostro sentimento per il loro distacco non è meno doloroso di quello per Comuni più grandi, ma perché Briga e Tenda hanno un significato che va oltre il numero degli abitanti. Briga e Tenda significano la porta di casa nostra ad Occidente, porta che ci si impone di aprire nello stesso momento in cui ci disarmano all’interno, facendo arretrare le nostre opere difensive e conservando intatto il potere di lancio di qualsiasi offensiva dal fronte occidentale.

Io capirei che da parte di qualche altro degli Stati firmatari ci si dicesse: anticipate la ratifica ed allora, per esempio, vi lasceremo le colonie, per lo meno quelle colonie la cui conquista era anteriore al periodo fascista. Io non sono un colonialista, sono anzi anti-africano; considero l’Africa uno dei continenti più inutili della terra, per lo menò nella parte che non si affaccia, sul Mediterraneo, credo che, politicamente, l’Africa abbia pesato sulla vita dei popoli in maniera negativa, in maniera tale cioè da compensare tutti i vantaggi di carattere naturale che possono essere venuti da quel continente. Ma, ad ogni modo, in quelle colonie noi abbiamo seminato sangue del nostro sangue, e non avremmo fatto del male a nessuno se, fra gli altri, in Africa ci fossimo rimasti, anche noi, senza velleità di imperialismo.

Io capisco che ci si possa dire: se voi accettate la ratifica anticipata sarete chiamati a difendere le vostre ragioni nei riguardi della Germania. Fra le tante condizioni inique del Trattato c’è anche quella; che noi, paese straziato dai tedeschi sia durante il periodo della guerra in cui eravamo con loro, sia dopo, cioè nel periodo in cui eravamo contro di loro, non abbiamo diritto a dire neppure una parola e in difesa dei nostri interessi e per la sistemazione della Germania quale elemento importante della sistemazione europea.

Io capirei che la Russia ci dicesse: anticipate la vostra ratifica e noi vi restituiremo o vi daremo Trieste, che non abbiamo avuto con manovre machiavelliche, ma che abbiamo pagato con 600.000 morti.

Io capirei che gli Stati Uniti ci dicessero: anticipate la vostra ratifica e noi cancelleremo quel preambolo che, fra tutte le pagine del Trattato, è la pagina più umiliante per noi, perché nega il contenuto spirituale della seconda guerra che noi abbiamo combattuto, e che è la vera guerra che noi abbiamo combattuto.

Queste sarebbero le possibilità di un compromesso, di fronte al quale la nostra coscienza potrebbe anche esitare e potrebbe accedere alla tesi della ratifica anticipata.

Poi vi sono i miraggi: c’è il miraggio dell’O.N.U. Certo, l’O.N.U. può e deve essere la speranza di tutti i popoli, e specialmente di un popolo come il nostro.

Ma oggi l’O.N.U. non è che una pedana su cui due schermidori, non molto esperti in materia diplomatica e, quindi, nel maneggio di questi ideali fioretti, si battono spesso con pericolo dei padrini e, in qualche caso, perfino di coloro che stanno a guardare. Non è così che l’O.N.U. potrà essere la base del sistema pacifico del mondo; l’O.N.U. avrà questa funzione, solo il giorno in cui i due grandi competitori di oggi saranno riusciti a mettersi d’accordo.

E speriamo che si possano mettere presto d’accordo nel nome della giustizia fra i popoli, senza imporci qualche altro sacrificio. Non si può infatti escludere che, dopo che noi avremo volontariamente accettato il Trattato che ci viene offerto, un ulteriore passo verso la pacificazione del mondo non debba essere compiuto a spese nostre, con il pretesto che, avendo noi accettato di nostra spontanea volontà il più, ci potremo rassegnare ad accettare per imposizione altrui quel poco che al più si aggiungerà per raggiungere l’accordo.

E veniamo al piano Marshall.

Bisogna intendersi sul piano Marshall: il piano Marshall è ancora niente dal punto di vista concreto, può diventare una cosa molto seria – ha detto il nostro Ministro degli esteri – e può essere il parto della montagna.

Andiamo al fondo del problema. L’Europa – lo diceva l’altro ieri l’onorevole Nitti – attraversa oggi una delle crisi più dure della sua storia. Questo continente, dal punto di vista economico, forma tutta una cosa con quella fascia africana mediterranea, della quale dianzi parlavo e che costituisce un complemento dell’economia europea: è un complemento il Marocco, che dà minerali di ferro e fosfati; è un complemento l’Algeria, che dà fosfati, cereali, vini e minerali di ferro; è un complemento la Tunisia, che dà vini e fosfati; è un complemento l’Egitto che dà cotone; è un complemento, fino a un certo punto, anche l’Asia, nella parte mediterranea vicina, che è tutt’uno con l’economia europea. Ora questo continente, questa economia che nel 1914 aveva realizzato una unità quasi perfetta, se non totale, uscì dalla guerra del 1914 in condizioni di minorità gravissime. L’onorevole Nitti vi ha accennato l’altro ieri alcune cifre; consentite che io brevissimamente ne riporti qualche altra.

Vi dirò, per esempio, che l’Europa viveva, in parte dei redditi dei suoi capitali investiti all’estero per oltre 1000 miliardi di lire oro del 1913. Sapete a quanto si sono ridotti dopo? Nel 1937, eravamo a poco più di 400 miliardi di lire-oro: il Regno Unito era a metà, la Francia era a un quarto, la Germania quasi a zero.

Dai suoi capitali investiti altrove l’Europa ricavava circa 70 miliardi di lire del 1913, cioè a dire che, in un periodo in cui il reddito nazionale dell’Italia era valutato a 35 miliardi di lire, i capitali investiti fuori d’Europa bastavano per mantenere due paesi grandi come l’Italia. Oggi siamo quasi a zero, anzi la Gran Bretagna è uscita dalla Seconda guerra mondiale con una perdita netta pari a circa 8 miliardi di dollari. Anche la Francia ha perduto quasi completamente i suoi investimenti all’estero e, per quanto riguarda i piccoli Paesi i cui investimenti erano quasi tutti di carattere coloniale, affinché essi possano considerarli nuovamente come fonte di reddito, dovranno superare delle guerre aspre contro il nazionalismo risorgente nell’Asia, nell’Africa, dappertutto.

Il commercio europeo è caduto a cifre piccolissime. Parlo senza fare riferimento alla Russia, che nel commercio europeo ha avuto sempre una parte piccolissima. Solo l’uno e mezzo per cento del commercio dell’Europa infatti si svolgeva con la Russia, sia per le importazioni europee in Russia, sia per le esportazioni russe in Europa. In sostanza l’economia russa è sempre stata un’economia prevalentemente autarchica per ragioni di carattere naturale, per ragioni di carattere politico, per ragioni di carattere economico.

Era l’Europa occidentale che formava un tutto organico, un tutto armonico che arricchiva il resto del mondo, e che vi collocava i suoi capitali, ne consentiva la messa in valore e facilitava quindi l’emigrazione della sua popolazione esuberante.

É accaduto così che, quando è venuta a cessare l’esportazione dei capitali, è finita in pari tempo l’emigrazione dall’Europa, ed è sorto quel conflitto di pressioni demografiche che sta alla base della Prima guerra mondiale e che probabilmente è stato la causa della Seconda guerra mondiale.

Questa Europa che era una meraviglia di costruzione economica, come oggi è divisa? C’è una fascia, da Nord a Sud, adiacente alla Russia, che fa parte dell’economia russa; ce n’è una parte, che era quella che si chiamava una volta Mittel-Europa, che è un po’ il regno di nessuno; e ce n’è una parte che è frantumata nei suoi rapporti internazionali ed è incapace di ricostituire un’unità economica organica. Incapace a ricostituire questa unità economica organica è l’Inghilterra, perché – come già ho accennato – esce stremata dalla guerra. Essa ha avuto, l’anno scorso, dagli Stati Uniti d’America un prestito di 937 milioni di sterline, che avrebbe dovuto bastare per quattro anni. Alla fine del primo anno 1550 milioni di sterline sono già stati assorbiti; ne restano disponibili 387 milioni, con i quali l’Inghilterra dovrebbe andare avanti per tre anni, mentre il suo disavanzo commerciale è pari a 700 milioni di sterline all’anno. Questa è la posizione inglese in questo momento.

Né è più allegra la posizione francese, sia dal punto di vista dell’economia generale, sia dal punto di vista della potenza produttiva, riferita alla sua popolazione. Il problema della mano d’opera in Francia, come del resto, anche in Gran Bretagna, è uno degli ostacoli più gravi per la loro ripresa; tanto ciò è vero che, contrariamente agli usi internazionali, che imporrebbero che, a guerra finita, i prigionieri siano restituiti alle loro case, Francia e Inghilterra detengono ancora sul loro territorio molte centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi che lavorano obbligatoriamente, per l’impossibilità di trovare sul mercato interno il mezzo di integrare o di utilizzare la totale capacità produttiva dell’attrezzatura industriale francese e inglese. Molti di più, di prigionieri, ne ha la Russia, cosicché, a due anni di distanza dalla fine delle ostilità in Europa, vi sono dei milioni di uomini lontani dalla loro patria, in una forma di schiavitù che non è, o per lo meno non sarebbe, compatibile con le nostre tanto vantate pretese di civiltà democratica.

In questa situazione si inserisce il piano Marshall, il quale non è un piano nel senso tecnico della parola, come qualcuno può aver pensato; non è un piano nel senso statistico della parola, come dalle prime manifestazioni della sua applicazione si potrebbe credere. No; è un piano di politica economica generale, che intende richiamare l’attenzione dei popoli europei su questa necessità fondamentale: ricostituire l’unità economica dell’Europa, come condizione indispensabile perché gli aiuti che fuori dell’Europa alcuni Paesi sono disposti a dare, siano efficaci, siano concretamente utilizzati.

Gli Stati Uniti d’America si rendono conto di questa specie di solidarietà super-continentale che li lega alle sorti del continente europeo. E se ne rendono conto non soltanto per ragioni di carattere economico, cioè a dire per evitare il ripetersi di una crisi paragonabile a quella del 1929, ma se ne rendono conto soprattutto per ragioni di carattere politico, perché un’Europa che non riuscirà a trovare il suo assetto economico sarà un perenne focolaio di guerra; sarà una polveriera incustodita, rispetto alla quale il primo che passi e lanci un mozzicone di sigaretta può determinare la conflagrazione più spaventosa.

E del resto, rispetto all’eventualità deprecata d’uno scoppio della guerra mondiale e del suo costo, il contributo necessario per sollevare le sorti economiche dell’Europa sarebbe modestissimo, ove lo si metta a confronto con i mezzi larghissimi, con la sterminata capacità di produzione del continente nordamericano in questo momento. Venti miliardi di dollari, distribuiti nel giro di tre o quattro anni, sarebbero sufficienti a mettere l’economia europea in condizione di andare avanti, dopo, per conto proprio, sia pure con gravi sacrifici da parte dei popoli europei.

Ora, venti miliardi in quattro anni, vale a dire cinque miliardi all’anno, non rappresentano che il 2 per cento della produzione economica degli Stati Uniti d’America. Un sacrificio così piccolo per assicurare la pace in Europa, e quindi nel mondo, io sono sicuro che gli americani lo farebbero volentieri, quando vedessero che da parte nostra non si sollevano difficoltà per creare quella unità economica europea che è necessaria, come elemento indispensabile, per la sua ricostruzione.

Ma, rispetto a questo piano, che cosa c’entra la ratifica del nostro Trattato? Io credo che non solo noi abbiamo il diritto di parteciparvi anche senza la ratifica, ma oserei dire che se non ci volessimo andare ci dovrebbero pregare, perché la nostra economia, in questo momento, è complementare dell’economia di tutti gli altri Paesi d’Europa e non si può pensare a creare un piano di organizzazione economica dell’Europa senza l’utilizzazione delle risorse che oggi l’Italia può offrire a tutti gli altri Paesi del Continente.

Ecco perché io non vedo – dal punto di vista strettamente economico – nessun nesso logico, non riconosco nessun rapporto di stretta necessità fra la nostra partecipazione all’O.N.U. e al piano Marshall, e la nostra anticipata ratifica; che, se per caso gli altri fossero così ciechi da voler creare questo stato di stretta interdipendenza, allora è inutile che insistano sul piano Marshall: possono anche abbandonarlo, perché un piano Marshall, che non tenga conto di tutti i Paesi d’Europa, è a priori destinato al fallimento!

E allora? Agl’inizi di questa discussione fu presentata all’Assemblea una proposta che era stata lungamente discussa in ripetute riunioni di capi-Gruppo; si trattava non di respingere la ratifica, ma di rinviarne la discussione; di rinviarla a quando si fosse presentato quello stato di necessità a cui tutti facciamo riferimento allorché accettiamo la tesi che alla ratifica si debba arrivare.

Questa proposta non ebbe fortuna ed una discussione di politica estera è sopravvenuta; ed è bene forse che sia sopravvenuta, perché abbiamo fatto un po’ il bucatino delle nostre coscienze, il bucatino dei nostri programmi, delle nostre intenzioni su questo che è il più angoscioso, il più assillante dei problemi che l’Assemblea deve affrontare.

Ma, fatto questo bucato, quando esso sarà esaurito con l’intervento di tutte le voci più autorevoli dell’Assemblea, perché non dobbiamo rinviare la decisione? Ci sono dei rischi a non rinviare o ci sono dei rischi a rinviare? Io vorrei che l’onorevole De Gasperi mi ascoltasse, come mi faceva l’onore di ascoltarmi quando l’anno scorso di questi tempi eravamo assieme a Parigi a difendere le ragioni dell’Italia.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Reciprocamente!

CORBINO. Sono lieto di questa sua affermazione. Non c’è in me, e credo non ci possa essere in nessuno di questa Assemblea, il pensiero di utilizzare questo tema angoscioso per una speculazione di carattere politico. Noi ci dobbiamo porre di fronte alla nostra coscienza nell’esame dei termini del problema e della decisione che si dovrà prendere dopo questo esame, tenendo conto di elementi del passato, di elementi del presente, di elementi del futuro.

L’Assemblea ha già espresso la sua volontà di ratifica, quando essa sarà necessaria. Nessuno potrà dubitare di questa volontà; nessun machiavellismo ci potrà essere attribuito. Facciamo soltanto una questione di morale politica, una questione di dignità nazionale e una questione di rischi rispetto a questi due problemi. Noi siamo posti in questa alternativa; e dobbiamo votare contro la ratifica anticipata, secondo la tesi dell’onorevole Croce, ispirata a una concezione storico-filosofica delle premesse del Trattato, o secondo la tesi dell’onorevole Orlando, che si dilata in una concezione politica che tutti noi, in lui, l’uomo di Vittorio Veneto, abbiamo il diritto ed il dovere di rispettare. Ma per gli altri si tratta di confondere un voto contro la ratifica in forma incondizionata, con un voto per la ratifica per il momento in cui questo voto ci viene richiesto. Io non voglio neppure contemplare l’ipotesi che, giungendo al voto, sommando tutte le fonti possibili dei «no», la ratifica debba essere respinta o possa essere respinta. Spero che non arriveremo ad una situazione di dubbio così tremenda, perché allora veramente si creerebbe per il Paese una situazione difficilmente afferrabile, sia dal punto di vista interno, sia del punto di vista internazionale.

Ma rinviando, nell’intesa di riconvocarci di urgenza se fosse necessario; rinviando, nell’intesa che daremo al Governo i poteri per la ratifica quando la Costituente sarà alla vigilia della scadenza dei suoi termini legali di esistenza, noi scansiamo tutti i pericoli e andiamo incontro ad un vantaggio inestimabile e certo, quello di raggiungere, di fronte a questo gesto, quella quasi unanimità di tutti i settori dell’Assemblea, che per me è un elemento essenziale per la normale, tranquilla esecuzione del Trattato, perché un Trattato così duro non potrà forse trovare consenso spontaneo e volonteroso negli organi che lo dovranno eseguire, se esso dovesse uscire dall’Assemblea Costituente con l’approvazione di una piccolissima maggioranza, se esso dovesse essere l’elemento per cui domani ci si potrà lanciare l’accusa reciproca di essere stati pro o contro la esecuzione capitale volontaria della dignità del nostro Paese o del taglio delle nostre carni che ci è imposto dal Trattato. Di fronte a questo vantaggio certo, per me non ci sono possibilità di paragoni con dei vantaggi incerti.

Noi respingiamo il Trattato come atto di nostra volontà, perché esso ci colpisce nella nostra anima, nel nostro sentimento, perché nega la storia d’Italia in una pagina che l’Italia crede di non avere scritto.

Orbene, onorevole De Gasperi, io ho due figli che fra qualche anno, se occorre, potrò offrire al Paese; ma oggi mi sentirei menomato nella mia qualità di padre, se volontariamente accettassi di sottoscrivere una pagina che in tutta coscienza, non sento di poter sottoscrivere. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Patrissi. Ne ha facoltà.

PATRISSI. Onorevoli colleghi, l’atmosfera di grande perplessità che è nel Paese e nella nostra coscienza, al di sopra delle divisioni per gruppo, al di sopra delle tendenze, è forse originata dal fatto che non siamo chiamati a decidere per informata coscienza e che questa materia della ratifica non è ancora sufficientemente assimilata da ciascuno di noi.

Parecchi discorsi ci sono stati. Si è parlato di ratifica perfetta o imperfetta, di Trattato perfetto o imperfetto, ma molti fra noi, uscendo dal palazzo di Montecitorio possono incontrare un elettore, come è capitato a parecchi, che gli abbia chiesto: «Ratificate o non ratificate? Come credete che sia meglio? Come pensate che sia opportuno regolarsi nell’interesse di tutti?». E molte volte la nostra risposta non ha avuto per conseguenza che un assentimento fatto di cortesia e non di convinzione, forse perché tutti noi, cittadini, prima che deputati, italiani, prima che uomini di partito, ci rendiamo conto che la disciplina dei gruppi, la disciplina delle nostre correnti politiche, questa volta, e forse soltanto questa volta, non è sufficiente a tranquillizzare la nostra coscienza.

Per decidere su questo problema grave della ratifica o della non ratifica, della ratifica ora o poi, è necessario però, come diceva poco fa l’onorevole Corbino autorevolmente, riferirsi al fatto, cioè al Trattato. Esaminiamone lo spirito, esaminiamone i propositi, esaminiamone le conclusioni, preveniamone gli effetti fatali per il nostro sventurato Paese e ne trarremo le conclusioni; perché, badate, un Trattato di pace non è un punto di arrivo soltanto, ma è anche e soprattutto un punto di partenza. Il Trattato che è sottoposto al nostro esame, il documento che noi stiamo esaminando per deciderne la ratifica o meno, chiude il periodo ultimo della nostra storia nazionale, ma ne apre uno nuovo. Badiamo di entrare nell’avvenire movendo con passo giusto.

Il Trattato consta di quattro categorie di clausole: territoriali, politiche, militari, navali, aeree, ed economiche. È logico che in seguito ad una guerra perduta il vincitore faccia maggiormente pesare la sua mano in materia territoriale e in materia militare. È logico quindi che determinate partite, aperte in altri tempi, per l’insuccesso ultimo delle armi debbano ora chiudersi sfavorevolmente. Ma è deplorevole però, constatare lo spirito di revanche che presiede a determinate clausole territoriali per rettifiche trascurabili, ma non per questo meno gravi, delle nostre posizioni di confine. Mi riferisco alla parte che riguarda il confine occidentale: il piccolo S. Bernardo, il Moncenisio, il Monte Thabor, il Monte Chaberton, le alte valli della Tinea, della Vesubia e della Roja. Piccoli tagli, ma che ci feriscono profondamente, forse perché sono la ritorsione, e la ritorsione soltanto, del coup de poignard del 10 giugno 1940. È vero, gli errori bisogna scontarli presto o tardi, ma che senso ha parlare oggi di quel cosiddetto «colpo di pugnale» quando noi allora eravamo autorizzati a credere, come italiani, che la grande tradizione militare francese, che l’orgoglio gallico, che la famosa Maginot non si sarebbero squagliati come neve al sole, in soli 11 giorni di combattimento? E si fa pesare la mano su noi, con maramaldesca tenacia, che siamo inermi, che siamo discordi, che siamo vinti, almeno materialmente.

Le partite, purtroppo, sono pareggiate e ce n’è d’avanzo per l’avvenire.

Confine orientale: molto c’è da dire su queste parti delle nostre mutilazioni orientali, ma quello che c’è da dire riguarda maggiormente noi che non coloro che ci succedono nella sovranità di quei territori, noi che demmo la stura allo slavo, perdendo senza batter ciglio Fiume e Zara italianissime. Trieste martire doveva fatalmente seguire.

Le clausole militari, navali ed aeree rispecchiano la mentalità di coloro che maggiormente hanno infierito contro di noi: Inghilterra e Francia. Badate, in materia territoriale, tre su quattro Grandi, meno l’America, hanno gravato la mano sul vinto. In materia politica tutti e quattro si sono distinti; in materia economica e militare, tre su quattro, meno ancora l’America sono stati ugualmente implacabili, coerentemente implacabili.

In fondo, ottenuta la soddisfazione territoriale oltre ad una determinata riparazione economica, tutti i Trattati di pace dettati da menti illuminate, da menti guidate da senso di umanità e di comprensione, vivificati da spirito politico, non hanno mai gravato la mano sul vinto più del necessario; ma questo nostro documento di pace, determinato da un solo proposito, da un solo intento, che è quello di cancellare tutte le realizzazioni del popolo italiano dalla unità della Patria in poi, rivela uno stato d’animo talmente deplorevole, implacabile ed infame, che solo un grido di sdegno può definirne l’entità e la portata.

L’atto finale di Pechino del 7 settembre 1901, le convenzioni di Shangai e di Hanoi, i Trattati di Losanna e di Algeciras, l’assetto giuridico del Bacino del Congo, le convenzioni di Bruxelles, di Berlino e di San Germano, sono tutti trattati in cui figurava il nome dell’Italia anche per questioni puramente formali; bisognava che fossero sterili di conseguenze, perché era deciso che finissimo in posizioni di infimo ordine.

L’Italia, questa Potenza audace, vigorosa, esuberante di vita, e di forza nazionalista, come tutti i popoli giovani, dava troppo fastidio; bisognava ad un certo momento mortificarne l’espansionismo e relegarne le forze migliori ad una inferiorità, che durerà forse delle generazioni.

Questo è il nostro «Trattato di pace», così come si ama definirlo, con deplorevole eufemismo, da parte di coloro che ce lo impongono.

Basta l’esame di questo documento, anche per quanto riguarda le clausole politiche, che ci mortificano nella nostra sovranità nazionale, che ci impongono determinati principî di tutela delle minoranze, che noi abbiamo, peraltro, sempre rispettato, che per poco non ci impongono un regime capitolare, per esser certi che da due anni ad oggi i movimenti della politica internazionale prescindono dalla morale e dispregiano il diritto.

Rileggete Tacito, quel punto degli «Annali» ove è ricordato il discorso di Ceriale al popolo di Treviri in rivolta: «L’oro e la ricchezza materiale sono le cause prime di ogni guerra».

Da duemila anni ad oggi nulla è cambiato. E più aggressivi, più fatalmente crudeli nei nostri confronti sono stati appunto coloro, che, per vicinanza o per complementarietà d’interessi, avevano il tornaconto più diretto, onde questa Italia giovane, audace, vigorosa, scomparisse dal novero delle potenze. (Commenti).

TREVES. La guerra l’abbiamo fatta noi o ce l’hanno fatta?

PATRISSI. Io non parlo dal microfono di radio Londra; onorevole Treves, abbia, almeno il buon gusto di tacere. (Interruzioni – Commenti).

TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Treves, ne prendo nota.

PATRISSI. Ora noi stiamo discutendo dell’atto conclusivo della nostra tragedia nazionale. Non intendo fare il processo a chicchessia. L’amore alla Patria esige che dinanzi all’enormità di questo dramma gli italiani si sentano tutti uniti. (Interruzioni – Commenti).

Onorevoli colleghi, procurate di comprendere i motivi che mi animano. (Interruzione del deputato Macrelli).

La conclusione alla quale intendo pervenire è questa: che il documento infame, che si presenta alla nostra indagine, dimostra che la guerra non fu fatta al fascismo, ma all’Italia. (Commenti).

MACRELLI. Non è vero niente: fu fatta dalla monarchia e dal fascismo.

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, la prego, non interrompa.

MACRELLI. Non si possono sentire queste eresie!

PATRISSI. Questa conclusione riveste carattere di estrema importanza per la concordia nazionale.

MACRELLI. Chiedete l’acquiescenza di altri in questo argomento.

PATRISSI. Durante la Conferenza di Parigi, difficile fu la posizione del nostro Ministro degli affari esteri ed in generale dei nostri rappresentanti diplomatici, che non ebbero modo di fare udire la nostra voce e di partecipare ai lavori e dovettero mendicare l’interessamento di questa o quella delegazione, per rappresentare i nostri giusti motivi o per suggerire i nostri emendamenti.

Ringraziamo la Delegazione brasiliana la Delegazione argentina, che si fecero interpreti delle nostre ragioni; ma, indipendentemente da questo ringraziamento postumo, ci sono delle considerazioni fondamentali da fare. Avevate creduto che per mitigare le conseguenze della guerra, secondo voi fatta al fascismo, fosse necessario capovolgere tutti i criteri della politica del fascismo: all’aggressività imperialista sostituire un pacifismo pecorile, assurdo in un mondo di lupi, all’espansionismo costruttivo finiste col sostituire una fregola di rinuncia che doveva logicamente autorizzare gli altri a mutilarci senza pietà. In un momento in cui le amicizie si apprezzano solo se rappresentano forza, e la concordia è il primo elemento della forza di una nazione, voi avete dato uno spettacolo inverecondo di contese civili (Rumori a sinistra) e di discordie continue, così che i motivi di parte hanno soverchiato il sentimento dell’italianità ed il dovere verso la Patria, in un momento in cui non ci era permesso di fare alcuna politica; vi siete consentiti il lusso di enunciare una formula, la formula della «equidistanza». Badate, è una formula nella quale io credo, ma fu enunciata intempestivamente, fu praticata male. L’equidistanza presuppone lealtà nei confronti dei due blocchi, presuppone parità di trattamento: nel praticare quel principio aveste l’abilità di riuscire sospetti al blocco degli occidentali e di diventare invisi al blocco degli orientali.

Sospetti agli occidentali per certe debolezze all’interno nei confronti del Partito comunista (Rumori a sinistra); invisi al blocco orientale per certi amori non contraccambiati o mal corrisposti nei confronti del blocco occidentale.

In quel periodo, quando quattro potenze dominavano la scena politica, quando quattro potenze dominavano a Parigi, il nostro interesse nazionale doveva spingerci e scegliere fra quei quattro un patrono, un sostenitore delle nostre ragioni; chiunque fosse stato, sarebbe stato ben accetto. Invece, per un motivo o per un altro, non potemmo disporre, ripeto, che dell’aiuto della Delegazione brasiliana e della Delegazione argentina, generoso quanto poco valido.

Onorevole De Gasperi, ricorderete che in una seduta della Commissione dei Trattati, dalla vostra relazione, ebbi modo di rilevare una vostra frase, quando, incerto per Trieste, ma sicuro per Pola, recatovi a Parigi aveste l’amara sorpresa di constatare che anche Pola era perduta. In quella circostanza, voi effettuaste visite, avviaste determinati contatti con due autorevoli ministri degli esteri, due dei «Quattro Grandi», che vi risposero: «Abbiamo fatto la guerra per liberarvi; non possiamo fare la guerra per darvi Pola». Frase significativa e rivelatrice di uno stato di fatto. Significava che in quel momento una potenza almeno voleva la guerra o la minacciava; e dall’altra parte due potenze la guerra deprecavano o paventavano. Quella potenza che la guerra minacciava aveva indubbiamente il controllo della situazione in quelle circostanze.

Tutti i colleghi sanno che non posso essere sospettato di tenerezza verso i comunisti. Sono stato io il solo che abbia fatto sempre pubblica professione di anti-comunismo. Ebbene, dico che in quella circostanza, potendo, bisognava distinguere diplomaticamente tra Russia e partito comunista, pur sapendo che sono la stessa cosa, e facendo una campagna anti-comunista bisognava evitare la speculazione antirussa. Questa speculazione, invece, fu fatta. Noi avevamo una situazione fortunata, in quanto determinati problemi di interesse russo erano contemporaneamente problemi di interesse americano, e non dovevamo consentire che i nostri rapporti diplomatici con la Russia subissero la ripercussione, il riflesso della situazione interna del Paese e delle polemiche fra i partiti.

In altri termini, noi dovevamo distinguere fra azione del partito comunista in Italia e Unione delle Repubbliche socialista sovietiche.

Onorevole De Gasperi, lei sa che questo concetto io l’ho espresso molti mesi fa alla Commissione dei Trattati. Dovevamo contemporaneamente, di fronte al pericolo che incombeva allora, come incombe adesso (anche se non è stato espresso dall’onorevole Ministro degli esteri) avviare trattative dirette con la Jugoslavia, per motivi evidenti. Avevamo, come abbiamo, delle minoranze da tutelare; avevamo, come abbiamo, interessi economici da tutelare; avevamo un interesse politico preminente: quello di stabilire un patto di non aggressione, che avrebbe consentito la immediata individuazione dell’aggressore il giorno in cui fosse mutato lo status quo ai nostri confini orientali.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma lei sa che lo abbiamo tentato.

PATRISSI. È stato tentato durante il suo viaggio a Parigi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Parecchie volte, durante la Conferenza.

PATRISSI. Ma questa riunione è avvenuta successivamente, onorevole De Gasperi. Ora, anche questa applicazione pratica del principio della equidistanza, nel momento in cui fervevano le trattative per il dettato di pace, non è stata rispondente ai nostri interessi.

Noi avremmo dovuto attuare una politica pendolare, machiavellica se vogliamo. Non ci facciamo impressionare dalle accuse che altrui ci rivolge per la pratica di questo machiavellismo, che gli altri, poi, attuano assai meglio di noi. Io non arrivo al punto dell’onorevole Nitti che, per scagionarci dalle accuse di machiavellismo, pensa di sminuire Machiavelli. Io ho profondo rispetto per questo probo uomo, che ha vissuto tutta la sua vita in povertà, senza riuscire a dare mai libero sfogo alle sue ambizioni, che erano molte, e vivendo castigatamente del frutto del suo lavoro. In fondo, questo Machiavelli ha fatto testo in ogni paese. Non vedo la ragione per la quale noi, che siamo i lontani epigoni di Machiavelli, non dovremmo applicare i suoi principî. Tanto più se si pensa che il documento di pace di cui ci occupiamo è documento sommo della pratica machiavellica più spudorata, più impudente, più infame.

Non ho bisogno di intrattenervi ancora su quelle che sono le parti sostanziali del Trattato di pace. Nella sua genesi e nella sua stesura, esso rivela un contrasto palese fra la premessa e il testo. La premessa, malgrado contenga notevoli falsificazioni storiche, può significare la possibilità di riunire, alla Patria, nell’interesse comune, le forze dell’antifascismo.

Badate, il documento che noi esaminiamo, chiude un periodo storico, ma ne apre un altro. Può avere un enorme significato il ratificarlo o meno, il ratificarlo prima o poi. Ratificarlo sic et simpliciter significa riconoscere la negazione della nostra dignità nazionale, significa accogliere in pieno l’umiliazione che è distillata in ogni parola del documento, significa precluderci praticamente ogni possibilità di revisione.

 Basta esanimare lo spirito con cui il trattato è stato redatto, per comprendere che di revisione, per molti anni, non ci sarà da parlare, almeno seriamente.

Ratificare, soprattutto subito, senza che siano cioè maturati i presupposti di quel famoso articolo 90, che riassume e compendia l’ipocrisia di coloro che hanno escogitato il documento (mentre si è detto che la guerra veniva combattuta in nome dei principî della Carta atlantica, di essi non vi è traccia che nel solo articolo 15, e nel Trattato, del resto, quei principî esulano da tutti gli altri articoli) significa assecondare gli scrupoli dei paesi del blocco occidentale che, retti da Governi democratici, non possono prescindere dal giudizio e dalla sanzione dell’opinione pubblica.

I soldati americani ed inglesi dicono ancora oggi che hanno combattuto per liberarci, essi che hanno captato tutte le ricchezze della terra per loro. Con l’articolo 90 si è tentato di togliere al Trattato il carattere di imposizione esosa, la caratteristica della coazione, e si è pensato, fra i tanti obblighi imposti all’Italia, di imporre anche quello della ratifica. Capolavoro di ipocrisia, che non ha alcun precedente nella storia dei trattati internazionali.

Ora, ratificare prima che siano maturati i presupposti della nostra ratifica significa oltre che colpevole arrendevolezza, imprimere una svolta alla nostra politica estera.

Io non sono d’accordo con l’onorevole Corbino, quando afferma che la ratifica non è un atto ostile nei confronti del blocco orientale. Ho già detto che avere praticato la formula politica della equidistanza è stato un errore durante i lavori della Conferenza di Parigi; ma oggi che questo documento conclusivo è redatto, oggi più che mai dobbiamo attenerci alla formula della equidistanza.

Onorevoli colleghi, i blocchi antagonisti esistono o non esistono. Purtroppo esistono ed esistono in funzione militare prima che in funzione economica. Noi abbiamo bisogno di modificare le linee della nostra politica estera. Badate che mentre in politica interna si rende qualche volta, non sempre, il tributo alla morale e al diritto, nel campo internazionale la politica è per così dire pura: si pensa e si fa in termini di interessi, di egoismo e di rapporti di forze.

In mezzo a questi blocchi, il nostro proposito deve essere, per il momento, uno solo: quello di mantenere una linea di assoluta neutralità; ma, perché la nostra amicizia possa essere sollecitata, il nostro appoggio possa assumere un qualche valore e il nostro pensiero possa essere richiesto su determinati problemi, è anche necessario che, dinanzi a questo zero che rappresenta ed esprime il nostro valore politico internazionale odierno, anteponiamo una cifra significativa. Invece, siamo arrivati all’assurdo di affermare che abbiamo bisogno di un esercito simbolico. A me si fa l’accusa di essere nazionalista. Se siete in buona fede, tenete conto che il nazionalismo odierno non è che un solo proposito in tre direzioni: vivere con dignità, lavorare con dignità, morire con dignità.

Noi non abbiamo propositi aggressivi di alcun genere, noi non abbiamo che una sola speranza: quella di rivedere possibilmente presto il nostro Paese nei consessi internazionali apportare la propria collaborazione democratica, costruttiva, sincera, onesta, alla risoluzione di tutti i problemi che travagliano attualmente la vita dell’umanità.

Ratificare quindi, secondo il mio punto di vista, è un tragico errore, perché ci preclude ogni possibilità di revisione. Ratificare ora sarebbe anche più grave errore, perché sposterebbe il baricentro della nostra politica a favore di uno dei due blocchi. Per amore di lealtà, sappiate che al blocco occidentale vanno tutte le mie personali simpatie per affinità ed orientamento culturale; ma l’interesse del Paese ci impone per ora di mantenerci sulla linea del giusto mezzo, senza compromissione da una parte o dall’altra, a destra o a sinistra.

Si presenta una grande occasione per l’antifascismo. L’antifascismo, in questi giorni, relativamente a questo problema, ha un’ultima grande possibilità per riscattare le sue colpe, perché se è vero – come è vero – che il fascismo ha perduto la guerra, non è men vero che, fino a questo punto, l’antifascismo non ha saputo vincere la pace.

C’è la premessa al «Trattato»; quella premessa consente agli antifascisti onesti di esprimere alta e sdegnosa la protesta degli italiani, senza distinzione di parte; (interruzione dell’onorevole Pacciardi) perché, onorevole Pacciardi, la guerra, la sconfitta, il Trattato di pace, ci colpiscono tutti, senza alcuna distinzione.

Purtroppo, ne escono colpiti i giusti e i reprobi, i buoni e i cattivi, coloro che sono degni di esaltazione e coloro che sono degni di rimprovero e di condanna. E ancora, che ne siano colpiti coloro che sono degni di condanna, sarebbe poco male; ma ne sono, soprattutto, e malauguratamente colpiti coloro che sono degni di esaltazione. È questo che duole ed è questo che ferisce l’anima nazionale.

Nell’attesa di questo Trattato, noi abbiamo dimenticato, per convenienza polemica o per eccessivo settarismo di parte, quello che è l’orgoglio del nostro valore militare; e l’averlo dimenticato non ci ha arrecato alcun vantaggio. Ogni parola del documento, suggerita dall’Inghilterra e dalla Francia, sta a ricordare l’olocausto di dedizione, di martirio e di eroismo fatto da tanti nostri fratelli, in terra, sul mare, nel cielo, su tutti i fronti di combattimento; e le grandi potenze, dinanzi al nostro fante scalzo, lacero, affamato, assetato, molto spesso pugnalato alle spalle, hanno tremato. Hanno tremato perché grande era il senso dell’italianità dei combattenti italiani.

Ratificare, significa staccarci da quella che è la radice dei vivi, che sono i nostri morti, coloro che con l’offerta suprema hanno testimoniato una idealità o hanno suggellato una fede.

Mentre verrà apposta la firma di ratifica a questo documento – poiché la maggioranza, ormai, è già costituita – consentite a me, che non ratificherò, di porgere un saluto a tutti i nostri Caduti. L’ultima pagina della loro tragica vicenda, anche più tragica perché sopravvive alla loro morte, sta per essere scritta e sta per concludersi. Consentitemi di rivolgere un saluto accorato e fraterno ai mutilati, agli invalidi, ai danneggiati, ai profughi, a tutti gli italiani che, avendo fecondato col loro sudore e col loro sangue la zolla straniera, sono costretti a ripiegare entro le mura delle Patria, martoriandosi e macerandosi, condannati, forse, a morire per inedia totale, perché non abbiamo sufficiente pane per sfamarli.

Il nostro Ministro degli esteri, nella sua relazione di accompagnamento alla legge, che ci propone la ratifica del Trattato di pace, ha detto che noi siamo un popolo eccessivamente congestionato, per densità numerica, su un territorio ristretto.

Anche per questo motivo, io mi rifiuto di dare il mio voto favorevole alla ratifica di questo documento, perché vivi ed attuali sono ancora i motivi che ci spinsero all’altra guerra del 1915 e all’ultima guerra del 1940. E noi dovremmo accettare la punizione, in nome di idealità che sono ancora praticate da coloro che fanno gravare il loro tallone sulla nostra cervice di vinti!

E c’è un altro motivo. Male ha fatto il Governo dell’esarchia a presentarsi innanzi alle assise dei vincitori, dichiarando che il popolo italiano non aveva alcuna responsabilità.

Il secondo delegato alla Conferenza di Parigi, con atteggiamento forse non gradito al ministro degli esteri del tempo, ma nell’empito della sua lealtà, ebbe a dichiarare che il popolo italiano ha anch’esso la responsabilità di tutta la tragedia che ha sconvolto il Paese.

Il popolo italiano non vi è grato, signori, di aver tentato di togliergli il peso di questa responsabilità. Un popolo colpito negli effetti, nella vita, nei beni, eroicamente si assume tutte le responsabilità. È mal disposto ad essere considerato un popolo di minori, di incapaci, di interdetti. E, presentandolo in questa veste, presentandolo come un popolo, siffatto, voi avete tolto al vostro gioco una delle carte migliori, perché un popolo come il nostro non rinnega la sua storia, fausta o infausta che sia.

Voi siete andati dunque a parlare dinanzi ai vincitori un linguaggio di togati accattoni, dinanzi a una tavola di paladini sterminatori di mostri, mentre rappresentavate un popolo meraviglioso, che subisce e attende, con umiltà francescana, il sorgere di un’alba migliore sull’orizzonte della Patria.

Respingere il Trattato significherà la nostra volontà di presentarci sul piano internazionale con consapevolezza; significherà affrontare i problemi della politica interna avvenire con spirito di concordia. Invito pertanto l’Assemblea Costituente ad assumere il volto dolorante della Patria, e ad interpretarne l’effettiva volontà sovrana, così da meritare un giudizio dei posteri che sia meno duro, meno severo, meno implacabile di quello dei contemporanei. (Applausi a destra – Congratulazioni).

TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà..

TREVES. Onorevoli colleghi, non mi aspettavo altre parole dall’onorevole Patrissi in risposta ad una mia interruzione che non aveva niente di personale. Non mi aspettavo altro dall’onorevole Patrissi, il quale già una volta in quest’Aula aveva adoperato delle parole, su un argomento molto simile, che avevano provocato le conseguenze che tutti sanno..

Io credo che sia impossibile, per l’onorevole Patrissi, di comprendere quella che è la posizione morale e politica di un antifascista da sempre, che si trovi, non per sua colpa, in terra straniera al dichiararsi di una guerra contro quel regime…

CONDORELLI. Non contro quel regime, contro l’Italia. (Rumori).

TREVES. Contro il fascismo, signori! (Interruzione del deputato Pacciardi).

PATRISSI. Anche l’onorevole Pacciardi ha qualche cosa da dire.

PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, ha potuto parlare fino ad ora: adesso non interrompa.

PATRISSI. Io ho il diritto…

PRESIDENTE. Lei ha il diritto di chiedere la parola, non di interrompere.

TREVES. Quanto alla mia attività a Radio Londra, l’Italia – lo so – è una terra di facili leggende, una terra in cui le leggende crescono una sull’altra, in cui la verità si distorce facilmente per passione di parte. Io non oso fare l’auto-réclame ad un mio volume, ma quello che ho detto a Radio Londra, giorno per giorno, è controllabile da qualsiasi persona di buona fede, perché è stato stampato a Roma nel 1945 in un volume che è posseduto anche – non voglio esitare delle copie del mio libro! – dalla Biblioteca di questa Camera: chiunque può controllare.

Aggiungo che non ritiro, non cambio, ma anzi mi onoro di ogni parola che ho detto da quel microfono, perché in ogni parola io sentivo intensissimamente e precisamente la mia responsabilità di italiano, di antifascista e di esule.

Signori, in quel momento un esule antifascista aveva un solo dovere: di partecipare comunque egli potesse, da qualunque luogo nel quale lo aveva gettato il destino, a quella che per noi antifascisti da sempre era una guerra civile internazionale contro il fascismo.

Questo io lo reputo un onore; e il più alto onore della mia vita è che molto spesso, in quei gloriosi giornali clandestini che stampavano i nostri patrioti durante la lotta contro il nazismo ed il fascismo, quello che io dicevo al microfono di Radio Londra è stato ripreso, pubblicato e diffuso, non dico ad incoraggiare, perché non ne avevano bisogno, ma a far sentire ai nostri combattenti che non erano soli nella lotta.

Al signor Patrissi non ho altro da dire. (Applausi a sinistra).

PATRISSI. Domando la parola per fatto personale.

PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, non ho sentito dalla bocca dell’onorevole Treves alcuna cosa che le possa dare il diritto di parlare. Il fatto personale è esaurito.

È iscritto a parlare l’onorevole Patricolo. Ne ha facoltà.

PATRICOLO. Onorevoli colleghi, molti oratori prima di me hanno preso la parola per dare il loro contributo di scienza e di coscienza ad un dibattito che indubbiamente trascende il valore d’ogni precedente discussione, in quanto si svolge intorno ad un argomento di fondamentale importanza storica per il popolo italiano.

Tra gli oratori che mi hanno preceduto voglio ricordare Vittorio Emanuele Orlando, per la sua opportuna e sapiente proposta di rinvio della discussione, e Benedetto Croce, il quale in forma pura, nobile, scultorea, ha portato in quest’Aula la voce di tutti gli Italiani. E sarebbe stato forse desiderabile che questa triste discussione si fosse aperta e chiusa con lui. Purtroppo, mi pare che il dibattito non sia continuato sul piano degno del problema, né sia valso a porre nel migliore rilievo il vero orientamento del popolo italiano nei riguardi della decisione che noi siamo chiamati a prendere.

Il problema è stato esaminato da vari punti di vista, principalmente dal punto di vista giuridico e da quello politico. Da qualcuno è stato osservato che il punto di vista giuridico non è così importante come quello politico. È stato detto che la valutazione giuridica di questo spinoso problema ha un valore puramente formale. Io ritengo che così non sia: ritengo, invece, che un giudizio strettamente giuridico sul trattato potrà gettare una vivissima luce sulla situazione e dare a noi la chiave di quella che sarà la nostra decisione.

Si è detto che la ratifica non ha rilevanza giuridica, in quanto il trattato, all’articolo 90, ci impone l’esecuzione delle clausole di esso, indipendentemente dalla manifestazione della nostra volontà. Io penso, invece, che proprio l’articolo 90 – e su questo richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi e dei signori Ministri – esprima la complessa antigiuridicità del trattato stesso.

Il trattato che ci si vuole imporre, onorevole Sforza, è, secondo me, nullo; giuridicamente inesistente.

A giustificazione di questa affermazione Le ricordo quella che è stata la prassi internazionale e la storia dei rapporti fra gli Stati nell’epoca moderna. Tutte le convenzioni e i trattati, non esclusi quelli di pace, da molti secoli a questa parte sono stati conclusi ed eseguiti col consenso esplicito di tutte le parti contraenti, essendo considerata tale manifestazione di volontà come elemento indispensabile perché il Trattato potesse avere i suoi effetti giuridici.

Questa manifestazione di volontà per la prima volta nella storia dei trattati dell’epoca moderna non è richiesta allo Stato vinto, all’Italia, contraente e vittima di questo atto diplomatico di Parigi, cui si dà il nome di Trattato.

Qualcuno ha detto che nell’articolo 90 è prescritta la ratifica da parte dell’Italia. Ma, se noi esaminiamo la dizione dell’articolo 90, vediamo che la ratifica da parte dell’Italia è considerata alla stregua delle ratifiche di altre potenze associate, che possono aderire al Trattato, la cui ratifica non è, peraltro, indispensabile perché il Trattato abbia esecuzione.

A questo punto, io chiedo a voi, uomini di diritto, a voi, onorevoli colleghi, se si può affermare che questo trattato sia valido, questo patto in cui manca la manifestazione della nostra volontà.

Non mi si dica che le mie argomentazioni, partono da un cavillo giuridico, né mi si dica che derivano da una illecita trasposizione di concetti privatistici nel campo internazionale. Non si tratta di cavillo giuridico, perché noi sappiamo che la necessità della ratifica dei trattati è norma universalmente riconosciuta e che tutti gli stati vincitori di guerre hanno sempre chiesto al vinto la ratifica del Trattato di pace, ritenendola come elemento essenziale di esso.

Abbiamo visto che, perfino in occasione della ripartizione della Polonia del 1772, l’Austria, la Prussia, e la Russia occuparono la Dieta per obbligare – le armi alla mano – i deputati polacchi a ratificare il Trattato, perché già allora era matura la convinzione che il vincitore non può chiedere che le clausole del Trattato di pace abbiano effetto, se non interviene la ratifica del Trattato da parte del popolo vinto.

Ciò deve renderci pensosi sul valore e sulle conseguenze giuridiche della nostra ratifica: si consideri che i maggiori trattati di pace, in epoca più vicina a noi, non osarono contravvenire a questa regola internazionale. Dal trattato di Vienna al trattato di Versaglia, tutti hanno richiesto la ratifica del vinto.

Ma, a parte i trattati di pace, nessuna convenzione internazionale può prescindere dalla volontà dei contraenti, tanto che questa volontà fu spesso manifestata sotto pressioni e violenze di ogni sorta. Si ricordino, ad esempio, le minacce di Napoleone su Ferdinando di Borbone per imporgli la rinuncia alla successione al trono di Spagna. Il fatto è che in ogni epoca i vincitori hanno usato anche la violenza pur di indurre il vinto alla ratifica. Eppure essi potevano usare la forza per costringere lo Stato vinto ad eseguire le clausole del Trattato; e invece usavano la forza per obbligare alla ratifica, perché nella concezione, seppure spregiudicata, del vincitore, apparentemente rispettoso della volontà del vinto, rimane ferma questa convinzione: che, senza ratifica, il trattato non ha valore giuridico né politico né morale.

Tanto è vero, che la dottrina internazionale ci riporta il cinico motto del vincitore: Coactus voluit, sed tamen voluit.

Da questo che cosa dedurre? Che effettivamente questo articolo 90 vizia il Trattato, sì da renderlo nulla ed inesistente.

E d’altra parte – dicevo – non vi è una illecita trasposizione del pensiero privatistico nel campo internazionale, perché noi vediamo che perfino la Corte permanente di giustizia internazionale prescrive all’articolo 38 del suo statuto che i rapporti fra gli Stati siano regolati non solo dalle convenzioni e dalle consuetudini, ma anche dai principî generali del diritto. E fa parte dei principî generali del diritto la norma che non vi può essere negozio giuridico, patto bilaterale, in cui non appaia la espressa adesione delle parti contraenti all’obbligazione che esse contraggono.

E la ratifica non è se non l’approvazione autentica e solenne data da un potere sovrano ad un trattato, ed ha il valore giuridico di una inequivocabile manifestazione di volontà, manifestazione di volontà che è indispensabile perché un trattato sia valido e sia produttivo di effetti giuridici.

L’ordine del giorno che ha votato l’Assemblea Costituente il 25 febbraio ha sanzionato questo concetto. Qualche oratore – se non ricordo male, l’onorevole Bassano – traeva la conclusione che la Costituente aveva preso l’impegno di ratificare il Trattato attraverso il suo ordine del giorno.

Io ritengo che questo sia inesatto, onorevole Bassano. La Costituente non ha preso nessun impegno. Ha voluto soltanto affermare il principio giuridico per cui il Trattato non può avere validità, non può avere effetto se non con la nostra ratifica.

Quanto poi a ratificare o meno, lo giudicheremo sulla base degli elementi politici, oltre che giuridici, che saranno sottoposti alla nostra valutazione.

In base agli elementi giuridici noi dobbiamo considerare che, se il Trattato è nullo in se stesso, la nostra ratifica non servirebbe a perfezionarlo, ma a renderlo valido, cioè, a dire, la validità di questo Trattato non dipende dal fatto che la nostra ratifica sia uno degli elementi costitutivi del Trattato stesso. Ratificando, l’Italia darebbe spontaneamente esistenza ed effetti giuridici a un trattato che, senza tale ratifica, resterebbe nullo.

L’onorevole Corbino si chiedeva nel suo discorso perché gli alleati insistono o possono insistere sulla ratifica. Ritengo che la ragione sia precisamente questa, che essi si rendono conto del giudizio che darà di questo Trattato il mondo, che ne daranno i posteri, che ne darebbe eventualmente una Corte di giustizia internazionale. E ciò perché gli alleati si rendono conto della loro responsabilità di costituire un precedente così grave, antigiuridico ed iniquo, che non potrebbe resistere di fronte all’opinione pubblica mondiale e che potrebbe originare, in avvenire, un pericoloso declino di quella morale internazionale, cui tanto faticosamente siamo giunti attraverso secoli di progresso e di civiltà.

E, d’altra parte, noi ci troviamo di fronte a popoli che sono ben convinti del buon diritto dell’Italia. Quando ci si dice che essi hanno voluto affermare la loro forza e la loro supremazia, si dice qualcosa che non risponde, secondo me, al vero, perché, dalle dichiarazioni di uomini politici rappresentativi e responsabili negli Stati vincitori, noi sappiamo che i popoli alleati e associati sono convinti delle ragioni dell’Italia di rifiutare la sua adesione al Trattato. E nella stessa formula dell’articolo 90 noi dobbiamo vedere implicita la loro convinzione che l’Italia non avrebbe mai ratificato.

Ma non è da escludere che gli alleati siano tornati sulla loro decisione, rilevando che tale articolo 90 invalidava l’intero atto di Parigi. Ora se noi non ratifichiamo, il Trattato non acquisterà valore giuridico e noi, in qualunque momento, potremo far valere il nostro diritto alla revisione parziale o totale di esso.

Quindi ratificare o non ratificare ha una grandissima importanza. Se ratifichiamo noi compiamo un atto libero, spontaneo, volontario, un atto che non ci è imposto e, onorevole De Gasperi, qualsiasi protesta fatta da questa Assemblea non sortirebbe alcun effetto, quando noi giungessimo spontaneamente alla ratifica e sarebbe svalutata dalla nostra accettazione.

È inconcepibile che l’Assemblea Costituente, conscia della ingiustizia del Trattato, nello stesso momento in cui protesta contro la sua iniquità, autorizzi il Governo a ratificare quando la ratifica non è elemento indispensabile dello stesso Trattato. Né è a dire che, dopo la ratifica da parte della Russia, la nostra possa avere un effetto giuridico diverso, perché anche allora la nostra ratifica non sarà necessaria: anche allora sarà spontanea.

L’onorevole Croce, che ha sfiorato sapientemente il punto cruciale della questione, ha detto: Noi non dobbiamo ratificare, ma solamente eseguire. D’accordo, onorevole Croce, noi dobbiamo dare esclusivamente una accettazione che è imposta dalla minaccia di esecuzione diretta di quelle clausole da parte degli alleati, e che non ha valore di ratifica, neanche tacita. S’intende che anche in questo caso il Trattato rimane nullo. All’Italia vinta, se pur cobelligerante, non resta che piegarsi alla forza del nemico-alleato.

E noi potremo sempre così far valere la nullità del Trattato; e sappiamo che nel passato non poche sono state le revisioni dettate dal riconoscimento del vizio di volontà, nell’applicazione dei trattati di pace. Ci sono state molte istanze alla Società delle Nazioni, per l’annullamento dei Trattati imposti con la forza: ricordiamo fra le altre, quelle della Cina contro il Giappone per il Trattato sullo Shantung; della Russia e della Romania contro la Germania per la denuncia dei patti di Brest-Litovsk e di Bucarest.

Date queste considerazioni di carattere giuridico, passiamo alle considerazioni di ordine politico.

Quale può essere il significato politico di questa ratifica anticipata?

Una ratifica anticipata, spontanea, da parte della Repubblica Italiana, non può avere che due significati: o il riconoscimento della giustizia e della equità del Trattato, oppure il riconoscimento dell’opportunità che questo Trattato per quanto iniquo, venga ratificato nell’interesse del Paese.

 Questo è il dilemma che a noi si pone. Al primo quesito rispondiamo che tutto il popolo italiano è convinto dell’iniquità, dell’ingiustizia del Trattato. Non rimane che la seconda tesi. È opportuno per noi, malgrado il Trattato sia ingiusto, crudele e vessatorio, ratificarlo? Di fronte a questa eventualità vediamo quali sono gli elementi che possono spingere l’Assemblea Costituente ad un tale sacrificio della propria dignità, del proprio onore.

Questi elementi ci vengono forniti in maniera nebulosa dal Governo. Ci si è detto che noi dobbiamo andare incontro agli Alleati, che dobbiamo offrire qualche cosa, perché essi domani possano concederci una eventuale revisione, perché possano guardare il nostro ingresso nell’O.N.U. con una maggiore simpatia, perché possano aiutarci nella nostra ricostruzione interna e possano porci nel quadro della ricostruzione europea. Ma molti oratori hanno parlato, oratori che parteciparono alla Commissione dei Trattati; e questi ci hanno detto che tanto l’onorevole Sforza quanto il Presidente del Consiglio non hanno mai dato giustificazioni esaurienti onde poter orientare il Paese ad una ratifica anticipata.

Qualcuno ci ha detto che l’onorevole De Gasperi ha parlato di sensazioni, di convinzioni e lo stesso onorevole De Gasperi lo ha confermato a questa Assemblea. Ora mi domando se gli italiani, di fronte a un fatto così crudele come la firma di questo spietato documento, possano contentarsi delle sensazioni dell’onorevole De Gasperi. Io ho molto rispetto per l’onorevole De Gasperi, e ricordo le parole tristi da lui pronunciate il 28 giugno 1946 quando apprese la notizia che Briga, Tenda e il Moncenisio sarebbero passati alla Francia; egli ci disse in quel giorno: «notizia amara ed inattesa che vorrei supporre non ancora irrevocabile. L’Italia ha dimostrato con i fatti di ripudiare la politica di Mussolini e di volere una politica di amicizia verso la Francia. In concreto, l’Italia ha rinunciato, con spirito conciliativo, alle posizioni conquistate nel 1896 in Turchia, con effetti umilianti e disastrosi per molti nostri connazionali».

Seguiva una sintesi di altre rinunce, di altre concessioni.

Mi dispiace, onorevole De Gasperi, ricordarle questo episodio doloroso, ricordarle questa sua confessione. È evidente che quella volta le sue sensazioni erano errate, quella volta lei aveva pensato di potere giovare all’Italia facendo concessioni che sacrificavano interessi di nostri connazionali e il risultato è stato che la Francia non ha voluto intendere nessuna buona ragione nostra.

E allora mi consenta, onorevole De Gasperi, che io mi rifiuti di aderire alla proposta di ripetere lo stesso esperimento per la seconda volta.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Era peggio allora, perché c’erano assicurazioni.

PATRICOLO. Allora c’erano delle assicurazioni, eppure questi signori, i nostri nemici-alleati, non hanno concesso niente al suo spirito conciliativo!

Lei ha ceduto sugli interessi dei nostri fratelli tunisini ed essi potrebbero chiedere conto a lei di quelle rinunzie ed umiliazioni. Ed oggi che gli alleati nulla ci promettono, ella vuole che noi facciamo questo ulteriore passo conciliativo, firmando un atto così disonorevole per il popolo italiano?

Onorevole De Gasperi, se ho richiamato alla sua memoria quell’episodio è per giustificare il mio scetticismo nel suo ottimismo.

Se lei oggi ci chiede di firmare con l’assicurazione che noi otterremo un contraccambio per la nostra firma o sono costretto a chiederle, a mia volta, a nome di coloro che rappresento, che cosa avremo in cambio di questo sacrificio a cui ella ci chiama. Ma la sua. risposta è già nota: «Non posso assicurarvi niente, perché niente mi è stato assicurato».

In queste condizioni io non penso, come molta parte del popolo italiano non pensa, di potere aderire alla ratifica che ci viene richiesta.

Ho proprio ricevuto in questi giorni dalla Francia una copia del rapporto della Croce Rossa Italiana presentato al Governo di Parigi sulle spoliazioni che si fanno ai danni dei nostri connazionali di Tunisi in base all’articolo 79 del Trattato che ancora non è stato ratificato, che ancora non è in vigore. E queste spoliazioni, queste vessazioni continuano fin dal 1943.

La Croce Rossa Italiana (forse l’onorevole Sforza ha una copia del rapporto) ha inviato una vibrata protesta al Governo francese perché prenda in considerazione gli interessi dei nostri connazionali. La Francia è forse pronta a rivedere la sua posizione d’intransigenza? Si direbbe che no!

Anch’io devo chiedere, come l’oratore precedente: in cambio di questa ratifica ci si offre il benché minimo compenso di qualsiasi specie? Quando si è parlato di Briga e Tenda, un Deputato, del settore opposto al mio, disse con una scrollata di spalle, che per qualche metro quadrato di territorio non si muta il corso della storia d’Italia! È triste! Pure lo dico, onorevole Sforza, che anche in compenso di qualche metro quadrato di territorio io ratificherei il Trattato. Se l’onorevole Sforza affermasse: Ho ottenuto una piccola concessione, ho ottenuto che cento italiani rimangano italiani e non vadano esuli in terre straniere; io potrei rispondere: Ratifico. Se lei, onorevole Sforza, dicesse all’Assemblea: Per una ragione di riservatezza è correttezza diplomatica, non posso parlarvi delle promesse che ho ricevute, ma sul mio onore di italiano vi dichiaro che esse esistono; ratificate e vedrete che ne risulterà un bene per l’Italia, io accetterei di ratificare sulla sua parola; ma lei tace, onorevole Sforza, ed io arguisco che lei questo impegno non possa prenderlo, perché effettivamente gli alleati nulla hanno promesso. Né voglio pensare che gli alleati non abbiano neanche chiesto la ratifica, e che siate voi a spingere l’Assemblea Costituente ed il Paese a ratificare!

Non voglio fermarmi su questa idea, perché sarebbe troppo doloroso per noi supporre che un Ministro degli esteri, un Ambasciatore chiedano agli Italiani una così grande umiliazione per giungere a Parigi, a Londra, a New York con un maggior viatico di grazie, per ricevere un più lusinghiero sorriso da parte di ministri ed ambasciatori stranieri.

Io non voglio neanche pensarlo, e d’altra parte ritengo che si possa mantenere il proprio posto con maggiore dignità in una anticamera, anziché in un salotto, quando in questo salotto non si sta alla pari con i padroni di casa.

Sono profondamente convinto che il popolo italiano non deve accettare questa ratifica, né le vostre dichiarazioni sono state tali da indurmi ad una diversa convinzione.

Io non credo che sia più il caso di fare offerte spontanee agli alleati. In noi è la buona volontà di collaborazione; noi non ci vogliamo isolare dal congresso dei popoli. Vogliamo vivere e lavorare in pace con tutti. Essi lo sanno.

Che cosa possiamo fare di più? Se si pensa che noi abbiamo per loro cambiato fronte e nemico, abbiamo mandato le nostre truppe a combattere per loro, abbiamo avute le nostre umiliazioni, abbiamo avuti i nostri morti, le nostre distruzioni? Che cosa possiamo fare di più per dimostrare agli alleati che noi vogliamo una politica di pace e di giustizia? Io non credo che noi dobbiamo dare altre prove. Ormai tocca agli alleati darci prova di concreta amicizia e di gratitudine per il contributo che l’Italia ha dato alla guerra della così detta libertà e democrazia.

Ma non ci chiedano di ratificare. Essi non devono chiedere che l’accettazione esclusiva delle clausole che ci impongono. E questa accettazione di clausole non deve avvenire oggi, ma il giorno in cui, ratificato il trattato da parte della Russia, noi ci troveremo di fronte al bivio: o subire l’affronto di una nuova occupazione militare per l’imposizione di quelle clausole o accettarne l’esecuzione. Ma allora noi lo faremo per evitare al popolo italiano altre umiliazioni, altre sciagure e altre violenze. Soltanto in quel momento o per quel momento potremo decidere di eseguire le clausole; mai ratificare il Trattato, perché se ratificassimo, tutte le proteste da parte del popolo italiano perderebbero ogni valore etico e giuridico, dissolvendosi nel ludibrio del più immorale patteggiamento. Noi non dobbiamo ratificare né oggi né mai, per rispetto dei nostri morti e della Patria in gramaglie.

Devo ora ricordare certe strane parole pronunciate in quest’Aula, da parte di alcuni oratori. Per chi le ha pronunciate, indubbiamente, non sono tali, ma al mio orecchio suonano particolarmente strane!

L’onorevole Bassano ci ha chiesto di ratificare per amore della libertà e della democrazia e per esser coerenti con quella lotta che gli italiani hanno combattuto in odio al fascismo; ci ha detto: Noi non ci adontiamo se gli alleati non vogliono riconoscere la nostra cobelligeranza, il nostro contributo alla guerra di liberazione; noi dobbiamo ratificare in onorò dei morti alleati.

Trovo singolare questa osservazione e credo necessario che in quest’Aula venga detta una parola a questo proposito. Trovo singolare la generosità dell’onorevole Bassano, generosità penso cristiana, veramente grande, ma profondamente irreale, sovrumana. Onorevole Bassano, quando si rappresenta un popolo, non si ha il diritto di essere così generosi. Non si ha il diritto di dimenticare i propri morti per onorare i morti altrui. Se noi dovessimo ratificare, non sarebbe certamente per rendere onore ai morti inglesi e americani, ma principalmente per servire gli interessi e gli ideali della nostra Italia. Noi abbiamo invece il dovere di ricordare i nostri morti, i nostri mutilati, i nostri combattenti e non soltanto i combattenti della lotta di liberazione, ma anche i combattenti della infausta guerra, perché questa guerra che abbiamo combattuto, l’abbiamo combattuta con onore, e sono proprio gli stessi alleati che oggi c’impongono le clausole dell’ingiusto Trattato, che hanno riconosciuto, quando erano nemici, il valore delle nostre truppe, che ci hanno dato spesso l’onore delle armi sui campi di battaglia. Noi dobbiamo fieramente proclamare al mondo, in nome dei morti in guerra, in nome soprattutto dei morti nella lotta partigiana, che non ratificheremo e non credo sarebbe ragione di orgoglio per il popolo italiano affermare che noi rinunciamo a questo nostro sacrosanto diritto di ricordare i nostri morti, per rendere onore ai morti del nemico. È una inconcepibile assurdità.

Mi spiace richiamare in questione anche l’onorevole Treves. Ma egli ha detto qualche cosa che desidero rilevare. Non mi occuperò delle sue frasi pronunciate a proposito del passato che noi dobbiamo seppellire. Credo che ad esse abbia risposto sufficientemente l’onorevole Patrissi. Voglio riferirmi ad una frase con cui egli ha messo in ballo ancora il nazionalismo italiano e in cui ha fatto l’ennesima professione di anti-nazionalismo, e ciò in un momento così drammatico per la nostra vita nazionale. Fino a qualche giorno fa in quest’aula risuonavano delle note antinazionaliste, però c’era ancora il pudore di dire: noi siamo contro il nazionalismo esasperato ed esagerato che porta gli Stati all’avventura.

L’altro giorno, invece, l’onorevole Treves ha abbandonato il noto motivo dell’esasperazione nazionalistica ed ha detto: noi siamo contro qualsiasi nazionalismo; ed ha voluto affermare, anche questo: che il nazionalismo ha portato l’Italia vittoriosa del 1918 in braccio al fascismo e quindi alla disfatta di oggi.

Io vorrei chiedere all’onorevole Treves cosa ha portato l’Italia alla vittoria del 1918, se non il nazionalismo; che cosa ha portato l’Italia al Risorgimento, se non il nazionalismo?

ROMITA. La democrazia.

PATRICOLO. Io parlo del nazionalismo sano; non facciamo speculazioni su questo. È il nazionalismo sano che ha portato l’Italia alla guerra del 1914 e alla vittoria del 1918.

VERONI. Non è vero questo.

PATRICOLO. Questo nazionalismo fino a qualche giorno fa era ancora rispettato e ammesso dai signori della sinistra: oggi si nega ogni fede nazionalista, anche quella che piomba nel lutto i giuliani e i dalmati perché strappati dal territorio nazionale.

Vorrei chiedere, cosa è nazionalismo per voi, se non questo legame sacro che unisce tutti gli italiani fra di loro in una comune famiglia?

In fondo non posso stupirmi delle parole dell’onorevole Treves, perché conosco la sua fede e il suo passato. Ma certamente le stesse parole trovo incomprensibili sulla bocca dell’onorevole Pecorari, deputato giuliano, il quale ha dichiarato: noi giuliani non siamo nazionalisti. Ma perché avete tanta paura di questa parola, perché non avete il coraggio di affermare la vostra fede? Perché volete distruggere un sentimento sacro in odio ad una parola? Vogliamo essere obiettivi una volta tanto e dire che il nazionalismo nel suo senso puro e nobile è antitesi di qualsiasi imperialismo e di qualsiasi impulso di guerra e di conquista, perché nazionalismo è un’idea di diritto che si oppone all’imperialismo, che è invece idea di forza, dato che ogni nazionalismo sano deve esser rispettoso del nazionalismo altrui? In virtù del nazionalismo noi italiani vogliamo giustizia e chiediamo che la Venezia Giulia, la Dalmazia, Briga e Tenda rimangano all’Italia. In base al nazionalismo più puro noi abbiamo combattuto tutte le guerre del Risorgimento e lottato contro tutti gli indipendentismi che minacciavano l’unità nazionale.

Cos’è il nazionalismo se non il sentimento della famiglia trasportato nella Nazione? Bisogna intendersi; questo è nazionalismo per me, questo deve essere per voi. E quindi, quando si dice che il nazionalismo è cosa condannevole, io che per nazionalismo intendo questo sentimento di purezza e di fratellanza fra tutti i figli della stessa patria, non posso che sentirmi ferito in questa mia convinzione che è comune alla maggioranza degli italiani.

Quando tutti gli Stati saranno finalmente riportati entro i loro confini nazionali cesseranno le rivendicazioni territoriali e le cause di guerra. Ed allora si potrà giungere alla creazione di una più vasta famiglia di popoli basata sul rispetto dell’individualità nazionale di ciascuno Stato.

L’imperialismo continentale non può nascere dal nazionalismo, dal nazionalismo quale io l’intendo.

Piuttosto penso che sia più da temere l’esaltazione del patriottismo. Se patriottismo non è sinonimo di quel sentimento che dicevo, esso può essere davvero pericoloso per un Paese. Per esaltazione di patriottismo noi avemmo le guerre di conquista di Alessandro Magno, di Giulio Cesare e di Napoleone. Fu patriottismo quello che spinse i francesi, i romani ed i macedoni alla conquista del mondo. Il patriottismo può portare all’imperialismo in quanto non contenuto entro confini storicamente e giuridicamente determinati e può esaltarsi dell’amore della propria patria sì da portare fuori dai confini questa sua passione.

C’è stato e c’è un nazionalismo puro in Italia. Evitiamo di travolgerlo nella delusione della disfatta, rispettiamolo, perché esso ha creato l’Italia. È antistorico affermare il contrario. È questo sentimento nazionalistico che ancora permette la coesione nel nostro Paese: senza questo sentimento nazionale l’Italia una non esisterebbe da tempo, non sarebbe mai esistita. E appunto in nome della nostra solidarietà nazionale che dobbiamo opporci alla crudele volontà del Diktat, per l’onore della nazione italiana, per l’amore dei nostri fratelli del Piemonte e delle sponde adriatiche.

Onorevoli colleghi, lasciate che il Paese reagisca di fronte ad una violenza che incide così profonde ferite nel sentimento nazionale degli italiani, lasciate che gli italiani alzino la loro voce contro l’iniquità del Trattato e non sia soltanto l’onorevole Orlando ad opporsi alla ratifica che ci si vuole imporre – come vorrebbe il collega Gasparotto – ma tutti quegli italiani che si stringono intorno a lui in questo momento grave della nostra storia, maledicendo il Trattato e implorando da Dio e dagli uomini giustizia per l’Italia. (Applausi a destra).

PECORARI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PECORARI. Volevo rispondere all’onorevole Patricolo, per precisargli che io per nazionalismo non intendo quel che lui – con una sua interpretazione del vocabolario – ha voluto esprimere. Oggi io sono contro tutti i nazionalismi, quelli nostrani e quelli degli altri popoli. Per patriottismo o, se vuole, per sano patriottismo, io intendo reclamare quello che è nostro per noi e quello che è altrui darlo agli altri.

PATRICOLO. Questo è nazionalismo, non è patriottismo.

PRESIDENTE. Non facciamo questioni di vocabolario onorevoli colleghi!

È iscritto a parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli signori, io che avevo sostenuto la tesi, proposta in linea pregiudiziale dall’onorevole Benedetti, dell’illegittimità della proroga di questa Assemblea, dal 24 giugno al 25 luglio non sono più entrato in questa Aula. Questo perché, evidentemente, un voto dell’Assemblea non poteva mutare la mia convinzione.

Ma, a fianco di quelli che sono i criteri di legittimità, esistono anche i fatti politici. Il fatto politico è che quest’Assemblea, legittimamente o illegittimamente prorogando i suoi poteri, continua ad operare e ad operare su questioni che gravemente incidono sulle sorti del Paese. Questa proroga, contro la quale avevo votato, mi dà la facoltà di continuare a portare il mio modesto contributo su lavori che possono decidere e – nel caso specifico che oggi si discute – per moltissimi anni le sorti della Patria. Io ho ripreso il mio posto di combattimento e debbo confessare che non mi dispiace eccessivamente che se, contro quelli che sono la mia convinzione ed il mio sentimento – sentimento di italiano e convinzione di uomo politico, che coincidono nella certezza che questo Trattato non si debba ratificare – questo Trattato sarà ratificato egualmente, non mi dispiacerà che sia stato ratificato da un’Assemblea sulla cui competenza si possono sollevare dei dubbi.

Io non avevo intenzione di parlare in questa discussione: volevo riservarmi una semplice dichiarazione di voto. Se oggi parlo, lo faccio perché ne ho ricevuto da vari settori qualche sollecitazione. Intendiamoci bene: non l’ho ricevuta io questa sollecitazione, l’ha ricevuta il personaggio; perché nella vita politica, quando le circostanze hanno portato un uomo a rappresentare qualcosa in una battaglia, quest’uomo cessa di essere uomo e diventa un personaggio.

Si è ritenuto da alcuni che forse era opportuno che il personaggio facesse sentire la sua voce in questa circostanza. Io sono venuto come personaggio, ma incominciando a parlare mi ritrovo uomo, e nelle mie parole c’è tutta la passione dell’uomo, la passione dell’italiano, la passione dell’europeo, la passione dell’uomo civile e del cittadino del mondo, tutti ugualmente calpestati ed insultati dalla follia delle potenze che ignorano civiltà cristiana e obiettività di diritto.

Si è parlato di critica da fare alla politica estera del Governo. Qui non si discute la politica estera né di questo né dei precedenti Governi. Qui si discute, se si vuole, la politica estera dell’Italia per lunghi decenni; quindi per tutti i Governi, di ieri o di domani. Il voler sminuire ad una polemica politica, che può essere anche manovra politica, quella che è una discussione non sulla politica estera di un Governo, ma sulla continuità di politica estera che dovrà segnare l’avvenire della Patria e speriamo la chiusura di una fase di disavventure, sarebbe così meschina cosa che io non credo alcuno voglia farlo. Ad ogni modo, io non lo farò; io che sono il più legittimato a farlo perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che ci eravamo messi sulla strada sbagliata; perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che si faceva troppa politica interna e troppo poca politica estera; perché fin dal giugno del 1944 sostengo che gli interessi del Paese non si servono soverchiando a fini di parte quelli che sono i supremi interessi della Nazione; perché fin dal giugno del 1944 io sostengo che non si servono gli interessi della Nazione cospargendosi volontariamente la testa di cenere, anche quando non è richiesto, perché certe volte si debbono difendere gli errori dei propri predecessori, anche quando si sono ripudiati; perché fin dal giugno dei 1944 sostengo che non si può organizzare un’azione diplomatica mandando in giro per il mondo a rappresentarci dei valentuomini, che avranno avuto speciali capacità nelle Università, nell’agricoltura o nelle preture, ma che non conoscono la tecnica del negoziare, che non hanno conoscenze personali, le quali sole possono aiutare un diplomatico (e l’onorevole Sforza me ne dà atto) quando si trova in un ambiente ostile, onde fare qualcosa per il suo Paese. L’uomo che non è conosciuto, che non ha la fortuna di trovare in questo o in quell’ufficio colui con il quale fu consigliere a Teheran, o giovane attaché in un’altra sede, l’uomo che non ha nemmeno questa possibilità, anche se è il più valoroso dei diplomatici è destinato all’insuccesso, perché la diplomazia è una tecnica e non una improvvisazione.

Questa è una critica che si rivolge ad una politica, e non a dei Governi, ad una politica che è stata seguita da tutti i Governi dal 1944 in poi, e che è stata una politica errata, e della quale io non ho mai condiviso le responsabilità.

Oggi, ci troviamo di fronte ad un documento che si chiama Trattato di pace. Io mi atterrò soltanto a questo documento.

L’oratore che mi ha preceduto ha terminato il suo discorso con una questione di vocabolario, un’interpretazione da dare alle parole nazionalismo, patriottismo, ecc. Permettete che anche io faccia una questione di vocabolario.

Trattato di pace. Dunque, Trattato; trattato viene da trattare, Se lo sono trattato fra di loro, ma noi non abbiamo trattato. Questo non è un trattato con l’Italia; questo è un trattato fra altri, che riguarda l’Italia. In questo Trattato, se trattato si può chiamare, l’Italia non è soggetto del Trattato; è soltanto oggetto del Trattato.

Si dice Trattato di pace, ma questo documento, che è trattato soltanto fra coloro che lo hanno trattato, è un documento di guerra; perché questo documento è una premessa necessaria ed indispensabile a nuovi conflitti.

È inutile che nascondiamo la testa sotto l’ala dicendo che di guerre non si deve parlare, perché di guerra si parla dappertutto. La guerra è nell’aria, perché l’altra guerra non è finita.

L’ultima guerra mondiale è stata combattuta non, come si è detto da alcuni, ricordando Terenzio, per ragioni economiche. Questa guerra è stata una guerra ideologica; si è fatta questa guerra nel nome della giustizia fra i popoli, nel nome della libertà e della democrazia; poi, a mano a mano che la guerra diventava difficile e le preoccupazioni aumentavano negli uomini di Stato, questi fini si sono dimenticati, e la guerra, che si era fatta per la libertà e la giustizia fra i popoli, si è conclusa con la sopraffazione dei popoli, con la legge di Brenno. La guerra non cesserà, finché non si troveranno un assetto ed un equilibrio che rispondano alle ragioni che l’hanno suscitata; e queste ragioni rispondono ad esigenze più vive che mai! Questo è, quindi, un Trattato di guerra fra altri, un Trattato che prepara le premesse della guerra e che già delinea dei piani militari i quali, per chi abbia una certa esperienza in materia, sono molto ben trasparenti. Perché Briga e Tenda significano una linea di difesa sulle Alpi, nel caso che si volesse abbandonare la Valle Padana, e questa Valle Padana, si dovrà abbandonare, perché ne è aperta la porta a chiunque voglia farvi una passeggiata militare.

Io domando se noi (che tutti, e nella guerra sbagliata che fu perduta perché si doveva perdere, e nella guerra giusta che fu quella di liberazione e che fu vinta militarmente perché non si poteva perdere, e fu perduta politicamente perché mal condotta, cosicché, cobelligeranti a Roma ci ritrovammo vinti alle Alpi) io domando se tutti noi che abbiamo partecipato in un modo o in un altro a questa guerra possiamo porre la nostra firma su un documento che consacri con essa firma anche la nostra volontà di vedere l’Italia diventare un nuovo campo di battaglia.

Ad ogni modo si dice: bisogna ratificare. Perché dobbiamo ratificare? Il Trattato diventa esecutivo senza la nostra ratifica. Ed io mi ricordo una frase dell’onorevole Giolitti, che altri ricorderanno pure in quest’Aula.

Quando l’onorevole Giolitti, come Presidente del suo ultimo Gabinetto, portò in quest’Aula, costrettovi da esigenze politiche, la discussione di una legge elettorale alla quale era contrario, assistette impassibile alla discussione di questa legge. Senonché, ad un certo punto gli fu chiesto che dicesse anche lui due parole in difesa di quella legge, al ché Giolitti rispose: ingoiare rospi sì, ma dire anche che sono buoni no.

Quindi, eseguire il Trattato sì, perché ce lo fanno eseguire per forza, ma ratificare il Trattato no.

Il Ministro degli esteri ha parlato in fondo di due argomenti fondamentali – perché badate la questione è politica, profondamente politica e non soltanto economica come vorrebbero alcuni far sembrare – ha detto cioè: noi ci mettiamo su un piede di parità con le altre Potenze, il ché ha la sua grandissima importanza.

Ma è vero questo? Si metterà, forse, su un piede di parità con i Ministri degli esteri delle altre potenze, il Ministro degli esteri italiano; potrà non accadere più quello che ci ha umiliati ed offesi, che chi rappresentava l’Italia all’estero ha avuto accoglienza diversa da altri rappresentanti di altri Stati; non accadrà più che, invece di una compagnia di onore, vi sia un plotone d’onore ad attenderci. Però, accadrà un’altra cosa; che l’Italia avrà sottoscritto un documento, il quale consacra il suo stato permanente di inferiorità, perché avrà sottoscritto l’accettazione di limitazioni di sovranità, che non sono limitate nel tempo, ma che nel Trattato sono considerate come definitive.

Quindi, non parità, ma disparità consacrata dalla nostra firma. Questo è il primo significato.

Altro argomento: l’O.N.U. Io ho sentito parlare molto dell’O.N.U., tutti sperano nell’O.N.U. e tutti lodano l’O.N.U. Io ho il dovere di dire, sinceramente ed onestamente, che io non credo nell’O.N.U. L’O.N.U. è già fallita, perché nell’atto costitutivo dell’O.N.U. manca quello che ci dovrebbe essere perché essa potesse veramente rappresentare un insieme vitale: manca il senso democratico dell’uguaglianza di tutti i popoli di fronte alla legge internazionale.

Ora, intendiamoci bene su quello che significa l’organizzazione internazionale dei popoli: è un avvenire che verrà; ma è ancora molto lontano. Ed io devo ripetere quello che da questo stesso banco dissi, in sede di discussione di politica estera, alla Consulta Nazionale.

L’organizzazione fra i popoli si può basare su due principî: o su un principio di potenza, o su un principio di giustizia. Per il principio di potenza vale solo la forza, non sono necessarie organizzazioni: bastano le normali alleanze. E noi oggi siamo in una fase feudale della politica internazionale. Oggi è impensabile una guerra tra due popoli minori; nessun popolo è libero di fare una guerra con il suo vicino; quasi quasi nessun popolo di secondo ordine – diciamo così – è libero di fare un trattato di commercio con il suo vicino, se i signori feudali non sono d’accordo su questo trattato. Ma il giorno che i signori feudali decidessero, malauguratamente, di scendere in guerra fra loro, allora saremo tutti trascinati, e vassalli e valvassori e valvassini; perché la politica internazionale attraversa, in questo momento, una configurazione feudale e l’O.N.U. non è altro che un tribunale, se così si può chiamare, di questo feudalesimo ed è un passo indietro su Ginevra, perché Ginevra, almeno, tentava di dare un diritto, un tribunale, anche se mancava della coazione per far rispettare le sue decisioni.

L’O.N.U. è soltanto coazione, non c’è né tribunale né diritto. Non durerà, non risolverà i problemi; quando i signori feudali avranno deciso di fare la guerra, l’O.N.U. finirà e i popoli avranno speso miliardi per mantenere questa finzione.

D’altra parte, in politica esiste una politica che chiamerei «lunga» e una politica che chiamerei «corta». La politica «lunga» è quella delle grandi direttive e del grande respiro nel tempo; la politica «corta» è quella delle contingenze che può, certe volte, deviare della politica «lunga», ma non si può mai mettere in contrasto con essa.

Ora, nella politica corta, oltre la parità e l’O.N.U. cosa c’è? Il bisogno di aiuto che noi abbiamo in campo alimentare, in campo economico, in campo di materie prime o di prodotti semilavorati o finiti? Onorevole Sforza, la beneficenza internazionale non esiste. Anche la famosa U.N.R.R.A. non è stato un istituto di beneficenza: fu un organismo politico che serviva a determinati fini politici, che ha funzionato finché questi fini politici dovevano essere perseguiti; e quando questi fini erano stati perseguiti, la miseria continuava, e l’U.N.R.R.A. è cessata, perché la beneficenza in politica internazionale non esiste. O ratificheremo o non ratificheremo, non una nave di grano sarà dirottata, perché è interesse delle grandi potenze che l’Italia non vada in miseria, perché è interesse che la miseria non acuisca le lotte già profonde che la dilaniano, perché l’Italia è il secondo Paese d’Europa come popolazione se si esclude la Russia e il primo come posizione geografica, e l’ultima guerra lo ha dimostrato.

Stia tranquillo, dunque, il Governo che quei soccorsi che noi abbiamo ricevuto perché corrispondevano all’interesse di chi ci soccorreva, noi continueremo sempre a riceverli sino a che a coloro che ce li apprestano converrà di soccorrerci, mentre…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Peccato che lei non sia Ministro del commercio estero, perché in questa maniera mi tranquillizzerebbe molto.

LUCIFERO. Lei non me lo ha proposto, onorevole De Gasperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma se avessi saputo…

LUCIFERO. In ogni modo non avrei accettato.

E sarà soltanto il giorno in cui io vedrò della vera beneficenza internazionale che non si presenti sotto l’aspetto dei Liberators che vengono a bombardare popolazioni inermi, che io ci crederò. Per ora, ho visto un solo fenomeno di beneficenza internazionale: che non si sono adoperati i gas per la sola ragione che si è avuto paura che li adoperassero anche gli altri. Non altrimenti che per questo ci si è astenuti dal farne uso.

Ma veniamo alla politica lunga. In fondo, qual è la nostra maggiore aspirazione? Che questo documento che io, come italiano, mi rifiuto di chiamare Trattato – e mi rifiuterei ugualmente di chiamarlo Trattato, anche se fossi cittadino di uno dei Paesi che ce lo impongono, perché sono una persona per bene – susciti in noi una sola speranza e una sola aspirazione: la revisione. È fuor di dubbio. E allora un documento imposto e da noi non ratificato non rappresenta per noi un’obbligazione, di modo che noi potremo e dovremo eseguirlo soltanto tutte le volte che ne saremo richiesti, là e quando ne saremo richiesti.

Ma una volta ratificato invece questo Trattato, è evidente che noi dovremo eseguirlo anche, certe volte, là dove non ne saremo richiesti.

E allora onorevole Sforza, perché dobbiamo dunque ratificarlo? Questa è stata ed è la richiesta che le viene formulata da tutte le parti, onorevole Sforza. È evidente infatti che noi tutti possiamo dichiararci disposti anche a farci amputare un braccio quando sappiamo che esso è preda della cancrena che potrà arrivare alla spalla o anche ucciderci: ma se questa necessità non c’è, perché pregiudicare la nostra politica futura, senza che si abbia nulla nella politica presente che possa giustificare questo avvenire di inferiorità e di umiliazione?

Si è parlato, in quest’Aula, onorevoli colleghi, di machiavellismo. Con interpretazioni varie è stato fatto un po’ qui il festival del Machiavelli, così come è stato fatto anche un po’ del resto, il festival della Repubblica. Ma il Machiavelli, che l’onorevole Nitti ha liquidato, quasi così come Wells ha liquidato Napoleone nella «Piccola storia del mondo» senza neppure nominarlo, che cosa è in definitiva?

Quando io sono andato a leggere il Machiavelli – anche a scuola me lo avevano fatto leggere, ma io confesso che non ci avevo capito niente – quando, dicevo, io me lo sono andato a rileggere per conto mio e l’ho capito, mi son reso conto che è accaduto un po’ al Machiavelli quello che è successo a Carlo Marx, il quale non era per niente marxista: nessuno, infatti, ha letto Il Capitale, nessuno lo conosce, dunque, Marx, ma tutti ne parlano. (Commenti).

ROMITA. Non esageriamo.

LUCIFERO. Io l’ho capito così; poi, naturalmente, ognuno lo capisce a suo modo.

Per parlare di machiavellismo, e lasciare da parte il Segretario fiorentino, dirò ad ogni modo che c’è un solo atto di machiavellismo, nel senso più deteriore – se così si può dire – che noi possiamo commettere: ed è ratificare; perché noi ratificheremmo, onorevole Sforza tutti unanimemente decisi, alla prima occasione, di evitare di continuare ad applicare questo Trattato che ci viene imposto con la violenza e che noi non sentiamo assolutamente nostro dovere di rispettare. Quindi, la ratifica sarebbe anche un atto di disonestà politica, perché noi cominceremmo fin dal primo giorno a cercare di evitare di applicarne le clausole, e ciò non solo perché questo sarebbe un atto di ribellione della nostra volontà, ma perché sarebbe una necessità di vita del nostro popolo, insopprimibile.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Non c’è nulla di sleale, perché lo diciamo tutti.

LUCIFERO. E allora, perché lo ratifichiamo, se siamo tutti d’accordo nel cercare di non rispettarlo?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Perché ci sono delle ipocrisie giuridiche!

LUCIFERO. È una disonestà ingenua, ma è sempre una disonestà; è un machiavellismo che si capisce – perché Machiavelli c’è anche in questo – ma io lo ripudio; e il machiavellismo è di natura particolare in questa situazione.

Io penso che, evidentemente, noi non possiamo non eseguire; non possiamo non eseguire, perché ce lo fanno eseguire per forza. Il che è un argomento convincente e definitivo. Ma possiamo eseguire a richiesta. Noi possiamo dichiarare questo e dare facoltà al Governo, fin da oggi, di emanare tutti quei provvedimenti che siano necessari all’applicazione delle clausole del cosiddetto Trattato, ove esso ne sia richiesto, e ove esso lo ritenga necessario. E allora, forse, accadrà – e nel tempo sempre più spesso – che nessuno ci richiederà di applicare quelle clausole, e potremo fare a meno di applicarle, proprio perché non avremo ratificato.

Questi sono argomenti, direi, di politica spicciola; ma la politica è in fondo spicciola. I grandi moventi che sono dietro di essa cercano un’altra voce e trovano altre espressioni, non nei documenti delle Cancellerie, ma in quelli che sono i grandi movimenti dell’anima popolare, perché anche i sentimenti dei popoli, oltre ai loro interessi, sono una realtà politica. I sentimenti dei popoli molto spesso sono una realtà politica talmente forte che riescono a far fare ai popoli quello che nessun altro realismo riuscirebbe a far fare loro.

E il sentimento del popolo italiano è di non ratificare. La stessa indifferenza che in certi settori si vede verso questo gravissimo problema significa aver dato il problema già per scontato. La stessa indifferenza che si vede in quest’Aula semivuota, dove tutta la responsabilità della Nazione è assommata, dimostra che in un certo senso il Trattato è scontato anche qui. Io mi ricordo quando discutemmo la legge del marzo 1946, alla Consulta – gli amici che erano con me alla Consulta se ne ricorderanno anch’essi – in un’Aula vuota, meno che per l’orazione finale dell’onorevole Orlando, in cui era più l’uomo che richiamò l’attenzione che la legge. Ed io me ne stupì allora, ed oggi non me ne stupisco più, perché, in fondo, quella legge che doveva essere la garanzia di tutti, la Costituzione interlocutoria, non è durata più di un anno ed è già stata annullata.

Il Trattato è stato annullato non solo nella nostra coscienza; il Trattato è già annullato in quelli che sono gli sviluppi della politica internazionale, ai quali questo Trattato comincia già ad essere un ostacolo; e si sente già che è un ostacolo; e, questo è un punto, nel quale sono d’accordo con l’onorevole Sforza: questo Trattato è del secolo decimottavo, e la politica internazionale si muove nel secolo ventesimo, e si muove verso il ventunesimo; e un trattato del secolo decimottavo non è necessario firmarlo, perché muore da sé; anzi, è già morto.

Ma, però, c’è nel sentimento nostro qualche cosa da rilevare, perché – ripeto – il sentimento è realtà. Nel più grande libro che sia mai stato scritto, è detto ad un certo punto: et diviserunt vestimenta mea.

Quest’Italia che ha dato a tutto il mondo il diritto di Roma e la luce della civiltà cristiana, e soprattutto il sentimento della coscienza cristiana, e che forse perché è stata tutta tesa in questo sforzo, è stata l’ultima a raggiungere l’unità nazionale, l’ultima a raggiungere i suoi legittimi confini; questa Italia viene oggi spezzettata e mutilata. E questo noi non lo possiamo mettere in discussione, perché quando si parla delle nostre Colonie domandate come sono trattati gli italiani che vi sono rimasti: gli italiani sono stati parificati agli indigeni, un italiano non può cedere ad un italiano la propria azienda. Questa è la situazione degli italiani nelle nostre Colonie! E qualsiasi cosa possiamo decidere e checché noi possiamo deliberare, oggi più che mai la Patria rimane lì, non per nazionalismo interpretato in un senso o in un altro, ma perché la parola Nazione ha un significato etnografico, culturale, geografico che esiste e rappresenta una unità, che non si può dopo secoli frazionare senza creare un dislocamento della Patria in quelle zone che ne sono state staccate! E la Patria ha oggi risposto nei cinquanta giovani di Briga e di Tenda che tutti, senza eccezione, sono accorsi a prestare servizio nell’esercito italiano! (Applausi). La Patria vi risponde dai campi dei profughi, dove questi disgraziati che hanno trasformato il deserto in giardino vivono nell’anelito di tornare in quella terra africana da essi fecondata, e che, per la loro assenza, sta tornando da giardino a deserto. La Patria vi risponde dai leoni mutilati della Dalmazia o dalle foibe del Carso o da Trieste due volte oggi capitale d’Italia, non per vuota retorica, ma perché essa simboleggia ancora come ieri per l’Italia questo senso dell’unità nazionale che è realtà storica ed umana.

Io credo che contro tutto questo noi non possiamo ratificare. Questa divisione dei nostri vestimenti da parte di chi ha dimenticato i due grandi insegnamenti del diritto di Roma e del Cristianesimo, noi non la possiamo accettare! Noi che abbiamo dato l’uno e l’altro al mondo, non possiamo ratificare! E del resto, se si ratificasse, se si commettesse anche quest’ultimo errore… Ebbene, faticheremo di più, sarà più difficile, ci metteremo più tempo, la strada sarà più ardua e più lunga, ma risorgeremo lo stesso! (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la onorevole Rossi Maria Maddalena. Ne ha facoltà.

ROSSI MARIA MADDALENA. Onorevoli colleghi, il dibattito sul Trattato di pace ha assunto un carattere particolare, in quanto ha oltrepassato i confini riguardanti strettamente l’opportunità della ratifica per investire tutta la politica estera italiana. E questo è comprensibile e giusto, dal momento che una pace duratura non si stabilisce solo attraverso un Trattato, ma soprattutto attraverso una politica di riconciliazione e di collaborazione con gli altri popoli. Di questa politica in particolare l’Italia ha bisogno, se vuole ricostruire in piena libertà il proprio destino, se vuole riacquistare il posto che le spetta fra le Nazioni libere e democratiche.

Ecco perché noi non dobbiamo, soprattutto in questo momento, chiudere gli occhi di fronte ai focolai di guerra che sussistono in Europa. Legittima è la preoccupazione di coloro che si chiedono come si muove, come si muoverà il nostro Paese in mezzo a questi focolai, come agirà per evitare di attizzarli, per contribuire anzi a spegnerli. Perché noi non dobbiamo pensare di poter ricostruire la nostra vita nazionale attraverso le sorti di una guerra: qualunque guerra non sarebbe che la nostra rovina ed il nostro annientamento.

In Europa da anni ormai, onorevoli colleghi, una guerra è in atto in Grecia ed in Spagna e noi non possiamo esimerci dal guardare con inquietudine a questi due paesi.

Le vicende della guerra civile che da tre anni imperversa sul suolo greco sono troppo note perché io debba ricordarle qui oggi: l’eroismo, i sacrifici affrontati da questo popolo che lotta per la sua libertà, le migliaia di vittime, il sacrificio inesausto della gioventù greca, commuovono i popoli liberi di tutto il mondo.

Note sono le vicende del plebiscito organizzato dal governo di Tsaldaris, grazie al quale, per la terza volta nei cento anni della sua indipendenza, alla Grecia è stato imposto con l’aiuto delle armi britanniche il dispotismo di un monarca straniero, monarca che, questa volta, si ripresentava al popolo greco soprattutto col precedente di un’azione compiuta, e quale azione: l’instaurazione della dittatura fascista di Metaxas.

Il ritorno della monarchia ha consolidato il fascismo in Grecia. La guerra civile si è riacutizzata, servita mirabilmente dallo zelo del generale Napoleone Zervas, il quale ha personalmente assunto il comando delle truppe addette al rastrellamento delle unità dell’EAM, approfittando tra l’altro dell’esperienza acquisita allorché agiva al servizio dei nazisti contro le truppe dell’Esercito di liberazione.

Nessun paese che sia veramente interessato al mantenimento della pace nel mondo può oggi guardare al dramma del popolo greco, ammirarne l’eroismo, ma pensare che ciò non lo riguardi. Il persistere del regime fascista ad Atene costituisce un pericolo per la sicurezza e per la pace di tutti i paesi.

Lo dimostrano le continue provocazioni armate ai confini albanese, bulgaro, jugoslavo, provocazioni culminate recentemente nello sconfinamento di una intera banda fascista greca in territorio bulgaro, col preteso diritto arrogatosi da taluni comandanti fascisti greci, di perseguire le loro vittime anche oltre i confini nazionali. La dimostra la frenetica campagna di eccitazione alla guerra condotta dai giornali di Atene, i quali sono giunti ad affermare che l’Albania deve scomparire.

Quale è l’atteggiamento del nostro Governo di fronte a questa situazione, gravida di minacce per la pace dei popoli?

Se consideriamo l’atteggiamento degli organi di stampa che sono i portavoce dei circoli responsabili della politica italiana, siamo talvolta tentati di chiederci se questi organi di stampa si siano costituiti in agenti del Governo di Atene. Essi recano spesso notizie false, grossolanamente presentate, circa la presenza in Grecia di presunte brigate internazionali, notizie che lo stesso Governo di Atene è costretto a smentire. Senza contare i pretesi complotti comunisti che, secondo certa nostra stampa, giustificherebbero l’azione repressiva del Governo greco come una misura necessaria contro le azioni di gruppi senza legge.

In realtà, la lotta che il governo fascista greco conduce con l’appoggio militare e finanziario straniero non è diretta contro i comunisti soltanto, benché questi siano anche in Grecia all’avanguardia nella lotta per la libertà del loro paese, ma è diretta contro tutto il popolo greco. Lo dimostrano anche le recenti dichiarazioni del liberale Sophulis, già Primo Ministro, il quale, denunciando la presenza di ben 8000 liberali nelle carceri greche, confermava il suo netto rifiuto a partecipare ad un governo che sia solo un ampliamento dell’attuale coalizione di destra e sollecitava libere elezioni per la Grecia.

Noi deploriamo il tono solidale di certa stampa italiana per il governo fascista di Atene. Tanto più quando gli indirizzi di questa stampa non possono non essere considerati indicativi della politica del Governo. Un indirizzo simile non può avere, agli occhi del popolo italiano e di tutti i popoli liberi, che un significato soltanto: la solidarietà del Governo italiano coi provocatori di guerre.

Noi deploriamo tutto questo, in linea generale, ma qualcosa in particolare vorremmo chiedere al Ministro degli esteri: circolano voci di un patto di alleanza che dovrebbe essere stretto tra l’Italia da una parte e la Grecia e la Turchia dall’altra. Noi non sappiamo cosa ci sia di vero in queste voci ma abbiamo, credo, in questa sede, il diritto di chiedere al nostro Ministro degli esteri se queste voci sono vere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, sono false!

ROSSI MARIA MADDALENA. Meglio così. Infatti, una alleanza con la Grecia e con la Turchia, caldeggiata da Governi stranieri, costituirebbe oggi, a nostro avviso, una grave minaccia alla nostra indipendenza nazionale.

Informazioni corrono sulla stampa internazionale a proposito di certe clausole segrete del recente trattato stipulato tra il governo fascista di Atene e gli Stati Uniti, in base alle quali la Grecia cederebbe tra l’altro all’America basi navali come quella di Mitilene e basi aeree in Tessaglia ed in Macedonia. Se queste voci possono trovare difficilmente conferma, vi è però qualcosa che sarebbe molto difficile smentire: il trattato testé concluso tra il governo fascista greco e gli Stati Uniti pongono la vita nazionale greca sotto il completo controllo americano.

Ebbene, a che cosa mirerebbe, in queste condizioni, una nostra alleanza con il governo fascista greco? Forse a farci condividere le sorti della Grecia, a trasformare cioè il nostro Paese in una colonia soggetta economicamente e politicamente a quelle stesse Potenze che questa alleanza caldeggiano? Il risultato non sarebbe, in questo caso, che gli stranieri porterebbero anzitutto in Italia, come la portarono in Grecia, la guerra civile?

Oppure lo scopo di tutto questo è forse, come è dimostrato chiaramente dagli avvenimenti greci e turchi, di far partecipare l’Italia alla guerra sognata e attivamente preparata da certi circoli nazionali ed internazionali, contro l’U.R.S.S. e contro i popoli dell’est?

Questi pericoli esistono nella situazione attuale. Per evitarli, per evitare all’Italia nuove sciagure, il Governo ha il dovere di precisare il suo atteggiamento verso i responsabili dell’attuale tragica situazione greca. Per evitarli, il Governo deve manifestare chiaramente la sua volontà di pace, la volontà di non solidarizzare con i provocatori di guerre, e soprattutto la volontà di non seguirli sulla strada che porterebbe fatalmente all’asservimento della Nazione agli interessi di quelle forze che preparano la guerra.

Ci si potrà obiettare che l’Italia ha bisogno, in questa sua faticosa rinascita, dell’amicizia e della solidarietà dei popoli. Ne conveniamo. Ma la collaborazione fra i popoli non si realizza soltanto attraverso l’azione diplomatica. Le amicizie vere sono quelle che trovano una reale rispondenza nella coscienza e nel sentimento delle masse popolari.

Queste amicizie noi potremo stringerle con gli altri popoli, nella misura in cui dimostreremo che ci siamo liberati dei residui del fascismo, che non vogliamo aver più nulla a che fare con fascisti, né italiani né d’altri paesi.

Oggi tutti i popoli liberi guardano alla Spagna. Ebbene, anche in questo caso è legittima la domanda: la nostra politica verso il Governo franchista è tale da meritarci la simpatia dei popoli liberi? Ma c’è di più. Il perdurare del regime franchista in Spagna è una minaccia permanente per la pace, minaccia che risiede nella natura stessa del regime, come noi sappiamo per esperienza. E del resto, i capi franchisti non hanno mai mascherato i loro propositi, così come non li mascherano coloro che nella Spagna franchista hanno trovato asilo e sognano di farne la base di una crociata fascista attraverso l’Europa.

Intanto le masse popolari spagnole, le sole veramente interessate in Spagna al mantenimento della pace, continuano a subire il regime poliziesco e terrorista del generale Franco. Ma il popolo spagnolo, dopo dieci anni di lotta, non cede. Il 6 luglio Franco ha organizzato con ogni cura il suo plebiscito, eppure il 40 per cento degli spagnoli si sono astenuti, nonostante le severe misure di repressione adottate, nonostante sia tuttora in vigore in Spagna la legge del 1907, secondo la quale l’astensione è considerata un delitto. Nello scorso anno si registrarono 160 scioperi; più di 100.000 operai parteciparono allo sciopero delle industrie tessili in Catalogna; 60.000 operai hanno manifestato il 1° maggio di quest’anno; 5000 operai tessili a Matoro. Oltre alle azioni svolte dai partigiani spagnoli.

A queste azioni Franco risponde come è nel costume dei regimi fascisti. Il 19 aprile sei comunisti, accusati di aver avuto rapporti con i guerriglieri, sono fucilati; il 26 aprile tre guerriglieri sono fucilati a Oviedo; il 29 aprile Antonio Criado e Anacleto Celada, imputati di far parte di bande di guerriglieri, sono trucidati a Madrid; il 7 maggio Bernardino Esposito, imputato di aver distribuito stampa comunista, viene fucilato a Madrid. Sempre nuovi anelli si aggiungono alla lunga catena di crimini del fascismo.

 Ma il popolo spagnolo resiste e lotta. Prima e durante la guerra Franco subordinava gli interessi nazionali a quelli dell’Asse; intanto il livello di vita delle masse popolari spagnole cadeva da trenta a quaranta volte, il valore della peseta si riduceva a circa un ottavo. L’agricoltura è in completa decadenza: da paese che disponeva di risorse alimentari bastanti interamente alle proprie necessità, la Spagna è ora semi-affamata, nonostante le importazioni. Cosa fanno gli altri paesi, che fa l’Italia per aiutare la Spagna a liberarsi dal fascismo? Il popolo spagnolo avrebbe già riconquistato la propria libertà, se i paesi che condannarono il regime franchista in seno all’O.N.U. avessero condotto una concreta azione, se non vi fossero paesi che intrattengono relazioni economiche con la Spagna di Franco.

Che fa il Governo italiano? Ha richiamato, è vero, l’Ambasciatore da Madrid, ma si dice che sia talvolta tentato di rimandarvelo. A quale scopo? A suo tempo si vollero giustificare i nostri rapporti con la Spagna con i vantaggi economici che ne avremmo ricavati, e si concluse anche un accordo commerciale, del quale la stampa di destra si incaricò di magnificare le prospettive miracolose: si fece persino il calcolo dei litri d’olio e delle scatole di sardine che sarebbero toccati a ciascun italiano. Ora risulta che l’accordo commerciale non è stato eseguito e si parla di un nuovo accordo. Perché, signor Ministro, si firmano nuovi accordi, se i vecchi non sono stati eseguiti?

Il comportamento del Governo legittima il sospetto che esso agisca in modo da tornare gradito ai circoli interessati al rafforzamento delle basi internazionali della reazione, ma non nell’interesse nazionale. L’interesse nazionale vuole che il regime franchista sia isolato. L’Italia, nazione pacifica, non ha interesse ad appoggiare un regime che può da un giorno all’altro scatenare una guerra.

È giusto e doveroso, da parte del Governo, rassicurare il popolo italiano, rassicurare quest’Assemblea dove siedono rappresentanti del popolo italiano che coraggiosamente lottarono a fianco dei repubblicani spagnoli, come Luigi Longo, Ilio Barontini, Pietro Nenni, Randolfo Pacciardi, Francesco Leone, Teresa Noce e tanti altri; quest’Assemblea dove siedono uomini come Michele Giua, rinchiuso dai fascisti nell’orrendo carcere di Civitavecchia, mentre il suo figlio prediletto moriva davanti a Madrid.

Il valore dei combattenti antifascisti italiani, che suggellarono col loro sangue il legame fraterno tra l’Italia democratica e la Spagna repubblicana, è valso a riscattar e una delle pagine più turpi del ventennio fascista. Il Governo italiano ha il dovere di rassicurare questi combattenti circa i rapporti che esso intende intrattenere col Governo del generale Franco.

Perseguire una politica d’intesa con questo Governo sarebbe contrario ai nostri interessi nazionali e ci alienerebbe le simpatie dei popoli liberi.

Solo a fianco e con l’aiuto di questi, l’Italia, potrà consolidare il proprio regime democratico, risanare le proprie ferite e contribuire alla difesa della sicurezza e della pace di tutti. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa e verrà ripresa alle 21.30. Sono iscritti a parlare nell’ordine, gli onorevoli Labriola, Calosso, Bastianetto e Bertone.

(La seduta, sospesa alle 20.10, è ripresa alle 21.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Labriola, il quale ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico, lo approva e passa all’ordine del giorno».

Ha facoltà di parlare.

LABRIOLA. Io parlo per l’ora e per il numero dei presenti nelle peggiori di tutte le condizioni.

La discussione, come era facile prevedere e forse era anche utile che così fosse, è diventata una discussione generale tanto circa i rapporti che il nostro Paese può avere coi vincitori di questa guerra – vincitori che taluno chiama con un senso evidente d’ironia «liberatori» – quanto nello stesso tempo per esaminare alcuni indirizzi della politica estera che il Paese potrebbe seguire.

Ripeto è appunto utile che questa discussione una buona volta si faccia, perché sinora di politica estera del nostro Paese qui non si è parlato. La questione legale della ratifica del Trattato diventa secondaria in queste condizioni. Gli orientamenti di politica estera, il significato storico del periodo che noi e gli altri membri della società europea attraversiamo, questo può essere appunto un soggetto della discussione, e lo è diventato in effetti. Ebbene, allora permettetemi di fare qualche osservazione a questo proposito.

Non vi è dubbio che gli ultimi cinque anni, e meglio ancora gli ultimi otto anni, quelli che vanno dal 1939 al 1947 possono considerarsi ad un dipresso e, salvo una rettifica che farò di qui ad un momento, gli anni dell’agonia italiana, ma non solo dell’agonia italiana, sibbene di un disordine che prelude all’agonia anche in altri paesi.

Infine, nessuno sfugge alla crisi che il nostro Paese, anzi la civiltà occidentale tutta e forse il mondo intero – parlando del nostro piccolo pianeta – attraversa, e si comprende che anche gli americani abbiano la loro parte nella considerazione di questa crisi. Giacché si è parlato di cataclismi che hanno potuto seguire altri movimenti tellurici della storia politica del nostro povero pianeta, non mi pare che se ne possa parlare negli stessi termini nei quali presentemente noi possiamo parlare della situazione nostra.

La Rivoluzione francese e quello che ne seguì, è nulla di fronte a ciò che ci accade adesso. Del resto la crisi anticristiana aveva toccato soltanto la Francia e qua e là alcuni spiriti eletti del mondo intero, Goethe, Shelley, Byron e il nostro Foscolo, e già si presentiva Leopardi. Ma in realtà le masse si strinsero, subito dopo la rivoluzione, intorno ai campanili ai quali esse erano avvezze ed alle tradizioni monarchiche che avevano fatto il loro corso nella storia. L’indomani della Rivoluzione Francese fu forse uno degli indomani più pieni di vita del nostro mondo occidentale. Cadeva certo l’artigianato e sorgeva la grande industria. James Watt aveva fatto la sua scoperta della macchina a vapore; tutto era nuovo ed una vita intensa e piena di vigore si annunciava. Il secolo V è forse l’unico secolo che ha una analogia col tempo nostro. Nel V secolo l’Impero Romano era crollato; le distruzioni si aggiungevano alle distruzioni; giorno per giorno, qualche brandello della civiltà del mondo cadeva; qualche centro di cultura si spegneva. Eppure, rimasero i conventi, e la regola di S. Benedetto (purtroppo anche questo segno della medievale attività è andato distrutto) se insegnava agli uomini come si prega, insegnava anche come si lavora. Il tempo nostro non suggerisce nemmeno questa illusione; e se oggi qualcuno stesse qui a dire che le cose del mondo nostro andranno in un senso anziché in un altro, ognuno rimarrebbe scettico. Suppongo che nemmeno l’onorevole Togliatti ci potrebbe dire di che cosa sarà fatto il nostro indomani.

E gli americani sentono il contraccolpo della situazione generale. Si capisce che per essi la guerra è stato il più grande affare che essi abbiano mai fatto sin qui. In molti casi ha ragione Lucano quando detta: multis utile bellum. Una statistica americana recente degli anni che vanno dal 1939 al 1943, dimostrava che il reddito medio per abitante dell’America, che era già il primo del mondo occidentale, è cresciuto tre volte; gl’impianti industriali si sono quadruplicati e in certi casi si sono perfino quintuplicati. Che cosa sia accaduto dal 1943 fino ai giorni nostri non si può dire; si può soltanto immaginare che la ricchezza del Paese sia sempre più intensamente cresciuta. Non so dove ho letto, proprio in questi giorni, una curiosa qualificazione di un simile fatto, e un avverbio dice che tutto. Mi pare appunto, in un giornale o in una rivista comunista, si diceva che la ricchezza dell’America è «spaventosamente» cresciuta. È proprio così. Fa parte del paradosso dei tempi dire che. una ricchezza può essere cresciuta in modo spaventoso. Gli americani ne sono turbati. Che cosa occorre fare?

Gli americani giudicano per analogia. Essi nei loro giudizi sono sempre un po’ primitivi. Qualche volta, per le strade di Bruxelles, io e Sforza, nelle nostre ordinarie peregrinazioni, ci trovavamo d’accordo nel giudicare i diplomatici americani. Non so se su questo punto il conte Sforza abbia mutato. Il nostro giudizio non era estremamente lusinghiero per i diplomatici americani; ma forse ora il conte Sforza può avere mutato idea. Io resto dell’avviso di prima. In quelle peregrinazioni brussellesi, dolcissime alla mia memoria, Sforza ed io ci trovavano di accordo nel giudicare non solo gli americani, ma notevoli fatti della nostra stessa vita nazionale.

Mi fermo qui per non apparire concorrente dell’onorevole Nitti nell’accenno a persone o circostanze; per mia fortuna non ho buona memoria e posso lasciare cadere questa parte di varietà diletta ai sistemi oratori dell’onorevole Nitti. Ritornando agli americani, essi nella loro semplicità sono un po’ primitivi; e forse, questa è una delle ragioni della loro forza. Per il momento essi giudicano questa situazione un po’ per analogia con quella del 1929. Del resto, gli uomini non possono che fare degli apprezzamenti per analogia.

Nel 1929 scoppiò quella grande crisi industriale, quella grande depressione industriale la cui storia si scrive ancora adesso; ora, se ne aspetta un’altra. Più precisamente, dopo l’altra guerra ci furono due sovversioni industriali che si seguirono, con ritmo perfettamente contradittorio. Dell’una è rimasto un documento molto interessante, una grossa inchiesta del Bureau International du Travail. Allora, il problema si presentò in senso inverso a quello del 1929, e si voleva comprendere perché i prezzi salissero con tanta forza e diventassero così pericolosamente alti: l’inchiesta è voluminosa – si tratta di sette o otto volumi editi dal B.I.T. – ma non si riuscì ad arrivare a conclusioni concrete.

Poi, sopraggiunse la depressione industriale del 1929, che ebbe carattere esattamente opposto: era una crisi di bassi prezzi. Le industrie dovevano rinunziare a svilupparsi, a tenere aperti gli esercizi; i fallimenti e le bancarotte si susseguivano, perché i prezzi non riuscivano più a corrispondere ai costi, e questi risultavano più alti dei prezzi. Gli americani hanno un simile ricordo nella testa e ne vorrebbero ovviare la ripetizione.

Da qui, il piano Marshall, e poi, il loro intervento nelle cose economiche europee, in quest’ultimo periodo.

È singolare come gli americani siano diventati improvvisamente marxisti, a loro insaputa, si capisce; i colleghi, qui, sulla mia destra ne dovrebbero essere entusiasti. Si attribuisce a Marx l’opinione che le crisi dovessero di volta in volta intensificarsi con ritmo crescente, per sboccare in una depressione generale, che avrebbe reso impossibile la continuazione del movimento industriale, anzi della stessa società capitalistica.

Adesso, gli americani sono entrati in una preoccupazione analoga a quella definita dal marxismo. In parentesi è un marxismo istintivo al quale, senza volerlo, si volgono tutti, anche gli uomini che vengono da una preparazione militare, come il generale Marshall.

Gli economisti non sono affatto di questa opinione, sono molto più ottimisti in materia di crisi e delle crisi non si preoccupano gran che. Gli economisti hanno sempre detto che le crisi sono fenomeni pendolari ed inevitabili dell’economia. Ad ogni modo le crisi, si producono specialmente in una organizzazione privata della proprietà e della industria: in essa ognuno produce per conto proprio, e nella gara della concorrenza, inevitabilmente si produce più di quello che il mercato non possa assorbire e quindi lo smercio risulta in ultimo bloccato.

Ma la crisi è necessaria per risolvere questa ed altre difficoltà nate dell’economia, da cui, poi, la curiosa conclusione che ne traeva il Pareto, cioè che se una crisi si potesse evitare, non bisognerebbe farlo, per non impedire il risanamento dell’industria e della vita dei traffici, per non fare ostacolo ai progressi della tecnica.

Gli economisti, in genere, in questa materia sono ottimisti, da cui un certo loro apparente cinismo, che li rende indifferenti anche a determinate manifestazioni deteriori della vita. E c’è qui del Machiavelli, che studiava i fatti e non si preoccupava del valore morale di essi, piaccia o non piaccia all’onorevole Nitti: ma questo è il sistema del pensar positivo. E perciò è così moderno il Machiavelli. Gli economisti americani queste cose le sanno, ma ciò non toglie che i comuni americani amerebbero volentieri la ricchezza senza le crisi, e lo sviluppo tecnico della industria senza timori per il loro avvenire: è un po’ troppo!

Noi esaminiamo queste cose da un punto di vista europeo, mentre invece per andare al fondo delle cose, dovremmo esaminarle da un punto di vista americano. Notate che l’America si trova, rispetto all’Europa, in una situazione singolare dal punto di vista dell’organizzazione sociale politica. L’America è stata infatti un organismo economico sin dai primi giorni del suo farsi: lo Stato è venuto appresso, cioè l’inverso dell’Europa.

Possiamo ben dire dunque che, per quello che riguarda l’America, si sia determinata una legge di evoluzione precisamente inversa a quella dell’Europa. Noi siamo il continente dello Stato che ci ha premuto e ci preme da tutte le parti; avviene quindi che la più grande parte delle nostre manifestazioni economiche è diretta dallo Stato ed è in funzione di esso. In America invece si è sempre, ed a ragione, detto che sono gli affari a dirigere lo Stato e non questo a dirigere quelli.

L’America, è parso a qualche scrittore, non uno Stato: essa non è che un’organizzazione particolare a sé, coacervo d’istituti, come la stessa Marina militare, che vivono per conto loro e sono più o meno collegati allo Stato: la Banca, i Trust, la polizia, e così via, viventi ciascuno, per conto proprio. La stessa difesa di classe è un affare privato dei capitalisti. Quando il capo sindacale non va, si manda a prelevarlo a casa, si rotola nella gomma liquida, s’impiuma, lo si fa correre a sferzate nelle vie, e poi s’impicca, allo spiccia, senza fascismo, e la cosa è regolata. Si fa la stessa cosa con i negri, un po’ più all’ingrosso, e si linciano secondo necessità.

Infine l’America si è costituita come economia molto prima che fosse costituita come Stato, onde il suo imperialismo ha avuto un carattere differente dall’imperialismo europeo: l’imperialismo americano è stato economico – né poteva non essere economico, appunto perché la costituzione essenziale dell’America era tutta economica. L’imperialismo americano è in realtà la concentrazione industriale e commerciale la quale si serve di mezzi dell’autorità statale per imporre i propri prodotti sul mercato esterno. Creato il mercato esterno, tende poi a difenderlo, spingendo lo Stato a proteggerlo con i mezzi che son suoi.

Questa è stata la forma elementare dell’imperialismo americano sin dal primo giorno, sistema che ha portato con sé tante conseguenze. L’America centrale ne sa qualche cosa, e tutti i casi di conquista imperialistica subiti dalle varie repubblichette dell’America centrale hanno avuto la medesima fisionomia. L’America aveva bisogno di quei territori, l’America aveva bisogno di eliminare determinate concorrenze, l’America si voleva prendere parti di territorio altrui, ed ha fatto il comodo proprio nel Nicaragua, a Panama, a San Salvador, e nelle altre misere repubblichette dell’America centrale, dove già Maya e Aztechi avevano sperimentata la feroce avidità del colonizzatore occidentale.

Molte volte gli americani osano dire che essi sono immuni da imperialismo. C’è modo di intendersi in tutto questo: se si tratta di quella forma di imperialismo che è statale, militare di grandi proporzioni, evidentemente, l’America non l’ha voluta. Del resto, sarebbe mai possibile che un Paese si industrializzi nelle proporzioni in cui si è industrializzata l’America, che un Paese il quale ha avuto questo enorme accrescimento di ricchezza e un movimento economico così intenso, potesse sfuggire all’ultima fase dell’evoluzione storica di questo capitalismo, che è l’imperialismo?

Tuttavia cotesto imperialismo ha avuto una forma limitatamente economica, cioè non militare e di conquista, almeno in grosse proporzioni. L’America avrebbe potuto continuare così; il cosiddetto isolazionismo americano non era che un imperialismo economico americano, un imperialismo non destinato a rompere le linee e i confini del continente americano, rinchiuso nello spazio americano.

L’America degli Stati Uniti aveva dinanzi a sé l’America centrale, subordinatamente l’America meridionale. Ed il primitivo imperialismo poteva rispettare la stessa indipendenza formale, puramente esterna, dei paesi dove essa si esercitava. Tutto questo è durato fino a ieri, ma l’albero del bene e del male tenta un po’ tutti. Anche l’America ha volato assaggiare il frutto dell’imperialismo militare, statale ed ha fatto due guerre. Alla prima non riuscì a dare – quanto alla propria costituzione sociale e allo stato medesimo – una forma imperialistica. Wilson non ebbe fortuna sotto questo aspetto. L’America, tornando all’isolazionismo, non tornò in fondo che al suo storico e connaturato imperialismo economico.

Ma ora l’America ha fatto una grande guerra, l’America ha impegnato mezzi formidabili per raggiungere lo scopo determinato di conseguire una vittoria, in gran parte mercé l’uso di mezzi tecnici e meccanici. L’America si è militarizzata, più di qualsiasi altro Stato del mondo e pare ci provi gusto a militarizzarsi; è perfettamente naturale che in questa fase della sua evoluzione storica, essa passi dall’imperialismo economico all’imperialismo statale e militare. Un orientamento istintivo questo, perché non credo che gli americani si rendano preciso conto di ciò che accade ad essi ed agli altri. Ogni popolo vive delle sue tradizioni e l’America vive della tradizione di essere uno Stato democratico e liberale in sommo grado e perciò alieno da ogni imperialismo militare rivolto alla conquista territoriale. Così un giorno gli americani potranno pretendere che non sono stati imperialisti mai e che non hanno mai tentato di offendere la sovranità di un altro Stato.

Oggi l’America combatte per uno scopo che è inutile dissimularsi: fare dell’Europa un enorme mercato e nello stesso tempo fare dell’Europa, degli Stati europei, i debitori solidalmente responsabili della sola America. Guadagnare un mercato di grandissime estensioni è il primo scopo della politica americana.

Il secondo scopo è di ottenere che questi vari Stati rispondano collettivamente degli obblighi che ciascuno di essi ha assunto verso gli Stati Uniti. Io non escludo la buona fede di questi ultimi, io non escludo che essi vogliano venire in soccorso dell’Europa; sono tanto semplicistici e un po’ fanciulleschi da immaginarselo sul serio. Ad ogni modo, se essi vogliono soccorrere l’Europa, intendono farlo mettendo le spalle al sicuro da ogni possibile inconveniente. Il massimo di essi è che i debitori non paghino. Ma se si crea la solidarietà degli Stati Europei che rispondano l’uno per l’altro, questo sarebbe precisamente ottenere che tutti gli Stati europei rispondessero in solido verso la Repubblica Americana dei fitti o dei prestiti che saranno fatti in misura più o meno variabile. Pongo senza altro questo episodio nell’insieme della particolare evoluzione storica che ha subito l’America passando da uno stato espansionista di pura estensione economica ad uno stato imperialista, come è oggi. Che gli americani non si rendano conto di certe possibili conseguenze dell’evoluzione che essi attraversano, non fa meraviglia. Ce ne siamo resi conto noi stessi nei nostri viaggi americani e se ne è reso conto qualche storico e qualche attento studioso. Anche in America vi sono persone che sono in grado di rilevare quella che può essere la conseguenza di una simile trasformazione politica del paese. D’altra parte, gli americani in gran parte credono con perfetta ingenuità di essere i benefattori del genere umano, i negri non esclusi. Il vero è che vorrebbero risparmiarsi una crisi analoga a quella 1929; in secondo luogo che i paesi europei vogliono rendere il servizio di essere tutti solidalmente responsabili verso il creditore americano. Quello che si potrebbe dire è questo, che gli americani evitino di cadere in qualche massiccio errore e non si facciano illusioni. Tutti gli imperialismi terminano allo stesso modo: con la guerra, e la guerra degli imperialismi è sempre un disastro. Oggi l’America fa l’imperialismo per evitare la guerra. In sostanza, con le parole ci si aggiusta sempre, ma la verità è che essa corre verso la guerra, e questa guerra non può essere che una catastrofe.

Si può ammettere che il piano, o formula, Marshall sia diventato popolare. Questa è la cosa più strana. Noi viviamo in un mondo senza capo né coda. Tutte le cose più ovvie prendono l’aspetto più complicato e le cose più complicate l’aspetto più semplice, e così un sistema come quello di Marshall, così internamente complesso, è parso popolare.

Io pure ho il mio piano. Lo offro con più grande disinteresse. Ripeto: ho anch’io il mio piano per risanare l’Europa e la cosa migliore sarebbe appunto che la gente mi stesse a sentire e fosse disposta ad accogliere le mie proposte. E sono proposte di una semplicità così evidente che, per la solita impopolarità delle cose semplici esso potrebbe essere respinto. L’uomo non ama le cose semplici; è l’ignoto che lo attira.

Il mio piano è semplicissimo. Io dico prima di tutto ai vincitori, ai cosiddetti liberatori (e quanta ironia in questa parola!): lasciateci in pace, andatevene via. La prima maniera perché l’Europa possa tirarsi su, è che voi non la tiriate giù. Voi pretendete che i «vinti» mantengano i vostri soldati, le vostre flotte. Ma non è facile a gente ridotta alla fame continuare a darvi da mangiare. Si direbbe che voi avete creato un ordine per cui gli accattoni devono mantenere i miliardari.

Il primo articolo del «mio» piano Marshall è che i vincitori, i famosi liberatori, se ne vadano. E se ci lasciassero fare troveremmo ben noi il segreto di organizzare la nostra vita. Non certo per molto, ma per una ventina di anni almeno. Tutto sarebbe fondato sulla libertà degli scambi, e per una ventina d’anni forse si riuscirebbe a mantenerla. L’Europa, potrebbe raddirizzarsi adagino da sé molto bene, organizzando nel proprio interno un sistema di libertà economica. Ma no, non si può fare. Abbiamo i trattati di pace che ci obbligano a passare sotto le forche caudine delle famose commissioni, a chiedere permessi, a mantenere nello scialo tanta gente. Pensate a quello che costa all’Italia mantenere tutti questi signori soldati americani e inglesi. Ci volete aiutare? E non aggiungete altre bocche a mangiare il nostro pane e a bere il nostro vino! Andatevene in santa pace e noi organizzeremo la libertà di commercio fra tutti gli stati di Europa: non ci sarà bisogno di altro. Ecco il mio piano.

Qualche collega mi domanda: e il grano? Ma con la libertà di commercio io compero il grano e lo pago. Come lo pago? Con i prestiti, con i denari che già ci sono. E poi non si deve dimenticare che dell’Europa fa parte anche la Gran Bretagna, più o meno, e potremmo dunque utilizzare le sue risorse. (Interruzioni – Commenti). Il carbone può darlo l’Inghilterra e può darlo specialmente la Germania, purché non vogliate distruggerla. Se la Germania potrà disporre dei propri mezzi, tutto sarà diverso, e la libertà darà i suoi frutti.

In verità il piano Marshall può essere esaminato da tanti punti di vista quanti sono i paesi europei e inteso in tante maniere differenti.

Oggi si parla dell’Unione europea. Essa è già diventato il ritornello adoperato da tutti.

Ogni epoca ha le sue formule favorite: in ogni epoca c’è una formula che è il passe-partout di tutte le ambizioni, di tutte le idee. Oggi l’idea a grande popolarità è appunto quella di una unione europea e l’America ci spinge a fare questa Europa unita e concorde. Per me l’unione europea risponde a quell’istinto dell’imperialismo americano il quale consiste nel creare un grande mercato europeo, un grande mercato di cui l’America possa liberamente disporre e risponda alle sue esigenze di avere territori, i quali siano solidalmente responsabili di ciò che hanno ricevuto.

Ma mi parlate dell’Unione europea! Ma che specie di unione può essere questa la quale comincia a significare l’esclusione della Germania?

Chi legge i giornali francesi, sente l’opinione politica dei giornalisti francesi ed anche dei socialisti, avverte in che modo è desiderato e voluta la soppressione della Germania.

I problemi storici non sono problemi…

Una voce a sinistra. Lei esagera!

LABRIOLA. Basta leggere i giornali per comprendere come la Francia desideri la distruzione della Germania. Né più né meno si mira ad estromettere la Germania dall’Europa.

Una voce a sinistra. Non dai socialisti francesi.

LABRIOLA. Di questo parleremo appresso. Mi pare di non poter ammettere senz’altro che non ci debba essere una parola di giustizia per la Germania, almeno di pietà e di commiserazione.

Io non sono di quelli che dicono: i popoli non si cancellano dalla carta geografica. Io non partecipo a questa opinione: «la Germania è un grande Paese, ha la sua filosofia, la sua arte ecc. ed uno Stato simile non si può distruggere, cancellare nell’epoca moderna».

Forse l’unica umanità di fronte a cui ci dovremmo inchinare è quella dell’America precolombiana: i Maya, gl’Incas, ecc.

Questa umanità ha perduto la sua lingua; ora nella lingua maya non esistono che tre manoscritti; e nessuno li sa leggere più. I popoli possono sparire e la Germania potrebbe essere distrutta.

Una Europa alla quale togliete la Germania, una Europa alla quale date una Russia, che si estende dal Pacifico all’Adriatico e che ha ripreso vittoriosamente il programma di Gengis-Khan, che razza di Europa è? In tali condizioni non c’è più, non può esserci una Europa. Peraltro aggiungo che questa Europa non l’ho mai conosciuta. L’Europa è tipicamente una espressione geografica, per una parte del continente asiatico.

Basta fare quattro passi in Europa per trovare, ad ogni passo, una lingua diversa, una religione, non proprio ad ogni passo, ma in gran parte, una religione diversa, e, indiscutibilmente, una cultura diversa.

L’Europa è quella che è: cioè è stata la madre della civiltà occidentale; ha dato al mondo le regole più alte del pensiero astratto e quelle della vita comune. Ma essa è stata sempre divisa; la concorrenza fra i vari Paesi e le varie parti di questo Continente che ha fatto la sua permanente sussistenza e vitalità storica è la ragione per la quale l’Europa non ha mai dovuto apprendere nulla dagli altri, salvo poche nozioni, di alta matematica, dagli indiani e dai persiani, che ne furono tramite; tutto il resto se l’è creato da sé.

Ciò che riguarda l’occidente è europeo, nel senso beninteso che si tratti di ciò che esiste in Europa; non c’è in nessun luogo una lingua europea e neppure una razza che può dirsi nata in Europa, originariamente. I soli europei nati in Europa sarebbero quelli di Cro-Magnon, un vero ludibrio della nostra specie.

Noi siamo asiatici o africani; nulla c’è in noi di originariamente europeo.

Ma l’unione dell’Europa è impossibile. La forza dell’Europa è la sua disunione; fatene un solo organismo uniforme, e la sua consistenza spirituale e morale sarà perduta.

Noi siamo un Continente nel quale ciascun popolo esiste per sé ed ha fatto il suo dovere di fronte all’umanità. Non conosco un piccolo popolo dell’Europa, il quale non abbia servito l’Europa: persino gli albanesi hanno avuta la loro parte, almeno da quando si sono europeizzati. Non conosco popoli insignificanti sul terreno europeo. Un collega parlava della Svizzera, ma veramente la Svizzera non è un popolo; o un piccolo popolo; essa è un insieme nato da altri popoli che hanno un’esistenza particolare.

L’Europa ha lavorato per l’umanità, ed in questo l’Italia è stata essenzialmente europea. L’ingratitudine altrui è forse il vero riconoscimento dell’importanza dell’opera nostra.

E con questo siamo entrati nella faccenda della ratifica.

Accennavo qualche giorno addietro, quando l’Assemblea non era disposta a stare ad ascoltare, che il Trattato va considerato come un mucchietto di sassi o d’immondizie che possano ingombrare la strada. Un colpo di piede e ce ne liberiamo. La ratifica non è che il colpo di piede che ci libera dalla immondizia. Non possiamo prescindere dal Trattato. Esso c’è, bisogna ratificare. Il mondo non è stato mai giusto con noi e, suppongo, non lo sarà mai. Noi siamo i figliastri della storia, e perciò appunto vorrei che ci tenessimo stretti ai nostri valori storici.

Mi è dispiaciuto il cenno fatto dall’onorevole Nitti a proposito del Machiavelli, che è stato l’unico italiano nel Cinquecento, italiano dalla testa ai piedi. Accanto a lui non c’è che il prete Genoino della Repubblica di Masaniello, che era un povero pretonzolo al quale, pur parlando perfettamente latino, nessuno dava retta. Il Machiavelli è tutto italianità: un pensiero solo di italianità, l’anima stessa dell’italianità e di lui si dovrebbe sempre parlare con alto rispetto. Ed è il solo che abbia proposto agli italiani una vera unità. L’onorevole Nitti citava un episodio, di cui non ho trovato conferma in nessun scrittore, dal quale sarebbero risaltate certe minori sue capacità in materia militare, appunto nei rapporti con Giovanni dalle Bande Nere. Vi farò osservare che Machiavelli e Giovanni dalle Bande Nere sono morti nello stesso anno: nel 1527. L’uno, Giovanni dalle Bande Nere aveva 29 anni: l’altro, Machiavelli, 59 o 60 anni. Ciò vuol dire che all’epoca in cui il Machiavelli concepiva i suoi disegni di milizie stabili, che voleva opporre alle milizie mercenarie, era poco probabile che avesse da consultarsi con Giovanni dalle Bande Nere.

In tutta la sua esistenza il Machiavelli una sola volta ha potuto pensare a Giovanni dalle Bande Nere: al tempo della Lega di Cognac, nel tentativo di creare una unità italiana che si poteva realizzare contro la Spagna e quindi contro l’Austria, e che si sarebbe potuta concretare, se il marchese del Vasto non avesse tradito, denunciando l’esistenza della Lega, facendo così in modo che pochi armati si poterono riunire e così furono battuti. Si poteva pensare che Giovanni dalle Bande Nere divenisse il capo degli eserciti riunitisi a Cognac, e tale fu l’idea, presto smessa dal Machiavelli. Faccio riflettere che quali che siano stati i rapporti tra Giovanni dalle Bande Nere e il Machiavelli, restano gli ultimi due capoversi del I libro delle «Storie Fiorentine» in cui il Machiavelli condannava in modo violento e decisivo i capitani di ventura italiani, i mercenari di ogni specie e denunciava quella specie di guerre che essi conducevano, come ludibrio dell’arte militare, e non eccettuò dal suo giudizio Giovanni dalle Bande Nere.

Del resto, comunque stia questo episodio, il nostro dovere è pregiare i nostri uomini, e non umiliarne la memoria con ricordi incerti e controvertibili. Ad ogni modo, dopo 420 anni, il Machiavelli è sempre vivo fra di noi, e può accendere vivaci polemiche. Fra 420 anni, chi si ricorderà degli attuali omuncoli della politica italiana?

E ritorniamo alla ratifica. Diamola col gesto medesimo col quale si sgombera la nostra strada da un cumulo d’immondizie. Diamola, ma conserviamo la nostra fierezza e tutta la nostra forza.

Quest’episodio della ratifica, queste discussioni intorno alla formula Marshall, sono servite ad ogni modo ad orientarci verso il problema di una politica estera italiana. Qui incominciamo a percorrere un terreno un po’ difficile. Non voglio dire male di nessuno e prego l’onorevole De Gasperi di non pensare che io sia un suo malevolo e particolare avversario. Non voglio dire nessuna parola che possa essere sgradevole per il conte Sforza, che fu mio uditore a Bruxelles. Coloro che insegnano dalle cattedre conservano sempre inclinazione e simpatia per coloro che li stanno ad ascoltare, anche se di ascoltatori non ce ne siano molti, come questa sera. Io non ne avevo molti, ma avevo fra i miei uditori anche il conte Sforza.

Ritornando alla politica estera italiana, sorge una prima questione: vi fu una politica estera italiana? Il conte Sforza e l’onorevole De Gasperi, se vorranno onorarmi di una risposta, diranno che non era possibile averne una perché, fra le altre cose, l’armistizio ce lo vietava. Siamo d’accordo. L’armistizio impediva tante altre cose, ed impediva anche di fare una politica estera. Ma altro è fare una politica estera, altro è avere degli orientamenti in materia di politica estera e creare degli indirizzi che poi il Paese, in maggiore libertà, potrà seguire da sé.

Io sono dell’opinione che la politica interna serva soltanto a formare la base della politica estera. La politica interna deve tenere in efficienza un popolo, perché al momento opportuno i suoi rappresentanti diplomatici e militari possano servirsi di questo popolo per raggiungere le finalità ultime, che la storia assegna ad un popolo. Ad ogni modo, noi una politica estera non potevamo fare, anche perché avevamo al potere tre partiti diversi, con tre diversi orientamenti: cattolici, socialisti e comunisti. Basta forse fare questa enumerazione per comprendere che una politica estera italiana non si poteva fare. C’è un primo periodo della politica estera post-liberazione, dopo la resa delle forze militari tedesche dell’Alta Italia, in cui vi fu una politica estera che fu rappresentata dall’onorevole Nenni. Egli suppose che poiché, come socialista, aveva certe opinioni, i socialisti di altri paesi dovessero aiutarlo, per sostenere la sua parte nel proprio Paese.

I giornali ne parlarono, a Londra. Allora, c’era l’armistizio, ma non si supponeva che ci sarebbe stato imposto quel Trattato di pace. Suppongo che il Nenni tentò di ottenere quel poco che poteva, ma suppongo altresì che si accorse, allora, di una cosa: che non c’è politica estera socialista, comunista o papalina, c’è una sola politica estera: quella del Paese e quella dello Stato. Perché bussate alle porte dei socialisti per dire loro che siamo fratelli e vogliamo realizzare la fraternità dei popoli, e perciò non avversateci? Essi vi risponderanno: «Avete perduto una guerra e dovete pagare». Il che dimostra che non si può fare una politica di Stato senza fare una politica nazionale.

Si parlò nell’altra guerra del fallimento dell’internazionalismo socialista. Credo che non sia così: i socialisti non avevano in mano nessuna forza, essi non potevano obbligare i popoli, gli Stati e nemmeno i loro seguaci a fare la politica che a loro piaceva.

Si parlò del fallimento dell’internazionalismo socialista. Devo dire onestamente – io che non fui d’accordo coi socialisti di quel tempo, allora contrari all’intervento in guerra – devo dire che non si può fare questa accusa ai socialisti. Bisognerebbe accusare di malafede coloro che non si rendono conto di ciò che sia un passaggio da una posizione ideale ad un’altra. Il socialismo è un partito, in uno Stato e, quando i socialisti sono chiamati a far parte del Governo, fatalmente, necessariamente, perdono la loro posizione di internazionalisti. La cosa più interessante è quella di vedere la ferma confessione di nazionalità che fanno nei diversi paesi i socialisti.

I socialisti una volta erano ferventi fautori dell’internazionalismo e dettero pure qualche bellissima manifestazione dei loro sentimenti in epoca remota.

Nel 1870 Liebknecht e Bebel affermavano che l’Alsazia era francese. Anche altri uomini di parte socialisti e tedeschi costantemente affermarono il carattere francese dell’Alsazia; ma i socialisti francesi non hanno restituito il servigio ricevuto dai tedeschi. Da loro avrei voluto aspettarmi qualche parola di tardiva riconoscenza, e nulla essi hanno fatto in difesa della Repubblica tedesca. Oggi i socialisti di tutti i paesi danno un ben tardivo esempio di esasperato riconoscimento dei valori nazionali.

Non si può fare una politica se non nazionale, quando ci si trova al potere. Oggi al potere sono i socialisti, ed essi si adoperano a favore d’una politica che io, già loro avversario su questo punto, non manco di trovare esasperatamente nazionale, non diciamo nazionalista, per non fare dispiacere a nessuno, ma quell’affisso si stacca mal volentieri dall’aggettivo corrispondente…

Ad ogni modo, chi sta al potere non può fare una politica ideologica corrispondente a principî di partito. In materia per lo meno di politica estera, deve necessariamente fare una politica che dirò statale e nazionale.

E allora voi, mi domanderete: qual è la conclusione?

Che cosa ci proponete?

Ebbene, essa si compendia in una parola: aspettare. Aspettare. L’Italia ha aspettato quattordici secoli, fino al 20 settembre 1870, per costituirsi in unità e nel 1870 ha visto sorgere il suo assetto unitario. Noi possiamo ancora dunque bene aspettare ancora, forse, venti anni per veder tramontata la sostanza di questo ridicolo Trattato. Un’Europa senza la Germania non è un’Europa; l’Europa oggi è un grande caos, è un tremendo disordine. Questo disordine non può essere permanente; verrà il momento in cui potremo rispondere a coloro che ci hanno messo in questa condizione, con le parole di Molière: Tu l’as voulu, Georges Dandin.

Vi avevamo offerto una riconciliazione; ci avete imposto una punizione. La punizione è scontata, ed ora tocca a voi guardarvi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Bastianetto. Ne ha facoltà.

BASTIANETTO. Onorevoli colleghi, esiste un gruppo di deputati mutilati di guerra: siamo esattamente in 16. Ma io non intendo parlare anche a nome dei colleghi, perché di fronte a così grave problema, reputo che ognuno debba pensare e pronunciarsi come meglio crede.

Io però personalmente, come mutilato di guerra che ha combattuto, nell’altra guerra, per la liberazione di Trieste, e che ha combattuto proprio con i ragazzi del 1899, sento questo bisogno di dire una parola, non tanto per voi colleghi, quanto per rispondere alla mia coscienza, all’anima mia, che non sa immaginare come, votando questa ratifica, si possa essere tacciati e da una parte quasi come traditori della Patria e dall’altra quasi traditori del popolo.

Ora, per un uomo, per una persona che ha avuto coerenza nella sua vita sempre ed ha combattuto per la Patria, sacrificando anche parte della propria vita, dando una mezza dozzina di costole – posso dirvelo – proprio per la conquista di Trieste, è prorompente questo bisogno di reazione. Se in quella prima guerra si è sofferto per Trento e Trieste, in questa seconda, combattendo come partigiani, si comprese che la sofferenza era per un altro altissimo ideale, l’ideale di una sistemazione civile, non soltanto nazionale, ma internazionale; e combattendo proprio accanto ad amici partigiani che ci sono caduti quasi accanto e che tengo a ricordare, uomini d’ogni partito: Cantarutti, Viviani, Frausin di Trieste, Mauci di Trento, Fraccon e Rizzo ed altri ancora, amici, coi quali si parlava, si discuteva del futuro dopoguerra e di una migliore società di popoli.

L’avere combattuto due guerre, l’avere sperimentate tante sofferenze, tutto questo sarebbe stato vano, perché oggi accettando questo Trattato, dando il consenso a questa carta che chiude un passato, si correrebbe quasi il pericolo di essere tacciati come dimentichi dei propri doveri verso la Patria e verso il popolo. In maniera, che l’amico Pecorari, che ha nel cuore la sua Trieste, correrebbe pericolo di essere tacciato di tradimento. E perché tutti noi abbiamo questo sentimento di Patria, profondo nel cuore e perché noi abbiamo tanto sofferto in tutti questi anni, tutti, dovremmo avere questa incertezza nell’approvare questo Trattato.

Voglio perciò rispondere a questi due interrogativi della mia coscienza, anche perché le argomentazioni che avete udite in questa Aula in questi giorni, sono quasi tutte o su una falsariga di nazionalismo, un po’ superato dagli eventi, oppure su una falsariga di un diritto internazionale superato dalle nuove concezioni della comunità dei popoli; e allora mi riallaccio a questa vita internazionale nuova, che è scaturita da questa guerra, da questo conflitto, da questa conflagrazione, da questo cataclisma, perché, non nascondiamoci che quest’ultima non è stata una guerra; e quindi fa ridere sentir parlare di trattati, di convenzioni di altre guerre, di un altro passato e citare uomini e cose che non hanno niente a che fare col cataclisma che abbiamo sofferto. Questa guerra è qualche cosa di più grande, di più potente nella storia dell’umanità e di fronte alla coscienza di tutti i popoli.

Per questo è doveroso e giusto di trovare in questo dopoguerra e in tutti questi eventi quello che deve essere il filone conduttore, il filone d’oro, che deve tranquillare la nostra coscienza di cittadini e deputati nell’accettare questo trattato. E vi dico subito che la cosa che più mi ha impressionato in tutti questi discorsi è proprio questa falsariga di un vecchio diritto internazionale, basato sul diritto di guerra che può dirsi per sempre tramontato.

Ricordo quando ci pervenne, durante il periodo di occupazione nazista, la prima notizia dell’incontro di Teheran. I giornali accennarono a Teheran molto sommessamente; invece, attraverso la Jugoslavia ricordo che un giorno ci pervenne un fogliettino dove c’erano le conclusioni di Teheran: l’incontro di Roosevelt, Churchill e Stalin. Teheran è la prima pietra di un nuovo mondo che è sorto. Questo documento non l’abbiamo dimenticato, perché, quando eravamo sotto i nazi-fascisti e sotto le sofferenze, allora, mi ricordo che questo incontro di Teheran ci è parso come una stella, come qualche cosa che sorgesse sull’orizzonte: i tre grandi che si incontravano, certamente non soltanto delle cose di guerra avrebbero parlato, ma anche della liquidazione della guerra, e non solo della liquidazione della guerra ma della sistemazione del mondo.

Poi ci fu la conferenza di Mosca e poi la conferenza di Yalta, dove maggiormente si ebbe l’impressione che si fossero discussi i particolari della conclusione della guerra. Ma dopo Yalta si è vista subito l’impostazione di San Francisco, ed anche questa impostazione di San Francisco fu una speranza per tutti i popoli soggetti al nazi-fascismo.

Oggi si è dimenticato tutto questo, e nella Russia o nell’America si vede soltanto una minuscola parte di quella che è la loro vera sostanza la realtà di due grandi popoli. Soprattutto nell’America non si vede che capitalismo; mentre invece essa, preparando in cinque anni un esercito per l’Europa, una flotta nel Pacifico e nell’Atlantico, ha dimostrato di avere per meta la libertà e la vita e il riassetto dell’Europa e del mondo.

Così la Russia: della Russia non si vede che un lato, quello politico, ideologico, mentre essa è qualcosa di più. La Russia ora possiede Lituania, Estonia, Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria; ha aspirazioni in Persia, speranze innominate in Cina e in Giappone.

Quando Roosevelt, Churchill e Stalin si sono incontrati a Teheran e a Yalta e quando i loro ministri a San Francisco si sono messi d’accordo di scrivere una Carta, quella Carta significava qualcosa di più di quello che s’è detto qua dentro.

Perché, onorevoli colleghi, se nel campo del diritto privato, ad un dato momento si è sentito il bisogno di far giudicare le liti non dalla violenza ma dal diritto e si è sentito il bisogno di un magistrato e del giudice togato, nella lotta fra i popoli, nella lotta innazionale si deve arrivare al giudice, se non togato, almeno imparziale.

San Francisco ha dato un nuovo orientamento alle nazioni. Ma a torto da qualcuno si è obiettato: non è successo lo stesso con Ginevra e la Società delle Nazioni?

No, onorevoli colleghi, assolutamente no, perché la Società delle Nazioni del 1919 aveva un difetto fondamentale: non aveva la minima intaccatura del diritto di sovranità: ognuno era libero di fare o disfare. Nella nuova comunità dei popoli bisogna che ognuno sacrifichi qualche piccola parte del suo diritto sovrano. Questa Assemblea ha votato un articolo della Costituzione che suona in certo senso rinuncia al diritto di sovranità. Dai discorsi invece fatti in questi ultimi giorni parrebbe che la sovranità fosse un bene da non toccare, si è dimenticato cioè il concetto espresso pochi mesi fa.

Creata pertanto la nuova organizzazione delle Nazioni Unite, questa Carta di San Francisco ha significato un nuovo ordine di giustizia internazionale. Quando a Parigi si creò la prima Commissione dei Cinque e poi quella dei Quattro Ministri degli Esteri e poi quella dei Ventuno e poi il Consesso che doveva vedere al Lussemburgo, non si fece che mettere in atto altrettanti organi del nuovo diritto internazionale.

Ma quello che maggiormente dobbiamo notare è questo: che quando si discuteva dopo San Francisco sul come finire la guerra, si scoprì che fra la guerra 1914-1918 e la guerra ultima c’è stata questa differenza fondamentale: che la guerra del 1914-1918 si concluse prima col Trattato di pace e poi con l’organizzazione della Società Internazionale; questa guerra si è invece chiusa prima con la formazione della organizzazione internazionale e poi coi Trattati di pace.

Questa nuova impostazione geniale del nuovo ordine fra le nazioni è stata stabilita a Teheran e ad Yalta e si è concretata nella carta di San Francisco.

È sorta così l’O.N.U., come una specie di superstato, avente la possibilità di dirimere controversie internazionali e in primo luogo la maggiore di tutte la guerra che allora finiva.

Si previde fin d’allora che i trattati di pace avrebbero avuto il carattere delle sentenze.

Quindi niente trattati e neppure diktat. Il diktat fa pensare al chiodo tedesco. Quando ci si trova di fronte ad un collegio giudicante, l’elaborato è una sentenza, non un diktat, e nemmeno un trattato. Questa discussione sulla sentenza è già trapelata altre volte; ed ho piacere di ricordare che la prima istruttoria si è svolta a Londra, quando De Gasperi vi si presentò per la prima volta, davanti ai cinque ministri degli esteri. Poi è stata definitivamente elaborata al Lussemburgo in Parigi. Ricordo come è stato trattato De Gasperi a Parigi: egli era come un imputato, pallidissimo, fu fatto entrare nell’aula per deporre e poi fu riaccompagnato fuori dell’aula.

Si tratta tanto di una sentenza che il preambolo ne ha tutti i requisiti. Sicché accettando questa tesi possiamo ben intravvedere la possibilità della revisione. La revisione viene per conseguenza. E non sarà difficile poter dire che si sono dimenticate cose vitali per il nostro Paese. Proprio in questi giorni io accennavo all’onorevole Sforza che si sono dimenticati resistenza del mare Adriatico. Hanno disposto cioè di provincie e di città, ma senza tener conto del mare Adriatico; di questa imponente entità economica a se stante, ove si svolgono i cicli di pesca.

Dico dunque che se noi impostiamo su queste basi il problema della ratifica, abbiamo una prima giustificazione per la nostra coscienza.

Non è da pensare che il Governo per firmare abbia bisogno di promesse o di minacce. Non c’è bisogno di esaminare quelli che possono essere i rapporti tra il nostro Ministro degli esteri e le altre Potenze. È la semplice logica che porta a pensare che non c’è bisogno di tutto questo. Perché? Perché prima di parlare del piano Marshall bisogna esaminare anche la conferenza di Mosca. A Mosca, nell’aprile scorso, non si sono trattate quelle questioni economiche continentali europee che ora si vedono esaminate a Parigi? Ma a Mosca ci si è arenati nelle questioni della Germania, dell’Austria e allora si parlò di fallimento della conferenza.

Ma Marshall a Mosca è andato da Stalin, prima di lasciare la conferenza. Penso che in quell’incontro debba essere avvenuta la frattura o per lo meno la presa di posizione.

Tornato in America, Marshall, rivolto agli europei, ha press’a poco detto: datevi la mano cercate fra di voi una sistemazione economica europea. Noi americani siamo qui per aiutarvi.

In questo gesto io vedo il ritorno della politica americana nel suo binario tradizionale. Lo ricordo a me stesso: la politica estera degli Stati Uniti è una politica lineare che comincia con Washington, prosegue con Lincoln, e Monroe, va fino a Wilson, poi trova in Roosevelt l’organizzatore della vita internazionale. Ma Marshall torna alla politica che non vuol troppo ingerirsi dei problemi europei: l’Europa s’incammini da sé. Marshall non fa altro che additarle una via.

Il piano Marshall ha, per me, solo questo significato. Sarebbe lo stesso che domani la Russia proponesse un suo piano. Nessuna meraviglia. Un piano russo comprenderebbe tutti gli stati del centro europeo ed i Balcani. Lo vedremmo e lo discuteremmo. Quello che è certissimo è che la politica italiana si delinea oggi magnificamente su un nuovo indirizzo che ha del grandioso, del provvidenziale; è la politica che non è né per un piano né per l’altro, né per l’Oriente né per l’Occidente, ma è vera, sana e giusta politica europea. Ed allora, se veniamo a questo punto, pensando alla politica europea, noi vediamo la soluzione di tutti questi problemi. Perché oggi l’Europa con i suoi 400 milioni di abitanti non è a dire che sia una prigioniera – cioè la prigioniera dei tre Grandi che se la dividono: Inghilterra, America e Russia – ma sotto un certo punto di vista è quella che tiene prigionieri i tre Grandi nel suo territorio; perché oggi la sua situazione politica diplomatica ed economica è tale che la situazione sta quasi per invertirsi in questa realtà che ha quasi del drammatico: sono i tre prigionieri dell’Europa.

E spiego: tutti e tre hanno bisogno di vedere questa soluzione europea. Perché hanno bisogno di vedere questa soluzione europea? L’Inghilterra ne ha bisogno, perché nel suo Commonwealth non trova la situazione che aveva un tempo; ne ha bisogno l’America, perché deve tornare alla sua politica tradizionale monroiana, ne ha bisogno la Russia, perché non può stare con questa spinta in Occidente, quando nella storia si sono viste che tutte queste spinte hanno avuto il loro ritorno, sia con Caterina che con Alessandro I.

Ma, a parte questo accenno storico, vi è la realtà economica. Ecco l’incontro di Parigi. Ecco tutti gli incontri che dovremmo fare con tutti gli Stati viciniori per risolvere questo problema, ed allora – e mi auguro che questo succeda – se l’Italia nostra si metterà decisamente su questa strada, in questa politica europea che non guarda né a destra né a sinistra; avremo l’applauso di tutti i popoli di Europa; aggiungeremo nei nostri cuori alla grande Patria Italia la grande Patria Europa; vuol dire per noi avere la possibilità di rifare l’avvenire nostro. Non c’è dubbio in questo: con questa politica avremmo la possibilità di risolvere il problema triestino quello di Tunisi e quello di Tenda e Briga, quello delle nostre colonie, quello dell’emigrazione ed ogni altro problema interno.

Mettendoci su questo piano, vi è senza dubbio tale possibilità. Ed allora, se noi abbiamo la forza di seppellire il passato accettando il Trattato, diventeremo perno di tutta una situazione nuova. Ma per avere questa forza ci vuole coraggio; ed hanno torto quelli che hanno rimproverato l’ottimismo del Ministro degli esteri. Io dico che questa è la sola strada buona; e, camminando in essa mi sento con la coscienza a posto. Tutte le idealità, che temevo in pericolo, trovano la loro giustificazione in questa grande speranza: trovano la giustificazione in questa nostra funzione europea. Sento che approvando il Trattato, non tradisco né la Patria né il popolo; sento che faccio il mio dovere.

Bisogna seppellire tutte le nostre disavventure e sulla pietra tombale ricordare questo passato e i suoi laudatori vecchi e giovani. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bertone. Ne ha facoltà.

BERTONE. Onorevoli colleghi, ieri l’altro l’Assemblea, in una dimostrazione plebiscitaria, ha acclamato l’ordine del giorno Badini Gonfalonieri firmato da oltre 200 deputati di ogni settore di questa Assemblea, ordine del giorno che auspica la revisione delle clausole del Trattato che hanno mutilato il confine occidentale. Mi sia consentita in aggiunta, una breve dichiarazione che varrà come anticipata dichiarazione di voto, dichiarazione il cui sentimento, mi lusingo sia condiviso da tutti i colleghi non solo del nostro Piemonte, ma anche delle altre Regioni. In verità noi piemontesi e specialmente i piemontesi della provincia di Cuneo, siamo un po’ come i Giuliani del confine occidentale e la nostra amarezza è giustificata e comprensibile.

Noi, del gruppo democristiano, approveremo il mandato al Governo di ratificare il Trattato, nel modo e nelle condizioni previsti nel disegno di legge sottoposto al nostro esame. Siamo convinti che la soluzione adottata è la migliore che, nelle dure contingenze in cui trovasi l’Italia, potesse proporsi.

Una nostra approvazione prima che il Trattato avesse la ratifica delle quattro Potenze proponenti, implicava, o quanto meno poteva lasciar presumere, una manifestazione di volontarietà, manifestazione che sarebbe stata in contrasto con la logica, con la inderogabile reazione nostra ad un Trattato che stimiamo ed è ingiusto, contrario alle solenni promesse elargite nella Carta atlantica ed in altri documenti, contrario ai principî della giustizia e della morale internazionale. Il nostro mandato al Governo di ratificarlo quando lo abbiano ratificato tutte e quattro le Potenze proponenti, dal qual momento il Trattato entrerebbe in esecuzione anche in nostra assenza, ha portato la questione su un ben altro piano. La esecuzione del Trattato, portante anche la nostra ratifica, non vulnera più, nelle condizioni in cui noi ratifichiamo, la posizione dell’Italia, che è di resa ad un atto imposto, divenuto imperativo ed eseguibile per il fatto che le quattro Potenze lo hanno ratificato.

Ma non è d’altra parte dubitabile che la dimostrazione della nostra buona volontà di compiere una formalità prevista nel Trattato, e desiderata dalle quattro Potenze, apre e deve necessariamente aprire la strada a spiragli di luce che finora ci sono stati preclusi e tali potrebbero ancora rimanere.

Ciò è stato ben chiarito dalle spiegazioni date dal Governo e dai discorsi qui tenuti dai vari oratori. Ogni mia parola al riguardo può diventare perciò superflua. Ma un raggio di luce gli italiani tutti, e noi del Piemonte in specie, delle provincie di Torino e di Cuneo, vogliamo credere sia per venire circa i nostri rapporti con la Francia.

Le mutilazioni di confine sono quelle che più ci fanno soffrire. Briga, Tenda, Moncenisio, senza contare le cime dei Monti Clapier Gelas, Maledia, Pagarì, cime familiari alle nostre escursioni alpine, tutte italiane, in territorio che fu sempre italiano, sono spine acute e dolorosissime piantate nel nostro fianco: e fino a che ci sono, vano ed illusorio è sperare in una pacifica, fraterna collaborazione per il restauro delle comuni rovine, quale da tutti, da ogni parte e di ogni parte, si auspica.

Anche il modo come questi territori ci sono stati tolti, ha aggravato la offesa. Nella prima fase delle trattative, febbraio 1945, di queste rivendicazioni dalla Francia, non si era fatta parola. Erano i popoli, rappresentati dai rispettivi Governi, che trattavano. Fu solo un anno dopo che esse si affacciarono: al Governo di Francia erasi affiancato, o meglio sovrapposto, lo Stato Maggiore: da allora, per il sentimento non vi fu più posto. Gli sforzi tenaci, insistenti, accorati, del Governo italiano, e in specie del Presidente, onorevole De Gasperi, che pagò sempre di persona nella dura ed estenuante lotta, a nulla valsero, come a nulla valsero, per il Moncenisio, trattative tra i dirigenti dei maggiori gruppi elettrici delle due nazioni, trattative ispirate alla obiettiva valutazione dei comuni interessi, e che ad un punto parevano vicine a concludersi. Sotto il pretesto di necessità geografiche e militari, Briga e Tenda e le Alpi Marittime che ho poco fa indicate, e il Moncenisio ci sono strappati, e le conseguenze sono tali da creare in noi uno stato di angoscia permanente.

È inutile chiudere gli occhi. La porta di casa nostra, con la perdita di Briga e Tenda e delle principali punte delle Alpi Marittime, è aperta alla aggressione ed alla invasione. E intanto le popolazioni dei territori perduti, che ancora poco tempo fa, in libero plebiscito, affermavano la loro italianità, sono ridotte alla disperazione. Perché esse potranno, sì, conservare la cittadinanza italiana, ma la Francia potrà esigere che entro un anno dalla opzione si trasferiscano in Italia. Tragica alternativa fra la rinuncia dei nostri fratelli alla patria, e la rinuncia alla casa dove son nati ed hanno vissuto, al campo fecondato col loro sudore, alle tombe dove giacciono i loro morti.

Le centrali elettriche di San Dalmazzo, La Mesce e Confine passano alla Francia, e da essa dipenderà la fornitura e il prezzo dell’energia, garantita solo per 14 anni, cioè fino al 1961. E dopo? Non sappiamo. Questa energia alimenta gran parte degli stabilimenti industriali della Liguria, dove lavorano centinaia di migliaia di operai.

Più grave la situazione al Moncenisio, dove il lago, che è interamente sul displuvio italiano, passa in proprietà della Francia, con la centrale Grande Scala e la stazione di pompaggio. Non ho bisogno di dire quale tremendo pericolo costituisca per il Piemonte il possesso in mano altrui di un lago artificiale della capacità di 30 milioni di metri cubi d’acqua, che, in caso di rovina della diga di sbarramento sommergerebbero tutta la vallata di Susa, Rivoli, fino a Torino, portando distruzione e morte in una plaga fra le più ricche ed operose del Piemonte, per industria, agricoltura e densità di popolazione.

Si tratta di un’opera grandiosa, dovuta al genio costruttivo ed al lavoro italiano; la perdita di essa è una ferita insanabile. E dover chiedere alla Francia la fornitura della energia che alimenta i nostri grandi stabilimenti industriali piemontesi, e pagarne il prezzo secondo le tariffe francesi, non si può negare che sia un’umiliazione cocente.

Orbene, noi vediamo il nostro ingresso nel complesso delle nazioni vincitrici, in virtù del Trattato di pace anche da noi ratificato, come un sicuro auspicio ad una revisione che confidiamo non possa non essere ravvisata giusta e necessaria dalla Francia, ed aiutata dalle altre Nazioni. Se dobbiamo andare verso un domani di collaborazione economica e spirituale, forza è che con buona e reciproca volontà si tolgano le spine, si eliminino gli ostacoli che si sono con questo Trattato frapposti fra i due popoli, sì che essi si avvicinino con cuore aperto.

La nostra ratifica al Trattato è indubbiamente una spinta all’avvicinamento, allo scambio di vedute, all’esame di problemi interessanti le rispettive economie. Ed il problema di confine ingiusto e violato sarà sempre, e non potrà non esserlo, presente.

Italia e Francia sono portate, dalla loro posizione, dalle tradizioni, alla mutua comprensione dei rispettivi bisogni. Dobbiamo tradurre in realtà la istintiva, sincera, secolare aspirazione dei due popoli.

Con la nostra autorizzazione al Governo a ratificare il Trattato, l’Italia dà la prova concreta che tale è il suo proposito. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se il Governo, di fronte alla sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 della Corte di cassazione a sezioni unite, con la quale vengono annullate senza rinvio le ordinanze di decadenza dei senatori fascisti, non creda di dover fornire pubbliche precisazioni circa gli effetti della pronuncia, i cui motivi e la cui ispirazione, se sono giurisdizionalmente insindacabili, non sfuggono alla libera critica politica e morale.

«Rossi Paolo, Bennani, Carboni Angelo, Canevari».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga che la Corte suprema di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 sulla decadenza dalla carica dei senatori, non abbia, da un lato, invaso il campo del potere legislativo e non si sia attribuito, dall’altro, un potere di controllo costituzionale che ad essa Corte non compete in alcun modo, in quanto non le è riconosciuto da alcuna legge.

«La Rocca, Lombardi Riccardo».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà al termine della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.

PRESIDENTE. È pervenuta in oltre la seguente altra interrogazione urgente:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per essere rassicurati che il Governo intende dare pronta esecuzione alle provvidenze richieste da una delegazione di mutilati e grandi invalidi della guerra nel colloquio da essa avuto recentemente con una rappresentanza dell’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea Costituente e col Sottosegretario alla Presidenza onorevole Martino, che ne riconobbe la fondatezza, impegnandosi a sostenerle al Consiglio dei Ministri, provvidenze consistenti particolarmente:

  1. a) in un provvedimento che aumenti adeguatamente il trattamento di pensione a coloro che fecero dono alla Patria della loro integrità fisica;
  2. b) nella immediata concessione di un congruo acconto su tale aumento, similmente a quanto è stato fatto per gli impiegati delle pubbliche amministrazioni;
  3. c) nel collocamento obbligatorio dei mutilati e dei grandi invalidi di guerra, così come è disposto dalla legge del 21 agosto 1921, numero 1312, che regola appunto l’assunzione obbligatoria di questi benemeriti figli della Patria.

«Bibolotti, Molinelli, Schiavetti, Targetti, Chiostergi».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Avverto che il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio sta svolgendo trattative direttamente con rappresentanti dei mutilati, e ritengo di potere dar presto notizia agli onorevoli interroganti dei risultati conseguiti.

PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata anche la seguente interrogazione con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga opportuno che, a differenza della condotta negativa tenuta su questo punto dal Governo negli anni decorsi, siano disposti sin d’ora, e comunque prima della semina, opportuni piani e provvidenze diretti ad ottenere il massimo incremento della prossima campagna granaria, evitandosi così che, nella completa oscurità circa gli orientamenti e i disegni del Governo, essa abbia ancora a svolgersi con criteri e piani di mera convenienza aziendale e personale, sovente contrastanti col superiore interesse e le esigenze della collettività.

«Arata».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Una Commissione interministeriale sta studiando i problemi di cui a questa interrogazione e prossimamente renderà note le sue decisioni.

PRESIDENTE. Sono ancora pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’industria e commercio, dei trasporti e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non ritengano necessario ed urgente intervenire, con adeguati provvedimenti, nel grave problema del rifornimento della legna da ardere per il riscaldamento invernale.

«Questo problema – al pari di quello della persistente ascesa dei prezzi dei generi alimentari – si vien facendo ogni giorno più angoscioso e allarmante, specie per certe categorie della popolazione, prive delle possibilità economiche che consentano loro di fronteggiare i prezzi della legna, avviati a continuo vertiginoso aumento.

«Ai fini anche del mantenimento dell’ordine pubblico, che verrebbe certamente ad essere, un giorno, turbato, sembra rendersi indispensabile un superiore intervento anche nel campo dei trasporti ferroviari, una parte dei quali dovrebbe essere riservata al rifornimento di determinate collettività particolarmente bisognose.

«Arata».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali misure siano state prese dall’autorità politica in occasione di comizi, tenuti senza l’osservanza delle relative norme di legge, e della spedizione punitiva organizzata la sera del 20 luglio dall’onorevole Giovanni Tonetti contro la pacifica popolazione di Caorle (Venezia), e quali provvedimenti si intendano assumere per impedire il ripetersi di simili episodi, che – turbando l’ordine pubblico – feriscono i più elementari principî delle libertà democratiche e rinnovano sistemi universalmente condannati e detestati.

«Mentasti, Lizier, Bastianetto, Ponti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se esistono speciali ragioni che determinano nell’Azienda della strada la volontà o la necessità di ben mantenere le strade nazionali del nord, del centro e di parte dell’Italia meridionale, precisamente fino alla città di Salerno, mentre da Salerno in giù le strade nazionali sono quasi completamente abbandonate.

«De Martino».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se sia informato sulle accuse specifiche e documentate, presentate contro la Società concessionaria del Casinò Municipale di Venezia e consistenti in gravi irregolarità di gestione a danno dell’Amministrazione comunale di Venezia;

se intenda intervenire con i provvedimenti di propria competenza, di fronte all’opinione pubblica edotta attraverso la stampa del grave pregiudizio a danno del comune, contro l’attuale Amministrazione comunale di Venezia, la quale continua a conservare la fiducia e la gestione del Casinò ad una Società che, oltre a danneggiare gli interessi dell’Amministrazione comunale, ha danneggiato anche quelli dello Stato, essendo il bilancio del comune integrato dal contributo statale;

se non ritenga necessaria un’azione sollecita onde convincere l’opinione pubblica che il Governo, intendendo seriamente moralizzare la vita pubblica, ha volontà e forza per severamente colpire chiunque, specie se pubblica autorità, che non abbia rigorosa cura del denaro pubblico;

se ritenga necessario rivedere la legislazione in materia di gestione di case da giuoco onde garantire un più severo necessario controllo che eviti facili imbrogli a danno della pubblica finanza;

se, infine, non sia maturo il momento di fronte a questi ed altri fatti per aderire alla richiesta di tanta parte della sana opinione pubblica per la definitiva chiusura delle case da giuoco autorizzate.

«Sartor, Carbonari, Carignani».

Interesserò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendono rispondere a queste interrogazioni.

BULLONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BULLONI. Ho presentato alcuni giorni fa una interrogazione urgente sulla crisi dell’energia elettrica in Alta Italia, e sui provvedimenti che si intendono adottare in vista del rinnovarsi di questa crisi. Chiedo quando il Governo intende rispondere.

PRESIDENTE. Porrò questa interrogazione all’ordine del giorno della prima seduta in cui si tratteranno le interrogazioni.

COSTANTINI. In data 16 giugno ho presentato una interrogazione al Presidente del Consiglio ed al Ministro degli esteri per sapere se erano a conoscenza dell’esistenza in Albania di circa 700 operai italiani, che sono là e che non possono ritornare. Data l’importanza dell’argomento chiederei che mi si rispondesse subito.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Credo che i trattenuti in Albania siano meno di 700. Dalle notizie in mio possesso risulta che essi sarebbero da 3 a 400; si tratta di operai qualificati o piccoli professionisti che sono utili in quel paese, ma che sono trattenuti, contrariamente ad ogni legge internazionale.

Purtroppo, non abbiamo rapporti diplomatici con l’Albania ed io ho tentato attraverso vari canali indiretti di avere notizie. Ma, more orientale, tutto questo avviene con una certa calma.

Mi risulta comunque che questi nostri connazionali non sono maltrattati.

COSTANTINI. Io ho corrispondenze di operai di laggiù che attestano che il numero dei nostri connazionali è di 700 e non di 300, essi invocano l’intervento del Governo italiano.

Pregherei l’onorevole Ministro degli esteri di fare maggiori accertamenti. A tanti anni di distanza dalla guerra, sono tornati anche i prigionieri e non vedo la ragione per cui non debbano tornare anche questi nostri connazionali.

Se è possibile, chiederei risposta scritta.

PRESIDENTE. Domani vi saranno due sedute: alle 9.30 per il seguito della discussione del decreto concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio; alle 17 per il seguito della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.

Avverto i colleghi che nell’eventualità che nella seduta mattutina non si possa ultimare la discussione sull’imposta patrimoniale, la seduta pomeridiana potrà prolungarsi nella serata per completare tale discussione.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, per sapere se sia eventualmente esatto che l’Azienda nazionale autonoma della strada – accampando infondate esigenze del traffico – si opponga, con gravissimo danno dei numerosi comuni interessati, al ripristino della linea tranviaria Albano-Velletri, reclamata insistentemente dalle popolazioni dei Castelli Romani così duramente provate dalla guerra.

«Veroni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per conoscere:

  1. a) quale fondamento abbiano le notizie pubblicate dalla stampa circa irregolarità attribuite all’ARAR per la cessione di residuati di guerra ad una società commissionaria, ed in genere circa i sospetti e le deficienze, ormai di dominio pubblico, nelle operazioni di vendita di ingenti quantitativi di materiali;
  2. b) i risultati delle indagini circa incendi e furti, che ripetutamente si verificano nei campi di deposito dell’ARAR;
  3. c) i motivi che inducono i dirigenti dell’ARAR ad alienare a speculatori notevoli quantitativi di materiale di uso, che potrebbero essere ceduti, con evidente vantaggio di tutti, a determinate categorie di consumatori.

«Gli interroganti, inoltre, chiedono di conoscere se nell’interesse dell’erario e di fronte a tante accuse e voci di sospetti, non si ritenga opportuno nominare una Commissione di inchiesta su tutto il funzionamento di questa complessa e importante azienda.

«Numeroso, Leone Giovanni, Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, e i Ministri dell’industria e commercio e delle finanze, per sapere se, in relazione ai vincoli rigorosi stabiliti per le altre provincie d’Italia sulla circolazione delle automobili e sull’assegnazione del carburante, sussista per Roma un particolare regime, tale da consentire che le automobili – sia di privata proprietà, che di pubblico servizio – vengano usate anche come mezzo ordinario di accesso, specialmente nelle ore notturne, ai locali di divertimento o di ritrovo in genere, e tale anche da consentire la larga circolazione di automobili dei Ministeri ed enti pubblici senza stretta necessità di servizio.

«E, comunque, per sapere se l’onorevole Ministro delle finanze non ritenga conveniente disporre perché i locali uffici finanziari e fiscali provvedano ad opportune ispezioni, nei luoghi sopradetti, per l’accertamento della proprietà degli automezzi come sopra adibiti, ai fini dell’acquisizione di più completi elementi di valutazione tributaria, quale parziale rimedio per l’imposizione di quella disciplina e solidarietà sociali, alle quali sono, in parte, legate le sorti della ricostruzione nazionale.

«Arata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere per quali ragioni, in occasione di una riunione di lavoratori indetta dalla Camera del lavoro nell’interno della Ditta Carlo Erba a Milano, la forza pubblica si è recata preventivamente presso la ditta, chiedendo se questa desiderava che la riunione venisse impedita con la forza, al che la ditta ha risposto negativamente; e se non creda che queste sollecitazioni di interventi non chiesti da nessuno, ma offerti tanto inopportunamente da parte delle autorità di pubblica sicurezza, non ottengano altro effetto che quello di inasprire gli animi e turbare l’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani Francesco»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere il motivo per cui non è stato ancora prorogato il termine di validità per la riduzione della tassa di registro dei contratti di cessione agli istituti bancari dei crediti degli appaltatori statali, beneficio inizialmente concesso con decreto 16 dicembre 1936, n. 2170, e susseguentemente confermato con ulteriori decreti. Tale termine è venuto a scadere il 30 giugno 1947 ed il mantenimento del beneficio è richiesto, tra l’altro, dalle esigenze dell’opera di ricostruzione del Paese.

«L’interrogante chiede se l’onorevole Ministro non ritiene, intanto, opportuno, nelle more della emanazione dell’ulteriore decreto di proroga, disporre che gli uffici competenti registrino i contratti di cessione percependo la tassa nella misura precedentemente praticata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Salvatore».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulla domanda inoltrata dal Rettore dell’Università degli studi di Catania perché siano assegnati alla detta Università i locali dell’ex G.I.L., in via Plebiscito, per l’istituzione della Casa dello studente: data l’importanza dell’Università di Catania, che conta circa 5000 iscritti, è necessario che essa sia fornita della Casa dello studente, come altre Università, anche meno importanti. All’uopo la destinazione dei locali suaccennati dell’ex G.I.L. riesce opportuna e soddisfacente. Tali locali, già appartenenti al comune di Catania, e poi ceduti all’Opera Balilla, cui succedette la G.I.L., sono affidati ad una gestione commissariale col compito di assegnarli alla G.I. Nulla di più adatto, quindi, che ne sia fatta la concessione per la istituzione della Casa dello studente in rispondenza ai fini stabiliti dalle vigenti disposizioni a favore della Gioventù italiana. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Di Giovanni, Sapienza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e come intenda intervenire in favore delle costituite cooperative edilizie tra impiegati statali per la costruzione di case di abitazione a scomputo e con partecipazione dello Stato.

«Il decreto legislativo 8 maggio 1947, numero 399, con le provvidenze dirette ad agevolare la ripresa delle costruzioni edilizie operanti nel territorio della Repubblica, costituisce un privilegio antidemocratico, perché privilegio è fonte inevitabile di protezionismi e di ingiustizie per difetto di controllo contro il numero rilevantissimo di interessati. Una estensione di tali privilegi alle diverse cooperative edilizie costituite in molti centri della Repubblica deve ritenersi, invece, protezione del cooperativismo che la Repubblica deve agevolare quale fonte di ripresa della economia nazionale; protezione della classe impiegatizia come da reiterati impegni governativi; gara tra Enti che lo Stato può bene controllare con provvidenze legislative le quali valgano anche a garanzia delle somme anticipate per le costruzioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sapienza, Di Giovanni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sollecitare il provvedimento di proroga del beneficio della riduzione di tassa di registro per le cessioni di credito degli appaltatori a favore delle banche che finanziano l’esecuzione dei loro appalti statali.

«Tale riduzione fu per la prima volta sancita dal decreto 16 dicembre 1936, n. 2170 e, poiché fu limitata nel tempo, sopraggiunta la recente guerra, fu rinnovata con altri decreti (decreti 23 marzo 1940, n. 286; 11 marzo 1941, n. 170; 24 dicembre 1942, n. 1633 ed altri). Dopo la guerra l’agevolazione fu ancora rinnovata per la ricostruzione; ma, poiché fu sempre posta una limitazione nel tempo, la agevolazione stessa è scaduta il 30 giugno 1947 e si attende la proroga già annunciata.

«Tardando tale proroga, gli appaltatori non possono fare altra cessione di credito alle banche perché la tassa normale sarebbe onerosissima, ed in mancanza di tale cessione, che le garantisca, le banche non fanno altri finanziamenti.

«Gli interroganti chiedono altresì che il Ministro delle finanze istruisca gli uffici dipendenti di percepire la tassa ridotta nelle more della pubblicazione del decreto contenente la proroga, come è avvenuto le volte precedenti. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Trimarchi, Caronia»

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 23.35.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccv.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

 

Congedi:

Presidente

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Targetti

Rossi Paolo

Scelba, Ministro dell’interno

Bitossi

Lizzadri

Uberti

Pella, Ministro delle finanze

Ghidetti

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Musolino

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Benedettini

Sforza, Ministro degli affari esteri

Caronia

Rossi Paolo

La seduta comincia alle 9.30.

ROSELLI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Cannizzo, Bianchi Bianca, Persico.

(Sono concessi).

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli Targetti, Malagugini, Carpano Maglioni, Vernocchi, Lussu, Maffi, Cianca, Macrelli, Cevolotto, Longo, Parri, Codignola, Priolo, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se sia esatto il riferimento, che un giornale della capitale ha pubblicato in questi giorni, di una intervista nella quale il Ministro avrebbe espresso opinioni, fatto apprezzamenti, e preannunciato propositi in pieno contrasto con l’azione che lo Stato, attraverso i suoi vari organi, deve compiere in difesa del suo nuovo ordinamento».

Segue poi l’interrogazione degli onorevoli Rossi Paolo, Bocconi, Lami Starnuti, Ghidini, Carboni Angelo, Pera, Mazzoni, D’Aragona, Piemonte, Grilli, Caporali e Zanardi, che, per affinità di argomento, ritengo possa essere abbinata alla precedente. L’interrogazione è del seguente tenore:

Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere, in relazione alle recenti dichiarazioni dell’onorevole Ministro di grazia e giustizia, se il Governo non creda che l’amnistia, istituto di cui si è per il passato deplorevolmente abusato, debba essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea, secondo previsto nel progetto di Costituzione».

L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, sono lieto di rispondere all’interrogazione dell’onorevole Targetti, che ha una portata di ordine più generale, ed a quella più particolare presentata dall’onorevole Rossi Paolo. Dico che sono lieto perché queste interrogazioni mi danno occasione di poter dire all’Assemblea quali sono i veri miei propositi al riguardo di questa materia complessa e per correggere degli errori eventuali e delle deformazioni che, credo, in buona fede, siano state espresse, anche da altri nostri colleghi, sulla stampa quotidiana.

Premetto, e questo è necessario saperlo, che non si tratta di una vera e propria intervista, in cui le parole siano state dettate, valutate e soppesate, ma di un colloquio, come chiaramente del resto è detto nella pubblicazione fatta dal giornale Tempo, fra me e l’avvocato Schirò, un antico funzionario dell’Assemblea, che oggi esercita con successo l’avvocatura; colloquio, come è detto nella stessa pubblicazione, cordiale, pur essendosi mantenuto fra punti di dissenso. E quel «fra punti di dissenso» vi dice che era un colloquio nel quale non eravamo completamente d’accordo. Del resto, il commento che segue dimostra che i concetti espressi dall’articolista non erano quelli da me manifestati.

Questa premessa è necessaria per chiarire il mio pensiero e rivedere in questo articolo quella parte che possa riguardarmi.

La materia trattata nel colloquio è vastissima e fu, sinteticamente, accennata. Essa meriterebbe una lunga ed ampia discussione perché investe tutti i provvedimenti presi contro il fascismo e contro il collaborazionismo in materia penale, elettorale, amministrativa. Tema, dunque, vastissimo.

Procediamo in via sintetica.

Materia penale: nella materia penale si presentano tre punti di vista: giurisdizioni speciali, legislazioni speciali, provvedimenti di amnistia intervenuti in questa materia.

Per quanto riguarda la legislazione speciale, voi sapete che vi sono provvedimenti del 1944 e del 1945 che formano la legislazione speciale per quel che riguarda i delitti fascisti e quelli di collaborazionismo.

Il tema fondamentale della conversazione che si svolse tra me e l’avvocato Schirò fu particolarmente quello che riguardava la parte giurisdizionale. E questa fu l’unica parte sulla quale fui veramente esplicito, e in cui dissi che pensavo (e su questo credo che siamo tutti d’accordo) di poter passare quanto più presto possibile dalle giurisdizioni speciali alla giurisdizione ordinaria; e dissi che il Governo aveva già preso provvedimenti nel senso che le Corti d’assise speciali venivano ad essere prorogate fino al 31 dicembre 1947 per quanto si riferisce ai processi già trasmessi in giudizio, mentre i processi ancora in istruttoria passavano alla magistratura ordinaria.

Questo è il provvedimento sul quale non possiamo non essere tutti d’accordo: tornare alla normale ed unica giurisdizione per tutti i cittadini italiani.

Rimangono solo in piedi i tribunali straordinari per le rapine, che, come sapete, furono determinati in seguito agli efferati delitti che minacciavano la sicurezza pubblica. Ma, ad ogni modo, tali reati vanno diminuendo con l’aumentare della sicurezza pubblica nel nostro Paese e soprattutto con l’aumento degli organi di polizia e col rafforzarsi del prestigio dello Stato. Il tribunale straordinario per le rapine è un istituto che potrebbe anche eliminarsi subito, se le condizioni in Sicilia non consigliassero di mantenerlo ancora per un po’ di tempo in funzione.

Questo giudizio, che espressi al mio interlocutore, lo confermo ora dinanzi all’Assemblea Costituente.

Per quanto riguarda l’amnistia, le mie dichiarazioni furono molto chiare ed esplicite e non comprendo come si possa equivocare al riguardo.

Io dissi che non credevo che si potesse intervenire nel modificare la legislazione vigente e neanche provocare altri decreti di amnistia. Io ritengo che ormai questo tema della legislazione speciale, che fu giustificato in clima speciale, non debba essere toccato.

L’amnistia, che porta il nome dell’onorevole Togliatti, l’amnistia del 1946, ha già svuotata quella legislazione, perché le leggi del 1944 e del 1945 consideravano reati che sono stati, nella grande maggioranza dei casi, amnistiati.

È vero che nei provvedimenti di amnistia vi sono alcune limitazioni; ma tanto la Cassazione, come magistratura ordinaria, quanto le Corti straordinarie, hanno raramente applicati questi limiti, perché furono congegnati in modo da rendere dubbia e difficile l’applicazione.

E allora, in questo dubbio, la magistratura assolve.

Questa è la verità.

Io non discuto il provvedimento, che fu emanato appunto per pacificare il Paese dopo il referendum, e per consolidare la Repubblica.

In conclusione, nell’intervista dissi: provvedimenti non prendo nel campo della legislazione speciale e non intendo nemmeno proporre nuove amnistie, perché sono anche d’accordo col principio esposto nell’interrogazione dall’onorevole Rossi ed altri che l’amnistia deve essere concessa dal Parlamento, come è già stabilito dall’articolo 775 del progetto di Costituzione. L’amnistia non deve essere un’arma in mano al potere esecutivo, ma deve essere riservata alla deliberazione dell’Assemblea parlamentare. Così del resto si fa in Francia, dove in questi giorni è stato approvato un provvedimento di amnistia con decisione del Parlamento.

Queste dichiarazioni, quindi, credo che non possano che trovare l’assenso dell’Assemblea, poiché rispondono a principî veramente democratici.

Ma qual è il punto incriminato, se così si può dire, di questa mia intervista? Che di fronte a taluni casi di condanne, che mi sono state prospettate, e possono apparire sproporzionate rispetto ad altre date in ambienti, in periodi di tempo diversi e con criteri differenti rispetto all’amnistia, il Governo possa intervenire con particolari provvedimenti di grazia esaminando caso per caso.

Non credo che si possa dire che io abbia con ciò scoperto le prerogative dei Capo dello Stato; anche perché, è sempre il Ministro di grazia e giustizia che deve proporre, sulle singole domande di grazia, i provvedimenti del genere.

In ogni modo, è bene che l’Assemblea conosca anche la cifra dei condannati e dei giudicabili per reati politici, perché possa illuminarsi sulla situazione precisa a questo riguardo: i condannati ed i giudicabili, prima che fosse emanato il provvedimento di amnistia, erano 10.851; poi, in seguito all’amnistia, furono liberati 6436, cosicché ne rimasero poco più di 4000. Questa era la situazione del dicembre 1946.

Nel maggio del 1947 erano rimasti soltanto, fra giudicati e giudicabili, 2978 casi, e di questi soltanto 1374 condannati e 1608 ancora giudicabili, ossia coloro, che debbono ancora subire il giudizio.

La portata, quindi, di tutta questa grande questione si riduce ad essere assai limitata.

Si è detto anche che in questo colloquio non mi sia occupato dei partigiani. Questo rilievo merita di essere considerato: non me ne sono occupato, prima di tutto perché non se n’è parlato, poi perché l’amnistia per i partigiani fu completa e si estese a tutti i reati politici da essi compiuti.

Non si tratta quindi di considerare a parte provvedimenti per i partigiani. L’unica pratica di partigiani di cui mi sono occupato (e a questo proposito è venuta da me una Commissione dell’A.N.P.I.) è questa: che vi sono alcuni partigiani che non sono stati ancora rinviati a giudizio. Ciò è dipeso dal fatto che la situazione di essi è collegata ad altre situazioni particolari di altri imputati di reati di rapina ed altri gravi delitti. Ad ogni modo, per questi pochi casi, io ho preso impegno perché i giudizi vengano affrettati con la maggior possibile sollecitudine. Non comprendo quindi che cosa ci possa essere da criticare sui concetti e sui propositi da me manifestati.

Questo per quanto riguarda la parte penale. Non reputo poi di dovermi occupare di ciò che ha detto un giornale circa la pretesa mia volontà di estendere l’amnistia alle disposizioni di carattere amministrativo, vale a dire, per essere più espliciti, alle confische dei beni di coloro che furono amnistiati. L’Assemblea sa benissimo che le confische dei beni sono comprese nell’amnistia, perché siamo nel campo delle sanzioni civili, non già di quelle penali. È quindi escluso, nel modo più assoluto, che io, come Guardasigilli, mi sia mai occupato di tale materia.

E veniamo ora alla parte elettorale. Mi si domandò se era opportuno e prudente privare, con disposizioni eccezionali, circa 200 mila persone del diritto del suffragio attivo.

Dissi, non già come Ministro, ma come membro della Commissione elettorale della quale ebbi a far parte sino a pochi giorni prima della mia nomina a Ministro, che non mi pareva che le norme fissate nella legge elettorale conducessero a tenere lontano dall’elettorato attivo questo gran numero di persone: per me si trattava e si tratta di escludere poche migliaia di persone. A che cosa si ridusse questo mio apprezzamento? Si ridusse a questo, che, all’obiezione rivoltami che non era conveniente e giusto continuare a sottrarre all’elettorato alcune centinaia di migliaia di persone, io mi limitai a rettificare che l’esclusione riguardava un numero di poche migliaia di cittadini.

Ultima questione quella relativa all’epurazione dell’Amministrazione statale, parastatale e degli enti locali. In risposta a questa domanda, dissi qual è l’attuale situazione, che cioè per gli alti gradi, vi sono circa 200 ricorsi al Consiglio dei Ministri, a cui bisogna, in un modo o nell’altro, provvedere.

In questa materia, mi limitai a dire che non si possono accettare i ricorsi di coloro che si sono affrettati a scegliere volontariamente la via del collocamento a riposo con trattamento di quiescenza, venendo così ad estinguere, in linea di diritto, ogni possibilità di un’ulteriore giurisdizione. Non ho quindi fatto altro, in merito a tale questione, che porre un limite a provvedimenti di clemenza e non già ad allargarli.

Per quello poi che concerne i gradi bassi, per i quali ben 15 mila ricorsi furono proposti al Consiglio di Stato, io dissi ciò che credo risponda a un sentimento unanime del Paese, come confermò l’onorevole Presidente del Consiglio in questa Assemblea, che cioè questi ricorsi pendenti presso il Consiglio di Stato, sono di coloro che rappresentano gli straccetti dell’Amministrazione, e mentre turbano la pace sociale servono ad inceppare tutto l’andamento dei lavori dello stesso Consiglio di Stato. Soggiunsi, quindi, che sarebbe quanto mai auspicabile addivenire ad una pacificazione, ad una sanatoria per tutta questa povera gente, anche perché è indubbio che questi piccoli sentono una disparità fra il trattamento fatto ad essi e quello che è stato fatto invece ai grandi e possenti del regime fascista.

Ecco dunque il succo delle mie affermazioni: affermazioni che la stampa ha riportato conferendo ad esse diversi significati od intenzioni, in buona o in mala fede, secondo le proprie tendenze ma che io comunque confermo ora dinanzi a voi, perché lo scopo che mi animò e mi anima non era se non quello di perseguire una maggiore distensione degli animi, per consolidare in questa maniera la Repubblica, voluta con decisione sovrana dal popolo italiano. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Targetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TARGETTI. Come ha detto l’onorevole Ministro, la nostra interrogazione si riferisce ad una materia molto vasta, complessa e importante tanto che non è possibile, in sede d’interrogazione, non dico trattarla a fondo, ma neppure entrare in molti particolari.

Da questo settore dell’Assemblea, dai vari gruppi che lo compongono, è stata presentata questa interrogazione perché si è sentita la necessità di richiamare l’attenzione prima del Ministro, poi dell’Assemblea, su quello che era stato l’effetto prodotto in molti ambienti dalla intervista o conversazione al ministro attribuita. Questa interrogazione gli ha dato modo di fare dichiarazioni delle quali prendiamo atto con vero compiacimento, se non altro in quella parte nella quale egli riconosce che vi sono degli errori da correggere nel riferimento delle sue parole e che sono state date interpretazioni arbitrarie al suo pensiero.

Egli spiega anzitutto che non si trattava di una vera e propria intervista, ma di una semplice conversazione. Io non ho nessuna autorità per dare consigli a nessuno e tanto meno agli egregi colleghi che occupano l’alto seggio di Ministro, ma, certo, meno interviste i Ministri danno e meno pericolo corrono di doverle poi correggere e in parte smentire.

Però, l’onorevole Grassi deve riconoscere che il riferimento del suo pensiero deve essere stato profondamente – direi quasi, stranamente – errato, se gli sono state attribuite affermazioni di tanta gravità, da lui non confermate e se alle sue parole è stata data una intonazione ben diversa da quella che, qui, hanno avuto le sue dichiarazioni.

Come suol dirsi, è il tono, che in gran parte, fa la musica; sicché lo stesso motivo, dà sensazioni diverse se è in tono maggiore o in tono minore. Si può passare dall’allegria alla malinconia. L’onorevole Grassi potrebbe dire che si è data da noi una interpretazione arbitraria, non serena. Ed è vero che in politica è difficile mantenersi giudici sereni. Ma l’onorevole Grassi deve tener presente quella che si può dire l’orchestrazione ricevuta dalla sua intervista da parte di movimenti politici, da parte di gruppi finanziari – ciò che è più grave – i quali sostengono che la Repubblica non ha bisogno di essere difesa, ma lo sostengono unicamente perché non vorrebbero che fosse difesa. Rivendicano la libertà di attentare alla libertà, che soltanto ieri, ed a prezzo di tanti sacrifici e dolori fu riconquistata. Si sono commentate e salutate quelle sue parole, onorevole Ministro, come l’inizio di una nuova politica del Governo, in questa materia. Una politica alla quale noi ci opporremmo con tutte le nostre forze. E non si può dire che siano state interpretazioni arbitrarie.

Guardi, onorevole Grassi. Quando ella ha parlato dell’abolizione delle Corti d’assise straordinarie, ne ha parlato come di una prova di un nuovo indirizzo per la normalizzazione che il Governo vuole conseguire.

Ella mi insegna che non è così. L’abolizione delle Corti d’assise straordinarie non è una novità programmatica. Era stata prevista anche dall’onorevole Gullo. Ella sa che queste Corti d’assise straordinarie dovevano morire il primo di agosto. Ciò non fu possibile, perché per quella data non era stata ancora costituita la nuova Corte d’assise non essendo ancora venuto all’Assemblea il disegno di legge relativo. Io non so se da un decreto preparato dall’onorevole Gullo o dall’attuale Ministro venne la proroga al 31 dicembre.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. La proroga è stata concessa per gli imputati già rinviati a giudizio; gli altri passano direttamente da oggi alle Corti d’assise ordinarie.

TARGETTI. Questa è una notizia che nell’intervista non c’è, ma che non mi rallegra eccessivamente, perché per quante critiche si possano fare alle Corti d’assise straordinarie, è ancora più difficile avere molta fiducia nelle Corti d’assise così come oggi sono costituite. Queste Corti d’assise con gli assessori di creazione fascista, non hanno accontentato nessuno: non quelli che sono fautori della giuria popolare, non quelli che ritengono che anche i reati più gravi debbano essere deferiti alla Magistratura ordinaria.

La composizione ed il funzionamento delle attuali Corti d’assise, le categorie sociali da cui vengono tolti gli Assessori, non ci rassicurano e quindi non ci rassicura, ma ci inquieta questa fretta di passare processi di carattere politico alle Corti d’assise ordinarie.

Ella ha annunciato anche, molto lietamente, l’abolizione dei Tribunali straordinari. Sì, lo so, è un principio meritevole del massimo ossequio, quello della unità giurisdizionale, ma non bisogna farne un feticcio.

L’unità giurisdizionale vale in tempi sani, in tempi normali. Ma perché ci si deve scandalizzare che in tempi così eccezionali come quelli che abbiamo attraversato e come sono in parte anche quelli che ancora attraversiamo, si sia dovuto fare ricorso a questi Tribunali straordinari, che poi sono Tribunali militari?

Io ho sempre pensato che per chiudere la bocca a quanti si scagliano contro questi Tribunali straordinari basti ricordare loro l’eccidio di Villarbasse.

Sarebbe disconoscere le esigenze della difesa sociale, rifiutarsi di riconoscere la necessità transitoria di norme di competenza eccezionali di fronte a manifestazioni eccezionali di impressionante criminalità.

Venendo al punto del dissenso più profondo, le ricordo, onorevole Grassi, come ella ad un certo punto, abbia detto nella sua conversazione, che l’attenzione del Ministro non poteva fare a meno di fermarsi sulla situazione di coloro che, in applicazione dei decreti del 1944 e 1945, sono stati colpiti con maggiore severità nel primo biennio dell’applicazione dei decreti stessi, che non successivamente. Vorrei dire che ella ha sparso qualche lacrima sopra la sorte di taluni di questi colpevoli che possono essere stati trattati più severamente di quelli giudicati più di recente. Ma ella non si è posto il problema se maggiore rispetto alle esigenze della giustizia vi sia stato nelle sentenze più severe piuttosto che nelle sentenze più miti.

Ella dice bene: è una materia complessa e grave che non si può discutere in questa sede. Ma anche qui è utile dire quanto sia pericoloso autorizzare, sia pure involontariamente, a rendere la repressione dei delitti fascisti una cosa sempre meno seria. E poi ella ha parlato anche delle interpretazioni contrastanti che hanno avuto le cause ostative all’amnistia.

Onorevole Grassi, questa sì che è una questione delicata e dolente a toccare.

Secondo lei l’amnistia del giugno 1946 avrebbe avuto interpretazioni contrastanti nel senso di aver dato luogo a delle ingiustizie che soltanto attraverso grazie ed indulti si possono riparare. Ma se c’è una caratteristica nell’interpretazione che la giurisprudenza ha dato a quel decreto, la caratteristica è di una costante aberrazione. Io mi permetto fare una sola citazione per tutte. Si tratta, fra le tante, di una sentenza della Corte di Cassazione. Non leggo il nome del Presidente, non leggo il nome del relatore. Preferisco non leggerli. Una sentenza della Cassazione, che stabilisce questo principio: in tema di collaborazione politica costituisce indubbiamente sevizia, ma non già sevizia particolarmente efferata qual è richiesta dall’articolo 3 del decreto 22 giugno 1946, per l’esclusione dell’amnistia, il sospendere un partigiano per i piedi e fargli fare da pendolo mediante pugni e calci, onde indurlo a dichiararsi colpevole ed accusare i propri compagni.

Onorevole Grassi, non tocchiamo proprio per pietà nazionale questo triste tasto dell’interpretazione data da tanta parte della magistratura… (Applausi a sinistra).

Per pietà nazionale, perché abbiamo tutti, perché ha la Nazione l’interesse di avere dei giudici che interpretino, sia pure errando – perché errare è umano e nel giudicare è ancora più facile – ma con coscienza, con intelligenza senza prevenzioni, senza faziosità la legge di cui è loro affidata l’applicazione. La interpretino sempre col proposito di renderla più che è possibile giusta, umana, utile ai supremi interessi della società, bene intonandola alla esigenza di giustizia fortemente sentita dalla collettività.

Ecco perché, anche per la buona amicizia che ci lega, onorevole Grassi, da tanti anni, ella deve credere che io mi sono sinceramente doluto quando ella ha fatto cenno a ciò.

Infine, quando ella, onorevole Ministro dice che bisogna intervenire efficacemente con larghi decreti di indulti per dei gruppi di condannati, lo dice, o glielo fa dire quel suo intervistatore che, avendo avuto, a quanto mi viene riferito, qualche dispiacere dall’epurazione, si trova forse in uno stato d’animo che gli fa attribuire al Ministro quello che corrisponderebbe ai suoi desideri.

GRASSI. Ministro di grazia e giustizia. Ho chiarito prima quale è stato il mio concetto… quello che ho detto.

TARGETTI. Prendo atto che non l’ha detta, questa che sarebbe stata una enormità giuridica ed anche una enormità politica e morale.

Ma chi si vuole beneficiare? Non bastano tutti quelli che sono sfuggiti a qualsiasi sanzione? Tutti quelli che sono stati beneficiati da una amnistia, diciamolo francamente, mal congegnata e malissimo applicata? A chi volete dare il beneficio della grazia e dell’indulto? Fra poco si finirà col condannare chi ha commesso il grave peccato di essere stato sempre antifascista, se si continua in questa strada. (Applausi a sinistra)

Ed io mi permetto concludere in questo senso, senza punta di malizia.

Onorevole Grassi, a quanto ini risulta, ella non è stata mai infetto da lue fascista. È questo un ottimo precedente. Per me la lue fascista è una di quelle malattie di cui difficilmente si può guarire interamente, quando un giorno abbia preso pieno possesso del nostro organismo.

Ella, questa lue, per sua fortuna, non l’ha sofferta. Non credo, quindi, che ella voglia dare alla sua politica un indirizzo che sarebbe di favoritismo fascista. Per farlo bisognerebbe anche che si mettesse d’accordo con l’onorevole De Gasperi. Con quello di ieri, se non con quello di oggi; con le dichiarazioni che fece presentando il suo… non so dirne il numero esatto, perché sono tanti questi suoi Ministeri, presentando il suo penultimo Ministero. In quelle dichiarazioni egli affermava precisamente e solennemente di voler provvedere alla difesa della Repubblica. E presentò un particolare disegno di legge che non ha ancora ritirato. (Commenti). Il Ministro di grazia e giustizia dovrebbe concordare questa nuova politica anche con l’onorevole Scelba, che, se non gode di una buona stampa presso di noi, non è certo perché non sia stato sempre antifascista e repubblicano. Come potrebbe associarsi ad una politica filofascista? Finché si tratta di proibire i comizi nelle fabbriche, è un’altra cosa. Si tratta di impedire la propaganda comunista e socialista. (Interruzioni).

UBERTI. Per evitare i contrasti fra operai nell’interno delle fabbriche.

TARGETTI. Questa è la curiosa giustificazione del provvedimento data dall’onorevole Scelba. Egli ha detto: «Abbiamo voluto proibire i comizi, perché nelle fabbriche ci sono diversità di opinioni».

Ma i comizi si tengono appositamente perché esistono diversità di idee. Altrimenti sarebbero perfettamente inutili.

Noi concludiamo, onorevole Grassi, augurandoci che ella voglia accentuare la politica di difesa della Repubblica, non già indebolirla. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Rossi Paolo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ROSSI PAOLO. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha troppa consuetudine con testi di filosofia per non sapere che la soddisfazione è fuori dei limiti del razionale. Non si dorrà, quindi, se manifesterò la mia parziale insoddisfazione! Sono imperfettamente sodisfatto, perché, mentre godo di sentire dalla sua autorevole voce che non si pensa ad una generale amnistia, ma ad un indulto per categorie (in realtà tutti i provvedimenti di amnistia e di indulto sono per categorie, per gruppi, perché fino adesso, anche nell’abuso ridicolo e spaventoso che si è fatto dal 1922 in poi, nessuno ha mai pensato ad una amnistia universale, ad un indulto per tutti, che superi i limiti delle categorie e perdoni alla totalità dei malfattori), e mi preoccupa la pubblicità data alle dichiarazioni dell’onorevole Ministro.

Ho detto che si è fatto dell’amnistia un largo e quasi ridicolo abuso. Permetterà l’Assemblea che io citi un passo del Guicciardini, in cui è contenuta una anticipazione del pensiero criminalistico italiano: «Bisogna punire tutti i delitti, bisogna punirli a dieci soldi per lira, ma fare in modo che vi sia la certezza della pena».

La politica seguita nell’ultimo trentennio è esattamente quella opposta.

L’onorevole Targetti ha citato una sentenza che tutti abbiamo letta con orrore. Dirò all’onorevole Targetti che insieme con il testo della sentenza è veramente deplorevole anche il testo della legge.

Sarebbe stato largamente sufficiente parlare di «sevizie», che è già un concetto ben grave e ben crudo. Si sono aggiunti un aggettivo spaventoso: «efferate», ed un avverbio anche più grave: «particolarmente». Si è parlato di «sevizie particolarmente efferate» creando una mostruosità, perché la persona che è capace di compiere «sevizie particolarmente efferate» è veramente un mostro, più che un uomo. Allora anche certe sentenze che avrebbero dovuto rettificare la legge, non si perdonano, ma si spiegano dicendo che si è fatto di questo istituto dell’indulto e della amnistia un deplorevole abuso anche dopo il fascismo.

Mi compiaccio di sentire dalla bocca del Ministro della giustizia l’affermazione perentoria e chiara, la promessa e, credo, l’impegno definitivo del Governo, che non si presenteranno progetti di amnistia e di indulto, se non attraverso la solennità e la responsabilità dell’Assemblea Nazionale.

Oserei dire che mentre la restituita democrazia ha fatto in molti campi veramente bene, veramente di più di quello che si poteva aspettare da un osservatore storico anche ottimista, è proprio nel campo della giustizia, nel campo delicatissimo della giustizia, che la nuova democrazia repubblicana non ha fatto una grande prova: politicamente non felici, tecnicamente mal congegnate, le leggi per l’epurazione e per la repressione dei delitti fascisti hanno mancato al loro scopo.

Vedo l’onorevole Cappi ed ho paura a far citazioni in latino (Si ride), che mi sgorgherebbero in questo momento dal cuore, perché, inciampando di un piede o di mezzo piede, mi attirerei le sue critiche. Citerò in italiano. C’è un passo dell’Andria di Terenzio in cui si dice: «Noi non tendiamo le nostre reti all’avvoltoio ed all’aquila, al nibbio ed allo sparviero, che ci danneggiano; tendiamo le nostre reti al passero ed al fringuello, al tordo e al merlo, che non ci fanno nulla». Tale è stata, in conclusione, la legislazione repubblicana, la non felice legislazione repubblicana, in tema di epurazione di delitti fascisti. Abbiamo lasciato passare con le loro grandi ali, i loro artigli ed i loro rostri voraci, il nibbio e l’avvoltoio, e più di qualche volta abbiamo messo in gabbia, o nella casseruola, il merlo ed il passero.

Capisco, onorevole Ministro – ed in questo mi dico sodisfatto, sebbene imperfettamente – la necessità di talune grazie che possono, non dico riparare degli errori, ma compensare ingiustizie e disparità. La giustizia è sostanzialmente proporzione, e quindi contraddice la propria essenza quando non è uniforme.

Capisco la necessità di provvedimenti particolari di grazia per riparare sproporzioni urtanti tra sentenze emanate immediatamente dopo la liberazione e troppo severe, e sentenze pronunciate dopo, infinitamente troppo benevole. Ma occorre, onorevole Ministro, in questo tema avere una straordinaria cautela, una straordinaria prudenza di linguaggio.

Noi abbiamo assistito, subito dopo la lotta della liberazione, a quella che gli inglesi, sempre formalisti nell’applicazione della giustizia, formalisti anche quando decisero, una volta sola nel corso della loro storia, di decapitare il re, chiamarono «rough justice», una giustizia ruvida, una giustizia scabra, ma giustizia.

Ebbene, il momento della giustizia ruvida, il momento della giustizia scabra è passato. Occorre avere in questo momento una grande attenzione, una grande riverenza, un grande riguardo per l’istituto della giustizia e per la giustizia in sé, che è così vivamente sentita dal popolo italiano. Questa grande riverenza, questo ossequio verso la giustizia, la sua amministrazione e il suo concetto, richiedono di non fare dichiarazioni, onorevole Ministro, che possano essere facilmente interpretate a rovescio, determinando stati d’animo appassionati, inquietudini, desideri ed incertezze. Occorre che questa sovrana prerogativa, questa, direi, quasi mistica prerogativa del Capo dello Stato, che è la grazia, non sia messa in piazza, non sia anticipata nei giornali. Occorre che il Ministro della giustizia, il Governo e il Capo dello Stato ci pensino, ma è bene che nessuno ne parli, onorevole Ministro.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni al Ministro dell’interno degli onorevoli Di Vittorio ed altri e dell’onorevole Lizzadri, che si possono abbinare, per affinità di materia:

Di Vittorio, Bitossi, Noce Teresa, Negro, Flecchia, Massini, al Ministro dell’interno, «sul contenuto della sua circolare telegrafica dell’8 luglio 1947, con la quale si dispone di sottoporre ad autorizzazioni e controlli della polizia le riunioni dei lavoratori all’interno delle aziende in cui lavorano, anche quando dette riunioni sono indette dalle Commissioni interne; ciò che costituisce un attentato gravissimo alle libertà democratiche e sindacali».

Lizzadri, al Ministro dell’interno, «per conoscere i motivi che hanno indotto il direttore generale della pubblica sicurezza ad emanare la circolare 40617/4412/1962 dell’8 luglio 1947, che vieta le riunioni all’interno delle fabbriche. Questo provvedimento annulla di fatto cinquanta anni di conquiste sindacali, realizzate dai lavoratori italiani di ogni tendenza politica col proprio sacrificio e spesso col proprio sangue, e pone il nostro Paese alla retroguardia di tutte le Nazioni democratiche del mondo. L’interrogante chiede, perciò, che la circolare venga immediatamente revocata».

UBERTI. Pregherei che si abbinasse anche la mia interrogazione sullo stesso argomento.

PRESIDENTE. L’onorevole Uberti ha presentato questa mattina la seguente interrogazione:

«Al Ministro dell’interno, sulla circolare riguardante i comizi politici nell’interno delle fabbriche e sugli scopi che l’hanno ispirata».

Anche questa interrogazione potrà essere svolta insieme con quelle degli onorevoli Di Vittorio e Lizzadri testé lette.

Comunico inoltre che l’onorevole Bibolotti ha comunicato alla Presidenza di aggiungere la sua firma all’interrogazione dell’onorevole Di Vittorio, cui risponderà ora il Ministro dell’interno.

L’onorevole Ministro dall’interno ha facoltà di parlare.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, poiché la circolare emanata dal capo della polizia, in ordine ai comizi nell’interno delle fabbriche, è stata pubblicata soltanto da un giornale italiano, e le ulteriori precisazioni emanate dal Ministero dell’interno in ordine a questa circolare non furono pubblicate dal giornale che aveva pubblicato la circolare della pubblica sicurezza, io mi permetterò, anche per una più chiara intelligenza della questione, di leggere il testo della circolare e le precisazioni del Ministero dell’interno.

La circolare del Direttore generale della pubblica sicurezza diceva:

«Risulta che le Commissioni interne di alcune imprese industriali hanno sollecitato autorizzazione a tenere comizi interno stabilimenti. Per tutela ordine pubblico, in vista possibili incidenti et ripercussioni da parte operai appartenenti diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni».

La precisazione del Ministero dell’interno, a seguito delle proteste di una parte della stampa e degli organi confederali, aggiungeva:

«Benché il testo sia sufficientemente chiaro, ad evitare arbitrarie interpretazioni ed ingiustificate agitazioni, si precisa che il richiamo riguarda unicamente i comizi per i quali occorre a norma di legge la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza.

«Sono escluse perciò ovviamente tutte le riunioni a carattere privato per le quali non occorre la preventiva autorizzazione da parte della pubblica sicurezza, ed a maggior ragione le assemblee dei lavoratori per la trattazione dei loro problemi sindacali.

«Inoltre, non si tratta, come si è asserito, di un divieto generale di comizi, ma, per ragioni di opportunità, di facoltà a non concedere le eventuali autorizzazioni quando circostanze particolari, da stabilirsi dalle autorità locali competenti, lo giustifichino.

«In quanto alla ragione della disposizione, si conferma che essa è stata sollecitata dai lavoratori a salvaguardia della loro libertà di opinioni e per evitare possibili conflitti nell’interno dei luoghi di lavoro».

Questo è il testo degli atti ufficiali che riguardano questa materia. Come è venuta al Ministero dell’interno l’idea di emanare una circolare siffatta? Essa, contrariamente a quanto si è voluto far ritenere, non corrisponde al proposito di limitare la libertà di chiunque, bensì di rafforzare la libertà di tutti.

Al principio del mese di luglio, il prefetto di una grande città industriale dell’Alta Italia informava il Ministero dell’interno che due Commissioni interne di due grandi fabbriche avevano chiesto l’autorizzazione a tenere comizi nell’interno degli stabilimenti. Il prefetto, nel segnalare la richiesta, faceva le seguenti osservazioni, che mi permetto di sottoporre all’Assemblea: «Rilevo che le maestranze, composte di operai di diverse tendenze politiche, dovrebbero tutte partecipare per opportunità ambientale, tanto più che eventuali assenze verrebbero indubbiamente notate e forse sorvegliate da compagni di lavoro di partiti diversi.

«È facile arguire che la situazione che ne deriverebbe potrebbe facilmente sfociare in gravi inconvenienti, poiché nel caso di partecipazione darebbe luogo a contraddittori e contrasti che turberebbero il regolare svolgimento dei comizi, per cui in casi di astensione di gruppi di tendenze diverse si verificherebbero incidenti che rappresenterebbero pericoloso lievito per altre manifestazioni all’interno e fuori degli stabilimenti. E ciò senza accennare alla gravità delle conseguenze, qualora, nel rovente clima di un comizio politico, si dovesse verificare la possibilità di disordini nel momento stesso il cui il comizio si svolge.

«Per questi motivi e per tali considerazioni, sottopongo a codesto Ministero, perché esamini l’opportunità con tempestive disposizioni di ordine generale, di proibire i comizi politici all’interno degli stabilimenti industriali».

Segnalazioni di questo genere erano pervenute da altre parti d’Italia, e gruppi di lavoratori avevano sollecitato anche il Ministero dell’interno a prendere provvedimenti di questo genere. È risultato anche che, in qualche posto, per evitare che venisse turbata la pace, l’armonia, la tranquillità nell’interno degli stabilimenti e fra i lavoratori, i rappresentanti dei partiti politici locali avevano preso l’iniziativa di evitare che nell’interno degli stabilimenti si tenessero comizi politici.

Queste, onorevoli colleghi, le ragioni che hanno consigliato e dettato la circolare. Attentato alle libertà democratiche? Nell’aprile scorso, in occasione della Pasqua, le organizzazioni dei lavoratori cristiani presero l’iniziativa di tenere delle conferenze in preparazione della Pasqua, nell’interno degli uffici e degli stabilimenti e al di fuori di essi. In quell’occasione, la stampa – e mi riferisco alla stampa che oggi protesta vivamente per le disposizioni emanate dal Ministero dell’interno – protestò non meno vivacemente contro questo intervento da parte di organizzazioni cattoliche che desideravano tenere nell’interno degli uffici, degli stabilimenti queste riunioni. Anche allora si insorse con energici inviti al Ministero dell’interno di impedire che si tenessero di queste riunioni.

Onorevoli colleghi, il Fronte di unità repubblicana – non so come oggi si chiami, perché si tratta di una associazione di forze politiche che varia continuamente – il Fronte di unità repubblicana dunque prese in quel momento anch’esso vigorosa posizione ed emanò un ordine del giorno di protesta che mi permetto di leggere all’Assemblea Costituente. Traggo questa lettura dal giornale Il Momento del 25 marzo 1947 e aggiungo che si tratta dei dipendenti del Ministero dei lavori pubblici. Ecco dunque in quali termini suona l’ordine del giorno di questo Fronte:

«Ritenuto che non si ravvisano motivi plausibili per giustificare tale determinazione – quella cioè di tenere conferenze religiose per i lavoratori nei luoghi del loro lavoro – sia perché non vi sono precedenti di tal genere neppure in periodo fascista, sia perché i dipendenti hanno tutta la possibilità, ove lo credano, di dedicarsi alle loro pratiche confessionali in giorni, in ore, in luoghi diversi da quelli del loro lavoro, nella preoccupazione che sotto la veste della pura manifestazione di ordine religioso se ne nascondano invece altre di carattere politico, eleva la sua protesta contro tali tentativi di raggiungere fini politici con mezzi apparentemente destinati ad altro scopo e ad elusione delle vigenti disposizioni».

Ora, onorevoli colleghi, qui si trattava di manifestazioni di carattere religioso, di quella religione che costituisce il patrimonio morale della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani.

MORANINO. Al Ministero della guerra sono state sempre tenute queste manifestazioni religiose e mai nessuno ha protestato: com’è?

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole collega, l’Avanti!, in data 25 dello stesso marzo 1947, trattando dello stesso argomento, arrivava addirittura a parlare di scandalo: era, per questo foglio, addirittura uno scandalo che si tenessero riunioni di carattere religioso nei luoghi di lavoro. Io non dico, onorevole collega, che riunioni di questo genere non si siano tenute; dico che se si è parlato di scandalo, allorché si è trattato di una manifestazione di carattere religioso, e quindi non politico, a maggior ragione si sarebbe protestato violentemente contro una manifestazione a carattere politico nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento.

Non intendo dire con questo che era legittima la protesta; dirò, anzi, che di quella protesta ritengo non si sia tenuto conto, tanto più che queste riunioni si tenevano fuori degli stabilimenti e tanto più – ripeto – che si trattava di manifestazioni religiose, di quella religione che, come dicevo prima, rappresenta il patrimonio comune… (Proteste a sinistra).

GIUA. Non era quello il luogo; ci sono le chiese.

TONELLO. Andate in chiesa!

SCELBA, Ministro dell’interno. …di tutti i lavoratori italiani o perlomeno della stragrande maggioranza dei lavoratori italiani. (Interruzioni dei deputati Moranino e Pratolongo – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Moranino, non interrompa! Onorevole Pratolongo, non è lei l’interrogante che ha diritto di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole Tonello, non si trattava di una cerimonia religiosa; si trattava di conferenze da tenersi nei circoli ricreativi. (Interruzioni a sinistra – Proteste al centro).

Dicevo che se vi è stata tanta sensibilità per una riunione a carattere religioso, se si è ritenuto che tenere nell’interno di un ufficio o di uno stabilimento riunioni a carattere religioso fosse addirittura un attentato alla libertà politica dei lavoratori, perché attraverso manifestazioni a carattere religioso si potevano raggiungere delle finalità politiche, a maggior ragione penso che allorché si vogliano tenere delle manifestazioni spiccatamente politiche non possano venire meno le preoccupazioni affacciate per manifestazioni a carattere religioso.

Comunque, onorevoli colleghi, ho voluto richiamare questi precedenti, perché la sensibilità politica deve essere generale, e quando si condanna un provvedimento, bisogna esaminarne la genesi, le ragioni e avere una certa coerenza; ma il provvedimento in sé e per sé non instaura e non innova nulla. È stato affermato ed era chiaramente detto e indicato che noi non si intendeva interferire nelle manifestazioni all’interno degli stabilimenti; dico che con questa disposizione non sono vietate neppure, come si è detto, le conferenze e neppure i comizi, a priori, anche nell’interno degli stabilimenti; ma si dà la possibilità alla autorità di pubblica sicurezza, e nei casi in cui l’autorità di pubblica sicurezza lo ritiene in virtù delle leggi vigenti, di concedere o non concedere l’autorizzazione a tenere il comizio politico nello stabilimento; così come è data all’autorità di pubblica sicurezza la possibilità di concedere o non concedere la possibilità di tenere un comizio politico in una grande piazza, quando particolari ragioni, quando particolari contingenze possono sconsigliare di concedere una siffatta autorizzazione. Anche a proposito dell’autorizzazione di tenere comizi nelle piazze, per esempio, a seguito dei noti incidenti verificatisi in Italia, abbiamo richiamato l’attenzione della pubblica sicurezza, nel desiderio di evitare turbamenti all’ordine pubblico, alla pace sociale, per garantire ed assicurare che la lotta politica si svolga (Interruzioni e commenti a sinistra) in clima di assoluto rispetto democratico, perché si neghi l’autorizzazione a tenere comizi in piazze centrali.

Una voce a sinistra. Anche Mussolini parlava così!

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, posso dire che quando Mussolini vietava i comizi, il divieto valeva per gli oppositori, mentre lasciava piena ed unica libertà al suo partito di tenere tutti i comizi che voleva. (Interruzioni a sinistra).

Nel caso specifico la disposizione ha un valore generale, e non vieta i comizi, ma vieta i comizi nelle fabbriche.

TOGLIATTI. Siete un altro che prende a maestro Mussolini! (Proteste al centro).

SCELBA, Ministro dell’interno. È dovere del Governo di assicurare che la lotta politica, che la propaganda politica si svolgano col rispetto delle minoranze. Ora, se una base morale e prettamente democratica ha questo provvedimento, precisamente sta in questo: di volere assicurare la libertà di opinione delle minoranze politiche. (Interruzioni a sinistra).

E sta in questo, onorevoli colleghi, la caratteristica di una democrazia: cioè a dire nello sforzo di assicurare la libertà delle minoranze, perché, assicurando la libertà delle minoranze, si assicura la libertà della stessa maggioranza; dato che ciò che oggi è maggioranza può essere minoranza domani. (Applausi al centro – Rumori a sinistra – Interruzione del deputato Bitossi).

Vengo a lei, onorevole Bitossi.

Io sono pienamente d’accordo con l’onorevole Bitossi. Sono d’accordo in questo: che io dovrei augurarmi e anzi dovrei avere la certezza che la Confederazione del lavoro è col Governo in questa politica. Perché l’onorevole Bitossi o l’onorevole Di Vittorio devono garantire la libertà di tutti i lavoratori indipendentemente dalla loro fede politica, come posso pretendere dal mio amico Pastore che deve tutelare e difendere la libertà delle opinioni politiche dei lavoratori socialcomunisti. Ma esiste la possibilità che venga minacciata, sia pure attraverso intimidazioni di carattere psicologico, la libertà di opinione dei lavoratori; come, ad esempio, quando le Commissioni di fabbrica prendono iniziative di carattere non sindacale (su cui nessuno discute perché questo è loro compito istituzionale), ma di tenere comizi di parte – che poi sono sempre di una sola parte. Qui la libertà sindacale non c’entra; e che le Commissioni di fabbrica si tramutino talvolta in agenti di partito è più che provato.

Si è visto, per esempio, di recente in una grande città dell’Alta Italia, una Commissione di fabbrica pretendere che i lavoratori facessero quattro ore di straordinario destinando il 50 per cento del ricavato all’assistenza interna e il 50 per cento a favore della stampa comunista.

Così, in un’altra grande città del Nord, è avvenuto che la Commissione interna (e d’onorevole Bitossi ne sa qualche cosa, perché vi è stata una larga polemica) e la Camera del lavoro abbiano preso l’iniziativa di fare lavorare in giorni festivi tutti i lavoratori a favore del Partito comunista. (Commenti).

Ora che il nostro sforzo di ristabilire la legge, di ristabilire la normalità, il nostro sforzo di assicurare a tutti i lavoratori la loro piena libertà di opinioni (Interruzioni a sinistra), e che non subiscano neppure la coazione morale che deriva dal numero e dalla maggioranza, che questo sforzo di restaurazione delle libertà possa essere qualificato gesto reazionario o antidemocratico, io personalmente non lo vedo; e non posso accettare questa critica nei limiti in cui il provvedimento è stato emesso nell’ambito delle leggi, nel rispetto di tutte le libertà.

Peraltro non ho mai considerato che i lavoratori che si riuniscono su invito delle Commissioni interne per trattare problemi di categoria facciano comizi; considero la riunione un’assemblea libera di lavoratori che discutono problemi propri di lavoro, e per queste assemblee nessuno ha mai pensato che potessero comunque interferire l’autorità dello Stato e la polizia. Per il divieto che, ripeto, non ha carattere generale, ma significa soltanto possibilità, facoltà, consentita all’autorità di pubblica sicurezza di vietare in determinate circostanze, non occorreva neppure un’autorizzazione espressa, perché le autorità già posseggono questo diritto. Si tratta di un richiamo specifico ad una possibilità, ad una situazione, che era stata particolarmente segnalata dagli organi responsabili dello Stato: possibilità di evitare manifestazioni politiche per assicurare la pace all’interno degli stabilimenti ed il libero sviluppo delle attività del lavoro per evitare conflitti (ce ne sono tanti nelle piazze e nella stampa).

Ma lasciamo che i lavoratori, nelle ore di lavoro, lavorino in pace, tranquillamente, senza che la politica vada a turbare tutte le manifestazioni della vita sociale! (Applausi al centro).

Se questo sforzo, che tende a restaurare e garantire la libertà di tutti, possa essere qualificato antidemocratico, lascio all’Assemblea di decidere. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Bitossi, secondo firmatario della prima interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BITOSSI. Il testo del telegramma inviato dal Ministro dell’interno ci indica non solo il fatto in se stesso della proibizione delle riunioni di carattere politico, ma implica tutte le riunioni. È quindi logica l’interpretazione data dalla pubblica sicurezza locale di proibire tutte le riunioni sia di carattere politico, sia di carattere sindacale che erano state convocate nell’interno degli stabilimenti. Ma il fatto in se stesso dell’invio di un simile telegramma ci indica un indirizzo che – con un susseguirsi di fatti – ha portato alla promulgazione del telegramma di cui trattasi.

Sarà una cosa strana, onorevole Scelba, ma noi dobbiamo constatare che tutte le volte che le organizzazioni sindacali affrontano un problema tendente a ottenere determinati miglioramenti per la massa dei lavoratori o per qualche categoria, interviene sempre un atto del Ministro dell’interno che sembra voler dire ai datori di lavoro o agli industriali: «Tenete duro, ci sono io che vi proteggo (Rumori, al centro – Approvazioni a sinistra), ci sono io che vengo in vostra difesa».

E infatti possiamo constatarlo. Una categoria di lavoratori affronta un contratto nazionale. Vi è alla testa, alla dirigenza, un elemento attivo che cerca di tutelare gli interessi dei lavoratori. Si prende a pretesto che questo è un cittadino svizzero e lo si espelle dall’Italia in maniera brutale che, democraticamente, non è assolutamente ammessa.

Voci a sinistra. E i fascisti li tengono!

BITOSSI. Lo si attende che passeggi per la strada, si allontana la moglie, si carica su di una macchina e, senza documenti e senza un soldo, lo si porta alla frontiera svizzera. Si noti che questo cittadino svizzero è nato in Italia, ha fatto gli studi in Italia, si è laureato in Italia, vive da undici anni a Sondrio; ha combattuto, malgrado fosse cittadino svizzero, nelle formazioni di partigiani italiani per l’indipendenza italiana.

Voci a sinistra. Appunto per questo!

BITOSSI. Per il semplice motivo che era svizzero, lo si prende e lo si manda via.

Non solo: si sta affrontando il problema dello sblocco dei licenziamenti. Si vuole impedire che i licenziamenti avvengano, che gli industriali, approfittando di questa congiuntura, gettino sul lastrico elementi che sono attristi sindacali.

Ebbene, a Prato, in Toscana, i lavoratori di uno stabilimento tessile reagiscono; dichiarano lo sciopero bianco per impedire che due membri scaduti della Commissione interna dopo venti giorni siano licenziati. La polizia interviene, occupa lo stabilimento e provoca naturalmente la chiusura dello stabilimento medesimo, che ci risulta ancora occupato dai carabinieri!

Onorevole Scelba, il problema del contenuto del telegramma è stato posto perché proibisce le riunioni dentro le fabbriche non politiche; perché il testo del suo telegramma non lascia dubbi, proibisce tutte le riunioni.

SCELBA, Ministro dell’interno. Parla di comizi. (Rumori a sinistra).

BITOSSI. Io non sono un letterato, ma quando il suo telegramma dice: «Per tutela ordine pubblico in vista possibili incidenti e ripercussioni, da parte operai appartenenti a diverse tendenze politiche, rappresentasi opportunità che competenti autorità pubblica sicurezza non accordino autorizzazioni», io non vedo che sia fatta distinzione tra comizi politici e sindacali. Il fatto in se stesso è questo: che il suo telegramma dall’autorità di pubblica sicurezza e dallo stesso suo direttore generale, Ferrari, è stato interpretato nel senso che tutti i comizi e tutte le riunioni sindacali erano proibite. Tanto è vero che il suo direttore generale è intervenuto perfino qui a Roma, ad impedire che il Circolo romano del CRAL dei ferrovieri potesse eleggere i propri rappresentanti perché non aveva chiesto l’autorizzazione, ecc.

Quindi lo spirito del telegramma investe tutte le riunioni. Ma quello che a me interessa, come organizzatore sindacale e come appartenente alla Confederazione, è che il fatto è strettamente connesso con un altro. Onorevole Scelba, noi con la Confindustria stiamo studiando la regolamentazione delle Commissioni interne. Lascio a lei giudicare! Noi presentiamo alla Confindustria un progetto dove è detto fra l’altro: «Per qualsiasi riunione delle maestranze nei locali dello stabilimento, le Commissioni interne o l’incaricato sindacale devono avvertire la direzione».

Nel frattempo interviene il telegramma del Ministro Scelba. La Confindustria propone l’accettazione di un altro testo che è il seguente: «Per qualsiasi riunione di lavoratori da tenersi nell’ambito dello stabilimento, e che sia necessaria per l’espletamento dei propri compiti ai sensi dell’articolo 2, ecc., la Commissione interna o l’incaricato sindacale devono ottenere l’autorizzazione della direzione».

Quindi siamo qui di fronte al fatto che mentre fino ad oggi la prassi ordinaria è stata che le Commissioni interne, vista la necessità di convocare le maestranze allo scopo di illuminarle su determinate attività, avvertivano la direzione di questa necessità di riunione senza chiedere l’autorizzazione, oggi, viceversa, i lavoratori, se noi accettassimo il comma, come ci è stato proposto, dovrebbero chiedere l’autorizzazione alla direzione e alla pubblica sicurezza, in maniera che le riunioni non potrebbero praticamente svolgersi tempestivamente.

Ma è proprio esatto che i lavoratori, che le riunioni sindacali, che le riunioni di qualunque genere, devono ottenere l’autorizzazione per convocarsi nell’interno dell’officina?

È un comizio che si fa o è una riunione privata? Perché io ammetto che si possa anche eventualmente far chiedere l’autorizzazione per i comizi di piazza, ma lì non si tratta di comizi aperti al pubblico ai quali tutti possono partecipare. Lì si tratta di una riunione privata, tenuta in luogo privato, alla quale partecipano elementi esclusivamente appartenenti a quel determinato ambiente di lavoro ed ove gli estranei non sono assolutamente ammessi; quindi sono riunioni a carattere interno, a carattere privato, ed io penso che non si possa né si debba chiedere alcuna autorizzazione. (Rumori al centro).

L’onorevole Scelba ha voluto cercare dei precedenti e ha detto che alcune Commissioni interne, alcuni organismi hanno chiesto l’autorizzazione. A noi della Confederazione non ci risulta che questo sia mai avvenuto. Nessuna Commissione interna ha chiesto l’autorizzazione per fare una riunione interna, perché è la prassi normale, in quanto c’è una regolamentazione – c’è l’accordo Buozzi-Mazzini – che detta la regolamentazione per le riunioni interne degli stabilimenti. Ma indipendentemente da questo fatto, ha voluto cercare di riallacciarsi ad alcuni fatti ed episodi durante il periodo di preparazione o di discorsi per la Santa Pasqua.

Venendo quindi ad un filo logico delle cose, noi saremmo allora (per interpretare il vero senso reale delle parole dell’onorevole Scelba) solamente autorizzati a fare riunioni interne negli stabilimenti se si tratta di andare a sentire una Messa o soltanto dei discorsi per la Santa Pasqua, perché questi non vengono proibiti, in quanto, secondo lui, non sono di un aspetto tale da richiedere la proibizione, mentre le riunioni di carattere sindacale…

SCELBA, Ministro dell’interno. Lei discute a vuoto. Mi pare che ho precisato che le riunioni sindacali non sono soggette alla disposizione ministeriale…

BITOSSI. Io domando a lei come può, ad un determinato momento, riconoscere che una è una riunione sindacale e l’altra è politica oppure se una riunione sindacale diventa o sta per diventare riunione politica, secondo il criterio con cui viene esaminata. Se in una assemblea di stabilimento si esamina, per esempio, il problema del carovita e nel corso della discussione si biasima eventualmente l’atteggiamento del Governo che non realizza determinate azioni in favore di un ribasso del costo della vita, lei me l’interpreta come una riunione politica e mi manda in galera per sei mesi il segretario della Commissione interna. Ripeto dunque che per qualunque riunione che abbia luogo negli stabilimenti (essendo riunioni chiuse senza la partecipazione di estranei) né il Ministro dell’interno, né la Questura locale possono pretendere di far chiedere l’autorizzazione agli organi di polizia.

Io credo quindi che lei, se effettivamente vuole realizzare la tranquillità nelle aziende, non può che ritirare il telegramma che ha fatto.

Non è esatto che negli stabilimenti non vi sia libertà di espressione di tutte le tendenze. Noi usciamo da poco tempo dal Congresso confederale. In tutte le fabbriche hanno avuto luogo le assemblee precongressuali. C’è stato il cozzo di idee, di indirizzo politico, indirizzo e cozzo di idee che hanno portato al congresso confederale una minoranza agguerrita con 600.000 voti, il che dimostra che la democrazia, la libertà di riunioni, il rispetto dell’altrui pensiero, sono stati appieno rispettati nelle riunioni sindacali tenute nell’interno degli stabilimenti.

Non può ella, oggi, con un pretesto qualsiasi, togliere la libertà di riunione e la libertà sindacale, ed impedire che dei lavoratori si radunino per esprimere le loro opinioni su tutto quanto interessa e la vita aziendale e la vita nazionale, senza commettere un atto di arbitrio, il quale, invece di portare negli stabilimenti la tranquillità, vi porta un continuo fermento.

L’onorevole Scelba sappia che i lavoratori hanno un alto senso di responsabilità e che, se ci sono contrasti interni sulla opportunità di convocare o meno una determinata assemblea, questa è questione che può eventualmente interessare l’organo massimo dell’organizzazione sindacale, cioè la Confederazione. Lasci che la Confederazione continui a far vivere nell’ambito delle collettività lavorative tutti i lavoratori, non frapponga fra i lavoratori medesimi e le organizzazioni sindacali degli impedimenti, che invece di portare tranquillità nelle aziende, vi portano perturbamento, confusione ed attriti più forti di quello che ella non possa immaginare.

Se ella non ritirerà il telegramma o non darà il chiarimento che esso non intende assolutamente proibire le riunioni di qualsiasi natura negli stabilimenti, ella dovrà affrontare una serie di agitazioni, che metteranno in subbuglio le aziende. (Proteste al centro).

Una voce a sinistra. A Portolongone ci andrete voi.

BITOSSI. I lavoratori, che sanno di aver conquistato duramente questa libertà di riunione, che ella oggi vuole togliere, sapranno con tutti i mezzi difenderla. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Lizzadri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LIZZADRI. Dalle parole del Ministro dell’interno devo constatare che la sostanza è questa. La prima circolare è stata mandata l’8 luglio. Se non ci fossero state le proteste dei giornali e degli interessati, cioè le agitazioni nelle fabbriche, probabilmente le cose sarebbero rimaste come il Ministro dell’interno ed il Direttore generale di pubblica sicurezza avrebbero voluto, cioè il divieto di tutte le riunioni.

SCELBA, Ministro dell’interno. Perché, dai primi di luglio fino all’altro ieri non sono state tenute riunioni nelle fabbriche?

LIZZADRI. Per fortuna delle nostre organizzazioni la burocrazia in Italia è molto lenta e la vostra circolare è arrivata con molto ritardo; se no, avremmo avuto i primi incidenti.

L’onorevole Ministro ha letto l’ordine del giorno del Fronte repubblicano dei partiti; non possiamo seguirlo su quella strada.

Perché non ci legge, invece, le dichiarazioni degli interessati, che sono i lavoratori? Perché non va a domandar loro cosa vogliono: se vogliono o no tenere queste riunioni, o perlomeno se la stragrande maggioranza le voglia o no?

Mi permetta di dire che la sua risposta è stata poco abile in certi punti, quando ha portato dei paragoni di alcune riunioni che si vietano o alle quali per lo meno alcuni partiti sono contrari. Praticamente, la conclusione di questa risposta è che, se si potessero tenere liberamente le riunioni del suo partito, ella non avrebbe diramato la circolare, non avrebbe impedito che altre correnti potessero tenere le loro riunioni. Ma, quando ha accennato che i partiti fanno questo e fanno quello, è chiaro il riferimento: se questo lo lasciate fare pure a noi o lo lasciate fare solo a noi, sta bene. Se volete farlo solo voi, non sta bene. Ma questa è la risposta di un uomo di parte e di un partito e non può essere la risposta di un Ministro della Repubblica italiana.

Ora, prima di tutto, le riunioni dentro le fabbriche sono private o pubbliche? Qui bisogna intendersi, onorevole Scelba, perché sconfiniamo in un campo molto vasto. Come si fanno le riunioni nelle fabbriche? Si fanno a porte chiuse: si chiude il cancello e tutti i lavoratori che vogliono o non vogliono partecipare, intervengono a questa riunione…

BENEDETTINI. Anche quelli che non vogliono! Bei sistemi!

LIZZADRI. Un momento: ora vi servo subito.

Il Ministro ci ha detto che probabilmente, se ci fossero dei non intervenuti, chissà cosa succederebbe. Egregi colleghi, le fabbriche non sono mica il Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per cui se i professori non vanno a votare, viene messa una nota caratteristica… (Rumori al centro).

Voci al centro. È ben peggio!

LIZZADRI. Chi deve giudicare se la riunione è privata o non privata; se è politica o sindacale? La polizia. Praticamente, cosa succede? Avete giudicato bene e valutato obiettivamente le conseguenze di certi atti? E la polizia che ad un certo momento giudica che quella riunione ha quel tale carattere. Sapete come avvengono le riunioni nelle fabbriche? Ve l’ha già spiegato il compagno Bitossi. Si passa la parola di compagno in compagno: stasera ci vediamo sul piazzale della fabbrica! E la sera si vedono sul piazzale e ad un certo momento, se c’è la necessità, si fa un ordine del giorno, si parla male del Governo. La riunione diventa politica. Qualcuno telefona alla polizia: diecimila, cinquemila o cinquecento lavoratori sono riuniti sul piazzale. Accorre la «Celere». Cosa succede? Vi siete posto questo problema nell’emanare la circolare? Guardate che se quella circolare non avesse tutti i crismi della regolarità: numero di protocollo, data, firma del direttore generale della pubblica sicurezza, io avrei tutti gli elementi per credere che quella circolare è stata fatta da agenti provocatori, per provocare disordini nell’interno delle fabbriche. (Applausi a sinistra). Ma sulla sostanza, che cosa c’è da dire? Nulla, tranne quei piccoli particolari e quelle manifestazioni, che sono discutibili e di cui lei ci ha parlato. Adesso citerò le grandi manifestazioni politiche, non di carattere sindacale, avvenute nell’interno delle fabbriche. Ne citerò tre, per dirvi lo spirito e la comprensione dei nostri lavoratori. Abbiamo tenuto tre sole grandi manifestazioni politiche.

La prima per la morte del Presidente Roosevelt. Abbiamo invitato tutti i lavoratori a riunirsi nei piazzali delle fabbriche, per commemorare la grande figura del Presidente scomparso.

La seconda per la morte dell’onorevole Grandi, l’apostolo dell’unità sindacale. Noi abbiamo invitato i lavoratori a commemorare la figura di un uomo, che ha speso tutta la vita per i lavoratori italiani.

La terza, per l’ingiusta pace.

Queste le sole manifestazioni politiche in grande stile organizzate nell’interno delle fabbriche. Voi, mi pare, non dimostrate eccessiva riconoscenza verso questi lavoratori. È avvenuto mai nessun conflitto tra lavoratori nell’interno delle fabbriche? Non è avvenuto mai. Io ho fatto tanti comizi: chi non voleva ascoltarmi se ne andava e nessuno lo tratteneva. (Rumori al centro e a destra).

Voci al centro. Non è così, non è così!

LIZZADRI. Cari colleghi, se dite questo, dimostrate di non avere nessuna conoscenza degli uomini delle nostre fabbriche. Per esempio, alla Fiat-Mirafiori ci sono ventimila lavoratori. Andate a prender nota dei mancanti. Questo può dirlo soltanto chi non è stato mai nell’interno delle fabbriche.

Onorevole Ministro dell’interno, potete star tranquillo: la circolare bisogna interpretarla nel momento in cui è stata emanata. Perché è stata emanata oggi e non sei mesi o un anno fa? Perché c’è un Governò democristiano. C’è una ragione. Andate voi stessi nelle fabbriche e voi stessi vedrete che lavoratori, comunisti, socialisti o democratici cristiani, sono tutti contro questo Governo reazionario, tutti senza eccezione. (Applausi a sinistra – Proteste al centro).

Ci sono due constatazioni che mi permetto di fare su questa circolare, che mi rende veramente perplesso. Una è di carattere interno e l’altra è di carattere esterno. Quella di carattere interno è lo zelo che pongono il Ministero dell’interno e la pubblica sicurezza nel cercare di interpretare certi orientamenti. Noi stiamo trattando da un anno con la Confindustria la regolamentazione delle Commissioni interne. Mai la Confindustria ha chiesto che fossero vietate le manifestazioni nell’interno delle fabbriche. Ci hanno detto che la Confindustria (e questo dimostrerebbe in un certo senso la responsabilità dei dirigenti dell’industria italiana) non ha avuto il coraggio di dirlo apertamente, ma ha fatto sapere che se ci fosse qualche cosa che potesse impedire queste manifestazioni, alla Confindustria farebbe molto piacere.

Il secondo lato, quello esterno, mi dispiace come italiano. Voi non avete nessuna preoccupazione delle ripercussioni che questo fatto può avere all’esterno…

SCELBA, Ministro dell’interno. Quando ci disturbavate a Venezia, non pensavate alle ripercussioni all’estero. (Commenti a sinistra). Per non disturbare la libertà, bisognerebbe che ci steste voi al Governo! (Commenti e interruzioni a sinistra).

LIZZADRI. Voi sapete che a Ginevra c’è stata una grande assemblea alla quale sono intervenuti moltissimi Stati del mondo per discutere la libertà sindacale. E sapete per quali ragioni è venuta proprio in discussione la libertà sindacale? Perché il Senato americano aveva votato delle leggi alle quali lo stesso Presidente aveva messo il veto. Io sono stato orgoglioso, come socialista e come italiano, di poter dire ad una assemblea di cinquanta Nazioni che la nuova Costituzione della Repubblica dei lavoratori italiani ci metteva all’avanguardia della legislazione sociale di tutto il mondo. C’è stato un mio collega belga (si vede che anche loro, presso a poco, si trovano nelle nostre stesse condizioni) che ha sorriso ed avvicinandosi mi ha detto: «Ma non avete in Italia un Governo democristiano?». «Sì, lo abbiamo», gli ho risposto. «Ed allora, non bisogna sbilanciarsi troppo in certe affermazioni», mi ha detto. Questa mattina ho ricevuto una lettera di questo collega belga che mi diceva: «Caro Lizzadri, le mie previsioni erano esatte, perché hai visto che cosa ci fanno i Governi democristiani?». Questi Governi, si chiamino cristiano-sociali o democristiani, sono quelli che si oppongono sempre a qualsiasi passo dei lavoratori verso il progresso. (Applausi a sinistra – Proteste e interruzioni al centro).

Una voce al centro. Demagoghi siete!

LIZZADRI. C’è qualche altra cosa, onorevoli colleghi, che secondo me il Ministro, (non dico il direttore generale della pubblica sicurezza, perché egli avrebbe forse il dovere di dimenticare certe cose) che è un uomo politico e che è stato un antifascista, ha il dovere di tener presente. Ma il Ministro dell’interno, secondo me, nel fare quella circolare, ha dimenticato tre cose:

1°) ha dimenticato che i lavoratori italiani, in riunione all’interno delle fabbriche, organizzarono i famosi scioperi del 1943 che diedero il primo colpo al fascismo;

2°) ha dimenticato che il sabotaggio alla produzione industriale durante l’occupazione nazista fu organizzato in riunioni all’interno delle fabbriche.

MEDI. Perché in quel momento non bisognava lavorare. (Rumori a sinistra – Commenti – Apostrofi del deputato Laconi all’indirizzo del deputato Medi).

PRESIDENTE. Onorevole Laconi, se ella continua, sarò costretto a richiamarla formalmente a norma del Regolamento. (Approvazioni al centro).

Loro tacciano, perché non hanno certamente titolo di merito stamane.

Desideravo precisare che l’onorevole Medi ha detto semplicemente questo: «Perché in quel momento non bisognava lavorare».

Quindi, nella fattispecie, non ha pronunciato parole che possano da nessuno essere ritenute offensive; e ciò posso dire anche perché da questo banco si sentono meglio le interruzioni.

Dopo di che richiamo l’Assemblea a un maggior rispetto dell’ordine.

LIZZADRI. Dicevo: c’è una terza cosa che il Ministro dell’interno ha dimenticato: che il salvataggio di quelle fabbriche e di quei grossi impianti è stato organizzato da quei lavoratori in riunioni tenutesi durante l’occupazione nazista; e se l’ha dimenticato il Ministro dell’interno, io posso assicurare l’onorevole Scelba che non l’hanno dimenticato i lavoratori democratici cristiani.

Io credo che sarebbe molto più giusto e riconoscente verso questi lavoratori che lei e il suo direttore della pubblica sicurezza facessero un altro uso e delle circolari e della polizia. Mandare la polizia contro i lavoratori non ha giovato mai a nessun Governo, onorevole Scelba. Voi avete dimenticato, io credo, che ci sono ancora delle donne e dei bambini assassinati in Sicilia che attendono giustizia dalla vostra polizia. Mandate i carabinieri, mandate la Celere a trovare gli assassini di queste donne e di questi bambini e allora farete un’opera veramente giusta per il nostro Paese e per i nostri lavoratori. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Uberti per dichiarare se sia sodisfatto.

UBERTI. In mezzo a questo battagliare, vorrei dire una parola serena, come antico organizzatore, e per esprimere una esperienza che si è verificata nella mia provincia, quando ero prefetto del Comitato di liberazione. Avvenivano dei contrasti, più che fra democristiani e comunisti, fra socialisti e comunisti – ad esempio nelle officine ferroviarie di Verona– in occasione di comizi di propaganda politica.

Bisogna distinguere fra riunioni di carattere sindacale, promosse o meno dalle Commissioni interne, che devono essere esenti da interventi della polizia (l’ha detto il Ministro ed io mi affido alla sua dichiarazione) e riunioni di mera propaganda politica, previste dalla circolare del direttore generale della polizia.

L’onorevole Lizzadri ha detto: «Abbiamo fatto manifestazioni politiche in due o tre casi». Ma, onorevole Lizzadri, lei sa benissimo che i partiti politici vanno organizzando nelle fabbriche conferenze di propaganda politica.

LIZZADRI. Voi le fate nelle chiese! (Rumori al centro).

UBERTI. Ora è avvenuto, a Verona, che queste conferenze di propaganda di partito andavano determinando gravi incidenti fra gli operai aderenti alle correnti socialista e comunista. Fu proprio il segretario confederale di corrente socialista che venne da me, prefetto, per dirmi: «Bisognerebbe poter evitare che ci fosse una eccessiva accensione di animi fra le varie correnti». Io gli ho detto: «Il prefetto non può intervenire in questa materia…».

Una voce a sinistra. Che anno era?

UBERTI. Ottobre 1945.

LIZZADRI. La circolare è del 1947. (Commenti – Rumori).

UBERTI. Ma quanto si è concordato dura tuttora.

Io gli risposi: «È la Camera del lavoro stessa che, nell’interesse della coesione, della coesistenza pacifica delle varie correnti di operai, per salvare l’unità sindacale deve fare in modo che si evitino questi incidenti. Io potrò favorire, sanzionare questo accordo. E allora fu presa, fra i partiti politici e la Camera confederale del lavoro, la deliberazione di sospendere – tranne che nel periodo elettorale – l’indizione di comizi di propaganda politica, lasciando però libera ogni corrente di fare la propria propaganda di carattere sindacale, nell’interno delle fabbriche.

Ora, io ritengo che questa sospensione, anziché suscitare tanti clamori per una circolare, che sanzione una uguale linea di condotta, dovrebbe essere auspicata dalle stesse organizzazioni sindacali, le quali dovrebbero farsi fautrici di un accordo, per cui la propaganda politica di partito sia evitata nelle fabbriche. In questo modo, si farebbe realmente un vantaggio e un progresso, anche per quella che è l’unità sindacale; perché in questo modo, non si inacerbirebbero i contrasti di carattere politico fra gli operai della stessa officina.

Quello che è stato possibile realizzare nel 1945 a Verona, e con risultati ottimi, non credo sia impossibile attuare in tutta l’Italia. Occorre dimostrare la volontà di non accentuare contrasti fra quelle che sono le varie forze della classe operaia, affinché esse restino unite nella difesa dei propri interessi.

Da questo punto di vista, ritengo che, proprio per questa esperienza concreta, vissuta, che ha dato ottimi risultati, sia da augurarsi che le forze sindacali e confederali debbano, anziché promuovere proteste meno fondate, adoperarsi per realizzare una tale situazione.

Se c’è una questione sindacale, che assume un aspetto politico, è una cosa; ma la pura propaganda di partito evitiamola nell’interno delle fabbriche. (Applausi al centro).

Una voce a sinistra. Ma perché non dice la sua opinione sulla circolare Scelba?

UBERTI. La circolare Scelba non stabilisce alcun divieto per nessuna riunione di carattere sindacale, ma riguarda invece unicamente riunioni di propaganda politica di partito che debbono essere evitate. (Rumori a sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Non posso seguire l’onorevole Lizzadri nelle frasi ad effetto, anche perché sono un temperamento antidemagogico; ma non posso lasciare inosservato che dal Parlamento italiano sia stato lanciato un insulto contro un partito che, in un secolo di lotta, ha affermato la libertà del proprio Paese: il Partito cristiano sociale del Belgio.

Quanto poi alle dichiarazioni fatte dall’onorevole Bitossi e dall’onorevole Lizzadri, tutte le loro argomentazioni non sono state che una difesa della libertà sindacale. Ora, io desidero riaffermare, nettamente e chiaramente, quanto è detto già nella circolare e quanto ho detto io precedentemente, che cioè la libertà sindacale non è in discussione, quale che possa essere la decisione che interverrà fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro, perché i rapporti fra la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro circa il diritto o meno o l’obbligo di riferire o di chiedere il permesso alla direzione non riguardano il Governo se non in una visione più ampia, ma non nella concretezza delle disposizioni di pubblica sicurezza.

Il Governo è estraneo a questi rapporti e l’averli voluti invocare è assolutamente fuori di strada. Nella circolare Ferrari si parlava di comizi; ed io ho affermato che nessuno onestamente può considerare che delle assemblee di lavoratori in cui si trattano problemi inerenti al lavoro e questioni sindacali, quando anche in queste assemblee si finisse con il criticare la politica del Governo, possano chiamarsi comizi politici.

Si è poi addirittura insinuato che noi prendiamo a maestro Mussolini: ma quando Mussolini era al governo, non c’era un Parlamento regolare. Se pertanto una applicazione illegittima, antiliberale, dovesse farsi di queste disposizioni, il Parlamento ha tutti i giorni il diritto di rettificare, di condannare queste applicazioni. A me non è stato segnalato nulla di questo genere; ma io pregherei, comunque, che tutte le volte che succedono fatti di questo genere, anziché elevare proteste, si volesse richiamare l’attenzione del Ministro.

C’è dunque un’azione del Parlamento che vigila costantemente e che rappresenta una remora a qualsiasi tentativo non volontario di soffocazione delle libertà democratiche: di quelle libertà democratiche verso cui venti anni di resistenza al fascismo e tutta una educazione rappresentano una garanzia ben più alta che non qualsiasi altra manifestazione. (Applausi al centro).

Il Parlamento ha il diritto di vigilare sugli atti del Governo; questo potere nessuno mette in discussione, ma, anzi, se ne riconosce l’efficacia anche per gli errori che noi uomini del Governo, insieme con gli organi della polizia o della burocrazia, possiamo commettere.

E noi saremo lieti tutte le volte che il Parlamento ci richiamerà sugli attentati alla libertà, qualunque essi siano, e, ci auguriamo, sugli attentati contro tutte le libertà; e vorremmo anche che le deplorazioni fossero per tutte le violazioni alla libertà e non soltanto per quelle di una parte. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Ghidetti, Pellegrini e Cevolotto, «al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro delle finanze, per sapere se sono a conoscenza della decisione adottata dalla Direzione generale del demanio concernente la concessione in affitto del villaggio alpino denominato Colonia Vai-Grande di Comelico (Belluno) e, se non l’approvano, quali provvedimenti intendono prendere».

L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di rispondere.

PELLA, Ministro delle finanze. In merito all’interrogazione mi onoro di comunicare quanto segue:

L’ex partito nazionale fascista creò in Val-Grande di Comelico (provincia di Belluno) un villaggio alpino per adibirlo a colonia estiva per ragazzi.

L’Intendenza di finanza, dopo la liberazione, per salvaguardare l’integrità dell’immobile e dei mobili, concedeva ai padri salesiani, e precisamente al Collegio Don Bosco di Pordenone, unico richiedente, di occupare provvisoriamente la colonia con l’obbligo di custodia. I padri salesiani provvidero a riattare a proprie spese alcuni ambienti, per rendere possibile il ricovero di più di trecento orfani e ragazzi della strada delle provincie di Treviso, di Belluno e di Udine.

Successivamente il predetto compendio, oltre che dall’Opera salesiana, la quale insisteva per regolarizzare i rapporti col demanio, venne chiesto:

  1. a) dall’Ente nazionale assistenza lavoratori di Treviso;
  2. b) dalla Croce Rossa italiana, comitato di Treviso;
  3. c) dall’Associazione italiana alberghi per la gioventù, la quale, però, tendeva ad ottenere l’uso di una sola parte del compendio stesso.

In seguito ad un affermato diritto dell’E.N.A.L. di Treviso di essere preferito a seguito di un’asserita concessione in uso della colonia di Val-Grande da parte dell’ex federazione fascista di detta ultima città a quel cessato dopolavoro provinciale, l’Intendenza di finanza di Belluno invitò l’E.N.A.L. stesso ad esibire l’atto comprovante la fatta affermazione. Ma L’E.N.A.L., con lettera 21 maggio ultimo scorso, n. 2761 di protocollo, comunicò l’irreperibilità di tale atto a causa dell’avvenuta distruzione parziale del relativo archivio.

L’Amministrazione demaniale, in considerazione che l’Opera salesiana si trovava già in possesso del compendio, tenuto conto delle spese fatte dalla medesima, dell’attività altamente filantropica svolta e dell’assicurazione che sarebbe stato provveduto per la corrente stagione estiva al ricovero di almeno quattrocento ragazzi delle tre provincie, ha ritenuto opportuno regolarizzare l’occupazione di fatto, autorizzando l’intendenza di finanza di Belluno, con lettere del 3 giugno ultimo scorso n. 96067, a stipulare nei confronti dell’Opera stessa regolare contratto per la durata di cinque anni dal giorno dell’effettiva occupazione, in base al canone annuo da determinarsi dall’Ufficio tecnico erariale.

TONELLO. Sono state le famiglie che hanno pagato; e loro prendono la roba degli altri! Era fatto per i bambini di Treviso! (Commenti al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

GHIDETTI. L’onorevole Pella mi consentirà di rilevare che dall’esposizione che egli ha fatto risulta evidente che si trova in grave difetto di informazioni; e brevissimamente – data la ristrettezza del tempo – lo dimostrerò subito.

Nel 1929 i lavoratori delle aziende industriali della provincia di Treviso, operai e impiegati, insieme agli industriali e a qualche istituto bancario, hanno riunito il denaro necessario per la costruzione di quello che si è poi chiamato Villaggio alpino, o Colonia Val-Grande di Comelico.

Dominando il partito nazionale fascista, era naturale, nel 1929 – noi allora eravamo a Portolongone o altrove – che l’etichetta del p.n.f. venisse appiccicata anche a questa istituzione; ed era anche pacifico attendersi che – a liberazione avvenuta – il demanio prendesse in consegna anche questi fabbricati, perché una legge cautelativa così disponeva per tutti i beni patrimoniali che avevano quella famosa etichetta del cessato regime.

Ma, di fatto, la situazione è questa: operai e impiegati dell’industria della provincia di Treviso, con i loro sacrifici, con il concorso degli industriali e con quello della Cassa di risparmio, hanno potuto far costruire questo magnifico villaggio alpino allo scopo di assicurare, per turno, ai più bisognosi figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso, svago, ristoro e cure, tanto nel periodo estivo, che in quello invernale.

Che cosa è avvenuto in seguito? Al Dopolavoro, che ha amministrato questo Villaggio alpino fino alla caduta del fascismo, fino al 25 luglio 1943, essendo succeduto l’E.N.A.L., in attesa di passare a questo la gestione del villaggio, il complesso patrimoniale fu preso in consegna dal Demanio.

Le pratiche per il trapasso, iniziate sedici mesi (dico sedici mesi!) or sono, dall’E.N.A.L. di Treviso, e sollecitate anche attraverso l’E.N.A.L. centrale, non sono riuscite a venirne a capo, perché da parte del Demanio si stava inventariando. Ora, finalmente, ad inventario compiuto, ai primi di aprile del 1947, l’E.N.A.L. di Treviso e lo stesso E.N.A.L. centrale, dove è commissario (se non erro) l’avvocato Malavasi, hanno chiesto, come avevano fatto durante sedici mesi, e più specialmente a fine marzo e ai primi di aprile, che il Ministero delle finanze e il Demanio avessero finalmente a decidersi, sicuri dell’esito favorevole dal momento che era stato riconosciuto dalla Direzione generale del Demanio che, a pari condizioni, era naturale che dovesse essere preferito l’E.N.A.L. nell’affitto di immobili del genere: a Treviso come in qualunque altra provincia. E va tenuto conto che anche il prefetto segnalava, con telegramma alla Direzione generale del Demanio, l’opportunità e l’urgenza di assicurare l’uso della Colonia Vai-Grande di Belluno all’E.N.A.L. di Treviso e che per l’immediata assistenza, ed il funzionamento della Colonia erano stati preparati dall’E.N.A.L. i turni dei bambini dei lavoratori di Treviso ed era stato tutto predisposto per la rapida sistemazione dei locali e dell’attrezzatura danneggiati in precedenza.

L’informazione quindi che ha potuto fornire – onorevole Pella – il Ministero delle finanze in questa faccenda, è evidentemente molto confusa. La verità è che il 19 aprile scorso l’intendente di finanza di Belluno, a conclusione di tutta l’istruttoria della pratica, ha proposto al Ministero delle finanze la cessione in affitto all’E.N.A.L. di Treviso di questa Colonia: perché risultava dalla posizione giuridica, che ho illustrato in precedenza, che era stata costruita per l’uso dei figli dei lavoratori, operai e impiegati della provincia di Treviso e che, pertanto, non era possibile destinarla ad altri.

È vero che, mentre si attendevano le conclusione del Demanio e la Colonia si trovava abbandonata a se stessa, un padiglione fu richiesto dai salesiani della provincia di Udine, i quali aiutati dal Governatore alleato, ed essendo stati riforniti del materiale necessario dall’U.N.R.R.A., dal «Dono Svizzero», dalla Croce Rossa italiana e da chi ha potuto essere d’aiuto, hanno raccolto dei ragazzi dell’udinese e del bellunese in una piccola parte di questo grande complesso di fabbricati (sono ben 14 edifici, e si comprenderà meglio di che si tratta, sottolineando che oggi il loro valore è qualche cosa come un centinaio di milioni di capitale) essendo assurdo lasciarli abbandonati. Ma è anche vero che questa concessione è stata data in uso provvisorio, senza nessuno impegno, e senza pregiudizio per la definitiva destinazione. Onorevole Ministro Pella, cosa dovevamo noi dire agli operai e impiegati che volevano formare una carovana, nel mese scorso, quando hanno sentito questa curiosa decisione della Direzione generale del Demanio, secondo la quale, tutto considerato (lei la ha ben letta poc’anzi onorevole Pella) si è ritenuto di cedere la Colonia a quelli che sono dentro – cioè ai salesiani di Udine – e per cinque anni si firma un contratto?

Quando fu conosciuta questa decisione, masse di operai ed impiegati volevano formare una carovana, andare nell’alto Bellunese e prendere possesso di questo complesso del Villaggio alpino, considerando che è loro diritto portare lassù i figli a ristorarsi ed a riprendersi. Ed occorre tener presente che, specialmente per i figli dei lavoratori della città di Treviso, questo bisogno è sentito, poiché per le gravi devastazioni che la città ha subìto durante la guerra, questi figli sono vissuti in situazioni molto difficili, come del resto, purtroppo, anche in altre provincie d’Italia. Si ricordi che per due anni tutta questa popolazione non ha conosciuto che cosa sono i vetri nel crudo inverno: ha vegetato nelle stalle e in rifugi mezzo distrutti dai bombardamenti; ebbene, adesso che si offriva finalmente la possibilità di potere un po’ ristorare i figli dei lavoratori, e far loro riprendere forza e benessere, ecco che la Direzione generale del Demanio prende una decisione in contrasto con il diritto più elementare e con la volontà dei lavoratori che hanno offerto i denari per la costruzione, insieme con gli industriali; in contrasto con la proposta dell’Intendenza, con il sollecito del prefetto e con la richiesta dell’E.N.A.L. centrale il quale, in definitiva, da mesi continuava a incitare l’E.N.A.L. di Treviso perché si tenesse pronto, appena fosse possibile che si riprendesse il funzionamento di questa colonia.

In una parola, e per concludere, il Ministro delle finanze, con la assurda decisione presa, dimostra di tener conto e di far valere soltanto una sua legalità formale; la legalità sostanziale l’ha messa sotto i piedi. Ecco perché diciamo: noi ci siamo adoperati, ed alla fine siamo riusciti, a trattenere quelle popolazioni, perché sono di animo mite, perché ci hanno accordato fiducia. Ma, come gli onorevoli colleghi sanno – specialmente lo sanno i magistrati, e gli avvocati che sono numerosi nella nostra Assemblea – le popolazioni di animo mite, quando vedono calpestare i loro diritti, quando sentono che una ingiustizia le offende, sono capaci di arrivare agli eccessi. Noi questi eccessi li abbiamo impediti, fino a ieri; ma se il Ministro delle finanze non riesaminasse la questione – prego il Ministro delle finanze a dire qui una parola in questo senso – (il Ministro fa segni di assentimento) e se non sarà prontamente riveduta la questione, credo che dovremo decidere, l’onorevole Pellegrini e l’onorevole Cevolotto che con me hanno firmato l’interrogazione, col focoso onorevole Tonello, l’onorevole Costantini, e, spero, con gli amici democristiani deputati di Treviso di metterci alla testa di questa carovana per ristabilire sulla vostra legalità formale, la legalità sostanziale.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidererei aggiungere due parole alle precedenti mie comunicazioni per dare assicurazione che il punto di vista del Ministero, mentre a prima vista sembra divergere da quello degli onorevoli interroganti, in realtà si muove nello stesso spirito informatore. L’onorevole Ghidetti ha impostato il problema sopra un terreno più ampio su cui sono lieto di dare delle assicurazioni. Egli ha proposto il problema della legittimità o meno del possesso di questo complesso da parte del Demanio. Per questo non ho difficoltà a dichiarare che, trattandosi di un problema comune a centinaia di casi (relativi cespiti appartenenti un tempo a cooperative, a comuni, ad enti di varia natura), la soluzione sarà data da un provvedimento legislativo su cui i Ministeri interessati stanno, da tempo, portando la loro attenzione. Ed io penso che sia molto vicino il giorno in cui questo provvedimento legislativo sarà varato. La difficoltà principale da superare è quella di determinare la norma per potere ancora oggi riconoscere l’antico proprietario ingiustamente spossessato. Tale difficoltà ha ritardato la preparazione del provvedimento. (Interruzione del deputato Ghidetti).

Ora, in attesa che si risolva il problema centrale, l’Amministrazione disporrà perché il contratto annunciato sia limitato a breve periodo di tempo, per non intralciare la soluzione del problema principale.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Musolino, Silipo e Priolo, al Presidente del Consiglio a dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per avere delucidazioni sull’arresto del sindaco di Roccaforte del Greco (Reggio Calabria) avvenuto giorni or sono, in seguito ad ordine del tenente dei carabinieri di Melito Porto Salvo, perché il predetto sindaco, nella sua qualità di ufficiale di pubblica sicurezza, impedì ad un carabiniere di malmenare un ragazzo sulla pubblica via del paese e perché si rifiutò di firmare un verbale contenente false asserzioni; e per sapere se tale arresto, nella persona del capo di un comune, senza autorizzazione del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, a norma dell’articolo 51 in relazione all’articolo 22 della legge vigente comunale e provinciale testo unico 1934, non debba essere immediatamente revocato e seguito da un provvedimento disciplinare o giudiziario a carico dell’ufficiale dei carabinieri predetto, che valga a restaurare la dignità offesa di un sindaco, e perché valga ad imporre il rispetto della rappresentanza democratica popolare, anche essa gravemente offesa».

L’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Il mattino del 25 aprile in Roccaforte del Greco il carabiniere Di Meo di quella stazione, imbattutosi in un tale Pasquale Pitassi si accorgeva che costui portava infilata alla cintola una grossa rivoltella di tipo militare. Ovviamente insospettito, lo invitò a seguirlo in caserma. Il Pitassi tentò invece di fuggire e avendolo il Di Meo impedito afferrandolo per la giacca, gli si ribellò violentemente con morsi e calci causando al carabiniere lesioni guaribili in 10 giorni. Il Di Meo tentò allora con maggiore energia di trascinarlo in caserma. Ne derivò una colluttazione che richiamò una piccola folla la quale, ignorando i precedenti del fatto, sembrava parteggiare per il Pitassi. A favore di costui intervenne, dapprima gridando dalla finestra del Municipio e quindi scendendo nella strada e partecipando direttamente alla colluttazione, il sindaco del paese, signor Pangallo, al quale, per contro, il carabiniere aveva chiesto di mandargli in aiuto una guardia municipale.

Nella confusione del momento, il Pitassi si liberò della pistola che venne raccolta e nascosta da uno dei presenti e che poi fu restituita al proprietario.

Il sindaco, nella sua partecipazione, non moderò, in effetti, né i gesti né le parole. Ingiuriò difatti il Di Meo con l’epiteto di cafone, ecc. e soprattutto strappò egli stesso al carabiniere il Pitassi per metterlo subito dopo in libertà. Risaputo il fatto dalla Tenenza dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Comandante di questa, tenente Angiolillo, credette di ravvisare nel comportamento del sindaco gravi responsabilità di ordine penale, quali oltraggio a pubblico ufficiale aggravato, violenza parimenti aggravata ed ancora procurata evasione sempre aggravata; e poiché quando il giorno 28 egli poté recarsi in loco, vi trovò sempre viva la commozione determinata dagli eventi, credette altresì di ravvisare l’ipotesi della flagranza e procedette all’arresto del sindaco. Tale arresto, appena venuto a conoscenza, il giorno successivo, del comandante della compagnia dei carabinieri di Reggio Calabria, veniva da questi immediatamente revocato. Il Pangallo, il Pitassi ed altri venivano invece, con verbale del 6 maggio, denunciati all’autorità giudiziaria la quale autorità giudiziaria, e precisamente la Procura generale della Corte di Messina, avendo esaminato la condotta del tenente Angiolillo, con provvedimento in data 22 maggio, dichiarava non luogo a procedere nei suoi confronti. Nei confronti del medesimo ufficiale venivano invece adottati adeguati provvedimenti disciplinari.

Da questi fatti, emerge come l’arresto del sindaco non sia stato occasionato, in verità, dal rifiuto di questi a sottoscrivere un verbale qualsivoglia, come dice l’interrogazione; emerge altresì che l’arresto in questione è stato revocato il giorno successivo dagli stessi carabinieri e che l’autore dell’arresto è stato oggetto di una severa inchiesta.

PRESIDENTE. L’onorevole Musolino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MUSOLINO. Ringrazio il Sottosegretario per aver dato la risposta alla mia interrogazione, ma devo dichiarare subito di non essere sodisfatto, perché le informazioni che egli ha ricevuto non sono esatte. Sta di fatto che il sindaco di Roccaforte del Greco fu richiamato dalle voci che venivano dalla strada, mentre trovavasi nella casa comunale. Uscito fuori per vedere ciò che avveniva sulla strada, ove vi era molta folla, ha visto che vi era un carabiniere che malmenava un giovane. Invitato il carabiniere a entrare nel Municipio per continuare lì la perquisizione, che egli voleva fare, il carabiniere si è rivoltato contro il sindaco in maniera offensiva. Questi, vistosi offeso dal carabiniere, nella veste di ufficiale di pubblica sicurezza, ha fatto valere la sua autorità.

La perquisizione fu fatta nel Municipio, ed in sua presenza, ma il giovane non aveva alcuna arma.

Il maresciallo dei carabinieri, saputo il fatto, si è recato dal sindaco e, quando ha saputo come si. erano svolte le cose, ha chiesto scusa al sindaco. Ma tre giorni dopo vi è andato il tenente dei carabinieri, il quale, informato certamente dal verbale steso dallo stesso carabiniere, faceva chiamare nella caserma il sindaco e lo sottoponeva ad un interrogatorio violento. Il tenente dei carabinieri, poi, voleva che il sindaco dichiarasse che il giovane era armato.

Il sindaco non volle firmare questa dichiarazione. In seguito a questo rifiuto il tenente suddetto gli metteva i ferri ed ammanettato lo conduceva a Melito Porto Salvo, dove lo tratteneva in istato di arresto per cinque giorni consecutivi.

Che le informazioni ricevute dal Ministro dell’interno siano inesatte, è dimostrato dal fatto che il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, competente a giudicare il caso, in seguito alle risultanze processuali, ha avanzato richiesta al Ministero di autorizzazione a procedere contro il tenente dei carabinieri.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Al Ministero della guerra?

MUSOLINO. No, al Ministero dell’interno.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Non mi è pervenuta questa richiesta.

MUSOLINO. Sta di fatto che l’autorizzazione non è stata concessa.

Ora, devo ricordare all’Assemblea che questa disposizione, riguardante l’autorizzazione a procedere contro i carabinieri, è tipicamente fascista, perché il fascismo voleva sindacare e controllare tutto, per avere la possibilità di troncare i processi, quando gli conveniva.

In base a questa disposizione, di cui il Governo democratico non dovrebbe avvalersi o che per lo meno dovrebbe essere senz’altro abrogata, perché essa è contraria allo spirito democratico, deve oggi il Ministero dell’interno o quello della guerra concedere questa autorizzazione, perché il tenente dei carabinieri sia punito, in quanto la sua azione ha offeso un’intera popolazione e la democrazia e la legge, poiché un sindaco non può essere arrestato, se non vi è un decreto del Capo dello Stato.

Dunque tra le informazioni pervenute al Ministro e quelle che io riferisco c’è molto divario, per cui io chiedo che egli sia energico così come è stato nei confronti del questore di Cremona, il quale è stato destituito, senza che siano state svolte indagini, mentre nei confronti del tenente dei carabinieri questo provvedimento non lo ha ancora preso.

La giustizia e l’imparzialità, ha detto l’onorevole De Gasperi a Trento, sono alla base dello Stato democratico; ma esse sono del tutto ignorate dal Ministro dell’interno.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Desidero aggiungere una parola per dimostrare ancora una volta come da parte nostra ci sia il desiderio della assoluta completezza delle informazioni e soprattutto lo scrupolo della massima lealtà nei confronti degli onorevoli interroganti.

Do lettura della lettera, alla quale ho fatto riferimento, della procura di Messina:

«Al Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, e, per conoscenza, al Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria.

«In seguito ai fatti di cui all’unito verbale dell’Arma dei carabinieri di Melito Porto Salvo, il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, con rapporto 13 maggio 1947, del quale trasmetto copia, ha denunziato l’ufficiale indicato in oggetto per l’applicazione delle sanzioni disciplinari previste dall’articolo 229 del Codice di procedura penale, secondo comma e terzo comma, regio decreto 20 gennaio 1944-45, ritenendo non legittimo perché sfornito dei presupposti richiesti dall’articolo 1 del decreto sopracitato, il fermo effettuato dal predetto ufficiale in persona del sindaco di Roccaforte del Greco, Pangallo. Questa Procura generale ha ritenuto per contro che un presupposto di legittimità il fermo abbia avuto, quello cioè che la condotta del Pangallo si era dimostrata particolarmente pericolosa per la sicurezza pubblica, nel corso dei fatti, sì da impedire che l’Arma assolvesse i propri doveri di polizia in presenza di reati e nella necessità di fissare con le necessarie indagini gli avvenimenti. Epperò, con provvedimento in data odierna, ha dichiarato non esser luogo a sanzione disciplinare o procedurale a carico del tenente dei carabinieri Angiolillo».

Voci a sinistra. Non ha abusato forse?

MUSOLINO. È un sindaco comunista, ecco perché il magistrato di Messina ha dato parere contrario a quello del magistrato di Reggio Calabria!

ASSENNATO. Ha commesso un delitto quell’ufficiale. E va punito. C’è il Codice penale per i delitti.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Ho già spiegato che non è esatto dire che non si sia proceduto…

ASSENNATO. Anche lei è responsabile!

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Vorrei dire ancora due parole. Dovrei dire molte cose all’onorevole Assennato, ma preferisco riferirmi alle dichiarazioni dell’onorevole interrogante a proposito della condotta del Ministero nei confronti dell’ufficiale dei carabinieri. Non è esatto che nei confronti di questo ufficiale non si sia proceduto. Lo si è denunciato all’autorità giudiziaria. Cosa si poteva fare di più? L’autorità giudiziaria si è pronunciata nel senso che ho detto. Cosa resta da fare al Ministero dell’interno? Io desidero che l’onorevole Musolino sia convinto che da parte del Ministero è stato fatto proprio tutto.

Il paragone con il questore di Cremona non ha ragione d’essere; a parte i fatti, in cui ovviamente non è il caso di entrare, qui c’è la figura della personalità che avrebbe commessa la violazione della norma, nella specie abbiamo un ufficiale dei carabinieri, nei confronti del quale la procedura per le eventuali sanzioni è ben differente da quella che si deve seguire nei confronti di un ufficiale di polizia.

Finisco con l’assicurare l’onorevole interrogante che la sua ingiusta e perciò ingenerosa puntata a proposito del sindaco comunista, è nella specie del tutto ingiustificata

L’onorevole interrogante ha sentito come il giorno stesso l’autorità immediatamente superiore all’ufficiale che ha proceduto illegalmente all’arresto abbia immediatamente rimediato, rilasciando l’arrestato. Di più non poteva fare.

PRESIDENTE. Le interrogazioni inscritte all’ordine del giorno sono così esaurite.

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI. Onorevoli colleghi, premesso che parte di questa Assemblea è favorevole alla pronta ratifica del diktat e parte al rinvio; precisato che un’altra parte è decisa a non ratificarlo né oggi, né mai, è chiaro che la questione della ratifica presenti due aspetti: uno, puramente formale, riguarda il tempo, e cioè ratificare oggi o domani, e l’altro decisamente sostanziale concerne la decisione di non ratificare. Su di un punto l’Assemblea è unanime, quello della protesta. Ma anche questo è puramente formale, poiché, non essendo la maggioranza dell’Assemblea vittima dell’ingiustificato ed ineffabile ottimismo del conte Sforza, credo che tutti possano concordare nel ritenere che la protesta, verbale o scritta, non vale nulla se ratifichiamo e quindi accettiamo la nostra condanna.

Il Ministro Sforza si è sforzato di dimostrare (Si ride) non solo la necessità della ratifica, ma anche i vantaggi che ci verrebbero da una pronta ratifica.

Ora, io credo che egli col suo discorso non solo non abbia convinto né persuaso alcuno, ma abbia ottenuto l’effetto contrario a quello che si proponeva di raggiungere. Infatti, è proprio per questo che la stampa di sinistra, di centro, di destra, e quella che con eufemismo si chiama indipendente, ha rilevato quasi all’unanimità che l’onorevole Sforza, più ottimista di Candide, inebriato di un astratto europeismo, ben lontano dall’essere attuato, non ha portato alcun contributo alla sua tesi. Prima ancora di entrare nel merito delle asserzioni del Ministro degli esteri, devo rilevare che questi, col suo discorso, e ancor più col tono con il quale lo ha letto, ha fatto intendere di conoscere lui, lui solo, i veri e segreti motivi che ci spingono a ratificare.

Questa impressione non è stata mia particolare, ma generale; ed è stata confermata dall’atteggiamento preso dalla stampa che appoggia la tesi Sforza, quando detta stampa ha rilevato che se Sforza e il Governo desiderano una pronta ratifica, avranno le loro buone ragioni.

Questa può essere una norma di prammatica nei regimi paternalistici, dittatoriali e non mai in quelli democratici, perciò se le segrete ragioni esistono (ma non esistono) si faccia pure una seduta a porte chiuse.

Sette sono i punti del discorso Sforza che prenderò in esame per mostrare com’essi o manchino di fondamento, o siano falsi e contrastanti, dal che deriva che le ragioni da lui apportate sulla necessità e sulla convenienza non solo di ratificare, ma di ratificare subito, mancano di fondamento e sono false e contrastanti.

Prima asserzione speranzosa dell’onorevole Sforza è che noi usciamo oggi da una politica di isolamento e che, pertanto, potremo ottenere ora ciò che non ottenemmo ieri.

Tutto ciò non è vero.

Certo, non saremo noi a difendere la politica fascista della quale, con la guerra perduta, andiamo scontando le conseguenze; ma affermare ciò che l’onorevole Sforza afferma, significa porsi fuori della realtà e della storia.

Significa dimenticare – come ha rilevato l’onorevole Nitti – che fino all’impresa etiopica l’Italia è stata nella Società delle Nazioni, significa dimenticare il progettato Patto a quattro e obliare che in quei vent’anni di dittatura, qui, in questa Roma, vennero i Mac Donald e i Chamberlain, i Churchill e gli Eden, i Sumner Wells e i Laval, per citare i più importanti. Ora se tutto ciò e il conseguente convegno di Monaco del 1938 significano per l’onorevole Sforza isolamento, bisognerà cambiare il significato delle parole al nostro vocabolario.

Il Ministro Sforza si è poi accanito contro la politica immorale fatta dal passato regime, e non saremo noi a difenderla. Ma ci dica l’onorevole Ministro degli esteri se, secondo la sua alta opinione, è morale la politica che le grandi potenze vanno svolgendo ora verso le Nazioni satelliti; se morale è la politica che esse svolgono nei confini dell’Italia oggi; se morale è mai stata la politica di tutti i popoli in ascesa e in espansione.

E allora perché accanirsi solo contro ciò che fu commesso dall’Italia, sia pure erroneamente, e non accanirsi contro ciò che gli altri commettono contro di noi? Perché? Solo per il sadismo sforzesco di un male dell’Italia e degli italiani? Per denigrarci di fronte al mondo intiero?

E così quando il Ministro degli esteri asserisce che dopo il 1943, cito le sue parole, «vi fu un’interpretazione con spirito più aperto dell’armistizio» asserisce cosa non conforme al vero.

Infatti, è noto che gli Alleati promisero che se l’Italia avesse dato un valido contributo come cobelligerante, avrebbe potuto riscattare con la pace l’armistizio. È noto che ci si fece intendere che le nostre frontiere non avrebbero subito tremende violazioni, e che (con l’accordo Cunningham-De Courten) la nostra gloriosa marina non avrebbe dovuto ammainare la sua e nostra bandiera; e, invece, tutte queste promesse furono ignobilmente violate, così che io non soltanto, ma milioni e milioni di italiani, non riescono a comprendere che cosa l’onorevole Sforza intenda quando accenna ad una interpretazione dell’armistizio con spirito più aperto. E che cosa sarebbe stato mai se codesto spirito fosse stato più chiuso?

E veniamo al quarto punto.

L’onorevole Sforza asserisce che la mancata ratifica da parte dell’Italia farebbe ritardare di un anno il nostro ingresso in quello che egli definisce «il più solenne aeropago del mondo, cioè l’O.N.U.».

Ora, a parte il fatto che prima della conferenza di Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece affermare dal suo portavoce che condizione per la nostra ammissione alla conferenza, era, appunto, la ratifica del diktat, mentre subito dopo, tale affermazione fu smentita dalle agenzie straniere oltre che dai fatti; a parte che dopo l’immediato ritorno da Parigi, il nostro Ministro degli esteri fece intendere che v’erano forti pressioni da parte degli Alleati per la nostra ratifica, mentre subito dopo, la stampa smentiva tale notizia; a parte il fatto che nello stesso tempo, l’onorevole Sforza accennava ad un piano di intesa e di collaborazione economica italo-francese, mentre proprio in questi giorni una agenzia francese smentiva che il Ministro Sforza avesse presentato un piano di collaborazione economica italo-francese al Ministro Bidault; a parte queste smentite che ci danno il diritto di attenderne qualche altra relativa all’affermazione dell’onorevole Sforza circa la necessità della ratifica per essere ammessi all’O.N.U.; dobbiamo ricordare che in tutto lo Statuto dell’O.N.U. non v’è alcun paragrafo, alcun articolo, alcun punto in cui si dica implicitamente o esplicitamente che la ratifica di un trattato sia conditio sine qua non per essere ammessi.

Poiché lo Statuto parla chiaro, dobbiamo convenire che anche questa asserzione dell’onorevole Sforza è priva di qualsiasi fondamento politico e giuridico; essa, nel migliore dei casi, è una delle tante sue fallaci opinioni personali. L’onorevole Sforza fa credere e forse crede e s’illude di poter ottenere chi sa che cosa dall’O.N.U. Ora noi abbiamo il diritto di ritenere che il nostro Ministro degli affari esteri abbia letto e studiato lo Statuto dell’O.N.U.; e allora dovrebbe essere proprio lui a disilludere e non a illudere e ingannare la Costituente, dovrebbe essere proprio lui a ricordare che, mentre nel Covenant della Società delle Nazioni era prevista la revisione dei Trattati, lo Statuto dell’O.N.U. preclude ogni revisionismo.

Anzi, poiché codesto Statuto pone un perpetuo marchio d’infamia sulle Nazioni vinte e precisamente sugli «Stati nemici», cioè un qualunque Stato che durante la seconda guerra mondiale sia stato nemico di qualsiasi firmatario della Carta (è questo l’articolo 107); poiché questo Statuto non ci pone su un piede di parità, è chiaro che noi non dovremmo entrare con entusiasmo in questo famoso aeropago che non pone gli aderenti su un effettivo piede di parità.

Come per la pacificazione nazionale noi ci siamo battuti e ci battiamo per liberare l’Italia da tutte le leggi eccezionali che dividono l’Italia in due, così sul piano internazionale l’Italia dovrebbe battersi per spezzare queste barriere che in un organismo internazionale vogliono tenere ancora in poco conto quelli che furono Stati nemici. Comunque, contrariamente a ciò che l’onorevole Sforza afferma, è chiaro che la ratifica del diktat non ha nulla a che fare con la nostra ammissione all’O.N.U.

E veniamo al quinto punto.

Il Ministro degli affari esteri ha avuto l’ordine (poiché si tratta di vero e proprio ordine) di affermare che l’atto della ratifica inciderà favorevolmente sui nostri interessi africani.

Ma forse egli dimentica che ratificare significa sanzionare, fra l’altro, quel tremendo articolo 23 del diktat in cui si dice: «L’Italia rinuncia ad ogni diritto e titolo sui possedimenti territoriali italiani in Africa, e cioè la Libia, l’Eritrea e la Somalia italiana». Quindi ci sembra veramente strano che da parte nostra si possa accampare qualche diritto coloniale dopo la ratifica, specie se si tenga presente che lo stesso onorevole Sforza, così ottimista per le altrui promesse, ha detto al riguardo – e cito le sue parole – «è bensì vero che affidamenti precisi non possiamo ancora dire di averne».

Ma allora su chi e su che cosa si fondano le sue speranze? Dobbiamo ancora notare l’affermazione del nostro Ministro degli esteri, secondo cui le stesse repubbliche latino-americane sarebbero inceppate nella loro azione a nostro favore qualora mancasse la nostra ratifica. Ebbene, purtroppo, avendo io trascorso la mia vita più assai fra le armi e gli aeroplani da combattimento che non fra diplomatici e nella vita mondana, essendo stato costretto da questo mio mestiere a partecipare alle guerre e non agli alti misteri della diplomazia, il mio senso comune, il «buon senso», direbbe Giannini, mi porta a credere che, non ratificando, le repubbliche latino-americane potranno battersi ancor più per noi, giustificando e approvando il nostro atto. Mentre, se noi ratifichiamo, quelle repubbliche potranno anche dirci: Ebbene, contenti voi, contenti tutti.

Infine, per quanto concerne il timore che ratificare prima della ratifica russa possa contribuire a favorire la politica dei blocchi, il conte Sforza ha detto testualmente: «Ora, mi pare che proprio il contrario sia vero: la ratifica servirà invece a creare un’atmosfera di fiduciosa collaborazione con le Potenze europee che, come noi, vogliono la collaborazione». Ebbene, a parte il fatto che non condividiamo tale opinione, il conte Sforza vorrà onestamente ammettere che se gli onorevoli Togliatti e Nenni – e quindi i comunisti e i socialisti – sono favorevoli al rinvio della ratifica, ciò significa che questo loro atteggiamento è conforme all’atteggiamento dell’internazionale comunista e socialista: e se Togliatti e Nenni non si sbagliano, è chiaro che chi sbaglia è l’onorevole Sforza. (Interruzione del deputato Togliatti).

E a tal proposito, sento il dovere di rilevare che se effettivamente, cioè a fatti e non a parole, l’onorevole Sforza – che si picca di apparire come uomo di centro sinistra – fosse contrario, come noi siamo contrari, alla politica dei blocchi, se egli auspicasse, come noi auspichiamo, la partecipazione della Russia sovietica e delle altre nazioni dell’Europa orientale al comune sforzo per la ricostruzione europea, bisognava che egli a Parigi non avesse detto, come ha detto e come è suo abituale linguaggio, che l’Italia è pronta a qualsiasi sacrificio. Bisognava invece che dicesse: ciascuna nazione faccia un sacrificio, e l’Italia con esse, purché si elimini questo schieramento in due blocchi opposti e si crei quell’unico blocco che è nelle aspirazioni di tutti i popoli europei che vanno tristemente scontando le conseguenze di questo ultimo flagello umano.

SFORZA, Ministro degli esteri. Mi permetta, onorevole Benedettini. Io non dissi: È pronta a qualunque sacrificio; dissi: È pronta a qualsiasi sacrificio che serva agli scopi comuni. Non si deve troncare a mezzo una citazione: lei lo ha fatto certamente in buona fede, ché altrimenti non sarebbe stato corretto.

BENEDETTINI. E poiché ci stiamo occupando della Russia, ricorderò che l’onorevole Sforza ha detto e ripeto le sue parole: «Del resto, l’atteggiamento dell’Unione Sovietica rispetto al nostro trattato di pace, non ci risulta mutato da quando ci si disse che firma e ratifica erano per essa la stessa cosa e che dovevamo dare per scontata sia l’una che l’altra».

Ma, allora, di grazia, onorevole Sforza e onorevoli colleghi, di che ci andiamo occupando? Non è un bizantinismo, il nostro? Se effettivamente, come l’onorevole Sforza ha detto ed io stesso credo, è nelle intenzioni non solo della Russia sovietica, ma anche dell’Inghilterra liberale e dell’America democratica di dare per scontate sia la firma e sia la ratifica; se, volenti o nolenti, dobbiamo subire questa iniquità; se il nostro non è un trattato (e non può esserlo, in quanto l’Italia non è stata mai interpellata come parte contraente), se il nostro è un diktat che ci si vuole imporre, ma, insomma, perché noi dobbiamo ratificarlo oggi invece di domani o invece che mai? Se non possiamo opporci né con la forza né col diritto; se ratificare o non ratificare è la stessa cosa, perché la condanna è ormai pronunciata e a noi non resta che scontarla, ebbene, perché subire questa umiliazione, perché commettere, proprio noi, rappresentanti del popolo, ciò che il popolo italiano da noi rappresentato, non commetterebbe mai?

I discorsi di coloro che in quest’Aula hanno parlato contro la ratifica, e in particolar modo quello dell’onorevole Croce, che ha trovato in quest’occasione un calore, un accento, una commozione veramente degni del dramma che viviamo, una parte delle critiche dell’onorevole Nitti, le affermazioni di Russo Perez e il «no» di Vittorio Emanuele Orlando, mi dispensano dall’esaminare e dal ribadire i motivi per i quali non dobbiamo ratificare diktat che, se offende noi profondamente, ancor più profondamente colpisce coloro che avendolo concepito e compilato, ora ce lo impongono.

Ed io ho voluto qui riesaminare il discorso del Ministro degli esteri non per motivo polemico, ma per rilevare, come ciascuno aveva già rilevato in cuor suo, che quel discorso non ha portato alcun contributo alla necessità della ratifica.

Non un motivo di quelli esposti dal conte Sforza spinge a ratificare. E qui voglio rilevare che se nel febbraio scorso l’Assemblea avesse potuto negare la firma, a quest’ora il nostro rifiuto sarebbe stato già scontato, mentre oggi la discussione che noi facciamo sa di bizantinismo, di pura accademia.

Onorevoli colleghi, se noi ascoltiamo il grido dei fratelli che vengono strappati dalla patria comune, se ci poniamo sul terreno storico, politico e soprattutto morale ed umano, noi non possiamo ratificare questo diktat, né oggi né mai.

Dopo tante promesse, dopo tanti sacrifici sopportati con la nostra cobelligeranza, noi non possiamo ratificare un diktat che mutila le nostre frontiere, ci strappa i fratelli di Briga e Tenda, dell’Istria, del Quarnaro, della Venezia Giulia, delle italianissime città dalmate; un diktat che vuol privarci di quella gloriosa marina che non fu mai vinta, e che riduce il nostro non meno glorioso esercito a numero irrisorio; un diktat che ci impone di rinunciare a quelle colonie che conquistammo, bonificammo e civilizzammo con decenni di sacrificio e che sono indispensabili non al nostro imperialismo, ma alla nostra mano d’opera, alle necessità vitali del nostro proletariato; un diktat che, mentre ci carica di debiti, ci toglie le poche riserve auree della Banca d’Italia, e sancisce la rinuncia a ogni nostro diritto nei confronti della Germania. Un tale diktat si vuole imporre all’Italia in un momento in cui per la ricostruzione europea, l’Europa ha bisogno dell’Italia, più di quanto questa ha bisogno di quella. Un tale diktat, non discuto, si può subirlo, ma non mai accettarlo. Ratificarlo significa non rendersi conto di ciò che l’Italia rappresenta in Europa e nel mondo, e significa, innanzi tutto, non valutare noi stessi come gli altri già ci valutano. Nessuna nazione potrà mai interpretare la nostra mancata ratifica come segno di ribellione, ma ogni nazione sarà invece costretta a riconoscere che l’Italia ha, sì, perduto una guerra – e ogni popolo può perderla – ma non la sua dignità, non il suo onore.

MAZZONI. E il popolo può fare le spese della sua retorica!

BENEDETTINI. Sganciamoci per un sol momento dalle ire di parte, dalle posizioni preconcette, dalle ideologie e dalla pesante disciplina di partito; ragioniamo con la nostra coscienza di cittadini, pensando veramente all’Italia e agli italiani di oggi e di domani; svincoliamoci per un momento solo dalle strettoie delle convenzioni politiche diplomatiche e giuridiche e poniamoci di fronte ai fatti, alla realtà.

Ebbene, che cosa potrà accadere se non ratifichiamo? Nulla, assolutamente nulla, poiché l’articolo 90 del diktat parla chiaro. Esso prescrive, è vero, che il Trattato dovrà essere ratificato anche dall’Italia, ma precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia».

Ciò dimostra che anche nell’ultimo articolo del diktat, si è voluto deliberatamente offendere la nostra dignità e il nostro onore, prescrivendo implicitamente che la ratifica italiana non è necessaria all’entrata in vigore del diktat.

E noi vogliamo ratificarlo? Ratificarlo quando – come la Russia ha fatto sapere e l’onorevole Sforza ci ha detto – firma e ratifica sono per noi già scontate?

No, onorevoli colleghi. Ed è perciò che, obbedendo alla mia coscienza, sento il dovere di presentare alla vostra approvazione il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, certa d’interpretare il sentimento unanime del popolo italiano, eleva la sua protesta verso un Trattato di pace che, violando i principî della Carta Atlantica e del diritto delle genti, disconoscendo i sacrifici e il contributo portato dall’Italia con la sua cobelligeranza, mutila le sue frontiere, la priva delle colonie, le toglie le navi, le riduce l’esercito, l’aggrava di debiti, l’offende nella dignità e nell’onore;

conscia che la ratifica dell’Italia non è necessaria all’entrata in vigore del Trattato, il cui articolo 90 precisa che «esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia»;

decide di non ratificare il Trattato, nella certezza che tale decisione non verrà interpretata dalle altre nazioni come ribellione, ma come sentimento di dignità nazionale;

invita il Governo a far conoscere alle altre Nazioni tale solenne decisione che si accompagna al vivo desiderio di tutto il popolo italiano di collaborare con tutti gli altri popoli per la ricostruzione economica, per la giustizia sociale, per la giusta pace, per la libertà e la civiltà cui tanto contribuì l’Italia».

Onorevoli colleghi, se il popolo italiano, libero da discipline e da propaganda di partito, fosse chiamato oggi alle urne per esprimere il suo parere sulla ratifica o meno del diktat, voi tutti siete certi che esso all’unanimità voterebbe: «No!».

Ebbene, se noi siamo qui per interpretare ed esprimere il pensiero e il sentimento del popolo che ci ha eletti, se noi non vogliamo tradire questo popolo, ch’è la coscienza stessa della Nazione, noi abbiamo il sacro dovere di non ratificare, di dire: «No!», per il popolo, per l’Italia, per tutti i nostri Caduti! (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino.

CARONIA. Data l’ora tarda, propongo che la discussione sia sospesa anche per un riguardo all’oratore, dato che l’Aula è vuota. (Approvazione – Commenti).

ROSSI PAOLO. Sentire l’onorevole Corbino sarebbe una cosa molto interessante. Ma appunto per l’interesse che il discorso presenta, sarebbe bene rinviare la seduta al pomeriggio.

PRESIDENTE. Onorevole Rossi le sue argomentazioni possono ritorcersi. Perché lei vuol dare un premio agli assenti facendo loro sentire nel pomeriggio quello che non hanno voluto sentire stamane?

Ad ogni modo tengano presente, onorevoli colleghi, che vi sono ancora 37 oratori inscritti.

CARONIA. Mantengo la mia proposta di rinvio della discussione.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di rinvio avanzata dall’onorevole Caronia, dichiarando il mio netto dissenso, perché rinviare significa far cosa contraria alle esigenze del nostro lavoro. Preavviso comunque che la seduta del pomeriggio si prolungherà nelle ore notturne.

(Dopo prova e controprova, la proposta di rinvio è approvata).

La seduta termina alle 12.40.

POMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Cicerone

Nitti

Bassano

Nobile

Paris

 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Cicerone. Ne ha facoltà.

CICERONE. Onorevoli colleghi! Prendo la parola in questo momento, quasi per un senso di dovere verso le giovani generazioni, che mi onoro di rappresentare in quest’Aula e che sono quelle più direttamente interessate alla pace italiana, perché dovranno sopportarne il peso e le conseguenze maggiori.

E giusto, quindi, che, più del passato, io mi preoccupi dell’avvenire della nostra politica estera. Occorre guardare innanzi a noi; occorre, anzitutto che ci si renda conto che nel mondo molte cose sono cambiate.

Io non credo che, nel campo della morale, ci siano nuove scoperte e nuovi orizzonti e, tanto meno, nuove applicazioni, nella politica, del pensiero morale: ma qualche cosa è terribilmente mutata, nelle proporzioni in cui si svolge la vita dell’umanità.

Le Potenze latine, l’Italia e la Francia, si presentano oggi al mondo in una situazione di tragica inferiorità. E io intendo richiamare la vostra attenzione su questo fatto essenziale, specialmente per noi: che l’Italia e la Francia non ora hanno perduto la guerra, ma nel 1914-18; è precisamente durante il primo conflitto mondiale che si determina un fatto essenziale nella storia dell’umanità. Due forze nuove gravitano attorno all’Europa, è l’intervento americano che per la prima volta nella storia si esercita direttamente nel vecchio continente: lo sbarco delle truppe americane in Francia è un punto che l’avvenire considererà come uno dei grandi avvenimenti nella vita dell’Europa. E c’è un altro fatto importantissimo, determinante, la rivoluzione bolscevica, che, dal 1918, si dà ad organizzare le masse immense della sterminata Asia, per lanciarle successivamente a gravitare anch’esse verso l’Europa.

Ci siamo resi conto allora di questo grande avvenimento e ce ne siamo resi conto dopo? Non mi pare; non mi pare, perché, mentre i popoli anglosassoni combattevano per il dominio degli oceani e, mentre la Russia bolscevica cedeva a cuor leggero vaste zone di territorio alle armate tedesche perché oramai, divenuta internazionalista non riferiva al territorio alcuna importanza, da parte delle Potenze latine si combatteva per città irredente, per passi montani e confini fluviali. E la guerra attuale ha sanzionato questo grandioso evolversi della vita del mondo, ha consacrato la nuova proporzione in cui questa vita si svolgerà nell’avvenire e sarebbe un errore fatale se, pur dopo la gravissima lezione del nuovo conflitto, i popoli europei non riuscissero a comprendere quale pericolo sia per essi il fatto che oggi l’Europa non può, come una volta, unita, propagare la sua civiltà nel mondo, ma che si trova divisa, lacera, impoverita e fatta preda di potenze a lei estranee e che ne metteranno in forse la sua esistenza.

Come ci troviamo noi italiani di fronte alla pace che si apre? Io ritengo che dovremmo porgere anzitutto, come europei, il pensiero alla grande Madre Europa perché, se non pensiamo ad essa, noi non pensiamo neanche alla nostra civiltà, noi non riusciremo nemmeno a conservare le nostre caratteristiche storiche.

Vi è la possibilità che l’Europa segua due strade; o essa si unirà e si porrà come elemento nell’equilibrio mondiale, o essa è destinata a fare nel mondo avvenire la parte che nell’800 vi fece l’impero turco. Essa sarà la grande malata su cui si eserciteranno gli interventi dell’Oriente e dell’Occidente, ma in definitiva essa non avrà più alcun ruolo da esercitare nella vita del mondo.

Partiamo, dunque, da queste premesse che superano e sovrastano la contingenza del Trattato di pace, ma che sono necessarie, perché è alla luce di queste considerazioni che noi dobbiamo vagliare e giudicare quello che si sta facendo nel mondo e in Europa nei nostri riguardi. Naturalmente, quando noi scendiamo dai grandi e vasti orizzonti intercontinentali nella cerchia più ristretta della vecchia Europa, ritroviamo vecchie ubbie, ritroviamo errori fatali, ma ritroviamo anche esigenze dello spirito europeo, che è necessario sodisfare.

Come dobbiamo giudicare questo Trattato che ci viene presentato? Io ritengo che il giudizio su di esso debba dividersi in due parti. C’è il contenuto morale del Trattato di pace che va assolutamente rigettato per le considerazioni che sto per fare; c’è il contenuto politico: abbiamo perduto una guerra, dobbiamo pagare per aver perduto la guerra.

Ricordo di aver letto una frase del grande socialista francese Léon Blum, in un libro che egli ha scritto durante l’occupazione tedesca. Egli dice ad un certo punto che vuole spogliarsi di qualsiasi prevenzione verso il suo Paese e adopera questa frase: «Il dovere della equità esiste anche verso noi stessi». Cerchiamo, dunque – e io ne rivendico a me il diritto, come ad uno dei più giovani rappresentanti della Camera italiana – di lavare la macchia che pesa sul popolo italiano. Gli Alleati ci accusano di aver dato vita al fascismo; la condanna morale che ci infliggono è di aver tollerato l’instaurazione di una dittatura e di esserci lasciati condurre da questa dittatura verso così dette folli avventure.

Ma noi potremmo rispondere a questi signori, i quali si compiacciono troppo spesso di ricordarci un periodo critico della nostra vita nazionale, che quanto noi facemmo venticinque anni fa di fronte al dilagare di un sovversivismo, che minacciava le basi stesse della società nazionale, essi stanno facendo ora per minacce molto meno attuali; e lo stanno facendo dopo la nostra triste esperienza. Il loro fascismo, questa ondata anti-comunista che si esercita in America, per il momento a mezzo di leggi eccezionali, sarebbe pensabile come condotto alle conseguenze estreme, cui siamo giunti noi con Mussolini, e moralmente sta in ogni caso sullo stesso piano del fascismo italiano. Noi dobbiamo francamente dire a codesti nostri amici che essi non hanno il diritto di accusarci di aver fatto venticinque anni fa quello che oggi essi stanno facendo.

E poi, allontaniamo da noi decisamente un’altra accusa: quella dell’imperialismo. C’è una preoccupazione costante, c’è una cappa di piombo che grava su tutti i nostri gesti; noi non possiamo parlare di Trieste; noi non possiamo parlare del Mediterraneo; noi non possiamo parlare di ripresa economica, perché ci vengono all’orizzonte presentate queste lettere di fuoco: «imperialismo italiano».

Che cos’è l’imperialismo italiano in definitiva? È la rivendicazione di un popolo povero ai diritti della vita. E ci viene rimproverato questo imperialismo in un momento in cui la Francia ha combattuto in Indocina contro un popolo inferiore e lo ha soggiogato con la forza; in un momento in cui l’Olanda dichiara una guerra contro Sumatra e Giava, perché non intende rinunciare alla sua politica coloniale e ai suoi Dominî d’oltremare; in un momento in cui la stessa Polonia è spinta dalla Russia ad avanzare fino alle porte di Berlino, e la Bulgaria, la Grecia e la Romania, e anche più piccoli Paesi hanno fatto valere le loro rivendicazioni territoriali.

Noi non possiamo concedere che ci si incolpi di imperialismo da parte di Potenze che ancor oggi – e bisogna avere l’ardire di dirlo – usano in Palestina mezzi di cui noi ci saremmo sempre vergognati. Naturalmente, questo problema degli spazi vitali non è morto perché sono morti Hitler e Mussolini; questa necessità per Paesi sopra popolati di espatriare esiste ancora. Noi accettiamo e ringraziamo l’ospitalità delle Repubbliche sud-americane e di tutti quei Paesi europei ed extra-europei, i quali concedono lavoro ai nostri operai. Ma, evidentemente, è molto triste constatare che questi nostri fratelli vanno a lavorare sotto bandiera straniera. Diciamo: vogliamo anche noi avere la possibilità di lavorare in terre nostre. Noi non avanziamo la pretesa di riconquistare quello che è stato perduto, ma diciamo: mettiamo in comune tutte le risorse mondiali e diamo lavoro a questi Paesi poveri.

Certamente, se nel 1938 la Germania fosse stata sodisfatta nelle sue giuste esigenze di attuare, da grande popolo com’è, una politica di espansione, la guerra non sarebbe venuta.

Vi è un altro problema che incide profondamente sull’Italia, perché si vuol vedere in questo problema un’altra delle cause del fascismo: il problema del nazionalismo. Io sono d’accordo che il nazionalismo sia stato uno dei veleni più pericolosi e più dannosi che l’800 abbia fatto nascere fra le masse europee, ma questo sentimento di un popolo di essere nazione ormai c’è e non si può ignorarlo.

Come correggere questo sentimento? Come dare sfogo a questo sentimento? Come riuscire a che lo stimolo maggiore che nelle masse determina il desiderio della guerra venga sodisfatto?

In altri tempi ci sono state le guerre religiose. Oggi sarebbe assurdo, sarebbe incredibile che un Paese scendesse in guerra per difendere una libertà religiosa che gli è concessa o per imporre ad altri una fede religiosa. Dobbiamo arrivare alle stesse conclusioni per il nazionalismo: occorre che al nazionalismo si dia lo sfogo più ampio e la soddisfazione più completa. Quando un popolo sarà racchiuso nei suoi giusti confini, allora naturalmente non vi sarà lo stimolo alla guerra, non vi saranno questi focolai di irredentismo che da cento anni periodicamente travolgono i popoli d’Europa.

Il Trattato di pace che è stato proposto all’Italia sodisfa a questa duplice esigenza di non lasciare rancori nel Paese, di metterci in pace con tutti i nostri vicini, e sodisfa all’altra esigenza che è quella di consentire ai popoli europei di rifare la loro unità e di porsi come terzi arbitri fra due contendenti?

È su queste basi che – secondo me – il Trattato di pace va esaminato.

Ed in relazione alla soluzione di questi due problemi si deve discutere se si può accettare il Trattato e ratificarlo, o se si deve tentare la sua modifica.

Abbiamo lasciato oltre i confini terre italiane. La Francia ha voluto condursi verso di noi secondo la sua vecchia scuola politica: quella delle teste di ponte in casa altrui e del confine montano o fluviale. Abbiamo rinunciato o stiamo per rinunciare a qualsiasi forma di espansione africana, a qualsiasi attività coloniale. Siamo stretti fra le più angustiose necessità, cosicché mi pare che gli interessi essenziali – non dell’Italia ma dell’Europa –– siano stati lungi dall’essere salvati. Il Trattato, quindi, è completamente deficitario per noi. In questa pace – non soltanto nella pace italiana ma anche nella pace germanica – in tutta la pace di questo dopoguerra manca uno spirito giuridico, manca un principio informatore.

A Vienna, un secolo e mezzo fa, nel 1814, si trovò una formula giuridica da applicare indistintamente ai vincitori e ai vinti: quella formula giuridica della legittimità delle conquiste prerivoluzionarie, riconosciuta dagli uni e dagli altri, dette tregua alla Francia napoleonica e assicurò bene o male per circa un secolo la pace del Continente.

A Versaglia un altro principio fu seguito. Il principio delle nazionalità. Si sapeva che bisognava cercare di unire sotto uno stesso Governo uomini di una stessa lingua e di una stessa razza.

Anche in questa guerra si era partiti bene con la Carta atlantica. Si era detto che la situazione sarebbe tornata quale era prima delle aggressioni fasciste; si era promesso che da nessuna parte vi sarebbero state conquiste o perdite di territorio: era il vecchio principio di Vienna. Ma tutto è finito in una lotta d’interessi egoistici e di compromessi fra l’Oriente e l’Occidente, fra Anglo-sassoni e Russi, che si è esercitata unicamente a danno dell’Europa. Forse questo fatto, il principio del diritto, è in fondo come la morale nella vita dei popoli, perché un principio morale e giuridico può anche non attuarsi completamente essendo i rapporti tra i popoli rapporti di potenza; ma comunque esso serve, come nell’individuo la morale, a lenire le pretese del vincitore, a segnare un limite ai suoi appetiti. In questa pace, questo limite morale e questo principio giuridico sono mancati completamente ed io oserei dire che questo principio è mancato, proprio perché è mancata, nella compilazione della pace, quella mentalità giuridica latina che fino ad oggi aveva guidato le sorti del mondo.

Possiamo noi consentire che si continui per questa strada? Possiamo noi consentire che l’Europa continui ad essere fatta oggetto dei compromessi di forze estranee? Che cosa hanno fatto il Governo italiano ed i precedenti Governi per evitare queste sventure? Senza dubbio noi siamo stati le vittime di iniziative altrui.

L’Italia ha avuto solo due momenti in cui poteva agire: il primo quando le truppe americane invasero la Sicilia e la Calabria e giunsero fino a Cassino.

Eravamo il primo Paese liberato dell’Europa: tutto il mondo guardava con enorme attenzione a quello che avrebbero fatto le nostre popolazioni, da 25 anni oppresse da un regime dittatoriale. Tutto il mondo, e specialmente la Russia e l’America, faceva a gara per accattivarsi l’animo di queste genti. Già si era capito che la situazione interna di ogni Stato ed i sentimenti filomarxisti o filodemocratici avrebbero avuto un peso determinante nella politica di questi Stati. Purtroppo, non si seppe approfittare allora di questa situazione.

Che cosa si poteva fare? Non si poteva fare una politica di equilibrio, perché, per fare una politica di equilibrio, bisogna che un Paese abbia un peso da gettare in questa o quella bilancia. L’Italia non poteva fare una politica di affiancamento all’uno o all’altro blocco, oppure una politica ardita di colpi di mano, una politica machiavellica, se così ci piace chiamarla.

Ma purtroppo questa occasione ci è sfuggita. Io voglio essere equanime: non vorrei che la responsabilità di questa situazione si addebitasse unicamente ai Governi. In quel momento l’Italia cominciò ad essere divisa: gli animi degli italiani si scissero in due parti: da una parte stettero i comunisti ed i socialisti con le loro simpatie verso la Russia, dall’altra parte stettero le forze democratiche e reazionarie in genere. Di queste forze, spassionatamente, senza pudore, le une si appoggiarono alla Russia e le altre – confessiamolo pure – alle potenze Anglo-sassoni. Fu un fenomeno di degenerazione gravissima che si ripete in tutti i Paesi in stato di decadenza. Non avemmo spirito nazionale; non sentimmo che l’ideologia non doveva soverchiare in quel momento le necessità della Patria e che bisognava tacere.

Questa è, a mio avviso, la verità spassionata della nostra situazione. Evidentemente errori poi ci furono da parte del Governo ma furono, più che altro, errori tecnici e perciò stesso, visibilissimi. Per esempio, si affidavano le nostre ambasciate a uomini nuovi alla diplomazia, nuovi alla gente che andavano a conoscere. Il Governo italiano credette che anche all’estero ci fosse stato un fascismo, ci fosse stata una lotta clandestina. Non trovammo il nostro Talleyrand, l’uomo che fosse stato in contatto con l’estero non soltanto al momento del crollo del fascismo, ma anche prima del fascismo e durante il fascismo. Quell’uomo avrebbe potuto dire tante cose agli Alleati, che questi nostri illustri rappresentanti, impreparati e sconosciuti all’estero, non seppero evidentemente dire. Ci fu anche un errore gravissimo: si smantellarono tutte le organizzazioni del Governo. Si credette che lo strumento che aveva servito il fascismo non potesse più servire alla democrazia.

Una voce al centro. Certo.

CICERONE. Mi dispiace, ma non sono del suo avviso. Noi rinunziammo a qualsiasi forma di organizzazione segreta d’informazioni che tutti gli Stati hanno, perché noi abbiamo visto, egregio amico, nella nostra Italia, in ogni provincia, in ogni casa, direi, esercitarsi la sorveglianza di organizzazioni segrete anglo-americane. Sono strumenti di cui uno Stato si serve, perché la difesa all’estero non ha niente a che fare con il regime di un Paese. Ci furono degli errori e molti di questi errori, come dicevo, non possono addebitarsi al Governo, ma ad una situazione di rapida decadenza del popolo italiano.

Poi la guerra terminò. Gli Alleati non ebbero più bisogno dell’Europa; perché l’Europa era loro, l’avevano nelle mani, ne decisero come vollero, ed allora ogni iniziativa sfuggì al Governo italiano, che dovette rassegnarsi a subire operazioni chirurgiche sul tavolo anatomico della pace, in condizioni di anestetica immobilità.

Si rinnova in questo momento la possibilità di fare una politica estera. I compromessi fra i Grandi sono finiti.

Essi litigano nuovamente, ciascuno di essi ha bisogno nuovamente di noi. E questo è un momento cruciale della vita della Nazione; è questo il momento in cui bisognerà decidersi e scegliere la nostra strada. Forse ci sfuggirà l’ora, ci sfuggirà l’occasione nuovamente e forse non si presenterà più; quindi richiamo l’attenzione del Governo sulla opportunità che in questa Assemblea, dopo la ratifica o non ratifica, si faccia un altro dibattito sulla politica internazionale del Paese. Si rinnova la possibilità di una politica estera; è la politica estera dei deboli. Dobbiamo confessarlo francamente: è quella libertà relativa di muoversi tra i colossi destreggiandosi che confina con l’indipendenza, ma non è l’indipendenza.

Dobbiamo andare con la Russia o dobbiamo andare con gli Anglo-americani? È arduo rispondere ad un quesito di questo genere. Debbo dichiarare che, come conservatore, non avrei, in linea di principio, nessuna difficoltà al più stretto avvicinamento con la Potenza russa, perché i rapporti esterni non hanno niente a che fare con la vita interna dei popoli. Ma, d’altra parte, si è determinata in Italia una situazione interna di cui conviene tener conto, quella situazione che ci ha impedito di fare una politica estera tre anni fa.

Un avvicinamento alla Russia? Data la proporzione delle forze politiche nel Paese e dato il precedente per cui in tutti i Balcani i Paesi sottoposti all’influenza russa sono caduti sotto il Governo comunista, dati questi precedenti, io ritengo che non si dovrebbe andare con la Russia. Ma c’è il rovescio della situazione. Possiamo noi stringerci intimamente con le Potenze anglosassoni? E qui ci si presentano alcune difficoltà.

È inutile nasconderci che le guerre ci sono state e che guerre ci saranno. (Proteste – Commenti a sinistra). Non possiamo nasconderci, anche se alcuni idealisti lo vogliono ignorare oggi, come l’hanno ignorato ieri, che le possibilità di un conflitto sono sempre immanenti nella vita del mondo.

Ed allora io vi chiedo se seriamente si può pensare ad un’Italia, ad una Francia tese in uno sforzo bellico contro la Potenza sovietica, quando questo sforzo dovrebbe ricadere principalmente su quella classe operaia, che è sentimentalmente legata con la madre del marxismo mondiale.

È quindi evidente che un nostro intimo avvicinamento con gli Anglo-americani è da evitare per una situazione di cui essi sono responsabili, perché essi stessi hanno aiutato al loro arrivo in Italia lo sviluppo delle forze marxiste, e a furia di frugare nelle nostre tasche nella speranza di trovarci il distintivo fascista, ad un certo punto non si sono accorti che quel distintivo era saltato nelle loro tasche. Sono situazioni paradossali che si ripetono molte volte nella storia del mondo, come quando la Germania, credendo di aver vinto la Francia rivoluzionaria, si è trovata la rivoluzione in casa sua.

Ma c’è fra queste due vie egualmente pericolose, una terza via: è la via che io ho indicato all’inizio di questo mio breve discorso, cioè la via del blocco europeo. Il Governo italiano si adoperi a questa possibilità. Il Governo italiano cerchi l’avvicinamento con tutti i popoli europei, compreso il popolo tedesco, perché non è pensabile un’Europa senza l’elemento germanico, come suo componente primario. Questa Germania, così misteriosamente mistica, questa Germania per tanti secoli pacifica, questo popolo che per tutto il Medioevo ha assicurato l’equilibrio e la pace dell’Europa, ad un certo punto si è sentito stretto fra la Potenza russa che nasceva e la Potenza francese che declinava, e da questo urto è nato probabilmente il suo timore folle di essere schiacciata fra i due blocchi, il suo spirito guerresco.

Non illudiamoci: la Germania non si può dividere fra la Russia e gli Anglo-americani. Se noi ricostruiremo in Europa un concerto di Potenze europee, nel quale la Germania conti per se stessa, ma nel quale le altre Potenze unite contino più della Germania, allora l’elemento germano-latino potrà di nuovo ridare forza e potenza alla nostra civiltà e potrà porre l’Europa fra i due contendenti mondiali; potrà questa Europa essere nuovamente la salvazione della civiltà.

Ora, sulla via della Unione europea, troviamo noi il piano Marshall e troviamo la ratifica del trattato? È questo, dal mio punto di vista, il problema.

Il piano Marshall suona anzitutto accusa agli europei, suona ammonimento da parte di un continente estraneo a questi popoli che non hanno trovato in se stessi abbastanza intelligenza e abbastanza forza per comprendere che dovevano unirsi; ma è sempre iniziativa estranea, è spirito di altra mentalità; è una iniziativa che somiglia ad una impresa commerciale, che risponde allo stile dei governanti americani. Si ripetono, un po’ in altre forme, le difficoltà che incontrò Wilson nell’applicare all’Europa un piano concepito fuori dell’Europa, assente l’Europa.

Se il piano Marshall sarà uno spunto per mettere insieme queste Potenze europee, esso potrà avere ulteriori e buoni sviluppi. Ma occorre che la sua origine sia dimenticata; occorre che sia quasi cosa nostra. Le energie del vecchio continente sono ancora immense. Esse sole, unite, potrebbero risolvere il problema economico dell’Europa; e se l’America si fosse posta come mediatrice nei nostri problemi europei, avrebbe fatto molto meglio e di più.

In altri termini, non riusciremo a dimenticare, per il carbone e la farina, due millenni di tradizioni e di contrasti, consumati per la delicata questione dei problemi di confine e di commistione di popolazioni e di razze diverse. È in questo lavoro paziente, veramente europeo, che può consistere l’intervento americano come mediatore delle contese europee. Se l’America si accontenterà di esercitare una protezione solo economica, non avrà fatto gran che.

Incontriamo per la via dell’unione europea la ratifica del Trattato di pace? Non lo so. Perché, in fondo, non attribuisco nessuna o quasi importanza a questo atto formale, perché nei rapporti tra i popoli, che sono rapporti di potenza e di equilibrio, gli atti formali contano finché sono sostenuti dalla volontà di farli contare. La volontà di far contare il Trattato di pace da parte italiana non ci potrà essere mai.

Signori del Governo, non è ignorando l’ammalato che potete guarirlo; non è rinunziandovi, che potete eliminare l’irredentismo futuro. Oggi come oggi tutti quanti siamo in questa Assemblea potremmo anche mettere una pietra sui nomi di Trieste, Zara, Tripoli, Bengasi, Briga e Tenda. Potremmo farlo noi. Ma siccome la fiamma della italianità vivrà in questi Paesi eterna, i nostri figli ed i figli dei nostri figli potrebbero trovare in quei nomi un vessillo di guerra.

Perciò, piuttosto che contentarvi del formalismo di essere trattati da pari a pari nelle conferenze internazionali, piuttosto che premere per l’ingresso all’ONU, al quale non credo, come non credo in nessuna di queste mastodontiche formazioni internazionali, le quali spesso mascherano una politica egoistica, badate ai problemi concreti. E se la ratifica può servire a risolvere questi problemi, ad aprire una strada perché questi focolai di nazionalismo siano spenti, per il bene d’Europa, ratificate!

Ma, se mai voi aveste la sensazione che le promesse di revisione non siano più sincere di quelle fatte in altri tempi alla Germania, se mai aveste la sensazione che quel machiavellismo di cui ci si accusa è invece machiavellismo degli altri, è la concezione anglo-sassone del machiavellismo che ha portato nella guerra diecine di popoli, sapendo di non poterli sostenere, e da radio Londra ha scoraggiato i nostri combattenti, per poi trarli in campi di prigionia, allora non ratificate!

La mia generazione e le più giovani, non hanno responsabilità di tutto quanto è accaduto: veramente siamo immuni da ogni colpa. Noi non vi chiediamo molto, noi non vi chiediamo le utopie della pace perpetua, né vi chiediamo l’associazione mondiale dei popoli: vi chiediamo molto meno. Noi vi chiediamo qualcosa che è stato già fatto nella storia dell’umanità: vi chiediamo la pace.

Noi riteniamo che questa pace debba fondarsi principalmente sulla eliminazione dei rancori. Un secolo fa, uomini che rappresentavano l’autoritarismo regio, al loro tempo, con i sistemi della loro morale politica, seppero assicurare questa pace in Europa, perché trovarono tanta forza i vincitori da rinunciare al timore folle della rivincita, e tanta forza e tanta abilità i vinti da far intendere al vincitore che era suo interesse non incrudelire su di essi.

Noi vi chiediamo soltanto questo: e quando ci avrete assicurato un avvenire scevro di rancori e di rivendicazioni, allora le nuove generazioni, su questa serenità, si impegneranno a conservare la pace. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. L’idea di ratificare desta in me una profonda tristezza per i ricordi del passato. Io non volli firmare il trattato di Versailles; invece di recarmi io stesso a Parigi incaricai l’onorevole Sonnino.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. C’ero io!

NITTI. No, tu non c’eri! È un equivoco.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ti dico che c’ero. (Si ride).

NITTI. È un equivoco che chiarirai facilmente. Non volli firmare: ero convinto che quel trattato avrebbe portato l’Europa ad una nuova e ben più grande rovina. Dovetti firmare ciò che non avrei voluto. Pochi mesi dopo, richiamato a Parigi, andai a firmare la ratifica.

Ricordo ancora quella scena dolorosa: il rappresentante tedesco aveva l’aria triste, come di uomo che nel corpo e nell’anima avesse qualcosa che non comunicava! La firma della ratifica fu fatta con solennità. I francesi se ne valsero anche dopo nella loro propaganda di guerra. La ratifica era l’atto solenne di consacrazione della vittoria. Quando la Francia era in guerra con la Germania dopo il 1939 e voleva dar prova della sua grandezza, ricordava la consacrazione della precedente vittoria. In tutti i cinema dei grandi boulevards di Parigi c’era il documentario della ratifica sotto della quale era una mia brutta firma che pareva contraffatta. Ero così nervoso, quando firmai, che la firma par quasi non mia. Soffrivo nel firmare: sentivo che la guerra era prima o dopo inevitabile. Uscii dall’aula, la stessa dove ora si fanno le riunioni (la Sala dell’Orologio) deciso a combattere quel trattato e a volerne la revisione. O la revisione, che nella generale esaltazione pareva allora impossibile, o inevitabilmente a più o meno lungo termine una più immensa guerra. Da allora, appena fui libero dal Governo, pubblicai una serie di libri per dimostrare come si dovesse arrivare necessariamente alla guerra. Il primo di questi libri fu L’Europa senza pace, tradotto in 24 lingue dell’Europa e dell’Asia e che fece il giro del mondo. Le cose che prevedevo, e a cui quasi tutti si rifiutavano di credere, dolorosamente sono avvenute.

L’idea di ratifica, dunque, mi è per il passato triste ricordo e mi è causa di dolore e di ansia per l’avvenire. Questa ratifica, che si domanda a noi, è per me suprema umiliazione, perché, dopo aver assistito alle ratifiche da vincitore, assisto ora da vinto, e ne sento tutta l’amarezza. Il mio paese è triste e umiliato.

Noi tutti, ci troviamo di fronte ad un problema terribile: bisogna accettare l’umiliazione? Ratificare o non ratificare il trattato?

Non vi sono che tre soluzioni: o respingere il trattato con tutte le conseguenze gravissime che ne sarebbero il triste corollario; o adottare una ratifica che ora non ha tutti gli elementi per essere operante a nostro vantaggio; o ratificare quando vi siano tutte le condizioni necessarie e intanto dare al governo tutti i poteri necessari perché la ratifica avvenga anche quando il Parlamento non è riunito. Negli ultimi due casi però la ratifica non può avvenire senza una solenne e dignitosa protesta contro l’iniquo trattamento fatto all’Italia cui è stato imposto un diktat umiliante e odioso.

Io, per quanto sia doloroso, ho detto fin dal primo momento che noi dobbiamo accettare. Noi abbiamo perduto la guerra. Non possiamo che accettarne le conseguenze. Se non sottoscrivessimo, dovremmo arrivare (e come e quando?) ad una serie di paci separate che non so quale cosa terribile sarebbero, per noi, perché ogni atto isolato che ci riguardi da parte di qualcuno dei vincitori non può essere che peggiore di quelle che sono state finora le loro espressioni collettive.

Dopo tante promesse fatte, dopo tanti annunci di democrazia (ahi, queste democrazie che dovevano dare non solo la pace, la solidarietà e la giustizia, ma metterci sul buon cammino, dopo tanti anni in cui, secondo i nostri giudici, eravamo stati sul cammino triste del fascismo), ahi, che cosa sono state queste paci!

I primi atteggiamenti dei vincitori sono stati seguiti da manifestazioni sempre meno amichevoli. Ogni decisione che è seguita ha peggiorato le cose a nostro danno. Ogni riunione dei vincitori si è risoluta sempre in un aggravamento delle nostre situazioni. Dopo la pace di Potsdam, in cui i vincitori avevano dichiarato che l’Italia aveva liberato se stessa dal regime fascista, facendo progressi verso il sistema delle democrazie (quali progressi! tutto quello che le democrazie volevano è stato adottato), la monarchia è caduta. E dopo, quale è stato il contegno degli alleati? Mai migliore di prima, anzi sempre peggiore. Si è mentito e si mentisce quando si afferma che noi possiamo sperare facilmente in un cambiamento rapido delle situazioni precedenti: ora nessuno crede possibile una modificazione sostanziale dei trattati a nostro favore.

Noi dobbiamo ratificare. Il solo problema è questo: dobbiamo ratificare nelle condizioni presenti? e perché dobbiamo ratificare con tanta sollecitudine, quando il Trattato è inoperante per noi, perché manca la ratifica della Russia?

Si dice che rapida ratifica è voluta a Parigi e a Londra e che produrrebbe vive soddisfazioni all’America. Si dice anche che Mosca sarà solidale con gli alleati, e che ratificherà a sua volta presto; che nessun miglioramento ci possiamo attendere da prossime mutazioni, e che col Trattato si è realizzata una situazione che deve avere carattere di permanenza. Ecco il grave, ma una cosa è ancor più grave, ed è che si attribuiscono a noi tutte le colpe del fascismo e della guerra.

Dante aveva detto: «La colpa seguirà la parte offensa»; ora, tutte le colpe si attribuiscono a noi. La guerra, secondo i trattati dei vincitori, è stata nostra colpa, ed è stata conseguenza del fascismo! È inutile illudersi: questa falsa idea è germogliata ed è continuata a durare ed è anche disonestamente contenuta nella pace firmata a Parigi il 1° febbraio 1947. Quella pace, dunque, mi offende in tutti i miei sentimenti, ed io trovo che non potrò mai rassegnarmi ad essa, se non come ad una necessità. Noi non dobbiamo discuterla nella convinzione che la sua enormità e la sua ingiustizia sono tali che, prima e dopo, noi volenti o rassegnati, i vincitori volenti o nolenti, si imporrà la revisione di questo Trattato, che non è onesto e non può essere a lungo durevole.

Ma noi, come abbiamo accettato, sottoscrivendo il Trattato, con le condizioni imposte, dobbiamo ora, per eseguire il Trattato, ratificarlo e dobbiamo agire in buona fede.

Tutto dobbiamo fare, tranne l’equivoco di dire una cosa e di farne un’altra. Troppo sull’Italia è pesata questa accusa di infedeltà: dal giro di valzer fino ai successivi tradimenti che purtroppo sono esistiti nella politica italiana, a cominciare dalla guerra del 1915, che fu iniziata in modo non onorevole, perché quando il Trattato di Londra fu redatto vi furono settimane in cui l’Italia si trovava nello stesso tempo alleata dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Francia, Russia ed Inghilterra; cioè l’Italia fu nello stesso tempo alleata delle due parti. Questa accusa ci è sempre pesata. Ai vincitori attuali, per quanto siano stati e siano con noi ingiusti, non dobbiamo promettere ciò che non siamo decisi a mantenere.

L’Italia ha avuto da secoli l’accusa infame di essere il paese di Machiavelli. Quanto male all’Italia ha fatto senza volere Machiavelli! Machiavelli era eruditissimo e uomo studioso di antichità e spirito profondo. Ma era fuori della realtà. Grande storico era stato il primo scrittore italiano di storia che non aveva mai considerata la religione a spiegazione degli avvenimenti che mettono gli uomini in eterna contesa e non mostrava alcuna disposizione a metterla a base delle lotte fra gli uomini. Egli, dai «Discorsi sulla prima deca di Tito Livio» alle «Storie fiorentine» ed al «Principe» come in tutti i suoi trattati minori, applicava i principî del suo tempo per spiegare i fatti dell’antichità come i fatti di allora, e i principî che a noi sembrano immorali erano gli stessi che gli servivano a spiegare i fatti della storia. Machiavelli visse presso a poco nello stesso tempo di un altro grandissimo italiano che fu tanta causa del declinare della grande prosperità economica dell’Italia: Cristoforo Colombo.

Questi due grandi uomini, che non si conobbero mai, fecero per diverse ragioni non poco male al nostro paese.

Cristoforo Colombo nacque quando l’Italia era il centro dell’Europa, quando prestava denaro a tutto il mondo ed era creditrice dei re. Il commercio del danaro era soprattutto di Milano e di Firenze. Le città anseatiche sorsero più tardi.

Il Mediterraneo era allora il centro della ricchezza mondiale. Non esisteva altra grande linea di traffico che il Mediterraneo. L’Italia era non solo il paese della religione dominante, ma era nel campo economico il paese del grande traffico, della navigazione commerciale più importante, della banca.

L’Italia era il paese dei grandi banchieri, creditori di tutta Europa. Firenze e Milano prestavano a tutti i re. Cristoforo Colombo con la scoperta dell’America rovinò il traffico e la ricchezza dell’Italia. Questo uomo ardito e saggio non pensò, quando scopri l’America, che spostando le correnti marittime, il Mediterraneo diventava fino al taglio di Suez soltanto un mare interno. Colombo rovinò tutta la ricchezza italiana: per quella massa d’oro che si riversò in Europa, fece fallire tutti i banchieri italiani, tutti i risparmiatori.

Machiavelli in un altro campo ci fece assai grave male, ci discreditò moralmente. Machiavelli era un uomo (non vi meravigliate di queste parole) di altissima intelligenza, ma di animo mediocre: era un sensuale, era uomo che non aveva nessuna alta concezione della vita.

Io sono stato un attento lettore di Machiavelli e l’ho sempre fra i libri che più leggo. Era uomo che mancava di ogni altezza spirituale, non aveva idealità, non capiva né meno i grandi fatti del suo tempo. Proprio al suo tempo avvennero le due più grandi scoperte e invenzioni che mutarono la situazione del mondo: la scoperta dell’America e l’invenzione della polvere. A questi due fatti che agirono sulla vita del mondo egli non dette alcuna importanza e non dedicò neppure una parola. Egli credeva che il più notevole fatto fosse la potenza della Svizzera e che la Svizzera dovesse dominare l’Europa per la sua forza guerriera. Fece teorie della guerra ed insegnò come si dovessero dirigere gli eserciti. Ma un giorno che Giovanni De’ Medici lo ebbe ospite, lo pregò di dirigere le manovre delle sue truppe, secondo i principî esposti nel suo libro. Machiavelli si provò: dopo poco vi era tanto disordine che le truppe marciavano a caso, le une contro le altre. E allora Giovanni De’ Medici, sorridendogli disse di sospendere il tentativo, ché egli stesso avrebbe regolato le cose secondo la sua pratica: fece suonare i tamburi e in un quarto d’ora le truppe furono regolate e ripresero il loro andamento normale…

CALOSSO. La sua era una pedagogia militare, non una strategia! Permetta che difenda il Machiavelli contro di lei. (Commenti – Ilarità).

NITTI. Machiavelli, dunque, ci ha reso, senza sospettarlo, il cattivo servigio di far credere che noi italiani facciamo una politica di falsità. In realtà egli non faceva che studiare situazioni del suo tempo e riprodurle come poteva, teorizzando. Era uomo volgare e penetrato di oscenità. Io ho letto, qualche cosa come 50 anni fa, nella casa di un erudito fiorentino che si chiamava Gustavo Uzielli, famoso collezionista e illustratore delle opere di Machiavelli, le lettere private del segretario fiorentino che egli raccoglieva e che non pubblicò. Sono un monumento di volgarità e di oscenità. Machiavelli indicava con linguaggio fisiologico (se volete, anatomico) tutte le varie parti del corpo e le metteva in rilievo parlando dei suoi amici e delle sue proprie avventure…

CALOSSO. Era l’uso del tempo…

NITTI. Ora, questo singolare uomo, che certamente aveva così straordinario intelletto, ci ha reso il cattivo servigio di farci passare come uomini sempre disposti a mentire, egli che, in fondo, era un onest’uomo e, data la morale dei tempi, anche probo.

Noi dobbiamo, per quanto è possibile, essere sinceri fino all’esagerazione, perché nulla ci pesa sul capo come questo equivoco della nostra «abilità». Io preferisco che l’Italia sia piuttosto inabile, che avere la cattiva fama di troppo abile. Ma vi è niente di peggio che mancare di abilità per volere essere troppo abile?

Ho letto troppo spesso anche nei nostri giornali e leggo ancora giudizi che mi sembrano non solo falsi ma anche inabili, che fanno cadere sull’Italia la responsabilità della guerra mondiale, dicendo che essa è dovuta al fascismo. Non sono convinto che noi abbiamo seguito la buona via e né meno la vera quando nella lotta contro il fascismo abbiamo detto e diciamo come ora che la guerra è una conseguenza del fascismo e che il fascismo è stato soltanto fenomeno italiano. Quali falsità!

Signori, non è vero; ed è stolto ripetere la stessa falsità come continuare a fare ora i professionali dell’antifascismo.

Vi sono state cause ben più profonde della guerra d’Europa. Per nuocere al fascismo, noi abbiamo fatto cosa pessima a danno dell’Italia. Siamo arrivati a dire che tutte le responsabilità della grandissima guerra che ha sconvolto il mondo pesano sul fascismo. Non abbiamo pensato alla conseguenza. Il fascismo è stato una detestabile cosa, una trista avventura e Mussolini è stato, assai più che uno scellerato, un pazzo, perché ha trascinato l’Italia nella sua megalomania, verso un destino di morte. Ma Mussolini non è il solo responsabile del fascismo: e il fascismo è ben lontano dall’essere il maggiore responsabile dei tragici avvenimenti. Questo noi dobbiamo dire a tutto il mondo; la responsabilità del fascismo non è soltanto nostra. La responsabilità del fascismo è divisa con i vincitori, perché sono stati essi che, quando il fascismo era tante volte in pericolo lo hanno aiutato, lo hanno sorretto.

Il fascismo è stata una deplorevole avventura italiana. Il fascismo non è stato però soltanto un uomo, né è stato soltanto un fenomeno italiano. Il fascismo è stato l’espressione di uomini ricchi e di ceti privilegiati (Applausi a sinistra), e non è stato solo un episodio italiano, è stato un episodio europeo e americano di un certo periodo.

Dopo che io mi resi conto che non potevo più resistere alle persecuzioni fasciste, dopo che avevo avuto la casa distrutta e che ero con la mia famiglia in permanente pericolo, mi persuasi che non avevo altro da fare se non esulare, e mi recai prima, in Isvizzera, a Zurigo. Zurigo è città ricca, è la città dei grandi banchieri. A Zurigo nessuno osava apertamente esaltare il fascismo. Ma quasi tutti gli uomini importanti erano fascisti. Là erano infatti quasi tutti quei banchieri che agivano potentemente sulla vita economica. Tanta parte del movimento industriale italiano si riattacca a Zurigo; soprattutto il cotone.

Ebbene, tutti senza dirlo erano per il fascismo e avevano quasi l’aria di compiangermi mentre io li guardavo non senza tristezza. A Zurigo lasciai molti estimatori e amici personali e pochi antifascisti.

Dopo quasi due anni, andai a Parigi, dove purtroppo dovetti rimanere molti anni. Pur avendo grandi amici e accoglienze cordiali, l’esilio fu troppo lungo. La prima cosa di cui dovetti occuparmi appena arrivato fu la ricerca di una casa: allora le case erano costosissime, e quasi sempre superiori alle mie risorse.

Trovai alfine la casa di un vecchio barone. Andai da lui, declinai il mio nome che egli probabilmente non conosceva o non comprese. Mi chiese un prezzo esorbitantissimo e, quando io gli dissi delle difficoltà della vita, e quando gli dichiarai che non potevo spendere quanto mi chiedeva, allora mi rispose che i tempi erano difficili per tutti, ma che io era italiano e soggiunse: Voi almeno, in Italia, avete la fortuna di un uomo che può veramente salvarvi. E mi fece l’apologia di Mussolini! Poi aggiunse che di uomini simili c’era gran bisogno e che anche la Francia avrebbe dovuto averne. Io gli risposi soltanto: Prenez le nôtre. (Ilarità).

Io non so se quell’uomo banale apprezzò il complimento, ma certo non se ne mostrò offeso.

Se vi raccontassi tutta la mia odissea e tutte le cattive impressioni che io dovetti avere! In diverso modo tutti gli uomini di buona società o gran parte di essi erano benevoli per il fascismo. Ah! quale fastidio di sentir dire ancora adesso dagli italiani, al mio ritorno in patria, che il fascismo è stato soltanto un fenomeno italiano. E però io non tollero che questa menzogna duri. Il fascismo è stato un fenomeno generale: gli uomini ricchi, i ceti privilegiati trovarono che era più conveniente la morale fascista: prendere l’operaio per la gola piuttosto che prenderlo per la mano. E furono per Mussolini. Io ho fatto, in tanti anni di esilio, prove dolorose: con tristezza ho trovato negli ambienti ch’io credevo meno favorevoli, simpatie e solidarietà d’idee e di sentimenti col fascismo. La colpa originaria del fascismo senza dubbio è nostra, sì: un popolo di oltre 40 milioni di abitanti (ora di 46) è responsabile sempre del suo Governo; e quando noi esageriamo le colpe del fascismo internazionalmente e intenzionatamente, non pensiamo che il pubblico straniero si domanda (quante volte da uomini di studio e di esperienza ho sentito questo discorso): Ma se l’Italia non è responsabile di aver inventato il fascismo, chi ne è responsabile? Si può ammettere che un esercito di occupazione nemico invada un Paese, e lo domini e costringa all’obbedienza tutti i cittadini; ma un Paese che non è invaso, che ha un suo esercito, una sua vita nazionale, come può non essere responsabile di tutte le colpe di un sistema che dura a lungo? Quante volte questa osservazione mi ha colpito, perché è vera. Noi ci siamo troppo a lungo rassegnati al fascismo. Siamo responsabili, perché non abbiamo saputo e voluto ribellarci. La nostra difesa non è nel negare le nostre colpe, ma nel constatare che la colpa nostra è stata divisa dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’America. Quante volte l’Italia mostrava di volersi liberare del fascismo, i loro uomini o i loro giornali più importanti intervenivano in una forma o nell’altra a favore del fascismo. I popoli liberi, in cui credevamo, non solo ci sono spesso mancati, ma i loro uomini più notevoli non sono stati per noi, è sono stati spesso contro di noi.

Quando penso che l’Inghilterra (ho tanti amici inglesi; non vorrei dire cosa poco rispettosa) ci ha dato i più tristi esempi, e con la sua azione in Italia e nel mondo ha sostenuto i fascisti, proprio quando il fascismo era per cadere: quale tristezza! All’indomani del delitto Matteotti, come all’indomani di altri delitti, grandi personaggi inglesi sono venuti in Italia a mostrare simpatia e solidarietà.

Noi abbiamo visto le cose più inverosimili; abbiamo visto Capi di Governo e ministri potenti venire a Roma, mostrarsi ossequienti verso Mussolini, prodigargli espressioni di simpatia e di stima; e non solo uomini dei partiti conservatori, ma dei partiti popolari più avanzati. E il mio buon amico Mac Donald non si è egli stesso degnato di venire a Roma, egli, Capo dell’Impero britannico, a fare atto di omaggio a Mussolini, che non si degnava di andare all’estero e di visitare Paesi stranieri…

ROMITA. Aveva paura!

NITTI. Probabilmente. Ora, quale spettacolo! Quando l’Italia era in qualche momento sul punto di riprendere la sua vita normale e forse di liberarsi, veniva a Mussolini l’aiuto straniero. Tutta l’Inghilterra ha appoggiato il fascismo. Abbiamo visto i giornali più conservatori come i più liberali essere in gara di simpatia con i giornali a grande diffusione, i giornali più riservati nei loro giudizi come i più popolari. Quale è ora il giornale più diffuso?

Voci. Il Times.

NITTI. No, il Daily Express. I giornali di lord Beaverbrook come di lord Rothermere, ecc., vuol dire parecchi milioni di copie di giornali, erano destinati ogni giorno a glorificare Mussolini o per lo meno ad esaltarlo! Tutti questi giornali non hanno fatto che l’apologia del fascismo, per tanti anni, a milioni, a diecine di milioni di copie ogni giorno. E noi abbiamo visto, ciò che è molto più grave, i più grandi personaggi inglesi venire in Italia solo per sostenere il fascismo. I viaggi di Austen Chamberlain mi scandalizzarono e mi offesero; io ruppi con lui ogni amicizia, benché fossi suo amico fin dai tempi di suo padre. Gli scrissi un’aspra lettera, quando vidi che si abbandonava anche lui ad adulazioni di quel genere. Austen Chamberlain è andato in Spagna, per sostenere Franco, ed è venuto in Italia soltanto per sostenere la dittatura; il Governo inglese, per mezzo del rappresentante più autorevole della sua politica estera, è stato il primo a sostenere il governo fascista! Ed ora rimproverare le colpe del governo fascista come colpe soltanto italiane è per lo meno eccessivo!

Io non posso dimenticare che non solo vi è stata assistenza amichevole, ma che quasi tutti gli ambasciatori che si sono succeduti sono stati più o meno per il fascismo, a cominciare dal mio vecchio amico Rennell Rodd, che alla vigilia di lasciare la sua carriera, ha voluto chiuderla facendo l’apologia del fascismo. E gli altri ambasciatori che si sono seguiti, in diversa misura hanno apertamente sostenuto il fascismo!

E se il fascismo è responsabile della guerra contro il loro Paese, quale non è anche la loro responsabilità! Non bisogna dimenticare che si è sempre tenuto lo stesso atteggiamento da parte del Governo inglese. Basta ricordare l’azione funesta di Erick Drummond, già segretario generale della Società delle Nazioni. Io ho documenti che provano che, nel periodo di maggiori difficoltà di Mussolini, Drummond cercò di toglierlo da tutti gli imbarazzi e di fare agire in suo favore il Governo inglese!

Anche quando Austen Chamberlain è morto, Neville Chamberlain, prima Ministro e poi Primo Ministro, ha lavorato per il fascismo. Morto Austen Chamberlain, la sua cortese signora si è installata a Roma, quasi come l’agente della propaganda fascista, anche presso il cognato divenuto primo Ministro. Quando abbiamo assistito a questi tristi fatti, perché tutte le colpe del fascismo si fanno ricadere sull’Italia?

E altrove è stata la stessa cosa. L’America forse ha minor colpa, ma anch’essa quale colpa!

Quali cose inverosimili sono accadute! L’America che non ha mai mandato in passato ambasciatori che entrassero nelle cose interne dell’Italia, ha mandato per la prima volta ambasciatori la cui funzione è stata quella di essere veri agenti del fascismo! Fra questi, tristissimo per la sua opera, Child, il quale per lungo tempo è stato qui a Roma arbitro di situazioni importantissime. Era un modesto scrittore che si credeva grande scrittore, ma era di una grande fertilità. Era divenuto l’apologista di Mussolini in tutti i giornali e in tutte le riviste. Nella stampa americana e nella rivista più diffusa in America, «Saturday Evening Post», non ha fatto che l’apologia del fascismo e di Mussolini, in scritti ridicoli (perfino Mussolini col leone, Mussolini che va a cavallo, Mussolini guerriero, agricoltore, oratore ecc.). Tutte queste banalità sono state diffuse dall’ambasciatore del più grande Stato. Tutte queste stupidaggini sono state pubblicate e diffuse dal rappresentante dell’America nella più diffusa stampa americana e forse del mondo.

Ma è cosa ancora inferiore al danno più grave di vedere i più grandi banchieri d’America prestarsi alla gloria del fascismo. Noi abbiamo visto l’inverosimile. Non vi parlo di Morgan, che era indifferente ma benevolo, né di un uomo stimabile come il suo grande socio, Lamont; vi parlo in generale di tutta la finanza americana. Ma i grandi banchieri che avevano tradizioni erano moderati nelle loro manifestazioni.

E la finanza ebraica? Quei finanzieri ebrei, Loeb, Schiff, Kahn, non sono stati caldi sostenitori del fascismo? Io scrissi ad uno di essi un’aspra lettera (si chiamava Otto Kahn, grandissimo banchiere) e gli dissi: i movimenti reazionari del tipo di quello di Mussolini cominciano e finiscono nell’antisemitismo. A Kahn ebreo vanitosissimo, io volli avvertire che con Mussolini prima o dopo si sarebbe arrivati all’antisemitismo. Egli è morto, ma io devo ricordare a sua vergogna che egli portò la mia lettera in omaggio all’ambasciatore d’Italia a Washington e da allora molti miei amici non ebbero facilità di vivere in alcuni ambienti!

Abbiamo visto le cose più inverosimili. Il più ricco uomo di America, il più potente era Andrew Mellon. Individualmente più ricco di Rockfeller e di Ford. Era nello stesso tempo non solo l’uomo più ricco ma potentissimo come Ministro del tesoro. La sua potenza era enorme negli Stati Uniti. Io lo conoscevo personalmente, e, vedendo l’appoggio che dava a Mussolini, gli scrissi una lettera per dirgli quale dolore ne provavo: perché Mussolini non poteva che fare opera incivile. Ebbi una risposta che ho conservato a lungo come documento inspiegabile di passione conservatrice e vorrei dire di aberrazione. Conosceva benissimo l’Italia. Veniva quasi ogni anno a Roma, dove aveva una figliuola maritata. Mi rispose con una difesa calorosa di Mussolini e del fascismo. Mi parlò delle opere importanti di Mussolini e disse che non era vero che in Italia non c’era libertà. Volle mettere in luce che si lavorava in Italia e che le ferrovie arrivavano in orario. Gli risposi con una lettera ironica: i treni arrivavano spesso in orario, in quanto a libertà era come a Sing Sing, che è il carcere di New York. C’era una libertà vigilata. E in quanto al lavoro, anche prima si era lavorato in Italia come si doveva lavorare anche dopo. Se un uomo come Mellon, che era potenza economica e finanziaria mondiale, si metteva apertamente in questa posizione e, dopo essere stato a Roma, mostrava tanto entusiasmo, chi non riconosce che l’America ha la più grave responsabilità del fascismo?

Non vi parlo della Francia. Ho vissuto tanti anni e ho frequentato tutti gli ambienti anche i più aristocratici e i più ricchi e sono stato un po’ dovunque. Ora che cosa fu la Francia per il fascismo? Tranne Clemenceau, in principio, e pochi liberali e pochi conservatori di vecchio stampo, quasi tutti gli altri uomini politici ebbero la loro debolezza per il fascismo.

Senza dubbio Herriot, Caillaux, Painlevé non furono amici del fascismo e Briand, senza combattere il fascismo, mi diceva che era sicuro della sua prossima, fine. Ma dopo di essi quale mutazione! Tardieu sognava di imitare il fascismo e Mussolini, e sognava qualche cosa che dovesse essere il fascismo. Gli uomini conservatori che parevano in apparenza più rispettabili, gli uomini dell’«Académie», quei grossi personaggi in generale noiosi e senza vera importanza nel mondo del pensiero, non furono nella gran parte che propagandisti di Mussolini? Non vi parlo di Henri Bordeaux, di Paul Bertrand, di Abel Hermant, dei vescovi, degli arcivescovi, di tutta quella gente inutile dell’«Académie». Ma tutto il mondo dell’«Académie», anche quello che pareva il più progressivo non faceva che l’apologia di Mussolini. L’espressione abituale era: Moscou ou Rome: come se fossero due cose che dovevano essere indispensabili, l’una o l’altra.

Vi fu maggiore scandalo del viaggio di Laval a Roma nel 1935? Laval era al colmo del suo successo e della sua potenza. Era a capo di un enorme Ministero nazionale, che conteneva i maggiori uomini, anche Herriot.

La guerra europea fu decisa a Roma nel 1935. Da che cosa? Dalla visita di Lavai a Mussolini, cosa gravissima che non è stata sufficientemente considerata. Il brindisi di Mussolini del 5 gennaio 1935 e tutta l’organizzazione che fu fatta intorno a quel movimento determinarono la situazione che precipitò poi verso la guerra. Laval è caduto; ma egli era l’uomo più potente di Francia in quel momento e, nel 1935, tutti i grandi capi, o molti capi, erano nel Ministero Laval, che era un Ministero di concentrazione nazionale. Ebbene, che cosa fu il risultato di quella visita? Fu la guerra di Abissinia che significò la guerra europea. Laval nel suo brindisi (cosa incredibile) disse a Mussolini: Vous avez écrit la plus belle page dans l’histoire de l’Italie moderne, cioè pagina più grande di quelle scritte da Michelangelo, da Leonardo da Vinci e dai più celebri italiani. Quando venne il dissidio fra Inghilterra e Italia, e tutto il conflitto davanti la Società delle nazioni, Laval fingendo solidarietà con l’Inghilterra, i lavorava contro di essa e faceva ridere i suoi giornali sulla vieille ferraille della flotta inglese.

Cosa ben più terribile; il generale Mordacq uomo di grande fama e che era stato il capo di gabinetto militare di Clemenceau e il maggiore suo collaboratore, scrisse con la sua firma che l’amicizia e la solidarietà di Mussolini e del fascismo erano la cosa più importante. Messa nelle condizioni di scegliere fra l’amicizia dell’Inghilterra e quella dell’Italia fascista, la Francia non doveva esitare ed essere per l’Italia fascista. La risposta a Mordacq, che ebbe larga eco, io non potetti firmare ma era scritta da me. La guerra dell’Abissinia non poteva finire che con la guerra europea. Ora la Francia così sensibile non ricorda che la responsabilità del fascismo è anche e in non poca parte sua. Non parlo dei nazionalisti francesi. A quali eccessi per tanti anni non ricorsero, per ammirazione di Mussolini!

Ed anche, mi perdonate, molti socialisti non furono tolleranti o benevoli per il fascismo? Perfino il buon amico Thomas non fece in forma abile e discreta l’apologia di Mussolini e non trovò anche che Primo de Rivera era apprezzabile per ciò che faceva per le classi operaie?

Ognuno ha la sua parte di colpa del fascismo, che è stato fenomeno internazionale. Buttare tutte le colpe sull’Italia e dire che il fascismo è stato un fenomeno italiano e che ha prodotto la guerra è falso. È cosa che io non posso leggere in un documento ufficiale italiano senza disgusto e senza indignazione.

Io avevo, andando all’estero, molte illusioni. Credevo che la massoneria, essendo una associazione libera ed umanitaria, dovesse combattere il fascismo. E, preso da questa illusione, ho viaggiato a mie spese buona parte dell’Europa per vedere tutti i capi delle massonerie. Io non sono stato mai massone e tengo a ripeterlo perché non vi sia equivoco. Ma ho sempre avuto simpatie nella massoneria, che ho considerato istituzione libera e progressiva. Ho girato gran parte di Europa: sono andato perfino nei paesi del nord, dove i re e i principi reali sono sempre i capi della massoneria. Ho girato dovunque, ho bussato a tutte le porte. Credevo che un movimento intellettuale contro gli eccessi e le violenze del fascismo potesse avere un gran peso.

In Inghilterra il capo della massoneria era uno zio del re attuale, il duca di Connaught, uomo serio, vecchio e che della massoneria si occupava moltissimo. Suo successore fu il duca di Kent, fratello del re attuale che morì in un incidente di aviazione.

Devo dire che il duca di Connaught mi parlò con molta stima del fascismo, tanto che io non osai davanti a lui proseguire molto nella mia dura critica, perché vicino ad un personaggio reale di tanta importanza e anche serio e di buona fede non mi parve cosa opportuna.

E poi girai tutti i Paesi scandinavi; visitai i re di Svezia, di Norvegia e di Danimarca e trovai spiriti liberi, uomini meglio disposti a comprendere il fascismo. Quelle massonerie erano tutte sotto la direzione di personaggi reali, o un re o un personaggio della famiglia reale, quindi gente seria e ben educata e che ascoltava correttamente anche le mie critiche. In fondo, tutti convenivano nelle mie espressioni, ma non erano, a quanto mi parve, disposti a fare nulla. Sperai nelle massonerie latine. Qui ebbi nuove delusioni.. Scusate se vi intrattengo su argomenti massonici.

Le massonerie continentali sono di tipo scozzese; ma alcune di queste democrazie sono aderenti all’A.M.I. L’onorevole Labriola lo sa. (Ilarità – Interruzione dell’onorevole Labriola).

Io volevo rendermene conto e cercai di capire le situazioni. Le massonerie continentali sono divise, in fondo, dall’idea del Dio personale. Le massonerie del tipo anglosassone non ammettono che si possa essere massoni senza credere nell’Iddio personale. Vi sono quelli che fanno a meno del Dio personale e non ne fanno una convinzione indispensabile. Io volevo penetrare le varie massonerie e vidi quindi tutti i capi che mi era possibile vedere: in Svizzera, in Francia, nel Belgio, ecc. In Belgio il capo della massoneria (e anche dell’A.M.I) era un mio amico personale, Charles Magnette, che era presidente del Senato. Egli mi dovette confessare che, in fondo, il fascismo aveva molti amici e ammiratori nella massoneria anche più radicale, di fronte a quella antica e tradizionale. E per quanto avesse cercato da parte sua di essermi utile (veniva anche spesso a vedermi a Parigi), non poté fare un grande lavoro perché l’ambiente non era del tutto favorevole.

Illuso, come ero allora, spesi parecchio denaro, mandai amici, di cui qualcuno è ora qui, a vedere i capi delle organizzazioni operaie. Mi interessavo soprattutto della Federazione internazionale dei trasporti che, per la sua potenza e per la sua ricchezza, poteva con un movimento bene organizzato mettere il fascismo in condizione di non resistere in alcuni momenti. Vidi tanta gente. Credevo di trovare spiriti ardenti: in fondo erano d’accordo con me, ma non facevano niente per far cadere il fascismo.

Mi accorsi di aver perduto molto denaro, molto tempo e molto fiato, con modestissimi risultati.

Vi affermo dunque che la responsabilità del fascismo non è solo italiana, ma è divisa in larga misura fra i grandi dominatori, e soprattutto da quei Paesi, come l’Inghilterra, l’America e la Francia, che ora più ci rimproverano di aver seguito il fascismo.

E per questo mio profondo convincimento io non accetto, così com’è concepito, l’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, e lo combatterò se non si toglie l’affermazione delle responsabilità che pesano sull’Italia per colpe del fascismo, considerato esso stesso come fenomeno solamente italiano e, cosa più assurda, come causa principale della guerra.

Dicono qui che questo ordine del giorno sia stato ispirato (tante cose si dicono qui dentro che non sono vere) dall’onorevole De Nicola. Più che l’Aula, il Transatlantico è fertile di invenzioni. E poi che l’onorevole De Nicola, rispettoso dei suoi doveri costituzionali, equanime e riservatissimo sempre, abbia suggerito questo ordine del giorno…

RUINI. Non è affatto vero. Chi l’ha detto?

NITTI. Si è detto qui e si ripete da molti e certamente non è vero. Non penso che abbia detto lei una cosa simile. Penso anzi il contrario. Ma l’ordine del giorno suo io non voterò se non sarà mutato perché, così com’è, fa cadere la responsabilità della guerra sul fascismo, facendo anche supporre che il fascismo sia stato soltanto italiano.

RUINI. La responsabilità è del fascismo, non dell’Italia, come sostengono coloro che ritengono la pace giusta e meritata.

NITTI. Ciò è tanto più grave, se può creare un terribile equivoco. Se più grave è stata la responsabilità dell’Italia nel fenomeno del fascismo, questa responsabilità ricade in gran parte sui grandi stati vincitori; e le cause della guerra sono ben più profonde e antiche.

E se noi siamo stati e siamo vinti, non è detto che questa sia una situazione permanente. Tutto è nello stato d’animo che sarà in noi. Risorgeremo. Guardate alla Francia. La Francia è stata in guerra più battuta di noi. La Francia ha presentato un caso unico nel mondo moderno di un esercito intero, di un esercito di milioni di uomini che si arrende al nemico senza combattere. Questo fatto non era avvenuto mai prima.

Le cause della caduta dell’esercito francese non sono militari soltanto e non tolgono alla gloria di un paese che è stato il più guerriero di Europa. Rappresentano un fenomeno transitorio che è dipeso da cause molteplici.

Ora noi perché dobbiamo abbatterci? Ogni momento diciamo non solo che siamo vinti, ma che siamo responsabili della guerra. Sì, siamo vinti, ma la Francia è stata più vinta di noi. Soltanto essa spiritualmente non ha accettato la disfatta. In fondo, perde chi vuole perdere. L’uomo che vuole resistere resiste contro tutte le avversità.

E se noi, a causa del fascismo, abbiamo responsabilità della guerra, i vincitori non solidarizzarono con il fascismo, non lo sorressero quando era in difficoltà, non lo aiutarono quando era nei suoi momenti più critici? L’Inghilterra e la Francia e la stessa America e i loro uomini più importanti e in più grande situazione, non ne vollero forse consolidare il trionfo?

Il fascismo è stato l’espressione di uno stato d’animo di un periodo di reazione spirituale e morale. Inventato in Italia, ha conquistato tanta parte di Europa e di America a traverso alcuni ceti e a traverso uomini che anche inconsciamente ne dividevano le passioni. Il Fascismo fu la manifestazione di sentimenti che fermentavano negli animi: era la forma spesso incosciente della reazione.

Io sono il solo capo di governo italiano che non si è fatto mai illusione. Io ho sempre combattuto il fascismo. Non ho mai voluto riconoscerlo. Dal primo momento quando gli altri cedevano io non volevo né meno riconoscerlo e affrontavo tutti i pericoli e tutte le avversioni degli esaltati e dei convertiti. Gli altri cedevano perché speravano, come si diceva allora, di «normalizzare» il fascismo che io ho sempre ritenuto un governo di fatto e non un governo di diritto e che doveva fatalmente arrivare, a traverso la follia, a una catastrofe nazionale.

Mussolini, l’ho sempre detto, fu soprattutto un folle. La follia ha una grande attrazione e una grande potenza diffusiva. Nella storia abbiamo visto tante volte la follia comunicarsi anche in ambienti che parevano meno disposti quando corrispondeva a condizioni di disordine morale o di incertezza o di pericolo.

Perché uomini diversissimi giunti al massimo della potenza come i Mellon, come i Chamberlain, come i grandi ambasciatori britannici e americani abbiano accettato con entusiasmo il fascismo e abbiano lavorato per consolidarlo, occorreva che si trattasse non già solo di una perversione nazionale italiana, ma di qualche cosa che non era solo dell’Italia.

Il fascismo non è stato dunque un fenomeno soltanto italiano, ma rappresentava una disposizione di spiriti che assunse in Europa e in America forme differenti e che si esplicò nel proteggere e difendere, o almeno nel non disturbare, l’azione dell’Italia fascista.

Quando si afferma che il fascismo ha prodotto la guerra e che è stato un fenomeno italiano, si dice cosa non vera da uomini che, se non sono ignoranti, preferiscono mostrare ignoranza.

Le cause profonde di guerra esistevano in Europa fin dopo l’altra guerra e non certo a causa dell’Italia.

Se non si arrivava prima o dopo alla revisione del trattato di Versailles, bisognava arrivare alla guerra.

La Società delle nazioni essa stessa non fu il tempio della pace che Wilson si era proposto, ma la borsa dei valori dei vincitori e il covo di tutti gli intrighi e di tutti i grandi affari.

Per molti anni si è vissuti sugli equivoci e sulle falsità. Le vicende della pace di guerra sono note. Si è arrivati dove si doveva arrivare e ciascun paese ha avuto la sua parte di responsabilità nella catastrofe finale, che è culminata nella guerra del 1939. E certamente anche l’Italia con il suo contegno vi ha contribuito. Ma vi hanno contribuito altri paesi in misura anche maggiore.

Io, ripeto, non posso però accettare, tanto più se viene dagli Italiani stessi, la ridicola affermazioni che la guerra è conseguenza del fascismo, che per essere stato italiano il fascismo, deve il nostro paese scontarne le conseguenze.

Se si aggiunge, come si fa di ordinario, che l’Italia stessa, con il movimento dei partigiani e dei ribelli, abbia cooperato alla fine del fascismo, si dice cosa vera, ma della quale i vincitori non sembra abbiano tenuto sufficientemente conto. Durante la lotta contro il fascismo in rovina, vi sono state disposizioni amichevoli da parte dei vincitori che sono state man mano dimenticate.

Ma il fatto che moltissimi italiani, liberati dal fascismo, attribuivano essi stessi nel fervore della lotta ogni responsabilità al fascismo e anche la guerra, della quale sapevano poco, per quanto riguardava le cause, non fu utile né alla verità, né alla causa dell’Italia.

I generali francesi più in vista e uomini politici fra i più notevoli sono stati miei amici e compagni di prigionia (da Gamelin a Paul Reynaud, a Daladier ecc.) e nella intimità della prigionia, quando abbiamo potuto, abbiamo discusso tutti gli argomenti della guerra. Io ho sostenuto, spesso in disaccordo, la tesi che ora sostengo: che l’Italia non era più abbattuta della Francia e che l’Italia non rappresentava un paese decadente, ma rappresentava ancora una grande forza; e che sarebbe risorta.

Una voce. La Francia ha avuto De Gaulle.

NITTI. Sì, la Francia ha avuto De Gaulle. Ma chi era De Gaulle? Era un ignoto ufficiale, un colonnello. Aveva pubblicato due libri: uno, soprattutto, di un vero interesse, sulla necessità di avere una armée professionnelle. Rappresentava una tesi nuova. Al programma dei vecchi generali (sopra tutto Pétain) di un esercito numeroso per la difensiva e con mezzi potenti di difensiva (ligne Maginot) contrapponeva l’idea di un esercito meno numeroso e sempre pronto a entrare in guerra offensiva con mezzi potenti e tecnicamente di grande efficacia.

Ora De Gaulle sarebbe stato ignorato, se un uomo politico intelligente, il mio amico Paul Reynaud, finanziere e studioso e spirito polemico, non gli avesse dato grande notorietà. Ed allora De Gaulle fu celebre, non per atti di guerra, che non aveva compiuti: anzi egli era uomo di fiducia del maresciallo Pétain.

L’Italia non ha avuto De Gaulle e non poteva averlo. De Gaulle, sempre colonnello, promosso da Pétain maggior generale, era andato in Inghilterra inviato dal maresciallo Pétain e fece l’opposto di ciò che Pétain voleva. Trovò aiuti in Inghilterra e poi non potendo fare la guerra sul territorio francese, caduto completamente in mano dei tedeschi, la trasportò in Africa del Nord, in Algeria. Aiutato dagli inglesi, giunse con navi inglesi e trovò largo aiuto e collaborazione e mezzi di lotta.

Certamente vi erano in Italia ufficiali superiori e generali coraggiosi e degni. Ma chi poteva aiutarli? E dove potevano andare, anche ribellandosi, a iniziare la lotta e con quali mezzi?

Questa è la spiegazione semplice perché in Italia non vi sia stato un De Gaulle.

Ma tutta la lotta dové essere concentrata nell’interno. La cosa più semplice per tutti coloro che odiarono il fascismo e per i pochissimi che ne avevano subito le persecuzioni era di insultare il fascismo e di attribuirgli anche le colpe che non aveva. Il fascismo era solo responsabile di tutto e anche della guerra mondiale; questa la tesi più semplice che i vincitori accettavano e che più contribuì anche agli effetti del trattato di pace come causa della nostra debolezza.

Avevamo molte responsabilità, ma le esagerammo o almeno per odio di parte e desiderio di vendette interne nessuno pensò di ricordare che il fenomeno fascista non era solo italiano, che i principali responsabili di aver sostenuto e rafforzato e in alcune ore difficili salvato e mantenuto il fascismo in Italia era proprio dei capi e responsabili dei paesi vincitori, sopra tutto Inghilterra, America, Francia.

Questo fu un grosso errore. (Interruzioni – Commenti).

Ora è tempo di realtà e anche nelle relazioni internazionali è tempo di rinunziare a false illusioni. Mi limito ad alcuni punti dell’attuale controversia e soprattutto ad alcuni errori che ritornano e ad alcune nuove illusioni che risorgono.

Il Ministro degli esteri ci ha presentato i nuovi avvenimenti di questi giorni come tali da trasformare o modificare profondamente la nostra situazione. Gli avvenimenti cui il conte Sforza ha preso parte non sono di notevole importanza politica, né riguardano in alcun modo la nostra situazione internazionale, né tanto meno i cattivi passi che ci sono imposti ingiustamente dal diktat e che noi, per non aver modo di resistere alle ingiustizie, dovremo accettare.

Il conte Sforza è andato a Parigi solamente in occasione della riunione di una commissione internazionale che deve occuparsi dello studio di ciò che si chiama impropriamente il piano Marshall. Non è un piano politico, o economico, ma materia di studio proposta dagli americani agli europei e a tutti gli europei perché si mettano d’accordo su ciò che è possibile fare per regolare con l’America la loro azione economica, in modo che non vadano per diverse vie e opposte.

È in fondo un tentativo dell’America di cercare di metter gli europei, cosa molto difficile, in accordo fra di loro. Dunque né un aiuto diretto ora, né un piano: ma materia di studio, senza dubbio importantissima.

L’onorevole Ministro degli esteri, conte Sforza, è però andato a Parigi in una situazione afrodisiaca dello spirito (Ilarità), o per lo meno euforica, disposto a vedere tutto roseo ed ha annunziato tutte le più grandi cose, che non sono state fatte e che non si fanno, o non si faranno perché non si possono fare.

Da parecchi giorni prima della sua andata a Parigi i giornali italiani in data del 13 e del 15 avevano esaltato l’opera che il conte Sforza andava a compiere. Si trattava invece di andare a Parigi per prender parte a una importante commissione di studio di materia non facile, che interessa l’Europa e l’America, non di un grande successo dell’Italia in un ambiente politico mutato.

Quando, tornando da Parigi, il Conte Sforza – amo sempre chiamarlo conte, perché la radio per lui solo questo titolo ripete più volte ed è egli l’unico uomo per cui lo ripete (Ilarità) e non voglio mancargli di riguardo – è disceso all’aerodromo di Ciampino alle ore diciotto (ricordiamo anche l’ora storica). Egli ha voluto fare immediatamente alcune dichiarazioni, cosa che fa onore alla sua solerzia e alla sua resistenza, e dopo tanto viaggio, ha detto: «Torno da Parigi, dove l’Italia, dopo tanti anni di dolore ha almeno ritrovato il suo giusto posto di pari tra i pari, tra le più grandi potenze del mondo. Io a Parigi non ho fatto che pensare continuamente agli interessi dell’Italia che si identificano con la pace e per questo abbiamo cercato di creare nuove forze di collaborazione internazionale, di collaborazione europea che salvi l’Europa dal caos e dalla miseria. Abbiamo cercato, io per primo (naturalmente), (Si ride) di lasciare la porta aperta a tutti i popoli e a tutti gli uomini di Stato e a chiunque voglia aderire alla nostra buona volontà». E la gente senza dubbio si è domandata: Che cosa ha ottenuto il Conte Sforza?

E poi il Conte Sforza si è abbandonato alle fantasie. Ha lasciato sperare che il patto, che non è patto e che non è fatto, può rimettere presto in piedi l’Europa e quindi l’Italia…

CALOSSO. Si sta facendo.

NITTI. Me lo spiegherà lei dopo.

CALOSSO. Lei è infallibile. Mi permetta…

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, non interrompa!

CALOSSO. Nitti è un grande uomo, d’accordo, ma non è il Padre Eterno. Io non ho fatto che una semplice interruzione. (Commenti).

PRESIDENTE. Desidera forse anche lei essere un grande uomo? (Si ride).

NITTI. Il Conte Sforza ha parlato del piano Marshall e di questo avvenimento che senza dubbio tutti osserviamo con interesse come una conquista e un successo, ma si è abbandonato ai sogni più diversi e ha preveduto le cose più lontane. Ha detto perfino: dobbiamo mettere in comune tutte le nostre risorse di Europa. Abbandonandosi alla fantasia, l’onorevole Conte aveva parlato anche di cose lontane cui nessuno a Parigi aveva forse pensato. A un certo punto ha detto di una sua idea: di mettere le risorse idrauliche dei ghiacciai alpini al servizio di tutto il mondo, come se le risorse alpine, già ora utilizzate, fossero ignote. Egli ha parlato del massiccio delle Alpi che è italiano, francese, svizzero ed austriaco. Se questi quattro popoli si uniscono, ha detto il conte Sforza, noi possiamo dare all’Europa più migliaia di volts in energia pari a molti milioni di tonnellate di carbone.

E che sono questi ghiacciai alpini? Non forse esistevano sempre e forse sono ignoti agli idraulici e non sono adoperati e utilizzati in grandissima parte? S’è detto che le quattro nazioni interessate si debbano unire; ma adesso come fanno? È proprio necessario attendere tutte queste nuove forme di vita esposte in forma iperbolica per arrivare all’idea d’impiegare in comune risorse idrauliche? E perché trasformare una questione attuale di acque fra Italia e la Svizzera in una questione di costituzione economica mondiale?

Il Conte Sforza è andato anche più in là nel suo ottimismo. Egli ha sperato di essere mediatore fra l’Oriente e l’Occidente e di mettere qualche cosa come la pace del mondo fra gli uni e gli altri. Cosa senza dubbio importante, ma in cui naturalmente egli dovrebbe trovare qualche difficoltà, e soprattutto una certa incredulità, non dirò da parte dei popoli lontani che vuole raggiungere, ma anche dai suoi ascoltatori. Queste cose si possono chiamare ideali. Ma sono seriamente ideali?

Ideali, tutti possono averne: e ognuno a suo modo ne ha. Si tratta di vedere se si tratta di ideali che possiamo realizzare e che abbiano fondamento.

Che cosa in fondo, signori, si prepara a Parigi? Che cosa è quello che impropriamente si chiama il piano Marshall? Non è niente di definito. È materia di studio. L’Europa, in conseguenza della guerra, si è non solo rovinata politicamente, ma non è più una unità economica vivente.

L’Europa, anche prima di questa guerra ultima, era discesa da quella che fu la sua grandezza, ma fino alla guerra era ancora il centro economico del mondo.

Infatti il commercio di importazione del mondo era in dollari di 32 milioni e 149 mila dollari, di cui 19.143 erano dell’Europa, 7182 dell’America, 3634 dell’Asia, 923 dell’Australia, 815 dell’Africa. Quindi, l’Europa era l’arbitra del mondo.

L’America, entrata in guerra nel 1915, era debitrice dell’Europa di 5 miliardi di dollari. Ne uscì creditrice di 15 miliardi. Il movimento ascensionale dell’America da allora è continuato. L’Europa si è sempre più impoverita, l’America si è sempre più sviluppata.

Dopo la guerra dalla quale usciamo, l’azione dell’America è diventata onnipotente. Ora essa domina la situazione economica mondiale e l’Europa e l’Asia sono ben lungi dall’esportare ciò che chiedono largamente all’America, spesso senza possibilità di pagamento, soccorsi e aiuti.

Che cosa è il piano Marshall? L’America teme giustamente di essere vittima della sua potenza e della sua larghezza. Essa, ormai, al di là di un certo limite, non può che dare, ma non ricevere. La difficoltà dell’America è che importa poco in scambio delle sue esportazioni. Non vi sono in America importazioni se non in quantità assai limitata. Di fronte ad una esportazione di 16 miliardi di dollari destinati in gran parte ai paesi assistiti, vi sono 8 o 9 miliardi soltanto di esportazione dei paesi quasi tutti debitori dell’America.

Questa situazione minaccia l’America nella sua vita sociale e anche nella sua vita economica. L’America non può continuare a esportare senza pericolo il doppio di ciò che importa sopra tutto a credito.

L’America ha fatto anche a noi molti prestiti ed è stata di amichevole larghezza. E se noi non siamo caduti nei due ultimi anni è per l’assistenza amichevole dell’America a cui non dobbiamo mai negare la nostra gratitudine.

L’America, quando accorda un prestito, che cosa fa in realtà? Dà facoltà di acquisto di merci e di mezzi sul suo territorio. Siccome non dà nulla in valuta straniera, dà il diritto di acquistare merci e di valersi di mezzi che sono sul suo territorio: ma queste merci e questi mezzi sono per noi condizioni di vita: carbone, grano, cotone, trasporti; e chi li dà? È lo stato americano che per dare a noi paga. Ma lo Stato compera dai privati e in fondo l’America contribuisce a noi con mezzi dati dai privati.

In realtà sono i cittadini privati che in forma diretta o indiretta forniscono i mezzi. Dall’estero le merci importate sono scarse, perché la produzione europea e a più gran ragione l’asiatica, sono scarse. Mancano le materie prime e in generale si lavora assai meno di prima e qualche volta non vi è in alcuni paesi né meno volontà di lavoro.

Che cosa si è proposto Marshall? Egli si è proposto di porre agli europei il loro problema, dicendo loro: voi vivete in guisa da rendere difficile se non impossibile, ogni ricostruzione economica e chiedete all’America che vi dia merci e crediti in quantità grandissima e non esportate che solo in parte ciò che vi sarebbe necessario. Aumentate dunque la vostra produzione e quindi la vostra esportazione…

CALOSSO. E vi pare niente?

NITTI. …per chiedere a noi quello che vi possiamo dare utilmente, e nello stesso tempo per produrre di più sul vostro territorio.

CALOSSO. Dice il contrario di quello che aveva prima annunciato.

NITTI. Nossignore. Lei non comprende, lei interrompe senza comprendere.

Gli Americani, non hanno un piano, ma sperano di riuscire, mediante la iniziativa Marshall, a determinare, insieme alla coscienza del pericolo da parte degli Europei, e diminuendo le divisioni e i contrasti economici fra di loro, la necessità urgente di aumentare tutti i mezzi e la produzione, senza di cui non vi può essere ripresa. Non vi è alcun piano, ma è un proposito, è una idea che vuole determinare la base di un movimento. Il nostro governo non è stato invitato a Parigi per alcuno scopo politico, ma per una partecipazione a una iniziativa di carattere economico e che costituisce nella fase attuale materia di studio.

A Parigi mancavano tutti gli stati europei continentali importanti per il loro numero, tranne la Francia, che è considerata fra i vincitori.

Non vi era nessun grande Stato: la Russia non c’era, non c’era la Germania vinta, non vi era una nazione di grande popolazione. L’Italia aveva almeno la funzione di un grande Stato che entrava nel movimento per l’idea di Marshall con larghezza di popolazione, ma non di mezzi. Era il paese occidentale di Europa che presentava il vantaggio di avere una popolazione di 46 milioni di abitanti, tale da dare la sensazione che vi era possibilità di una intesa di un grande nucleo di europei. A quale risultato arriverà la iniziativa Marshall e fra quanto tempo? Nessuno può ora dire.

Mi hanno detto che è ritornato da Parigi l’onorevole Tremelloni che il governo italiano aveva delegato. Non ho visto ancora l’onorevole Tremelloni.

È difficile che egli possa dire molto più di ciò che tutti supponiamo e anche se ha fatto qualche comunicazione non può dire ciò che ancora non esiste. Noi rivolgiamo a noi stessi alcune domande. E prima di tutto: quanto tempo occorrerà perché la conferenza arrivi a risultato? Senza dubbio parecchio tempo. E per ciò che riguarda aiuti sperati, se vi saranno, credo che le fantasie esagerino. L’America, all’infuori del movimento Marshall, può dare ancora, per necessità o per generosità, qualche tentativo di aiuto all’Europa. Deve liquidare il passato e può anche, se crede, con una certa larghezza: ma l’America, mediante e a causa della iniziativa Marshall, non può fare niente subito. Deve seguire da ora necessariamente lunghe procedure. Le richieste dei paesi europei, se vi saranno, bisogna che siano coordinate e messe di accordo. Le richieste e le proposte dovranno essere riunite in un progetto concreto che deve essere a suo tempo presentato al Presidente, il quale lo farà esaminare a traverso gli organi competenti da un certo numero di esperti. Dopo vi sarà l’esame del Congresso con tutte le formalità necessarie. Dopo il Congresso, sempre che non vi siano opposizioni, il progetto dovrà essere mandato alla Tesoreria, che deve preparare e disporre i mezzi occorrenti in misura adeguata.

Queste non sono cose di immediata esecuzione.

L’America, a sua volta, deve agire secondo i suoi interessi e deve tener conto delle sue difficoltà; se vuole evitare una crisi sociale, deve nello stesso tempo evitare che si produca un’altra forma di inflazione.

Quindi, in questa situazione, noi dobbiamo attendere e confidare e guardare le cose in cui possiamo sperare. Niente è puerile come credere o far sperare aiuti immediati o solleciti e tanto meno permanenti per effetto delle discussioni nel non dirò piano, ma suggerimento di studi che è il tentativo Marshall.

Il Conte Sforza ha voluto dire ciò che potremo perdere non ratificando immediatamente. Ha parlato anche delle grandi pressioni che ha avuto per la sollecita ratifica.

Io devo osservare, egli mi scuserà, che io non credo a intense pressioni dell’America e dell’Inghilterra per farci ratificare presto, né al grande pericolo di qualche ritardo. Quando lo stesso Conte Sforza (credo il 16 o il 17 luglio) alla Commissione dei trattati ci parlò di pressioni dell’Inghilterra, l’ambasciatore d’Inghilterra era stato al Ministero degli esteri all’una del pomeriggio e, io credo, aveva anche dichiarato che l’Inghilterra si rimetteva alle decisioni degli italiani.

Il Conte Sforza, dopo aver accennato ai danni che ci potevano venire, ci ha parlato di altre cose che eravamo minacciati di non avere è ci ha detto che, se noi entro il 10 agosto non avessimo ratificato il trattato, non potevamo, entrare nell’O.N.U.

Ma, scusi, onorevole Sforza, da quale disposizione dei trattati e degli accordi risulta questo divieto? Io ho fatto ricercare nelle ambasciate e negli uffici inutilmente e sempre senza trovar nulla. Ma il Conte Sforza ha qualche elemento che lo autorizzi a dire che noi non possiamo tardare oltre il 10 agosto senza pericolo? Questa disposizione dubito che ci sia: io non l’ho trovata e temo che il Ministro si sia sbagliato e non la troverà.

Nello stesso tempo che le pressioni degli ambasciatori di Francia, di Gran Bretagna e perfino dell’America sarebbero state attive perché il trattato fosse presto ratificato da parte dell’Italia, l’onorevole Sforza ha assicurato che a dare esecuzione al trattato sarebbe seguita presto la ratifica dell’U.R.S.S. Di ciò io non avevo sicurezza, e non mi risultava in alcuna guisa. Ma l’onorevole Sforza se ne mostrava fiducioso e vorrei dire sicuro: in base a quale informazione? Ho cercato di raccogliere informazioni e non ne ho trovato alcuna attendibile, né da quelli che sono gli organi dell’informazione russa, né altrove. Non ho trovato alcun elemento che ci faccia credere che la Russia abbia dato un affidamento a breve termine, come è stato dichiarato dall’onorevole Sforza che non vedo dunque dove abbia preso queste notizie.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Dalle corrispondenze degli ambasciatori, è semplicissimo.

NITTI. Quali ambasciatori? Quello forse di Mosca? Da Brosio, l’ineffabile Brosio? (Commenti).

PACCIARDI. Perché ineffabile? Rappresenta l’Italia in Russia.

CALOSSO. Privo di vanità com’è Brosio!

NITTI. L’O.N.U., se anche vi entreremo, non sarà probabilmente in condizione di essere e di agire come vorremmo in nostro favore, se ne avremo bisogno, almeno per qualche tempo. Ciò che accade in Grecia e nei Balcani ne è la prova.

Fra le altre grandi potenze del mondo, ve ne sono due, che, per ragioni opposte, sono le maggiori, sì che per il loro contrasto più inquietano: sono gli Stati Uniti di America e l’U.R.S.S. L’America ha la più gran parte delle materie prime, la più gran parte della produzione di tutto ciò che costituisce il materiale necessario alla guerra, i mezzi bellici nuovi e più potenti che non sono, o si crede che non siano, in altri paesi.

Essa può mettere ogni altro paese in imbarazzo e dal punto di vista economico dispone e disporrà della sorte di interi continenti, fin che non vi sarà una situazione diversa che non prevediamo se e quando possa formarsi.

L’America è ora in situazione unica di potenza dal punto di vista economico e militare. Ha la nostra simpatia e la nostra gratitudine per quanto ha fatto per noi.

La Russia non ci ha dato nulla e non può ora dar nulla. È un mondo in formazione. È il paese immenso con la sua enorme riserva di terre ancora incoltivate e di materie prime utilizzabili se non ancora utilizzate. Ma non può ora aiutare alcuno. Basta tutt’al più a se stessa e con difficoltà e non vi è nemmeno possibilità di commerciare considerevolmente anche in prossimo avvenire. Ha avuto nella guerra le più grandi perdite, manca o difetta di molti prodotti anche per sé stessa. Per esportare produce a costi più alti che altrove. Anche il livello di vita della sua popolazione non potrà essere prossimamente elevato; il suo commercio sarà molto limitato e sarà anche inferiore a quello di piccoli paesi occidentali. Però la Russia ha sulle folle di occidente una grande attrazione che non possiamo dimenticare, un’attrazione spirituale: essa ha agli occhi di tutte le masse umane il fascino di un paese senza padroni, cioè di rappresentare come aspirazione un ideale umano, che se non è realizzabile secondo l’ideale comunista, vive non di meno in molte anime.

Vi sono popoli di occidente ancora ricchi e potenti, non vi sono popoli che hanno la sicurezza dei loro sistemi sociali.

Ma vi sono popoli e genti che a somiglianza e nella illusione dell’U.R.S.S. vivono con lo stesso miraggio e si rassegnano anche a situazioni di miseria e di oppressione. Sperano in un ideale che sarà raggiunto se non dai loro figliuoli dai loro nipoti. Credono e certamente attendono che tutto diventi comune a tutti? Sono stati illusi? Si illudono? Io credo che il loro sogno non sarà realizzato. L’avvenire solo dirà. Ma noi non possiamo essere indifferenti dinanzi a questo avvenimento umano, di masse umane che nei paesi più diversi corrono dietro lo stesso ideale e le stesse speranze.

Noi siamo, come paese di scambio, legati strettamente all’Inghilterra e all’America. Non possiamo risorgere senza l’aiuto e senza la benevolenza dell’America.

Non dobbiamo né meno dimenticare che l’America ci ha dato aiuto e può dare e che non è possibile la nostra ricostruzione del sistema di scambio senza di essa.

La Russia e l’America sono le due grandi antitesi della civiltà moderna.

Hanno vinto la guerra del 1939. La Russia ha avuto le più grandi perdite di uomini che la storia dei popoli di tutto il mondo e in tutti i tempi ricordi. L’America stessa che non aveva avuto mai una grande guerra fuori del suo territorio (nel 1914-18 aveva annunziato la perdita complessiva di 50 mila uomini, ma i veri morti combattenti o morti in seguito di combattimenti furono forse appena 10 mila) ha nella guerra ultima avuto perdite rilevanti e non può dire ancora di esser sicura della pace che si prepara. Se non risolverà in Asia il problema del Giappone e in Europa il problema della Germania, l’America non potrà dire di aver raggiunto i suoi scopi e né meno una pace sicura e durevole.

L’America e la U.R.S.S. cercano invano dopo la guerra di ritrovare se non un’azione comune, una intesa per scopi comuni.

L’America è spiritualmente in contrasto acuto con la Russia. Il contrasto spirituale e di potenza determinerà la guerra? La guerra che non ha basi economiche ma contrasti di sentimenti e volontà incosciente di potenza? La guerra può anche essere vicina? E la guerra giungerà inattesa e più terribile e distruggitrice?

Noi speriamo, se verrà, di esserne fuori e io ho creduto fino ad alcuni mesi fa che la guerra non dovesse venire, che noi in ogni caso dovessimo rimanere fuori della terribile lotta. Ora ho qualche dubbio e anche non posso dissimulare inquietudini che sorgono in me.

Il mio amico Paul Reynaud, che ha tutte le qualità più notevoli dei Francesi e anche l’orgoglio nazionale, ha pubblicato due volumi: su come «la France a sauvé l’Europe» (perché i Francesi, anche gli spiriti più fini credono di aver salvato il mondo). Il mio amico Paul Reynaud è un osservatore politico di cui bisogna tener conto. Fu lui che primo in Francia sostenne che la guerra doveva essere tecnica e meccanizzata e non essere difensiva con masse di soldati. In altri termini aveva anticipato gli avvenimenti e in altra forma preveduta l’azione dei Tedeschi. Nel 1939 non vi erano i mezzi tecnici attuali né tanto meno le forze sovvertitrici e travolgenti come la bomba atomica e altri che son tenuti secreti. È fatto nuovo e che ancora poco tempo fa non era prevedibile. Vi sarà chi, avendo i mezzi e la forza per una guerra fulminea e di sterminio, oserà? Chi li avrà e oserà, avrà vinto la guerra fulmineamente. Chi sarà il primo? Ha fatto questa domanda. Se altri avesse detto queste cose io non mi sarei inquietato. Ma Paul Reynaud che sarà probabilmente il capo di un prossimo governo francese (Commenti) e che conosce tutto il meccanismo dello scambio e la situazione degli armamenti date le forme moderne, quando ha parlato questo linguaggio mi ha vivamente turbato.

Noi dobbiamo rimanere fuori della guerra per quanto ciò sia possibile. Le nostre frontiere sono oramai pur troppo aperte a tutti e noi siamo senza veri mezzi di difesa.

Non volere la guerra da cui non possiamo sperar nulla e che non può esserci che dannosa se non fatale necessità. Dobbiamo però in tutti i nostri atteggiamenti conservare rapporti con i paesi di scambio e soprattutto dobbiamo avere la fiducia dell’America, senza di cui non è facile la nostra resurrezione, e anche per gratitudine.

Io devo finire con un voto. Io non ho niente da proporre. (Commenti). Solo i fatui hanno soluzioni per tutti i problemi e rimedi per tutti i mali.

CALOSSO. Questa è la critica al suo discorso.

NITTI. Abbia la cortesia di ascoltarmi per cinque minuti e, se le piacerà, vedrà che sono disposto a trovare in questa difficile ora qualche cosa che ci raccolga in un consenso di volontà.

CALOSSO. È quel che faccio religiosamente!

NITTI. Io non voglio accettare e tanto meno presentare un ordine del giorno che sia materia di divisione, ma voglio che l’ordine del giorno da adottare sia espressione di fierezza e di dolore e, tenendo conto della situazione penosa, affermi la nostra volontà di resurrezione. Ratificando un trattato ingiusto, riconosciamo la realtà che ci è imposta. Ma, pur non volendo essere elemento di disordine e turbare quella relativa pace che si potrà avere in tanta discordia del mondo, noi affermiamo che nello stesso interesse dei vincitori e della pace, giustizia ci dovrà essere resa in avvenire.

Noi dobbiamo ratificare il trattato, non appena esso avrà le condizioni per essere eseguito. Dobbiamo prima di tutto però trovare modo di esprimere il nostro profondo dolore all’atto della ratifica del trattato di pace, affermando che constatiamo con dolore come le condizioni fatte all’Italia sono non solo in contradizione con tutte le solenni affermazioni dei vincitori, ma anche ingiuste e tali da fare torto a coloro che le hanno volute.

Senza dubbio il trattato è contrario in quasi tutte le sue disposizioni alle norme fondamentali della giustizia internazionale. È durissimo, per un ammirevole popolo come l’italiano che ha dato inestimabili contributi alla civiltà del mondo, e che dovrà, passata l’ora della sua oppressione, dare ancora largo contributo alla nuova civiltà, per la sua vitalità sempre rinascente.

Queste parole vanno interpretate nel senso che non vi è nessun paese in Europa che sia rinato tante volte. L’Italia cade e rinasce. Quante volte l’Italia è caduta dopo periodi di sfolgoranti vittorie! Non è mai caduta in maniera da abbattersi! Ha avuto le orde di Alarico e nei tempi moderni l’umiliazione e i danni del tempo di Clemente VII, in cui Roma fu saccheggiata e tutta Italia fu in fiamme. Eppure è sempre rinata!

Nell’ora del dolore noi dobbiamo proclamare che rinasceremo. Bisogna affermare questa volontà di rinascita, che è in noi non solo affermazione sentimentale, ma proposito nazionale.

L’Italia riconosce che, nonostante tutto, deve per lo stato di necessità in cui è messa accettare le condizioni imposte dai vincitori. Il Trattato di pace sottoposto all’esame dell’Assemblea e che il Governo sottoscrisse quando ne assunse la responsabilità, rende tanto più necessario che vi sia una ratifica sincera e sicura del Parlamento.

Dal momento che dai vincitori, esagerando a torto, si attribuisce al fascismo la guerra mondiale, io voglio che, accettando il Trattato, noi affermiamo che il fascismo sorto in Italia fu proprio nella sua fase peggiore, nel colmo del suo sviluppo e della sua potenza, che trovò sempre il consenso la difesa e l’aiuto di quelli che sono stati i nostri vincitori.

La responsabilità del fascismo, come universale tendenza di reazione, non è stata solo dell’Italia, ma effetto di un movimento generale anche nei paesi di civiltà liberale e democratica.

L’Italia ha sottoscritto il Trattato di pace. Il Trattato è stato firmato dal Governo senza essere sottoposto al Parlamento. È tanto più necessario che il Parlamento lo discuta e lo affronti lealmente in occasione della ratifica.

Non sapete quanto io soffra e come avrei preferito essere coi miei amici, soprattutto con l’amico Croce, nella sua idealità filosofica e per cui forse non si rende conto sufficientemente delle condizioni in cui sarebbe posto il popolo italiano se vi fosse un distacco da parte nostra dai paesi vincitori e anche soltanto diffidenza per noi da parte dell’America.

Io invidio il mio amico Orlando che nella sua serenità spirituale osa dire che non ratifica!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, no! (Applausi).

NITTI. Io invidio che egli possa fare, senza temere gravi conseguenze per il paese, questo gesto che ha tanta attrazione per chi lo fa e tanta ne avrebbe per me. Noi sappiamo invece quali responsabilità assumeremmo e che cosa sarebbe dei nostri figli. Tutti che siano uomini devoti alla patria dobbiamo invece umiliare noi stessi e subire con l’amarezza il dovere della ratifica.

L’Italia dunque ratificherà il Trattato di pace immediatamente dopo il voto del Parlamento, appena che ne sia possibile l’entrata in vigore, cioè dopo il deposito delle ratifiche da parte della Francia, della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, degli Stati Uniti di America e dell’U.R.S.S.

Ma per ciò che il Governo ci domanda, per la ratifica immediata, io vorrei trovare una formula che il Governo possa accettare. Noi dobbiamo attendere la ratifica di Mosca: non è possibile che non l’attendiamo. Ma poiché nel Governo vi è la preoccupazione di dar prova della sua buona volontà, l’Assemblea, alla vigilia di sospendere i suoi lavori e le sue discussioni, per le vacanze parlamentari, autorizza il Governo a dare tutti gli affidamenti, perché, subito dopo che vi saranno le condizioni necessarie, il trattato votato dal Parlamento sarà ratificato.

Questa è cosa che tutti possono accettare.

Io accetto la ratifica con estremo dolore; mi umilio nel chiedere questo, ma voglio che la nostra decisione sia efficiente e chiara. Ora, quando noi con il voto del Parlamento diamo garanzia che, compiuti gli adempimenti, il Governo procederà immediatamente alla ratifica, ci obblighiamo fin da ora a scegliere la via più semplice e più breve che deve rassicurare tutti.

L’ordine del giorno che mi son deciso a sottoscrivere desidero sia espressione di un comune sentimento di tutti i partiti e spero che raccolga l’unanimità dei consensi. La votazione deve essere affermazione del comune dolore, ma insieme della volontà comune di resurrezione.

Io non devo fare altre dichiarazioni.

Signori, io non chiedo nulla, non voglio nulla: voi lo sapete. Ho l’anima piena di dolore e tutta la mia vita è tristezza. Nessuno mi può attribuire alcuna vanità, cioè alcun desiderio. Anche il mio più crudele nemico non può credere che io anche ora non dia prove di rassegnazione e di modestia. Dopo tanti anni di lotte, d’esilio e di deportazione nell’amore della patria, per me è più penoso che per ogni altro accettare il sacrificio di un sentimento che è profondo nella mia anima, l’orgoglio nazionale. Ma è l’inizio necessario. Vi chiedo, signori, in questo momento di unirci nell’ideale della Patria, senza di cui non è resurrezione. Io detesto tutte le nostre divisioni e la fazione che soffoca la nazione, il particolarismo che rende difficile o impossibile l’opera comune di resurrezione e di vita. Questo è giorno di umiliazione e di dolore. Cerchiamo, accettando il sacrificio, di essere uniti in una stessa fede nazionale e nella stessa visione di avvenire.

Signori, se possiamo, ritroviamoci almeno oggi insieme. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bassano. Ne ha facoltà.

BASSANO. Onorevoli colleghi, mi sembra anzitutto superfluo dichiarare che io parlo non a nome del mio Gruppo, ma a titolo puramente personale. Mi sembra superfluo dichiararlo, in quanto in una discussione come questa, che investe i fondamentali interessi del Paese, non vi possono essere distinzioni di gruppi; ognuno assume le proprie responsabilità di fronte alla propria coscienza e di fronte al Paese.

Ciò premesso, devo innanzi tutto rilevare – e mi sembra che in questo siamo tutti d’accordo – che il momento scelto dal Governo per questa discussione non poteva essere meno felice. Basterebbe a dimostrarlo il fatto che l’Assemblea, unanime o quasi nel riconoscere la ineluttabilità più che la necessità di ratificare il Trattato di pace, è oggi divisa circa la tempestività di tale ratifica.

Detto però questo, e nonostante l’autorità dei sostenitori della contraria opinione, a me sembra, francamente, che la scelta del momento per questa discussione non debba influire sulla nostra decisione, e che ridurre la discussione stessa ad una questione di tempestività significhi abbassarne il tono e diminuire la indubbia importanza – giuridica, politica, morale – della decisione che dobbiamo prendere.

La questione ha un duplice aspetto, uno che si potrebbe chiamare formale o giuridico, l’altro sostanziale o politico. Ma i due aspetti in fondo si identificano, perché mai, forse, come in questo caso la forma assume carattere di sostanza. Lo conferma il fatto che coloro i quali sostengono che la ratifica dovrebbe essere ritardata, se non addirittura negata, partono dal presupposto, a mio modo di vedere errato, che il Trattato di pace possa entrare in vigore anche senza la ratifica dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze. E mi sembra che anche il Governo sia su questo terreno, almeno a giudicarne dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, nel quale si legge che «il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».

E precisamente perché a me sembra che questo sia errato ho presentato un emendamento nel quale, invece, si dice che il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.

Il mio emendamento sostitutivo dell’articolo unico del disegno di legge è così formulato:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».

Dunque la questione, dal punto di vista giuridico o formale che dir si voglia, si imposta in questi precisi termini: dobbiamo ritenere che il Trattato di pace, per diventare perfetto, attenda la manifestazione di volontà che deve concretarsi nella ratifica da parte dell’Italia e delle Potenze Alleate e Associate, oppure che questo Trattato possa entrare in vigore indipendentemente dalla ratifica dell’Italia, per il semplice fatto di essere ratificato dalle quattro grandi Potenze, nel qual caso neppure da un punto di vista meramente formale sarebbe a parlare di Trattato, ma dovrebbe, invece, esclusivamente parlarsi di imposizione delle condizioni di pace fatte all’Italia?

Ora, io devo subito dichiarare che mi rifiuto di accettare questa seconda interpretazione, prima di tutto per ragioni di carattere politico, per il rispetto che noi dubbiamo alle Potenze vincitrici, nei riguardi delle quali la ratifica del Trattato dovrebbe rappresentare una data veramente storica, cioè segnare la fine di un periodo doloroso per tutti e l’inizio di una nuova era di collaborazione, anzi di solidarietà fra i popoli, per la soluzione di problemi che interessano egualmente tutti, vincitori e vinti, in quanto attengono alla ricostruzione dell’Europa e del mondo su nuove basi.

Se però, io mi rifiuto prima di tutto per questa ragione di carattere meramente politico di accettare tale interpretazione, a maggior ragione devo respingerla per motivi di ordine strettamente giuridico. Possiamo cioè noi ritenere che le Potenze vincitrici abbiano voluto, con il Trattato che purtroppo ci viene imposto, violare prima di tutto quell’elementare principio di diritto internazionale, secondo il quale i trattati devono essere ratificati, e diventano perfetti esclusivamente con la ratifica?

In due soli casi, che non ci riguardano, la ratifica non è necessaria: quando essa non sia richiesta dalle leggi costituzionali dello Stato, o quando il plenipotenziario sia munito di pieni poteri, e quindi di ratifica non vi sia bisogno. Ma, ripeto, né l’una né l’altra ipotesi riguarda l’Italia.

Non la prima. Se ne sarebbe, infatti, potuto parlare imperando lo Statuto Albertino, che all’articolo 5 demandava la dichiarazione di guerra e la firma dei trattati di pace esclusivamente al Re, il quale ne dava comunicazione alle Camere appena l’interesse e la sicurezza dello Stato lo avessero consentito. In questo caso, quando il plenipotenziario era munito di pieni poteri, non c’era neppure bisogno di ratifica e l’approvazione da parte del Parlamento costituiva esclusivamente materia di diritto pubblico interno, cioè serviva solo perché il Trattato entrasse a far parte dell’ordine giuridico interno.

Di questo, però, non è più a parlare ora, dato che più non vige lo Statuto Albertino, ma la nuova legge istituzionale del marzo 1946, che ha demandato esclusivamente all’Assemblea Costituente l’approvazione dei trattati internazionali.

Neppure è a parlare della seconda ipotesi, perché, quando l’Ambasciatore Soragna firmò il Trattato di pace, accompagnò la firma non solo con una solenne protesta, ma con la espressa riserva della ratifica da parte di questa Assemblea.

Quindi, la firma apposta al Trattato rappresentò solo una obbligazione del Governo, ed obbligazione fino ad un certo punto, in quanto subordinata alla condizione sospensiva della ratifica da parte di questa Assemblea.

Basta poi semplicemente leggere l’articolo 90 del Trattato di pace per convincersi che le Potenze vincitrici non hanno inteso per nulla violare il principio di diritto internazionale di cui sopra.

«Il presente Trattato (dice l’articolo 90), di cui i testi francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».

L’articolo soggiunge: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America, della Francia».

Come si vede, questa clausola aggiuntiva non si riferisce ai rapporti tra l’Italia e le Potenze Alleate o Associate, bensì ai soli rapporti interni tra queste ultime.

Presupposto di essa è che vi sia la ratifica dell’Italia.

Se noi dessimo all’articolo una diversa interpretazione, violeremmo anche quella norma interpretativa di carattere generale, per cui le clausole d’un contratto devono nel dubbio interpretarsi nel senso che abbiano un qualche effetto e non nel senso che non ne abbiano alcuno.

Infatti, interpretando l’articolo 90 nel senso che il Trattato potrebbe entrare in vigore anche senza la ratifica da parte dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, noi verremmo a non dare alcun effetto alla clausola secondo la quale il Trattato deve essere ratificato anche dall’Italia.

Quindi la ratifica dell’Italia costituisce il presupposto per la perfezione del Trattato. Questo per diventare perfetto – e per potere, di conseguenza, entrare in vigore – deve essere ratificato da noi e dalle Potenze Alleate o Associate.

E che sia così, onorevoli colleghi, è confermato dal capoverso dell’articolo 90, il quale dice: «Per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito». Non vi si parla, cioè, dell’Italia – la cui necessità, di ratifica, per la perfezione del Trattato, è fuori discussione – ma solo vi si regolano, come dicevo, rapporti interni fra le Potenze Alleate ed Associate, disponendo che nei riguardi di ciascuna di esse il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito delle rispettive ratifiche: in conformità, precisamente, dei principî del diritto internazionale.

Quale, allora, lo scopo della clausola aggiuntiva circa la entrata in vigore del Trattato? Quello, evidentemente ed esclusivamente, di rendere possibile la fine del regime armistiziale con l’Italia prima ancora della ratifica del Trattato da parte di tutte le Potenze Alleate ed Assodate, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.

Concludendo, se a fare entrare in vigore il Trattato di pace basta il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, questo deposito ha come necessario presupposto la ratifica da parte dell’Italia.

Questa necessità, del resto, era stata esplicitamente quanto unanimemente riconosciuta da questa Assemblea con l’ordine del giorno votato nella seduta del 25 febbraio di quest’anno, nel quale è detto: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Ed allora viene fatto di domandarsi: come è che il Governo per il primo, come risulterebbe dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, avrebbe, a questo riguardo, cambiato opinione?

Chiedendo, infatti, di essere autorizzato a ratificare dopo che il Trattato sarà divenuto esecutivo, esso mostra di ritenere che questa esecuzione ci possa essere indipendentemente dalla ratifica nostra: il che mi sembra costituisca, per tutto quello che ho detto, un vero assurdo giuridico e politico.

Ecco perché mi permettevo di dire che la questione formale e giuridica nel caso si identifica con quella sostanziale.

Non intendo poi abusare della pazienza dell’Assemblea, ma dal punto di vista sostanziale mi sembra non si possa, quale che sia l’interpretazione da dare al detto articolo 90, fare a meno di ratificare questo sia pure ingiusto e, più che ingiusto, deplorevole Trattato.

Noi antifascisti dobbiamo anzitutto ratificarlo per quelle stesse ragioni di libertà, di giustizia, di collaborazione tra i popoli per le quali siamo stati sempre avversi al fascismo: se anche queste ragioni, che sono le ragioni ideali per le quali i nostri ex-nemici dicevano di fare la guerra, essi oggi, nell’imporci il Trattato, hanno mostrato di dimenticarle. Poco importa, onorevoli colleghi, che tocchi proprio a noi, antifascisti, di dover accettare un Trattato che sanziona gli errori di un regime che abbiamo, per venticinque anni, sempre combattuto, e commina, per essi, pene immeritate che vanno oltre la misura del giusto. Esso, infatti, non ha tenuto conto che il popolo italiano non poteva essere tenuto responsabile degli errori del fascismo, in quanto avendo, per fatto del fascismo, perduta la propria libertà, era di quegli errori non il responsabile, bensì la prima vittima.

Ciò nonostante, ripeto, noi abbiamo il dovere di accettare e ratificare questo Trattato, anche perché è proprio dei popoli forti accettare la responsabilità degli errori dei governanti e subirne le conseguenze, se anche ingiuste o immeritate. Accettando questo indegno Trattato, noi, rappresentanti del popolo italiano, daremo prova di quella stessa forza, di quella stessa fierezza di cui, di fronte alle sue immeritate sventure, ha saputo dar prova il popolo italiano, opponendo ad esse uno spirito di resistenza e di rinascita che ci può essere invidiato da molti di quegli stessi Stati vincitori che oggi ci impongono le condizioni della loro pace.

Noi antifascisti (e credo, con questo, di parlare a nome della grande maggioranza, se non della quasi totalità di questa Assemblea) siamo stati sempre avversi al regime fascista per ragioni di politica interna, perché questo regime, giunto al potere con mezzi illegali, ci aveva, per mantenervisi, privati di ogni libertà. Ma non lo siamo stati meno per la sua politica di avventure nel campo internazionale, per avere esso, anche in questo campo, tentato di sostituire un regime di violenze, di egoismi, di sopraffazioni a quei rapporti di collaborazione e di solidarietà tra i popoli, che dovrebbero costituire il fondamento della politica degli stati democratici nel campo internazionale.

Noi fummo, quindi, tenacemente avversi all’impresa etiopica, che con la rottura del così detto fronte di Stresa preparava le condizioni favorevoli per una nuova conflagrazione internazionale. E non mutammo opinione neppure quando il successo arriso all’impresa sembrò darci torto e rafforzare il regime ed il suo capo. E fummo del pari, ed anche più tenacemente avversi alla nostra partecipazione alla nuova guerra mondiale, nonostante sembrasse che la vittoria fosse già dalla parte del nostro alleato, ed a noi non toccasse che concorrere alla spartizione dei frutti della vittoria tedesca. Lo fummo esclusivamente per ragioni ideali e per tre lunghi anni abbiamo vissuto nel tragico dilemma di non potere augurare al nostro Paese una disfatta, di cui erano prevedibili le conseguenze, ma di non potergli, purtroppo, neppure augurare la vittoria, che avrebbe segnato la rovina nostra e dell’umanità, in quanto ci avrebbe asserviti tutti alla Germania hitleriana.

È questa anzi, fra le tante, la colpa che neppure oggi sappiamo perdonare a Mussolini, nonostante l’espiazione della sua tragica quanto ingloriosa fine. Ed è la colpa stessa per la quale abbiamo rovesciato la monarchia, nonostante non fosse, non dico fatta, ma neppure preparata la repubblica.

Non si dica, quindi – perché costituirebbe offesa ai nostri sentimenti più sacri – che il nostro atteggiamento dopo l’armistizio fu determinato da ragioni di opportunità o di calcolo. Non si dica che con la cosiddetta cobelligeranza noi avremmo inteso seguire quella politica che tante volte ci è stata rimproverata, e che è stata definita dei giri di walzer. No, quella politica noi abbiamo seguito esclusivamente perché rispondeva ai reali e sinceri sentimenti del popolo italiano, che anelava alla libertà propria e del mondo e nelle truppe alleate vedeva veramente le truppe liberatrici. E se – come si dice da molti, ed è esatto – questo Trattato è ingiusto anche perché non ha tenuto conto, o non ha tenuto nel giusto conto quella nostra cobelligeranza, ebbene noi non ce ne adontiamo e molto meno ne facciamo una ragione di opposizione al Trattato, precisamente perché di quella cobelligeranza, di cui siamo fieri ed orgogliosi, noi non intendevamo essere ringraziati e molto meno retribuiti, in quanto determinata esclusivamente dai nostri sentimenti e da quelli che ritenevamo fossero i nostri interessi di cittadini di uno Stato tornato finalmente libero.

Per queste stesse ragioni ideali che determinarono la nostra cobelligeranza noi vogliamo oggi, nonostante le sue palesi ingiustizie, ratificare il Trattato di pace. Abbiamo però, prima di ratificarlo, il diritto di dire qualche parola amara a coloro che ce lo impongono; abbiamo, cioè, il diritto di dire loro: voi avete creduto, con questo Trattato, di umiliarci nel nostro orgoglio di Nazione, non sottoponendoci un Trattato, ma imponendoci un dettato sulle condizioni di pace; voi avete creduto di ferirci in quel sentimento che abbiamo più caro, cioè nel sentimento di Nazione, privandoci di terre che ci sono particolarmente care, per averle riscattate nell’altra guerra col sangue di milioni di nostri soldati; voi avete creduto di umiliarci, privandoci, con le colonie, del frutto di mezzo secolo del nostro lavoro; voi avete voluto dimenticare che i nostri soldati sono morti a fianco dei vostri per la stessa causa della libertà del mondo; voi avete dimenticato – come ha ricordato l’onorevole Gasparotto nel suo elevato discorso di due giorni fa – le gesta gloriose, al vostro fianco, della nostra Marina, che già da avversaria avevate imparato a rispettare, se non ad ammirare.

Voi avete dimenticato tutto questo, ma non ci avete umiliati. Cercando di umiliarci, ci avete anzi messo su un piano morale più elevato del vostro. Noi possiamo infatti rispondervi che, se avete creduto di umiliarci imponendoci un Trattato disonorevole, ebbene questo Trattato noi invece accettiamo precisamente per rialzarci: per riprendere cioè il posto che ci spetta nel consesso delle libere Nazioni. Se voi ci avete privato di terre che ci sono particolarmente care, ebbene, non fatevi illusioni, quelle terre, da oggi, saranno più che mai italiane, e i nostri fratelli che Voi, con la violenza, avete voluto staccare da noi, si sentiranno più che mai legati alla Madrepatria, si sentiranno, da oggi, più che mai italiani! E se avete creduto di toglierci il frutto del nostro lavoro, togliendoci le colonie, ebbene in quelle colonie resteranno le tracce non solo di quel nostro lavoro, ma resteranno, soprattutto, le tracce del nostro grado di civiltà, perché il nostro non è stato un regime di oppressione, ma un regime di civiltà.

Questo noi abbiamo il diritto di dirvi nel momento in cui Voi, dimenticando le ragioni ideali della nostra guerra al vostro fianco, ci imponete questo indegno Trattato. Ma se voi avete dimenticato i nostri morti, i soldati morti a fianco dei vostri, noi non abbiamo dimenticato i vostri morti; noi non abbiamo dimenticato che sul suolo italiano è venuto a morire il fior flore della gioventù anglo-americana. Noi non abbiamo dimenticato i vostri morti di Cassino e di Anzio, che ci sono cari quanto i nostri morti. Anche per questi morti, anzi, noi ratifichiamo questo indegno Trattato. Ma abbiamo il diritto di dirvi che anche per questi morti, per il rispetto che dovete ad essi, Voi non avreste dovuto imporcelo. (Applausi – Congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevoli colleghi! Ero ben lontano dall’immaginare che avrei avuto l’occasione di parlare sul cosiddetto trattato di pace. Mi ero convinto che l’Assemblea avrebbe deciso di non tenere alcun dibattito su tale penoso argomento. Ciò che poteva dirsi contro l’indegno documento, che ora è davanti a noi, quasi tutto era stato già detto fuori di questa Assemblea; perciò; immaginavo che in quest’Aula avrebbe avuto luogo, non già una discussione, ma piuttosto una solenne, austera cerimonia, in cui, dopo che avesse parlato per la storia, nella maniera concisa e scultorea che gli è propria, il più alto rappresentante del pensiero italiano, voglio dire Benedetto Croce, avrebbe preso la parola il Presidente dell’Assemblea per invitarci a ratificare unanimemente, col lutto nel cuore, quel documento, se tale fosse stata la dura, imperiosa necessità del momento, oppure, se tale necessità non vi fosse stata, a rifiutare, con voto altrettanto unanime, la ratifica, ubbidendo ai dettami della nostra coscienza e a quelli che ci ispira il sentimento di onore del popolo italiano.

Ma le vicende della vita politica interna del nostro Paese, così strettamente legate oggi con quelle della vita internazionale, hanno portato prima del tempo il «Trattato» davanti all’Assemblea, con fretta che a molti autorevoli nostri colleghi non è sembrata per nulla giustificata. Donde l’apertura di questo dibattito. Perciò, invece di quella ratifica da darsi o da rifiutarsi con voto unanime senza alcuna discussione, ci troviamo oggi divisi da disparità di opinioni che verosimilmente si rifletterà anche nel nostro voto. Dal momento che è così, non vi sembrerà eccessiva presunzione la mia, se ho chiesto la parola per un breve commento su quella parte del «Trattato» che, se non è grave ed irreparabile come quella che si riferisce alle mutilazioni del nostro territorio nazionale, è però certamente fra le più umilianti: voglio dire le clausole militari.

Né vi faccia meraviglia, onorevoli colleghi, che chi si accinga a parlarvi di questi argomenti sia proprio colui che per convinzioni antiche e nuove vorrebbe veder soppresse in Italia, come altrove, tutte le forze armate nazionali per dar luogo ad un solo potente esercito, una sola marina, una sola aviazione militare, messe tutte a disposizione di un Governo mondiale per salvaguardare la pace e la giustizia sociale nel mondo.

Ma il fatto è, onorevoli colleghi, che con questo Diktat si disarma il popolo italiano, laddove nessuna limitazione di forze militari viene imposta ai paesi vicini, e precisamente quando nei paesi, che dall’ultimo conflitto sono emersi come i più potenti Stati militari del mondo, fervono febbrilmente i preparativi per un nuovo, ancora più catastrofico conflitto.

Le clausole militari, non meno che le amputazioni del nostro territorio nazionale, mostrano lo spirito retrivo, reazionario, anacronistico che ispirò il «Trattato».

Lo spirito bassamente vendicativo, la nessuna fede mantenuta alla parola data, il feroce egoismo, infine, delle quattro Potenze che dettarono le condizioni della pace, si rivelano per l’appunto in queste clausole dove la nostra Italia democratica, sorta con tanto stento e a prezzo di tante sofferenze sulle rovine di un regime infausto, viene considerata, nientemeno, come un possibile futuro aggressore sia del vicino d’Oriente che di quello dell’Occidente. I lupi che prendono misure di cautele contro l’agnello!

Avviene così che un trattato, il quale avrebbe dovuto, a detta del signor Attlee, liberare per sempre l’Europa dalla guerra, non fa che evocare questa con ciascuna di quelle clausole militari che, lasciando il nostro Paese senza difesa valida, lo pongono indirettamente alla mercé della prepotenza straniera.

Triste caratteristica della guerra moderna, la più triste forse, è che essa nulla risolve. Al suo cessare gli antagonismi nazionali ed economici che l’hanno provocata sussistono aggravati, sia pure sotto altra forma. Sicché le divisioni, gli odii fra i popoli ne risultano accresciuti, e a una vera pace più non si arriva, ma piuttosto ad un armistizio, che dura più o meno a lungo fino al prossimo conflitto. La riprova di questa verità è fornita dal documento che è posto davanti a noi. Nel compilarlo le quattro Potenze misero da parte i principî umanitari, i grandi ideali proclamati durante la guerra, quando a gran voce invocavano da tutti i popoli, compreso il nostro, l’aiuto per la vittoria.

La Carta Atlantica è ormai uno sbiadito ricordo di frasi retoriche le quali, pronunciate in un momento di grande pericolo, non hanno più alcuna risonanza nel cuore stesso degli uomini che le proclamarono. Le solenni promesse di Roosevelt e di Churchill sono dimenticate. Della necessità di unificare il mondo, di promuovere il progresso sociale ed economico di tutti i popoli, dando ad essi la possibilità di vivere l’uno a fianco dell’altro da buoni vicini, si parlò nello statuto dell’organizzazione delle Nazioni Unite, ma nei fatti, le stesse Nazioni che ne formano il direttorio agirono contro quei principî, dettando all’Italia condizioni di pace che gettano il seme di future, catastrofiche guerre.

Un trattato come quello di cui ci viene chiesta la ratifica, non è un trattato di pace, ma un odioso compromesso, con cui le quattro potenze che lo stipularono tentarono, a nostre spese, di comporre almeno per il momento i loro contrasti di interessi.

Esso non elimina le vecchie cause di conflitti, ma a queste ne aggiunge di nuove. La conferenza di Versailles, fra i suoi errori, offrì ai vinti almeno un raggio di speranza, allorché vi si parlò di disarmo generale. Ma nella conferenza di Parigi del 1946 si è parlato di disarmo solo per i popoli vinti!

Il trattato, che di quella conferenza fu il risultato, costituisce per se stesso un anacronismo storico. Oggi il mondo dovrebbe andare verso l’unificazione, verso una stretta solidarietà e collaborazione fra i popoli; e qui si stabiliscono condizioni che dividono ancora più profondamente i popoli dell’Europa. Il progresso tecnico degli ultimi 150 anni, il meraviglioso sistema di comunicazioni moderne, che di fatto ha soppresso le distanze, e la conquista della potenza meccanica da parte dell’uomo, portano come naturale, fatale conseguenza alla soppressione delle frontiere; e qui si tracciano, a danno del nostro Paese, nuove frontiere destinate ad accentuare le diffidenze, i sospetti, i contrasti fra l’Italia ed i suoi vicini.

Per colmo di ironia, l’Italia repubblicana viene trattata come se potesse davvero costituire nel futuro una grave, permanente minaccia alla pace dei paesi del blocco occidentale, non meno che di quelli del blocco orientale! E le si impongono perciò misure militari dirette in sostanza a impedire che essa possa difendersi all’uno e all’altro confine.

Il diritto di autodifesa, proclamato dall’articolo 51 dello statuto delle Nazioni Unite, è essenzialmente negato al nostro Paese, obbligandoci, come si fa, a rimuovere ogni fortificazione o installazione militare lungo le frontiere, senza che un eguale obbligo sia fatto ai nostri vicini.

Ma le clausole dove più è palese l’intenzione di volerci lasciare impotenti a difenderci contro chi tentasse invadere il nostro territorio nazionale, sono quelle stabilite con l’articolo 50, che impongono la rimozione di tutte le postazioni permanenti di artiglieria per la difesa delle coste di Sardegna. Se eguale ordine fosse stato dato alla Francia per quanto riguarda la Corsica, nulla vi sarebbe stato da ridire; ma imposizioni unilaterali come quella che ho citato ed altre simili sono immorali, perché, impedendo la difesa delle nostre coste contro un tentativo di invasione, mettono il territorio nazionale alla mercé dei vicini.

Questo nostro popolo, che se di una cosa può legittimamente vantarsi, è proprio quella di essere per sua natura pacifico, viene considerato così pericoloso che gli si fa divieto perfino di studiare nuove armi. Con che implicitamente gli si vieta altresì di studiare come difendersi da esse.

Salutare e gradito sarebbe un tale divieto, se fosse generale per tutti, ma imporlo soltanto al nostro Paese, mentre altrove febbrilmente si preparano nuovi spaventosi mezzi di distruzione, è certamente cosa iniqua.

Gli effettivi dell’esercito, comprese le guardie di frontiera, sono limitati a 185 mila uomini, quando la Francia ancor oggi ne ha, forse, tre volte tanto sotto le armi. Si ha, poi, cura di aggiungere che l’organizzazione e l’armamento di tali forze debbono essere concepiti in modo da soddisfare unicamente ai compiti di carattere interno, cioè a dire polizieschi, e a quelli di difesa locale della frontiera.

Ben più largamente sono stati trattati a tale riguardo gli altri Paesi: la Bulgaria, l’Ungheria, la Romania e perfino la Finlandia. Alla Bulgaria, ad esempio, con appena 6 milioni di abitanti, è stato concesso un esercito di 55 mila uomini. Con la medesima proporzione, a noi avrebbe dovuto essere permesso un esercito di 400 mila uomini anziché di 185 mila.

Lo stesso dicasi dell’aviazione. Fra apparecchi da caccia e da ricognizione potremo avere tutt’al più 200 aeroplani; ma la Bulgaria, con una popolazione sette volte più piccola, ne avrà 90, e 60 la Finlandia, la cui popolazione è appena la dodicesima parte della nostra.

Mai onorevoli colleghi, le più gravi, umilianti ed inique clausole militari sono certamente quelle che si riferiscono alla Marina. Esse ne costituiscono anche la parte più importante. La spartizione come bottino di guerra della flotta italiana fra i vincitori, dopo che essa aveva con onore combattuto al loro fianco e dopo i solenni riconoscimenti dei capi militari alleati e le ancor più solenni dichiarazioni di Roosevelt e di Churchill, è – secondo me – la cosa più vile di tutto il Trattato! Il meglio della flotta italiana, per un tonnellaggio complessivo di 160 mila tonnellate, oltre a 51 mila tonnellate di naviglio ausiliario, deve entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato essere consegnata alle quattro Potenze, fra cui è compresa anche la Francia; eppure, la Francia la guerra non vinse, come ci ha ricordato poc’anzi l’onorevole Nitti, che ha sostenuto la tesi che essa ha subìto in questa guerra una disfatta ben più grave della nostra!

Per giunta, ci si fa obbligo di consegnare le navi in piena efficienza, con che dovremo accollarci l’obbligo gravoso e penoso di ripristinare le unità inefficienti per poterle presentare in perfetto ordine agli spartitori del bottino.

All’Italia vengono lasciate due vecchie corazzate, la Doria e la Duilio, che non potranno nemmeno esser più sostituite allorquando dovranno essere messe fuori servizio; quattro incrociatori, quattro cacciatorpediniere ed un numero limitato di navi minori per un tonnellaggio complessivo di 67 mila tonnellate.

Fra le unità che restano all’Italia, molte sono di tipo antiquato e parecchie inefficienti. Per di più, la loro scelta è stata fatta in modo da impedirne un’organica utilizzazione.

Dei sommergibili, otto, i migliori, sono da consegnarsi in mani alleate. I rimanenti dovranno essere affondati! Fra questi sono compresi anche quelli i cui comandanti, per servizi resi in guerra a fianco degli alleati, furono proposti per decorazioni britanniche.

La spartizione della nostra flotta fra i vincitori: tale è la ricompensa di venti mesi di splendido servizio prestato dalla Marina italiana nella lotta contro il nazismo!

Tali sono, onorevoli colleghi, le clausole militari del Trattato che ci viene imposto.

L’umiliazione inflitta alla nostra Marina e il rinnegamento delle solenni promesse fatteci per ottenere il suo aiuto in guerra hanno sollevato lo sdegno del popolo italiano, forse altrettanto quanto le mutilazioni imposteci nel nostro territorio nazionale.

L’Italia a Parigi fu tradita. Gli alleati ci avevano promesso di trattarci non da vinti ma da amici. Tutti noi ancor oggi ricordiamo il messaggio con cui Churchill nel 1942 asseriva che la Gran Bretagna combatteva non contro il popolo italiano ma contro Mussolini, e ci esortava a liberarci dal regime che ci opprimeva. L’aiuto che gli inglesi allora chiesero fu dato dagli Italiani con generosità come meglio essi potevano.

Lo slancio con cui accolsero l’invito sta a provare che la guerra al lato della Germania nazista era stata imposta al popolo italiano contro i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, la sua volontà. Nessun popolo che non avesse profondamente odiato una guerra, alla quale era stato forzato da una tracotante dittatura, avrebbe potuto decidersi a combattere, al fianco degli anglo-americani, contro quello stesso potente esercito che ufficialmente era stato l’alleato della vigilia!

La cobelligeranza, accettata dall’Italia con tanto entusiasmo, avrebbe dovuto portare come logica conseguenza a farci considerare, se non come alleati, almeno come amici. E non si sarebbe dovuto dimenticare che il popolo italiano aveva combattuto con tedeschi assai più della Francia, che pure è una delle quattro Nazioni che dettarono le condizioni della nostra pace nella conferenza di Parigi.

Le testimonianze in proposito degli stessi Alleati sono irrefutabili. Il 22 agosto 1944 il generale Browning dichiarava: «L’esercito italiano è stato riorganizzato nel caos. Esso ha combattuto bene ed efficacemente, ed ha avuto notevoli perdite».

Il generale Hays, della V Armata americana, rivolgendosi ai militari italiani impiegati nei servizi ausiliari, diceva loro: «Le parole sono inadeguate a descrivere il coraggio che occorreva per effettuare l’approvvigionamento di munizioni fino al completo annientamento della resistenza del nemico. Esso ci permise di penetrare nelle posizioni nemiche, ora disorganizzate, e invadere la valle padana. Voi adempiste a questi obblighi in maniera degna delle più belle tradizioni delle forze alleate».

Churchill, parlando ai Comuni il 27 febbraio del 1945 disse: «Sarebbe ingiusto non rendere omaggio agli impagabili servizi, di cui non si può narrare tutta la storia, che gli italiani, uomini, donne e le loro forze armate, sul mare e sulla terra, e dietro le linee nemiche, rendono continuamente alla causa comune».

Più tardi, il 5 marzo 1945, egli telegrafava al Governo italiano «fervide congratulazioni per la liberazione finale dell’Italia dal comune nemico», e il messaggio continuava accennando al contributo dato dalle forze regolari italiane e dai patrioti dietro le linee.

Il 5 ottobre dell’anno scorso, quasi come protesta contro la Conferenza di Parigi, il generale Morgan, comandante in capo delle forze alleate del Mediterraneo, celebrandosi lo sbarco di Salerno, invitò le autorità italiane a parteciparvi da uguali. Ma già prima, nel luglio, il generale Clark, distribuendo decorazioni americane ai volontari della libertà, diceva loro: «Avete vinto la guerra, meritate di vincere la pace». Nei certificati che egli distribuiva era stampato: «Col loro coraggio e la loro devozione i patrioti italiani hanno dato un genuino contributo alla liberazione italiana e alla grande causa degli uomini liberi».

E chi potrebbe dubitare? Se le forze regolari operarono facendo splendidamente il loro dovere in condizioni di evidente inferiorità rispetto agli alleati; se le forze regolari perdettero sul campo 43.000 uomini, ancora più dura fu la guerra spontaneamente voluta e organizzata dalle forze popolari. E come potevano le autorità supreme del Comando alleato non riconoscere che quel popolo si era ben guadagnato il diritto di vincere la pace allorquando esso aveva pagato con la vita di 80 mila dei suoi figli quel diritto? La memoria di questi morti italiani nella guerra di liberazione è quella che impone il dovere categorico di rifiutare la ratifica se non vi è una assoluta impellente necessità. Se non ci fossero state imposte inique modificazioni di frontiera, se ci fosse stato imposto il disarmo, sia pure totale, come preludio al disarmo universale, se ci avessero detto di consegnare tutta la nostra flotta non già ai quattro vincitori, ma alla Organizzazione delle Nazioni Unite onde costituisse il primo nucleo di quella forza internazionale che dovrebbe presidiare la pace e la giustizia fra i popoli, si sarebbe potuto accettare di buon grado un tale «trattato».

Ma così come è, sarebbe viltà ratificare un trattato che disonora l’Italia, che la mette alla mercé di tutti, e le toglie di fatto ogni indipendenza. Accettare un tale trattato prima di essere costretti a farlo, sarebbe tradire la memoria dei morti della guerra combattuta dal popolo italiano contro il nazismo. Né io credo che, affrettando la ratifica, come ci si propone di fare, noi contribuiremmo a quell’opera di mediazione tra oriente ed occidente che pure sarebbe il nostro attuale destino. A me sembra proprio il contrario. Una ratifica a cui ancora nessuno ci obbliga sarebbe un errore aggiunto agli altri.

È convinzione di molti che se l’Italia fosse stata meno intimamente identificata con gli interessi degli anglo-americani, la sua posizione internazionale sarebbe stata a Parigi ben differente. Dopo il crollo del nazismo fu certo grave errore non mantenersi strettamente neutrali tra i due blocchi in contrasto. L’errore si aggraverebbe affrettandosi, oggi, come in sostanza ci si propone di fare, a prendere posizione a fianco del blocco occidentale contro quello orientale; perché, si voglia o no, tale sarebbe il significato che assumerebbe un’affrettata ratifica.

Benedetto Croce diceva l’altro ieri in questa Assemblea cose memorabili che la storia registrerà; ma una sua dichiarazione mi colpì in modo particolare e fu quando disse che la guerra è legge eterna delle vicende umane. Se così fosse, se fosse vero che l’umanità non potrà mai più riuscire a liberarsi della guerra, ci sarebbe veramente da disperare delle sorti del mondo. La guerra, quale era una volta, avrebbe potuto ben perpetuarsi indefinitamente senza che portasse necessariamente alla distruzione della civiltà umana; ma oggi, dopo le scoperte e le invenzioni dei secoli XIX e XX, è divenuta cosa essenzialmente diversa da quella che fu fino un secolo e mezzo fa. Soppresse praticamente le distanze grazie all’aviazione e alla radio, il mondo all’improvviso si è rimpicciolito: i popoli vivono gomito a gomito l’uno coll’altro; e perciò la guerra, quando scoppia, presto si espande dovunque, e con i potenti orribili mezzi di distruzione di cui si dispone, si tramuta in una catastrofe generale.

Oggi, si impone ai popoli l’imperativo categorico di trovare il modo come liberarsi per sempre da questo flagello, il che non si può ottenere se non istaurando una legge mondiale. Senza di ciò la decadenza, il crollo della civiltà umana è cosa inevitabile. Tale è il dilemma tremendo.

Un popolo come il nostro, che ha sempre donato al mondo idee universali, deve porsi risolutamente sulla prima delle due strade, quella che conduce all’unificazione politica ed economica del mondo. Ma a questa non si contribuisce affrettandosi in questo momento a ratificare il trattato, con la speranza, forse, di acquistarsi le simpatie di una delle due parti in conflitto.

Nel momento attuale, di aspra, pericolosa tensione fra oriente ed occidente, ratificare il «Trattato» senza averne l’obbligo, significa compiere un atto che non può non apparire ostile ad una delle due parti in contesa. Tale ratifica dobbiamo rifiutare per salvare il nostro onore e la nostra dignità, ma anche, e soprattutto, nell’interesse della pace e nell’interesse stesso dell’umanità. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta di lunedì mattina.

PARIS. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PARIS. Per accelerare i nostri lavori, propongo di tenere seduta anche domani mattina, tenendo conto che vi sono ancora numerosi oratori iscritti in questa discussione, e che la patrimoniale richiederà anch’essa qualche seduta ancora.

PRESIDENTE. Faccio osservare che l’Assemblea non è in numero per poter adottare una decisione di questo genere.

La prossima seduta è fissata per lunedì alle 9,30.

La discussione sul Trattato di pace proseguirà anche nella seduta pomeridiana.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica e il Ministro del tesoro, per conoscere con quali mezzi s’intende provvedere al ricovero nei sanatori di mezza ed alta montagna – attraverso l’Istituto nazionale di previdenza sociale – delle migliaia e migliaia di tubercolotici poveri che attendono da mesi e mesi il trasferimento; e per conoscere se non si ritiene urgente ed improrogabile l’assegnazione all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica di altri due miliardi necessari per la costruzione di nuovi sanatori, oltre quelli già assegnati.

«Morini, Cairo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno e delle finanze, per conoscere:

  1. a) se è esatta la notizia secondo la quale è in corso di emanazione una legge di regolamentazione delle lotterie; legge che porrà fine al monopolio, da parte della S.I.S.A.L. del totalizzatore del gioco calcio;
  2. b) se, d’altra parte, è vero che la legge affiderà la gestione del toto-calcio, anziché al C.O.N.I., alla Direzione lotto, il che significherebbe la morte dell’iniziativa;
  3. c) se, infine, è vero che la legge stessa porterà alla soppressione delle percentuali, che oggi affluiscono nelle casse del C.O.N.I., con conseguente paralisi completa di tutte le federazioni sportive, che raggruppano nelle proprie file 2 milioni d’inscritti ed interessano tutta la gioventù d’Italia.

«Morini, Cairo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, di fronte alla riconosciuta impossibilità di stroncare il gioco, illecito e clandestino, che dilaga per le città e le borgate d’Italia, non ritenga urgente e necessario regolare e disciplinare il gioco stesso attraverso opportune provvidenze legislative, che ne convoglino gli eventuali gettiti consentiti a scopi di ricostruzione nazionale.

«Morini, Cairo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritiene doveroso ed urgente assicurare alla città di Messina il mantenimento dell’arsenale, anche nello studio alacre della possibilità di maggiore e redditizio sviluppo produttivo; tenuto conto che detto arsenale assorbe ben tremila capi-famiglia tra operai, in gran parte specializzati, ed impiegati in una città dove la disoccupazione è grave e persistente, essenzialmente in conseguenza della guerra, che così ingenti danni ha causato, danni che purtroppo permangono.

«Salvatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quali provvedimenti intende adottare per la liquidazione dei danni di guerra già regolarmente accertati, in considerazione anche che una liquidazione parziale di tali danni fu effettuata nell’Italia settentrionale.

«Porzio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non sia il caso di concedere ai reduci, ad integrazione delle liquidazioni già ricevute, un premio in danaro, proporzionato al grado ed agli anni di prigionia, per aiutarli a superare le difficoltà che essi incontrano nel riprendere le loro abituali attività dopo anni e anni d’internamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti sono stati adottati per dar corso al piano di lavoro riguardante il comune di Plataci (Cosenza), e precisamente;

  1. a) strada rotabile Plataci-Villapiana;
  2. b) sistemazione del Cimitero;
  3. c) costruzione di fognature ed impianto di fontane nell’abitato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zagari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga conforme ad equità e giustizia consentire che gli eredi degli esattori temporaneamente autorizzati all’esercizio della esattoria resasi vacante per la morte del loro dante causa, i quali non poterono – per malattia, per forza maggiore o per qualsiasi altra causa – sostenere l’esame di abilitazione previsto dall’articolo 14 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424, siano ammessi a sostenere tale esame in una sessione straordinaria o nella prossima sessione ordinaria, senza incorrere nella decadenza dalla esattoria.

«Non sembra infatti giusto che il beneficio, di cui al citato articolo 14, concesso agli eredi degli esattori in riconoscimento dell’opera da loro prestata con senso di responsabilità nei momenti difficili della guerra, debba essere negato con gravi conseguenze economiche a coloro che per malattia o per altra causa di forza maggiore non poterono sostenere l’esame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Valmarana».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno; per conoscere in base a quali disposizioni il prefetto di Siracusa ha proibito al Blocco del Popolo l’affissione di un manifesto sulla imposta patrimoniale.

«Fiorentino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuno, oltreché giusto, proporre che le norme contenute nel decreto legislativo presidenziale del 13 maggio 1947, n. 500, per lo sfollamento dei sottufficiali dell’Esercito e della Marina, vengano estese a quell’esiguo numero di sottufficiali piloti dell’Aeronautica (circa 40), che dovrebbero essere collocati in congedo al compimento del 45° anno di età e di 20 anni di servizio, in base alle disposizioni della legge 3 febbraio 1938, la cui attuazione porrebbe i predetti sottufficiali piloti – tanto benemeriti della Patria – in condizioni di enorme inferiorità anche per il trattamento economico rispetto ai colleghi delle altre forze armate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) le ragioni che lo hanno spinto ad escludere l’antropologia criminale dall’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze nella prossima sessione.

«L’esclusione dell’antropologia criminale dall’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio decorso è tanto più grave, in quanto la disciplina anzidetta ha abbandonato le angustie di precedenti concezioni rigidamente materialiste (del resto sempre rispettabili) per svilupparsi in più ampi indirizzi di ricerca clinica integrale;

2°) se le ragioni di cui trattasi non debbano ricercarsi nell’arbitraria prevenzione di soffocare un poderoso materiale di studio, che ha messo l’Italia al primo posto nel campo della moderna criminologia, primato che si affermò decisamente nel I Congresso internazionale del 1938;

3°) se non ritiene opportuno.– per non mortificare il campo della ricerca scientifica e non deprimere sempre più la preparazione dei giovani universitari con studi unilaterali – di provvedere immediatamente, con decreto suppletivo, a includere l’antropologia criminale nell’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze per la prossima sessione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montalbano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, sui motivi che determinano il mantenimento del Consorzio nazionale canape, nelle sue attuali struttura e funzioni, sottoponendo tuttora i produttori della canapa a un rigoroso regime vincolistico, che non trova poi riscontro nei successivi stadi di utilizzazione industriale della fibra e di smercio dei prodotti finiti.

«Gli interroganti chiedono se non sia il caso di procedere, se non alla soppressione, almeno a una profonda e radicale riforma del Consorzio che – mentre ne conservi la sana funzione di assicurare, soprattutto ai piccoli produttori, prezzi remunerativi ed equi nei periodi di maggiore offerta e l’essenziale dell’attrezzatura organizzativa con finalità equilibratrici del mercato in eventuali periodi di crisi – lo privi di ogni carattere monopolista e renda ai produttori quella libertà di disposizione del prodotto, che è assicurata per gli altri non strettamente indispensabili alla vita nazionale.

«Gli interroganti chiedono, infine, se non si debba dare la massima pubblicità al bilancio del Consorzio, e in particolare alle condizioni con cui il prodotto viene ceduto alle industrie nazionali e negli scambi con l’estero, anche ad evitare che sorgano sospetti di favolosi profitti e di ingente costo dell’organizzazione consortile, purtroppo alimentati dalla sproporzione tra il prezzo finora pagato ai produttori e quello dei prodotti finiti delle canape. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«De Michele, Numeroso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica) e il Ministro dell’interno, per conoscere le ragioni per le quali non è stato ancora espletato il concorso bandito con decreto n. 16561, del 20 agosto 1946, del prefetto di Roma, per l’apertura di nuove farmacie.

«Il ritardo nell’espletamento di tale concorso reca grave danno economico e morale alle centinaia di concorrenti che hanno presentato domanda e ciò impedisce che si bandiscano altri concorsi per nuove sedi farmaceutiche resesi necessarie in Roma e nella provincia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga equo ed opportuno provvedere ad una revisione della posizione degli «assuntori» vincolati da un contratto stipulato in base a capitolato che risale al passato governo fascista e che non risponde a nessuna delle esigenze di vita cui ogni lavoratore ha diritto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se è vero che, mentre la proprietà ed il diritto di gestire gli aeroporti locali sono stati rivendicati dai comuni di Milano, Genova, Torino, Bologna e Verona, per l’aeroporto di Capodichino a Napoli si sarebbe presa la decisione di affidarlo, anziché al comune, ad un consorzio che, allo scopo, andrebbe costituendo un’associazione privata denominata «Aeroclub».

«Per sapere, inoltre, se il Ministro è a conoscenza che il detto Aeroclub ha specialmente funzioni di circolo mondano e non rappresenta gli effettivi interessi della massa dei combattenti dell’aria, e se non ritiene utile e opportuno interessare alla soluzione del problema il Sindacato gente dell’aria della Camera del lavoro di Napoli ed altre associazioni di categoria, quale il settore aeronautico del Fronte dell’Uomo Qualunque di Napoli, che da tempo non riescono ad ottenere dal Ministero dell’aeronautica alcuna concessione, che crei possibilità di lavoro ai loro consociati, i quali, pure, hanno, indubbiamente, ben meritato dalla Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere per quali ragioni, dopo la pubblicazione della prima lista di informatori dell’O.V.R.A., non si proceda alla sollecita pubblicazione di altre quattro liste già compilate dall’apposita Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per cui si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.45.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì

Alle ore 9,30:

  1. – Interrogazioni.
  2. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

ANTIMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

 

INDICE

 

Congedi:

Presidente

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

 

Presidente

Condorelli

Cannizzo

Corbino

La Malfa, Relatore

Pella, Ministro delle finanze

Rescigno

Moro

Paris

Germano

Scoca

Scoccimarro

Pesenti

Zerbi

Tozzi Condivi

UbertiVeroni

Cifaldi

Bubbio

Balduzzi

Caroleo

Quintieri Quinto

Adonnino

De Mercurio

Bertone

Cappi

Cremaschi Carlo

Marinaro

 

Interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Abozzi, Gui, Rubilli, Sardiello e Cairo.

(Sono concessi).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Siamo agli articoli 25, 28 e 29.

Credo che i tre articoli possano essere riuniti nella discussione, cominciando con l’esaminare l’articolo 28 nel testo proposto dalla Commissione (articolo 29 del testo governativo). Si dia lettura di questo articolo.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Sono soggetti all’imposta i contribuenti il cui patrimonio imponibile, al lordo della detrazione stabilita nel comma successivo, raggiunga il valore di lire 3.000.000.

«Dal patrimonio imponibile si detrae la somma di lire 2.000.000.

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa un’ulteriore detrazione pari a un ventesimo, con un massimo di lire 250.000 per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni. La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i 10 milioni di lire.

«L’ammontare della detrazione è calcolato sul patrimonio di ciascun figlio ai fini dell’imposta straordinaria».

PRESIDENTE. All’articolo 28 vi è innanzi tutto il seguente emendamento degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Vinciguerra, Perrone Capano e Rubilli:

«Al primo comma, alle parole: valore di lire 3.000.000, sostituire le altre: valore di lire 5.000.000».

Identico emendamento ha proposto l’onorevole Rescigno.

Nessuno dei firmatari del primo emendamento è presente.

CONDORELLI. Lo faccio mio.

PRESIDENTE. Sta bene. L’onorevole Rescigno è presente.

CANNIZZO. Non dovrebbe essere esaminato prima l’articolo 25?

PRESIDENTE. Ho già detto che nel corso della discussione terremo presenti tutti e tre gli articoli, ma ritengo che sia prima da esaminare il 28.

CORBINO. Io credo che la cosa migliore sarebbe quella di discutere prima l’articolo 29, relativo al minimo imponibile. Mi pare che esso dovrebbe essere il punto di partenza. Dopo, si potrebbe passare all’articolo 25 ed all’articolo 28, che avevamo rimandato appunto per l’emendamento che era stato presentato all’articolo 29.

PRESIDENTE. Lei, probabilmente, onorevole Corbino, si riferisce all’articolo 29 del testo ministeriale.

CORBINO. Sì.

PRESIDENTE. Ed allora siamo proprio sul terreno che io avevo indicato.

CANNIZZO. In merito a quanto dice l’onorevole Corbino, faccio osservare che mi pare più logico scendere prima all’esame delle aliquote. Si potrebbe, in tal modo, sgombrare il terreno dalla questione principale.

LA MALFA, Relatore. Secondo il parere della Commissione è opportuno partire dall’articolo 28 dalla Commissione stessa proposto.

Dichiaro subito che la Commissione mantiene il suo testo dell’articolo 28 e quindi respinge tutti gli emendamenti relativi a questo articolo.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è d’accordo con il pensiero espresso dal Relatore, onorevole La Malfa.

PRESIDENTE. Allora passiamo alla votazione degli emendamenti che propongono di elevare da tre milioni a cinque il valore del patrimonio imponibile, emendamenti sui quali Governo e Commissione hanno espresso parere contrario.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Malgrado il parere contrario espresso dalla Commissione e dal Governo, il che mi fa disperare circa l’accoglimento del mio emendamento, tuttavia sento il dovere di dire poche parole a difesa dell’emendamento stesso.

Noi, poche settimane addietro, abbiamo votato nella Costituzione una norma che afferma che la Repubblica protegge la piccola proprietà. Senonché, il primo atto di questa Repubblica è l’emanazione di una legge fiscale che, consentitemelo, accoppa la piccola proprietà, tassata contemporaneamente con l’imposta proporzionale e con quella progressiva.

Ora, quando noi ci troviamo di fronte a patrimoni di tre milioni, ci troviamo di fronte alla piccola proprietà, ci troviamo di fronte all’appartamento che è il ricovero di una famiglia, oppure a quei 2, 3 o 4 ettari di terreno che sono appena gli strumenti di lavoro.

A me pare che se in questa prima legge noi vogliamo essere fedeli a quello che solennemente abbiamo incluso nella Costituzione, la piccolissima proprietà dovremmo lasciarla esente. Questa è del resto una voce che proviene da diverse parti: vi è anche un emendamento da parte della Democrazia cristiana, e mi era sembrato che anche i comunisti fossero di questo parere, cioè di favorire la piccola proprietà con l’esenzione, oppure spostando il limite. È questo il momento di decidere.

Prego vivamente l’Assemblea Costituente di essere fedele al principio sancito nella Costituzione: proteggiamo la piccola proprietà!

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Rescigno. Ne ha facoltà.

RESCIGNO. Ho presentato un emendamento simile a quello illustrato dall’onorevole Condorelli.

Mi limiterò a fare due semplici osservazioni. Io credo che sia tanto più necessario elevare a 5 milioni la misura adottata dalla Commissione, perché si disse parecchi giorni fa che sarebbe stata alleggerita l’imposta proporzionale e si sarebbe così venuti incontro alle esigenze dei modesti, dei piccoli possidenti. Viceversa, questo alleggerimento in sede proporzionale non c’è stato, né ci poteva essere perché la proporzionale non è che il riscatto dell’imposta patrimoniale ordinaria di dieci anni.

Si è detto anche, per giustificare la misura della Commissione, che altro è la valutazione fiscale, altro è la situazione reale, perché quella sarebbe sempre inferiore a questa. In pratica, mi permetto di osservare, avviene il contrario, perché i procuratori delle imposte i loro accertamenti li fanno a tavolino e, per mettersi a posto di fronte ai loro superiori, si mantengono sempre al di sopra della realtà.

Un’altra osservazione – ed è la principale ragione che si adduce – concerne il gettito dell’imposta, che verrebbe ad essere diminuito. Mi permetto di osservare che questa imposta incomincia a diventare efficiente da un importo piuttosto elevato: basta dare uno sguardo alle aliquote per convincersi che dai 10 milioni in su questa imposta potrà essere efficiente.

Per queste ragioni a me sembra che, per andare incontro veramente ai modesti, ai piccoli possidenti, bisogna elevare il minimo imponibile a 5 milioni, con un abbattimento alla base di 3 milioni.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la proposta di elevare il minimo imponibile da tre a cinque milioni, contenuta negli emendamenti Crispo e Rescigno.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Noi voteremo per il testo della Commissione, accettato dal Governo e perciò contro la proposta.

(La proposta non è approvata).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Vinciguerra, Perrone Capano e Rubilli:

«Al secondo comma, alle parole: si detrae la somma di lire 2.000.000, sostituire le altre: si detrae la somma di lire 3.000.000».

In conseguenza del fatto che l’emendamento al primo comma è stato respinto, questo emendamento resta assorbito.

Così pure resta assorbito l’altro emendamento dell’onorevole Rescigno:

«Al secondo comma, alle parole: la somma di lire 2.000.000, sostituire le parole: la somma di lire 3.000.000».

Al terzo e al quarto comma è proposto il seguente emendamento dagli onorevoli Paris, Piemonte, Preziosi, Tonello, Ghislandi, Corsi, Gullo Rocco, Segala, Preti; Grilli, Caporali, Canevali e Bocconi:

«Sostituire il terzo e il quarto comma con i seguenti:

«Dal cumulo dei cespiti che costituiscono un patrimonio familiare, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa un’ulteriore detrazione pari a un ventesimo per ogni congiunto dei contribuenti fino al secondo grado in linea diretta ascendente, discendente e laterale, purché alla data del 28 marzo 1947 convivessero con la famiglia e per coloro che alla stessa data avevano compiuto i ventun anni e prestassero inoltre la loro opera nella gestione del patrimonio.

«La detrazione non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione dei due milioni, superi gli otto milioni.

«L’ammontare della detrazione è suddiviso proporzionalmente fra i patrimoni dei singoli contribuenti».

L’onorevole Paris lo ha già svolto; invito pertanto l’onorevole Relatore a pronunciarsi in merito.

LA MALFA, Relatore. Vorrei pregare l’onorevole Paris e gli altri presentatori di questo emendamento di non insistere. Ritengo infatti che, specialmente per questi patrimoni medi che sono la grande maggioranza dei patrimoni su cui verrà ad esercitarsi la pressione fiscale, l’imposta, ove questo emendamento venisse approvato dall’Assemblea, finirebbe con il dileguarsi. Sarebbe lo stesso criterio fiscale ad annullarsi.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ministro delle finanze a esprimere l’avviso del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo ricorda le ragioni con cui l’onorevole Paris ha brillantemente illustrato questo suo emendamento. Sono ragioni però, se ben ricordo, che soprattutto avevano riguardo a determinate composizioni familiari, o, meglio, ai patrimoni familiari in determinate regioni. Se fosse possibile individuare situazioni regionali e adottare particolari temperamenti, valevoli per le situazioni stesse, si potrebbe anche accedere all’ordine di idee dell’emendamento proposto; ma, un emendamento di questo genere portato sul piano nazionale, potrebbe avere ripercussioni di cui non è possibile precisare la portata.

È dunque per queste ragioni che, con rammarico, debbo dare parere contrario all’emendamento in parola.

PRESIDENTE. Onorevole Paris, mantiene il suo emendamento?

PARIS. Lo mantengo.

CORBINO. Onorevole Presidente, c’è l’emendamento Cannizzo sullo stesso argomento; si potrebbero votare insieme.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Tre sono, onorevole Presidente, gli emendamenti che, a un dipresso, presentano uguale contenuto: quello Paris che è ora in discussione, il mio testé ricordato dall’onorevole Corbino e quello costituente l’articolo 29-bis presentato dall’onorevole Zerbi e da altri colleghi. Chiedo pertanto che vengano messi a partito insieme.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

LA MALFA, Relatore, A me pare che non si possa accedere al criterio dell’onorevole Cannizzo, perché l’emendamento Paris parla di convivenze familiari: non è dunque la stessa cosa.

CANNIZZO. Allora, però, si lascino impregiudicati gli altri due.

PRESIDENTE. D’accordo. Pongo dunque ai voti l’emendamento dell’onorevole Paris ed altri di cui ho dato lettura poco fa. Ricordo che il Governo e la Commissione hanno espresso parere contrario.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo contro l’emendamento Paris.

(Non è approvato).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Cannizzo:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Al cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, ed a richiesta di entrambi, verrà applicata, tenendo presente il numero dei figli che non abbiano un proprio patrimonio tassabile, un’aliquota così ridotta:

  1. a) per i patrimoni inferiori ai cento milioni, del 2 per cento per ogni figlio;
  2. b) per i patrimoni superiori ai cento milioni, dell’l per cento per ogni figlio.

«L’aliquota così ridotta, non potrà essere inferiore alla metà di quella imputabile al cumulo dei patrimoni».

L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CANNIZZO. Desidererei far notare che il mio emendamento presuppone un cumulo di patrimoni facoltativo e non obbligatorio.

Immaginiamo per esempio un patrimonio di 5 milioni della moglie e di 5 milioni del marito. Su questi due patrimoni cumulati si applicherà l’aliquota superiore dell’8,53 per cento, appunto in conseguenza del cumulo. Sarà su questa maggiore aliquota, a richiesta esclusivamente dei coniugi, che si dovrà calcolare la detrazione.

Non deve preoccupare, perciò, il fatto che io abbia chiesto per tutte le aliquote una riduzione, perché, se per i piccoli patrimoni le aliquote saranno più facilmente ridotte, per i grandi patrimoni il numero dei figli potrà avere limitata influenza. Supponiamo, infatti, il caso limite di due patrimoni di 500 milioni ciascuno. L’aliquota, se viene chiesto il cumulo, si dovrà applicare su un miliardo: perciò invece del 33 per cento si dovrà applicare il 50 per cento. Sarà in tale caso necessario avere quindici figli soltanto per tornare all’aliquota originaria.

Ritengo poi che si debba tener presente la composizione familiare. E se questo criterio per apprezzamento strettamente fiscale non dovesse essere accettato né dalla Commissione né dal Ministro, sarà col rifiuto violato il senso morale e di giustizia. Perché le ipotesi sono due: o i figli sono in tenera età ed allora è da tener presente che a carico dei genitori è ancora tutta la loro educazione, oppure i figli hanno una determinata età e si deve in tal caso considerare che col loro lavoro hanno contribuito ad incrementare il patrimonio dei genitori.

Ecco perché raccomanderei – nel caso che il mio emendamento non venisse accettato – che la Commissione proponesse almeno qualche variante al testo sempre allo scopo di agevolare le famiglie numerose, e togliesse ogni limitazione che riguarda l’ammontare del patrimonio, perché secondo me, colui che ha un patrimonio di 50 milioni ed ha 5 figli è meno ricco di colui che ha un patrimonio di 20 milioni e non ne ha nessuno.

Insisto sull’emendamento, pur sapendo che Governo e Commissione sono di contrario avviso.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione sull’emendamento dell’onorevole Cannizzo?

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, nella legge del 1922 la detrazione per i figli non era ammessa e mi pare che questo fosse un sanissimo criterio fiscale. Prendere in considerazione la composizione delle famiglie in una legge fiscale, ai fini dell’attuazione di un’imposta, mi pare che sia un criterio da respingere da ogni punto di vista. Ad ogni modo, per i piccoli patrimoni la Commissione ha mantenuto il testo governativo. Diversamente si dovrebbe costringere la Finanza a fare questi accertamenti per ogni patrimonio. Non mi pare che si possa giungere a questo.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Mi associo alla Commissione nel dare parere contrario all’emendamento dell’onorevole Cannizzo, anche perché non fissa un limite massimo ai fini dell’applicazione della detrazione invocata.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Ho spiegato, onorevole Ministro, che il mio emendamento non arrecherà grave danno alla Finanza, specie nel caso di grossi patrimoni. Infatti, per due patrimoni di 500 milioni di cui si chiede il cumulo sarà necessario avere più di 15 figli perché la detrazione possa ridurre le aliquote in misura non molto rilevante.

PRESIDENTE. Onorevole Cannizzo, lei intende dunque mantenere l’emendamento.

CANNIZZO. Lo mantengo.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che noi non accettiamo l’emendamento Cannizzo.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Si potrebbe completare l’emendamento, perché io faccio notare alla Assemblea che sarebbe indispensabile provvedere a questo. Anche qui noi dovremmo cominciare ad attuare un’altra norma della Costituzione che, come tante altre, sembra invece destinata a restare una affermazione platonica senza nessuna ripercussione pratica nella nostra legislazione. Si è affermato difatti che si proteggono le famiglie numerose.

Ora, proprio da parte democristiana, sento dire questo: che l’emendamento, intonato a questo principio, non ha ragione di essere. Ma quando vogliamo pensarci?

PRESIDENTE. Mi pare che lei, onorevole Condorelli, e gli altri che la pensano come lei, non tengano presente che si tratta di una imposta straordinaria, la quale si riferisce al disastro finanziario del Paese in conseguenza della guerra!

CONDORELLI. Ma tutte queste esigenze di giustizia e di ripartizione ci devono essere anche per le imposte straordinarie. Evidentemente noi lo dimentichiamo. Per l’argomento che diceva il Presidente della Commissione, in materia fiscale queste considerazioni non si possono fare. Ma io faccio presente che c’è una imposta complementare che tiene conto della composizione della famiglia.

Perché non se ne dovrebbe tener conto anche in questa imposta?

Io voterò a favore dell’emendamento Cannizzo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Cannizzo.

(Non è approvato).

Vi sono ora i seguenti emendamenti firmati dagli onorevoli Germano, Cimenti, Burato, Baracco, Bellato, Montini, Garlato, Roselli, Schiratti, Ferrario Celestino, Bastianetto, Pat, Rapelli, Ermini, Marconi, Corsanego:

«Sostituire il primo periodo del terzo comma col seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire un milione e cinquecento mila, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire 500.000 per ogni figlio.

«Alla fine del comma, dopo le parole: 10 milioni di lire, aggiungere: ad eccezione delle famiglie con sette o più figli a carico».

L’onorevole Germano ha facoltà di svolgerli.

GERMANO. Prendo lo spunto per spiegare i miei emendamenti da quello che disse l’onorevole Relatore, ossia che l’ordinamento fiscale non deve consentire a interessarsi dei figli o meno.

Invece io dico il contrario: ritengo che sia il caso di interessarsi anche della famiglia. Qua vediamo tre tesi: la prima, la mia, prende come base la famiglia ed il numero dei suoi figli; abbiamo una tesi del Governo la quale fa qualcosa di intermedio tenendo presenti figli e coniugi; abbiamo viceversa la tesi della Commissione che cerca in tutti i sensi di non considerare i figli. Si è cercato di mettere il padre di famiglia numerosa sotto imputazione. Siamo considerati come qualcosa di antisociale, e questo non va. Molti in questa Assemblea sostengono che siamo in troppi. Ad esempio, l’onorevole Corbino ha scritto un articolo: noi siamo in troppi. Meno male che l’onorevole Corbino non ha trovato molti seguaci e non mi risulta che qualcuno si sia sparato per sfoltire quel troppo indicato in quell’articolo.

Posso dire all’onorevole Corbino che è vero che 45 milioni di italiani in Italia sono troppi, ma è anche vero che 500 milioni di italiani nel mondo, sarebbero anche pochi.

Vediamo poi l’onorevole La Malfa il quale viene a dire: chi vuole i figli se li mantenga. Ma che ragioni sono queste? Come se i figli fossero una merce da volere o non volere.

I figli vengono perché abbiamo una moralità cristiana, perché sentiamo imperioso e categorico il comandamento del Signore. Ora la moralità è tanto ricercata nel mondo, e perché non vogliamo infangare il matrimonio ed i figli nascono, dobbiamo vedere negato ogni aiuto e considerazione? Perché la Commissione propone che si devono avere otto figli per avere una detrazione uguale a quella di un coniuge?

Io vorrei dire all’onorevole La Malfa che se anche avendo una moglie di lusso, non costerebbe certo più di otto figli.

Abbiamo sentito lo stesso venerato onorevole Orlando dire che ai suoi tempi nessuno pensava a delle agevolazioni a favore dei padri di famiglia numerosa.

È vero, ma ai tempi dell’onorevole Orlando i tisici potevano benissimo morire in casa loro, mentre oggi vanno nei sanatori; i disoccupati non avevano sussidi ed ora sì. Il mondo cammina e le provvidenze sociali acquistano valore. Perché non aiutare le famiglie numerose?

PESENTI. Non quelli che hanno da detrarre 300 mila lire!

GERMANO. Ecco perché ho presentato questo emendamento; e siccome mi preoccupa la visione finanziaria dello Stato propongo che la somma da detrarre anziché di 2 milioni per ogni coniuge si riporti ad un milione e mezzo. Così abbiamo un miglioramento notevole per la Finanza dello Stato che compensa la detrazione di 500.000 lire per figlio, e questo mi sembra logico.

Analizziamo ancora l’articolo della Commissione e vediamo che l’unica detrazione che non si applica quando il patrimonio supera i 10 milioni è quella che riguarda i figli, perché se il patrimonio fosse anche di 100 milioni verrebbero senz’altro tolti da questi 100 milioni, 2 milioni per la moglie e 2 milioni per il marito. Ma nessuna detrazione si avrebbe per i figli. Dice infatti l’articolo 28: dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di 2 milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari a un ventesimo con un massimo di lire 250 mila per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni. La detrazione stessa (ossia quella dei figli) non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i dieci milioni di lire.

Perché includere questo? Perché soltanto la detrazione per i figli non deve aver luogo qualora il patrimonio superi i dieci milioni? O tutto o niente. Si dica che per i patrimoni di oltre 10 milioni la detrazione non viene fatta neanche per i coniugi, oppure rimanga anche per i figli. Ecco una ingiustizia da correggere. Chiedo quindi che sia messo in votazione il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il suo parere.

LA MALFA, Relatore. La Commissione si è già espressa.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo desidererebbe trovare una onesta transazione fra i due punti di vista e forse la direttrice ne è data dal testo originario del decreto. Perciò, in primo luogo, pregherei l’onorevole Germano di diminuire il massimo di lire 500 mila a 300 mila, come nel testo cui ho accennato, in secondo luogo non posso accettare il concetto della detrazione fissa di un milione e 500 mila. Conosco le ragioni di ordine empirico che hanno portato l’onorevole Germano a determinare questa cifra, ma siccome vi è una detrazione unica contemplata dalla legge, che è quella dei 2 milioni, pregherei in ogni caso di dire «al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni».

Perciò se l’onorevole Germano ritiene di modificare la prima parte del suo emendamento nel senso di sostituire «due milioni» a «un milione e 500 mila» e «300 mila lire» a «500 mila» il Governo esprime parere favorevole alla prima parte dell’emendamento.

Per quanto riguarda la seconda parte, a favore delle famiglie con sette o più figli a carico, il Governo, per considerazioni d’ordine sociale, non ha difficoltà ad aderire.

GERMANO. Aderisco a quanto ha proposto il Governo.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Relatore. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. La Commissione, che ha valutato tutti gli emendamenti e li ha giudicati, ha questa sola ragione di fronte ai colleghi che si preoccupano della situazione familiare. Ci sono famiglie con 10 o 20 milioni che hanno sette figli, ma ci sono famiglie senza alcun milione che hanno sette figli! Questa è la verità, e noi non possiamo fare una legislazione fiscale se non tenendo conto dei casi più gravi. Tra i casi più gravi sono quelli di impiegati che hanno sette o più figli. Quindi prego i colleghi di non separare mai la vita nazionale in settori e di votare una legge fiscale che sia un fondamento di giustizia.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Questa determinazione di un numero fisso di figli – sette o più – ricorda troppo da vicino la legislazione fascista, la quale aveva certi determinati scopi demografici da raggiungere. Io comprendo benissimo, una volta che riportiamo la questione sul terreno prettamente fiscale, che chi ha figli debba venire considerato in una imposta personale in modo diverso di chi non ha figli, perché evidentemente la capacità contributiva di colui che non ha figli e quella di colui che deve provvedere all’esistenza dei figli, sono diverse; però il mettere un numero fisso di figli è una spinta a prolificare fino a quel determinato numero. (Si ride).

Ma se è giusto considerare il numero dei figli – e difatti nel progetto della Commissione questa preoccupazione c’era – non mi pare che si debba dare un premio solo a coloro che hanno sette o più figli e si debbano escludere invece da questo beneficio coloro che hanno soltanto sei figli!

Se si vuole andare incontro alle esigenze che sono state prospettate, io non avrei difficoltà ad elevare la cifra di 250 mila lire ad una cifra maggiore, che potrebbe essere di 400.000 lire. Così si adotterebbe una misura intermedia, e si rispetterebbe sia l’esigenza del fisco, sia la necessità di non svuotare di contenuto questo strumento fiscale straordinario, e sia anche le necessità delle famiglie con una modesta posizione che hanno un cospicuo numero di figli.

Il limite dei 10 milioni è un limite che si può discutere se sia adeguato o meno, ma un certo limite bisogna metterlo. Quando una famiglia ha un patrimonio ingente, viene meno la necessità di considerare i bisogni nascenti dall’esistenza di un certo numero di figli.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero ricordare che solo pochi giorni fa è stato respinto l’emendamento che veniva in aiuto a coloro che pagano l’imposta da un minimo di 50 e 100 mila lire in su. Oggi si fa l’apologia e la difesa della piccola proprietà dopo aver respinto l’emendamento che veniva in suo aiuto. E ora si propone di togliere il limite di 10 milioni per le detrazioni per i figli e di consentire tale agevolazione anche a chi possiede 100 o 2000 milioni.

Io vi dico: ricordatevi della votazione di quattro giorni fa; ingiustizie già vi sono, in questa legge, non aggravatele.

Perciò, noi voteremo contro l’emendamento proposto.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Non voglio entrare nel merito della politica demografica. Qui c’è un fatto concreto: ci sono famiglie numerose che non possiedono niente e ci sono famiglie numerose che possiedono qualche cosa. Io dico che queste devono pagare come pagano le famiglie non numerose. Questo è il problema essenziale.

La Commissione ha accolto il principio che si debba tener conto di questa situazione; il Governo è andato anche un po’ oltre, consentendo l’aumento di 50.000 lire nella dotazione per ogni figlio, come massimo. Non si può andare al di là, perché 300 mila lire per 20 figli costituirebbero 6 milioni.

Quindi, in sostanza, noi resteremo nei limiti dei patrimoni piccoli, e per detrazioni modeste.

Io credo che la formula della Commissione, temperata dall’emendamento proposto dal Ministro, sia accettabile per tutti, senza scendere ad esaminare con troppi dettagli le conseguenze di carattere demografico, che possono derivare da una legislazione, la quale da noi non dovrebbe più aver seguito.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’onorevole Germano ha presentato un emendamento fatto su misura per il suo caso, come, diciamo, fosse la sua fabbrica di caramelle. (Si ride). È per questo, oltre tutto, che mi pare sia da respingere quell’emendamento. I colleghi onorevoli Scoccimarro e Corbino, come del resto il Presidente della Commissione, hanno chiaramente indicato che non si può fare un trattamento di favore a coloro che hanno una posizione economica con cui possono mantenere numerosi figli. Il massimo che si possa ottenere – è chiaro – è di aumentare da 250 mila a 300 mila la dotazione per ogni figlio. Più di questo assolutamente non è possibile.

ZERBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZERBI. Posto che anch’io sono firmatario di un emendamento, il quale riprende per altra via questo argomento, vorrei chiedere se non sia il caso di cercare una piattaforma di conciliazione delle varie esigenze affiorate nella discussione di stamane, nel riprendere l’articolo 28 così come era stato originariamente formulato.

Si tratterrebbe, in sostanza, di sopprimere il limite dei 10 milioni, quale è comportato dall’emendamento suggerito dalla Commissione. In tal caso potremo soddisfare tutte le esigenze affiorate. Quanto meno dovremmo concordare una elevazione di quel limite, il quale, alla stregua del coefficiente di 1 a 60 assunto dall’onorevole La Malfa nella sua relazione al presente progetto per il confronto tra i valori del 1920 e quelli del 1947, corrisponde a circa 166 mila lire.

Ritengo che su questo piano potremmo trovare la conciliazione delle varie esigenze ed io rinuncerei a svolgere il mio emendamento.

PRESIDENTE. Ma questo emendamento si riferiva all’articolo 29 e adesso non lo svolgiamo per non creare confusioni. Infatti, ora stiamo discutendo dell’emendamento dell’onorevole Germano. Lei fa una proposta?

ZERBI. Sì, propongo di armonizzare i due articoli 28 e 29.

LA MALFA, Relatore. Mi scusi onorevole Zerbi, ma il suo emendamento è un po’ troppo complesso.

PRESIDENTE. All’articolo 29, secondo l’emendamento dell’onorevole Zerbi, i 100 milioni sarebbero ridotti a 50.

LA MALFA, Relatore. La Commissione accetta di portare a 300.000 il massimo, aderendo al suggerimento dei colleghi. Oltre questa cifra andremmo addirittura in un campo di formule logaritmiche.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Formulo definitivamente il pensiero del Governo, nel senso di portare le 250.000 lire a 300.000 lire, restando fermo l’ulteriore testo della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Germano, mantiene il suo emendamento?

GERMANO. Lo mantengo: la finanza ci rimetteva con il testo iniziale e non con l’altra redazione.

TOZZI CONDIVI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOZZI CONDIVI. Ho presentato anche io un emendamento, che potrebbe essere votato insieme con questo, dato che è ad esso connesso. Vorrei illustrarlo brevemente.

PRESIDENTE. Il suo emendamento può essere votato dopo quello dell’onorevole Germano, perché propone la soppressione dell’ultima parte del terzo comma. Potremo mettere prima in votazione l’emendamento Germano, e successivamente l’approvazione del terzo comma del testo della Commissione con la modifica che porta le 250.000 lire a 300.000.

CANNIZZO. Non si potrebbe mettere in votazione il comma per divisione, lasciando da parte la esclusione dei patrimoni superiori ai dieci milioni di lire?

LA MALFA, Relatore. Quando metteremo in votazione il terzo comma, voteremo per divisione l’ultimo periodo.

PRESIDENTE. Porrò dunque ai voti innanzi tutto la prima parte dell’emendamento dell’onorevole Germano, che propone di sostituire il primo periodo del terzo comma col seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire un milione e cinquecentomila, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire cinquecentomila per ogni figlio».

UBERTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI. Siamo contrari all’emendamento dell’onorevole Germano, e voteremo il testo della Commissione, in seguito all’elevazione del massimo da 250 mila a 300 mila, accettata dal Governo.

GERMANO. Ma il Ministro non aveva detto di voler fare una transazione fra quello che era il testo dell’emendamento ed il testo della Commissione?

PRESIDENTE. Il Ministro ha aderito al testo della Commissione. Se lei crede, può modificare l’emendamento, con le diverse cifre che sono state accettate dal Governo.

GERMANO. La mia modifica è per 2 milioni, più 300 mila lire per ogni figlio.

PRESIDENTE. L’emendamento sarebbe allora così formulato:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di lire 2 milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari ad un ventesimo con un massimo di lire 300 mila per ogni figlio».

LA MALFA, Relatore. Ma questo è il testo della Commissione!

PESENTI. Mi pare che sarebbe più logico dire che l’onorevole Germano accetta la proposta della Commissione. Non so se questo sistema di modificare all’ultimo momento un emendamento serva solo per far scrivere sui giornali di provincia che è stato accettato un proprio emendamento!

SCOCCIMARRO. Noi voteremo a favore del testo della Commissione.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Germano se mantiene il suo emendamento.

GERMANO. Lo ritiro e aderisco al testo della Commissione.

PRESIDENTE. Pongo allora ai voti il terzo comma dell’articolo 28 con la modifica concordata fra Commissione e Governo, per cui la cifra da 250 mila diventa 300 mila. Il testo è il seguente:

«Dal cumulo dei patrimoni tassabili dei genitori, al netto ciascuno della detrazione fissa di due milioni, è ammessa una ulteriore detrazione pari a un ventesimo con un massimo di lire 300 mila per ogni figlio. Questa detrazione si distribuisce proporzionalmente tra i due patrimoni».

(È approvato).

Segue l’emendamento aggiuntivo proposto dagli onorevoli Germano, Cimenti, Burato, Baracco, Bellato, Montini, Garlato, Roselli, Schiratti, Ferrario Celestino, Bastianetto, Pat, Rapelli, Ermini, Marconi, Corsanego, del seguente tenore:

«Alla fine del comma, dopo le parole: 10 milioni di lire, aggiungere: ad eccezione delle famiglie con sette o più figli a carico».

GERMANO. Rinunzio all’emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene.

Segue l’emendamento soppressivo proposto dagli onorevoli Tozzi Condivi, Arcangeli, Ponti, Franceschini, Angelucci, Cappi, Foresi, Cotellessa, Rescigno, Cremaschi Carlo:

«Al terzo comma, sopprimere il periodo:

«La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione, superi i 10 milioni di lire».

L’onorevole Tozzi Condivi ha facoltà di svolgerlo.

TOZZI CONDIVI. Onorevoli colleghi, la situazione è tale che richiede una parola chiara. Si cerca di ricorrere a delle espressioni fatte, in questo campo: qui è necessario, invece, seguire semplicemente la logica e la giustizia.

Quando si è trattato di andare incontro agli interessi dei piccoli patrimoni, noi ci siamo andati, votando una rateizzazione maggiore di quella proposta dalla Commissione e dal Governo.

Qui, la Commissione ed il Governo hanno accettato una detrazione in favore di ciascuno dei figli portandola a 300.000 lire. Ora, io domando alla Commissione e al Governo: quando hanno fissato questo limite, che cosa hanno voluto fissare? Hanno voluto porre un limite a questo beneficio, per modo che coloro che avessero un patrimonio molto grande non usufruissero di quel beneficio, se non fino al limite di 300.000 lire.

Il concetto della limitazione è contenuto già in questo limite di 300.000 lire. Quando mi mettete un successivo limite di 10 milioni, portate l’argomento su di un altro piano, portate una seconda limitazione contro giustizia e contro logica. Contro giustizia, perché in questa maniera, quando c’è una famiglia numerosa, non venite a concedere questo beneficio, in quanto questa famiglia si trova in condizioni inferiori rispetto ad un’altra meno numerosa.

Quindi, quando noi diciamo: «togliete questo limite di 10 milioni» vogliamo portare un principio di giustizia e di logica in questa legge, vogliamo dire che coloro che hanno una famiglia numerosa e hanno 10 milioni, possano beneficiare di questo ventesimo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione ha posto un limite perché, al di là di un certo patrimonio, la somma di 300.000 lire per un figlio non ha più alcun significato. Se il patrimonio è piccolo, questa detrazione ha un significato, ma se il patrimonio è grande, detrarre 300.000 lire diventa una inutile complicazione.

C’è una relazione tra detrazione e patrimonio e noi non possiamo sopprimere questa relazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo insiste perché sia mantenuto fermo il limite di 10 milioni. Facendo l’ipotesi che ogni contribuente abbia in media un figlio e supposto che i contribuenti siano un milione, la perdita ammonterebbe a un milione di volte 300.000 lire; esiste, quindi, una legittima preoccupazione in ordine al gettito.

Per questo, prego gli onorevoli proponenti di non insistere sul loro emendamento.

SCOCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCA. Occorre un chiarimento. Effettivamente, il mantenimento del limite fisso di dieci milioni, secondo me, può creare delle disparità, può mettere cioè in condizioni deteriori colui il quale abbia undici milioni di patrimonio ed abbia dei figli, di fronte a colui il quale, avendo nove milioni di patrimonio, o nove milioni e rotti, abbia lo stesso numero di figli.

Secondo la norma in esame, chi abbia nove milioni di patrimonio è ammesso alla detrazione; per chi invece abbia undici milioni o dieci milioni e una lira non è ammessa la detrazione. Se, pertanto, il limite ci vuole, se l’Assemblea è del parere che il limite debba essere fissato, bisognerà che essa studi un espediente attraverso il quale non sia posto in condizioni di inferiorità colui che ha un patrimonio lievemente superiore a quello dei dieci milioni, di fronte a colui che lo ha lievemente inferiore.

Mi pare, infatti, evidente che, se la norma si mantiene qual è, veniamo a porre un limite che crea delle disparità e delle ingiustizie.

CANNIZZO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. A me pare che un limite ci sia già nella legge: è proprio il limite delle 300.000 lire, che per i grandi patrimoni non influirà molto sulla riduzione eventuale delle aliquote.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Io penso che l’obiezione sollevata dall’onorevole Scoca si possa facilmente risolvere con i soliti accorgimenti tecnici già in atto per altri tributi per evitare delle sperequazioni. Desidero osservare a coloro che propongono di togliere ogni limite, che la Commissione ha concepito questo problema non nel senso di concedere la detrazione per i figli a chiunque, ma nel senso di portare una qualche agevolazione ai patrimoni medi e si è fissata al limite dei dieci milioni.

Se pertanto si propone di togliere questo limite, avverto che presenterò un emendamento che proporrà di togliere ogni detrazione per i figli.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. L’osservazione fatta dall’onorevole Scoca contempla effettivamente un caso che si potrebbe verificare. Per ovviare all’inconveniente da lui lamentato, io credo che sarebbe sufficiente sostituire l’espressione «al lordo» con l’espressione «al netto». Se io infatti, con la detrazione, supero i dieci milioni, è evidente che non avrò diritto alla detrazione, mentre, se fossi al di sotto, ne avrei diritto.

Si tratta sempre di un limite.

PRESIDENTE. Onorevole Tozzi Condivi, mi pare che ci si stia avviando verso una modificazione del suo emendamento.

TOZZI CONDIVI. Ad una eventuale modificazione, onorevole Presidente, potrò anche accedere, ma il principio che io ho inteso affermare sono convinto che è un principio di giustizia e quindi lo mantengo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Desidero far rilevare che l’osservazione sollevata dall’onorevole Scoca non si presenta soltanto nel caso in oggetto, ma si presenta tutte le volte che si stabilisce un limite. Ora, non si può fare un sistema fiscale basato tutto su aliquote.

La Commissione, pertanto, aderisce al criterio dell’onorevole Corbino, che si dica cioè «al netto» anziché «al lordo» della detrazione stessa.

PRESIDENTE. Qual è il parere del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. In questo articolo si parla due volte di detrazione, una volta della detrazione dei due milioni, il cosiddetto «abbattimento» alla base; l’altra volta della cosiddetta detrazione del ventesimo per ogni figlio, con un massimo di 300.000 lire. Desidererei, quindi, chiedere a quale delle due detrazioni si riferisca la frase «non si applica quando il cumulo, al lordo della detrazione…».

LA MALFA, Relatore. È sempre la detrazione per i figli.

CORBINO. È meglio chiarire.

PELLA, Ministro delle finanze. È vero, è meglio chiarire, perché l’equivoco potrebbe essere possibile, in quanto il comma si inizia facendo riferimento al patrimonio netto della detrazione dei due milioni.

LA MALFA, Relatore. Io lascerei: «la detrazione stessa», perché implicitamente questo riferimento è chiaro. «La detrazione stessa non si applica, quando il cumulo, al netto di essa, superi i dieci milioni di lire».

CORBINO. D’accordo.

PELLA, Ministro delle finanze. Accetto la formula.

PRESIDENTE. Onorevole Tozzi Condivi, mantiene il suo emendamento?

TOZZI CONDIVI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Allora pongo ai voti l’emendamento Tozzi Condivi ed altri, soppressivo del terzo comma.

(Non è approvato).

Pongo ora ai voti il testo proposto dalla Commissione ed accettato dal Governo:

«La detrazione stessa non si applica quando il cumulo, al netto di essa, superi i dieci milioni di lire».

(È approvato).

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 28 si intende approvato con le modificazioni testé votate.

PRESIDENTE. Passiamo all’articolo 29 nel testo proposto dalla Commissione. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinato in base alle seguenti aliquote, riferite al patrimonio al lordo delle detrazioni indicate nell’articolo precedente ed applicate sul patrimonio al netto delle detrazioni suddette:

per i patrimoni di:

3.000.000 di lire              6,00   %

5.000.000                       7,23   %

10.000.000                     8,53 %

50.000.000                     13,57 %

100.000.000                   17,50 %

200.000.000                   23,29 %

500.000.000                   35,46 %

1.000.000.000                 50  –  %

1.500.000.000 ed oltre     61,61 %

«Per i patrimoni intermedi la misura dell’aliquota è determinata in base alla formula seguente:

y = 6 + 0,0002885 (x – 3.000.000) 0,576

nella quale x rappresenta la cifra del patrimonio imponibile e y l’aliquota.

«I patrimoni imponibili vengono arrotondati nel seguente modo:

 

 

Lire

Lire

Per unità di lire

tra

3.000.000 e

5.000.000

50.000

 

5.000.001 e

10.000.000

100.000

 

10.000.001 e

50.000.000

200.000

 

50.000.001 e

100.000.000

500.000

 

100.000.001 e

200.000.000

1.000.000

 

200.000.001 e

500.000.000

2.000.000

 

500.000.001 a

1.000.000.000

5.000.000

 

1.000.000.001 ed oltre

 

10.000.000

«Con decreto del Ministro per le finanze sarà pubblicata una tabella indicante le aliquote e la misura d’imposta corrispondente alle varie cifre di patrimoni imponibili.

«Le società, ditte ed enti costituiti all’estero debbono l’imposta sul patrimonio accertato al loro nome con aliquote corrispondenti ad un terzo, con il massimo del 10 per cento».

PRESIDENTE. A questo articolo sono stati proposti parecchi emendamenti ed articoli aggiuntivi.

Il primo, degli onorevoli Cannizzo, Tumminelli, Russo Perez, Venditti, Corsini, Salvatore e Rescigno è del seguente tenore:

«Sopprimere il testo della Commissione e ripristinare il testo governativo».

L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CANNIZZO. So di accingermi ad un’impresa quasi disperata (Si ride) perché tutti gli attacchi che sono stati mossi contro questo castello costituito dall’imposta sul patrimonio hanno incontrato un duplice ordine di sbarramenti, due trincee ben munite, difese, una dal Ministero e l’altra dall’onorevole La Malfa, che io vorrei chiamare il defensor fisci…

LA MALFA, Relatore. Della Commissione.

CANNIZZO. …della Commissione. Ad ogni modo, siccome devo ricordare che scopo precipuo dei Parlamenti fu appunto quello di insorgere contro tutti gli abusi del fisco, mi propongo di parlare per sostenere di tornare al testo governativo perché non so spiegarmi il motivo di questa variazione nella progressività delle aliquote.

Potrebbero essere addotti due argomenti a favore: o che lo Stato abbia bisogno di una determinata cifra prescindendo dalla capacità contributiva del popolo italiano, oppure che vi sia il presupposto che questa capacità contributiva esiste.

Non mi risulta che vi sia stato sulla capacità contributiva un attento esame o, per lo meno, che in Parlamento o dal Governo siano stati addotti argomenti idonei a dimostrare che potrà la imposta riscuotersi senza far crollare tutta l’economia italiana.

Si è detto che le aliquote non verranno integralmente applicate perché vi è grande differenza fra valore reale e valore fiscale. Mi permetto di dire che se questa osservazione può esser fatta – in certo senso – quando si parli dell’imposta proporzionale (sempre che l’onorevole Ministro assicuri che gli uffici delle imposte osserveranno le circolari che disse di avere inviato quando si trattò dell’emendamento Bosco Lucarelli), non può farsi per l’imposta progressiva.

Noi abbiamo infatti casi in cui il valore reale sarà addirittura inferiore al valore fiscale, e questo desumo non solo dai miei apprezzamenti ma dalle discussioni fatte in Assemblea.

Il valore fiscale sarà in un primo tempo modificato ed aumentato da tutte le tabelle che saranno adottate dalle Commissioni censuarie, in sede di accertamento definitivo. E non è dato prevedere fin d’ora quali saranno questi aumenti.

Ma c’è di più: accanto agli accertamenti rigidi e meccanici si è posto come correttivo il criterio della presunzione da tenore di vita. In materia di presunzione, giuoca sempre l’arbitrio e l’ingiustizia.

Ho letto pochi giorni fa (si trattava di tassa di famiglia, e come sapete bene, le tre imposte che possono essere accertate col criterio induttivo sono appunto l’imposta patrimoniale, la complementare e l’imposta di famiglia); ho letto pochi giorni fa sul Giornale d’Italia che un accertamento è stato portato da settemila lire a 432 mila lire solo perché un funzionario del comune di Roma, recatosi in casa del contribuente, vi aveva trovato dei fiori che vi erano stati portati il giorno precedente in occasione di una festa di famiglia.

Casi simili si ripeteranno in Italia e contribuiranno notevolmente ad elevare il valore fiscale fino al limite del valore reale ed oltre.

Vi è un altro esempio, quello delle case con fitti bloccati. Anche in questi casi il valore fiscale si avvicinerà o supererà quello reale.

In proposito, da parte del Governo si è detto che il blocco dei fitti potrebbe essere revocato o modificato. È sempre un’opera altamente meritoria di dare speranza ai contribuenti. Credo però che le speranze rimarranno tali e tutt’al più potranno servire a far sopportare con maggiore rassegnazione la notifica delle cartelle dell’esattore.

Ma vi è un caso chiarissimo in cui il valore fiscale supera il reale. L’abbiamo creato ieri quando è stato respinto l’emendamento Cifaldi circa la media decennale dei prezzi da tenere a base della valutazione dei canoni in natura. L’emendamento che feci mio per l’assenza dell’onorevole Cifaldi, è stato respinto. Avremo, e per legge, in questo caso un valore fiscale enormemente superiore al reale.

Il contribuente si conforterà pensando che le opere di beneficenza, i benefici ecclesiastici e molte zone che hanno il loro patrimonio prevalentemente composto di canoni enfiteutici, sono stati esclusi dall’imposta. Che l’aliquota sia esagerata, risulta poi da una concorde ammissione fatta da tutti i settori di quest’Aula quando si è parlato dei piccoli contribuenti. Tutti sono stati d’accordo nella difesa del piccolo contribuente. Non mi è mai sorto il dubbio che questo interessamento fosse dovuto al fatto che la categoria dei piccoli contribuenti è la più numerosa. Se questa idea mi fosse venuta l’avrei scacciata, perché non penso che discutendo la legge si sia potuto fare della propaganda elettorale. Credo invece che questa categoria sia stata presa ad esempio per dimostrare che se sarà impossibile pagare le aliquote più basse, l’impossibilità a maggior ragione esisterà quando si tratterà d’applicare quelle più alte. L’imposta sul patrimonio può essere, senza far crollare l’economia generale, pagata soltanto quando, attraverso una lunga rateizzazione nel tempo, si possa equiparare ad un’imposta sul reddito. Un’imposta che si applichi direttamente sul patrimonio, è addirittura inconcepibile, antigiuridica e rovinosa. Poi, quasi che le aliquote fissate dal Governo fossero basse, non sappiamo spiegarci perché siano state aumentate. O sono aumentati i bisogni dello Stato o vi sono dei nuovi elementi dai quali si può dedurre che la capacità contributiva del contribuente sia ancora di più aumentata. Credo che non si possa dimostrare né l’una né l’altra tesi. Questo aumento è anche assurdo e non depone in favore della politica finanziaria del Governo, in considerazione anche del fatto che il decreto per l’imposta sul patrimonio, colle aliquote già note, è stato da molto tempo pubblicato, e molte denunce sono state fatte in base a questo decreto. Questo brusco aumento non si giustifica in nessun modo e non solo non sono stati approfonditi i motivi che hanno indotto la Commissione ad accettarlo, ma non ho inteso nemmeno accennarli. Il contribuente vorrà invece conoscerli questi motivi. Perché anche qui le ipotesi sono due: o da quando si varò il decreto dell’imposta sul patrimonio ad oggi i bisogni dello Stato sono cresciuti a tal punto da rendere necessario l’aumento delle aliquote (ed allora bisogna dare subito al contribuente la garanzia che anche le spese dello Stato vengano contenute perché fra due o tre anni sarà necessario, diversamente un nuovo galoppo); ovvero sono sorti dei fatti nuovi per determinare una maggiore capacità contributiva nel contribuente.

La verità è, onorevoli colleghi, che stiamo slittando sopra un terreno molto accidentato, perché stiamo gravando il contribuente di una imposta tale che non potrà essere pagata; e lo stiamo mettendo nelle condizioni di colui che è obbligato a fare il lavoro che solo in un tempo determinato possono fare dieci persone. Questi o incrocerà le braccia o comincerà a sperare nell’intervento di forze estranee o vorrà che si determini qualche fatto nuovo che lo aiuti nello svolgimento del suo lavoro, ed il fatto nuovo desiderato potrà essere la svalutazione della lira.

E voi avrete creato anche nel contribuente, che era interessato alla rivalutazione, questa mentalità disfattista che non lo cointeresserà in quella lotta che il Governo sta riprendendo per sanare le finanze, perché ha opposto interesse. Ecco perché, pure essendo sicuro che le mie ragioni saranno inesorabilmente respinte dal Governo e dalla Commissione, insisto nel mio emendamento. Se non altro, avrò fatto il mio dovere.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore, La Commissione, avendo proposto un elevamento di aliquote, non può che respingere l’emendamento Cannizzo. Devo dire però che l’onorevole Cannizzo, quando vuol giudicare le ragioni per cui la Commissione ha elevato le aliquote, si deve riferire sempre alla situazione base da cui siamo partiti, cioè l’imposta straordinaria proporzionale che, come diceva l’onorevole Scoccimarro, colpisce con il 4 per cento i patrimoni di 100 mila lire. Ora, se da questo 4 per cento arriviamo al 17 per cento per i patrimoni di 100 milioni, non mi pare che abbiamo qui perpetrato un sistema di ingiustizia tributaria.

D’altra parte, io e la Commissione consideriamo questa legge sull’imposta straordinaria come un correttivo anche a quella che è stata la difficoltà con cui il sistema tributario si è adattato alla situazione che si è creata con la svalutazione della lira. I congegni tributari non hanno potuto seguire la svalutazione della lira nonostante che i Ministri succedutisi alle Finanze abbiano lavorato attivamente per questo.

Ora, queste aliquote servono a recuperare quello che il fisco in un certo senso non ha percepito da molti anni a questa parte. Guardate anche da questo punto di vista, le aliquote non sono alte per i patrimoni fino a 100 milioni: sono tutt’altro che alte; ed a nostro giudizio sono sopportabili. Per i patrimoni al disopra dei 100 milioni entra un altro criterio. Siccome i piccoli patrimoni, benché non abbiano una grande capacità contributiva, sono stati tassati perché rappresentano la massa del gettito fiscale, per ragioni di giustizia abbiamo dovuto tassare fortemente i grossi patrimoni. La Commissione prega i colleghi di non insistere sulla modificazione delle aliquote.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il suo parere.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non può dare parere favorevole all’emendamento Cannizzo. Già in occasione delle riunioni preparatorie, il Governo aveva manifestato il suo consenso ad adeguare le tabelle delle aliquote. La nuova tabella sostanzialmente era già concordata con il Governo. Per questo devo pregare l’Assemblea di mantenerla ferma.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Aderisco al testo della Commissione, accettato dal Governo. Può sembrare strano che da questa parte della Camera venga la conferma della richiesta di aliquote così alte.

SCOCCIMARRO. Sembra strano che venga da lei! Ne siamo felici.

CORBINO. Mi permetto di farle notare, onorevole Scoccimarro, che in un progetto d’imposta sul patrimonio da me preparato nel 1944 proponevo aliquote che al di là di certe cifre arrivavano al cento per cento e proponevo queste aliquote perché noi abbiamo applicato e stiamo applicando in Italia, per alcuni patrimoni, un’imposta reale che supera il 99 per cento del patrimonio. Mi riferisco a tutti coloro che erano creditori dello Stato per somme prestate anteriormente al 1914 che hanno pagato e che pagano il 99,70 per cento del patrimonio, con un’imposta reale che si applica anche per i patrimoni di 100 lire che nel 1914 potevano costituire il risparmio di una persona di servizio che avesse lavorato per vent’anni.

Del resto, le guerre hanno questa funzione: di facilitare lo spostamento della ricchezza da una categoria all’altra, e di eliminare coloro che sono molto al di sopra del patrimonio medio. Nel nostro Paese costoro non sono molti. Le aliquote altissime non colpiranno che pochi casi, e per questi pochi casi, cioè a dire di gente che dovrà pagare il 61,61 per cento su un patrimonio fiscale superiore al miliardo e mezzo, e che resterebbe con un patrimonio fiscale di 600 milioni almeno, io domando se nessuno di noi, se nessuno di tutti gli altri contribuenti italiani, non saremmo disposti a prendere la posizione di questi contribuenti, pagare il 60 per cento, e trattenere il 40 per cento per conto proprio.

C’è un contenuto sociale in questa legge; c’è un contenuto politico…

SCOCCIMARRO. Finalmente lo dice anche lei!

CORBINO. L’ho sempre detto. C’è un contenuto politico e il contenuto politico è questo: che se vi sono dei danni da riparare, delle ricchezze da ricostruire, l’onere più forte deve cadere su chi ha di più. (Applausi generali).

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il suo parere.

PELLA, Ministra delle finanze. Aderisco al testo della Commissione.

PRESIDENTE. Debbo porre ora ai voti l’emendamento dell’onorevole Cannizzo.

CANNIZZO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Sta bene. Seguono gli emendamenti dell’onorevole Rescigno:

«Al primo comma, sopprimere l’alinea: 3.000.000 di lire …6,00 per cento».

«Al terzo comma, sopprimere l’alinea: tra 3.000.000 e 5.000.000 …50 per cento».

Questi emendamenti si intendono assorbiti.

RESCIGNO. D’accordo.

PRESIDENTE. Vi è ora l’emendamento dell’onorevole Veroni così concepito:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«Per i patrimoni costituiti per oltre la metà del loro valore di fabbricati soggetti al regime vincolistico, le aliquote di cui sopra vengono ridotte ad un terzo per i patrimoni sino a 10 milioni di valore e alla metà per quelli di valore superiore».

L’onorevole Veroni ha facoltà di svolgerlo.

VERONI. Questo mio emendamento, come quello degli onorevoli Crispo, Cifaldi, ed altri, è inteso ad alleggerire le pressioni tributarie sugli immobili, soggetti al vincolo dei fitti.

Ora il Presidente della Commissione ed il Ministro delle finanze hanno avuto occasione di dichiarare che per questa grave situazione creata ai fabbricati oppressi da regime vincolistico, bisogna riportarsi alla disposizione dell’articolo 10 della legge in discussione che prevede la loro discriminazione riferibilmente all’accertamento del loro valore: non si tratta, infatti, di determinazione di aliquote, ma di determinazione di valore.

Pur riconoscendo ciò, io vorrei, anche a nome degli altri colleghi che hanno presentato un separato emendamento, cioè gli onorevoli Crispo, Cifaldi ed altri, sapere dal Ministro ed anche dal Presidente della Commissione, che ha preparato questa dizione diversa dalla proposta ministeriale, che significato ha il generico proposito di «discriminare» i fabbricati secondo che siano o meno soggetti a regime vincolistico. Con quali criteri avverrà questa discriminazione?

Questo è bene si sappia, dopo di che noi ci indurremo a ritirare o meno l’emendamento.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo ha già avuto occasione di esprimere il suo pensiero al riguardo, quando ebbe ad osservare che, a suo avviso, l’esplicita discriminazione fra fabbricati soggetti o meno a regime vincolistico era sostanzialmente pleonastica, poiché la Commissione censuaria centrale, dovendo procedere alla determinazione del valore venale dei fabbricati per il periodo di riferimento, evidentemente deve considerare tutti gli elementi che concorrono a determinare questo valore ed in prima linea il reddito, che è uno degli elementi essenziali per la determinazione del valore capitale.

Tutto ciò può essere fatto dalla Commissione censuaria centrale sulla base della situazione del mercato, poiché è notorio che i fabbricati soggetti a regime vincolistico valgono molto meno di quelli che non sono soggetti a tale regime.

Quindi la portata dell’emendamento, ad avviso del Governo, è che la Commissione censuaria dovrà tener conto del minor reddito di questi fabbricati per adottare una valutazione più bassa, ciò che del resto ha già accusato il mercato con le sue leggi meccaniche.

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Tenendosi conto di queste ampie dichiarazioni che ha fatto il Ministro e che potranno servire di norma alla Commissione centrale censuaria e più tardi ai competenti Uffici delle imposte, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Vi è ora il seguente emendamento aggiuntivo degli onorevoli Crispo, Morelli Renato, Bozzi, Cifaldi, Perrone Capano e Rubilli:

«Aggiungere, in fine, le parole seguenti: Per i patrimoni costituiti prevalentemente da fabbricati soggetti a regime vincolistico le aliquote suddette vengono ridotte alla metà».

I proponenti lo mantengono?

CIFALDI. Se permette, desidererei mantenerlo.

PRESIDENTE. Lo pongo allora ai voti.

(Non è approvato).

 

Passiamo all’emendamento Cannizzo cui ha dichiarato di aderire l’onorevole Foresi:

«Aggiungere, in fine:

«Nel caso di morte del contribuente tra il 28 marzo 1947 ed il 30 settembre 1947, all’asse ereditario sarà applicata l’aliquota di imposta pertinente al quoziente risultante dalla divisione del patrimonio del contribuente per il numero dei figli».

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Mi pare che i colleghi devono essere d’accordo nel ripudiare questo emendamento. Esso va contro i principî che sono basilari in materia finanziaria; e tanto meno in questa imposta, che è così importante, può essere lecito creare delle eccezioni che più tardi potrebbero essere poi invocate in casi consimili.

L’elemento essenziale in materia finanziaria è la data a cui va riferita l’esistenza del cespite da assoggettare al tributo; e qui con l’articolo 1 si è perentoriamente stabilita la data del 28 marzo 1947. Pertanto, ogni evento successivo a quella data non può in alcun modo avere efficacia. La data della denuncia è elemento solo accidentale; e poiché d’altra parte il termine della denuncia può essere suscettibile di variazioni (già fu variato due volte questo termine dopo l’emanazione del decreto) è ovvio che non si possa lasciare alla stessa volontà del contribuente la decorrenza della data agli effetti dell’emendamento proposto.

È insomma indispensabile che rimanga fissa e per tutti uguale la data cui l’accertamento va riferito; il che non risponde solo ad un principio che è incontestabile, non potendosi tenere conto dei fatti successivi, ma è anche necessario se si vuole che l’imposta abbia a dare il gettito ripromesso. Gli onorevoli colleghi avranno certamente subito avvertito la gravità delle conseguenze in caso di accoglimento della proposta; ed invero nel caso che un padre avente dieci milioni venga a decedere dopo il 28 marzo 1947, secondo l’emendamento il patrimonio si dividerebbe tra i figli e in concreto quindi l’imposta progressiva sarebbe elegantemente elusa.

Invito pertanto i colleghi a respingere l’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

CANNIZZO. Io chiedo di svolgere il mio emendamento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANNIZZO. Se il collega mi avesse prima ascoltato, non avrebbe fatto molte delle sue osservazioni.

BUBBIO. Sarà difficile che mi convinca; la questione è dura.

CANNIZZO. So perfettamente che il mio emendamento ha carattere eccezionale, e che il Governo e la Commissione mi obietteranno che l’imposta colpisce i patrimoni secondo la loro consistenza al 28 marzo 1943. Ma ritengo che, in sede di emendamenti, si possa proporre una disposizione eccezionale.

Ci troviamo in presenza di un evento che nessuno può affrettare o ritardare: la morte. La questione è di esaminare se, in considerazione di determinati casi pietosi, si possa accettare il principio della deroga alla legge; poiché, lo riconosco, si tratta di derogare alla legge. Mi pare che sia doveroso aiutare una famiglia quando è colpita dalla morte del padre, che lascia figli in tenera età, i quali non hanno ancora l’abilità di potere badare agli affari, che devono pagare le spese funebri e di malattia e l’imposta di successione. Si vorrà fare differenza tra grandi e piccoli patrimoni? Non credo. Si tratta di affermare un principio e la morte del resto non fa distinzione.

Potrei accogliere un criterio limitativo, nel senso di non portare la data al 30 settembre 1947; ma dichiaro che mi sono riferito a quella data, perché è la data del termine di presentazione delle denunce.

PRESIDENTE. L’onorevole La Malfa ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA. Relatore, La Commissione non ha nulla da aggiungere alle osservazioni, esattissime, fatte dall’onorevole Bubbio. Il patrimonio si accerta al 28 marzo 1947. Non possiamo tener conto di quello che succede dopo, anche perché quelli che muoiono dopo il 30 settembre vengono a trovarsi in una situazione di svantaggio. C’è una ragione di logica. All’articolo 3 abbiamo cumulato i patrimoni già divisi; sarebbe strano che qui dividessimo i patrimoni uniti.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è contrario all’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

Ciò che avviene posteriormente al 28 marzo non può influire sull’applicazione dell’imposta.

Abbiamo respinto la possibilità di tener conto di determinate detrazioni per eventi che possono verificarsi posteriormente al 28 marzo, anche in casi in cui un atto di generosità poteva essere opportuno.

Non l’abbiamo potuto fare per la ferrea logica della legge. Per questo mi duole di non potere aderire al temperamento chiesto dall’onorevole Cannizzo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Cannizzo.

(Non è approvato).

LA MALFA, Relatore. A nome della Commissione, propongo di sopprimere l’ultimo comma dell’articolo proposto dalla Commissione stessa e così formulato:

«Le società, ditte ed enti costituiti all’estero debbono l’imposta sul patrimonio accertato al loro nome con aliquote corrispondenti ad un terzo, con il massimo del 10 per cento».

Questo comma può essere trasferito, a suo tempo, nel titolo relativo agli enti collettivi.

PELLA, Ministro delle finanze. Mi associo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la soppressione del comma proposta dalla Commissione.

(È approvata).

L’articolo 29 si intende pertanto approvato nel testo proposto dalla Commissione, con la soppressione dell’ultimo comma.

Vi è ora la proposta del seguente articolo 29-bis presentata dagli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani e Lombardi Riccardo:

«Il patrimonio imponibile delle società, le cui azioni sono quotate in borsa, è valutato in base alla media dei prezzi di compenso del trimestre indicata dall’articolo 18.

«In tale valore imponibile nessuna detrazione è consentita.

«Il patrimonio imponibile delle società ed enti diversi da quelli indicati nel comma precedente è valutato in base alle disposizioni degli articoli 9 e seguenti della presente legge.

«In tale patrimonio imponibile sono detraibili soltanto le passività afferenti ai cespiti patrimoniali che formano oggetto imponibile».

Poiché tale emendamento riguarda gli enti collettivi, sarà esaminato quando si discuterà di tale materia.

Gli onorevoli Zerbi, Uberti, Salvatore, Cimenti e Germano hanno proposto il seguente articolo aggiuntivo 29-bis:

«Agli effetti dell’applicazione in via definitiva delle aliquote di cui all’articolo 29, il contribuente il quale, al 28 marzo 1947, avesse almeno due figli viventi o premorti con prole può chiedere di essere ammesso a pagare l’imposta con l’aliquota pertinente al quoziente risultante dalla divisione del proprio patrimonio imponibile per il numero dei figli e delle loro stirpi, esclusi però da tal numero i figli che abbiano un patrimonio proprio soggetto all’imposta a norma dell’articolo 29.

«Quando il coniuge del contribuente abbia un proprio patrimonio imponibile a norma del precitato articolo, il quoziente anzidetto sarà calcolato sul cumulo dei patrimoni imponibili dei coniugi, i quali saranno colpiti, in via definitiva, con la medesima aliquota.

«Qualora il quoziente determinato come sopra risultasse inferiore al minimo imponibile di cui all’articolo 28, il patrimonio del contribuente e quello del coniuge saranno ugualmente soggetti all’imposta con l’aliquota minima.

«Non è ammesso l’esercizio della facoltà di cui al presente articolo quando il patrimonio imponibile accertato oppure il cumulo a norma del secondo comma superino i cento milioni di lire.

«Non potrà esercitare la facoltà accordata dal presente articolo il contribuente il quale non ne abbia fatto esplicita richiesta contemporaneamente alla dichiarazione di cui all’articolo 30. Tale dichiarazione dovrà essere sottoscritta anche dal coniuge nel caso di cui al comma secondo».

L’onorevole Zerbi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

ZERBI. Dopo la sorte subìta dall’opportunissimo emendamento dell’onorevole Tozzi Condivi, il nostro ha ben scarse probabilità di successo. L’emendamento da me proposto insieme con gli onorevoli Uberti, Salvatore, Cimenti e Germano vuole alleviare l’aliquota progressiva dell’imposta in rapporto al numero dei figli del contribuente. A tal fine gli interi patrimoni fiscali dei coniugi vengono cumulati, mentre non si considerano come figli a carico quelli che già abbiano una propria autonomia patrimoniale fiscalmente accertata.

È proposito particolarmente caro alla sociologia cristiana quello di valorizzare il nucleo familiare quale elemento costitutivo della società statale. Ciò dovrebbe autorizzarci a sperare che una porzione non piccola di quest’Assemblea dovrebbe convenire nel riconoscere che, specie in questa sede di tassazione straordinaria, progressiva e patrimoniale, non sia equo ignorare la numerosità della famiglia del contribuente o tenerne il piccolo conto che ne tiene l’articolo 28 votato poc’anzi.

Non è equo – almeno quando non si tratti di patrimoni veramente ingenti – colpire con la medesima aliquota il padre che abbia una prole anche numerosa ed il contribuente che prole non abbia o che abbia un figlio unico.

Ma il nostro emendamento servirebbe anche ad attenuare quello che a parer nostro sarà un inconveniente dell’articolo 3. Con tale articolo vengono ricondotti all’ascendente – agli effetti dell’imposta progressiva – i componenti patrimoniali che, dopo il 28 marzo 1947, siamo passati a discendenti a titolo gratuito – dote esclusa – od anche a titolo oneroso, quando l’accipiente non possa dimostrare di avere pagato con capitali propri. Teoricamente tale cumulo riguarderebbe tanto i beni mobili che gli immobili, ma in linea di fatto esso inciderà quasi esclusivamente sui trapassi immobiliari. Questi, infatti, hanno documentazione solenne e pubblica, mentre i trapassi di ricchezza mobiliare non hanno abitualmente tale documentazione o ne hanno di meno evidente. I trapassi di pacchetti azionari, ad esempio, avranno lasciato tutt’al più traccia in un fissato bollato e nell’annotazione sul libro degli azionisti e nello schedario centrale, se avvenuti dopo l’adozione della nominatività obbligatoria.

Senonché, quando tale trapasso fosse stato suggerito da propositi di esazione fiscale, è da ritenere che il rapporto diretto fra ascendente e discendente sia stato per lo più occultato con l’interposizione di un prestanome e con due fissati bollati, invece di uno: il primo per il trapasso dall’ascendente al prestanome ed il secondo per quello dal prestanome al discendente. Il tutto, fino a pochi mesi fa, era attuabile senz’alcun apprezzabile onere fiscale, onere tuttavia irrisorio rispetto alle gravi aliquote che colpirebbero le grandi concentrazioni patrimoniali.

L’emendamento da noi proposto non respinge affatto, anzi utilizza il cumulo disposto dall’articolo 3 e lo completa estendendolo all’intero patrimonio imponibile del coniuge, e su tale vasto cumulo vorrebbe innestare una larga considerazione del numero dei figli del contribuente.

Ulteriori commenti sono forse superflui a chiarire il contenuto del nostro emendamento.

Non potrà usufruire della facoltà di cui al nostro emendamento chi abbia un cumulo patrimoniale ingente, superiore al massimo di 50 milioni di lire attuali. Nel proporre tal limite abbiamo avuto presente il rapporto di 1 a 60 adottato dall’onorevole La Malfa, a pagina 13 della sua relazione, per la comparazione fra le lire del 1920 e quelle del 1947. Pertanto, il limite proposto corrisponderebbe ad un cumulo patrimoniale massimo di 833.000 lire del 1920.

Ci pare anche di avere evitato molte complicazioni procedurali in quanto si condiziona il diritto del contribuente di usufruire del proposto trattamento speciale ad una sua domanda fatta contemporaneamente alla denuncia patrimoniale, sottoscritta dal coniuge, qualora anche tutto il patrimonio del coniuge debba cumularsi. E con ciò si è esonerata l’amministrazione finanziaria da ogni obbligo nell’amministrazione del nucleo familiare.

PRESIDENTE. Qual è l’avviso della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione non accetta l’emendamento Zerbi.

PRESIDENTE. Qual è l’avviso del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. L’emendamento proposto dall’onorevole Zerbi resterà certamente negli atti parlamentari come un contributo intelligente per la soluzione di un complicato problema, qualora venissero ammessi i presupposti da cui l’onorevole Zerbi parte. Ma siccome l’onorevole Zerbi per primo dovrà convenire che il Governo non può accettare la premessa, non potrà, di conseguenza, stupirsi se non accetto il suo emendamento.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Zerbi.

(Non è approvato).

Vi è ora la proposta di un articolo 29-ter degli onorevoli Pesenti, Scoccimarro, Foa, Valiani e Lombardi Riccardo. L’articolo sarebbe così formulato:

«Sono soggetti ad imposta gli enti collettivi il cui patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente è superiore a cinque milioni.

«L’ammontare dell’imposta da corrispondersi è determinata in base alle seguenti aliquote da applicarsi nel patrimonio valutato a norma dell’articolo precedente:

 

fino a 5 milioni, esenti

 

 

da 5 a

20 milioni

1 %

da 20 a

50   

1,50%

da 50 a

100

2%

da 100 a

250

2,50%

da 250 a

500

3%

da 500 a

1000

3,50%

da 1 a

2 miliardi

4%

da 2 a

5

4,50%

da 5 a

10

5%

da 10 a

20

5,50%

oltre i 20 miliardi

….

6 %

Poiché anche questo articolo riguarda gli enti collettivi, lo rimandiamo a quando verrà posta in discussione la questione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Desidero richiamare l’attenzione del Governo sopra un problema sul quale stiamo concordando un ordine del giorno con gli altri settori della Camera a proposito delle modalità di pagamento specialmente per quanto concerne i contribuenti colpiti da aliquote altissime. Vorrei che il Governo si preoccupasse fin da ora di escogitare i mezzi relativi al versamento dell’imposta in modo che non si determini un grave sconquasso nell’economia nazionale; specialmente avuto riguardo a quei casi in cui una grande parte del patrimonio dovrà essere versata sotto forma di imposta. Prego il Governo di mettere allo studio questo problema fin da questo momento.

LA MALFA, Relatore. Mi associo alla richiesta dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Torniamo allora per un momento indietro ad esaminare gli emendamenti relativi all’articolo 25, di cui molti sono stati già assorbiti e superati con le votazioni successive.

Si dia lettura innanzi tutto del testo dell’articolo 25 proposto dalla Commissione.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Si presume che facciano parte del patrimonio del contribuente le seguenti quote percentuali in conto rispettivamente del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, del danaro, dei depositi e dei titoli di credito al portatore:

 

Fino a

6 milioni

Fino a

10 milioni

Fino a

60 milioni

Oltre

60 milioni

Mobilio, arredamento e gioielli.

3%

5%

7%

10%

Denaro, depositi e titoli di credito al portatore

2%

4%

6%

10%

«Dette quote si computano con riferimento al patrimonio netto, risultante dalla differenza tra il valore lordo delle attività, escluse quelle costituite dai cespiti sopra indicati, e l’ammontare delle passività deducibili.

«Le quote stabilite nel comma precedente rappresentano l’ammontare minimo dei cespiti soggetti all’imposta, al quale si elevano i valori eventualmente dichiarati per una cifra inferiore, fermo l’obbligo, da parte del contribuente, di dichiarare il maggior valore di ognuno dei cespiti indicati effettivamente posseduto, e ferma la facoltà, da parte della finanza, di procedere all’accertamento di maggiori valori in base a dati e circostanze di fatto.

«La quota presunta in conto mobilio, arredamento e gioielli è ridotta alla metà nei riguardi del cittadino e dello straniero residenti all’estero, che abbiano beni nello Stato. La quota non si aggiunge se non risulti che detti contribuenti possiedano del mobilio nello Stato».

A questo articolo è stato presentato un emendamento sostitutivo, dagli onorevoli Bosco Lucarelli, Perlingieri, Turco, Coppi Balduzzi, Titomanlio Vittoria, Salizzoni, De Unterrichter Maria, Caristia e Viale, del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Per i patrimoni superiori ai 5 milioni, e salvo maggiore valutazione, si presume una quota del 3 per cento in conto del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, nonché una quota del due per cento in conto del danaro, dei depositi e dei titoli di credito al portatore».

Non essendo presente l’onorevole Bosco Lucarelli, prego uno dei firmatari, l’onorevole Balduzzi, di dichiarare se intende mantenere questo emendamento.

BALDUZZI. Rinuncio all’emendamento. Faccio mio, invece, l’altro emendamento a firma dell’onorevole Bosco Lucarelli così formulato:

«Nella tabella contenuta nel primo comma alle parole: fino a 5 milioni, sostituire le parole: fino a 10 milioni, e alle parole: fino a 10 milioni, sostituire le parole: fino a 20 milioni».

Rinunzio peraltro a svolgerlo.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. La Commissione ha attenuato in questi casi la gravezza delle aliquote del provvedimento governativo. Infatti, se leggete il testo del disegno di legge, vedete che si fissa una quota del 7 per cento pel mobilio e del 5 per il denaro. La Commissione non intende spostarsi dal testo governativo e prega il collega Balduzzi di non insistere su questo emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Prego l’onorevole Balduzzi di non insistere sull’emendamento perché il testo concordato dal Governo con la Commissione – a parte tutte le critiche che in sede teorica può trovare – in sede pratica risolve abbastanza bene il problema.

PRESIDENTE. Onorevole Balduzzi, mantiene l’emendamento?

BALDUZZI. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento a firma degli onorevoli Condorelli, Quintieri Quinto, Corbino, Colonna, Benedettini, Fabbri e Perrone Capano, così formulato:

«Emendare il primo comma come segue:

«Si presume che faccia parte del patrimonio del contribuente una quota del 7 per cento, in conto del valore del mobilio, dell’arredamento e dei gioielli, nonché una quota del 5 per cento in conto del denaro, dei depositi, dei titoli di credito, nominativi o al portatore».

L’onorevole Condorelli ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Il testo del mio emendamento va naturalmente modificato in relazione all’emendamento ora approvato dalla Commissione, perché io mi riferisco alle quote stabilite nel decreto che andiamo convalidando, mentre le quote che ha stabilito la Commissione e che sono state accettate dal Governo, sono inferiori.

Si tratta di un problema di equità e di giustizia, compatibile anche con le esigenze del fisco.

Tutti quanti abbiamo la coscienza che i titoli di Stato abbiano già largamente pagato questa imposta sul patrimonio, come ora ha detto l’onorevole Corbino con la sua competenza. Ci sono effettivamente titoli di Stato che hanno pagato proprio questa stessa imposta sul patrimonio, nella misura del 99 per cento. Il titolo di Stato meglio trattato sarebbe quello che ha preceduto il Prestito della ricostruzione, che deve aver pagato questa imposta almeno per il 70 per cento.

Ora, sarebbe necessario preoccuparsi di questi titoli di Stato: viceversa, nella legge nulla si è fatto, probabilmente per la impossibilità di stabilire in quale momento erano stati acquistati. Perché chi è detentore di titoli emessi per esempio nel 1914, non è detto che sia il sottoscrittore, anzi, probabilmente, non è il sottoscrittore, può essere un borsaro nero che ha investito in titoli di Stato i suoi male acquistati guadagni.

Però, nel quadro di tutti questi titoli di Stato, quelli che sono stati addirittura maltrattati sono proprio quelli che avrebbero avuto diritto ad una maggiore considerazione. Parlo dei titoli nominativi e dei buoni postali fruttiferi.

Questi titoli nominativi e i buoni postali fruttiferi portano proprio impressa nella loro natura, la loro origine e il contributo vasto che hanno dato, l’esproprio che hanno subito. Questi titoli nominativi, in genere, non sono altro che le doti e i beni dei minori che, non potendosi tener in denaro liquido o in titoli al portatore, sono stati così investiti. I buoni postali fruttiferi sono i risparmi dell’umile gente, che tutto in una volta si vede trasportata, per l’inflazione, nel rango dei milionari.

E noi possiamo dire questo: che un titolo di 10.000 lire vi porta dalla zona esente dall’imposta alla zona tassata.

Ora, il trattamento di rigore che è stato fatto, consiste in questo: che, mentre c’è per tutte le altre possidenze liquide – depositi di banca, denaro contante, titoli al portatore – il conglobamento nella percentuale stabilita dalla legge, i titoli da me considerati si presuppongono come al di là della percentuale, necessariamente al di là.

Questo è ingiusto ed è ingiusto, prima di tutto, dal punto di vista probatorio, perché viene a costituire una presunzione, che è certamente contraria alla verità; perché, in sostanza, noi cosa abbiamo? Che si presume che questi titoli nominativi e buoni postali fruttiferi siano un qualche cosa che sia necessariamente un di più di quella scorta di liquido che presumiamo, necessariamente, in ogni patrimonio.

Ora, questo non è assolutamente vero, perché chi investe denaro preferisce i titoli al portatore, evidentemente. Prendono titoli nominativi quelli che non possono tenere titoli al portatore, principalmente per ragioni attinenti al loro stato civile. Non è che questi siano dei contribuenti che, oltre quei tali titoli al portatore hanno questi altri; sono invece delle persone che hanno titoli nominativi, proprio perché non possono avere titoli al portatore.

Viceversa, noi andiamo a creare, a base del congegno previsto dalla legge, una presunzione che è tutto l’opposto della realtà: che questi titoli nominativi siano posseduti oltre ai titoli al portatore.

Ebbene, penso che, fermo restando l’obbligo della denunzia che è per tutti i beni mobili, questi titoli nominativi e i buoni postali fruttiferi che sono i risparmi della povera gente – di coloro che, non potendo comprare dei cespiti reali, acquistano un titolo, perché chi risparmiava 500 o 1000 lire, l’impiegato, il contadino, non poteva fare altro che andarsi a comprare un buono postale fruttifero, si denuncino, ma siano compresi in questa quota del 5 per cento, o in quella che stabilirà la legge; e che non si debbano presumere necessariamente come un’aggiunta a questa quota. Io spererei che, una volta tanto, la Commissione e il Ministro rinunciassero al sistema di estrema, di eccessiva difesa del fisco, tanto più che quanto da me proposto non potrà spostare sostanzialmente le posizioni, in quanto i titoli nominativi sono pochi.

I buoni postali fruttiferi sono indubbiamente molti, ma hanno tutti quanti quella stessa origine: origine di lavoro, di risparmio faticoso di povera gente, in rapporto alla quale è veramente intollerabile che si faccia un trattamento più rigoroso di quello che si fa ai titoli al portatore.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore a esprimere il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Condorelli, in certo senso, ha posto un problema che preoccupa ed ha preoccupato la Commissione; c’è indubbiamente un certo fondamento di verità in quello che l’onorevole Condorelli ha detto. Tuttavia, come facciamo noi a mettere in una quota presuntiva i titoli nominativi? Da che punto di vista possiamo farlo?

Nel sistema della legge, come possiamo considerare presuntivamente titoli nominativi? Mi pare un assurdo così evidente che, con la migliore buona volontà, la Commissione non si trova in grado di accogliere la proposta.

CONDORELLI. Onorevole Presidente, mi consenta di replicare.

PRESIDENTE. Sia breve, onorevole Condorelli.

CONDORELLI. La obiezione che mi fa l’onorevole La Malfa io l’avevo già prevista. Io non dico che si debba fare un accertamento presuntivo, ma dico che i titoli di cui ho parlato, se non superano quella data percentuale, vadano nella percentuale. In sostanza, infatti, la legge viene a creare una presunzione che è contro la verità: la presunzione cioè che essi vadano oltre la percentuale, mentre essi invece rientrano nella percentuale, rientrano cioè nel 5 per cento.

LA MALFA, Relatore. Ma in verità l’emendamento parla di presunzione.

CONDORELLI. Perdoni. Io non ho grandi doti, ma quella della chiarezza me l’hanno sempre riconosciuta tutti. L’obbligo della denuncia esiste per tutti i titoli: sarà anche vero che i furbi non denunzieranno i titoli al portatore, ma l’obbligo non cessa per questo di esistere.

Io ritengo dunque, che si possa benissimo dire: si presume che facciano parte del patrimonio del contribuente, ecc., ecc., in conto del denaro, dei depositi, dei titoli nominativi e al portatore. Poi c’è il comma successivo che dice: questa quota viene considerata però soltanto come un minimo; se poi di fatto c’è di più, si paga.

Ciò vuol dire che quando sarà fatta la denuncia, e tra titoli al portatore e nominativi, compresi i buoni postali fruttiferi, si abbia superato quel 5 o 7 per cento, sul di più, si dovrà pagare.

Perciò credo che anche questa volta sia stato chiaro.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatori. Non sono d’accordo con l’onorevole Condorelli, in questo senso: che la presunzione, così com’era stabilita nel disegno di legge governativo – fermo restando l’obbligo della dichiarazione – era una presunzione per valori che potevano sfuggire ad un accertamento; in un certo senso la presunzione ha questo significato, e lo dobbiamo confessare. Noi diciamo: dovete denunciare questi valori, ma siccome sono di difficile accertamento, li calcoliamo in via presuntiva. Quando aggiungiamo «nominativi», tutto questo sistema cade. È stato prospettato il caso di beni dei minori investiti in titoli. Vorrei sentire il Ministro su questi determinati casi. Qui vi è una dizione talmente generica che sotto la denominazione di titoli nominativi può passare parecchia roba, mi pare.

PRESIDENTE. Qual è il parere dell’onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. La ragione sistematica dovrebbe portare all’esclusione della richiesta dell’onorevole Condorelli, perché una volta impostato il sistema dell’articolo 25 sull’accertamento presuntivo di ciò che è al portatore, deriva da una tale impostazione l’inammissibilità dell’emendamento.

Vi è un caso che può richiamare la nostra attenzione: il caso del minore intestatario di determinati titoli che sono rimasti al suo nome per più anni e che, quindi, evidentemente, hanno subìto in pieno la svalutazione.

Se l’onorevole Condorelli ritiene che la Commissione e il Governo possano studiare questo problema, credo che si potrebbe ricercare una formula che offra qualche particolare agevolazione per il minore, o per qualche altro caso che sia assimilabile a quello del minore, soprattutto, ripeto, quando è evidente che i titoli, per essere rimasti nelle stesse mani per tutto il periodo dell’inflazione, hanno scontato automaticamente gli effetti dell’inflazione stessa.

Se l’onorevole Condorelli, invece, insistesse per avere una votazione immediata del suo emendamento, dovrei pronunciarmi contro l’emendamento stesso.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, insiste per la votazione?

CONDORELLI. Evidentemente, non posso insistere per la votazione immediata. Prego, però, il Ministro e la Commissione di volermi ascoltare quando esamineranno questo problema.

LA MALFA, Relatore. Vorrei proporre che si voti l’articolo 25 anche per questa parte, salvo ad aggiungere un comma per quei casi che prenderemo in considerazione.

CONDORELLI. Pregherei di lasciare impregiudicata la questione, perché oso sperare di potervi sottoporre degli argomenti che mi daranno ragione anche sulla parte sulla quale non mi sembra che mi si voglia dar ragione. Del resto, dovendo sospendere, mi pare che sarebbe bene sospendere per intero.

LA MALFA, Relatore. Francamente, il primo comma così com’è a me pare che si debba lasciare. Se si devono fare delle eccezioni, facciamole con un titolo specifico, quindi con un comma specifico.

Io apprezzo molto le opinioni dell’onorevole Condorelli e ammetto che mi possa convincere di molte cose, ma spostare la questione sino ad includere, sia pure per inciso, i titoli nominativi, mi pare vada oltre il segno.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Dati i termini in cui si svolge la discussione, sono pronto a ritirare l’emendamento ed a lasciare a voi tutta la responsabilità della cosa!

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Vorrei fare una proposta sul piano pratico. Dall’emendamento dell’onorevole Condorelli nascono dei suggerimenti di cui la Commissione ed il Governo terranno conto. Se per ragioni di ordine procedurale, per il sollecito procedimento dei nostri lavori, riteniamo opportuno di votare – magari respingendolo – l’emendamento dell’onorevole Condorelli, tutto questo deve avere però un significato; che l’emendamento dell’onorevole Condorelli, anche se provvisoriamente respinto, lasci una traccia feconda attraverso l’impegno della Commissione e del Governo di riservarsi la presentazione di altro emendamento che tenga eventualmente conto di buona parte dello spirito della proposta dell’onorevole Condorelli.

PRESIDENTE. Mi pare che, avendo l’onorevole Condorelli ritirato l’emendamento, non sia il caso di metterlo in votazione. L’emendamento sarà tenuto presente dal Governo perché eventualmente prepari un articolo aggiuntivo…

LA MALFA, Relatore. Un comma.

PRESIDENTE. …un comma aggiuntivo da approvare nella seduta di martedì. Così non c’è il rigetto e resta il desiderio dell’onorevole Condorelli all’esame del Governo e della Commissione. Mi pare che questa, possa essere la soluzione.

L’onorevole Caroleo ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma aggiungere:

«Nel calcolo delle attività non si comprende, ai fini della determinazione delle quote predette, in conto mobilio e denaro, il valore attribuito ai fabbricati soggetti a regime vincolistico».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAROLEO. Insisto perché questo emendamento venga accolto. Dopo la discriminazione ammessa nella legge tra fabbricati soggetti a regime vincolistico e fabbricati non soggetti a regime vincolistico, questo emendamento s’impone: «Nel calcolo delle attività non si comprende, ai fini della determinazione delle quote predette, in conto mobilio e denaro, il valore attribuito ai fabbricati soggetti a regime vincolistico».

Mi pare che presumere dette quote per proprietari senza reddito sia come voler mettere il denaro in tasca al contribuente, che non può averlo in maniera assoluta, perché non c’è nessun possessore di fabbricati soggetti a regime vincolistico che possa aver comprato mobili o messo da parte denaro. Mi pare che questa presunzione nei confronti di questi proprietari non debba operare. L’estenderla, ripeto, significherebbe questo: porre fittiziamente in tasca denaro al contribuente per avere poi il diritto di ripeterlo. È come se si mettesse un portafoglio vuoto in tasca ad un Tizio per richiederlo poi a questo stesso Tizio pieno di denaro, che non ha avuto e non ha preso.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione.

LA MALFA, Relatore. Una volta che si tenga conto del sistema vincolistico in sede di valutazione, non si può tenerne conto in altra sede.

PRESIDENTE. Prego il Ministro di esprimere il parere del Governo.

PELLA, Ministro delle finanze. Anch’io devo esprimere parere contrario all’emendamento dell’onorevole Caroleo. D’altra parte, vorrei sottolineare una conseguenza particolare che deriverebbe dall’accoglimento dell’emendamento.

Facciamo l’ipotesi di un uguale arredamento che sia posseduto da chi è proprietario di un fabbricato vincolato e da chi è proprietario di un fabbricato non sottoposto al vincolo. La percentuale presuntiva del proprietario d’un fabbricato vincolato, calcolata su un valore più basso, porta ad attribuire all’arredamento un valore ridotto; invece, la percentuale calcolata sul valore del fabbricato non vincolato, fa attribuire un più elevato valore all’arredamento che, come si diceva, è sempre lo stesso. In definitiva mi pare che vi siano nella legge dei correttivi che vanno oltre quello che vorremmo raggiungere. L’onorevole Caroleo si richiama ad un caso quasi marginale, il caso di colui che possiede soltanto un fabbricato vincolato. Lo possiede dall’epoca dell’altra guerra, e non ha mai posseduto altro. Forse esiste questo caso. Ma, purtroppo, non si possono prendere in considerazione questi casi marginali, per adottare soluzioni di specie che sconvolgerebbero tutta la legge.

PRESIDENTE. Onorevole Caroleo, insiste nel suo emendamento?

CAROLEO. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Caroleo.

(Non è approvato).

Vi è ancora un emendamento all’articolo 25, degli onorevoli Condorelli, Quintieri Quinto, Corbino, Colonna, Benedettini, Fabbri e Perrone Capano, così concepito:

«Aggiungere, in fine, il seguente comma:

«La quota presunta in conto del danaro, dei depositi e dei titoli di credito è ridotta al 3 per cento nei riguardi del cittadino e dello straniero residenti all’estero che abbiano beni nello Stato».

L’onorevole Condorelli ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Siccome penso che i cittadini residenti all’estero ovviamente svolgono all’estero la loro attività, è da supporre che questo denaro liquido non l’abbiano proporzionalmente al loro patrimonio in Italia, ma l’abbiano in parte all’estero. È da presumersi che ne abbiano almeno la metà all’estero, perché il patrimonio mobiliare si detiene essenzialmente dove si risiede.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero della Commissione?

LA MALFA, Relatore. La Commissione è contraria.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo è contrario.

QUINTIERI QUINTO. Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

QUINTIERI QUINTO. Desidero fare un’osservazione di carattere generale, e non specifica. Questi coefficienti stabiliti in base a presunzione costituiscono solo un aggravio nella tassazione degli immobili e non colpiscono affatto i beni mobili, i valori al portatore od il denaro liquido. Si resta sempre a tassare il patrimonio immobiliare secondo un doppio coefficiente A e B, e non si tassa il denaro, né i gioielli, né le opere d’arte.

PRESIDENTE. La Commissione modifica il suo avviso di fronte a questa osservazione dell’onorevole Quintieri?

LA MALFA, Relatori. La Commissione rimane contraria.

PRESIDENTE. E il Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Tengo a sottolineare che troppo spesso si finisce per identificare tutta la ricchezza mobiliare con quella espressa in titoli al portatore.

Vi è invece da tenere in conto anche quella nominativa; vi è tutto il settore dei titoli azionari, settore che la Finanza non ha intenzione affatto di trascurare quando si procede al calcolo della quota presuntiva, che dev’essere calcolata non soltanto sul valore dei cespiti immobiliari, ma anche su quello dei titoli azionari che rappresentano un elemento tutt’altro che trascurabile.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Condorelli ed altri.

(Non è approvato).

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 25 si intende approvato.

Passiamo all’articolo 54. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il contribuente che ometta di presentare la dichiarazione nei termini stabiliti è soggetto al pagamento di una sopratassa pari all’ammontare dell’imposta definitivamente accertata, ed è punito con l’ammenda da una metà all’intera somma dell’imposta stessa.

«La sopratassa stabilita nel comma precedente è ridotta ad un terzo, nei casi in cui il contribuente presenti la dichiarazione entro 60 giorni dalla scadenza del termine, e l’ammenda non si applica.

«Ove il contribuente presenti la dichiarazione nei termini stabiliti dall’articolo 30, omettendo l’indicazione di uno o più cespiti, è soggetto ad una sopratassa pari alla quota proporzionale di imposta definitivamente accertata sui cespiti omessi, ed è punito con l’ammenda dalla metà all’ammontare della quota stessa.

«La sopratassa prevista nel comma precedente è ridotta ad un terzo, ove il contribuente dichiari i cespiti stessi entro 60 giorni dalla scadenza del termine, e l’ammenda non si applica.

«Ove il contribuente dichiari un valore imponibile inferiore a quello minimo determinato secondo le norme degli articoli da 34 a 37, è soggetto ad una pena pecuniaria pari alla differenza tra l’imposta liquidata sul valore determinato secondo le norme degli articoli sopra citati e quella liquidata sul valore dichiarato.

«La pena pecuniaria non si applica quando l’imposta di cui l’Erario sarebbe stato defraudato non supera il quinto dell’imposta dovuta».

PRESIDENTE. Su questo articolo, accettato dalla Commissione nel testo del Ministero, vi è un emendamento degli onorevoli Castelli Edgardo, Scoca, Coccia, Vicentini, Veroni, Nasi, Bassano, Tosi, Castelli Avolio, Arcaini e Pesenti, così formulato:

«Al terzo comma, dopo le parole: o più cespiti, aggiungere: o dichiarando debiti che risultino fittizi».

Il Governo e la Commissione hanno comunicato di accettarlo.

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

 

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Prego l’Assemblea di delegare il Governo a modificare in sede di coordinamento l’ultima parte del terzo comma, poiché mi sembra necessario prevedere l’applicabilità della soprattassa in conseguenza della dichiarazione di debiti fittizi: proporrei quindi la formula seguente, da aggiungere dopo le parole «sui cespiti omessi» le altre: «o che sarebbe stata sottratta».

PRESIDENTE. Il Ministro propone, dunque, che al terzo comma dell’articolo 54 dopo le parole: «sui cespiti omessi» si aggiunga l’espressione: «o che sarebbe stata sottratta».

LA MALFA, Relatore. La Commissioni accetta l’emendamento.

PRESIDENTE. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Il terzo comma risulta pertanto così formulato:

«Ove il contribuente presenti la dichiarazione nei termini stabiliti dall’articolo 30 omettendo l’indicazione di uno o più cespiti, o dichiarando debiti che risultino fittizi, è soggetto ad una soprattassa pari alla quota proporzionale di imposta definitivamente accertata sui cespiti omessi, o che sarebbe stata sottratta, ed è punito con l’ammenda della metà dell’ammontare della quota stessa».

Non essendovi altre osservazioni, l’articolo 54 si intende approvato con l’emendamento testé votato.

Passiamo ora alle proposte di articoli aggiuntivi al disegno di legge, i primi tre de quali concernono la stessa materia. Ne do lettura:

Art. …

«L’Assemblea Costituente – a mezzo della sua Presidenza – nomina un ristretto Comitato di deputati che, in accordo col Ministero delle finanze, sorvegli costantemente l’applicazione della presente imposta.

«Adonnino».

Art. …

«L’Assemblea Costituente – a mezzo della sua Presidenza – nomina un ristretto Comitato di deputati che, in accordo col Ministero delle finanze, collabori alla emanazione di norme complementari e regolamentari e sorvegli costantemente l’applicazione della presente imposta.

«Cannizzo».

Art. …

«Resta in facoltà del Ministero delle finanze di presentare opportuni provvedimenti, intesi a fare affiancare da elementi tecnici di provata capacità, nominati eventualmente da consessi elettivi di cittadini, gli Uffici fiscali e le Commissioni provinciali.

«De Mercurio».

Questi tre articoli potrebbero essere esaminati complessivamente. L’onorevole Adonnino ha facoltà di svolgere il suo articolo aggiuntivo.

ADONNINO. Prendo solo la parola per chiarire il concetto del mio articolo aggiuntivo, specialmente di fronte ad altri simili articoli presentati.

PRESIDENTE. Mi pare piuttosto che si dovrebbe discutere sulla proponibilità di un organo quale quello indicato.

ADONNINO. Ma la opportunità di istituire un dato organo deriva dalla importanza maggiore o minore, dallo sviluppo maggiore o minore che a questo organo si voglia dare. E siccome l’importanza, lo sviluppo dell’organo che io propongo sono minimi, ne vorrei spiegare il motivo. Io ho fatto tesoro di una proposta che è stata avanzata dal Presidente della Commissione di finanza.

L’azione del Comitato di deputati che io propongo di nominare andrebbe tenuta nei limiti più ristretti.

Sento, per esempio, che l’onorevole Bertone dice: «ma allora gli uffici ministeriali sarebbero inceppati dalla presenza di questi deputati».

No, i deputati non avrebbero nessunissima facoltà di determinare l’azione degli uffici; e perciò non potrebbero in essa interferire, e non potrebbero incepparla.

La Commissione di deputati sarebbe solo accanto al Ministro per avere tutte le informazioni immediate che possono venire dagli uffici.

A me pare che tale Commissione sarebbe utilissima specialmente in questa legge, che, diciamolo francamente, è un po’ una legge che facciamo a tastoni, con gli occhi bendati, tanto è vero che si dice…

PRESIDENTE. La prego di non fare divagazioni.

ADONNINO. Non faccio divagazioni; spiego il mio concetto. Si dice chiaramente e si ammette da tutti che a questa legge ne dovranno seguire varie altre integrative e modificative; sappiamo tutti che è una legge che nella applicazione pratica potrà dare tante sorprese.

Una Intendenza di finanza potrà dire che sorge quel tale ostacolo; un’altra Intendenza di finanza potrà dire che sorge quel tale inconveniente.

C’è, si capisce, il Ministero con i suoi organi, ma l’esistenza di un ristretto comitato di deputati con funzioni informative, (quindi non sono d’accordo con gli altri articoli proposti che vogliono dare a questo comitato un potere costituzionale) che possa proporre poi nelle forme costituzionali eventuali emendamenti, mi sembra opportuna.

PRESIDENTE. L’onorevole Cannizzo ha facoltà di svolgere il suo articolo aggiuntivo.

CANNIZZO. Io ho usato la forma più larga, ma l’ho usata senza volere con questo violare il principio della divisione dei poteri, perché so benissimo che la funzione di emanare regolamenti spetta al potere esecutivo. Però parlo di collaborazione. Vado all’idea quindi di un organo consultivo che si affianchi al Ministro. E del resto, poiché il Governo durante le discussioni ha fatto tante promesse, ha lasciato intravedere tante possibilità di modificazioni alla legge e dimostrato tanta volontà di mitigare la inflessibilità, credo che una commissione di deputati che controlli benevolmente e collabori col Ministro possa essere utile anche per ricordare le promesse. Tanto più quando si pensi che il Presidente della Commissione, onorevole La Malfa, ha lasciato intravedere la utilità di questa commissione, e credo, del resto, e l’onorevole La Malfa ne deve convenire, che, quando avremo votato tutta la legge, non avremo per nulla una legge completa, ma una legge piena di lacune. Ritengo di aver chiarito il senso che intendo dare alla parola «collabori».

PRESIDENTE. L’onorevole De Mercurio ha facoltà di illustrare il suo articolo aggiuntivo.

DE MERCURIO. Questo articolo aggiuntivo è stato già da me svolto nel mio ultimo discorso. È un inciso dell’articolo 75. È stato riconosciuto dallo stesso Governo nell’elaborare la legge, che l’attrezzatura attuale degli uffici fiscali è inadeguata. Allora, con questo mio articolo aggiuntivo, chiedo che gli uffici fiscali e le commissioni provinciali siano affiancati da elementi tali da poter garantire un più efficace lavoro.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del relatore?

LA MALFA, Relatore. Effettivamente nel mio discorso generale sulla imposta patrimoniale, avevo accennato alla possibilità che in piena Camera si potesse avere un Comitato che seguisse, direi così, quella che è un po’ la pressione dell’opinione pubblica. Ma era lontana da me l’idea che nella legge si aggiungesse un articolo creativo di questo Comitato. Siccome gli onorevoli Deputati, all’inizio della discussione, attraverso gli emendamenti, hanno manifestato l’esigenza di seguire attentamente l’applicazione della legge, si può, in sede di Commissione di finanza, o altrimenti, regolare questa materia, ma come deliberazione interna e non creando un Comitato.

Per quanto riguarda l’emendamento De Mercurio, forse a titolo di raccomandazione il Governo può accettarlo, ma anche in questo caso non possiamo accogliere una disposizione formale.

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Mi rendo conto del pensiero che ha ispirato le richieste degli articoli aggiuntivi degli onorevoli Adonnino, Cannizzo e De Mercurio, ma mi preoccupo del modo come queste funzioni potrebbero essere esercitate. Gli uffici fiscali hanno bisogno di essere lasciati in pace, hanno bisogno di non essere né imbarazzati né intralciati in alcun modo nella loro opera. Si vuole nominare un Comitato di deputati; ma domani questi deputati ci sono e non ci sono, poi quelli che ci sono si radunano, e che fanno? Fanno quello che fa la Commissione finanze e tesoro, che è permanentemente costituita e che se ha bisogno di notizie le chiede. Anzi, rientra nei compiti della Commissione finanze e tesoro di sorvegliare il provvedimento e vedere se ha il suo normale svolgimento. Quindi, anche per quella esperienza che ho in questa materia, crederei che non sia opportuno intralciare l’opera degli uffici fiscali, e pregherei pertanto i colleghi, dei quali apprezzo d’intendimento, di non insistere su questa richiesta che non apporta alcun vantaggio.

LA MALFA, Relatore. Io non ho parlato di Commissione di finanza per evidenti ragioni, ma è chiaro che se i colleghi che seguono in provincia l’applicazione di questa imposta, hanno da sottoporre quesiti di ogni genere, noi possiamo continuamente vagliare tali quesiti relativi all’applicazione dell’imposta patrimoniale, e siccome abbiamo un contatto permanente coi Ministeri delle finanze e del tesoro, possiamo fare questo lavoro per conto dei colleghi.

PRESIDENTE. Qual è il pensiero del Governo?

PELLA, Ministro delle finanze. Il Governo non solo deve respingere l’emendamento proposto, per le ragioni di ordine pratico che sono state accennate dagli onorevoli La Malfa e Bertone, ma per ragioni di principio, che deve sottolineare fermamente.

Il Governo desidera avere la migliore delle leggi, attraverso la collaborazione degli onorevoli deputati, ma è responsabilità del Governo di applicare la legge, e mi si permetta di dire che l’Amministrazione finanziaria, mentre invoca il controllo del Parlamento e dell’Assemblea Costituente su tutta la sua attività, con i mezzi normali di controllo, non ritiene che possa subire lo spirito informatore dell’emendamento; e cioè che, proprio ai fini dell’applicazione dell’imposta sul patrimonio, sia necessario un particolare controllo.

Daremmo in questo caso una patente di insufficienza, per non dire altro, a un complesso di funzionari degnissimi, che certamente saranno all’altezza dell’applicazione di questa imposta.

Ben venga il controllo parlamentare su questo tributo e su tutti gli altri, con i mezzi normali, che vorrei effettivamente funzionassero in concreto, anche di più di quello eh? normalmente funzionano! Ma assolutamente devo essere contrario alla introduzione di una particolare forma di controllo per un particolare tributo.

La Commissione permanente di finanza e tesoro, che tanta collaborazione ha dato al Governo, per questa imposta come per altre, certamente assolverà nel modo più degno il suo compito.

Apporti ognuno tutto il contributo di suggerimenti, venga a chiedere tutte le informazioni che può desiderare; non ho nulla in contrario alla costituzione, in futuro, di un Comitato per il perfezionamento della legge; ma non potrei aderire alla proposta di istituire un controllo sulla Amministrazione da me rappresentata, in una forma veramente eccezionale, che, appunto perché tale, non potrebbe essere consentita.

Per quanto riguarda l’emendamento proposto dall’onorevole De Mercurio, soggiungo che è già nella consuetudine dell’Amministrazione di servirsi dell’opera di tecnici ogni qualvolta lo ritenga opportuno. Sottolineare questa prassi con un esplicito articolo di legge sarebbe dare un particolare tono alla questione, che non può essere gradito alla amministrazione.

Quindi, do atto all’onorevole De Mercurio che i tecnici saranno largamente utilizzati.

Per quanto riguarda il riordinamento dell’Amministrazione – perdoni onorevole De Mercurio – è questione tutta diversa. Si tratta di potenziare l’Amministrazione con funzionari che già ne fanno o che ne faranno parte.

Per quanto ho detto, prego gli onorevoli presentatori degli articoli aggiuntivi di non insistere.

PRESIDENTE. Onorevoli Adonnino, Cannizzo e De Mercurio, insistono nei loro emendamenti?

ADONNINO. Ritiro il mio.

CANNIZZO. Anch’io lo ritiro.

DE MERCURIO. Dopo i chiarimenti avuti, lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi ha proposto il seguente emendamento aggiuntivo:

«È riconosciuta all’Amministrazione finanziaria la facoltà di annullare, entro 3 anni dalla loro conclusione, i concordati intervenuti coi contribuenti, quando risultasse la omissione di qualche elemento patrimoniale o l’alterazione di qualche elemento di valutazione. Sono fatti salvi, agli effetti dei privilegi fiscali, i diritti dei terzi di buona fede».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAPPI. Come ho avuto occasione di dire altra volta, il buon esito di una legge fiscale, più che dall’inasprimento delle aliquote, dipende dalle misure difensive contro le evasioni e contro – diciamolo pure – le corruzioni.

Ora, specialmente a proposito di una legge così complicata, come quella dell’imposta straordinaria progressiva, gli errori, non volontari o, in qualche caso, anche volontari, in sede di concordato non sono difficili.

Quindi, parrebbe a me monito e freno, sia ai funzionari dall’Amministrazione finanziaria sia ai contribuenti, avvertirli che, concluso il concordato, la pratica non è definita, non passa in archivio, ma l’Amministrazione ha la facoltà, che potrà esercitare anche saltuariamente, di potere – entro dati limiti di tempo – rivedere il concordato. So, onorevoli colleghi, che questa facoltà sussiste in base all’articolo 43 del testo unico del 1877 sulla imposta di ricchezza mobile, ma è indicata nell’articolo 43 in modo piuttosto vago e non è conosciuta dalla grande massa dei contribuenti. Quindi sembrerebbe a me non inutile – se non necessario – mettere a monito – ripeto – e freno dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria e dei contribuenti questo articolo nel testo della legge.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di parlare.

LA MALFA, Relatore. L’onorevole Cappi ha già chiarito i termini del problema. Mi sembra che vi sia già una disposizione generale contenuta in un testo di legge ancor più generale. Per questi motivi la Commissione ritiene che non si debba ripetere in questa sede in modo specifico. In ogni modo si rimette al parere del Governo.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro delle finanze ha facoltà di parlare.

PELLA, Ministro delle finanze. Ringraziando l’onorevole Cappi della sua segnalazione, spero di convincerlo che lo spirito del suo emendamento è già contenuto, almeno in parte, nell’articolo 46 della legge e, in parte, nella prassi dei concordati.

Se si seguirà la prassi dell’imposta del 1920 – e non vi è ragione per non seguirla – i concordati conterranno la clausola della riserva di accertare i cespiti omessi, che spiega i suoi effetti nei limiti della prescrizione per la azione della finanza. Questo dovrebbe essere il primo elemento di tranquillità; ma vorrei richiamare l’articolo 46, che abbiamo difeso con energia nell’interesse dell’Amministrazione, contro quanti, qui in Assemblea, protestavano per la precarietà dei concordati di fronte alla facoltà prevista da tale articolo.

Orbene, l’articolo 46 va interpretato nei limiti di tempo che la prescrizione fissa alla finanza, e perciò, entro questi limiti, l’applicazione dell’articolo 46 e la riserva presa in sede di concordato portano ai risultati che l’onorevole Cappi vuole raggiungere.

L’ipotesi, invece, in cui l’emendamento dell’onorevole Cappi aggiungerebbe qualcosa a favore dell’Amministrazione, è quella in cui i tre anni oltrepassino i limiti della prescrizione; ma, francamente, mentre ringrazio l’onorevole Cappi di essersi preoccupato degli interessi della finanza, temo che si finirebbe per violare quei limiti oltre i quali la finanza stessa non può andare nella tutela dei propri interessi. Per questo, pur senza respingere nel contenuto il suggerimento dell’onorevole Cappi, che sostanzialmente è in parte accolto nella legge ed in parte sarà accolto dalla prassi, debbo pregarlo di non insistere.

CAPPI. Non insisto, ma osservo che il Ministro ha accennato soltanto alla omissione di cespiti e non agli errori di valutazione. La frode consiste spesso lì…

PELLA, Ministro delle finanze. Provvede sempre l’articolo 46.

PRESIDENTE. Vi è ora l’articolo aggiuntivo proposto dagli onorevoli Proia, Cremaschi Carlo, Carbonari e Giannini, che è del seguente tenore:

«I diritti di autore si valutano tenendo conto della durata temporanea fissata per legge e dell’aleatorietà dello sfruttamento economico delle opere dell’ingegno.

«Non sono valutati i diritti dell’autore in vita, in quanto costituiscono un reddito di lavoro».

I proponenti lo mantengono?

CREMASCHI CARLO. Se il Governo accetta lo spirito dell’articolo, non avrei difficoltà a ritirarlo.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. La questione è di estimazione. Vorrei dare una prima assicurazione nel senso di convenire che nell’ipotesi del diritto d’autore, quando l’autore è in vita, si tratta, prevalentemente, di un lavoro che si basa sull’opera personale dell’autore.

Quindi, assicuro l’onorevole Cremaschi che non si procederà a capitalizzazione per la valutazione della quota parte del diritto d’autore, che deriva da prestazioni d’opera personale.

L’altra parte, in via sistematica, deve essere soggetta a capitalizzazione per la determinazione del valore da attribuire al diritto di autore. Non posso assumere degli impegni precisi, ma è evidente che, in sede di estimazione, l’Amministrazione userà sempre una più accentuata benevolenza verso quei cespiti che hanno origine puramente dal lavoro.

CREMASCHI CARLO. Ritiro il mio articolo aggiuntivo.

PRESIDENTE. Sta bene. Allora l’esame degli articoli è terminato.

MARINARO. Prego il Presidente di volermi dare atto, nella sua cortesia, che a questo punto risultano discussi, esaminati ed approvati tutti i 75 articoli del decreto legislativo 29 marzo 1947, nel testo originario e nel testo della Commissione.

PRESIDENTE. Io le do atto di quello che risulta a verbale.

LA MALFA, Relatore. Io devo fare formale obiezione a questa presa di posizione. Noi abbiamo qui degli emendamenti sospesi, e sono gli emendamenti 29-bis, 29-ter che sono in relazione agli enti collettivi. Non solo, ma noi abbiamo sospeso alcuni commi riguardanti la tassazione delle società estere, che dobbiamo inserire in un nuovo testo. Quindi, il lavoro su questi articoli non è stato compiuto e su questi emendamenti la Commissione ed il Governo non hanno dato risposta.

PELLA, Ministro delle finanze. Desidero dare atto che il Governo si associa su questo punto alle considerazioni dell’onorevole Relatore.

MARINARO. Osservo che questa non era la sede indicata per presentare quegli emendamenti ai quali ha accennato il Relatore, che dovevano essere prima portati dinanzi alla Commissione.

PRESIDENTE. Rinvio il seguito della discussione ad altra seduta.

Interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Selvaggi ha presentato la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Governo, per conoscere se, di fronte all’ora storica che volge, che impone l’unione di spiriti di tutti gli italiani e, per conseguenza, provvedimenti di pacificazione nazionale che rendano tutti i cittadini eguali nei diritti come nei doveri dinanzi alla legge comune, non ritenga che sia giunto il momento di procedere all’abrogazione di tutta la legislazione straordinaria e speciale, restituendo così il prestigio e l’autorità dello Stato democratico alle leggi ordinarie.

Questa interpellanza sarà posta all’ordine del giorno della seduta in cui saranno svolte altre interpellanze già presentate in materia analoga.

La seduta termina alle 13.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Russo Perez

Treves

Pecorari

Spano Velio

Cevolotto

Adonnino

Valiani

La seduta comincia alle 17.

VISCHIONI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dellà discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, quando l’altra sera un amico venne a portarmi la notizia che la proposta degli onorevoli Orlando e Giannini non era stata accolta, mi disse: «Siete stati battuti». Io ho risposto: «Sei in errore; è stato battuto il Governo», perché, nella nostra intenzione, la proposta dell’onorevole Orlando, se accettata, sarebbe stato un bene per il Governo. Altri ci hanno detto: «Ma voi, così, fate causa comune con i comunisti!». Io ho risposto: «Anzitutto, non è detto che i comunisti abbiano sempre torto; non è detto che Nenni abbia sempre torto. In secondo luogo è strano – dissi – che questa accusa venga da quelli che hanno collaborato per due, tre anni al Governo coi comunisti, mentre la nostra era una casuale convergenza di idee sopra un voto». Ed ecco che, respinta la proposta Orlando, si è venuti alla discussione, che, naturalmente, involge tutta la politica estera del Governo, e non soltanto di questo, ma specialmente dei Governi precedenti. E io avrei amato che in questa materia si fosse lasciata piena libertà di atteggiamento ai deputati; avrei sperato, avrei osato sperare, che i dirigenti, nella questione che oggi ci occupa e ci preoccupa, avessero avuto il pudore di non chiedere e i gregari la fierezza di non dare alcun affidamento; perché la materia è così alta, è così impegnativa per la nazione, che sarebbe veramente un bene per tutti se a ciascuno fosse lasciata piena libertà di ubbidire, nel voto, soltanto ai dettami della propria coscienza.

Il Governo, secondo noi, quando si è deciso per la firma del Trattato, ed amo ricordare che il solo Gruppo parlamentare che ha tenuto sempre un atteggiamento costante di avversione alla firma e alla ratifica è stato il nostro, e che noi siamo riusciti, con uno strattagemma procedurale, a pronunciare la nostra protesta nella seduta dell’8 febbraio di quest’anno…

CONDORELLI. Io l’ho gridata!

RUSSO PEREZ. …È vero, l’onorevole Condorelli l’ha gridata; ma non siete riusciti parlamentarmente ad esprimerla… Dicevo che il Governo, quando si è deciso per la firma, ha commesso un errore. Ma imperdonabile è il secondo errore: quello di non aver voluto, non dico seguire, ma sentire il parere dell’Assemblea.

Dico perdonabile il primo, perché commesso certamente per amore degli altri, per amore del Paese; ma dichiaro imperdonabile il secondo, perché commesso per amore di sé, per orgoglio, per aver creduto di avere il possesso della verità e di potere quindi sdegnare il parere di questa Assemblea.

Io credo potersi dimostrare storicamente che una parte della durezza del Trattato di pace (chiamiamolo Trattato, tanto per intenderci, ma, quando pronunciamo la parola «Trattato», supponete sempre che ci siano le virgolette da una parte e dall’altra; così eviteremo di pronunciare quella brutta parola: Diktat), è senza dubbio da attribuirsi alla sciagurata guerra perduta, ma una parte (non so se maggiore o minore, ma certo notevole) alla insufficienza dei nostri Governi e specialmente di coloro che hanno tenuto nelle loro mani non capaci le leve della politica estera, cominciando da Badoglio, da Bonomi a De Gasperi, ed anche un pochino a Nenni ed a Sforza, in ordine decrescente, perché probabilmente il demerito segue la cronologia.

L’uomo saggio non sdegna il consiglio, anche dei minori. Io ricordo che esattamente un anno fa in questa Assemblea ebbi l’onore di pronunciare, sulla cobelligeranza, un discorso – il 18 luglio – in cui chiedevo qualche cosa al Governo, e il mio pensiero, sintetizzato anche in un ordine del giorno. Dissi altre cose, che alla pace preliminare promessaci a Potsdam come un privilegio avremmo dovuto rinunciare. Quell’ordine del giorno non fu votato, perché il Governo, nella persona dell’onorevole De Gasperi, disse che l’accettava come raccomandazione. Ma la raccomandazione non fu tenuta in conto e niente fu fatto di quello che io chiedevo che si facesse. E oso dire (non per orgoglio), oso dire che, se mi si fosse ascoltato, forse un gran bene sarebbe venuto all’Italia, come dimostrerò fra poco.

Inquadriamo, intanto, il problema della ratifica.

È facile inquadrarlo. Vi sono tre questioni da discutere. Prima: il Trattato nella sua obiettività. Qui siamo tutti d’accordo. Si tratta di un pessimo Trattato. La parola più gentile e più parlamentare che è stata pronunciata per qualificarlo è stata «iniquo». Quindi, su questo punto, c’è poco da discutere.

Secondo punto del problema: ratificare o non ratificare E qui le correnti sono due: una grande maggioranza è per la ratifica; un’infima minoranza è per la non ratifica.

Ma vi è un terzo problema che è il più importante: ratificare oggi? Perché ratificare oggi? Amici, io potrei essere un po’ orgoglioso della seconda formula escogitata dal Governo, quella della «esecuzione», perché fui io a proporla nella tornata della Commissione dei Trattati, del giorno 8. Però io dicevo: questa deliberazione noi dovremo prenderla quando il momento sarà venuto, non adesso; perché, se prendiamo subito la nostra decisione, sia pur rimandandone a quel tempo l’effettiva attuazione, noi comunque oggi facciamo una manifestazione di volontà. È perfettamente la stessa cosa. O in forma di ratifica o in forma di incarico dato al Governo di attuare più tardi quanto noi oggi avremo deciso, una nostra manifestazione di volontà attuale ci sarà stata sempre. Quindi il problema è vedere se sia necessario, o anche semplicemente opportuno, che tale manifestazione sia fatta. Poi, come problema connesso, vi è tutta la politica estera del Governo.

Vi sono state recentemente tre riunioni alla Commissione degli Esteri. Essendo non più giovane, penso spesso alla possibilità dell’errore: del mio errore, prima che degli errori altrui, e, quindi, ho temuto di essermi troppo appassionato alla mia tesi. Vi assicuro, onorevoli colleghi, che da 15 giorni io vado cercando affannosamente – vorrei dire spasmodicamente – gli argomenti per convincermi che ho torto; e, naturalmente, questi argomenti li ho chiesti anzitutto alla persona più indicata per darli: il Ministro degli esteri, conte Sforza. Nelle riunioni della Commissione dei Trattati io e gli altri colleghi abbiamo chiesto più volte al Ministro che ci spiegasse perché dobbiamo procedere alla ratifica oggi, perché l’Italia deve fare oggi questa manifestazione di volontà; che è enormemente impegnativa, come vedremo in seguito, onorevoli colleghi. Gli argomenti sono stati questi. In primo luogo, sia pure in forma di suggerimento garbato, Bevin e Bidault hanno accennato all’opportunità della ratifica. Recentemente, però, il signor Bevin ha detto così (lo ha riportato la stampa italiana, credo nei giornali di ieri mattina): «Personalmente io penso che, avendo firmato il Trattato, esso debba essere ratificato, perché possiamo metterlo in atto». Questo avrebbe detto Bevin: niente altro che questo. Dunque, onorevoli colleghi, è storicamente certo che pressioni vere e proprie non ce ne sono state né da parte della Francia, né da parte dell’Inghilterra, né tanto meno, quello che più importa, da parte dell’America. V’è stato uno scambio, direi, di cortesie; noi saremmo lieti che voi firmaste. Orbene, per ricambiare una cortesia, si può regalare una copia in bronzo della lupa capitolina, anche fatta da un buon artista, ma non firmare un trattato di quel genere.

Altri argomenti: gli accordi economici e commerciali conclusi con varie potenze, con l’Inghilterra, con la Cecoslovacchia, potrebbero cadere. Pericolo di perdere garanzie per certe categorie di beni italiani all’estero. La Jugoslavia, l’Albania, la Bulgaria, la Grecia potrebbero chiedere un aumento della cifra delle riparazioni.

Amici miei, io vi prego di esaminare se vi sia uno solo di questi argomenti, il quale, pur essendo utile a sostenere la tesi che in un dato momento occorrerà ratificare il Trattato, serva a dimostrare l’opportunità di ratificarlo oggi. Notate che, tranne, forse, per gli accordi con l’Inghilterra, per gli altri accordi non c’è mai stata alcuna subordinazione alla ratifica. Ma, comunque, questa reazione delle altre Potenze, quando potrebbe venire? Evidentemente soltanto dopo che le quattro Grandi Potenze avessero ratificato e avessero depositato a Parigi la loro ratifica.

Poi vi è quell’altra terribile minaccia che ieri è stata tanto accentuata dall’onorevole Ministro Sforza: noi perderemo al possibilità di entrare in quel paradiso, in quel regno delle fate che è l’O.N.U, Organizzazione delle Nazioni Unite. La domanda è in corso, ci si dice: se la nostra ratifica non sarà intervenuta, noi, nonostante abbiamo fatto la domanda, non potremo entrare nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma il conte Sforza prevede la facile obiezione che, senza la ratifica della Russia, non potremmo entrarvi ugualmente, e allora, per consolarci, ci dice che, in base alle informazioni che egli possiede, la ratifica russa potrebbe aversi nei prossimi giorni, al che anche un bambino risponderebbe: e allora aspettiamo lo scorrere dei prossimi giorni, cosicché, invece di affidarci a quel futuro incerto, che è sempre sulle ginocchia di Giove, noi vedremo la realtà.

Dunque: ingresso all’O.N.U. Io personalmente – e in ciò credo di avere dalla mia parte qualcuno dei maggiori, dei vecchi parlamentari, che onorano, non soltanto con la loro canizie, ma con il loro senno, questa Assemblea – penso che, di questo ingresso all’O.N.U, non ce ne importa niente o, perlomeno, molto poco. Ce ne importerebbe molto se non ci fosse il diritto di veto delle Grandi Potenze. Ma, onorevoli colleghi, col diritto di veto delle Grandi Potenze, che cosa significa l’appartenenza all’O.N.U? Anzitutto, anche ammessi in quel nobile consesso, noi saremmo considerati come l’ultima delle Potenze, e non soltanto in ordine cronologico. Che cosa avrebbe di diverso la nostra sorte da quella dei vassalli, che, nel medioevo, dovevano apprestare al signore un certo numero di fanti e cavalieri onde aiutarlo nelle sue imprese ed in cambio essere dal signore protetti contro la reazione dei più deboli da loro spogliati?! Ma noi non abbiamo spogliato nessuno. Sono gli altri che tengono le nostre misere spoglie, e le conserveranno all’ombra dei sacri ideali ridicolizzati e oltraggiati da questa rediviva Lega delle Nazioni, alla quale non so come abbiano potuto brindare in buona fede gli uomini, se non «grandi» certo notevoli, che l’hanno tenuta a battesimo.

Comunque, su questo risponde anche Don Luigi Sturzo. Egli ha detto: voi mi parlate di revisione, che potremmo ottenere attraverso l’O.N.U. Ebbene; se noi chiediamo questa revisione prima di essere entrati nell’O.N.U, la Russia potrebbe opporsi. Se la chiediamo dopo, non soltanto la Russia, ma anche la Cina può opporsi. Il diritto di veto è stato già esercitato in parecchie occasioni e noi chiederemmo sempre invano.

Vi è un altro argomento, che si fa a favore della ratifica, che è il più appariscente di tutti. E questo argomento il popolo lo sente. Uscire dal provvisorio per entrare nel definitivo; uscire dal regime armistiziale per entrare nel regime di pace. Se fosse vero! Ma, amici miei, con la nostra manifestazione di volontà questa allettante prospettiva non è affatto avvicinata. Notate questo, che, anche se noi non ratificassimo domani; se noi, quando fossero già depositate a Parigi le ratifiche delle quattro grandi Potenze, ci rifiutassimo, in forma garbata, come propongo io, non offensiva, né minacciosa, e manifestando la nostra decisione di non opporci in alcun modo alla esecuzione di esso, ci rifiutassimo, dico, di ratificarlo, anche in quel caso non avremmo fatto alcunché per prolungare il regime armistiziale, perché esso automaticamente, quando siano depositate le ratifiche delle quattro Grandi Potenze, cessa ed entra in vigore il regime di pace.

È questo il punto che non è stato ancora tenuto presente quando ci si parla dei pericoli della non ratifica. L’argomento reggerebbe soltanto se fosse detto nel Trattato di pace, in quel famoso articolo 90, che tutti conosciamo: Se l’Italia non ratifica, vi saranno delle sanzioni, per esempio, vi sarà un regime armistiziale inasprito. Ma questo non è detto. La nostra ratifica è facoltativa; e questo è stato fatto di proposito. E dirò che l’unico passo del Trattato, in cui le Potenze Alleate hanno mostrato di rispettarci ancora, è questo. Probabilmente l’hanno fatto perché nessun russo, nessun francese, nessun inglese avrebbe ratificato un Trattato di quel genere. Essi ci hanno voluto lasciare la possibilità di questa piccola ribellione formale senza conseguenze. E se noi, in tali condizioni, ratificassimo, ci porremmo al disotto del giudizio morale che di noi hanno fatto gli Alleati.

Quando ci si dice: ratifichiamo, non domani, ma subito, per uscire dal provvisorio, si dice – per essere cortesi – per lo meno una cosa inesatta, perché noi, anche dando subito la nostra approvazione al Trattato, non usciremo dal regime armistiziale nel quale ci troviamo.

Poi vi è qualche altra cosa detta dal conte Sforza in cui non posso concordare, e me ne dispiace. Io vorrei con quell’egregio gentiluomo essere sempre d’accordo. E così obbligante nelle sue maniere, che si vorrebbe sempre contentarlo. Ma sono sempre in disaccordo.

Ci ha detto questo: Vi è una ostilità della Francia e dell’Inghilterra a qualunque proposta di revisione, se prima non abbiamo ratificato.

A questo argomento, onorevoli colleghi, risponderò più tardi, quando parlerò della ragione che hanno gli italiani di non credere più alle promesse e di volere veramente iniziare una politica degna del grande segretario fiorentino. Non siamo stati, sinora, altro che il trastullo delle altre Nazioni.

Il machiavellismo lo hanno imparato a memoria gli altri e lo hanno applicato nel Trattato di pace, che ci si chiama a ratificare.

Un solo argomento ci si fece in Commissione dei trattati per dimostrare la necessità dell’immediata ratifica.

Permettetemi che apra una parentesi. Il Governo ha già dimostrato che la ratifica immediata non era necessaria, perché ha convertito la vecchia formula nella seguente «l’Assemblea autorizza il Governo a ratificare, quando sarà venuto il momento». Quindi, il Ministro degli esteri ci ha implicitamente dimostrato che chiedeva, esponendo a gravi pericoli la nostra Nazione, qualcosa che non era necessario accordare. Chiudiamo la parentesi.

L’argomento è questo: noi saremmo stati ammessi in condizioni di parità a Parigi soltanto se avessimo ratificato. Argomento appariscente. Il pensiero di presentarsi veramente pari fra pari in un Congresso internazionale era qualcosa che poteva commuovere le viscere di noi altri italiani, ormai usi ad essere trattati come l’ultima delle Nazioni.

Ha un’importanza questo convegno di Parigi e quegli altri che verranno? Sicuramente sì. La nostra partecipazione al Congresso di Parigi sicuramente è stata un bene. Il rappresentante dell’Italia è stato ammesso a far parte di quello che potremmo chiamare l’esecutivo di questo aereo piano Marshall; ciò è stato un bene. E facciamo parte anche – mi pare – delle Commissioni dell’agricoltura e dei combustibili. Sì, sono delle buone cose, ma non bisogna esagerare.

Che cos’è il piano Marshall? L’onorevole Nitti, tanto caustico, ha detto che neanche Marshall lo sa. E, in fondo – non so da chi prendo a prestito questa frase – il detto: «aiutati che io ti aiuto». L’America, prima di continuare ad aiutarci, vuole che noi ci mettiamo d’accordo, che stabiliamo di scambiarci le nostre stesse risorse e che presentiamo, quindi, un piano concreto di aiuti integrativi.

Amici miei, mettersi d’accordo! Dunque, la base di questo futuro aiuto sarà l’accordo delle nazioni europee. Ma, se non sono d’accordo, neanche in questo momento, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, per esempio, a proposito della Germania, a proposito della sistemazione della Ruhr?! Non sono d’accordo neanche le tre Potenze vincitrici! E dovremmo metterci d’accordo tutti!

Non soltanto questo. Onorevoli colleghi, la politica, specialmente la politica estera – è una frase dell’onorevole Sforza – non è governata dai sentimenti e dai risentimenti; è governata dagli interessi.

Perché ci hanno voluto nel Congresso di Parigi per il piano Marshall? Perché finalmente il loro cuore si è intenerito? Credete che ci sia tanta gente che piange in Francia e, specialmente, in Inghilterra per la nostra sorte? Sapete che gli inglesi sono notoriamente così sensibili: hanno perfino abolito il tiro al piccione.

In America, sì. Bisogna dirlo alto e forte: se non fosse stato per gli aiuti delle nobili Nazioni americane e, soprattutto, degli Stati Uniti, quanti bambini in Italia, in questo dopoguerra, sarebbero morti di fame e quanti vecchi non avrebbero avuto di che coprirsi! (Applausi a destra).

Dunque, ci hanno invitato non soltanto per simpatia verso di noi, ma – diciamolo pure – perché hanno un po’ bisogno di noi.

Guardate la cartina geografica, intelligentissima, pubblicata giorni fa dal Giornale d’Italia e vedete se è possibile creare ed applicare un piano Marshall senza la Spagna, che è già esclusa, e facendo a meno, lasciatemelo dire, senza che ciò abbia un significato politico, facendo a meno dell’asse Roma-Berlino, senza l’Italia e senza la Germania. Difatti adesso si dice che la somma di venti miliardi – che era stata promessa o, per lo meno, annunciata – sarebbe stata ridotta a 10 miliardi e di questi 10 miliardi il 40 per cento sarebbe destinato alla Germania ed il 60 per cento a tutte le altre nazioni. Ma la Germania non ha un conte Sforza come Ministro degli esteri, che deve andare a Parigi, né un Trattato di pace da ratificare, e tuttavia si è sentito il bisogno di aiutare la Germania, perché, amici miei, il mondo è diventato troppo piccolo e, se noi abbiamo bisogno degli altri, è altrettanto vero che gli altri hanno bisogno di noi. C’è qualcosa, che ha detto il Ministro Togni – non ho qui l’appunto – recentemente, affermando che il nostro apporto, a questo che siamo ormai usi a chiamare «piano Marshall», potrebbe essere costituito, per quanto riguarda l’Italia, dalla nostra esuberante mano d’opera ed anche dai nostri impianti industriali che, se riforniti opportunamente di materie prime, potrebbero dare il doppio della produzione che danno ora e che è già abbondante.

E il signor Harriman, Ministro del commercio degli Stati Uniti d’America, ha parlato anch’egli della enorme importanza che nel piano Marshall avrebbero l’Italia e la Germania. Ecco perché, onorevoli colleghi, la partecipazione al Congresso di Parigi è stata certamente un bene, ma che sia una cosa enormemente importante noi certamente non possiamo dirlo. Comunque siamo stati ammessi a Parigi, senza che ci fosse la ratifica; e dobbiamo dire che il Ministro degli esteri ha errato – non voglio dire che ci ha ingannati, usando una parola forte, né che si è ingannato – dichiarando che fosse necessaria la nostra ratifica immediata perché intervenissimo al Congresso di Parigi.

Una voce a sinistra. Meglio la speranza…

RUSSO PEREZ. Sì è vero, la speranza è l’ultima a lasciarci, ma se, invece della speranza, potessimo avere delle certezze, sarebbe anche meglio! E noi non abbiamo mai fatto nulla per avere cose concrete e – questo è il nocciolo della mia critica – ci siamo sempre pasciuti di speranze e nulla più. Abbiamo dato la cobelligeranza, abbiamo rinunciato al Dodecanneso e c’è stata la rinuncia allo statuto di Tunisi, senza nessuna contropartita, e vogliamo continuare a far così: mentre crediamo di non aver più carte per il nostro giuoco, il destino ce ne offre alcune. (Rumori al centro). Giuochiamole, amici miei, non buttiamole via, non regaliamole all’avversario, e se, alla fine, saremo costretti a dire: nutriamoci di speranze, ci nutriremo di speranze.

Sul problema della revisione, nella relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi, è detto:

«…segni non dubbi, che è lecito rilevare in manifestazioni ripetute ed autorevoli, consentono di confidare in una migliore giustizia per l’Italia». Però, quando poi si scorre ancora la relazione, si trova quest’altro passo: «Il ratificare – o il promettere la ratifica, che è lo stesso nella nuova forma –, vale anche a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».

Ed allora, dove sono i segni non dubbi? Se ci fossero i segni non dubbi, non si reggerebbe il secondo periodo, cioè che i patteggiamenti si sono rinnovati senza di noi e contro di noi.

L’amico mi invita alla speranza. Entriamo qui nel campo di quella che l’acuto spirito di Vittorio Emanuele Orlando, alla Commissione dei Trattati, chiamò «mistica». Ebbene, nessuno vi può impedire di avere fede e fiducia, e di questa fede si sente una traccia anche nella relazione dell’onorevole Gronchi, che ad un certo punto esprime la speranza che «in un mondo che si indirizza ad attuare, in una sintesi più alta ed umana, le concezioni universali del cristianesimo (questo mondo che voi vedete, che è il mondo della bomba atomica, quell’ordigno per cui il male, che, sino allora, per quanto grande, era umano, è diventato diabolico) …i problemi che tormentano il nostro spirito, di fronte alla iniquità del Trattato, dovranno trovare inevitabilmente una ben diversa soluzione». Onorevoli colleghi, voi sapete se io non sia tra quelli che anelano l’avvento di quel giorno da noi tutti cristiani sognato, in cui regnerà la pace fra gli uomini di buona volontà; ma ditemi anche se si possano oggi riscontrare nel mondo i segni di questa rinascita cristiana. Bisogna dire allora che l’onorevole Gronchi somiglia molto a Candido, che fu, nella fantasia di Voltaire, così ottimista da vedere il bene anche nell’essere impiccato, squartato e condannato a remare nelle galere!

Convinciamoci di una cosa, onorevoli colleghi: la politica si fa per interesse e non per sentimento. Un uomo può essere un martire, un santo, un eroe, ma uno Stato non è mai eroico, non è mai altruistico, ed è sempre governato dagli interessi.

La revisione verrà se e quando saranno nate nel mondo le condizioni storiche e politiche perché la revisione avvenga, quando cioè sarà nato l’interesse della controparte ad accordare la revisione. Ed allora, ammissione all’O.N.U. o esclusione, ratifica o non ratifica, la revisione avverrà. In caso diverso, questa revisione mai non avverrà.

Una voce a sinistra. Vinceremo! (Si ride).

RUSSO PEREZ. Come vedete, ragioni per cui possa apparire, non dico necessaria, ma semplicemente opportuna, la ratifica del Trattato, non ve ne sono.

Ma è opportuno dare uno sguardo fugace a questo Trattato. È opportuno darlo, perché gli italiani sono di memoria labile e perché si è creata una situazione di spirito per cui molti credono che il Trattato sia una cosa finita, già scontata, già sofferta, mentre implica ancora tanti dolori, per tanti anni di là da venire.

Inutile esaminarlo dettagliatamente. Ormai tutti lo conosciamo quasi a memoria ed ognuno, secondo la sua sensibilità e la sua particolare forma mentis, avrà notato piuttosto la crudezza di una che di un’altra clausola di esso. Ma è bene che io guardi a qualcuna di queste clausole.

Vi sono le mutilazioni occidentali, di cui si è parlato ieri, cioè Briga e Tenda e il Moncenisio. Noi non vogliamo mandare l’onorevole Pacciardi alla conquista del Moncenisio (egli ha detto che vincerà)… Noi non vogliamo affidare la revisione di questi problemi, mai più, alla sorte delle armi. Noi diciamo soltanto questo: il torto fatto alla Francia nel 1940 sicuramente fu grave, ma i francesi avrebbero dovuto pensare che solo un italiano lo volle: il morto senza sepoltura; 40 milioni di italiani dissentirono. Avrebbero dovuto ricordarsi, piuttosto, ritornando un poco indietro nella storia, che 40 milioni di italiani nel 1915 resero impossibile, col loro sentimento, l’aggressione della Francia, e per la nostra neutralità fu possibile la vittoria della Marna. Con gli amici francesi abbiamo un’arte e una storia in comune; le arti francesi ammiriamo come arti nostre; noi ammiriamo le glorie di Napoleone, non perché egli fosse un italiano, ma perché il nostro spirito è anche francese.

Noi siamo certi che quando un po’ di comprensione ci sarà tra queste due Nazioni – perché le nostre controversie sono originate più da una somiglianza di carattere che da dissonanze – quando questa comprensione sarà venuta, anche le questioni di Briga e Tenda potranno trovare la loro soluzione.

Ma ben diversa è la situazione che riguarda il confine orientale, questione della quale bisogna parlare con un notevole senso di misura.

Onorevoli colleghi, tutti noi della mia generazione, che abbiamo vissuto la nostra fanciullezza, la nostra infanzia e la nostra gioventù sognando la liberazione di Trieste, tutti noi che per ricongiungerla alla madre Patria abbiamo versato il nostro sangue, non possiamo, senza rinnegare i 600 mila fratelli morti, ratificare quelle clausole del Trattato che ci privano di Trieste italiana.

Noi non vogliamo minacciare alcuno (del resto la nostra minaccia oggi farebbe semplicemente sorridere), e non minacciamo soprattutto perché non intendiamo affidare alla forza le nostre rivendicazioni; però la soluzione che è stata data alle questioni di Trieste, Fiume e Zara (e a quelle generose ed infelici popolazioni mando il mio saluto a nome del nostro Gruppo, come lo mando ai nostri fratelli esuli da Pola) non può essere accettata da noi. Noi non possiamo che negare la ratifica a queste disposizioni del Trattato. Certamente bisogna trovare una via per intenderci. Voi ricordate che, alla Commissione dei Trattati, quando l’onorevole Togliatti fece una non richiesta gita in Jugoslavia e tornò con una serie di proposte, qualcuno presentò un ordine del giorno di deplorazione per quanto aveva fatto il leader comunista.

Ma noi non abbiamo voluto approvare quell’ordine del giorno, perché il passo dell’onorevole Togliatti, per quanto personale, per quanto di dubbia finalità, lasciava uno spiraglio aperto verso la possibilità di una intesa fra i due popoli; e se un giorno noi potessimo intenderci – e per intenderci non è necessario fare, come fecero dei colleghi, degli elogi al maresciallo Tito, che sarà un grande soldato, ma lo sarà per la Jugoslavia – e ciò va detto alla Skupcina – mentre qui, all’Assemblea Costituente Italiana, vanno ricordati i nostri 50 generali caduti alla testa delle nostre gloriose truppe – se un giorno potremo intenderci con la Jugoslavia, sarà certamente un bene, così come è stato a suo tempo fatto con gli alto-atesini per mezzo dell’accordo De Gasperi-Grüber; se un giorno gli italiani in Jugoslavia si potessero sentire come in casa loro e gli Jugoslavi in Italia si potessero sentire anch’essi in casa loro, la gravissima controversia sarebbe in molta parte appianata. Ma è possibile ciò?

Bisognerebbe avere fede nella leale esecuzione dei patti; bisognerebbe aver fede nello spirito con cui questi patti dovrebbero essere fatti ed applicati. Ma l’esodo delle nostre popolazioni non ci dà molto affidamento su questo! Altro non voglio dire.

Speriamo che un giorno, poiché Iddio ci ha creati contermini, poiché sventuratamente dobbiamo vivere a contatto di gomito, speriamo – e verso questa meta vorrei si avviasse la politica estera del nostro Paese – speriamo che si possa creare una distensione fra i due popoli e che essi possano vivere in pace, dimenticando ogni rivalità.

Vi è una piccola questione che vorrei ricordare. Sembra una piccola questione; ma quando si dice «ratificare il Trattato», bisogna pur ricordare la questione dell’oro, del vile metallo, quello che S. Francesco chiamava lo «sterco del demonio» (Commenti).

Secondo l’articolo 78, dobbiamo restituire l’oro di cui eventualmente avessimo spogliato le altre nazioni. Ma è detto in questo articolo 78 che ciò non implica un corrispettivo dovere da parte delle potenze alleate, le quali, quindi, non devono restituirci quelle povere settanta tonnellate d’oro che ci sono state rubate dai tedeschi e che sono state rinvenute: questo poco oro non deve esserci restituito.

Amici miei, come si può ratificare una norma di questo genere? Come si potrebbe reagire? Un giornalista di spirito potrebbe proporre una nuova raccolta dell’oro, per racimolarne ancora qualche grammo nei taschini dei nostri panciotti, al polso delle nostre donne, e fabbricarne tre o quattro lingotti da un chilo da offrire in omaggio ai generosi inventori di questa clausola del Trattato. Ma non potendo rispondere così, rispondiamo almeno col rifiuto del nostro consenso.

C’è, poi, la questione della flotta.

Voi sapete, amici miei, ed è stato ricordato, che la nostra flotta e il nostro esercito furono gloriosi: ma, mentre l’esercito ebbe vittorie e sconfitte, la nostra flotta non è stata mai battuta. Voi sapete che, obbedendo all’ordine del Re, con un grande senso di abnegazione, ma con non meno grande dolore, la nostra flotta il 23 settembre invertì rotta e nemico e si consegnò a Malta. In base all’accordo De Courten-Cunningham, negoziato all’infuori dell’armistizio, fu stabilito che i nostri equipaggi, in uno Stato non più sovrano, conservassero la propria sovranità sugli scafi; le nostre navi continuarono a combattere con la bandiera tricolore sui loro pennoni. Qualche giorno dopo ci fu il cosiddetto «lungo armistizio» del 29 settembre.

Evidentemente, quando l’esercito ha consegnato le armi perché non può più combattere ed ha, all’uopo, firmato un armistizio, tutte quelle altre norme che possono venire in seguito dettate dalle potenze vincitrici non possono avere né il sapore né il contenuto giuridico e morale di un armistizio, ma costituiscono un’imposizione. Di modo che quelle aggiunte del 29 settembre che seguono il «breve armistizio» e vanno sotto il nome di «lungo armistizio» non sono un «lungo armistizio» ma una grossa prepotenza. Le nostre navi non possono essere considerate bottino di guerra, non debbono essere consegnate alle potenze vincitrici; e bene ha fatto l’Ammiraglio De Courten a dimettersi da Capo di Stato Maggiore della marina in segno di protesta.

Pensate che vi sono delle norme che offendono, più dei nostri interessi, il nostro spirito, la nostra sensibilità, la nostra dignità tranne quella dell’onorevole Pacciardi, poiché egli, come vedo, sorride.

Voi ricordate, perché conoscete il Trattato, che certe navi che gli Alleati non vogliono per loro e non vogliono che noi conserviamo, devono essere affondate; e le navi affondate, qualora costituiscano ostacolo alla navigazione, devono essere ripescate e riaffondate di nuovo in fondali da 100 braccia, invece di essere trasformate, ad esempio, come proponeva una madre italiana, in carrozzelle per bambini, apparecchi ortopedici ed aratri. E noi dovremmo ratificare questo Trattato; e noi dovremmo ratificarlo in anticipo!

Vi è poi anche il preambolo, che è offensivo per il popolo italiano: il preambolo dove si parla della guerra di aggressione. Lo nota pure, del resto, l’onorevole Sforza nella sua relazione. Che cosa hanno guadagnato i nostri uomini politici a cospargersi il capo di cenere e a riconoscere le gravi colpe del popolo italiano nella guerra di aggressione?

Entriamo qui in un campo difficile. Che cosa è stata la guerra della Russia alla Finlandia? Molti mesi prima che l’America venisse attaccata, F.D. Roosevelt annunciò che essa sarebbe divenuta l’«arsenale della democrazia», e subito dopo fece approvare la legge «prestiti ed affitti».

Nessun allarme, onorevole Sforza, nessun allarme, onorevoli colleghi; io non sono un diplomatico di carriera, ma so quello che va detto e quello che non va detto. Non sono parole mie, queste: sono parole del sottosegretario di Stato americano Byrnes. Del resto, se la nostra soltanto, di tutte le guerre combattute dai tempi omerici ad oggi, fosse stata la guerra tipica di aggressione, che vantaggio avevano da ritrarre i nostri governanti dal cospargersi il capo di cenere e riconoscere le nostre colpe? Essi pensavano forse che ne sarebbe venuto lustro all’Italia antifascista, oppure che se ne sarebbero sollevati in gloria la loro incolpevole personalità o i loro partiti?

Errore, errore! Pur ieri, il Ministro Byrnes rispondeva – ed è un nostro amico, perché gli americani sono nostri amici – pur ieri dunque il Ministro Byrnes rispondeva all’onorevole De Gasperi: il popolo italiano deve convincersi che deve pagare per la guerra fascista. E non era facile prevedere questa obiezione? E allora sarebbe stato più nobile, oltreché più intelligente, non insistere sul tema delle nostre colpe, non assumere l’atteggiamento del colpevole pentito, pronto a ogni riconoscimento, pronto a ogni rinunzia, come si è fatto per le colonie.

Prima ancora infatti che ce le togliessero, alcuni uomini politici, come l’onorevole Nenni ed altri, dissero che le colonie costituiscono un peso per noi. Più tardi però l’onorevole Nenni ha ripiegato in un’altra trincea… egli non era più Ministro degli esteri… ma può essere stata un’evoluzione del suo spirito. Nel Congresso di Firenze non si provò a ripetere che le colonie non ci sono necessarie, ma disse che l’istituto coloniale è un istituto in declino e che la nostra rinuncia è destinata a precedere analoghe rinunce da parte dei vincitori.

Onorevoli colleghi, noi siamo qui nel campo delle speranze. Il regime coloniale è in declino? Sarà: ma il tramonto di questo regime non è come quello del sole che avviene in ventiquattr’ore; esso può avvenire anche in ventiquattro anni e in duecentoquaranta anni; e intanto è bene che chi ha molte colonie ne ceda qualcuna a chi non ne ha, a noi che dobbiamo, in un territorio che può appena nutrire trenta milioni di abitanti, nutrirne invece quarantacinque.

Noi abbiamo bisogno imprescindibile delle nostre colonie. E del resto ci sono state promesse quelle prefasciste. Che cosa vogliono? Che impazziamo nel nostro angusto territorio? O vogliono che sbattiamo la testa nei muri dei nostri confini, a rischio di rompercela o di romperla anche agli altri?

Voci al centro. No!

RUSSO PEREZ. Le nostre colonie ci sono necessarie e questo bisognava pur dirlo. E che poi la nostra rinuncia preceda nel tempo analoghe rinunce dei vincitori mi sembra assai difficile. Comunque, chi ha vita lunga, aspetterà che gli inglesi abbandonino le loro colonie e la nostra Tobruk.

Questo, dunque, è il Trattato che noi dovremmo ratificare!

Ma vi sono due altre disposizioni su cui io faccio perno e su cui richiamo la vostra attenzione, perché è un punto basilare del problema che ci occupa: sono gli articoli 77 (n. 4) e 18. Me ne occuperò più tardi; ma ricordate questi due articoli: sono quelli per cui, mentre da una parte noi rinunciamo a tutti i nostri diritti in confronto della Germania, dall’altro ci obblighiamo a riconoscere come validi i trattati che le potenze Alleate e Associate faranno domani con quella Nazione.

Ma finora non vi ho parlato dell’argomento principe contro la ratifica intempestiva: argomento che io trattai nella tornata della Commissione degli esteri del giorno 8, e che poi ebbi l’orgoglio di vedere ripreso in pieno dal Maestro di diritto costituzionale e di vita parlamentare, Vittorio Emanuele Orlando. Che cosa ci può giustificare dinanzi alla nostra coscienza, ai nostri figli, alla storia? La coazione, l’aver agito in stato di necessità: questo solo può giustificarci. Ma, amici miei, noi non saremmo in stato di coazione, ma soltanto in stato di opportunità, se mai, quando i Quattro avessero ratificato e depositato la loro ratifica, perché – come vi ho ricordato poc’anzi – la nostra ratifica non è elemento imprescindibile per l’esecutività del Trattato; il Trattato viene eseguito lo stesso. Quindi, in quella occasione, noi ci troveremmo in uno stato di opportunità. Ma, anche se vogliamo chiamarlo di necessità, il momento non è ancora venuto. Ora, se viceversa noi oggi ratifichiamo il Trattato, oppure facciamo questa manifestazione di volontà – che è la stessa cosa – cioè deleghiamo il Governo a ratificare il trattato, noi non ci siamo trovati in stato di necessità; noi siamo stati liberi di regolare la nostra condotta, e quindi la ratifica oggi, la ratifica intempestiva, significa adesione della coscienza del popolo italiano a questo trattato, che tutti siamo concordi nel ritenere iniquo. Qualche cosa di simile dice l’onorevole Gronchi nella sua relazione.

In un altro punto siamo stati tutti concordi, ed è nella necessità di una protesta e che la protesta sia solenne.

Ora, la nostra protesta, fatta oggi, non solenne sarebbe, ma addirittura poco seria, perché noi protesteremmo contro un atto che liberamente compiamo, che nessuno ci obbliga a compiere. Essa sarebbe fuori di luogo, vana, inutile.

Un altro argomento è stato portato ieri dall’onorevole Sforza: voi che non volete ratificare – ci ha detto – sperate forse, per avere una revisione, in una futura conflagrazione mondiale? Ma neanche per sogno! Su questo punto siamo tutti d’accordo. Gli è, onorevole Sforza, che noi siamo del parere che questo atto nostro, fatto oggi, invece di essere l’atto più neutrale – come si espresse l’onorevole De Gasperi – sarebbe l’atto più partigiano dal punto di vista internazionale e più impegnativo (Commenti al centro) che si poteva fare oggi. Ditemi, perché è sollecitata, sia pure in forma garbata, la nostra adesione, la nostra ratifica? Perché il mondo sventuratamente è diviso in due blocchi.

Sembra che siamo d’accordo anche in questo: che non bisogna schierarsi né con gli uni né con gli altri. Fare la politica equidistante – lo so – è molto difficile, perché il blocco di ferro che sta fra l’incudine e il martello vuole essere equidistante, ma finisce col prendere e le martellate del fabbro e le sollecitazioni dell’incudine.

Ma noi dobbiamo cercare di far sì che la nostra neutralità, in una eventuale futura conflagrazione europea (che deprechiamo con tutte le nostre forze), possa esserci garantita. Ora, se noi ratificheremo il Trattato quando i Quattro avranno depositato le loro firme, la nostra ratifica e la nostra adesione non avranno il carattere impegnativo che avrebbero oggi. Ratificare in questo momento significherebbe scegliere la nostra via, subito e liberamente. E, se la nostra via saremo un giorno costretti a scegliere, sarà bene negoziare il dono che di noi stessi faremo. Se il destino ci dà qualche carta, negoziamola. Cominciamo a dire: voi volete che ratifichiamo? Ma è proprio necessario, oggi, che vi consegniamo le nostre corazzate, che affondiamo i nostri sommergibili, che rinunciamo a tutte le nostre colonie? Si potrà fare qualche cosa in questo senso.

E torniamo all’articolo 78. Onorevoli colleghi, nel mio discorso del 18 luglio io dicevo: rinunciamo al privilegio di Potsdam. Che cosa significa la pace preliminare? A Potsdam ci si promise una pace di giustizia. Quando ci siamo accorti che alla pace di giustizia veniva sostituita una pace duramente punitiva, noi dovevamo rinunciare a questo privilegio e dire: vogliamo trattare insieme e la pace con voi, potenze vincitrici, e la pace con la Germania sconfitta: anche per avere una visione unitaria delle sorti d’Europa e per potere in conformità decidere il nostro atteggiamento.

Si può rispondere: non ci avrebbero ascoltato!

Ma c’è la contro risposta. Voi, onorevole De Gasperi, a Parigi, avete sempre, con senso diplomatico, subordinalo le vostre proposte e le vostre accettazioni all’accettazione dell’Assemblea Costituente. Qualunque proposta, che faceva la nostra delegazione (ma non direttamente, perché non era consentito: si faceva attraverso delegazioni di Stati vincitori, nell’orbita delle Nazioni Associate, delle Nazioni Unite) veniva sempre subordinata all’approvazione dell’Assemblea Costituente. Ebbene, per ciò che riguardava le colonie prefasciste, per ciò che riguardava il Trattato di Pace con la Germania, voi non avreste dovuto fare nessuna controproposta. Avreste dovuto dire: io vi avverto che a queste condizioni il Trattato non sarà mai né firmato né ratificato. (Commenti).

Non sarà mai ratificato! E avevamo tutte le ragioni, e nessuno che abbia senno e saggezza può dissentire da quello che io dico.

Amici miei, qual è la sola, la vera giustificazione delle Potenze che ci hanno imposto questo trattato? «Siamo i vincitori!». La spada di Brenno! Ma, riguardo alla nostra cobelligeranza, questo argomento non può essere usato. Quindi, se noi avessimo detto: siamo pronti ad accettare il Trattato in tutte le sue clausole, tranne in quelle che vogliono regolare i nostri rapporti con la Germania, perché nei confronti di quella non siamo gli sconfitti e quindi non avete il diritto d’imporci di rinunciare ai nostri crediti e alle nostre rivendicazioni nei suoi confronti, allora può darsi che il Trattato si sarebbe maturato in una nuova atmosfera.

Perché, ricordate: in maggio dell’anno scorso, come ci fu detto alla Commissione dei Trattati, Trieste era nostra, era sicura. Si discuteva solo di Pola; e quando i nostri rappresentanti, quando l’onorevole De Gasperi insisteva patriotticamente per Pola, gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Pola?

Più tardi gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Trieste?

Perché era quello il periodo in cui l’America riteneva opportuno d’incassare, in cui l’Inghilterra e l’America pensavano che una politica di cessioni, una politica dolce in confronto alla Russia, avrebbe potuto finalmente portare la distensione, avrebbe potuto finalmente interrompere le pretese sempre nuove, sempre risorgenti di quella Nazione.

Ma venne l’ora in cui gli Stati Uniti di America compresero che questa politica era sbagliata; e questo mutamento della politica estera americana fu annunciato con il discorso di Truman del 12 marzo di quest’anno. Ebbene, non pensate voi, che, se la nostra pace fosse stata decisa dopo il 12 marzo, in questa nuova atmosfera che si è creata, in questo nuovo spirito che orienta adesso la politica degli Stati Uniti, gli Stati Uniti non avrebbero preferito che il nostro confine fosse alla displuviale delle Alpi, conservando a noi Trieste e quella parte dell’Istria che è andata alla Jugoslavia? Quindi, non sono orgoglioso, ma sono soltanto storicamente nel vero quando dico che, se si fosse tenuto conto della mia proposta, se si fosse insistito in essa, se si fosse detto che un trattato, per quanto duro fosse, tra le Potenze alleate, che ci hanno battuto, e noi, lo avremmo accettato, ma un Trattato che codificasse anche i nostri rapporti, imponendoci una completa rinuncia, con la Germania, non lo avremmo firmato mai, probabilmente avremmo trattato insieme la pace con le Potenze vincitrici e la pace con la Germania, e le condizioni di pace sarebbero state ben diverse; forse non avremmo perduto Trieste. Questo io penso e penso anche che nessuno possa dissentire da me. Quindi la nostra politica estera è stata sbagliata, sia per quanto ho detto, sia per la nostra cobelligeranza non negoziata.

Secondo l’accordo di Quebec (Roosevelt, Churchill), il nostro intervento armato non era previsto. Noi, all’atto dell’armistizio, potevamo rimanere con le armi al piede; quindi consegnarle al nemico e astenerci dal partecipare a qualsiasi altra operazione di guerra. È scritto nel preambolo dell’accordo di Quebec. Dunque, la nostra cobelligeranza doveva essere un atto negoziato. Ci fu richiesta: l’abbiamo accordata; e appena fatta la nostra dichiarazione di guerra alla Germania, le Potenze Alleate, nella stessa data (il giorno successivo alla dichiarazione di guerra), hanno fatto il riconoscimento esplicito della nostra qualità di cobelligeranti. È del resto riconosciuto anche dal preambolo del Trattato. Si trattava di dare gli ultimi nostri figli, le ultime nostre navi, i velivoli, il nostro sangue migliore; e noi non li abbiamo negati. Ma non abbiamo negoziato il supremo dono, nutrendoci solo di speranza. Questo è un errore imperdonabile. Quella cobelligeranza doveva essere negoziata in patti scritti; invece non lo si è fatto.

E voi, onorevole conte Sforza, avete un altro peccato sulla coscienza. Voi, nel settembre 1942, avete scritto al re d’Italia dicendogli, come suo antico ministro: «Vi assicuro sul mio onore che gli americani e gli inglesi sono pronti a concludere con noi una pace di giustizia, una pace generosa». Onorevole Sforza, o il vostro onore o la vostra capacità sono in giuoco; e siccome io, da gentiluomo, devo riconoscere che siete un gentiluomo, sono costretto a proclamare la vostra incapacità. E quando oggi volete la ratifica intempestiva, promettendoci ancora qualche cosa in cui non è alcunché di concreto, noi dobbiamo pensare che anche questa volta vi sbaglierete. Questo è il mio pensiero, onorevoli colleghi. Non pretendo di avere il possesso della verità; ma vi posso assicurare che, come voi tutti e come sicuramente il Presidente del Consiglio – perché sono convinto che in tutte le sue azioni egli non può essere guidato che dalla visione del bene della Patria – anch’io ho avuto di mira l’interesse supremo del Paese. Nelle notti insonni, meditando sul problema del Trattato, mi sono convinto che questa è la soluzione giusta; perché quando noi neghiamo la ratifica, ma offriamo di eseguire il Trattato, incanaliamo per una via pacifica la nostra ribellione.

Ci sono molti che dicono: facciamo come fecero i tedeschi a Compiègne: firmiamo, lo avvenire deciderà. Ma tutti coloro che dicono codesto, che cosa pensano? Pensano quello che pensavano i tedeschi. I tedeschi firmarono la pace ma prepararono la guerra. Noi no. Noi non minacciamo reazioni prossime o lontane, anzi vogliamo che nel nostro cuore non resti questo rancore, quest’ira, questa indignazione, perché la giustizia offesa non si adira, ma si indigna. E quindi questo nostro rifiuto di firmare deve essere lo sfogo e l’esaurirsi del nostro risentimento: che eseguano pure il Trattato. La nostra ratifica non è necessaria, perché lo han detto nell’articolo 90: basta la ratifica della 4 grandi Potenze. Quindi la protesta del nostro buon diritto offeso non impedisce alla forza, di avere la sua attuazione e al Trattato di essere eseguito.

Noi non minacciamo; e non minacciamo, con purezza di cuore, alcuna reazione, né prossima, né lontana. Di che cosa dovrebbero dolersi gli Alleati?

C’è qualcuno che pensa ai pericoli del piroscafo carico di grano che inverte la rotta. Ma coloro che pensano così offendono la nobile Nazione americana, che non sarà mai capace di simili bassezze e continuerà ad esserci sorella come è stata per noi nei tempi durissimi del dopoguerra. Quindi non credo che vi siano dei pericoli. Quando con un ordine del giorno, che io non intendo presentare, perché probabilmente non sarebbe approvato (si sa ormai come vanno le votazioni; ed è doloroso che, in materia così alta e nobile, si debba conoscere in anticipo l’esito di esse), si proclamasse questo principio, che la mancata ratifica non significa ribellione, anzi implica la nostra volontà che il Trattato sia eseguito; che non si minacciano reazioni prossime o lontane; io non vedo perché il nostro gesto dovrebbe, potrebbe avere conseguenze nocive; avremmo invece salvato la nostra dignità, e questa Assemblea potrebbe ricordarsi di essere erede, per quanto molto lontana, di quel Senato di Roma, quando quel tale ambasciatore straniero che vi fu ammesso, disse, tornando al suo paese, che gli era sembrato di essere in un consesso di re.

Ho detto. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Treves. Ne ha facoltà.

TREVES. Onorevoli colleghi, questo dibattito è giunto all’Assemblea preceduto da 15 giorni di appassionate polemiche, che attraverso la stampa si sono diffuse nel Paese e hanno agitato in un senso o nell’altro l’opinione pubblica. E questo fatto non poteva non ripercuotersi in modo sfavorevole sulla nostra discussione.

Noi abbiamo voluto questo dibattito, siamo stati favorevoli a che il dibattito ci fosse, perché ci sembrava contrario a quelli che sono veramente gli interessi del Paese, che una questione di tanta importanza, su cui si esercitano le passioni, ma che dovrebbe invece essere considerata con più freddo giudizio, fosse sottratta in quest’ora alla Assemblea Costituente.

Il rinvio – e lo abbiamo detto – sarebbe stato un errore, come sarebbe adesso un errore snaturare il dibattito, che ha un suo scopo preciso. Siamo di fronte ad un problema definito ed è problema sufficientemente solenne, sufficientemente importante nella vita del Paese, perché non venga adulterato con passioni meno pure, non venga distolto da quello che è il suo vero fine.

È stato anche detto che questo deve essere un dibattito su tutta la politica estera del Governo.

Noi, il Gruppo a nome del quale mi onoro di parlare, non siamo sospettabili di eccessiva tenerezza per questo Governo. Noi manteniamo tutti i nostri motivi di critica per la sua politica estera, ma non pensiamo che sia questa la sede, che sia questo il momento di esercitare tale critica, perché qui si tratta di prendere delle responsabilità precise: si tratta di chiudere un capitolo della storia del nostro Paese, poiché veramente di fronte a questo documento, di fronte a questo che si chiama trattato di pace sarebbe (forse più esatto chiamarlo dettato) abbiamo l’impressione di essere giunti all’epilogo, all’epilogo logico, anche se terribilmente doloroso, all’epilogo inevitabile del periodo storico che si è iniziato col tradimento di un monarca e la complice e folle politica suicida di una cosiddetta classe dirigente.

Siamo giunti all’epilogo. Ma io credevo di dire una cosa banale, dubitavo anzi se avessi dovuto dirla in questa Assemblea, affermando che il trattato di pace che ci sta davanti dev’essere considerato lo sbocco di venti anni di mal governo fascista, e non, come pure in certi settori del Paese si tende a credere, di quattro anni di governo antifascista. Io credevo che questa banalità non avrei dovuto dire in questa Assemblea, e mi dispiace che l’onorevole Russo Perez non sia presente in questo momento nell’Aula, perché questa banalità a me sembra di dover ripetere e riaffermare dopo il suo discorso, dopo tutta l’intonazione del suo discorso. Infatti, dinanzi a questa grande tragedia italiana, dinanzi a questo trattato imposto come conseguenza della inevitabile sconfitta di un regime, non è stato trovato che motivo di critica per il nuovo reggimento repubblicano e democratico che ha preso il posto di quel regime che ci ha condotto a questi estremi.

Questo, io credo, è significativo dall’attuale discussione e in quest’Assemblea dobbiamo essere molto precisi su questo punto; perché già una volta, dopo l’altra guerra – una guerra che pur avevamo vinta, una guerra, quindi, che ci poneva in una situazione estremamente diversa ed estremamente migliore in Europa è stato proprio da un trattato di pace che è sorta la speculazione nazionalistica, che ci ha poi condotto al fascismo, alla sconfitta, a questo trattato di pace. (Approvazioni al centro).

Voglio riaffermare che noi ci troviamo qui, personalmente incolpevoli, a dover onorare una cambiale, che non è stata tratta da noi. Questo bisogna dire in questa sede, e bisogna dire che noi accettiamo di pagare tale cambiale, perché pur esiste una continuità storica delle nazioni, esiste una responsabilità legale, se non una responsabilità morale.

La storia intera ci mostra che i popoli di maggiore civiltà non hanno avuto paura di fronte a trattati di pace anche più ingiusti e più duri, anche più dolorosi del nostro. Si sono risollevati ed hanno continuato sulla strada segnata. Né ho bisogno di fare della retorica per dire che la nostra fiducia nelle possibilità del nostro popolo non conosce esitazioni. È per ciò che noi assumiamo questa posizione di fronte al trattato di pace.

Quindi, non intendo di esaminare i particolari di esso, di scendere al dettaglio. Certo è banale di dire che non vi è stato «negoziato», che non vi è quindi un vero «trattato». Se la filologia ha un senso, trattato è il risultato di trattative, è un contratto. Ma non vi è stato contratto: siamo di fronte a un documento estremamente doloroso, per noi. Anche senza entrare nei particolari delle sue clausole, basta ricordare Tenda e Briga, Trieste, le Colonie, la flotta, tutte ferite che incidono profondamente sull’anima del nostro Paese.

Ripeto che non voglio fare qui un’analisi della politica estera del Governo. Bisognerà farla un giorno, ed allora potremo anche dire che non sempre, pur nei limiti imposti dalla situazione di assoluta inferiorità in cui ci siamo trovati sul piano diplomatico, non sempre forse è stato impostato giustamente il nostro problema, non sempre in questi anni – lo documenteremo a suo tempo – si è compreso che bisognava toccare soprattutto il fattore psicologico, il punto più rispondente, su cui imperniare la nostra battaglia.

Un’altra analisi io credo si debba fare in questo momento ed in questa sede, cioè rendersi conto del perché di questo trattato, della sua genesi, dei motivi che hanno condotto a questa pace, alla redazione finale del documento che ci sta di fronte.

È una storia che può essere – ma io non lo farò – analizzata in modo diffuso ed è, in fondo, la storia dolorosa dell’Europa di questi ultimi anni, perché non era ancora cessato il conflitto armato, non era ancora finito il fragore delle armi, che già si iniziava, con molta più difficoltà nel campo dei vincitori, la strada che doveva condurre alla pace. È anche banale (questo mio discorso è una collezione di banalità), dire che è più facile fare la guerra che fare la pace. Ma ne abbiamo una prova nella lunga strada, le cui tappe sono le conferenze internazionali di questi anni, le conferenze dei vincitori da Potsdam a Yalta, a Mosca, a Parigi, quando, ogni giorno di più, dolorosamente noi constatavamo e tutti potevano constatare quella spaccatura profonda, quella lacerazione che si andava producendo in Europa, il dissidio che piano piano si andava cristallizzando, sino a formare i due aggruppamenti, che si chiamano ormai comunemente blocchi.

Noi socialisti abbiamo assistito con l’angoscia nell’animo al prodursi di questa situazione, perché noi non siamo di quelli che, in questi anni, compiaciuti ammiccavano ad ogni indizio di dissenso tra i «Grandi» e ad ogni prova di sfiducia reciproca, sperando furbescamente di guadagnare qualcosa da questo dissidio. Noi siamo sufficientemente internazionalisti per sapere che solo dall’accordo altrui può venire il bene anche del vinto. Solo dall’accordo dei «Grandi» i piccoli, o i «nuovi piccoli», hanno qualcosa da guadagnare, non dal disaccordo.

Ed allora, ecco questa pace. Ecco anche, da una conferenza internazionale all’altra, la nostra sempre maggiore esclusione dall’elaborazione di questa pace, proprio, direi, per la impossibilità dei vincitori di discutere con i vinti, documentata dalla impossibilità dei vincitori di raggiungere un accordo tra di loro. Perché non si poteva evidentemente giungere ad una diversa conclusione per quanto riguarda i vinti, quando tristemente maturava e cresceva il disaccordo tra i vincitori.

Così, questa pace è un compromesso; è l’unico accordo, che direi negativo, possibile fino ad oggi tra i vincitori e, naturalmente, a nostre spese. Questa, credo, è la ragione, la storia, la diagnosi di questo documento che si chiama trattato di pace.

Se si è detto, con frase abusata, che la pace di Versailles era la pace del capitalismo, di questa pace credo si possa dire che è la pace dell’imperialismo, una cosa leggermente diversa; è pace che rispecchia purtroppo la preoccupazione e la sfiducia reciproca di due gruppi di potenze perseguenti una politica di imperialismo uguale e contraria, perseguenti quindi una politica in cui era estremamente difficile trovare un accordo. Soprattutto, diveniva impossibile di seguire un principio, ed una delle ragioni di condanna di questa pace è che essa non si fonda su nessun principio logico, anche se per noi negativo.

Abbiamo veduto ciascuno dei vincitori disposto a lasciarci quello che l’altro voleva toglierci nella reciproca contraddizione, per cui una potenza non aveva nessuna obiezione a che l’Italia tenesse Trieste, ma un’altra esigeva che l’Italia non tenesse Tenda e Briga, senza che fosse possibile di armonizzare le vane pretese in un sistema logico e unitario.

Tale è lo sfondo di questa pace. Io non vorrei ricordare una frase del Clausewitz, una volta famosa, e cioè essere la guerra una politica che continua con altri mezzi. Ma temo si potrebbe parodiarla in questo momento, di fronte alla realtà, dicendo: che per i vincitori questa pace è una guerra che continua tra loro con altri mezzi.

È in questa situazione che si presenta per noi il problema della ratifica. Potrebbe forse sembrare a persone o a partiti politici aderenti ad una visione antitetica alla nostra, che la sommaria delineazione che ho fatto dovesse condurre a conclusioni opposte a quelle che noi abbiamo raggiunto. Ma è proprio perché l’Europa ed il mondo sono in questa situazione, che noi sempre più sentiamo la necessità di ritornare all’Europa, di ritornare al mondo, per il bene nostro e di tutti, per riaffermare nell’Europa e nel mondo quegli ideali e quelle ragioni di giustizia cui l’Italia non ha mai rinunciato.

Ecco, signori, il problema della ratifica. Ed è qui che si inserisce la discussione che appassiona queste sedute. Ecco l’articolo 90, il cui contenuto del resto, è già nell’ultimo paragrafo del Comunicato finale della Conferenza di Mosca alla fine del 1945. Ma vorrei superare questo punto, non immiserire il problema in una discussione cavillosamente giuridica, come da troppe parti è stato fatto. Restituiamo al dibattito il suo carattere.

Benedetto Croce (non dico l’onorevole Croce, perché quando ci si chiama Benedetto Croce non vi è appellativo, anche di etichetta parlamentare, che aggiunga qualche cosa al prestigio del nome), Benedetto Croce e qualche altro venerabile e venerando membro di questa Assemblea hanno sostenuta una tesi che io comprendo perfettamente. Posso non condividerla, ma non posso non ammetterla.

È la tesi che direi eroica. In sostanza Benedetto Croce ci ha detto: «Pereat mundus, ma non piegarsi all’ingiustizia». Ma ieri abbiamo anche sentito dal Ministro degli esteri una frase che mi è sembrata singolarmente indovinata in questo momento.

Il Ministro degli esteri ha detto, in sostanza, che un uomo ha il diritto, anzi, il dovere, di rimanere prigioniero per attestare la sua fede (ed in questa Assemblea molti hanno avuto questo onore), ma che un popolo non può e non deve restare prigioniero.

Ebbene, io credo che l’onorevole Ministro degli esteri abbia espresso le ragioni profonde, le ragioni ideali, per cui dalla sfera del dover essere noi dobbiamo dolorosamente discendere nella sfera dell’essere. Ed allora non resta che una posizione, quella della ratifica, anche se, nella passione di queste settimane si è dovuto fare dell’accessorio il principale, cioè la disputa sulla sua «tempestività».

In fondo, favorevole alla posizione di non ratifica (che è una posizione logica ed eroica) è solo una minima percentuale di questa Assemblea.

L’altra posizione raccoglie, dovrebbe raccogliere, una maggioranza amplissima, direi quasi la totalità dell’Assemblea. Ma rimane e domina la «tempestività», rimane appunto la disposizione formale dell’articolo 90, rimane in sostanza un problema politico che non dovrebbe, secondo noi, entrare in questa sede ed in questo dibattito.

Io non voglio nemmeno nominare quella grande Potenza che non ha ancora ratificato il Trattato di pace, perché non fa assolutamente nessuna differenza al mio ragionamento quale delle quattro grandi Potenze possa essere. Nella fattispecie tutti sappiamo quale è, ma questo non ha nessuna importanza. Non voglio, infatti, commettere l’impertinenza di entrare a discutere delle ragioni, dei motivi, degli scopi che informano la politica di una grande nazione sovrana. Qualsiasi nazione ha il diritto, e direi il dovere, di perseguire la sua politica con i mezzi, i sistemi che crede migliori ai suoi interessi ed ai suoi scopi.

Non discuterò quindi perché l’Unione Sovietica non abbia ancora ratificato il Trattato di pace: non entrerò in questo ginepraio di congetture e di ipotesi.

Il Ministro degli esteri ci ha detto che nulla ci lascia supporre – in base alle informazioni che egli ha – che la ratifica russa non venga. Ma certo sarebbe un errore, se noi rinunciassimo a quella che è la caratteristica prima di uno Stato indipendente e sovrano, e cioè di attuare quella politica che esso reputa la migliore per il bene del suo popolo. Quella medesima indipendenza, quella medesima assoluta sovranità che io – sarebbe ridicolo dire non contesto, ma che non tocco neppure per la grande nazione sovietica – su questo punto e su questo problema voglio rivendicare in pieno anche all’Italia.

Quindi, il problema si pone soltanto in questi termini: di scegliere ciò che è più confacente agli interessi del nostro Paese, in questo determinato momento storico; di vedere dove sia il suo bene, o almeno – poiché, purtroppo siamo costretti a scegliere tra un male ed un altro e i mali ci affliggono da ogni parte dell’orizzonte europeo – il minor male.

La nostra conclusione l’Assemblea sa quale è stata. Noi, con molto dolore, con molta angoscia, di fronte a questo problema veramente terribile, eravamo anche favorevoli ad una ratifica immediata; anche quello ci sembrava, in questa determinata situazione, un male minore, piuttosto che contribuire noi stessi ad escluderci dalle grandi correnti dell’Europa e del mondo.

Ma noi non siamo dei mistici, dei fanatici dell’autoflagellazione. La nuova formula escogitata dal Governo, evidentemente, è stata proposta perché il Governo è persuaso, in base alle sue informazioni, in base a quello che gli risulta della situazione internazionale, che anche con questa formula si ottiene per il Paese almeno quel male minore che si sarebbe ottenuto con una ratifica immediata. Ed è per questo che noi non faremo una questione giuridica. Noi ci domandiamo soltanto, dal punto di vista politico, dove sono i vantaggi che il nostro Paese avrebbe a non ratificare.

Abbiamo sentito la parte opposta, abbiamo seguito in questi giorni le polemiche della stampa, e devo confessare che non una sola ragione mi sembra seria sugli ipotetici vantaggi che noi avremmo a non ratificare, mentre molte ragioni mi sembrano fondate per reputare che noi avremo degli svantaggi, prendendo oggi una posizione diversa.

In sintesi, il nostro punto di vista si può riassumere così: la nostra non ratifica si risolverebbe, fatalmente, in una politica di speculazione sui dissidi altrui, né ci potrebbe essere, mi sembra, nessun’altra giustificazione logica, se non proprio di cadere nella posizione di chi dall’altrui dissidio spera possa derivare a noi qualche vantaggio. È la posizione che abbiamo già condannato in partenza, che abbiamo già abbandonato e quindi, innegabilmente, la non ratifica si risolverebbe, in certo modo, in una politica di blocchi, che è proprio la politica che noi respingiamo.

La non ratifica significa contribuire non all’unità, ma alla divisione dell’Europa, non all’armonia, ma all’approfondimento di quella lacerazione, che purtroppo esiste, e che con tutto il cuore auspichiamo possa presto venir superata. E allora, signori, allora noi diamo alla nostra decisione il valore di un coraggioso gesto di solidarietà europea, nel quadro della necessità di uscire da una situazione per noi intollerabile.

Si dice, si obietta: «ma non ne usciamo; ma l’armistizio rimane». È vero: è vero che legalmente non ne usciamo. Ma guardiamo all’orizzonte internazionale, che è ben più vasto di quanto non siano i ferrei limiti di un regolamento: qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso cresce e fermenta nel mondo. Non ne usciamo? Ma se fossimo così domenicani dell’osservanza dei regolamenti – come direbbe il mio amico onorevole Mazzoni – allora, signori, noi dovremmo essere ancora nella condizione in cui eravamo tre anni fa, in cui eravamo due anni fa. Se badiamo solo alla lettera, alle parole scritte, in realtà da allora nessun fatto giuridico è intervenuto, eppure la situazione è quella che è, e per accorgersene basta volger lo sguardo intorno e fra i molti esempi vi è anche il fatto medesimo che siamo qui, in questa Assemblea che siede ed è sovrana. Ma io cerco di abbreviare questo già troppo lungo discorso. Non vi parlerò dell’O.N.U., di cui molti hanno parlato e su cui ieri il mio illustre e «giovanissimo» amico onorevole Canepa ci ha intrattenuti con così viva passione. Ma non posso non rilevare il tono che mi ha davvero agghiacciato dell’onorevole Russo Perez poco fa – ripeto il mio dispiacere che non sia ora presente – quel tono in cui mi è sembrato di sentire un’eco di tutti gli articoli contro la Società delle Nazioni che ci hanno deliziato per oltre vent’anni. (Applausi a sinistra).

La ratifica, dunque, è l’inizio, non è la fine della nostra politica, e soprattutto della nostra politica estera. La ratifica è la porta aperta verso l’avvenire, è la possibilità di avere finalmente una politica estera, e fino ad ora non l’abbiamo avuta in Italia, non l’abbiamo potuta avere. Onorevole Sforza, noi certamente faremo la nostra critica alla politica estera del Governo, ma non oggi. Perché abbiamo bisogno di una politica estera, di una politica estera che sia un fattore di pace, un fattore di stabilità in Europa.

Ciò emerge dalla stessa situazione geografica in cui siamo posti in Europa, in cui è posta questa virgola, questa grande virgola che noi siamo nel Mediterraneo e che segna oggi una specie di confine ideale fra quello che disgraziatamente dobbiamo chiamare est e ovest.

Io credo che, anche se non ci fossero tutte le saggezze della politica le quali ci consigliano a non correre, con immotivate scelte, verso l’uno o verso l’altro campo, basterebbe questa semplice situazione geografica a persuaderci dell’errore che costituirebbe per noi il seguire una politica estera di blocchi. E dico ciò, alludendo naturalmente a qualunque blocco, sia dell’est che dell’ovest. La nostra scelta, del resto, non servirebbe né all’est né l’ovest, ma soltanto ad accentuare, a rendere più amare, più insolubili, le differenze che esistono tra est e ovest. Noi abbiamo qualche cosa di meglio da fare in Europa, che aggiungere fuoco alle polveri, sia dell’est sia dell’ovest. Io credo che il compito nostro, di noi italiani, anche di noi vinti, sia proprio quello di parlare per la ragione, quella ragione che spesso i «grandi», i cosiddetti grandi, non riescono ad intendere. E questa ragione, signori, consiglia all’Europa una diversa giustizia nei nostri riguardi.

Noi non abbiamo paura delle parole, anche se ci sono alcune parole che non ci piacciono. Tra queste vi è la parola revisionismo; ma, senza dubbio, il nostro revisionismo, il revisionismo di questa parte dell’Assemblea, non ha nulla del «revanchismo» nazionalista, di cui ho sentito, anche un’ora fa, un’eco da quella parte (Accenna alla destra) dell’Assemblea. (Applausi a sinistra). Noi sosteniamo un principio revisionistico, che è lo stesso principio della giustizia per tutta l’Europa, che è il principio della giustizia per tutti i popoli. E se fossimo diventati così cinici da credere che queste siano illusioni, abbiamo tuttavia veduto in forma molto pratica che la perdita di queste illusioni, che il contrasto a queste illusioni ha condotto la miseria, la rovina e la strage nel mondo intero. (Applausi a sinistra).

Si profila in questi giorni il tentativo di un nuovo ordine economico in Europa. Non mi diffonderò sul piano Marshall, famoso prima di esistere. Tutto è stato detto prima che esistesse, su quello che sarà e su quello che non sarà e sui pericoli che esso rappresenta e sulle possibilità che esso offre. Posso anche condividere le preoccupazioni giustamente espresse ieri sera qui dall’onorevole Ruini, e sono perfettamente d’accordo con lui nel dire che sarebbe un gravissimo errore se noi credessimo che il piano Marshall sia una specie di bacchetta magica, una specie di toccasana, e che col nostro inserimento nel piano Marshall tutti i nostri problemi verranno risolti.

Pure, che cosa è, in sé, questo «piano»… che non esiste? È, in fondo, un primo tentativo, è la prima volta che si dice all’Europa: «Pianificate, tentate di superare quelli che sono i vostri problemi immediatamente nazionali nella sfera economica in un piano più vasto, in un piano europeo». Io non vedo perché questo invito possa tanto riuscire sgradito, possa tanto spaventare una grande Potenza e altre Potenze che le sono vicine ed amiche. A me pare che la nostra adesione al piano Marshall, non solo non sia in nessun modo uno scivolamento verso un blocco, ma sia di vantaggio anche per coloro che non hanno ancora creduto di aderire a questo piano. Quanto più l’Europa riesce ad organizzarsi, quanto più l’Europa riesce ad unirsi in una singola unità economica, a vantaggio di tutti i Paesi e di tutti i popoli, tanto meno pericolo vi è per l’Europa intera.

Noi sappiamo – noi socialisti – che la pace non può fondarsi sulla miseria umana. La pace non è sicura quando la fame domina il mondo, la pace non è sicura quando la vita economica non è sicura, quando un onesto livello economico di vita non è certo per tutti i popoli.

Onorevole Sforza, lei sorride forse giudicando ingenue, giovanili, queste mie opinioni; ma io spero – anzi ne sono sicuro – che ella è sufficientemente giovane per condividerle.

SFORZA, Ministro degli esteri. No, sorridevo, perché mi compiacevo.

TREVES. Allora la ringrazio. E aggiungo che noi socialisti abbiamo un’altra ragione per essere favorevoli a questa grande esperienza, per essere favorevoli a che l’Italia vi partecipi, non solo a vantaggio suo, ma a vantaggio della collaborazione economica europea. Noi abbiamo spesso insistito (e il Governo lo sa) sulla necessità della pianificazione anche e soprattutto all’interno, ed evidentemente non potremmo essere contrari ad una pianificazione europea, aperta a tutti, sia ad est che ad ovest. Né vediamo come noi potremmo non parteciparvi; anche se ad alcuni ciò possa dispiacere.

Signori, ho finito. La ratifica è un passo avanti verso la pace, verso la pace nostra e verso la pace del mondo. Io non farò nessuna chiusa retorica, che in questo momento sarebbe un’offesa al sentimento profondo del popolo italiano. Ma voglio dire soltanto che – secondo noi – questa dura strada, questa decisione dolorosa che dobbiamo prendere è un grande atto di fede nelle possibilità, nel valore, nel lavoro, nel divenire del nostro popolo. E quando dico popolo italiano, penso soprattutto alle classi lavoratrici nostre, che sono state le vittime prime del regime che ci ha condotti a questi dolori e che sono adesso gli esempi primi del nostro desiderio di resurrezione e di catarsi.

Signori, mai come adesso, io credo, sono state vere le parole di Mazzini, non solo quelle che dicono che il martirio non è sterile mai, ma anche le altre, secondo cui l’ora più buia della notte (forse quella che viviamo) è quella che precede l’aurora. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pecorari. Ne ha facoltà.

PECORARI. Come giuliano, è ben comprensibile lo stato d’animo mio e dei miei confratelli di fronte a questo Trattato di pace. In questi ultimi giorni ho ricevuto vari messaggi e ordini del giorno provenienti dalla Venezia Giulia o da associazioni di giuliani sparsi in Italia, e tutti protestano per questo Trattato di pace. Voglio ricordarne almeno uno, quello delle Associazioni Giuliane riunite. In esso, nella certezza di interpretare il sentimento di tutti i giuliani e di tutti i dalmati, si riafferma l’inalienabile diritto dell’Italia sulla Venezia Giulia e su Zara, e si rivolge un appello all’Assemblea Costituente perché respinga l’iniquo Trattato imposto all’Italia in aperta violazione del principio dell’autodecisione dei popoli.

Questo stato d’animo è ben comprensibile: non si può pretendere da un condannato che firmi la propria sentenza. Noi che viviamo in uno stato tutto particolare, che non è né quello armistiziale, né quello del vinto, noi che siamo abituati a rinunziare ad ogni cosa pur di poter vivere civilmente in ambiente nostro, comprendiamo la posizione difficile e delicata della Nazione. Ma non possiamo non levare la nostra protesta più fiera contro questo Trattato, che incide nelle nostre carni e che è stato fatto senza consultarci, e anzi mettendo nel preambolo che tutto viene fatto secondo giustizia ed equità.

Il tempo, galantuomo, ha fatto sì che della situazione della Venezia Giulia ormai tutti siano più o meno edotti. Eppure non è cambiato niente. L’esodo degli italiani dalle zone destinate ad essere cedute ad un altro Stato continua ancora; e sì che i documenti fotografici e cinematografici fatti di qua e anche di là, fatti per le foibe, ma anche per dimostrare le condizioni in cui vengono a trovarsi gli esuli in Italia, avrebbero dovuto scoraggiare quelli che, secondo una certa propaganda, spinti da un nazionalismo eccessivo, abbandonavano le loro terre per rifugiarsi nella madre patria.

No, signori, io credo di poter affermare con tutta tranquillità di coscienza che noi non siamo nazionalisti. Saranno nazionalisti quelli che favoleggiano una revisione di patti, che noi sappiamo troppo bene che non potranno essere revisionati. Noi non desideriamo la guerra, e sappiamo che i confini purtroppo non si spostano che con le guerre. Noi tutti siamo compresi dell’importanza della nostra regione. Sappiamo che nella nostra regione può sorgere un affratellamento dei popoli, una comprensione di nazionalità diverse, che può portare a quella unione di stati e di interessi che può consolidare la pace.

Ma non possiamo dimenticare il modo e la maniera nella quale veniamo tagliati e divisi fra noi e soprattutto dalle nostre terre.

Qualcuno si domanda come mai ancora ci siano di questi giuliani che abbandonano le loro terre. Io stesso ho avuto occasione di avvicinare un mio collega abitante in una cittadina istriana. Egli si sta preparando per abbandonare la sua casa, il suo campicello, i suoi beni per venire – non più giovane – a crearsi un’altra esistenza in Italia. Egli è un vecchio antifascista iscritto ad un partito di sinistra fin dall’altra guerra, benvisto dalle autorità jugoslave, appoggiato, solleticato, invitato a restare, al punto che gli hanno offerto anche di optare per l’Italia e di rimanere al suo posto.

E gli ho chiesto: «Allora perché vuoi venirtene via?». Egli mi descrisse la situazione della sua cittadina, la vita che deve condurre: una vita nella quale non entra la calma, la quiete, la fiducia, la tranquillità, ragioni tutte che gli rendono impossibile resistere nella sua terra. Sappiate quindi – e questo è opportuno prima che voi decidiate di un voto così importante e decisivo – che con il vostro voto, salvo miracoli – nei quali sempre crederemo e spereremo – con questo Trattato la civiltà italiana della sponda orientale e dell’Adriatico sparirà: sparirà come è sparita in Dalmazia; sparirà come è sparita a Nizza.

Si dice che con il Trattato si difenderà meglio l’italianità del territorio libero di Trieste. Ma chi crede alla funzionalità, alla capacità di sopravvivere di questo staterello? Vi ricordo che della Venezia Giulia un decimo di territorio va all’Italia, un altro decimo al territorio libero e gli otto decimi alla Jugoslavia. La densità della popolazione sarà nel territorio libero superiore a quella dell’Italia di quasi il doppio. Questo vi dimostra già la impossibilità di vita di questa popolazione. Ma oltre a questo noi abbiamo un’esperienza già vissuta di due anni di Governo alleato, di governo neutrale; ed abbiamo visto che in questi due anni l’italianità di Trieste non ha progredito affatto, anzi ha regredito. Eppure i triestini sono oggi più italiani che mai, più fervidamente italiani ancora del ’18; ma l’invasione, la pressione delle genti orientali si fa sempre più opprimente e, soprattutto, la ricchezza di mezzi con la quale questa gente arriva nei nostri territori è tale che è vano, illusorio, ingenuo pensare che l’Italia potrà controbattere efficacemente questa pressione che tende a snazionalizzare la città di Trieste.

Eppure siamo in condizioni così diverse da quelle nelle quali si trovava, per esempio, la città di Nizza. Ricordo che nel 1860 si svolse nel Parlamento italiano un dibattito che ha strane analogie con questo dibattito odierno.

Ci furono vari interventi di grandi personalità che io, per brevità, tralascio di citare. Eppure, pur trovandosi di fronte una nazione sorella, latina, la città di Nizza, staccata dalla madre Patria, non seppe mantenere la sua italianità. Non potrà purtroppo avvenire diversamente della nostra Città.

Ed è per questo che con una protesta serena ma obiettiva – obiettiva, perché sentita, perché vissuta, perché suffragata da una esperienza – noi protestiamo contro questo Trattato, invocando il sorgere di un’altra era di pace nel mondo che faccia sì che i confini non dividano più le genti e siano liberi i popoli di comunicare fra loro in un nuovo clima di pace, di tranquillità, di concordia, senza barriere, senza saracinesche che aizzino i popoli l’uno con l’altro in una lotta fratricida e dannosa per tutti quanti, e soprattutto per la pace del mondo.

Con queste brevi, brevissime considerazioni termino, implorandovi a riflettere con tutta serietà sul tremendo voto che state per dare. Pensate alle responsabilità che vi assumete e pensate anche agli obblighi, se questo voto sarà sfavorevole per la Venezia Giulia, che verranno a voi, a tutta la Nazione, di aiutare questi fratelli italiani, che pagano innocenti una colpa che non è loro e caso mai una colpa collettiva, di tutta la Nazione. Fate questo gesto, fate questo esame di coscienza e questo proponimento di solidarietà verso questi poveri fratelli italiani. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spano Velio. Ne ha facoltà.

SPANO VELIO. Io non sarei intervenuto in questo dibattito, nel quale il mio Gruppo avrà modo di esporre ampiamente le sue opinioni, se non fossi stato spinto da una esperienza personale e da una conoscenza diretta a porre dinanzi a voi, onorevoli colleghi, e soprattutto dinanzi a voi, signori del Governo, un problema che è insieme uno degli aspetti più dolorosi della situazione internazionale dell’Italia e uno dei punti maggiormente indicativi dell’orientamento che deve seguire la nostra politica internazionale. Parlo del problema degli italiani in Tunisia, del problema di quella collettività italiana, che è particolarmente cara al nostro cuore di italiani di tutti i partiti e di tutte le correnti, perché essa ha fornito uno degli esempi più luminosi delle virtù creative del lavoro italiano.

La collettività italiana in Tunisia è composta essenzialmente di viticultori e operai agricoli, pescatori, minatori, operai dell’industria.

Il giornalista francese De Montety così la descriveva, già nel 1937: «A parte un centinaio di imprenditori, mugnai, grossi proprietari, viticultori e medici, la colonia italiana è costituita da piccoli benestanti, che traggono sussistenza dai loro 4 o 5 ettari di terra, e da una gran massa di salariati al servizio di imprese francesi; essa (la colonia italiana) fornisce la più gran parte della mano d’opera europea».

Ora, l’interesse fondamentale di questa gente laboriosa era la conquista di quel modesto benessere che essi, operai o contadini, non erano riusciti a conquistare nelle loro regioni di origine, i minatori in Sardegna, i contadini siciliani al servizio dei loro feudatari. E alla conquista di quel benessere erano in certa misura pervenuti, sia per virtù personale del loro lavoro, sia per la forza delle organizzazioni sindacali.

Senonché, le preoccupazioni fondamentali di questa nostra gente laboriosa non erano le preoccupazioni del fascismo. Il fascismo aveva altre preoccupazioni: il fascismo era essenzialmente preoccupato di mettere le mani sui fosfati e sui minerali di ferro per conto della Terni, vale a dire del gruppo Ciano-Mussolini, e per conto della Montecatini.

Da qui una politica di oscuri intrighi e di provocazioni che talvolta marciavano parallelamente, talvolta si alternavano. Una grande calma era sopravvenuta in Tunisia nei primi mesi del 1938, fino a quel mese di giugno nel quale la Corte internazionale dell’Aja respinse come infondati i reclami di un certo Tassara, agente del gruppo Ciano-Mussolini, il quale protestava contro il monopolio che esercitava nell’Africa del Nord l’«Office chérifien des phosphates». Subito dopo, nel novembre, dilagarono, partendo da quest’Aula, i clamori della rivendicazione territoriale sulla Tunisia.

Tutto ciò ha provocato le conseguenze che sono note. Ma forse meno nota, non dico ai servizi del Ministero degli esteri, ma all’opinione generale italiana è, almeno nei particolari, l’odissea che hanno dovuto vivere in questi anni gli italiani della Reggenza di Tunisi.

Nel 1940, quando il fascismo scatenò la guerra, la repressione necessariamente si abbatté sugli italiani in Tunisia, una parte di provocatori fascisti, di quelli che erano maggiormente responsabili localmente della situazione che ora si creava, una parte di costoro era scappata in Italia. Un’altra parte di essi si era naturalizzata francese, trovando modo così di sfuggire definitivamente alla repressione, che si abbatteva sulla grande massa degli italiani. Ceravamo noi, c’erano i fascisti minuti, c’era la grande massa degli italiani; e prendemmo la strada dei campi di concentramento: Sbeitla, Casseime, dove passammo nel deserto, in mezzo agli scorpioni, il mese di giugno e buona parte del luglio del 1940. Poi venne l’armistizio e con l’armistizio ricominciarono immediatamente le provocazioni dei fascisti. Questi ritornarono subito in Tunisia, e l’azione di provocazione fu allora meglio organizzala. Finché nel 1943, quando le truppe naziste e fasciste furono cacciate dalla Tunisia, si scatenò implacabile sulla nostra colonia tutta un’azione che non era più soltanto di repressione, ma era anche di rappresaglia.

Gli operai furono inviati ai lavori forzati, con un salario uguale ad un decimo del salario normale degli altri operai. Abbiamo visto in quell’epoca nelle strade di Tunisi dei giovani studenti, di 18-20 anni, costretti a scopare le strade. Buona parte di italiani furono internati nei campi di internamento. Le requisizioni implacabilmente colpirono i beni degli italiani e furono requisite case, appartamenti, mobili, suppellettili. Fu perfino requisita una biblioteca, con tutti libri italiani, appartenente a Giuseppe Miceli, giovane nostro compagno comunista, che era stato assassinato nel settembre del 1937 dai cadetti fascisti nella sede del circolo Garibaldi. Tutti i beni italiani furono messi sotto sequestro, e soltanto pochissimi riuscirono a svincolarne una parte. Fu fatta una lista di espulsione, e molti italiani furono espulsi dalla Reggenza, senza tener conto se andavano via con le loro famiglie o senza di esse. Una lista di «nemici della Francia» fu stabilita e pubblicata in Tunisia e contemporaneamente furono prese misure che interdicevano l’esercizio professionale ai medici, farmacisti, avvocati e a tutti gli altri professionisti italiani. Molti furono costretti allora a vendere i loro beni acquistati con il loro sudore. Ma anche qui si fece una distinzione di classe; infatti i pochi che sono riusciti in parte a salvare i loro beni sono i grossi possidenti, perché essi hanno potuto accettare il ricatto che veniva loro fatto, hanno cioè potuto vendere una parte di beni alla «Cooperativa d’acquisto dei beni nemici» creata in Tunisia in quel tempo, per poter conservare il resto. Questo regime è durato fino ai primi mesi del 1947, con quali conseguenze e con quali effetti di disgregazione economica e morale è facile immaginare: migliaia di famiglie sono state disperse o sono cadute preda della miseria; migliaia di italiani di Tunisia si trovano oggi disoccupati in Italia.

Oggi, il lavoro obbligatorio è cessato, i campi di concentramento sono chiusi. Ma le case sono rimaste requisite, i sequestri sono mantenuti; i malati italiani sono tuttora esclusi dall’ospedale Garibaldi, che si chiama oggi Hôpital de la Libération, con la scusa addotta da un funzionario del Gabinetto del Residente generale che «bisogna eliminare quella atmosfera di italianità che vi aleggia ancora». E per di più una decisione recente elimina dal beneficio della proprietà commerciale tutti gli industriali e commercianti italiani, i quali si trovano così sottoposti al doppio pericolo di uno sfratto immediato e di ogni sorta di ricatti. Si dice loro infatti: «se non vuoi lo sfratto immediato, paga subito tale somma o paga di nascosto tale esorbitante aumento di affitto».

In questo modo, onorevoli colleghi, gli italiani di Tunisia pagano oggi le malefatte, le provocazioni, le prepotenze del fascismo, le bombe del console Barduzzi, l’odio antifascista e tutti i germi dell’antitalianità seminati a piene mani dal fascismo.

È avvenuto quello che doveva avvenire.

Noi, comunisti, abbiamo l’orgoglio di potere dire oggi che già da tempo avevamo messo in guardia le nostre colonie italiane di Tunisia contro quello che oggi sta avvenendo.

In un suo proclama il Comitato centrale del Partito comunista, subito dopo le rivendicazioni scoppiate a Montecitorio nel novembre del 1938, dopo avere rilevato quale grado di benessere erano riusciti ad ottenere con il loro lavoro gli italiani in Tunisia, affermava che tutte le conquiste, frutto di sacrificio e di decenni di lavoro, erano messe in pericolo dalla politica provocatrice di Mussolini, e che i lavoratori perdevano la possibilità di continuare a guadagnare pacificamente un discreto salario.

Cosa accadrà degli italiani di Tunisia – dicevamo – che si saranno inconsciamente prestati a questa politica?

Essi saranno costretti ad abbandonare per sempre la Tunisia ed a condurre la vita di miseria e di disperazione del nostro popolo, della nostra Sicilia, per colpa della dispendiosa e brigantesca politica del regime fascista. «Nel corso di pochi giorni potrà scatenarsi un uragano, che spazzerà il frutto di 50 anni di lavoro e di sacrifici degli italiani di Tunisia»: questo noi dicevamo.

Ebbene, l’uragano è venuto. Oggi si tratta per noi di rimediare alle conseguenze di questo uragano e di ricostruire sulle devastazioni. Non vale oggi ricorrere a spiegazioni parziali, né parlare della xenofobia dei funzionari francesi, i quali, dopo essere stati talvolta complici dell’azione provocatrice del fascismo ed essere stati più tardi agenti di Hitler, al servizio di Vichy, fanno oggi sfoggio di antitalianità. Non vale parlare della capacità degli industriali francesi. Questa xenofobia e questa rapacità esistono; ma non possiamo far niente per eliminarle. Questo è problema che concerne la democrazia francese, non quella italiana. Ma noi possiamo e dobbiamo agire per eliminare o attenuare gli effetti di questa rapacità e di questa xenofobia; noi possiamo e dobbiamo agire, per affermare vittoriosamente, nella misura in cui è possibile, le rivendicazioni degli italiani di Tunisia: abolizione del sequestro dei beni e ripristino della libera gestione degli stessi, con relativa libertà di vendita e di acquisto dei beni mobili ed immobili – ristabilimento delle libertà di associazione, di riunione e di espressione, tutte libertà di cui sono ancora privi i democratici italiani in Tunisia – riconoscimento dei diritti acquisiti al 10 giugno del 1940, data da cui viene fatta decorrere l’abolizione delle Convenzioni del 1896, ciò che significa, in particolare, il ripristino della libertà di esercizio pei professionisti, farmacisti, medici, avvocati, che si erano stabiliti laggiù, in virtù delle condizioni che venivano fatte loro in base alle Convenzioni del 1896, e il diritto di pesca per i pescatori italiani, diritto che fu loro riconosciuto ancor prima della suddetta data.

Mi si obietterà che il problema è stato già posto dal Ministro degli esteri e dal nostro Ambasciatore in Francia, Quaroni. Lo so. Tanto l’onorevole Sforza che l’Ambasciatore Quaroni mi hanno dato personalmente, in privato, assicurazioni in proposito. Forse non sarebbe stato male che il problema fosse stato posto in pubblico nelle dichiarazioni del Governo. Difatti è certo che noi comunisti e senza dubbio tutta l’Assemblea, abbiamo molto apprezzato al loro giusto valore le espressioni di benevolenza che ci sono state trasmesse dalle Repubbliche Sud Americane di Cuba, per esempio, e del Guatemala, ma la Assemblea forse avrebbe amato conoscere in quale stadio si trovano le trattative concernenti il regolamento della situazione degli italiani di Tunisia. Si obietterà anche che poco si può fare oggi per gli italiani di Tunisia, soprattutto poco si può fare sul terreno delle trattative particolari. È vero. Ma appunto per questo bisogna intensificare lo sforzo per arrivare ad una distensione dei rapporti tra l’Italia e la Francia e per fare, in generale, una politica estera di amicizia e di collaborazione con le altre Nazioni.

Bisogna, in altri termini – noi comunisti lo stiamo ripetendo da anni e cogliamo l’occasione per ripeterlo ogni volta che abbiamo potuto esprimere pubblicamente il nostro giudizio sulla politica estera del Governo italiano – fare di tutto per evitare che la responsabilità della politica fascista ricada interamente sul popolo italiano. Sappiamo perfettamente che non possiamo evitare tutte le responsabilità e respingerle interamente da noi, ma possiamo fare in modo che esse, interamente su di noi non ricadano. So che la corresponsabilità tra l’Italia del passato e l’Italia del presente è considerata come fatale e inevitabile da alcuni, per esempio dall’onorevole Croce, il quale ci ha espresso questa sua personale convinzione al Congresso di Bari dei Comitati di liberazione, ella lo ricorda, onorevole Sforza, nel gennaio del 1944, e ci ha ripetuta questa sua personale convinzione qui ieri. Ed è logico che, partendo da questa premessa, l’onorevole Croce versi poi lagrime sulla sorte dei criminali di guerra giustiziati e ritenga quasi invidiabile, al confronto, la sorte di Vercingetorige, e lodi quasi Giulio Cesare per aver fatto strozzare il suo nemico in carcere. Ma è proprio questa corresponsabilità che noi neghiamo, e bisogna negarla concretamente, coi fatti, affinché non ricadano interamente sull’Italia le terribili responsabilità del fascismo. Anche per questo noi abbiamo reclamato, durante la guerra, l’intensificarsi dello sforzo di guerra a fianco degli alleati. Anche per questo non abbiamo mai pensato che si potesse negare o negoziare la nostra cobelligeranza ed anche per questo, per salvaguardare l’avvenire del nostro Paese, consacrammo tutte le nostre energie alla guerra partigiana.

Ma per trarre tutte le conseguenze da questo sforzo tendente ad evitare che le responsabilità ricadano interamente su di noi, possiamo dire di aver fatto, sul piano della politica estera, tutto quel che potevamo fare? Possiamo dire di aver fatto tutto il nostro dovere? Credo di no. Noi non abbiamo sufficientemente mutato l’orientamento, il tono, i sistemi della nostra politica estera, anche perché, onorevole Sforza, non abbiamo sufficientemente cambiato l’apparato. È evidente che il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori, almeno in generale, parlano oggi un linguaggio diverso da quello che parlavano il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori sotto il regime fascista, quando esprimevano apertamente la loro criminalità nazionalista. Ma è anche evidente che i funzionari, che non sono cambiati, molto spesso parlano oggi lo stesso linguaggio che parlavano prima ed adoperano gli stessi sistemi. Io vorrei citare alcuni esempi, restando nel quadro della situazione tunisina.

C’era in Tunisia, fino al 1943, ad eccezione della breve interruzione giugno-luglio 1940, un avvocato, un noto provocatore fascista fortemente indiziato per essere stato iscritto nell’elenco dell’O.V.R.A., il quale dopo il 1938 rinnegò perfino la sua religione, a seguito della campagna razziale, pur di seguire fino in fondo il fascismo.

C’era un medico fazioso e provocatore, noto e inviso a tutta la Tunisia.

C’era un diplomatico, infine, che era stato console generale di Tunisi e che poi, durante il periodo dell’occupazione italo-tedesca, divise col ministro nazista Rahn il potere. Ebbene, quando l’Italia è stata liberata ed anche prima ch’essa fosse interamente libera – e mi dispiace che non sia presente l’onorevole Morelli, il quale potrebbe darmi testimonianza di quello che affermo – questi tre signori ce li siamo trovati tra i piedi, insediati con importanti funzioni direttive a Palazzo Chigi e al palazzo della Consulta. E credo che ci siano ancora.

E così è nei Consolati all’estero, dove i nostri connazionali e gli altri incontrano le stesse facce che vedevano nel periodo repubblichino, e per questo si verificano talvolta incresciosi incidenti. Costoro parlano lo stesso linguaggio di prima, adoperano gli stessi sistemi di prima, sono – come prima – lontani dagli interessi dei nostri lavoratori emigrati. Bisogna fare uno sforzo per eliminare quei funzionari che si sono troppo compromessi col fascismo. So che un tale sforzo è particolarmente difficile in un momento nel quale le sciarpe littorio e gli ex ufficiali della milizia siedono perfino nei Consigli del Governo. E infatti oggi, se le mie informazioni sonò esatte, una oscura minaccia sembra gravare non soltanto sugli impiegati dei Consolati all’estero, particolarmente in Francia, che sono stati assunti per indicazione delle organizzazioni democratiche, ma anche su quei funzionari di carriera mandati da Roma, i quali si sono resi colpevoli di aver stabilito delle relazioni amichevoli con le loro colonie e di aver dato prove di sentimenti veramente democratici e repubblicani. Parlo particolarmente di uno dei nostri consoli generali, il caso del quale mi consta essere stato segnalato al Ministro degli esteri.

Capisco dunque che oggi è difficile, specie nel clima che il governo attuale ha creato, eliminare dal nostro apparato del Ministero degli esteri quei funzionari che costituiscono un ostacolo all’applicazione di una politica di collaborazione e di amicizia con gli altri popoli, ma questo sforzo bisogna farlo. Cambiate l’aria di Palazzo Chigi, signori del governo, se volete davvero realizzare quella politica di amicizia e di collaborazione che proclamate di voler realizzare.

Il giuoco vale la candela, signori, perché da esso dipendono sul piano generale, gli interessi dell’Italia e sul piano più modesto, sul quale io mi sono tenuto, gli interessi dei lavoratori e di centinaia di migliaia di connazionali onesti e laboriosi, ai quali bisogna ridare oggi una prospettiva di vita.

Permettetemi, onorevoli colleghi, di rievocare un ricordo personale: un vecchio minatore sardo di Redeyef, miniera di fosfati nel Sud della Tunisia, parlando del progresso che i lavoratori italiani avevano realizzato dal 1936 al 1938 attraverso le lotte sindacali, si esprimeva così: «Prima vedevamo il sole una volta alla settimana, giacché scendevamo in miniera prima dell’alba e risalivamo a notte, oggi vediamo il sole ogni giorno».

Si tratta proprio di questo, onorevoli colleghi, si tratta di impostare e realizzare una politica estera di vera amicizia, di vera collaborazione, estendendo i nostri rapporti amichevoli con i paesi esteri e creando una situazione per cui i nostri lavoratori «tornino a vedere il sole ogni giorno». (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Secondo l’intesa di ieri sera, sospendiamo la seduta. La riprenderemo alle 21.30, per proseguire la discussione che è stata incominciata oggi nel pomeriggio.

Risultano iscritti a parlare gli onorevoli Cevolotto, Adonnino, Ambrosini, Crispo, Valiani, Jacini, Cicerone, Bassano ed altri.

Incomincerò a dare la parola nell’ordine, agli iscritti, considerando come volontariamente rinuncianti alla iscrizione a parlare coloro che non saranno presenti alla seduta. (Approvazioni).

Con questa intesa, sospendo la seduta per riprenderla alle ore 21.30.

(La seduta, sospesa alle 19.50 è ripresa alle 21.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, il Trattato di pace non è soltanto iniquo, non è soltanto in contrasto con i principî della Carta Atlantica – e a questo proposito ricordo che, quando l’onorevole Ruini accennò a non tener molto conto delle parole, il Ministro Sforza gli rispose che non si trattava di parole, ma di dichiarazioni: la Carta Atlantica è una solenne dichiarazione, di cui non si è tenuto conto – il Trattato non è soltanto dannoso agli interessi della pace del mondo, e agli stessi interessi bene intesi delle potenze vincitrici: è anche ineseguibile.

È un trattato che, per quanto ci riguarda, noi non possiamo eseguire. Le clausole delle riparazioni, le clausole economiche, se entrassero in vigore e dovessero essere da noi rispettate, metterebbero a terra l’Italia. Da ciò la ripugnanza da parte nostra, da parte di tutta l’Italia, da parte del popolo italiano, a consentire e ad accettare quella che noi dobbiamo considerare la nostra rovina, e che sentiamo di dover rifiutare, perché ci appare come una ingiustizia. Il popolo italiano ha sempre, soprattutto, la pronta sensazione di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Capisco, quindi, l’impulso di coloro che sono spinti a negare, in tutti i casi, la ratifica. Capisco la posizione dell’onorevole Orlando e di Benedetto Croce. Intendo le ragioni che li spingono a rispondere: «No», in ogni caso, a costo di qualunque cosa possa accadere; a negare la firma, pronti a correre qualunque rischio peggiore.

Ma è altrettanto plausibile che molti di noi non si sentano di assumere la responsabilità delle conseguenze di un rifiuto di ratifica; delle conseguenze – cioè – che potrebbero essere gravissime, di un rifiuto dell’accettazione del Trattato di pace. E anche coloro che, come me, più ripugnano da questo Trattato sconcio, in fondo pensano che in esso vi è un punto che ci può consentire di eseguirlo senza accettarlo, ed è quel famoso articolo 90, che è stato escogitato contro di noi, col proposito di aggravare la nostra situazione, ma che, in fondo, finisce per giovarci.

L’articolo 90 ci consente, infatti, di dare alla nostra ratifica un carattere e un aspetto tutti particolari, svuotandola (questa volta, sì, è il caso di usare la parola) del suo contenuto. Non deve però mancare la protesta contro l’ingiustizia, non deve mancare in nessun caso la dichiarazione che noi subiamo uno stato di necessità, anzi di violenza morale.

L’ordine del giorno proposto dall’onorevole Ruini contiene appunto, nella sua prima parte, questa protesta, ma io credo che la protesta vera, la protesta reale, quella che ha un significato positivo, non può consistere né in un ordine del giorno, né in una dichiarazione; deve risultare dal nostro atteggiamento di fronte alla ratifica del Trattato.

Che cos’è questo articolo 90 del Trattato? L’onorevole Perassi, in una sua precisazione pubblicata ne La Voce Repubblicana, ha illustrato l’aspetto giuridico della ratifica ed ha ricordato l’ordine del giorno votato dall’Assemblea Costituente il 25 febbraio 1947 all’unanimità. Dice questo ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Questo ha votato l’Assemblea Costituente. Ma qual è il significato di questo voto e di questa dichiarazione? Il significato di questo voto e di questa dichiarazione è una protesta, la protesta per quello che dice chiaramente l’articolo 90, per quanto si sia voluto affermare da qualche parte che si tratta di una formula nebulosa ed ambigua. No, non è una formula nebulosa ed ambigua: è una formula precisa: «Il presente Trattato, di cui il testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate e Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia. Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Il capoverso aggiunge che per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito. Avviene così che, mentre il Trattato, nei confronti delle quattro Grandi Potenze alleate entra in vigore subito dopo il deposito delle quattro ratifiche e per ciascuna delle altre Potenze Alleate e Associate entra in vigore al momento del successivo deposito delle singole loro ratifiche, per l’Italia entra in vigore al momento del deposito delle quattro Grandi Potenze, anche se l’Italia non abbia ratificato.

L’onorevole Perassi dice, ed ha ragione: «La ratifica dell’Italia è sempre necessaria, secondo le regole del diritto internazionale». Infatti noi lo abbiamo detto nel nostro ordine del giorno. Nel nostro ordine del giorno c’è una protesta a questo riguardo, ed è una protesta perfettamente legittima; arrivo a dire che è una protesta che non sarebbe neanche necessaria, perché senza la nostra ratifica, qualunque valore si voglia dare a questo termine, senza la nostra dichiarazione che eseguiremo il Trattato, non v’è possibilità che esso divenga esecutivo pacificamente. Il Trattato, per forza di cose, se non lo ratifichiamo, non entra pacificamente in esecuzione.

Se noi non diciamo che vi daremo esecuzione, il Trattato non potrà entrare in esecuzione se non nell’altra forma, che è adombrata nell’articolo 90. Quando in questo articolo si dichiara che il Trattato entrerà in vigore dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro Nazioni, ci si intima in sostanza: o voi ratificate ed eseguite volontariamente questo Trattato, oppure entrerà in vigore lo stesso, cioè lo faremo entrare in vigore, perché con la coazione vi obbligheremo ad eseguirlo. Il che è sempre possibile dal momento che noi siamo una Nazione vinta ed occupata e loro sono i vincitori, e hanno tutti i mezzi per costringerci, dall’uso diretto della forza alla coazione indiretta, facendoci mancare gli aiuti di cui abbiamo necessità per vivere. Noi ci troviamo di fronte ad un dilemma: o accettiamo e diamo la ratifica che ci vien chiesta in questa forma, oppure gli alleati metteranno in esecuzione lo stesso il Trattato, lo metteranno, cioè, in esecuzione con la forza o con la coercizione.

Ecco perché l’articolo 90 ci consente di ratificare in questa particolarissima condizione, senza in sostanza accettare il Trattato.

Ci si mette di fronte a un dilemma perfetto: o ratificare ed eseguire volontariamente, o noi rendiamo esecutivo il Trattato lo stesso, cioè vi imponiamo con la forza l’esecuzione. In altre parole: le navi, se non ce le date, ce le prendiamo; le riparazioni, se non le pagate, pensiamo noi a pagarcele, con quelle forme che possiamo usare, dato che siamo gli occupanti del vostro territorio e possiamo aggravare questa occupazione, anche se, per ora, l’abbiamo allentata e possiamo sempre domarvi affamandovi.

Ci troviamo di fronte ad uno stato di necessità, ad uno stato di coercizione, ad uno stato di violenza morale, che non può essere disconosciuto o negato.

Se noi ratifichiamo in questa situazione, la nostra ratifica non avrà certo il valore di una ratifica vera e propria. Perché non è neanche una ratifica quella che ci si chiede: non è altro che la dichiarazione, da dare in buona fede, che noi eseguiremo o cercheremo di eseguire per quello che sarà possibile questo Trattato iniquo. Ci assoggetteremo ad eseguirlo, perché non possiamo fare altrimenti e perché aneliamo ad uscire da questo stato di armistizio che limita la nostra indipendenza.

Questo è in sostanza il valore della nostra ratifica; e questa allora è la vera protesta che ora possiamo fare, la sola che in qualche modo salva l’avvenire. Ma essa non ha lo stesso valore, se è fatta quando lo stato di necessità è evidente, è in atto, è tale da escludere ogni libera forma di adesione o di accettazione da parte nostra. Perciò dev’esser fatta quando il Trattato entrerebbe in vigore lo stesso, anche se noi non lo ratificassimo, nelle forme dell’imposizione; quando ci si dirà, con deposito delle quattro ratifiche: se non ratificate, noi metteremo in vigore lo stesso il Trattato.

Di fronte alla realtà inesorabile, l’Italia non avrà libertà di scelta e potrà ratificare senza che tale atto significhi volontaria adesione al Trattato. L’articolo 90 – che è anche esso iniquo nei nostri riguardi – qualche vantaggio ci può dare. Perché dobbiamo rinunziarvi?

Il disegno di legge che ci è sottoposto ha varie formulazioni. La prima formulazione era quella dell’approvazione esplicita del Trattato. Il disegno di legge all’articolo 1 dice: «È approvato il Trattato di pace fra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947». La Commissione dei Trattati non approvò questo schema, e le ragioni sono evidenti. Propose allora una formula diversa: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947». Vi era in questo schema l’autorizzazione alla ratifica anche immediata: noi accettavamo di ratificare prima che le condizioni dell’articolo 90 si fossero verificate. In seguito alla discussione che si svolse alla Commissione dei Trattati, venne fuori la terza formula definitiva del testo emendato, accettato, anzi proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace tra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». È evidente la grande differenza tra il primo testo del disegno di legge proposto dal Governo, il testo della Commissione e questo terzo testo che viene proposto ora. Anzi, questo testo va al di là anche di una formula che aveva elaborato, in un ordine del giorno che non ho veduto stampato, l’onorevole Perassi, il quale proponeva una forma di ratifica condizionata: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella delle potenze firmatarie nominativamente indicate nell’articolo 90». Ora, la diversità del testo della proposta Perassi sta in questo, che la proposta Perassi è una ratifica condizionata; la proposta del Governo invece, non è una ratifica: in sostanza è un mandato a ratificare. E questo mandato, se si interpreta in buona fede, dovrebbe essere un mandato irrevocabile e, in quanto accettato, anzi richiesto, obbligatorio in ogni caso per il Governo. Uso delle formule che non sarebbero strettamente giuridiche, ma voglio rendere in qualche modo evidente il mio pensiero. Là vi è una ratifica condizionata; qui non vi è ratifica: vi è un mandato a ratificare. Si potrebbe persino pensare e si potrebbe persino sostenere che questa nuova formula del Governo contiene un divieto al Governo, che ha chiesto l’approvazione del Trattato e la ratifica, di ratificare, finché non si saranno verificate le condizioni dell’articolo 90. Cerco di precisare il lato giuridico della questione; non vi nascondo che la questione è essenzialmente politica: ma in fondo, i Trattati di pace sono atti di diritto internazionale, atti giuridici. Noi discutiamo una legge: dunque dobbiamo, prima di tutto, delimitare il terreno giuridico nel quale ci moviamo e precisare i punti giuridici della questione, dopo di che potremo prendere quelle decisioni politiche che troveranno la loro base nella situazione giuridica che si sarà chiarita.

Proseguo nella mia dimostrazione. È innegabile che la formula governativa viene incontro alle critiche di coloro che non vogliono la ratifica immediata, perché la ratifica non c’è. Mi permetta l’onorevole Sforza – con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per lui (e non è la mia una formula di complimento) – di dirgli che il suo discorso mi ha stupito. In sostanza io ho avuto l’impressione – mi perdoni – che sia stato preparato in relazione alla formula della Commissione, non alla formula ultima del Governo. Perché egli, infatti, si è sforzato di dimostrare la necessità della ratifica, mentre il Governo ora rinunzia alla ratifica. Questa è la contradizione che mina alla base il suo discorso.

Sorge così un nuovo quesito, e un problema. È certo che l’ultima formula dell’emendamento governativo sarà accettata da quelle Potenze che ci consigliavano la ratifica immediata, come se la ratifica immediata noi avessimo accettato? Se il Ministro ha delle informazioni, delle sensazioni, o delle presunzioni che gli permettono di credere che realmente questa formula sarà accettata come la formula della ratifica immediata, allora non vi è forse qui una indicazione – se non una vera e propria dimostrazione – che la ratifica immediata non era poi necessaria a tutti gli effetti che si sperava di ottenerne? Ci si è detto che la ratifica era necessaria per presentarsi a Parigi degnamente. Il problema è importante per tutti coloro che pensano che sia sempre un enorme vantaggio non essere assente da convegni internazionali di quella portata. Ma noi a Parigi eravamo stati chiamati senza condizioni; e l’impressione che si è avuta qui, da quelli che non hanno forse tutte le notizie, è stata che in fondo, anche senza la ratifica, anche quando la ratifica era contrastata, anche su una semplice indicazione della Commissione dei Trattati, che aveva un valore molto relativo, la nostra situazione a Parigi non ha cambiato sensibilmente. Ora ci si viene a dire – e questo mutamento di argomento è un po’ fastidioso – che la ratifica è necessaria per il nostro ingresso nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Qui non vorrei dire cose amare; ma mi si permetta di osservare che l’articolo 23 numero 1 ci fa in ogni caso per ora una posizione subordinata nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Inevitabilmente, perché noi non possiamo nemmeno essere chiamati a far parte, come membro non permanente, del Consiglio di sicurezza, in quanto i posti sono riservati, in primo luogo, al contributo dato dalle Nazioni aspiranti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. E l’articolo 23 va poi messo in relazione con l’articolo 107, che può riservarci qualche sorpresa. Aderendo, in qualunque modo, al Trattato, noi accettiamo anche quel preambolo che ci qualifica come Stato aggressore. L’articolo 23, numero 1, dovrà essere modificato, perché ingiusto, specialmente nei nostri riguardi, ma la modifica non potrà venire dall’oggi al domani. Ci vorranno dei mesi, ci vorrà forse un anno per ottenerne la modifica. Intanto noi saremmo nell’O.N.U. in una posizione che non sarà quella che le nostre tradizioni, la nostra realtà di Potenza, non oso dire grande, ma che è stata grande e che è grande sempre per la sua storia, per la sua tradizione, per il suo passato, dovrebbero darci. Ci converrà indubbiamente in tutti i casi entrare nell’organizzazione delle Nazioni Unite, senza però farci soverchie illusioni. Per ora, disgraziatamente, questa Organizzazione delle Nazioni Unite non promette tutto quello che è nelle nostre speranze, e che potrà dare in seguito. Ad ogni modo non dovremo esserne esclusi. Ma non mi pare che sia proprio la formula proposta ora dal Governo a schiuderci quella porta che probabilmente ci sarebbe schiusa lo stesso nella posizione subordinata che per ora lo statuto delle Nazioni Unite ci consente.

UBERTI. E se fosse una illusione?

COSTANTINI. Sarebbe come oggi!

Una voce al centro. Così parlava Mussolini.

COSTANTINI. Così parlate voi, non Mussolini. Cosa c’entra Mussolini? Lo avete troppo in bocca, perché lo avete troppo amato. (Rumori).

CEVOLOTTO. Ci si è parlato di trattati internazionali che sono stati felicemente e abilmente negoziati e conclusi anche nello stato attuale.

Ora io sono d’accordo che un diniego di ratifica nostra potrebbe peggiorare questa situazione; non sono d’accordo che un semplice rinvio della ratifica potrebbe avere la stessa conseguenza. Però, sebbene la formula del Governo sia nella sua sostanza giuridica un vero e proprio rinvio della ratifica a dopo che le quattro grandi Nazioni avranno depositato le loro ratifiche, e sebbene giuridicamente non venga modificato lo stato armistiziale in cui ci troviamo (perché con questa formula, dopo che noi l’avremo votata ci troveremo nella precisa condizione di prima), sebbene questo sia evidente ed indiscutibile, pure fra il rinvio che noi chiediamo e la formula governativa una differenza ci deve essere; ci deve essere, anche perché, altrimenti, il Ministro Sforza non sarebbe favorevole alla formula governativa, mentre si è opposto al rinvio. È proprio una differenza capillare, come ha detto l’onorevole Ruini nel suo discorso? Se fosse una differenza capillare, allora io proporrei una obiezione logica e facile. Dal momento che il Governo non ratifica ora ma gli è consentito di farlo solo dopo che saranno depositate le ratifiche delle quattro Grandi Nazioni e poiché voi dite che la differenza fra questo e quello che noi chiediamo è capillare, non è preferibile attendere che la ratifica dei Quattro sia avvenuta?

Non vale, in contrario, opporre che la ratifica della Russia sarebbe vicina; cosa di cui dubito molto (e posso sbagliarmi, perché non ho tutti gli elementi che sono da altra parte acquisiti). Ma anche questa non è una buona ragione; se l’evento definitivo è così vicino, perché non dobbiamo aspettarlo? La Costituente non avrebbe difficoltà a convocarsi in 24-48 ore, sospendendo le sue vacanze, quando la ratifica da parte della Russia fosse avvenuta e apparisse necessario e urgente procedere alla ratifica da parte nostra.

La differenza c’è e ci deve essere e non deve essere capillare. Il punto è questo: per la mancata o ritardata ratifica da parte della Russia, non siamo ancora in quello stato di necessità e di coazione, in cui ci troveremmo se le quattro ratifiche fossero depositate. Non è giunto il momento in cui dobbiamo decidere fra i due mali; tanto è vero che la relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi parla di «atto di volontà». Chi ci consiglia la ratifica immediata desidera appunto questo atto di volontà, probabilmente perché non conosce, non ha potuto valutare, non ha potuto rendersi conto del nostro particolare punto di vista, della nostra particolare situazione, che non sempre è capita dall’estero.

Nella discussione in seno alla Commissione dei trattati ho persino sentito dire, con molto stupore, che i signori inglesi credono e sostengono di avere trattato con noi, semplicemente perché hanno sentito una volta la protesta dignitosa ed alta del nostro Presidente del Consiglio, allora Ministro degli esteri. Credono di avere trattato, pretendono di avere trattato. Non si rendono conto, evidentemente, della nostra situazione; ed appunto per questo ci domandano un atto di buona volontà. Quando ci hanno richiesto o ci hanno consigliato, sia pure nella forma più garbata e più ortodossa, di ratificare, il nostro Ministro degli esteri non avrà certamente mancato di opporre – argomento evidente –: «Sì, noi ratificheremo, appena le vostre quattro ratifiche di cui all’articolo 90 saranno depositate». Questo, evidentemente, non è bastato; si vuole qualcosa di più. E invece il nostro pensiero è rettilineo: né ratifica condizionata, né mandato a ratificare; nulla che abbia l’aspetto di adesione volontaria al Trattato. Rinvio, quindi: e solo quando, col deposito delle ratifiche delle quattro grandi Nazioni, il Trattato diverrà esecutivo per noi, daremo – allora – alla nostra ratifica il significato di una semplice dichiarazione di impegno a eseguire il dettato; come diamo oggi al rinvio il significato di una ferma protesta.

Si diffida di noi; ed anche questo è vero. Non c’è chi abbia avuto un qualche posto di responsabilità dopo l’armistizio, che non abbia sentito, nel modo più umiliante, questo senso di diffidenza, ingiustificata, che c’è sempre stato verso di noi. Si è pensato al nostro machiavellismo, che più che un luogo comune è una fola priva di qualunque base di verità, a nostre manovre, che non ci possono essere, nello stato in cui siamo ridotti.

Non è esatto suggerirci che è opportuno mettere fine allo stato provvisorio, quando la formula ministeriale non vi mette fine, perché non muta la situazione giuridica e non ci consente di uscire dallo stato armistiziale. Se qualcosa muta nella situazione politica, è proprio per quell’atto di volontà e di adesione, che molti pensano non si possa e non si debba fare; a prescindere da tutto quello che lo farebbe apparire, per un errore di prospettiva, come nostra adesione a uno dei due blocchi, in cui disgraziatamente si va dividendo l’Europa, il che deve essere rigorosamente evitato. L’onorevole Sforza a Parigi ha ben precisato la nostra situazione e l’ha ripetuta nel discorso dell’altro ieri. Noi vogliamo essere equidistanti e, se mai, essere mediatori tra i due blocchi. Il Trattato ci ha disarmato; ma, disarmandoci, ci ha obbligati ad una politica di equidistanza e di amicizia con tutti, di mediazione fra gli eventuali gruppi contrastanti. Questo è il nostro pensiero e la nostra volontà; ma questa è anche una necessità per un popolo disarmato, che ha le sue frontiere aperte agli occidentali ed agli orientali.

In una guerra noi, disarmati per volontà degli alleati, nella impossibilità di difenderci, cosa potremmo offrire, se non il nostro territorio alle devastazioni di tutti i belligeranti? In tale tragica situazione è naturale che dobbiamo difendere la pace prima e poi, se fosse possibile, finché l’illusione fosse possibile, la nostra neutralità. Non è colpa nostra se il Trattato non garantisce la pace e non facilita le intese con i popoli; nemmeno le intese tra i popoli vicini. Noi vogliamo stendere la mano ai nostri vicini dell’est e vogliamo dimenticare tutto: vogliamo dimenticare qualunque contrasto del passato per l’ideale di avvicinarci gli uni agli altri, di comprenderci e, se possibile, di reciprocamente aiutarci, per arrivare ad uno stesso livello di civiltà, anche se il nostro è un livello di civiltà superiore.

Ma, il Trattato lascia aperta, purtroppo, non solo la questione dei nostri confini militari, ma anche la questione della Venezia Giulia, di Trieste, di Pola, di Zara, e favorisce così gli irredentismi ed i nazionalismi, che non sono patriottismo, ma sono la peggiore delle deformazioni del patriottismo: favorisce, in una parola, le più pericolose dissensioni tra popoli confinanti. Nessun pericolo vi sarebbe stato per le minoranze slave che, per ragioni di confine, fossero rimaste nel territorio italiano; ma il pericolo è mortale e la distruzione sicura per le minoranze italiane che restano nel territorio jugoslavo.

Abbiamo noi prospettato, a suo tempo, e documentato all’opinione pubblica mondiale ed alle nazioni che ci hanno imposto l’iniquo trattato, questa verità? Anche sotto questo aspetto non dobbiamo, con forme che potrebbero essere interpretate come spontanea adesione al Trattato, rinunciare a quelli che sono i nostri diritti, non dobbiamo rinunciare a quelli che sono i diritti dei nostri fratelli. Non lo dobbiamo per il nostro passato, per la lotta del Risorgimento, che credevamo conchiusa a Vittorio Veneto, non lo dobbiamo per le speranze dell’avvenire, che non si fondano su future guerre, che noi deprechiamo, e non si fondano su irredentismi, che non vogliamo favorire, o su nazionalismi, da cui ripugniamo nella visione di più alte forme di società fra le genti, ma si fondano sul nostro diritto, si fondano sulla certezza di questo diritto al quale non possiamo in nessun modo rinunciare. Perché il domani ci dovrebbe riservare l’immenso conforto di vedere restituita la giustizia nell’Europa travagliata, di vedere restituita Trieste all’Italia. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Adonnino. Ne ha facoltà.

ADONNINO. Onorevoli colleghi, il problema che ci tiene ih questo momento in grande trepidazione – tutti, perché certo, qui dentro, tutti da un estremo all’altro di quest’Aula fremiamo del più ardente e puro amore per questa Patria nostra, che è tanto più degna di immenso amore quanto più è sventurata – questo problema che qui ci attanaglia e che è gravissimo, fra quanti, pur gravi, nel nostro lavoro ci si presentano, pare che adesso si vada avvicinando, in quest’ultima fase della discussione, al suo centro di gravità, che è l’interpretazione dell’articolo 90 del Trattato. Questo articolo finora è stato esaminato da un punto di vista solo politico. Invece io credo che l’indagine preliminare e basilare che su esso deve farsi sia di carattere giuridico: solo sulla base rigida di diritti e di obblighi, cioè di attributi giuridicamente fissati, si può costruire l’indagine flessibile, elastica, dell’opportunità politica. Affermo poi subito senz’altro che il risultato di questa indagine giuridica costituisce la ragione più solida della necessità di ratificare. Quella ratifica che si è sostenuta finora quasi soltanto nel campo politico, trova nel campo giuridico la sua ragione giustificatrice fondamentale.

Finora, tanto i sostenitori della non ratifica, quanto i sostenitori della ratifica, immediata o successiva, si sono basati sulla seguente interpretazione dell’articolo 90: il Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente dalla nostra ratifica. Dicono dunque i sostenitori della non ratifica: siccome la nostra ratifica nulla aggiunge al Trattato, nessuno ha interesse a costringerci a ratificare, e la ratifica del turpe e iniquo strumento sarebbe un atto spontaneo di omaggio contrario alla dignità e agl’interessi di un popolo libero; sarebbe un atto di accettazione che ci legherebbe definitivamente di fronte all’avvenire.

Dicono, per contro, i sostenitori della ratifica: se l’iniquo Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente da ogni nostro intervento, la ratifica nostra nulla aggiunge ad esso, ed in nulla dunque ci nuoce; ma, per converso, ci renderebbe meglio accetti alle grandi Nazioni alleate che anelano a stabilire un ambiente di pace e di ricostruzione; costituirebbe il nostro ingresso in tale ambiente, il nostro contributo alla nuova vita internazionale, su cui, purtroppo, tanto oscure nubi si addensano minacciose.

È sempre il concetto della perfezione ed esecuzione indipendente da noi: lo esprime chiaro la relazione di minoranza laddove dice: «Se il Trattato diventerà prossimamente perfetto con la ratifica delle quattro grandi potenze…». Dunque solo tali ratifiche perfezionano il Trattato. Anche la relazione di maggioranza a ciò accenna, sebbene meno chiaramente, in quanto mette in rilievo l’insufficienza e non l’inutilità della nostra ratifica, laddove dice: «…il nostro status giuridico non può essere modificato in forza soltanto della nostra ratifica».

Io ritengo che, partendo da tale interpretazione dell’articolo 90, in linea giuridica, si dovrebbe conchiudere per la non ratifica. Perché compiere un atto giuridicamente inutile? In linea politica, invece, la ratifica rappresenterebbe un positivo contributo alla pace e alla collaborazione universale.

Ma – come ho sopra detto – a questa argomentazione politica, si aggiunge, una fondamentale giuridica in base alla diversa interpretazione che io do all’articolo 90, e che è la seguente.

Nell’articolo 90, come in tutti i contratti, dobbiamo distinguere due fasi: la perfezione e la esecuzione del contratto. Due fasi perfettamente differenti, e tra le quali può anche intercorrere un lasso di tempo notevole. Vi sono tanti atti giuridici perfetti, ma non esecutivi; ne abbiamo molti esempi in diritto pubblico: durante la vacatio legis abbiamo una legge perfetta ma non ancora esecutiva. Vi sono, per converso, tanti atti – anche e specialmente nel diritto pubblico – immediatamente esecutivi, ma non ancora definitivi, in quanto, per divenire tali, debbono essere sottoposti alla relativa convalida: ne sono esempio i decreti catenaccio; e, in genere, tutti gli atti amministrativi, i quali sono immediatamente esecutivi.

Anche in diritto privato abbiamo atti perfetti ma non esecutivi, ad esempio: tutti i contratti per scrittura privata, cui occorre una sentenza per aver forza esecutiva; e, per converso, atti esecutivi, ma non ancora perfetti, come i decreti di sequestro. Perfettamente distinti dunque, anche nel Trattato di cui discutiamo, perfezione ed esecuzione.

E, corrispondentemente a tali due concetti, occorre distinguere nell’articolo 90 due diversi gruppi di atti, diversi numericamente, ma non perciò meno essenzialmente; cioè: le ratifiche e correlativo deposito di esse presso il Governo francese da parte di tutti cinque i contraenti, cioè le quattro grandi potenze e l’Italia, gruppo di atti al quale corrisponde la perfezione del contratto; e le ratifiche e correlativo deposito da parte delle sole quattro grandi potenze, gruppo di atti al quale corrisponde l’entrata in vigore del Trattato.

L’articolo 90 tiene accuratamente distinti questi due concetti con i correlativi atti e momenti: per la perfezione del Trattato come contratto, richiede cinque ratifiche depositate, per l’entrata in vigore ne richiede solo quattro. Non è possibile confonderli oppure unificarli. Dice l’articolo 90: «Il presente Trattato, il cui testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Dunque sono necessarie cinque ratifiche. Continua poi l’articolo 90: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Dunque, per l’entrata in vigore sono necessarie quattro (non cinque, quello dell’Italia non occorre) depositi di ratifica. Non è possibile confondere o unificare.

Questo ci spiana la via, onorevoli colleghi, ad interpretare che cosa vuol dire l’articolo 90, quando dice che il Trattato «dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Non è possibile interpretare questo «dovrà anche essere ratificato» nel senso che l’Italia sia obbligata a ratificare, voglia o non voglia. La formula: «dovrà essere ratificato» è perfettamente uguale per l’Italia e per le quattro grandi potenze. E non si può pensare che le quattro grandi potenze siano obbligate, vogliano o non vogliano, a ratificare.

Altro argomento per quest’affermazione si trova negli articoli 39-42: in essi, volendosi effettivamente obbligare l’Italia ad una data manifestazione di volontà, si dice: «L’Italia s’impegna ad accettare ogni intesa che sia già stata o sia per essere conclusa per la liquidazione della Società delle Nazioni…» (art. 39); e «L’Italia accetterà e riconoscerà ogni accordo che possa essere concluso dalle Potenze Alleate ed Associate… ecc.» (art. 42). Dunque, quando l’articolo 90 dice che il Trattato dovrà essere ratificato dalle quattro potenze e dovrà anche essere ratificato dall’Italia, intende dire che le dette cinque ratifiche sono necessarie per la perfezione del Trattato.

Da tutto ciò traggo una prima affermazione che mi pare sicurissima, ed è questa: la ratifica dell’Italia è necessaria, al pari delle ratifiche delle quattro grandi potenze, per la perfezione del Trattato. Se l’Italia non ratifica, il Trattato non è perfetto; è inesistente. Malgrado però esso sia inesistente come strumento giuridico, le sue clausole, nella loro materialità obiettiva, saranno applicate immediatamente dopo il deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze a Parigi. Queste quattro ratifiche depositate, non sono, nei riguardi nostri, entità giuridiche, ma condizioni di puro fatto; il Trattato, senza nostra ratifica, non è neppure esso entità giuridica, ma è l’affermazione di forza di un vincitore, che, nel campo della pura forza materiale, infierisca sul vinto. Non rapporto giuridico, ma rapporto di forze. Questo è il meccanismo dell’articolo 90. Altro non può essere. I due momenti, per il primo dei quali occorrono cinque interventi, e per il secondo dei quali ne occorrono solo quattro, non possono esser confusi.

Se il Trattato non viene ratificato da noi, ma viene ratificato dalle quattro grandi potenze, non sarà un contratto, non sarà un’entità giuridica per noi, ma potrà esserlo nei riguardi interni delle quattro grandi potenze ratificanti.

Le sue clausole saranno a noi applicate come entità di puro fatto di fronte a noi, che, non avendo ratificato, abbiamo reso inesistente nei nostri confronti il Trattato; saranno applicate come norme giuridiche nei riguardi interni dei quattro alleati tra loro, i quali, avendo ratificato, l’hanno reso perfetto.

Questo ci apre l’adito a considerare la condizione giuridica di tutte le Potenze Alleate ed Associate di fronte al Trattato, cioè la loro solidarietà o meno nel perfezionamento giuridico di esso. Io credo che il sistema dell’articolo 90 sia questo: se una delle quattro grandi potenze non ratifica, il Trattato è inesistente di fronte a tutti. Riguardo a ciascuna delle altre potenze alleate ed associaste il Trattato diviene perfetto ed entra in vigore a guisa che la relativa ratifica sia depositata a Parigi.

È errato, concludo io dunque, dire, come generalmente si dice, che la ratifica dell’Italia non influisce affatto sulla perfezione del Trattato. Al contrario: se noi non ratifichiamo, il Trattato nei nostri riguardi è inesistente.

Nessuno pensi di dirmi: «Ma allora, se il Trattato senza la ratifica nostra non esiste, è bene che noi non ratifichiamo, e così lo renderemo inesistente, ed eviteremo tutte le sue gravezze».

Nulla eviteremo noi, purtroppo! La chiara parola dell’articolo 90 dice che il Trattato entra in vigore e va in esecuzione con il solo deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze, dunque la mancanza della nostra ratifica non impedisce l’esecuzione dell’iniquo Trattato. Ed inoltre, anche a voler considerare la cosa, invece che dal lato dell’esecuzione, dal lato della perfezione del Trattato, è chiaro che, inesistente il Trattato per la mancanza della nostra ratifica, i vincitori potenti ed armati resteranno liberi di commettere contro di noi sconfitti ed inermi tutte le iniquità e le atrocità di cui lo stesso Trattato li dimostra capaci.

È questa anzi la ragione fondamentale, nel campo giuridico, per la quale noi abbiamo l’interesse, meglio, la necessità, di ratificare: per rendere perfetto, col Trattato, il limite massimo delle iniquità che ci si impongono; per acquistare il diritto all’esecuzione di quei minimi benefici che il Trattato ci riconosce; per impedire che i vincitori incrudeliscano contro di noi sempre più. Insomma, noi, negando la ratifica, non evitiamo l’applicazione delle crudeli clausole che così profondamente ci feriscono, e rendiamo, invece, possibile, che i vincitori, liberi da ogni freno, senza il limite di un Trattato, vieppiù le inaspriscano. C’è sempre da temere il peggio, purtroppo, specialmente in questi tempi torbidi e incerti: ogni lotta interna tra gli alleati si può risolvere in un aggravio dei nostri danni. È necessario che noi facciamo tutto quanto è in nostro potere, per mettere ad essi un punto fermo.

Ratifichiamo dunque, non per nostra spontanea libera volontà, ma piegandoci ad una crudele inesorabile necessità. Come tutti gli sconfitti, sempre, hanno ratificato. Infatti, da che mondo è mondo, da che il sole risplende sulle sciagure umane, sempre, i vinti, hanno accettato i Trattati loro imposti. Anche i più duri! Perché? Non certo per benedire, con animo lieto, le gravezze che il Trattato loro impone; ma per evitare un facile loro inasprimento, per mettere ad esse un punto fermo! Può parere un paradosso, onorevoli colleghi, quello che io sto per dirvi, ma è una verità: i Trattati di pace non sono fatti a beneficio dei vincitori e a danno dei vinti, ma viceversa a beneficio dei vinti e a danno, a limitazione dei vincitori. Col Trattato, lo sconfitto esce dal campo della pura forza materiale, in cui si trova, inerme e impotente, nelle grinfie dell’onnipotente vincitore, ed entra nel campo del diritto, in cui ambedue sono regolati da norme precise; toglie di mano al vincitore la spada fiammeggiante di odio e di vendetta, sfrenata nell’impeto delle sue cupide voglie, e lo costringe nei limiti insormontabili della morale e della civiltà.

Continuando, se permettete, nella via dei paradossi, si può forse dire che l’articolo 90 è per noi una fortuna: ci pone in una situazione privilegiata con la sua speciale formulazione. I grandi giuristi che l’hanno redatto non so se siano veramente grandi giuristi; pur seguendo un sistema comune nella redazione dei trattati, non hanno sufficientemente riflettuto, essi che tanto danno avevano in animo di fare, alla portata di certe sue conseguenze per noi benefiche. Ponete mente, vi prego, onorevoli colleghi: se non si fosse consacrata esplicitamente nell’articolo 90 l’entrata in vigore, l’esecutività per l’accettazione delle sole quattro grandi Potenze e senza richiedere alcun nostro minimo intervento, se non si fosse così stabilita la netta inconfondibile distinzione tra perfezione ed esecuzione del Trattato e si fossero invece unificati i due concetti e i due momenti, noi ora ci troveremmo in questa terribile condizione: o ratificare per mettere un limite fermo alle inique persecuzioni contro di noi, e allora implicitamente acconsentiremmo all’esecuzione delle gravi clausole imposteci; o non ratificare per non acconsentire a tale esecuzione e allora rinunzieremmo a mettere il limite fermo che tanto c’interessa. La formula dell’articolo 90 invece ci dà agio di mettere il punto fermo che c’interessa, e di non acconsentire all’esecuzione. A raggiungere questi due scopi mirabilmente serve il nuovo testo proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». Con la ratifica noi rendiamo perfetto il Trattato nei nostri confronti, ponendo il punto fermo che ci interessa; nel contempo, ratificando dopo che esso è già divenuto, senza alcun nostro intervento, esecutivo, nessun consenso prestiamo a tale esecuzione. Il momento, cioè, della nostra ratifica e le dichiarazioni esplicite che costantemente abbiamo fatto e facciamo, dimostrano che, più che parlare di un nostro consenso all’esecuzione coartato e non libero, devesi parlare di consenso inesistente, di assenza di ogni consenso.

Ho detto che perfezionare il Trattato, mediante la nostra ratifica, servirà principalmente ad evitare temibili inasprimenti dei nostri guai; e servirà in secondo luogo ad assicurarci qualche piccolo beneficio che, pur tra tante iniquità, il Trattato contiene.

Di queste iniquità, di queste gravezze tutti hanno parlato e parlano tuttavia. Ma mai se ne parlerà abbastanza! Gli Alleati avevano il dovere sacrosanto di mantenere le loro costanti premesse, e di non dimenticare il grande contributo dato dall’Italia alla loro causa, alla causa comune. Grande, enorme contributo! Basti ricordare schematicamente che, di cinque anni di sua guerra, l’Italia ne combatté tre a fianco della Germania e contro gli Alleati, ma ne combatté due (cioè quasi la metà) a fianco degli Alleati e contro la Germania; che noi siamo stati il primo grosso masso distaccatosi dal blocco tedesco, quando esso era ancora granitico, e noi soli ne abbiamo provocato la disgregazione e la rovina; che l’Italia si schierò contro la Germania, essendo ancora questa fortissima, tanto da resistere ancora ben due anni; che nella guerra combattuta dagli Alleati in Italia questa diede un contributo, più che notevole, enorme: Churchill riconobbe ufficialmente alla Camera dei Comuni il grande apporto della nostra marina in tutti i mari; e lodò l’eroico ardimento degli aviatori, dicendo di fare ogni sforzo per dotarli di apparecchi efficienti e moderni; l’alta proporzione del concorso italiano nello sforzo comune innegabile risulterà a chi ricordi le lotte partigiane, le azioni clandestine, l’ambiente di inesorabile ostilità di cui erano circondati i tedeschi, il palpito costante di simpatia, di cooperazione, di solidarietà di cui beneficiarono gli Alleati, non sempre ugualmente ricambiando!

Promesse ed aiuti, tutto fu dimenticato. Mai dunque sarà sufficiente la nostra protesta; che deve essere altissima e solenne, specialmente in questo momento, e deve costituire elemento preponderante ed essenziale della complessa nostra azione di fronte al Trattato e agli Alleati.

In relazione alle promesse altrui e alla azione nostra, mai Trattato imposto e non negoziato fu più iniquo e grave! Ci martirizza nel nostro orgoglio, nella nostra dignità e in quanto abbiamo di più sacro; ci mutila nel territorio metropolitano e ci priva delle Colonie fecondate e civilizzate col sangue dei nostri soldati, e col sacrificio dei nostri lavoratori; ci lascia indifesi nei confini e nelle armi; distrugge la nostra potenza marinara ed aerea; ci impone pesi economici, mai praticamente sopportabili.

Ed è doveroso ricordare, in queste ore di angoscia, che i termini iniziali proposti per l’iniquo Trattato erano anche più duri e spietati. Si deve all’azione appassionata ed abilissima dei nostri Governi se qualche – anche piccolo – miglioramento s’è ottenuto.

Giunti al momento culminante del nostro calvario, sarebbe ingeneroso non ricordare tale azione, che, se raggiunse dei buoni risultati nell’ambito proprio del Trattato, di veramente cospicui ne ha raggiunto nella posizione generale internazionale dell’Italia.

Azione di governo difficilissima quanto altre mai, e, in tanti momenti culminanti, addirittura disperata! Ogni azione diplomatica è un problema di equilibrio; questa, vorrei chiamarla un miracolo di equilibrio. Circondata dall’ostilità di tutti, mira delle più accese cupidigie e delle più irose vendette, era necessario usare un tono alto e vibrato nel difendere i nostri diritti e nel dolerci di iniquo trattamento, ma nel contempo dimesso e pacato per non acuire le ire e per ottener concessioni; sommamente prudente per mantenerci neutrali nelle contese tra alleati, ma nel contempo giustamente riconoscente verso chi ci aiutava e ci riforniva dei mezzi imprescindibilmente necessari alla nostra vita, e giustamente sostenuto, ma senza ombra di ritorsione, verso chi si mostrava meno benevolo con noi. Questo difficilissimo equilibrio si raggiunse e costantemente si seguì; si prospettarono sempre gli interessi italiani in funzione dei superiori generali interessi europei e mondiali di ricostruzione e di pace; si svolse un’azione dignitosa, serena, accorata, costante per opera dei grandi partiti rappresentanti nei vari Governi, se pure con qualche inopportuno sbandamento di stampa a scopo interno. Si curarono massimamente i rapporti personali, e gli uomini politici nostri andarono nei luoghi ove era più opportuno andassero: viaggiò il capo e l’ispiratore di tutta la nostri politica onorevole De Gasperi; il Ministro Sforza andò nell’America latina; l’onorevole Nenni nei Paesi dell’Europa settentrionale; l’onorevole Togliatti andò ove l’azione sua – per affinità ideologiche – poteva essere più utile, e in perfetta buona fede, sebbene senza alcun concerto col Governo responsabile, portò delle proposte pur cospicue sebbene non tali da potere essere prese in considerazione.

Di questa azione costante, complessa, equilibrata, tutti i frutti si perderebbero irrimediabilmente se ora non si ratificasse il Trattato, e ci si estraniasse volutamente dalla nascente armonia internazionale.

Ho detto che, a prescindere dallo scopo fondamentale di evitare inasprimenti alla nostra situazione, occorre anche ratificare per vedere attuati i vantaggi – pur non grandi – che nel Trattato stesso siamo riusciti a raggiungere, e per conservare e migliorare la nostra posizione internazionale, frutto veramente cospicuo della nostra azione diplomatica.

Esamino brevemente questi due settori. E in primo luogo quello dei punti del Trattato che ci interessa siano eseguiti.

L’articolo 9 del Trattato dispone che «Al fine di garantire all’Italia lo stesso godimento dell’energia idroelettrica e delle acque provenienti dal Lago del Cenisio, come prima della cessione del relativo territorio alla Francia, quest’ultima concederà all’Italia le garanzie tecniche stabilite nell’allegato III». E stabilisce inoltre: «Affinché l’Italia non debba soffrire alcuna diminuzione nelle forniture di energia elettrica che essa traeva da sorgenti esistenti nel territorio di Tenda-Briga prima della cessione di tale territorio alla Francia, quest’ultima darà all’Italia, in forza di un accordo bilaterale, le garanzie tecniche stabilite all’allegato III». Orbene: se non si perfeziona il Trattato, questi benefici ci saranno negati.

Una voce: Ma è nostra quell’energia.

ADONNINO. Ce l’hanno rubata, ma appunto perciò non è più nostra!

L’articolo 13 dispone che «L’approvvigionamento dell’acqua per Gorizia ed i suoi dintorni sarà regolato a norma delle disposizioni dell’Allegato V». E correlativamente l’Allegato V conferma che la Jugoslavia curerà la manutenzione degli impianti e assicurerà l’approvvigionamento idrico della parte del territorio di Gorizia che resta all’Italia, e dà le relative norme particolari. Orbene: se il Trattato è inesistente, non potremo beneficiare di tali disposizioni.

Benefici minimi, certo, di fronte all’enormità dei sacrifici; ma benefìci cui non si può rinunciare!

L’articolo 46 dispone: «Ognuna delle clausole militari, navali ed aeree del presente Trattato resterà in vigore, finché non sarà stata modificata in tutto o in parte, mediante accordo tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, o, dopo che l’Italia sia divenuta membro delle Nazioni Unite, mediante accordo tra il Consiglio di Sicurezza e l’Italia». Non mi pare trascurabile questa clausola. Vi si può vedere un germe di revisione in atto. È possibile mandarle a monte?

L’articolo 74 è dei più gravi per noi. Nondimeno, trattando, al n. 3, dei quantitativi e dei tipi delle merci da consegnare in pagamento all’Unione Sovietica, dice: «La scelta sarà effettuata e le consegne saranno distribuite nel tempo in modo da non creare interferenze con la ricostruzione economica dell’Italia». Se il Trattato non diventa perfetto e sarà inesistente, conserveremo la gravezza – che potremo vedere anche inasprita – e perderemo il vantaggio.

L’articolo 83 stabilisce che ogni controversia sugli articoli 75 e 78 (relativi alle restituzioni dovute dall’Italia e ai beni delle Nazioni Unite in Italia) «dovrà essere sottoposta a una Commissione di Conciliazione, composta di un rappresentante del Governo della Nazione Unita interessata e di un rappresentante del Governo italiano, esercitanti le loro funzioni su una base di parità». Clausola anche questa che ci conviene venga applicata.

Ma è più importante il secondo punto, quello relativo alla nostra posizione generale internazionale.

Qui il successo della nostra azione diplomatica è stato più notevole. Basta confrontare due momenti: il momento iniziale e quello presente. Ho sentito una volta descrivere la posizione desolante della delegazione italiana in una delle prime riunioni internazionali, a Londra, poco dopo la cessazione delle ostilità. Soli, in un angolo della hall di un grande albergo, non conoscendo nessuno, e da nessuno conosciuti o notati, i nostri assistevano smarriti al passaggio dei grandi astri della politica internazionale: qualche cameriere li indicava a nome, ed essi passavano pieni d’importanza e di sussiego. L’ingresso della delegazione jugoslava parve un corteo imperiale: giunta in ritardo per un incidente d’aeroplano, incedeva preceduta e circondata da cerimonieri e da valletti, piena di alterigia, di disprezzo. Nessuno degnava i nostri di uno sguardo: la forma più atroce di offesa è l’indifferenza! Tutto questo, allora. Ed ora? Ora è il viaggio trionfale del Presidente De Gasperi in America, è l’accoglienza calorosa, sul piede di parità, delle grandi nazioni europee al Ministro Sforza, recatosi giorni addietro a Parigi. Negando la ratifica noi ci apparteremmo da questi grandi consessi europei e mondiali, rientreremmo nell’ombra dell’urto e dell’indifferenza.

Occorre ricordarsi che, senza la ratifica, noi non avremo una personalità giuridica internazionale autonoma. È la condizione d’inferiorità in cui ci tiene lo stato armistiziale. Non ci fa più, ora, grande impressione, perché ad esso ci siamo in parte abituati e perché in parte la sua gravità è diminuita, in seguito alla nota lettera di MacMillan. Ma occorre tener presente che è sempre uno stato d’inferiorità politica, giuridica, morale.

Ci ha informato il Governo, ad esempio, che numerosi trattati di commercio sono stati stipulati con l’estero: orbene, essi non possono essere perfezionati e non possono entrare in vigore, se non usciamo dallo stato armistiziale. È questa la realtà, sono queste le nostre dolorose necessità ed occorre considerarle con animo forte.

CHIOSTERGI. Ma senza esagerare.

ADONNINO. Senza esagerare, naturalmente; ma senza dimenticare la loro pratica importanza.

Noi, inoltre, prendiamo degnamente parte alle trattative per il piano Marshall: sia quel che si vuole di questo piano, saranno quali che saranno le sue pratiche effettuazioni, è certo però che esso rappresenta pur sempre un cospicuo tentativo di ricostruzione armonica, ed apre fondatamente l’adito alle migliori speranze per gli interessi italiani. Le proposte italiane, d’altra parte, in quelle trattative sono degnamente tenute in conto. Cosa sarebbe di questa nostra preziosa opera, che si va prudentemente svolgendo, se noi, rifiutandoci di ratificare il Trattato, ci ponessimo al bando da ogni armonica cooperazione internazionale?

E finalmente, coronamento di questa nostra opera abile, complessa, costante, intesa appassionatamente a ricostruire la nostra personalità, e ad imporla, nel consorzio delie Nazioni civili, in un rango degno del nostro grande passato e del nostro immancabile avvenire, l’ammissione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La ratifica è condizione essenziale perché possiamo esservi accolti.

Onorevoli Colleghi, quattro sono le esigenze fondamentali a cui dobbiamo ispirare le nostre azioni. Prima: la riaffermazione alta, solenne della nostra protesta contro l’iniquità del Trattato e la dimostrazione precisa che la nostra volontà ad essa non si piega, ma lo subisce come una tragica inesorabile necessità di materiale coartazione. Seconda: l’affermazione fondamentale e costante della necessità della revisione delle inique clausole del Trattato. In quanto rendiamo perfetto il Trattato, poniamo la base necessaria per la sua revisione. Non si modifica né si rivede ciò che non esiste. Revisione che è una fondamentale esigenza di giustizia; che ci è autorevolmente promessa ed annunziata da varie parti; che già mostra i primi inizi, sia pur timidi di sua attuazione. Terza: l’assoluta indipendenza da eventuali blocchi contrastanti, in cui si possano raggruppare le varie potenze. La formula propostavi per la ratifica si ispira perfettamente a tale esigenza. Essa rispetta la Russia in quanto autorizza il Governo a ratificare, ma soltanto dopo che esso sarà divenuto esecutivo, cioè dopo la ratifica della Russia; essa rende il dovuto omaggio alle grandi Potenze occidentali in quanto ratifica dopo le loro ratifiche, ed agevola quella grande opera di armonia, di ricostruzione, di pace cui esse tendono. Quarta esigenza: dare tutto il nostro apporto, tutta la nostra appassionata cooperazione a tale grande, magnifica opera; che è l’unica speranza di salvazione per questo travagliato mondo.

Ho sentito dalla destra l’eco di un nazionalismo che può parere troppo iroso e intempestivo. Ho sentito dalla sinistra gli inni ad un internazionalismo che può parere troppo positivistico. All’uno e all’altro noi opponiamo una grande fiaccola, quella della nostra idea cristiana. L’idea cristiana è un grande conforto per i singoli e per le collettività nei momenti più duri della vita; è un’idea che sublima il nazionalismo nell’amor di Patria, e l’internazionalismo nell’amore di tutti i popoli. Facciamo, onorevoli colleghi, che tutti quanti, singoli e popoli, possiamo veramente ricevere da questa idea nuova forza e nuova fede per portare la nostra croce serenamente, coraggiosamente. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ambrosini. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, io parlerò con rude franchezza, intervenendo nella discussione che il Governo ha voluto che si facesse in questo momento. Ieri la discussione è stata elevata nella sfera della filosofia, ed è stata elevata nella sfera della filosofia non solo da parte dell’onorevole Croce, come egli doveva fare, ma anche da parte dell’onorevole Sforza. E se la filosofia dell’onorevole Croce trova consenziente chi parla, si è perché la sua filosofia politica storicista si addice ai tempi di durezza, ai tempi di ferro che noi traversiamo; perché l’onorevole Croce ristabilisce veramente il legame storico fra le generazioni che ci precedettero, che fecero l’Italia, e la nostra generazione che rischia di perderla, e le generazioni di coloro che verranno.

Se la filosofia dell’onorevole Croce può e deve trovarci consenzienti – quali che siano i giudizi da dare in sede di discussione politica-pratica – la filosofia sviluppata invece dall’onorevole Sforza – la filosofia che potrei chiamare dell’illuminismo democratico – è eccessivamente ottimistica. Mi pare di doverlo dire, pur con tutta la stima e la devozione che ho per il Ministro degli esteri. Duri tempi noi attraversiamo e ne attraversa il mondo intero, il quale è a rischio di precipitare in una nuova catastrofe, in nuovi conflitti.

L’illuminismo democratico poteva anche essere una grande forza in un periodo non lontano, quando lo propugnò l’onorevole Sforza, come Ministro degli esteri, dopo l’altra guerra, o quando in Francia, una ventina di anni addietro, Briand parlava a nome di un paese vincitore. L’illuminismo democratico che li animava e la loro generosità erano una forza proprio perché si trattava di uomini di Stato, di uomini politici di paesi vincitori. Questo illuminismo ottimista non si addice però al Ministro degli esteri di un paese vinto, che deve ancora combattere per ritrovare una situazione che garantisca la sua sopravvivenza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Fede e ottimismo!

VALIANI. Onorevole Sforza, la sua fede è ammirevole e con la sua fede concordo; però la fede guarda a lunghissima scadenza, mentre l’azione politica che noi siamo chiamati a compiere si riferisce ad un periodo limitato all’oggi, e le conseguenze di un nostro atto le scontiamo oggi e nei prossimi dieci anni, che non sono anni in cui sia permesso l’ottimismo. Ci potrebbero certamente essere dei correttivi all’ottimismo, e se questi correttivi ci fossero in seno al Governo, allora anche l’ottimismo dell’onorevole Sforza potrebbe essere di nuovo una forza. Se l’onorevole De Gasperi, Presidente del Consiglio, che, del resto, ha preceduto l’onorevole Sforza, dopo la caduta del fascismo, al Ministero degli esteri, desse prova in questa circostanza del realismo che le condizioni esigono, noi potremmo anche dire che l’illuminismo ottimista dell’onorevole Sforza è un fatto positivo, in quanto sorretto dal rude realismo del suo Presidente del Consiglio. Ma noi constatiamo nell’onorevole De Gasperi, in questi ultimi tempi, uno strano miscuglio di rude realismo e di eccessivo ottimismo; e poi anche di strana confusione fra politica estera e politica interna.

L’onorevole De Gasperi, come Ministro degli esteri, partì bene nel 1944 e nel 1945: ottenne qualche indubbio risultato positivo. Non fu senza l’influenza della sua azione che a Londra, nel settembre del 1945, fu ammesso il principio etnico per la risoluzione della vertenza alla frontiera orientale; ma poi l’onorevole De Gasperi – che ottenne qualche risultato con una politica di resistenza alla ingiustizia del Trattato e che arrivò a dirci alla Consulta che egli disponeva tuttavia di una carta: il rifiuto della firma, e ce lo disse alla Commissione degli esteri – poi non giocò in tempo utile questa carta. A Parigi, ancora nell’agosto 1946, l’onorevole De Gasperi si batté non solo con molto coraggio, ma con molto realismo; e la sua proposta di rinvio della soluzione della questione triestina e della frontiera orientale era una proposta realistica, perché coincideva – egli stesso non ne era del tutto consapevole – con l’interesse obbiettivo al rinvio che aveva la Russia. Questo mi permisi di segnalarglielo ancora a Parigi. Infatti, quella previsione si avverò. La Russia non ha ratificato il Trattato, anche se Molotov allora attaccò violentemente l’onorevole De Gasperi per fini polemici, sulla proposta del rinvio. Ma quel realismo non si mantenne, e al momento del suo viaggio negli Stati Uniti incominciò a prendere piede nell’animo dell’onorevole De Gasperi da un lato un eccesso di ottimismo, forse in seguito ai brillanti ricevimenti e agli entusiastici consensi del popolo americano; ma gli americani si scaldano facilmente e particolarmente si scaldano gli italiani d’America, generosi oltre ogni dire. E oltre all’ottimismo prese piede anche la confusione fra politica interna e politica estera, confusione che fu all’origine della accettazione della immediata firma del Trattato.

Io fui fra i pochissimi deputati a criticare allora – nel febbraio di quest’anno – quella firma, perché prevedevo le conseguenze di politica estera e di politica interna che ne sarebbero derivate e che ne sono derivate.

Anche l’altro giorno, parlando qui sui motivi di urgenza del dibattito, l’onorevole De Gasperi da un lato si è riferito a questioni molto astratte, alla funzione di equilibrio che noi assolveremmo ratificando il Trattato. Non so che senso questo possa avere, a meno che non sia una ritorsione polemica contro l’onorevole Togliatti, il quale fece capire che si ratifica oggi il Trattato, perché si vuole aderire al blocco occidentale.

Funzione di equilibrio? Ma quale funzione di equilibrio può esercitare un Paese vinto come l’Italia?

Informazioni particolari, valutazione della nostra situazione fuori dei nostri confini, sono tutte cose che non persuadono.

Io spero che l’onorevole De Gasperi, sia pure in seduta segreta, ci dirà queste informazioni particolari e ci parlerà più concretamente di questi strani rapporti che consigliano la firma del Trattato.

E vengo agli argomenti concreti che sono stati addotti in favore della ratifica.

La questione della nostra ammissione all’O.N.U. voglio analizzarla, perché sono persuaso che proprio ciò provi come la ratifica del Trattato non sia urgente e non si debba dare.

Quali sono i Paesi che hanno chiesto di essere ammessi all’O.N.U. e la cui questione deve essere discussa al Consiglio di Sicurezza? Sono l’Italia, l’Austria, la Romania e l’Ungheria. L’Austria, onorevoli colleghi, non ha firmato nessun trattato di pace, perché per disgrazia sua si trova in una situazione peggiore ancora della nostra: nessun trattato è stato redatto nei riguardi dell’Austria. Il caso dell’Austria sarà egualmente discusso all’O.N.U. E gli altri due? Romania e Ungheria? Non vi dice niente questo quadrinomio? Si vota nell’O.N.U.; si contano i voti. Romania e Ungheria si suppone che voteranno, quando fossero ammesse, in un senso; l’Italia e l’Austria si suppone voteranno, quando fossero ammesse, in un altro senso.

C’è una lotta diplomatica, e speriamo che sia solo diplomatica, fra le Grandi Potenze, nell’O.N.U. e fuori dell’O.N.U.

L’ammissione di nuovi Stati è in funzione di questa lotta diplomatica. Ora, evidentemente, noi abbiamo il dovere, come nazione, di profittare di ogni possibilità per rientrare nel consesso internazionale. Anche della rivalità tra le grandi potenze e anche se tali rivalità deprechiamo. Non dobbiamo pagare un particolare pedaggio per avere il diritto di essere ammessi nell’O.N.U., quando è almeno altrettanto forte l’interesse degli altri di includerci nell’O.N.U. Se saremo inclusi o non saremo inclusi, non sarà in funzione della ratifica che daremo o non daremo, ma in funzione della ratifica che la Russia darà o non darà ai Trattati con gli Stati danubiani; cioè, in parole povere, della decisione che l’Unione sovietica prenderà di evacuare o non evacuare l’Ungheria e la Romania, la quale decisione, a sua volta, è in funzione della questione dell’Austria, della speranza che l’Unione sovietica può avere o non avere di trovare un accordo con le altre grandi Potenze sulla questione dell’Austria, sulla questione della Germania. In una situazione di questo genere, addurre la nostra domanda di ingresso all’O.N.U. come un argomento di estrema urgenza per la ratifica del Trattato, mi pare significhi mancare di realismo politico, mi pare significhi fare gratis quello che forse potremmo condizionare, per esempio, a quello che ha detto l’onorevole Cevolotto, all’abolizione di quella parte del preambolo che stabilisce la nostra inferiorità nell’O.N.U. stesso. Un Paese non deve rassegnarsi così alla leggera ad una situazione di inferiorità. Dopo l’altra guerra, la Germania combatté strenuamente, prima di firmare e dopo aver firmato, per una posizione di parità, e non entrò nella Società delle Nazioni finché non l’ottenne.

Altro argomento in favore dell’immediata ratifica: la nostra adesione al piano Marshall. Io devo dire che su questo punto non posso condividere gli argomenti e le preoccupazioni dell’estrema sinistra dell’Assemblea. Il conte Sforza ha fatto benissimo a dare la nostra adesione al piano Marshall. Può darsi che coloro che hanno ospitato i rappresentanti del Governo italiano a Parigi abbiano pensato che la nostra adesione fosse sinonimo della ratifica del Trattato. In tal caso l’errore era loro e non nostro. Ma l’abbiano creduto o non l’abbiano creduto, ciò è una questione secondaria, perché il piano Marshall, che purtroppo non ha ancora una consistenza molto forte, perché è evidentemente in funzione del voto che gli darà o non gli darà il Congresso degli Stati Uniti il quale si riunirà nel gennaio del 1948, cioè fra sei mesi, il piano Marshall, dunque in realtà non è cosa di cui Gran Bretagna e Francia, che sono poi le Potenze ovviamente interessate alla sollecita ratifica del nostro Trattato (anche noi saremmo interessati alla sollecita ratifica di questo Trattato se ci trovassimo al loro posto), il piano Marshall, dicevo, non è cosa di cui queste due potenze con le quali vogliamo e dobbiamo tuttavia collaborare, possano disporre a loro piacimento ed ammettervi chi ratifica e non ammettervi chi non ratifica.

Il piano Marshall riflette tutta la situazione economica e politica degli Stati Uniti.

Onorevoli colleghi, io mi sono permesso, quando l’onorevole De Gasperi venne qui, in febbraio, a prospettarci il prestito americano, di richiamare l’attenzione sul fatto che i prestiti di natura puramente ideologica o puramente umanitaria stavano per finire e che l’ascesa del generale Marshall al dipartimento di Stato avrebbe significato, dopo qualche mese, un cambiamento di rotta, cambiamento di rotta imprevedibile nei suoi sviluppi e nelle opposizioni che avrebbe suscitato, anche perché in America, molto più che in qualsiasi altro Paese, il Ministro degli esteri ha le mani incatenate dall’opinione pubblica, dal Congresso, dal Senato e dal Presidente.

Il cambiamento di rotta indubbiamente c’è ed io credo che, per quanto dipende dalle intenzioni del generale Marshall, questo cambiamento di rotta sia in meglio. Il generale Marshall è uomo dotato indubbiamente di un poderoso pensiero. Basta leggere il suo rapporto sulla guerra, nel quale, tra parentesi, si fa cenno elogiativo dell’azione dei partigiani italiani, che contribuirono, insieme al Corpo italiano di liberazione, alla vittoria degli Alleati in Italia. Si nota in quel rapporto un forte pensiero. Nel piano di Marshall si rivela l’uomo di Stato, che vuole stringere rapporti economici tra l’Europa e l’America, tali da impedire crisi economiche come quelle dell’altro dopoguerra. Questa politica è indipendente dalla ratifica del Trattato da parte dell’Italia.

Come ha spiegato Marshall stesso, vista l’Europa come mercato di sbocco e vista la possibilità di una costruzione economica supernazionale, l’Italia vi ha il suo posto, nella misura delle sue risorse economiche e della sua forza produttiva, in relazione alla sua popolazione di 46 milioni di abitanti. La ratifica del Trattato non ha niente a che fare con ciò.

Anche la Germania occidentale è inclusa nel piano Marshall, su un piede di maggiore importanza che la stessa Italia, come è spiegabile, trovandosi lì il carbone e l’acciaio della Ruhr ed essendo quel popolo laborioso al pari del nostro, e tecnicamente il primo del mondo.

Se la Jugoslavia, la Bulgaria, la Polonia, l’Ungheria, la Romania aderissero al piano Marshall, gli organizzatori della Conferenza, per volontà dello stesso Marshall, sarebbero ben lieti di accoglierle e non domanderebbero se abbiano firmato e ratificato il Trattato. Non so neppure se la Bulgaria abbia ratificato. L’adesione al piano Marshall è al di sopra di tutto questo.

Nella misura in cui esiste sul serio, perché, purtroppo, questo piano Marshall è ancora sub iudice, nella misura in cui esiste, esso prova soltanto che non la ratifica d’un Trattato, ma l’effettiva forza economica e politica d’un popolo è quella che gli apre la via nella comunità dei popoli. In atteggiamento di ratifica o in atteggiamento di resistenza al Trattato si può egualmente ritornare nella comunità dei popoli, se si ha forza e compattezza politica ed economica; si può egualmente restarne fuori, se non la si ha.

È stato fatto cenno alle conseguenze spiacevoli che, particolarmente sul terreno economico, avrebbe il rifiuto o il rinvio della ratifica. Si è fatto cenno alla situazione degli italiani all’estero. Essa certo è andata migliorando, da quando, anche con la collaborazione, di cui gli dobbiamo dare atto, del conte Sforza, il Presidente Roosevelt nel 1942 cessò di considerare gli italiani in America come nemici, dal punto di vista dei loro diritti. Però, onorevoli colleghi, non dimentichiamo che la situazione dei nostri connazionali all’estero non è soltanto in funzione di quello che fa l’Italia o che fanno gli uomini politici italiani; è anche in funzione della loro propria forza.

L’Economist notava l’altro giorno, discutendo il piano Marshall e gli aiuti che l’Italia potrebbe ricevere, il fatto che esistono negli Stati Uniti milioni di cittadini di origine italiana, i quali votano ed il cui voto conta anche per l’elezione presidenziale del 1948. Se l’Economist, rivista inglese d’indubbia competenza e serietà, vede questo nesso fra la posizione degli italiani all’estero e la loro forza propria, non dobbiamo vederlo noi?

D’altra parte non vogliamo neppure escludere che ci possano essere difficoltà in caso di mancata ratifica; ma, per valutare queste difficoltà, bisognerebbe che l’onorevole Sforza o l’onorevole De Gasperi ci dicessero quali garanzie hanno già avuto per il miglioramento della situazione economica dell’Italia e degli italiani all’estero in caso di ratifica. Ci sono le clausole economiche del Trattato. Saranno o non saranno applicate con severità? Saranno o non saranno applicate con larghezza? Il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli esteri non ci hanno detto nulla su questo e ci chiedono di ratificare una cambiale in bianco. Se si parla delle difficoltà che potrebbero derivare dalla mancata ratifica, bisogna parlare anche delle garanzie che la politica estera ed in generale la politica del Governo saprebbero conquistare nel caso di ratifica. Solo in tal caso possiamo giudicare con realismo la situazione. Gli stessi accordi finanziari con l’Inghilterra sono stati interpretati in vario modo: quando se ne parlò alla Camera dei Comuni, non se ne parlò allo stesso modo come se ne è parlato in Italia. Fu data un’altra interpretazione, diversa da quella che qui è stata data. Non so dove stesse l’equivoco: spero ci sia un equivoco. Ma queste cose vanno spiegate, perché un documento di questa gravità, che contiene clausole economiche così importanti, necessita di essere chiarito.

Si parla della possibilità della revisione dopo la ratifica del Trattato. Pur essendo, sul terreno generale della questione di principio, di parere diverso da quello dell’onorevole Nenni, tuttavia come giornalista e come deputato, mi sono compiaciuto quando egli affermò, come Ministro degli esteri, la sua idea della lotta per la revisione dopo la ratifica. A parte quelli che possono essere i dissensi tra l’onorevole Nenni e l’onorevole Orlando sulla questione di principio della ratifica, è chiaro che porre la questione della revisione, sia pure dopo la ratifica del Trattato – dato che il Governo ormai è per la ratifica – è una questione fondamentale ed importante. Ma anche qui bisogna avere idea ben chiara di quel che si decide di fare e come si intende farlo.

La questione della revisione è in funzione delle quattro grandi Potenze che debbono ratificare il Trattato: è in funzione di tutte e quattro le grandi Potenze che debbono ratificare il nostro Trattato.

Proprio se ci si mette sul terreno della necessità della ratifica, non si può considerare che esista possibilità di revisione se non collegialmente da parte di tutte e quattro le grandi Potenze. E su questo, finora, il Governo è stato d’accordo. Solo nel caso di mancata ratifica si può pensare a paci separate e a revisioni separate.

Sappiamo che l’onorevole Nenni aveva un piano. Lo espose allora: non potemmo discuterlo, purtroppo, immagino perché non era più Ministro degli esteri. Vorrei che anche il conte Sforza delineasse il suo piano ed il modo di ottenere, o meglio di chiedere (l’ottenere non dipende da noi) la procedura di revisione, prima di portarci al voto sulla questione della ratifica del Trattato.

L’onorevole Bonomi – con l’autorità che egli ha – ha esposto, l’altro giorno, in un articolo del Corriere della Sera, le questioni che, a suo giudizio, devono essere tenute aperte per l’Italia anche dopo la ratifica del Trattato. È notorio che l’onorevole Bonomi è favorevole alla ratifica del Trattato. Egli dice che, dopo la ratifica del Trattato, tre questioni – tutte e tre revisioniste – dovranno essere poste sul tappeto: colonie italiane in Africa; clausole economiche; flotta.

Io penso che nella questione della flotta egli abbia voluto includere anche la questione dell’esercito e della smilitarizzazione delle frontiere.

Le colonie italiane oggi sono occupate dagli inglesi. Dicendo questo, io credo che nessuno possa accusarmi di essere mosso da animosità verso la Gran Bretagna, a fianco della quale noi abbiamo combattuto come cobelligeranti dopo il 1943, ed a fianco della quale gli antifascisti del mondo intero hanno combattuto, quando essa si trovava in condizioni disperate. Indipendentemente dai nostri sentimenti, che sono di indubbia ammirazione verso la Gran Bretagna, verso il suo liberalismo e verso il suo socialismo democratico, e in generale verso la sua fierezza, verso la sua lotta per la libertà, a prescindere da questo, c’è il fatto che la Gran Bretagna possiede le nostre colonie. Noi dovremo rivolgerci alle grandi Potenze per chiedere loro che, al termine del primo anno dopo la validità del Trattato, quando sarà ridiscussa la questione delle colonie in Africa, si abbia da parte loro un atteggiamento favorevole a noi. La Francia, gli Stati Uniti, la Russia dovrebbero, e comunque solo esse possono, persuadere la Gran Bretagna a restituirci, in una forma di mandato, o in una qualsiasi altra forma, qualcuna o tutte le nostre colonie.

Perciò, la questione della revisione, se la si vuole addurre come argomento per l’urgenza della ratifica, prova se mai il contrario, prova se mai che la nostra ratifica ha uno stretto legame con la ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze, anche con la ratifica dell’Unione sovietica. L’Unione sovietica ci è stata ostile nella questione di Trieste, ma nella questione africana potrebbe avere degli interessi che coincidano con i nostri.

In ogni modo, non vi è chi non veda come per incominciare con la prima di tali questioni (quella delle colonie), se la si pone sul terreno della revisione, si debba supporre come data la ratifica da parte di tutte quattro le grandi Potenze e in secondo luogo un atteggiamento benevolo verso di noi da parte di alcune delle grandi Potenze medesime.

Per il resto, io non mi sentirei di condividere le argomentazioni, non più riguardanti la revisione, ma riguardanti la politica da seguire in generale, che adduce l’onorevole Bonomi. Egli si riferisce alla pagina di storia italiana che corre dal 25 luglio 1943 all’8 settembre. Allora Bonomi, che aveva anche la rappresentanza spirituale delle forze democratiche repubblicane, sostenne con molta nobiltà contro Badoglio la tesi che non già prima si dovesse concludere l’armistizio con gli Alleati e poi schierarci in guerra a loro fianco contro la Germania, ma inversamente: prima agire e poi firmare i patti.

Quella tesi prova solo che anche questa volta prima si deve fare una politica estera e poi, se mai, si ratifica, e non inversamente. L’onorevole Bonomi dimostrò da par suo, da storico quale egli è (e lo intuì anche come uomo politico) che se noi facevamo precedere la firma dell’armistizio alla politica e quindi all’azione militare da svolgere, l’armistizio sarebbe stato peggiore. La stessa cosa vale in verità per i Trattati: prima si fa una politica estera e poi si ratifica, se è il caso.

L’onorevole De Gasperi si mise su questa strada nel 1945-46, sulla questione della frontiera orientale. Poi il suo impegno svanì, forse perché si stabilirono delle connessioni tra politica estera e politica interna.

Credo dunque che gli argomenti dell’onorevole Bonomi, Presidente della Commissione dei Trattati, addotti sulla stampa, circa i motivi che rendono urgente la ratifica, siano in realtà argomenti che provino come, prima di dover addivenire alla ratifica – cosa di cui io non sono in generale persuaso – bisogna avere bene scelto una politica estera ed essere stati fermamente coerenti a questa politica estera, almeno per qualche anno.

Questo modo di vedere le cose si potrà anche qualificare per mercanteggiamento, come è opinione del Times, che è un giornale che leggiamo con rispetto tutti, almeno quelli che seguono la stampa inglese, ma di cui sappiamo pure che da cinquant’anni a questa parte non ha mai parteggiato per l’Italia.

Il Times prova solo come questa questione possa essere considerata da diversi punti di vista. È ovvio che il Times deve difendere la urgenza della ratifica di un Trattato che stabilisce tra l’altro la nostra rinuncia alle colonie di Africa e che stabilisce una posizione di favore soprattutto per la Gran Bretagna.

Su molti punti vi è una convergenza tra gli inglesi e noi, perché apparteniamo alla stessa civiltà, perché noi socialisti vogliamo realizzare lo stesso loro socialismo democratico, perché noi democratici vorremmo che l’autogoverno democratico che esiste in Gran Bretagna prendesse radici anche in Italia, perché apparteniamo alla stessa economia occidentale. Ma in questa specifica questione della ratifica del Trattato di pace, i nostri interessi non coincidono affatto.

Infatti, tutte le volte che i Ministri e deputati inglesi parlano dell’Italia alla Camera dei Comuni, ne parlano con crudo e brutale realismo. È vero, noi sosterremo sempre la necessaria collaborazione con la Gran Bretagna, anche perché il nostro atteggiamento verso la Germania deve essere molto più simile a quello della Gran Bretagna che non a quello della Francia. Però su questa specifica questione della ratifica del Trattato noi abbiamo interessi che divergono da quelli inglesi. E perciò le sollecitazioni di Bevin non sono argomenti per convincerci dell’urgenza della ratifica. Sarebbe argomento molto più forte il fatto che si fossero già effettuati i sondaggi necessari presso le potenze che possono invece avere interessi identici ai nostri, rispetto alla revisione delle clausole coloniali africane del Trattato, presso le potenze che in Africa possono preferirci agli inglesi.

E vengo alla questione che per me fondamentalmente prova come non si debba firmare, o almeno, non si debba affrettarci a firmare il Trattato: la questione dei nostri rapporti con la Jugoslavia.

Onorevoli colleghi, forse che la Jugoslavia ha già ratificato, è in procinto di ratificare? Il Ministro degli esteri ci ha parlato dell’opinione dei nostri ambasciatori a Londra e a Parigi: cosa dice il nostro Ministro in Jugoslavia? Non lo sappiamo. Lo sa egli? Probabilmente non lo può ancora sapere; ma il fatto che non lo possa sapere, significa che è una questione ancora aperta. Cosa è in grado di sapere l’onorevole Sforza sulle intenzioni del Governo jugoslavo? Ha il Governo jugoslavo l’intenzione di proporre al suo Parlamento la ratifica del Trattato entro il mese di agosto?

Onorevoli colleghi, per noi, lo Stato con il quale ci troviamo in contesa, contesa che vogliamo dirimere pacificamente – ma che esiste, e non si può ignorare – è la Jugoslavia.

Si sono sollevate grandi questioni: blocco occidentale, blocco orientale, Washington, Mosca; andiamo con gli uni o con gli altri? I nostri problemi immediati sono più modesti, ma non meno importanti: il nostro problema è di giungere ad una chiarificazione con la Jugoslavia. Questo problema è ancora in sospeso; possiamo anche restare avversari; però, senza la ratifica della Jugoslavia, non è ammissibile che ratifichi l’Italia. Come giuliano, io nego al Governo il diritto di ratificare il Trattato, se la Jugoslavia non lo ratifica!

L’articolo 89 del Trattato stabilisce che il Paese che non ratifica – si parla dei paesi vincitori – non godrà dei benefici del Trattato: la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le assegna, perché una particolare situazione militare l’ha già messa in possesso di questi benefici. I territori italiani che devono essere ceduti alla Jugoslavia, la Jugoslavia li ha già annessi e li considera come territori definitivamente suoi e coloro che vi risiedono già sono cittadini jugoslavi: gli italiani di Fiume e di Pisino sono già considerati e trattati come cittadini jugoslavi, a meno che non scappino, a meno che non se ne vadano clandestinamente, abbandonando i loro averi.

In generale, da tutti i punti di vista, militari ed economici, la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le dovrebbe dare solo dopo la ratifica.

Il Governo si è preoccupato di questa questione?

Ha domandato in proposito chiarimenti a Belgrado? Ha detto: «Il fatto che godiate questi benefici implica la vostra ratifica?». Finora, la Jugoslavia ha sempre dichiarato di non voler ratificare.

Tra gli argomenti finora addotti dal Governo della Jugoslavia, alcuni sono speciosi, altri rispecchiano l’esuberanza nazionalistica dei popoli giovani ed altri ancora riflettono temi di cui usano i Governi rivoluzionari e totalitari, siano essi di sinistra o non di sinistra. Ma quali che siano questi argomenti, per noi il problema non è solo di controbatterli in sede propagandistica, per noi il problema è di sapere cosa loro realmente faranno e di sapere se noi possiamo modificare il loro atteggiamento, trattando con essi o viceversa, ove ci persuadessimo che in ogni modo non ratificheranno, trarne le conseguenze e porci in un atteggiamento di resistenza.

Io credo di non aver bisogno di dimostrare, come giuliano, cosa rappresenti per noi, per i miei questo Trattato, in particolare nelle clausole che ci feriscono nelle carni vive. Tuttavia io sono sincero fautore di una intesa con la Jugoslavia, come lo sono stato durante tutta la nostra lotta. Sincero fautore; ma anche qui, o gli accordi si fanno sulla base della chiarezza, o meglio non farli. È dovere del Governo di considerare ciò e di dirci quali sono le intenzioni della Jugoslavia. Il giudizio del Governo sulle intenzioni della Jugoslavia deve prima della fine di questo dibattito essere portato alla conoscenza dell’Assemblea; magari in seduta segreta. Occorre inoltre che si sappia che cosa sta facendo il Governo per modificare le intenzioni jugoslave se queste sono a noi ostili o per resistere alla loro realizzazione.

Trieste: il Trattato stabilisce il Territorio libero di Trieste, ma ciò presuppone l’accordo delle quattro Potenze e l’accordo non c’è. Io non so, né vado a sceverare, se ciò sia bene o male, ma constato il fatto. Le prospettive sono quelle di una permanente occupazione militare: probabilmente le truppe inglesi non se ne andranno. Anche questa è una faccenda da considerare.

L’onorevole Sforza ci ha detto che, se noi non ratificheremo il Trattato, saremo una foglia al vento. Ma, onorevole Sforza, un popolo di 46 milioni di abitanti non è mai una foglia in balia del vento. Diciamo piuttosto che 250 mila triestini avulsi dallo Stato, abbandonati alla mercé di potenze occupanti, quelli, sì, sono una foglia al vento.

Prima dunque di ratificare un Trattato, che ha paurose lacune e incognite, è evidente che bisogna andare cauti. Bisogna sapere quali sono le intenzioni che hanno di fronte a Trieste gli inglesi, i russi, gli jugoslavi; e bisogna che l’Assemblea sappia ciò che il Governo farà per tentar di modificare quelle intenzioni. Ecco ciò che noi abbiamo il dovere di fare di fronte ai triestini. Io ho qui le lettere che mi sono state inviate numerose dal Partito repubblicano d’azione di Trieste, dal Comitato di liberazione dell’Istria, dal Comitato dalmati. Io non starò, onorevoli colleghi, a leggervele per intero, perché penso che i sentimenti che pulsano in queste righe siano quegli stessi che pulsano in tutti i nostri cuori.

E la questione dei nostri confini? Dall’articolo 21 del Trattato, noi apprendiamo che la sovranità dell’Italia sul costituendo territorio libero di Trieste avrà termine con l’entrata in vigore del Trattato stesso. Ora, questo significa che non è nostro interesse di affrettare l’entrata in vigore del Trattato medesimo, perché la nostra sovranità oggi, sia pure solo giuridica e teorica, verrebbe a cessare anche giuridicamente da quel momento. Questo è chiaro.

Se noi, ad esempio, potessimo influire sulla possibilità che anche la Russia si decida ad addivenire alla ratifica – è certo che noi non lo possiamo menomamente, trattandosi di una grandissima Potenza come l’Unione sovietica – ma, dico, ove mai noi lo potessimo, noi dovremmo influire non già nel senso di affrettare questo evento, ma dovremmo influire, al contrario, nel senso di farlo rimandare il più possibile, perché dal momento in cui quella ratifica fosse depositata e il Trattato fosse per conseguenza diventato esecutivo, noi esplicitamente avremmo rinunciato alla nostra sovranità su Trieste.

Noi avremmo rinunciato, onorevoli colleghi, alla nostra sovranità su Trieste, senza sapere se Trieste diventerà una Zanzibar, una Salonicco, o non so che cosa. Onorevole Ministro degli esteri, onorevole Presidente del Consiglio, queste sono questioni che non avete il diritto di sottovalutare, sulle quali non avete il diritto di accontentarvi di vaghe assicurazioni e di un generico ottimismo; queste sono questioni che vanno vagliate con estrema vigilanza. Se occorre, facciamo una seduta segreta, ma bisogna discuterne, se si vuole proprio ratificare il Trattato, cioè se si decide di affrettare con la nostra ratifica il momento in cui il Trattato sarà esecutivo e in cui rinunceremo ai nostri diritti su Trieste. Se si vuole questo, bisogna addurre dei fatti gravi per suffragarlo, delle prove circa la possibilità di erigere effettivamente lo Stato libero di Trieste e assicurare la collaborazione fra italiani e slavi, e la possibilità che italiani e slavi, una volta stabilita la loro collaborazione, non siano poi alla mercé di influenze militari, essi da una parte e noi dall’altra.

Mi pare che l’onorevole De Gasperi abbia basato tutta la sua polemica a Parigi, nell’agosto 1946, sui pericoli che possono derivare dallo Stato libero di Trieste. E l’onorevole De Gasperi condusse coraggiosamente quella polemica, non scevra di rischi. Da quella polemica con Molotov si va ora all’atteggiamento opposto: si ratifica, pur nel costante peggioramento delle condizioni di Trieste. Non ho certo bisogno di parlarvi di che cosa sia successo nel Governo militare alleato di Trieste in queste ultime settimane. Ma non è possibile passare così da un atteggiamento estremo all’altro. Bisogna difendere quello che si potrebbe ancora difendere di pratico, di concreto; bisogna scendere un po’ sul terreno della realtà empirica in questa questione: tracciare una via di mezzo e percorrerla; e ratificare – ammesso che si debba ratificare, il che io non do ancora per provato – solo quando una parte almeno di quella via si sia percorsa.

La ratifica russa perché tarda? Io credo che la ratifica russa tardi per questioni che si riferiscono alla Germania, all’Austria e ai Paesi danubiani e balcanici. Ora, evidentemente, vi è una grossa questione: entro 90 giorni dal giorno che i trattati saranno esecutivi, cioè ratificati da tutte e quattro le Potenze, questo Trattato e quegli altri Trattati, entro novanta giorni questo Paese e quegli altri Paesi dovranno essere evacuati; e questo è un decisivo argomento per ogni Paese, perché ogni Paese desidera l’evacuazione del suo suolo da parte delle truppe straniere.

Onorevoli colleghi, proprio perché si tratta di un fatto, direi così, spontaneo, cioè che ogni Paese che subisce l’occupazione desideri la evacuazione, proprio per questo dobbiamo anche sapere che in merito le Potenze occupanti non vengono sempre incontro ai desideri degli occupati. E anche qui noi non sappiamo affatto se, nel caso che dessimo la nostra ratifica, e la Russia desse la sua, veramente novanta giorni dopo, data la mancata soluzione della questione di Trieste, dato il mancato accordo in Austria, il nostro suolo sarebbe evacuato. In realtà, il nostro Trattato potrebbe essere esecutivo, ma l’Unione sovietica potrebbe dire che non evacua l’Austria perché non c’è il Trattato austriaco; che non evacua l’Ungheria, perché deve comunicare con l’Austria e allora neanche gli americani possono evacuare l’Austria; e allora avranno ovviamente le vie di comunicazione verso l’Austria per le loro truppe, che passano attraverso l’Italia.

Quale garanzia abbiamo dell’effettiva evacuazione? Io credo che prima di ratificare noi dovremmo assicurarci che, qualunque cosa avvenga in Austria, il nostro Paese, che avesse ratificato dopo la ratifica russa, sarà evacuato, che l’inadempienza dell’Unione sovietica in Ungheria, motivata dalla mancanza del Trattato austriaco, non sarà seguita dall’inadempienza da parte degli americani in Italia.

Facciamo, se occorre, una seduta segreta, ma la questione va chiarita; è inutile illudere il Paese dicendo che, quando il Trattato sarà divenuto esecutivo, entro novanta giorni il nostro suolo sarà stato evacuato. Noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento di estrema amicizia verso le truppe anglo-americane; ma non trasformate questo atteggiamento in insofferenza, quale sorgerebbe fatalmente quando 90 giorni dopo si dicesse al Paese che, invece di diventare esecutivo, il Trattato non lo è, su questo punto.

Noi possiamo avere qualsiasi opinione sul procedere dell’Unione sovietica in Ungheria e in Romania; ma qui dobbiamo preoccuparci solo della situazione dell’Italia, e non possiamo ratificare finché non abbiamo la garanzia che 90 giorni dopo l’esecutività di questo Trattato lo truppe alleate lasceranno l’Italia.

Si può dire che esse proteggono noi per il caso di un’eventuale aggressione da parte della Jugoslavia. Io voglio prendere in considerazione tutte le ipotesi, perché non devo nutrire e ammettere qui preferenze di parte. Ma anche in quel caso, che ha come presupposto che non ci si sia potuti intendere con la Jugoslavia, che ci sia il pericolo che la Jugoslavia voglia prendersi Trieste e quindi si renda necessaria la presenza di truppe angloamericane in Italia, ci dovrebbe essere un nuovo Trattato italo-anglo-americano, redatto da pari a pari, perché… le cose hanno preso un andamento per cui è legittimo supporre anche il peggio, e sia pure per combattere contro il verificarsi del peggio.

Onorevole De Gasperi, io capisco bene che sono questioni delicate, e proprio per questa ragione io e molti colleghi eravamo contrari all’immediata discussione; ma se si discute, bisogna che il Governo parli con chiarezza, oppure, cosa più ragionevole ancora, si rinvii la ratifica.

Si dice che, se ratifichiamo oggi, riacquisteremo la nostra indipendenza. Per la questione materiale – dell’occupazione alleata – io ho già provato che questo risultato è dubbio. Bisogna vederci più chiaro. La questione dell’indipendenza coinvolge però anche altri problemi: c’è l’indipendenza politica e l’indipendenza economica.

Non vi è dubbio, su questo, che noi che sediamo su questi pochi banchi siamo contro ogni pensiero di autarchia economica, di nazionalismo economico. Questi pensieri esulano dalla nostra mente. Come siamo stati dal primo istante per l’adesione al piano Marshall, pur sapendo disgraziatamente l’incerta consistenza di questo piano, così siamo sempre per la più grande collaborazione economica con tutti i Paesi. Certamente questa collaborazione internazionale può nascere, ed il primo Stato che può crearla è l’America del Nord. Ma se si dice che avremo l’indipendenza solo dopo la ratifica, al nostro cervello viene un po’ il dubbio che prima ci si chieda la ratifica per avere l’indipendenza e poi ci si chieda ancora questo o quest’altro per avere l’indipendenza, oppure prima ci si offre un prestito per-avere la ratifica e poi ci si chiede la ratifica preventiva e la formazione di un certo Governo per poter discutere in concreto del prestito.

Il generale Marshall è un uomo di Stato che rappresenta in America la tendenza politica opposta alla diplomazia del dollaro, ma questo non significa che la diplomazia del dollaro non esista più. Il generale Marshall non è solo a decidere, così come l’onorevole De Gasperi non è solo, ma tiene conto degli uomini alla sua destra e alla sua sinistra.

Così non si può ignorare, non si può far finta d’ignorare che la questione dell’indipendenza politica ed economica italiana può sempre essere compromessa dalla nostra cedevolezza davanti alle pressioni altrui.

La realtà è che anche dopo la ratifica bisognerà sostenere una lotta per riavere l’indipendenza politica ed economica. Per poterla sostenere, bisogna percorrere una via che non è certamente quella su cui si è messo il Governo dal mese di gennaio in poi. Viceversa, anche senza la ratifica si può ottenere l’indipendenza politica ed economica, ove si riesca a trovare un terreno di franca intesa con il generale Marshall, che è proprio quegli che non sollecita la ratifica con la stessa intensità della Francia e dell’Inghilterra, anche se genericamente la desidera.

Noi siamo psicologicamente più vicini agli inglesi e ai francesi che agli americani; ma questo fatto non toglie che sulla questione della ratifica inglesi e francesi hanno interessi diversi dai nostri, mentre gli Stati Uniti possono vedere la questione con maggiore larghezza.

C’era e c’è, a mio giudizio, un margine per far valere le posizioni nostre e anche per trovare la formula che permetta di conciliare la nostra appartenenza al mondo economico, che ha il suo centro negli Stati Uniti con la nostra indipendenza politica e con la nostra indipendenza di giudizio.

Ma la sicurezza di avere fatto il necessario noi non l’abbiamo, onorevole De Gasperi e onorevole Sforza. Noi non abbiamo la sensazione che le pressioni che avete accettato e subito per la ratifica, siano veramente il mezzo migliore per stabilire rapporti effettivamente proficui tra noi e gli altri.

Non è una questione di equilibrio. L’equilibrio è impossibile, perché per stare in equilibrio fra due potenze in conflitto ci vogliono altre forze che quelle che noi abbiamo. In caso di guerra noi saremmo fatalmente occupati o da una parte o dall’altra.

Quello che chiediamo è che, indipendentemente dall’estrema ambizione di tenere, in caso di conflitto, una posizione di equilibrio, voi cerchiate di creare condizioni tali fra noi e gli altri, per cui le potenze non ci ricattino, in tempo di pace, in un senso o nell’altro.

Ecco, a mio giudizio, il problema di politica estera del Governo.

Noi dobbiamo tener fede a questa prospettiva. Io ho ammesso un momento fa quello che ci viene dall’insegnamento delle cose: in caso di conflitto noi saremmo occupati dall’una o dall’altra parte. Ma una cosa dobbiamo evitare: l’essere arruolati da una parte o dall’altra.

L’Italia – caduto il fascismo – non deve arruolarsi sotto la bandiera altrui, né da una parte né dall’altra, e per resistere alla pressione formidabile che si eserciterebbe su di noi anche solo in condizioni di acuto conflitto diplomatico, bisogna cominciare ad abituarci a resistere su questioni come quella del Trattato. Onorevoli colleghi, noi non abbiamo il diritto di ripetere volontariamente la tragedia spontaneamente prodottasi nel passato nostro recente, la tragedia per cui la guerra mondiale dovette trasformarsi tra di noi in guerra civile. Dobbiamo avere la forza di restare piuttosto soli.

E questo non è in contradizione con la cooperazione economica e politica. Ripeto, sono per la cooperazione politica ed economica con gli Stati Uniti d’America e con gli altri Paesi che sono compresi nel piano Marshall, così come sarei per la cooperazione con i paesi d’Oriente, ove questa cooperazione diventasse fattibile e spero che, con alcuni almeno di questi Paesi, diventi fattibile e assai proficua; spero che gli accordi con i Paesi orientali diventino facili, almeno sul terreno economico. Ma, ripeto, l’adesione agli accordi economici e politici con l’Occidente non significa che dobbiamo lasciar credere a quei paesi (né agli altri) che essi possono influire su decisioni fondamentali nostre, non fosse che per sollecitarne l’urgente definizione.

Proprio sulla questione del Trattato bisogna provare che, finché si tratterà di cooperazione politica economica, diremo di sì di tutto cuore; ma quando si facessero pressioni, e voi sapete che ove c’è rischio di conflitto si fanno spesso pressioni, noi dobbiamo metterci in grado di resistere a qualsiasi pressione; dobbiamo rafforzare dunque la nostra volontà di resistenza.

L’onorevole Sforza ha delineato la filosofia di un’Italia indipendente e che tuttavia coopera con tutti i Paesi del mondo in una situazione in cui si sciolgono le frontiere. Totalmente d’accordo in questa visione, anche se non d’accordo – purtroppo – nella prospettiva di una sua immediata o rapida attuazione; ma se le frontiere si sciolgono e si supera la propria indipendenza e sovranità nazionale, e si va verso la Federazione europea o mondiale, si vada tutti e non solo noi. Non possiamo dare solo noi l’esempio.

Potremmo anche dare l’esempio per primi, ma solo in una determinata situazione in cui avessimo la certezza che gli altri ci seguiranno; ma non quando tutti fanno l’opposto.

Noi dobbiamo avere dunque un atteggiamento tale, da provare a tutti che le decisioni fondamentali della nostra politica estera saranno prese indipendentemente da ogni pressione; e siccome è emerso il sospetto che pressioni vi siano state, proprio per questo non dobbiamo ratificare. Avrei voluto che l’onorevole De Gasperi, quando si recò in America, avesse avuto un atteggiamento altrettanto fermo nei confronti di Byrnes e Truman come lo ebbe a Parigi, dove tenne coraggiosamente testa a Molotov. Byrnes, accogliendolo, nel brindisi, diede invece come un dato di fatto acquisito la nostra firma (allora si trattava di firma).

Purtroppo il Trattato è costantemente peggiorato da quando se ne discusse la prima volta a Londra nel 1945. A Londra si ammise il principio etnico. È vero che non bisognava farsi molte illusioni in proposito. Alcuni di noi – ricordo il compianto Adolfo Omodeo – misero in guardia l’opinione italiana e il Governo stesso contro la sopravalutazione della stabilità, del risultato acquisito. Ad ogni modo il risultato c’era, anche se più fragile di quanto si immaginasse da parte dello stesso Governo, anche se si sopravvalutò il risultato e forse per averlo sopravvalutato non si chiese il plebiscito.

Dal principio etnico si passa alla annessione di tutta l’Istria alla Jugoslavia. Anche questo senza che ciò sia conforme all’articolo 89 del Trattato. È vero che gli anglo-americani sono ancora a Pola, ma è anche vero che gli italiani non ci sono più, e che l’amministrazione di Pola praticamente passa già in mano jugoslava. Continua a peggiorare la situazione a Trieste, che il principio etnico darebbe indubbiamente all’Italia. L’onorevole De Gasperi riteneva nel 1945 che l’internazionalizzazione valesse solo per il porto. Io non mi feci illusioni e lo scrissi sui giornali; ma poi naturalmente sostenni le speranze dell’onorevole De Gasperi. Si passa dunque allo Stato libero di Trieste. E poi non c’è più nemmeno il disgraziato Stato libero di Trieste, che era meglio di niente, perché pur staccando Trieste dall’Italia, doveva avere una Costituzione che assicurava la sua italianità. Lo Stato libero di Trieste non c’è più. C’è una occupazione militare che può oggi essere di questo colore e domani di quell’altro. Nessuna garanzia per Trieste.

Anche la questione della smilitarizzazione delle frontiere diventa più grave, man mano che la situazione internazionale si acuisce.

Per i rapporti economici miglioramento sostanziale non c’è; e ove c’è, non è ancora garantito, non è reso indipendente dalle pressioni; la nostra politica estera ed economica è ancora tale, che se qualche potente dice di sì, dobbiamo dire di sì; se dice di no, dobbiamo dire di no. Ancora non si tratta dunque di garanzie economiche, ma di cosa più modesta.

Garanzie in generale sono quelle che si hanno indipendentemente da un orientamento di politica estera. Un accordo economico veramente forte è quello che è indipendente da quello che sarà domani l’indirizzo politico estero nostro. Credo che gli errori del Governo sulla questione del Trattato provengano dal punto di partenza che non è stato bene impostato da parte del Governo, e devo dire neppure da parte dei partiti di sinistra, che oggi non fanno più parte del Governo, ma che ne fecero parte fino a poco fa.

Si ammise troppo facilmente la nostra possibilità di vivere, di prosperare, firmando un Trattato incluso in un mondo diviso in zone di influenza. Dovevamo invece metterci fin dal principio in un atteggiamento di resistenza, per non essere assegnati fatalmente ad una zona di influenza. Per me oggi è indifferente l’ideologia che si propaganda, il colore della zona a cui ci assegnano; ma fatto sta che una Potenza come l’Italia, che non ha forze militari, ma tuttavia è grande potenza, in una situazione in cui il mondo è diviso in zone di influenza ha sempre la peggio. Dunque l’Italia, come ha spiegato l’onorevole Croce e come spiegherà forse l’onorevole Orlando, ha interesse di resistere alle zone di influenza.

E anche nella questione della Germania; non posso essere d’accordo né con l’onorevole Togliatti né con l’onorevole Sforza. Non con Togliatti, perché egli sposa una tesi vendicativa francese che, a mio giudizio, è sbagliata. L’Italia ha interesse a che il carbone e l’acciaio tedesco sia prodotto nella più larga misura possibile e che il mercato tedesco rifiorisca e che la Germania ridiventi indipendente, perché l’indipendenza della Germania assicura l’indipendenza dell’Italia.

Questo fatto di interdipendenza esiste, malgrado che con la Germania ci siamo trovati due volte l’una contro l’altra in questo secolo e anche se diciamo di esserci trovati dieci volte l’una contro l’altra dai tempi del Medioevo. Esiste un’Europa solo se l’Italia e la Germania e la Francia sono tutte in piedi, se vivono e fioriscono.

Accettare perciò a cuore leggero l’articolo 18 del Trattato, che impegna noi a priori di riconoscere il trattamento che sarà imposto alla Germania, non è giusto; io purtroppo non conosco alcun atteggiamento di resistenza del Governo a questo articolo 18. Perciò dico che l’atteggiamento dell’onorevole Sforza non mi trova consenziente. Anche questa è una questione da soppesare prima di ratificare, perché abbiamo bisogno dell’amicizia del popolo francese, del popolo inglese, del popolo statunitense, del popolo russo, del popolo jugoslavo, ma avremo anche bisogno della amicizia del popolo tedesco. Se si vuole fare una politica popolare bisogna tener conto di tutti i popoli d’Europa. L’onorevole Sforza ha fatto un accenno alla necessità della ratifica del Trattato nello spirito di democrazia popolare che anima l’Europa e l’Italia. Speriamo che finisca con l’animarli; per il momento non prevale questo spirito di democrazia popolare in Europa. Non prevale per la volontà dei vincitori e forse anche per l’immaturità dei vinti.

La questione della ratifica o meno dovrebbe essere presentata qui da un Governo che non fosse di parte. È questa una questione di cui le generazioni future terranno conto. Trattati di questo genere, trattati di petizione, trattati duri imposti dai vincitori ai vinti, sono presentati ai rispettivi Parlamenti o da Governi di funzionari e di tecnici, oppure da Governi di larga coalizione e non da Governi di un solo colore. Questa è l’esperienza che voi ricaverete da molti dei casi storici che avete citato, di Paesi che dopo una sconfitta hanno firmato. Se così non fate, cadete nell’errore delle destre in Francia dopo il 1870, dove – come denunciò Gambetta – fu un Governo di colore a presentare il Trattato per la ratifica, ed era un Governo che si illudeva di avere la possibilità di essere conservatore e pacifista e invece produsse lo scoppio – non immediato ma fatale – dello sciovinismo nazionalista e della volontà di rivincita.

Tendere la corda in un determinato senso provoca sempre la reazione in senso inverso. Non bisogna tendere la corda, quando si hanno problemi nazionali di questo genere in discussione. La ratifica suppone, se mai, un Governo di tecnici e di funzionari o un Governo di larga coalizione. In tal caso soltanto si riesce ad ottenere e creare un atteggiamento di concordia nazionale.

Onorevole Sforza, lei ha accennato al Governo Giolitti che fu rovesciato dalla campagna nazionalista. Però il Governo Giolitti non fu rovesciato solo per colpe altrui. C’erano anche gli errori di politica interna ed estera di quel Governo, e senza quegli errori il fascismo non si sarebbe sviluppato. Noi non riavremo il fascismo. Non c’è oggi nessun pericolo di rivederlo ed al riguardo io non ho preoccupazioni; ma possiamo avere ancora situazioni reazionarie diverse dal fascismo, ma ugualmente dannose ed ugualmente contrarie alla libertà e alla democrazia sociale e popolare. Onorevole Sforza, bisogna che il Governo, il quale prende posizione davanti a questo Trattato, per accettarlo o rifiutarlo, sia immune da ogni critica al riguardo.

Per anni noi cammineremo sull’orlo di una strada pericolosa, per colpa delle grandi Potenze vincitrici, se volete della situazione economica e politica del mondo intero. Ne usciremo, speriamo, forse attraverso una intesa russo-americana, forse in un altro modo; non lo sappiamo.

Ad ogni modo, io concludo con la filosofia di Croce: è indispensabile un atteggiamento di durezza da parte dell’Italia lungo questo cammino pericoloso; occorre un atteggiamento di strenua difesa della nostra indipendenza, anche dalle pressioni più benevole e più paterne. Ci vuole anche la fede, ma soprattutto la fede nella capacità dei popoli e delle pubbliche opinioni di spezzare il sistema delle zone d’influenza, di obbligare i Governi ad un atteggiamento internazionale diverso da quello attuale.

Quella di Croce è anche la filosofia della democrazia socialista indipendente, che non ricade né nel massimalismo né nel riformismo. Per questo, nella situazione attuale, mi è impossibile dare il mio voto alla ratifica del Trattato (Applausi).

PRESIDENTE. La seduta è rinviata a domani, alle ore 10, per il seguito della discussione sull’imposta patrimoniale. Alle ore 17, in seduta pomeridiana, sarà proseguita la discussione sul Trattato di pace.

La seduta termina alle 24.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).