ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCIV.
SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 26 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
indi
DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Approvazione del Trattato di Pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Cicerone
Nitti
Bassano
Nobile
Paris
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 17.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
È iscritto a parlare l’onorevole Cicerone. Ne ha facoltà.
CICERONE. Onorevoli colleghi! Prendo la parola in questo momento, quasi per un senso di dovere verso le giovani generazioni, che mi onoro di rappresentare in quest’Aula e che sono quelle più direttamente interessate alla pace italiana, perché dovranno sopportarne il peso e le conseguenze maggiori.
E giusto, quindi, che, più del passato, io mi preoccupi dell’avvenire della nostra politica estera. Occorre guardare innanzi a noi; occorre, anzitutto che ci si renda conto che nel mondo molte cose sono cambiate.
Io non credo che, nel campo della morale, ci siano nuove scoperte e nuovi orizzonti e, tanto meno, nuove applicazioni, nella politica, del pensiero morale: ma qualche cosa è terribilmente mutata, nelle proporzioni in cui si svolge la vita dell’umanità.
Le Potenze latine, l’Italia e la Francia, si presentano oggi al mondo in una situazione di tragica inferiorità. E io intendo richiamare la vostra attenzione su questo fatto essenziale, specialmente per noi: che l’Italia e la Francia non ora hanno perduto la guerra, ma nel 1914-18; è precisamente durante il primo conflitto mondiale che si determina un fatto essenziale nella storia dell’umanità. Due forze nuove gravitano attorno all’Europa, è l’intervento americano che per la prima volta nella storia si esercita direttamente nel vecchio continente: lo sbarco delle truppe americane in Francia è un punto che l’avvenire considererà come uno dei grandi avvenimenti nella vita dell’Europa. E c’è un altro fatto importantissimo, determinante, la rivoluzione bolscevica, che, dal 1918, si dà ad organizzare le masse immense della sterminata Asia, per lanciarle successivamente a gravitare anch’esse verso l’Europa.
Ci siamo resi conto allora di questo grande avvenimento e ce ne siamo resi conto dopo? Non mi pare; non mi pare, perché, mentre i popoli anglosassoni combattevano per il dominio degli oceani e, mentre la Russia bolscevica cedeva a cuor leggero vaste zone di territorio alle armate tedesche perché oramai, divenuta internazionalista non riferiva al territorio alcuna importanza, da parte delle Potenze latine si combatteva per città irredente, per passi montani e confini fluviali. E la guerra attuale ha sanzionato questo grandioso evolversi della vita del mondo, ha consacrato la nuova proporzione in cui questa vita si svolgerà nell’avvenire e sarebbe un errore fatale se, pur dopo la gravissima lezione del nuovo conflitto, i popoli europei non riuscissero a comprendere quale pericolo sia per essi il fatto che oggi l’Europa non può, come una volta, unita, propagare la sua civiltà nel mondo, ma che si trova divisa, lacera, impoverita e fatta preda di potenze a lei estranee e che ne metteranno in forse la sua esistenza.
Come ci troviamo noi italiani di fronte alla pace che si apre? Io ritengo che dovremmo porgere anzitutto, come europei, il pensiero alla grande Madre Europa perché, se non pensiamo ad essa, noi non pensiamo neanche alla nostra civiltà, noi non riusciremo nemmeno a conservare le nostre caratteristiche storiche.
Vi è la possibilità che l’Europa segua due strade; o essa si unirà e si porrà come elemento nell’equilibrio mondiale, o essa è destinata a fare nel mondo avvenire la parte che nell’800 vi fece l’impero turco. Essa sarà la grande malata su cui si eserciteranno gli interventi dell’Oriente e dell’Occidente, ma in definitiva essa non avrà più alcun ruolo da esercitare nella vita del mondo.
Partiamo, dunque, da queste premesse che superano e sovrastano la contingenza del Trattato di pace, ma che sono necessarie, perché è alla luce di queste considerazioni che noi dobbiamo vagliare e giudicare quello che si sta facendo nel mondo e in Europa nei nostri riguardi. Naturalmente, quando noi scendiamo dai grandi e vasti orizzonti intercontinentali nella cerchia più ristretta della vecchia Europa, ritroviamo vecchie ubbie, ritroviamo errori fatali, ma ritroviamo anche esigenze dello spirito europeo, che è necessario sodisfare.
Come dobbiamo giudicare questo Trattato che ci viene presentato? Io ritengo che il giudizio su di esso debba dividersi in due parti. C’è il contenuto morale del Trattato di pace che va assolutamente rigettato per le considerazioni che sto per fare; c’è il contenuto politico: abbiamo perduto una guerra, dobbiamo pagare per aver perduto la guerra.
Ricordo di aver letto una frase del grande socialista francese Léon Blum, in un libro che egli ha scritto durante l’occupazione tedesca. Egli dice ad un certo punto che vuole spogliarsi di qualsiasi prevenzione verso il suo Paese e adopera questa frase: «Il dovere della equità esiste anche verso noi stessi». Cerchiamo, dunque – e io ne rivendico a me il diritto, come ad uno dei più giovani rappresentanti della Camera italiana – di lavare la macchia che pesa sul popolo italiano. Gli Alleati ci accusano di aver dato vita al fascismo; la condanna morale che ci infliggono è di aver tollerato l’instaurazione di una dittatura e di esserci lasciati condurre da questa dittatura verso così dette folli avventure.
Ma noi potremmo rispondere a questi signori, i quali si compiacciono troppo spesso di ricordarci un periodo critico della nostra vita nazionale, che quanto noi facemmo venticinque anni fa di fronte al dilagare di un sovversivismo, che minacciava le basi stesse della società nazionale, essi stanno facendo ora per minacce molto meno attuali; e lo stanno facendo dopo la nostra triste esperienza. Il loro fascismo, questa ondata anti-comunista che si esercita in America, per il momento a mezzo di leggi eccezionali, sarebbe pensabile come condotto alle conseguenze estreme, cui siamo giunti noi con Mussolini, e moralmente sta in ogni caso sullo stesso piano del fascismo italiano. Noi dobbiamo francamente dire a codesti nostri amici che essi non hanno il diritto di accusarci di aver fatto venticinque anni fa quello che oggi essi stanno facendo.
E poi, allontaniamo da noi decisamente un’altra accusa: quella dell’imperialismo. C’è una preoccupazione costante, c’è una cappa di piombo che grava su tutti i nostri gesti; noi non possiamo parlare di Trieste; noi non possiamo parlare del Mediterraneo; noi non possiamo parlare di ripresa economica, perché ci vengono all’orizzonte presentate queste lettere di fuoco: «imperialismo italiano».
Che cos’è l’imperialismo italiano in definitiva? È la rivendicazione di un popolo povero ai diritti della vita. E ci viene rimproverato questo imperialismo in un momento in cui la Francia ha combattuto in Indocina contro un popolo inferiore e lo ha soggiogato con la forza; in un momento in cui l’Olanda dichiara una guerra contro Sumatra e Giava, perché non intende rinunciare alla sua politica coloniale e ai suoi Dominî d’oltremare; in un momento in cui la stessa Polonia è spinta dalla Russia ad avanzare fino alle porte di Berlino, e la Bulgaria, la Grecia e la Romania, e anche più piccoli Paesi hanno fatto valere le loro rivendicazioni territoriali.
Noi non possiamo concedere che ci si incolpi di imperialismo da parte di Potenze che ancor oggi – e bisogna avere l’ardire di dirlo – usano in Palestina mezzi di cui noi ci saremmo sempre vergognati. Naturalmente, questo problema degli spazi vitali non è morto perché sono morti Hitler e Mussolini; questa necessità per Paesi sopra popolati di espatriare esiste ancora. Noi accettiamo e ringraziamo l’ospitalità delle Repubbliche sud-americane e di tutti quei Paesi europei ed extra-europei, i quali concedono lavoro ai nostri operai. Ma, evidentemente, è molto triste constatare che questi nostri fratelli vanno a lavorare sotto bandiera straniera. Diciamo: vogliamo anche noi avere la possibilità di lavorare in terre nostre. Noi non avanziamo la pretesa di riconquistare quello che è stato perduto, ma diciamo: mettiamo in comune tutte le risorse mondiali e diamo lavoro a questi Paesi poveri.
Certamente, se nel 1938 la Germania fosse stata sodisfatta nelle sue giuste esigenze di attuare, da grande popolo com’è, una politica di espansione, la guerra non sarebbe venuta.
Vi è un altro problema che incide profondamente sull’Italia, perché si vuol vedere in questo problema un’altra delle cause del fascismo: il problema del nazionalismo. Io sono d’accordo che il nazionalismo sia stato uno dei veleni più pericolosi e più dannosi che l’800 abbia fatto nascere fra le masse europee, ma questo sentimento di un popolo di essere nazione ormai c’è e non si può ignorarlo.
Come correggere questo sentimento? Come dare sfogo a questo sentimento? Come riuscire a che lo stimolo maggiore che nelle masse determina il desiderio della guerra venga sodisfatto?
In altri tempi ci sono state le guerre religiose. Oggi sarebbe assurdo, sarebbe incredibile che un Paese scendesse in guerra per difendere una libertà religiosa che gli è concessa o per imporre ad altri una fede religiosa. Dobbiamo arrivare alle stesse conclusioni per il nazionalismo: occorre che al nazionalismo si dia lo sfogo più ampio e la soddisfazione più completa. Quando un popolo sarà racchiuso nei suoi giusti confini, allora naturalmente non vi sarà lo stimolo alla guerra, non vi saranno questi focolai di irredentismo che da cento anni periodicamente travolgono i popoli d’Europa.
Il Trattato di pace che è stato proposto all’Italia sodisfa a questa duplice esigenza di non lasciare rancori nel Paese, di metterci in pace con tutti i nostri vicini, e sodisfa all’altra esigenza che è quella di consentire ai popoli europei di rifare la loro unità e di porsi come terzi arbitri fra due contendenti?
È su queste basi che – secondo me – il Trattato di pace va esaminato.
Ed in relazione alla soluzione di questi due problemi si deve discutere se si può accettare il Trattato e ratificarlo, o se si deve tentare la sua modifica.
Abbiamo lasciato oltre i confini terre italiane. La Francia ha voluto condursi verso di noi secondo la sua vecchia scuola politica: quella delle teste di ponte in casa altrui e del confine montano o fluviale. Abbiamo rinunciato o stiamo per rinunciare a qualsiasi forma di espansione africana, a qualsiasi attività coloniale. Siamo stretti fra le più angustiose necessità, cosicché mi pare che gli interessi essenziali – non dell’Italia ma dell’Europa –– siano stati lungi dall’essere salvati. Il Trattato, quindi, è completamente deficitario per noi. In questa pace – non soltanto nella pace italiana ma anche nella pace germanica – in tutta la pace di questo dopoguerra manca uno spirito giuridico, manca un principio informatore.
A Vienna, un secolo e mezzo fa, nel 1814, si trovò una formula giuridica da applicare indistintamente ai vincitori e ai vinti: quella formula giuridica della legittimità delle conquiste prerivoluzionarie, riconosciuta dagli uni e dagli altri, dette tregua alla Francia napoleonica e assicurò bene o male per circa un secolo la pace del Continente.
A Versaglia un altro principio fu seguito. Il principio delle nazionalità. Si sapeva che bisognava cercare di unire sotto uno stesso Governo uomini di una stessa lingua e di una stessa razza.
Anche in questa guerra si era partiti bene con la Carta atlantica. Si era detto che la situazione sarebbe tornata quale era prima delle aggressioni fasciste; si era promesso che da nessuna parte vi sarebbero state conquiste o perdite di territorio: era il vecchio principio di Vienna. Ma tutto è finito in una lotta d’interessi egoistici e di compromessi fra l’Oriente e l’Occidente, fra Anglo-sassoni e Russi, che si è esercitata unicamente a danno dell’Europa. Forse questo fatto, il principio del diritto, è in fondo come la morale nella vita dei popoli, perché un principio morale e giuridico può anche non attuarsi completamente essendo i rapporti tra i popoli rapporti di potenza; ma comunque esso serve, come nell’individuo la morale, a lenire le pretese del vincitore, a segnare un limite ai suoi appetiti. In questa pace, questo limite morale e questo principio giuridico sono mancati completamente ed io oserei dire che questo principio è mancato, proprio perché è mancata, nella compilazione della pace, quella mentalità giuridica latina che fino ad oggi aveva guidato le sorti del mondo.
Possiamo noi consentire che si continui per questa strada? Possiamo noi consentire che l’Europa continui ad essere fatta oggetto dei compromessi di forze estranee? Che cosa hanno fatto il Governo italiano ed i precedenti Governi per evitare queste sventure? Senza dubbio noi siamo stati le vittime di iniziative altrui.
L’Italia ha avuto solo due momenti in cui poteva agire: il primo quando le truppe americane invasero la Sicilia e la Calabria e giunsero fino a Cassino.
Eravamo il primo Paese liberato dell’Europa: tutto il mondo guardava con enorme attenzione a quello che avrebbero fatto le nostre popolazioni, da 25 anni oppresse da un regime dittatoriale. Tutto il mondo, e specialmente la Russia e l’America, faceva a gara per accattivarsi l’animo di queste genti. Già si era capito che la situazione interna di ogni Stato ed i sentimenti filomarxisti o filodemocratici avrebbero avuto un peso determinante nella politica di questi Stati. Purtroppo, non si seppe approfittare allora di questa situazione.
Che cosa si poteva fare? Non si poteva fare una politica di equilibrio, perché, per fare una politica di equilibrio, bisogna che un Paese abbia un peso da gettare in questa o quella bilancia. L’Italia non poteva fare una politica di affiancamento all’uno o all’altro blocco, oppure una politica ardita di colpi di mano, una politica machiavellica, se così ci piace chiamarla.
Ma purtroppo questa occasione ci è sfuggita. Io voglio essere equanime: non vorrei che la responsabilità di questa situazione si addebitasse unicamente ai Governi. In quel momento l’Italia cominciò ad essere divisa: gli animi degli italiani si scissero in due parti: da una parte stettero i comunisti ed i socialisti con le loro simpatie verso la Russia, dall’altra parte stettero le forze democratiche e reazionarie in genere. Di queste forze, spassionatamente, senza pudore, le une si appoggiarono alla Russia e le altre – confessiamolo pure – alle potenze Anglo-sassoni. Fu un fenomeno di degenerazione gravissima che si ripete in tutti i Paesi in stato di decadenza. Non avemmo spirito nazionale; non sentimmo che l’ideologia non doveva soverchiare in quel momento le necessità della Patria e che bisognava tacere.
Questa è, a mio avviso, la verità spassionata della nostra situazione. Evidentemente errori poi ci furono da parte del Governo ma furono, più che altro, errori tecnici e perciò stesso, visibilissimi. Per esempio, si affidavano le nostre ambasciate a uomini nuovi alla diplomazia, nuovi alla gente che andavano a conoscere. Il Governo italiano credette che anche all’estero ci fosse stato un fascismo, ci fosse stata una lotta clandestina. Non trovammo il nostro Talleyrand, l’uomo che fosse stato in contatto con l’estero non soltanto al momento del crollo del fascismo, ma anche prima del fascismo e durante il fascismo. Quell’uomo avrebbe potuto dire tante cose agli Alleati, che questi nostri illustri rappresentanti, impreparati e sconosciuti all’estero, non seppero evidentemente dire. Ci fu anche un errore gravissimo: si smantellarono tutte le organizzazioni del Governo. Si credette che lo strumento che aveva servito il fascismo non potesse più servire alla democrazia.
Una voce al centro. Certo.
CICERONE. Mi dispiace, ma non sono del suo avviso. Noi rinunziammo a qualsiasi forma di organizzazione segreta d’informazioni che tutti gli Stati hanno, perché noi abbiamo visto, egregio amico, nella nostra Italia, in ogni provincia, in ogni casa, direi, esercitarsi la sorveglianza di organizzazioni segrete anglo-americane. Sono strumenti di cui uno Stato si serve, perché la difesa all’estero non ha niente a che fare con il regime di un Paese. Ci furono degli errori e molti di questi errori, come dicevo, non possono addebitarsi al Governo, ma ad una situazione di rapida decadenza del popolo italiano.
Poi la guerra terminò. Gli Alleati non ebbero più bisogno dell’Europa; perché l’Europa era loro, l’avevano nelle mani, ne decisero come vollero, ed allora ogni iniziativa sfuggì al Governo italiano, che dovette rassegnarsi a subire operazioni chirurgiche sul tavolo anatomico della pace, in condizioni di anestetica immobilità.
Si rinnova in questo momento la possibilità di fare una politica estera. I compromessi fra i Grandi sono finiti.
Essi litigano nuovamente, ciascuno di essi ha bisogno nuovamente di noi. E questo è un momento cruciale della vita della Nazione; è questo il momento in cui bisognerà decidersi e scegliere la nostra strada. Forse ci sfuggirà l’ora, ci sfuggirà l’occasione nuovamente e forse non si presenterà più; quindi richiamo l’attenzione del Governo sulla opportunità che in questa Assemblea, dopo la ratifica o non ratifica, si faccia un altro dibattito sulla politica internazionale del Paese. Si rinnova la possibilità di una politica estera; è la politica estera dei deboli. Dobbiamo confessarlo francamente: è quella libertà relativa di muoversi tra i colossi destreggiandosi che confina con l’indipendenza, ma non è l’indipendenza.
Dobbiamo andare con la Russia o dobbiamo andare con gli Anglo-americani? È arduo rispondere ad un quesito di questo genere. Debbo dichiarare che, come conservatore, non avrei, in linea di principio, nessuna difficoltà al più stretto avvicinamento con la Potenza russa, perché i rapporti esterni non hanno niente a che fare con la vita interna dei popoli. Ma, d’altra parte, si è determinata in Italia una situazione interna di cui conviene tener conto, quella situazione che ci ha impedito di fare una politica estera tre anni fa.
Un avvicinamento alla Russia? Data la proporzione delle forze politiche nel Paese e dato il precedente per cui in tutti i Balcani i Paesi sottoposti all’influenza russa sono caduti sotto il Governo comunista, dati questi precedenti, io ritengo che non si dovrebbe andare con la Russia. Ma c’è il rovescio della situazione. Possiamo noi stringerci intimamente con le Potenze anglosassoni? E qui ci si presentano alcune difficoltà.
È inutile nasconderci che le guerre ci sono state e che guerre ci saranno. (Proteste – Commenti a sinistra). Non possiamo nasconderci, anche se alcuni idealisti lo vogliono ignorare oggi, come l’hanno ignorato ieri, che le possibilità di un conflitto sono sempre immanenti nella vita del mondo.
Ed allora io vi chiedo se seriamente si può pensare ad un’Italia, ad una Francia tese in uno sforzo bellico contro la Potenza sovietica, quando questo sforzo dovrebbe ricadere principalmente su quella classe operaia, che è sentimentalmente legata con la madre del marxismo mondiale.
È quindi evidente che un nostro intimo avvicinamento con gli Anglo-americani è da evitare per una situazione di cui essi sono responsabili, perché essi stessi hanno aiutato al loro arrivo in Italia lo sviluppo delle forze marxiste, e a furia di frugare nelle nostre tasche nella speranza di trovarci il distintivo fascista, ad un certo punto non si sono accorti che quel distintivo era saltato nelle loro tasche. Sono situazioni paradossali che si ripetono molte volte nella storia del mondo, come quando la Germania, credendo di aver vinto la Francia rivoluzionaria, si è trovata la rivoluzione in casa sua.
Ma c’è fra queste due vie egualmente pericolose, una terza via: è la via che io ho indicato all’inizio di questo mio breve discorso, cioè la via del blocco europeo. Il Governo italiano si adoperi a questa possibilità. Il Governo italiano cerchi l’avvicinamento con tutti i popoli europei, compreso il popolo tedesco, perché non è pensabile un’Europa senza l’elemento germanico, come suo componente primario. Questa Germania, così misteriosamente mistica, questa Germania per tanti secoli pacifica, questo popolo che per tutto il Medioevo ha assicurato l’equilibrio e la pace dell’Europa, ad un certo punto si è sentito stretto fra la Potenza russa che nasceva e la Potenza francese che declinava, e da questo urto è nato probabilmente il suo timore folle di essere schiacciata fra i due blocchi, il suo spirito guerresco.
Non illudiamoci: la Germania non si può dividere fra la Russia e gli Anglo-americani. Se noi ricostruiremo in Europa un concerto di Potenze europee, nel quale la Germania conti per se stessa, ma nel quale le altre Potenze unite contino più della Germania, allora l’elemento germano-latino potrà di nuovo ridare forza e potenza alla nostra civiltà e potrà porre l’Europa fra i due contendenti mondiali; potrà questa Europa essere nuovamente la salvazione della civiltà.
Ora, sulla via della Unione europea, troviamo noi il piano Marshall e troviamo la ratifica del trattato? È questo, dal mio punto di vista, il problema.
Il piano Marshall suona anzitutto accusa agli europei, suona ammonimento da parte di un continente estraneo a questi popoli che non hanno trovato in se stessi abbastanza intelligenza e abbastanza forza per comprendere che dovevano unirsi; ma è sempre iniziativa estranea, è spirito di altra mentalità; è una iniziativa che somiglia ad una impresa commerciale, che risponde allo stile dei governanti americani. Si ripetono, un po’ in altre forme, le difficoltà che incontrò Wilson nell’applicare all’Europa un piano concepito fuori dell’Europa, assente l’Europa.
Se il piano Marshall sarà uno spunto per mettere insieme queste Potenze europee, esso potrà avere ulteriori e buoni sviluppi. Ma occorre che la sua origine sia dimenticata; occorre che sia quasi cosa nostra. Le energie del vecchio continente sono ancora immense. Esse sole, unite, potrebbero risolvere il problema economico dell’Europa; e se l’America si fosse posta come mediatrice nei nostri problemi europei, avrebbe fatto molto meglio e di più.
In altri termini, non riusciremo a dimenticare, per il carbone e la farina, due millenni di tradizioni e di contrasti, consumati per la delicata questione dei problemi di confine e di commistione di popolazioni e di razze diverse. È in questo lavoro paziente, veramente europeo, che può consistere l’intervento americano come mediatore delle contese europee. Se l’America si accontenterà di esercitare una protezione solo economica, non avrà fatto gran che.
Incontriamo per la via dell’unione europea la ratifica del Trattato di pace? Non lo so. Perché, in fondo, non attribuisco nessuna o quasi importanza a questo atto formale, perché nei rapporti tra i popoli, che sono rapporti di potenza e di equilibrio, gli atti formali contano finché sono sostenuti dalla volontà di farli contare. La volontà di far contare il Trattato di pace da parte italiana non ci potrà essere mai.
Signori del Governo, non è ignorando l’ammalato che potete guarirlo; non è rinunziandovi, che potete eliminare l’irredentismo futuro. Oggi come oggi tutti quanti siamo in questa Assemblea potremmo anche mettere una pietra sui nomi di Trieste, Zara, Tripoli, Bengasi, Briga e Tenda. Potremmo farlo noi. Ma siccome la fiamma della italianità vivrà in questi Paesi eterna, i nostri figli ed i figli dei nostri figli potrebbero trovare in quei nomi un vessillo di guerra.
Perciò, piuttosto che contentarvi del formalismo di essere trattati da pari a pari nelle conferenze internazionali, piuttosto che premere per l’ingresso all’ONU, al quale non credo, come non credo in nessuna di queste mastodontiche formazioni internazionali, le quali spesso mascherano una politica egoistica, badate ai problemi concreti. E se la ratifica può servire a risolvere questi problemi, ad aprire una strada perché questi focolai di nazionalismo siano spenti, per il bene d’Europa, ratificate!
Ma, se mai voi aveste la sensazione che le promesse di revisione non siano più sincere di quelle fatte in altri tempi alla Germania, se mai aveste la sensazione che quel machiavellismo di cui ci si accusa è invece machiavellismo degli altri, è la concezione anglo-sassone del machiavellismo che ha portato nella guerra diecine di popoli, sapendo di non poterli sostenere, e da radio Londra ha scoraggiato i nostri combattenti, per poi trarli in campi di prigionia, allora non ratificate!
La mia generazione e le più giovani, non hanno responsabilità di tutto quanto è accaduto: veramente siamo immuni da ogni colpa. Noi non vi chiediamo molto, noi non vi chiediamo le utopie della pace perpetua, né vi chiediamo l’associazione mondiale dei popoli: vi chiediamo molto meno. Noi vi chiediamo qualcosa che è stato già fatto nella storia dell’umanità: vi chiediamo la pace.
Noi riteniamo che questa pace debba fondarsi principalmente sulla eliminazione dei rancori. Un secolo fa, uomini che rappresentavano l’autoritarismo regio, al loro tempo, con i sistemi della loro morale politica, seppero assicurare questa pace in Europa, perché trovarono tanta forza i vincitori da rinunciare al timore folle della rivincita, e tanta forza e tanta abilità i vinti da far intendere al vincitore che era suo interesse non incrudelire su di essi.
Noi vi chiediamo soltanto questo: e quando ci avrete assicurato un avvenire scevro di rancori e di rivendicazioni, allora le nuove generazioni, su questa serenità, si impegneranno a conservare la pace. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.
NITTI. L’idea di ratificare desta in me una profonda tristezza per i ricordi del passato. Io non volli firmare il trattato di Versailles; invece di recarmi io stesso a Parigi incaricai l’onorevole Sonnino.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. C’ero io!
NITTI. No, tu non c’eri! È un equivoco.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ti dico che c’ero. (Si ride).
NITTI. È un equivoco che chiarirai facilmente. Non volli firmare: ero convinto che quel trattato avrebbe portato l’Europa ad una nuova e ben più grande rovina. Dovetti firmare ciò che non avrei voluto. Pochi mesi dopo, richiamato a Parigi, andai a firmare la ratifica.
Ricordo ancora quella scena dolorosa: il rappresentante tedesco aveva l’aria triste, come di uomo che nel corpo e nell’anima avesse qualcosa che non comunicava! La firma della ratifica fu fatta con solennità. I francesi se ne valsero anche dopo nella loro propaganda di guerra. La ratifica era l’atto solenne di consacrazione della vittoria. Quando la Francia era in guerra con la Germania dopo il 1939 e voleva dar prova della sua grandezza, ricordava la consacrazione della precedente vittoria. In tutti i cinema dei grandi boulevards di Parigi c’era il documentario della ratifica sotto della quale era una mia brutta firma che pareva contraffatta. Ero così nervoso, quando firmai, che la firma par quasi non mia. Soffrivo nel firmare: sentivo che la guerra era prima o dopo inevitabile. Uscii dall’aula, la stessa dove ora si fanno le riunioni (la Sala dell’Orologio) deciso a combattere quel trattato e a volerne la revisione. O la revisione, che nella generale esaltazione pareva allora impossibile, o inevitabilmente a più o meno lungo termine una più immensa guerra. Da allora, appena fui libero dal Governo, pubblicai una serie di libri per dimostrare come si dovesse arrivare necessariamente alla guerra. Il primo di questi libri fu L’Europa senza pace, tradotto in 24 lingue dell’Europa e dell’Asia e che fece il giro del mondo. Le cose che prevedevo, e a cui quasi tutti si rifiutavano di credere, dolorosamente sono avvenute.
L’idea di ratifica, dunque, mi è per il passato triste ricordo e mi è causa di dolore e di ansia per l’avvenire. Questa ratifica, che si domanda a noi, è per me suprema umiliazione, perché, dopo aver assistito alle ratifiche da vincitore, assisto ora da vinto, e ne sento tutta l’amarezza. Il mio paese è triste e umiliato.
Noi tutti, ci troviamo di fronte ad un problema terribile: bisogna accettare l’umiliazione? Ratificare o non ratificare il trattato?
Non vi sono che tre soluzioni: o respingere il trattato con tutte le conseguenze gravissime che ne sarebbero il triste corollario; o adottare una ratifica che ora non ha tutti gli elementi per essere operante a nostro vantaggio; o ratificare quando vi siano tutte le condizioni necessarie e intanto dare al governo tutti i poteri necessari perché la ratifica avvenga anche quando il Parlamento non è riunito. Negli ultimi due casi però la ratifica non può avvenire senza una solenne e dignitosa protesta contro l’iniquo trattamento fatto all’Italia cui è stato imposto un diktat umiliante e odioso.
Io, per quanto sia doloroso, ho detto fin dal primo momento che noi dobbiamo accettare. Noi abbiamo perduto la guerra. Non possiamo che accettarne le conseguenze. Se non sottoscrivessimo, dovremmo arrivare (e come e quando?) ad una serie di paci separate che non so quale cosa terribile sarebbero, per noi, perché ogni atto isolato che ci riguardi da parte di qualcuno dei vincitori non può essere che peggiore di quelle che sono state finora le loro espressioni collettive.
Dopo tante promesse fatte, dopo tanti annunci di democrazia (ahi, queste democrazie che dovevano dare non solo la pace, la solidarietà e la giustizia, ma metterci sul buon cammino, dopo tanti anni in cui, secondo i nostri giudici, eravamo stati sul cammino triste del fascismo), ahi, che cosa sono state queste paci!
I primi atteggiamenti dei vincitori sono stati seguiti da manifestazioni sempre meno amichevoli. Ogni decisione che è seguita ha peggiorato le cose a nostro danno. Ogni riunione dei vincitori si è risoluta sempre in un aggravamento delle nostre situazioni. Dopo la pace di Potsdam, in cui i vincitori avevano dichiarato che l’Italia aveva liberato se stessa dal regime fascista, facendo progressi verso il sistema delle democrazie (quali progressi! tutto quello che le democrazie volevano è stato adottato), la monarchia è caduta. E dopo, quale è stato il contegno degli alleati? Mai migliore di prima, anzi sempre peggiore. Si è mentito e si mentisce quando si afferma che noi possiamo sperare facilmente in un cambiamento rapido delle situazioni precedenti: ora nessuno crede possibile una modificazione sostanziale dei trattati a nostro favore.
Noi dobbiamo ratificare. Il solo problema è questo: dobbiamo ratificare nelle condizioni presenti? e perché dobbiamo ratificare con tanta sollecitudine, quando il Trattato è inoperante per noi, perché manca la ratifica della Russia?
Si dice che rapida ratifica è voluta a Parigi e a Londra e che produrrebbe vive soddisfazioni all’America. Si dice anche che Mosca sarà solidale con gli alleati, e che ratificherà a sua volta presto; che nessun miglioramento ci possiamo attendere da prossime mutazioni, e che col Trattato si è realizzata una situazione che deve avere carattere di permanenza. Ecco il grave, ma una cosa è ancor più grave, ed è che si attribuiscono a noi tutte le colpe del fascismo e della guerra.
Dante aveva detto: «La colpa seguirà la parte offensa»; ora, tutte le colpe si attribuiscono a noi. La guerra, secondo i trattati dei vincitori, è stata nostra colpa, ed è stata conseguenza del fascismo! È inutile illudersi: questa falsa idea è germogliata ed è continuata a durare ed è anche disonestamente contenuta nella pace firmata a Parigi il 1° febbraio 1947. Quella pace, dunque, mi offende in tutti i miei sentimenti, ed io trovo che non potrò mai rassegnarmi ad essa, se non come ad una necessità. Noi non dobbiamo discuterla nella convinzione che la sua enormità e la sua ingiustizia sono tali che, prima e dopo, noi volenti o rassegnati, i vincitori volenti o nolenti, si imporrà la revisione di questo Trattato, che non è onesto e non può essere a lungo durevole.
Ma noi, come abbiamo accettato, sottoscrivendo il Trattato, con le condizioni imposte, dobbiamo ora, per eseguire il Trattato, ratificarlo e dobbiamo agire in buona fede.
Tutto dobbiamo fare, tranne l’equivoco di dire una cosa e di farne un’altra. Troppo sull’Italia è pesata questa accusa di infedeltà: dal giro di valzer fino ai successivi tradimenti che purtroppo sono esistiti nella politica italiana, a cominciare dalla guerra del 1915, che fu iniziata in modo non onorevole, perché quando il Trattato di Londra fu redatto vi furono settimane in cui l’Italia si trovava nello stesso tempo alleata dell’Austria-Ungheria, della Germania e della Francia, Russia ed Inghilterra; cioè l’Italia fu nello stesso tempo alleata delle due parti. Questa accusa ci è sempre pesata. Ai vincitori attuali, per quanto siano stati e siano con noi ingiusti, non dobbiamo promettere ciò che non siamo decisi a mantenere.
L’Italia ha avuto da secoli l’accusa infame di essere il paese di Machiavelli. Quanto male all’Italia ha fatto senza volere Machiavelli! Machiavelli era eruditissimo e uomo studioso di antichità e spirito profondo. Ma era fuori della realtà. Grande storico era stato il primo scrittore italiano di storia che non aveva mai considerata la religione a spiegazione degli avvenimenti che mettono gli uomini in eterna contesa e non mostrava alcuna disposizione a metterla a base delle lotte fra gli uomini. Egli, dai «Discorsi sulla prima deca di Tito Livio» alle «Storie fiorentine» ed al «Principe» come in tutti i suoi trattati minori, applicava i principî del suo tempo per spiegare i fatti dell’antichità come i fatti di allora, e i principî che a noi sembrano immorali erano gli stessi che gli servivano a spiegare i fatti della storia. Machiavelli visse presso a poco nello stesso tempo di un altro grandissimo italiano che fu tanta causa del declinare della grande prosperità economica dell’Italia: Cristoforo Colombo.
Questi due grandi uomini, che non si conobbero mai, fecero per diverse ragioni non poco male al nostro paese.
Cristoforo Colombo nacque quando l’Italia era il centro dell’Europa, quando prestava denaro a tutto il mondo ed era creditrice dei re. Il commercio del danaro era soprattutto di Milano e di Firenze. Le città anseatiche sorsero più tardi.
Il Mediterraneo era allora il centro della ricchezza mondiale. Non esisteva altra grande linea di traffico che il Mediterraneo. L’Italia era non solo il paese della religione dominante, ma era nel campo economico il paese del grande traffico, della navigazione commerciale più importante, della banca.
L’Italia era il paese dei grandi banchieri, creditori di tutta Europa. Firenze e Milano prestavano a tutti i re. Cristoforo Colombo con la scoperta dell’America rovinò il traffico e la ricchezza dell’Italia. Questo uomo ardito e saggio non pensò, quando scopri l’America, che spostando le correnti marittime, il Mediterraneo diventava fino al taglio di Suez soltanto un mare interno. Colombo rovinò tutta la ricchezza italiana: per quella massa d’oro che si riversò in Europa, fece fallire tutti i banchieri italiani, tutti i risparmiatori.
Machiavelli in un altro campo ci fece assai grave male, ci discreditò moralmente. Machiavelli era un uomo (non vi meravigliate di queste parole) di altissima intelligenza, ma di animo mediocre: era un sensuale, era uomo che non aveva nessuna alta concezione della vita.
Io sono stato un attento lettore di Machiavelli e l’ho sempre fra i libri che più leggo. Era uomo che mancava di ogni altezza spirituale, non aveva idealità, non capiva né meno i grandi fatti del suo tempo. Proprio al suo tempo avvennero le due più grandi scoperte e invenzioni che mutarono la situazione del mondo: la scoperta dell’America e l’invenzione della polvere. A questi due fatti che agirono sulla vita del mondo egli non dette alcuna importanza e non dedicò neppure una parola. Egli credeva che il più notevole fatto fosse la potenza della Svizzera e che la Svizzera dovesse dominare l’Europa per la sua forza guerriera. Fece teorie della guerra ed insegnò come si dovessero dirigere gli eserciti. Ma un giorno che Giovanni De’ Medici lo ebbe ospite, lo pregò di dirigere le manovre delle sue truppe, secondo i principî esposti nel suo libro. Machiavelli si provò: dopo poco vi era tanto disordine che le truppe marciavano a caso, le une contro le altre. E allora Giovanni De’ Medici, sorridendogli disse di sospendere il tentativo, ché egli stesso avrebbe regolato le cose secondo la sua pratica: fece suonare i tamburi e in un quarto d’ora le truppe furono regolate e ripresero il loro andamento normale…
CALOSSO. La sua era una pedagogia militare, non una strategia! Permetta che difenda il Machiavelli contro di lei. (Commenti – Ilarità).
NITTI. Machiavelli, dunque, ci ha reso, senza sospettarlo, il cattivo servigio di far credere che noi italiani facciamo una politica di falsità. In realtà egli non faceva che studiare situazioni del suo tempo e riprodurle come poteva, teorizzando. Era uomo volgare e penetrato di oscenità. Io ho letto, qualche cosa come 50 anni fa, nella casa di un erudito fiorentino che si chiamava Gustavo Uzielli, famoso collezionista e illustratore delle opere di Machiavelli, le lettere private del segretario fiorentino che egli raccoglieva e che non pubblicò. Sono un monumento di volgarità e di oscenità. Machiavelli indicava con linguaggio fisiologico (se volete, anatomico) tutte le varie parti del corpo e le metteva in rilievo parlando dei suoi amici e delle sue proprie avventure…
CALOSSO. Era l’uso del tempo…
NITTI. Ora, questo singolare uomo, che certamente aveva così straordinario intelletto, ci ha reso il cattivo servigio di farci passare come uomini sempre disposti a mentire, egli che, in fondo, era un onest’uomo e, data la morale dei tempi, anche probo.
Noi dobbiamo, per quanto è possibile, essere sinceri fino all’esagerazione, perché nulla ci pesa sul capo come questo equivoco della nostra «abilità». Io preferisco che l’Italia sia piuttosto inabile, che avere la cattiva fama di troppo abile. Ma vi è niente di peggio che mancare di abilità per volere essere troppo abile?
Ho letto troppo spesso anche nei nostri giornali e leggo ancora giudizi che mi sembrano non solo falsi ma anche inabili, che fanno cadere sull’Italia la responsabilità della guerra mondiale, dicendo che essa è dovuta al fascismo. Non sono convinto che noi abbiamo seguito la buona via e né meno la vera quando nella lotta contro il fascismo abbiamo detto e diciamo come ora che la guerra è una conseguenza del fascismo e che il fascismo è stato soltanto fenomeno italiano. Quali falsità!
Signori, non è vero; ed è stolto ripetere la stessa falsità come continuare a fare ora i professionali dell’antifascismo.
Vi sono state cause ben più profonde della guerra d’Europa. Per nuocere al fascismo, noi abbiamo fatto cosa pessima a danno dell’Italia. Siamo arrivati a dire che tutte le responsabilità della grandissima guerra che ha sconvolto il mondo pesano sul fascismo. Non abbiamo pensato alla conseguenza. Il fascismo è stato una detestabile cosa, una trista avventura e Mussolini è stato, assai più che uno scellerato, un pazzo, perché ha trascinato l’Italia nella sua megalomania, verso un destino di morte. Ma Mussolini non è il solo responsabile del fascismo: e il fascismo è ben lontano dall’essere il maggiore responsabile dei tragici avvenimenti. Questo noi dobbiamo dire a tutto il mondo; la responsabilità del fascismo non è soltanto nostra. La responsabilità del fascismo è divisa con i vincitori, perché sono stati essi che, quando il fascismo era tante volte in pericolo lo hanno aiutato, lo hanno sorretto.
Il fascismo è stata una deplorevole avventura italiana. Il fascismo non è stato però soltanto un uomo, né è stato soltanto un fenomeno italiano. Il fascismo è stato l’espressione di uomini ricchi e di ceti privilegiati (Applausi a sinistra), e non è stato solo un episodio italiano, è stato un episodio europeo e americano di un certo periodo.
Dopo che io mi resi conto che non potevo più resistere alle persecuzioni fasciste, dopo che avevo avuto la casa distrutta e che ero con la mia famiglia in permanente pericolo, mi persuasi che non avevo altro da fare se non esulare, e mi recai prima, in Isvizzera, a Zurigo. Zurigo è città ricca, è la città dei grandi banchieri. A Zurigo nessuno osava apertamente esaltare il fascismo. Ma quasi tutti gli uomini importanti erano fascisti. Là erano infatti quasi tutti quei banchieri che agivano potentemente sulla vita economica. Tanta parte del movimento industriale italiano si riattacca a Zurigo; soprattutto il cotone.
Ebbene, tutti senza dirlo erano per il fascismo e avevano quasi l’aria di compiangermi mentre io li guardavo non senza tristezza. A Zurigo lasciai molti estimatori e amici personali e pochi antifascisti.
Dopo quasi due anni, andai a Parigi, dove purtroppo dovetti rimanere molti anni. Pur avendo grandi amici e accoglienze cordiali, l’esilio fu troppo lungo. La prima cosa di cui dovetti occuparmi appena arrivato fu la ricerca di una casa: allora le case erano costosissime, e quasi sempre superiori alle mie risorse.
Trovai alfine la casa di un vecchio barone. Andai da lui, declinai il mio nome che egli probabilmente non conosceva o non comprese. Mi chiese un prezzo esorbitantissimo e, quando io gli dissi delle difficoltà della vita, e quando gli dichiarai che non potevo spendere quanto mi chiedeva, allora mi rispose che i tempi erano difficili per tutti, ma che io era italiano e soggiunse: Voi almeno, in Italia, avete la fortuna di un uomo che può veramente salvarvi. E mi fece l’apologia di Mussolini! Poi aggiunse che di uomini simili c’era gran bisogno e che anche la Francia avrebbe dovuto averne. Io gli risposi soltanto: Prenez le nôtre. (Ilarità).
Io non so se quell’uomo banale apprezzò il complimento, ma certo non se ne mostrò offeso.
Se vi raccontassi tutta la mia odissea e tutte le cattive impressioni che io dovetti avere! In diverso modo tutti gli uomini di buona società o gran parte di essi erano benevoli per il fascismo. Ah! quale fastidio di sentir dire ancora adesso dagli italiani, al mio ritorno in patria, che il fascismo è stato soltanto un fenomeno italiano. E però io non tollero che questa menzogna duri. Il fascismo è stato un fenomeno generale: gli uomini ricchi, i ceti privilegiati trovarono che era più conveniente la morale fascista: prendere l’operaio per la gola piuttosto che prenderlo per la mano. E furono per Mussolini. Io ho fatto, in tanti anni di esilio, prove dolorose: con tristezza ho trovato negli ambienti ch’io credevo meno favorevoli, simpatie e solidarietà d’idee e di sentimenti col fascismo. La colpa originaria del fascismo senza dubbio è nostra, sì: un popolo di oltre 40 milioni di abitanti (ora di 46) è responsabile sempre del suo Governo; e quando noi esageriamo le colpe del fascismo internazionalmente e intenzionatamente, non pensiamo che il pubblico straniero si domanda (quante volte da uomini di studio e di esperienza ho sentito questo discorso): Ma se l’Italia non è responsabile di aver inventato il fascismo, chi ne è responsabile? Si può ammettere che un esercito di occupazione nemico invada un Paese, e lo domini e costringa all’obbedienza tutti i cittadini; ma un Paese che non è invaso, che ha un suo esercito, una sua vita nazionale, come può non essere responsabile di tutte le colpe di un sistema che dura a lungo? Quante volte questa osservazione mi ha colpito, perché è vera. Noi ci siamo troppo a lungo rassegnati al fascismo. Siamo responsabili, perché non abbiamo saputo e voluto ribellarci. La nostra difesa non è nel negare le nostre colpe, ma nel constatare che la colpa nostra è stata divisa dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’America. Quante volte l’Italia mostrava di volersi liberare del fascismo, i loro uomini o i loro giornali più importanti intervenivano in una forma o nell’altra a favore del fascismo. I popoli liberi, in cui credevamo, non solo ci sono spesso mancati, ma i loro uomini più notevoli non sono stati per noi, è sono stati spesso contro di noi.
Quando penso che l’Inghilterra (ho tanti amici inglesi; non vorrei dire cosa poco rispettosa) ci ha dato i più tristi esempi, e con la sua azione in Italia e nel mondo ha sostenuto i fascisti, proprio quando il fascismo era per cadere: quale tristezza! All’indomani del delitto Matteotti, come all’indomani di altri delitti, grandi personaggi inglesi sono venuti in Italia a mostrare simpatia e solidarietà.
Noi abbiamo visto le cose più inverosimili; abbiamo visto Capi di Governo e ministri potenti venire a Roma, mostrarsi ossequienti verso Mussolini, prodigargli espressioni di simpatia e di stima; e non solo uomini dei partiti conservatori, ma dei partiti popolari più avanzati. E il mio buon amico Mac Donald non si è egli stesso degnato di venire a Roma, egli, Capo dell’Impero britannico, a fare atto di omaggio a Mussolini, che non si degnava di andare all’estero e di visitare Paesi stranieri…
ROMITA. Aveva paura!
NITTI. Probabilmente. Ora, quale spettacolo! Quando l’Italia era in qualche momento sul punto di riprendere la sua vita normale e forse di liberarsi, veniva a Mussolini l’aiuto straniero. Tutta l’Inghilterra ha appoggiato il fascismo. Abbiamo visto i giornali più conservatori come i più liberali essere in gara di simpatia con i giornali a grande diffusione, i giornali più riservati nei loro giudizi come i più popolari. Quale è ora il giornale più diffuso?
Voci. Il Times.
NITTI. No, il Daily Express. I giornali di lord Beaverbrook come di lord Rothermere, ecc., vuol dire parecchi milioni di copie di giornali, erano destinati ogni giorno a glorificare Mussolini o per lo meno ad esaltarlo! Tutti questi giornali non hanno fatto che l’apologia del fascismo, per tanti anni, a milioni, a diecine di milioni di copie ogni giorno. E noi abbiamo visto, ciò che è molto più grave, i più grandi personaggi inglesi venire in Italia solo per sostenere il fascismo. I viaggi di Austen Chamberlain mi scandalizzarono e mi offesero; io ruppi con lui ogni amicizia, benché fossi suo amico fin dai tempi di suo padre. Gli scrissi un’aspra lettera, quando vidi che si abbandonava anche lui ad adulazioni di quel genere. Austen Chamberlain è andato in Spagna, per sostenere Franco, ed è venuto in Italia soltanto per sostenere la dittatura; il Governo inglese, per mezzo del rappresentante più autorevole della sua politica estera, è stato il primo a sostenere il governo fascista! Ed ora rimproverare le colpe del governo fascista come colpe soltanto italiane è per lo meno eccessivo!
Io non posso dimenticare che non solo vi è stata assistenza amichevole, ma che quasi tutti gli ambasciatori che si sono succeduti sono stati più o meno per il fascismo, a cominciare dal mio vecchio amico Rennell Rodd, che alla vigilia di lasciare la sua carriera, ha voluto chiuderla facendo l’apologia del fascismo. E gli altri ambasciatori che si sono seguiti, in diversa misura hanno apertamente sostenuto il fascismo!
E se il fascismo è responsabile della guerra contro il loro Paese, quale non è anche la loro responsabilità! Non bisogna dimenticare che si è sempre tenuto lo stesso atteggiamento da parte del Governo inglese. Basta ricordare l’azione funesta di Erick Drummond, già segretario generale della Società delle Nazioni. Io ho documenti che provano che, nel periodo di maggiori difficoltà di Mussolini, Drummond cercò di toglierlo da tutti gli imbarazzi e di fare agire in suo favore il Governo inglese!
Anche quando Austen Chamberlain è morto, Neville Chamberlain, prima Ministro e poi Primo Ministro, ha lavorato per il fascismo. Morto Austen Chamberlain, la sua cortese signora si è installata a Roma, quasi come l’agente della propaganda fascista, anche presso il cognato divenuto primo Ministro. Quando abbiamo assistito a questi tristi fatti, perché tutte le colpe del fascismo si fanno ricadere sull’Italia?
E altrove è stata la stessa cosa. L’America forse ha minor colpa, ma anch’essa quale colpa!
Quali cose inverosimili sono accadute! L’America che non ha mai mandato in passato ambasciatori che entrassero nelle cose interne dell’Italia, ha mandato per la prima volta ambasciatori la cui funzione è stata quella di essere veri agenti del fascismo! Fra questi, tristissimo per la sua opera, Child, il quale per lungo tempo è stato qui a Roma arbitro di situazioni importantissime. Era un modesto scrittore che si credeva grande scrittore, ma era di una grande fertilità. Era divenuto l’apologista di Mussolini in tutti i giornali e in tutte le riviste. Nella stampa americana e nella rivista più diffusa in America, «Saturday Evening Post», non ha fatto che l’apologia del fascismo e di Mussolini, in scritti ridicoli (perfino Mussolini col leone, Mussolini che va a cavallo, Mussolini guerriero, agricoltore, oratore ecc.). Tutte queste banalità sono state diffuse dall’ambasciatore del più grande Stato. Tutte queste stupidaggini sono state pubblicate e diffuse dal rappresentante dell’America nella più diffusa stampa americana e forse del mondo.
Ma è cosa ancora inferiore al danno più grave di vedere i più grandi banchieri d’America prestarsi alla gloria del fascismo. Noi abbiamo visto l’inverosimile. Non vi parlo di Morgan, che era indifferente ma benevolo, né di un uomo stimabile come il suo grande socio, Lamont; vi parlo in generale di tutta la finanza americana. Ma i grandi banchieri che avevano tradizioni erano moderati nelle loro manifestazioni.
E la finanza ebraica? Quei finanzieri ebrei, Loeb, Schiff, Kahn, non sono stati caldi sostenitori del fascismo? Io scrissi ad uno di essi un’aspra lettera (si chiamava Otto Kahn, grandissimo banchiere) e gli dissi: i movimenti reazionari del tipo di quello di Mussolini cominciano e finiscono nell’antisemitismo. A Kahn ebreo vanitosissimo, io volli avvertire che con Mussolini prima o dopo si sarebbe arrivati all’antisemitismo. Egli è morto, ma io devo ricordare a sua vergogna che egli portò la mia lettera in omaggio all’ambasciatore d’Italia a Washington e da allora molti miei amici non ebbero facilità di vivere in alcuni ambienti!
Abbiamo visto le cose più inverosimili. Il più ricco uomo di America, il più potente era Andrew Mellon. Individualmente più ricco di Rockfeller e di Ford. Era nello stesso tempo non solo l’uomo più ricco ma potentissimo come Ministro del tesoro. La sua potenza era enorme negli Stati Uniti. Io lo conoscevo personalmente, e, vedendo l’appoggio che dava a Mussolini, gli scrissi una lettera per dirgli quale dolore ne provavo: perché Mussolini non poteva che fare opera incivile. Ebbi una risposta che ho conservato a lungo come documento inspiegabile di passione conservatrice e vorrei dire di aberrazione. Conosceva benissimo l’Italia. Veniva quasi ogni anno a Roma, dove aveva una figliuola maritata. Mi rispose con una difesa calorosa di Mussolini e del fascismo. Mi parlò delle opere importanti di Mussolini e disse che non era vero che in Italia non c’era libertà. Volle mettere in luce che si lavorava in Italia e che le ferrovie arrivavano in orario. Gli risposi con una lettera ironica: i treni arrivavano spesso in orario, in quanto a libertà era come a Sing Sing, che è il carcere di New York. C’era una libertà vigilata. E in quanto al lavoro, anche prima si era lavorato in Italia come si doveva lavorare anche dopo. Se un uomo come Mellon, che era potenza economica e finanziaria mondiale, si metteva apertamente in questa posizione e, dopo essere stato a Roma, mostrava tanto entusiasmo, chi non riconosce che l’America ha la più grave responsabilità del fascismo?
Non vi parlo della Francia. Ho vissuto tanti anni e ho frequentato tutti gli ambienti anche i più aristocratici e i più ricchi e sono stato un po’ dovunque. Ora che cosa fu la Francia per il fascismo? Tranne Clemenceau, in principio, e pochi liberali e pochi conservatori di vecchio stampo, quasi tutti gli altri uomini politici ebbero la loro debolezza per il fascismo.
Senza dubbio Herriot, Caillaux, Painlevé non furono amici del fascismo e Briand, senza combattere il fascismo, mi diceva che era sicuro della sua prossima, fine. Ma dopo di essi quale mutazione! Tardieu sognava di imitare il fascismo e Mussolini, e sognava qualche cosa che dovesse essere il fascismo. Gli uomini conservatori che parevano in apparenza più rispettabili, gli uomini dell’«Académie», quei grossi personaggi in generale noiosi e senza vera importanza nel mondo del pensiero, non furono nella gran parte che propagandisti di Mussolini? Non vi parlo di Henri Bordeaux, di Paul Bertrand, di Abel Hermant, dei vescovi, degli arcivescovi, di tutta quella gente inutile dell’«Académie». Ma tutto il mondo dell’«Académie», anche quello che pareva il più progressivo non faceva che l’apologia di Mussolini. L’espressione abituale era: Moscou ou Rome: come se fossero due cose che dovevano essere indispensabili, l’una o l’altra.
Vi fu maggiore scandalo del viaggio di Laval a Roma nel 1935? Laval era al colmo del suo successo e della sua potenza. Era a capo di un enorme Ministero nazionale, che conteneva i maggiori uomini, anche Herriot.
La guerra europea fu decisa a Roma nel 1935. Da che cosa? Dalla visita di Lavai a Mussolini, cosa gravissima che non è stata sufficientemente considerata. Il brindisi di Mussolini del 5 gennaio 1935 e tutta l’organizzazione che fu fatta intorno a quel movimento determinarono la situazione che precipitò poi verso la guerra. Laval è caduto; ma egli era l’uomo più potente di Francia in quel momento e, nel 1935, tutti i grandi capi, o molti capi, erano nel Ministero Laval, che era un Ministero di concentrazione nazionale. Ebbene, che cosa fu il risultato di quella visita? Fu la guerra di Abissinia che significò la guerra europea. Laval nel suo brindisi (cosa incredibile) disse a Mussolini: Vous avez écrit la plus belle page dans l’histoire de l’Italie moderne, cioè pagina più grande di quelle scritte da Michelangelo, da Leonardo da Vinci e dai più celebri italiani. Quando venne il dissidio fra Inghilterra e Italia, e tutto il conflitto davanti la Società delle nazioni, Laval fingendo solidarietà con l’Inghilterra, i lavorava contro di essa e faceva ridere i suoi giornali sulla vieille ferraille della flotta inglese.
Cosa ben più terribile; il generale Mordacq uomo di grande fama e che era stato il capo di gabinetto militare di Clemenceau e il maggiore suo collaboratore, scrisse con la sua firma che l’amicizia e la solidarietà di Mussolini e del fascismo erano la cosa più importante. Messa nelle condizioni di scegliere fra l’amicizia dell’Inghilterra e quella dell’Italia fascista, la Francia non doveva esitare ed essere per l’Italia fascista. La risposta a Mordacq, che ebbe larga eco, io non potetti firmare ma era scritta da me. La guerra dell’Abissinia non poteva finire che con la guerra europea. Ora la Francia così sensibile non ricorda che la responsabilità del fascismo è anche e in non poca parte sua. Non parlo dei nazionalisti francesi. A quali eccessi per tanti anni non ricorsero, per ammirazione di Mussolini!
Ed anche, mi perdonate, molti socialisti non furono tolleranti o benevoli per il fascismo? Perfino il buon amico Thomas non fece in forma abile e discreta l’apologia di Mussolini e non trovò anche che Primo de Rivera era apprezzabile per ciò che faceva per le classi operaie?
Ognuno ha la sua parte di colpa del fascismo, che è stato fenomeno internazionale. Buttare tutte le colpe sull’Italia e dire che il fascismo è stato un fenomeno italiano e che ha prodotto la guerra è falso. È cosa che io non posso leggere in un documento ufficiale italiano senza disgusto e senza indignazione.
Io avevo, andando all’estero, molte illusioni. Credevo che la massoneria, essendo una associazione libera ed umanitaria, dovesse combattere il fascismo. E, preso da questa illusione, ho viaggiato a mie spese buona parte dell’Europa per vedere tutti i capi delle massonerie. Io non sono stato mai massone e tengo a ripeterlo perché non vi sia equivoco. Ma ho sempre avuto simpatie nella massoneria, che ho considerato istituzione libera e progressiva. Ho girato gran parte di Europa: sono andato perfino nei paesi del nord, dove i re e i principi reali sono sempre i capi della massoneria. Ho girato dovunque, ho bussato a tutte le porte. Credevo che un movimento intellettuale contro gli eccessi e le violenze del fascismo potesse avere un gran peso.
In Inghilterra il capo della massoneria era uno zio del re attuale, il duca di Connaught, uomo serio, vecchio e che della massoneria si occupava moltissimo. Suo successore fu il duca di Kent, fratello del re attuale che morì in un incidente di aviazione.
Devo dire che il duca di Connaught mi parlò con molta stima del fascismo, tanto che io non osai davanti a lui proseguire molto nella mia dura critica, perché vicino ad un personaggio reale di tanta importanza e anche serio e di buona fede non mi parve cosa opportuna.
E poi girai tutti i Paesi scandinavi; visitai i re di Svezia, di Norvegia e di Danimarca e trovai spiriti liberi, uomini meglio disposti a comprendere il fascismo. Quelle massonerie erano tutte sotto la direzione di personaggi reali, o un re o un personaggio della famiglia reale, quindi gente seria e ben educata e che ascoltava correttamente anche le mie critiche. In fondo, tutti convenivano nelle mie espressioni, ma non erano, a quanto mi parve, disposti a fare nulla. Sperai nelle massonerie latine. Qui ebbi nuove delusioni.. Scusate se vi intrattengo su argomenti massonici.
Le massonerie continentali sono di tipo scozzese; ma alcune di queste democrazie sono aderenti all’A.M.I. L’onorevole Labriola lo sa. (Ilarità – Interruzione dell’onorevole Labriola).
Io volevo rendermene conto e cercai di capire le situazioni. Le massonerie continentali sono divise, in fondo, dall’idea del Dio personale. Le massonerie del tipo anglosassone non ammettono che si possa essere massoni senza credere nell’Iddio personale. Vi sono quelli che fanno a meno del Dio personale e non ne fanno una convinzione indispensabile. Io volevo penetrare le varie massonerie e vidi quindi tutti i capi che mi era possibile vedere: in Svizzera, in Francia, nel Belgio, ecc. In Belgio il capo della massoneria (e anche dell’A.M.I) era un mio amico personale, Charles Magnette, che era presidente del Senato. Egli mi dovette confessare che, in fondo, il fascismo aveva molti amici e ammiratori nella massoneria anche più radicale, di fronte a quella antica e tradizionale. E per quanto avesse cercato da parte sua di essermi utile (veniva anche spesso a vedermi a Parigi), non poté fare un grande lavoro perché l’ambiente non era del tutto favorevole.
Illuso, come ero allora, spesi parecchio denaro, mandai amici, di cui qualcuno è ora qui, a vedere i capi delle organizzazioni operaie. Mi interessavo soprattutto della Federazione internazionale dei trasporti che, per la sua potenza e per la sua ricchezza, poteva con un movimento bene organizzato mettere il fascismo in condizione di non resistere in alcuni momenti. Vidi tanta gente. Credevo di trovare spiriti ardenti: in fondo erano d’accordo con me, ma non facevano niente per far cadere il fascismo.
Mi accorsi di aver perduto molto denaro, molto tempo e molto fiato, con modestissimi risultati.
Vi affermo dunque che la responsabilità del fascismo non è solo italiana, ma è divisa in larga misura fra i grandi dominatori, e soprattutto da quei Paesi, come l’Inghilterra, l’America e la Francia, che ora più ci rimproverano di aver seguito il fascismo.
E per questo mio profondo convincimento io non accetto, così com’è concepito, l’ordine del giorno dell’onorevole Ruini, e lo combatterò se non si toglie l’affermazione delle responsabilità che pesano sull’Italia per colpe del fascismo, considerato esso stesso come fenomeno solamente italiano e, cosa più assurda, come causa principale della guerra.
Dicono qui che questo ordine del giorno sia stato ispirato (tante cose si dicono qui dentro che non sono vere) dall’onorevole De Nicola. Più che l’Aula, il Transatlantico è fertile di invenzioni. E poi che l’onorevole De Nicola, rispettoso dei suoi doveri costituzionali, equanime e riservatissimo sempre, abbia suggerito questo ordine del giorno…
RUINI. Non è affatto vero. Chi l’ha detto?
NITTI. Si è detto qui e si ripete da molti e certamente non è vero. Non penso che abbia detto lei una cosa simile. Penso anzi il contrario. Ma l’ordine del giorno suo io non voterò se non sarà mutato perché, così com’è, fa cadere la responsabilità della guerra sul fascismo, facendo anche supporre che il fascismo sia stato soltanto italiano.
RUINI. La responsabilità è del fascismo, non dell’Italia, come sostengono coloro che ritengono la pace giusta e meritata.
NITTI. Ciò è tanto più grave, se può creare un terribile equivoco. Se più grave è stata la responsabilità dell’Italia nel fenomeno del fascismo, questa responsabilità ricade in gran parte sui grandi stati vincitori; e le cause della guerra sono ben più profonde e antiche.
E se noi siamo stati e siamo vinti, non è detto che questa sia una situazione permanente. Tutto è nello stato d’animo che sarà in noi. Risorgeremo. Guardate alla Francia. La Francia è stata in guerra più battuta di noi. La Francia ha presentato un caso unico nel mondo moderno di un esercito intero, di un esercito di milioni di uomini che si arrende al nemico senza combattere. Questo fatto non era avvenuto mai prima.
Le cause della caduta dell’esercito francese non sono militari soltanto e non tolgono alla gloria di un paese che è stato il più guerriero di Europa. Rappresentano un fenomeno transitorio che è dipeso da cause molteplici.
Ora noi perché dobbiamo abbatterci? Ogni momento diciamo non solo che siamo vinti, ma che siamo responsabili della guerra. Sì, siamo vinti, ma la Francia è stata più vinta di noi. Soltanto essa spiritualmente non ha accettato la disfatta. In fondo, perde chi vuole perdere. L’uomo che vuole resistere resiste contro tutte le avversità.
E se noi, a causa del fascismo, abbiamo responsabilità della guerra, i vincitori non solidarizzarono con il fascismo, non lo sorressero quando era in difficoltà, non lo aiutarono quando era nei suoi momenti più critici? L’Inghilterra e la Francia e la stessa America e i loro uomini più importanti e in più grande situazione, non ne vollero forse consolidare il trionfo?
Il fascismo è stato l’espressione di uno stato d’animo di un periodo di reazione spirituale e morale. Inventato in Italia, ha conquistato tanta parte di Europa e di America a traverso alcuni ceti e a traverso uomini che anche inconsciamente ne dividevano le passioni. Il Fascismo fu la manifestazione di sentimenti che fermentavano negli animi: era la forma spesso incosciente della reazione.
Io sono il solo capo di governo italiano che non si è fatto mai illusione. Io ho sempre combattuto il fascismo. Non ho mai voluto riconoscerlo. Dal primo momento quando gli altri cedevano io non volevo né meno riconoscerlo e affrontavo tutti i pericoli e tutte le avversioni degli esaltati e dei convertiti. Gli altri cedevano perché speravano, come si diceva allora, di «normalizzare» il fascismo che io ho sempre ritenuto un governo di fatto e non un governo di diritto e che doveva fatalmente arrivare, a traverso la follia, a una catastrofe nazionale.
Mussolini, l’ho sempre detto, fu soprattutto un folle. La follia ha una grande attrazione e una grande potenza diffusiva. Nella storia abbiamo visto tante volte la follia comunicarsi anche in ambienti che parevano meno disposti quando corrispondeva a condizioni di disordine morale o di incertezza o di pericolo.
Perché uomini diversissimi giunti al massimo della potenza come i Mellon, come i Chamberlain, come i grandi ambasciatori britannici e americani abbiano accettato con entusiasmo il fascismo e abbiano lavorato per consolidarlo, occorreva che si trattasse non già solo di una perversione nazionale italiana, ma di qualche cosa che non era solo dell’Italia.
Il fascismo non è stato dunque un fenomeno soltanto italiano, ma rappresentava una disposizione di spiriti che assunse in Europa e in America forme differenti e che si esplicò nel proteggere e difendere, o almeno nel non disturbare, l’azione dell’Italia fascista.
Quando si afferma che il fascismo ha prodotto la guerra e che è stato un fenomeno italiano, si dice cosa non vera da uomini che, se non sono ignoranti, preferiscono mostrare ignoranza.
Le cause profonde di guerra esistevano in Europa fin dopo l’altra guerra e non certo a causa dell’Italia.
Se non si arrivava prima o dopo alla revisione del trattato di Versailles, bisognava arrivare alla guerra.
La Società delle nazioni essa stessa non fu il tempio della pace che Wilson si era proposto, ma la borsa dei valori dei vincitori e il covo di tutti gli intrighi e di tutti i grandi affari.
Per molti anni si è vissuti sugli equivoci e sulle falsità. Le vicende della pace di guerra sono note. Si è arrivati dove si doveva arrivare e ciascun paese ha avuto la sua parte di responsabilità nella catastrofe finale, che è culminata nella guerra del 1939. E certamente anche l’Italia con il suo contegno vi ha contribuito. Ma vi hanno contribuito altri paesi in misura anche maggiore.
Io, ripeto, non posso però accettare, tanto più se viene dagli Italiani stessi, la ridicola affermazioni che la guerra è conseguenza del fascismo, che per essere stato italiano il fascismo, deve il nostro paese scontarne le conseguenze.
Se si aggiunge, come si fa di ordinario, che l’Italia stessa, con il movimento dei partigiani e dei ribelli, abbia cooperato alla fine del fascismo, si dice cosa vera, ma della quale i vincitori non sembra abbiano tenuto sufficientemente conto. Durante la lotta contro il fascismo in rovina, vi sono state disposizioni amichevoli da parte dei vincitori che sono state man mano dimenticate.
Ma il fatto che moltissimi italiani, liberati dal fascismo, attribuivano essi stessi nel fervore della lotta ogni responsabilità al fascismo e anche la guerra, della quale sapevano poco, per quanto riguardava le cause, non fu utile né alla verità, né alla causa dell’Italia.
I generali francesi più in vista e uomini politici fra i più notevoli sono stati miei amici e compagni di prigionia (da Gamelin a Paul Reynaud, a Daladier ecc.) e nella intimità della prigionia, quando abbiamo potuto, abbiamo discusso tutti gli argomenti della guerra. Io ho sostenuto, spesso in disaccordo, la tesi che ora sostengo: che l’Italia non era più abbattuta della Francia e che l’Italia non rappresentava un paese decadente, ma rappresentava ancora una grande forza; e che sarebbe risorta.
Una voce. La Francia ha avuto De Gaulle.
NITTI. Sì, la Francia ha avuto De Gaulle. Ma chi era De Gaulle? Era un ignoto ufficiale, un colonnello. Aveva pubblicato due libri: uno, soprattutto, di un vero interesse, sulla necessità di avere una armée professionnelle. Rappresentava una tesi nuova. Al programma dei vecchi generali (sopra tutto Pétain) di un esercito numeroso per la difensiva e con mezzi potenti di difensiva (ligne Maginot) contrapponeva l’idea di un esercito meno numeroso e sempre pronto a entrare in guerra offensiva con mezzi potenti e tecnicamente di grande efficacia.
Ora De Gaulle sarebbe stato ignorato, se un uomo politico intelligente, il mio amico Paul Reynaud, finanziere e studioso e spirito polemico, non gli avesse dato grande notorietà. Ed allora De Gaulle fu celebre, non per atti di guerra, che non aveva compiuti: anzi egli era uomo di fiducia del maresciallo Pétain.
L’Italia non ha avuto De Gaulle e non poteva averlo. De Gaulle, sempre colonnello, promosso da Pétain maggior generale, era andato in Inghilterra inviato dal maresciallo Pétain e fece l’opposto di ciò che Pétain voleva. Trovò aiuti in Inghilterra e poi non potendo fare la guerra sul territorio francese, caduto completamente in mano dei tedeschi, la trasportò in Africa del Nord, in Algeria. Aiutato dagli inglesi, giunse con navi inglesi e trovò largo aiuto e collaborazione e mezzi di lotta.
Certamente vi erano in Italia ufficiali superiori e generali coraggiosi e degni. Ma chi poteva aiutarli? E dove potevano andare, anche ribellandosi, a iniziare la lotta e con quali mezzi?
Questa è la spiegazione semplice perché in Italia non vi sia stato un De Gaulle.
Ma tutta la lotta dové essere concentrata nell’interno. La cosa più semplice per tutti coloro che odiarono il fascismo e per i pochissimi che ne avevano subito le persecuzioni era di insultare il fascismo e di attribuirgli anche le colpe che non aveva. Il fascismo era solo responsabile di tutto e anche della guerra mondiale; questa la tesi più semplice che i vincitori accettavano e che più contribuì anche agli effetti del trattato di pace come causa della nostra debolezza.
Avevamo molte responsabilità, ma le esagerammo o almeno per odio di parte e desiderio di vendette interne nessuno pensò di ricordare che il fenomeno fascista non era solo italiano, che i principali responsabili di aver sostenuto e rafforzato e in alcune ore difficili salvato e mantenuto il fascismo in Italia era proprio dei capi e responsabili dei paesi vincitori, sopra tutto Inghilterra, America, Francia.
Questo fu un grosso errore. (Interruzioni – Commenti).
Ora è tempo di realtà e anche nelle relazioni internazionali è tempo di rinunziare a false illusioni. Mi limito ad alcuni punti dell’attuale controversia e soprattutto ad alcuni errori che ritornano e ad alcune nuove illusioni che risorgono.
Il Ministro degli esteri ci ha presentato i nuovi avvenimenti di questi giorni come tali da trasformare o modificare profondamente la nostra situazione. Gli avvenimenti cui il conte Sforza ha preso parte non sono di notevole importanza politica, né riguardano in alcun modo la nostra situazione internazionale, né tanto meno i cattivi passi che ci sono imposti ingiustamente dal diktat e che noi, per non aver modo di resistere alle ingiustizie, dovremo accettare.
Il conte Sforza è andato a Parigi solamente in occasione della riunione di una commissione internazionale che deve occuparsi dello studio di ciò che si chiama impropriamente il piano Marshall. Non è un piano politico, o economico, ma materia di studio proposta dagli americani agli europei e a tutti gli europei perché si mettano d’accordo su ciò che è possibile fare per regolare con l’America la loro azione economica, in modo che non vadano per diverse vie e opposte.
È in fondo un tentativo dell’America di cercare di metter gli europei, cosa molto difficile, in accordo fra di loro. Dunque né un aiuto diretto ora, né un piano: ma materia di studio, senza dubbio importantissima.
L’onorevole Ministro degli esteri, conte Sforza, è però andato a Parigi in una situazione afrodisiaca dello spirito (Ilarità), o per lo meno euforica, disposto a vedere tutto roseo ed ha annunziato tutte le più grandi cose, che non sono state fatte e che non si fanno, o non si faranno perché non si possono fare.
Da parecchi giorni prima della sua andata a Parigi i giornali italiani in data del 13 e del 15 avevano esaltato l’opera che il conte Sforza andava a compiere. Si trattava invece di andare a Parigi per prender parte a una importante commissione di studio di materia non facile, che interessa l’Europa e l’America, non di un grande successo dell’Italia in un ambiente politico mutato.
Quando, tornando da Parigi, il Conte Sforza – amo sempre chiamarlo conte, perché la radio per lui solo questo titolo ripete più volte ed è egli l’unico uomo per cui lo ripete (Ilarità) e non voglio mancargli di riguardo – è disceso all’aerodromo di Ciampino alle ore diciotto (ricordiamo anche l’ora storica). Egli ha voluto fare immediatamente alcune dichiarazioni, cosa che fa onore alla sua solerzia e alla sua resistenza, e dopo tanto viaggio, ha detto: «Torno da Parigi, dove l’Italia, dopo tanti anni di dolore ha almeno ritrovato il suo giusto posto di pari tra i pari, tra le più grandi potenze del mondo. Io a Parigi non ho fatto che pensare continuamente agli interessi dell’Italia che si identificano con la pace e per questo abbiamo cercato di creare nuove forze di collaborazione internazionale, di collaborazione europea che salvi l’Europa dal caos e dalla miseria. Abbiamo cercato, io per primo (naturalmente), (Si ride) di lasciare la porta aperta a tutti i popoli e a tutti gli uomini di Stato e a chiunque voglia aderire alla nostra buona volontà». E la gente senza dubbio si è domandata: Che cosa ha ottenuto il Conte Sforza?
E poi il Conte Sforza si è abbandonato alle fantasie. Ha lasciato sperare che il patto, che non è patto e che non è fatto, può rimettere presto in piedi l’Europa e quindi l’Italia…
CALOSSO. Si sta facendo.
NITTI. Me lo spiegherà lei dopo.
CALOSSO. Lei è infallibile. Mi permetta…
PRESIDENTE. Onorevole Calosso, non interrompa!
CALOSSO. Nitti è un grande uomo, d’accordo, ma non è il Padre Eterno. Io non ho fatto che una semplice interruzione. (Commenti).
PRESIDENTE. Desidera forse anche lei essere un grande uomo? (Si ride).
NITTI. Il Conte Sforza ha parlato del piano Marshall e di questo avvenimento che senza dubbio tutti osserviamo con interesse come una conquista e un successo, ma si è abbandonato ai sogni più diversi e ha preveduto le cose più lontane. Ha detto perfino: dobbiamo mettere in comune tutte le nostre risorse di Europa. Abbandonandosi alla fantasia, l’onorevole Conte aveva parlato anche di cose lontane cui nessuno a Parigi aveva forse pensato. A un certo punto ha detto di una sua idea: di mettere le risorse idrauliche dei ghiacciai alpini al servizio di tutto il mondo, come se le risorse alpine, già ora utilizzate, fossero ignote. Egli ha parlato del massiccio delle Alpi che è italiano, francese, svizzero ed austriaco. Se questi quattro popoli si uniscono, ha detto il conte Sforza, noi possiamo dare all’Europa più migliaia di volts in energia pari a molti milioni di tonnellate di carbone.
E che sono questi ghiacciai alpini? Non forse esistevano sempre e forse sono ignoti agli idraulici e non sono adoperati e utilizzati in grandissima parte? S’è detto che le quattro nazioni interessate si debbano unire; ma adesso come fanno? È proprio necessario attendere tutte queste nuove forme di vita esposte in forma iperbolica per arrivare all’idea d’impiegare in comune risorse idrauliche? E perché trasformare una questione attuale di acque fra Italia e la Svizzera in una questione di costituzione economica mondiale?
Il Conte Sforza è andato anche più in là nel suo ottimismo. Egli ha sperato di essere mediatore fra l’Oriente e l’Occidente e di mettere qualche cosa come la pace del mondo fra gli uni e gli altri. Cosa senza dubbio importante, ma in cui naturalmente egli dovrebbe trovare qualche difficoltà, e soprattutto una certa incredulità, non dirò da parte dei popoli lontani che vuole raggiungere, ma anche dai suoi ascoltatori. Queste cose si possono chiamare ideali. Ma sono seriamente ideali?
Ideali, tutti possono averne: e ognuno a suo modo ne ha. Si tratta di vedere se si tratta di ideali che possiamo realizzare e che abbiano fondamento.
Che cosa in fondo, signori, si prepara a Parigi? Che cosa è quello che impropriamente si chiama il piano Marshall? Non è niente di definito. È materia di studio. L’Europa, in conseguenza della guerra, si è non solo rovinata politicamente, ma non è più una unità economica vivente.
L’Europa, anche prima di questa guerra ultima, era discesa da quella che fu la sua grandezza, ma fino alla guerra era ancora il centro economico del mondo.
Infatti il commercio di importazione del mondo era in dollari di 32 milioni e 149 mila dollari, di cui 19.143 erano dell’Europa, 7182 dell’America, 3634 dell’Asia, 923 dell’Australia, 815 dell’Africa. Quindi, l’Europa era l’arbitra del mondo.
L’America, entrata in guerra nel 1915, era debitrice dell’Europa di 5 miliardi di dollari. Ne uscì creditrice di 15 miliardi. Il movimento ascensionale dell’America da allora è continuato. L’Europa si è sempre più impoverita, l’America si è sempre più sviluppata.
Dopo la guerra dalla quale usciamo, l’azione dell’America è diventata onnipotente. Ora essa domina la situazione economica mondiale e l’Europa e l’Asia sono ben lungi dall’esportare ciò che chiedono largamente all’America, spesso senza possibilità di pagamento, soccorsi e aiuti.
Che cosa è il piano Marshall? L’America teme giustamente di essere vittima della sua potenza e della sua larghezza. Essa, ormai, al di là di un certo limite, non può che dare, ma non ricevere. La difficoltà dell’America è che importa poco in scambio delle sue esportazioni. Non vi sono in America importazioni se non in quantità assai limitata. Di fronte ad una esportazione di 16 miliardi di dollari destinati in gran parte ai paesi assistiti, vi sono 8 o 9 miliardi soltanto di esportazione dei paesi quasi tutti debitori dell’America.
Questa situazione minaccia l’America nella sua vita sociale e anche nella sua vita economica. L’America non può continuare a esportare senza pericolo il doppio di ciò che importa sopra tutto a credito.
L’America ha fatto anche a noi molti prestiti ed è stata di amichevole larghezza. E se noi non siamo caduti nei due ultimi anni è per l’assistenza amichevole dell’America a cui non dobbiamo mai negare la nostra gratitudine.
L’America, quando accorda un prestito, che cosa fa in realtà? Dà facoltà di acquisto di merci e di mezzi sul suo territorio. Siccome non dà nulla in valuta straniera, dà il diritto di acquistare merci e di valersi di mezzi che sono sul suo territorio: ma queste merci e questi mezzi sono per noi condizioni di vita: carbone, grano, cotone, trasporti; e chi li dà? È lo stato americano che per dare a noi paga. Ma lo Stato compera dai privati e in fondo l’America contribuisce a noi con mezzi dati dai privati.
In realtà sono i cittadini privati che in forma diretta o indiretta forniscono i mezzi. Dall’estero le merci importate sono scarse, perché la produzione europea e a più gran ragione l’asiatica, sono scarse. Mancano le materie prime e in generale si lavora assai meno di prima e qualche volta non vi è in alcuni paesi né meno volontà di lavoro.
Che cosa si è proposto Marshall? Egli si è proposto di porre agli europei il loro problema, dicendo loro: voi vivete in guisa da rendere difficile se non impossibile, ogni ricostruzione economica e chiedete all’America che vi dia merci e crediti in quantità grandissima e non esportate che solo in parte ciò che vi sarebbe necessario. Aumentate dunque la vostra produzione e quindi la vostra esportazione…
CALOSSO. E vi pare niente?
NITTI. …per chiedere a noi quello che vi possiamo dare utilmente, e nello stesso tempo per produrre di più sul vostro territorio.
CALOSSO. Dice il contrario di quello che aveva prima annunciato.
NITTI. Nossignore. Lei non comprende, lei interrompe senza comprendere.
Gli Americani, non hanno un piano, ma sperano di riuscire, mediante la iniziativa Marshall, a determinare, insieme alla coscienza del pericolo da parte degli Europei, e diminuendo le divisioni e i contrasti economici fra di loro, la necessità urgente di aumentare tutti i mezzi e la produzione, senza di cui non vi può essere ripresa. Non vi è alcun piano, ma è un proposito, è una idea che vuole determinare la base di un movimento. Il nostro governo non è stato invitato a Parigi per alcuno scopo politico, ma per una partecipazione a una iniziativa di carattere economico e che costituisce nella fase attuale materia di studio.
A Parigi mancavano tutti gli stati europei continentali importanti per il loro numero, tranne la Francia, che è considerata fra i vincitori.
Non vi era nessun grande Stato: la Russia non c’era, non c’era la Germania vinta, non vi era una nazione di grande popolazione. L’Italia aveva almeno la funzione di un grande Stato che entrava nel movimento per l’idea di Marshall con larghezza di popolazione, ma non di mezzi. Era il paese occidentale di Europa che presentava il vantaggio di avere una popolazione di 46 milioni di abitanti, tale da dare la sensazione che vi era possibilità di una intesa di un grande nucleo di europei. A quale risultato arriverà la iniziativa Marshall e fra quanto tempo? Nessuno può ora dire.
Mi hanno detto che è ritornato da Parigi l’onorevole Tremelloni che il governo italiano aveva delegato. Non ho visto ancora l’onorevole Tremelloni.
È difficile che egli possa dire molto più di ciò che tutti supponiamo e anche se ha fatto qualche comunicazione non può dire ciò che ancora non esiste. Noi rivolgiamo a noi stessi alcune domande. E prima di tutto: quanto tempo occorrerà perché la conferenza arrivi a risultato? Senza dubbio parecchio tempo. E per ciò che riguarda aiuti sperati, se vi saranno, credo che le fantasie esagerino. L’America, all’infuori del movimento Marshall, può dare ancora, per necessità o per generosità, qualche tentativo di aiuto all’Europa. Deve liquidare il passato e può anche, se crede, con una certa larghezza: ma l’America, mediante e a causa della iniziativa Marshall, non può fare niente subito. Deve seguire da ora necessariamente lunghe procedure. Le richieste dei paesi europei, se vi saranno, bisogna che siano coordinate e messe di accordo. Le richieste e le proposte dovranno essere riunite in un progetto concreto che deve essere a suo tempo presentato al Presidente, il quale lo farà esaminare a traverso gli organi competenti da un certo numero di esperti. Dopo vi sarà l’esame del Congresso con tutte le formalità necessarie. Dopo il Congresso, sempre che non vi siano opposizioni, il progetto dovrà essere mandato alla Tesoreria, che deve preparare e disporre i mezzi occorrenti in misura adeguata.
Queste non sono cose di immediata esecuzione.
L’America, a sua volta, deve agire secondo i suoi interessi e deve tener conto delle sue difficoltà; se vuole evitare una crisi sociale, deve nello stesso tempo evitare che si produca un’altra forma di inflazione.
Quindi, in questa situazione, noi dobbiamo attendere e confidare e guardare le cose in cui possiamo sperare. Niente è puerile come credere o far sperare aiuti immediati o solleciti e tanto meno permanenti per effetto delle discussioni nel non dirò piano, ma suggerimento di studi che è il tentativo Marshall.
Il Conte Sforza ha voluto dire ciò che potremo perdere non ratificando immediatamente. Ha parlato anche delle grandi pressioni che ha avuto per la sollecita ratifica.
Io devo osservare, egli mi scuserà, che io non credo a intense pressioni dell’America e dell’Inghilterra per farci ratificare presto, né al grande pericolo di qualche ritardo. Quando lo stesso Conte Sforza (credo il 16 o il 17 luglio) alla Commissione dei trattati ci parlò di pressioni dell’Inghilterra, l’ambasciatore d’Inghilterra era stato al Ministero degli esteri all’una del pomeriggio e, io credo, aveva anche dichiarato che l’Inghilterra si rimetteva alle decisioni degli italiani.
Il Conte Sforza, dopo aver accennato ai danni che ci potevano venire, ci ha parlato di altre cose che eravamo minacciati di non avere è ci ha detto che, se noi entro il 10 agosto non avessimo ratificato il trattato, non potevamo, entrare nell’O.N.U.
Ma, scusi, onorevole Sforza, da quale disposizione dei trattati e degli accordi risulta questo divieto? Io ho fatto ricercare nelle ambasciate e negli uffici inutilmente e sempre senza trovar nulla. Ma il Conte Sforza ha qualche elemento che lo autorizzi a dire che noi non possiamo tardare oltre il 10 agosto senza pericolo? Questa disposizione dubito che ci sia: io non l’ho trovata e temo che il Ministro si sia sbagliato e non la troverà.
Nello stesso tempo che le pressioni degli ambasciatori di Francia, di Gran Bretagna e perfino dell’America sarebbero state attive perché il trattato fosse presto ratificato da parte dell’Italia, l’onorevole Sforza ha assicurato che a dare esecuzione al trattato sarebbe seguita presto la ratifica dell’U.R.S.S. Di ciò io non avevo sicurezza, e non mi risultava in alcuna guisa. Ma l’onorevole Sforza se ne mostrava fiducioso e vorrei dire sicuro: in base a quale informazione? Ho cercato di raccogliere informazioni e non ne ho trovato alcuna attendibile, né da quelli che sono gli organi dell’informazione russa, né altrove. Non ho trovato alcun elemento che ci faccia credere che la Russia abbia dato un affidamento a breve termine, come è stato dichiarato dall’onorevole Sforza che non vedo dunque dove abbia preso queste notizie.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Dalle corrispondenze degli ambasciatori, è semplicissimo.
NITTI. Quali ambasciatori? Quello forse di Mosca? Da Brosio, l’ineffabile Brosio? (Commenti).
PACCIARDI. Perché ineffabile? Rappresenta l’Italia in Russia.
CALOSSO. Privo di vanità com’è Brosio!
NITTI. L’O.N.U., se anche vi entreremo, non sarà probabilmente in condizione di essere e di agire come vorremmo in nostro favore, se ne avremo bisogno, almeno per qualche tempo. Ciò che accade in Grecia e nei Balcani ne è la prova.
Fra le altre grandi potenze del mondo, ve ne sono due, che, per ragioni opposte, sono le maggiori, sì che per il loro contrasto più inquietano: sono gli Stati Uniti di America e l’U.R.S.S. L’America ha la più gran parte delle materie prime, la più gran parte della produzione di tutto ciò che costituisce il materiale necessario alla guerra, i mezzi bellici nuovi e più potenti che non sono, o si crede che non siano, in altri paesi.
Essa può mettere ogni altro paese in imbarazzo e dal punto di vista economico dispone e disporrà della sorte di interi continenti, fin che non vi sarà una situazione diversa che non prevediamo se e quando possa formarsi.
L’America è ora in situazione unica di potenza dal punto di vista economico e militare. Ha la nostra simpatia e la nostra gratitudine per quanto ha fatto per noi.
La Russia non ci ha dato nulla e non può ora dar nulla. È un mondo in formazione. È il paese immenso con la sua enorme riserva di terre ancora incoltivate e di materie prime utilizzabili se non ancora utilizzate. Ma non può ora aiutare alcuno. Basta tutt’al più a se stessa e con difficoltà e non vi è nemmeno possibilità di commerciare considerevolmente anche in prossimo avvenire. Ha avuto nella guerra le più grandi perdite, manca o difetta di molti prodotti anche per sé stessa. Per esportare produce a costi più alti che altrove. Anche il livello di vita della sua popolazione non potrà essere prossimamente elevato; il suo commercio sarà molto limitato e sarà anche inferiore a quello di piccoli paesi occidentali. Però la Russia ha sulle folle di occidente una grande attrazione che non possiamo dimenticare, un’attrazione spirituale: essa ha agli occhi di tutte le masse umane il fascino di un paese senza padroni, cioè di rappresentare come aspirazione un ideale umano, che se non è realizzabile secondo l’ideale comunista, vive non di meno in molte anime.
Vi sono popoli di occidente ancora ricchi e potenti, non vi sono popoli che hanno la sicurezza dei loro sistemi sociali.
Ma vi sono popoli e genti che a somiglianza e nella illusione dell’U.R.S.S. vivono con lo stesso miraggio e si rassegnano anche a situazioni di miseria e di oppressione. Sperano in un ideale che sarà raggiunto se non dai loro figliuoli dai loro nipoti. Credono e certamente attendono che tutto diventi comune a tutti? Sono stati illusi? Si illudono? Io credo che il loro sogno non sarà realizzato. L’avvenire solo dirà. Ma noi non possiamo essere indifferenti dinanzi a questo avvenimento umano, di masse umane che nei paesi più diversi corrono dietro lo stesso ideale e le stesse speranze.
Noi siamo, come paese di scambio, legati strettamente all’Inghilterra e all’America. Non possiamo risorgere senza l’aiuto e senza la benevolenza dell’America.
Non dobbiamo né meno dimenticare che l’America ci ha dato aiuto e può dare e che non è possibile la nostra ricostruzione del sistema di scambio senza di essa.
La Russia e l’America sono le due grandi antitesi della civiltà moderna.
Hanno vinto la guerra del 1939. La Russia ha avuto le più grandi perdite di uomini che la storia dei popoli di tutto il mondo e in tutti i tempi ricordi. L’America stessa che non aveva avuto mai una grande guerra fuori del suo territorio (nel 1914-18 aveva annunziato la perdita complessiva di 50 mila uomini, ma i veri morti combattenti o morti in seguito di combattimenti furono forse appena 10 mila) ha nella guerra ultima avuto perdite rilevanti e non può dire ancora di esser sicura della pace che si prepara. Se non risolverà in Asia il problema del Giappone e in Europa il problema della Germania, l’America non potrà dire di aver raggiunto i suoi scopi e né meno una pace sicura e durevole.
L’America e la U.R.S.S. cercano invano dopo la guerra di ritrovare se non un’azione comune, una intesa per scopi comuni.
L’America è spiritualmente in contrasto acuto con la Russia. Il contrasto spirituale e di potenza determinerà la guerra? La guerra che non ha basi economiche ma contrasti di sentimenti e volontà incosciente di potenza? La guerra può anche essere vicina? E la guerra giungerà inattesa e più terribile e distruggitrice?
Noi speriamo, se verrà, di esserne fuori e io ho creduto fino ad alcuni mesi fa che la guerra non dovesse venire, che noi in ogni caso dovessimo rimanere fuori della terribile lotta. Ora ho qualche dubbio e anche non posso dissimulare inquietudini che sorgono in me.
Il mio amico Paul Reynaud, che ha tutte le qualità più notevoli dei Francesi e anche l’orgoglio nazionale, ha pubblicato due volumi: su come «la France a sauvé l’Europe» (perché i Francesi, anche gli spiriti più fini credono di aver salvato il mondo). Il mio amico Paul Reynaud è un osservatore politico di cui bisogna tener conto. Fu lui che primo in Francia sostenne che la guerra doveva essere tecnica e meccanizzata e non essere difensiva con masse di soldati. In altri termini aveva anticipato gli avvenimenti e in altra forma preveduta l’azione dei Tedeschi. Nel 1939 non vi erano i mezzi tecnici attuali né tanto meno le forze sovvertitrici e travolgenti come la bomba atomica e altri che son tenuti secreti. È fatto nuovo e che ancora poco tempo fa non era prevedibile. Vi sarà chi, avendo i mezzi e la forza per una guerra fulminea e di sterminio, oserà? Chi li avrà e oserà, avrà vinto la guerra fulmineamente. Chi sarà il primo? Ha fatto questa domanda. Se altri avesse detto queste cose io non mi sarei inquietato. Ma Paul Reynaud che sarà probabilmente il capo di un prossimo governo francese (Commenti) e che conosce tutto il meccanismo dello scambio e la situazione degli armamenti date le forme moderne, quando ha parlato questo linguaggio mi ha vivamente turbato.
Noi dobbiamo rimanere fuori della guerra per quanto ciò sia possibile. Le nostre frontiere sono oramai pur troppo aperte a tutti e noi siamo senza veri mezzi di difesa.
Non volere la guerra da cui non possiamo sperar nulla e che non può esserci che dannosa se non fatale necessità. Dobbiamo però in tutti i nostri atteggiamenti conservare rapporti con i paesi di scambio e soprattutto dobbiamo avere la fiducia dell’America, senza di cui non è facile la nostra resurrezione, e anche per gratitudine.
Io devo finire con un voto. Io non ho niente da proporre. (Commenti). Solo i fatui hanno soluzioni per tutti i problemi e rimedi per tutti i mali.
CALOSSO. Questa è la critica al suo discorso.
NITTI. Abbia la cortesia di ascoltarmi per cinque minuti e, se le piacerà, vedrà che sono disposto a trovare in questa difficile ora qualche cosa che ci raccolga in un consenso di volontà.
CALOSSO. È quel che faccio religiosamente!
NITTI. Io non voglio accettare e tanto meno presentare un ordine del giorno che sia materia di divisione, ma voglio che l’ordine del giorno da adottare sia espressione di fierezza e di dolore e, tenendo conto della situazione penosa, affermi la nostra volontà di resurrezione. Ratificando un trattato ingiusto, riconosciamo la realtà che ci è imposta. Ma, pur non volendo essere elemento di disordine e turbare quella relativa pace che si potrà avere in tanta discordia del mondo, noi affermiamo che nello stesso interesse dei vincitori e della pace, giustizia ci dovrà essere resa in avvenire.
Noi dobbiamo ratificare il trattato, non appena esso avrà le condizioni per essere eseguito. Dobbiamo prima di tutto però trovare modo di esprimere il nostro profondo dolore all’atto della ratifica del trattato di pace, affermando che constatiamo con dolore come le condizioni fatte all’Italia sono non solo in contradizione con tutte le solenni affermazioni dei vincitori, ma anche ingiuste e tali da fare torto a coloro che le hanno volute.
Senza dubbio il trattato è contrario in quasi tutte le sue disposizioni alle norme fondamentali della giustizia internazionale. È durissimo, per un ammirevole popolo come l’italiano che ha dato inestimabili contributi alla civiltà del mondo, e che dovrà, passata l’ora della sua oppressione, dare ancora largo contributo alla nuova civiltà, per la sua vitalità sempre rinascente.
Queste parole vanno interpretate nel senso che non vi è nessun paese in Europa che sia rinato tante volte. L’Italia cade e rinasce. Quante volte l’Italia è caduta dopo periodi di sfolgoranti vittorie! Non è mai caduta in maniera da abbattersi! Ha avuto le orde di Alarico e nei tempi moderni l’umiliazione e i danni del tempo di Clemente VII, in cui Roma fu saccheggiata e tutta Italia fu in fiamme. Eppure è sempre rinata!
Nell’ora del dolore noi dobbiamo proclamare che rinasceremo. Bisogna affermare questa volontà di rinascita, che è in noi non solo affermazione sentimentale, ma proposito nazionale.
L’Italia riconosce che, nonostante tutto, deve per lo stato di necessità in cui è messa accettare le condizioni imposte dai vincitori. Il Trattato di pace sottoposto all’esame dell’Assemblea e che il Governo sottoscrisse quando ne assunse la responsabilità, rende tanto più necessario che vi sia una ratifica sincera e sicura del Parlamento.
Dal momento che dai vincitori, esagerando a torto, si attribuisce al fascismo la guerra mondiale, io voglio che, accettando il Trattato, noi affermiamo che il fascismo sorto in Italia fu proprio nella sua fase peggiore, nel colmo del suo sviluppo e della sua potenza, che trovò sempre il consenso la difesa e l’aiuto di quelli che sono stati i nostri vincitori.
La responsabilità del fascismo, come universale tendenza di reazione, non è stata solo dell’Italia, ma effetto di un movimento generale anche nei paesi di civiltà liberale e democratica.
L’Italia ha sottoscritto il Trattato di pace. Il Trattato è stato firmato dal Governo senza essere sottoposto al Parlamento. È tanto più necessario che il Parlamento lo discuta e lo affronti lealmente in occasione della ratifica.
Non sapete quanto io soffra e come avrei preferito essere coi miei amici, soprattutto con l’amico Croce, nella sua idealità filosofica e per cui forse non si rende conto sufficientemente delle condizioni in cui sarebbe posto il popolo italiano se vi fosse un distacco da parte nostra dai paesi vincitori e anche soltanto diffidenza per noi da parte dell’America.
Io invidio il mio amico Orlando che nella sua serenità spirituale osa dire che non ratifica!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, no! (Applausi).
NITTI. Io invidio che egli possa fare, senza temere gravi conseguenze per il paese, questo gesto che ha tanta attrazione per chi lo fa e tanta ne avrebbe per me. Noi sappiamo invece quali responsabilità assumeremmo e che cosa sarebbe dei nostri figli. Tutti che siano uomini devoti alla patria dobbiamo invece umiliare noi stessi e subire con l’amarezza il dovere della ratifica.
L’Italia dunque ratificherà il Trattato di pace immediatamente dopo il voto del Parlamento, appena che ne sia possibile l’entrata in vigore, cioè dopo il deposito delle ratifiche da parte della Francia, della Gran Bretagna e Irlanda del Nord, degli Stati Uniti di America e dell’U.R.S.S.
Ma per ciò che il Governo ci domanda, per la ratifica immediata, io vorrei trovare una formula che il Governo possa accettare. Noi dobbiamo attendere la ratifica di Mosca: non è possibile che non l’attendiamo. Ma poiché nel Governo vi è la preoccupazione di dar prova della sua buona volontà, l’Assemblea, alla vigilia di sospendere i suoi lavori e le sue discussioni, per le vacanze parlamentari, autorizza il Governo a dare tutti gli affidamenti, perché, subito dopo che vi saranno le condizioni necessarie, il trattato votato dal Parlamento sarà ratificato.
Questa è cosa che tutti possono accettare.
Io accetto la ratifica con estremo dolore; mi umilio nel chiedere questo, ma voglio che la nostra decisione sia efficiente e chiara. Ora, quando noi con il voto del Parlamento diamo garanzia che, compiuti gli adempimenti, il Governo procederà immediatamente alla ratifica, ci obblighiamo fin da ora a scegliere la via più semplice e più breve che deve rassicurare tutti.
L’ordine del giorno che mi son deciso a sottoscrivere desidero sia espressione di un comune sentimento di tutti i partiti e spero che raccolga l’unanimità dei consensi. La votazione deve essere affermazione del comune dolore, ma insieme della volontà comune di resurrezione.
Io non devo fare altre dichiarazioni.
Signori, io non chiedo nulla, non voglio nulla: voi lo sapete. Ho l’anima piena di dolore e tutta la mia vita è tristezza. Nessuno mi può attribuire alcuna vanità, cioè alcun desiderio. Anche il mio più crudele nemico non può credere che io anche ora non dia prove di rassegnazione e di modestia. Dopo tanti anni di lotte, d’esilio e di deportazione nell’amore della patria, per me è più penoso che per ogni altro accettare il sacrificio di un sentimento che è profondo nella mia anima, l’orgoglio nazionale. Ma è l’inizio necessario. Vi chiedo, signori, in questo momento di unirci nell’ideale della Patria, senza di cui non è resurrezione. Io detesto tutte le nostre divisioni e la fazione che soffoca la nazione, il particolarismo che rende difficile o impossibile l’opera comune di resurrezione e di vita. Questo è giorno di umiliazione e di dolore. Cerchiamo, accettando il sacrificio, di essere uniti in una stessa fede nazionale e nella stessa visione di avvenire.
Signori, se possiamo, ritroviamoci almeno oggi insieme. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bassano. Ne ha facoltà.
BASSANO. Onorevoli colleghi, mi sembra anzitutto superfluo dichiarare che io parlo non a nome del mio Gruppo, ma a titolo puramente personale. Mi sembra superfluo dichiararlo, in quanto in una discussione come questa, che investe i fondamentali interessi del Paese, non vi possono essere distinzioni di gruppi; ognuno assume le proprie responsabilità di fronte alla propria coscienza e di fronte al Paese.
Ciò premesso, devo innanzi tutto rilevare – e mi sembra che in questo siamo tutti d’accordo – che il momento scelto dal Governo per questa discussione non poteva essere meno felice. Basterebbe a dimostrarlo il fatto che l’Assemblea, unanime o quasi nel riconoscere la ineluttabilità più che la necessità di ratificare il Trattato di pace, è oggi divisa circa la tempestività di tale ratifica.
Detto però questo, e nonostante l’autorità dei sostenitori della contraria opinione, a me sembra, francamente, che la scelta del momento per questa discussione non debba influire sulla nostra decisione, e che ridurre la discussione stessa ad una questione di tempestività significhi abbassarne il tono e diminuire la indubbia importanza – giuridica, politica, morale – della decisione che dobbiamo prendere.
La questione ha un duplice aspetto, uno che si potrebbe chiamare formale o giuridico, l’altro sostanziale o politico. Ma i due aspetti in fondo si identificano, perché mai, forse, come in questo caso la forma assume carattere di sostanza. Lo conferma il fatto che coloro i quali sostengono che la ratifica dovrebbe essere ritardata, se non addirittura negata, partono dal presupposto, a mio modo di vedere errato, che il Trattato di pace possa entrare in vigore anche senza la ratifica dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze. E mi sembra che anche il Governo sia su questo terreno, almeno a giudicarne dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, nel quale si legge che «il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90».
E precisamente perché a me sembra che questo sia errato ho presentato un emendamento nel quale, invece, si dice che il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.
Il mio emendamento sostitutivo dell’articolo unico del disegno di legge è così formulato:
«Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate e Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia, ai sensi dell’articolo 90».
Dunque la questione, dal punto di vista giuridico o formale che dir si voglia, si imposta in questi precisi termini: dobbiamo ritenere che il Trattato di pace, per diventare perfetto, attenda la manifestazione di volontà che deve concretarsi nella ratifica da parte dell’Italia e delle Potenze Alleate e Associate, oppure che questo Trattato possa entrare in vigore indipendentemente dalla ratifica dell’Italia, per il semplice fatto di essere ratificato dalle quattro grandi Potenze, nel qual caso neppure da un punto di vista meramente formale sarebbe a parlare di Trattato, ma dovrebbe, invece, esclusivamente parlarsi di imposizione delle condizioni di pace fatte all’Italia?
Ora, io devo subito dichiarare che mi rifiuto di accettare questa seconda interpretazione, prima di tutto per ragioni di carattere politico, per il rispetto che noi dubbiamo alle Potenze vincitrici, nei riguardi delle quali la ratifica del Trattato dovrebbe rappresentare una data veramente storica, cioè segnare la fine di un periodo doloroso per tutti e l’inizio di una nuova era di collaborazione, anzi di solidarietà fra i popoli, per la soluzione di problemi che interessano egualmente tutti, vincitori e vinti, in quanto attengono alla ricostruzione dell’Europa e del mondo su nuove basi.
Se però, io mi rifiuto prima di tutto per questa ragione di carattere meramente politico di accettare tale interpretazione, a maggior ragione devo respingerla per motivi di ordine strettamente giuridico. Possiamo cioè noi ritenere che le Potenze vincitrici abbiano voluto, con il Trattato che purtroppo ci viene imposto, violare prima di tutto quell’elementare principio di diritto internazionale, secondo il quale i trattati devono essere ratificati, e diventano perfetti esclusivamente con la ratifica?
In due soli casi, che non ci riguardano, la ratifica non è necessaria: quando essa non sia richiesta dalle leggi costituzionali dello Stato, o quando il plenipotenziario sia munito di pieni poteri, e quindi di ratifica non vi sia bisogno. Ma, ripeto, né l’una né l’altra ipotesi riguarda l’Italia.
Non la prima. Se ne sarebbe, infatti, potuto parlare imperando lo Statuto Albertino, che all’articolo 5 demandava la dichiarazione di guerra e la firma dei trattati di pace esclusivamente al Re, il quale ne dava comunicazione alle Camere appena l’interesse e la sicurezza dello Stato lo avessero consentito. In questo caso, quando il plenipotenziario era munito di pieni poteri, non c’era neppure bisogno di ratifica e l’approvazione da parte del Parlamento costituiva esclusivamente materia di diritto pubblico interno, cioè serviva solo perché il Trattato entrasse a far parte dell’ordine giuridico interno.
Di questo, però, non è più a parlare ora, dato che più non vige lo Statuto Albertino, ma la nuova legge istituzionale del marzo 1946, che ha demandato esclusivamente all’Assemblea Costituente l’approvazione dei trattati internazionali.
Neppure è a parlare della seconda ipotesi, perché, quando l’Ambasciatore Soragna firmò il Trattato di pace, accompagnò la firma non solo con una solenne protesta, ma con la espressa riserva della ratifica da parte di questa Assemblea.
Quindi, la firma apposta al Trattato rappresentò solo una obbligazione del Governo, ed obbligazione fino ad un certo punto, in quanto subordinata alla condizione sospensiva della ratifica da parte di questa Assemblea.
Basta poi semplicemente leggere l’articolo 90 del Trattato di pace per convincersi che le Potenze vincitrici non hanno inteso per nulla violare il principio di diritto internazionale di cui sopra.
«Il presente Trattato (dice l’articolo 90), di cui i testi francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia».
L’articolo soggiunge: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America, della Francia».
Come si vede, questa clausola aggiuntiva non si riferisce ai rapporti tra l’Italia e le Potenze Alleate o Associate, bensì ai soli rapporti interni tra queste ultime.
Presupposto di essa è che vi sia la ratifica dell’Italia.
Se noi dessimo all’articolo una diversa interpretazione, violeremmo anche quella norma interpretativa di carattere generale, per cui le clausole d’un contratto devono nel dubbio interpretarsi nel senso che abbiano un qualche effetto e non nel senso che non ne abbiano alcuno.
Infatti, interpretando l’articolo 90 nel senso che il Trattato potrebbe entrare in vigore anche senza la ratifica da parte dell’Italia, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, noi verremmo a non dare alcun effetto alla clausola secondo la quale il Trattato deve essere ratificato anche dall’Italia.
Quindi la ratifica dell’Italia costituisce il presupposto per la perfezione del Trattato. Questo per diventare perfetto – e per potere, di conseguenza, entrare in vigore – deve essere ratificato da noi e dalle Potenze Alleate o Associate.
E che sia così, onorevoli colleghi, è confermato dal capoverso dell’articolo 90, il quale dice: «Per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito». Non vi si parla, cioè, dell’Italia – la cui necessità, di ratifica, per la perfezione del Trattato, è fuori discussione – ma solo vi si regolano, come dicevo, rapporti interni fra le Potenze Alleate ed Associate, disponendo che nei riguardi di ciascuna di esse il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito delle rispettive ratifiche: in conformità, precisamente, dei principî del diritto internazionale.
Quale, allora, lo scopo della clausola aggiuntiva circa la entrata in vigore del Trattato? Quello, evidentemente ed esclusivamente, di rendere possibile la fine del regime armistiziale con l’Italia prima ancora della ratifica del Trattato da parte di tutte le Potenze Alleate ed Assodate, col semplice deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze.
Concludendo, se a fare entrare in vigore il Trattato di pace basta il deposito delle ratifiche da parte delle quattro grandi Potenze, questo deposito ha come necessario presupposto la ratifica da parte dell’Italia.
Questa necessità, del resto, era stata esplicitamente quanto unanimemente riconosciuta da questa Assemblea con l’ordine del giorno votato nella seduta del 25 febbraio di quest’anno, nel quale è detto: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».
Ed allora viene fatto di domandarsi: come è che il Governo per il primo, come risulterebbe dal testo dell’articolo che ci è stato sottoposto, avrebbe, a questo riguardo, cambiato opinione?
Chiedendo, infatti, di essere autorizzato a ratificare dopo che il Trattato sarà divenuto esecutivo, esso mostra di ritenere che questa esecuzione ci possa essere indipendentemente dalla ratifica nostra: il che mi sembra costituisca, per tutto quello che ho detto, un vero assurdo giuridico e politico.
Ecco perché mi permettevo di dire che la questione formale e giuridica nel caso si identifica con quella sostanziale.
Non intendo poi abusare della pazienza dell’Assemblea, ma dal punto di vista sostanziale mi sembra non si possa, quale che sia l’interpretazione da dare al detto articolo 90, fare a meno di ratificare questo sia pure ingiusto e, più che ingiusto, deplorevole Trattato.
Noi antifascisti dobbiamo anzitutto ratificarlo per quelle stesse ragioni di libertà, di giustizia, di collaborazione tra i popoli per le quali siamo stati sempre avversi al fascismo: se anche queste ragioni, che sono le ragioni ideali per le quali i nostri ex-nemici dicevano di fare la guerra, essi oggi, nell’imporci il Trattato, hanno mostrato di dimenticarle. Poco importa, onorevoli colleghi, che tocchi proprio a noi, antifascisti, di dover accettare un Trattato che sanziona gli errori di un regime che abbiamo, per venticinque anni, sempre combattuto, e commina, per essi, pene immeritate che vanno oltre la misura del giusto. Esso, infatti, non ha tenuto conto che il popolo italiano non poteva essere tenuto responsabile degli errori del fascismo, in quanto avendo, per fatto del fascismo, perduta la propria libertà, era di quegli errori non il responsabile, bensì la prima vittima.
Ciò nonostante, ripeto, noi abbiamo il dovere di accettare e ratificare questo Trattato, anche perché è proprio dei popoli forti accettare la responsabilità degli errori dei governanti e subirne le conseguenze, se anche ingiuste o immeritate. Accettando questo indegno Trattato, noi, rappresentanti del popolo italiano, daremo prova di quella stessa forza, di quella stessa fierezza di cui, di fronte alle sue immeritate sventure, ha saputo dar prova il popolo italiano, opponendo ad esse uno spirito di resistenza e di rinascita che ci può essere invidiato da molti di quegli stessi Stati vincitori che oggi ci impongono le condizioni della loro pace.
Noi antifascisti (e credo, con questo, di parlare a nome della grande maggioranza, se non della quasi totalità di questa Assemblea) siamo stati sempre avversi al regime fascista per ragioni di politica interna, perché questo regime, giunto al potere con mezzi illegali, ci aveva, per mantenervisi, privati di ogni libertà. Ma non lo siamo stati meno per la sua politica di avventure nel campo internazionale, per avere esso, anche in questo campo, tentato di sostituire un regime di violenze, di egoismi, di sopraffazioni a quei rapporti di collaborazione e di solidarietà tra i popoli, che dovrebbero costituire il fondamento della politica degli stati democratici nel campo internazionale.
Noi fummo, quindi, tenacemente avversi all’impresa etiopica, che con la rottura del così detto fronte di Stresa preparava le condizioni favorevoli per una nuova conflagrazione internazionale. E non mutammo opinione neppure quando il successo arriso all’impresa sembrò darci torto e rafforzare il regime ed il suo capo. E fummo del pari, ed anche più tenacemente avversi alla nostra partecipazione alla nuova guerra mondiale, nonostante sembrasse che la vittoria fosse già dalla parte del nostro alleato, ed a noi non toccasse che concorrere alla spartizione dei frutti della vittoria tedesca. Lo fummo esclusivamente per ragioni ideali e per tre lunghi anni abbiamo vissuto nel tragico dilemma di non potere augurare al nostro Paese una disfatta, di cui erano prevedibili le conseguenze, ma di non potergli, purtroppo, neppure augurare la vittoria, che avrebbe segnato la rovina nostra e dell’umanità, in quanto ci avrebbe asserviti tutti alla Germania hitleriana.
È questa anzi, fra le tante, la colpa che neppure oggi sappiamo perdonare a Mussolini, nonostante l’espiazione della sua tragica quanto ingloriosa fine. Ed è la colpa stessa per la quale abbiamo rovesciato la monarchia, nonostante non fosse, non dico fatta, ma neppure preparata la repubblica.
Non si dica, quindi – perché costituirebbe offesa ai nostri sentimenti più sacri – che il nostro atteggiamento dopo l’armistizio fu determinato da ragioni di opportunità o di calcolo. Non si dica che con la cosiddetta cobelligeranza noi avremmo inteso seguire quella politica che tante volte ci è stata rimproverata, e che è stata definita dei giri di walzer. No, quella politica noi abbiamo seguito esclusivamente perché rispondeva ai reali e sinceri sentimenti del popolo italiano, che anelava alla libertà propria e del mondo e nelle truppe alleate vedeva veramente le truppe liberatrici. E se – come si dice da molti, ed è esatto – questo Trattato è ingiusto anche perché non ha tenuto conto, o non ha tenuto nel giusto conto quella nostra cobelligeranza, ebbene noi non ce ne adontiamo e molto meno ne facciamo una ragione di opposizione al Trattato, precisamente perché di quella cobelligeranza, di cui siamo fieri ed orgogliosi, noi non intendevamo essere ringraziati e molto meno retribuiti, in quanto determinata esclusivamente dai nostri sentimenti e da quelli che ritenevamo fossero i nostri interessi di cittadini di uno Stato tornato finalmente libero.
Per queste stesse ragioni ideali che determinarono la nostra cobelligeranza noi vogliamo oggi, nonostante le sue palesi ingiustizie, ratificare il Trattato di pace. Abbiamo però, prima di ratificarlo, il diritto di dire qualche parola amara a coloro che ce lo impongono; abbiamo, cioè, il diritto di dire loro: voi avete creduto, con questo Trattato, di umiliarci nel nostro orgoglio di Nazione, non sottoponendoci un Trattato, ma imponendoci un dettato sulle condizioni di pace; voi avete creduto di ferirci in quel sentimento che abbiamo più caro, cioè nel sentimento di Nazione, privandoci di terre che ci sono particolarmente care, per averle riscattate nell’altra guerra col sangue di milioni di nostri soldati; voi avete creduto di umiliarci, privandoci, con le colonie, del frutto di mezzo secolo del nostro lavoro; voi avete voluto dimenticare che i nostri soldati sono morti a fianco dei vostri per la stessa causa della libertà del mondo; voi avete dimenticato – come ha ricordato l’onorevole Gasparotto nel suo elevato discorso di due giorni fa – le gesta gloriose, al vostro fianco, della nostra Marina, che già da avversaria avevate imparato a rispettare, se non ad ammirare.
Voi avete dimenticato tutto questo, ma non ci avete umiliati. Cercando di umiliarci, ci avete anzi messo su un piano morale più elevato del vostro. Noi possiamo infatti rispondervi che, se avete creduto di umiliarci imponendoci un Trattato disonorevole, ebbene questo Trattato noi invece accettiamo precisamente per rialzarci: per riprendere cioè il posto che ci spetta nel consesso delle libere Nazioni. Se voi ci avete privato di terre che ci sono particolarmente care, ebbene, non fatevi illusioni, quelle terre, da oggi, saranno più che mai italiane, e i nostri fratelli che Voi, con la violenza, avete voluto staccare da noi, si sentiranno più che mai legati alla Madrepatria, si sentiranno, da oggi, più che mai italiani! E se avete creduto di toglierci il frutto del nostro lavoro, togliendoci le colonie, ebbene in quelle colonie resteranno le tracce non solo di quel nostro lavoro, ma resteranno, soprattutto, le tracce del nostro grado di civiltà, perché il nostro non è stato un regime di oppressione, ma un regime di civiltà.
Questo noi abbiamo il diritto di dirvi nel momento in cui Voi, dimenticando le ragioni ideali della nostra guerra al vostro fianco, ci imponete questo indegno Trattato. Ma se voi avete dimenticato i nostri morti, i soldati morti a fianco dei vostri, noi non abbiamo dimenticato i vostri morti; noi non abbiamo dimenticato che sul suolo italiano è venuto a morire il fior flore della gioventù anglo-americana. Noi non abbiamo dimenticato i vostri morti di Cassino e di Anzio, che ci sono cari quanto i nostri morti. Anche per questi morti, anzi, noi ratifichiamo questo indegno Trattato. Ma abbiamo il diritto di dirvi che anche per questi morti, per il rispetto che dovete ad essi, Voi non avreste dovuto imporcelo. (Applausi – Congratulazioni).
Presidenza del Vicepresidente CONTI
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nobile. Ne ha facoltà.
NOBILE. Onorevoli colleghi! Ero ben lontano dall’immaginare che avrei avuto l’occasione di parlare sul cosiddetto trattato di pace. Mi ero convinto che l’Assemblea avrebbe deciso di non tenere alcun dibattito su tale penoso argomento. Ciò che poteva dirsi contro l’indegno documento, che ora è davanti a noi, quasi tutto era stato già detto fuori di questa Assemblea; perciò; immaginavo che in quest’Aula avrebbe avuto luogo, non già una discussione, ma piuttosto una solenne, austera cerimonia, in cui, dopo che avesse parlato per la storia, nella maniera concisa e scultorea che gli è propria, il più alto rappresentante del pensiero italiano, voglio dire Benedetto Croce, avrebbe preso la parola il Presidente dell’Assemblea per invitarci a ratificare unanimemente, col lutto nel cuore, quel documento, se tale fosse stata la dura, imperiosa necessità del momento, oppure, se tale necessità non vi fosse stata, a rifiutare, con voto altrettanto unanime, la ratifica, ubbidendo ai dettami della nostra coscienza e a quelli che ci ispira il sentimento di onore del popolo italiano.
Ma le vicende della vita politica interna del nostro Paese, così strettamente legate oggi con quelle della vita internazionale, hanno portato prima del tempo il «Trattato» davanti all’Assemblea, con fretta che a molti autorevoli nostri colleghi non è sembrata per nulla giustificata. Donde l’apertura di questo dibattito. Perciò, invece di quella ratifica da darsi o da rifiutarsi con voto unanime senza alcuna discussione, ci troviamo oggi divisi da disparità di opinioni che verosimilmente si rifletterà anche nel nostro voto. Dal momento che è così, non vi sembrerà eccessiva presunzione la mia, se ho chiesto la parola per un breve commento su quella parte del «Trattato» che, se non è grave ed irreparabile come quella che si riferisce alle mutilazioni del nostro territorio nazionale, è però certamente fra le più umilianti: voglio dire le clausole militari.
Né vi faccia meraviglia, onorevoli colleghi, che chi si accinga a parlarvi di questi argomenti sia proprio colui che per convinzioni antiche e nuove vorrebbe veder soppresse in Italia, come altrove, tutte le forze armate nazionali per dar luogo ad un solo potente esercito, una sola marina, una sola aviazione militare, messe tutte a disposizione di un Governo mondiale per salvaguardare la pace e la giustizia sociale nel mondo.
Ma il fatto è, onorevoli colleghi, che con questo Diktat si disarma il popolo italiano, laddove nessuna limitazione di forze militari viene imposta ai paesi vicini, e precisamente quando nei paesi, che dall’ultimo conflitto sono emersi come i più potenti Stati militari del mondo, fervono febbrilmente i preparativi per un nuovo, ancora più catastrofico conflitto.
Le clausole militari, non meno che le amputazioni del nostro territorio nazionale, mostrano lo spirito retrivo, reazionario, anacronistico che ispirò il «Trattato».
Lo spirito bassamente vendicativo, la nessuna fede mantenuta alla parola data, il feroce egoismo, infine, delle quattro Potenze che dettarono le condizioni della pace, si rivelano per l’appunto in queste clausole dove la nostra Italia democratica, sorta con tanto stento e a prezzo di tante sofferenze sulle rovine di un regime infausto, viene considerata, nientemeno, come un possibile futuro aggressore sia del vicino d’Oriente che di quello dell’Occidente. I lupi che prendono misure di cautele contro l’agnello!
Avviene così che un trattato, il quale avrebbe dovuto, a detta del signor Attlee, liberare per sempre l’Europa dalla guerra, non fa che evocare questa con ciascuna di quelle clausole militari che, lasciando il nostro Paese senza difesa valida, lo pongono indirettamente alla mercé della prepotenza straniera.
Triste caratteristica della guerra moderna, la più triste forse, è che essa nulla risolve. Al suo cessare gli antagonismi nazionali ed economici che l’hanno provocata sussistono aggravati, sia pure sotto altra forma. Sicché le divisioni, gli odii fra i popoli ne risultano accresciuti, e a una vera pace più non si arriva, ma piuttosto ad un armistizio, che dura più o meno a lungo fino al prossimo conflitto. La riprova di questa verità è fornita dal documento che è posto davanti a noi. Nel compilarlo le quattro Potenze misero da parte i principî umanitari, i grandi ideali proclamati durante la guerra, quando a gran voce invocavano da tutti i popoli, compreso il nostro, l’aiuto per la vittoria.
La Carta Atlantica è ormai uno sbiadito ricordo di frasi retoriche le quali, pronunciate in un momento di grande pericolo, non hanno più alcuna risonanza nel cuore stesso degli uomini che le proclamarono. Le solenni promesse di Roosevelt e di Churchill sono dimenticate. Della necessità di unificare il mondo, di promuovere il progresso sociale ed economico di tutti i popoli, dando ad essi la possibilità di vivere l’uno a fianco dell’altro da buoni vicini, si parlò nello statuto dell’organizzazione delle Nazioni Unite, ma nei fatti, le stesse Nazioni che ne formano il direttorio agirono contro quei principî, dettando all’Italia condizioni di pace che gettano il seme di future, catastrofiche guerre.
Un trattato come quello di cui ci viene chiesta la ratifica, non è un trattato di pace, ma un odioso compromesso, con cui le quattro potenze che lo stipularono tentarono, a nostre spese, di comporre almeno per il momento i loro contrasti di interessi.
Esso non elimina le vecchie cause di conflitti, ma a queste ne aggiunge di nuove. La conferenza di Versailles, fra i suoi errori, offrì ai vinti almeno un raggio di speranza, allorché vi si parlò di disarmo generale. Ma nella conferenza di Parigi del 1946 si è parlato di disarmo solo per i popoli vinti!
Il trattato, che di quella conferenza fu il risultato, costituisce per se stesso un anacronismo storico. Oggi il mondo dovrebbe andare verso l’unificazione, verso una stretta solidarietà e collaborazione fra i popoli; e qui si stabiliscono condizioni che dividono ancora più profondamente i popoli dell’Europa. Il progresso tecnico degli ultimi 150 anni, il meraviglioso sistema di comunicazioni moderne, che di fatto ha soppresso le distanze, e la conquista della potenza meccanica da parte dell’uomo, portano come naturale, fatale conseguenza alla soppressione delle frontiere; e qui si tracciano, a danno del nostro Paese, nuove frontiere destinate ad accentuare le diffidenze, i sospetti, i contrasti fra l’Italia ed i suoi vicini.
Per colmo di ironia, l’Italia repubblicana viene trattata come se potesse davvero costituire nel futuro una grave, permanente minaccia alla pace dei paesi del blocco occidentale, non meno che di quelli del blocco orientale! E le si impongono perciò misure militari dirette in sostanza a impedire che essa possa difendersi all’uno e all’altro confine.
Il diritto di autodifesa, proclamato dall’articolo 51 dello statuto delle Nazioni Unite, è essenzialmente negato al nostro Paese, obbligandoci, come si fa, a rimuovere ogni fortificazione o installazione militare lungo le frontiere, senza che un eguale obbligo sia fatto ai nostri vicini.
Ma le clausole dove più è palese l’intenzione di volerci lasciare impotenti a difenderci contro chi tentasse invadere il nostro territorio nazionale, sono quelle stabilite con l’articolo 50, che impongono la rimozione di tutte le postazioni permanenti di artiglieria per la difesa delle coste di Sardegna. Se eguale ordine fosse stato dato alla Francia per quanto riguarda la Corsica, nulla vi sarebbe stato da ridire; ma imposizioni unilaterali come quella che ho citato ed altre simili sono immorali, perché, impedendo la difesa delle nostre coste contro un tentativo di invasione, mettono il territorio nazionale alla mercé dei vicini.
Questo nostro popolo, che se di una cosa può legittimamente vantarsi, è proprio quella di essere per sua natura pacifico, viene considerato così pericoloso che gli si fa divieto perfino di studiare nuove armi. Con che implicitamente gli si vieta altresì di studiare come difendersi da esse.
Salutare e gradito sarebbe un tale divieto, se fosse generale per tutti, ma imporlo soltanto al nostro Paese, mentre altrove febbrilmente si preparano nuovi spaventosi mezzi di distruzione, è certamente cosa iniqua.
Gli effettivi dell’esercito, comprese le guardie di frontiera, sono limitati a 185 mila uomini, quando la Francia ancor oggi ne ha, forse, tre volte tanto sotto le armi. Si ha, poi, cura di aggiungere che l’organizzazione e l’armamento di tali forze debbono essere concepiti in modo da soddisfare unicamente ai compiti di carattere interno, cioè a dire polizieschi, e a quelli di difesa locale della frontiera.
Ben più largamente sono stati trattati a tale riguardo gli altri Paesi: la Bulgaria, l’Ungheria, la Romania e perfino la Finlandia. Alla Bulgaria, ad esempio, con appena 6 milioni di abitanti, è stato concesso un esercito di 55 mila uomini. Con la medesima proporzione, a noi avrebbe dovuto essere permesso un esercito di 400 mila uomini anziché di 185 mila.
Lo stesso dicasi dell’aviazione. Fra apparecchi da caccia e da ricognizione potremo avere tutt’al più 200 aeroplani; ma la Bulgaria, con una popolazione sette volte più piccola, ne avrà 90, e 60 la Finlandia, la cui popolazione è appena la dodicesima parte della nostra.
Mai onorevoli colleghi, le più gravi, umilianti ed inique clausole militari sono certamente quelle che si riferiscono alla Marina. Esse ne costituiscono anche la parte più importante. La spartizione come bottino di guerra della flotta italiana fra i vincitori, dopo che essa aveva con onore combattuto al loro fianco e dopo i solenni riconoscimenti dei capi militari alleati e le ancor più solenni dichiarazioni di Roosevelt e di Churchill, è – secondo me – la cosa più vile di tutto il Trattato! Il meglio della flotta italiana, per un tonnellaggio complessivo di 160 mila tonnellate, oltre a 51 mila tonnellate di naviglio ausiliario, deve entro tre mesi dall’entrata in vigore del Trattato essere consegnata alle quattro Potenze, fra cui è compresa anche la Francia; eppure, la Francia la guerra non vinse, come ci ha ricordato poc’anzi l’onorevole Nitti, che ha sostenuto la tesi che essa ha subìto in questa guerra una disfatta ben più grave della nostra!
Per giunta, ci si fa obbligo di consegnare le navi in piena efficienza, con che dovremo accollarci l’obbligo gravoso e penoso di ripristinare le unità inefficienti per poterle presentare in perfetto ordine agli spartitori del bottino.
All’Italia vengono lasciate due vecchie corazzate, la Doria e la Duilio, che non potranno nemmeno esser più sostituite allorquando dovranno essere messe fuori servizio; quattro incrociatori, quattro cacciatorpediniere ed un numero limitato di navi minori per un tonnellaggio complessivo di 67 mila tonnellate.
Fra le unità che restano all’Italia, molte sono di tipo antiquato e parecchie inefficienti. Per di più, la loro scelta è stata fatta in modo da impedirne un’organica utilizzazione.
Dei sommergibili, otto, i migliori, sono da consegnarsi in mani alleate. I rimanenti dovranno essere affondati! Fra questi sono compresi anche quelli i cui comandanti, per servizi resi in guerra a fianco degli alleati, furono proposti per decorazioni britanniche.
La spartizione della nostra flotta fra i vincitori: tale è la ricompensa di venti mesi di splendido servizio prestato dalla Marina italiana nella lotta contro il nazismo!
Tali sono, onorevoli colleghi, le clausole militari del Trattato che ci viene imposto.
L’umiliazione inflitta alla nostra Marina e il rinnegamento delle solenni promesse fatteci per ottenere il suo aiuto in guerra hanno sollevato lo sdegno del popolo italiano, forse altrettanto quanto le mutilazioni imposteci nel nostro territorio nazionale.
L’Italia a Parigi fu tradita. Gli alleati ci avevano promesso di trattarci non da vinti ma da amici. Tutti noi ancor oggi ricordiamo il messaggio con cui Churchill nel 1942 asseriva che la Gran Bretagna combatteva non contro il popolo italiano ma contro Mussolini, e ci esortava a liberarci dal regime che ci opprimeva. L’aiuto che gli inglesi allora chiesero fu dato dagli Italiani con generosità come meglio essi potevano.
Lo slancio con cui accolsero l’invito sta a provare che la guerra al lato della Germania nazista era stata imposta al popolo italiano contro i suoi sentimenti, le sue aspirazioni, la sua volontà. Nessun popolo che non avesse profondamente odiato una guerra, alla quale era stato forzato da una tracotante dittatura, avrebbe potuto decidersi a combattere, al fianco degli anglo-americani, contro quello stesso potente esercito che ufficialmente era stato l’alleato della vigilia!
La cobelligeranza, accettata dall’Italia con tanto entusiasmo, avrebbe dovuto portare come logica conseguenza a farci considerare, se non come alleati, almeno come amici. E non si sarebbe dovuto dimenticare che il popolo italiano aveva combattuto con tedeschi assai più della Francia, che pure è una delle quattro Nazioni che dettarono le condizioni della nostra pace nella conferenza di Parigi.
Le testimonianze in proposito degli stessi Alleati sono irrefutabili. Il 22 agosto 1944 il generale Browning dichiarava: «L’esercito italiano è stato riorganizzato nel caos. Esso ha combattuto bene ed efficacemente, ed ha avuto notevoli perdite».
Il generale Hays, della V Armata americana, rivolgendosi ai militari italiani impiegati nei servizi ausiliari, diceva loro: «Le parole sono inadeguate a descrivere il coraggio che occorreva per effettuare l’approvvigionamento di munizioni fino al completo annientamento della resistenza del nemico. Esso ci permise di penetrare nelle posizioni nemiche, ora disorganizzate, e invadere la valle padana. Voi adempiste a questi obblighi in maniera degna delle più belle tradizioni delle forze alleate».
Churchill, parlando ai Comuni il 27 febbraio del 1945 disse: «Sarebbe ingiusto non rendere omaggio agli impagabili servizi, di cui non si può narrare tutta la storia, che gli italiani, uomini, donne e le loro forze armate, sul mare e sulla terra, e dietro le linee nemiche, rendono continuamente alla causa comune».
Più tardi, il 5 marzo 1945, egli telegrafava al Governo italiano «fervide congratulazioni per la liberazione finale dell’Italia dal comune nemico», e il messaggio continuava accennando al contributo dato dalle forze regolari italiane e dai patrioti dietro le linee.
Il 5 ottobre dell’anno scorso, quasi come protesta contro la Conferenza di Parigi, il generale Morgan, comandante in capo delle forze alleate del Mediterraneo, celebrandosi lo sbarco di Salerno, invitò le autorità italiane a parteciparvi da uguali. Ma già prima, nel luglio, il generale Clark, distribuendo decorazioni americane ai volontari della libertà, diceva loro: «Avete vinto la guerra, meritate di vincere la pace». Nei certificati che egli distribuiva era stampato: «Col loro coraggio e la loro devozione i patrioti italiani hanno dato un genuino contributo alla liberazione italiana e alla grande causa degli uomini liberi».
E chi potrebbe dubitare? Se le forze regolari operarono facendo splendidamente il loro dovere in condizioni di evidente inferiorità rispetto agli alleati; se le forze regolari perdettero sul campo 43.000 uomini, ancora più dura fu la guerra spontaneamente voluta e organizzata dalle forze popolari. E come potevano le autorità supreme del Comando alleato non riconoscere che quel popolo si era ben guadagnato il diritto di vincere la pace allorquando esso aveva pagato con la vita di 80 mila dei suoi figli quel diritto? La memoria di questi morti italiani nella guerra di liberazione è quella che impone il dovere categorico di rifiutare la ratifica se non vi è una assoluta impellente necessità. Se non ci fossero state imposte inique modificazioni di frontiera, se ci fosse stato imposto il disarmo, sia pure totale, come preludio al disarmo universale, se ci avessero detto di consegnare tutta la nostra flotta non già ai quattro vincitori, ma alla Organizzazione delle Nazioni Unite onde costituisse il primo nucleo di quella forza internazionale che dovrebbe presidiare la pace e la giustizia fra i popoli, si sarebbe potuto accettare di buon grado un tale «trattato».
Ma così come è, sarebbe viltà ratificare un trattato che disonora l’Italia, che la mette alla mercé di tutti, e le toglie di fatto ogni indipendenza. Accettare un tale trattato prima di essere costretti a farlo, sarebbe tradire la memoria dei morti della guerra combattuta dal popolo italiano contro il nazismo. Né io credo che, affrettando la ratifica, come ci si propone di fare, noi contribuiremmo a quell’opera di mediazione tra oriente ed occidente che pure sarebbe il nostro attuale destino. A me sembra proprio il contrario. Una ratifica a cui ancora nessuno ci obbliga sarebbe un errore aggiunto agli altri.
È convinzione di molti che se l’Italia fosse stata meno intimamente identificata con gli interessi degli anglo-americani, la sua posizione internazionale sarebbe stata a Parigi ben differente. Dopo il crollo del nazismo fu certo grave errore non mantenersi strettamente neutrali tra i due blocchi in contrasto. L’errore si aggraverebbe affrettandosi, oggi, come in sostanza ci si propone di fare, a prendere posizione a fianco del blocco occidentale contro quello orientale; perché, si voglia o no, tale sarebbe il significato che assumerebbe un’affrettata ratifica.
Benedetto Croce diceva l’altro ieri in questa Assemblea cose memorabili che la storia registrerà; ma una sua dichiarazione mi colpì in modo particolare e fu quando disse che la guerra è legge eterna delle vicende umane. Se così fosse, se fosse vero che l’umanità non potrà mai più riuscire a liberarsi della guerra, ci sarebbe veramente da disperare delle sorti del mondo. La guerra, quale era una volta, avrebbe potuto ben perpetuarsi indefinitamente senza che portasse necessariamente alla distruzione della civiltà umana; ma oggi, dopo le scoperte e le invenzioni dei secoli XIX e XX, è divenuta cosa essenzialmente diversa da quella che fu fino un secolo e mezzo fa. Soppresse praticamente le distanze grazie all’aviazione e alla radio, il mondo all’improvviso si è rimpicciolito: i popoli vivono gomito a gomito l’uno coll’altro; e perciò la guerra, quando scoppia, presto si espande dovunque, e con i potenti orribili mezzi di distruzione di cui si dispone, si tramuta in una catastrofe generale.
Oggi, si impone ai popoli l’imperativo categorico di trovare il modo come liberarsi per sempre da questo flagello, il che non si può ottenere se non istaurando una legge mondiale. Senza di ciò la decadenza, il crollo della civiltà umana è cosa inevitabile. Tale è il dilemma tremendo.
Un popolo come il nostro, che ha sempre donato al mondo idee universali, deve porsi risolutamente sulla prima delle due strade, quella che conduce all’unificazione politica ed economica del mondo. Ma a questa non si contribuisce affrettandosi in questo momento a ratificare il trattato, con la speranza, forse, di acquistarsi le simpatie di una delle due parti in conflitto.
Nel momento attuale, di aspra, pericolosa tensione fra oriente ed occidente, ratificare il «Trattato» senza averne l’obbligo, significa compiere un atto che non può non apparire ostile ad una delle due parti in contesa. Tale ratifica dobbiamo rifiutare per salvare il nostro onore e la nostra dignità, ma anche, e soprattutto, nell’interesse della pace e nell’interesse stesso dell’umanità. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta di lunedì mattina.
PARIS. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PARIS. Per accelerare i nostri lavori, propongo di tenere seduta anche domani mattina, tenendo conto che vi sono ancora numerosi oratori iscritti in questa discussione, e che la patrimoniale richiederà anch’essa qualche seduta ancora.
PRESIDENTE. Faccio osservare che l’Assemblea non è in numero per poter adottare una decisione di questo genere.
La prossima seduta è fissata per lunedì alle 9,30.
La discussione sul Trattato di pace proseguirà anche nella seduta pomeridiana.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«I sottoscritti chiedono di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica e il Ministro del tesoro, per conoscere con quali mezzi s’intende provvedere al ricovero nei sanatori di mezza ed alta montagna – attraverso l’Istituto nazionale di previdenza sociale – delle migliaia e migliaia di tubercolotici poveri che attendono da mesi e mesi il trasferimento; e per conoscere se non si ritiene urgente ed improrogabile l’assegnazione all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica di altri due miliardi necessari per la costruzione di nuovi sanatori, oltre quelli già assegnati.
«Morini, Cairo».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno e delle finanze, per conoscere:
- a) se è esatta la notizia secondo la quale è in corso di emanazione una legge di regolamentazione delle lotterie; legge che porrà fine al monopolio, da parte della S.I.S.A.L. del totalizzatore del gioco calcio;
- b) se, d’altra parte, è vero che la legge affiderà la gestione del toto-calcio, anziché al C.O.N.I., alla Direzione lotto, il che significherebbe la morte dell’iniziativa;
- c) se, infine, è vero che la legge stessa porterà alla soppressione delle percentuali, che oggi affluiscono nelle casse del C.O.N.I., con conseguente paralisi completa di tutte le federazioni sportive, che raggruppano nelle proprie file 2 milioni d’inscritti ed interessano tutta la gioventù d’Italia.
«Morini, Cairo».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, di fronte alla riconosciuta impossibilità di stroncare il gioco, illecito e clandestino, che dilaga per le città e le borgate d’Italia, non ritenga urgente e necessario regolare e disciplinare il gioco stesso attraverso opportune provvidenze legislative, che ne convoglino gli eventuali gettiti consentiti a scopi di ricostruzione nazionale.
«Morini, Cairo».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritiene doveroso ed urgente assicurare alla città di Messina il mantenimento dell’arsenale, anche nello studio alacre della possibilità di maggiore e redditizio sviluppo produttivo; tenuto conto che detto arsenale assorbe ben tremila capi-famiglia tra operai, in gran parte specializzati, ed impiegati in una città dove la disoccupazione è grave e persistente, essenzialmente in conseguenza della guerra, che così ingenti danni ha causato, danni che purtroppo permangono.
«Salvatore».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quali provvedimenti intende adottare per la liquidazione dei danni di guerra già regolarmente accertati, in considerazione anche che una liquidazione parziale di tali danni fu effettuata nell’Italia settentrionale.
«Porzio».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non sia il caso di concedere ai reduci, ad integrazione delle liquidazioni già ricevute, un premio in danaro, proporzionato al grado ed agli anni di prigionia, per aiutarli a superare le difficoltà che essi incontrano nel riprendere le loro abituali attività dopo anni e anni d’internamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Matteotti Matteo»
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti sono stati adottati per dar corso al piano di lavoro riguardante il comune di Plataci (Cosenza), e precisamente;
- a) strada rotabile Plataci-Villapiana;
- b) sistemazione del Cimitero;
- c) costruzione di fognature ed impianto di fontane nell’abitato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Zagari».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga conforme ad equità e giustizia consentire che gli eredi degli esattori temporaneamente autorizzati all’esercizio della esattoria resasi vacante per la morte del loro dante causa, i quali non poterono – per malattia, per forza maggiore o per qualsiasi altra causa – sostenere l’esame di abilitazione previsto dall’articolo 14 del decreto legislativo luogotenenziale 18 giugno 1945, n. 424, siano ammessi a sostenere tale esame in una sessione straordinaria o nella prossima sessione ordinaria, senza incorrere nella decadenza dalla esattoria.
«Non sembra infatti giusto che il beneficio, di cui al citato articolo 14, concesso agli eredi degli esattori in riconoscimento dell’opera da loro prestata con senso di responsabilità nei momenti difficili della guerra, debba essere negato con gravi conseguenze economiche a coloro che per malattia o per altra causa di forza maggiore non poterono sostenere l’esame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Valmarana».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno; per conoscere in base a quali disposizioni il prefetto di Siracusa ha proibito al Blocco del Popolo l’affissione di un manifesto sulla imposta patrimoniale.
«Fiorentino».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuno, oltreché giusto, proporre che le norme contenute nel decreto legislativo presidenziale del 13 maggio 1947, n. 500, per lo sfollamento dei sottufficiali dell’Esercito e della Marina, vengano estese a quell’esiguo numero di sottufficiali piloti dell’Aeronautica (circa 40), che dovrebbero essere collocati in congedo al compimento del 45° anno di età e di 20 anni di servizio, in base alle disposizioni della legge 3 febbraio 1938, la cui attuazione porrebbe i predetti sottufficiali piloti – tanto benemeriti della Patria – in condizioni di enorme inferiorità anche per il trattamento economico rispetto ai colleghi delle altre forze armate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Paolucci».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:
1°) le ragioni che lo hanno spinto ad escludere l’antropologia criminale dall’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze nella prossima sessione.
«L’esclusione dell’antropologia criminale dall’elenco pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 7 luglio decorso è tanto più grave, in quanto la disciplina anzidetta ha abbandonato le angustie di precedenti concezioni rigidamente materialiste (del resto sempre rispettabili) per svilupparsi in più ampi indirizzi di ricerca clinica integrale;
2°) se le ragioni di cui trattasi non debbano ricercarsi nell’arbitraria prevenzione di soffocare un poderoso materiale di studio, che ha messo l’Italia al primo posto nel campo della moderna criminologia, primato che si affermò decisamente nel I Congresso internazionale del 1938;
3°) se non ritiene opportuno.– per non mortificare il campo della ricerca scientifica e non deprimere sempre più la preparazione dei giovani universitari con studi unilaterali – di provvedere immediatamente, con decreto suppletivo, a includere l’antropologia criminale nell’elenco delle materie per il conferimento delle libere docenze per la prossima sessione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Montalbano».
«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, sui motivi che determinano il mantenimento del Consorzio nazionale canape, nelle sue attuali struttura e funzioni, sottoponendo tuttora i produttori della canapa a un rigoroso regime vincolistico, che non trova poi riscontro nei successivi stadi di utilizzazione industriale della fibra e di smercio dei prodotti finiti.
«Gli interroganti chiedono se non sia il caso di procedere, se non alla soppressione, almeno a una profonda e radicale riforma del Consorzio che – mentre ne conservi la sana funzione di assicurare, soprattutto ai piccoli produttori, prezzi remunerativi ed equi nei periodi di maggiore offerta e l’essenziale dell’attrezzatura organizzativa con finalità equilibratrici del mercato in eventuali periodi di crisi – lo privi di ogni carattere monopolista e renda ai produttori quella libertà di disposizione del prodotto, che è assicurata per gli altri non strettamente indispensabili alla vita nazionale.
«Gli interroganti chiedono, infine, se non si debba dare la massima pubblicità al bilancio del Consorzio, e in particolare alle condizioni con cui il prodotto viene ceduto alle industrie nazionali e negli scambi con l’estero, anche ad evitare che sorgano sospetti di favolosi profitti e di ingente costo dell’organizzazione consortile, purtroppo alimentati dalla sproporzione tra il prezzo finora pagato ai produttori e quello dei prodotti finiti delle canape. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«De Michele, Numeroso».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica) e il Ministro dell’interno, per conoscere le ragioni per le quali non è stato ancora espletato il concorso bandito con decreto n. 16561, del 20 agosto 1946, del prefetto di Roma, per l’apertura di nuove farmacie.
«Il ritardo nell’espletamento di tale concorso reca grave danno economico e morale alle centinaia di concorrenti che hanno presentato domanda e ciò impedisce che si bandiscano altri concorsi per nuove sedi farmaceutiche resesi necessarie in Roma e nella provincia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Sapienza».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga equo ed opportuno provvedere ad una revisione della posizione degli «assuntori» vincolati da un contratto stipulato in base a capitolato che risale al passato governo fascista e che non risponde a nessuna delle esigenze di vita cui ogni lavoratore ha diritto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bellato».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se è vero che, mentre la proprietà ed il diritto di gestire gli aeroporti locali sono stati rivendicati dai comuni di Milano, Genova, Torino, Bologna e Verona, per l’aeroporto di Capodichino a Napoli si sarebbe presa la decisione di affidarlo, anziché al comune, ad un consorzio che, allo scopo, andrebbe costituendo un’associazione privata denominata «Aeroclub».
«Per sapere, inoltre, se il Ministro è a conoscenza che il detto Aeroclub ha specialmente funzioni di circolo mondano e non rappresenta gli effettivi interessi della massa dei combattenti dell’aria, e se non ritiene utile e opportuno interessare alla soluzione del problema il Sindacato gente dell’aria della Camera del lavoro di Napoli ed altre associazioni di categoria, quale il settore aeronautico del Fronte dell’Uomo Qualunque di Napoli, che da tempo non riescono ad ottenere dal Ministero dell’aeronautica alcuna concessione, che crei possibilità di lavoro ai loro consociati, i quali, pure, hanno, indubbiamente, ben meritato dalla Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Rodinò Mario».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere per quali ragioni, dopo la pubblicazione della prima lista di informatori dell’O.V.R.A., non si proceda alla sollecita pubblicazione di altre quattro liste già compilate dall’apposita Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Matteotti Matteo».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per cui si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 20.45.
Ordine del giorno per le sedute di lunedì
Alle ore 9,30:
- – Interrogazioni.
- – Seguito della discussione sul disegno di legge:
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Alle ore 17:
Seguito della discussione sul disegno di legge:
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).