Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 25 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

Presidente

Russo Perez

Treves

Pecorari

Spano Velio

Cevolotto

Adonnino

Valiani

La seduta comincia alle 17.

VISCHIONI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dellà discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, quando l’altra sera un amico venne a portarmi la notizia che la proposta degli onorevoli Orlando e Giannini non era stata accolta, mi disse: «Siete stati battuti». Io ho risposto: «Sei in errore; è stato battuto il Governo», perché, nella nostra intenzione, la proposta dell’onorevole Orlando, se accettata, sarebbe stato un bene per il Governo. Altri ci hanno detto: «Ma voi, così, fate causa comune con i comunisti!». Io ho risposto: «Anzitutto, non è detto che i comunisti abbiano sempre torto; non è detto che Nenni abbia sempre torto. In secondo luogo è strano – dissi – che questa accusa venga da quelli che hanno collaborato per due, tre anni al Governo coi comunisti, mentre la nostra era una casuale convergenza di idee sopra un voto». Ed ecco che, respinta la proposta Orlando, si è venuti alla discussione, che, naturalmente, involge tutta la politica estera del Governo, e non soltanto di questo, ma specialmente dei Governi precedenti. E io avrei amato che in questa materia si fosse lasciata piena libertà di atteggiamento ai deputati; avrei sperato, avrei osato sperare, che i dirigenti, nella questione che oggi ci occupa e ci preoccupa, avessero avuto il pudore di non chiedere e i gregari la fierezza di non dare alcun affidamento; perché la materia è così alta, è così impegnativa per la nazione, che sarebbe veramente un bene per tutti se a ciascuno fosse lasciata piena libertà di ubbidire, nel voto, soltanto ai dettami della propria coscienza.

Il Governo, secondo noi, quando si è deciso per la firma del Trattato, ed amo ricordare che il solo Gruppo parlamentare che ha tenuto sempre un atteggiamento costante di avversione alla firma e alla ratifica è stato il nostro, e che noi siamo riusciti, con uno strattagemma procedurale, a pronunciare la nostra protesta nella seduta dell’8 febbraio di quest’anno…

CONDORELLI. Io l’ho gridata!

RUSSO PEREZ. …È vero, l’onorevole Condorelli l’ha gridata; ma non siete riusciti parlamentarmente ad esprimerla… Dicevo che il Governo, quando si è deciso per la firma, ha commesso un errore. Ma imperdonabile è il secondo errore: quello di non aver voluto, non dico seguire, ma sentire il parere dell’Assemblea.

Dico perdonabile il primo, perché commesso certamente per amore degli altri, per amore del Paese; ma dichiaro imperdonabile il secondo, perché commesso per amore di sé, per orgoglio, per aver creduto di avere il possesso della verità e di potere quindi sdegnare il parere di questa Assemblea.

Io credo potersi dimostrare storicamente che una parte della durezza del Trattato di pace (chiamiamolo Trattato, tanto per intenderci, ma, quando pronunciamo la parola «Trattato», supponete sempre che ci siano le virgolette da una parte e dall’altra; così eviteremo di pronunciare quella brutta parola: Diktat), è senza dubbio da attribuirsi alla sciagurata guerra perduta, ma una parte (non so se maggiore o minore, ma certo notevole) alla insufficienza dei nostri Governi e specialmente di coloro che hanno tenuto nelle loro mani non capaci le leve della politica estera, cominciando da Badoglio, da Bonomi a De Gasperi, ed anche un pochino a Nenni ed a Sforza, in ordine decrescente, perché probabilmente il demerito segue la cronologia.

L’uomo saggio non sdegna il consiglio, anche dei minori. Io ricordo che esattamente un anno fa in questa Assemblea ebbi l’onore di pronunciare, sulla cobelligeranza, un discorso – il 18 luglio – in cui chiedevo qualche cosa al Governo, e il mio pensiero, sintetizzato anche in un ordine del giorno. Dissi altre cose, che alla pace preliminare promessaci a Potsdam come un privilegio avremmo dovuto rinunciare. Quell’ordine del giorno non fu votato, perché il Governo, nella persona dell’onorevole De Gasperi, disse che l’accettava come raccomandazione. Ma la raccomandazione non fu tenuta in conto e niente fu fatto di quello che io chiedevo che si facesse. E oso dire (non per orgoglio), oso dire che, se mi si fosse ascoltato, forse un gran bene sarebbe venuto all’Italia, come dimostrerò fra poco.

Inquadriamo, intanto, il problema della ratifica.

È facile inquadrarlo. Vi sono tre questioni da discutere. Prima: il Trattato nella sua obiettività. Qui siamo tutti d’accordo. Si tratta di un pessimo Trattato. La parola più gentile e più parlamentare che è stata pronunciata per qualificarlo è stata «iniquo». Quindi, su questo punto, c’è poco da discutere.

Secondo punto del problema: ratificare o non ratificare E qui le correnti sono due: una grande maggioranza è per la ratifica; un’infima minoranza è per la non ratifica.

Ma vi è un terzo problema che è il più importante: ratificare oggi? Perché ratificare oggi? Amici, io potrei essere un po’ orgoglioso della seconda formula escogitata dal Governo, quella della «esecuzione», perché fui io a proporla nella tornata della Commissione dei Trattati, del giorno 8. Però io dicevo: questa deliberazione noi dovremo prenderla quando il momento sarà venuto, non adesso; perché, se prendiamo subito la nostra decisione, sia pur rimandandone a quel tempo l’effettiva attuazione, noi comunque oggi facciamo una manifestazione di volontà. È perfettamente la stessa cosa. O in forma di ratifica o in forma di incarico dato al Governo di attuare più tardi quanto noi oggi avremo deciso, una nostra manifestazione di volontà attuale ci sarà stata sempre. Quindi il problema è vedere se sia necessario, o anche semplicemente opportuno, che tale manifestazione sia fatta. Poi, come problema connesso, vi è tutta la politica estera del Governo.

Vi sono state recentemente tre riunioni alla Commissione degli Esteri. Essendo non più giovane, penso spesso alla possibilità dell’errore: del mio errore, prima che degli errori altrui, e, quindi, ho temuto di essermi troppo appassionato alla mia tesi. Vi assicuro, onorevoli colleghi, che da 15 giorni io vado cercando affannosamente – vorrei dire spasmodicamente – gli argomenti per convincermi che ho torto; e, naturalmente, questi argomenti li ho chiesti anzitutto alla persona più indicata per darli: il Ministro degli esteri, conte Sforza. Nelle riunioni della Commissione dei Trattati io e gli altri colleghi abbiamo chiesto più volte al Ministro che ci spiegasse perché dobbiamo procedere alla ratifica oggi, perché l’Italia deve fare oggi questa manifestazione di volontà; che è enormemente impegnativa, come vedremo in seguito, onorevoli colleghi. Gli argomenti sono stati questi. In primo luogo, sia pure in forma di suggerimento garbato, Bevin e Bidault hanno accennato all’opportunità della ratifica. Recentemente, però, il signor Bevin ha detto così (lo ha riportato la stampa italiana, credo nei giornali di ieri mattina): «Personalmente io penso che, avendo firmato il Trattato, esso debba essere ratificato, perché possiamo metterlo in atto». Questo avrebbe detto Bevin: niente altro che questo. Dunque, onorevoli colleghi, è storicamente certo che pressioni vere e proprie non ce ne sono state né da parte della Francia, né da parte dell’Inghilterra, né tanto meno, quello che più importa, da parte dell’America. V’è stato uno scambio, direi, di cortesie; noi saremmo lieti che voi firmaste. Orbene, per ricambiare una cortesia, si può regalare una copia in bronzo della lupa capitolina, anche fatta da un buon artista, ma non firmare un trattato di quel genere.

Altri argomenti: gli accordi economici e commerciali conclusi con varie potenze, con l’Inghilterra, con la Cecoslovacchia, potrebbero cadere. Pericolo di perdere garanzie per certe categorie di beni italiani all’estero. La Jugoslavia, l’Albania, la Bulgaria, la Grecia potrebbero chiedere un aumento della cifra delle riparazioni.

Amici miei, io vi prego di esaminare se vi sia uno solo di questi argomenti, il quale, pur essendo utile a sostenere la tesi che in un dato momento occorrerà ratificare il Trattato, serva a dimostrare l’opportunità di ratificarlo oggi. Notate che, tranne, forse, per gli accordi con l’Inghilterra, per gli altri accordi non c’è mai stata alcuna subordinazione alla ratifica. Ma, comunque, questa reazione delle altre Potenze, quando potrebbe venire? Evidentemente soltanto dopo che le quattro Grandi Potenze avessero ratificato e avessero depositato a Parigi la loro ratifica.

Poi vi è quell’altra terribile minaccia che ieri è stata tanto accentuata dall’onorevole Ministro Sforza: noi perderemo al possibilità di entrare in quel paradiso, in quel regno delle fate che è l’O.N.U, Organizzazione delle Nazioni Unite. La domanda è in corso, ci si dice: se la nostra ratifica non sarà intervenuta, noi, nonostante abbiamo fatto la domanda, non potremo entrare nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma il conte Sforza prevede la facile obiezione che, senza la ratifica della Russia, non potremmo entrarvi ugualmente, e allora, per consolarci, ci dice che, in base alle informazioni che egli possiede, la ratifica russa potrebbe aversi nei prossimi giorni, al che anche un bambino risponderebbe: e allora aspettiamo lo scorrere dei prossimi giorni, cosicché, invece di affidarci a quel futuro incerto, che è sempre sulle ginocchia di Giove, noi vedremo la realtà.

Dunque: ingresso all’O.N.U. Io personalmente – e in ciò credo di avere dalla mia parte qualcuno dei maggiori, dei vecchi parlamentari, che onorano, non soltanto con la loro canizie, ma con il loro senno, questa Assemblea – penso che, di questo ingresso all’O.N.U, non ce ne importa niente o, perlomeno, molto poco. Ce ne importerebbe molto se non ci fosse il diritto di veto delle Grandi Potenze. Ma, onorevoli colleghi, col diritto di veto delle Grandi Potenze, che cosa significa l’appartenenza all’O.N.U? Anzitutto, anche ammessi in quel nobile consesso, noi saremmo considerati come l’ultima delle Potenze, e non soltanto in ordine cronologico. Che cosa avrebbe di diverso la nostra sorte da quella dei vassalli, che, nel medioevo, dovevano apprestare al signore un certo numero di fanti e cavalieri onde aiutarlo nelle sue imprese ed in cambio essere dal signore protetti contro la reazione dei più deboli da loro spogliati?! Ma noi non abbiamo spogliato nessuno. Sono gli altri che tengono le nostre misere spoglie, e le conserveranno all’ombra dei sacri ideali ridicolizzati e oltraggiati da questa rediviva Lega delle Nazioni, alla quale non so come abbiano potuto brindare in buona fede gli uomini, se non «grandi» certo notevoli, che l’hanno tenuta a battesimo.

Comunque, su questo risponde anche Don Luigi Sturzo. Egli ha detto: voi mi parlate di revisione, che potremmo ottenere attraverso l’O.N.U. Ebbene; se noi chiediamo questa revisione prima di essere entrati nell’O.N.U, la Russia potrebbe opporsi. Se la chiediamo dopo, non soltanto la Russia, ma anche la Cina può opporsi. Il diritto di veto è stato già esercitato in parecchie occasioni e noi chiederemmo sempre invano.

Vi è un altro argomento, che si fa a favore della ratifica, che è il più appariscente di tutti. E questo argomento il popolo lo sente. Uscire dal provvisorio per entrare nel definitivo; uscire dal regime armistiziale per entrare nel regime di pace. Se fosse vero! Ma, amici miei, con la nostra manifestazione di volontà questa allettante prospettiva non è affatto avvicinata. Notate questo, che, anche se noi non ratificassimo domani; se noi, quando fossero già depositate a Parigi le ratifiche delle quattro grandi Potenze, ci rifiutassimo, in forma garbata, come propongo io, non offensiva, né minacciosa, e manifestando la nostra decisione di non opporci in alcun modo alla esecuzione di esso, ci rifiutassimo, dico, di ratificarlo, anche in quel caso non avremmo fatto alcunché per prolungare il regime armistiziale, perché esso automaticamente, quando siano depositate le ratifiche delle quattro Grandi Potenze, cessa ed entra in vigore il regime di pace.

È questo il punto che non è stato ancora tenuto presente quando ci si parla dei pericoli della non ratifica. L’argomento reggerebbe soltanto se fosse detto nel Trattato di pace, in quel famoso articolo 90, che tutti conosciamo: Se l’Italia non ratifica, vi saranno delle sanzioni, per esempio, vi sarà un regime armistiziale inasprito. Ma questo non è detto. La nostra ratifica è facoltativa; e questo è stato fatto di proposito. E dirò che l’unico passo del Trattato, in cui le Potenze Alleate hanno mostrato di rispettarci ancora, è questo. Probabilmente l’hanno fatto perché nessun russo, nessun francese, nessun inglese avrebbe ratificato un Trattato di quel genere. Essi ci hanno voluto lasciare la possibilità di questa piccola ribellione formale senza conseguenze. E se noi, in tali condizioni, ratificassimo, ci porremmo al disotto del giudizio morale che di noi hanno fatto gli Alleati.

Quando ci si dice: ratifichiamo, non domani, ma subito, per uscire dal provvisorio, si dice – per essere cortesi – per lo meno una cosa inesatta, perché noi, anche dando subito la nostra approvazione al Trattato, non usciremo dal regime armistiziale nel quale ci troviamo.

Poi vi è qualche altra cosa detta dal conte Sforza in cui non posso concordare, e me ne dispiace. Io vorrei con quell’egregio gentiluomo essere sempre d’accordo. E così obbligante nelle sue maniere, che si vorrebbe sempre contentarlo. Ma sono sempre in disaccordo.

Ci ha detto questo: Vi è una ostilità della Francia e dell’Inghilterra a qualunque proposta di revisione, se prima non abbiamo ratificato.

A questo argomento, onorevoli colleghi, risponderò più tardi, quando parlerò della ragione che hanno gli italiani di non credere più alle promesse e di volere veramente iniziare una politica degna del grande segretario fiorentino. Non siamo stati, sinora, altro che il trastullo delle altre Nazioni.

Il machiavellismo lo hanno imparato a memoria gli altri e lo hanno applicato nel Trattato di pace, che ci si chiama a ratificare.

Un solo argomento ci si fece in Commissione dei trattati per dimostrare la necessità dell’immediata ratifica.

Permettetemi che apra una parentesi. Il Governo ha già dimostrato che la ratifica immediata non era necessaria, perché ha convertito la vecchia formula nella seguente «l’Assemblea autorizza il Governo a ratificare, quando sarà venuto il momento». Quindi, il Ministro degli esteri ci ha implicitamente dimostrato che chiedeva, esponendo a gravi pericoli la nostra Nazione, qualcosa che non era necessario accordare. Chiudiamo la parentesi.

L’argomento è questo: noi saremmo stati ammessi in condizioni di parità a Parigi soltanto se avessimo ratificato. Argomento appariscente. Il pensiero di presentarsi veramente pari fra pari in un Congresso internazionale era qualcosa che poteva commuovere le viscere di noi altri italiani, ormai usi ad essere trattati come l’ultima delle Nazioni.

Ha un’importanza questo convegno di Parigi e quegli altri che verranno? Sicuramente sì. La nostra partecipazione al Congresso di Parigi sicuramente è stata un bene. Il rappresentante dell’Italia è stato ammesso a far parte di quello che potremmo chiamare l’esecutivo di questo aereo piano Marshall; ciò è stato un bene. E facciamo parte anche – mi pare – delle Commissioni dell’agricoltura e dei combustibili. Sì, sono delle buone cose, ma non bisogna esagerare.

Che cos’è il piano Marshall? L’onorevole Nitti, tanto caustico, ha detto che neanche Marshall lo sa. E, in fondo – non so da chi prendo a prestito questa frase – il detto: «aiutati che io ti aiuto». L’America, prima di continuare ad aiutarci, vuole che noi ci mettiamo d’accordo, che stabiliamo di scambiarci le nostre stesse risorse e che presentiamo, quindi, un piano concreto di aiuti integrativi.

Amici miei, mettersi d’accordo! Dunque, la base di questo futuro aiuto sarà l’accordo delle nazioni europee. Ma, se non sono d’accordo, neanche in questo momento, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, per esempio, a proposito della Germania, a proposito della sistemazione della Ruhr?! Non sono d’accordo neanche le tre Potenze vincitrici! E dovremmo metterci d’accordo tutti!

Non soltanto questo. Onorevoli colleghi, la politica, specialmente la politica estera – è una frase dell’onorevole Sforza – non è governata dai sentimenti e dai risentimenti; è governata dagli interessi.

Perché ci hanno voluto nel Congresso di Parigi per il piano Marshall? Perché finalmente il loro cuore si è intenerito? Credete che ci sia tanta gente che piange in Francia e, specialmente, in Inghilterra per la nostra sorte? Sapete che gli inglesi sono notoriamente così sensibili: hanno perfino abolito il tiro al piccione.

In America, sì. Bisogna dirlo alto e forte: se non fosse stato per gli aiuti delle nobili Nazioni americane e, soprattutto, degli Stati Uniti, quanti bambini in Italia, in questo dopoguerra, sarebbero morti di fame e quanti vecchi non avrebbero avuto di che coprirsi! (Applausi a destra).

Dunque, ci hanno invitato non soltanto per simpatia verso di noi, ma – diciamolo pure – perché hanno un po’ bisogno di noi.

Guardate la cartina geografica, intelligentissima, pubblicata giorni fa dal Giornale d’Italia e vedete se è possibile creare ed applicare un piano Marshall senza la Spagna, che è già esclusa, e facendo a meno, lasciatemelo dire, senza che ciò abbia un significato politico, facendo a meno dell’asse Roma-Berlino, senza l’Italia e senza la Germania. Difatti adesso si dice che la somma di venti miliardi – che era stata promessa o, per lo meno, annunciata – sarebbe stata ridotta a 10 miliardi e di questi 10 miliardi il 40 per cento sarebbe destinato alla Germania ed il 60 per cento a tutte le altre nazioni. Ma la Germania non ha un conte Sforza come Ministro degli esteri, che deve andare a Parigi, né un Trattato di pace da ratificare, e tuttavia si è sentito il bisogno di aiutare la Germania, perché, amici miei, il mondo è diventato troppo piccolo e, se noi abbiamo bisogno degli altri, è altrettanto vero che gli altri hanno bisogno di noi. C’è qualcosa, che ha detto il Ministro Togni – non ho qui l’appunto – recentemente, affermando che il nostro apporto, a questo che siamo ormai usi a chiamare «piano Marshall», potrebbe essere costituito, per quanto riguarda l’Italia, dalla nostra esuberante mano d’opera ed anche dai nostri impianti industriali che, se riforniti opportunamente di materie prime, potrebbero dare il doppio della produzione che danno ora e che è già abbondante.

E il signor Harriman, Ministro del commercio degli Stati Uniti d’America, ha parlato anch’egli della enorme importanza che nel piano Marshall avrebbero l’Italia e la Germania. Ecco perché, onorevoli colleghi, la partecipazione al Congresso di Parigi è stata certamente un bene, ma che sia una cosa enormemente importante noi certamente non possiamo dirlo. Comunque siamo stati ammessi a Parigi, senza che ci fosse la ratifica; e dobbiamo dire che il Ministro degli esteri ha errato – non voglio dire che ci ha ingannati, usando una parola forte, né che si è ingannato – dichiarando che fosse necessaria la nostra ratifica immediata perché intervenissimo al Congresso di Parigi.

Una voce a sinistra. Meglio la speranza…

RUSSO PEREZ. Sì è vero, la speranza è l’ultima a lasciarci, ma se, invece della speranza, potessimo avere delle certezze, sarebbe anche meglio! E noi non abbiamo mai fatto nulla per avere cose concrete e – questo è il nocciolo della mia critica – ci siamo sempre pasciuti di speranze e nulla più. Abbiamo dato la cobelligeranza, abbiamo rinunciato al Dodecanneso e c’è stata la rinuncia allo statuto di Tunisi, senza nessuna contropartita, e vogliamo continuare a far così: mentre crediamo di non aver più carte per il nostro giuoco, il destino ce ne offre alcune. (Rumori al centro). Giuochiamole, amici miei, non buttiamole via, non regaliamole all’avversario, e se, alla fine, saremo costretti a dire: nutriamoci di speranze, ci nutriremo di speranze.

Sul problema della revisione, nella relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi, è detto:

«…segni non dubbi, che è lecito rilevare in manifestazioni ripetute ed autorevoli, consentono di confidare in una migliore giustizia per l’Italia». Però, quando poi si scorre ancora la relazione, si trova quest’altro passo: «Il ratificare – o il promettere la ratifica, che è lo stesso nella nuova forma –, vale anche a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».

Ed allora, dove sono i segni non dubbi? Se ci fossero i segni non dubbi, non si reggerebbe il secondo periodo, cioè che i patteggiamenti si sono rinnovati senza di noi e contro di noi.

L’amico mi invita alla speranza. Entriamo qui nel campo di quella che l’acuto spirito di Vittorio Emanuele Orlando, alla Commissione dei Trattati, chiamò «mistica». Ebbene, nessuno vi può impedire di avere fede e fiducia, e di questa fede si sente una traccia anche nella relazione dell’onorevole Gronchi, che ad un certo punto esprime la speranza che «in un mondo che si indirizza ad attuare, in una sintesi più alta ed umana, le concezioni universali del cristianesimo (questo mondo che voi vedete, che è il mondo della bomba atomica, quell’ordigno per cui il male, che, sino allora, per quanto grande, era umano, è diventato diabolico) …i problemi che tormentano il nostro spirito, di fronte alla iniquità del Trattato, dovranno trovare inevitabilmente una ben diversa soluzione». Onorevoli colleghi, voi sapete se io non sia tra quelli che anelano l’avvento di quel giorno da noi tutti cristiani sognato, in cui regnerà la pace fra gli uomini di buona volontà; ma ditemi anche se si possano oggi riscontrare nel mondo i segni di questa rinascita cristiana. Bisogna dire allora che l’onorevole Gronchi somiglia molto a Candido, che fu, nella fantasia di Voltaire, così ottimista da vedere il bene anche nell’essere impiccato, squartato e condannato a remare nelle galere!

Convinciamoci di una cosa, onorevoli colleghi: la politica si fa per interesse e non per sentimento. Un uomo può essere un martire, un santo, un eroe, ma uno Stato non è mai eroico, non è mai altruistico, ed è sempre governato dagli interessi.

La revisione verrà se e quando saranno nate nel mondo le condizioni storiche e politiche perché la revisione avvenga, quando cioè sarà nato l’interesse della controparte ad accordare la revisione. Ed allora, ammissione all’O.N.U. o esclusione, ratifica o non ratifica, la revisione avverrà. In caso diverso, questa revisione mai non avverrà.

Una voce a sinistra. Vinceremo! (Si ride).

RUSSO PEREZ. Come vedete, ragioni per cui possa apparire, non dico necessaria, ma semplicemente opportuna, la ratifica del Trattato, non ve ne sono.

Ma è opportuno dare uno sguardo fugace a questo Trattato. È opportuno darlo, perché gli italiani sono di memoria labile e perché si è creata una situazione di spirito per cui molti credono che il Trattato sia una cosa finita, già scontata, già sofferta, mentre implica ancora tanti dolori, per tanti anni di là da venire.

Inutile esaminarlo dettagliatamente. Ormai tutti lo conosciamo quasi a memoria ed ognuno, secondo la sua sensibilità e la sua particolare forma mentis, avrà notato piuttosto la crudezza di una che di un’altra clausola di esso. Ma è bene che io guardi a qualcuna di queste clausole.

Vi sono le mutilazioni occidentali, di cui si è parlato ieri, cioè Briga e Tenda e il Moncenisio. Noi non vogliamo mandare l’onorevole Pacciardi alla conquista del Moncenisio (egli ha detto che vincerà)… Noi non vogliamo affidare la revisione di questi problemi, mai più, alla sorte delle armi. Noi diciamo soltanto questo: il torto fatto alla Francia nel 1940 sicuramente fu grave, ma i francesi avrebbero dovuto pensare che solo un italiano lo volle: il morto senza sepoltura; 40 milioni di italiani dissentirono. Avrebbero dovuto ricordarsi, piuttosto, ritornando un poco indietro nella storia, che 40 milioni di italiani nel 1915 resero impossibile, col loro sentimento, l’aggressione della Francia, e per la nostra neutralità fu possibile la vittoria della Marna. Con gli amici francesi abbiamo un’arte e una storia in comune; le arti francesi ammiriamo come arti nostre; noi ammiriamo le glorie di Napoleone, non perché egli fosse un italiano, ma perché il nostro spirito è anche francese.

Noi siamo certi che quando un po’ di comprensione ci sarà tra queste due Nazioni – perché le nostre controversie sono originate più da una somiglianza di carattere che da dissonanze – quando questa comprensione sarà venuta, anche le questioni di Briga e Tenda potranno trovare la loro soluzione.

Ma ben diversa è la situazione che riguarda il confine orientale, questione della quale bisogna parlare con un notevole senso di misura.

Onorevoli colleghi, tutti noi della mia generazione, che abbiamo vissuto la nostra fanciullezza, la nostra infanzia e la nostra gioventù sognando la liberazione di Trieste, tutti noi che per ricongiungerla alla madre Patria abbiamo versato il nostro sangue, non possiamo, senza rinnegare i 600 mila fratelli morti, ratificare quelle clausole del Trattato che ci privano di Trieste italiana.

Noi non vogliamo minacciare alcuno (del resto la nostra minaccia oggi farebbe semplicemente sorridere), e non minacciamo soprattutto perché non intendiamo affidare alla forza le nostre rivendicazioni; però la soluzione che è stata data alle questioni di Trieste, Fiume e Zara (e a quelle generose ed infelici popolazioni mando il mio saluto a nome del nostro Gruppo, come lo mando ai nostri fratelli esuli da Pola) non può essere accettata da noi. Noi non possiamo che negare la ratifica a queste disposizioni del Trattato. Certamente bisogna trovare una via per intenderci. Voi ricordate che, alla Commissione dei Trattati, quando l’onorevole Togliatti fece una non richiesta gita in Jugoslavia e tornò con una serie di proposte, qualcuno presentò un ordine del giorno di deplorazione per quanto aveva fatto il leader comunista.

Ma noi non abbiamo voluto approvare quell’ordine del giorno, perché il passo dell’onorevole Togliatti, per quanto personale, per quanto di dubbia finalità, lasciava uno spiraglio aperto verso la possibilità di una intesa fra i due popoli; e se un giorno noi potessimo intenderci – e per intenderci non è necessario fare, come fecero dei colleghi, degli elogi al maresciallo Tito, che sarà un grande soldato, ma lo sarà per la Jugoslavia – e ciò va detto alla Skupcina – mentre qui, all’Assemblea Costituente Italiana, vanno ricordati i nostri 50 generali caduti alla testa delle nostre gloriose truppe – se un giorno potremo intenderci con la Jugoslavia, sarà certamente un bene, così come è stato a suo tempo fatto con gli alto-atesini per mezzo dell’accordo De Gasperi-Grüber; se un giorno gli italiani in Jugoslavia si potessero sentire come in casa loro e gli Jugoslavi in Italia si potessero sentire anch’essi in casa loro, la gravissima controversia sarebbe in molta parte appianata. Ma è possibile ciò?

Bisognerebbe avere fede nella leale esecuzione dei patti; bisognerebbe aver fede nello spirito con cui questi patti dovrebbero essere fatti ed applicati. Ma l’esodo delle nostre popolazioni non ci dà molto affidamento su questo! Altro non voglio dire.

Speriamo che un giorno, poiché Iddio ci ha creati contermini, poiché sventuratamente dobbiamo vivere a contatto di gomito, speriamo – e verso questa meta vorrei si avviasse la politica estera del nostro Paese – speriamo che si possa creare una distensione fra i due popoli e che essi possano vivere in pace, dimenticando ogni rivalità.

Vi è una piccola questione che vorrei ricordare. Sembra una piccola questione; ma quando si dice «ratificare il Trattato», bisogna pur ricordare la questione dell’oro, del vile metallo, quello che S. Francesco chiamava lo «sterco del demonio» (Commenti).

Secondo l’articolo 78, dobbiamo restituire l’oro di cui eventualmente avessimo spogliato le altre nazioni. Ma è detto in questo articolo 78 che ciò non implica un corrispettivo dovere da parte delle potenze alleate, le quali, quindi, non devono restituirci quelle povere settanta tonnellate d’oro che ci sono state rubate dai tedeschi e che sono state rinvenute: questo poco oro non deve esserci restituito.

Amici miei, come si può ratificare una norma di questo genere? Come si potrebbe reagire? Un giornalista di spirito potrebbe proporre una nuova raccolta dell’oro, per racimolarne ancora qualche grammo nei taschini dei nostri panciotti, al polso delle nostre donne, e fabbricarne tre o quattro lingotti da un chilo da offrire in omaggio ai generosi inventori di questa clausola del Trattato. Ma non potendo rispondere così, rispondiamo almeno col rifiuto del nostro consenso.

C’è, poi, la questione della flotta.

Voi sapete, amici miei, ed è stato ricordato, che la nostra flotta e il nostro esercito furono gloriosi: ma, mentre l’esercito ebbe vittorie e sconfitte, la nostra flotta non è stata mai battuta. Voi sapete che, obbedendo all’ordine del Re, con un grande senso di abnegazione, ma con non meno grande dolore, la nostra flotta il 23 settembre invertì rotta e nemico e si consegnò a Malta. In base all’accordo De Courten-Cunningham, negoziato all’infuori dell’armistizio, fu stabilito che i nostri equipaggi, in uno Stato non più sovrano, conservassero la propria sovranità sugli scafi; le nostre navi continuarono a combattere con la bandiera tricolore sui loro pennoni. Qualche giorno dopo ci fu il cosiddetto «lungo armistizio» del 29 settembre.

Evidentemente, quando l’esercito ha consegnato le armi perché non può più combattere ed ha, all’uopo, firmato un armistizio, tutte quelle altre norme che possono venire in seguito dettate dalle potenze vincitrici non possono avere né il sapore né il contenuto giuridico e morale di un armistizio, ma costituiscono un’imposizione. Di modo che quelle aggiunte del 29 settembre che seguono il «breve armistizio» e vanno sotto il nome di «lungo armistizio» non sono un «lungo armistizio» ma una grossa prepotenza. Le nostre navi non possono essere considerate bottino di guerra, non debbono essere consegnate alle potenze vincitrici; e bene ha fatto l’Ammiraglio De Courten a dimettersi da Capo di Stato Maggiore della marina in segno di protesta.

Pensate che vi sono delle norme che offendono, più dei nostri interessi, il nostro spirito, la nostra sensibilità, la nostra dignità tranne quella dell’onorevole Pacciardi, poiché egli, come vedo, sorride.

Voi ricordate, perché conoscete il Trattato, che certe navi che gli Alleati non vogliono per loro e non vogliono che noi conserviamo, devono essere affondate; e le navi affondate, qualora costituiscano ostacolo alla navigazione, devono essere ripescate e riaffondate di nuovo in fondali da 100 braccia, invece di essere trasformate, ad esempio, come proponeva una madre italiana, in carrozzelle per bambini, apparecchi ortopedici ed aratri. E noi dovremmo ratificare questo Trattato; e noi dovremmo ratificarlo in anticipo!

Vi è poi anche il preambolo, che è offensivo per il popolo italiano: il preambolo dove si parla della guerra di aggressione. Lo nota pure, del resto, l’onorevole Sforza nella sua relazione. Che cosa hanno guadagnato i nostri uomini politici a cospargersi il capo di cenere e a riconoscere le gravi colpe del popolo italiano nella guerra di aggressione?

Entriamo qui in un campo difficile. Che cosa è stata la guerra della Russia alla Finlandia? Molti mesi prima che l’America venisse attaccata, F.D. Roosevelt annunciò che essa sarebbe divenuta l’«arsenale della democrazia», e subito dopo fece approvare la legge «prestiti ed affitti».

Nessun allarme, onorevole Sforza, nessun allarme, onorevoli colleghi; io non sono un diplomatico di carriera, ma so quello che va detto e quello che non va detto. Non sono parole mie, queste: sono parole del sottosegretario di Stato americano Byrnes. Del resto, se la nostra soltanto, di tutte le guerre combattute dai tempi omerici ad oggi, fosse stata la guerra tipica di aggressione, che vantaggio avevano da ritrarre i nostri governanti dal cospargersi il capo di cenere e riconoscere le nostre colpe? Essi pensavano forse che ne sarebbe venuto lustro all’Italia antifascista, oppure che se ne sarebbero sollevati in gloria la loro incolpevole personalità o i loro partiti?

Errore, errore! Pur ieri, il Ministro Byrnes rispondeva – ed è un nostro amico, perché gli americani sono nostri amici – pur ieri dunque il Ministro Byrnes rispondeva all’onorevole De Gasperi: il popolo italiano deve convincersi che deve pagare per la guerra fascista. E non era facile prevedere questa obiezione? E allora sarebbe stato più nobile, oltreché più intelligente, non insistere sul tema delle nostre colpe, non assumere l’atteggiamento del colpevole pentito, pronto a ogni riconoscimento, pronto a ogni rinunzia, come si è fatto per le colonie.

Prima ancora infatti che ce le togliessero, alcuni uomini politici, come l’onorevole Nenni ed altri, dissero che le colonie costituiscono un peso per noi. Più tardi però l’onorevole Nenni ha ripiegato in un’altra trincea… egli non era più Ministro degli esteri… ma può essere stata un’evoluzione del suo spirito. Nel Congresso di Firenze non si provò a ripetere che le colonie non ci sono necessarie, ma disse che l’istituto coloniale è un istituto in declino e che la nostra rinuncia è destinata a precedere analoghe rinunce da parte dei vincitori.

Onorevoli colleghi, noi siamo qui nel campo delle speranze. Il regime coloniale è in declino? Sarà: ma il tramonto di questo regime non è come quello del sole che avviene in ventiquattr’ore; esso può avvenire anche in ventiquattro anni e in duecentoquaranta anni; e intanto è bene che chi ha molte colonie ne ceda qualcuna a chi non ne ha, a noi che dobbiamo, in un territorio che può appena nutrire trenta milioni di abitanti, nutrirne invece quarantacinque.

Noi abbiamo bisogno imprescindibile delle nostre colonie. E del resto ci sono state promesse quelle prefasciste. Che cosa vogliono? Che impazziamo nel nostro angusto territorio? O vogliono che sbattiamo la testa nei muri dei nostri confini, a rischio di rompercela o di romperla anche agli altri?

Voci al centro. No!

RUSSO PEREZ. Le nostre colonie ci sono necessarie e questo bisognava pur dirlo. E che poi la nostra rinuncia preceda nel tempo analoghe rinunce dei vincitori mi sembra assai difficile. Comunque, chi ha vita lunga, aspetterà che gli inglesi abbandonino le loro colonie e la nostra Tobruk.

Questo, dunque, è il Trattato che noi dovremmo ratificare!

Ma vi sono due altre disposizioni su cui io faccio perno e su cui richiamo la vostra attenzione, perché è un punto basilare del problema che ci occupa: sono gli articoli 77 (n. 4) e 18. Me ne occuperò più tardi; ma ricordate questi due articoli: sono quelli per cui, mentre da una parte noi rinunciamo a tutti i nostri diritti in confronto della Germania, dall’altro ci obblighiamo a riconoscere come validi i trattati che le potenze Alleate e Associate faranno domani con quella Nazione.

Ma finora non vi ho parlato dell’argomento principe contro la ratifica intempestiva: argomento che io trattai nella tornata della Commissione degli esteri del giorno 8, e che poi ebbi l’orgoglio di vedere ripreso in pieno dal Maestro di diritto costituzionale e di vita parlamentare, Vittorio Emanuele Orlando. Che cosa ci può giustificare dinanzi alla nostra coscienza, ai nostri figli, alla storia? La coazione, l’aver agito in stato di necessità: questo solo può giustificarci. Ma, amici miei, noi non saremmo in stato di coazione, ma soltanto in stato di opportunità, se mai, quando i Quattro avessero ratificato e depositato la loro ratifica, perché – come vi ho ricordato poc’anzi – la nostra ratifica non è elemento imprescindibile per l’esecutività del Trattato; il Trattato viene eseguito lo stesso. Quindi, in quella occasione, noi ci troveremmo in uno stato di opportunità. Ma, anche se vogliamo chiamarlo di necessità, il momento non è ancora venuto. Ora, se viceversa noi oggi ratifichiamo il Trattato, oppure facciamo questa manifestazione di volontà – che è la stessa cosa – cioè deleghiamo il Governo a ratificare il trattato, noi non ci siamo trovati in stato di necessità; noi siamo stati liberi di regolare la nostra condotta, e quindi la ratifica oggi, la ratifica intempestiva, significa adesione della coscienza del popolo italiano a questo trattato, che tutti siamo concordi nel ritenere iniquo. Qualche cosa di simile dice l’onorevole Gronchi nella sua relazione.

In un altro punto siamo stati tutti concordi, ed è nella necessità di una protesta e che la protesta sia solenne.

Ora, la nostra protesta, fatta oggi, non solenne sarebbe, ma addirittura poco seria, perché noi protesteremmo contro un atto che liberamente compiamo, che nessuno ci obbliga a compiere. Essa sarebbe fuori di luogo, vana, inutile.

Un altro argomento è stato portato ieri dall’onorevole Sforza: voi che non volete ratificare – ci ha detto – sperate forse, per avere una revisione, in una futura conflagrazione mondiale? Ma neanche per sogno! Su questo punto siamo tutti d’accordo. Gli è, onorevole Sforza, che noi siamo del parere che questo atto nostro, fatto oggi, invece di essere l’atto più neutrale – come si espresse l’onorevole De Gasperi – sarebbe l’atto più partigiano dal punto di vista internazionale e più impegnativo (Commenti al centro) che si poteva fare oggi. Ditemi, perché è sollecitata, sia pure in forma garbata, la nostra adesione, la nostra ratifica? Perché il mondo sventuratamente è diviso in due blocchi.

Sembra che siamo d’accordo anche in questo: che non bisogna schierarsi né con gli uni né con gli altri. Fare la politica equidistante – lo so – è molto difficile, perché il blocco di ferro che sta fra l’incudine e il martello vuole essere equidistante, ma finisce col prendere e le martellate del fabbro e le sollecitazioni dell’incudine.

Ma noi dobbiamo cercare di far sì che la nostra neutralità, in una eventuale futura conflagrazione europea (che deprechiamo con tutte le nostre forze), possa esserci garantita. Ora, se noi ratificheremo il Trattato quando i Quattro avranno depositato le loro firme, la nostra ratifica e la nostra adesione non avranno il carattere impegnativo che avrebbero oggi. Ratificare in questo momento significherebbe scegliere la nostra via, subito e liberamente. E, se la nostra via saremo un giorno costretti a scegliere, sarà bene negoziare il dono che di noi stessi faremo. Se il destino ci dà qualche carta, negoziamola. Cominciamo a dire: voi volete che ratifichiamo? Ma è proprio necessario, oggi, che vi consegniamo le nostre corazzate, che affondiamo i nostri sommergibili, che rinunciamo a tutte le nostre colonie? Si potrà fare qualche cosa in questo senso.

E torniamo all’articolo 78. Onorevoli colleghi, nel mio discorso del 18 luglio io dicevo: rinunciamo al privilegio di Potsdam. Che cosa significa la pace preliminare? A Potsdam ci si promise una pace di giustizia. Quando ci siamo accorti che alla pace di giustizia veniva sostituita una pace duramente punitiva, noi dovevamo rinunciare a questo privilegio e dire: vogliamo trattare insieme e la pace con voi, potenze vincitrici, e la pace con la Germania sconfitta: anche per avere una visione unitaria delle sorti d’Europa e per potere in conformità decidere il nostro atteggiamento.

Si può rispondere: non ci avrebbero ascoltato!

Ma c’è la contro risposta. Voi, onorevole De Gasperi, a Parigi, avete sempre, con senso diplomatico, subordinalo le vostre proposte e le vostre accettazioni all’accettazione dell’Assemblea Costituente. Qualunque proposta, che faceva la nostra delegazione (ma non direttamente, perché non era consentito: si faceva attraverso delegazioni di Stati vincitori, nell’orbita delle Nazioni Associate, delle Nazioni Unite) veniva sempre subordinata all’approvazione dell’Assemblea Costituente. Ebbene, per ciò che riguardava le colonie prefasciste, per ciò che riguardava il Trattato di Pace con la Germania, voi non avreste dovuto fare nessuna controproposta. Avreste dovuto dire: io vi avverto che a queste condizioni il Trattato non sarà mai né firmato né ratificato. (Commenti).

Non sarà mai ratificato! E avevamo tutte le ragioni, e nessuno che abbia senno e saggezza può dissentire da quello che io dico.

Amici miei, qual è la sola, la vera giustificazione delle Potenze che ci hanno imposto questo trattato? «Siamo i vincitori!». La spada di Brenno! Ma, riguardo alla nostra cobelligeranza, questo argomento non può essere usato. Quindi, se noi avessimo detto: siamo pronti ad accettare il Trattato in tutte le sue clausole, tranne in quelle che vogliono regolare i nostri rapporti con la Germania, perché nei confronti di quella non siamo gli sconfitti e quindi non avete il diritto d’imporci di rinunciare ai nostri crediti e alle nostre rivendicazioni nei suoi confronti, allora può darsi che il Trattato si sarebbe maturato in una nuova atmosfera.

Perché, ricordate: in maggio dell’anno scorso, come ci fu detto alla Commissione dei Trattati, Trieste era nostra, era sicura. Si discuteva solo di Pola; e quando i nostri rappresentanti, quando l’onorevole De Gasperi insisteva patriotticamente per Pola, gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Pola?

Più tardi gli si rispose: Volete che facciamo la guerra per Trieste?

Perché era quello il periodo in cui l’America riteneva opportuno d’incassare, in cui l’Inghilterra e l’America pensavano che una politica di cessioni, una politica dolce in confronto alla Russia, avrebbe potuto finalmente portare la distensione, avrebbe potuto finalmente interrompere le pretese sempre nuove, sempre risorgenti di quella Nazione.

Ma venne l’ora in cui gli Stati Uniti di America compresero che questa politica era sbagliata; e questo mutamento della politica estera americana fu annunciato con il discorso di Truman del 12 marzo di quest’anno. Ebbene, non pensate voi, che, se la nostra pace fosse stata decisa dopo il 12 marzo, in questa nuova atmosfera che si è creata, in questo nuovo spirito che orienta adesso la politica degli Stati Uniti, gli Stati Uniti non avrebbero preferito che il nostro confine fosse alla displuviale delle Alpi, conservando a noi Trieste e quella parte dell’Istria che è andata alla Jugoslavia? Quindi, non sono orgoglioso, ma sono soltanto storicamente nel vero quando dico che, se si fosse tenuto conto della mia proposta, se si fosse insistito in essa, se si fosse detto che un trattato, per quanto duro fosse, tra le Potenze alleate, che ci hanno battuto, e noi, lo avremmo accettato, ma un Trattato che codificasse anche i nostri rapporti, imponendoci una completa rinuncia, con la Germania, non lo avremmo firmato mai, probabilmente avremmo trattato insieme la pace con le Potenze vincitrici e la pace con la Germania, e le condizioni di pace sarebbero state ben diverse; forse non avremmo perduto Trieste. Questo io penso e penso anche che nessuno possa dissentire da me. Quindi la nostra politica estera è stata sbagliata, sia per quanto ho detto, sia per la nostra cobelligeranza non negoziata.

Secondo l’accordo di Quebec (Roosevelt, Churchill), il nostro intervento armato non era previsto. Noi, all’atto dell’armistizio, potevamo rimanere con le armi al piede; quindi consegnarle al nemico e astenerci dal partecipare a qualsiasi altra operazione di guerra. È scritto nel preambolo dell’accordo di Quebec. Dunque, la nostra cobelligeranza doveva essere un atto negoziato. Ci fu richiesta: l’abbiamo accordata; e appena fatta la nostra dichiarazione di guerra alla Germania, le Potenze Alleate, nella stessa data (il giorno successivo alla dichiarazione di guerra), hanno fatto il riconoscimento esplicito della nostra qualità di cobelligeranti. È del resto riconosciuto anche dal preambolo del Trattato. Si trattava di dare gli ultimi nostri figli, le ultime nostre navi, i velivoli, il nostro sangue migliore; e noi non li abbiamo negati. Ma non abbiamo negoziato il supremo dono, nutrendoci solo di speranza. Questo è un errore imperdonabile. Quella cobelligeranza doveva essere negoziata in patti scritti; invece non lo si è fatto.

E voi, onorevole conte Sforza, avete un altro peccato sulla coscienza. Voi, nel settembre 1942, avete scritto al re d’Italia dicendogli, come suo antico ministro: «Vi assicuro sul mio onore che gli americani e gli inglesi sono pronti a concludere con noi una pace di giustizia, una pace generosa». Onorevole Sforza, o il vostro onore o la vostra capacità sono in giuoco; e siccome io, da gentiluomo, devo riconoscere che siete un gentiluomo, sono costretto a proclamare la vostra incapacità. E quando oggi volete la ratifica intempestiva, promettendoci ancora qualche cosa in cui non è alcunché di concreto, noi dobbiamo pensare che anche questa volta vi sbaglierete. Questo è il mio pensiero, onorevoli colleghi. Non pretendo di avere il possesso della verità; ma vi posso assicurare che, come voi tutti e come sicuramente il Presidente del Consiglio – perché sono convinto che in tutte le sue azioni egli non può essere guidato che dalla visione del bene della Patria – anch’io ho avuto di mira l’interesse supremo del Paese. Nelle notti insonni, meditando sul problema del Trattato, mi sono convinto che questa è la soluzione giusta; perché quando noi neghiamo la ratifica, ma offriamo di eseguire il Trattato, incanaliamo per una via pacifica la nostra ribellione.

Ci sono molti che dicono: facciamo come fecero i tedeschi a Compiègne: firmiamo, lo avvenire deciderà. Ma tutti coloro che dicono codesto, che cosa pensano? Pensano quello che pensavano i tedeschi. I tedeschi firmarono la pace ma prepararono la guerra. Noi no. Noi non minacciamo reazioni prossime o lontane, anzi vogliamo che nel nostro cuore non resti questo rancore, quest’ira, questa indignazione, perché la giustizia offesa non si adira, ma si indigna. E quindi questo nostro rifiuto di firmare deve essere lo sfogo e l’esaurirsi del nostro risentimento: che eseguano pure il Trattato. La nostra ratifica non è necessaria, perché lo han detto nell’articolo 90: basta la ratifica della 4 grandi Potenze. Quindi la protesta del nostro buon diritto offeso non impedisce alla forza, di avere la sua attuazione e al Trattato di essere eseguito.

Noi non minacciamo; e non minacciamo, con purezza di cuore, alcuna reazione, né prossima, né lontana. Di che cosa dovrebbero dolersi gli Alleati?

C’è qualcuno che pensa ai pericoli del piroscafo carico di grano che inverte la rotta. Ma coloro che pensano così offendono la nobile Nazione americana, che non sarà mai capace di simili bassezze e continuerà ad esserci sorella come è stata per noi nei tempi durissimi del dopoguerra. Quindi non credo che vi siano dei pericoli. Quando con un ordine del giorno, che io non intendo presentare, perché probabilmente non sarebbe approvato (si sa ormai come vanno le votazioni; ed è doloroso che, in materia così alta e nobile, si debba conoscere in anticipo l’esito di esse), si proclamasse questo principio, che la mancata ratifica non significa ribellione, anzi implica la nostra volontà che il Trattato sia eseguito; che non si minacciano reazioni prossime o lontane; io non vedo perché il nostro gesto dovrebbe, potrebbe avere conseguenze nocive; avremmo invece salvato la nostra dignità, e questa Assemblea potrebbe ricordarsi di essere erede, per quanto molto lontana, di quel Senato di Roma, quando quel tale ambasciatore straniero che vi fu ammesso, disse, tornando al suo paese, che gli era sembrato di essere in un consesso di re.

Ho detto. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Treves. Ne ha facoltà.

TREVES. Onorevoli colleghi, questo dibattito è giunto all’Assemblea preceduto da 15 giorni di appassionate polemiche, che attraverso la stampa si sono diffuse nel Paese e hanno agitato in un senso o nell’altro l’opinione pubblica. E questo fatto non poteva non ripercuotersi in modo sfavorevole sulla nostra discussione.

Noi abbiamo voluto questo dibattito, siamo stati favorevoli a che il dibattito ci fosse, perché ci sembrava contrario a quelli che sono veramente gli interessi del Paese, che una questione di tanta importanza, su cui si esercitano le passioni, ma che dovrebbe invece essere considerata con più freddo giudizio, fosse sottratta in quest’ora alla Assemblea Costituente.

Il rinvio – e lo abbiamo detto – sarebbe stato un errore, come sarebbe adesso un errore snaturare il dibattito, che ha un suo scopo preciso. Siamo di fronte ad un problema definito ed è problema sufficientemente solenne, sufficientemente importante nella vita del Paese, perché non venga adulterato con passioni meno pure, non venga distolto da quello che è il suo vero fine.

È stato anche detto che questo deve essere un dibattito su tutta la politica estera del Governo.

Noi, il Gruppo a nome del quale mi onoro di parlare, non siamo sospettabili di eccessiva tenerezza per questo Governo. Noi manteniamo tutti i nostri motivi di critica per la sua politica estera, ma non pensiamo che sia questa la sede, che sia questo il momento di esercitare tale critica, perché qui si tratta di prendere delle responsabilità precise: si tratta di chiudere un capitolo della storia del nostro Paese, poiché veramente di fronte a questo documento, di fronte a questo che si chiama trattato di pace sarebbe (forse più esatto chiamarlo dettato) abbiamo l’impressione di essere giunti all’epilogo, all’epilogo logico, anche se terribilmente doloroso, all’epilogo inevitabile del periodo storico che si è iniziato col tradimento di un monarca e la complice e folle politica suicida di una cosiddetta classe dirigente.

Siamo giunti all’epilogo. Ma io credevo di dire una cosa banale, dubitavo anzi se avessi dovuto dirla in questa Assemblea, affermando che il trattato di pace che ci sta davanti dev’essere considerato lo sbocco di venti anni di mal governo fascista, e non, come pure in certi settori del Paese si tende a credere, di quattro anni di governo antifascista. Io credevo che questa banalità non avrei dovuto dire in questa Assemblea, e mi dispiace che l’onorevole Russo Perez non sia presente in questo momento nell’Aula, perché questa banalità a me sembra di dover ripetere e riaffermare dopo il suo discorso, dopo tutta l’intonazione del suo discorso. Infatti, dinanzi a questa grande tragedia italiana, dinanzi a questo trattato imposto come conseguenza della inevitabile sconfitta di un regime, non è stato trovato che motivo di critica per il nuovo reggimento repubblicano e democratico che ha preso il posto di quel regime che ci ha condotto a questi estremi.

Questo, io credo, è significativo dall’attuale discussione e in quest’Assemblea dobbiamo essere molto precisi su questo punto; perché già una volta, dopo l’altra guerra – una guerra che pur avevamo vinta, una guerra, quindi, che ci poneva in una situazione estremamente diversa ed estremamente migliore in Europa è stato proprio da un trattato di pace che è sorta la speculazione nazionalistica, che ci ha poi condotto al fascismo, alla sconfitta, a questo trattato di pace. (Approvazioni al centro).

Voglio riaffermare che noi ci troviamo qui, personalmente incolpevoli, a dover onorare una cambiale, che non è stata tratta da noi. Questo bisogna dire in questa sede, e bisogna dire che noi accettiamo di pagare tale cambiale, perché pur esiste una continuità storica delle nazioni, esiste una responsabilità legale, se non una responsabilità morale.

La storia intera ci mostra che i popoli di maggiore civiltà non hanno avuto paura di fronte a trattati di pace anche più ingiusti e più duri, anche più dolorosi del nostro. Si sono risollevati ed hanno continuato sulla strada segnata. Né ho bisogno di fare della retorica per dire che la nostra fiducia nelle possibilità del nostro popolo non conosce esitazioni. È per ciò che noi assumiamo questa posizione di fronte al trattato di pace.

Quindi, non intendo di esaminare i particolari di esso, di scendere al dettaglio. Certo è banale di dire che non vi è stato «negoziato», che non vi è quindi un vero «trattato». Se la filologia ha un senso, trattato è il risultato di trattative, è un contratto. Ma non vi è stato contratto: siamo di fronte a un documento estremamente doloroso, per noi. Anche senza entrare nei particolari delle sue clausole, basta ricordare Tenda e Briga, Trieste, le Colonie, la flotta, tutte ferite che incidono profondamente sull’anima del nostro Paese.

Ripeto che non voglio fare qui un’analisi della politica estera del Governo. Bisognerà farla un giorno, ed allora potremo anche dire che non sempre, pur nei limiti imposti dalla situazione di assoluta inferiorità in cui ci siamo trovati sul piano diplomatico, non sempre forse è stato impostato giustamente il nostro problema, non sempre in questi anni – lo documenteremo a suo tempo – si è compreso che bisognava toccare soprattutto il fattore psicologico, il punto più rispondente, su cui imperniare la nostra battaglia.

Un’altra analisi io credo si debba fare in questo momento ed in questa sede, cioè rendersi conto del perché di questo trattato, della sua genesi, dei motivi che hanno condotto a questa pace, alla redazione finale del documento che ci sta di fronte.

È una storia che può essere – ma io non lo farò – analizzata in modo diffuso ed è, in fondo, la storia dolorosa dell’Europa di questi ultimi anni, perché non era ancora cessato il conflitto armato, non era ancora finito il fragore delle armi, che già si iniziava, con molta più difficoltà nel campo dei vincitori, la strada che doveva condurre alla pace. È anche banale (questo mio discorso è una collezione di banalità), dire che è più facile fare la guerra che fare la pace. Ma ne abbiamo una prova nella lunga strada, le cui tappe sono le conferenze internazionali di questi anni, le conferenze dei vincitori da Potsdam a Yalta, a Mosca, a Parigi, quando, ogni giorno di più, dolorosamente noi constatavamo e tutti potevano constatare quella spaccatura profonda, quella lacerazione che si andava producendo in Europa, il dissidio che piano piano si andava cristallizzando, sino a formare i due aggruppamenti, che si chiamano ormai comunemente blocchi.

Noi socialisti abbiamo assistito con l’angoscia nell’animo al prodursi di questa situazione, perché noi non siamo di quelli che, in questi anni, compiaciuti ammiccavano ad ogni indizio di dissenso tra i «Grandi» e ad ogni prova di sfiducia reciproca, sperando furbescamente di guadagnare qualcosa da questo dissidio. Noi siamo sufficientemente internazionalisti per sapere che solo dall’accordo altrui può venire il bene anche del vinto. Solo dall’accordo dei «Grandi» i piccoli, o i «nuovi piccoli», hanno qualcosa da guadagnare, non dal disaccordo.

Ed allora, ecco questa pace. Ecco anche, da una conferenza internazionale all’altra, la nostra sempre maggiore esclusione dall’elaborazione di questa pace, proprio, direi, per la impossibilità dei vincitori di discutere con i vinti, documentata dalla impossibilità dei vincitori di raggiungere un accordo tra di loro. Perché non si poteva evidentemente giungere ad una diversa conclusione per quanto riguarda i vinti, quando tristemente maturava e cresceva il disaccordo tra i vincitori.

Così, questa pace è un compromesso; è l’unico accordo, che direi negativo, possibile fino ad oggi tra i vincitori e, naturalmente, a nostre spese. Questa, credo, è la ragione, la storia, la diagnosi di questo documento che si chiama trattato di pace.

Se si è detto, con frase abusata, che la pace di Versailles era la pace del capitalismo, di questa pace credo si possa dire che è la pace dell’imperialismo, una cosa leggermente diversa; è pace che rispecchia purtroppo la preoccupazione e la sfiducia reciproca di due gruppi di potenze perseguenti una politica di imperialismo uguale e contraria, perseguenti quindi una politica in cui era estremamente difficile trovare un accordo. Soprattutto, diveniva impossibile di seguire un principio, ed una delle ragioni di condanna di questa pace è che essa non si fonda su nessun principio logico, anche se per noi negativo.

Abbiamo veduto ciascuno dei vincitori disposto a lasciarci quello che l’altro voleva toglierci nella reciproca contraddizione, per cui una potenza non aveva nessuna obiezione a che l’Italia tenesse Trieste, ma un’altra esigeva che l’Italia non tenesse Tenda e Briga, senza che fosse possibile di armonizzare le vane pretese in un sistema logico e unitario.

Tale è lo sfondo di questa pace. Io non vorrei ricordare una frase del Clausewitz, una volta famosa, e cioè essere la guerra una politica che continua con altri mezzi. Ma temo si potrebbe parodiarla in questo momento, di fronte alla realtà, dicendo: che per i vincitori questa pace è una guerra che continua tra loro con altri mezzi.

È in questa situazione che si presenta per noi il problema della ratifica. Potrebbe forse sembrare a persone o a partiti politici aderenti ad una visione antitetica alla nostra, che la sommaria delineazione che ho fatto dovesse condurre a conclusioni opposte a quelle che noi abbiamo raggiunto. Ma è proprio perché l’Europa ed il mondo sono in questa situazione, che noi sempre più sentiamo la necessità di ritornare all’Europa, di ritornare al mondo, per il bene nostro e di tutti, per riaffermare nell’Europa e nel mondo quegli ideali e quelle ragioni di giustizia cui l’Italia non ha mai rinunciato.

Ecco, signori, il problema della ratifica. Ed è qui che si inserisce la discussione che appassiona queste sedute. Ecco l’articolo 90, il cui contenuto del resto, è già nell’ultimo paragrafo del Comunicato finale della Conferenza di Mosca alla fine del 1945. Ma vorrei superare questo punto, non immiserire il problema in una discussione cavillosamente giuridica, come da troppe parti è stato fatto. Restituiamo al dibattito il suo carattere.

Benedetto Croce (non dico l’onorevole Croce, perché quando ci si chiama Benedetto Croce non vi è appellativo, anche di etichetta parlamentare, che aggiunga qualche cosa al prestigio del nome), Benedetto Croce e qualche altro venerabile e venerando membro di questa Assemblea hanno sostenuta una tesi che io comprendo perfettamente. Posso non condividerla, ma non posso non ammetterla.

È la tesi che direi eroica. In sostanza Benedetto Croce ci ha detto: «Pereat mundus, ma non piegarsi all’ingiustizia». Ma ieri abbiamo anche sentito dal Ministro degli esteri una frase che mi è sembrata singolarmente indovinata in questo momento.

Il Ministro degli esteri ha detto, in sostanza, che un uomo ha il diritto, anzi, il dovere, di rimanere prigioniero per attestare la sua fede (ed in questa Assemblea molti hanno avuto questo onore), ma che un popolo non può e non deve restare prigioniero.

Ebbene, io credo che l’onorevole Ministro degli esteri abbia espresso le ragioni profonde, le ragioni ideali, per cui dalla sfera del dover essere noi dobbiamo dolorosamente discendere nella sfera dell’essere. Ed allora non resta che una posizione, quella della ratifica, anche se, nella passione di queste settimane si è dovuto fare dell’accessorio il principale, cioè la disputa sulla sua «tempestività».

In fondo, favorevole alla posizione di non ratifica (che è una posizione logica ed eroica) è solo una minima percentuale di questa Assemblea.

L’altra posizione raccoglie, dovrebbe raccogliere, una maggioranza amplissima, direi quasi la totalità dell’Assemblea. Ma rimane e domina la «tempestività», rimane appunto la disposizione formale dell’articolo 90, rimane in sostanza un problema politico che non dovrebbe, secondo noi, entrare in questa sede ed in questo dibattito.

Io non voglio nemmeno nominare quella grande Potenza che non ha ancora ratificato il Trattato di pace, perché non fa assolutamente nessuna differenza al mio ragionamento quale delle quattro grandi Potenze possa essere. Nella fattispecie tutti sappiamo quale è, ma questo non ha nessuna importanza. Non voglio, infatti, commettere l’impertinenza di entrare a discutere delle ragioni, dei motivi, degli scopi che informano la politica di una grande nazione sovrana. Qualsiasi nazione ha il diritto, e direi il dovere, di perseguire la sua politica con i mezzi, i sistemi che crede migliori ai suoi interessi ed ai suoi scopi.

Non discuterò quindi perché l’Unione Sovietica non abbia ancora ratificato il Trattato di pace: non entrerò in questo ginepraio di congetture e di ipotesi.

Il Ministro degli esteri ci ha detto che nulla ci lascia supporre – in base alle informazioni che egli ha – che la ratifica russa non venga. Ma certo sarebbe un errore, se noi rinunciassimo a quella che è la caratteristica prima di uno Stato indipendente e sovrano, e cioè di attuare quella politica che esso reputa la migliore per il bene del suo popolo. Quella medesima indipendenza, quella medesima assoluta sovranità che io – sarebbe ridicolo dire non contesto, ma che non tocco neppure per la grande nazione sovietica – su questo punto e su questo problema voglio rivendicare in pieno anche all’Italia.

Quindi, il problema si pone soltanto in questi termini: di scegliere ciò che è più confacente agli interessi del nostro Paese, in questo determinato momento storico; di vedere dove sia il suo bene, o almeno – poiché, purtroppo siamo costretti a scegliere tra un male ed un altro e i mali ci affliggono da ogni parte dell’orizzonte europeo – il minor male.

La nostra conclusione l’Assemblea sa quale è stata. Noi, con molto dolore, con molta angoscia, di fronte a questo problema veramente terribile, eravamo anche favorevoli ad una ratifica immediata; anche quello ci sembrava, in questa determinata situazione, un male minore, piuttosto che contribuire noi stessi ad escluderci dalle grandi correnti dell’Europa e del mondo.

Ma noi non siamo dei mistici, dei fanatici dell’autoflagellazione. La nuova formula escogitata dal Governo, evidentemente, è stata proposta perché il Governo è persuaso, in base alle sue informazioni, in base a quello che gli risulta della situazione internazionale, che anche con questa formula si ottiene per il Paese almeno quel male minore che si sarebbe ottenuto con una ratifica immediata. Ed è per questo che noi non faremo una questione giuridica. Noi ci domandiamo soltanto, dal punto di vista politico, dove sono i vantaggi che il nostro Paese avrebbe a non ratificare.

Abbiamo sentito la parte opposta, abbiamo seguito in questi giorni le polemiche della stampa, e devo confessare che non una sola ragione mi sembra seria sugli ipotetici vantaggi che noi avremmo a non ratificare, mentre molte ragioni mi sembrano fondate per reputare che noi avremo degli svantaggi, prendendo oggi una posizione diversa.

In sintesi, il nostro punto di vista si può riassumere così: la nostra non ratifica si risolverebbe, fatalmente, in una politica di speculazione sui dissidi altrui, né ci potrebbe essere, mi sembra, nessun’altra giustificazione logica, se non proprio di cadere nella posizione di chi dall’altrui dissidio spera possa derivare a noi qualche vantaggio. È la posizione che abbiamo già condannato in partenza, che abbiamo già abbandonato e quindi, innegabilmente, la non ratifica si risolverebbe, in certo modo, in una politica di blocchi, che è proprio la politica che noi respingiamo.

La non ratifica significa contribuire non all’unità, ma alla divisione dell’Europa, non all’armonia, ma all’approfondimento di quella lacerazione, che purtroppo esiste, e che con tutto il cuore auspichiamo possa presto venir superata. E allora, signori, allora noi diamo alla nostra decisione il valore di un coraggioso gesto di solidarietà europea, nel quadro della necessità di uscire da una situazione per noi intollerabile.

Si dice, si obietta: «ma non ne usciamo; ma l’armistizio rimane». È vero: è vero che legalmente non ne usciamo. Ma guardiamo all’orizzonte internazionale, che è ben più vasto di quanto non siano i ferrei limiti di un regolamento: qualche cosa di nuovo, qualche cosa di diverso cresce e fermenta nel mondo. Non ne usciamo? Ma se fossimo così domenicani dell’osservanza dei regolamenti – come direbbe il mio amico onorevole Mazzoni – allora, signori, noi dovremmo essere ancora nella condizione in cui eravamo tre anni fa, in cui eravamo due anni fa. Se badiamo solo alla lettera, alle parole scritte, in realtà da allora nessun fatto giuridico è intervenuto, eppure la situazione è quella che è, e per accorgersene basta volger lo sguardo intorno e fra i molti esempi vi è anche il fatto medesimo che siamo qui, in questa Assemblea che siede ed è sovrana. Ma io cerco di abbreviare questo già troppo lungo discorso. Non vi parlerò dell’O.N.U., di cui molti hanno parlato e su cui ieri il mio illustre e «giovanissimo» amico onorevole Canepa ci ha intrattenuti con così viva passione. Ma non posso non rilevare il tono che mi ha davvero agghiacciato dell’onorevole Russo Perez poco fa – ripeto il mio dispiacere che non sia ora presente – quel tono in cui mi è sembrato di sentire un’eco di tutti gli articoli contro la Società delle Nazioni che ci hanno deliziato per oltre vent’anni. (Applausi a sinistra).

La ratifica, dunque, è l’inizio, non è la fine della nostra politica, e soprattutto della nostra politica estera. La ratifica è la porta aperta verso l’avvenire, è la possibilità di avere finalmente una politica estera, e fino ad ora non l’abbiamo avuta in Italia, non l’abbiamo potuta avere. Onorevole Sforza, noi certamente faremo la nostra critica alla politica estera del Governo, ma non oggi. Perché abbiamo bisogno di una politica estera, di una politica estera che sia un fattore di pace, un fattore di stabilità in Europa.

Ciò emerge dalla stessa situazione geografica in cui siamo posti in Europa, in cui è posta questa virgola, questa grande virgola che noi siamo nel Mediterraneo e che segna oggi una specie di confine ideale fra quello che disgraziatamente dobbiamo chiamare est e ovest.

Io credo che, anche se non ci fossero tutte le saggezze della politica le quali ci consigliano a non correre, con immotivate scelte, verso l’uno o verso l’altro campo, basterebbe questa semplice situazione geografica a persuaderci dell’errore che costituirebbe per noi il seguire una politica estera di blocchi. E dico ciò, alludendo naturalmente a qualunque blocco, sia dell’est che dell’ovest. La nostra scelta, del resto, non servirebbe né all’est né l’ovest, ma soltanto ad accentuare, a rendere più amare, più insolubili, le differenze che esistono tra est e ovest. Noi abbiamo qualche cosa di meglio da fare in Europa, che aggiungere fuoco alle polveri, sia dell’est sia dell’ovest. Io credo che il compito nostro, di noi italiani, anche di noi vinti, sia proprio quello di parlare per la ragione, quella ragione che spesso i «grandi», i cosiddetti grandi, non riescono ad intendere. E questa ragione, signori, consiglia all’Europa una diversa giustizia nei nostri riguardi.

Noi non abbiamo paura delle parole, anche se ci sono alcune parole che non ci piacciono. Tra queste vi è la parola revisionismo; ma, senza dubbio, il nostro revisionismo, il revisionismo di questa parte dell’Assemblea, non ha nulla del «revanchismo» nazionalista, di cui ho sentito, anche un’ora fa, un’eco da quella parte (Accenna alla destra) dell’Assemblea. (Applausi a sinistra). Noi sosteniamo un principio revisionistico, che è lo stesso principio della giustizia per tutta l’Europa, che è il principio della giustizia per tutti i popoli. E se fossimo diventati così cinici da credere che queste siano illusioni, abbiamo tuttavia veduto in forma molto pratica che la perdita di queste illusioni, che il contrasto a queste illusioni ha condotto la miseria, la rovina e la strage nel mondo intero. (Applausi a sinistra).

Si profila in questi giorni il tentativo di un nuovo ordine economico in Europa. Non mi diffonderò sul piano Marshall, famoso prima di esistere. Tutto è stato detto prima che esistesse, su quello che sarà e su quello che non sarà e sui pericoli che esso rappresenta e sulle possibilità che esso offre. Posso anche condividere le preoccupazioni giustamente espresse ieri sera qui dall’onorevole Ruini, e sono perfettamente d’accordo con lui nel dire che sarebbe un gravissimo errore se noi credessimo che il piano Marshall sia una specie di bacchetta magica, una specie di toccasana, e che col nostro inserimento nel piano Marshall tutti i nostri problemi verranno risolti.

Pure, che cosa è, in sé, questo «piano»… che non esiste? È, in fondo, un primo tentativo, è la prima volta che si dice all’Europa: «Pianificate, tentate di superare quelli che sono i vostri problemi immediatamente nazionali nella sfera economica in un piano più vasto, in un piano europeo». Io non vedo perché questo invito possa tanto riuscire sgradito, possa tanto spaventare una grande Potenza e altre Potenze che le sono vicine ed amiche. A me pare che la nostra adesione al piano Marshall, non solo non sia in nessun modo uno scivolamento verso un blocco, ma sia di vantaggio anche per coloro che non hanno ancora creduto di aderire a questo piano. Quanto più l’Europa riesce ad organizzarsi, quanto più l’Europa riesce ad unirsi in una singola unità economica, a vantaggio di tutti i Paesi e di tutti i popoli, tanto meno pericolo vi è per l’Europa intera.

Noi sappiamo – noi socialisti – che la pace non può fondarsi sulla miseria umana. La pace non è sicura quando la fame domina il mondo, la pace non è sicura quando la vita economica non è sicura, quando un onesto livello economico di vita non è certo per tutti i popoli.

Onorevole Sforza, lei sorride forse giudicando ingenue, giovanili, queste mie opinioni; ma io spero – anzi ne sono sicuro – che ella è sufficientemente giovane per condividerle.

SFORZA, Ministro degli esteri. No, sorridevo, perché mi compiacevo.

TREVES. Allora la ringrazio. E aggiungo che noi socialisti abbiamo un’altra ragione per essere favorevoli a questa grande esperienza, per essere favorevoli a che l’Italia vi partecipi, non solo a vantaggio suo, ma a vantaggio della collaborazione economica europea. Noi abbiamo spesso insistito (e il Governo lo sa) sulla necessità della pianificazione anche e soprattutto all’interno, ed evidentemente non potremmo essere contrari ad una pianificazione europea, aperta a tutti, sia ad est che ad ovest. Né vediamo come noi potremmo non parteciparvi; anche se ad alcuni ciò possa dispiacere.

Signori, ho finito. La ratifica è un passo avanti verso la pace, verso la pace nostra e verso la pace del mondo. Io non farò nessuna chiusa retorica, che in questo momento sarebbe un’offesa al sentimento profondo del popolo italiano. Ma voglio dire soltanto che – secondo noi – questa dura strada, questa decisione dolorosa che dobbiamo prendere è un grande atto di fede nelle possibilità, nel valore, nel lavoro, nel divenire del nostro popolo. E quando dico popolo italiano, penso soprattutto alle classi lavoratrici nostre, che sono state le vittime prime del regime che ci ha condotti a questi dolori e che sono adesso gli esempi primi del nostro desiderio di resurrezione e di catarsi.

Signori, mai come adesso, io credo, sono state vere le parole di Mazzini, non solo quelle che dicono che il martirio non è sterile mai, ma anche le altre, secondo cui l’ora più buia della notte (forse quella che viviamo) è quella che precede l’aurora. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pecorari. Ne ha facoltà.

PECORARI. Come giuliano, è ben comprensibile lo stato d’animo mio e dei miei confratelli di fronte a questo Trattato di pace. In questi ultimi giorni ho ricevuto vari messaggi e ordini del giorno provenienti dalla Venezia Giulia o da associazioni di giuliani sparsi in Italia, e tutti protestano per questo Trattato di pace. Voglio ricordarne almeno uno, quello delle Associazioni Giuliane riunite. In esso, nella certezza di interpretare il sentimento di tutti i giuliani e di tutti i dalmati, si riafferma l’inalienabile diritto dell’Italia sulla Venezia Giulia e su Zara, e si rivolge un appello all’Assemblea Costituente perché respinga l’iniquo Trattato imposto all’Italia in aperta violazione del principio dell’autodecisione dei popoli.

Questo stato d’animo è ben comprensibile: non si può pretendere da un condannato che firmi la propria sentenza. Noi che viviamo in uno stato tutto particolare, che non è né quello armistiziale, né quello del vinto, noi che siamo abituati a rinunziare ad ogni cosa pur di poter vivere civilmente in ambiente nostro, comprendiamo la posizione difficile e delicata della Nazione. Ma non possiamo non levare la nostra protesta più fiera contro questo Trattato, che incide nelle nostre carni e che è stato fatto senza consultarci, e anzi mettendo nel preambolo che tutto viene fatto secondo giustizia ed equità.

Il tempo, galantuomo, ha fatto sì che della situazione della Venezia Giulia ormai tutti siano più o meno edotti. Eppure non è cambiato niente. L’esodo degli italiani dalle zone destinate ad essere cedute ad un altro Stato continua ancora; e sì che i documenti fotografici e cinematografici fatti di qua e anche di là, fatti per le foibe, ma anche per dimostrare le condizioni in cui vengono a trovarsi gli esuli in Italia, avrebbero dovuto scoraggiare quelli che, secondo una certa propaganda, spinti da un nazionalismo eccessivo, abbandonavano le loro terre per rifugiarsi nella madre patria.

No, signori, io credo di poter affermare con tutta tranquillità di coscienza che noi non siamo nazionalisti. Saranno nazionalisti quelli che favoleggiano una revisione di patti, che noi sappiamo troppo bene che non potranno essere revisionati. Noi non desideriamo la guerra, e sappiamo che i confini purtroppo non si spostano che con le guerre. Noi tutti siamo compresi dell’importanza della nostra regione. Sappiamo che nella nostra regione può sorgere un affratellamento dei popoli, una comprensione di nazionalità diverse, che può portare a quella unione di stati e di interessi che può consolidare la pace.

Ma non possiamo dimenticare il modo e la maniera nella quale veniamo tagliati e divisi fra noi e soprattutto dalle nostre terre.

Qualcuno si domanda come mai ancora ci siano di questi giuliani che abbandonano le loro terre. Io stesso ho avuto occasione di avvicinare un mio collega abitante in una cittadina istriana. Egli si sta preparando per abbandonare la sua casa, il suo campicello, i suoi beni per venire – non più giovane – a crearsi un’altra esistenza in Italia. Egli è un vecchio antifascista iscritto ad un partito di sinistra fin dall’altra guerra, benvisto dalle autorità jugoslave, appoggiato, solleticato, invitato a restare, al punto che gli hanno offerto anche di optare per l’Italia e di rimanere al suo posto.

E gli ho chiesto: «Allora perché vuoi venirtene via?». Egli mi descrisse la situazione della sua cittadina, la vita che deve condurre: una vita nella quale non entra la calma, la quiete, la fiducia, la tranquillità, ragioni tutte che gli rendono impossibile resistere nella sua terra. Sappiate quindi – e questo è opportuno prima che voi decidiate di un voto così importante e decisivo – che con il vostro voto, salvo miracoli – nei quali sempre crederemo e spereremo – con questo Trattato la civiltà italiana della sponda orientale e dell’Adriatico sparirà: sparirà come è sparita in Dalmazia; sparirà come è sparita a Nizza.

Si dice che con il Trattato si difenderà meglio l’italianità del territorio libero di Trieste. Ma chi crede alla funzionalità, alla capacità di sopravvivere di questo staterello? Vi ricordo che della Venezia Giulia un decimo di territorio va all’Italia, un altro decimo al territorio libero e gli otto decimi alla Jugoslavia. La densità della popolazione sarà nel territorio libero superiore a quella dell’Italia di quasi il doppio. Questo vi dimostra già la impossibilità di vita di questa popolazione. Ma oltre a questo noi abbiamo un’esperienza già vissuta di due anni di Governo alleato, di governo neutrale; ed abbiamo visto che in questi due anni l’italianità di Trieste non ha progredito affatto, anzi ha regredito. Eppure i triestini sono oggi più italiani che mai, più fervidamente italiani ancora del ’18; ma l’invasione, la pressione delle genti orientali si fa sempre più opprimente e, soprattutto, la ricchezza di mezzi con la quale questa gente arriva nei nostri territori è tale che è vano, illusorio, ingenuo pensare che l’Italia potrà controbattere efficacemente questa pressione che tende a snazionalizzare la città di Trieste.

Eppure siamo in condizioni così diverse da quelle nelle quali si trovava, per esempio, la città di Nizza. Ricordo che nel 1860 si svolse nel Parlamento italiano un dibattito che ha strane analogie con questo dibattito odierno.

Ci furono vari interventi di grandi personalità che io, per brevità, tralascio di citare. Eppure, pur trovandosi di fronte una nazione sorella, latina, la città di Nizza, staccata dalla madre Patria, non seppe mantenere la sua italianità. Non potrà purtroppo avvenire diversamente della nostra Città.

Ed è per questo che con una protesta serena ma obiettiva – obiettiva, perché sentita, perché vissuta, perché suffragata da una esperienza – noi protestiamo contro questo Trattato, invocando il sorgere di un’altra era di pace nel mondo che faccia sì che i confini non dividano più le genti e siano liberi i popoli di comunicare fra loro in un nuovo clima di pace, di tranquillità, di concordia, senza barriere, senza saracinesche che aizzino i popoli l’uno con l’altro in una lotta fratricida e dannosa per tutti quanti, e soprattutto per la pace del mondo.

Con queste brevi, brevissime considerazioni termino, implorandovi a riflettere con tutta serietà sul tremendo voto che state per dare. Pensate alle responsabilità che vi assumete e pensate anche agli obblighi, se questo voto sarà sfavorevole per la Venezia Giulia, che verranno a voi, a tutta la Nazione, di aiutare questi fratelli italiani, che pagano innocenti una colpa che non è loro e caso mai una colpa collettiva, di tutta la Nazione. Fate questo gesto, fate questo esame di coscienza e questo proponimento di solidarietà verso questi poveri fratelli italiani. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spano Velio. Ne ha facoltà.

SPANO VELIO. Io non sarei intervenuto in questo dibattito, nel quale il mio Gruppo avrà modo di esporre ampiamente le sue opinioni, se non fossi stato spinto da una esperienza personale e da una conoscenza diretta a porre dinanzi a voi, onorevoli colleghi, e soprattutto dinanzi a voi, signori del Governo, un problema che è insieme uno degli aspetti più dolorosi della situazione internazionale dell’Italia e uno dei punti maggiormente indicativi dell’orientamento che deve seguire la nostra politica internazionale. Parlo del problema degli italiani in Tunisia, del problema di quella collettività italiana, che è particolarmente cara al nostro cuore di italiani di tutti i partiti e di tutte le correnti, perché essa ha fornito uno degli esempi più luminosi delle virtù creative del lavoro italiano.

La collettività italiana in Tunisia è composta essenzialmente di viticultori e operai agricoli, pescatori, minatori, operai dell’industria.

Il giornalista francese De Montety così la descriveva, già nel 1937: «A parte un centinaio di imprenditori, mugnai, grossi proprietari, viticultori e medici, la colonia italiana è costituita da piccoli benestanti, che traggono sussistenza dai loro 4 o 5 ettari di terra, e da una gran massa di salariati al servizio di imprese francesi; essa (la colonia italiana) fornisce la più gran parte della mano d’opera europea».

Ora, l’interesse fondamentale di questa gente laboriosa era la conquista di quel modesto benessere che essi, operai o contadini, non erano riusciti a conquistare nelle loro regioni di origine, i minatori in Sardegna, i contadini siciliani al servizio dei loro feudatari. E alla conquista di quel benessere erano in certa misura pervenuti, sia per virtù personale del loro lavoro, sia per la forza delle organizzazioni sindacali.

Senonché, le preoccupazioni fondamentali di questa nostra gente laboriosa non erano le preoccupazioni del fascismo. Il fascismo aveva altre preoccupazioni: il fascismo era essenzialmente preoccupato di mettere le mani sui fosfati e sui minerali di ferro per conto della Terni, vale a dire del gruppo Ciano-Mussolini, e per conto della Montecatini.

Da qui una politica di oscuri intrighi e di provocazioni che talvolta marciavano parallelamente, talvolta si alternavano. Una grande calma era sopravvenuta in Tunisia nei primi mesi del 1938, fino a quel mese di giugno nel quale la Corte internazionale dell’Aja respinse come infondati i reclami di un certo Tassara, agente del gruppo Ciano-Mussolini, il quale protestava contro il monopolio che esercitava nell’Africa del Nord l’«Office chérifien des phosphates». Subito dopo, nel novembre, dilagarono, partendo da quest’Aula, i clamori della rivendicazione territoriale sulla Tunisia.

Tutto ciò ha provocato le conseguenze che sono note. Ma forse meno nota, non dico ai servizi del Ministero degli esteri, ma all’opinione generale italiana è, almeno nei particolari, l’odissea che hanno dovuto vivere in questi anni gli italiani della Reggenza di Tunisi.

Nel 1940, quando il fascismo scatenò la guerra, la repressione necessariamente si abbatté sugli italiani in Tunisia, una parte di provocatori fascisti, di quelli che erano maggiormente responsabili localmente della situazione che ora si creava, una parte di costoro era scappata in Italia. Un’altra parte di essi si era naturalizzata francese, trovando modo così di sfuggire definitivamente alla repressione, che si abbatteva sulla grande massa degli italiani. Ceravamo noi, c’erano i fascisti minuti, c’era la grande massa degli italiani; e prendemmo la strada dei campi di concentramento: Sbeitla, Casseime, dove passammo nel deserto, in mezzo agli scorpioni, il mese di giugno e buona parte del luglio del 1940. Poi venne l’armistizio e con l’armistizio ricominciarono immediatamente le provocazioni dei fascisti. Questi ritornarono subito in Tunisia, e l’azione di provocazione fu allora meglio organizzala. Finché nel 1943, quando le truppe naziste e fasciste furono cacciate dalla Tunisia, si scatenò implacabile sulla nostra colonia tutta un’azione che non era più soltanto di repressione, ma era anche di rappresaglia.

Gli operai furono inviati ai lavori forzati, con un salario uguale ad un decimo del salario normale degli altri operai. Abbiamo visto in quell’epoca nelle strade di Tunisi dei giovani studenti, di 18-20 anni, costretti a scopare le strade. Buona parte di italiani furono internati nei campi di internamento. Le requisizioni implacabilmente colpirono i beni degli italiani e furono requisite case, appartamenti, mobili, suppellettili. Fu perfino requisita una biblioteca, con tutti libri italiani, appartenente a Giuseppe Miceli, giovane nostro compagno comunista, che era stato assassinato nel settembre del 1937 dai cadetti fascisti nella sede del circolo Garibaldi. Tutti i beni italiani furono messi sotto sequestro, e soltanto pochissimi riuscirono a svincolarne una parte. Fu fatta una lista di espulsione, e molti italiani furono espulsi dalla Reggenza, senza tener conto se andavano via con le loro famiglie o senza di esse. Una lista di «nemici della Francia» fu stabilita e pubblicata in Tunisia e contemporaneamente furono prese misure che interdicevano l’esercizio professionale ai medici, farmacisti, avvocati e a tutti gli altri professionisti italiani. Molti furono costretti allora a vendere i loro beni acquistati con il loro sudore. Ma anche qui si fece una distinzione di classe; infatti i pochi che sono riusciti in parte a salvare i loro beni sono i grossi possidenti, perché essi hanno potuto accettare il ricatto che veniva loro fatto, hanno cioè potuto vendere una parte di beni alla «Cooperativa d’acquisto dei beni nemici» creata in Tunisia in quel tempo, per poter conservare il resto. Questo regime è durato fino ai primi mesi del 1947, con quali conseguenze e con quali effetti di disgregazione economica e morale è facile immaginare: migliaia di famiglie sono state disperse o sono cadute preda della miseria; migliaia di italiani di Tunisia si trovano oggi disoccupati in Italia.

Oggi, il lavoro obbligatorio è cessato, i campi di concentramento sono chiusi. Ma le case sono rimaste requisite, i sequestri sono mantenuti; i malati italiani sono tuttora esclusi dall’ospedale Garibaldi, che si chiama oggi Hôpital de la Libération, con la scusa addotta da un funzionario del Gabinetto del Residente generale che «bisogna eliminare quella atmosfera di italianità che vi aleggia ancora». E per di più una decisione recente elimina dal beneficio della proprietà commerciale tutti gli industriali e commercianti italiani, i quali si trovano così sottoposti al doppio pericolo di uno sfratto immediato e di ogni sorta di ricatti. Si dice loro infatti: «se non vuoi lo sfratto immediato, paga subito tale somma o paga di nascosto tale esorbitante aumento di affitto».

In questo modo, onorevoli colleghi, gli italiani di Tunisia pagano oggi le malefatte, le provocazioni, le prepotenze del fascismo, le bombe del console Barduzzi, l’odio antifascista e tutti i germi dell’antitalianità seminati a piene mani dal fascismo.

È avvenuto quello che doveva avvenire.

Noi, comunisti, abbiamo l’orgoglio di potere dire oggi che già da tempo avevamo messo in guardia le nostre colonie italiane di Tunisia contro quello che oggi sta avvenendo.

In un suo proclama il Comitato centrale del Partito comunista, subito dopo le rivendicazioni scoppiate a Montecitorio nel novembre del 1938, dopo avere rilevato quale grado di benessere erano riusciti ad ottenere con il loro lavoro gli italiani in Tunisia, affermava che tutte le conquiste, frutto di sacrificio e di decenni di lavoro, erano messe in pericolo dalla politica provocatrice di Mussolini, e che i lavoratori perdevano la possibilità di continuare a guadagnare pacificamente un discreto salario.

Cosa accadrà degli italiani di Tunisia – dicevamo – che si saranno inconsciamente prestati a questa politica?

Essi saranno costretti ad abbandonare per sempre la Tunisia ed a condurre la vita di miseria e di disperazione del nostro popolo, della nostra Sicilia, per colpa della dispendiosa e brigantesca politica del regime fascista. «Nel corso di pochi giorni potrà scatenarsi un uragano, che spazzerà il frutto di 50 anni di lavoro e di sacrifici degli italiani di Tunisia»: questo noi dicevamo.

Ebbene, l’uragano è venuto. Oggi si tratta per noi di rimediare alle conseguenze di questo uragano e di ricostruire sulle devastazioni. Non vale oggi ricorrere a spiegazioni parziali, né parlare della xenofobia dei funzionari francesi, i quali, dopo essere stati talvolta complici dell’azione provocatrice del fascismo ed essere stati più tardi agenti di Hitler, al servizio di Vichy, fanno oggi sfoggio di antitalianità. Non vale parlare della capacità degli industriali francesi. Questa xenofobia e questa rapacità esistono; ma non possiamo far niente per eliminarle. Questo è problema che concerne la democrazia francese, non quella italiana. Ma noi possiamo e dobbiamo agire per eliminare o attenuare gli effetti di questa rapacità e di questa xenofobia; noi possiamo e dobbiamo agire, per affermare vittoriosamente, nella misura in cui è possibile, le rivendicazioni degli italiani di Tunisia: abolizione del sequestro dei beni e ripristino della libera gestione degli stessi, con relativa libertà di vendita e di acquisto dei beni mobili ed immobili – ristabilimento delle libertà di associazione, di riunione e di espressione, tutte libertà di cui sono ancora privi i democratici italiani in Tunisia – riconoscimento dei diritti acquisiti al 10 giugno del 1940, data da cui viene fatta decorrere l’abolizione delle Convenzioni del 1896, ciò che significa, in particolare, il ripristino della libertà di esercizio pei professionisti, farmacisti, medici, avvocati, che si erano stabiliti laggiù, in virtù delle condizioni che venivano fatte loro in base alle Convenzioni del 1896, e il diritto di pesca per i pescatori italiani, diritto che fu loro riconosciuto ancor prima della suddetta data.

Mi si obietterà che il problema è stato già posto dal Ministro degli esteri e dal nostro Ambasciatore in Francia, Quaroni. Lo so. Tanto l’onorevole Sforza che l’Ambasciatore Quaroni mi hanno dato personalmente, in privato, assicurazioni in proposito. Forse non sarebbe stato male che il problema fosse stato posto in pubblico nelle dichiarazioni del Governo. Difatti è certo che noi comunisti e senza dubbio tutta l’Assemblea, abbiamo molto apprezzato al loro giusto valore le espressioni di benevolenza che ci sono state trasmesse dalle Repubbliche Sud Americane di Cuba, per esempio, e del Guatemala, ma la Assemblea forse avrebbe amato conoscere in quale stadio si trovano le trattative concernenti il regolamento della situazione degli italiani di Tunisia. Si obietterà anche che poco si può fare oggi per gli italiani di Tunisia, soprattutto poco si può fare sul terreno delle trattative particolari. È vero. Ma appunto per questo bisogna intensificare lo sforzo per arrivare ad una distensione dei rapporti tra l’Italia e la Francia e per fare, in generale, una politica estera di amicizia e di collaborazione con le altre Nazioni.

Bisogna, in altri termini – noi comunisti lo stiamo ripetendo da anni e cogliamo l’occasione per ripeterlo ogni volta che abbiamo potuto esprimere pubblicamente il nostro giudizio sulla politica estera del Governo italiano – fare di tutto per evitare che la responsabilità della politica fascista ricada interamente sul popolo italiano. Sappiamo perfettamente che non possiamo evitare tutte le responsabilità e respingerle interamente da noi, ma possiamo fare in modo che esse, interamente su di noi non ricadano. So che la corresponsabilità tra l’Italia del passato e l’Italia del presente è considerata come fatale e inevitabile da alcuni, per esempio dall’onorevole Croce, il quale ci ha espresso questa sua personale convinzione al Congresso di Bari dei Comitati di liberazione, ella lo ricorda, onorevole Sforza, nel gennaio del 1944, e ci ha ripetuta questa sua personale convinzione qui ieri. Ed è logico che, partendo da questa premessa, l’onorevole Croce versi poi lagrime sulla sorte dei criminali di guerra giustiziati e ritenga quasi invidiabile, al confronto, la sorte di Vercingetorige, e lodi quasi Giulio Cesare per aver fatto strozzare il suo nemico in carcere. Ma è proprio questa corresponsabilità che noi neghiamo, e bisogna negarla concretamente, coi fatti, affinché non ricadano interamente sull’Italia le terribili responsabilità del fascismo. Anche per questo noi abbiamo reclamato, durante la guerra, l’intensificarsi dello sforzo di guerra a fianco degli alleati. Anche per questo non abbiamo mai pensato che si potesse negare o negoziare la nostra cobelligeranza ed anche per questo, per salvaguardare l’avvenire del nostro Paese, consacrammo tutte le nostre energie alla guerra partigiana.

Ma per trarre tutte le conseguenze da questo sforzo tendente ad evitare che le responsabilità ricadano interamente su di noi, possiamo dire di aver fatto, sul piano della politica estera, tutto quel che potevamo fare? Possiamo dire di aver fatto tutto il nostro dovere? Credo di no. Noi non abbiamo sufficientemente mutato l’orientamento, il tono, i sistemi della nostra politica estera, anche perché, onorevole Sforza, non abbiamo sufficientemente cambiato l’apparato. È evidente che il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori, almeno in generale, parlano oggi un linguaggio diverso da quello che parlavano il Ministro degli esteri e gli Ambasciatori sotto il regime fascista, quando esprimevano apertamente la loro criminalità nazionalista. Ma è anche evidente che i funzionari, che non sono cambiati, molto spesso parlano oggi lo stesso linguaggio che parlavano prima ed adoperano gli stessi sistemi. Io vorrei citare alcuni esempi, restando nel quadro della situazione tunisina.

C’era in Tunisia, fino al 1943, ad eccezione della breve interruzione giugno-luglio 1940, un avvocato, un noto provocatore fascista fortemente indiziato per essere stato iscritto nell’elenco dell’O.V.R.A., il quale dopo il 1938 rinnegò perfino la sua religione, a seguito della campagna razziale, pur di seguire fino in fondo il fascismo.

C’era un medico fazioso e provocatore, noto e inviso a tutta la Tunisia.

C’era un diplomatico, infine, che era stato console generale di Tunisi e che poi, durante il periodo dell’occupazione italo-tedesca, divise col ministro nazista Rahn il potere. Ebbene, quando l’Italia è stata liberata ed anche prima ch’essa fosse interamente libera – e mi dispiace che non sia presente l’onorevole Morelli, il quale potrebbe darmi testimonianza di quello che affermo – questi tre signori ce li siamo trovati tra i piedi, insediati con importanti funzioni direttive a Palazzo Chigi e al palazzo della Consulta. E credo che ci siano ancora.

E così è nei Consolati all’estero, dove i nostri connazionali e gli altri incontrano le stesse facce che vedevano nel periodo repubblichino, e per questo si verificano talvolta incresciosi incidenti. Costoro parlano lo stesso linguaggio di prima, adoperano gli stessi sistemi di prima, sono – come prima – lontani dagli interessi dei nostri lavoratori emigrati. Bisogna fare uno sforzo per eliminare quei funzionari che si sono troppo compromessi col fascismo. So che un tale sforzo è particolarmente difficile in un momento nel quale le sciarpe littorio e gli ex ufficiali della milizia siedono perfino nei Consigli del Governo. E infatti oggi, se le mie informazioni sonò esatte, una oscura minaccia sembra gravare non soltanto sugli impiegati dei Consolati all’estero, particolarmente in Francia, che sono stati assunti per indicazione delle organizzazioni democratiche, ma anche su quei funzionari di carriera mandati da Roma, i quali si sono resi colpevoli di aver stabilito delle relazioni amichevoli con le loro colonie e di aver dato prove di sentimenti veramente democratici e repubblicani. Parlo particolarmente di uno dei nostri consoli generali, il caso del quale mi consta essere stato segnalato al Ministro degli esteri.

Capisco dunque che oggi è difficile, specie nel clima che il governo attuale ha creato, eliminare dal nostro apparato del Ministero degli esteri quei funzionari che costituiscono un ostacolo all’applicazione di una politica di collaborazione e di amicizia con gli altri popoli, ma questo sforzo bisogna farlo. Cambiate l’aria di Palazzo Chigi, signori del governo, se volete davvero realizzare quella politica di amicizia e di collaborazione che proclamate di voler realizzare.

Il giuoco vale la candela, signori, perché da esso dipendono sul piano generale, gli interessi dell’Italia e sul piano più modesto, sul quale io mi sono tenuto, gli interessi dei lavoratori e di centinaia di migliaia di connazionali onesti e laboriosi, ai quali bisogna ridare oggi una prospettiva di vita.

Permettetemi, onorevoli colleghi, di rievocare un ricordo personale: un vecchio minatore sardo di Redeyef, miniera di fosfati nel Sud della Tunisia, parlando del progresso che i lavoratori italiani avevano realizzato dal 1936 al 1938 attraverso le lotte sindacali, si esprimeva così: «Prima vedevamo il sole una volta alla settimana, giacché scendevamo in miniera prima dell’alba e risalivamo a notte, oggi vediamo il sole ogni giorno».

Si tratta proprio di questo, onorevoli colleghi, si tratta di impostare e realizzare una politica estera di vera amicizia, di vera collaborazione, estendendo i nostri rapporti amichevoli con i paesi esteri e creando una situazione per cui i nostri lavoratori «tornino a vedere il sole ogni giorno». (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Secondo l’intesa di ieri sera, sospendiamo la seduta. La riprenderemo alle 21.30, per proseguire la discussione che è stata incominciata oggi nel pomeriggio.

Risultano iscritti a parlare gli onorevoli Cevolotto, Adonnino, Ambrosini, Crispo, Valiani, Jacini, Cicerone, Bassano ed altri.

Incomincerò a dare la parola nell’ordine, agli iscritti, considerando come volontariamente rinuncianti alla iscrizione a parlare coloro che non saranno presenti alla seduta. (Approvazioni).

Con questa intesa, sospendo la seduta per riprenderla alle ore 21.30.

(La seduta, sospesa alle 19.50 è ripresa alle 21.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, il Trattato di pace non è soltanto iniquo, non è soltanto in contrasto con i principî della Carta Atlantica – e a questo proposito ricordo che, quando l’onorevole Ruini accennò a non tener molto conto delle parole, il Ministro Sforza gli rispose che non si trattava di parole, ma di dichiarazioni: la Carta Atlantica è una solenne dichiarazione, di cui non si è tenuto conto – il Trattato non è soltanto dannoso agli interessi della pace del mondo, e agli stessi interessi bene intesi delle potenze vincitrici: è anche ineseguibile.

È un trattato che, per quanto ci riguarda, noi non possiamo eseguire. Le clausole delle riparazioni, le clausole economiche, se entrassero in vigore e dovessero essere da noi rispettate, metterebbero a terra l’Italia. Da ciò la ripugnanza da parte nostra, da parte di tutta l’Italia, da parte del popolo italiano, a consentire e ad accettare quella che noi dobbiamo considerare la nostra rovina, e che sentiamo di dover rifiutare, perché ci appare come una ingiustizia. Il popolo italiano ha sempre, soprattutto, la pronta sensazione di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto. Capisco, quindi, l’impulso di coloro che sono spinti a negare, in tutti i casi, la ratifica. Capisco la posizione dell’onorevole Orlando e di Benedetto Croce. Intendo le ragioni che li spingono a rispondere: «No», in ogni caso, a costo di qualunque cosa possa accadere; a negare la firma, pronti a correre qualunque rischio peggiore.

Ma è altrettanto plausibile che molti di noi non si sentano di assumere la responsabilità delle conseguenze di un rifiuto di ratifica; delle conseguenze – cioè – che potrebbero essere gravissime, di un rifiuto dell’accettazione del Trattato di pace. E anche coloro che, come me, più ripugnano da questo Trattato sconcio, in fondo pensano che in esso vi è un punto che ci può consentire di eseguirlo senza accettarlo, ed è quel famoso articolo 90, che è stato escogitato contro di noi, col proposito di aggravare la nostra situazione, ma che, in fondo, finisce per giovarci.

L’articolo 90 ci consente, infatti, di dare alla nostra ratifica un carattere e un aspetto tutti particolari, svuotandola (questa volta, sì, è il caso di usare la parola) del suo contenuto. Non deve però mancare la protesta contro l’ingiustizia, non deve mancare in nessun caso la dichiarazione che noi subiamo uno stato di necessità, anzi di violenza morale.

L’ordine del giorno proposto dall’onorevole Ruini contiene appunto, nella sua prima parte, questa protesta, ma io credo che la protesta vera, la protesta reale, quella che ha un significato positivo, non può consistere né in un ordine del giorno, né in una dichiarazione; deve risultare dal nostro atteggiamento di fronte alla ratifica del Trattato.

Che cos’è questo articolo 90 del Trattato? L’onorevole Perassi, in una sua precisazione pubblicata ne La Voce Repubblicana, ha illustrato l’aspetto giuridico della ratifica ed ha ricordato l’ordine del giorno votato dall’Assemblea Costituente il 25 febbraio 1947 all’unanimità. Dice questo ordine del giorno: «L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo sulle condizioni nelle quali è stato firmato il Trattato di pace, afferma che il deposito della ratifica italiana, per la quale è costituzionalmente richiesta l’autorizzazione dell’Assemblea Costituente, costituisce, in conformità alle regole del diritto internazionale, un requisito essenziale per la perfezione e l’entrata in vigore del Trattato».

Questo ha votato l’Assemblea Costituente. Ma qual è il significato di questo voto e di questa dichiarazione? Il significato di questo voto e di questa dichiarazione è una protesta, la protesta per quello che dice chiaramente l’articolo 90, per quanto si sia voluto affermare da qualche parte che si tratta di una formula nebulosa ed ambigua. No, non è una formula nebulosa ed ambigua: è una formula precisa: «Il presente Trattato, di cui il testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate e Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia. Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Il capoverso aggiunge che per quanto concerne ciascuna delle Potenze Alleate o Associate, i cui strumenti di ratifica saranno depositati in epoca successiva, il Trattato entrerà in vigore alla data del deposito. Avviene così che, mentre il Trattato, nei confronti delle quattro Grandi Potenze alleate entra in vigore subito dopo il deposito delle quattro ratifiche e per ciascuna delle altre Potenze Alleate e Associate entra in vigore al momento del successivo deposito delle singole loro ratifiche, per l’Italia entra in vigore al momento del deposito delle quattro Grandi Potenze, anche se l’Italia non abbia ratificato.

L’onorevole Perassi dice, ed ha ragione: «La ratifica dell’Italia è sempre necessaria, secondo le regole del diritto internazionale». Infatti noi lo abbiamo detto nel nostro ordine del giorno. Nel nostro ordine del giorno c’è una protesta a questo riguardo, ed è una protesta perfettamente legittima; arrivo a dire che è una protesta che non sarebbe neanche necessaria, perché senza la nostra ratifica, qualunque valore si voglia dare a questo termine, senza la nostra dichiarazione che eseguiremo il Trattato, non v’è possibilità che esso divenga esecutivo pacificamente. Il Trattato, per forza di cose, se non lo ratifichiamo, non entra pacificamente in esecuzione.

Se noi non diciamo che vi daremo esecuzione, il Trattato non potrà entrare in esecuzione se non nell’altra forma, che è adombrata nell’articolo 90. Quando in questo articolo si dichiara che il Trattato entrerà in vigore dopo il deposito delle ratifiche da parte delle quattro Nazioni, ci si intima in sostanza: o voi ratificate ed eseguite volontariamente questo Trattato, oppure entrerà in vigore lo stesso, cioè lo faremo entrare in vigore, perché con la coazione vi obbligheremo ad eseguirlo. Il che è sempre possibile dal momento che noi siamo una Nazione vinta ed occupata e loro sono i vincitori, e hanno tutti i mezzi per costringerci, dall’uso diretto della forza alla coazione indiretta, facendoci mancare gli aiuti di cui abbiamo necessità per vivere. Noi ci troviamo di fronte ad un dilemma: o accettiamo e diamo la ratifica che ci vien chiesta in questa forma, oppure gli alleati metteranno in esecuzione lo stesso il Trattato, lo metteranno, cioè, in esecuzione con la forza o con la coercizione.

Ecco perché l’articolo 90 ci consente di ratificare in questa particolarissima condizione, senza in sostanza accettare il Trattato.

Ci si mette di fronte a un dilemma perfetto: o ratificare ed eseguire volontariamente, o noi rendiamo esecutivo il Trattato lo stesso, cioè vi imponiamo con la forza l’esecuzione. In altre parole: le navi, se non ce le date, ce le prendiamo; le riparazioni, se non le pagate, pensiamo noi a pagarcele, con quelle forme che possiamo usare, dato che siamo gli occupanti del vostro territorio e possiamo aggravare questa occupazione, anche se, per ora, l’abbiamo allentata e possiamo sempre domarvi affamandovi.

Ci troviamo di fronte ad uno stato di necessità, ad uno stato di coercizione, ad uno stato di violenza morale, che non può essere disconosciuto o negato.

Se noi ratifichiamo in questa situazione, la nostra ratifica non avrà certo il valore di una ratifica vera e propria. Perché non è neanche una ratifica quella che ci si chiede: non è altro che la dichiarazione, da dare in buona fede, che noi eseguiremo o cercheremo di eseguire per quello che sarà possibile questo Trattato iniquo. Ci assoggetteremo ad eseguirlo, perché non possiamo fare altrimenti e perché aneliamo ad uscire da questo stato di armistizio che limita la nostra indipendenza.

Questo è in sostanza il valore della nostra ratifica; e questa allora è la vera protesta che ora possiamo fare, la sola che in qualche modo salva l’avvenire. Ma essa non ha lo stesso valore, se è fatta quando lo stato di necessità è evidente, è in atto, è tale da escludere ogni libera forma di adesione o di accettazione da parte nostra. Perciò dev’esser fatta quando il Trattato entrerebbe in vigore lo stesso, anche se noi non lo ratificassimo, nelle forme dell’imposizione; quando ci si dirà, con deposito delle quattro ratifiche: se non ratificate, noi metteremo in vigore lo stesso il Trattato.

Di fronte alla realtà inesorabile, l’Italia non avrà libertà di scelta e potrà ratificare senza che tale atto significhi volontaria adesione al Trattato. L’articolo 90 – che è anche esso iniquo nei nostri riguardi – qualche vantaggio ci può dare. Perché dobbiamo rinunziarvi?

Il disegno di legge che ci è sottoposto ha varie formulazioni. La prima formulazione era quella dell’approvazione esplicita del Trattato. Il disegno di legge all’articolo 1 dice: «È approvato il Trattato di pace fra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947». La Commissione dei Trattati non approvò questo schema, e le ragioni sono evidenti. Propose allora una formula diversa: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947». Vi era in questo schema l’autorizzazione alla ratifica anche immediata: noi accettavamo di ratificare prima che le condizioni dell’articolo 90 si fossero verificate. In seguito alla discussione che si svolse alla Commissione dei Trattati, venne fuori la terza formula definitiva del testo emendato, accettato, anzi proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace tra le potenze alleate e associate e l’Italia, firmato a Parigi 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». È evidente la grande differenza tra il primo testo del disegno di legge proposto dal Governo, il testo della Commissione e questo terzo testo che viene proposto ora. Anzi, questo testo va al di là anche di una formula che aveva elaborato, in un ordine del giorno che non ho veduto stampato, l’onorevole Perassi, il quale proponeva una forma di ratifica condizionata: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, condizionando la ratifica dell’Italia a quella delle potenze firmatarie nominativamente indicate nell’articolo 90». Ora, la diversità del testo della proposta Perassi sta in questo, che la proposta Perassi è una ratifica condizionata; la proposta del Governo invece, non è una ratifica: in sostanza è un mandato a ratificare. E questo mandato, se si interpreta in buona fede, dovrebbe essere un mandato irrevocabile e, in quanto accettato, anzi richiesto, obbligatorio in ogni caso per il Governo. Uso delle formule che non sarebbero strettamente giuridiche, ma voglio rendere in qualche modo evidente il mio pensiero. Là vi è una ratifica condizionata; qui non vi è ratifica: vi è un mandato a ratificare. Si potrebbe persino pensare e si potrebbe persino sostenere che questa nuova formula del Governo contiene un divieto al Governo, che ha chiesto l’approvazione del Trattato e la ratifica, di ratificare, finché non si saranno verificate le condizioni dell’articolo 90. Cerco di precisare il lato giuridico della questione; non vi nascondo che la questione è essenzialmente politica: ma in fondo, i Trattati di pace sono atti di diritto internazionale, atti giuridici. Noi discutiamo una legge: dunque dobbiamo, prima di tutto, delimitare il terreno giuridico nel quale ci moviamo e precisare i punti giuridici della questione, dopo di che potremo prendere quelle decisioni politiche che troveranno la loro base nella situazione giuridica che si sarà chiarita.

Proseguo nella mia dimostrazione. È innegabile che la formula governativa viene incontro alle critiche di coloro che non vogliono la ratifica immediata, perché la ratifica non c’è. Mi permetta l’onorevole Sforza – con tutto il rispetto e l’ammirazione che ho per lui (e non è la mia una formula di complimento) – di dirgli che il suo discorso mi ha stupito. In sostanza io ho avuto l’impressione – mi perdoni – che sia stato preparato in relazione alla formula della Commissione, non alla formula ultima del Governo. Perché egli, infatti, si è sforzato di dimostrare la necessità della ratifica, mentre il Governo ora rinunzia alla ratifica. Questa è la contradizione che mina alla base il suo discorso.

Sorge così un nuovo quesito, e un problema. È certo che l’ultima formula dell’emendamento governativo sarà accettata da quelle Potenze che ci consigliavano la ratifica immediata, come se la ratifica immediata noi avessimo accettato? Se il Ministro ha delle informazioni, delle sensazioni, o delle presunzioni che gli permettono di credere che realmente questa formula sarà accettata come la formula della ratifica immediata, allora non vi è forse qui una indicazione – se non una vera e propria dimostrazione – che la ratifica immediata non era poi necessaria a tutti gli effetti che si sperava di ottenerne? Ci si è detto che la ratifica era necessaria per presentarsi a Parigi degnamente. Il problema è importante per tutti coloro che pensano che sia sempre un enorme vantaggio non essere assente da convegni internazionali di quella portata. Ma noi a Parigi eravamo stati chiamati senza condizioni; e l’impressione che si è avuta qui, da quelli che non hanno forse tutte le notizie, è stata che in fondo, anche senza la ratifica, anche quando la ratifica era contrastata, anche su una semplice indicazione della Commissione dei Trattati, che aveva un valore molto relativo, la nostra situazione a Parigi non ha cambiato sensibilmente. Ora ci si viene a dire – e questo mutamento di argomento è un po’ fastidioso – che la ratifica è necessaria per il nostro ingresso nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Qui non vorrei dire cose amare; ma mi si permetta di osservare che l’articolo 23 numero 1 ci fa in ogni caso per ora una posizione subordinata nella Organizzazione delle Nazioni Unite. Inevitabilmente, perché noi non possiamo nemmeno essere chiamati a far parte, come membro non permanente, del Consiglio di sicurezza, in quanto i posti sono riservati, in primo luogo, al contributo dato dalle Nazioni aspiranti al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. E l’articolo 23 va poi messo in relazione con l’articolo 107, che può riservarci qualche sorpresa. Aderendo, in qualunque modo, al Trattato, noi accettiamo anche quel preambolo che ci qualifica come Stato aggressore. L’articolo 23, numero 1, dovrà essere modificato, perché ingiusto, specialmente nei nostri riguardi, ma la modifica non potrà venire dall’oggi al domani. Ci vorranno dei mesi, ci vorrà forse un anno per ottenerne la modifica. Intanto noi saremmo nell’O.N.U. in una posizione che non sarà quella che le nostre tradizioni, la nostra realtà di Potenza, non oso dire grande, ma che è stata grande e che è grande sempre per la sua storia, per la sua tradizione, per il suo passato, dovrebbero darci. Ci converrà indubbiamente in tutti i casi entrare nell’organizzazione delle Nazioni Unite, senza però farci soverchie illusioni. Per ora, disgraziatamente, questa Organizzazione delle Nazioni Unite non promette tutto quello che è nelle nostre speranze, e che potrà dare in seguito. Ad ogni modo non dovremo esserne esclusi. Ma non mi pare che sia proprio la formula proposta ora dal Governo a schiuderci quella porta che probabilmente ci sarebbe schiusa lo stesso nella posizione subordinata che per ora lo statuto delle Nazioni Unite ci consente.

UBERTI. E se fosse una illusione?

COSTANTINI. Sarebbe come oggi!

Una voce al centro. Così parlava Mussolini.

COSTANTINI. Così parlate voi, non Mussolini. Cosa c’entra Mussolini? Lo avete troppo in bocca, perché lo avete troppo amato. (Rumori).

CEVOLOTTO. Ci si è parlato di trattati internazionali che sono stati felicemente e abilmente negoziati e conclusi anche nello stato attuale.

Ora io sono d’accordo che un diniego di ratifica nostra potrebbe peggiorare questa situazione; non sono d’accordo che un semplice rinvio della ratifica potrebbe avere la stessa conseguenza. Però, sebbene la formula del Governo sia nella sua sostanza giuridica un vero e proprio rinvio della ratifica a dopo che le quattro grandi Nazioni avranno depositato le loro ratifiche, e sebbene giuridicamente non venga modificato lo stato armistiziale in cui ci troviamo (perché con questa formula, dopo che noi l’avremo votata ci troveremo nella precisa condizione di prima), sebbene questo sia evidente ed indiscutibile, pure fra il rinvio che noi chiediamo e la formula governativa una differenza ci deve essere; ci deve essere, anche perché, altrimenti, il Ministro Sforza non sarebbe favorevole alla formula governativa, mentre si è opposto al rinvio. È proprio una differenza capillare, come ha detto l’onorevole Ruini nel suo discorso? Se fosse una differenza capillare, allora io proporrei una obiezione logica e facile. Dal momento che il Governo non ratifica ora ma gli è consentito di farlo solo dopo che saranno depositate le ratifiche delle quattro Grandi Nazioni e poiché voi dite che la differenza fra questo e quello che noi chiediamo è capillare, non è preferibile attendere che la ratifica dei Quattro sia avvenuta?

Non vale, in contrario, opporre che la ratifica della Russia sarebbe vicina; cosa di cui dubito molto (e posso sbagliarmi, perché non ho tutti gli elementi che sono da altra parte acquisiti). Ma anche questa non è una buona ragione; se l’evento definitivo è così vicino, perché non dobbiamo aspettarlo? La Costituente non avrebbe difficoltà a convocarsi in 24-48 ore, sospendendo le sue vacanze, quando la ratifica da parte della Russia fosse avvenuta e apparisse necessario e urgente procedere alla ratifica da parte nostra.

La differenza c’è e ci deve essere e non deve essere capillare. Il punto è questo: per la mancata o ritardata ratifica da parte della Russia, non siamo ancora in quello stato di necessità e di coazione, in cui ci troveremmo se le quattro ratifiche fossero depositate. Non è giunto il momento in cui dobbiamo decidere fra i due mali; tanto è vero che la relazione di maggioranza dell’onorevole Gronchi parla di «atto di volontà». Chi ci consiglia la ratifica immediata desidera appunto questo atto di volontà, probabilmente perché non conosce, non ha potuto valutare, non ha potuto rendersi conto del nostro particolare punto di vista, della nostra particolare situazione, che non sempre è capita dall’estero.

Nella discussione in seno alla Commissione dei trattati ho persino sentito dire, con molto stupore, che i signori inglesi credono e sostengono di avere trattato con noi, semplicemente perché hanno sentito una volta la protesta dignitosa ed alta del nostro Presidente del Consiglio, allora Ministro degli esteri. Credono di avere trattato, pretendono di avere trattato. Non si rendono conto, evidentemente, della nostra situazione; ed appunto per questo ci domandano un atto di buona volontà. Quando ci hanno richiesto o ci hanno consigliato, sia pure nella forma più garbata e più ortodossa, di ratificare, il nostro Ministro degli esteri non avrà certamente mancato di opporre – argomento evidente –: «Sì, noi ratificheremo, appena le vostre quattro ratifiche di cui all’articolo 90 saranno depositate». Questo, evidentemente, non è bastato; si vuole qualcosa di più. E invece il nostro pensiero è rettilineo: né ratifica condizionata, né mandato a ratificare; nulla che abbia l’aspetto di adesione volontaria al Trattato. Rinvio, quindi: e solo quando, col deposito delle ratifiche delle quattro grandi Nazioni, il Trattato diverrà esecutivo per noi, daremo – allora – alla nostra ratifica il significato di una semplice dichiarazione di impegno a eseguire il dettato; come diamo oggi al rinvio il significato di una ferma protesta.

Si diffida di noi; ed anche questo è vero. Non c’è chi abbia avuto un qualche posto di responsabilità dopo l’armistizio, che non abbia sentito, nel modo più umiliante, questo senso di diffidenza, ingiustificata, che c’è sempre stato verso di noi. Si è pensato al nostro machiavellismo, che più che un luogo comune è una fola priva di qualunque base di verità, a nostre manovre, che non ci possono essere, nello stato in cui siamo ridotti.

Non è esatto suggerirci che è opportuno mettere fine allo stato provvisorio, quando la formula ministeriale non vi mette fine, perché non muta la situazione giuridica e non ci consente di uscire dallo stato armistiziale. Se qualcosa muta nella situazione politica, è proprio per quell’atto di volontà e di adesione, che molti pensano non si possa e non si debba fare; a prescindere da tutto quello che lo farebbe apparire, per un errore di prospettiva, come nostra adesione a uno dei due blocchi, in cui disgraziatamente si va dividendo l’Europa, il che deve essere rigorosamente evitato. L’onorevole Sforza a Parigi ha ben precisato la nostra situazione e l’ha ripetuta nel discorso dell’altro ieri. Noi vogliamo essere equidistanti e, se mai, essere mediatori tra i due blocchi. Il Trattato ci ha disarmato; ma, disarmandoci, ci ha obbligati ad una politica di equidistanza e di amicizia con tutti, di mediazione fra gli eventuali gruppi contrastanti. Questo è il nostro pensiero e la nostra volontà; ma questa è anche una necessità per un popolo disarmato, che ha le sue frontiere aperte agli occidentali ed agli orientali.

In una guerra noi, disarmati per volontà degli alleati, nella impossibilità di difenderci, cosa potremmo offrire, se non il nostro territorio alle devastazioni di tutti i belligeranti? In tale tragica situazione è naturale che dobbiamo difendere la pace prima e poi, se fosse possibile, finché l’illusione fosse possibile, la nostra neutralità. Non è colpa nostra se il Trattato non garantisce la pace e non facilita le intese con i popoli; nemmeno le intese tra i popoli vicini. Noi vogliamo stendere la mano ai nostri vicini dell’est e vogliamo dimenticare tutto: vogliamo dimenticare qualunque contrasto del passato per l’ideale di avvicinarci gli uni agli altri, di comprenderci e, se possibile, di reciprocamente aiutarci, per arrivare ad uno stesso livello di civiltà, anche se il nostro è un livello di civiltà superiore.

Ma, il Trattato lascia aperta, purtroppo, non solo la questione dei nostri confini militari, ma anche la questione della Venezia Giulia, di Trieste, di Pola, di Zara, e favorisce così gli irredentismi ed i nazionalismi, che non sono patriottismo, ma sono la peggiore delle deformazioni del patriottismo: favorisce, in una parola, le più pericolose dissensioni tra popoli confinanti. Nessun pericolo vi sarebbe stato per le minoranze slave che, per ragioni di confine, fossero rimaste nel territorio italiano; ma il pericolo è mortale e la distruzione sicura per le minoranze italiane che restano nel territorio jugoslavo.

Abbiamo noi prospettato, a suo tempo, e documentato all’opinione pubblica mondiale ed alle nazioni che ci hanno imposto l’iniquo trattato, questa verità? Anche sotto questo aspetto non dobbiamo, con forme che potrebbero essere interpretate come spontanea adesione al Trattato, rinunciare a quelli che sono i nostri diritti, non dobbiamo rinunciare a quelli che sono i diritti dei nostri fratelli. Non lo dobbiamo per il nostro passato, per la lotta del Risorgimento, che credevamo conchiusa a Vittorio Veneto, non lo dobbiamo per le speranze dell’avvenire, che non si fondano su future guerre, che noi deprechiamo, e non si fondano su irredentismi, che non vogliamo favorire, o su nazionalismi, da cui ripugniamo nella visione di più alte forme di società fra le genti, ma si fondano sul nostro diritto, si fondano sulla certezza di questo diritto al quale non possiamo in nessun modo rinunciare. Perché il domani ci dovrebbe riservare l’immenso conforto di vedere restituita la giustizia nell’Europa travagliata, di vedere restituita Trieste all’Italia. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Adonnino. Ne ha facoltà.

ADONNINO. Onorevoli colleghi, il problema che ci tiene ih questo momento in grande trepidazione – tutti, perché certo, qui dentro, tutti da un estremo all’altro di quest’Aula fremiamo del più ardente e puro amore per questa Patria nostra, che è tanto più degna di immenso amore quanto più è sventurata – questo problema che qui ci attanaglia e che è gravissimo, fra quanti, pur gravi, nel nostro lavoro ci si presentano, pare che adesso si vada avvicinando, in quest’ultima fase della discussione, al suo centro di gravità, che è l’interpretazione dell’articolo 90 del Trattato. Questo articolo finora è stato esaminato da un punto di vista solo politico. Invece io credo che l’indagine preliminare e basilare che su esso deve farsi sia di carattere giuridico: solo sulla base rigida di diritti e di obblighi, cioè di attributi giuridicamente fissati, si può costruire l’indagine flessibile, elastica, dell’opportunità politica. Affermo poi subito senz’altro che il risultato di questa indagine giuridica costituisce la ragione più solida della necessità di ratificare. Quella ratifica che si è sostenuta finora quasi soltanto nel campo politico, trova nel campo giuridico la sua ragione giustificatrice fondamentale.

Finora, tanto i sostenitori della non ratifica, quanto i sostenitori della ratifica, immediata o successiva, si sono basati sulla seguente interpretazione dell’articolo 90: il Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente dalla nostra ratifica. Dicono dunque i sostenitori della non ratifica: siccome la nostra ratifica nulla aggiunge al Trattato, nessuno ha interesse a costringerci a ratificare, e la ratifica del turpe e iniquo strumento sarebbe un atto spontaneo di omaggio contrario alla dignità e agl’interessi di un popolo libero; sarebbe un atto di accettazione che ci legherebbe definitivamente di fronte all’avvenire.

Dicono, per contro, i sostenitori della ratifica: se l’iniquo Trattato si perfeziona e si esegue indipendentemente da ogni nostro intervento, la ratifica nostra nulla aggiunge ad esso, ed in nulla dunque ci nuoce; ma, per converso, ci renderebbe meglio accetti alle grandi Nazioni alleate che anelano a stabilire un ambiente di pace e di ricostruzione; costituirebbe il nostro ingresso in tale ambiente, il nostro contributo alla nuova vita internazionale, su cui, purtroppo, tanto oscure nubi si addensano minacciose.

È sempre il concetto della perfezione ed esecuzione indipendente da noi: lo esprime chiaro la relazione di minoranza laddove dice: «Se il Trattato diventerà prossimamente perfetto con la ratifica delle quattro grandi potenze…». Dunque solo tali ratifiche perfezionano il Trattato. Anche la relazione di maggioranza a ciò accenna, sebbene meno chiaramente, in quanto mette in rilievo l’insufficienza e non l’inutilità della nostra ratifica, laddove dice: «…il nostro status giuridico non può essere modificato in forza soltanto della nostra ratifica».

Io ritengo che, partendo da tale interpretazione dell’articolo 90, in linea giuridica, si dovrebbe conchiudere per la non ratifica. Perché compiere un atto giuridicamente inutile? In linea politica, invece, la ratifica rappresenterebbe un positivo contributo alla pace e alla collaborazione universale.

Ma – come ho sopra detto – a questa argomentazione politica, si aggiunge, una fondamentale giuridica in base alla diversa interpretazione che io do all’articolo 90, e che è la seguente.

Nell’articolo 90, come in tutti i contratti, dobbiamo distinguere due fasi: la perfezione e la esecuzione del contratto. Due fasi perfettamente differenti, e tra le quali può anche intercorrere un lasso di tempo notevole. Vi sono tanti atti giuridici perfetti, ma non esecutivi; ne abbiamo molti esempi in diritto pubblico: durante la vacatio legis abbiamo una legge perfetta ma non ancora esecutiva. Vi sono, per converso, tanti atti – anche e specialmente nel diritto pubblico – immediatamente esecutivi, ma non ancora definitivi, in quanto, per divenire tali, debbono essere sottoposti alla relativa convalida: ne sono esempio i decreti catenaccio; e, in genere, tutti gli atti amministrativi, i quali sono immediatamente esecutivi.

Anche in diritto privato abbiamo atti perfetti ma non esecutivi, ad esempio: tutti i contratti per scrittura privata, cui occorre una sentenza per aver forza esecutiva; e, per converso, atti esecutivi, ma non ancora perfetti, come i decreti di sequestro. Perfettamente distinti dunque, anche nel Trattato di cui discutiamo, perfezione ed esecuzione.

E, corrispondentemente a tali due concetti, occorre distinguere nell’articolo 90 due diversi gruppi di atti, diversi numericamente, ma non perciò meno essenzialmente; cioè: le ratifiche e correlativo deposito di esse presso il Governo francese da parte di tutti cinque i contraenti, cioè le quattro grandi potenze e l’Italia, gruppo di atti al quale corrisponde la perfezione del contratto; e le ratifiche e correlativo deposito da parte delle sole quattro grandi potenze, gruppo di atti al quale corrisponde l’entrata in vigore del Trattato.

L’articolo 90 tiene accuratamente distinti questi due concetti con i correlativi atti e momenti: per la perfezione del Trattato come contratto, richiede cinque ratifiche depositate, per l’entrata in vigore ne richiede solo quattro. Non è possibile confonderli oppure unificarli. Dice l’articolo 90: «Il presente Trattato, il cui testo francese, inglese e russo fanno fede, dovrà essere ratificato dalle Potenze Alleate ed Associate. Esso dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Dunque sono necessarie cinque ratifiche. Continua poi l’articolo 90: «Esso entrerà in vigore immediatamente dopo il deposito delle ratifiche da parte dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, degli Stati Uniti d’America e della Francia. Gli strumenti di ratifica saranno, nel più breve tempo possibile, depositati presso il Governo della Repubblica francese».

Dunque, per l’entrata in vigore sono necessarie quattro (non cinque, quello dell’Italia non occorre) depositi di ratifica. Non è possibile confondere o unificare.

Questo ci spiana la via, onorevoli colleghi, ad interpretare che cosa vuol dire l’articolo 90, quando dice che il Trattato «dovrà anche essere ratificato dall’Italia». Non è possibile interpretare questo «dovrà anche essere ratificato» nel senso che l’Italia sia obbligata a ratificare, voglia o non voglia. La formula: «dovrà essere ratificato» è perfettamente uguale per l’Italia e per le quattro grandi potenze. E non si può pensare che le quattro grandi potenze siano obbligate, vogliano o non vogliano, a ratificare.

Altro argomento per quest’affermazione si trova negli articoli 39-42: in essi, volendosi effettivamente obbligare l’Italia ad una data manifestazione di volontà, si dice: «L’Italia s’impegna ad accettare ogni intesa che sia già stata o sia per essere conclusa per la liquidazione della Società delle Nazioni…» (art. 39); e «L’Italia accetterà e riconoscerà ogni accordo che possa essere concluso dalle Potenze Alleate ed Associate… ecc.» (art. 42). Dunque, quando l’articolo 90 dice che il Trattato dovrà essere ratificato dalle quattro potenze e dovrà anche essere ratificato dall’Italia, intende dire che le dette cinque ratifiche sono necessarie per la perfezione del Trattato.

Da tutto ciò traggo una prima affermazione che mi pare sicurissima, ed è questa: la ratifica dell’Italia è necessaria, al pari delle ratifiche delle quattro grandi potenze, per la perfezione del Trattato. Se l’Italia non ratifica, il Trattato non è perfetto; è inesistente. Malgrado però esso sia inesistente come strumento giuridico, le sue clausole, nella loro materialità obiettiva, saranno applicate immediatamente dopo il deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze a Parigi. Queste quattro ratifiche depositate, non sono, nei riguardi nostri, entità giuridiche, ma condizioni di puro fatto; il Trattato, senza nostra ratifica, non è neppure esso entità giuridica, ma è l’affermazione di forza di un vincitore, che, nel campo della pura forza materiale, infierisca sul vinto. Non rapporto giuridico, ma rapporto di forze. Questo è il meccanismo dell’articolo 90. Altro non può essere. I due momenti, per il primo dei quali occorrono cinque interventi, e per il secondo dei quali ne occorrono solo quattro, non possono esser confusi.

Se il Trattato non viene ratificato da noi, ma viene ratificato dalle quattro grandi potenze, non sarà un contratto, non sarà un’entità giuridica per noi, ma potrà esserlo nei riguardi interni delle quattro grandi potenze ratificanti.

Le sue clausole saranno a noi applicate come entità di puro fatto di fronte a noi, che, non avendo ratificato, abbiamo reso inesistente nei nostri confronti il Trattato; saranno applicate come norme giuridiche nei riguardi interni dei quattro alleati tra loro, i quali, avendo ratificato, l’hanno reso perfetto.

Questo ci apre l’adito a considerare la condizione giuridica di tutte le Potenze Alleate ed Associate di fronte al Trattato, cioè la loro solidarietà o meno nel perfezionamento giuridico di esso. Io credo che il sistema dell’articolo 90 sia questo: se una delle quattro grandi potenze non ratifica, il Trattato è inesistente di fronte a tutti. Riguardo a ciascuna delle altre potenze alleate ed associaste il Trattato diviene perfetto ed entra in vigore a guisa che la relativa ratifica sia depositata a Parigi.

È errato, concludo io dunque, dire, come generalmente si dice, che la ratifica dell’Italia non influisce affatto sulla perfezione del Trattato. Al contrario: se noi non ratifichiamo, il Trattato nei nostri riguardi è inesistente.

Nessuno pensi di dirmi: «Ma allora, se il Trattato senza la ratifica nostra non esiste, è bene che noi non ratifichiamo, e così lo renderemo inesistente, ed eviteremo tutte le sue gravezze».

Nulla eviteremo noi, purtroppo! La chiara parola dell’articolo 90 dice che il Trattato entra in vigore e va in esecuzione con il solo deposito delle ratifiche delle quattro grandi potenze, dunque la mancanza della nostra ratifica non impedisce l’esecuzione dell’iniquo Trattato. Ed inoltre, anche a voler considerare la cosa, invece che dal lato dell’esecuzione, dal lato della perfezione del Trattato, è chiaro che, inesistente il Trattato per la mancanza della nostra ratifica, i vincitori potenti ed armati resteranno liberi di commettere contro di noi sconfitti ed inermi tutte le iniquità e le atrocità di cui lo stesso Trattato li dimostra capaci.

È questa anzi la ragione fondamentale, nel campo giuridico, per la quale noi abbiamo l’interesse, meglio, la necessità, di ratificare: per rendere perfetto, col Trattato, il limite massimo delle iniquità che ci si impongono; per acquistare il diritto all’esecuzione di quei minimi benefici che il Trattato ci riconosce; per impedire che i vincitori incrudeliscano contro di noi sempre più. Insomma, noi, negando la ratifica, non evitiamo l’applicazione delle crudeli clausole che così profondamente ci feriscono, e rendiamo, invece, possibile, che i vincitori, liberi da ogni freno, senza il limite di un Trattato, vieppiù le inaspriscano. C’è sempre da temere il peggio, purtroppo, specialmente in questi tempi torbidi e incerti: ogni lotta interna tra gli alleati si può risolvere in un aggravio dei nostri danni. È necessario che noi facciamo tutto quanto è in nostro potere, per mettere ad essi un punto fermo.

Ratifichiamo dunque, non per nostra spontanea libera volontà, ma piegandoci ad una crudele inesorabile necessità. Come tutti gli sconfitti, sempre, hanno ratificato. Infatti, da che mondo è mondo, da che il sole risplende sulle sciagure umane, sempre, i vinti, hanno accettato i Trattati loro imposti. Anche i più duri! Perché? Non certo per benedire, con animo lieto, le gravezze che il Trattato loro impone; ma per evitare un facile loro inasprimento, per mettere ad esse un punto fermo! Può parere un paradosso, onorevoli colleghi, quello che io sto per dirvi, ma è una verità: i Trattati di pace non sono fatti a beneficio dei vincitori e a danno dei vinti, ma viceversa a beneficio dei vinti e a danno, a limitazione dei vincitori. Col Trattato, lo sconfitto esce dal campo della pura forza materiale, in cui si trova, inerme e impotente, nelle grinfie dell’onnipotente vincitore, ed entra nel campo del diritto, in cui ambedue sono regolati da norme precise; toglie di mano al vincitore la spada fiammeggiante di odio e di vendetta, sfrenata nell’impeto delle sue cupide voglie, e lo costringe nei limiti insormontabili della morale e della civiltà.

Continuando, se permettete, nella via dei paradossi, si può forse dire che l’articolo 90 è per noi una fortuna: ci pone in una situazione privilegiata con la sua speciale formulazione. I grandi giuristi che l’hanno redatto non so se siano veramente grandi giuristi; pur seguendo un sistema comune nella redazione dei trattati, non hanno sufficientemente riflettuto, essi che tanto danno avevano in animo di fare, alla portata di certe sue conseguenze per noi benefiche. Ponete mente, vi prego, onorevoli colleghi: se non si fosse consacrata esplicitamente nell’articolo 90 l’entrata in vigore, l’esecutività per l’accettazione delle sole quattro grandi Potenze e senza richiedere alcun nostro minimo intervento, se non si fosse così stabilita la netta inconfondibile distinzione tra perfezione ed esecuzione del Trattato e si fossero invece unificati i due concetti e i due momenti, noi ora ci troveremmo in questa terribile condizione: o ratificare per mettere un limite fermo alle inique persecuzioni contro di noi, e allora implicitamente acconsentiremmo all’esecuzione delle gravi clausole imposteci; o non ratificare per non acconsentire a tale esecuzione e allora rinunzieremmo a mettere il limite fermo che tanto c’interessa. La formula dell’articolo 90 invece ci dà agio di mettere il punto fermo che c’interessa, e di non acconsentire all’esecuzione. A raggiungere questi due scopi mirabilmente serve il nuovo testo proposto dal Governo: «Il Governo della Repubblica è autorizzato a ratificare il Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, dopo che esso sarà divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90». Con la ratifica noi rendiamo perfetto il Trattato nei nostri confronti, ponendo il punto fermo che ci interessa; nel contempo, ratificando dopo che esso è già divenuto, senza alcun nostro intervento, esecutivo, nessun consenso prestiamo a tale esecuzione. Il momento, cioè, della nostra ratifica e le dichiarazioni esplicite che costantemente abbiamo fatto e facciamo, dimostrano che, più che parlare di un nostro consenso all’esecuzione coartato e non libero, devesi parlare di consenso inesistente, di assenza di ogni consenso.

Ho detto che perfezionare il Trattato, mediante la nostra ratifica, servirà principalmente ad evitare temibili inasprimenti dei nostri guai; e servirà in secondo luogo ad assicurarci qualche piccolo beneficio che, pur tra tante iniquità, il Trattato contiene.

Di queste iniquità, di queste gravezze tutti hanno parlato e parlano tuttavia. Ma mai se ne parlerà abbastanza! Gli Alleati avevano il dovere sacrosanto di mantenere le loro costanti premesse, e di non dimenticare il grande contributo dato dall’Italia alla loro causa, alla causa comune. Grande, enorme contributo! Basti ricordare schematicamente che, di cinque anni di sua guerra, l’Italia ne combatté tre a fianco della Germania e contro gli Alleati, ma ne combatté due (cioè quasi la metà) a fianco degli Alleati e contro la Germania; che noi siamo stati il primo grosso masso distaccatosi dal blocco tedesco, quando esso era ancora granitico, e noi soli ne abbiamo provocato la disgregazione e la rovina; che l’Italia si schierò contro la Germania, essendo ancora questa fortissima, tanto da resistere ancora ben due anni; che nella guerra combattuta dagli Alleati in Italia questa diede un contributo, più che notevole, enorme: Churchill riconobbe ufficialmente alla Camera dei Comuni il grande apporto della nostra marina in tutti i mari; e lodò l’eroico ardimento degli aviatori, dicendo di fare ogni sforzo per dotarli di apparecchi efficienti e moderni; l’alta proporzione del concorso italiano nello sforzo comune innegabile risulterà a chi ricordi le lotte partigiane, le azioni clandestine, l’ambiente di inesorabile ostilità di cui erano circondati i tedeschi, il palpito costante di simpatia, di cooperazione, di solidarietà di cui beneficiarono gli Alleati, non sempre ugualmente ricambiando!

Promesse ed aiuti, tutto fu dimenticato. Mai dunque sarà sufficiente la nostra protesta; che deve essere altissima e solenne, specialmente in questo momento, e deve costituire elemento preponderante ed essenziale della complessa nostra azione di fronte al Trattato e agli Alleati.

In relazione alle promesse altrui e alla azione nostra, mai Trattato imposto e non negoziato fu più iniquo e grave! Ci martirizza nel nostro orgoglio, nella nostra dignità e in quanto abbiamo di più sacro; ci mutila nel territorio metropolitano e ci priva delle Colonie fecondate e civilizzate col sangue dei nostri soldati, e col sacrificio dei nostri lavoratori; ci lascia indifesi nei confini e nelle armi; distrugge la nostra potenza marinara ed aerea; ci impone pesi economici, mai praticamente sopportabili.

Ed è doveroso ricordare, in queste ore di angoscia, che i termini iniziali proposti per l’iniquo Trattato erano anche più duri e spietati. Si deve all’azione appassionata ed abilissima dei nostri Governi se qualche – anche piccolo – miglioramento s’è ottenuto.

Giunti al momento culminante del nostro calvario, sarebbe ingeneroso non ricordare tale azione, che, se raggiunse dei buoni risultati nell’ambito proprio del Trattato, di veramente cospicui ne ha raggiunto nella posizione generale internazionale dell’Italia.

Azione di governo difficilissima quanto altre mai, e, in tanti momenti culminanti, addirittura disperata! Ogni azione diplomatica è un problema di equilibrio; questa, vorrei chiamarla un miracolo di equilibrio. Circondata dall’ostilità di tutti, mira delle più accese cupidigie e delle più irose vendette, era necessario usare un tono alto e vibrato nel difendere i nostri diritti e nel dolerci di iniquo trattamento, ma nel contempo dimesso e pacato per non acuire le ire e per ottener concessioni; sommamente prudente per mantenerci neutrali nelle contese tra alleati, ma nel contempo giustamente riconoscente verso chi ci aiutava e ci riforniva dei mezzi imprescindibilmente necessari alla nostra vita, e giustamente sostenuto, ma senza ombra di ritorsione, verso chi si mostrava meno benevolo con noi. Questo difficilissimo equilibrio si raggiunse e costantemente si seguì; si prospettarono sempre gli interessi italiani in funzione dei superiori generali interessi europei e mondiali di ricostruzione e di pace; si svolse un’azione dignitosa, serena, accorata, costante per opera dei grandi partiti rappresentanti nei vari Governi, se pure con qualche inopportuno sbandamento di stampa a scopo interno. Si curarono massimamente i rapporti personali, e gli uomini politici nostri andarono nei luoghi ove era più opportuno andassero: viaggiò il capo e l’ispiratore di tutta la nostri politica onorevole De Gasperi; il Ministro Sforza andò nell’America latina; l’onorevole Nenni nei Paesi dell’Europa settentrionale; l’onorevole Togliatti andò ove l’azione sua – per affinità ideologiche – poteva essere più utile, e in perfetta buona fede, sebbene senza alcun concerto col Governo responsabile, portò delle proposte pur cospicue sebbene non tali da potere essere prese in considerazione.

Di questa azione costante, complessa, equilibrata, tutti i frutti si perderebbero irrimediabilmente se ora non si ratificasse il Trattato, e ci si estraniasse volutamente dalla nascente armonia internazionale.

Ho detto che, a prescindere dallo scopo fondamentale di evitare inasprimenti alla nostra situazione, occorre anche ratificare per vedere attuati i vantaggi – pur non grandi – che nel Trattato stesso siamo riusciti a raggiungere, e per conservare e migliorare la nostra posizione internazionale, frutto veramente cospicuo della nostra azione diplomatica.

Esamino brevemente questi due settori. E in primo luogo quello dei punti del Trattato che ci interessa siano eseguiti.

L’articolo 9 del Trattato dispone che «Al fine di garantire all’Italia lo stesso godimento dell’energia idroelettrica e delle acque provenienti dal Lago del Cenisio, come prima della cessione del relativo territorio alla Francia, quest’ultima concederà all’Italia le garanzie tecniche stabilite nell’allegato III». E stabilisce inoltre: «Affinché l’Italia non debba soffrire alcuna diminuzione nelle forniture di energia elettrica che essa traeva da sorgenti esistenti nel territorio di Tenda-Briga prima della cessione di tale territorio alla Francia, quest’ultima darà all’Italia, in forza di un accordo bilaterale, le garanzie tecniche stabilite all’allegato III». Orbene: se non si perfeziona il Trattato, questi benefici ci saranno negati.

Una voce: Ma è nostra quell’energia.

ADONNINO. Ce l’hanno rubata, ma appunto perciò non è più nostra!

L’articolo 13 dispone che «L’approvvigionamento dell’acqua per Gorizia ed i suoi dintorni sarà regolato a norma delle disposizioni dell’Allegato V». E correlativamente l’Allegato V conferma che la Jugoslavia curerà la manutenzione degli impianti e assicurerà l’approvvigionamento idrico della parte del territorio di Gorizia che resta all’Italia, e dà le relative norme particolari. Orbene: se il Trattato è inesistente, non potremo beneficiare di tali disposizioni.

Benefici minimi, certo, di fronte all’enormità dei sacrifici; ma benefìci cui non si può rinunciare!

L’articolo 46 dispone: «Ognuna delle clausole militari, navali ed aeree del presente Trattato resterà in vigore, finché non sarà stata modificata in tutto o in parte, mediante accordo tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, o, dopo che l’Italia sia divenuta membro delle Nazioni Unite, mediante accordo tra il Consiglio di Sicurezza e l’Italia». Non mi pare trascurabile questa clausola. Vi si può vedere un germe di revisione in atto. È possibile mandarle a monte?

L’articolo 74 è dei più gravi per noi. Nondimeno, trattando, al n. 3, dei quantitativi e dei tipi delle merci da consegnare in pagamento all’Unione Sovietica, dice: «La scelta sarà effettuata e le consegne saranno distribuite nel tempo in modo da non creare interferenze con la ricostruzione economica dell’Italia». Se il Trattato non diventa perfetto e sarà inesistente, conserveremo la gravezza – che potremo vedere anche inasprita – e perderemo il vantaggio.

L’articolo 83 stabilisce che ogni controversia sugli articoli 75 e 78 (relativi alle restituzioni dovute dall’Italia e ai beni delle Nazioni Unite in Italia) «dovrà essere sottoposta a una Commissione di Conciliazione, composta di un rappresentante del Governo della Nazione Unita interessata e di un rappresentante del Governo italiano, esercitanti le loro funzioni su una base di parità». Clausola anche questa che ci conviene venga applicata.

Ma è più importante il secondo punto, quello relativo alla nostra posizione generale internazionale.

Qui il successo della nostra azione diplomatica è stato più notevole. Basta confrontare due momenti: il momento iniziale e quello presente. Ho sentito una volta descrivere la posizione desolante della delegazione italiana in una delle prime riunioni internazionali, a Londra, poco dopo la cessazione delle ostilità. Soli, in un angolo della hall di un grande albergo, non conoscendo nessuno, e da nessuno conosciuti o notati, i nostri assistevano smarriti al passaggio dei grandi astri della politica internazionale: qualche cameriere li indicava a nome, ed essi passavano pieni d’importanza e di sussiego. L’ingresso della delegazione jugoslava parve un corteo imperiale: giunta in ritardo per un incidente d’aeroplano, incedeva preceduta e circondata da cerimonieri e da valletti, piena di alterigia, di disprezzo. Nessuno degnava i nostri di uno sguardo: la forma più atroce di offesa è l’indifferenza! Tutto questo, allora. Ed ora? Ora è il viaggio trionfale del Presidente De Gasperi in America, è l’accoglienza calorosa, sul piede di parità, delle grandi nazioni europee al Ministro Sforza, recatosi giorni addietro a Parigi. Negando la ratifica noi ci apparteremmo da questi grandi consessi europei e mondiali, rientreremmo nell’ombra dell’urto e dell’indifferenza.

Occorre ricordarsi che, senza la ratifica, noi non avremo una personalità giuridica internazionale autonoma. È la condizione d’inferiorità in cui ci tiene lo stato armistiziale. Non ci fa più, ora, grande impressione, perché ad esso ci siamo in parte abituati e perché in parte la sua gravità è diminuita, in seguito alla nota lettera di MacMillan. Ma occorre tener presente che è sempre uno stato d’inferiorità politica, giuridica, morale.

Ci ha informato il Governo, ad esempio, che numerosi trattati di commercio sono stati stipulati con l’estero: orbene, essi non possono essere perfezionati e non possono entrare in vigore, se non usciamo dallo stato armistiziale. È questa la realtà, sono queste le nostre dolorose necessità ed occorre considerarle con animo forte.

CHIOSTERGI. Ma senza esagerare.

ADONNINO. Senza esagerare, naturalmente; ma senza dimenticare la loro pratica importanza.

Noi, inoltre, prendiamo degnamente parte alle trattative per il piano Marshall: sia quel che si vuole di questo piano, saranno quali che saranno le sue pratiche effettuazioni, è certo però che esso rappresenta pur sempre un cospicuo tentativo di ricostruzione armonica, ed apre fondatamente l’adito alle migliori speranze per gli interessi italiani. Le proposte italiane, d’altra parte, in quelle trattative sono degnamente tenute in conto. Cosa sarebbe di questa nostra preziosa opera, che si va prudentemente svolgendo, se noi, rifiutandoci di ratificare il Trattato, ci ponessimo al bando da ogni armonica cooperazione internazionale?

E finalmente, coronamento di questa nostra opera abile, complessa, costante, intesa appassionatamente a ricostruire la nostra personalità, e ad imporla, nel consorzio delie Nazioni civili, in un rango degno del nostro grande passato e del nostro immancabile avvenire, l’ammissione nell’Organizzazione delle Nazioni Unite. La ratifica è condizione essenziale perché possiamo esservi accolti.

Onorevoli Colleghi, quattro sono le esigenze fondamentali a cui dobbiamo ispirare le nostre azioni. Prima: la riaffermazione alta, solenne della nostra protesta contro l’iniquità del Trattato e la dimostrazione precisa che la nostra volontà ad essa non si piega, ma lo subisce come una tragica inesorabile necessità di materiale coartazione. Seconda: l’affermazione fondamentale e costante della necessità della revisione delle inique clausole del Trattato. In quanto rendiamo perfetto il Trattato, poniamo la base necessaria per la sua revisione. Non si modifica né si rivede ciò che non esiste. Revisione che è una fondamentale esigenza di giustizia; che ci è autorevolmente promessa ed annunziata da varie parti; che già mostra i primi inizi, sia pur timidi di sua attuazione. Terza: l’assoluta indipendenza da eventuali blocchi contrastanti, in cui si possano raggruppare le varie potenze. La formula propostavi per la ratifica si ispira perfettamente a tale esigenza. Essa rispetta la Russia in quanto autorizza il Governo a ratificare, ma soltanto dopo che esso sarà divenuto esecutivo, cioè dopo la ratifica della Russia; essa rende il dovuto omaggio alle grandi Potenze occidentali in quanto ratifica dopo le loro ratifiche, ed agevola quella grande opera di armonia, di ricostruzione, di pace cui esse tendono. Quarta esigenza: dare tutto il nostro apporto, tutta la nostra appassionata cooperazione a tale grande, magnifica opera; che è l’unica speranza di salvazione per questo travagliato mondo.

Ho sentito dalla destra l’eco di un nazionalismo che può parere troppo iroso e intempestivo. Ho sentito dalla sinistra gli inni ad un internazionalismo che può parere troppo positivistico. All’uno e all’altro noi opponiamo una grande fiaccola, quella della nostra idea cristiana. L’idea cristiana è un grande conforto per i singoli e per le collettività nei momenti più duri della vita; è un’idea che sublima il nazionalismo nell’amor di Patria, e l’internazionalismo nell’amore di tutti i popoli. Facciamo, onorevoli colleghi, che tutti quanti, singoli e popoli, possiamo veramente ricevere da questa idea nuova forza e nuova fede per portare la nostra croce serenamente, coraggiosamente. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ambrosini. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Non è presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, io parlerò con rude franchezza, intervenendo nella discussione che il Governo ha voluto che si facesse in questo momento. Ieri la discussione è stata elevata nella sfera della filosofia, ed è stata elevata nella sfera della filosofia non solo da parte dell’onorevole Croce, come egli doveva fare, ma anche da parte dell’onorevole Sforza. E se la filosofia dell’onorevole Croce trova consenziente chi parla, si è perché la sua filosofia politica storicista si addice ai tempi di durezza, ai tempi di ferro che noi traversiamo; perché l’onorevole Croce ristabilisce veramente il legame storico fra le generazioni che ci precedettero, che fecero l’Italia, e la nostra generazione che rischia di perderla, e le generazioni di coloro che verranno.

Se la filosofia dell’onorevole Croce può e deve trovarci consenzienti – quali che siano i giudizi da dare in sede di discussione politica-pratica – la filosofia sviluppata invece dall’onorevole Sforza – la filosofia che potrei chiamare dell’illuminismo democratico – è eccessivamente ottimistica. Mi pare di doverlo dire, pur con tutta la stima e la devozione che ho per il Ministro degli esteri. Duri tempi noi attraversiamo e ne attraversa il mondo intero, il quale è a rischio di precipitare in una nuova catastrofe, in nuovi conflitti.

L’illuminismo democratico poteva anche essere una grande forza in un periodo non lontano, quando lo propugnò l’onorevole Sforza, come Ministro degli esteri, dopo l’altra guerra, o quando in Francia, una ventina di anni addietro, Briand parlava a nome di un paese vincitore. L’illuminismo democratico che li animava e la loro generosità erano una forza proprio perché si trattava di uomini di Stato, di uomini politici di paesi vincitori. Questo illuminismo ottimista non si addice però al Ministro degli esteri di un paese vinto, che deve ancora combattere per ritrovare una situazione che garantisca la sua sopravvivenza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Fede e ottimismo!

VALIANI. Onorevole Sforza, la sua fede è ammirevole e con la sua fede concordo; però la fede guarda a lunghissima scadenza, mentre l’azione politica che noi siamo chiamati a compiere si riferisce ad un periodo limitato all’oggi, e le conseguenze di un nostro atto le scontiamo oggi e nei prossimi dieci anni, che non sono anni in cui sia permesso l’ottimismo. Ci potrebbero certamente essere dei correttivi all’ottimismo, e se questi correttivi ci fossero in seno al Governo, allora anche l’ottimismo dell’onorevole Sforza potrebbe essere di nuovo una forza. Se l’onorevole De Gasperi, Presidente del Consiglio, che, del resto, ha preceduto l’onorevole Sforza, dopo la caduta del fascismo, al Ministero degli esteri, desse prova in questa circostanza del realismo che le condizioni esigono, noi potremmo anche dire che l’illuminismo ottimista dell’onorevole Sforza è un fatto positivo, in quanto sorretto dal rude realismo del suo Presidente del Consiglio. Ma noi constatiamo nell’onorevole De Gasperi, in questi ultimi tempi, uno strano miscuglio di rude realismo e di eccessivo ottimismo; e poi anche di strana confusione fra politica estera e politica interna.

L’onorevole De Gasperi, come Ministro degli esteri, partì bene nel 1944 e nel 1945: ottenne qualche indubbio risultato positivo. Non fu senza l’influenza della sua azione che a Londra, nel settembre del 1945, fu ammesso il principio etnico per la risoluzione della vertenza alla frontiera orientale; ma poi l’onorevole De Gasperi – che ottenne qualche risultato con una politica di resistenza alla ingiustizia del Trattato e che arrivò a dirci alla Consulta che egli disponeva tuttavia di una carta: il rifiuto della firma, e ce lo disse alla Commissione degli esteri – poi non giocò in tempo utile questa carta. A Parigi, ancora nell’agosto 1946, l’onorevole De Gasperi si batté non solo con molto coraggio, ma con molto realismo; e la sua proposta di rinvio della soluzione della questione triestina e della frontiera orientale era una proposta realistica, perché coincideva – egli stesso non ne era del tutto consapevole – con l’interesse obbiettivo al rinvio che aveva la Russia. Questo mi permisi di segnalarglielo ancora a Parigi. Infatti, quella previsione si avverò. La Russia non ha ratificato il Trattato, anche se Molotov allora attaccò violentemente l’onorevole De Gasperi per fini polemici, sulla proposta del rinvio. Ma quel realismo non si mantenne, e al momento del suo viaggio negli Stati Uniti incominciò a prendere piede nell’animo dell’onorevole De Gasperi da un lato un eccesso di ottimismo, forse in seguito ai brillanti ricevimenti e agli entusiastici consensi del popolo americano; ma gli americani si scaldano facilmente e particolarmente si scaldano gli italiani d’America, generosi oltre ogni dire. E oltre all’ottimismo prese piede anche la confusione fra politica interna e politica estera, confusione che fu all’origine della accettazione della immediata firma del Trattato.

Io fui fra i pochissimi deputati a criticare allora – nel febbraio di quest’anno – quella firma, perché prevedevo le conseguenze di politica estera e di politica interna che ne sarebbero derivate e che ne sono derivate.

Anche l’altro giorno, parlando qui sui motivi di urgenza del dibattito, l’onorevole De Gasperi da un lato si è riferito a questioni molto astratte, alla funzione di equilibrio che noi assolveremmo ratificando il Trattato. Non so che senso questo possa avere, a meno che non sia una ritorsione polemica contro l’onorevole Togliatti, il quale fece capire che si ratifica oggi il Trattato, perché si vuole aderire al blocco occidentale.

Funzione di equilibrio? Ma quale funzione di equilibrio può esercitare un Paese vinto come l’Italia?

Informazioni particolari, valutazione della nostra situazione fuori dei nostri confini, sono tutte cose che non persuadono.

Io spero che l’onorevole De Gasperi, sia pure in seduta segreta, ci dirà queste informazioni particolari e ci parlerà più concretamente di questi strani rapporti che consigliano la firma del Trattato.

E vengo agli argomenti concreti che sono stati addotti in favore della ratifica.

La questione della nostra ammissione all’O.N.U. voglio analizzarla, perché sono persuaso che proprio ciò provi come la ratifica del Trattato non sia urgente e non si debba dare.

Quali sono i Paesi che hanno chiesto di essere ammessi all’O.N.U. e la cui questione deve essere discussa al Consiglio di Sicurezza? Sono l’Italia, l’Austria, la Romania e l’Ungheria. L’Austria, onorevoli colleghi, non ha firmato nessun trattato di pace, perché per disgrazia sua si trova in una situazione peggiore ancora della nostra: nessun trattato è stato redatto nei riguardi dell’Austria. Il caso dell’Austria sarà egualmente discusso all’O.N.U. E gli altri due? Romania e Ungheria? Non vi dice niente questo quadrinomio? Si vota nell’O.N.U.; si contano i voti. Romania e Ungheria si suppone che voteranno, quando fossero ammesse, in un senso; l’Italia e l’Austria si suppone voteranno, quando fossero ammesse, in un altro senso.

C’è una lotta diplomatica, e speriamo che sia solo diplomatica, fra le Grandi Potenze, nell’O.N.U. e fuori dell’O.N.U.

L’ammissione di nuovi Stati è in funzione di questa lotta diplomatica. Ora, evidentemente, noi abbiamo il dovere, come nazione, di profittare di ogni possibilità per rientrare nel consesso internazionale. Anche della rivalità tra le grandi potenze e anche se tali rivalità deprechiamo. Non dobbiamo pagare un particolare pedaggio per avere il diritto di essere ammessi nell’O.N.U., quando è almeno altrettanto forte l’interesse degli altri di includerci nell’O.N.U. Se saremo inclusi o non saremo inclusi, non sarà in funzione della ratifica che daremo o non daremo, ma in funzione della ratifica che la Russia darà o non darà ai Trattati con gli Stati danubiani; cioè, in parole povere, della decisione che l’Unione sovietica prenderà di evacuare o non evacuare l’Ungheria e la Romania, la quale decisione, a sua volta, è in funzione della questione dell’Austria, della speranza che l’Unione sovietica può avere o non avere di trovare un accordo con le altre grandi Potenze sulla questione dell’Austria, sulla questione della Germania. In una situazione di questo genere, addurre la nostra domanda di ingresso all’O.N.U. come un argomento di estrema urgenza per la ratifica del Trattato, mi pare significhi mancare di realismo politico, mi pare significhi fare gratis quello che forse potremmo condizionare, per esempio, a quello che ha detto l’onorevole Cevolotto, all’abolizione di quella parte del preambolo che stabilisce la nostra inferiorità nell’O.N.U. stesso. Un Paese non deve rassegnarsi così alla leggera ad una situazione di inferiorità. Dopo l’altra guerra, la Germania combatté strenuamente, prima di firmare e dopo aver firmato, per una posizione di parità, e non entrò nella Società delle Nazioni finché non l’ottenne.

Altro argomento in favore dell’immediata ratifica: la nostra adesione al piano Marshall. Io devo dire che su questo punto non posso condividere gli argomenti e le preoccupazioni dell’estrema sinistra dell’Assemblea. Il conte Sforza ha fatto benissimo a dare la nostra adesione al piano Marshall. Può darsi che coloro che hanno ospitato i rappresentanti del Governo italiano a Parigi abbiano pensato che la nostra adesione fosse sinonimo della ratifica del Trattato. In tal caso l’errore era loro e non nostro. Ma l’abbiano creduto o non l’abbiano creduto, ciò è una questione secondaria, perché il piano Marshall, che purtroppo non ha ancora una consistenza molto forte, perché è evidentemente in funzione del voto che gli darà o non gli darà il Congresso degli Stati Uniti il quale si riunirà nel gennaio del 1948, cioè fra sei mesi, il piano Marshall, dunque in realtà non è cosa di cui Gran Bretagna e Francia, che sono poi le Potenze ovviamente interessate alla sollecita ratifica del nostro Trattato (anche noi saremmo interessati alla sollecita ratifica di questo Trattato se ci trovassimo al loro posto), il piano Marshall, dicevo, non è cosa di cui queste due potenze con le quali vogliamo e dobbiamo tuttavia collaborare, possano disporre a loro piacimento ed ammettervi chi ratifica e non ammettervi chi non ratifica.

Il piano Marshall riflette tutta la situazione economica e politica degli Stati Uniti.

Onorevoli colleghi, io mi sono permesso, quando l’onorevole De Gasperi venne qui, in febbraio, a prospettarci il prestito americano, di richiamare l’attenzione sul fatto che i prestiti di natura puramente ideologica o puramente umanitaria stavano per finire e che l’ascesa del generale Marshall al dipartimento di Stato avrebbe significato, dopo qualche mese, un cambiamento di rotta, cambiamento di rotta imprevedibile nei suoi sviluppi e nelle opposizioni che avrebbe suscitato, anche perché in America, molto più che in qualsiasi altro Paese, il Ministro degli esteri ha le mani incatenate dall’opinione pubblica, dal Congresso, dal Senato e dal Presidente.

Il cambiamento di rotta indubbiamente c’è ed io credo che, per quanto dipende dalle intenzioni del generale Marshall, questo cambiamento di rotta sia in meglio. Il generale Marshall è uomo dotato indubbiamente di un poderoso pensiero. Basta leggere il suo rapporto sulla guerra, nel quale, tra parentesi, si fa cenno elogiativo dell’azione dei partigiani italiani, che contribuirono, insieme al Corpo italiano di liberazione, alla vittoria degli Alleati in Italia. Si nota in quel rapporto un forte pensiero. Nel piano di Marshall si rivela l’uomo di Stato, che vuole stringere rapporti economici tra l’Europa e l’America, tali da impedire crisi economiche come quelle dell’altro dopoguerra. Questa politica è indipendente dalla ratifica del Trattato da parte dell’Italia.

Come ha spiegato Marshall stesso, vista l’Europa come mercato di sbocco e vista la possibilità di una costruzione economica supernazionale, l’Italia vi ha il suo posto, nella misura delle sue risorse economiche e della sua forza produttiva, in relazione alla sua popolazione di 46 milioni di abitanti. La ratifica del Trattato non ha niente a che fare con ciò.

Anche la Germania occidentale è inclusa nel piano Marshall, su un piede di maggiore importanza che la stessa Italia, come è spiegabile, trovandosi lì il carbone e l’acciaio della Ruhr ed essendo quel popolo laborioso al pari del nostro, e tecnicamente il primo del mondo.

Se la Jugoslavia, la Bulgaria, la Polonia, l’Ungheria, la Romania aderissero al piano Marshall, gli organizzatori della Conferenza, per volontà dello stesso Marshall, sarebbero ben lieti di accoglierle e non domanderebbero se abbiano firmato e ratificato il Trattato. Non so neppure se la Bulgaria abbia ratificato. L’adesione al piano Marshall è al di sopra di tutto questo.

Nella misura in cui esiste sul serio, perché, purtroppo, questo piano Marshall è ancora sub iudice, nella misura in cui esiste, esso prova soltanto che non la ratifica d’un Trattato, ma l’effettiva forza economica e politica d’un popolo è quella che gli apre la via nella comunità dei popoli. In atteggiamento di ratifica o in atteggiamento di resistenza al Trattato si può egualmente ritornare nella comunità dei popoli, se si ha forza e compattezza politica ed economica; si può egualmente restarne fuori, se non la si ha.

È stato fatto cenno alle conseguenze spiacevoli che, particolarmente sul terreno economico, avrebbe il rifiuto o il rinvio della ratifica. Si è fatto cenno alla situazione degli italiani all’estero. Essa certo è andata migliorando, da quando, anche con la collaborazione, di cui gli dobbiamo dare atto, del conte Sforza, il Presidente Roosevelt nel 1942 cessò di considerare gli italiani in America come nemici, dal punto di vista dei loro diritti. Però, onorevoli colleghi, non dimentichiamo che la situazione dei nostri connazionali all’estero non è soltanto in funzione di quello che fa l’Italia o che fanno gli uomini politici italiani; è anche in funzione della loro propria forza.

L’Economist notava l’altro giorno, discutendo il piano Marshall e gli aiuti che l’Italia potrebbe ricevere, il fatto che esistono negli Stati Uniti milioni di cittadini di origine italiana, i quali votano ed il cui voto conta anche per l’elezione presidenziale del 1948. Se l’Economist, rivista inglese d’indubbia competenza e serietà, vede questo nesso fra la posizione degli italiani all’estero e la loro forza propria, non dobbiamo vederlo noi?

D’altra parte non vogliamo neppure escludere che ci possano essere difficoltà in caso di mancata ratifica; ma, per valutare queste difficoltà, bisognerebbe che l’onorevole Sforza o l’onorevole De Gasperi ci dicessero quali garanzie hanno già avuto per il miglioramento della situazione economica dell’Italia e degli italiani all’estero in caso di ratifica. Ci sono le clausole economiche del Trattato. Saranno o non saranno applicate con severità? Saranno o non saranno applicate con larghezza? Il Presidente del Consiglio ed il Ministro degli esteri non ci hanno detto nulla su questo e ci chiedono di ratificare una cambiale in bianco. Se si parla delle difficoltà che potrebbero derivare dalla mancata ratifica, bisogna parlare anche delle garanzie che la politica estera ed in generale la politica del Governo saprebbero conquistare nel caso di ratifica. Solo in tal caso possiamo giudicare con realismo la situazione. Gli stessi accordi finanziari con l’Inghilterra sono stati interpretati in vario modo: quando se ne parlò alla Camera dei Comuni, non se ne parlò allo stesso modo come se ne è parlato in Italia. Fu data un’altra interpretazione, diversa da quella che qui è stata data. Non so dove stesse l’equivoco: spero ci sia un equivoco. Ma queste cose vanno spiegate, perché un documento di questa gravità, che contiene clausole economiche così importanti, necessita di essere chiarito.

Si parla della possibilità della revisione dopo la ratifica del Trattato. Pur essendo, sul terreno generale della questione di principio, di parere diverso da quello dell’onorevole Nenni, tuttavia come giornalista e come deputato, mi sono compiaciuto quando egli affermò, come Ministro degli esteri, la sua idea della lotta per la revisione dopo la ratifica. A parte quelli che possono essere i dissensi tra l’onorevole Nenni e l’onorevole Orlando sulla questione di principio della ratifica, è chiaro che porre la questione della revisione, sia pure dopo la ratifica del Trattato – dato che il Governo ormai è per la ratifica – è una questione fondamentale ed importante. Ma anche qui bisogna avere idea ben chiara di quel che si decide di fare e come si intende farlo.

La questione della revisione è in funzione delle quattro grandi Potenze che debbono ratificare il Trattato: è in funzione di tutte e quattro le grandi Potenze che debbono ratificare il nostro Trattato.

Proprio se ci si mette sul terreno della necessità della ratifica, non si può considerare che esista possibilità di revisione se non collegialmente da parte di tutte e quattro le grandi Potenze. E su questo, finora, il Governo è stato d’accordo. Solo nel caso di mancata ratifica si può pensare a paci separate e a revisioni separate.

Sappiamo che l’onorevole Nenni aveva un piano. Lo espose allora: non potemmo discuterlo, purtroppo, immagino perché non era più Ministro degli esteri. Vorrei che anche il conte Sforza delineasse il suo piano ed il modo di ottenere, o meglio di chiedere (l’ottenere non dipende da noi) la procedura di revisione, prima di portarci al voto sulla questione della ratifica del Trattato.

L’onorevole Bonomi – con l’autorità che egli ha – ha esposto, l’altro giorno, in un articolo del Corriere della Sera, le questioni che, a suo giudizio, devono essere tenute aperte per l’Italia anche dopo la ratifica del Trattato. È notorio che l’onorevole Bonomi è favorevole alla ratifica del Trattato. Egli dice che, dopo la ratifica del Trattato, tre questioni – tutte e tre revisioniste – dovranno essere poste sul tappeto: colonie italiane in Africa; clausole economiche; flotta.

Io penso che nella questione della flotta egli abbia voluto includere anche la questione dell’esercito e della smilitarizzazione delle frontiere.

Le colonie italiane oggi sono occupate dagli inglesi. Dicendo questo, io credo che nessuno possa accusarmi di essere mosso da animosità verso la Gran Bretagna, a fianco della quale noi abbiamo combattuto come cobelligeranti dopo il 1943, ed a fianco della quale gli antifascisti del mondo intero hanno combattuto, quando essa si trovava in condizioni disperate. Indipendentemente dai nostri sentimenti, che sono di indubbia ammirazione verso la Gran Bretagna, verso il suo liberalismo e verso il suo socialismo democratico, e in generale verso la sua fierezza, verso la sua lotta per la libertà, a prescindere da questo, c’è il fatto che la Gran Bretagna possiede le nostre colonie. Noi dovremo rivolgerci alle grandi Potenze per chiedere loro che, al termine del primo anno dopo la validità del Trattato, quando sarà ridiscussa la questione delle colonie in Africa, si abbia da parte loro un atteggiamento favorevole a noi. La Francia, gli Stati Uniti, la Russia dovrebbero, e comunque solo esse possono, persuadere la Gran Bretagna a restituirci, in una forma di mandato, o in una qualsiasi altra forma, qualcuna o tutte le nostre colonie.

Perciò, la questione della revisione, se la si vuole addurre come argomento per l’urgenza della ratifica, prova se mai il contrario, prova se mai che la nostra ratifica ha uno stretto legame con la ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze, anche con la ratifica dell’Unione sovietica. L’Unione sovietica ci è stata ostile nella questione di Trieste, ma nella questione africana potrebbe avere degli interessi che coincidano con i nostri.

In ogni modo, non vi è chi non veda come per incominciare con la prima di tali questioni (quella delle colonie), se la si pone sul terreno della revisione, si debba supporre come data la ratifica da parte di tutte quattro le grandi Potenze e in secondo luogo un atteggiamento benevolo verso di noi da parte di alcune delle grandi Potenze medesime.

Per il resto, io non mi sentirei di condividere le argomentazioni, non più riguardanti la revisione, ma riguardanti la politica da seguire in generale, che adduce l’onorevole Bonomi. Egli si riferisce alla pagina di storia italiana che corre dal 25 luglio 1943 all’8 settembre. Allora Bonomi, che aveva anche la rappresentanza spirituale delle forze democratiche repubblicane, sostenne con molta nobiltà contro Badoglio la tesi che non già prima si dovesse concludere l’armistizio con gli Alleati e poi schierarci in guerra a loro fianco contro la Germania, ma inversamente: prima agire e poi firmare i patti.

Quella tesi prova solo che anche questa volta prima si deve fare una politica estera e poi, se mai, si ratifica, e non inversamente. L’onorevole Bonomi dimostrò da par suo, da storico quale egli è (e lo intuì anche come uomo politico) che se noi facevamo precedere la firma dell’armistizio alla politica e quindi all’azione militare da svolgere, l’armistizio sarebbe stato peggiore. La stessa cosa vale in verità per i Trattati: prima si fa una politica estera e poi si ratifica, se è il caso.

L’onorevole De Gasperi si mise su questa strada nel 1945-46, sulla questione della frontiera orientale. Poi il suo impegno svanì, forse perché si stabilirono delle connessioni tra politica estera e politica interna.

Credo dunque che gli argomenti dell’onorevole Bonomi, Presidente della Commissione dei Trattati, addotti sulla stampa, circa i motivi che rendono urgente la ratifica, siano in realtà argomenti che provino come, prima di dover addivenire alla ratifica – cosa di cui io non sono in generale persuaso – bisogna avere bene scelto una politica estera ed essere stati fermamente coerenti a questa politica estera, almeno per qualche anno.

Questo modo di vedere le cose si potrà anche qualificare per mercanteggiamento, come è opinione del Times, che è un giornale che leggiamo con rispetto tutti, almeno quelli che seguono la stampa inglese, ma di cui sappiamo pure che da cinquant’anni a questa parte non ha mai parteggiato per l’Italia.

Il Times prova solo come questa questione possa essere considerata da diversi punti di vista. È ovvio che il Times deve difendere la urgenza della ratifica di un Trattato che stabilisce tra l’altro la nostra rinuncia alle colonie di Africa e che stabilisce una posizione di favore soprattutto per la Gran Bretagna.

Su molti punti vi è una convergenza tra gli inglesi e noi, perché apparteniamo alla stessa civiltà, perché noi socialisti vogliamo realizzare lo stesso loro socialismo democratico, perché noi democratici vorremmo che l’autogoverno democratico che esiste in Gran Bretagna prendesse radici anche in Italia, perché apparteniamo alla stessa economia occidentale. Ma in questa specifica questione della ratifica del Trattato di pace, i nostri interessi non coincidono affatto.

Infatti, tutte le volte che i Ministri e deputati inglesi parlano dell’Italia alla Camera dei Comuni, ne parlano con crudo e brutale realismo. È vero, noi sosterremo sempre la necessaria collaborazione con la Gran Bretagna, anche perché il nostro atteggiamento verso la Germania deve essere molto più simile a quello della Gran Bretagna che non a quello della Francia. Però su questa specifica questione della ratifica del Trattato noi abbiamo interessi che divergono da quelli inglesi. E perciò le sollecitazioni di Bevin non sono argomenti per convincerci dell’urgenza della ratifica. Sarebbe argomento molto più forte il fatto che si fossero già effettuati i sondaggi necessari presso le potenze che possono invece avere interessi identici ai nostri, rispetto alla revisione delle clausole coloniali africane del Trattato, presso le potenze che in Africa possono preferirci agli inglesi.

E vengo alla questione che per me fondamentalmente prova come non si debba firmare, o almeno, non si debba affrettarci a firmare il Trattato: la questione dei nostri rapporti con la Jugoslavia.

Onorevoli colleghi, forse che la Jugoslavia ha già ratificato, è in procinto di ratificare? Il Ministro degli esteri ci ha parlato dell’opinione dei nostri ambasciatori a Londra e a Parigi: cosa dice il nostro Ministro in Jugoslavia? Non lo sappiamo. Lo sa egli? Probabilmente non lo può ancora sapere; ma il fatto che non lo possa sapere, significa che è una questione ancora aperta. Cosa è in grado di sapere l’onorevole Sforza sulle intenzioni del Governo jugoslavo? Ha il Governo jugoslavo l’intenzione di proporre al suo Parlamento la ratifica del Trattato entro il mese di agosto?

Onorevoli colleghi, per noi, lo Stato con il quale ci troviamo in contesa, contesa che vogliamo dirimere pacificamente – ma che esiste, e non si può ignorare – è la Jugoslavia.

Si sono sollevate grandi questioni: blocco occidentale, blocco orientale, Washington, Mosca; andiamo con gli uni o con gli altri? I nostri problemi immediati sono più modesti, ma non meno importanti: il nostro problema è di giungere ad una chiarificazione con la Jugoslavia. Questo problema è ancora in sospeso; possiamo anche restare avversari; però, senza la ratifica della Jugoslavia, non è ammissibile che ratifichi l’Italia. Come giuliano, io nego al Governo il diritto di ratificare il Trattato, se la Jugoslavia non lo ratifica!

L’articolo 89 del Trattato stabilisce che il Paese che non ratifica – si parla dei paesi vincitori – non godrà dei benefici del Trattato: la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le assegna, perché una particolare situazione militare l’ha già messa in possesso di questi benefici. I territori italiani che devono essere ceduti alla Jugoslavia, la Jugoslavia li ha già annessi e li considera come territori definitivamente suoi e coloro che vi risiedono già sono cittadini jugoslavi: gli italiani di Fiume e di Pisino sono già considerati e trattati come cittadini jugoslavi, a meno che non scappino, a meno che non se ne vadano clandestinamente, abbandonando i loro averi.

In generale, da tutti i punti di vista, militari ed economici, la Jugoslavia gode già dei benefici che il Trattato le dovrebbe dare solo dopo la ratifica.

Il Governo si è preoccupato di questa questione?

Ha domandato in proposito chiarimenti a Belgrado? Ha detto: «Il fatto che godiate questi benefici implica la vostra ratifica?». Finora, la Jugoslavia ha sempre dichiarato di non voler ratificare.

Tra gli argomenti finora addotti dal Governo della Jugoslavia, alcuni sono speciosi, altri rispecchiano l’esuberanza nazionalistica dei popoli giovani ed altri ancora riflettono temi di cui usano i Governi rivoluzionari e totalitari, siano essi di sinistra o non di sinistra. Ma quali che siano questi argomenti, per noi il problema non è solo di controbatterli in sede propagandistica, per noi il problema è di sapere cosa loro realmente faranno e di sapere se noi possiamo modificare il loro atteggiamento, trattando con essi o viceversa, ove ci persuadessimo che in ogni modo non ratificheranno, trarne le conseguenze e porci in un atteggiamento di resistenza.

Io credo di non aver bisogno di dimostrare, come giuliano, cosa rappresenti per noi, per i miei questo Trattato, in particolare nelle clausole che ci feriscono nelle carni vive. Tuttavia io sono sincero fautore di una intesa con la Jugoslavia, come lo sono stato durante tutta la nostra lotta. Sincero fautore; ma anche qui, o gli accordi si fanno sulla base della chiarezza, o meglio non farli. È dovere del Governo di considerare ciò e di dirci quali sono le intenzioni della Jugoslavia. Il giudizio del Governo sulle intenzioni della Jugoslavia deve prima della fine di questo dibattito essere portato alla conoscenza dell’Assemblea; magari in seduta segreta. Occorre inoltre che si sappia che cosa sta facendo il Governo per modificare le intenzioni jugoslave se queste sono a noi ostili o per resistere alla loro realizzazione.

Trieste: il Trattato stabilisce il Territorio libero di Trieste, ma ciò presuppone l’accordo delle quattro Potenze e l’accordo non c’è. Io non so, né vado a sceverare, se ciò sia bene o male, ma constato il fatto. Le prospettive sono quelle di una permanente occupazione militare: probabilmente le truppe inglesi non se ne andranno. Anche questa è una faccenda da considerare.

L’onorevole Sforza ci ha detto che, se noi non ratificheremo il Trattato, saremo una foglia al vento. Ma, onorevole Sforza, un popolo di 46 milioni di abitanti non è mai una foglia in balia del vento. Diciamo piuttosto che 250 mila triestini avulsi dallo Stato, abbandonati alla mercé di potenze occupanti, quelli, sì, sono una foglia al vento.

Prima dunque di ratificare un Trattato, che ha paurose lacune e incognite, è evidente che bisogna andare cauti. Bisogna sapere quali sono le intenzioni che hanno di fronte a Trieste gli inglesi, i russi, gli jugoslavi; e bisogna che l’Assemblea sappia ciò che il Governo farà per tentar di modificare quelle intenzioni. Ecco ciò che noi abbiamo il dovere di fare di fronte ai triestini. Io ho qui le lettere che mi sono state inviate numerose dal Partito repubblicano d’azione di Trieste, dal Comitato di liberazione dell’Istria, dal Comitato dalmati. Io non starò, onorevoli colleghi, a leggervele per intero, perché penso che i sentimenti che pulsano in queste righe siano quegli stessi che pulsano in tutti i nostri cuori.

E la questione dei nostri confini? Dall’articolo 21 del Trattato, noi apprendiamo che la sovranità dell’Italia sul costituendo territorio libero di Trieste avrà termine con l’entrata in vigore del Trattato stesso. Ora, questo significa che non è nostro interesse di affrettare l’entrata in vigore del Trattato medesimo, perché la nostra sovranità oggi, sia pure solo giuridica e teorica, verrebbe a cessare anche giuridicamente da quel momento. Questo è chiaro.

Se noi, ad esempio, potessimo influire sulla possibilità che anche la Russia si decida ad addivenire alla ratifica – è certo che noi non lo possiamo menomamente, trattandosi di una grandissima Potenza come l’Unione sovietica – ma, dico, ove mai noi lo potessimo, noi dovremmo influire non già nel senso di affrettare questo evento, ma dovremmo influire, al contrario, nel senso di farlo rimandare il più possibile, perché dal momento in cui quella ratifica fosse depositata e il Trattato fosse per conseguenza diventato esecutivo, noi esplicitamente avremmo rinunciato alla nostra sovranità su Trieste.

Noi avremmo rinunciato, onorevoli colleghi, alla nostra sovranità su Trieste, senza sapere se Trieste diventerà una Zanzibar, una Salonicco, o non so che cosa. Onorevole Ministro degli esteri, onorevole Presidente del Consiglio, queste sono questioni che non avete il diritto di sottovalutare, sulle quali non avete il diritto di accontentarvi di vaghe assicurazioni e di un generico ottimismo; queste sono questioni che vanno vagliate con estrema vigilanza. Se occorre, facciamo una seduta segreta, ma bisogna discuterne, se si vuole proprio ratificare il Trattato, cioè se si decide di affrettare con la nostra ratifica il momento in cui il Trattato sarà esecutivo e in cui rinunceremo ai nostri diritti su Trieste. Se si vuole questo, bisogna addurre dei fatti gravi per suffragarlo, delle prove circa la possibilità di erigere effettivamente lo Stato libero di Trieste e assicurare la collaborazione fra italiani e slavi, e la possibilità che italiani e slavi, una volta stabilita la loro collaborazione, non siano poi alla mercé di influenze militari, essi da una parte e noi dall’altra.

Mi pare che l’onorevole De Gasperi abbia basato tutta la sua polemica a Parigi, nell’agosto 1946, sui pericoli che possono derivare dallo Stato libero di Trieste. E l’onorevole De Gasperi condusse coraggiosamente quella polemica, non scevra di rischi. Da quella polemica con Molotov si va ora all’atteggiamento opposto: si ratifica, pur nel costante peggioramento delle condizioni di Trieste. Non ho certo bisogno di parlarvi di che cosa sia successo nel Governo militare alleato di Trieste in queste ultime settimane. Ma non è possibile passare così da un atteggiamento estremo all’altro. Bisogna difendere quello che si potrebbe ancora difendere di pratico, di concreto; bisogna scendere un po’ sul terreno della realtà empirica in questa questione: tracciare una via di mezzo e percorrerla; e ratificare – ammesso che si debba ratificare, il che io non do ancora per provato – solo quando una parte almeno di quella via si sia percorsa.

La ratifica russa perché tarda? Io credo che la ratifica russa tardi per questioni che si riferiscono alla Germania, all’Austria e ai Paesi danubiani e balcanici. Ora, evidentemente, vi è una grossa questione: entro 90 giorni dal giorno che i trattati saranno esecutivi, cioè ratificati da tutte e quattro le Potenze, questo Trattato e quegli altri Trattati, entro novanta giorni questo Paese e quegli altri Paesi dovranno essere evacuati; e questo è un decisivo argomento per ogni Paese, perché ogni Paese desidera l’evacuazione del suo suolo da parte delle truppe straniere.

Onorevoli colleghi, proprio perché si tratta di un fatto, direi così, spontaneo, cioè che ogni Paese che subisce l’occupazione desideri la evacuazione, proprio per questo dobbiamo anche sapere che in merito le Potenze occupanti non vengono sempre incontro ai desideri degli occupati. E anche qui noi non sappiamo affatto se, nel caso che dessimo la nostra ratifica, e la Russia desse la sua, veramente novanta giorni dopo, data la mancata soluzione della questione di Trieste, dato il mancato accordo in Austria, il nostro suolo sarebbe evacuato. In realtà, il nostro Trattato potrebbe essere esecutivo, ma l’Unione sovietica potrebbe dire che non evacua l’Austria perché non c’è il Trattato austriaco; che non evacua l’Ungheria, perché deve comunicare con l’Austria e allora neanche gli americani possono evacuare l’Austria; e allora avranno ovviamente le vie di comunicazione verso l’Austria per le loro truppe, che passano attraverso l’Italia.

Quale garanzia abbiamo dell’effettiva evacuazione? Io credo che prima di ratificare noi dovremmo assicurarci che, qualunque cosa avvenga in Austria, il nostro Paese, che avesse ratificato dopo la ratifica russa, sarà evacuato, che l’inadempienza dell’Unione sovietica in Ungheria, motivata dalla mancanza del Trattato austriaco, non sarà seguita dall’inadempienza da parte degli americani in Italia.

Facciamo, se occorre, una seduta segreta, ma la questione va chiarita; è inutile illudere il Paese dicendo che, quando il Trattato sarà divenuto esecutivo, entro novanta giorni il nostro suolo sarà stato evacuato. Noi abbiamo sempre avuto un atteggiamento di estrema amicizia verso le truppe anglo-americane; ma non trasformate questo atteggiamento in insofferenza, quale sorgerebbe fatalmente quando 90 giorni dopo si dicesse al Paese che, invece di diventare esecutivo, il Trattato non lo è, su questo punto.

Noi possiamo avere qualsiasi opinione sul procedere dell’Unione sovietica in Ungheria e in Romania; ma qui dobbiamo preoccuparci solo della situazione dell’Italia, e non possiamo ratificare finché non abbiamo la garanzia che 90 giorni dopo l’esecutività di questo Trattato lo truppe alleate lasceranno l’Italia.

Si può dire che esse proteggono noi per il caso di un’eventuale aggressione da parte della Jugoslavia. Io voglio prendere in considerazione tutte le ipotesi, perché non devo nutrire e ammettere qui preferenze di parte. Ma anche in quel caso, che ha come presupposto che non ci si sia potuti intendere con la Jugoslavia, che ci sia il pericolo che la Jugoslavia voglia prendersi Trieste e quindi si renda necessaria la presenza di truppe angloamericane in Italia, ci dovrebbe essere un nuovo Trattato italo-anglo-americano, redatto da pari a pari, perché… le cose hanno preso un andamento per cui è legittimo supporre anche il peggio, e sia pure per combattere contro il verificarsi del peggio.

Onorevole De Gasperi, io capisco bene che sono questioni delicate, e proprio per questa ragione io e molti colleghi eravamo contrari all’immediata discussione; ma se si discute, bisogna che il Governo parli con chiarezza, oppure, cosa più ragionevole ancora, si rinvii la ratifica.

Si dice che, se ratifichiamo oggi, riacquisteremo la nostra indipendenza. Per la questione materiale – dell’occupazione alleata – io ho già provato che questo risultato è dubbio. Bisogna vederci più chiaro. La questione dell’indipendenza coinvolge però anche altri problemi: c’è l’indipendenza politica e l’indipendenza economica.

Non vi è dubbio, su questo, che noi che sediamo su questi pochi banchi siamo contro ogni pensiero di autarchia economica, di nazionalismo economico. Questi pensieri esulano dalla nostra mente. Come siamo stati dal primo istante per l’adesione al piano Marshall, pur sapendo disgraziatamente l’incerta consistenza di questo piano, così siamo sempre per la più grande collaborazione economica con tutti i Paesi. Certamente questa collaborazione internazionale può nascere, ed il primo Stato che può crearla è l’America del Nord. Ma se si dice che avremo l’indipendenza solo dopo la ratifica, al nostro cervello viene un po’ il dubbio che prima ci si chieda la ratifica per avere l’indipendenza e poi ci si chieda ancora questo o quest’altro per avere l’indipendenza, oppure prima ci si offre un prestito per-avere la ratifica e poi ci si chiede la ratifica preventiva e la formazione di un certo Governo per poter discutere in concreto del prestito.

Il generale Marshall è un uomo di Stato che rappresenta in America la tendenza politica opposta alla diplomazia del dollaro, ma questo non significa che la diplomazia del dollaro non esista più. Il generale Marshall non è solo a decidere, così come l’onorevole De Gasperi non è solo, ma tiene conto degli uomini alla sua destra e alla sua sinistra.

Così non si può ignorare, non si può far finta d’ignorare che la questione dell’indipendenza politica ed economica italiana può sempre essere compromessa dalla nostra cedevolezza davanti alle pressioni altrui.

La realtà è che anche dopo la ratifica bisognerà sostenere una lotta per riavere l’indipendenza politica ed economica. Per poterla sostenere, bisogna percorrere una via che non è certamente quella su cui si è messo il Governo dal mese di gennaio in poi. Viceversa, anche senza la ratifica si può ottenere l’indipendenza politica ed economica, ove si riesca a trovare un terreno di franca intesa con il generale Marshall, che è proprio quegli che non sollecita la ratifica con la stessa intensità della Francia e dell’Inghilterra, anche se genericamente la desidera.

Noi siamo psicologicamente più vicini agli inglesi e ai francesi che agli americani; ma questo fatto non toglie che sulla questione della ratifica inglesi e francesi hanno interessi diversi dai nostri, mentre gli Stati Uniti possono vedere la questione con maggiore larghezza.

C’era e c’è, a mio giudizio, un margine per far valere le posizioni nostre e anche per trovare la formula che permetta di conciliare la nostra appartenenza al mondo economico, che ha il suo centro negli Stati Uniti con la nostra indipendenza politica e con la nostra indipendenza di giudizio.

Ma la sicurezza di avere fatto il necessario noi non l’abbiamo, onorevole De Gasperi e onorevole Sforza. Noi non abbiamo la sensazione che le pressioni che avete accettato e subito per la ratifica, siano veramente il mezzo migliore per stabilire rapporti effettivamente proficui tra noi e gli altri.

Non è una questione di equilibrio. L’equilibrio è impossibile, perché per stare in equilibrio fra due potenze in conflitto ci vogliono altre forze che quelle che noi abbiamo. In caso di guerra noi saremmo fatalmente occupati o da una parte o dall’altra.

Quello che chiediamo è che, indipendentemente dall’estrema ambizione di tenere, in caso di conflitto, una posizione di equilibrio, voi cerchiate di creare condizioni tali fra noi e gli altri, per cui le potenze non ci ricattino, in tempo di pace, in un senso o nell’altro.

Ecco, a mio giudizio, il problema di politica estera del Governo.

Noi dobbiamo tener fede a questa prospettiva. Io ho ammesso un momento fa quello che ci viene dall’insegnamento delle cose: in caso di conflitto noi saremmo occupati dall’una o dall’altra parte. Ma una cosa dobbiamo evitare: l’essere arruolati da una parte o dall’altra.

L’Italia – caduto il fascismo – non deve arruolarsi sotto la bandiera altrui, né da una parte né dall’altra, e per resistere alla pressione formidabile che si eserciterebbe su di noi anche solo in condizioni di acuto conflitto diplomatico, bisogna cominciare ad abituarci a resistere su questioni come quella del Trattato. Onorevoli colleghi, noi non abbiamo il diritto di ripetere volontariamente la tragedia spontaneamente prodottasi nel passato nostro recente, la tragedia per cui la guerra mondiale dovette trasformarsi tra di noi in guerra civile. Dobbiamo avere la forza di restare piuttosto soli.

E questo non è in contradizione con la cooperazione economica e politica. Ripeto, sono per la cooperazione politica ed economica con gli Stati Uniti d’America e con gli altri Paesi che sono compresi nel piano Marshall, così come sarei per la cooperazione con i paesi d’Oriente, ove questa cooperazione diventasse fattibile e spero che, con alcuni almeno di questi Paesi, diventi fattibile e assai proficua; spero che gli accordi con i Paesi orientali diventino facili, almeno sul terreno economico. Ma, ripeto, l’adesione agli accordi economici e politici con l’Occidente non significa che dobbiamo lasciar credere a quei paesi (né agli altri) che essi possono influire su decisioni fondamentali nostre, non fosse che per sollecitarne l’urgente definizione.

Proprio sulla questione del Trattato bisogna provare che, finché si tratterà di cooperazione politica economica, diremo di sì di tutto cuore; ma quando si facessero pressioni, e voi sapete che ove c’è rischio di conflitto si fanno spesso pressioni, noi dobbiamo metterci in grado di resistere a qualsiasi pressione; dobbiamo rafforzare dunque la nostra volontà di resistenza.

L’onorevole Sforza ha delineato la filosofia di un’Italia indipendente e che tuttavia coopera con tutti i Paesi del mondo in una situazione in cui si sciolgono le frontiere. Totalmente d’accordo in questa visione, anche se non d’accordo – purtroppo – nella prospettiva di una sua immediata o rapida attuazione; ma se le frontiere si sciolgono e si supera la propria indipendenza e sovranità nazionale, e si va verso la Federazione europea o mondiale, si vada tutti e non solo noi. Non possiamo dare solo noi l’esempio.

Potremmo anche dare l’esempio per primi, ma solo in una determinata situazione in cui avessimo la certezza che gli altri ci seguiranno; ma non quando tutti fanno l’opposto.

Noi dobbiamo avere dunque un atteggiamento tale, da provare a tutti che le decisioni fondamentali della nostra politica estera saranno prese indipendentemente da ogni pressione; e siccome è emerso il sospetto che pressioni vi siano state, proprio per questo non dobbiamo ratificare. Avrei voluto che l’onorevole De Gasperi, quando si recò in America, avesse avuto un atteggiamento altrettanto fermo nei confronti di Byrnes e Truman come lo ebbe a Parigi, dove tenne coraggiosamente testa a Molotov. Byrnes, accogliendolo, nel brindisi, diede invece come un dato di fatto acquisito la nostra firma (allora si trattava di firma).

Purtroppo il Trattato è costantemente peggiorato da quando se ne discusse la prima volta a Londra nel 1945. A Londra si ammise il principio etnico. È vero che non bisognava farsi molte illusioni in proposito. Alcuni di noi – ricordo il compianto Adolfo Omodeo – misero in guardia l’opinione italiana e il Governo stesso contro la sopravalutazione della stabilità, del risultato acquisito. Ad ogni modo il risultato c’era, anche se più fragile di quanto si immaginasse da parte dello stesso Governo, anche se si sopravvalutò il risultato e forse per averlo sopravvalutato non si chiese il plebiscito.

Dal principio etnico si passa alla annessione di tutta l’Istria alla Jugoslavia. Anche questo senza che ciò sia conforme all’articolo 89 del Trattato. È vero che gli anglo-americani sono ancora a Pola, ma è anche vero che gli italiani non ci sono più, e che l’amministrazione di Pola praticamente passa già in mano jugoslava. Continua a peggiorare la situazione a Trieste, che il principio etnico darebbe indubbiamente all’Italia. L’onorevole De Gasperi riteneva nel 1945 che l’internazionalizzazione valesse solo per il porto. Io non mi feci illusioni e lo scrissi sui giornali; ma poi naturalmente sostenni le speranze dell’onorevole De Gasperi. Si passa dunque allo Stato libero di Trieste. E poi non c’è più nemmeno il disgraziato Stato libero di Trieste, che era meglio di niente, perché pur staccando Trieste dall’Italia, doveva avere una Costituzione che assicurava la sua italianità. Lo Stato libero di Trieste non c’è più. C’è una occupazione militare che può oggi essere di questo colore e domani di quell’altro. Nessuna garanzia per Trieste.

Anche la questione della smilitarizzazione delle frontiere diventa più grave, man mano che la situazione internazionale si acuisce.

Per i rapporti economici miglioramento sostanziale non c’è; e ove c’è, non è ancora garantito, non è reso indipendente dalle pressioni; la nostra politica estera ed economica è ancora tale, che se qualche potente dice di sì, dobbiamo dire di sì; se dice di no, dobbiamo dire di no. Ancora non si tratta dunque di garanzie economiche, ma di cosa più modesta.

Garanzie in generale sono quelle che si hanno indipendentemente da un orientamento di politica estera. Un accordo economico veramente forte è quello che è indipendente da quello che sarà domani l’indirizzo politico estero nostro. Credo che gli errori del Governo sulla questione del Trattato provengano dal punto di partenza che non è stato bene impostato da parte del Governo, e devo dire neppure da parte dei partiti di sinistra, che oggi non fanno più parte del Governo, ma che ne fecero parte fino a poco fa.

Si ammise troppo facilmente la nostra possibilità di vivere, di prosperare, firmando un Trattato incluso in un mondo diviso in zone di influenza. Dovevamo invece metterci fin dal principio in un atteggiamento di resistenza, per non essere assegnati fatalmente ad una zona di influenza. Per me oggi è indifferente l’ideologia che si propaganda, il colore della zona a cui ci assegnano; ma fatto sta che una Potenza come l’Italia, che non ha forze militari, ma tuttavia è grande potenza, in una situazione in cui il mondo è diviso in zone di influenza ha sempre la peggio. Dunque l’Italia, come ha spiegato l’onorevole Croce e come spiegherà forse l’onorevole Orlando, ha interesse di resistere alle zone di influenza.

E anche nella questione della Germania; non posso essere d’accordo né con l’onorevole Togliatti né con l’onorevole Sforza. Non con Togliatti, perché egli sposa una tesi vendicativa francese che, a mio giudizio, è sbagliata. L’Italia ha interesse a che il carbone e l’acciaio tedesco sia prodotto nella più larga misura possibile e che il mercato tedesco rifiorisca e che la Germania ridiventi indipendente, perché l’indipendenza della Germania assicura l’indipendenza dell’Italia.

Questo fatto di interdipendenza esiste, malgrado che con la Germania ci siamo trovati due volte l’una contro l’altra in questo secolo e anche se diciamo di esserci trovati dieci volte l’una contro l’altra dai tempi del Medioevo. Esiste un’Europa solo se l’Italia e la Germania e la Francia sono tutte in piedi, se vivono e fioriscono.

Accettare perciò a cuore leggero l’articolo 18 del Trattato, che impegna noi a priori di riconoscere il trattamento che sarà imposto alla Germania, non è giusto; io purtroppo non conosco alcun atteggiamento di resistenza del Governo a questo articolo 18. Perciò dico che l’atteggiamento dell’onorevole Sforza non mi trova consenziente. Anche questa è una questione da soppesare prima di ratificare, perché abbiamo bisogno dell’amicizia del popolo francese, del popolo inglese, del popolo statunitense, del popolo russo, del popolo jugoslavo, ma avremo anche bisogno della amicizia del popolo tedesco. Se si vuole fare una politica popolare bisogna tener conto di tutti i popoli d’Europa. L’onorevole Sforza ha fatto un accenno alla necessità della ratifica del Trattato nello spirito di democrazia popolare che anima l’Europa e l’Italia. Speriamo che finisca con l’animarli; per il momento non prevale questo spirito di democrazia popolare in Europa. Non prevale per la volontà dei vincitori e forse anche per l’immaturità dei vinti.

La questione della ratifica o meno dovrebbe essere presentata qui da un Governo che non fosse di parte. È questa una questione di cui le generazioni future terranno conto. Trattati di questo genere, trattati di petizione, trattati duri imposti dai vincitori ai vinti, sono presentati ai rispettivi Parlamenti o da Governi di funzionari e di tecnici, oppure da Governi di larga coalizione e non da Governi di un solo colore. Questa è l’esperienza che voi ricaverete da molti dei casi storici che avete citato, di Paesi che dopo una sconfitta hanno firmato. Se così non fate, cadete nell’errore delle destre in Francia dopo il 1870, dove – come denunciò Gambetta – fu un Governo di colore a presentare il Trattato per la ratifica, ed era un Governo che si illudeva di avere la possibilità di essere conservatore e pacifista e invece produsse lo scoppio – non immediato ma fatale – dello sciovinismo nazionalista e della volontà di rivincita.

Tendere la corda in un determinato senso provoca sempre la reazione in senso inverso. Non bisogna tendere la corda, quando si hanno problemi nazionali di questo genere in discussione. La ratifica suppone, se mai, un Governo di tecnici e di funzionari o un Governo di larga coalizione. In tal caso soltanto si riesce ad ottenere e creare un atteggiamento di concordia nazionale.

Onorevole Sforza, lei ha accennato al Governo Giolitti che fu rovesciato dalla campagna nazionalista. Però il Governo Giolitti non fu rovesciato solo per colpe altrui. C’erano anche gli errori di politica interna ed estera di quel Governo, e senza quegli errori il fascismo non si sarebbe sviluppato. Noi non riavremo il fascismo. Non c’è oggi nessun pericolo di rivederlo ed al riguardo io non ho preoccupazioni; ma possiamo avere ancora situazioni reazionarie diverse dal fascismo, ma ugualmente dannose ed ugualmente contrarie alla libertà e alla democrazia sociale e popolare. Onorevole Sforza, bisogna che il Governo, il quale prende posizione davanti a questo Trattato, per accettarlo o rifiutarlo, sia immune da ogni critica al riguardo.

Per anni noi cammineremo sull’orlo di una strada pericolosa, per colpa delle grandi Potenze vincitrici, se volete della situazione economica e politica del mondo intero. Ne usciremo, speriamo, forse attraverso una intesa russo-americana, forse in un altro modo; non lo sappiamo.

Ad ogni modo, io concludo con la filosofia di Croce: è indispensabile un atteggiamento di durezza da parte dell’Italia lungo questo cammino pericoloso; occorre un atteggiamento di strenua difesa della nostra indipendenza, anche dalle pressioni più benevole e più paterne. Ci vuole anche la fede, ma soprattutto la fede nella capacità dei popoli e delle pubbliche opinioni di spezzare il sistema delle zone d’influenza, di obbligare i Governi ad un atteggiamento internazionale diverso da quello attuale.

Quella di Croce è anche la filosofia della democrazia socialista indipendente, che non ricade né nel massimalismo né nel riformismo. Per questo, nella situazione attuale, mi è impossibile dare il mio voto alla ratifica del Trattato (Applausi).

PRESIDENTE. La seduta è rinviata a domani, alle ore 10, per il seguito della discussione sull’imposta patrimoniale. Alle ore 17, in seduta pomeridiana, sarà proseguita la discussione sul Trattato di pace.

La seduta termina alle 24.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).