ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCVI.
SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 28 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Corbino
Patrissi
Treves
Patricolo
Pecorari
Lucifero
Rossi Maria Maddalena
Labriola
Bastianetto
Bertone
Interrogazioni con richiesta d’urgenza:
Presidente
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Bulloni
Costantini
Sforza, Ministro degli affari esteri
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 17.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze Alleate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.
CORBINO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Quando cinque mesi or sono, con le dichiarazioni del Governo relative al terzo Ministero De Gasperi, il Governo comunicò che avrebbe firmato il Trattato di pace a Parigi (mancavano allora poche ore alla cerimonia della firma), io fui il solo dei deputati di questa Assemblea che avesse avuto la possibilità di parlare perché il seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo fu poi rinviato ad una seduta posteriore all’atto della firma.
In quell’occasione io ribadii quella riserva dei diritti dell’Assemblea alla ratifica del Trattato, riserva che il Governo aveva solennemente confermato non solo nelle sue comunicazioni, ma anche in una nota speciale che il Ministro degli esteri aveva fatta pervenire ai rappresentanti dei Governi dei quattro Paesi principali che con noi dovevano firmare il Trattato.
Nessuno, credo, in quel momento, né fra noi, né fra i membri del Governo, pensava che si sarebbe presentata una situazione in cui sarebbe stato possibile discutere il problema, non dirò della ratifica o non ratifica, ma della sua intempestività. Noi eravamo convinti che le quattro Grandi Potenze, già pervenute ad un accordo di cui il nostro Paese pagava le spese, si sarebbero poi accordate su una procedura rapidissima di ratifica, in seguito alla quale anche noi avremmo potuto dare la nostra; ed eravamo tanto convinti che così sarebbe accaduto che erano state perfino intavolate delle trattative tra i rappresentanti dei vari Gruppi, perché la cerimonia della ratifica, da parte nostra, cioè da parte dell’Assemblea, avvenisse in forma solenne ed austera, corrispondente alla gravità del documento del quale noi avremmo accettato, con la nostra ratifica, la piena responsabilità. Nessuno, ripeto, pensava che si sarebbe prospettata una situazione di fronte alla quale sarebbe sorto il problema della tempestività della ratifica. Vi fu, è vero, un certo periodo nel quale parve che non fosse certa la ratifica da parte del Governo degli Stati Uniti d’America; ma poi anche questa è venuta. Nessuno credeva che la quarta ratifica, quella che oggi manca perché ai sensi dell’articolo 90 del Trattato il Trattato diventi esecutivo, fosse quella della Russia, e noi oggi siamo chiamati a pronunciarci su una ratifica che deve precedere la ratifica di una delle quattro Grandi Potenze; vi siamo chiamati sullo scorcio di una sessione che dura ormai da parecchi mesi, con una Assemblea stanca e di cui è indizio il fatto che i banchi dell’Assemblea, malgrado la gravità dell’argomento che si discute, non presentano quella compattezza e quella assiduità di presenti che pure sarebbero richieste dall’importanza delle deliberazioni che stiamo per prendere.
Perché accade tutto questo? Come mai accade tutto questo? Io vi confesso che non l’ho capito. Mi trovo un po’ come quel critico teatrale che, uscendo dalla prima rappresentazione del Parsifal in Italia, riferiva il suo giudizio dichiarando che egli era dolente che non aveva capito il fatto, perché l’opera si allontanava talmente da quelle comunemente rappresentate nei nostri teatri che per intenderne il significato bisognava conoscere l’antefatto, l’ante-antefatto, intendere le intuizioni, i leit-motif, o altro. Anche noi siamo posti di fronte ad un problema di fatti, di antefatti, di fatti dei quali qualcuno riferisce una gravità non perfettamente definita, qualche altro ci parla di vantaggi non esattamente identificati.
Ora, perché noi dovremmo mutare la posizione storica che di fronte al Trattato abbiamo assunto? La nostra posizione di fronte al Trattato è stata sempre questa: il Trattato ci è imposto; il Trattato è il risultato di un compromesso fra le quattro Grandi Potenze, in cui le ragioni dell’Italia, gli interessi dell’Italia non hanno avuto la più lieve, la più tenue considerazione. È frutto dell’accordo di quattro volontà a cui noi non abbiamo partecipato.
Di fronte alla ratifica vi sono alcuni, non molti veramente, i quali opinano che il Trattato debba essere respinto in qualunque caso, checché succeda dopo averlo respinto.
Vi è una grande maggioranza dei membri dell’Assemblea, e dei Gruppi, che pensano che di fronte ad una imposizione noi non possiamo sottrarci alla necessità dell’obbedienza, pur protestando.
Ma qualunque protesta rispetto al contenuto del Trattato verrebbe meno, perderebbe interamente qualunque valore, di fronte ad un’accettazione del Trattato prima ancora che esso diventi per noi obbligatorio, diventi una cosa alla quale il nostro paese non potrebbe sottrarsi, se non sotto la minaccia di chi sa quali complicazioni. Noi siamo come una nave che, avvistata da una nave da guerra nemica od alleata in tempo di guerra, ha l’obbligo di fermarsi: se non si ferma, si spara un colpo a salve e se al colpo a salve non si ferma, si spara decisamente.
Noi invece ci fermiamo così, per il gusto di fermarci. Perché? Per quali ragioni? Io non entro nel problema giuridico. Per me il problema che discutiamo è un problema morale ed è un problema politico, non è problema giuridico. Al problema giuridico, se mai, si arriverà quando ci saremo messi d’accordo sulla opportunità, sulla convenienza della ratifica anticipata. Vedremo dopo quale dovrebbe essere la formula più adatta. Io faccio una questione pregiudiziale: perché dobbiamo ratificare oggi quando non è necessario?
Si dice, se noi ora non ratifichiamo, chissà quali armeggi machiavellici stiamo pensando e preparando? Ora, se vogliamo entrare nel sospetto del machiavellismo, io credo che se ne possa destare di più con una ratificai anticipata, che non senza occuparci oggi della ratifica. Non siamo machiavellici quando diciamo che non vogliamo fare un atto che in questo momento non abbiamo il dovere di compiere. Potremmo essere machiavellici se lo facessimo, perché davvero si potrebbe pensare ad arcane ragioni, a non bene definiti vantaggi, che noi ci attendiamo dalla ratifica anticipata. Ci presteremmo veramente all’accusa di machiavellismo. Andiamo quindi per la nostra strada, senza preoccuparci dei sospetti, perché chi vuol sospettare su di noi e sulla nostra condotta, avrà sempre motivo di sospettare, sia che noi rinvieremo la ratifica al momento in cui essa sarà assolutamente necessaria, sia che noi oggi, accedendo all’altra tesi, voteremo la ratifica anticipata.
Pressioni, suggerimenti? Certo pressioni nel senso della ratifica non credo siano venute dalla Russia, né ne possono venire: la Russia ha un mezzo molto semplice per obbligarci a ratificare subito. Ratifichi anch’essa, depositi la sua ratifica ed immediatamente il Trattato andrà in esecuzione. La Russia è il Paese che direttamente – per quel che attiene alle riparazioni – indirettamente – per quel che attiene alle mutilazioni che ci sono imposte alla nostra frontiera orientale – avrebbe da trarre il maggior vantaggio immediato da una sua ratifica.
Pressioni degli alleati occidentali: in che senso? Per quali ragioni? In che cosa una nostra ratifica anticipata può giovare agli alleati occidentali? Saranno profondi i misteri della diplomazia, saranno non facilmente accessibili a tutti le prospettive dei vantaggi connessi a questo atto, che è contro la logica, ma non vedo in che cosa il nostro gesto potrebbe facilitare la posizione degli alleati occidentali, al punto da indurli a fare pressioni su di noi, perché noi si ratifichi anticipatamente.
Una pressione di questo genere, ove sortisse un effetto favorevole, non servirebbe neanche nei riguardi della Russia, perché gli alleati non hanno bisogno della nostra ratifica per chiedere alla Russia che provveda a dare la sua. La Russia potrà dare la sua quando vorrà, e in ogni caso la formula che ci è stata presentata è proprio la più adatta per consentire alla Russia di opporre un rifiuto. Non ci si può servire dunque della ratifica italiana per indurre la Russia a ratificare per conto suo, e, quindi, di pressioni in questo senso, non ne vedo. Non vedo neanche la possibilità di un collegamento fra quelle che possono essere le nostre necessità, rispetto a determinati problemi economici e la eventualità di pressioni da parte occidentale.
Gli aiuti americani ci sono venuti quando ancora il Trattato non era stato preparato; ci sono venuti dopo che il Trattato è stato firmato; ci sono venuti dopo che il Trattato è così, all’impiedi, allo stato latente. Perché, ad un certo istante, questi aiuti ci dovrebbero mancare, soltanto perché noi non vogliamo dare una ratifica anticipata al Trattato?
Ma allora, che cosa dobbiamo fare? Si dice da qualcuno che la nostra accettazione anticipata degli obblighi del Trattato potrebbe costituire in questo momento, nello scacchiere diplomatico, nel gioco delle influenze internazionali, una mossa avente significato antirusso. No, non posso aderire a questa tesi. Non avrebbe significato anti-russo neppure una nostra incondizionata ratifica, perché anche una nostra incondizionata ratifica (che poi sarebbe la sola posizione logica da prendere, se mai, in questo momento) potrebbe voler dire: l’Italia vuol chiudere la partita della guerra precedente; la chiude accettando un verdetto che essa sente di non dovere accettare dal punto di vista morale, ma la chiude. Non ha niente di anti-russo un gesto di questo genere; non potrebbe averlo; non dovrebbe averlo. Io dico che una ratifica fatta in questo senso non sarebbe anti-russa, come non sarebbe anti-americana se mancasse la ratifica americana. Sarebbe semplicemente anti-italiana.
Né possiamo pensare ad una negoziazione della ratifica anticipata. Che io mi sappia non c’è stato nulla che autorizzi a supporre che a corrispettivo di questo gesto da parte nostra vi siano non tanto dei vantaggi positivi, ma per lo meno l’attenuazione di tutti i pesi o di una parte dei pesi che il Trattato impone all’Italia.
Io potrei anche comprendere che, per esempio, noi fossimo posti di fronte a questa alternativa, cioè che la Francia ci dicesse: io rinuncio a Briga e Tenda. Allora potremmo discutere non soltanto perché Briga e Tenda rappresentano due Comuni rispetto ai quali il nostro sentimento per il loro distacco non è meno doloroso di quello per Comuni più grandi, ma perché Briga e Tenda hanno un significato che va oltre il numero degli abitanti. Briga e Tenda significano la porta di casa nostra ad Occidente, porta che ci si impone di aprire nello stesso momento in cui ci disarmano all’interno, facendo arretrare le nostre opere difensive e conservando intatto il potere di lancio di qualsiasi offensiva dal fronte occidentale.
Io capirei che da parte di qualche altro degli Stati firmatari ci si dicesse: anticipate la ratifica ed allora, per esempio, vi lasceremo le colonie, per lo meno quelle colonie la cui conquista era anteriore al periodo fascista. Io non sono un colonialista, sono anzi anti-africano; considero l’Africa uno dei continenti più inutili della terra, per lo menò nella parte che non si affaccia, sul Mediterraneo, credo che, politicamente, l’Africa abbia pesato sulla vita dei popoli in maniera negativa, in maniera tale cioè da compensare tutti i vantaggi di carattere naturale che possono essere venuti da quel continente. Ma, ad ogni modo, in quelle colonie noi abbiamo seminato sangue del nostro sangue, e non avremmo fatto del male a nessuno se, fra gli altri, in Africa ci fossimo rimasti, anche noi, senza velleità di imperialismo.
Io capisco che ci si possa dire: se voi accettate la ratifica anticipata sarete chiamati a difendere le vostre ragioni nei riguardi della Germania. Fra le tante condizioni inique del Trattato c’è anche quella; che noi, paese straziato dai tedeschi sia durante il periodo della guerra in cui eravamo con loro, sia dopo, cioè nel periodo in cui eravamo contro di loro, non abbiamo diritto a dire neppure una parola e in difesa dei nostri interessi e per la sistemazione della Germania quale elemento importante della sistemazione europea.
Io capirei che la Russia ci dicesse: anticipate la vostra ratifica e noi vi restituiremo o vi daremo Trieste, che non abbiamo avuto con manovre machiavelliche, ma che abbiamo pagato con 600.000 morti.
Io capirei che gli Stati Uniti ci dicessero: anticipate la vostra ratifica e noi cancelleremo quel preambolo che, fra tutte le pagine del Trattato, è la pagina più umiliante per noi, perché nega il contenuto spirituale della seconda guerra che noi abbiamo combattuto, e che è la vera guerra che noi abbiamo combattuto.
Queste sarebbero le possibilità di un compromesso, di fronte al quale la nostra coscienza potrebbe anche esitare e potrebbe accedere alla tesi della ratifica anticipata.
Poi vi sono i miraggi: c’è il miraggio dell’O.N.U. Certo, l’O.N.U. può e deve essere la speranza di tutti i popoli, e specialmente di un popolo come il nostro.
Ma oggi l’O.N.U. non è che una pedana su cui due schermidori, non molto esperti in materia diplomatica e, quindi, nel maneggio di questi ideali fioretti, si battono spesso con pericolo dei padrini e, in qualche caso, perfino di coloro che stanno a guardare. Non è così che l’O.N.U. potrà essere la base del sistema pacifico del mondo; l’O.N.U. avrà questa funzione, solo il giorno in cui i due grandi competitori di oggi saranno riusciti a mettersi d’accordo.
E speriamo che si possano mettere presto d’accordo nel nome della giustizia fra i popoli, senza imporci qualche altro sacrificio. Non si può infatti escludere che, dopo che noi avremo volontariamente accettato il Trattato che ci viene offerto, un ulteriore passo verso la pacificazione del mondo non debba essere compiuto a spese nostre, con il pretesto che, avendo noi accettato di nostra spontanea volontà il più, ci potremo rassegnare ad accettare per imposizione altrui quel poco che al più si aggiungerà per raggiungere l’accordo.
E veniamo al piano Marshall.
Bisogna intendersi sul piano Marshall: il piano Marshall è ancora niente dal punto di vista concreto, può diventare una cosa molto seria – ha detto il nostro Ministro degli esteri – e può essere il parto della montagna.
Andiamo al fondo del problema. L’Europa – lo diceva l’altro ieri l’onorevole Nitti – attraversa oggi una delle crisi più dure della sua storia. Questo continente, dal punto di vista economico, forma tutta una cosa con quella fascia africana mediterranea, della quale dianzi parlavo e che costituisce un complemento dell’economia europea: è un complemento il Marocco, che dà minerali di ferro e fosfati; è un complemento l’Algeria, che dà fosfati, cereali, vini e minerali di ferro; è un complemento la Tunisia, che dà vini e fosfati; è un complemento l’Egitto che dà cotone; è un complemento, fino a un certo punto, anche l’Asia, nella parte mediterranea vicina, che è tutt’uno con l’economia europea. Ora questo continente, questa economia che nel 1914 aveva realizzato una unità quasi perfetta, se non totale, uscì dalla guerra del 1914 in condizioni di minorità gravissime. L’onorevole Nitti vi ha accennato l’altro ieri alcune cifre; consentite che io brevissimamente ne riporti qualche altra.
Vi dirò, per esempio, che l’Europa viveva, in parte dei redditi dei suoi capitali investiti all’estero per oltre 1000 miliardi di lire oro del 1913. Sapete a quanto si sono ridotti dopo? Nel 1937, eravamo a poco più di 400 miliardi di lire-oro: il Regno Unito era a metà, la Francia era a un quarto, la Germania quasi a zero.
Dai suoi capitali investiti altrove l’Europa ricavava circa 70 miliardi di lire del 1913, cioè a dire che, in un periodo in cui il reddito nazionale dell’Italia era valutato a 35 miliardi di lire, i capitali investiti fuori d’Europa bastavano per mantenere due paesi grandi come l’Italia. Oggi siamo quasi a zero, anzi la Gran Bretagna è uscita dalla Seconda guerra mondiale con una perdita netta pari a circa 8 miliardi di dollari. Anche la Francia ha perduto quasi completamente i suoi investimenti all’estero e, per quanto riguarda i piccoli Paesi i cui investimenti erano quasi tutti di carattere coloniale, affinché essi possano considerarli nuovamente come fonte di reddito, dovranno superare delle guerre aspre contro il nazionalismo risorgente nell’Asia, nell’Africa, dappertutto.
Il commercio europeo è caduto a cifre piccolissime. Parlo senza fare riferimento alla Russia, che nel commercio europeo ha avuto sempre una parte piccolissima. Solo l’uno e mezzo per cento del commercio dell’Europa infatti si svolgeva con la Russia, sia per le importazioni europee in Russia, sia per le esportazioni russe in Europa. In sostanza l’economia russa è sempre stata un’economia prevalentemente autarchica per ragioni di carattere naturale, per ragioni di carattere politico, per ragioni di carattere economico.
Era l’Europa occidentale che formava un tutto organico, un tutto armonico che arricchiva il resto del mondo, e che vi collocava i suoi capitali, ne consentiva la messa in valore e facilitava quindi l’emigrazione della sua popolazione esuberante.
É accaduto così che, quando è venuta a cessare l’esportazione dei capitali, è finita in pari tempo l’emigrazione dall’Europa, ed è sorto quel conflitto di pressioni demografiche che sta alla base della Prima guerra mondiale e che probabilmente è stato la causa della Seconda guerra mondiale.
Questa Europa che era una meraviglia di costruzione economica, come oggi è divisa? C’è una fascia, da Nord a Sud, adiacente alla Russia, che fa parte dell’economia russa; ce n’è una parte, che era quella che si chiamava una volta Mittel-Europa, che è un po’ il regno di nessuno; e ce n’è una parte che è frantumata nei suoi rapporti internazionali ed è incapace di ricostituire un’unità economica organica. Incapace a ricostituire questa unità economica organica è l’Inghilterra, perché – come già ho accennato – esce stremata dalla guerra. Essa ha avuto, l’anno scorso, dagli Stati Uniti d’America un prestito di 937 milioni di sterline, che avrebbe dovuto bastare per quattro anni. Alla fine del primo anno 1550 milioni di sterline sono già stati assorbiti; ne restano disponibili 387 milioni, con i quali l’Inghilterra dovrebbe andare avanti per tre anni, mentre il suo disavanzo commerciale è pari a 700 milioni di sterline all’anno. Questa è la posizione inglese in questo momento.
Né è più allegra la posizione francese, sia dal punto di vista dell’economia generale, sia dal punto di vista della potenza produttiva, riferita alla sua popolazione. Il problema della mano d’opera in Francia, come del resto, anche in Gran Bretagna, è uno degli ostacoli più gravi per la loro ripresa; tanto ciò è vero che, contrariamente agli usi internazionali, che imporrebbero che, a guerra finita, i prigionieri siano restituiti alle loro case, Francia e Inghilterra detengono ancora sul loro territorio molte centinaia di migliaia di prigionieri tedeschi che lavorano obbligatoriamente, per l’impossibilità di trovare sul mercato interno il mezzo di integrare o di utilizzare la totale capacità produttiva dell’attrezzatura industriale francese e inglese. Molti di più, di prigionieri, ne ha la Russia, cosicché, a due anni di distanza dalla fine delle ostilità in Europa, vi sono dei milioni di uomini lontani dalla loro patria, in una forma di schiavitù che non è, o per lo meno non sarebbe, compatibile con le nostre tanto vantate pretese di civiltà democratica.
In questa situazione si inserisce il piano Marshall, il quale non è un piano nel senso tecnico della parola, come qualcuno può aver pensato; non è un piano nel senso statistico della parola, come dalle prime manifestazioni della sua applicazione si potrebbe credere. No; è un piano di politica economica generale, che intende richiamare l’attenzione dei popoli europei su questa necessità fondamentale: ricostituire l’unità economica dell’Europa, come condizione indispensabile perché gli aiuti che fuori dell’Europa alcuni Paesi sono disposti a dare, siano efficaci, siano concretamente utilizzati.
Gli Stati Uniti d’America si rendono conto di questa specie di solidarietà super-continentale che li lega alle sorti del continente europeo. E se ne rendono conto non soltanto per ragioni di carattere economico, cioè a dire per evitare il ripetersi di una crisi paragonabile a quella del 1929, ma se ne rendono conto soprattutto per ragioni di carattere politico, perché un’Europa che non riuscirà a trovare il suo assetto economico sarà un perenne focolaio di guerra; sarà una polveriera incustodita, rispetto alla quale il primo che passi e lanci un mozzicone di sigaretta può determinare la conflagrazione più spaventosa.
E del resto, rispetto all’eventualità deprecata d’uno scoppio della guerra mondiale e del suo costo, il contributo necessario per sollevare le sorti economiche dell’Europa sarebbe modestissimo, ove lo si metta a confronto con i mezzi larghissimi, con la sterminata capacità di produzione del continente nordamericano in questo momento. Venti miliardi di dollari, distribuiti nel giro di tre o quattro anni, sarebbero sufficienti a mettere l’economia europea in condizione di andare avanti, dopo, per conto proprio, sia pure con gravi sacrifici da parte dei popoli europei.
Ora, venti miliardi in quattro anni, vale a dire cinque miliardi all’anno, non rappresentano che il 2 per cento della produzione economica degli Stati Uniti d’America. Un sacrificio così piccolo per assicurare la pace in Europa, e quindi nel mondo, io sono sicuro che gli americani lo farebbero volentieri, quando vedessero che da parte nostra non si sollevano difficoltà per creare quella unità economica europea che è necessaria, come elemento indispensabile, per la sua ricostruzione.
Ma, rispetto a questo piano, che cosa c’entra la ratifica del nostro Trattato? Io credo che non solo noi abbiamo il diritto di parteciparvi anche senza la ratifica, ma oserei dire che se non ci volessimo andare ci dovrebbero pregare, perché la nostra economia, in questo momento, è complementare dell’economia di tutti gli altri Paesi d’Europa e non si può pensare a creare un piano di organizzazione economica dell’Europa senza l’utilizzazione delle risorse che oggi l’Italia può offrire a tutti gli altri Paesi del Continente.
Ecco perché io non vedo – dal punto di vista strettamente economico – nessun nesso logico, non riconosco nessun rapporto di stretta necessità fra la nostra partecipazione all’O.N.U. e al piano Marshall, e la nostra anticipata ratifica; che, se per caso gli altri fossero così ciechi da voler creare questo stato di stretta interdipendenza, allora è inutile che insistano sul piano Marshall: possono anche abbandonarlo, perché un piano Marshall, che non tenga conto di tutti i Paesi d’Europa, è a priori destinato al fallimento!
E allora? Agl’inizi di questa discussione fu presentata all’Assemblea una proposta che era stata lungamente discussa in ripetute riunioni di capi-Gruppo; si trattava non di respingere la ratifica, ma di rinviarne la discussione; di rinviarla a quando si fosse presentato quello stato di necessità a cui tutti facciamo riferimento allorché accettiamo la tesi che alla ratifica si debba arrivare.
Questa proposta non ebbe fortuna ed una discussione di politica estera è sopravvenuta; ed è bene forse che sia sopravvenuta, perché abbiamo fatto un po’ il bucatino delle nostre coscienze, il bucatino dei nostri programmi, delle nostre intenzioni su questo che è il più angoscioso, il più assillante dei problemi che l’Assemblea deve affrontare.
Ma, fatto questo bucato, quando esso sarà esaurito con l’intervento di tutte le voci più autorevoli dell’Assemblea, perché non dobbiamo rinviare la decisione? Ci sono dei rischi a non rinviare o ci sono dei rischi a rinviare? Io vorrei che l’onorevole De Gasperi mi ascoltasse, come mi faceva l’onore di ascoltarmi quando l’anno scorso di questi tempi eravamo assieme a Parigi a difendere le ragioni dell’Italia.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Reciprocamente!
CORBINO. Sono lieto di questa sua affermazione. Non c’è in me, e credo non ci possa essere in nessuno di questa Assemblea, il pensiero di utilizzare questo tema angoscioso per una speculazione di carattere politico. Noi ci dobbiamo porre di fronte alla nostra coscienza nell’esame dei termini del problema e della decisione che si dovrà prendere dopo questo esame, tenendo conto di elementi del passato, di elementi del presente, di elementi del futuro.
L’Assemblea ha già espresso la sua volontà di ratifica, quando essa sarà necessaria. Nessuno potrà dubitare di questa volontà; nessun machiavellismo ci potrà essere attribuito. Facciamo soltanto una questione di morale politica, una questione di dignità nazionale e una questione di rischi rispetto a questi due problemi. Noi siamo posti in questa alternativa; e dobbiamo votare contro la ratifica anticipata, secondo la tesi dell’onorevole Croce, ispirata a una concezione storico-filosofica delle premesse del Trattato, o secondo la tesi dell’onorevole Orlando, che si dilata in una concezione politica che tutti noi, in lui, l’uomo di Vittorio Veneto, abbiamo il diritto ed il dovere di rispettare. Ma per gli altri si tratta di confondere un voto contro la ratifica in forma incondizionata, con un voto per la ratifica per il momento in cui questo voto ci viene richiesto. Io non voglio neppure contemplare l’ipotesi che, giungendo al voto, sommando tutte le fonti possibili dei «no», la ratifica debba essere respinta o possa essere respinta. Spero che non arriveremo ad una situazione di dubbio così tremenda, perché allora veramente si creerebbe per il Paese una situazione difficilmente afferrabile, sia dal punto di vista interno, sia del punto di vista internazionale.
Ma rinviando, nell’intesa di riconvocarci di urgenza se fosse necessario; rinviando, nell’intesa che daremo al Governo i poteri per la ratifica quando la Costituente sarà alla vigilia della scadenza dei suoi termini legali di esistenza, noi scansiamo tutti i pericoli e andiamo incontro ad un vantaggio inestimabile e certo, quello di raggiungere, di fronte a questo gesto, quella quasi unanimità di tutti i settori dell’Assemblea, che per me è un elemento essenziale per la normale, tranquilla esecuzione del Trattato, perché un Trattato così duro non potrà forse trovare consenso spontaneo e volonteroso negli organi che lo dovranno eseguire, se esso dovesse uscire dall’Assemblea Costituente con l’approvazione di una piccolissima maggioranza, se esso dovesse essere l’elemento per cui domani ci si potrà lanciare l’accusa reciproca di essere stati pro o contro la esecuzione capitale volontaria della dignità del nostro Paese o del taglio delle nostre carni che ci è imposto dal Trattato. Di fronte a questo vantaggio certo, per me non ci sono possibilità di paragoni con dei vantaggi incerti.
Noi respingiamo il Trattato come atto di nostra volontà, perché esso ci colpisce nella nostra anima, nel nostro sentimento, perché nega la storia d’Italia in una pagina che l’Italia crede di non avere scritto.
Orbene, onorevole De Gasperi, io ho due figli che fra qualche anno, se occorre, potrò offrire al Paese; ma oggi mi sentirei menomato nella mia qualità di padre, se volontariamente accettassi di sottoscrivere una pagina che in tutta coscienza, non sento di poter sottoscrivere. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Patrissi. Ne ha facoltà.
PATRISSI. Onorevoli colleghi, l’atmosfera di grande perplessità che è nel Paese e nella nostra coscienza, al di sopra delle divisioni per gruppo, al di sopra delle tendenze, è forse originata dal fatto che non siamo chiamati a decidere per informata coscienza e che questa materia della ratifica non è ancora sufficientemente assimilata da ciascuno di noi.
Parecchi discorsi ci sono stati. Si è parlato di ratifica perfetta o imperfetta, di Trattato perfetto o imperfetto, ma molti fra noi, uscendo dal palazzo di Montecitorio possono incontrare un elettore, come è capitato a parecchi, che gli abbia chiesto: «Ratificate o non ratificate? Come credete che sia meglio? Come pensate che sia opportuno regolarsi nell’interesse di tutti?». E molte volte la nostra risposta non ha avuto per conseguenza che un assentimento fatto di cortesia e non di convinzione, forse perché tutti noi, cittadini, prima che deputati, italiani, prima che uomini di partito, ci rendiamo conto che la disciplina dei gruppi, la disciplina delle nostre correnti politiche, questa volta, e forse soltanto questa volta, non è sufficiente a tranquillizzare la nostra coscienza.
Per decidere su questo problema grave della ratifica o della non ratifica, della ratifica ora o poi, è necessario però, come diceva poco fa l’onorevole Corbino autorevolmente, riferirsi al fatto, cioè al Trattato. Esaminiamone lo spirito, esaminiamone i propositi, esaminiamone le conclusioni, preveniamone gli effetti fatali per il nostro sventurato Paese e ne trarremo le conclusioni; perché, badate, un Trattato di pace non è un punto di arrivo soltanto, ma è anche e soprattutto un punto di partenza. Il Trattato che è sottoposto al nostro esame, il documento che noi stiamo esaminando per deciderne la ratifica o meno, chiude il periodo ultimo della nostra storia nazionale, ma ne apre uno nuovo. Badiamo di entrare nell’avvenire movendo con passo giusto.
Il Trattato consta di quattro categorie di clausole: territoriali, politiche, militari, navali, aeree, ed economiche. È logico che in seguito ad una guerra perduta il vincitore faccia maggiormente pesare la sua mano in materia territoriale e in materia militare. È logico quindi che determinate partite, aperte in altri tempi, per l’insuccesso ultimo delle armi debbano ora chiudersi sfavorevolmente. Ma è deplorevole però, constatare lo spirito di revanche che presiede a determinate clausole territoriali per rettifiche trascurabili, ma non per questo meno gravi, delle nostre posizioni di confine. Mi riferisco alla parte che riguarda il confine occidentale: il piccolo S. Bernardo, il Moncenisio, il Monte Thabor, il Monte Chaberton, le alte valli della Tinea, della Vesubia e della Roja. Piccoli tagli, ma che ci feriscono profondamente, forse perché sono la ritorsione, e la ritorsione soltanto, del coup de poignard del 10 giugno 1940. È vero, gli errori bisogna scontarli presto o tardi, ma che senso ha parlare oggi di quel cosiddetto «colpo di pugnale» quando noi allora eravamo autorizzati a credere, come italiani, che la grande tradizione militare francese, che l’orgoglio gallico, che la famosa Maginot non si sarebbero squagliati come neve al sole, in soli 11 giorni di combattimento? E si fa pesare la mano su noi, con maramaldesca tenacia, che siamo inermi, che siamo discordi, che siamo vinti, almeno materialmente.
Le partite, purtroppo, sono pareggiate e ce n’è d’avanzo per l’avvenire.
Confine orientale: molto c’è da dire su queste parti delle nostre mutilazioni orientali, ma quello che c’è da dire riguarda maggiormente noi che non coloro che ci succedono nella sovranità di quei territori, noi che demmo la stura allo slavo, perdendo senza batter ciglio Fiume e Zara italianissime. Trieste martire doveva fatalmente seguire.
Le clausole militari, navali ed aeree rispecchiano la mentalità di coloro che maggiormente hanno infierito contro di noi: Inghilterra e Francia. Badate, in materia territoriale, tre su quattro Grandi, meno l’America, hanno gravato la mano sul vinto. In materia politica tutti e quattro si sono distinti; in materia economica e militare, tre su quattro, meno ancora l’America sono stati ugualmente implacabili, coerentemente implacabili.
In fondo, ottenuta la soddisfazione territoriale oltre ad una determinata riparazione economica, tutti i Trattati di pace dettati da menti illuminate, da menti guidate da senso di umanità e di comprensione, vivificati da spirito politico, non hanno mai gravato la mano sul vinto più del necessario; ma questo nostro documento di pace, determinato da un solo proposito, da un solo intento, che è quello di cancellare tutte le realizzazioni del popolo italiano dalla unità della Patria in poi, rivela uno stato d’animo talmente deplorevole, implacabile ed infame, che solo un grido di sdegno può definirne l’entità e la portata.
L’atto finale di Pechino del 7 settembre 1901, le convenzioni di Shangai e di Hanoi, i Trattati di Losanna e di Algeciras, l’assetto giuridico del Bacino del Congo, le convenzioni di Bruxelles, di Berlino e di San Germano, sono tutti trattati in cui figurava il nome dell’Italia anche per questioni puramente formali; bisognava che fossero sterili di conseguenze, perché era deciso che finissimo in posizioni di infimo ordine.
L’Italia, questa Potenza audace, vigorosa, esuberante di vita, e di forza nazionalista, come tutti i popoli giovani, dava troppo fastidio; bisognava ad un certo momento mortificarne l’espansionismo e relegarne le forze migliori ad una inferiorità, che durerà forse delle generazioni.
Questo è il nostro «Trattato di pace», così come si ama definirlo, con deplorevole eufemismo, da parte di coloro che ce lo impongono.
Basta l’esame di questo documento, anche per quanto riguarda le clausole politiche, che ci mortificano nella nostra sovranità nazionale, che ci impongono determinati principî di tutela delle minoranze, che noi abbiamo, peraltro, sempre rispettato, che per poco non ci impongono un regime capitolare, per esser certi che da due anni ad oggi i movimenti della politica internazionale prescindono dalla morale e dispregiano il diritto.
Rileggete Tacito, quel punto degli «Annali» ove è ricordato il discorso di Ceriale al popolo di Treviri in rivolta: «L’oro e la ricchezza materiale sono le cause prime di ogni guerra».
Da duemila anni ad oggi nulla è cambiato. E più aggressivi, più fatalmente crudeli nei nostri confronti sono stati appunto coloro, che, per vicinanza o per complementarietà d’interessi, avevano il tornaconto più diretto, onde questa Italia giovane, audace, vigorosa, scomparisse dal novero delle potenze. (Commenti).
TREVES. La guerra l’abbiamo fatta noi o ce l’hanno fatta?
PATRISSI. Io non parlo dal microfono di radio Londra; onorevole Treves, abbia, almeno il buon gusto di tacere. (Interruzioni – Commenti).
TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Sta bene, onorevole Treves, ne prendo nota.
PATRISSI. Ora noi stiamo discutendo dell’atto conclusivo della nostra tragedia nazionale. Non intendo fare il processo a chicchessia. L’amore alla Patria esige che dinanzi all’enormità di questo dramma gli italiani si sentano tutti uniti. (Interruzioni – Commenti).
Onorevoli colleghi, procurate di comprendere i motivi che mi animano. (Interruzione del deputato Macrelli).
La conclusione alla quale intendo pervenire è questa: che il documento infame, che si presenta alla nostra indagine, dimostra che la guerra non fu fatta al fascismo, ma all’Italia. (Commenti).
MACRELLI. Non è vero niente: fu fatta dalla monarchia e dal fascismo.
PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, la prego, non interrompa.
MACRELLI. Non si possono sentire queste eresie!
PATRISSI. Questa conclusione riveste carattere di estrema importanza per la concordia nazionale.
MACRELLI. Chiedete l’acquiescenza di altri in questo argomento.
PATRISSI. Durante la Conferenza di Parigi, difficile fu la posizione del nostro Ministro degli affari esteri ed in generale dei nostri rappresentanti diplomatici, che non ebbero modo di fare udire la nostra voce e di partecipare ai lavori e dovettero mendicare l’interessamento di questa o quella delegazione, per rappresentare i nostri giusti motivi o per suggerire i nostri emendamenti.
Ringraziamo la Delegazione brasiliana la Delegazione argentina, che si fecero interpreti delle nostre ragioni; ma, indipendentemente da questo ringraziamento postumo, ci sono delle considerazioni fondamentali da fare. Avevate creduto che per mitigare le conseguenze della guerra, secondo voi fatta al fascismo, fosse necessario capovolgere tutti i criteri della politica del fascismo: all’aggressività imperialista sostituire un pacifismo pecorile, assurdo in un mondo di lupi, all’espansionismo costruttivo finiste col sostituire una fregola di rinuncia che doveva logicamente autorizzare gli altri a mutilarci senza pietà. In un momento in cui le amicizie si apprezzano solo se rappresentano forza, e la concordia è il primo elemento della forza di una nazione, voi avete dato uno spettacolo inverecondo di contese civili (Rumori a sinistra) e di discordie continue, così che i motivi di parte hanno soverchiato il sentimento dell’italianità ed il dovere verso la Patria, in un momento in cui non ci era permesso di fare alcuna politica; vi siete consentiti il lusso di enunciare una formula, la formula della «equidistanza». Badate, è una formula nella quale io credo, ma fu enunciata intempestivamente, fu praticata male. L’equidistanza presuppone lealtà nei confronti dei due blocchi, presuppone parità di trattamento: nel praticare quel principio aveste l’abilità di riuscire sospetti al blocco degli occidentali e di diventare invisi al blocco degli orientali.
Sospetti agli occidentali per certe debolezze all’interno nei confronti del Partito comunista (Rumori a sinistra); invisi al blocco orientale per certi amori non contraccambiati o mal corrisposti nei confronti del blocco occidentale.
In quel periodo, quando quattro potenze dominavano la scena politica, quando quattro potenze dominavano a Parigi, il nostro interesse nazionale doveva spingerci e scegliere fra quei quattro un patrono, un sostenitore delle nostre ragioni; chiunque fosse stato, sarebbe stato ben accetto. Invece, per un motivo o per un altro, non potemmo disporre, ripeto, che dell’aiuto della Delegazione brasiliana e della Delegazione argentina, generoso quanto poco valido.
Onorevole De Gasperi, ricorderete che in una seduta della Commissione dei Trattati, dalla vostra relazione, ebbi modo di rilevare una vostra frase, quando, incerto per Trieste, ma sicuro per Pola, recatovi a Parigi aveste l’amara sorpresa di constatare che anche Pola era perduta. In quella circostanza, voi effettuaste visite, avviaste determinati contatti con due autorevoli ministri degli esteri, due dei «Quattro Grandi», che vi risposero: «Abbiamo fatto la guerra per liberarvi; non possiamo fare la guerra per darvi Pola». Frase significativa e rivelatrice di uno stato di fatto. Significava che in quel momento una potenza almeno voleva la guerra o la minacciava; e dall’altra parte due potenze la guerra deprecavano o paventavano. Quella potenza che la guerra minacciava aveva indubbiamente il controllo della situazione in quelle circostanze.
Tutti i colleghi sanno che non posso essere sospettato di tenerezza verso i comunisti. Sono stato io il solo che abbia fatto sempre pubblica professione di anti-comunismo. Ebbene, dico che in quella circostanza, potendo, bisognava distinguere diplomaticamente tra Russia e partito comunista, pur sapendo che sono la stessa cosa, e facendo una campagna anti-comunista bisognava evitare la speculazione antirussa. Questa speculazione, invece, fu fatta. Noi avevamo una situazione fortunata, in quanto determinati problemi di interesse russo erano contemporaneamente problemi di interesse americano, e non dovevamo consentire che i nostri rapporti diplomatici con la Russia subissero la ripercussione, il riflesso della situazione interna del Paese e delle polemiche fra i partiti.
In altri termini, noi dovevamo distinguere fra azione del partito comunista in Italia e Unione delle Repubbliche socialista sovietiche.
Onorevole De Gasperi, lei sa che questo concetto io l’ho espresso molti mesi fa alla Commissione dei Trattati. Dovevamo contemporaneamente, di fronte al pericolo che incombeva allora, come incombe adesso (anche se non è stato espresso dall’onorevole Ministro degli esteri) avviare trattative dirette con la Jugoslavia, per motivi evidenti. Avevamo, come abbiamo, delle minoranze da tutelare; avevamo, come abbiamo, interessi economici da tutelare; avevamo un interesse politico preminente: quello di stabilire un patto di non aggressione, che avrebbe consentito la immediata individuazione dell’aggressore il giorno in cui fosse mutato lo status quo ai nostri confini orientali.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma lei sa che lo abbiamo tentato.
PATRISSI. È stato tentato durante il suo viaggio a Parigi.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Parecchie volte, durante la Conferenza.
PATRISSI. Ma questa riunione è avvenuta successivamente, onorevole De Gasperi. Ora, anche questa applicazione pratica del principio della equidistanza, nel momento in cui fervevano le trattative per il dettato di pace, non è stata rispondente ai nostri interessi.
Noi avremmo dovuto attuare una politica pendolare, machiavellica se vogliamo. Non ci facciamo impressionare dalle accuse che altrui ci rivolge per la pratica di questo machiavellismo, che gli altri, poi, attuano assai meglio di noi. Io non arrivo al punto dell’onorevole Nitti che, per scagionarci dalle accuse di machiavellismo, pensa di sminuire Machiavelli. Io ho profondo rispetto per questo probo uomo, che ha vissuto tutta la sua vita in povertà, senza riuscire a dare mai libero sfogo alle sue ambizioni, che erano molte, e vivendo castigatamente del frutto del suo lavoro. In fondo, questo Machiavelli ha fatto testo in ogni paese. Non vedo la ragione per la quale noi, che siamo i lontani epigoni di Machiavelli, non dovremmo applicare i suoi principî. Tanto più se si pensa che il documento di pace di cui ci occupiamo è documento sommo della pratica machiavellica più spudorata, più impudente, più infame.
Non ho bisogno di intrattenervi ancora su quelle che sono le parti sostanziali del Trattato di pace. Nella sua genesi e nella sua stesura, esso rivela un contrasto palese fra la premessa e il testo. La premessa, malgrado contenga notevoli falsificazioni storiche, può significare la possibilità di riunire, alla Patria, nell’interesse comune, le forze dell’antifascismo.
Badate, il documento che noi esaminiamo, chiude un periodo storico, ma ne apre un altro. Può avere un enorme significato il ratificarlo o meno, il ratificarlo prima o poi. Ratificarlo sic et simpliciter significa riconoscere la negazione della nostra dignità nazionale, significa accogliere in pieno l’umiliazione che è distillata in ogni parola del documento, significa precluderci praticamente ogni possibilità di revisione.
Basta esanimare lo spirito con cui il trattato è stato redatto, per comprendere che di revisione, per molti anni, non ci sarà da parlare, almeno seriamente.
Ratificare, soprattutto subito, senza che siano cioè maturati i presupposti di quel famoso articolo 90, che riassume e compendia l’ipocrisia di coloro che hanno escogitato il documento (mentre si è detto che la guerra veniva combattuta in nome dei principî della Carta atlantica, di essi non vi è traccia che nel solo articolo 15, e nel Trattato, del resto, quei principî esulano da tutti gli altri articoli) significa assecondare gli scrupoli dei paesi del blocco occidentale che, retti da Governi democratici, non possono prescindere dal giudizio e dalla sanzione dell’opinione pubblica.
I soldati americani ed inglesi dicono ancora oggi che hanno combattuto per liberarci, essi che hanno captato tutte le ricchezze della terra per loro. Con l’articolo 90 si è tentato di togliere al Trattato il carattere di imposizione esosa, la caratteristica della coazione, e si è pensato, fra i tanti obblighi imposti all’Italia, di imporre anche quello della ratifica. Capolavoro di ipocrisia, che non ha alcun precedente nella storia dei trattati internazionali.
Ora, ratificare prima che siano maturati i presupposti della nostra ratifica significa oltre che colpevole arrendevolezza, imprimere una svolta alla nostra politica estera.
Io non sono d’accordo con l’onorevole Corbino, quando afferma che la ratifica non è un atto ostile nei confronti del blocco orientale. Ho già detto che avere praticato la formula politica della equidistanza è stato un errore durante i lavori della Conferenza di Parigi; ma oggi che questo documento conclusivo è redatto, oggi più che mai dobbiamo attenerci alla formula della equidistanza.
Onorevoli colleghi, i blocchi antagonisti esistono o non esistono. Purtroppo esistono ed esistono in funzione militare prima che in funzione economica. Noi abbiamo bisogno di modificare le linee della nostra politica estera. Badate che mentre in politica interna si rende qualche volta, non sempre, il tributo alla morale e al diritto, nel campo internazionale la politica è per così dire pura: si pensa e si fa in termini di interessi, di egoismo e di rapporti di forze.
In mezzo a questi blocchi, il nostro proposito deve essere, per il momento, uno solo: quello di mantenere una linea di assoluta neutralità; ma, perché la nostra amicizia possa essere sollecitata, il nostro appoggio possa assumere un qualche valore e il nostro pensiero possa essere richiesto su determinati problemi, è anche necessario che, dinanzi a questo zero che rappresenta ed esprime il nostro valore politico internazionale odierno, anteponiamo una cifra significativa. Invece, siamo arrivati all’assurdo di affermare che abbiamo bisogno di un esercito simbolico. A me si fa l’accusa di essere nazionalista. Se siete in buona fede, tenete conto che il nazionalismo odierno non è che un solo proposito in tre direzioni: vivere con dignità, lavorare con dignità, morire con dignità.
Noi non abbiamo propositi aggressivi di alcun genere, noi non abbiamo che una sola speranza: quella di rivedere possibilmente presto il nostro Paese nei consessi internazionali apportare la propria collaborazione democratica, costruttiva, sincera, onesta, alla risoluzione di tutti i problemi che travagliano attualmente la vita dell’umanità.
Ratificare quindi, secondo il mio punto di vista, è un tragico errore, perché ci preclude ogni possibilità di revisione. Ratificare ora sarebbe anche più grave errore, perché sposterebbe il baricentro della nostra politica a favore di uno dei due blocchi. Per amore di lealtà, sappiate che al blocco occidentale vanno tutte le mie personali simpatie per affinità ed orientamento culturale; ma l’interesse del Paese ci impone per ora di mantenerci sulla linea del giusto mezzo, senza compromissione da una parte o dall’altra, a destra o a sinistra.
Si presenta una grande occasione per l’antifascismo. L’antifascismo, in questi giorni, relativamente a questo problema, ha un’ultima grande possibilità per riscattare le sue colpe, perché se è vero – come è vero – che il fascismo ha perduto la guerra, non è men vero che, fino a questo punto, l’antifascismo non ha saputo vincere la pace.
C’è la premessa al «Trattato»; quella premessa consente agli antifascisti onesti di esprimere alta e sdegnosa la protesta degli italiani, senza distinzione di parte; (interruzione dell’onorevole Pacciardi) perché, onorevole Pacciardi, la guerra, la sconfitta, il Trattato di pace, ci colpiscono tutti, senza alcuna distinzione.
Purtroppo, ne escono colpiti i giusti e i reprobi, i buoni e i cattivi, coloro che sono degni di esaltazione e coloro che sono degni di rimprovero e di condanna. E ancora, che ne siano colpiti coloro che sono degni di condanna, sarebbe poco male; ma ne sono, soprattutto, e malauguratamente colpiti coloro che sono degni di esaltazione. È questo che duole ed è questo che ferisce l’anima nazionale.
Nell’attesa di questo Trattato, noi abbiamo dimenticato, per convenienza polemica o per eccessivo settarismo di parte, quello che è l’orgoglio del nostro valore militare; e l’averlo dimenticato non ci ha arrecato alcun vantaggio. Ogni parola del documento, suggerita dall’Inghilterra e dalla Francia, sta a ricordare l’olocausto di dedizione, di martirio e di eroismo fatto da tanti nostri fratelli, in terra, sul mare, nel cielo, su tutti i fronti di combattimento; e le grandi potenze, dinanzi al nostro fante scalzo, lacero, affamato, assetato, molto spesso pugnalato alle spalle, hanno tremato. Hanno tremato perché grande era il senso dell’italianità dei combattenti italiani.
Ratificare, significa staccarci da quella che è la radice dei vivi, che sono i nostri morti, coloro che con l’offerta suprema hanno testimoniato una idealità o hanno suggellato una fede.
Mentre verrà apposta la firma di ratifica a questo documento – poiché la maggioranza, ormai, è già costituita – consentite a me, che non ratificherò, di porgere un saluto a tutti i nostri Caduti. L’ultima pagina della loro tragica vicenda, anche più tragica perché sopravvive alla loro morte, sta per essere scritta e sta per concludersi. Consentitemi di rivolgere un saluto accorato e fraterno ai mutilati, agli invalidi, ai danneggiati, ai profughi, a tutti gli italiani che, avendo fecondato col loro sudore e col loro sangue la zolla straniera, sono costretti a ripiegare entro le mura delle Patria, martoriandosi e macerandosi, condannati, forse, a morire per inedia totale, perché non abbiamo sufficiente pane per sfamarli.
Il nostro Ministro degli esteri, nella sua relazione di accompagnamento alla legge, che ci propone la ratifica del Trattato di pace, ha detto che noi siamo un popolo eccessivamente congestionato, per densità numerica, su un territorio ristretto.
Anche per questo motivo, io mi rifiuto di dare il mio voto favorevole alla ratifica di questo documento, perché vivi ed attuali sono ancora i motivi che ci spinsero all’altra guerra del 1915 e all’ultima guerra del 1940. E noi dovremmo accettare la punizione, in nome di idealità che sono ancora praticate da coloro che fanno gravare il loro tallone sulla nostra cervice di vinti!
E c’è un altro motivo. Male ha fatto il Governo dell’esarchia a presentarsi innanzi alle assise dei vincitori, dichiarando che il popolo italiano non aveva alcuna responsabilità.
Il secondo delegato alla Conferenza di Parigi, con atteggiamento forse non gradito al ministro degli esteri del tempo, ma nell’empito della sua lealtà, ebbe a dichiarare che il popolo italiano ha anch’esso la responsabilità di tutta la tragedia che ha sconvolto il Paese.
Il popolo italiano non vi è grato, signori, di aver tentato di togliergli il peso di questa responsabilità. Un popolo colpito negli effetti, nella vita, nei beni, eroicamente si assume tutte le responsabilità. È mal disposto ad essere considerato un popolo di minori, di incapaci, di interdetti. E, presentandolo in questa veste, presentandolo come un popolo, siffatto, voi avete tolto al vostro gioco una delle carte migliori, perché un popolo come il nostro non rinnega la sua storia, fausta o infausta che sia.
Voi siete andati dunque a parlare dinanzi ai vincitori un linguaggio di togati accattoni, dinanzi a una tavola di paladini sterminatori di mostri, mentre rappresentavate un popolo meraviglioso, che subisce e attende, con umiltà francescana, il sorgere di un’alba migliore sull’orizzonte della Patria.
Respingere il Trattato significherà la nostra volontà di presentarci sul piano internazionale con consapevolezza; significherà affrontare i problemi della politica interna avvenire con spirito di concordia. Invito pertanto l’Assemblea Costituente ad assumere il volto dolorante della Patria, e ad interpretarne l’effettiva volontà sovrana, così da meritare un giudizio dei posteri che sia meno duro, meno severo, meno implacabile di quello dei contemporanei. (Applausi a destra – Congratulazioni).
TREVES. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà..
TREVES. Onorevoli colleghi, non mi aspettavo altre parole dall’onorevole Patrissi in risposta ad una mia interruzione che non aveva niente di personale. Non mi aspettavo altro dall’onorevole Patrissi, il quale già una volta in quest’Aula aveva adoperato delle parole, su un argomento molto simile, che avevano provocato le conseguenze che tutti sanno..
Io credo che sia impossibile, per l’onorevole Patrissi, di comprendere quella che è la posizione morale e politica di un antifascista da sempre, che si trovi, non per sua colpa, in terra straniera al dichiararsi di una guerra contro quel regime…
CONDORELLI. Non contro quel regime, contro l’Italia. (Rumori).
TREVES. Contro il fascismo, signori! (Interruzione del deputato Pacciardi).
PATRISSI. Anche l’onorevole Pacciardi ha qualche cosa da dire.
PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, ha potuto parlare fino ad ora: adesso non interrompa.
PATRISSI. Io ho il diritto…
PRESIDENTE. Lei ha il diritto di chiedere la parola, non di interrompere.
TREVES. Quanto alla mia attività a Radio Londra, l’Italia – lo so – è una terra di facili leggende, una terra in cui le leggende crescono una sull’altra, in cui la verità si distorce facilmente per passione di parte. Io non oso fare l’auto-réclame ad un mio volume, ma quello che ho detto a Radio Londra, giorno per giorno, è controllabile da qualsiasi persona di buona fede, perché è stato stampato a Roma nel 1945 in un volume che è posseduto anche – non voglio esitare delle copie del mio libro! – dalla Biblioteca di questa Camera: chiunque può controllare.
Aggiungo che non ritiro, non cambio, ma anzi mi onoro di ogni parola che ho detto da quel microfono, perché in ogni parola io sentivo intensissimamente e precisamente la mia responsabilità di italiano, di antifascista e di esule.
Signori, in quel momento un esule antifascista aveva un solo dovere: di partecipare comunque egli potesse, da qualunque luogo nel quale lo aveva gettato il destino, a quella che per noi antifascisti da sempre era una guerra civile internazionale contro il fascismo.
Questo io lo reputo un onore; e il più alto onore della mia vita è che molto spesso, in quei gloriosi giornali clandestini che stampavano i nostri patrioti durante la lotta contro il nazismo ed il fascismo, quello che io dicevo al microfono di Radio Londra è stato ripreso, pubblicato e diffuso, non dico ad incoraggiare, perché non ne avevano bisogno, ma a far sentire ai nostri combattenti che non erano soli nella lotta.
Al signor Patrissi non ho altro da dire. (Applausi a sinistra).
PATRISSI. Domando la parola per fatto personale.
PRESIDENTE. Onorevole Patrissi, non ho sentito dalla bocca dell’onorevole Treves alcuna cosa che le possa dare il diritto di parlare. Il fatto personale è esaurito.
È iscritto a parlare l’onorevole Patricolo. Ne ha facoltà.
PATRICOLO. Onorevoli colleghi, molti oratori prima di me hanno preso la parola per dare il loro contributo di scienza e di coscienza ad un dibattito che indubbiamente trascende il valore d’ogni precedente discussione, in quanto si svolge intorno ad un argomento di fondamentale importanza storica per il popolo italiano.
Tra gli oratori che mi hanno preceduto voglio ricordare Vittorio Emanuele Orlando, per la sua opportuna e sapiente proposta di rinvio della discussione, e Benedetto Croce, il quale in forma pura, nobile, scultorea, ha portato in quest’Aula la voce di tutti gli Italiani. E sarebbe stato forse desiderabile che questa triste discussione si fosse aperta e chiusa con lui. Purtroppo, mi pare che il dibattito non sia continuato sul piano degno del problema, né sia valso a porre nel migliore rilievo il vero orientamento del popolo italiano nei riguardi della decisione che noi siamo chiamati a prendere.
Il problema è stato esaminato da vari punti di vista, principalmente dal punto di vista giuridico e da quello politico. Da qualcuno è stato osservato che il punto di vista giuridico non è così importante come quello politico. È stato detto che la valutazione giuridica di questo spinoso problema ha un valore puramente formale. Io ritengo che così non sia: ritengo, invece, che un giudizio strettamente giuridico sul trattato potrà gettare una vivissima luce sulla situazione e dare a noi la chiave di quella che sarà la nostra decisione.
Si è detto che la ratifica non ha rilevanza giuridica, in quanto il trattato, all’articolo 90, ci impone l’esecuzione delle clausole di esso, indipendentemente dalla manifestazione della nostra volontà. Io penso, invece, che proprio l’articolo 90 – e su questo richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi e dei signori Ministri – esprima la complessa antigiuridicità del trattato stesso.
Il trattato che ci si vuole imporre, onorevole Sforza, è, secondo me, nullo; giuridicamente inesistente.
A giustificazione di questa affermazione Le ricordo quella che è stata la prassi internazionale e la storia dei rapporti fra gli Stati nell’epoca moderna. Tutte le convenzioni e i trattati, non esclusi quelli di pace, da molti secoli a questa parte sono stati conclusi ed eseguiti col consenso esplicito di tutte le parti contraenti, essendo considerata tale manifestazione di volontà come elemento indispensabile perché il Trattato potesse avere i suoi effetti giuridici.
Questa manifestazione di volontà per la prima volta nella storia dei trattati dell’epoca moderna non è richiesta allo Stato vinto, all’Italia, contraente e vittima di questo atto diplomatico di Parigi, cui si dà il nome di Trattato.
Qualcuno ha detto che nell’articolo 90 è prescritta la ratifica da parte dell’Italia. Ma, se noi esaminiamo la dizione dell’articolo 90, vediamo che la ratifica da parte dell’Italia è considerata alla stregua delle ratifiche di altre potenze associate, che possono aderire al Trattato, la cui ratifica non è, peraltro, indispensabile perché il Trattato abbia esecuzione.
A questo punto, io chiedo a voi, uomini di diritto, a voi, onorevoli colleghi, se si può affermare che questo trattato sia valido, questo patto in cui manca la manifestazione della nostra volontà.
Non mi si dica che le mie argomentazioni, partono da un cavillo giuridico, né mi si dica che derivano da una illecita trasposizione di concetti privatistici nel campo internazionale. Non si tratta di cavillo giuridico, perché noi sappiamo che la necessità della ratifica dei trattati è norma universalmente riconosciuta e che tutti gli stati vincitori di guerre hanno sempre chiesto al vinto la ratifica del Trattato di pace, ritenendola come elemento essenziale di esso.
Abbiamo visto che, perfino in occasione della ripartizione della Polonia del 1772, l’Austria, la Prussia, e la Russia occuparono la Dieta per obbligare – le armi alla mano – i deputati polacchi a ratificare il Trattato, perché già allora era matura la convinzione che il vincitore non può chiedere che le clausole del Trattato di pace abbiano effetto, se non interviene la ratifica del Trattato da parte del popolo vinto.
Ciò deve renderci pensosi sul valore e sulle conseguenze giuridiche della nostra ratifica: si consideri che i maggiori trattati di pace, in epoca più vicina a noi, non osarono contravvenire a questa regola internazionale. Dal trattato di Vienna al trattato di Versaglia, tutti hanno richiesto la ratifica del vinto.
Ma, a parte i trattati di pace, nessuna convenzione internazionale può prescindere dalla volontà dei contraenti, tanto che questa volontà fu spesso manifestata sotto pressioni e violenze di ogni sorta. Si ricordino, ad esempio, le minacce di Napoleone su Ferdinando di Borbone per imporgli la rinuncia alla successione al trono di Spagna. Il fatto è che in ogni epoca i vincitori hanno usato anche la violenza pur di indurre il vinto alla ratifica. Eppure essi potevano usare la forza per costringere lo Stato vinto ad eseguire le clausole del Trattato; e invece usavano la forza per obbligare alla ratifica, perché nella concezione, seppure spregiudicata, del vincitore, apparentemente rispettoso della volontà del vinto, rimane ferma questa convinzione: che, senza ratifica, il trattato non ha valore giuridico né politico né morale.
Tanto è vero, che la dottrina internazionale ci riporta il cinico motto del vincitore: Coactus voluit, sed tamen voluit.
Da questo che cosa dedurre? Che effettivamente questo articolo 90 vizia il Trattato, sì da renderlo nulla ed inesistente.
E d’altra parte – dicevo – non vi è una illecita trasposizione del pensiero privatistico nel campo internazionale, perché noi vediamo che perfino la Corte permanente di giustizia internazionale prescrive all’articolo 38 del suo statuto che i rapporti fra gli Stati siano regolati non solo dalle convenzioni e dalle consuetudini, ma anche dai principî generali del diritto. E fa parte dei principî generali del diritto la norma che non vi può essere negozio giuridico, patto bilaterale, in cui non appaia la espressa adesione delle parti contraenti all’obbligazione che esse contraggono.
E la ratifica non è se non l’approvazione autentica e solenne data da un potere sovrano ad un trattato, ed ha il valore giuridico di una inequivocabile manifestazione di volontà, manifestazione di volontà che è indispensabile perché un trattato sia valido e sia produttivo di effetti giuridici.
L’ordine del giorno che ha votato l’Assemblea Costituente il 25 febbraio ha sanzionato questo concetto. Qualche oratore – se non ricordo male, l’onorevole Bassano – traeva la conclusione che la Costituente aveva preso l’impegno di ratificare il Trattato attraverso il suo ordine del giorno.
Io ritengo che questo sia inesatto, onorevole Bassano. La Costituente non ha preso nessun impegno. Ha voluto soltanto affermare il principio giuridico per cui il Trattato non può avere validità, non può avere effetto se non con la nostra ratifica.
Quanto poi a ratificare o meno, lo giudicheremo sulla base degli elementi politici, oltre che giuridici, che saranno sottoposti alla nostra valutazione.
In base agli elementi giuridici noi dobbiamo considerare che, se il Trattato è nullo in se stesso, la nostra ratifica non servirebbe a perfezionarlo, ma a renderlo valido, cioè, a dire, la validità di questo Trattato non dipende dal fatto che la nostra ratifica sia uno degli elementi costitutivi del Trattato stesso. Ratificando, l’Italia darebbe spontaneamente esistenza ed effetti giuridici a un trattato che, senza tale ratifica, resterebbe nullo.
L’onorevole Corbino si chiedeva nel suo discorso perché gli alleati insistono o possono insistere sulla ratifica. Ritengo che la ragione sia precisamente questa, che essi si rendono conto del giudizio che darà di questo Trattato il mondo, che ne daranno i posteri, che ne darebbe eventualmente una Corte di giustizia internazionale. E ciò perché gli alleati si rendono conto della loro responsabilità di costituire un precedente così grave, antigiuridico ed iniquo, che non potrebbe resistere di fronte all’opinione pubblica mondiale e che potrebbe originare, in avvenire, un pericoloso declino di quella morale internazionale, cui tanto faticosamente siamo giunti attraverso secoli di progresso e di civiltà.
E, d’altra parte, noi ci troviamo di fronte a popoli che sono ben convinti del buon diritto dell’Italia. Quando ci si dice che essi hanno voluto affermare la loro forza e la loro supremazia, si dice qualcosa che non risponde, secondo me, al vero, perché, dalle dichiarazioni di uomini politici rappresentativi e responsabili negli Stati vincitori, noi sappiamo che i popoli alleati e associati sono convinti delle ragioni dell’Italia di rifiutare la sua adesione al Trattato. E nella stessa formula dell’articolo 90 noi dobbiamo vedere implicita la loro convinzione che l’Italia non avrebbe mai ratificato.
Ma non è da escludere che gli alleati siano tornati sulla loro decisione, rilevando che tale articolo 90 invalidava l’intero atto di Parigi. Ora se noi non ratifichiamo, il Trattato non acquisterà valore giuridico e noi, in qualunque momento, potremo far valere il nostro diritto alla revisione parziale o totale di esso.
Quindi ratificare o non ratificare ha una grandissima importanza. Se ratifichiamo noi compiamo un atto libero, spontaneo, volontario, un atto che non ci è imposto e, onorevole De Gasperi, qualsiasi protesta fatta da questa Assemblea non sortirebbe alcun effetto, quando noi giungessimo spontaneamente alla ratifica e sarebbe svalutata dalla nostra accettazione.
È inconcepibile che l’Assemblea Costituente, conscia della ingiustizia del Trattato, nello stesso momento in cui protesta contro la sua iniquità, autorizzi il Governo a ratificare quando la ratifica non è elemento indispensabile dello stesso Trattato. Né è a dire che, dopo la ratifica da parte della Russia, la nostra possa avere un effetto giuridico diverso, perché anche allora la nostra ratifica non sarà necessaria: anche allora sarà spontanea.
L’onorevole Croce, che ha sfiorato sapientemente il punto cruciale della questione, ha detto: Noi non dobbiamo ratificare, ma solamente eseguire. D’accordo, onorevole Croce, noi dobbiamo dare esclusivamente una accettazione che è imposta dalla minaccia di esecuzione diretta di quelle clausole da parte degli alleati, e che non ha valore di ratifica, neanche tacita. S’intende che anche in questo caso il Trattato rimane nullo. All’Italia vinta, se pur cobelligerante, non resta che piegarsi alla forza del nemico-alleato.
E noi potremo sempre così far valere la nullità del Trattato; e sappiamo che nel passato non poche sono state le revisioni dettate dal riconoscimento del vizio di volontà, nell’applicazione dei trattati di pace. Ci sono state molte istanze alla Società delle Nazioni, per l’annullamento dei Trattati imposti con la forza: ricordiamo fra le altre, quelle della Cina contro il Giappone per il Trattato sullo Shantung; della Russia e della Romania contro la Germania per la denuncia dei patti di Brest-Litovsk e di Bucarest.
Date queste considerazioni di carattere giuridico, passiamo alle considerazioni di ordine politico.
Quale può essere il significato politico di questa ratifica anticipata?
Una ratifica anticipata, spontanea, da parte della Repubblica Italiana, non può avere che due significati: o il riconoscimento della giustizia e della equità del Trattato, oppure il riconoscimento dell’opportunità che questo Trattato per quanto iniquo, venga ratificato nell’interesse del Paese.
Questo è il dilemma che a noi si pone. Al primo quesito rispondiamo che tutto il popolo italiano è convinto dell’iniquità, dell’ingiustizia del Trattato. Non rimane che la seconda tesi. È opportuno per noi, malgrado il Trattato sia ingiusto, crudele e vessatorio, ratificarlo? Di fronte a questa eventualità vediamo quali sono gli elementi che possono spingere l’Assemblea Costituente ad un tale sacrificio della propria dignità, del proprio onore.
Questi elementi ci vengono forniti in maniera nebulosa dal Governo. Ci si è detto che noi dobbiamo andare incontro agli Alleati, che dobbiamo offrire qualche cosa, perché essi domani possano concederci una eventuale revisione, perché possano guardare il nostro ingresso nell’O.N.U. con una maggiore simpatia, perché possano aiutarci nella nostra ricostruzione interna e possano porci nel quadro della ricostruzione europea. Ma molti oratori hanno parlato, oratori che parteciparono alla Commissione dei Trattati; e questi ci hanno detto che tanto l’onorevole Sforza quanto il Presidente del Consiglio non hanno mai dato giustificazioni esaurienti onde poter orientare il Paese ad una ratifica anticipata.
Qualcuno ci ha detto che l’onorevole De Gasperi ha parlato di sensazioni, di convinzioni e lo stesso onorevole De Gasperi lo ha confermato a questa Assemblea. Ora mi domando se gli italiani, di fronte a un fatto così crudele come la firma di questo spietato documento, possano contentarsi delle sensazioni dell’onorevole De Gasperi. Io ho molto rispetto per l’onorevole De Gasperi, e ricordo le parole tristi da lui pronunciate il 28 giugno 1946 quando apprese la notizia che Briga, Tenda e il Moncenisio sarebbero passati alla Francia; egli ci disse in quel giorno: «notizia amara ed inattesa che vorrei supporre non ancora irrevocabile. L’Italia ha dimostrato con i fatti di ripudiare la politica di Mussolini e di volere una politica di amicizia verso la Francia. In concreto, l’Italia ha rinunciato, con spirito conciliativo, alle posizioni conquistate nel 1896 in Turchia, con effetti umilianti e disastrosi per molti nostri connazionali».
Seguiva una sintesi di altre rinunce, di altre concessioni.
Mi dispiace, onorevole De Gasperi, ricordarle questo episodio doloroso, ricordarle questa sua confessione. È evidente che quella volta le sue sensazioni erano errate, quella volta lei aveva pensato di potere giovare all’Italia facendo concessioni che sacrificavano interessi di nostri connazionali e il risultato è stato che la Francia non ha voluto intendere nessuna buona ragione nostra.
E allora mi consenta, onorevole De Gasperi, che io mi rifiuti di aderire alla proposta di ripetere lo stesso esperimento per la seconda volta.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Era peggio allora, perché c’erano assicurazioni.
PATRICOLO. Allora c’erano delle assicurazioni, eppure questi signori, i nostri nemici-alleati, non hanno concesso niente al suo spirito conciliativo!
Lei ha ceduto sugli interessi dei nostri fratelli tunisini ed essi potrebbero chiedere conto a lei di quelle rinunzie ed umiliazioni. Ed oggi che gli alleati nulla ci promettono, ella vuole che noi facciamo questo ulteriore passo conciliativo, firmando un atto così disonorevole per il popolo italiano?
Onorevole De Gasperi, se ho richiamato alla sua memoria quell’episodio è per giustificare il mio scetticismo nel suo ottimismo.
Se lei oggi ci chiede di firmare con l’assicurazione che noi otterremo un contraccambio per la nostra firma o sono costretto a chiederle, a mia volta, a nome di coloro che rappresento, che cosa avremo in cambio di questo sacrificio a cui ella ci chiama. Ma la sua. risposta è già nota: «Non posso assicurarvi niente, perché niente mi è stato assicurato».
In queste condizioni io non penso, come molta parte del popolo italiano non pensa, di potere aderire alla ratifica che ci viene richiesta.
Ho proprio ricevuto in questi giorni dalla Francia una copia del rapporto della Croce Rossa Italiana presentato al Governo di Parigi sulle spoliazioni che si fanno ai danni dei nostri connazionali di Tunisi in base all’articolo 79 del Trattato che ancora non è stato ratificato, che ancora non è in vigore. E queste spoliazioni, queste vessazioni continuano fin dal 1943.
La Croce Rossa Italiana (forse l’onorevole Sforza ha una copia del rapporto) ha inviato una vibrata protesta al Governo francese perché prenda in considerazione gli interessi dei nostri connazionali. La Francia è forse pronta a rivedere la sua posizione d’intransigenza? Si direbbe che no!
Anch’io devo chiedere, come l’oratore precedente: in cambio di questa ratifica ci si offre il benché minimo compenso di qualsiasi specie? Quando si è parlato di Briga e Tenda, un Deputato, del settore opposto al mio, disse con una scrollata di spalle, che per qualche metro quadrato di territorio non si muta il corso della storia d’Italia! È triste! Pure lo dico, onorevole Sforza, che anche in compenso di qualche metro quadrato di territorio io ratificherei il Trattato. Se l’onorevole Sforza affermasse: Ho ottenuto una piccola concessione, ho ottenuto che cento italiani rimangano italiani e non vadano esuli in terre straniere; io potrei rispondere: Ratifico. Se lei, onorevole Sforza, dicesse all’Assemblea: Per una ragione di riservatezza è correttezza diplomatica, non posso parlarvi delle promesse che ho ricevute, ma sul mio onore di italiano vi dichiaro che esse esistono; ratificate e vedrete che ne risulterà un bene per l’Italia, io accetterei di ratificare sulla sua parola; ma lei tace, onorevole Sforza, ed io arguisco che lei questo impegno non possa prenderlo, perché effettivamente gli alleati nulla hanno promesso. Né voglio pensare che gli alleati non abbiano neanche chiesto la ratifica, e che siate voi a spingere l’Assemblea Costituente ed il Paese a ratificare!
Non voglio fermarmi su questa idea, perché sarebbe troppo doloroso per noi supporre che un Ministro degli esteri, un Ambasciatore chiedano agli Italiani una così grande umiliazione per giungere a Parigi, a Londra, a New York con un maggior viatico di grazie, per ricevere un più lusinghiero sorriso da parte di ministri ed ambasciatori stranieri.
Io non voglio neanche pensarlo, e d’altra parte ritengo che si possa mantenere il proprio posto con maggiore dignità in una anticamera, anziché in un salotto, quando in questo salotto non si sta alla pari con i padroni di casa.
Sono profondamente convinto che il popolo italiano non deve accettare questa ratifica, né le vostre dichiarazioni sono state tali da indurmi ad una diversa convinzione.
Io non credo che sia più il caso di fare offerte spontanee agli alleati. In noi è la buona volontà di collaborazione; noi non ci vogliamo isolare dal congresso dei popoli. Vogliamo vivere e lavorare in pace con tutti. Essi lo sanno.
Che cosa possiamo fare di più? Se si pensa che noi abbiamo per loro cambiato fronte e nemico, abbiamo mandato le nostre truppe a combattere per loro, abbiamo avute le nostre umiliazioni, abbiamo avuti i nostri morti, le nostre distruzioni? Che cosa possiamo fare di più per dimostrare agli alleati che noi vogliamo una politica di pace e di giustizia? Io non credo che noi dobbiamo dare altre prove. Ormai tocca agli alleati darci prova di concreta amicizia e di gratitudine per il contributo che l’Italia ha dato alla guerra della così detta libertà e democrazia.
Ma non ci chiedano di ratificare. Essi non devono chiedere che l’accettazione esclusiva delle clausole che ci impongono. E questa accettazione di clausole non deve avvenire oggi, ma il giorno in cui, ratificato il trattato da parte della Russia, noi ci troveremo di fronte al bivio: o subire l’affronto di una nuova occupazione militare per l’imposizione di quelle clausole o accettarne l’esecuzione. Ma allora noi lo faremo per evitare al popolo italiano altre umiliazioni, altre sciagure e altre violenze. Soltanto in quel momento o per quel momento potremo decidere di eseguire le clausole; mai ratificare il Trattato, perché se ratificassimo, tutte le proteste da parte del popolo italiano perderebbero ogni valore etico e giuridico, dissolvendosi nel ludibrio del più immorale patteggiamento. Noi non dobbiamo ratificare né oggi né mai, per rispetto dei nostri morti e della Patria in gramaglie.
Devo ora ricordare certe strane parole pronunciate in quest’Aula, da parte di alcuni oratori. Per chi le ha pronunciate, indubbiamente, non sono tali, ma al mio orecchio suonano particolarmente strane!
L’onorevole Bassano ci ha chiesto di ratificare per amore della libertà e della democrazia e per esser coerenti con quella lotta che gli italiani hanno combattuto in odio al fascismo; ci ha detto: Noi non ci adontiamo se gli alleati non vogliono riconoscere la nostra cobelligeranza, il nostro contributo alla guerra di liberazione; noi dobbiamo ratificare in onorò dei morti alleati.
Trovo singolare questa osservazione e credo necessario che in quest’Aula venga detta una parola a questo proposito. Trovo singolare la generosità dell’onorevole Bassano, generosità penso cristiana, veramente grande, ma profondamente irreale, sovrumana. Onorevole Bassano, quando si rappresenta un popolo, non si ha il diritto di essere così generosi. Non si ha il diritto di dimenticare i propri morti per onorare i morti altrui. Se noi dovessimo ratificare, non sarebbe certamente per rendere onore ai morti inglesi e americani, ma principalmente per servire gli interessi e gli ideali della nostra Italia. Noi abbiamo invece il dovere di ricordare i nostri morti, i nostri mutilati, i nostri combattenti e non soltanto i combattenti della lotta di liberazione, ma anche i combattenti della infausta guerra, perché questa guerra che abbiamo combattuto, l’abbiamo combattuta con onore, e sono proprio gli stessi alleati che oggi c’impongono le clausole dell’ingiusto Trattato, che hanno riconosciuto, quando erano nemici, il valore delle nostre truppe, che ci hanno dato spesso l’onore delle armi sui campi di battaglia. Noi dobbiamo fieramente proclamare al mondo, in nome dei morti in guerra, in nome soprattutto dei morti nella lotta partigiana, che non ratificheremo e non credo sarebbe ragione di orgoglio per il popolo italiano affermare che noi rinunciamo a questo nostro sacrosanto diritto di ricordare i nostri morti, per rendere onore ai morti del nemico. È una inconcepibile assurdità.
Mi spiace richiamare in questione anche l’onorevole Treves. Ma egli ha detto qualche cosa che desidero rilevare. Non mi occuperò delle sue frasi pronunciate a proposito del passato che noi dobbiamo seppellire. Credo che ad esse abbia risposto sufficientemente l’onorevole Patrissi. Voglio riferirmi ad una frase con cui egli ha messo in ballo ancora il nazionalismo italiano e in cui ha fatto l’ennesima professione di anti-nazionalismo, e ciò in un momento così drammatico per la nostra vita nazionale. Fino a qualche giorno fa in quest’aula risuonavano delle note antinazionaliste, però c’era ancora il pudore di dire: noi siamo contro il nazionalismo esasperato ed esagerato che porta gli Stati all’avventura.
L’altro giorno, invece, l’onorevole Treves ha abbandonato il noto motivo dell’esasperazione nazionalistica ed ha detto: noi siamo contro qualsiasi nazionalismo; ed ha voluto affermare, anche questo: che il nazionalismo ha portato l’Italia vittoriosa del 1918 in braccio al fascismo e quindi alla disfatta di oggi.
Io vorrei chiedere all’onorevole Treves cosa ha portato l’Italia alla vittoria del 1918, se non il nazionalismo; che cosa ha portato l’Italia al Risorgimento, se non il nazionalismo?
ROMITA. La democrazia.
PATRICOLO. Io parlo del nazionalismo sano; non facciamo speculazioni su questo. È il nazionalismo sano che ha portato l’Italia alla guerra del 1914 e alla vittoria del 1918.
VERONI. Non è vero questo.
PATRICOLO. Questo nazionalismo fino a qualche giorno fa era ancora rispettato e ammesso dai signori della sinistra: oggi si nega ogni fede nazionalista, anche quella che piomba nel lutto i giuliani e i dalmati perché strappati dal territorio nazionale.
Vorrei chiedere, cosa è nazionalismo per voi, se non questo legame sacro che unisce tutti gli italiani fra di loro in una comune famiglia?
In fondo non posso stupirmi delle parole dell’onorevole Treves, perché conosco la sua fede e il suo passato. Ma certamente le stesse parole trovo incomprensibili sulla bocca dell’onorevole Pecorari, deputato giuliano, il quale ha dichiarato: noi giuliani non siamo nazionalisti. Ma perché avete tanta paura di questa parola, perché non avete il coraggio di affermare la vostra fede? Perché volete distruggere un sentimento sacro in odio ad una parola? Vogliamo essere obiettivi una volta tanto e dire che il nazionalismo nel suo senso puro e nobile è antitesi di qualsiasi imperialismo e di qualsiasi impulso di guerra e di conquista, perché nazionalismo è un’idea di diritto che si oppone all’imperialismo, che è invece idea di forza, dato che ogni nazionalismo sano deve esser rispettoso del nazionalismo altrui? In virtù del nazionalismo noi italiani vogliamo giustizia e chiediamo che la Venezia Giulia, la Dalmazia, Briga e Tenda rimangano all’Italia. In base al nazionalismo più puro noi abbiamo combattuto tutte le guerre del Risorgimento e lottato contro tutti gli indipendentismi che minacciavano l’unità nazionale.
Cos’è il nazionalismo se non il sentimento della famiglia trasportato nella Nazione? Bisogna intendersi; questo è nazionalismo per me, questo deve essere per voi. E quindi, quando si dice che il nazionalismo è cosa condannevole, io che per nazionalismo intendo questo sentimento di purezza e di fratellanza fra tutti i figli della stessa patria, non posso che sentirmi ferito in questa mia convinzione che è comune alla maggioranza degli italiani.
Quando tutti gli Stati saranno finalmente riportati entro i loro confini nazionali cesseranno le rivendicazioni territoriali e le cause di guerra. Ed allora si potrà giungere alla creazione di una più vasta famiglia di popoli basata sul rispetto dell’individualità nazionale di ciascuno Stato.
L’imperialismo continentale non può nascere dal nazionalismo, dal nazionalismo quale io l’intendo.
Piuttosto penso che sia più da temere l’esaltazione del patriottismo. Se patriottismo non è sinonimo di quel sentimento che dicevo, esso può essere davvero pericoloso per un Paese. Per esaltazione di patriottismo noi avemmo le guerre di conquista di Alessandro Magno, di Giulio Cesare e di Napoleone. Fu patriottismo quello che spinse i francesi, i romani ed i macedoni alla conquista del mondo. Il patriottismo può portare all’imperialismo in quanto non contenuto entro confini storicamente e giuridicamente determinati e può esaltarsi dell’amore della propria patria sì da portare fuori dai confini questa sua passione.
C’è stato e c’è un nazionalismo puro in Italia. Evitiamo di travolgerlo nella delusione della disfatta, rispettiamolo, perché esso ha creato l’Italia. È antistorico affermare il contrario. È questo sentimento nazionalistico che ancora permette la coesione nel nostro Paese: senza questo sentimento nazionale l’Italia una non esisterebbe da tempo, non sarebbe mai esistita. E appunto in nome della nostra solidarietà nazionale che dobbiamo opporci alla crudele volontà del Diktat, per l’onore della nazione italiana, per l’amore dei nostri fratelli del Piemonte e delle sponde adriatiche.
Onorevoli colleghi, lasciate che il Paese reagisca di fronte ad una violenza che incide così profonde ferite nel sentimento nazionale degli italiani, lasciate che gli italiani alzino la loro voce contro l’iniquità del Trattato e non sia soltanto l’onorevole Orlando ad opporsi alla ratifica che ci si vuole imporre – come vorrebbe il collega Gasparotto – ma tutti quegli italiani che si stringono intorno a lui in questo momento grave della nostra storia, maledicendo il Trattato e implorando da Dio e dagli uomini giustizia per l’Italia. (Applausi a destra).
PECORARI. Chiedo di parlare per fatto personale.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PECORARI. Volevo rispondere all’onorevole Patricolo, per precisargli che io per nazionalismo non intendo quel che lui – con una sua interpretazione del vocabolario – ha voluto esprimere. Oggi io sono contro tutti i nazionalismi, quelli nostrani e quelli degli altri popoli. Per patriottismo o, se vuole, per sano patriottismo, io intendo reclamare quello che è nostro per noi e quello che è altrui darlo agli altri.
PATRICOLO. Questo è nazionalismo, non è patriottismo.
PRESIDENTE. Non facciamo questioni di vocabolario onorevoli colleghi!
È iscritto a parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.
LUCIFERO. Onorevoli signori, io che avevo sostenuto la tesi, proposta in linea pregiudiziale dall’onorevole Benedetti, dell’illegittimità della proroga di questa Assemblea, dal 24 giugno al 25 luglio non sono più entrato in questa Aula. Questo perché, evidentemente, un voto dell’Assemblea non poteva mutare la mia convinzione.
Ma, a fianco di quelli che sono i criteri di legittimità, esistono anche i fatti politici. Il fatto politico è che quest’Assemblea, legittimamente o illegittimamente prorogando i suoi poteri, continua ad operare e ad operare su questioni che gravemente incidono sulle sorti del Paese. Questa proroga, contro la quale avevo votato, mi dà la facoltà di continuare a portare il mio modesto contributo su lavori che possono decidere e – nel caso specifico che oggi si discute – per moltissimi anni le sorti della Patria. Io ho ripreso il mio posto di combattimento e debbo confessare che non mi dispiace eccessivamente che se, contro quelli che sono la mia convinzione ed il mio sentimento – sentimento di italiano e convinzione di uomo politico, che coincidono nella certezza che questo Trattato non si debba ratificare – questo Trattato sarà ratificato egualmente, non mi dispiacerà che sia stato ratificato da un’Assemblea sulla cui competenza si possono sollevare dei dubbi.
Io non avevo intenzione di parlare in questa discussione: volevo riservarmi una semplice dichiarazione di voto. Se oggi parlo, lo faccio perché ne ho ricevuto da vari settori qualche sollecitazione. Intendiamoci bene: non l’ho ricevuta io questa sollecitazione, l’ha ricevuta il personaggio; perché nella vita politica, quando le circostanze hanno portato un uomo a rappresentare qualcosa in una battaglia, quest’uomo cessa di essere uomo e diventa un personaggio.
Si è ritenuto da alcuni che forse era opportuno che il personaggio facesse sentire la sua voce in questa circostanza. Io sono venuto come personaggio, ma incominciando a parlare mi ritrovo uomo, e nelle mie parole c’è tutta la passione dell’uomo, la passione dell’italiano, la passione dell’europeo, la passione dell’uomo civile e del cittadino del mondo, tutti ugualmente calpestati ed insultati dalla follia delle potenze che ignorano civiltà cristiana e obiettività di diritto.
Si è parlato di critica da fare alla politica estera del Governo. Qui non si discute la politica estera né di questo né dei precedenti Governi. Qui si discute, se si vuole, la politica estera dell’Italia per lunghi decenni; quindi per tutti i Governi, di ieri o di domani. Il voler sminuire ad una polemica politica, che può essere anche manovra politica, quella che è una discussione non sulla politica estera di un Governo, ma sulla continuità di politica estera che dovrà segnare l’avvenire della Patria e speriamo la chiusura di una fase di disavventure, sarebbe così meschina cosa che io non credo alcuno voglia farlo. Ad ogni modo, io non lo farò; io che sono il più legittimato a farlo perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che ci eravamo messi sulla strada sbagliata; perché fin dal giugno del 1944 io ho detto che si faceva troppa politica interna e troppo poca politica estera; perché fin dal giugno del 1944 sostengo che gli interessi del Paese non si servono soverchiando a fini di parte quelli che sono i supremi interessi della Nazione; perché fin dal giugno del 1944 io sostengo che non si servono gli interessi della Nazione cospargendosi volontariamente la testa di cenere, anche quando non è richiesto, perché certe volte si debbono difendere gli errori dei propri predecessori, anche quando si sono ripudiati; perché fin dal giugno dei 1944 sostengo che non si può organizzare un’azione diplomatica mandando in giro per il mondo a rappresentarci dei valentuomini, che avranno avuto speciali capacità nelle Università, nell’agricoltura o nelle preture, ma che non conoscono la tecnica del negoziare, che non hanno conoscenze personali, le quali sole possono aiutare un diplomatico (e l’onorevole Sforza me ne dà atto) quando si trova in un ambiente ostile, onde fare qualcosa per il suo Paese. L’uomo che non è conosciuto, che non ha la fortuna di trovare in questo o in quell’ufficio colui con il quale fu consigliere a Teheran, o giovane attaché in un’altra sede, l’uomo che non ha nemmeno questa possibilità, anche se è il più valoroso dei diplomatici è destinato all’insuccesso, perché la diplomazia è una tecnica e non una improvvisazione.
Questa è una critica che si rivolge ad una politica, e non a dei Governi, ad una politica che è stata seguita da tutti i Governi dal 1944 in poi, e che è stata una politica errata, e della quale io non ho mai condiviso le responsabilità.
Oggi, ci troviamo di fronte ad un documento che si chiama Trattato di pace. Io mi atterrò soltanto a questo documento.
L’oratore che mi ha preceduto ha terminato il suo discorso con una questione di vocabolario, un’interpretazione da dare alle parole nazionalismo, patriottismo, ecc. Permettete che anche io faccia una questione di vocabolario.
Trattato di pace. Dunque, Trattato; trattato viene da trattare, Se lo sono trattato fra di loro, ma noi non abbiamo trattato. Questo non è un trattato con l’Italia; questo è un trattato fra altri, che riguarda l’Italia. In questo Trattato, se trattato si può chiamare, l’Italia non è soggetto del Trattato; è soltanto oggetto del Trattato.
Si dice Trattato di pace, ma questo documento, che è trattato soltanto fra coloro che lo hanno trattato, è un documento di guerra; perché questo documento è una premessa necessaria ed indispensabile a nuovi conflitti.
È inutile che nascondiamo la testa sotto l’ala dicendo che di guerre non si deve parlare, perché di guerra si parla dappertutto. La guerra è nell’aria, perché l’altra guerra non è finita.
L’ultima guerra mondiale è stata combattuta non, come si è detto da alcuni, ricordando Terenzio, per ragioni economiche. Questa guerra è stata una guerra ideologica; si è fatta questa guerra nel nome della giustizia fra i popoli, nel nome della libertà e della democrazia; poi, a mano a mano che la guerra diventava difficile e le preoccupazioni aumentavano negli uomini di Stato, questi fini si sono dimenticati, e la guerra, che si era fatta per la libertà e la giustizia fra i popoli, si è conclusa con la sopraffazione dei popoli, con la legge di Brenno. La guerra non cesserà, finché non si troveranno un assetto ed un equilibrio che rispondano alle ragioni che l’hanno suscitata; e queste ragioni rispondono ad esigenze più vive che mai! Questo è, quindi, un Trattato di guerra fra altri, un Trattato che prepara le premesse della guerra e che già delinea dei piani militari i quali, per chi abbia una certa esperienza in materia, sono molto ben trasparenti. Perché Briga e Tenda significano una linea di difesa sulle Alpi, nel caso che si volesse abbandonare la Valle Padana, e questa Valle Padana, si dovrà abbandonare, perché ne è aperta la porta a chiunque voglia farvi una passeggiata militare.
Io domando se noi (che tutti, e nella guerra sbagliata che fu perduta perché si doveva perdere, e nella guerra giusta che fu quella di liberazione e che fu vinta militarmente perché non si poteva perdere, e fu perduta politicamente perché mal condotta, cosicché, cobelligeranti a Roma ci ritrovammo vinti alle Alpi) io domando se tutti noi che abbiamo partecipato in un modo o in un altro a questa guerra possiamo porre la nostra firma su un documento che consacri con essa firma anche la nostra volontà di vedere l’Italia diventare un nuovo campo di battaglia.
Ad ogni modo si dice: bisogna ratificare. Perché dobbiamo ratificare? Il Trattato diventa esecutivo senza la nostra ratifica. Ed io mi ricordo una frase dell’onorevole Giolitti, che altri ricorderanno pure in quest’Aula.
Quando l’onorevole Giolitti, come Presidente del suo ultimo Gabinetto, portò in quest’Aula, costrettovi da esigenze politiche, la discussione di una legge elettorale alla quale era contrario, assistette impassibile alla discussione di questa legge. Senonché, ad un certo punto gli fu chiesto che dicesse anche lui due parole in difesa di quella legge, al ché Giolitti rispose: ingoiare rospi sì, ma dire anche che sono buoni no.
Quindi, eseguire il Trattato sì, perché ce lo fanno eseguire per forza, ma ratificare il Trattato no.
Il Ministro degli esteri ha parlato in fondo di due argomenti fondamentali – perché badate la questione è politica, profondamente politica e non soltanto economica come vorrebbero alcuni far sembrare – ha detto cioè: noi ci mettiamo su un piede di parità con le altre Potenze, il ché ha la sua grandissima importanza.
Ma è vero questo? Si metterà, forse, su un piede di parità con i Ministri degli esteri delle altre potenze, il Ministro degli esteri italiano; potrà non accadere più quello che ci ha umiliati ed offesi, che chi rappresentava l’Italia all’estero ha avuto accoglienza diversa da altri rappresentanti di altri Stati; non accadrà più che, invece di una compagnia di onore, vi sia un plotone d’onore ad attenderci. Però, accadrà un’altra cosa; che l’Italia avrà sottoscritto un documento, il quale consacra il suo stato permanente di inferiorità, perché avrà sottoscritto l’accettazione di limitazioni di sovranità, che non sono limitate nel tempo, ma che nel Trattato sono considerate come definitive.
Quindi, non parità, ma disparità consacrata dalla nostra firma. Questo è il primo significato.
Altro argomento: l’O.N.U. Io ho sentito parlare molto dell’O.N.U., tutti sperano nell’O.N.U. e tutti lodano l’O.N.U. Io ho il dovere di dire, sinceramente ed onestamente, che io non credo nell’O.N.U. L’O.N.U. è già fallita, perché nell’atto costitutivo dell’O.N.U. manca quello che ci dovrebbe essere perché essa potesse veramente rappresentare un insieme vitale: manca il senso democratico dell’uguaglianza di tutti i popoli di fronte alla legge internazionale.
Ora, intendiamoci bene su quello che significa l’organizzazione internazionale dei popoli: è un avvenire che verrà; ma è ancora molto lontano. Ed io devo ripetere quello che da questo stesso banco dissi, in sede di discussione di politica estera, alla Consulta Nazionale.
L’organizzazione fra i popoli si può basare su due principî: o su un principio di potenza, o su un principio di giustizia. Per il principio di potenza vale solo la forza, non sono necessarie organizzazioni: bastano le normali alleanze. E noi oggi siamo in una fase feudale della politica internazionale. Oggi è impensabile una guerra tra due popoli minori; nessun popolo è libero di fare una guerra con il suo vicino; quasi quasi nessun popolo di secondo ordine – diciamo così – è libero di fare un trattato di commercio con il suo vicino, se i signori feudali non sono d’accordo su questo trattato. Ma il giorno che i signori feudali decidessero, malauguratamente, di scendere in guerra fra loro, allora saremo tutti trascinati, e vassalli e valvassori e valvassini; perché la politica internazionale attraversa, in questo momento, una configurazione feudale e l’O.N.U. non è altro che un tribunale, se così si può chiamare, di questo feudalesimo ed è un passo indietro su Ginevra, perché Ginevra, almeno, tentava di dare un diritto, un tribunale, anche se mancava della coazione per far rispettare le sue decisioni.
L’O.N.U. è soltanto coazione, non c’è né tribunale né diritto. Non durerà, non risolverà i problemi; quando i signori feudali avranno deciso di fare la guerra, l’O.N.U. finirà e i popoli avranno speso miliardi per mantenere questa finzione.
D’altra parte, in politica esiste una politica che chiamerei «lunga» e una politica che chiamerei «corta». La politica «lunga» è quella delle grandi direttive e del grande respiro nel tempo; la politica «corta» è quella delle contingenze che può, certe volte, deviare della politica «lunga», ma non si può mai mettere in contrasto con essa.
Ora, nella politica corta, oltre la parità e l’O.N.U. cosa c’è? Il bisogno di aiuto che noi abbiamo in campo alimentare, in campo economico, in campo di materie prime o di prodotti semilavorati o finiti? Onorevole Sforza, la beneficenza internazionale non esiste. Anche la famosa U.N.R.R.A. non è stato un istituto di beneficenza: fu un organismo politico che serviva a determinati fini politici, che ha funzionato finché questi fini politici dovevano essere perseguiti; e quando questi fini erano stati perseguiti, la miseria continuava, e l’U.N.R.R.A. è cessata, perché la beneficenza in politica internazionale non esiste. O ratificheremo o non ratificheremo, non una nave di grano sarà dirottata, perché è interesse delle grandi potenze che l’Italia non vada in miseria, perché è interesse che la miseria non acuisca le lotte già profonde che la dilaniano, perché l’Italia è il secondo Paese d’Europa come popolazione se si esclude la Russia e il primo come posizione geografica, e l’ultima guerra lo ha dimostrato.
Stia tranquillo, dunque, il Governo che quei soccorsi che noi abbiamo ricevuto perché corrispondevano all’interesse di chi ci soccorreva, noi continueremo sempre a riceverli sino a che a coloro che ce li apprestano converrà di soccorrerci, mentre…
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Peccato che lei non sia Ministro del commercio estero, perché in questa maniera mi tranquillizzerebbe molto.
LUCIFERO. Lei non me lo ha proposto, onorevole De Gasperi.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ma se avessi saputo…
LUCIFERO. In ogni modo non avrei accettato.
E sarà soltanto il giorno in cui io vedrò della vera beneficenza internazionale che non si presenti sotto l’aspetto dei Liberators che vengono a bombardare popolazioni inermi, che io ci crederò. Per ora, ho visto un solo fenomeno di beneficenza internazionale: che non si sono adoperati i gas per la sola ragione che si è avuto paura che li adoperassero anche gli altri. Non altrimenti che per questo ci si è astenuti dal farne uso.
Ma veniamo alla politica lunga. In fondo, qual è la nostra maggiore aspirazione? Che questo documento che io, come italiano, mi rifiuto di chiamare Trattato – e mi rifiuterei ugualmente di chiamarlo Trattato, anche se fossi cittadino di uno dei Paesi che ce lo impongono, perché sono una persona per bene – susciti in noi una sola speranza e una sola aspirazione: la revisione. È fuor di dubbio. E allora un documento imposto e da noi non ratificato non rappresenta per noi un’obbligazione, di modo che noi potremo e dovremo eseguirlo soltanto tutte le volte che ne saremo richiesti, là e quando ne saremo richiesti.
Ma una volta ratificato invece questo Trattato, è evidente che noi dovremo eseguirlo anche, certe volte, là dove non ne saremo richiesti.
E allora onorevole Sforza, perché dobbiamo dunque ratificarlo? Questa è stata ed è la richiesta che le viene formulata da tutte le parti, onorevole Sforza. È evidente infatti che noi tutti possiamo dichiararci disposti anche a farci amputare un braccio quando sappiamo che esso è preda della cancrena che potrà arrivare alla spalla o anche ucciderci: ma se questa necessità non c’è, perché pregiudicare la nostra politica futura, senza che si abbia nulla nella politica presente che possa giustificare questo avvenire di inferiorità e di umiliazione?
Si è parlato, in quest’Aula, onorevoli colleghi, di machiavellismo. Con interpretazioni varie è stato fatto un po’ qui il festival del Machiavelli, così come è stato fatto anche un po’ del resto, il festival della Repubblica. Ma il Machiavelli, che l’onorevole Nitti ha liquidato, quasi così come Wells ha liquidato Napoleone nella «Piccola storia del mondo» senza neppure nominarlo, che cosa è in definitiva?
Quando io sono andato a leggere il Machiavelli – anche a scuola me lo avevano fatto leggere, ma io confesso che non ci avevo capito niente – quando, dicevo, io me lo sono andato a rileggere per conto mio e l’ho capito, mi son reso conto che è accaduto un po’ al Machiavelli quello che è successo a Carlo Marx, il quale non era per niente marxista: nessuno, infatti, ha letto Il Capitale, nessuno lo conosce, dunque, Marx, ma tutti ne parlano. (Commenti).
ROMITA. Non esageriamo.
LUCIFERO. Io l’ho capito così; poi, naturalmente, ognuno lo capisce a suo modo.
Per parlare di machiavellismo, e lasciare da parte il Segretario fiorentino, dirò ad ogni modo che c’è un solo atto di machiavellismo, nel senso più deteriore – se così si può dire – che noi possiamo commettere: ed è ratificare; perché noi ratificheremmo, onorevole Sforza tutti unanimemente decisi, alla prima occasione, di evitare di continuare ad applicare questo Trattato che ci viene imposto con la violenza e che noi non sentiamo assolutamente nostro dovere di rispettare. Quindi, la ratifica sarebbe anche un atto di disonestà politica, perché noi cominceremmo fin dal primo giorno a cercare di evitare di applicarne le clausole, e ciò non solo perché questo sarebbe un atto di ribellione della nostra volontà, ma perché sarebbe una necessità di vita del nostro popolo, insopprimibile.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Non c’è nulla di sleale, perché lo diciamo tutti.
LUCIFERO. E allora, perché lo ratifichiamo, se siamo tutti d’accordo nel cercare di non rispettarlo?
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Perché ci sono delle ipocrisie giuridiche!
LUCIFERO. È una disonestà ingenua, ma è sempre una disonestà; è un machiavellismo che si capisce – perché Machiavelli c’è anche in questo – ma io lo ripudio; e il machiavellismo è di natura particolare in questa situazione.
Io penso che, evidentemente, noi non possiamo non eseguire; non possiamo non eseguire, perché ce lo fanno eseguire per forza. Il che è un argomento convincente e definitivo. Ma possiamo eseguire a richiesta. Noi possiamo dichiarare questo e dare facoltà al Governo, fin da oggi, di emanare tutti quei provvedimenti che siano necessari all’applicazione delle clausole del cosiddetto Trattato, ove esso ne sia richiesto, e ove esso lo ritenga necessario. E allora, forse, accadrà – e nel tempo sempre più spesso – che nessuno ci richiederà di applicare quelle clausole, e potremo fare a meno di applicarle, proprio perché non avremo ratificato.
Questi sono argomenti, direi, di politica spicciola; ma la politica è in fondo spicciola. I grandi moventi che sono dietro di essa cercano un’altra voce e trovano altre espressioni, non nei documenti delle Cancellerie, ma in quelli che sono i grandi movimenti dell’anima popolare, perché anche i sentimenti dei popoli, oltre ai loro interessi, sono una realtà politica. I sentimenti dei popoli molto spesso sono una realtà politica talmente forte che riescono a far fare ai popoli quello che nessun altro realismo riuscirebbe a far fare loro.
E il sentimento del popolo italiano è di non ratificare. La stessa indifferenza che in certi settori si vede verso questo gravissimo problema significa aver dato il problema già per scontato. La stessa indifferenza che si vede in quest’Aula semivuota, dove tutta la responsabilità della Nazione è assommata, dimostra che in un certo senso il Trattato è scontato anche qui. Io mi ricordo quando discutemmo la legge del marzo 1946, alla Consulta – gli amici che erano con me alla Consulta se ne ricorderanno anch’essi – in un’Aula vuota, meno che per l’orazione finale dell’onorevole Orlando, in cui era più l’uomo che richiamò l’attenzione che la legge. Ed io me ne stupì allora, ed oggi non me ne stupisco più, perché, in fondo, quella legge che doveva essere la garanzia di tutti, la Costituzione interlocutoria, non è durata più di un anno ed è già stata annullata.
Il Trattato è stato annullato non solo nella nostra coscienza; il Trattato è già annullato in quelli che sono gli sviluppi della politica internazionale, ai quali questo Trattato comincia già ad essere un ostacolo; e si sente già che è un ostacolo; e, questo è un punto, nel quale sono d’accordo con l’onorevole Sforza: questo Trattato è del secolo decimottavo, e la politica internazionale si muove nel secolo ventesimo, e si muove verso il ventunesimo; e un trattato del secolo decimottavo non è necessario firmarlo, perché muore da sé; anzi, è già morto.
Ma, però, c’è nel sentimento nostro qualche cosa da rilevare, perché – ripeto – il sentimento è realtà. Nel più grande libro che sia mai stato scritto, è detto ad un certo punto: et diviserunt vestimenta mea.
Quest’Italia che ha dato a tutto il mondo il diritto di Roma e la luce della civiltà cristiana, e soprattutto il sentimento della coscienza cristiana, e che forse perché è stata tutta tesa in questo sforzo, è stata l’ultima a raggiungere l’unità nazionale, l’ultima a raggiungere i suoi legittimi confini; questa Italia viene oggi spezzettata e mutilata. E questo noi non lo possiamo mettere in discussione, perché quando si parla delle nostre Colonie domandate come sono trattati gli italiani che vi sono rimasti: gli italiani sono stati parificati agli indigeni, un italiano non può cedere ad un italiano la propria azienda. Questa è la situazione degli italiani nelle nostre Colonie! E qualsiasi cosa possiamo decidere e checché noi possiamo deliberare, oggi più che mai la Patria rimane lì, non per nazionalismo interpretato in un senso o in un altro, ma perché la parola Nazione ha un significato etnografico, culturale, geografico che esiste e rappresenta una unità, che non si può dopo secoli frazionare senza creare un dislocamento della Patria in quelle zone che ne sono state staccate! E la Patria ha oggi risposto nei cinquanta giovani di Briga e di Tenda che tutti, senza eccezione, sono accorsi a prestare servizio nell’esercito italiano! (Applausi). La Patria vi risponde dai campi dei profughi, dove questi disgraziati che hanno trasformato il deserto in giardino vivono nell’anelito di tornare in quella terra africana da essi fecondata, e che, per la loro assenza, sta tornando da giardino a deserto. La Patria vi risponde dai leoni mutilati della Dalmazia o dalle foibe del Carso o da Trieste due volte oggi capitale d’Italia, non per vuota retorica, ma perché essa simboleggia ancora come ieri per l’Italia questo senso dell’unità nazionale che è realtà storica ed umana.
Io credo che contro tutto questo noi non possiamo ratificare. Questa divisione dei nostri vestimenti da parte di chi ha dimenticato i due grandi insegnamenti del diritto di Roma e del Cristianesimo, noi non la possiamo accettare! Noi che abbiamo dato l’uno e l’altro al mondo, non possiamo ratificare! E del resto, se si ratificasse, se si commettesse anche quest’ultimo errore… Ebbene, faticheremo di più, sarà più difficile, ci metteremo più tempo, la strada sarà più ardua e più lunga, ma risorgeremo lo stesso! (Applausi a destra).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la onorevole Rossi Maria Maddalena. Ne ha facoltà.
ROSSI MARIA MADDALENA. Onorevoli colleghi, il dibattito sul Trattato di pace ha assunto un carattere particolare, in quanto ha oltrepassato i confini riguardanti strettamente l’opportunità della ratifica per investire tutta la politica estera italiana. E questo è comprensibile e giusto, dal momento che una pace duratura non si stabilisce solo attraverso un Trattato, ma soprattutto attraverso una politica di riconciliazione e di collaborazione con gli altri popoli. Di questa politica in particolare l’Italia ha bisogno, se vuole ricostruire in piena libertà il proprio destino, se vuole riacquistare il posto che le spetta fra le Nazioni libere e democratiche.
Ecco perché noi non dobbiamo, soprattutto in questo momento, chiudere gli occhi di fronte ai focolai di guerra che sussistono in Europa. Legittima è la preoccupazione di coloro che si chiedono come si muove, come si muoverà il nostro Paese in mezzo a questi focolai, come agirà per evitare di attizzarli, per contribuire anzi a spegnerli. Perché noi non dobbiamo pensare di poter ricostruire la nostra vita nazionale attraverso le sorti di una guerra: qualunque guerra non sarebbe che la nostra rovina ed il nostro annientamento.
In Europa da anni ormai, onorevoli colleghi, una guerra è in atto in Grecia ed in Spagna e noi non possiamo esimerci dal guardare con inquietudine a questi due paesi.
Le vicende della guerra civile che da tre anni imperversa sul suolo greco sono troppo note perché io debba ricordarle qui oggi: l’eroismo, i sacrifici affrontati da questo popolo che lotta per la sua libertà, le migliaia di vittime, il sacrificio inesausto della gioventù greca, commuovono i popoli liberi di tutto il mondo.
Note sono le vicende del plebiscito organizzato dal governo di Tsaldaris, grazie al quale, per la terza volta nei cento anni della sua indipendenza, alla Grecia è stato imposto con l’aiuto delle armi britanniche il dispotismo di un monarca straniero, monarca che, questa volta, si ripresentava al popolo greco soprattutto col precedente di un’azione compiuta, e quale azione: l’instaurazione della dittatura fascista di Metaxas.
Il ritorno della monarchia ha consolidato il fascismo in Grecia. La guerra civile si è riacutizzata, servita mirabilmente dallo zelo del generale Napoleone Zervas, il quale ha personalmente assunto il comando delle truppe addette al rastrellamento delle unità dell’EAM, approfittando tra l’altro dell’esperienza acquisita allorché agiva al servizio dei nazisti contro le truppe dell’Esercito di liberazione.
Nessun paese che sia veramente interessato al mantenimento della pace nel mondo può oggi guardare al dramma del popolo greco, ammirarne l’eroismo, ma pensare che ciò non lo riguardi. Il persistere del regime fascista ad Atene costituisce un pericolo per la sicurezza e per la pace di tutti i paesi.
Lo dimostrano le continue provocazioni armate ai confini albanese, bulgaro, jugoslavo, provocazioni culminate recentemente nello sconfinamento di una intera banda fascista greca in territorio bulgaro, col preteso diritto arrogatosi da taluni comandanti fascisti greci, di perseguire le loro vittime anche oltre i confini nazionali. La dimostra la frenetica campagna di eccitazione alla guerra condotta dai giornali di Atene, i quali sono giunti ad affermare che l’Albania deve scomparire.
Quale è l’atteggiamento del nostro Governo di fronte a questa situazione, gravida di minacce per la pace dei popoli?
Se consideriamo l’atteggiamento degli organi di stampa che sono i portavoce dei circoli responsabili della politica italiana, siamo talvolta tentati di chiederci se questi organi di stampa si siano costituiti in agenti del Governo di Atene. Essi recano spesso notizie false, grossolanamente presentate, circa la presenza in Grecia di presunte brigate internazionali, notizie che lo stesso Governo di Atene è costretto a smentire. Senza contare i pretesi complotti comunisti che, secondo certa nostra stampa, giustificherebbero l’azione repressiva del Governo greco come una misura necessaria contro le azioni di gruppi senza legge.
In realtà, la lotta che il governo fascista greco conduce con l’appoggio militare e finanziario straniero non è diretta contro i comunisti soltanto, benché questi siano anche in Grecia all’avanguardia nella lotta per la libertà del loro paese, ma è diretta contro tutto il popolo greco. Lo dimostrano anche le recenti dichiarazioni del liberale Sophulis, già Primo Ministro, il quale, denunciando la presenza di ben 8000 liberali nelle carceri greche, confermava il suo netto rifiuto a partecipare ad un governo che sia solo un ampliamento dell’attuale coalizione di destra e sollecitava libere elezioni per la Grecia.
Noi deploriamo il tono solidale di certa stampa italiana per il governo fascista di Atene. Tanto più quando gli indirizzi di questa stampa non possono non essere considerati indicativi della politica del Governo. Un indirizzo simile non può avere, agli occhi del popolo italiano e di tutti i popoli liberi, che un significato soltanto: la solidarietà del Governo italiano coi provocatori di guerre.
Noi deploriamo tutto questo, in linea generale, ma qualcosa in particolare vorremmo chiedere al Ministro degli esteri: circolano voci di un patto di alleanza che dovrebbe essere stretto tra l’Italia da una parte e la Grecia e la Turchia dall’altra. Noi non sappiamo cosa ci sia di vero in queste voci ma abbiamo, credo, in questa sede, il diritto di chiedere al nostro Ministro degli esteri se queste voci sono vere.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. No, sono false!
ROSSI MARIA MADDALENA. Meglio così. Infatti, una alleanza con la Grecia e con la Turchia, caldeggiata da Governi stranieri, costituirebbe oggi, a nostro avviso, una grave minaccia alla nostra indipendenza nazionale.
Informazioni corrono sulla stampa internazionale a proposito di certe clausole segrete del recente trattato stipulato tra il governo fascista di Atene e gli Stati Uniti, in base alle quali la Grecia cederebbe tra l’altro all’America basi navali come quella di Mitilene e basi aeree in Tessaglia ed in Macedonia. Se queste voci possono trovare difficilmente conferma, vi è però qualcosa che sarebbe molto difficile smentire: il trattato testé concluso tra il governo fascista greco e gli Stati Uniti pongono la vita nazionale greca sotto il completo controllo americano.
Ebbene, a che cosa mirerebbe, in queste condizioni, una nostra alleanza con il governo fascista greco? Forse a farci condividere le sorti della Grecia, a trasformare cioè il nostro Paese in una colonia soggetta economicamente e politicamente a quelle stesse Potenze che questa alleanza caldeggiano? Il risultato non sarebbe, in questo caso, che gli stranieri porterebbero anzitutto in Italia, come la portarono in Grecia, la guerra civile?
Oppure lo scopo di tutto questo è forse, come è dimostrato chiaramente dagli avvenimenti greci e turchi, di far partecipare l’Italia alla guerra sognata e attivamente preparata da certi circoli nazionali ed internazionali, contro l’U.R.S.S. e contro i popoli dell’est?
Questi pericoli esistono nella situazione attuale. Per evitarli, per evitare all’Italia nuove sciagure, il Governo ha il dovere di precisare il suo atteggiamento verso i responsabili dell’attuale tragica situazione greca. Per evitarli, il Governo deve manifestare chiaramente la sua volontà di pace, la volontà di non solidarizzare con i provocatori di guerre, e soprattutto la volontà di non seguirli sulla strada che porterebbe fatalmente all’asservimento della Nazione agli interessi di quelle forze che preparano la guerra.
Ci si potrà obiettare che l’Italia ha bisogno, in questa sua faticosa rinascita, dell’amicizia e della solidarietà dei popoli. Ne conveniamo. Ma la collaborazione fra i popoli non si realizza soltanto attraverso l’azione diplomatica. Le amicizie vere sono quelle che trovano una reale rispondenza nella coscienza e nel sentimento delle masse popolari.
Queste amicizie noi potremo stringerle con gli altri popoli, nella misura in cui dimostreremo che ci siamo liberati dei residui del fascismo, che non vogliamo aver più nulla a che fare con fascisti, né italiani né d’altri paesi.
Oggi tutti i popoli liberi guardano alla Spagna. Ebbene, anche in questo caso è legittima la domanda: la nostra politica verso il Governo franchista è tale da meritarci la simpatia dei popoli liberi? Ma c’è di più. Il perdurare del regime franchista in Spagna è una minaccia permanente per la pace, minaccia che risiede nella natura stessa del regime, come noi sappiamo per esperienza. E del resto, i capi franchisti non hanno mai mascherato i loro propositi, così come non li mascherano coloro che nella Spagna franchista hanno trovato asilo e sognano di farne la base di una crociata fascista attraverso l’Europa.
Intanto le masse popolari spagnole, le sole veramente interessate in Spagna al mantenimento della pace, continuano a subire il regime poliziesco e terrorista del generale Franco. Ma il popolo spagnolo, dopo dieci anni di lotta, non cede. Il 6 luglio Franco ha organizzato con ogni cura il suo plebiscito, eppure il 40 per cento degli spagnoli si sono astenuti, nonostante le severe misure di repressione adottate, nonostante sia tuttora in vigore in Spagna la legge del 1907, secondo la quale l’astensione è considerata un delitto. Nello scorso anno si registrarono 160 scioperi; più di 100.000 operai parteciparono allo sciopero delle industrie tessili in Catalogna; 60.000 operai hanno manifestato il 1° maggio di quest’anno; 5000 operai tessili a Matoro. Oltre alle azioni svolte dai partigiani spagnoli.
A queste azioni Franco risponde come è nel costume dei regimi fascisti. Il 19 aprile sei comunisti, accusati di aver avuto rapporti con i guerriglieri, sono fucilati; il 26 aprile tre guerriglieri sono fucilati a Oviedo; il 29 aprile Antonio Criado e Anacleto Celada, imputati di far parte di bande di guerriglieri, sono trucidati a Madrid; il 7 maggio Bernardino Esposito, imputato di aver distribuito stampa comunista, viene fucilato a Madrid. Sempre nuovi anelli si aggiungono alla lunga catena di crimini del fascismo.
Ma il popolo spagnolo resiste e lotta. Prima e durante la guerra Franco subordinava gli interessi nazionali a quelli dell’Asse; intanto il livello di vita delle masse popolari spagnole cadeva da trenta a quaranta volte, il valore della peseta si riduceva a circa un ottavo. L’agricoltura è in completa decadenza: da paese che disponeva di risorse alimentari bastanti interamente alle proprie necessità, la Spagna è ora semi-affamata, nonostante le importazioni. Cosa fanno gli altri paesi, che fa l’Italia per aiutare la Spagna a liberarsi dal fascismo? Il popolo spagnolo avrebbe già riconquistato la propria libertà, se i paesi che condannarono il regime franchista in seno all’O.N.U. avessero condotto una concreta azione, se non vi fossero paesi che intrattengono relazioni economiche con la Spagna di Franco.
Che fa il Governo italiano? Ha richiamato, è vero, l’Ambasciatore da Madrid, ma si dice che sia talvolta tentato di rimandarvelo. A quale scopo? A suo tempo si vollero giustificare i nostri rapporti con la Spagna con i vantaggi economici che ne avremmo ricavati, e si concluse anche un accordo commerciale, del quale la stampa di destra si incaricò di magnificare le prospettive miracolose: si fece persino il calcolo dei litri d’olio e delle scatole di sardine che sarebbero toccati a ciascun italiano. Ora risulta che l’accordo commerciale non è stato eseguito e si parla di un nuovo accordo. Perché, signor Ministro, si firmano nuovi accordi, se i vecchi non sono stati eseguiti?
Il comportamento del Governo legittima il sospetto che esso agisca in modo da tornare gradito ai circoli interessati al rafforzamento delle basi internazionali della reazione, ma non nell’interesse nazionale. L’interesse nazionale vuole che il regime franchista sia isolato. L’Italia, nazione pacifica, non ha interesse ad appoggiare un regime che può da un giorno all’altro scatenare una guerra.
È giusto e doveroso, da parte del Governo, rassicurare il popolo italiano, rassicurare quest’Assemblea dove siedono rappresentanti del popolo italiano che coraggiosamente lottarono a fianco dei repubblicani spagnoli, come Luigi Longo, Ilio Barontini, Pietro Nenni, Randolfo Pacciardi, Francesco Leone, Teresa Noce e tanti altri; quest’Assemblea dove siedono uomini come Michele Giua, rinchiuso dai fascisti nell’orrendo carcere di Civitavecchia, mentre il suo figlio prediletto moriva davanti a Madrid.
Il valore dei combattenti antifascisti italiani, che suggellarono col loro sangue il legame fraterno tra l’Italia democratica e la Spagna repubblicana, è valso a riscattar e una delle pagine più turpi del ventennio fascista. Il Governo italiano ha il dovere di rassicurare questi combattenti circa i rapporti che esso intende intrattenere col Governo del generale Franco.
Perseguire una politica d’intesa con questo Governo sarebbe contrario ai nostri interessi nazionali e ci alienerebbe le simpatie dei popoli liberi.
Solo a fianco e con l’aiuto di questi, l’Italia, potrà consolidare il proprio regime democratico, risanare le proprie ferite e contribuire alla difesa della sicurezza e della pace di tutti. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. La seduta è sospesa e verrà ripresa alle 21.30. Sono iscritti a parlare nell’ordine, gli onorevoli Labriola, Calosso, Bastianetto e Bertone.
(La seduta, sospesa alle 20.10, è ripresa alle 21.30).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Labriola, il quale ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea, pure attribuendo alla ratifica il valore di un atto insignificante nell’ordine storico, lo approva e passa all’ordine del giorno».
Ha facoltà di parlare.
LABRIOLA. Io parlo per l’ora e per il numero dei presenti nelle peggiori di tutte le condizioni.
La discussione, come era facile prevedere e forse era anche utile che così fosse, è diventata una discussione generale tanto circa i rapporti che il nostro Paese può avere coi vincitori di questa guerra – vincitori che taluno chiama con un senso evidente d’ironia «liberatori» – quanto nello stesso tempo per esaminare alcuni indirizzi della politica estera che il Paese potrebbe seguire.
Ripeto è appunto utile che questa discussione una buona volta si faccia, perché sinora di politica estera del nostro Paese qui non si è parlato. La questione legale della ratifica del Trattato diventa secondaria in queste condizioni. Gli orientamenti di politica estera, il significato storico del periodo che noi e gli altri membri della società europea attraversiamo, questo può essere appunto un soggetto della discussione, e lo è diventato in effetti. Ebbene, allora permettetemi di fare qualche osservazione a questo proposito.
Non vi è dubbio che gli ultimi cinque anni, e meglio ancora gli ultimi otto anni, quelli che vanno dal 1939 al 1947 possono considerarsi ad un dipresso e, salvo una rettifica che farò di qui ad un momento, gli anni dell’agonia italiana, ma non solo dell’agonia italiana, sibbene di un disordine che prelude all’agonia anche in altri paesi.
Infine, nessuno sfugge alla crisi che il nostro Paese, anzi la civiltà occidentale tutta e forse il mondo intero – parlando del nostro piccolo pianeta – attraversa, e si comprende che anche gli americani abbiano la loro parte nella considerazione di questa crisi. Giacché si è parlato di cataclismi che hanno potuto seguire altri movimenti tellurici della storia politica del nostro povero pianeta, non mi pare che se ne possa parlare negli stessi termini nei quali presentemente noi possiamo parlare della situazione nostra.
La Rivoluzione francese e quello che ne seguì, è nulla di fronte a ciò che ci accade adesso. Del resto la crisi anticristiana aveva toccato soltanto la Francia e qua e là alcuni spiriti eletti del mondo intero, Goethe, Shelley, Byron e il nostro Foscolo, e già si presentiva Leopardi. Ma in realtà le masse si strinsero, subito dopo la rivoluzione, intorno ai campanili ai quali esse erano avvezze ed alle tradizioni monarchiche che avevano fatto il loro corso nella storia. L’indomani della Rivoluzione Francese fu forse uno degli indomani più pieni di vita del nostro mondo occidentale. Cadeva certo l’artigianato e sorgeva la grande industria. James Watt aveva fatto la sua scoperta della macchina a vapore; tutto era nuovo ed una vita intensa e piena di vigore si annunciava. Il secolo V è forse l’unico secolo che ha una analogia col tempo nostro. Nel V secolo l’Impero Romano era crollato; le distruzioni si aggiungevano alle distruzioni; giorno per giorno, qualche brandello della civiltà del mondo cadeva; qualche centro di cultura si spegneva. Eppure, rimasero i conventi, e la regola di S. Benedetto (purtroppo anche questo segno della medievale attività è andato distrutto) se insegnava agli uomini come si prega, insegnava anche come si lavora. Il tempo nostro non suggerisce nemmeno questa illusione; e se oggi qualcuno stesse qui a dire che le cose del mondo nostro andranno in un senso anziché in un altro, ognuno rimarrebbe scettico. Suppongo che nemmeno l’onorevole Togliatti ci potrebbe dire di che cosa sarà fatto il nostro indomani.
E gli americani sentono il contraccolpo della situazione generale. Si capisce che per essi la guerra è stato il più grande affare che essi abbiano mai fatto sin qui. In molti casi ha ragione Lucano quando detta: multis utile bellum. Una statistica americana recente degli anni che vanno dal 1939 al 1943, dimostrava che il reddito medio per abitante dell’America, che era già il primo del mondo occidentale, è cresciuto tre volte; gl’impianti industriali si sono quadruplicati e in certi casi si sono perfino quintuplicati. Che cosa sia accaduto dal 1943 fino ai giorni nostri non si può dire; si può soltanto immaginare che la ricchezza del Paese sia sempre più intensamente cresciuta. Non so dove ho letto, proprio in questi giorni, una curiosa qualificazione di un simile fatto, e un avverbio dice che tutto. Mi pare appunto, in un giornale o in una rivista comunista, si diceva che la ricchezza dell’America è «spaventosamente» cresciuta. È proprio così. Fa parte del paradosso dei tempi dire che. una ricchezza può essere cresciuta in modo spaventoso. Gli americani ne sono turbati. Che cosa occorre fare?
Gli americani giudicano per analogia. Essi nei loro giudizi sono sempre un po’ primitivi. Qualche volta, per le strade di Bruxelles, io e Sforza, nelle nostre ordinarie peregrinazioni, ci trovavamo d’accordo nel giudicare i diplomatici americani. Non so se su questo punto il conte Sforza abbia mutato. Il nostro giudizio non era estremamente lusinghiero per i diplomatici americani; ma forse ora il conte Sforza può avere mutato idea. Io resto dell’avviso di prima. In quelle peregrinazioni brussellesi, dolcissime alla mia memoria, Sforza ed io ci trovavano di accordo nel giudicare non solo gli americani, ma notevoli fatti della nostra stessa vita nazionale.
Mi fermo qui per non apparire concorrente dell’onorevole Nitti nell’accenno a persone o circostanze; per mia fortuna non ho buona memoria e posso lasciare cadere questa parte di varietà diletta ai sistemi oratori dell’onorevole Nitti. Ritornando agli americani, essi nella loro semplicità sono un po’ primitivi; e forse, questa è una delle ragioni della loro forza. Per il momento essi giudicano questa situazione un po’ per analogia con quella del 1929. Del resto, gli uomini non possono che fare degli apprezzamenti per analogia.
Nel 1929 scoppiò quella grande crisi industriale, quella grande depressione industriale la cui storia si scrive ancora adesso; ora, se ne aspetta un’altra. Più precisamente, dopo l’altra guerra ci furono due sovversioni industriali che si seguirono, con ritmo perfettamente contradittorio. Dell’una è rimasto un documento molto interessante, una grossa inchiesta del Bureau International du Travail. Allora, il problema si presentò in senso inverso a quello del 1929, e si voleva comprendere perché i prezzi salissero con tanta forza e diventassero così pericolosamente alti: l’inchiesta è voluminosa – si tratta di sette o otto volumi editi dal B.I.T. – ma non si riuscì ad arrivare a conclusioni concrete.
Poi, sopraggiunse la depressione industriale del 1929, che ebbe carattere esattamente opposto: era una crisi di bassi prezzi. Le industrie dovevano rinunziare a svilupparsi, a tenere aperti gli esercizi; i fallimenti e le bancarotte si susseguivano, perché i prezzi non riuscivano più a corrispondere ai costi, e questi risultavano più alti dei prezzi. Gli americani hanno un simile ricordo nella testa e ne vorrebbero ovviare la ripetizione.
Da qui, il piano Marshall, e poi, il loro intervento nelle cose economiche europee, in quest’ultimo periodo.
È singolare come gli americani siano diventati improvvisamente marxisti, a loro insaputa, si capisce; i colleghi, qui, sulla mia destra ne dovrebbero essere entusiasti. Si attribuisce a Marx l’opinione che le crisi dovessero di volta in volta intensificarsi con ritmo crescente, per sboccare in una depressione generale, che avrebbe reso impossibile la continuazione del movimento industriale, anzi della stessa società capitalistica.
Adesso, gli americani sono entrati in una preoccupazione analoga a quella definita dal marxismo. In parentesi è un marxismo istintivo al quale, senza volerlo, si volgono tutti, anche gli uomini che vengono da una preparazione militare, come il generale Marshall.
Gli economisti non sono affatto di questa opinione, sono molto più ottimisti in materia di crisi e delle crisi non si preoccupano gran che. Gli economisti hanno sempre detto che le crisi sono fenomeni pendolari ed inevitabili dell’economia. Ad ogni modo le crisi, si producono specialmente in una organizzazione privata della proprietà e della industria: in essa ognuno produce per conto proprio, e nella gara della concorrenza, inevitabilmente si produce più di quello che il mercato non possa assorbire e quindi lo smercio risulta in ultimo bloccato.
Ma la crisi è necessaria per risolvere questa ed altre difficoltà nate dell’economia, da cui, poi, la curiosa conclusione che ne traeva il Pareto, cioè che se una crisi si potesse evitare, non bisognerebbe farlo, per non impedire il risanamento dell’industria e della vita dei traffici, per non fare ostacolo ai progressi della tecnica.
Gli economisti, in genere, in questa materia sono ottimisti, da cui un certo loro apparente cinismo, che li rende indifferenti anche a determinate manifestazioni deteriori della vita. E c’è qui del Machiavelli, che studiava i fatti e non si preoccupava del valore morale di essi, piaccia o non piaccia all’onorevole Nitti: ma questo è il sistema del pensar positivo. E perciò è così moderno il Machiavelli. Gli economisti americani queste cose le sanno, ma ciò non toglie che i comuni americani amerebbero volentieri la ricchezza senza le crisi, e lo sviluppo tecnico della industria senza timori per il loro avvenire: è un po’ troppo!
Noi esaminiamo queste cose da un punto di vista europeo, mentre invece per andare al fondo delle cose, dovremmo esaminarle da un punto di vista americano. Notate che l’America si trova, rispetto all’Europa, in una situazione singolare dal punto di vista dell’organizzazione sociale politica. L’America è stata infatti un organismo economico sin dai primi giorni del suo farsi: lo Stato è venuto appresso, cioè l’inverso dell’Europa.
Possiamo ben dire dunque che, per quello che riguarda l’America, si sia determinata una legge di evoluzione precisamente inversa a quella dell’Europa. Noi siamo il continente dello Stato che ci ha premuto e ci preme da tutte le parti; avviene quindi che la più grande parte delle nostre manifestazioni economiche è diretta dallo Stato ed è in funzione di esso. In America invece si è sempre, ed a ragione, detto che sono gli affari a dirigere lo Stato e non questo a dirigere quelli.
L’America, è parso a qualche scrittore, non uno Stato: essa non è che un’organizzazione particolare a sé, coacervo d’istituti, come la stessa Marina militare, che vivono per conto loro e sono più o meno collegati allo Stato: la Banca, i Trust, la polizia, e così via, viventi ciascuno, per conto proprio. La stessa difesa di classe è un affare privato dei capitalisti. Quando il capo sindacale non va, si manda a prelevarlo a casa, si rotola nella gomma liquida, s’impiuma, lo si fa correre a sferzate nelle vie, e poi s’impicca, allo spiccia, senza fascismo, e la cosa è regolata. Si fa la stessa cosa con i negri, un po’ più all’ingrosso, e si linciano secondo necessità.
Infine l’America si è costituita come economia molto prima che fosse costituita come Stato, onde il suo imperialismo ha avuto un carattere differente dall’imperialismo europeo: l’imperialismo americano è stato economico – né poteva non essere economico, appunto perché la costituzione essenziale dell’America era tutta economica. L’imperialismo americano è in realtà la concentrazione industriale e commerciale la quale si serve di mezzi dell’autorità statale per imporre i propri prodotti sul mercato esterno. Creato il mercato esterno, tende poi a difenderlo, spingendo lo Stato a proteggerlo con i mezzi che son suoi.
Questa è stata la forma elementare dell’imperialismo americano sin dal primo giorno, sistema che ha portato con sé tante conseguenze. L’America centrale ne sa qualche cosa, e tutti i casi di conquista imperialistica subiti dalle varie repubblichette dell’America centrale hanno avuto la medesima fisionomia. L’America aveva bisogno di quei territori, l’America aveva bisogno di eliminare determinate concorrenze, l’America si voleva prendere parti di territorio altrui, ed ha fatto il comodo proprio nel Nicaragua, a Panama, a San Salvador, e nelle altre misere repubblichette dell’America centrale, dove già Maya e Aztechi avevano sperimentata la feroce avidità del colonizzatore occidentale.
Molte volte gli americani osano dire che essi sono immuni da imperialismo. C’è modo di intendersi in tutto questo: se si tratta di quella forma di imperialismo che è statale, militare di grandi proporzioni, evidentemente, l’America non l’ha voluta. Del resto, sarebbe mai possibile che un Paese si industrializzi nelle proporzioni in cui si è industrializzata l’America, che un Paese il quale ha avuto questo enorme accrescimento di ricchezza e un movimento economico così intenso, potesse sfuggire all’ultima fase dell’evoluzione storica di questo capitalismo, che è l’imperialismo?
Tuttavia cotesto imperialismo ha avuto una forma limitatamente economica, cioè non militare e di conquista, almeno in grosse proporzioni. L’America avrebbe potuto continuare così; il cosiddetto isolazionismo americano non era che un imperialismo economico americano, un imperialismo non destinato a rompere le linee e i confini del continente americano, rinchiuso nello spazio americano.
L’America degli Stati Uniti aveva dinanzi a sé l’America centrale, subordinatamente l’America meridionale. Ed il primitivo imperialismo poteva rispettare la stessa indipendenza formale, puramente esterna, dei paesi dove essa si esercitava. Tutto questo è durato fino a ieri, ma l’albero del bene e del male tenta un po’ tutti. Anche l’America ha volato assaggiare il frutto dell’imperialismo militare, statale ed ha fatto due guerre. Alla prima non riuscì a dare – quanto alla propria costituzione sociale e allo stato medesimo – una forma imperialistica. Wilson non ebbe fortuna sotto questo aspetto. L’America, tornando all’isolazionismo, non tornò in fondo che al suo storico e connaturato imperialismo economico.
Ma ora l’America ha fatto una grande guerra, l’America ha impegnato mezzi formidabili per raggiungere lo scopo determinato di conseguire una vittoria, in gran parte mercé l’uso di mezzi tecnici e meccanici. L’America si è militarizzata, più di qualsiasi altro Stato del mondo e pare ci provi gusto a militarizzarsi; è perfettamente naturale che in questa fase della sua evoluzione storica, essa passi dall’imperialismo economico all’imperialismo statale e militare. Un orientamento istintivo questo, perché non credo che gli americani si rendano preciso conto di ciò che accade ad essi ed agli altri. Ogni popolo vive delle sue tradizioni e l’America vive della tradizione di essere uno Stato democratico e liberale in sommo grado e perciò alieno da ogni imperialismo militare rivolto alla conquista territoriale. Così un giorno gli americani potranno pretendere che non sono stati imperialisti mai e che non hanno mai tentato di offendere la sovranità di un altro Stato.
Oggi l’America combatte per uno scopo che è inutile dissimularsi: fare dell’Europa un enorme mercato e nello stesso tempo fare dell’Europa, degli Stati europei, i debitori solidalmente responsabili della sola America. Guadagnare un mercato di grandissime estensioni è il primo scopo della politica americana.
Il secondo scopo è di ottenere che questi vari Stati rispondano collettivamente degli obblighi che ciascuno di essi ha assunto verso gli Stati Uniti. Io non escludo la buona fede di questi ultimi, io non escludo che essi vogliano venire in soccorso dell’Europa; sono tanto semplicistici e un po’ fanciulleschi da immaginarselo sul serio. Ad ogni modo, se essi vogliono soccorrere l’Europa, intendono farlo mettendo le spalle al sicuro da ogni possibile inconveniente. Il massimo di essi è che i debitori non paghino. Ma se si crea la solidarietà degli Stati Europei che rispondano l’uno per l’altro, questo sarebbe precisamente ottenere che tutti gli Stati europei rispondessero in solido verso la Repubblica Americana dei fitti o dei prestiti che saranno fatti in misura più o meno variabile. Pongo senza altro questo episodio nell’insieme della particolare evoluzione storica che ha subito l’America passando da uno stato espansionista di pura estensione economica ad uno stato imperialista, come è oggi. Che gli americani non si rendano conto di certe possibili conseguenze dell’evoluzione che essi attraversano, non fa meraviglia. Ce ne siamo resi conto noi stessi nei nostri viaggi americani e se ne è reso conto qualche storico e qualche attento studioso. Anche in America vi sono persone che sono in grado di rilevare quella che può essere la conseguenza di una simile trasformazione politica del paese. D’altra parte, gli americani in gran parte credono con perfetta ingenuità di essere i benefattori del genere umano, i negri non esclusi. Il vero è che vorrebbero risparmiarsi una crisi analoga a quella 1929; in secondo luogo che i paesi europei vogliono rendere il servizio di essere tutti solidalmente responsabili verso il creditore americano. Quello che si potrebbe dire è questo, che gli americani evitino di cadere in qualche massiccio errore e non si facciano illusioni. Tutti gli imperialismi terminano allo stesso modo: con la guerra, e la guerra degli imperialismi è sempre un disastro. Oggi l’America fa l’imperialismo per evitare la guerra. In sostanza, con le parole ci si aggiusta sempre, ma la verità è che essa corre verso la guerra, e questa guerra non può essere che una catastrofe.
Si può ammettere che il piano, o formula, Marshall sia diventato popolare. Questa è la cosa più strana. Noi viviamo in un mondo senza capo né coda. Tutte le cose più ovvie prendono l’aspetto più complicato e le cose più complicate l’aspetto più semplice, e così un sistema come quello di Marshall, così internamente complesso, è parso popolare.
Io pure ho il mio piano. Lo offro con più grande disinteresse. Ripeto: ho anch’io il mio piano per risanare l’Europa e la cosa migliore sarebbe appunto che la gente mi stesse a sentire e fosse disposta ad accogliere le mie proposte. E sono proposte di una semplicità così evidente che, per la solita impopolarità delle cose semplici esso potrebbe essere respinto. L’uomo non ama le cose semplici; è l’ignoto che lo attira.
Il mio piano è semplicissimo. Io dico prima di tutto ai vincitori, ai cosiddetti liberatori (e quanta ironia in questa parola!): lasciateci in pace, andatevene via. La prima maniera perché l’Europa possa tirarsi su, è che voi non la tiriate giù. Voi pretendete che i «vinti» mantengano i vostri soldati, le vostre flotte. Ma non è facile a gente ridotta alla fame continuare a darvi da mangiare. Si direbbe che voi avete creato un ordine per cui gli accattoni devono mantenere i miliardari.
Il primo articolo del «mio» piano Marshall è che i vincitori, i famosi liberatori, se ne vadano. E se ci lasciassero fare troveremmo ben noi il segreto di organizzare la nostra vita. Non certo per molto, ma per una ventina di anni almeno. Tutto sarebbe fondato sulla libertà degli scambi, e per una ventina d’anni forse si riuscirebbe a mantenerla. L’Europa, potrebbe raddirizzarsi adagino da sé molto bene, organizzando nel proprio interno un sistema di libertà economica. Ma no, non si può fare. Abbiamo i trattati di pace che ci obbligano a passare sotto le forche caudine delle famose commissioni, a chiedere permessi, a mantenere nello scialo tanta gente. Pensate a quello che costa all’Italia mantenere tutti questi signori soldati americani e inglesi. Ci volete aiutare? E non aggiungete altre bocche a mangiare il nostro pane e a bere il nostro vino! Andatevene in santa pace e noi organizzeremo la libertà di commercio fra tutti gli stati di Europa: non ci sarà bisogno di altro. Ecco il mio piano.
Qualche collega mi domanda: e il grano? Ma con la libertà di commercio io compero il grano e lo pago. Come lo pago? Con i prestiti, con i denari che già ci sono. E poi non si deve dimenticare che dell’Europa fa parte anche la Gran Bretagna, più o meno, e potremmo dunque utilizzare le sue risorse. (Interruzioni – Commenti). Il carbone può darlo l’Inghilterra e può darlo specialmente la Germania, purché non vogliate distruggerla. Se la Germania potrà disporre dei propri mezzi, tutto sarà diverso, e la libertà darà i suoi frutti.
In verità il piano Marshall può essere esaminato da tanti punti di vista quanti sono i paesi europei e inteso in tante maniere differenti.
Oggi si parla dell’Unione europea. Essa è già diventato il ritornello adoperato da tutti.
Ogni epoca ha le sue formule favorite: in ogni epoca c’è una formula che è il passe-partout di tutte le ambizioni, di tutte le idee. Oggi l’idea a grande popolarità è appunto quella di una unione europea e l’America ci spinge a fare questa Europa unita e concorde. Per me l’unione europea risponde a quell’istinto dell’imperialismo americano il quale consiste nel creare un grande mercato europeo, un grande mercato di cui l’America possa liberamente disporre e risponda alle sue esigenze di avere territori, i quali siano solidalmente responsabili di ciò che hanno ricevuto.
Ma mi parlate dell’Unione europea! Ma che specie di unione può essere questa la quale comincia a significare l’esclusione della Germania?
Chi legge i giornali francesi, sente l’opinione politica dei giornalisti francesi ed anche dei socialisti, avverte in che modo è desiderato e voluta la soppressione della Germania.
I problemi storici non sono problemi…
Una voce a sinistra. Lei esagera!
LABRIOLA. Basta leggere i giornali per comprendere come la Francia desideri la distruzione della Germania. Né più né meno si mira ad estromettere la Germania dall’Europa.
Una voce a sinistra. Non dai socialisti francesi.
LABRIOLA. Di questo parleremo appresso. Mi pare di non poter ammettere senz’altro che non ci debba essere una parola di giustizia per la Germania, almeno di pietà e di commiserazione.
Io non sono di quelli che dicono: i popoli non si cancellano dalla carta geografica. Io non partecipo a questa opinione: «la Germania è un grande Paese, ha la sua filosofia, la sua arte ecc. ed uno Stato simile non si può distruggere, cancellare nell’epoca moderna».
Forse l’unica umanità di fronte a cui ci dovremmo inchinare è quella dell’America precolombiana: i Maya, gl’Incas, ecc.
Questa umanità ha perduto la sua lingua; ora nella lingua maya non esistono che tre manoscritti; e nessuno li sa leggere più. I popoli possono sparire e la Germania potrebbe essere distrutta.
Una Europa alla quale togliete la Germania, una Europa alla quale date una Russia, che si estende dal Pacifico all’Adriatico e che ha ripreso vittoriosamente il programma di Gengis-Khan, che razza di Europa è? In tali condizioni non c’è più, non può esserci una Europa. Peraltro aggiungo che questa Europa non l’ho mai conosciuta. L’Europa è tipicamente una espressione geografica, per una parte del continente asiatico.
Basta fare quattro passi in Europa per trovare, ad ogni passo, una lingua diversa, una religione, non proprio ad ogni passo, ma in gran parte, una religione diversa, e, indiscutibilmente, una cultura diversa.
L’Europa è quella che è: cioè è stata la madre della civiltà occidentale; ha dato al mondo le regole più alte del pensiero astratto e quelle della vita comune. Ma essa è stata sempre divisa; la concorrenza fra i vari Paesi e le varie parti di questo Continente che ha fatto la sua permanente sussistenza e vitalità storica è la ragione per la quale l’Europa non ha mai dovuto apprendere nulla dagli altri, salvo poche nozioni, di alta matematica, dagli indiani e dai persiani, che ne furono tramite; tutto il resto se l’è creato da sé.
Ciò che riguarda l’occidente è europeo, nel senso beninteso che si tratti di ciò che esiste in Europa; non c’è in nessun luogo una lingua europea e neppure una razza che può dirsi nata in Europa, originariamente. I soli europei nati in Europa sarebbero quelli di Cro-Magnon, un vero ludibrio della nostra specie.
Noi siamo asiatici o africani; nulla c’è in noi di originariamente europeo.
Ma l’unione dell’Europa è impossibile. La forza dell’Europa è la sua disunione; fatene un solo organismo uniforme, e la sua consistenza spirituale e morale sarà perduta.
Noi siamo un Continente nel quale ciascun popolo esiste per sé ed ha fatto il suo dovere di fronte all’umanità. Non conosco un piccolo popolo dell’Europa, il quale non abbia servito l’Europa: persino gli albanesi hanno avuta la loro parte, almeno da quando si sono europeizzati. Non conosco popoli insignificanti sul terreno europeo. Un collega parlava della Svizzera, ma veramente la Svizzera non è un popolo; o un piccolo popolo; essa è un insieme nato da altri popoli che hanno un’esistenza particolare.
L’Europa ha lavorato per l’umanità, ed in questo l’Italia è stata essenzialmente europea. L’ingratitudine altrui è forse il vero riconoscimento dell’importanza dell’opera nostra.
E con questo siamo entrati nella faccenda della ratifica.
Accennavo qualche giorno addietro, quando l’Assemblea non era disposta a stare ad ascoltare, che il Trattato va considerato come un mucchietto di sassi o d’immondizie che possano ingombrare la strada. Un colpo di piede e ce ne liberiamo. La ratifica non è che il colpo di piede che ci libera dalla immondizia. Non possiamo prescindere dal Trattato. Esso c’è, bisogna ratificare. Il mondo non è stato mai giusto con noi e, suppongo, non lo sarà mai. Noi siamo i figliastri della storia, e perciò appunto vorrei che ci tenessimo stretti ai nostri valori storici.
Mi è dispiaciuto il cenno fatto dall’onorevole Nitti a proposito del Machiavelli, che è stato l’unico italiano nel Cinquecento, italiano dalla testa ai piedi. Accanto a lui non c’è che il prete Genoino della Repubblica di Masaniello, che era un povero pretonzolo al quale, pur parlando perfettamente latino, nessuno dava retta. Il Machiavelli è tutto italianità: un pensiero solo di italianità, l’anima stessa dell’italianità e di lui si dovrebbe sempre parlare con alto rispetto. Ed è il solo che abbia proposto agli italiani una vera unità. L’onorevole Nitti citava un episodio, di cui non ho trovato conferma in nessun scrittore, dal quale sarebbero risaltate certe minori sue capacità in materia militare, appunto nei rapporti con Giovanni dalle Bande Nere. Vi farò osservare che Machiavelli e Giovanni dalle Bande Nere sono morti nello stesso anno: nel 1527. L’uno, Giovanni dalle Bande Nere aveva 29 anni: l’altro, Machiavelli, 59 o 60 anni. Ciò vuol dire che all’epoca in cui il Machiavelli concepiva i suoi disegni di milizie stabili, che voleva opporre alle milizie mercenarie, era poco probabile che avesse da consultarsi con Giovanni dalle Bande Nere.
In tutta la sua esistenza il Machiavelli una sola volta ha potuto pensare a Giovanni dalle Bande Nere: al tempo della Lega di Cognac, nel tentativo di creare una unità italiana che si poteva realizzare contro la Spagna e quindi contro l’Austria, e che si sarebbe potuta concretare, se il marchese del Vasto non avesse tradito, denunciando l’esistenza della Lega, facendo così in modo che pochi armati si poterono riunire e così furono battuti. Si poteva pensare che Giovanni dalle Bande Nere divenisse il capo degli eserciti riunitisi a Cognac, e tale fu l’idea, presto smessa dal Machiavelli. Faccio riflettere che quali che siano stati i rapporti tra Giovanni dalle Bande Nere e il Machiavelli, restano gli ultimi due capoversi del I libro delle «Storie Fiorentine» in cui il Machiavelli condannava in modo violento e decisivo i capitani di ventura italiani, i mercenari di ogni specie e denunciava quella specie di guerre che essi conducevano, come ludibrio dell’arte militare, e non eccettuò dal suo giudizio Giovanni dalle Bande Nere.
Del resto, comunque stia questo episodio, il nostro dovere è pregiare i nostri uomini, e non umiliarne la memoria con ricordi incerti e controvertibili. Ad ogni modo, dopo 420 anni, il Machiavelli è sempre vivo fra di noi, e può accendere vivaci polemiche. Fra 420 anni, chi si ricorderà degli attuali omuncoli della politica italiana?
E ritorniamo alla ratifica. Diamola col gesto medesimo col quale si sgombera la nostra strada da un cumulo d’immondizie. Diamola, ma conserviamo la nostra fierezza e tutta la nostra forza.
Quest’episodio della ratifica, queste discussioni intorno alla formula Marshall, sono servite ad ogni modo ad orientarci verso il problema di una politica estera italiana. Qui incominciamo a percorrere un terreno un po’ difficile. Non voglio dire male di nessuno e prego l’onorevole De Gasperi di non pensare che io sia un suo malevolo e particolare avversario. Non voglio dire nessuna parola che possa essere sgradevole per il conte Sforza, che fu mio uditore a Bruxelles. Coloro che insegnano dalle cattedre conservano sempre inclinazione e simpatia per coloro che li stanno ad ascoltare, anche se di ascoltatori non ce ne siano molti, come questa sera. Io non ne avevo molti, ma avevo fra i miei uditori anche il conte Sforza.
Ritornando alla politica estera italiana, sorge una prima questione: vi fu una politica estera italiana? Il conte Sforza e l’onorevole De Gasperi, se vorranno onorarmi di una risposta, diranno che non era possibile averne una perché, fra le altre cose, l’armistizio ce lo vietava. Siamo d’accordo. L’armistizio impediva tante altre cose, ed impediva anche di fare una politica estera. Ma altro è fare una politica estera, altro è avere degli orientamenti in materia di politica estera e creare degli indirizzi che poi il Paese, in maggiore libertà, potrà seguire da sé.
Io sono dell’opinione che la politica interna serva soltanto a formare la base della politica estera. La politica interna deve tenere in efficienza un popolo, perché al momento opportuno i suoi rappresentanti diplomatici e militari possano servirsi di questo popolo per raggiungere le finalità ultime, che la storia assegna ad un popolo. Ad ogni modo, noi una politica estera non potevamo fare, anche perché avevamo al potere tre partiti diversi, con tre diversi orientamenti: cattolici, socialisti e comunisti. Basta forse fare questa enumerazione per comprendere che una politica estera italiana non si poteva fare. C’è un primo periodo della politica estera post-liberazione, dopo la resa delle forze militari tedesche dell’Alta Italia, in cui vi fu una politica estera che fu rappresentata dall’onorevole Nenni. Egli suppose che poiché, come socialista, aveva certe opinioni, i socialisti di altri paesi dovessero aiutarlo, per sostenere la sua parte nel proprio Paese.
I giornali ne parlarono, a Londra. Allora, c’era l’armistizio, ma non si supponeva che ci sarebbe stato imposto quel Trattato di pace. Suppongo che il Nenni tentò di ottenere quel poco che poteva, ma suppongo altresì che si accorse, allora, di una cosa: che non c’è politica estera socialista, comunista o papalina, c’è una sola politica estera: quella del Paese e quella dello Stato. Perché bussate alle porte dei socialisti per dire loro che siamo fratelli e vogliamo realizzare la fraternità dei popoli, e perciò non avversateci? Essi vi risponderanno: «Avete perduto una guerra e dovete pagare». Il che dimostra che non si può fare una politica di Stato senza fare una politica nazionale.
Si parlò nell’altra guerra del fallimento dell’internazionalismo socialista. Credo che non sia così: i socialisti non avevano in mano nessuna forza, essi non potevano obbligare i popoli, gli Stati e nemmeno i loro seguaci a fare la politica che a loro piaceva.
Si parlò del fallimento dell’internazionalismo socialista. Devo dire onestamente – io che non fui d’accordo coi socialisti di quel tempo, allora contrari all’intervento in guerra – devo dire che non si può fare questa accusa ai socialisti. Bisognerebbe accusare di malafede coloro che non si rendono conto di ciò che sia un passaggio da una posizione ideale ad un’altra. Il socialismo è un partito, in uno Stato e, quando i socialisti sono chiamati a far parte del Governo, fatalmente, necessariamente, perdono la loro posizione di internazionalisti. La cosa più interessante è quella di vedere la ferma confessione di nazionalità che fanno nei diversi paesi i socialisti.
I socialisti una volta erano ferventi fautori dell’internazionalismo e dettero pure qualche bellissima manifestazione dei loro sentimenti in epoca remota.
Nel 1870 Liebknecht e Bebel affermavano che l’Alsazia era francese. Anche altri uomini di parte socialisti e tedeschi costantemente affermarono il carattere francese dell’Alsazia; ma i socialisti francesi non hanno restituito il servigio ricevuto dai tedeschi. Da loro avrei voluto aspettarmi qualche parola di tardiva riconoscenza, e nulla essi hanno fatto in difesa della Repubblica tedesca. Oggi i socialisti di tutti i paesi danno un ben tardivo esempio di esasperato riconoscimento dei valori nazionali.
Non si può fare una politica se non nazionale, quando ci si trova al potere. Oggi al potere sono i socialisti, ed essi si adoperano a favore d’una politica che io, già loro avversario su questo punto, non manco di trovare esasperatamente nazionale, non diciamo nazionalista, per non fare dispiacere a nessuno, ma quell’affisso si stacca mal volentieri dall’aggettivo corrispondente…
Ad ogni modo, chi sta al potere non può fare una politica ideologica corrispondente a principî di partito. In materia per lo meno di politica estera, deve necessariamente fare una politica che dirò statale e nazionale.
E allora voi, mi domanderete: qual è la conclusione?
Che cosa ci proponete?
Ebbene, essa si compendia in una parola: aspettare. Aspettare. L’Italia ha aspettato quattordici secoli, fino al 20 settembre 1870, per costituirsi in unità e nel 1870 ha visto sorgere il suo assetto unitario. Noi possiamo ancora dunque bene aspettare ancora, forse, venti anni per veder tramontata la sostanza di questo ridicolo Trattato. Un’Europa senza la Germania non è un’Europa; l’Europa oggi è un grande caos, è un tremendo disordine. Questo disordine non può essere permanente; verrà il momento in cui potremo rispondere a coloro che ci hanno messo in questa condizione, con le parole di Molière: Tu l’as voulu, Georges Dandin.
Vi avevamo offerto una riconciliazione; ci avete imposto una punizione. La punizione è scontata, ed ora tocca a voi guardarvi. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.
È iscritto a parlare l’onorevole Bastianetto. Ne ha facoltà.
BASTIANETTO. Onorevoli colleghi, esiste un gruppo di deputati mutilati di guerra: siamo esattamente in 16. Ma io non intendo parlare anche a nome dei colleghi, perché di fronte a così grave problema, reputo che ognuno debba pensare e pronunciarsi come meglio crede.
Io però personalmente, come mutilato di guerra che ha combattuto, nell’altra guerra, per la liberazione di Trieste, e che ha combattuto proprio con i ragazzi del 1899, sento questo bisogno di dire una parola, non tanto per voi colleghi, quanto per rispondere alla mia coscienza, all’anima mia, che non sa immaginare come, votando questa ratifica, si possa essere tacciati e da una parte quasi come traditori della Patria e dall’altra quasi traditori del popolo.
Ora, per un uomo, per una persona che ha avuto coerenza nella sua vita sempre ed ha combattuto per la Patria, sacrificando anche parte della propria vita, dando una mezza dozzina di costole – posso dirvelo – proprio per la conquista di Trieste, è prorompente questo bisogno di reazione. Se in quella prima guerra si è sofferto per Trento e Trieste, in questa seconda, combattendo come partigiani, si comprese che la sofferenza era per un altro altissimo ideale, l’ideale di una sistemazione civile, non soltanto nazionale, ma internazionale; e combattendo proprio accanto ad amici partigiani che ci sono caduti quasi accanto e che tengo a ricordare, uomini d’ogni partito: Cantarutti, Viviani, Frausin di Trieste, Mauci di Trento, Fraccon e Rizzo ed altri ancora, amici, coi quali si parlava, si discuteva del futuro dopoguerra e di una migliore società di popoli.
L’avere combattuto due guerre, l’avere sperimentate tante sofferenze, tutto questo sarebbe stato vano, perché oggi accettando questo Trattato, dando il consenso a questa carta che chiude un passato, si correrebbe quasi il pericolo di essere tacciati come dimentichi dei propri doveri verso la Patria e verso il popolo. In maniera, che l’amico Pecorari, che ha nel cuore la sua Trieste, correrebbe pericolo di essere tacciato di tradimento. E perché tutti noi abbiamo questo sentimento di Patria, profondo nel cuore e perché noi abbiamo tanto sofferto in tutti questi anni, tutti, dovremmo avere questa incertezza nell’approvare questo Trattato.
Voglio perciò rispondere a questi due interrogativi della mia coscienza, anche perché le argomentazioni che avete udite in questa Aula in questi giorni, sono quasi tutte o su una falsariga di nazionalismo, un po’ superato dagli eventi, oppure su una falsariga di un diritto internazionale superato dalle nuove concezioni della comunità dei popoli; e allora mi riallaccio a questa vita internazionale nuova, che è scaturita da questa guerra, da questo conflitto, da questa conflagrazione, da questo cataclisma, perché, non nascondiamoci che quest’ultima non è stata una guerra; e quindi fa ridere sentir parlare di trattati, di convenzioni di altre guerre, di un altro passato e citare uomini e cose che non hanno niente a che fare col cataclisma che abbiamo sofferto. Questa guerra è qualche cosa di più grande, di più potente nella storia dell’umanità e di fronte alla coscienza di tutti i popoli.
Per questo è doveroso e giusto di trovare in questo dopoguerra e in tutti questi eventi quello che deve essere il filone conduttore, il filone d’oro, che deve tranquillare la nostra coscienza di cittadini e deputati nell’accettare questo trattato. E vi dico subito che la cosa che più mi ha impressionato in tutti questi discorsi è proprio questa falsariga di un vecchio diritto internazionale, basato sul diritto di guerra che può dirsi per sempre tramontato.
Ricordo quando ci pervenne, durante il periodo di occupazione nazista, la prima notizia dell’incontro di Teheran. I giornali accennarono a Teheran molto sommessamente; invece, attraverso la Jugoslavia ricordo che un giorno ci pervenne un fogliettino dove c’erano le conclusioni di Teheran: l’incontro di Roosevelt, Churchill e Stalin. Teheran è la prima pietra di un nuovo mondo che è sorto. Questo documento non l’abbiamo dimenticato, perché, quando eravamo sotto i nazi-fascisti e sotto le sofferenze, allora, mi ricordo che questo incontro di Teheran ci è parso come una stella, come qualche cosa che sorgesse sull’orizzonte: i tre grandi che si incontravano, certamente non soltanto delle cose di guerra avrebbero parlato, ma anche della liquidazione della guerra, e non solo della liquidazione della guerra ma della sistemazione del mondo.
Poi ci fu la conferenza di Mosca e poi la conferenza di Yalta, dove maggiormente si ebbe l’impressione che si fossero discussi i particolari della conclusione della guerra. Ma dopo Yalta si è vista subito l’impostazione di San Francisco, ed anche questa impostazione di San Francisco fu una speranza per tutti i popoli soggetti al nazi-fascismo.
Oggi si è dimenticato tutto questo, e nella Russia o nell’America si vede soltanto una minuscola parte di quella che è la loro vera sostanza la realtà di due grandi popoli. Soprattutto nell’America non si vede che capitalismo; mentre invece essa, preparando in cinque anni un esercito per l’Europa, una flotta nel Pacifico e nell’Atlantico, ha dimostrato di avere per meta la libertà e la vita e il riassetto dell’Europa e del mondo.
Così la Russia: della Russia non si vede che un lato, quello politico, ideologico, mentre essa è qualcosa di più. La Russia ora possiede Lituania, Estonia, Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria; ha aspirazioni in Persia, speranze innominate in Cina e in Giappone.
Quando Roosevelt, Churchill e Stalin si sono incontrati a Teheran e a Yalta e quando i loro ministri a San Francisco si sono messi d’accordo di scrivere una Carta, quella Carta significava qualcosa di più di quello che s’è detto qua dentro.
Perché, onorevoli colleghi, se nel campo del diritto privato, ad un dato momento si è sentito il bisogno di far giudicare le liti non dalla violenza ma dal diritto e si è sentito il bisogno di un magistrato e del giudice togato, nella lotta fra i popoli, nella lotta innazionale si deve arrivare al giudice, se non togato, almeno imparziale.
San Francisco ha dato un nuovo orientamento alle nazioni. Ma a torto da qualcuno si è obiettato: non è successo lo stesso con Ginevra e la Società delle Nazioni?
No, onorevoli colleghi, assolutamente no, perché la Società delle Nazioni del 1919 aveva un difetto fondamentale: non aveva la minima intaccatura del diritto di sovranità: ognuno era libero di fare o disfare. Nella nuova comunità dei popoli bisogna che ognuno sacrifichi qualche piccola parte del suo diritto sovrano. Questa Assemblea ha votato un articolo della Costituzione che suona in certo senso rinuncia al diritto di sovranità. Dai discorsi invece fatti in questi ultimi giorni parrebbe che la sovranità fosse un bene da non toccare, si è dimenticato cioè il concetto espresso pochi mesi fa.
Creata pertanto la nuova organizzazione delle Nazioni Unite, questa Carta di San Francisco ha significato un nuovo ordine di giustizia internazionale. Quando a Parigi si creò la prima Commissione dei Cinque e poi quella dei Quattro Ministri degli Esteri e poi quella dei Ventuno e poi il Consesso che doveva vedere al Lussemburgo, non si fece che mettere in atto altrettanti organi del nuovo diritto internazionale.
Ma quello che maggiormente dobbiamo notare è questo: che quando si discuteva dopo San Francisco sul come finire la guerra, si scoprì che fra la guerra 1914-1918 e la guerra ultima c’è stata questa differenza fondamentale: che la guerra del 1914-1918 si concluse prima col Trattato di pace e poi con l’organizzazione della Società Internazionale; questa guerra si è invece chiusa prima con la formazione della organizzazione internazionale e poi coi Trattati di pace.
Questa nuova impostazione geniale del nuovo ordine fra le nazioni è stata stabilita a Teheran e ad Yalta e si è concretata nella carta di San Francisco.
È sorta così l’O.N.U., come una specie di superstato, avente la possibilità di dirimere controversie internazionali e in primo luogo la maggiore di tutte la guerra che allora finiva.
Si previde fin d’allora che i trattati di pace avrebbero avuto il carattere delle sentenze.
Quindi niente trattati e neppure diktat. Il diktat fa pensare al chiodo tedesco. Quando ci si trova di fronte ad un collegio giudicante, l’elaborato è una sentenza, non un diktat, e nemmeno un trattato. Questa discussione sulla sentenza è già trapelata altre volte; ed ho piacere di ricordare che la prima istruttoria si è svolta a Londra, quando De Gasperi vi si presentò per la prima volta, davanti ai cinque ministri degli esteri. Poi è stata definitivamente elaborata al Lussemburgo in Parigi. Ricordo come è stato trattato De Gasperi a Parigi: egli era come un imputato, pallidissimo, fu fatto entrare nell’aula per deporre e poi fu riaccompagnato fuori dell’aula.
Si tratta tanto di una sentenza che il preambolo ne ha tutti i requisiti. Sicché accettando questa tesi possiamo ben intravvedere la possibilità della revisione. La revisione viene per conseguenza. E non sarà difficile poter dire che si sono dimenticate cose vitali per il nostro Paese. Proprio in questi giorni io accennavo all’onorevole Sforza che si sono dimenticati resistenza del mare Adriatico. Hanno disposto cioè di provincie e di città, ma senza tener conto del mare Adriatico; di questa imponente entità economica a se stante, ove si svolgono i cicli di pesca.
Dico dunque che se noi impostiamo su queste basi il problema della ratifica, abbiamo una prima giustificazione per la nostra coscienza.
Non è da pensare che il Governo per firmare abbia bisogno di promesse o di minacce. Non c’è bisogno di esaminare quelli che possono essere i rapporti tra il nostro Ministro degli esteri e le altre Potenze. È la semplice logica che porta a pensare che non c’è bisogno di tutto questo. Perché? Perché prima di parlare del piano Marshall bisogna esaminare anche la conferenza di Mosca. A Mosca, nell’aprile scorso, non si sono trattate quelle questioni economiche continentali europee che ora si vedono esaminate a Parigi? Ma a Mosca ci si è arenati nelle questioni della Germania, dell’Austria e allora si parlò di fallimento della conferenza.
Ma Marshall a Mosca è andato da Stalin, prima di lasciare la conferenza. Penso che in quell’incontro debba essere avvenuta la frattura o per lo meno la presa di posizione.
Tornato in America, Marshall, rivolto agli europei, ha press’a poco detto: datevi la mano cercate fra di voi una sistemazione economica europea. Noi americani siamo qui per aiutarvi.
In questo gesto io vedo il ritorno della politica americana nel suo binario tradizionale. Lo ricordo a me stesso: la politica estera degli Stati Uniti è una politica lineare che comincia con Washington, prosegue con Lincoln, e Monroe, va fino a Wilson, poi trova in Roosevelt l’organizzatore della vita internazionale. Ma Marshall torna alla politica che non vuol troppo ingerirsi dei problemi europei: l’Europa s’incammini da sé. Marshall non fa altro che additarle una via.
Il piano Marshall ha, per me, solo questo significato. Sarebbe lo stesso che domani la Russia proponesse un suo piano. Nessuna meraviglia. Un piano russo comprenderebbe tutti gli stati del centro europeo ed i Balcani. Lo vedremmo e lo discuteremmo. Quello che è certissimo è che la politica italiana si delinea oggi magnificamente su un nuovo indirizzo che ha del grandioso, del provvidenziale; è la politica che non è né per un piano né per l’altro, né per l’Oriente né per l’Occidente, ma è vera, sana e giusta politica europea. Ed allora, se veniamo a questo punto, pensando alla politica europea, noi vediamo la soluzione di tutti questi problemi. Perché oggi l’Europa con i suoi 400 milioni di abitanti non è a dire che sia una prigioniera – cioè la prigioniera dei tre Grandi che se la dividono: Inghilterra, America e Russia – ma sotto un certo punto di vista è quella che tiene prigionieri i tre Grandi nel suo territorio; perché oggi la sua situazione politica diplomatica ed economica è tale che la situazione sta quasi per invertirsi in questa realtà che ha quasi del drammatico: sono i tre prigionieri dell’Europa.
E spiego: tutti e tre hanno bisogno di vedere questa soluzione europea. Perché hanno bisogno di vedere questa soluzione europea? L’Inghilterra ne ha bisogno, perché nel suo Commonwealth non trova la situazione che aveva un tempo; ne ha bisogno l’America, perché deve tornare alla sua politica tradizionale monroiana, ne ha bisogno la Russia, perché non può stare con questa spinta in Occidente, quando nella storia si sono viste che tutte queste spinte hanno avuto il loro ritorno, sia con Caterina che con Alessandro I.
Ma, a parte questo accenno storico, vi è la realtà economica. Ecco l’incontro di Parigi. Ecco tutti gli incontri che dovremmo fare con tutti gli Stati viciniori per risolvere questo problema, ed allora – e mi auguro che questo succeda – se l’Italia nostra si metterà decisamente su questa strada, in questa politica europea che non guarda né a destra né a sinistra; avremo l’applauso di tutti i popoli di Europa; aggiungeremo nei nostri cuori alla grande Patria Italia la grande Patria Europa; vuol dire per noi avere la possibilità di rifare l’avvenire nostro. Non c’è dubbio in questo: con questa politica avremmo la possibilità di risolvere il problema triestino quello di Tunisi e quello di Tenda e Briga, quello delle nostre colonie, quello dell’emigrazione ed ogni altro problema interno.
Mettendoci su questo piano, vi è senza dubbio tale possibilità. Ed allora, se noi abbiamo la forza di seppellire il passato accettando il Trattato, diventeremo perno di tutta una situazione nuova. Ma per avere questa forza ci vuole coraggio; ed hanno torto quelli che hanno rimproverato l’ottimismo del Ministro degli esteri. Io dico che questa è la sola strada buona; e, camminando in essa mi sento con la coscienza a posto. Tutte le idealità, che temevo in pericolo, trovano la loro giustificazione in questa grande speranza: trovano la giustificazione in questa nostra funzione europea. Sento che approvando il Trattato, non tradisco né la Patria né il popolo; sento che faccio il mio dovere.
Bisogna seppellire tutte le nostre disavventure e sulla pietra tombale ricordare questo passato e i suoi laudatori vecchi e giovani. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bertone. Ne ha facoltà.
BERTONE. Onorevoli colleghi, ieri l’altro l’Assemblea, in una dimostrazione plebiscitaria, ha acclamato l’ordine del giorno Badini Gonfalonieri firmato da oltre 200 deputati di ogni settore di questa Assemblea, ordine del giorno che auspica la revisione delle clausole del Trattato che hanno mutilato il confine occidentale. Mi sia consentita in aggiunta, una breve dichiarazione che varrà come anticipata dichiarazione di voto, dichiarazione il cui sentimento, mi lusingo sia condiviso da tutti i colleghi non solo del nostro Piemonte, ma anche delle altre Regioni. In verità noi piemontesi e specialmente i piemontesi della provincia di Cuneo, siamo un po’ come i Giuliani del confine occidentale e la nostra amarezza è giustificata e comprensibile.
Noi, del gruppo democristiano, approveremo il mandato al Governo di ratificare il Trattato, nel modo e nelle condizioni previsti nel disegno di legge sottoposto al nostro esame. Siamo convinti che la soluzione adottata è la migliore che, nelle dure contingenze in cui trovasi l’Italia, potesse proporsi.
Una nostra approvazione prima che il Trattato avesse la ratifica delle quattro Potenze proponenti, implicava, o quanto meno poteva lasciar presumere, una manifestazione di volontarietà, manifestazione che sarebbe stata in contrasto con la logica, con la inderogabile reazione nostra ad un Trattato che stimiamo ed è ingiusto, contrario alle solenni promesse elargite nella Carta atlantica ed in altri documenti, contrario ai principî della giustizia e della morale internazionale. Il nostro mandato al Governo di ratificarlo quando lo abbiano ratificato tutte e quattro le Potenze proponenti, dal qual momento il Trattato entrerebbe in esecuzione anche in nostra assenza, ha portato la questione su un ben altro piano. La esecuzione del Trattato, portante anche la nostra ratifica, non vulnera più, nelle condizioni in cui noi ratifichiamo, la posizione dell’Italia, che è di resa ad un atto imposto, divenuto imperativo ed eseguibile per il fatto che le quattro Potenze lo hanno ratificato.
Ma non è d’altra parte dubitabile che la dimostrazione della nostra buona volontà di compiere una formalità prevista nel Trattato, e desiderata dalle quattro Potenze, apre e deve necessariamente aprire la strada a spiragli di luce che finora ci sono stati preclusi e tali potrebbero ancora rimanere.
Ciò è stato ben chiarito dalle spiegazioni date dal Governo e dai discorsi qui tenuti dai vari oratori. Ogni mia parola al riguardo può diventare perciò superflua. Ma un raggio di luce gli italiani tutti, e noi del Piemonte in specie, delle provincie di Torino e di Cuneo, vogliamo credere sia per venire circa i nostri rapporti con la Francia.
Le mutilazioni di confine sono quelle che più ci fanno soffrire. Briga, Tenda, Moncenisio, senza contare le cime dei Monti Clapier Gelas, Maledia, Pagarì, cime familiari alle nostre escursioni alpine, tutte italiane, in territorio che fu sempre italiano, sono spine acute e dolorosissime piantate nel nostro fianco: e fino a che ci sono, vano ed illusorio è sperare in una pacifica, fraterna collaborazione per il restauro delle comuni rovine, quale da tutti, da ogni parte e di ogni parte, si auspica.
Anche il modo come questi territori ci sono stati tolti, ha aggravato la offesa. Nella prima fase delle trattative, febbraio 1945, di queste rivendicazioni dalla Francia, non si era fatta parola. Erano i popoli, rappresentati dai rispettivi Governi, che trattavano. Fu solo un anno dopo che esse si affacciarono: al Governo di Francia erasi affiancato, o meglio sovrapposto, lo Stato Maggiore: da allora, per il sentimento non vi fu più posto. Gli sforzi tenaci, insistenti, accorati, del Governo italiano, e in specie del Presidente, onorevole De Gasperi, che pagò sempre di persona nella dura ed estenuante lotta, a nulla valsero, come a nulla valsero, per il Moncenisio, trattative tra i dirigenti dei maggiori gruppi elettrici delle due nazioni, trattative ispirate alla obiettiva valutazione dei comuni interessi, e che ad un punto parevano vicine a concludersi. Sotto il pretesto di necessità geografiche e militari, Briga e Tenda e le Alpi Marittime che ho poco fa indicate, e il Moncenisio ci sono strappati, e le conseguenze sono tali da creare in noi uno stato di angoscia permanente.
È inutile chiudere gli occhi. La porta di casa nostra, con la perdita di Briga e Tenda e delle principali punte delle Alpi Marittime, è aperta alla aggressione ed alla invasione. E intanto le popolazioni dei territori perduti, che ancora poco tempo fa, in libero plebiscito, affermavano la loro italianità, sono ridotte alla disperazione. Perché esse potranno, sì, conservare la cittadinanza italiana, ma la Francia potrà esigere che entro un anno dalla opzione si trasferiscano in Italia. Tragica alternativa fra la rinuncia dei nostri fratelli alla patria, e la rinuncia alla casa dove son nati ed hanno vissuto, al campo fecondato col loro sudore, alle tombe dove giacciono i loro morti.
Le centrali elettriche di San Dalmazzo, La Mesce e Confine passano alla Francia, e da essa dipenderà la fornitura e il prezzo dell’energia, garantita solo per 14 anni, cioè fino al 1961. E dopo? Non sappiamo. Questa energia alimenta gran parte degli stabilimenti industriali della Liguria, dove lavorano centinaia di migliaia di operai.
Più grave la situazione al Moncenisio, dove il lago, che è interamente sul displuvio italiano, passa in proprietà della Francia, con la centrale Grande Scala e la stazione di pompaggio. Non ho bisogno di dire quale tremendo pericolo costituisca per il Piemonte il possesso in mano altrui di un lago artificiale della capacità di 30 milioni di metri cubi d’acqua, che, in caso di rovina della diga di sbarramento sommergerebbero tutta la vallata di Susa, Rivoli, fino a Torino, portando distruzione e morte in una plaga fra le più ricche ed operose del Piemonte, per industria, agricoltura e densità di popolazione.
Si tratta di un’opera grandiosa, dovuta al genio costruttivo ed al lavoro italiano; la perdita di essa è una ferita insanabile. E dover chiedere alla Francia la fornitura della energia che alimenta i nostri grandi stabilimenti industriali piemontesi, e pagarne il prezzo secondo le tariffe francesi, non si può negare che sia un’umiliazione cocente.
Orbene, noi vediamo il nostro ingresso nel complesso delle nazioni vincitrici, in virtù del Trattato di pace anche da noi ratificato, come un sicuro auspicio ad una revisione che confidiamo non possa non essere ravvisata giusta e necessaria dalla Francia, ed aiutata dalle altre Nazioni. Se dobbiamo andare verso un domani di collaborazione economica e spirituale, forza è che con buona e reciproca volontà si tolgano le spine, si eliminino gli ostacoli che si sono con questo Trattato frapposti fra i due popoli, sì che essi si avvicinino con cuore aperto.
La nostra ratifica al Trattato è indubbiamente una spinta all’avvicinamento, allo scambio di vedute, all’esame di problemi interessanti le rispettive economie. Ed il problema di confine ingiusto e violato sarà sempre, e non potrà non esserlo, presente.
Italia e Francia sono portate, dalla loro posizione, dalle tradizioni, alla mutua comprensione dei rispettivi bisogni. Dobbiamo tradurre in realtà la istintiva, sincera, secolare aspirazione dei due popoli.
Con la nostra autorizzazione al Governo a ratificare il Trattato, l’Italia dà la prova concreta che tale è il suo proposito. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani.
Interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di urgenza:
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se il Governo, di fronte alla sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 della Corte di cassazione a sezioni unite, con la quale vengono annullate senza rinvio le ordinanze di decadenza dei senatori fascisti, non creda di dover fornire pubbliche precisazioni circa gli effetti della pronuncia, i cui motivi e la cui ispirazione, se sono giurisdizionalmente insindacabili, non sfuggono alla libera critica politica e morale.
«Rossi Paolo, Bennani, Carboni Angelo, Canevari».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga che la Corte suprema di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 9 giugno-9 luglio 1947 sulla decadenza dalla carica dei senatori, non abbia, da un lato, invaso il campo del potere legislativo e non si sia attribuito, dall’altro, un potere di controllo costituzionale che ad essa Corte non compete in alcun modo, in quanto non le è riconosciuto da alcuna legge.
«La Rocca, Lombardi Riccardo».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà al termine della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.
PRESIDENTE. È pervenuta in oltre la seguente altra interrogazione urgente:
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per essere rassicurati che il Governo intende dare pronta esecuzione alle provvidenze richieste da una delegazione di mutilati e grandi invalidi della guerra nel colloquio da essa avuto recentemente con una rappresentanza dell’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea Costituente e col Sottosegretario alla Presidenza onorevole Martino, che ne riconobbe la fondatezza, impegnandosi a sostenerle al Consiglio dei Ministri, provvidenze consistenti particolarmente:
- a) in un provvedimento che aumenti adeguatamente il trattamento di pensione a coloro che fecero dono alla Patria della loro integrità fisica;
- b) nella immediata concessione di un congruo acconto su tale aumento, similmente a quanto è stato fatto per gli impiegati delle pubbliche amministrazioni;
- c) nel collocamento obbligatorio dei mutilati e dei grandi invalidi di guerra, così come è disposto dalla legge del 21 agosto 1921, numero 1312, che regola appunto l’assunzione obbligatoria di questi benemeriti figli della Patria.
«Bibolotti, Molinelli, Schiavetti, Targetti, Chiostergi».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Avverto che il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio sta svolgendo trattative direttamente con rappresentanti dei mutilati, e ritengo di potere dar presto notizia agli onorevoli interroganti dei risultati conseguiti.
PRESIDENTE. Avverto che è stata presentata anche la seguente interrogazione con richiesta di svolgimento urgente:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga opportuno che, a differenza della condotta negativa tenuta su questo punto dal Governo negli anni decorsi, siano disposti sin d’ora, e comunque prima della semina, opportuni piani e provvidenze diretti ad ottenere il massimo incremento della prossima campagna granaria, evitandosi così che, nella completa oscurità circa gli orientamenti e i disegni del Governo, essa abbia ancora a svolgersi con criteri e piani di mera convenienza aziendale e personale, sovente contrastanti col superiore interesse e le esigenze della collettività.
«Arata».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Una Commissione interministeriale sta studiando i problemi di cui a questa interrogazione e prossimamente renderà note le sue decisioni.
PRESIDENTE. Sono ancora pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di svolgimento urgente:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’industria e commercio, dei trasporti e dell’agricoltura e foreste, per sapere se non ritengano necessario ed urgente intervenire, con adeguati provvedimenti, nel grave problema del rifornimento della legna da ardere per il riscaldamento invernale.
«Questo problema – al pari di quello della persistente ascesa dei prezzi dei generi alimentari – si vien facendo ogni giorno più angoscioso e allarmante, specie per certe categorie della popolazione, prive delle possibilità economiche che consentano loro di fronteggiare i prezzi della legna, avviati a continuo vertiginoso aumento.
«Ai fini anche del mantenimento dell’ordine pubblico, che verrebbe certamente ad essere, un giorno, turbato, sembra rendersi indispensabile un superiore intervento anche nel campo dei trasporti ferroviari, una parte dei quali dovrebbe essere riservata al rifornimento di determinate collettività particolarmente bisognose.
«Arata».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali misure siano state prese dall’autorità politica in occasione di comizi, tenuti senza l’osservanza delle relative norme di legge, e della spedizione punitiva organizzata la sera del 20 luglio dall’onorevole Giovanni Tonetti contro la pacifica popolazione di Caorle (Venezia), e quali provvedimenti si intendano assumere per impedire il ripetersi di simili episodi, che – turbando l’ordine pubblico – feriscono i più elementari principî delle libertà democratiche e rinnovano sistemi universalmente condannati e detestati.
«Mentasti, Lizier, Bastianetto, Ponti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se esistono speciali ragioni che determinano nell’Azienda della strada la volontà o la necessità di ben mantenere le strade nazionali del nord, del centro e di parte dell’Italia meridionale, precisamente fino alla città di Salerno, mentre da Salerno in giù le strade nazionali sono quasi completamente abbandonate.
«De Martino».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se sia informato sulle accuse specifiche e documentate, presentate contro la Società concessionaria del Casinò Municipale di Venezia e consistenti in gravi irregolarità di gestione a danno dell’Amministrazione comunale di Venezia;
se intenda intervenire con i provvedimenti di propria competenza, di fronte all’opinione pubblica edotta attraverso la stampa del grave pregiudizio a danno del comune, contro l’attuale Amministrazione comunale di Venezia, la quale continua a conservare la fiducia e la gestione del Casinò ad una Società che, oltre a danneggiare gli interessi dell’Amministrazione comunale, ha danneggiato anche quelli dello Stato, essendo il bilancio del comune integrato dal contributo statale;
se non ritenga necessaria un’azione sollecita onde convincere l’opinione pubblica che il Governo, intendendo seriamente moralizzare la vita pubblica, ha volontà e forza per severamente colpire chiunque, specie se pubblica autorità, che non abbia rigorosa cura del denaro pubblico;
se ritenga necessario rivedere la legislazione in materia di gestione di case da giuoco onde garantire un più severo necessario controllo che eviti facili imbrogli a danno della pubblica finanza;
se, infine, non sia maturo il momento di fronte a questi ed altri fatti per aderire alla richiesta di tanta parte della sana opinione pubblica per la definitiva chiusura delle case da giuoco autorizzate.
«Sartor, Carbonari, Carignani».
Interesserò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendono rispondere a queste interrogazioni.
BULLONI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
BULLONI. Ho presentato alcuni giorni fa una interrogazione urgente sulla crisi dell’energia elettrica in Alta Italia, e sui provvedimenti che si intendono adottare in vista del rinnovarsi di questa crisi. Chiedo quando il Governo intende rispondere.
PRESIDENTE. Porrò questa interrogazione all’ordine del giorno della prima seduta in cui si tratteranno le interrogazioni.
COSTANTINI. In data 16 giugno ho presentato una interrogazione al Presidente del Consiglio ed al Ministro degli esteri per sapere se erano a conoscenza dell’esistenza in Albania di circa 700 operai italiani, che sono là e che non possono ritornare. Data l’importanza dell’argomento chiederei che mi si rispondesse subito.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Credo che i trattenuti in Albania siano meno di 700. Dalle notizie in mio possesso risulta che essi sarebbero da 3 a 400; si tratta di operai qualificati o piccoli professionisti che sono utili in quel paese, ma che sono trattenuti, contrariamente ad ogni legge internazionale.
Purtroppo, non abbiamo rapporti diplomatici con l’Albania ed io ho tentato attraverso vari canali indiretti di avere notizie. Ma, more orientale, tutto questo avviene con una certa calma.
Mi risulta comunque che questi nostri connazionali non sono maltrattati.
COSTANTINI. Io ho corrispondenze di operai di laggiù che attestano che il numero dei nostri connazionali è di 700 e non di 300, essi invocano l’intervento del Governo italiano.
Pregherei l’onorevole Ministro degli esteri di fare maggiori accertamenti. A tanti anni di distanza dalla guerra, sono tornati anche i prigionieri e non vedo la ragione per cui non debbano tornare anche questi nostri connazionali.
Se è possibile, chiederei risposta scritta.
PRESIDENTE. Domani vi saranno due sedute: alle 9.30 per il seguito della discussione del decreto concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio; alle 17 per il seguito della discussione sulla ratifica del Trattato di pace.
Avverto i colleghi che nell’eventualità che nella seduta mattutina non si possa ultimare la discussione sull’imposta patrimoniale, la seduta pomeridiana potrà prolungarsi nella serata per completare tale discussione.
(Così rimane stabilito).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
MOLINELLI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, per sapere se sia eventualmente esatto che l’Azienda nazionale autonoma della strada – accampando infondate esigenze del traffico – si opponga, con gravissimo danno dei numerosi comuni interessati, al ripristino della linea tranviaria Albano-Velletri, reclamata insistentemente dalle popolazioni dei Castelli Romani così duramente provate dalla guerra.
«Veroni».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per conoscere:
- a) quale fondamento abbiano le notizie pubblicate dalla stampa circa irregolarità attribuite all’ARAR per la cessione di residuati di guerra ad una società commissionaria, ed in genere circa i sospetti e le deficienze, ormai di dominio pubblico, nelle operazioni di vendita di ingenti quantitativi di materiali;
- b) i risultati delle indagini circa incendi e furti, che ripetutamente si verificano nei campi di deposito dell’ARAR;
- c) i motivi che inducono i dirigenti dell’ARAR ad alienare a speculatori notevoli quantitativi di materiale di uso, che potrebbero essere ceduti, con evidente vantaggio di tutti, a determinate categorie di consumatori.
«Gli interroganti, inoltre, chiedono di conoscere se nell’interesse dell’erario e di fronte a tante accuse e voci di sospetti, non si ritenga opportuno nominare una Commissione di inchiesta su tutto il funzionamento di questa complessa e importante azienda.
«Numeroso, Leone Giovanni, Riccio».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, e i Ministri dell’industria e commercio e delle finanze, per sapere se, in relazione ai vincoli rigorosi stabiliti per le altre provincie d’Italia sulla circolazione delle automobili e sull’assegnazione del carburante, sussista per Roma un particolare regime, tale da consentire che le automobili – sia di privata proprietà, che di pubblico servizio – vengano usate anche come mezzo ordinario di accesso, specialmente nelle ore notturne, ai locali di divertimento o di ritrovo in genere, e tale anche da consentire la larga circolazione di automobili dei Ministeri ed enti pubblici senza stretta necessità di servizio.
«E, comunque, per sapere se l’onorevole Ministro delle finanze non ritenga conveniente disporre perché i locali uffici finanziari e fiscali provvedano ad opportune ispezioni, nei luoghi sopradetti, per l’accertamento della proprietà degli automezzi come sopra adibiti, ai fini dell’acquisizione di più completi elementi di valutazione tributaria, quale parziale rimedio per l’imposizione di quella disciplina e solidarietà sociali, alle quali sono, in parte, legate le sorti della ricostruzione nazionale.
«Arata».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere per quali ragioni, in occasione di una riunione di lavoratori indetta dalla Camera del lavoro nell’interno della Ditta Carlo Erba a Milano, la forza pubblica si è recata preventivamente presso la ditta, chiedendo se questa desiderava che la riunione venisse impedita con la forza, al che la ditta ha risposto negativamente; e se non creda che queste sollecitazioni di interventi non chiesti da nessuno, ma offerti tanto inopportunamente da parte delle autorità di pubblica sicurezza, non ottengano altro effetto che quello di inasprire gli animi e turbare l’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Mariani Francesco»
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere il motivo per cui non è stato ancora prorogato il termine di validità per la riduzione della tassa di registro dei contratti di cessione agli istituti bancari dei crediti degli appaltatori statali, beneficio inizialmente concesso con decreto 16 dicembre 1936, n. 2170, e susseguentemente confermato con ulteriori decreti. Tale termine è venuto a scadere il 30 giugno 1947 ed il mantenimento del beneficio è richiesto, tra l’altro, dalle esigenze dell’opera di ricostruzione del Paese.
«L’interrogante chiede se l’onorevole Ministro non ritiene, intanto, opportuno, nelle more della emanazione dell’ulteriore decreto di proroga, disporre che gli uffici competenti registrino i contratti di cessione percependo la tassa nella misura precedentemente praticata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Salvatore».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulla domanda inoltrata dal Rettore dell’Università degli studi di Catania perché siano assegnati alla detta Università i locali dell’ex G.I.L., in via Plebiscito, per l’istituzione della Casa dello studente: data l’importanza dell’Università di Catania, che conta circa 5000 iscritti, è necessario che essa sia fornita della Casa dello studente, come altre Università, anche meno importanti. All’uopo la destinazione dei locali suaccennati dell’ex G.I.L. riesce opportuna e soddisfacente. Tali locali, già appartenenti al comune di Catania, e poi ceduti all’Opera Balilla, cui succedette la G.I.L., sono affidati ad una gestione commissariale col compito di assegnarli alla G.I. Nulla di più adatto, quindi, che ne sia fatta la concessione per la istituzione della Casa dello studente in rispondenza ai fini stabiliti dalle vigenti disposizioni a favore della Gioventù italiana. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Di Giovanni, Sapienza».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e come intenda intervenire in favore delle costituite cooperative edilizie tra impiegati statali per la costruzione di case di abitazione a scomputo e con partecipazione dello Stato.
«Il decreto legislativo 8 maggio 1947, numero 399, con le provvidenze dirette ad agevolare la ripresa delle costruzioni edilizie operanti nel territorio della Repubblica, costituisce un privilegio antidemocratico, perché privilegio è fonte inevitabile di protezionismi e di ingiustizie per difetto di controllo contro il numero rilevantissimo di interessati. Una estensione di tali privilegi alle diverse cooperative edilizie costituite in molti centri della Repubblica deve ritenersi, invece, protezione del cooperativismo che la Repubblica deve agevolare quale fonte di ripresa della economia nazionale; protezione della classe impiegatizia come da reiterati impegni governativi; gara tra Enti che lo Stato può bene controllare con provvidenze legislative le quali valgano anche a garanzia delle somme anticipate per le costruzioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Sapienza, Di Giovanni».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sollecitare il provvedimento di proroga del beneficio della riduzione di tassa di registro per le cessioni di credito degli appaltatori a favore delle banche che finanziano l’esecuzione dei loro appalti statali.
«Tale riduzione fu per la prima volta sancita dal decreto 16 dicembre 1936, n. 2170 e, poiché fu limitata nel tempo, sopraggiunta la recente guerra, fu rinnovata con altri decreti (decreti 23 marzo 1940, n. 286; 11 marzo 1941, n. 170; 24 dicembre 1942, n. 1633 ed altri). Dopo la guerra l’agevolazione fu ancora rinnovata per la ricostruzione; ma, poiché fu sempre posta una limitazione nel tempo, la agevolazione stessa è scaduta il 30 giugno 1947 e si attende la proroga già annunciata.
«Tardando tale proroga, gli appaltatori non possono fare altra cessione di credito alle banche perché la tassa normale sarebbe onerosissima, ed in mancanza di tale cessione, che le garantisca, le banche non fanno altri finanziamenti.
«Gli interroganti chiedono altresì che il Ministro delle finanze istruisca gli uffici dipendenti di percepire la tassa ridotta nelle more della pubblicazione del decreto contenente la proroga, come è avvenuto le volte precedenti. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Trimarchi, Caronia»
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 23.35.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 9.30:
Seguito della discussione sul disegno di legge:
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).
Alle ore 17:
- – Seguito della discussione sul disegno di legge:
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
- – Seguito della discussione sul disegno di legge:
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).