Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 29 LUGLIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

Indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

 

Congedo:

Presidente

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23)

Presidente

Togliatti

Einaudi

Pacciardi

 

Disegno di legge (Seguito della discussione):

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Presidente

Pella, Ministro delle finanze

Cappi

Cimenti

Caroleo

Canevari

Grazia

Dugoni

Adonnino

La Malfa, Relatore

Micheli

Pesenti

Bertone

Pallastrelli

Scoccimarro

Tosi

Pesenti

Quintieri Quinto

Corbino

Camangi

Chiostergi

Fabbri

Piemonte

Foa

Targetti

Vanoni

Gronchi

 

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 17.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Marazza.

(È concesso).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.

È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi, da parecchi giorni dura questa nostra discussione sopra la proposta, presentataci dal nostro Governo, di essere autorizzato alla ratifica del Trattato di pace, preparato per l’Italia dalle quattro grandi Potenze e definitivamente redatto a Parigi alla Conferenza dei ventuno; trattato al quale già l’Italia, del resto, ha posto la propria firma, per decisione del Governo, nel mese di febbraio. Da parecchi giorni dura la discussione e nel corso di essa abbiamo sentito gli interventi di colleghi di tutte le parti, che abbiamo seguito con rispetto o per lo meno con sostenuta attenzione. Nonostante ciò, nonostante che tutte le opinioni siano ormai, credo, state espresse e nonostante l’ampia esposizione fatta dal nostro Ministro degli esteri, l’impressione nostra è che tuttora domini nell’Assemblea uno stato d’animo, se non di confusione, per lo meno di perplessità. La perplessità domina, oltre che nell’Assemblea come tale, nella coscienza di ciascuno di noi. Di fronte alla gravità dell’atto che ci viene chiesto, ciascuno di noi interroga se stesso ed è ancor oggi dubbioso.

Noi sentiamo infatti che in questo dibattito vi è qualche cosa che trascende le nostre persone, che trascende i partiti e la lotta dei partiti, che trascende l’Assemblea stessa, direi che trascende anche il presente politico del Paese con le sue incertezze, i suoi contrasti, le sue lotte, e con la sua fondamentale contraddizione, fra una spinta e una aspirazione unitaria, che fu essenziale nella vita politica italiana dalla vigilia della liberazione fino ad oggi e persiste tuttora nella maggioranza del popolo italiano, e dall’altra parte un Governo il quale invece ha voluto costituirsi come Governo di parte, e cioè forzatamente come Governo di una parte contro l’altra del Paese. La maggioranza di noi comprende come nel momento attuale, anche questo aspetto della situazione italiana sia superato dalla gravità del tema che ci è stato presentato. In sostanza, due cose dominano questo dibattito: il passato del nostro popolo prima di tutto, il passato di questa nazione italiana, la quale si è costituita ad unità attraverso sforzi durati secoli e secoli, che ha creato così tardi il proprio Stato unitario, lo ha difeso e miracolosamente è riuscita, all’ultimo momento, a salvarlo nel corso dell’ultima catastrofe che ne ha minacciato la esistenza stessa. Oltre al passato, l’avvenire della nazione italiana, il futuro che dobbiamo garantire a noi stessi e alle generazioni che verranno dopo di noi, a questo Stato unitario italiano e alla nazione unita, affinché essi possano continuare a progredire sulla via del loro destino.

Certo, di fronte alla gravità del tema che sta davanti a noi, un altro metodo di discussione e anche di ratifica avevamo pensato. Avevamo pensato a un dibattito rapido, limitato a un’espressione di pensiero da parte di alcuni elementi fra i più rappresentativi dell’Assemblea, forse di un solo oratore, il quale esprimesse quello che di comune c’è oggi nella coscienza di tutte le forze democratiche della nazione italiana e poi un voto: un voto il quale per il modo stesso come fosse dato esprimesse quell’elemento di necessità nazionale che sentiamo tutti presente quando parliamo del Trattato di pace e ne discutiamo.

In questo modo, l’atto di ratifica avrebbe potuto essere e sarebbe stato isolato dalle contingenze della nostra vita politica e forse anche dalle contingenze della nostra politica internazionale; sarebbe stato l’atto di coscienza compiuto dalla democrazia italiana nel momento in cui essa chiude un passato, registra quello che ha potuto essere salvato e si avvia verso l’avvenire.

Ad un simile metodo di discissione voi sapete, colleghi, che si era pensato: la proposta era sgorgata dalla mente di alcuni dei migliori uomini del nostro Paese, da qualcuno, anzi, che occupa un’altissima carica politica nello Stato repubblicano. Quel metodo però esigeva alcune cose. Esigeva una cosa, in particolare, che, oggi, purtroppo non abbiamo: un Governo il quale potesse dire di parlare, nel momento in cui ci propone l’atto della ratifica, a nome di tutte le parti del Paese, a nome di tutti i partiti democratici e repubblicani.

Siamo così costretti a seguire un metodo diverso e la cosa è stata condotta in modo tale che ci è impossibile stabilire un limite qualsiasi a questa nostra discussione. Noi ce ne doliamo, perché ci sembra che una ratifica fatta con quell’altro metodo meglio avrebbe corrisposto alle condizioni in cui si trova oggi il Paese, meglio avrebbe accentuato davanti a tutto il Paese che la Nazione italiana oggi, di fronte alle tragiche conseguenze della guerra, non ancora completamente liquidate, e di fronte ai compiti che si pongono per la sua rinascita, ha bisogno ancora e soprattutto di una solida sua unità, di un’unità politica la quale si rifletta prima di tutto e anzitutto nell’esecutivo della Nazione, nel Governo che ne dirige le sorti.

Le cose sono andate diversamente, e precisamente sono state condotte in modo tale che, invece di persuaderci ed unirci, ha accresciuto in tutti noi la perplessità di fronte all’atto che ci viene chiesto. Prima di tutto abbiamo diritto di essere perplessi per il modo, e vorrei dire anche per la persona che ci chiede la ratifica – uomo o partito che essa sia – per il fatto che la ratifica ci viene chiesta, e ci viene chiesta in forma urgente, precisamente dal capo e dagli uomini di quella Democrazia cristiana che prima di oggi condussero – e condussero largamente, in modo non opportuno – una campagna attorno al Trattato di pace, negando che esso potesse venir firmato e ratificato, gettando contro coloro i quali affermavano che si sarebbe anche potuto firmare e ratificare, per determinati motivi, le peggiori accuse: di non aver senso nazionale, di rinunciare alla difesa dei beni della Nazione, di capitolare di fronte alle esigenze della vita del Paese. Non voglio citare i documenti e gli scritti attraverso cui quella campagna venne fatta dagli uomini che stanno alla testa di quel partito; sta di fatto però che nel momento in cui vediamo questo stesso partito chiedere oggi la ratifica, abbiamo il diritto di essere perplessi: il voltafaccia è troppo grande. (Commenti al centro). Sono cambiate le condizioni, lo ammetto, però allora ci si disse che mai avrebbe dovuto il Trattato essere o firmato o ratificato; ho qui le citazioni e ve le risparmio. Quella campagna fu dunque grave errore dei dirigenti del Partito democratico cristiano, perché creò in seno alla Nazione una scissione che era inutile e dannosa, poiché la questione del Trattato era una di quelle che noi dovevamo avere la capacità e la forza di esaminare tutti insieme, superando ogni egoismo di partito, di Governo o di opposizione, e rifacendoci solo a quelli che sono i supremi sentimenti e interessi della Nazione.

Quel grave errore della Democrazia cristiana ne accompagnava del resto altri, e altrettanto gravi. Essa continuava una politica estera del partito democristiano profondamente sbagliata, e profondamente sbagliata perché invece di sapersi elevare alla coscienza delle necessità unitarie della vita nazionale, di ogni questione controversa inevitabilmente era tratta a fare una questione di speculazione e di lotta tra i partiti. Di questo ha sofferto tutto il Paese; e voi stessi ne avete sofferto, perché avete perduto il prestigio (Commenti al centro), che avreste invece potuto avere mostrandovi come un partito capace di tener conto di tutte le esigenze nazionali e di fare veramente una politica italiana. Ma l’Italia soprattutto ne ha sofferto, ed è quello che ci preoccupa di più. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Subiamo anche questo per amor di Patria!

TOGLIATTI. Ma la perplessità deriva anche dal momento in cui la ratifica ci viene chiesta e ci viene chiesta con urgenza, quando, secondo l’opinione degli uomini più competenti in diritto internazionale che siedono in questa Assemblea, essa non sarebbe in sé e per sé assolutamente necessaria, in quanto la necessità assoluta della ratifica sorgerà solo nel momento in cui il Trattato sarà perfetto, allo scopo di dimostrare che non facciamo resistenza alla sua esecuzione. Ma il Trattato non è perfetto ancora: manca una delle ratifiche principali, oltre a qualche ratifica secondaria. Di qui la nostra perplessità che deriva dal fatto che prima, quando mancavano parecchie delle ratifiche principali, ci si disse che bisognava attendere quello che avrebbero fatto la Commissione degli esteri del Senato americano e il Senato stesso. Va bene, se abbiamo atteso per gli uni è giusto che si attenda per gli altri. Di qui una seconda causa della nostra perplessità.

Ma credo che la causa fondamentale è che di fronte a queste due incongruenze, di cui la prima è la contraddizione, anzi il voltafaccia nella politica della Democrazia cristiana, la seconda è la richiesta della ratifica quando questa non è ancora assolutamente indispensabile, siamo inevitabilmente portati a connettere la richiesta che il Governo ci fa con tutti gli altri atti della sua politica estera.

La ratifica illogica, secondo le direttive di politica estera dei democristiani, non giustificata secondo le norme stesse del Trattato come atto di necessità nel momento presente, trova dovunque la sua giustificazione in qualche altra cosa? E in che cosa? È essa elemento necessario di una determinata politica estera? E di quale?

Siamo quindi tratti inevitabilmente al dibattito generale di politica estera, e affermo qui che questo dibattito lo abbiamo desiderato, l’abbiamo auspicato e voluto. Lo stesso nostro intervento la sera in cui si dette il precedente voto circa l’opportunità o meno di avere questa discussione in questo periodo dei nostri lavori parlamentari, fu volto a provocare questo dibattito, perché lo riteniamo non solo necessario ma indispensabile. Il Paese deve oggi sapere qual è la politica estera del suo Governo, e un’opposizione come noi siamo – insieme con voi, colleghi della sinistra – credo abbia non solo il diritto ma il dovere di parlare a questo proposito molto chiaramente, appunto per il grado di acutezza cui sono giunti i rapporti internazionali, e che avvertiamo non solo istintivamente ma per i documenti, gli atti, le discussioni che sono a nostra conoscenza.

Colleghi della Costituente, io dirò dunque senza riserva quello che noi pensiamo della politica estera di questo Governo e della situazione internazionale. Mi hanno detto che sarebbe bene che noi comunisti, ala estrema dell’opposizione al Governo, non esprimessimo in modo del tutto chiaro le nostre critiche, e ciò allo scopo di permettere che si formi un fronte più largo per il rinvio della ratifica. Vi confesso di non essere stato sensibile a questo suggerimento.

Signori della destra, se la vostra sensibilità nazionale è così piccola che voi siete disposti a modificare la vostra posizione che argomentate o cercate di argomentare con motivi profondi, unicamente perché temete questo o quell’altro schieramento parlamentare, vuol dire che le ragioni che portate sono ragioni in cui in realtà credete ben poco. Il dovere nostro è di parlare; e parleremo come parla una opposizione democratica la quale si propone, pur essendo fuori del Governo, ponendo le questioni con quella acutezza che la situazione richiede, d’influenzare il Governo stesso attraverso la opinione del Paese. Un Governo il quale voglia essere democratico, non può non tener conto di quanto una opposizione dice, soprattutto quando sa che questa opposizione rappresenta una parte così importante dell’opinione pubblica come noi rappresentiamo. In questo modo noi contribuiamo a determinare la politica estera italiana pur essendo fuori del Governo. Anche per questo gli schieramenti occasionali di Assemblea non sono il fattore determinante decisivo della nostra posizione.

Se partissimo da una visuale ristretta di partito forse potremmo anche essere soddisfatti che il partito che oggi è il partito dirigente della borghesia italiana, cioè il Partito democratico cristiano e i gruppi dell’estrema destra, diano il loro voto favorevole alla ratifica. Ricordiamo la recente storia italiana, e la recente storia tedesca. Ricordiamo quale arma terribile fu in Germania e da noi, nelle mani dei gruppi dell’estrema destra nella lotta contro la democrazia, la politica di rivincita. E in sostanza, se domani vedessimo i gruppi dell’estrema destra – come vediamo oggi il partito dirigente della borghesia italiana – votare per la ratifica, sollecitare la ratifica, dovremmo essere contenti. Quest’arma verrebbe, se non spezzata, per lo meno spuntata nelle mani dei gruppi più reazionari delle nostre classi dirigenti borghesi. Per questo consideriamo con animo diverso da quello di molti altri partiti gli schieramenti che si produrranno a questo proposito. Quello che ci interessa è di esprimere la nostra opinione davanti a questa Assemblea e davanti al popolo italiano, e perciò che il dibattito continui, che si sviluppi, fino a mettere in chiaro molte cose di più di quante non ne abbia messo sinora.

Che cosa è il Trattato? Che cosa significa il Trattato? Tutti lo sappiamo. Conosciamo la durezza di alcune delle sue clausole politiche, territoriali, economico-finanziarie, militari. Non ho bisogno di fermarmi sopra di esse. Tutti noi, quando ne parliamo, ne parliamo con amarezza, con dolore. Vi è in questo sentimento qualche cosa che è comune a tutti noi e a tutto il popolo italiano. Il nostro Paese è stato portato dalle sue classi dirigenti a un punto al quale noi speravamo e ci auguravamo che mai dovesse essere portato.

Però, quando da questo sentimento ci si sforza di passare a un giudizio storico-politico sulle cause della durezza di queste clausole, allora l’accordo non è più completo. Allora possiamo ascoltare con commozione l’onorevole Benedetto Croce esporci qui il motivo del proprio dolore ed alcune delle note da lui toccate possono suscitare anche nell’animo nostro una eco di simpatia. Non condividiamo però il suo giudizio fondamentale. Vi è qualche cosa che sfugge alla valutazione storico-politica di Benedetto Croce. Quello che gli sfugge è un elemento che è nel Trattato e non poteva non esserci: la sanzione. Dice Benedetto Croce che la sanzione è nei fatti, che il giudizio sulle guerre e sui popoli e sui loro dirigenti lo dà la storia. È vero. Terribile è la sanzione oggettiva caduta sul nostro popolo, e che si esprime con la distruzione delle nostre ricchezze, delle nostre città, delle nostre campagne. Tutto questo è già una sanzione. Però oggi le guerre non sono più quello che il senatore Croce ci dice. Esse sono diventate un’altra cosa, dal giorno in cui sono diventate guerre di popoli e di idee, che vivono nella coscienza dei popoli, si affermano attraverso conflitti armati, guerre civili dunque sempre, in sostanza. È quindi inevitabile il giudizio, la sanzione che ad esse tiene dietro. Questo infatti esige la coscienza dei popoli che teme nuove aggressioni, e per questo vuole condannato chi, aggredendo, ha scatenato la guerra. Il giudizio quindi investe tutto il nostro Paese per la politica da esso condotta negli ultimi venti anni e anche se ci addolora, non possiamo sottrarci ad esso. Questo giudizio colpisce l’Italia, tutta l’Italia così come essa è stata e la colpisce in un momento in cui si chiude un periodo della sua storia, in cui da parte delle classi dirigenti del Paese venne fatta una politica che non era una politica nazionale, ma profondamente contraria agli interessi della Nazione.

Io lo so, onorevole Nitti, la colpa non è soltanto di quelle classi dirigenti italiane che vollero il fascismo, perché esse trovarono nel mondo tutta la solidarietà di cui avevano bisogno; e oggi noi, come lei, rabbrividiamo nel vedere fra i giudici qualcuno di coloro che dovrebbe sedere invece sul banco dell’accusato. (Approvazioni).

Ma il problema dobbiamo vederlo nell’aspetto che riguarda noi come popolo italiano, come dirigenti della politica italiana. L’ho già detto: nessuno può sottrarsi alla responsabilità. Sento che non sarebbe giusto, per esempio, che io vi ricordassi come l’uomo che fondò questo nostro partito, Antonio Gramsci, nel 1928, quando davanti al Tribunale Speciale gli posero la domanda di quel che avrebbero fatto i comunisti in caso di guerra rispose una sola cosa con la sua voce esile: «Voi porterete l’Italia alla catastrofe». E poi tacque. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questo atto compiuto dal capo del nostro partito davanti a quei Tribunale, anche se quel grande con la sua vita doveva pagare quel suo giudizio. Non sarebbe giusto che ci servissimo di questa grandiosa capacità di previsione per dire: la cosa non ci interessa; noi lo avevamo previsto. No, non si possono scindere le proprie responsabilità in nessun momento da quelle del proprio popolo, da quelle della Nazione. Facciamo parte di questa Nazione; con essa marciamo e condivideremo con essa tutte le sorti e il destino comune.

Certo è però che appunto perché sappiamo che vi fu colui che levò la voce per dire che si andava alla catastrofe, appunto per questo abbiamo il dovere di ricordare che vi furono anche quelli che non ebbero il coraggio di levare la voce, non ebbero il coraggio di dire che si andava alla catastrofe e avvertirne il popolo. Forse la posizione che essi avevano sulla scena politica, il fatto che erano espressioni di determinati gruppi sociali, economici e politici, impedì loro la chiarezza del giudizio e li rese complici del fascismo. Anche noi, democratici di tutti i partiti che hanno tenuto fede, sotto la tirannide, all’idea della libertà, e hanno combattuto per la redenzione della Patria dobbiamo però riconoscere che una parte di responsabilità è anche nostra, se non altro perché dovevamo essere più forti, più uniti nella lotta contro la tirannide, e allora forse saremmo riusciti a salvare il Paese dalla catastrofe, e oggi non saremmo qui a fare questa discussione dolorosa.

Dico questo perché a questa necessità fondamentale della nostra unità mi riferirò in tutto il resto della mia esposizione, prescindendo da quelle che sono le attuali posizioni di questo o quell’uomo politico, di questo o di quel partito.

Sento infatti che nel momento presente, ci troviamo in uno di quegli istanti in cui ancora una volta le sorti del nostro popolo possono decidersi in un modo o in un altro a seconda della via che sceglieremo, dell’impulso che daremo alla ricostruzione del nostro Paese, e in particolare a seconda della posizione che faremo prendere al nostro Paese nelle questioni internazionali, nella grande lotta che si svolge attorno al tema della pacifica ricostruzione del mondo intero. Evitiamo dunque errori finché siamo a tempo, e per evitarli cerchiamo di far rivivere in noi quel sentimento unitario e democratico che se più forte fosse stato nello spingerci alla lotta contro il fascismo ci avrebbe permesso di evitare al nostro Paese tante sciagure.

Il Trattato, ripeto, è quello che è, e noi oggi, non lo possiamo cambiare. Non possiamo cambiare in esso, credo, nemmeno una virgola. Però come avrebbe potuto essere il Trattato? Avrebbe potuto essere molto peggiore e avrebbe potuto essere un poco migliore. Molto peggiore sarebbe stato il nostro Trattato se non vi fosse stata la rivolta del popolo italiano contro la tirannide fascista, se non vi fosse stata la partecipazione alla guerra di liberazione voluta dal popolo, se non contro la volontà delle vecchie classi dirigenti, per lo meno spezzando la resistenza e la riluttanza di queste classi. Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se nella guerra di liberazione non fossimo riusciti, grazie alla volontà e all’entusiasmo del popolo e agli sforzi politici da noi fatti, a schierare in campo i resti di un esercito, di una marina, di una aviazione che hanno fatto il proprio dovere, nell’ultima fase della guerra, fino all’ultimo, senza chiedere nulla.

Il Trattato sarebbe stato molto peggiore se non vi fosse stata la nostra guerra partigiana, se non vi fosse stata la nostra insurrezione nazionale liberatrice, la quale ci ha ridato un posto in mezzo alle Nazioni democratiche, sia pure un posto ancora limitato dove non si sta bene come si stava una volta, onorevole Orlando, ma che è ad ogni modo un posto.

Senza quella politica, la quale rese possibile la nostra partecipazione alla guerra e la nostra insurrezione e la quale fu voluta e fatta dal popolo e dai partiti popolari che hanno la grande maggioranza in questa Assemblea, il Trattato sarebbe stato molto peggiore e forse noi ci troveremmo oggi ancora nelle condizioni in cui si trova il popolo tedesco, che ignora quale sarà il proprio destino, non sa ancora se riuscirà a ricostituire l’unità della propria Nazione e a ricostruire il proprio Stato nazionale unito e indipendente.

Questo enorme vantaggio siamo riusciti a conquistarcelo attraverso il nostro lavoro, attraverso la nostra resistenza, la nostra lotta, la nostra insurrezione.

Questo io dico in particolare rivolgendomi a voi, colleghi della parte destra, che non siete capaci di aprire bocca, senza gettare contro queste, che sono state le glorie più grandi del popolo italiano in questo periodo della sua miseria, fango ed insulti; a voi che avete scritto che insurrezione nazionale non c’è mai stata; a voi che ogni giorno irridete a quello che è stato lo sforzo liberatore del popolo italiano (Applausi a sinistra); a voi che ancora oggi non avete capito che cosa abbia significato per l’Italia la politica dei Comitati di liberazione nazionale e quella unità dell’esecutivo nazionale, che avevamo creata attraverso quella politica, la sola che potesse darci la possibilità di risollevarci, di dar inizio alla redenzione del popolo italiano.

Il Trattato, dunque, avrebbe potuto essere molto peggiore. Ritengo, però, che avrebbe anche potuto essere alquanto migliore e precisamente avrebbe potuto essere migliore se dal momento in cui Roma fu liberata, lo sforzo unitaria, patriottico, nazionale, che animava le grandi masse del popolo, fosse riuscito a ispirare una differente politica estera: una politica estera la quale non fosse dominata da preoccupazioni ideologiche di parte o di classe, che dividevano il popolo e offuscavano l’interesse nazionale.

È verissimo; l’ultima guerra è stata combattuta e vinta da un’alleanza, e questa alleanza era di forze eterogenee: da un lato la democrazia socialista, l’Unione Sovietica, dall’altro grandi Paesi democratici, capitalistici ed imperialistici, uniti da una comunità di interessi, e in prima linea dall’interesse loro comune di sbarrare la strada alla barbarie nazista e fascista.

Da questa alleanza è uscita la vittoria. Se questa alleanza non ci fosse stata, vittoria per i popoli democratici e per la democrazia forse non vi sarebbe stata.

Ma poiché vi erano due forze, e queste due forze alleate erano eterogenee, immediatamente abbiamo visto alla fine della guerra, e anche prima di essa, contrasti, antagonismi, minacce di scissioni, e iniziarsi dannosissime speculazioni circa la loro possibilità.

L’errore della nostra politica estera, dal giorno della liberazione di Roma in poi, è stato di essere una politica estera eccessivamente unilaterale, orientata sopra una di queste forze, e non sopra l’unità di esse: badate, non dico sull’altra, ma su entrambe, anzi, sulla loro unità. Questo è stato l’errore della nostra politica estera.

L’atto più intelligente della nostra politica estera – permettetemi di dirlo, compagni comunisti e socialisti – è stato compiuto dal Maresciallo Badoglio nel periodo di Salerno…

CORBINO. Di Brindisi, prima.

TOGLIATTI. …o di Brindisi che fosse, quando egli ottenne il riconoscimento di un Governo italiano rappresentativo di tutta Italia da parte dell’unione Sovietica ed in quel modo riuscì a svincolare l’Italia, di fatto, dalla posizione di Stato nemico e metterla sulla strada che avrebbe potuto portarla, qualora fosse stata seguita con intelligenza, con abilità e accortezza, o ad una cobelligeranza trattata, quindi con dei corrispettivi, o per lo meno ad una differente posizione sin dall’inizio, subito dopo la liberazione.

Intervennero invece, dopo la liberazione di Roma, elementi e fattori antiunitari, fomentati al di fuori d’Italia e in Italia stessa fomentati da gruppi sociali e politici determinati, dai soliti gruppi reazionari incapaci di comprendere la necessità di una politica nazionale. In sostanza, lo dirò apertamente, onorevole Bonomi, credo che la responsabilità principale sia sua e dei circoli reazionari da cui ella lasciò che fosse ispirata la sua politica estera in quel primo periodo. Perdemmo allora ogni vantaggio già conquistato e le misere concessioni contenute nel famoso memoriale MacMillan, di cui già si parlava nel periodo salernitano, vennero nel momento in cui tutta l’Italia stava per essere liberata e in cui la guerra finiva.

Ripeto, tutti i vantaggi già acquistati furono perduti, e non si conquistarono, servendo i circoli reazionari d’Occidente, nuove posizioni. Rimanemmo nella posizione, che è quella che è sancita ancora oggi nel Trattato. Da quella politica non poteva uscire altro che questo Trattato ed io ritengo che gli storici futuri, quando con spirito di imparzialità giudicheranno quel periodo della nostra vita nazionale, riconosceranno che è stato per l’Italia uno dei periodi in cui veramente lo spirito di classe e di casta più ha danneggiato l’interesse della Nazione, perché tutte le premesse e tutte le condizioni esistevano per un’altra politica estera. Prima di tutto però occorreva che venissero liquidati i sospetti di classe, le diffidenze verso i partiti e verso le forze popolari che si orientavano in modo unitario e nazionale, occorreva fare una politica che non fosse di una delle parti, di una delle ideologie in contrasto, ma fosse di unità, veramente e soltanto nazionale e democratica, e non asservita a nessuna cricca reazionaria. Quella politica non venne fatta.

Oggi paghiamo le conseguenze, in parte, di quegli errori. Si dirà: ma voi eravate in quei Governi, perché siete stati zitti e non avete corretto quella politica estera? Non abbiamo potuto, onorevoli colleghi. Abbiamo criticato sempre, abbiamo fatto tutte le proposte che era necessario fare, ma non siamo riusciti a correggere quella politica estera, così come non siamo riusciti finora a correggere l’unilateralità dell’indirizzo della politica internazionale del nuovo Stato italiano. Questa impossibilità in cui ci siamo trovati di esercitare una influenza positiva e nazionale in questo campo decisivo della nostra vita politica, è stato del resto uno dei motivi del malcontento nostro relativamente all’azione dei successivi Governi cui partecipavamo. Non svelo nessun segreto dicendo che questo è uno dei motivi per cui a un determinato momento l’uomo più responsabile del nostro partito non volle più entrare nel Governo, per essere libero di dire che, in quel campo che è decisivo per la vita di uno Stato, il nostro Governo sbagliava.

Perché non avremmo dovuto, del resto, partecipare al Governo? In fondo la nostra partecipazione al Governo era il solo elemento che correggesse la politica estera unilaterale e non nazionale che si stava facendo, era il solo elemento che mantenesse carattere largo, unitario, al viso che la nuova Italia mostrava al mondo. Proprio a questo elemento si è voluto rinunciare alla vigilia del giorno in cui si chiedeva ratifica: ecco un altro dei motivi della nostra perplessità.

Abbiamo preso iniziative verso tutti gli Stati, abbiamo mandato delegazioni in tutte le parti del mondo, abbiamo fatto cortesie a tutti, perfino al Governo egiziano, a cui abbiamo dato parecchi miliardi, per danni di guerra in un momento in cui sapevamo benissimo che era imminente la rinuncia ai danni di guerra da parte di grandi Potenze. Nel far cortesie a tutti, ci siamo però dimenticati che vi è una delle Potenze vincitrici che si chiama l’Unione Sovietica; e mai un uomo politico nostro è andato da quella parte, allo scopo di far ivi conoscere l’Italia nuova e di trattare, di discutere, di ristabilire contatti e tenere una politica nazionale. Mai questo è avvenuto. Non potete negare, anche solo di fronte a questo fatto, che è stata fatta una politica unilaterale, e di questa politica dovevamo subire le conseguenze, e non perché da quella parte ci venisse una replica offensiva, quanto perché una politica unilaterale ha voluto dire essere alla mercé dell’altra parte.

Non parliamo poi delle nostre relazioni con la Jugoslavia, dove non soltanto vi fu deliberata ignoranza, ma ostilità. (Commenti al centro).

Se questa non vi fosse stata, probabilmente il problema delle nostre frontiere orientali avrebbe potuto essere risolto in modo diverso. (Commenti al centro). Mi rincresce di dare un dispiacere ai colleghi della Democrazia cristiana che protestano ad ogni mia parola; però, sono lieto di aver constatato che nel corso di questa discussione già da alcune parti è stata espressa una opinione che non solo mi fa piacere, ma mi sorprende perché implica un giudizio del tutto diverso da quelli che vennero espressi finora a proposito di quello che fu il contatto preso da me col-Capo del Governo di Belgrado, col Maresciallo Tito. Sono lieto di aver constatato che un simile giudizio è stato esposto anche da un collega di parte democratica cristiana; il che vuol dire che la verità si fa strada, anche se lentamente.

Oggi si parla di revisione, si parla di politica di iniziativa, si parla di migliorare le condizioni dell’Italia, riprendendo e ristabilendo relazioni normali e pacifiche con gli altri popoli. Credo di poter affermare che l’unica iniziativa concreta, seria, che è stata presa in questa direzione, allo scopo di migliorare il Trattato in una delle sue parti sostanziali, è quella che è stata presa dal nostro partito quando ha incaricato me di prendere contatto con il Governo di Belgrado. (Commenti al centro).

Voci al centro. Gorizia!

JACINI. Ci vuole un bel coraggio!

TOGLIATTI. Come andarono le cose in seguito, voi lo sapete. Purtroppo, non si riuscì a trovare un linguaggio comune per utilizzare quello che vi era di utilizzabile ai fini nazionali di quella iniziativa. Devo dire che lo steso Presidente del Consiglio De Gasperi, fino ad allora Ministro degli esteri, non conobbe mai, e tutt’ora ignora, onorevoli colleghi, quali furono i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito… (Commenti, interruzioni al centro).

Una voce al centro. Si vede che non gliel’ha comunicati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Allora, il Ministro degli esteri era l’onorevole Nenni.

TOGLIATTI. …ignora i termini del mio colloquio col Maresciallo Tito e quali fossero le possibilità che quel colloquio e le cose dette in esso aprivano alla collaborazione tra i due Paesi.

E poiché è stato fatto il nome della città di Gorizia, mi si permetta di ricordare che elemento essenziale delle dichiarazioni che vennero fatte allora a me relativamente a quella frontiera, erano prima di tutto la concessione di un regime autonomo per la città di Trieste, concessione che del resto venne fatta a Parigi dall’onorevole De Gasperi al Ministro cattolico Gruber, austriaco, senza che ve ne fosse nessun bisogno; e quanto all’accenno alla città di Gorizia, ma, signori, quando si inizia una trattativa diplomatica – onorevole Sforza, lei me lo insegna – non si indicano mai le posizioni di arrivo, ma solo quelle di partenza.

Ma quella possibilità, che oggi un gran numero dei colleghi dell’Assemblea riconosce essere stata una possibilità concreta di migliorare in uno dei punti essenziali il nostro Trattato, facendo rimanere dentro alle nostre frontiere una città cara al cuore di tutti gli italiani (Commenti al centro), quella possibilità doveva essere sfruttata. Essa non lo fu e la via che da quei primi contatti era stata aperta, venne sbarrata, perché ciò contraddiceva a quello che era l’orientamento unilaterale della politica estera del nostro Paese in quel momento e lo contraddiceva in uno dei punti fondamentali.

Ed oggi l’impressione è che si perseveri in questo errore; ma in un momento in cui l’errore è molto più grave per le conseguenze stesse che ne derivano. La sostanza del Trattato infatti viene dalla guerra fascista. Miglioramenti potevano essere ottenuti attraverso una diversa politica, ma la sostanza rimane quella. Oggi invece si tratta di fare i primi passi su una strada nuova. Ebbene, qual è quella strada? Prima si poteva ancora pensare che dal momento che le due grandi forze, che hanno collaborato per la vittoria contro il fascismo e il nazismo erano alleate, facevano la guerra insieme, erano sullo stesso fronte, si poteva ancora dire che quando si parlava di rottura e conflitto tra di esse si trattasse di divergenze di opinioni, di modo diverso di pensare, di speculazioni, di rappresentazioni estranee alla realtà.

Oggi, purtroppo, incominciamo a vedere una frattura che si delinea in Europa e nel mondo. Quindi l’errore, oggi, è più grave di prima, perché i passi falsi fatti oggi possono compromettere il futuro del nostro Paese in un modo senza dubbio più grave.

E qui vengo al tema essenziale del nostro dibattito, al tema della politica estera nel momento presente, di cui la richiesta di ratifica immediata, urgente, è parte sostanziale, se ho ben compreso ciò che ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio e ciò che ha detto il nostro Ministro degli esteri all’inizio della discussione.

In questa situazione internazionale così intricata, nella quale vediamo delinearsi una frattura e agire forze che tendono a renderla permanente e ad approfondirla, facendone quasi una piaga, come ci orientiamo noi? Dove andiamo? Dove collochiamo l’Italia? Nel caso specifico si tratta della nostra adesione alla Conferenza di Parigi, del modo come essa è avvenuta e della nostra posizione verso determinate iniziative di politica estera prese dalle grandi Potenze occidentali.

Queste grandi Potenze occidentali, è vero, ci hanno aiutato e ci aiutano. Ci hanno aiutato, essenzialmente, in una cosa: a liberarci dal fascismo e dall’occupazione tedesca e per questo la nostra riconoscenza verso di loro deve essere, e sarà, imperitura.

Si è creata fra noi e le Nazioni che hanno combattuto per liberarci dal fascismo e dalla occupazione tedesca – siano esse Nazioni dell’oriente che dell’occidente – una fraternità saldata col sangue, che non dovrà mai essere smentita dalla nostra politica estera e non dovrà mai cancellarsi nella coscienza del Paese.

Ma il problema degli aiuti è un altro. E qui desidererei che noi dibattessimo la cosa sforzandoci di eliminare dal dibattito tutte quelle che sono rappresentazioni volgari di questo problema e che troppo si prestano alle speculazioni di parte.

Un aiuto c’è stato e non poteva non esserci, quando eravamo la retroguardia degli eserciti che combattevano sul nostro suolo per la liberazione: in una retroguardia non si può lasciare che la gente muoia di fame. Dovevamo essere aiutati.

Ma oggi questo periodo è finito, e ritengo sarebbe cosa molto buona per gli sviluppi della nostra politica nazionale e soprattutto per la psicologia del nostro popolo, se rinunziassimo a questo termine di «aiuti», perché esso è legato ad alcune rappresentazioni che non sono giuste. L’uso continuo di questo termine e l’abuso di esso, poi, nella polemica dei partiti – che spesso trascende e va al di là delle intenzioni di chi le dà il primo impulso – ci porta infatti a una impostazione sbagliata della politica estera italiana.

L’onorevole Ruini, nel discorso da lui fatto quando discutemmo delle dichiarazioni del Governo che sta oggi davanti a noi, cercò di svincolarsi da questo termine dicendo che vi è un conto di dare e di avere: tanto abbiamo dato, tanto abbiamo ricevuto. Egli concludeva, alla fine, che abbiamo ricevuto meno di quello che abbiamo dato.

Non so se i suoi dati fossero esatti: nessun dato di questo genere è stato, finora, pubblicato ed è male non lo si sia fatto. Se non erro, però, da parte del Governo degli Stati Uniti, la sfida è stata raccolta ed è stata raccolta in un modo abbastanza astuto, direi, perché, posti davanti al problema che l’Italia avrebbe un credito e non un debito, il Governo degli Stati Uniti ha proposto di andare ad esaminare tutto il libro del dare e dell’avere. Allora hanno trovato che al nostro passivo c’è molta roba, oltre quello che abbiamo avuto durante e subito dopo la guerra, mentre gli eserciti alleati combattevano nel nostro Paese; hanno trovato che al nostro passivo ci sono anche i crediti fatti ai precedenti Governi italiani, a differenti città italiane, a Mussolini e via dicendo.

Permettetemi di osservare che questo modo di porre il problema, anche se ha risultati immediati spiacevoli, non è del tutto sfavorevole a noi. È giusto infatti che nei rapporti economici e quindi anche nei rapporti politici con le grandi Potenze più forti di noi, noi incominciamo a svincolarci dall’idea della elemosina. Un conto di dare e di avere lo accettiamo e sta bene. Ma restare sotto l’incubo di non poter vivere se non di elemosina, questo no.

Siamo un popolo di 45 milioni di abitanti, abbiamo una nostra industria relativamente potente, abbiamo una nostra agricoltura, se pure con le sue deficienze, e, come tutti gli altri Paesi, come tutto il resto del mondo, abbiamo un conto di dare e di avere. Discutiamo dunque dei nostri debiti e dei nostri crediti, discutiamo dei vostri crediti e dei vostri debiti; ma liquidiamo quella falsa rappresentazione degli «aiuti», la quale scoraggia il popolo italiano, dandogli l’impressione che non può far niente se i potenti che siedono in qualche parte della terra non si degnano di muoversi verso di lui.

Noi abbiamo bisogno di questi potenti, ma – convinciamocene – anche loro hanno bisogno di noi e molto di più ne avranno quando saremo usciti dallo stato anormale del dopoguerra e saremo entrati nella fase normale in cui tutti i Paesi sono interdipendenti.

Ritengo quindi sia un bene che noi ci poniamo su questo terreno. Il volgare concetto di «aiuto» e quasi di elemosina, che viene diffuso particolarmente nella propaganda spicciola democristiana, per cui, quando qualcuno dice che bisogna salvaguardare la nostra indipendenza, c’è sempre qualcun’altro che risponde che noi abbiamo bisogno di «essere aiutati», è un concetto che deve essere sradicato una volta per sempre.

Da questo quanto mai errato punto di vista, deriva tutta una falsa concezione della nostra vita nazionale e della nostra politica estera, ed io sono lieto che differenti oratori, succedutisi a parlare da tutti i settori dell’Assemblea, abbiano, su questo argomento, alfine cominciato a porre le cose in modo giusto, con dignità e con fierezza, incominciando a comprendere che, pur con la nostra povertà, noi abbiamo ben dato qualche cosa al mondo, incominciando a comprendere che anche coloro che ci aiutano lo fanno forse perché ne ricavano un interesse.

Badate che se la falsa concezione dell’«aiuto» e dell’elemosina dovesse continuare a dominare fra gli uomini che ci governano, ciò potrebbe condurli a commettere fatali errori. Dobbiamo tornare ad avere trattati di commercio con tutto il mondo, a incominciare dagli Stati Uniti. Ma quali trattati di commercio faremo con questo grande Paese? Non certo trattati in cui si tenga conto soltanto della volontà di coloro che qualcuno vorrebbe considerare quasi come i padroni del nostro Paese.

A questo proposito, sono assai preoccupato circa il carattere dei trattati che sembra gli Stati Uniti abbiano proposto ad altri Paesi, è, secondo le mie informazioni, avrebbero proposto anche a noi. Non esito a dire che sono rimasto impressionato alla lettura di un progetto di questo genere. Ritengo, infatti, che un trattato di commercio il quale contenesse una clausola in cui fosse sancito che vi è libertà per i cittadini di ambo i Paesi di promuovere nell’altro Paese qualsiasi intrapresa di ordine commerciale o industriale, di acquistare, di alienare, di affittare, di edificare, ecc., che sancisse in questo campo una ampia libertà sedicente reciproca dunque, ma nel quale fosse poi inserita un’altra clausola in cui fosse detto che però, in ciascuno dei due Paesi contraenti, le norme che regolano la immigrazione e i divieti di immigrazione rimangono immutate, ritengo, ripeto, che un simile trattato sarebbe enormemente lesivo dei nostri interessi nazionali. Che cosa vorrebbe dire un simile trattato? Vorrebbe dire che i nostri imprenditori, commercianti, industriali, acquirenti di terreni, di fabbriche, ecc., sarebbero sottoposti alla concorrenza senza limiti degli imprenditori americani, molto più forti di loro. Ma il nostro lavoratore, il quale cerca e sogna di andare in America a lavorare, là troverebbe le porte sbarrate. È assurdo pensare che i nostri imprenditori vadano ad aprire delle imprese negli Stati Uniti; noi avremmo invece bisogno di ottenere dagli Stati Uniti libertà di immigrazione per la nostra mano d’opera. Questa non ci sarà data, ma l’imprenditore americano verrà liberamente da noi a schiacciare la nostra iniziativa!

Io credo che, se la riconoscenza che abbiamo per gli Stati Uniti, e se una concezione di politica estera legata all’idea degli «aiuti» e quindi del padrone che dispone di noi a suo talento, dovesse portarci all’accettazione di un simile trattato, onorevole conte Sforza, questo sarebbe un atto che andrebbe contro i nostri interessi nazionali.

Vi sono poi, sempre a questo proposito, problemi particolari molto gravi. Ritengo, per esempio, che le risorse minerarie di un Paese – e soprattutto di un Paese come il nostro – devono essere gelosamente custodite dallo Stato. Noi non sappiamo ancora quali sono le risorse minerarie del nostro suolo. Il fascismo aveva iniziato, sì, la ricerca di vene petrolifere; ma tutti noi sappiamo che le condusse con quella calma e quella tranquillità che erano necessarie affinché non venissero lesi gli interessi delle società le quali traevano enormi profitti dall’importazione e dalla lavorazione della nafta sul nostro territorio. Ma se domani, per fortuna, riuscissimo a scoprire che il nostro Paese è ricco anche di queste risorse, sarebbe una necessità essenziale, vitale per lo Stato italiano che esse rimanessero nelle mani nostre. Guai se questo non avvenisse! Se non avvenisse questo, se dovessimo, per esempio, cedere liberamente, in omaggio al principio della porta aperta, ad ogni iniziativa capitalistica straniera in questo campo; se dovessimo anche qui cedere agli stranieri piena libertà di ricerca e di sfruttamento, sappiamo che cosa diverrebbe l’Italia: qualche cosa come i piccoli staterelli del Medio Oriente, la cui indipendenza non esiste, di fatto, perché sono soltanto dei posti comandati dai grandi agenti delle compagnie petrolifere internazionali.

Anche a questo proposito, in guardia! Riconoscenza, sì; ma tutela dei nostri interessi, e tutela di quel tanto di indipendenza che anche da questo trattato ci viene ancora lasciata. Non concediamo di più di quello che ci hanno già preso; difendiamo quello che ci è rimasto, perché questa è la prima condizione per poter allargare a poco a poco il limite della nostra autonomia e della nostra indipendenza, per riuscire di nuovo a stare a fianco delle altre grandi Nazioni europee e mondiali.

Ci si dirà: Ma allora voi comunisti non volete gli aiuti degli Stati Uniti? Siete dunque dei suicidi? Volete morire di fame, quando quelli vi offrono di sfamarvi e di dissetarvi?

Non è così!

Noi vogliamo che la questione dei nostri rapporti con questa grande Potenza sia posta ed esaminata con la tranquillità e con la freddezza dell’uomo di Stato, che dirige la ripresa economica e politica di una Nazione, la quale è caduta in basso, ma non crede che questo sia eternamente il proprio destino, la quale sa e vuole risollevarsi e ridiventare un Paese indipendente, perché ne è capace.

Gli Stati Uniti hanno una formidabile forza economica, accresciutasi durante la guerra. L’onorevole Nitti già ne ha parlato qui e nella Commissione dei Trattati. Sta di fatto che mentre l’Asia e l’Europa, compresa l’Unione Sovietica, escono dalla guerra con una diminuzione dei 40 per cento della loro capacità produttiva, gli Stati Uniti ne escono con un aumento del 50 per cento dell’apparato produttivo e del 65 per cento della loro produzione industriale. È evidente: si tratta di un colosso; ma di un colosso il quale ha pure le sue contraddizioni. Questo enorme apparato industriale accresciutosi durante la guerra dovrà fra pochi mesi, per non essere scosso da una crisi tremenda, smerciare 205 miliardi di dollari di prodotti mentre il mercato interno americano va restringendosi, perché, mentre i profitti delle grandi compagnie monopolistiche sono aumentati, i salari e gli stipendi diminuiscono, il che è una legge del regime capitalistico.

Dove saranno collocati questi prodotti? Chi li comprerà se tutto il mondo è rovinato? È evidente che è nell’interesse degli Stati Uniti di piazzarne una parte all’estero e quindi è nell’interesse degli Stati Uniti di aiutare i Paesi i quali devono comperare questi prodotti. Credo che questo fatto sia ormai entrato nella coscienza comune perché l’ho sentito esprimere in forme diverse da quasi tutti gli oratori che, intervenendo nel nostro dibattito, si sono intrattenuti su questo problema.

Noi dobbiamo quindi comprendere che vi è un interesse reciproco: vi è un interesse nostro, ma noi siamo la parte debole, e vi è un interesse loro, ed essi sono la parte forte. Essi sono potenti colossi di fronte a questo piccolo Paese che oggi esce così rovinato dalla guerra.

Ebbene, che cosa dobbiamo fare, quale deve essere la nostra linea di condotta in questa situazione? Dev’essere di garantire all’Italia quei vantaggi che è possibile garantirle, senza metterci in condizione di perdere la disponibilità di noi stessi, intendo dire la disponibilità della nostra vita economica e del suo indirizzo e resistendo a quelle che possono essere – sulla base della potenza economica degli Stati Uniti – le pericolose tendenze a un dominio di tutto il mondo.

Onorevoli colleghi, da queste tendenze non è mai uscito niente di buono per l’umanità. Sono tendenze conquistatrici e devastatrici contro le quali i popoli sempre hanno saputo a un certo momento ribellarsi per difendere la loro indipendenza. L’unità del mondo non si crea imponendo a tutti i Paesi il predominio di una sola potenza strapotente, si crea attraverso la conquista e la garanzia della libertà e dell’indipendenza, direi attraverso la libera esplicazione del genio di ogni Nazione.

Noi dobbiamo stare attenti a tutte queste cose, e dobbiamo stare attenti anche se siamo oggi deboli e piccoli; direi che dobbiamo stare ancor più attenti appunto perché siamo deboli e piccoli.

E qui si colloca la posizione nostra a proposito del «piano» Marshall. Poteva l’Italia respingere l’invito alla Conferenza di Parigi? Onorevoli colleghi, non lo credo. Credo che nelle nostre condizioni quell’invito non poteva che essere accettato. Noi dovevamo andarvi; dovevamo andare a vedere di che si trattava e a trattare i nostri interessi. Ma come ci siamo andati? Con quale spirito ci siamo andati? Che cosa abbiamo fatto a Parigi e che cosa faremo? Ecco il problema!

Siamo andati a Parigi senza una consultazione né dell’Assemblea né della sua Commissione degli esteri.

Il nostro Ministro degli esteri ci è andato con quello spirito che l’onorevole Nitti chiamava afrodisiaco; ma che io, dal momento che si tratta del Ministro di un gabinetto democristiano, vorrei chiamare soltanto euforico (Ilarità); e questo spirito ha impedito al nostro Ministro degli esteri di misurare le sue parole e i suoi gesti.

Le sue dichiarazioni sono state tutte al di là della barriera di una corretta azione diplomatica corrispondente agli interessi della Nazione. Quello era il più bel giorno della sua vita; egli accettava tutto; era pronto (l’Italia, non lui) a tutti i sacrifici. Che cosa vuol dire tutto questo?

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È una citazione inesatta.

TOGLIATTI. Leggemmo persino stranissime dichiarazioni del nostro Ministro degli esteri che proponeva i propri candidati alla carica di Ministro degli esteri dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche: aspirazione per lo meno esagerata da parte del Ministro degli esteri della Repubblica italiana non ancora ratificatrice del Trattato di pace, non ancora membro delle Nazioni Unite e non ancora parte, soprattutto, dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. (Ilarità – Commenti). Comprendo questa vostra ilarità, onorevoli colleghi. È evidente però che quando l’onorevole Sforza discute e presenta le proprie candidature al posto di Ministro degli esteri dell’Unione Sovietica egli concepisce il proprio Paese come parte di quella grande comunità di Nazioni. La spiegazione non può essere che questa.

Ma – e la cosa è più grave – abbiamo letto persino una dichiarazione del nostro Ministro degli esteri la quale arieggiava certe posizioni pseudo dottrinarie che ci richiamavano a quell’anno 1937 in cui si riunì a Roma un Convegno che fu chiamato dai fascisti Convegno dell’Europa. Ivi si adunarono fascisti non solo italiani ma di tutti i paesi europei, convocati da Mussolini per l’occasione, e l’Europa uscì da quel convegno trasfigurata. Le sue frontiere erano spostate di alcune migliaia di chilometri, tutto allo scopo di stabilire che tutto ciò che stava al di là di quelle frontiere non era Europa, ma Asia. Le nuove frontiere d’Europa erano fissate proprio là dove comincia la terra del socialismo, dove comincia l’Unione Sovietica: tutto quello era Asia. No, onorevole Sforza, l’Unione Sovietica è parte dell’Europa.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Questa dichiarazione non l’ho mai detta!

TOGLIATTI. Perché non l’ha smentita? È troppo grave!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, perché era troppo sciocca!

TOGLIATTI. Se non erro – posso sbagliarmi – si tratta invece proprio del suo discorso alla riunione del Consiglio dei Ministri a Parigi in cui ella disse: «Se non facciamo questo, l’Europa diventerà una penisola asiatica». Si ricordi, onorevole Sforza, che non soltanto l’Unione Sovietica fa parte dell’Europa, ma che anche il socialismo fa parte dell’Europa, perché è una grande idea europea e mondiale, sorta dal cuore di tutti i popoli che sono soggetti al regime capitalistico; e perché ad essa vanno le speranze e le aspirazioni di decine, di centinaia di milioni di donne e di uomini e dell’Europa e del mondo intero. (Applausi a sinistra).

La cosa grave non è dunque che noi aderissimo a Parigi e accettassimo quell’invito che ritengo, d’altra parte, non potevamo non accettare. La gravità sta nel modo e nelle cose fatte a Parigi. Noi accettammo l’invito, inoltre, quando la rottura tra due gruppi di Potenze europee già si era realizzata.

Anche per questo motivo avremmo dovuto andare a Parigi non in quello stato euforico che si è detto, ma con preoccupazione, perché la preoccupazione, anche se non era dell’onorevole Sforza e dell’onorevole De Gasperi, era per lo meno della grandissima maggioranza del popolo italiano, il quale teme le conseguenze che può avere sul suo destino tale rottura.

Il Governo doveva spiegare all’Italia perché quella rottura fosse avvenuta e far vedere che essa non corrispondeva né a una nostra politica, né a una nostra aspirazione, né a un nostro interesse nazionale, ma che anzi essa è contraria ad ogni aspirazione e ad ogni interesse nazionale italiano.

Ecco quello che doveva risultare dal nostro intervento alla Conferenza di Parigi.

Anche quando abbiamo discusso di queste cose nella Commissione dei Trattati, invece, nulla di tutto questo si è saputo. Il conte Sforza è venuto a dirci che non sa perché quella rottura si sia verificata. Ci ha detto di aver rivolto una nota al Governo sovietico per avere spiegazioni, ma per conto suo non ha saputo spiegarci nulla. Se dovessimo credere soltanto alle dichiarazioni ufficiali, saremmo invero molto imbarazzati, perché in esse si parla soltanto, in modo molto generico, di «piano» di collaborazione internazionale, di aiuti reciproci fra gli Stati europei, ecc. Ebbene, nella mozione presentata da Molotov alla Conferenza di Parigi abbiamo trovato questi stessi concetti: necessità degli aiuti americani, saluto agli aiuti americani, necessità della collaborazione europea, necessità di un programma-bilancio comune stabilito insieme fra le varie Nazioni. Dov’è la differenza? E perché c’è stata dunque la rottura? Questo voi dovete spiegarci per farci capire la politica estera che fate seguire al nostro Paese.

Per spiegarci la rottura avvenuta alla riunione preliminare dei Ministri degli esteri, due sono, credo io, le questioni fondamentali da tenere presenti. Innanzi tutto si tratta del proposito di alcuni grandi paesi capitalistici di subordinare la ricostruzione d’Europa ai loro interessi, il che significa che questi paesi si vogliono servire degli aiuti americani e della loro ripartizione per «determinare lo sviluppo della produzione» degli altri paesi. E qui già è toccato il problema dell’indipendenza.

Sono d’accordo che una parte dell’indipendenza nazionale assoluta nei rapporti internazionali va perduta per entrambe le parti. Chi sogna l’autarchia? La sognarono i pazzi che portarono l’Italia alla rovina.

Però quando vediamo le grandi Potenze industriali rivendicare il diritto o per lo meno la facoltà di determinare la produzione dei paesi aderenti al blocco che riceve gli aiuti americani, abbiamo il diritto di essere perplessi. Che ne sarà della nostra industria? A quali interessi verrà subordinata? E saremo ancora liberi di commerciare in tutte le direzioni? Potremo concludere quei trattati di commercio che dobbiamo concludere con la Jugoslavia, con l’Ungheria, con la Bulgaria, con la Boemia, con tutta quella cerchia di Paesi le cui relazioni con noi sono essenziali per il nostro sviluppo industriale e forse anche per quello agricolo? Oppure ci troveremo di fronte una barriera?

Perché il trattato di commercio parafato or sono due mesi a Belgrado non è ancora stato firmato? Eppure se ne prevedeva la firma alla scadenza di un mese. È ciò in relazione con la nostra adesione a Parigi?

E le nostre relazioni con la Polonia per ottenere quel carbone che è indispensabile alle industrie settentrionali, perché non si sviluppano? È ciò in relazione a questioni tecnico economiche superabili o per un preciso indirizzo politico il nostro Ministro degli esteri ha trascurato queste relazioni e questi scambi internazionali?

A questo scopo è bene che il popolo italiano riceva delle assicurazioni, perché se assicurazioni a questo proposito non dovessimo ricevere vorrebbe dire che veramente voi state compromettendo seriamente l’avvenire economico d’Italia.

L’altra questione che sta al fondo della rottura realizzatasi alla riunione preliminare di Parigi è quella della Germania e del suo destino.

Anche a questo proposito non dobbiamo lasciarci trascinare da declamazioni umanitarie. Dobbiamo orientarci secondo l’interesse d’Italia e basta. Ora, l’interesse d’Italia è prima di tutto che la Germania sia una unità, perché una Germania divisa sarà una Germania con la quale noi non potremo più commerciare liberamente, né avere rapporti economici normali, perché i rapporti economici con la Germania sarebbero in questo caso regolati da altre Potenze e subordinati esclusivamente agli interessi di quelle Potenze che dominerebbero le singole zone.

Unità della Germania, quindi, ma in pari tempo democratizzazione della Germania e azione concorde degli Stati i quali sono tradizionalmente le vittime delle aggressioni tedesche, per impedire che ivi si ricostituiscano centri di forze reali i quali preparino nuove aggressioni.

Per questa ragione siamo esterrefatti della posizione assunta dai nostri delegati a Parigi quando si schierarono contro le richieste della Francia a questo proposito. Quando le forze popolari francesi chiedono che la Germania sia ricostituita in unità nazionale, ma in pari tempo sia messa in condizioni tali per cui non possa aggredire domani, di nuovo, i propri vicini, noi dobbiamo schierarci al loro fianco.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. È il mio pensiero.

Una voce a sinistra. Meno male.

TOGLIATTI. Sono lieto che sia il suo pensiero e sarò ancora più lieto quando questo pensiero sarà quello espresso dai diplomatici che ella ha mandato a Parigi. Finora essi hanno espresso un pensiero diverso. (Interruzione del deputato Calosso).

In conclusione: l’invito a partecipare alla Conferenza di Parigi non poteva essere respinto e non doveva essere respinto, ma dovevamo andare a fare una politica determinata e dobbiamo rimanere per fare una politica determinata, ispirata dal solo nostro interesse nazionale. A chi ci chiede quale posizione abbiamo e quale posizione riteniamo debbasi prendere circa il «piano» Marshall, noi rispondiamo sottolineando alcune esigenze fondamentali della nostra vita nazionale.

La prima è che non ci siano interventi stranieri nella nostra politica interna.

Guai a noi, al punto in cui ci ha ridotti il Trattato, se dovessimo, oltre tutto, ammettere che i nostri Governi si facciano a seconda del beneplacito o della richiesta di una capitale straniera.

L’indipendenza del nostro Paese sarebbe per sempre perduta.

Seconda esigenza è quella della esclusione di un intervento economico straniero.

Dobbiamo organizzare la collaborazione economica, industriale e commerciale, con tutti i paesi dell’Europa e del mondo, ma in modo tale che ci permetta di sviluppare la nostra economia a seconda di quelle che sono le necessità fondamentali di sviluppo della nostra vita e forza nazionale.

In terzo luogo non dobbiamo né volere, né favorire in nessun modo la divisione dell’Europa in due blocchi, perché questo sarebbe per l’Italia, più che per qualsiasi altro Paese – perché dopo la Germania oggi noi siamo in Europa politicamente i più deboli – fonte di conseguenze estremamente gravi. Siamo veramente il vaso di coccio che andrebbe in pezzi fra i vasi di ferro. Infine, dobbiamo fare una politica estera la quale sia ostile, apertamente ostile, ad ogni tentativo di isolamento nell’Europa e nel mondo dell’Unione Sovietica e degli altri popoli liberi, democratici e civili dell’oriente europeo.

Guai a noi se aderissimo a una politica di questo genere, perché ciò vorrebbe dire che ci troveremmo alla mercé di quelli che diventerebbero gli incontrastati dominatori sia della nostra vita economica che della nostra vita politica.

Per tutti questi motivi oggi noi siamo preoccupati. Il popolo italiano è preoccupato. Andate, parlate con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, con i professionisti, con gli intellettuali: voi sentirete che questa preoccupazione oggi è generale. Nessuno comprende più che cosa sia questo piano di aiuti degli Stati Uniti. Vennero promessi una volta, e poi una volta ancora, e poi una terza volta.

Dovevano arrivare con il viaggio di De Gasperi, dovevano arrivare dopo l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal Governo, ma non arrivarono mai. Adesso c’è il «piano» Marshall e si comincia a vedere che la questione è più complicata che nei manifesti murali della Democrazia cristiana. La questione non si pone come voi l’avete posta. Si pone invece essenzialmente come esigenza di una politica estera che difenda la dignità del nostro Paese all’interno e all’estero. E mi sono portato a esaminare anche un’altra questione, di importanza non piccola. Vi è in questo famoso «piano» Marshall un elemento ideologico-politico, che è lecito discutere se noi dobbiamo accettarlo o respingerlo. E qui siamo costretti a rifarci agli autori dell’iniziativa.

In uno dei primi discorsi del Presidente Truman, questo elemento ideologico è posto in primo piano: «Noi siamo i giganti del mondo economico – diceva egli il 6 marzo – e, la cosa piaccia o non piaccia, da noi dipenderanno le relazioni economiche dell’avvenire. Il mondo attende e sorveglia ciò che faremo noi».

E quindi prosegue: «Vi è una cosa a cui gli Stati Uniti annettono più valore ancora che alla pace, ed è la libertà: libertà di culto, libertà di parola, libertà di impresa».

Che cosa è questa libertà di impresa? Vuol dire che la struttura economica del mondo dovrà essere decisa e vorrei dire imposta attraverso la forza economica gigantesca degli Stati Uniti. Che cosa dobbiamo pensare quando vediamo questo scatenarsi di ondate di articoli, di interviste, di campagne, non più soltanto contro il comunismo e contro il socialismo, ma contro ogni idea di intervento e di controllo dell’attività economica nell’interesse dei lavoratori e di lotta contro i monopoli, cioè contro quelle che sono le idee madri delle nuove democrazie europee, quali esse sorgono dopo questa seconda guerra mondiale? Che cosa dobbiamo dire di tutto ciò? Accettare, respingere, essere perplessi?

Questo elemento ideologico ci si presenta di continuo. Nelle ultime «dichiarazioni» fatte dall’autore stesso della proposta del «piano», dal signor Marshall, il 15 luglio, la cosa è sottolineata in modo anche più chiaro.

«Bisogna guardare i fatti nel viso – egli dice – Il nostro paese si trova ad un bivio nelle sue relazioni con gli amici tradizionali che esso conta fra le Nazioni del vecchio mondo.

«Esso deve adempiere il compito di aiutare questi paesi, adattarsi ai bisogni nuovi di una nuova era, oppure rassegnarsi a vederli prendere delle direzioni che non sono compatibili… con le tradizioni del nostro Paese».

Conclusione espressa apertamente dallo stesso Marshall: «In quest’ultimo caso, se le tradizioni (degli S.U.) non fossero seguite, gli Stati Uniti vedrebbe modificarsi radicalmente la loro posizione nel mondo.

«Io vi chiedo di considerare molto attentamente le conseguenze di una simile evoluzione degli avvenimenti per la prosperità e la sicurezza del nostro paese».

Queste sono le ultime dichiarazioni autentiche di commento al contenuto ideologico-politico del «piano» Marshall. Qui si parla dunque di tradizioni degli Stati Uniti alle quali si dovrebbe uniformare la vita di tutti i popoli se vogliono essere ritenuti dagli attuali «dirigenti» degli Stati Uniti popoli democratici. Qualora questo obiettivo non venga raggiunto, la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti sono messi in questione. Si tratta dunque di quella politica che gli attuali dirigenti americani ritengono utile di fare nel loro interesse. Ma cosa dobbiamo dire noi di questa politica?

Vi è senza dubbio una tradizione democratica degli Stati Uniti. È prima di tutto la tradizione di quei profughi coloni del Mayflower e dei loro discendenti che condussero una eroica guerra di indipendenza contro un paese, il quale voleva imporre loro un determinato regime economico-doganale, che era contrario allo sviluppo della loro società. Quella tradizione la capisco. Capisco la tradizione dei grandi democratici americani da Washington ad Abramo Lincoln, da Jefferson a Delano Roosevelt, l’ultimo soprattutto, che una ben diversa concezione ebbe del modo come dovevano foggiarsi i rapporti economici e politici tra i popoli dopo una seconda e così grave guerra mondiale. Anche questa tradizione, ripeto, la comprendo. Fa parte di ciò che possiamo e dobbiamo accettare. Non possiamo però accettare dagli Stati Uniti né la loro legge contro i Sindacati né il loro modo di intendere la libertà di stampa, come libertà di avvelenamento dell’opinione pubblica, attraverso le notizie della stampa gialla e delle Agenzie di informazioni vendute l’una e le altre al grande capitale. Non accettiamo le tradizioni degli Stati Uniti come vengono fatte valere in Ispagna e in Grecia, la prima che invano attende il necessario aiuto per liberarsi da una infame tirannide, la seconda dilaniata da una guerra civile scatenata per mantenere in piedi un regime fascista. (Interruzioni a destra).

Queste sono le tradizioni alle quali ci dobbiamo uniformare? Oppure accettare le tradizioni americane significa piegare il collo davanti al grande capitale monopolistico americano in lotta per instaurare il suo dominio sul mondo intiero?

Onorevoli colleghi, credo che questo non possa essere né nelle intenzioni nostre, né nelle vostre. Non è per questo che voi avete combattuto contro il fascismo, insieme con noi, per la libertà d’Italia, per dare all’Italia un regime… (Interruzione a destra).

Una voce. Per darla alla Russia.

TOGLIATTI. …un regime democratico nuovo… (Interruzioni – Rumori a destra).

Una voce a destra. Quello dell’Ungheria.

TOGLIATTI. …rinnovato nelle sue strutture economiche, allo scopo di impedire la prepotenza dei grandi monopoli industriali, finanziari, latifondistici…

Una voce. Politici.

TOGLIATTI. …politici, senza dubbio. Voi avete combattuto insieme con noi per un regime nel quale l’impiegato dello Stato possa appartenere a qualsiasi partito politico.

CAPPI. Come in Russia.

TOGLIATTI. Negli Stati Uniti oggi questo non è possibile.

CAPPI. In Russia sì.

TOGLIATTI. Noi siamo, quindi, giustamente preoccupati, perplessi; perplesso e preoccupato è oggi tutto il popolo italiano, perché da questo complesso di elementi già vediamo uscire alcuni dei motivi di quella particolare psicologia, che oggi è la psicologia con la quale si prepara la guerra. (Commenti)

Sì, o signori, noi leggiamo i giornali tutti i giorni, e vediamo su questi giornali articoli a firma di uomini politici americani, in cui si dice che gli Stati Uniti hanno fatto male finora a non fare la guerra, perché avevano la bomba atomica a loro disposizione e forse domani non ne avranno più il disgraziato monopolio esclusivo. Tutto questo abbiamo letto con ribrezzo e con orrore e a questo non possiamo non pensare quando sentiamo parlare di dominio mondiale del sistema economico americano e quando poi vediamo chiudersi con una rottura la conferenza preliminare di Parigi. Non tutti pensano che coloro i quali scrivono cose simili siano degli isterici o degli energumeni. La gran massa crede che quella sia l’opinione dei circoli dirigenti degli Stati Uniti e probabilmente quella è davvero l’opinione di determinati circoli dirigenti degli Stati Uniti, e sente paura di fronte alla tremenda minaccia di un nuovo conflitto mondiale sterminatore. Noi ci troviamo così oggi, a poco più di due anni dalla fine della guerra, di nuovo dinanzi allo stesso problema di prima, e cioè, a discutere se una nuova guerra potrà essere evitata.

Né siamo noi soli a discuterne. Pochi giorni or sono leggevo una serie di interessantissimi articoli sull’Osservatore Romano dove la questione veniva posta seriamente e seriamente veniva sostenuta la giusta tesi che, nonostante il tentativo che si fa per dividere il mondo in blocchi opposti, e nonostante i successi ottenuti da questa fatale politica di divisione in blocchi opposti, la guerra non è fatale.

Questo è giusto, e veramente quando ho letto questi articoli mi sono compiaciuto. (Rumori al centro e a destra). Me ne sono compiaciuto per un motivo quasi personale. Alcuni anni prima dello scoppio dell’ultima guerra, nel 1935 infatti, nei dibattiti che allora avevano luogo in seno al movimento operaio internazionale, ebbi a sostenere la stessa tesi contro le posizioni estremiste di quelli che dicevano che la guerra non poteva in nessun modo essere evitata. È vero, come socialisti sappiamo la grande verità di quelle parole di uno dei nostri grandi, di Giovanni Jaurès, quando disse che il capitalismo porta in sé la guerra come la nube porta in sé l’uragano.

Sappiamo che questo è vero, ma sappiamo pure che nel mondo esistono forze tali che, unendosi, possono impedire una guerra. Esse sono le grandi forze popolari e democratiche organizzate nei Sindacati e nei partiti, ma sono pure Nazioni e Stati intieri che in certi momenti possono non essere interessati ad una guerra. Tra questi Stati il nostro oggi è in prima fila: tra tutti gli Stati europei credo che quello che è meno interessato a che scoppi una nuova guerra, e quindi il più interessato a che venga fatta una politica di pace e venga evitato anche il minimo passo che porti ad una guerra è precisamente il nostro.

Voci al centro e a destra. Siamo d’accordo.

TOGLIATTI. Di qui la necessità di una politica determinata e di qui anche la necessità di una estrema prudenza nell’agitare determinati problemi in maniera tale da provocare in modo quasi inevitabile la divisione del mondo in due blocchi.

Lo stesso giornale, che testé citavo, l’Osservatore Romano sviluppando la sua tesi in successivi articoli, molto intelligentemente osservava che, affinché la guerra possa essere evitata, bisogna rinunciare a quella campagna che tende a contrapporre due ideologie, come se esse fossero inconciliabili fra di loro: l’una, la democrazia, l’altra, il socialismo e il comunismo.

Anche questo è giusto! Se si comincia a proclamare: noi siamo i colossi, da noi c’è «libertà di impresa» e dovete accettare la nostra ideologia e le nostre tradizioni altrimenti la sicurezza e il benessere degli Stati Uniti sono in pericolo, sappiamo bene cosa si vuol dire con queste parole, quando si ha una flotta, un esercito, una aviazione ed anche una riserva di bombe atomiche a disposizione. Quando si parla così si fa veramente un passo per rendere la guerra inevitabile.

Si dice: democrazia e socialismo sono forze inconciliabili. Non è vero! Tutta la lotta politica nell’Europa moderna, negli Stati che sono usciti da questo secondo conflitto mondiale si svolge proprio attorno a questa conciliazione. Democrazia e socialismo uniti debbono rinnovare l’Europa. E i nuovi Stati e regimi che si sono costituiti nei paesi dell’Europa orientale, in mezzo a contraddizioni e ad ostacoli, sono forse ili tentativo più serio che sinora sia stato fatto in questo senso.

Io non propongo al popolo italiano quella strada: gli propongo però di rimanere unito allo scopo di trovare la sua propria strada per la conciliazione dell’ideale democratico e dell’ideale del rinnovamento sociale e per la realizzazione di questi ideali. Concludendo, a breve distanza dalla catastrofe, ancora una volta la domanda che sta davanti a noi è questa: Dove andiamo? Dove va l’Italia? A questa domanda sentiamo che dobbiamo sforzarci di dare una risposta nella quale si trovi concorde il maggior numero possibile di italiani, una risposta la quale corrisponda alla coscienza e alle aspirazioni della grande maggioranza del popolo, anzi, lasciatemelo dire, trovi concorde tutta la Nazione italiana.

Questo vuol dire orientare la nostra politica estera sulla strada della collaborazione internazionale, della difesa della libertà e della indipendenza del nostro Paese, resistendo a ogni tentativo di dividere il mondo in due blocchi opposti, a ogni tentativo di isolare dal mondo le forze più avanzate del progresso sociale, a ogni tentativo di spezzare l’unità dell’Europa e del mondo perché da questo tentativo non può uscire che un primo passo verso nuovi conflitti e forse verso una nuova guerra.

Attenti, quindi, a questo pericolo.

Veramente questo è il momento in cui per dirigere la politica italiana nell’arena internazionale noi avremmo bisogno di un Governo che rappresentasse tutte le forze nazionali e democratiche. (Commenti al centro).

Una voce al centro. No: la lingua batte dove il dente duole!

TOGLIATTI. Lasciatemelo dire. Voi stessi, attraverso questa discussione, avete acquistato la consapevolezza che la nostra politica estera sarebbe stata più efficace, che altra risonanza essa avrebbe avuto nella Nazione se fosse stata la politica estera di tutto il Paese e non di una sola parte di esso. Voi stessi sentite che di ben altra autorità avete bisogno per dare rilievo e successo a una politica estera veramente democratica e nazionale!

Che cosa fare? Come voteremo noi? Che posizione prenderemo alla fine del dibattito? Avete il diritto di chiederlo. Certo, la posizione che più corrisponde alla perplessità che ho sentito prevalere nei discorsi di tutti gli oratori è quella espressa da una proposta di rinvio. Qualora questa proposta di rinvio non venisse accettata è certo che la posizione che più corrisponde ai desideri espressi dalla maggioranza degli oratori è quella che subordina la ratifica alla presenza della ratifica di tutte e quattro le grandi Potenze.

Onorevoli colleghi, io sento però che questo problema del nostro voto, e del voto vostro e del voto di ciascuno dei partiti di questa Assemblea, è un piccolo problema di fronte alla ampiezza del dibattito che è stato sollevato, di fronte alla gravità estrema delle questioni che oggi stanno davanti a noi.

Decideremo del nostro voto e lo dichiareremo a seconda del modo come la discussione verrà chiusa. Ma sentiamo che questo problema per noi è di minore importanza. Non è questo che decide.

Quello che decide, onorevoli colleghi, è che attraverso a questo dibattito, attraverso a questa libera espressione di opinioni, in questa Assemblea che rappresenta tutto il popolo italiano, esca rafforzato qualcosa che è sostanziale per il nostro Paese, per la sua rinascita, per la lotta che dobbiamo condurre per la sua libertà, per la sua indipendenza, perché esso riprenda nel mondo il posto che gli spetta conformemente alle sue capacità e alle sue tradizioni, che esca rafforzata da questo dibattito, o signori, l’unità politica e morale della Nazione. (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Chiedo a voi, onorevoli colleghi, venia di parlare dal banco di deputato invece che da quello del governo. Dal banco del governo si pronunciano discorsi politici, e si sostengono battaglie politiche. Queste mie parole vogliono invece essere un umile appendice di considerazioni storiche al grande discorso col quale Benedetto Croce pronunciò l’altro giorno un giudizio storico solenne sul trattato imposto a noi dalla volontà altrui.

Chiedo altresì il permesso di seguire coll’occhio il manoscritto all’uopo, contrariamente alle mie abitudini, approntato affinché la commozione del dire improvviso non turbi una espressione di pensiero, che oggi deve invece essere attentamente meditata.

Al par di voi, ho ascoltato con commozione ed ho riletto con ammirazione profonda il giudizio storico che Benedetto Croce ha pronunciato in quest’aula intorno alla ratifica del trattato di pace; giudizio che se l’autore intendesse dare un seguito alla sua storia d’Italia assai degnamente chiuderebbe quella grande opera sua. Il giudizio pronunciato in quel discorso chiude anche un’epoca nella storia d’Italia. Vorrei tentare qui a guisa, come dissi, di appendice, una ideale prosecuzione di esso, guardando non più al passato, ma all’avvenire. Invece di una magnifica pagina di storia conclusa, il mio sarà un informe tentativo di indovinare le logiche conseguenze odierne di quelli che furono i connotati essenziali delle due grandi guerre combattute in Europa nel secolo presente. Già quei connotati erano visibili nella prima guerra; ma parve allora ai più che soltanto si fosse riprodotto ancora una volta il tentativo egemonico di Filippo II, di Luigi XIV e di Napoleone I, contrastato ogni volta, a salvaguardia della libertà d’Europa, dalla potenza navale britannica; e furono alte le proteste fra gli storici tedeschi contro l’eterna seminatrice di discordia, contro la perfida Albione, la quale, applicando il romano detto divide et impera, si sforzava di mantenere discordi tra loro i popoli europei e di impedire avesse alfine nascimento quell’Europa una, che era stata, in varia maniera, l’ideale di poeti e pensatori, da Dante Alighieri ad Emanuele Kant ed a Giuseppe Mazzini. Sicché, vinta la Germania, distrutta la monarchia austro-ungarica e chiusasi la Russia in se stessa, parve rivivesse nel 1918 l’antica convivenza europea di stati indipendenti; ed anzi una nuova Santa alleanza, sotto le sembianze di Società delle nazioni, si costituì a garantire invano la indipendenza delle minori nazioni contro la egemonia della più potente e prepotente delle nazioni maggiori. Invano, ché la Società delle nazioni nasceva colpita a morte irrimediabilmente dallo stesso vizio capitale che aveva tolto valore alla Lega anfizionica greca, al Sacro romano impero ed alla Santa alleanza. Il vizio era chiaro: la Società delle nazioni era una lega di stati indipendenti ognuno dei quali serbava intatti un esercito proprio, un regime doganale autonomo ed una rappresentanza sovrana sia presso gli altri stati sia presso la lega medesima. Era facile prevedere, come a me accadde di prevedere nel 1917, quando la Società delle nazioni era un mero proposito di Wilson, e quando in Italia il più rumoroso promotore della sua fondazione era colui che, divenuto poscia dittatore, tanto operò per distruggere la costituita società; era facile, dico, prevedere che essa era nata morta. L’esperienza storica tante volte ripetuta dimostra, che le mere società di nazioni, le federazioni di stati sovrani sono impotenti ad impedire, anzi per lo più sono fomentatrici di guerre tra gli stessi stati sovrani federati; e presto diventano consessi vaniloquenti, alla cui ombra si tramano e si preparano guerre e si compiono le manovre necessarie ad addormentare il nemico ed a meglio opprimerlo. Sinché nella Svizzera non sorse un potere sovrano, signore unico dell’esercito e delle dogane, non fu possibile evitare le guerre civili, che erano guerre fra cantoni sovrani; e nel tempo volto dal 1776 al 1786 il pericolo di guerre fratricide fra le 13 antiche colonie nord-americane divenute stati sovrani fu sempre imminente; e solo il genio di Washington, confortato dal pensiero di Jay, di Jefferson e di Hamilton, trovò il rimedio quando sostituì alla vana ombra della federazione di stati sovrani l’idea feconda della confederazione, unica signora delle forze armate, delle dogane e della rappresentanza verso l’estero, fornita di un parlamento unico; rappresentante, in un ramo, degli stati confederati, ma nell’altro del popolo intero di tutta la confederazione.

La prima guerra mondiale fu dunque combattuta invano, perché non risolse il problema europeo. Ed un problema europeo esisteva. Scrivevo nel 1917 e ripeto ora a trenta anni di distanza: Gli stati europei sono divenuti un anacronismo storico. Così come nel secolo XVI le libere città e repubbliche ed i piccoli principati erano in Italia divenuti un anacronismo, perché l’Europa stava allora subendo un travaglio di ricostituzione territoriale e sorgevano le grandi monarchie spagnola e francese e si affacciava al nord la unificata nazione britannica, e l’indipendenza del consorzio dei piccoli principati tenuti in equilibrio dalla saggezza di Lorenzo il Magnifico, rovinò dinanzi all’urto contrastante di Spagna e di Francia, di Carlo V e di Francesco I, così sin dall’inizio del secolo presente, era divenuta anacronistica la permanenza dei tanti stati sovrani europei. A mano a mano che si perfezionavano le comunicazioni ferroviarie e la navigazione, a vapore ed a motore, prendeva il posto di quella a vela; ed i popoli erano avvicinati dal telefono, dal telegrafo con e senza fili e dalla navigazione aerea, questa nostra piccola aiuola europea apertamente palesava la sua inettitudine a sopportare tante sovranità diverse. Invano gli stati sovrani elevavano attorno a sé alte barriere doganali per mantenere la propria autosufficienza economica. Le barriere giovavano soltanto ad impoverire i popoli, ad inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare ad ognuno di essi uno strano incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche, ed a fare ad ognuno di essi pronunciare esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri, quasi essi fossero lebbrosi e quasi il restringersi feroce di ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza.

La prima guerra mondiale fu la manifestazione cruenta dell’aspirazione istintiva dell’Europa verso la sua unificazione; ma, poiché l’unità europea non si poteva ottenere attraverso una impotente Società delle nazioni, il problema si ripropose subito.

Esso non può essere risoluto se non in una di due maniere; o con la spada di Satana o con quella di Dio. (Applausi).

Questa volta Satana si chiamò Hitler, l’Attila moderno. Non val la pena di parlare del nostro dittatore di cartapesta, il quale non comprese mai la grandezza del problema. L’Attila moderno, il pazzo viennese, aveva invece, nelle sue escogitazioni frenetiche e sconnesse, visto il problema e la sua grandezza, ed aveva tentato di risolverlo. Il modo tenuto da lui e dal suo popolo fu quello della forza e del sangue. Il modo era riuscito ai romani, i quali colla forza avevano vinto uno dopo l’altro i cartaginesi, i greci e gli stati alessandrini, tutti più colti dei romani; ma questi si erano fatti perdonare poi il brutto cominciamento instaurando nel mondo mediterraneo l’impero del diritto. All’Attila redivivo il metodo della forza non riuscì; ché gli europei erano troppo amanti di libertà per non tentare ogni via per resistere al brutale dominio della forza; e troppi popoli al mondo discendono dagli europei e serbano il medesimo ideale cristiano del libero perfezionamento individuale e dell’elevazione autonoma di ogni uomo verso Dio per non sentire nell’animo profondo l’orrore verso chi alzava il grido inumano dell’ossequio verso ideali bestiali di razza, di sangue, di dominazione degli uomini eletti venuti su dalla terra generatrice di esseri autoctoni e dalla foresta primitiva.

Non è vero che le due grandi guerre mondiali siano state determinate da cause economiche. Nessuno che sappia compiere un ragionamento economico corretto può credere mai che dalla guerra alcun popolo, anche vincitore, possa trarre un qualsiasi risultato se non d’impoverimento, di miseria, di spirito di odio e di vendetta, generatori alla loro volta di miseria e di abiezione.

Vero è invece che le due grandi guerre recenti furono guerre civili, anzi guerre di religione e così sarà la terza, se, per nostra sventura, noi opereremo in guisa da provocare l’opera sua finale di distruzione. Le due guerre parvero guerre fra stati e fra propoli; ma la loro caratteristica fondamentale, quella che le distingue dalla più parte, non da tutte, le guerre passate, quella che le assimila alle più implacabili tra le guerre del passato, e queste furono le guerre di religione – ricordiamo la scomparsa della civiltà cristiana dall’Egitto a Gibilterra, la ferocia della guerra contro gli Albigesi e la distruzione operata dalla guerra dei trent’anni in Germania – sta in ciò: che quelle due grandi guerre furono combattute dentro di noi. Satana e Dio si combatterono nell’animo nostro, dentro le nostre famiglie e le nostre città. Dovunque divampò la lotta fra i devoti alla libertà e la gente pronta a servire. Se in tanta parte dell’Europa conquistata dai tedeschi, si ripeté l’esperienza che Tacito aveva scolpito con le parole solenni: Senatus, equites, populusque romanus ruere in servitium, ciò fu perché negli uomini lo spirito non è sempre pronto a vincere la materia. Non recriminiamo contro coloro che operarono male; perché la resistenza al male è sempre un miracolo, che umilmente dobbiamo riconoscere avrebbe potuto non aver luogo. Ma diciamo alto che noi riusciremo a salvarci dalla terza guerra mondiale solo se noi impugneremo per la salvezza e l’unificazione dell’Europa, invece della spada di Satana, la spada di Dio; e cioè, invece della idea della dominazione colla forza bruta, l’idea eterna dalla volontaria cooperazione per il bene comune.

Al par di ognuno di voi, il dolore per le amputazioni ai confini orientali ed occidentali è profondo nel mio cuore; e per quel che riguarda i confini occidentali, più che il dolore, viva in me l’indignazione e l’ira per la cecità con la quale uomini così fini ragionatori, cervelli così limpidi come sono i francesi si siano lasciati trascinare a ripetere i frusti argomenti che noi, cultori di storia piemontese, avevamo letto nelle istruzioni ai diplomatici ed ai generali di Luigi XIV per contrastare ai piemontesi la conquista del confine supremo delle Alpi, raggiunto finalmente, dopo secoli di lotte, nel 1713, e consacrato nel definitivo trattato dei confini del 1761.

Se ciechi furono i vincitori, non perciò dobbiamo noi essere ciechi e sperare di vedere ricostituita l’unità della patria a mezzo di nuove guerre o di nuove carneficine. Nella nuova era atomica, guerra vuol dire distruzione non forse della razza umana – ché nelle riarse pianure ridivenute paludi e foreste vergini, e nei monti selvaggi una razza che dell’uomo civile non avrà nulla, potrà salvarsi e lentamente, attraverso i secoli, risorgere a civiltà – ma certamente di quell’umanesimo per cui soltanto agli uomini è consentito di essere al mondo. Ma noi non ci salveremo dall’imbarbarimento scientifico, peggiore di gran lunga della barbarie primeva, col gareggiare con gli altri popoli nel preparare armi più micidiali di quelle da essi possedute. La sola speranza di salvare noi e gli altri sta nel farci, noi prima degli altri ed ove faccia d’uopo, noi soli, portatori di un’idea più alta di quella altrui. Solo facendoci portatori nel mondo della necessità di sostituire alla spada di Satana la spada di Dio, noi potremo riconquistare il perduto primato. Non il primato economico; che questo viene sempre dietro, umile ancella, al primato spirituale. Dico quel primato, che, nell’epoca feconda del Risorgimento, si attuava nella difesa delle idee di fratellanza, di cooperazione, di libertà, che diffuse dalla predicazione incessante di Giuseppe Mazzini e rese operanti, nei limiti della possibilità politiche, da Camillo di Cavour, avevano conquistato alla nuova Italia la simpatia, il rispetto e l’aiuto dell’Europa.

Non giova rinunciare a questa nostra tradizione del Risorgimento, pensando di poter trarre pro dalle discordie altrui. La politica dei giri di walzer, del «parecchio da guadagnare», del «sacro egoismo», che alla nostra generazione parve machiavellicamente utile, diede, quando fu recata dal dittatore alla logica conseguenza dell’autarchia economica, volta a cercar grandezza nel torbido delle sconvolte acque europee, amari frutti di bosco.

Rifacciamoci, dal Machiavelli, meditante solitario nel confino del suo rustico villaggio toscano sui teoremi della scienza politica pura, al Machiavelli uomo, al Machiavelli cittadino in Firenze, il quale non aveva, no, timore di rivolgersi al popolo, da lui reputato «capace della verità», capace cioè di apprendere il vero e di allontanarsi dai falsi profeti quando «surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei s’ingannino». Sì. Fa d’uopo che oggi nuovamente surgano gli uomini da bene, auspicati da Nicolò Machiavelli, a dimostrare ai popoli europei la via della salvezza e li persuadano ad infrangere gli idoli vani dell’onnipotenza di Stati impotenti, del totalitarismo, alleato al nazionalismo è nemico acerrimo della libertà e della indipendenza delle nazioni. (Applausi).

Se noi non sapremo farci portatori di un ideale umano e moderno nell’Europa d’oggi, smarrita ed incerta sulla via da percorrere, noi siamo perduti e con noi è perduta l’Europa. Esiste, in questo nostro vecchio continente, un vuoto ideale spaventoso. Quella bomba atomica, di cui tanto paventiamo, vive purtroppo in ognuno di noi. Non della bomba atomica dobbiamo sovra tutto aver timore, ma delle forze malvage le quali ne scatenarono l’uso. A questo scatenamento noi dobbiamo opporci; e la sola via d’azione che si apre dinnanzi è la predicazione della buona novella. Quale sia questa buona novella sappiamo: è l’idea di libertà contro l’intolleranza, della cooperazione contro la forza bruta. L’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è un’Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell’intera comunità. Alla creazione di quest’Europa, l’Italia deve essere pronta a fare sacrificio di una parte della sua sovranità.

Scrivevo trent’anni fa e seguitai a ripetere invano, e ripeto oggi, spero, dopo le terribili esperienze sofferte, non più invano, che il nemico numero uno della civiltà, della prosperità, ed oggi si deve aggiungere della vita medesima dei popoli, è il mito della sovranità assoluta degli stati. Questo mito funesto è il vero generatore delle guerre; desso arma gli stati per la conquista dallo spazio vitale; desso pronuncia la scomunica contro gli emigranti dei paesi poveri; desso crea le barriere doganali e, impoverendo i popoli, li spinge ad immaginare che, ritornando all’economia predatoria dei selvaggi, essi possano conquistare ricchezza e potenza. In un’Europa in cui ogni dove si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici, in cui improvvisamente si scoprono passionali correnti patriottiche in chi sino a ieri professava idee internazionalistiche, in quest’Europa nella quale ad ogni piè sospinto si veggono con raccapriccio riformarsi tendenze bellicistiche, urge compiere un’opera di unificazione. Opera, dico, e non predicazione. Vano è predicare pace e concordia, quando alle porte urge Annibale, quando negli animi di troppi Europei tornano a fiammeggiare le passioni nazionalistiche. Non basta predicare gli Stati Uniti di Europa ed indire congressi di parlamentari. Quel che importa è che i parlamenti di questi minuscoli stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino ad una parte della loro sovranità a pro di un parlamento nel quale siano rappresentati, in una camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra stato e stato ed in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli stati. Questo è l’unico ideale per cui valga la pena di lavorare; l’unico ideale capace a salvare la vera indipendenza dei popoli, la quale non consiste nelle armi, nelle barriere doganali, nella limitazione dei sistemi ferroviari, fluviali, portuali, elettrici e simili al territorio nazionale, bensì nella scuola, nelle arti, nei costumi, nelle istituzioni culturali, in tutto ciò che dà vita allo spirito e fa sì che ogni popolo sappia contribuire qualcosa alla vita spirituale degli altri popoli. Ma alla conquista di una ricca varietà di vite nazionali liberamente operanti nel quadro della unificata vita europea, noi non arriveremo mai se qualcuno dei popoli europei non se ne faccia banditore.

Auguro che questo popolo sia l’italiano. A conseguire il fine non si giungerà tuttavia mai se non ci decidiamo subito, sinché siamo in tempo, ed il tempo urge, ad entrare nei consessi internazionali oggi esistenti. Essi sono per fermo imperfetti come quelli della vecchia Società delle nazioni; ma giova farne parte per potere dentro essi bandire e spiegare la buona novella. Perciò io voterò, pur col cuore sanguinante per le Alpi violate, a favore della ratifica del trattato, come mezzo necessario per entrare a fronte alta nei consessi nelle nazioni col proposito di dare opera immediata, tenace, continua, alla creazione di un nuovo mondo europeo.

Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all’ideale della libertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l’utopia e la morte, fra l’utopia e la legge della giungla.

Che importa se noi entreremo nei consessi internazionali dopo essere stati vinti ed in condizioni di inferiorità economica! Se vogliamo mettere una pietra tombale sul passato; se vorremo non più essere costretti a chiedere aiuti ad altri, ma invece essere invitati a partecipare da paro a paro al godimento di quei beni del mondo alla cui creazione noi pure avremo contribuito, dobbiamo non aver timore di difendere le idee le quali soltanto potranno salvare l’Europa. La forza delle idee è ancora oggi – che l’Europa non è per fortuna del tutto imbarbarita e non è ancora adoratrice supina delle cose materiali – la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo. Non è nel momento in cui quattrocento milioni di indiani riconquistano, col consenso e con l’aiuto unanime del popolo britannico, la piena indipendenza, che noi vorremo negare la supremazia incoercibile dell’idea. Un uomo solo, il Mahatma Gandhi, ha dato al suo paese la libertà predicando il vangelo non della forza, ma della resistenza passiva, inerme al male.

Perché non dovremmo anche noi far trionfare in Europa gli ideali immortali, i quali hanno fatto l’Italia unita e si chiamano libertà spirituale degli uomini, elevazione di ogni uomo verso il divino, cooperazione tra i popoli, rinuncia alle pompe inutili, tra cui massima la pompa nefasta del mito della sovranità assoluta?

Difendendo i nostri ideali a viso aperto, rientrando, col proposito di difenderli a viso aperto, nella consociazione dei popoli liberi, e prendendo con quell’intendimento parte ai dibattiti fra i potenti della terra, noi avremo assolto il nostro dovere. Se, ciononostante, l’Europa vorrà rinselvatichire, non noi potremo essere rimproverati dalle generazioni venture degli italiani di non avere adempiuto sino all’ultimo al dovere di salvare quel che di divino e di umano esiste ancora nella travagliata società presente. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pacciardi. Ne ha facoltà.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, io non seguirò l’onorevole Togliatti nella interessante scorribanda di politica internazionale che ha fatto dinanzi a noi e nemmeno la fervida e commovente dichiarazione di principî dell’onorevole Einaudi; tenterò di riportare la discussione sull’oggetto del nostro ordine del giorno che è la ratifica del Trattato di pace.

Giunti a questo punto della discussione non si tratta più, ormai, io penso, che di fissare la posizione dei partiti, di andare incontro alle responsabilità. Io ho l’onore di parlare a nome del partito repubblicano, che ha preso collettivamente le sue responsabilità, rispettando, come è suo costume, sua tradizione, suo dovere, singoli casi di coscienza, rispettabili, che sono del resto un po’ in tutti i gruppi. Ha preso questa decisione di responsabilità dopo un complesso esame di coscienza, dopo una intensa e quasi lacerante elaborazione interiore che non cerchiamo di nascondere, che tutti i gruppi, del resto, conoscono, perché non si nasconde niente, e che si affida, io penso, alla vostra comprensione e al vostro rispetto.

Se c’era qualcuno in questa Assemblea che poteva quasi legittimamente esimersi dall’assumere le responsabilità, se c’era qualcuno che poteva assumere la parte bella, la parte senza rischi, la parte eroica ed altisonante, io credo che nessuno aveva maggiori titoli per recitare questa parte, del partito repubblicano italiano.

Siamo come tutti sanno, come tutti non hanno difficoltà a riconoscere, un partito di patrioti, siamo un partito la cui storia si confonde con la storia del nostro Paese e, permettetemi di dirlo poiché non riguarda me, non riguarda i miei colleghi presenti, ma riguarda le glorie d’un passato che ormai è comune, sono le pagine più belle, più pure per l’alone che le circonda, per il misticismo che le ispira, le pagine più belle della storia, del nostro Paese. Noi fummo tenacemente avversari della monarchia, sempre, e spesso solitari avversari; e per questa, starei per dire, fissazione antimonarchica, per diecine e diecine di anni noi ci siamo quasi isolati dalla vita pubblica dei nostro Paese, ci siamo quasi cinti di una specie di cintura di castità politica per ricordare agli italiani non solo cha sarebbero state sbarrate le vie del loro moderno progresso dalla presenza di questa istituzione medioevale, ma anche per ricordare loro che un regime, una famiglia allogena, un regime che non poteva essere veramente nazionale ci avrebbe condotto fatalmente ad un giorno nel quale, dovendo scegliere fra gli interessi della dinastia e gli interessi della nazione, avrebbe inesorabilmente sacrificato la nazione.

CONDORELLI. Infatti Cavour è un lazzarone

PACCIARDI. Vi dico le ragioni per cui noi, e non voi, potremmo recitare la parte bella. Per diecine e diecine di anni noi siamo stati soli o quasi nel nostro Paese a ricordare che l’unità nazionale non era ancora compiuta, i soli, o quasi, a fissare lo sguardo oltre i confini verso le balze del Trentino ed il Colle di San Giusto. E mentre nel 1914 il nazionalismo professionale era incerto se marciare con la triplice intesa o con la triplice alleanza, che era una alleanza di conservazione dinastica, noi lanciammo al Paese un manifesto che si concludeva con queste parole: «O sui campi delle Argonne con la sorella latina o a Trento e Trieste» indicando all’Italia per primi le vie del suo destino.

E siccome siamo usi a far seguire alle parole i fatti, un gruppo di nostri volontari andò a farsi massacrare in Serbia, in vista di Trieste, ed un gruppo molto più numeroso di italiani andò a profondere il suo sangue generoso nelle contrade di Francia.

Soltanto alla fine della guerra – l’onorevole Orlando spero me ne darà atto – noi ci ricordammo di essere uomini di parte, ma fin da allora ci levammo contro un vacuo, retorico, rumoroso, letterario nazionalismo, e vedemmo con infinita, con fervida simpatia il sorgere della Società delle Nazioni, come primo tentativo di costituire una Società internazionale; ideale che era stato vagheggiato concordemente da tutti i nostri apostoli del Risorgimento. E così noi fummo invisi agli interventisti ed ai neutralisti. Affrontiamo la incomprensione, la impopolarità, le defezioni; e prendemmo la nostra parte di fischi accanto ad uomini come Leonida Bissolati, come Gaetano Salvemini, come Carlo Sforza, e, ahimè, come Francesco Saverio Nitti, che era l’uomo più odiato e più insultato, in quei tempi, dai padri di coloro che oggi lo portano sugli altari.

Il resto, onorevoli colleghi, è storia che tutti sanno. Fummo, fin dall’inizio, tenacemente avversari, inconciliabilmente avversari del fascismo, quantunque esso ci offrisse l’offa, l’esca ingannevole di un tendenzialismo repubblicano, che però non ci ingannò.

Non abbiamo alcuna responsabilità, naturalmente, della guerra, che alle sorde e spesso complici democrazie europee indicammo sempre come lo sbocco sanguinante e fatale del regime di terrore che si era instaurato nel nostro Paese.

Non abbiamo alcuna responsabilità nell’armistizio, va da sé; ma non abbiamo alcuna responsabilità nemmeno nella controfirma dell’armistizio, che molti, quasi tutti i rappresentanti dei partiti di questa Assemblea hanno sottoscritto, perché noi non facevamo parte, non abbiamo mai fatto parte dei governi del Comitato di liberazione.

Non siamo legati, come ognuno sa, alla politica governativa, anzi ne siamo avversari. E consideriamo – siamo d’accordo con l’onorevole Togliatti – che questo Governo di parte non è il più adatto a risolvere i complessi problemi dell’ora.

Dunque, potremmo esimerci dall’assumere le responsabilità. Nessuno ci obbligherebbe a prendere questa posizione, se non il senso della nostra responsabilità nazionale, la nostra coscienza nazionale.

Se i monarchici avessero taciuto – ed era elegante che tacessero–, se i nazionalisti avessero taciuto, se i fascisti avessero taciuto…

Una voce a destra. Chi sono?

PACCIARDI. …noi avremmo potuto protestare anche per loro, perché avremmo saputo, io credo, trovare gli accenti della comune sofferenza, al di là degli stessi abissi di dolore, che ci hanno divisi, per elevare la comune protesta di tutti gli italiani, colpevoli e incolpevoli, che si trovano di fronte oggi ad uno stesso duro destino.

Tutti sanno che l’Italia sanguina ed espia le colpe che non sono del popolo italiano. Ho sentito con dispiacere, con meraviglia, dai banchi nazionalisti e dai banchi comunisti accomunare nella responsabilità il popolo italiano con la monarchia fascista. Io mi rifiuto di suggellare questa responsabilità.

Noi espiamo colpe che non sono nostre. Tutti sanno che quelle che stiamo oggi discutendo, discutendo talvolta in tono frivolo e leggero, in tono vorrei dire talvolta indegno della gravità dell’ora, sono le conseguenze visibili – non si deve dimenticarlo – le conseguenze visibili della politica di provocazione e di avventura della monarchia fascista…

BENEDETTINI. Ma che c’entra fascista? Lasciamo andare questo solito ritornello!

MACRELLI. Sono due termini che si identificano. Non c’è bisogno di dire monarchia fascista: basta dire monarchia.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano!

PACCIARDI. …sono le conseguenze visibili della disfatta, della resa a discrezione e dell’armistizio. E se volete andare più lontano, sono 16 conseguenze visibili di un regime che si era innestato sulla passione, sul martirio, sulla vibrazione popolare e repubblicana del Risorgimento, per sviare la istoria italiana dal suo corso.

Tutti sanno che questo regime – è inutile negarlo, non è nell’interesse nazionale negarlo – ha compiuto nel mondo un’opera nefanda e per compierla, per non avere giudici, ha dovuto prima strozzare la libertà degli italiani, onde esser libero di strozzare la libertà e l’indipendenza di alcuni popoli stranieri. Tutti sanno che contro il diritto internazionale, che si andava faticosamente elaborando dai triboli e dal martirio della prima guerra mondiale, il fascismo ha opposto – come diceva l’onorevole Einaudi – il diritto della giungla, il diritto della forza, il diritto della violenza.

E se è vero che questa infezione, questa malattia del fascismo fu malattia universale, non è meno vero – bisogna riconoscerlo – che il focolaio di infezione di questa malattia fu qui, disgraziatamente, nel nostro Paese che ebbe il triste onore di avere la «primogenitura», come si diceva, reazionaria, di essere alla testa della reazione internazionale.

Tutti conoscono la storia delle aggressioni: delle aggressioni in Etiopia, delle aggressioni alla Spagna repubblicana, delle aggressioni all’Albania, alla Grecia, alla Francia ed alla Jugoslavia e tutti sanno quale sarebbe stato il conto, l’assurdo conto che il fascismo vittorioso avrebbe presentato ai vittoriosi di oggi.

Quando si è accettata questa responsabilità, quando si è riconosciuta questa legge della forza, non si ha il diritto di dolersi se si è vittime della forza e se bisogna soggiacere alla prepotenza altrui. Per questo dico che era molto più elegante che i nostri nazionalisti e monarchici non parlassero. Noi repubblicani, noi antifascisti, avevamo ed abbiamo il diritto di protestare…

Voce a destra. E protesti, protesti!

PACCIARDI. …di protestare, perché mentre Churchill nel 1935 dichiarava agli italiani che se fosse stato italiano sarebbe stato fascista, e nel 1938, cioè proprio alla vigilia della conflagrazione europea, aveva il coraggio, in una rivista americana, di esaltare come due grandi figure universali Hitler e Mussolini, mentre Churchill faceva questo, gli antifascisti si battevano nella Spagna repubblicana contro il fascismo. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. Bella cosa! Combattete in Italia!

PACCIARDI. Voglio ancor più provocare le vostre interruzioni affermandovi che nel momento in cui l’Italia partecipava alla guerra universale aggredendo la Francia, noi non avremmo esitato un momento a contrastare, anche con le armi, il fascismo, come non esitò De Gaulle a contrastare la marcia del fascismo nel suo Paese, come non esitò il Maresciallo Tito, perché ogni paese ha avuto il suo fascismo.

Questa guerra (ecco la grande verità che dimenticano gli alleati, la grande verità che dimentica il Trattato di pace) questa guerra non è stata una guerra come tutte le altre; è stata una specie di guerra civile universale nella quale gli uomini e gli eserciti dei vari paesi si battevano gli uni contro gli altri, perché c’era una specie di fraternità che andava al di là delle frontiere, fra tutti i combattenti della democrazia e della libertà.

Il Trattato offende e vilipende soprattutto noi antifascisti.

BENEDETTINI. Offende gli italiani.

PACCIARDI. Ci offende insieme coi partigiani, insieme coi soldati, insieme coi marinai, che prima o poi si schierarono contro la gente del loro paese in favore della causa delle democrazie. Li offende e li insulta perché mentre essi credevano di combattere e di morire per gli interessi profondi e permanenti del loro proprio paese e per una visione di un mondo che fosse meno barbaro, meno ingiusto, meno caino, del mondo nel quale vivevano, sono stati considerati come una specie di quinta colonna al servizio degli eserciti stranieri.

Ecco che cosa veramente e profondamente ci offende. E se dovessimo reagire istintivamente a questo disconoscimento, se dovessimo reagire istintivamente a questa offesa, dovremmo, costi quel che costi, seguire la tesi morale di Benedetto Croce. Ci affamino pure, ci strangolino pure, continuino a considerare pure il nostro paese il bivacco degli eserciti internazionali, ma dovremmo non ratificare. E vi giuro che se si trattasse delle nostre persone, se si trattasse di noi, assumeremmo questo atteggiamento perché lo abbiamo già assunto. In venti anni di fascismo, non minacce, non lusinghe sono riuscite a farci piegare. Il nostro – non sufficientemente ricordato, sconosciuto agli stessi antifascisti – Umberto Ceva si svenava in carcere, come Jacopo Ruffini, per non rivelare i suoi complici in un momento di debolezza. Al nostro Luigi Delfini venivano strappate le unghie ad una ad una, ma non gli strapparono dalla gola strozzata una sola parola che fosse di sconfessione e di tradimento; e così tutti gli altri, appartenenti a tutti gli altri settori di questa Assemblea, come Rosselli, Matteotti, Amendola, Gramsci, tutti uomini che non avrebbero mai sottoscritto un atto non dignitoso, un atto di disonore.

Ma, onorevoli colleghi, non si tratta delle nostre persone, che non rischiano niente a protestare; anzi troverebbero sempre platee per applaudirle ed infiorarle; non si tratta delle nostre persone: si tratta della vita di un popolo.

E noi ci mettiamo moralmente, onorevoli signori del Governo, al vostro posto. Non vi abbiamo abbandonato quando alcuni di voi – di voi che provenivano dalle galere, che provenivano dalle lotte della resistenza – andarono a Parigi, introdotti dall’usciere e ricondotti dall’usciere dinnanzi a quella specie di tribunale come malfattori internazionali; non vi abbiamo abbandonato, perché abbiamo sentito che la vostra umiliazione era la nostra umiliazione nazionale. (Applausi al centro).

Abbiamo sentito che le vostre lacrime – perché so che qualcuno le ha versate davvero – erano le lacrime della nostra Nazione in catene. Non vi abbiamo abbandonato quando siete ritornati a Parigi a sottoscrivere questo Trattato ingiusto, che apriva le nostre frontiere, che apriva le porte di casa nostra, che smantellava le difese delle nostre coste e le faceva passibili di essere raggiunte da qualsiasi predone internazionale, che disperdeva la nostra flotta, che metteva sul popolo italiano, per generazioni e generazioni, taglie insopportabili.

Sapevamo che voi pagavate per noi, per tutti noi, le colpe che non erano vostre e che non sono vostre. Ecco perché, onorevoli colleghi (Si rivolge alla destra), avrei trovato nobile, per lo meno nobile, che voi non tentaste di profittare di questo atto di responsabilità che il Governo fa in buona fede, nella intenzione di servire la nostra Nazione, per speculare su un evento di questa natura.

Oggi tocca a noi, rappresentanti del popolo, rappresentanti della Nazione, tocca a noi di assumere la nostra responsabilità; tocca a noi di compiere l’ultimo gesto di contrizione nazionale.

Perché ratifichiamo? Ratifichiamo, onorevoli colleghi, perché bisogna chiudere al più presto – più presto è e meglio è – questa parentesi tragica della nostra lunga storia nazionale. Vogliamo uscire, per quanto dipende da noi, da questo stato miserando di minorità internazionale. Vogliamo al più presto ripartire da zero, magari da sotto zero, ma ripartire, per il nostro immancabile cammino di ascesa.

Perché ratifichiamo oggi e non domani, o non dopo domani? Perché non abbiamo nessun interesse ad aspettare, nessun interesse. Basta affermare solennemente che la nostra ratifica sarà esecutiva, operativa, il giorno in cui saranno depositate tutte le altre ratifiche.

Che cosa speriamo, aspettando? Speriamo in un nuovo conflitto? Disgraziati! Ma il Trattato stesso sembra congegnato apposta per delimitare fra i contendenti una striscia di terra disarmata, la terra senza padrone, dove avverrebbe l’incontro degli eserciti internazionali, e, quel che è peggio, l’incontro delle fortezze volanti internazionali, cariche, ormai, di ordigni apocalittici, per cui il nostro giardino diventerebbe una specie di voragine nell’Europa.

Non possiamo – ed anche qui sono d’accordo con l’amico Togliatti – non possiamo puntare sulla guerra, dobbiamo puntare sulla pace, perché è soltanto dalla pace che noi possiamo sperare la nostra rinascita.

Il nostro dovere, il nostro tentativo deve essere invece quello di creare una zona, la più vasta possibile, di pace. Quando si parla di due blocchi, io credo – posso sbagliarmi, ma lo credo fermamente – che se ne parli in modo non corretto e forse superficiale. Vediamo, per fortuna, delinearsi nell’Europa, che è stata schiantata dalla guerra e che non vuole una nuova guerra, vediamo delinearsi quasi distintamente una missione mediatrice: Né l’Inghilterra, né la Francia, né i paesi minori, l’Olanda, il Belgio, la Danimarca, la penisola Scandinava, e – tanto meno – l’Italia, nessuno di questi paesi che soffrono ancora delle sofferenze della guerra, che sanguinano ancora per la guerra, nessuno di questi paesi ha interesse ad acuire certe rivalità che sono, anch’esse, visibili. E le rivalità sono tra il Paese del grande capitalismo e il Paese del comunismo, i due colossi del mondo moderno; non tanto per i conflitti ideologici – amico Togliatti – che si possono sempre superare, piuttosto che fare la guerra, quanto perché questi due colossi hanno zone di interessi in tutti i continenti, interferenti, se non contrastanti.

Ma se noi volessimo far da soli, noi, poveri untorelli, paese disarmato, paese oggetto di storia e di politica internazionale, più che soggetto di politica internazionale, se noi dovessimo fare quest’opera di mediazione da soli, essa sarebbe inesorabilmente condannata al fallimento.

Chi non vede che qualche cosa di nuovo si delinea nel nostro continente? Io so che molti ridono del piano Marshall: noi in Italia ridiamo di tutto, con uno scetticismo che vorrebbe essere superiore e qualche volta non è se non goffo.

Abbiamo in questa Camera alcuni vecchi parlamentari che non sanno parlare come ha parlato testé l’onorevole Einaudi, vecchi parlamentari che noi rispettiamo profondamente perché ognuno di loro rappresenta una pagina di storia del nostro Paese; ma essi diffondono questo scetticismo all’acido prussico e non è bello, non è giusto, perché bisogna pure che questo popolo riabbia una fede, riabbia delle speranze. (Approvazioni).

Voi rischiate invece di avere una nazione senza idee, esposta a tutti i pericoli. In occasione del piano Marshall si sono ridestate queste speranze. L’Europa, questo nostro tribolato continente, nel giro di una sola generazione ha regalato all’umanità due guerre universali: vuol dire quindi che la sua malattia è costituzionale e profonda.

Chi vuol fare dunque opera di pace senza sanare questa malattia, senza guarire costituzionalmente l’Europa, fa un’opera infeconda. Forse da questa ispirazione, non soltanto per fini economici, è nato il cosiddetto piano Marshall. Gli è che i nostri tecnici oggi lavorano con i tecnici degli Stati occidentali dell’Europa su di un piano diverso dallo stretto piano nazionale. L’infausta politica monarchica – facciano il piacere adesso di non interrompermi l’onorevole Condorelli e soci – ci aveva crocefisso a questo dilemma: o avrebbero vinto gli Alleati, e allora avremmo probabilmente avuto, come abbiamo avuto, questo Trattato ingiusto che oggi critichiamo o avrebbe vinto Hitler e allora, la nostra situazione sarebbe stata di gran lunga più orrenda. (Applausi al centro e a sinistra).

Noi vogliamo uscire, la Repubblica sta per uscire dai corni tragici di questo dilemma.

L’Italia è per la prima volta, da pari a pari, a discutere in una conferenza internazionale. L’onorevole Togliatti diceva: Bisogna esserci. Ma – soggiungeva – bisogna esserci con una certa politica. Egli ha dato anche alcuni eccellenti consigli per la nostra politica estera. Ora, io mi permetto di osservargli che non si può ancora fare una politica estera, nessuna politica estera, né quella di Togliatti né quella di Sforza. È evidente che una politica italiana vera e propria non si può fare finché noi non avremo liquidato il passato, finché noi non potremo partecipare da pari a pari a tutti i consessi internazionali.

È per questo che io non mi sono meravigliato che la conclusione cui è pervenuto l’onorevole Togliatti sia la nostra stessa conclusione, che cioè sia necessario ratificare il Trattato. Io credo che egli, senza volerlo, sminuisca il valore di questa conclusione – mi scusi l’onorevole Togliatti – subordinandola ad un esame di politica estera che si può fare, che si deve fare, ma in altra sede e in modo più approfondito.

La Repubblica sta uscendo dunque da questo dilemma e, mentre trattiamo a Parigi con gli Stati occidentali – qui la preoccupazione dell’onorevole Togliatti è anche la nostra e credo che sia comune a tutta l’Assemblea mentre stiamo trattando con gli Stati occidentali dell’Europa, la nostra preoccupazione è – ed è certo anche quella del Ministro degli esteri – di non precluderci la strada per le trattative col mondo orientale.

Io non sono nei segreti della politica estera italiana, ma vi sono alcuni fatti visibili per tutti, oltre le dichiarazioni opportune, le riserve opportune in questo campo che ha fatto pubblicamente a Parigi, nella sede stessa della Conferenza, l’onorevole Sforza; ci sono alcuni fatti che sembrano di importanza minore ma sono molto significativi: il suo incontro a Parigi con l’ambasciatore sovietico, il suo incontro a Roma con l’ambasciatore sovietico. Non credo – io non so niente, ma non credo – che siano casuali, puramente casuali, che cioè il nostro Governo e il Ministro degli esteri non siano preoccupati, come noi siamo preoccupati, di salvaguardare la nostra libertà politica ed economica verso l’altra parte dell’Europa. E se ratificare significa affrettare soltanto la speranza di partecipare all’O.N.U. – e per carità, anche qui, non mi regalate la solita geremiade di scetticismi e di pessimismi – avremo almeno conquistato una tribuna, la più alta tribuna internazionale per difendere le ragioni del nostro Paese. E se ratificare significa anche cominciare a smobilitare, la pesante macchina dell’armistizio (pare che gli inglesi abbiano assicurato che se ne andranno il giorno della ratifica del Trattato – e noi siamo pronti ad infiorarli, come li abbiamo infiorati quando sono venuti), anche questo è certo un enorme vantaggio per il nostro Paese.

Insomma, finché rimarremo in questo stato di soggezione, finché rimarremo in questo stato di inferiorità, non si potrà nemmeno parlare di problemi di revisione. E voi, forse, conoscerete quel ch’io penso in questa materia: che le possibilità di revisione sono insite nel Trattato stesso; che, per esempio, alle nostre frontiere orientali c’è un cuneo di interessi stranieri posti fra noi e la Jugoslavia, che noi abbiamo interesse ad eliminare, ma che anche la Jugoslavia ha interesse ad eliminare. Queste ferite potranno essere sanate il giorno in cui potremo ristabilire auspicabili contatti di fraternità al di là degli odî recenti.

Ecco perché il Partito repubblicano non ha esitato a prendere queste responsabilità. Ed a chi ci dice che in questo modo noi diamo armi alla speculazione nazionalista, rispondiamo che due stesse esperienze nel giro della stessa generazione non si faranno; che ormai gli Italiani sono abbastanza maturi per capire che questa idra nazionalista, che schiacceremo o isoleremo, ha già prodotto conseguenze disastrose per il nostro povero Paese.

Signori del Governo, voi potete contare sempre sui nostri voti, tutte le volte che al di là dei nostri bisticci interni, anche onorevoli, sono in gioco i supremi interessi, le supreme ragioni dello Stato repubblicano. Noi sentiremmo di essere gli ultimi miserabili, i più bassi politicanti, se avessimo profittato, se profittassimo di questa occasione, nella quale alcuni dei vostri normali alleati giuocano al terno della popolarità il cadavere della Nazione (Applausi), per rovesciare il Governo.

Noi voteremo con vera tristezza nell’animo, lasciando a qualcuno di noi, che ha particolare posizione di coscienza, il diritto di votare in modo diverso dal nostro. Ma nei miei banchi tutti sanno che la storia d’Italia è fervida di queste dedizioni assolutamente disinteressate del partito di Mazzini alla causa nazionale! (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. La seduta è sospesa fino alle 22.

A tale ora riprenderemo i lavori per continuare l’esame del disegno di legge sull’imposta patrimoniale.

Il seguito della discussione sul Trattato di pace è rinviato alla seduta di domani.

(La seduta sospesa alle 20.45 è ripresa alle 22).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Seguito della discussione del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947 n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

PRESIDENTE. Procediamo nella discussione del disegno di legge concernente l’istituzione dell’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.

Come l’Assemblea ricorda, la seduta di stamane è stata sospesa prima di procedere alla votazione dell’emendamento Cappi all’alinea b) del secondo degli articoli proposto dalla Commissione, emendamento tendente a stabilire in otto milioni il limite di esenzione per le società cooperative.

Comunico che, intanto, è pervenuto il seguente nuovo emendamento sostitutivo dell’alinea b), firmato dagli onorevoli Cerreti, Vicentini, Vanoni, Grazia e Dugoni, così formulato:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro, agricole ed i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane, che siano rette con i principî e con la disciplina della mutualità e che operino effettivamente secondo questi principî. L’esistenza di tali requisiti si deduce anche dal rapporto fra l’entità del patrimonio ed il numero dei soci ed è accertata, in caso di contestazione, dall’Amministrazione finanziaria d’intesa con il Ministero del lavoro».

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Stamane l’Assemblea, la Commissione e il Governo erano alla ricerca di una formula che servisse a concedere l’esenzione là ove veramente si possono trovare le vere società cooperative.

A titolo cautelativo si era pensato di determinare un limite di cifra di capitale oppure un limite di patrimonio imponibile. È esatto che il titolo per fruire o meno di questa agevolazione non può derivare tanto da un limite di capitale o da un limite di patrimonio imponibile, quanto invece dalla esistenza dei requisiti della vera cooperativa.

Se l’emendamento testé comunicato può dal Governo essere messo in correlazione con l’emendamento di cui al successivo articolo, con cui la Commissione propone la sussistenza nella cooperativa di un triplice requisito, il Governo non ha difficoltà ad esprimere parere favorevole a questo emendamento.

PRESIDENTE. Quale è l’avviso della Commissione?

LA MALFA, Relatore. Mi rimetto al parere del Governo.

CAPPI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà,

CAPPI. Avevo proposto stamane un emendamento; poiché, però, è intervenuto un accordo non limitato (questo mi preme di dirlo all’Assemblea) a questo comma ed a questo punto che riguarda le cooperative ma anche ad altri punti dell’articolo 2, in base a questo accordo complessivo, dichiaro di ritirare il mio emendamento e votare per l’emendamento sostitutivo che il Presidente ha testé annunciato.

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Desidero, signor Presidente, richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi su un particolare settore della cooperazione che non può e non deve, in un articolo così essenziale ed importante, essere trascurato.

Intendo riferirmi particolarmente alle cooperative edificatrici – che non vanno confuse con le cooperative di lavoro edile – le quali recano e meglio potranno arrecare in avvenire un altissimo contributo alla ricostruzione ed alla pacificazione del Paese. Sì, anche alla pacificazione perché quando l’operaio o l’impiegato, attraverso il conferimento dei loro sudati risparmi, diventano i proprietari della loro piccola casa o del proprio modesto appartamento, essi cominciano ad acquisire il senso di quella personalità indipendente che li emancipa dalla loro condizione proletaria.

Questo capitale, dunque, apportato con tanti sacrifici e che è frutto del più sano spirito previdenziale, dovrà essere colpito dall’imposta?

Io non credo, in coscienza, che ciò possa avvenire. Come mi associo, nella mia qualità non solo di deputato ma anche di rappresentante di un vastissimo movimento cooperativo nazionale, alle proposte che portano all’esenzione a favore delle cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, ai loro consorzi, nonché delle Casse rurali ed artigiane, così debbo insistere perché le cooperative edificatrici trovino il loro posto in quella tassativa elencazione.

Non vi è dubbio che le cooperative debbono essere fornite dei particolari requisiti, citati all’articolo successivo, i quali garantiscono pienamente l’osservanza dei principî e delle discipline della mutualità: la nuova legge che è in corso di elaborazione presso il Ministero del lavoro ed alla cui nuova impostazione la Confederazione cooperativa italiana ha dato e desidera dare il proprio fattivo contributo di esperienza, garantirà ai competenti organi dello Stato, e quindi anche all’amministrazione finanziaria, che non saranno possibili speculazioni di sorta sul fatto e sul nome della vera cooperazione, fine a se stessa e, nel contempo, strumento di elevazione sociale del popolo.

PRESIDENTE. In quali termini sarebbe l’emendamento aggiuntivo?

CIMENTI. «Le società cooperative di consumo, di produzione, di lavoro, agricole, edificatrici ed i loro consorzi».

PRESIDENTE. Prima di sentire il parere della Commissione sull’emendamento dell’onorevole Cimenti, domando all’onorevole Caroleo se mantiene il suo analogo emendamento.

CAROLEO. Il mio emendamento riproduce esattamente il pensiero del collega. Io ho precisato: cooperative per la costruzione di case economiche, che sono appunto le case operaie. Comunque, ritiro il mio emendamento, associandomi a quello dell’onorevole Cimenti.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei pregare gli onorevoli Cerreti e gli altri firmatari dell’emendamento nonché l’onorevole Cimenti di aggiungere all’elenco delle cooperative, così come risulta dal testo concordato, le cooperative dei pescatori, che in Italia hanno una importanza ed una tradizione notevole che non può essere dimenticata.

DUGONI. Le cooperative di lavoro comprendono anche quelle della pesca.

CANEVARI. Con la formulazione «cooperative di produzione e lavoro» si includevano tutte le cooperative che avevano lo scopo di produrre e lavorare. Ma quando avete fatta l’aggiunta «cooperative agricole», avete fatto un elenco, che reclama raggiunta delle altre cooperative.

O togliete tutte le altre e quindi anche le agricole, e allora non c’è bisogno di aggiungere altro; ma se mettete «agricole», bisogna fare l’aggiunta che dico io, vale a dire «cooperative di pescatori».

GRAZIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRAZIA. Penso che noi possiamo accettare l’aggiunta dell’onorevole Cimenti, ma desidereremmo che fosse specificato che quando si parla di «cooperative edificatrici» si intende parlare di case popolari, poiché stiamo assistendo appunto a delle forme di cooperative spurie, le quali creano palazzi sontuosi, che nulla hanno a che vedere con le case economiche.

PRESIDENTE. Infatti, l’emendamento dell’onorevole Caroleo, su questo argomento, specificava «case economiche». Ed allora potremmo dire «edificatrici di case economiche».

GRAZIA. Sta bene raggiunta che abbiamo fatto per le cooperative agricole; perché vogliamo riferirci a determinate cooperative le quali pur avendo carattere di lavoro e non di consumo fanno soltanto affitto o servizio di macchine per lavoro, che non è propriamente di produzione, ma è ausilio a questa.

Però, riguardo a quello che dice l’onorevole Canevari, se si vuole aggiungere anche le «cooperative della pesca», nulla in contrario ad accettare il suo emendamento.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Io sono d’opinione che noi non possiamo andare specificando tutti i generi di cooperative. Quindi sopprimiamo la parola «agricole» e diciamo: «Le società cooperative di consumo, produzione e lavoro, e i loro consorzi, nonché le casse rurali e artigiane ecc.». Questo mi pare che sia il sistema più semplice e più comprensivo.

CAROLEO. Non si può comprendere nelle cooperative di produzione e lavoro le cooperative di case. Non si producono le case; le case si costruiscono.

CIMENTI. D’accordo.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’emendamento concordato che avrà luogo separatamente per le singole voci.

Pongo ai voti le parole:

«b) le società cooperative di consumo, produzione, lavoro».

(Sono approvate).

«agricole».

(È approvata).

«edificatrici di case economiche».

(Sono approvate).

«della pesca».

(Sono approvate).

«e i loro consorzi».

(Sono approvate).

«nonché le casse rurali ed artigiane».

(Sono approvate).

A questo punto vi è l’emendamento dell’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

Onorevole Adonnino, insiste nel suo emendamento?

ADONNINO. Sì.

LA MALFA, Relatore. Ma continuando così non so che cosa voteremo!

ADONNINO. Sono state incluse tante altre specificazioni e non comprendo perché non ci possa essere anche quella proposta da me.

PELLA. Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Per rassicurare l’onorevole La Malfa e gli altri, che hanno qualche preoccupazione circa la perfezione forse formale più che sostanziale dell’emendamento che sta nascendo, credo che l’Assemblea sia d’accordo principalmente in questo punto: che debba essere compito, poi, della Amministrazione finanziaria compiere quel lavoro d’interpretazione della vera volontà della Assemblea coordinando il testo votato.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

LA MALFA, Relatore. Respingo nettamente l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino, perché con esso noi verremmo ad esentare – per esempio – la Banca cooperativa di Novara.

Pregherei poi di aggiungere, prima della parola «agricole», la parola «comprese»; così diamo un senso a questa votazione. Cioè, metterei dopo le parole «consumo, produzione e lavoro» le parole «comprese le cooperative di pesca, ecc.».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta del Relatore di premettere alla parola «agricole» già votata le parole «comprese le».

(È approvata).

Pongo ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Adonnino:

«Aggiungere: cooperative di credito».

ADONNINO. Beninteso, si dovrà aggiungere: «fino al limite di 8 milioni di patrimonio». (Interruzioni – Commenti).

PRESIDENTE. Sull’emendamento Adonnino il Governo e la Commissione hanno espresso parere contrario.

Lo pongo ai voti.

(Non è approvato). (Vivi rumori – Commenti – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi rumori – Il Presidente lascia il suo seggio).

(La seduta, sospesa alle 22.35, è ripresa alle 22.55).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Penso che nessuno si attendesse che questa ripresa serale della seduta dovesse essere interrotta dall’episodio spiacevole che si è verificato e credo che non vi sia nessuno tra di noi che non se ne rammarichi vivamente, anche e specialmente coloro che, involontariamente, ne sono stati la causa immediata.

Vi sono delle attenuanti, s’intende: la stanchezza, le sedute prolungate, la stagione, la difficoltà della materia. Tuttavia, onorevoli colleghi, penso che queste che sarebbero attenuanti per chiunque, non lo possono essere per dei deputati eletti dal popolo italiano i quali dovrebbero avere delle virtù connaturali, di cui la prima è l’autocontrollo.

Penso che il modo migliore per riparare alla innegabile spiacevolezza di questo episodio sia per l’appunto quello di riconoscere obiettivamente che l’esperienza di molti non ha ancora potuto essere completata (Commenti); e, con umiltà, lo riconosco per me stesso.

D’altra parte, è certo che il nostro collega Vicepresidente Conti non merita alcun atto men che deferente. (Si applaude a lungo vivamente all’indirizzo del Vicepresidente Conti).

Onorevoli colleghi! Noi siamo tutti stanchi ma, badate, vi è una stanchezza maggiore che si accumula in coloro che debbono dirigere le nostre discussioni e non hanno pause nella loro fatica.

Colui che presiede ha il diritto, in alcuni momenti, di essere particolarmente compreso. Il nostro collega onorevole Conti da diciotto sedute presiede una discussione faticosissima, oltremodo complicata.

Credo che tutti noi saremo unanimi nel volergli far giungere il desiderio che egli domani riprenda il suo posto. (Vivi applausi). Il modo migliore per dimostrarglielo è intanto quello di riprendere il lavoro interrotto, traendo dal piccolo incidente almeno l’ammaestramento di dare a questa discussione il carattere di una discussione parlamentare.

Forse si è trasferito un po’ troppo nell’aula il lavoro tipico della Commissione – degno e meritorio peraltro – ciò che ha un po’ stancato i colleghi, e contribuito a quello che è avvenuto poco fa.

Ma ormai è bene chiudere l’incidente e riprendere il nostro lavoro al punto in cui è stato spiacevolmente arrestato. (Vive approvazioni).

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea nel manifestare l’unanime rammarico per l’incidente che è accaduto, incidente che credo abbia avuto origine più che altro da un equivoco, perché effettivamente il nostro collega Vice-Presidente Conti si è ben trovato, anche durante la discussione della patrimoniale, in altre situazioni più rumorose e, direi anche, più clamorose. Forse, il momento non era il più adatto per lui ed anche per qualcuno di quelli che in quel momento hanno forse dimostrato, verso di lui un risentimento certamente infondato, determinato più che altro dal fatto che ciascuno di noi anche in questa discussione della patrimoniale, che abbiamo dovuto esaminare per la funzione legislativa aggiunta alla Costituente, quella cioè di aver modo di interferire in questa legge, ciascuno si è un po’ appassionato ed alcuni possono essere andati al di là di quello che sarebbe opportuno in una Assemblea calma e serena, come teoricamente dovrebbe essere sempre, ed in pratica ancor più trattandosi di questioni più serie ancora, quali sono quelle finanziarie.

Ora, effettivamente i colleghi sanno che io pure, che sono quasi sempre tranquillo oltre ogni dire, qualche volta, nella discussione di questa legge patrimoniale, mi sono accalorato e mi sono appassionato particolarmente quando qualcuno dei colleghi, di pensiero diverso da quello che avevo l’onore di esprimere io, assumeva degli atteggiamenti piuttosto rumorosi nei miei riguardi. Ora, questo dico per ricordare come effettivamente la questione della legge patrimoniale, importantissima, che si è discussa qui per diciotto sedute, di giorno ed anche (ahimè!) di notte, effettivamente ha affaticato tutti gli spiriti nostri. Da notare che la fatica di noi deputati è sempre relativa – perché se siamo stanchi usciamo dall’aula – ma ha affaticato ancora di più coloro che avevano l’obbligo di presiedere per dirigere le nostre discussioni, discussioni spesso astruse e complesse, anche perché… (Commenti a sinistra).

I colleghi sono già tutti del mio parere e desiderano, mi pare, che io concluda: sono abbastanza intelligente per comprendere a volo. Questo dimostra, signor Presidente, come le sedute notturne, siano relativamente opportune, perché vede con quale spirito di inquietudine si accolgono queste mie serene parole.

PRESIDENTE. La prego, onorevole Micheli!

MICHELI. Ho terminato di dir male delle sedute notturne, signor Presidente; non mi richiami perché non lo merito. Aggiungo solo che credo di interpretare il sentimento dell’Assemblea, ringraziando lei di essere venuto a riassumere «ambo le chiavi del cor di Federico» non solo, ma anche di aver così autorevolmente trovato la forma per eliminare ogni equivoco che ci fosse stato fra noi, nel senso che il desiderio di tutti è che il Vicepresidente Conti ritorni ancora a presiederci in questa discussione (Vivi applausi all’indirizzo dell’onorevole Conti), in modo che questa benedetta patrimoniale sia finita, per merito suo, per merito nostro. Con maggiore o minore soddisfazione del contribuente italiano, sarà poi da vedere, ma l’onorevole Conti non c’entra.

PRESIDENTE. Procediamo dunque nell’esame degli emendamenti.

Era stata approvata poco fa la prima parte dell’emendamento presentato dall’onorevole Cerreti e da altri colleghi al comma b) del secondo articolo aggiuntivo.

Si tratta, ora, di porre ai voti la seconda parte.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Propongo che la seconda parte del testo, per ragioni formali, sia modificata nel modo seguente:

«L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazioni, spetta all’Amministrazione finanziaria d’intesa col Ministero del lavoro i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

BERTONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Io credo che il dire che l’amministrazione finanziaria deve procedere d’accordo con il Ministero del lavoro possa condurre a delle complicazioni. Per quanto riguarda l’indagine sulle casse rurali, sulle cooperative di consumo, che cosa c’entra il Ministero del lavoro? Sulle cooperative di lavoro, sta bene; ma è inutile dirlo: l’amministrazione finanziaria, quando crederà di servirsi degli elementi che può fornire il Ministero del lavoro, se ne servirà, ma non mi pare che si possa o si debba stabilire ciò a-priori.

In secondo luogo, osservo che, per quanto riguarda le cooperative di consumo, non basta tener conto del capitale e del modo di attività; bisogna tener conto anche del fatto se queste cooperative di consumo esercitino o meno la loro attività soltanto nell’ambito dei soci, o anche nei confronti di terzi. Ci sono infatti delle cooperative di consumo che sono enti di formidabile potenza, che hanno centinaia di milioni di patrimonio. Ora, è evidente che queste cooperative esercitano un’attività anche industriale perché hanno mattatoi, mulini, e servono il pubblico. Ve ne sono alcune – si conoscono benissimo – che servono intere città che hanno centinaia di migliaia di abitanti.

Tutte le volte, in cui noi diciamo di aiutare le cooperative, noi non alludiamo certo a quelle che entrano nell’ambito commerciale generale.

A me pare quindi che non sia assolutamente il caso di…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, mi perdoni: la cosa è superata, perché l’Assemblea ha approvato già il primo alinea in cui si parla di cooperative in modo indiscriminato.

BERTONE. Ma io mi riferisco ad altri elementi, onorevole Presidente. Penso che si dovrebbe avere anche riguardo al modo, alla natura, alla estensione dell’attività dell’ente, se limitata ai soci o estesa indiscriminatamente a tutti…

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, lei pone qui la questione delle cooperative chiuse e delle cooperative aperte. Ritiene che quelle aperte debbano avere un trattamento diverso? Formuli allora un emendamento in questo senso.

PALLASTRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PALLASTRELLI. Io sono d’accordo con l’onorevole Bertone e cioè che non si dovrebbe fare alcuna specificazione circa i Ministeri che quello delle finanze dovrà sentire; ma se invece si insiste a dire che il Ministero delle finanze deve avere il parere di quello del lavoro, penso sia necessario, anzi doveroso, aggiungere che occorre pure interpellare il Ministero dell’agricoltura. So bene la ragione per la quale ci si è limitati al Ministero del lavoro, ossia perché esso è detentore del registro delle cooperative, e so anche che sotto il punto di vista strettamente giuridico si potrebbero opporre delle buone considerazioni alla mia proposta. Ma io non vorrei si escludesse il Ministero di agricoltura per tante ragioni che non mi indugio a esporre e anche per porre fine alla tendenza, se volete è motivo un po’ estraneo a ciò che stiamo trattando, a quella tendenza, ripeto, che mira a togliere al Ministero di agricoltura, ogni ingerenza nelle cooperative che agiscono nel suo settore. Io penso e mi auguro che possano sorgere molte cooperative agricole. Ed è da augurarsi anche che possano sorgere come fattore importante della auspicata riforma agraria per la quale dovremo avere un forte sviluppo di cooperative specie per i sistemi collettivi di conduzione della terra.

Perciò anche al Ministero dell’agricoltura quello delle finanze dovrebbe chiedere ciò che si vuole solo limitare al Ministero del lavoro.

PRESIDENTE. Sta bene. Vi sono dunque due proposte di emendamento: il primo è dell’onorevole Bertone, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti esclusivamente all’amministrazione finanziaria, senza il concorso di altre amministrazioni; il secondo emendamento è quello dell’onorevole Pallastrelli, il quale propone che, in caso di contestazione, l’accertamento spetti all’Amministrazione finanziaria, d’intesa, non so se col Ministero del lavoro, ma comunque col Ministero dell’agricoltura.

PALLASTRELLI. O sia solo il Ministero delle finanze, e non si parli di altri Ministeri, oppure se si indica quello del lavoro si metta anche il Ministero dell’agricoltura.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Mi pare che l’emendamento, nella sua dizione formale, sia stato concordato fra i vari gruppi nel presupposto che il Ministero del lavoro istituisca un registro delle cooperative, in cui si accerti la regolarità degli scopi delle cooperative medesime. Quindi, l’intesa col Ministero del lavoro presuppone questo registro presso il Ministero del lavoro stesso. Date questo presupposto, qualsiasi altro emendamento è inutile. Quindi pregherei il Governo di dichiarare se accetta o meno quella formulazione. È inutile una discussione che ci porta sempre fuori strada.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Vorrei far presente appunto che lo schema di disegno di legge già predisposto dal Ministro del lavoro del tempo, D’Aragona, successivamente accettato dal Ministro Romita, schema che è in attesa di essere portato davanti a questa Assemblea, prevede appunto la costituzione, per la vigilanza da esercitarsi sulle cooperative – vigilanza già richiesta da tutti i cooperatori italiani anche nei loro congressi nazionali, di un registro, che è di competenza del Ministero del lavoro.

Io, però, sono d’avviso che in luogo di mettere – come pare sia proposto nell’emendamento Pesenti – «il Ministero delle finanze, d’intesa col Ministero del lavoro», si metta che la competenza sia conferita al Ministero delle finanze, sentito il Ministero del lavoro, che ha una competenza specifica per la vigilanza da esercitarsi sul movimento delle cooperative.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Gli onorevoli colleghi avranno certamente pensato che se il Governo ha dato parere genericamente favorevole all’emendamento proposto dalla Commissione, ciò è stato soprattutto per portare un contributo di semplificazione e di acceleramento nei lavori.

Effettivamente, coll’emendamento proposto si viene a limitare la libertà dell’Amministrazione finanziaria in materia. Forse il sistema più appropriato sarebbe stato questo: dopo aver affermato che ai fini dell’accertamento del requisito della mutualità occorre anche tenere conto del rapporto tra capitale e soci, e dopo aver affermato che occorre tenere conto del parere del Ministero del lavoro, o sentire questo Ministero, sarebbe stato più opportuno mantenersi nel grande solco del normale contenzioso dell’imposta: che, cioè, in caso di contestazione, dovessero essere gli organi amministrativi a decidere anche su questo punto, tenendo conto e del parere del Ministero del lavoro, e di questo requisito obiettivo del rapporto tra capitale e soci, e degli altri requisiti contemplati dal successivo articolo. Questo sarebbe il sistema che preferirebbe il Ministero e che sembrerebbe più organico.

Se la Commissione in questo senso vuole correggere il suo emendamento, il Governo ne prenderà atto con piacere; se però non ritiene di modificare l’emendamento presentato, nessuna difficoltà ad accoglierlo da parte del Governo.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Volevo far presente che il testo proposto non è della Commissione ma di gruppi vari dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Sta bene; ma la cosa non ha eccessiva importanza. Penso che l’Assemblea giudicherà in base al contenuto dell’emendamento, senza tener conto di chi precisamente ne sia l’autore.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Propongo che alle parole «d’intesa con» si sostituisca la parola «sentito».

PRESIDENTE. Pongo ai voti la prima parte dell’emendamento: «L’accertamento della sussistenza di tali requisiti, in caso di contestazione, spetta all’Amministrazione finanziaria».

(È approvata).

Pongo ai voti – in base alla proposta Scoccimarro – le parole: «sentito il Ministero del lavoro».

(Sono approvate).

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pallastrelli di aggiungere le parole:

«e il Ministero dell’agricoltura».

(Non è approvata).

Pongo ora ai voti la seconda parte del comma:

«i quali, nella determinazione dei requisiti, avranno anche riguardo all’entità patrimoniale in confronto del numero dei soci».

(È approvata).

Si passa ora alla lettera c):

«c) lo Stato per tutti i suoi beni, le Amministrazioni di Stato, gli Stati esteri, per i beni di qualsiasi specie che essi possiedono nel territorio dello Stato, le Provincie, i Comuni e le Aziende municipalizzate, i Consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre tributi obbligatori; le partecipanze ed università agrarie; le opere pie, gli istituti ed enti di beneficenza ed assistenza legalmente costituiti e riconosciuti; le società di mutuo soccorso; le fondazioni od istituti di diritto o di fatto che, pur senza rientrare nel novero delle istituzioni pubbliche di beneficenza, attendono, senza fine di lucro, ad opere filantropiche di assistenza ed educazione degli indigenti, infermi, orfani o fanciulli bisognosi, combattenti, reduci e partigiani e loro figli; gli enti il cui fine è equiparato, a norma dell’articolo 29, lettera h), del Concordato, ai fini di beneficenza o di istruzione e gli assimilabili di altri culti; gli istituti pubblici di istruzione; i Corpi scientifici, le Accademie e Società storiche, letterarie, scientifiche, aventi scopi esclusivamente culturali; i benefici ecclesiastici maggiori o minori.

«Per gli enti di cui alla lettera c) l’esenzione non ha luogo per la parte di patrimonio destinata all’esercizio di un’attività produttiva di reddito tassabile, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in categoria B».

Gli onorevoli Dugoni ed Assennato hanno proposto un emendamento per sostituire la lettera c) con la seguente formulazione: «Le aziende municipalizzate, le aziende autonome dello Stato, i consorzi e gli altri enti autorizzati ad imporre contributi obbligatori o esercenti pubblici servizi».

TOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOSI. Ho chiesto di parlare solo per dire che voteremo contro l’emendamento Dugoni. Per accelerare la discussione abbiamo altresì preso accordi coll’onorevole Scoccimarro per approvare il testo della lettera c) fino alle parole: «aventi scopi esclusivamente culturali», lasciando le altre parole: «i benefici ecclesiastici maggiori o minori» su cui c’è un emendamento dello stesso deputato. E lì ci fermeremo per esaminare da questione. Vorremmo dunque che questo fosse noto al Governo. Quindi la lettera c) rimane tutta mantenuta fino alle parole «i benefici ecclesiastici maggiori e minori» per cui c’è un emendamento Scoccimarro.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Scoccimarro se per tutta la prima parte della lettera c) fino al punto indicato dall’onorevole Tosi c’è un accordo per conservarla.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. L’accordo era per conservarla. Naturalmente in sede di coordinamento, siccome è stata votata una diversa dizione dell’articolo 1 lettera c), evidentemente alcuni di questi enti ricordati devono cadere perché sono già esenti in base all’articolo 1 lettera c). Però l’onorevole Assennato fa osservare che nella lettera c) manca l’esenzione – per esempio – dell’Ente autonomo dell’acquedotto pugliese, cioè di certi enti autonomi che non sono ricordati perché non esistevano all’epoca della legge del 1922.

ASSENNATO. Si tratta di enti autonomi che svolgono pubblici servizi.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevole Assennato, allora il suo è un emendamento aggiuntivo.

ASSENNATO. Sì, aggiuntivo,

PRESIDENTE, Avverto che alla lettera c) l’onorevole Micheli propone di dire, oltre le amministrazioni di Stato, anche «gli istituti»; quindi: «amministrazioni e istituti di Stato».

Vi è poi un emendamento dell’onorevole Quintieri Quinto che propone che si tolgano dal comma c) le parole: «aziende municipalizzate».

L’onorevole Quintieri Quinto ha facoltà di parlare per illustrare il suo emendamento.

QUINTIERI QUINTO. Propongo da soppressione delle parole «aziende municipalizzate», prima di tutto per evitare di limitare troppo la materia su cui incide l’imposta. Le esenzioni sono già notevoli: estenderle significa gravare più ancora sulle restanti categorie che saranno colpite. Bisogna inoltre evitare un trattamento fiscale diverso per aziende che sostanzialmente hanno lo stesso campo di attività. Ci sono aziende non municipalizzate che eserciscono pubblici servizi, e non c’è ragione di stabilire fra queste due categorie una tassazione diversa. Bisogna evitare che le aziende, attraverso il differente trattamento fiscale, perdano la chiara ed esatta visione dei risultati economici raggiunti.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, credo che noi andiamo da un equivoco all’altro, da una confusione all’altra, e così non so dove arriveremo. Non è possibile mantenere la lettera c) dell’articolo 2 se si modifica, come è stata modificata, la lettera c) dell’articolo 1.

Se definiamo la lettera c) dell’articolo 1 mettendovi le fondazioni e gli enti morali, non possiamo poi dire che sono esentati dall’imposta. Non possiamo parlare degli Stati esteri in categoria B di ricchezza mobile. E così via. Non so davvero che cosa significhi tutto questo pasticcio. Se manteniamo la lettera c) dell’articolo 1 dobbiamo togliere le esenzioni corrispondenti dal comma c) dell’articolo 2.

Fin da stamane ho dovuto criticare la facilità con cui stabiliamo delle categorie di privilegi e di esenzioni senza valutarne le conseguenze. Continuando con questo, metodo non so se l’Assemblea stia qui per curare gli interessi di coloro che vogliono essere esentati dall’imposta o curare gli interessi generali dello Stato. Credo che si debba deliberare la soppressione della lettera c) dell’articolo 2.

CORBINO. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei far notare che noi discutiamo di una materia estremamente complessa e nella quale è necessario conservare una armonia tra le linee generali, del disegno di legge e i dettagli che lo compongono. Vorrei perciò fare una proposta concreta. L’imposta sugli enti collettivi non era contemplata nel decreto con cui l’imposta sul patrimonio era stata già istituita dal Governo. L’abbiamo deliberata noi. La trasformazione della nostra deliberazione generica in dettagli di disposizioni tributarie, a mio giudizio, non potrebbe essere fatta se non con una calma ed una serenità che noi in questo momento abbiamo già dato prova di non avere. E allora io vorrei proporre che, approvato il principio generale dell’imposizione degli enti collettivi così come è stata stabilita dall’articolo 1, si aggiunga un altro articolo così formulato: «Con successivo provvedimento legislativo saranno emanate le norme per la riscossione dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi». Il Governo emanerà il provvedimento d’accordo con la Commissione di finanza e tenendo presenti le disposizioni generali che la Commissione di finanza ha già approvato in questa materia. E noi, nella mattinata di domani, potremo dare la convalida al provvedimento legislativo; mettere in pace i contribuenti che devono pagare, e metterci ih pace anche noi, terminando il nostro lavoro.

PRESIDENTE. La sua proposta formale è praticamente quella di chiudere la discussione a questo punto.

CORBINO. Nei dettagli sarebbe questa: che all’articolo 1 dell’imposta straordinaria sul patrimonio degli enti collettivi, che è già stato approvato, si faccia seguire un articolo 2: «Con successivo provvedimento saranno dettate le norme per l’applicazione e la riscossione di questa imposta». Nella Commissione di finanza sono rappresentati tutti i gruppi, sono rappresentate tutte le tendenze; e quindi tutti gli interessi avranno modo di poter far sentire la loro voce; soprattutto, avrà modo di poter far sentire la sua voce il Governo che in questo momento mi pare sia sopraffatto da proposte di esenzione che ciascuno di noi avanza nell’intento di sgravare dell’imposta tutti quegli enti che prima abbiamo voluto colpire, svuotando di fatto il contenuto del capo XIV del disegno di legge.

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Avevo chiesto, veramente, di parlare prima del relatore e prima che l’onorevole Corbino facesse questa proposta di sospensiva. Ritengo opportuno esporre il mio pensiero anche se la proposta dell’onorevole Corbino dovesse essere accolta. Alla lettera c) si parla di consorzi ed altri enti autorizzati a imporre tributi obbligatori. Voglio chiedere questo chiarimento. I Consorzi di bonifica, che sono un’associazione di proprietari di terre, possono avere – ed hanno nella maggior parte dei casi – un patrimonio collettivo, alle volte anche cospicuo, di terreni e di stabili. Ora non riesco a vedere quale sarebbe la ragione dell’esenzione. Vorrei che mi si desse, per lo meno, questo chiarimento.

CHIOSTERGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.,

CHIOSTERGI. Mi oppongo alla proposta dell’onorevole Corbino. Io ritengo che – se è necessario – l’Assemblea non deve cedere in quello che è il diritto e il dovere di arrivare fino in fondo.

PRESIDENTE. L’onorevole Corbino non ha ancora presentato una proposta precisa.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Vorrei fare presente che questo progetto non è una improvvisazione dell’ultimo momento. È stato già attentamente elaborato dal Ministero delle finanze, poi è stato riesaminato a lungo dalla Commissione di finanza e viene qui dopo un attento esame.

Non è una cosa affrettata. Perciò io penso che siamo in grado di discuterlo e decidere in merito.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Devo fare osservare che la Commissione assume la completa responsabilità del progetto che ha presentato. Ma la responsabilità di quello che avviene da questa mattina deve essere assunta dal Governo, che apportando un emendamento alla lettera c), non ha tratto tutte le conseguenze ed ha messo in condizioni difficili la Commissione.

La Commissione assume la responsabilità della coerenza degli articoli che ha presentato, però quando il Governo alla lettera c) propone un emendamento che modifica la base delle proposte della Commissione, non deve essere il Presidente della Commissione a dire che la lettera c) non è più sostenibile rispetto alla lettera c) dell’articolo 1, ma deve essere il Governo ad assumere la responsabilità rispetto agli articoli 2 e seguenti.

Voce al centro. L’Assemblea ha votato!

LA MALFA, Relatore. Questo devo dire perché da qualcuno si vorrebbe dare l’impressione che nel presentare questo emendamento la Commissione ha esercitato un potere arbitrario ed ha fatto un lavoro frettoloso.

PRESIDENTE. Parliamo della questione specifica.

LA MALFA, Relatore. Tutto quanto avviene da questa mattina, deriva da questa precisa situazione in cui ci troviamo: il Governo ha presentato un emendamento che è stato approvato dall’Assemblea, esso deve guidare la discussione dell’Assemblea in maniera che dall’emendamento presentato si traggano tutte le logiche conseguenze.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Mi permetterei di aggiungere, relativamente a questo cosiddetto non esistente contrasto fra il Governo e la Commissione, nei modi come sono stati esposti dall’onorevole La Malfa, che con una dichiarazione molto precisa, (che quindi l’Assemblea poteva anche ritenere impegnativa) il Governo aveva dichiarato solennemente che, nel caso fosse stata introdotta l’imposta straordinaria proporzionale, avrebbe contemporaneamente, se non abrogato, perché non voglio alterare la portata delle sue dichiarazioni, modificato il regime delle imposte sulle rivalutazioni.

Ora, la fretta con cui questo disgraziatissimo progetto aggiuntivo è stato varato, al di fuori di ogni norma costituzionale e di ogni normale procedura, per cui io non ho che da richiamare le giustissime osservazioni che furono fatte dal nostro attuale Presidente alla fine di una recente seduta, ha portata la conseguenza che in questo progetto aggiuntivo è anche contenuto un articolo x il quale dice: «Con provvedimento a parte saranno dettate le norme che si rendessero necessarie per la disciplina delle rivalutazioni dei cespiti patrimoniali delle società ed enti, ecc. ecc.».

Questa riserva incide sostanzialmente in quella tale alternativa di cui il Governo aveva fatto chiara ed esplicita ed impegnativa dichiarazione alla Costituente.

Quindi la proposta dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e coerente alle precedenti dichiarazioni del Governo in quanto se le modalità della seconda imposta proporzionale risulteranno da un successivo progetto meglio elaborato, tecnicamente non incongruente come questo, il progetto futuro del Governo, oltre ad essere sottoposto alla normale procedura dei disegni di legge, potrà contenere quella tale parte relativa alla revisione delle attuali imposte sulle rivalutazioni, senza la modificazione o abrogazione delle quali noi non teniamo conto che gli enti collettivi, una delle principali ossature dell’economia del Paese, finiranno in pratica per avere l’imposta ordinaria con quei tali multipli di imponibile e concentrazioni decennali di cui si è parlato, l’imposta straordinaria di cui stiamo parlando adesso con tutte le assunzioni della cosiddetta responsabilità da parte della Commissione, ma senza nessuna analoga assunzione di responsabilità da parte del Governo, ed avremo contemporaneamente l’esistenza dell’imposta sulle rivalutazioni la quale, sostanzialmente, ferma l’opera ricostruttiva del Paese…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, l’Assemblea ha già votato il primo di questi articoli; perciò la questione è risolta.

FABBRI. Io sono molto deferente alla sua logica, ma mi permetto dirle che la proposta dell’onorevole Corbino è di conferma del principio votato, e sta bene; ma è aggiuntiva di un progetto di legge che dia luogo da parte del Governo e della Commissione all’assetto tributario degli enti collettivi. Ora, in questo stesso progetto di legge – ed è inutile che io faccia la questione più tardi – è contenuta una riserva per la revisione di imposte che attualmente rimangono in atto. La proposta di sospensiva dell’onorevole Corbino è tanto più razionale e tanto più ragionevole in quanto questa futura presentazione delle nuove norme potrà essere comprensiva anche del contenuto di questo articolo dove c’è una riserva (relativamente ad una anteriore e precisa dichiarazione del Governo) proprio a proposito della eventuale introduzione dell’imposta straordinaria…

PRESIDENTE. Onorevole Fabbri, ma io ho già qui una proposta concreta dell’onorevole Corbino. Questo che lei dice si riferisce al testo dell’articolo 13.

FABBRI. Allora domando che questo articolo 13 sia aggiunto all’emendamento Corbino in quanto la ragione di sospensiva sarà comprensiva dell’argomento complesso che consta di due parti organiche, secondo la dichiarazione impegnativa del Governo, la quale, o rimane tale, e allora ho ragione io, o viene revocata, ed allora si vedrà l’opinione dell’Assemblea.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare che l’imposta straordinaria sugli enti collettivi è una questione diversa dell’imposta sulla rivalutazione degli impianti. Noi possiamo benissimo esaminare l’imposta straordinaria ed affrontare in seguito il problema delle rivalutazioni (sul quale sono d’accordo con lei, onorevole Fabbri, che il 25 per cento deve essere riveduto). Perciò non vediamo il motivo del rinvio che ora si chiede.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. È inutile che io dica agli onorevoli colleghi che, per il semplice fatto che il Governo è presente a questa discussione, il Governo si assume tutta la responsabilità dei suoi atteggiamenti. Vorrei però che si tenesse presente che forse si comincia ad intendere la portata di quella che era l’intenzione del Governo di deferire all’autorità dell’Assemblea la risoluzione dei problemi più importanti. Non ho che da rammaricarmi che possano essere state fraintese le intenzioni del Governo e di chi vi parla. Non desiderio di evadere la responsabilità, che anzi il Governo rivendica a se stesso nella totalità, ma atto di ossequio ed atto di omaggio all’Assemblea Costituente e nulla più.

Per quanto riguarda il merito delle osservazioni fatte, ho da tempo chiesto la parola per esprimere il pensiero del Governo in particolare modo sulla lettera c) dell’emendamento numero due, in correlazione all’emendamento dal Governo accettato stamani sull’emendamento numero uno.

È noto certamente alla Commissione, se non agli onorevoli colleghi dell’Assemblea, che il Governo aveva presentato, in via di contributo tecnico, un suo schema alla Commissione, nel quale era appunto introdotto il concetto di tassare gli enti morali per la zona del reddito di categoria B. Quindi, l’emendamento presentato stamani non ha alcun carattere di novità e di sorpresa; e la riaffermazione d’un concetto che esplicitamente era contenuto nel progetto presentato dinanzi alla Commissione. Ed ho spiegato stamani per quale ragione il Governo insisteva nel suo ordine di idee.

Resta in questo momento da chiedersi se abbia ancora ragion d’essere un sistema di esenzioni obiettive, quale quello contenuto nella elencazione di cui alla lettera c). Accantono in questo momento il problema secondario della revisione di questo elenco, perché io penso che qualcuno degli enti morali ivi indicati effettivamente potrebbe non avere più ragione di essere come può darsi che qualche altro ente – come giustamente propone l’onorevole Assennato – debba essere incluso.

Ed io ritengo – ed è qui che il Governo si assume veramente una responsabilità sul piano di un indirizzo di politica tributaria – ritengo veramente che un sistema di esenzioni soggettive debba essere anche, per quanto la portata all’atto pratico sia infinitamente piccola, di esenzione soggettiva per quegli enti morali che, nel quadro di una più ampia attività, possono svolgere episodicamente una qualche attività industriale o commerciale, che possa far nascere l’applicazione di un’imposta di ricchezza mobile in categoria B.

Onorevoli colleghi, per impostare esattamente il problema, teniamo conto che questa ipotesi vale e per il settore religioso e per il settore non religioso; e vorrei dire che la lettera c) esplicitamente parla di settori appartenenti a tutti i culti; quindi, un concetto molto largo e neutrale rispetto a quella che può essere una considerazione di ordine religioso.

Ora, il Governo non deve essere preoccupato soltanto di affastellare tributi su tributi e di cogliere soltanto l’esito tributario di gettito del tributo, ma, principalmente davanti a un tributo straordinario, quale quello di cui discutiamo, e di un tributo così contrastato nella sua stessa impostazione iniziale, il Governo, dico, deve tener conto d’un concetto fondamentale: se, in sede di applicazione del tributo mobiliare ordinario, il reddito è tassabile per il semplice fatto che si produce, indipendentemente dalla sua destinazione finale, analogo concetto il Governo non ritiene che si possa adottare ai fini dell’applicazione di questo tributo. Devesi tener conto di quella che è la destinazione finale del reddito: se la destinazione finale è scopo di beneficenza, di assistenza, filantropico, noi riteniamo che sussista il requisito per concedere una esenzione soggettiva. Ripeto, il settore su cui si estende questo sistema di applicazione è molto ridotto.

Il giorno in cui potremo fare una statistica e tradurre in cifre che cosa significa questa rinuncia, ritengo che ci troveremo davanti a cifre molto basse. Perciò il Governo, che stamattina aveva proposto un secondo emendamento, cioè di sopprimere l’ultimo periodo dell’emendamento n. 2, lasciando in piedi la lettera c), conferma in questo momento l’opportunità di lasciare in piedi la lettera c), integrata nel senso accennato dall’onorevole Assennato e depurata di qualche ente che effettivamente non riuscirebbe ad essere agganciato alle ipotesi pratiche di legame ad un reddito di categoria B.

Per quanto riguarda la proposta di rinvio dell’onorevole Corbino, veramente in questo caso il Governo deferisce la decisione all’Assemblea. lì Governo, se viene investito del problema di varare un separato provvedimento d’accordo con l’onorevole Commissione, non solo si impegna di vararlo, ma prega addirittura l’Assemblea di fissare un termine.

Se invece l’Assemblea preferisce che si continui stanotte per portare a termine l’esame del progetto, il Governo è a disposizione in tal senso.

CORBINO. Faccio osservare che il mio emendamento è nel senso indicato dall’onorevole Ministro: con successivo provvedimento da emanare, per esempio, entro un mese, o entro quel termine che vorrà fissare l’Assemblea, la legislazione avrà il suo seguito.

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Corbino pone una questione di procedura e di regolamento; essa avrebbe dovuto essere presentata prima che si iniziasse l’esame dell’articolo. Oramai la questione è stata toccata ed in parte risolta con le votazioni avvenute stasera. Se si accettasse la proposta dell’onorevole Corbino, bisognerebbe considerate come non avvenute queste votazioni e ricominciare da capo.

D’altra parte, è evidente che l’Assemblea, volendo, può sempre prendere in considerazione proposte di questo genere. Ma è necessario, evidentemente, che l’Assemblea deliberi di considerare come non avvenute le votazioni fatte.

L’Assemblea dovrà dunque decidere sulla proposta dell’onorevole Corbino di votare un articolo 2 con il quale si dichiari: «Con successivo provvedimento saranno dettate norme per l’applicazione e la riscossione dell’imposta di cui all’articolo 1».

Porrò ai voti tale proposta.

BERTONE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BERTONE. Il Gruppo per il quale ho l’onore di parlare accetta la proposta Corbino e voterà a favore. Il principio della tassabilità degli enti collettivi è acquisito e fermo e non si torna più indietro. Si tratta ora di stabilire i dettagli e le modalità della tassabilità e della tassazione. Evidentemente, poiché l’Assemblea ne è investita, potrebbe discutere e della tassazione e delle modalità della tassazione. Ma, onorevoli colleghi, rendiamoci conto del modo in cui avviene questa discussione. La verità è che se noi affrontiamo queste discussioni, non la finiremo né in due, né in tre, né in cinque giorni, perché basta vedere che per un articolo, che è stato già votato, e ora ci si ritorna su, c’è da ritenere che la discussione si protragga per un tempo che non possiamo definire. Perciò, l’affidare al Governo ed alla Commissione di stabilire un provvedimento definitivo con cui si dovrà procedere alla tassazione degli enti collettivi, mi pare che sia buona norma, conforme anche al principio costituzionale che il potere legislativo è delegato al Governo; e in verità noi qui stiamo varando un vero e proprio provvedimento legislativo.

Non aggiungo altro. Ritengo sia conveniente aderire alla proposta Corbino.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. Dichiaro che avrei votato a favore dell’emendamento Corbino se il Governo si fosse impegnato a tener conto di quanto è già stato approvato dall’Assemblea su questo articolo. L’Assemblea su alcuni punti si è già pronunciata, e, credo, si è legalmente pronunciata.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Non ho esaminato dal punto di vista tecnico-formale come si possa o non si possa inserire formalmente quanto è stato già approvato; ma il Governo parte indubbiamente dal principio che quanto è stato già votato, da stamane fino a stasera, ha potere vincolante rispetto al nuovo provvedimento. Che poi tutto questo possa essere trasfuso nel nuovo provvedimento o non, è questione strettamente tecnica da esaminare.

FOA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Dichiaro che voterò contro la proposta Corbino perché ritengo che la sua accettazione costituirebbe una seria incrinatura nella fiducia che l’Assemblea Costituente deve avere in se stessa e nella capacità di svolgere i suoi lavori. Per la prima volta, essa si arresterebbe di fronte ad una complicazione di lavoro, quando questa complicazione non dipende in realtà da difetti o da colpe della Commissione da essa delegata, ma da una situazione nuova creata stamane da un emendamento proposto dal Governo e accettato, direi, con leggerezza dalla maggioranza dell’Assemblea. (Commenti – Proteste al centro). Con leggerezza, perché la Commissione… (Interruzione del deputato Fuschini).

Oltre tutto, io non vedo come si possa delegare al Governo di adottare questo provvedimento, di concerto con la Commissione di finanza, perché è evidente che qualunque conflitto sorga tra il Governo e la Commissione di finanza, non potrebbe essere in altro modo risolto se non rinviando all’Assemblea, cosa che non potrebbe avvenire prima della ripresa dei lavori.

Credo, perciò, che questo provvedimento, presentato come una delega al Governo, non sarebbe altro se non la rinunzia da parte dell’Assemblea di portare a termine un lavoro, che si trova già all’ordine del giorno.

Questa credo che sia una diminuzione gravissima del nostro mandato, e perciò dichiaro che voterò contro. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

Voci Ai voti!

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. L’Assemblea, dopo l’articolo 2, dovrebbe affrontare – come discussione di una certa importanza – solo altri due articoli, l’articolo sulle detrazioni e l’articolo sulle aliquote, dopo di che dovrebbe esaminare il progetto per l’imposta sugli enti collettivi.

Credo, quindi, che la proposta degli onorevoli colleghi che vogliono sospendere la discussione di questo progetto indichi una stanchezza per lo meno prematura.

Noi, qui, siamo arrestati da un fatto di grande semplicità, cioè l’armonizzazione della lettera c) dell’articolo 2 con la lettera c) dell’articolo 1, che non presenta affatto difficoltà, tanto che la Commissione si sente di proporre la soppressione della lettera c) dell’articolo 2, ciò che non presenta alcun inconveniente, dopo che il Governo ha proposto l’emendamento alla lettera c) dell’articolo 1, che l’Assemblea ha approvato.

Aggiungo che le dichiarazioni dell’onorevole Pella sulla lettera c) dell’articolo 1 non sono ancora chiare.

Ma siccome c’è una proposta di sospensiva, mi riservo di discutere sulle dichiarazioni del Ministro Pella dopo la votazione circa la proposta dell’onorevole Corbino.

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Desidero far notare all’Assemblea che su questo problema della tassazione degli enti collettivi già una volta è stata presentata proposta di sospensiva e di rinvio e l’Assemblea l’ha respinta. Ora è la seconda volta che si ripresenta la stessa proposta e mi parrebbe strano che l’Assemblea, arrivata a metà del suo lavoro, cambiasse opinione.

Devo poi far notare che non riesco a concepire come la Commissione, se fosse investita dal Governo di un provvedimento di questa natura, non lo rimandasse qui all’Assemblea, dovendo esso far parte dell’imposta straordinaria sul patrimonio…

MARINARO. La Commissione non è stata mai investita dal Governo!

SCOCCIMARRO. La Commissione si sentirebbe moralmente obbligata a rimandare all’Assemblea il provvedimento che il Governo presentasse, per cui questo vorrebbe dire che dovremmo riprendere la discussione dopo le vacanze.

Ancora una ultima osservazione: credo – sarà perché io non ho molta esperienza parlamentare – che sia la prima volta che nel nostro Parlamento, e forse anche in altri Parlamenti, si comincia a discutere una legge e ci si ferma, poi, a metà strada dicendo: «Il Governo la finisca lui».

Quindi, non possiamo accettare la proposta Corbino, e, se viene mantenuta, chiediamo l’appello nominale. (Applausi a sinistra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io non pensavo affatto di ledere i diritti dell’Assemblea proponendo quello che ho proposto; non c’era la più piccola intenzione in questo senso da parte mia. Desidero solo far rilevare che i poteri di emanare leggi li ha il Governo e, in materia fiscale, il Governo ha emanato in questi giorni provvedimenti che importano 80 miliardi di imposte da parte dei consumatori. Nessuno di noi si è sentito offeso nella sua dignità perché il Governo ha preso questi provvedimenti.

Io desidero invece che questo benedetto disegno di legge per l’imposta sul patrimonio sia varato al più presto possibile e non ho mai detto che debba essere rimandato. Non ho voluto quindi intendere che il suo esame vada, nel prosieguo, deferito al Governo. In questo caso, è il Governo che avrebbe dovuto fare questa legge. Il Governo l’ha portata qui per un riguardo all’Assemblea. Ma ora le questioni di massima le abbiamo esaminate e l’Assemblea si è pronunciata su di esse; non sono rimaste pertanto che le questioni di dettaglio.

Ora, su questo punto, chi sa quanto noi dovremmo discutere: dal momento quindi che gli elementi fondamentali, come ho già detto e come tutti noi sappiamo, sono ormai acquisiti e dal momento che la Commissione, la quale esprime tutte le correnti dell’Assemblea, ha già raggiunto un accordo, che cosa resta? Non restano che delle preoccupazioni concernenti il dettaglio.

E se io ho sollevato queste preoccupazioni nell’Assemblea, non le ho sollevate per tutelare i contribuenti, ma per impedire che, attraverso formule che noi qui talvolta improvvisiamo, si venga a determinare il fatto che dei contribuenti che dovrebbero pagare, non paghino. Ecco dunque lo scopo concreto, reale della mia proposta. Non c’è alcuna volontà di togliere all’Assemblea il più piccolo dei suoi poteri.

Se il progetto che il Governo preparerà entro un mese, da quando la Commissione avrà a sua volta adempiuto al proprio esame, non sarà trovato corrispondente a quelle che possono essere le esigenze politiche dell’Assemblea, la Commissione lo porterà all’Assemblea, ma porterà solo questo provvedimento, mentre il resto avrà già cominciato a camminare per conto proprio e sarà già andato in applicazione.

Quindi, onorevole Scoccimarro, tenga conto di queste buone mie disposizioni. Per dimostrarle del resto, come io intenda di pormi nella condizione più neutrale, le dirò che io stesso che ho fatto la proposta mi asterrò dalla votazione. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, lei si astiene dalla votazione, ma conserva la proposta?

CORBINO. Perfettamente. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. È evidente che una questione già decisa dall’Assemblea in un certo senso, non può essere riproposta. Debbo però precisare, per quanto riguarda l’eccezione posta dall’onorevole Scoccimarro, che l’onorevole Marinaro aveva già posto la questione di escludere in linea di principio la tassazione degli enti collettivi: la sua proposta è stata respinta, e l’Assemblea ha votato un articolo in cui questa imposizione è prevista.

La proposta dell’onorevole Corbino non può considerarsi la riproduzione della proposta dell’onorevole Marinaro, perché, una volta approvata la proposta Corbino, non verrebbe annullata la votazione di principio già avvenuta. L’onorevole Corbino propone che tutto lo sviluppo conseguente del meccanismo di applicazione e di riscossione di questa imposta, venga, se mai, rinviato ad un altro provvedimento.

Ritengo così risolta la questione di procedura che l’onorevole Scoccimarro ha presentato.

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Debbo ricordare che noi abbiamo ancora in sospeso, nell’ambito dell’imposta patrimoniale, gli emendamenti agli articoli 29-bis, 29-ter, 29-quater.

Quindi, se anche approvassimo la proposta dell’onorevole Corbino, dovremmo dopo discutere questi emendamenti che fanno parte integrante della legge.

PRESIDENTE. Sta bene.

Avverto che sulla proposta dell’onorevole Corbino è stata chiesta dall’onorevole Scoccimarro ed altri la votazione per appello nominale.

TARGETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Io non credo di potermi appellare a nessuna norma particolare del Regolamento, ma mi permetto di porre all’onorevole Presidente questo problema: se un deputato presenta una proposta, evidentemente, la presenta perché l’Assemblea si pronunci sulla proposta stessa e l’approvi. Ora, se il proponente di un emendamento dichiara che non lo voterà, io domando al signor Presidente se questo non equivalga ad un ritiro dell’emendamento stesso. (Commenti a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Targetti, il problema che lei pone, è un problema, in fondo, di tattica parlamentare.

Poiché l’onorevole Corbino non dichiara di ritirare la sua proposta, l’atteggiamento, personale, del proponente non può essere interpretato come un ritiro della proposta stessa.

È stato chiesto – ripeto – l’appello nominale sulla proposta dell’onorevole Corbino (Commenti prolungati).

CORBINO. Non voglio far perdere tempo, e ritiro la proposta.

MICHELI. Chiedo di parlare!

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io non ripeto la proposta della motivata sospensiva della discussione, che è stata ritirata, ma faccio la proposta pura e semplice di sospendere la seduta per rinviarla a domattina. Ciascuno è giudice della propria resistenza: io sono giudice ed interprete della mia, e dovrei andarmene!

PRESIDENTE. Desidero far presente la necessità che si affronti qualche ora di più di lavoro pur di giungere ad una conclusione. Occorre completare oggi l’esame dell’articolo ed impegnarsi a giungere domani alla conclusione (Approvazioni).

MICHELI. Onorevole Presidente, io non ho ritirato la mia proposta.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo dunque ai voti la proposta dell’onorevole Micheli di rinviare la seduta.

(Non è approvata – Commenti).

Onorevoli colleghi, faccio presente che il Relatore onorevole La Malfa ha dichiarato di ritenere che dopo approvata la lettera c) dell’articolo primo nella formulazione proposta dal Governo, deve cadere la lettera c) dell’articolo 2.

L’onorevole Ministro delle finanze ritiene invece che la lettera c) dell’articolo 2 possa essere conservata, salvo alcune modificazioni che servano a metterla in armonia con la votazione di stamane.

Dovremo allora passare alla votazione della lettera c) dell’articolo 2.

LA MALFA, Relatore. Non è possibile: c’è un assoluto contrasto con quanto è stato votato in precedenza!

Propongo di sopprimere la prima parte del comma e cioè le parole: «lo Stato per tutti i suoi beni».

PELLA, Ministro delle finanze. Sono d’accordo per la soppressione.

PRESIDENTE. La pongo ai voti.

(È approvata).

Seguono le parole: «le amministrazioni di Stato».

L’onorevole Micheli ha proposto si dica: «le amministrazioni e gli istituti di Stato».

LA MALFA, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA MALFA, Relatore. Proporrei di cancellare anche le parole «le amministrazioni di Stato» e, naturalmente, di non aggiungere «gli istituti».

PRESIDENTE. Onorevole Ministro?

PELLA, Ministro delle finanze. Concordo con il relatore.

PRESIDENTE. L’onorevole Micheli, mantiene il suo emendamento?

MICHELI. Per la medesima ragione per la quale sono stati esclusi i «beni dello Stato, e le Amministrazioni dello Stato» restano esclusi anche gli «Istituti dello Stato» che io avevo proposto. Viene a cessare quella che era la ragione del mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta soppressiva presentata dal Relatore.

(È approvata).

VANONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VANONI. Mi permetto di proporre alla Commissione di considerare analiticamente tutti i capitoli di questa lettera c): perché qui prendiamo decisioni che sono di estrema gravità. Faccio una proposta formale di sospensiva per il seguito della lettera c); perché non possiamo continuare ad esaminare una materia così delicata affrettatamente, nelle ore notturne.

PRESIDENTE. Faccio presente che questo testo è in discussione da ieri mattina. Ella, onorevole Vanoni, ha avuto 48 ore di tempo per fare delle proposte.

PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLA, Ministro delle finanze. Ho l’impressione che convenga sottolineare ancora la limitata portata di questa lettera c) dopo che si è affermato che gli enti morali (decisione di questa mattina in ordine all’emendamento n. 1) sono tassabili soltanto per quella zona in cui producono redditi di categoria B. Si tratta ora di vedere se vi è qualche particolare ente che per le sue finalità altamente filantropiche meriti una maggiore agevolazione, cioè di non tassarlo anche se per avventura ha qualche modesto reddito di categoria B. Il pensiero del Governo è in questo senso: di abbandonare modeste zone di categoria B quando sono soverchiate da una superiore finalità filantropica dell’Ente. Questa è la limitata portata della lettera c) che stiamo discutendo, nello spirito con cui viene esaminata dal Governo.

PESENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PESENTI. Concordo pienamente con quanto ha detto il Ministro, che si tratta cioè esclusivamente di riconoscere alcuni enti che sono tassabili in categoria B) ma che per motivi particolari noi vogliamo esentare cioè enti che non siano di categoria B). Perciò faccio la proposta di passare all’articolo successivo. Vuol dire che ritorneremo all’esame di questa lettera c) domattina, dopo aver proceduto al coordinamento.

PRESIDENTE. Comunico che vi è una proposta dell’onorevole Tosi di sostituire l’intero alinea c) con la seguente dizione:

«Sono esenti i soggetti di cui alla lettera c) dell’articolo precedente quando l’attività produttiva di reddito tassabile di ricchezza mobile che essi esplicano è connessa con attività di educazione, istruzione, assistenza, beneficenza e avviamento professionale dei soggetti stessi».

Vi è inoltre la proposta dell’onorevole Vanoni che, salvo le votazioni già avvenute, la redazione del comma b) venga rimessa alla Commissione perché lo elabori in connessione con quanto questa sera è stato detto e lo ripresenti domani nel nuovo testo conseguente.

LA MALFA, Relatore. È il Governo che ha presentato l’emendamento all’articolo 2.

PELLA, Ministro delle finanze. Dichiaro, a scopo di maggiore semplificazione, che appunto in quella zona configurata dall’emendamento Tosi noi riteniamo che i modesti redditi di categorie B, di scuole artigiane e simili non possano dare luogo all’applicazione di questo straordinario tributo. Perciò, se si vuole ridurre la portata di questa lettera c) alla zona dell’emendamento Tosi, il Governo pur di semplificare, lo accetta.

PRESIDENTE. Vi è allora da votare l’emendamento sostitutivo proposto dall’onorevole Tosi.

PESENTI. Questo testo è insufficiente! Insisto perché la discussione sia rinviata a domattina in modo che sia possibile concordare un testo completo.

GRONCHI. Noi appoggiamo la proposta dell’onorevole Pesenti.

PRESIDENTE. Vi è dunque una proposta di rinvio dell’onorevole Pesenti. Prego però di tener presente che si tratta di rinvio a domani mattina. (Commenti).

Domattina perciò l’emendamento dovrà essere pronto in maniera che, riprendendo i nostri lavori, si possa continuare senz’altro nella discussione.

Pongo ai voti la proposta dell’onorevole Pesenti, cui ha aderito anche l’onorevole Gronchi.

(È approvata).

Rinvio il seguito della discussione a domattina alle 9,30 e prego i colleghi di assumere l’impegno di votare entro le sedute di domani la legge nel suo complesso. (Segni di assenso).

SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Faccio la proposta formale che venga messo ai voti l’impegno che domani notte la seduta non si toglierà se tutta la legge non sarà approvata. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Non credo che questa votazione sia necessaria, dopo l’assenso con il quale l’Assemblea ha accolto il mio invito. Resta dunque inteso che entro domani, l’esame del progetto sulla patrimoniale dovrà essere completamente esaurito.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda di prendere a carico dei responsabili dell’arresto arbitrario di alcuni socialisti, comunisti ed organizzatori sindacali, avvenuto due giorni dopo la pacifica dimostrazione di solidarietà all’Amministrazione social-comunista di Caorle, fatta dalla grande maggioranza della popolazione, sdegnata per gli insulti proferiti contro la stessa, nella persona del sindaco, da pochi facinorosi, fra i quali vi era il noto fascista bastonatore, podestà del paese per molti anni, la mattina del 20 luglio, in occasione di un comizio socialista.

«Tonetti, Pellegrini, Costa, Giacometti, Tonello».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dei trasporti, del tesoro e dell’industria e commercio, per conoscere se non si ritiene necessario ed urgente disporre una inchiesta sulla gestione dell’A.R.A.R.

«L’opinione pubblica si preoccupa vivamente della regolarità e della onestà del funzionamento di questa organizzazione che, improvvisata dal Governo Parri in pochi giorni, da anni riceve e custodisce, tratta, transige ed aliena e vende nell’interesse del pubblico erario tutto un assortimento di beni, inventariati all’ingrosso, che hanno valore di centinaia di miliardi e ciò senza che finora sia mai stato esercitato, da persone estranee all’abituale ingranaggio dell’ente, un effettivo controllo sulla regolarità e sulla bontà dell’operato dell’ente stesso, sulla misura delle sue spese e sulla rispondenza dei risultati raggiunti con quelli che un’amministrazione sana ed oculata avrebbe dovuto ottenere.

«Sta di fatto che da tempo circolano, con riferimento all’A.R.A.R., voci di inauditi arricchimenti da parte di funzionari e di speculatori e la stampa ha in questi giorni pubblicato con chiari e violenti commenti, il testo di un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. e una azienda privata, con il quale tale privata azienda risulta messa in grado di realizzare, con sicurezza, senza impegno di denari e di rischio, utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi.

«Data l’importanza degli inconvenienti ed il groviglio degli interessi che è possibile vi si annidi intorno, si richiede che la Commissione per gli accertamenti necessari venga composta, per garantirle autorità ed indipendenza, con parlamentari in grado, per competenza tecnica ed amministrativa, di valutare la realtà della posizione.

«Rodinò Mario, Monticelli, Crispo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria 1947-48 in merito agli ammassi obbligatori dei cereali e se ritenga di accedere alle generali richieste dei contadini, abolendo i detti ammassi che si sono dimostrati di grave onere per il bilancio dello Stato e di gravissimo peso per i produttori, non dando, d’altra parte, per risultato che una sensibile contrazione della produzione.

«L’interrogante fa presente che l’abolizione degli ammassi, sia pure sostituita in via provvisoria con quegli accorgimenti che potranno rivelarsi opportuni, consentirà di provvedere con maggiore sicurezza al sostentamento dei meno abbienti, specie addivenendosi alla somministrazione di una parte del salario o stipendio in natura, a cura ed a carico, naturalmente, dei datori di lavoro.

«Ricorda che, essendo imminenti i lavori preparatori per la semina, questa, nell’ipotesi della persistenza del regime di ammasso, si attuerebbe – dato lo stato d’animo diffuso nelle campagne – su scala ridottissima.

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, della difesa e dell’interno, per chiedere se abbiano piena conoscenza della enorme lentezza con cui procede la liquidazione delle pensioni di guerra militari e civili, dirette e indirette, le quali si vanno trascinando per anni tra uffici comunali, distretti e ospedali militari e direzione generale prima, tra Commissioni e Comitati centrali poi, fino a perdersi in ultimo per altri mesi dalla firma del decreto di concessione all’inizio effettivo dei pagamenti; per chiedere se siano consapevoli della giustificata esasperazione che tale lentezza suscita nelle centinaia di migliaia di invalidi e di superstiti, che ormai da anni attendono il sollievo a cui hanno diritto, e di cui il lungo ritardo tende a scemare sempre più l’efficacia; per sapere se non ritengano necessario tentare di porre rimedio a tale stato di cose, superando le difficoltà derivanti dal numero grandissimo delle istruttorie in corso; e per conoscere il loro pensiero intorno ai provvedimenti più idonei allo scopo, e intesi sia a semplificare le procedure, sia a sveltire gli uffici centrali e quelli periferici, sia ad accelerare i pagamenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere quali provvedimenti intende prendere per la soluzione del problema siderurgico degli stabilimenti altiforni ILVA di Portoferraio, facendo presente che lo stato di incertezza, protraentesi da oltre tre anni su tale questione, oltre che apportare continui moventi di agitazione in tutta la zona elbana, è causa di grave sbilancio per lo Stato, il quale, continuando ad erogare sussidi, non dà al piano di ricostruzione nessun contributo concreto e, anziché ricondurre i lavoratori all’attaccamento al lavoro, li allontana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si richiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 24.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).

Alle ore 17:

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).

  1. Seguito della discussione sul disegno di legge:

Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).