ASSEMBLEA COSTITUENTE
ccx.
SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 30 LUGLIO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Votazione segreta del disegno di legge:
Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).
Presidente
Commemorazione di Camillo Prampolini:
Simonini
Presidente
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Disegno di legge (Seguito della discussione):
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
Presidente
Nenni
Selvaggi
Saragat
Orlando
De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri
Chiusura della votazione segreta:
Presidente
Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente:
Presidente
Gronchi
Vernocchi
Corbino
Scoccimarro
Crispo
Colitto
Risultato della votazione segreta:
Presidente
Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 17.
MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Votazione segreta del disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio. (14).
PRESIDENTE. Ricordo che nella seduta di stamane è stata ultimata la discussione sul disegno di legge per la convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria sul patrimonio.
Indico la votazione a scrutinio segreto su questo disegno di legge.
(Segue la votazione).
Avverto che le urne rimarranno aperte.
Commemorazione di Camillo Prampolini.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.
SIMONINI. Esattamente 17 anni or sono, il 30 luglio 1930, a Milano, povero, come povero era sempre vissuto, pochi giorni dopo aver preso possesso di una modesta casetta che l’affetto, l’amicizia, la solidarietà dei suoi compagni gli avevano offerto, moriva in Milano Camillo Prampolini. È difficile dire in poche parole di Camillo Prampolini. La sua opera, la sua azione sono soprattutto legate allo sviluppo economico sociale e politico della Valle Padana. Ma egli fu anche, sotto certi aspetti, e come lo fu, benché modesto e schivo degli onori, per il suo valore, per la sua capacità, uomo politico nazionale.
Egli onorò anche questa Assemblea e lungamente la onorò, come ebbe a riconoscere e dichiarare un grande illustre Presidente della Camera dei Deputati che un giorno lo invitava a continuare un discorso nel quale egli denunciava le condizioni delle classi lavoratrici della terra di quel tempo, della Valle Padana, e lo invitava a continuare quel suo discorso appellandolo apostolo di pace che con le sue parole «onorava il Parlamento e il Paese».
Camillo Prampolini è stato della generazione eroica del movimento socialista uno degli apostoli. Forse un giorno, quando saranno superate le attuali contingenze e gli uomini potranno dedicarsi con maggiore tranquillità e passione allo studio degli avvenimenti e degli sviluppi politici e sociali del nostro Paese, forse allora potrà rifulgere in pieno quella che è stata e resta la figura nobile di questo onesto, modesto, grande uomo del quale si onora e per il quale si onora il movimento socialista. Ed io sono lieto che in questa occasione socialisti di tutte le correnti e di tutte le sponde, fra loro certamente non opposte, se pur diverse, si siano trovati uniti nel volerlo ricordare.
Al ricordo di Prampolini permettetemi di associare anche, perché proprio il 30 luglio ricorre l’anniversario della sua morte, quello di un altro uomo, che accanto a Prampolini, nella nostra terra padana e qui in Parlamento, onorò il movimento socialista: Giovanni Zibordi. (Vivi applausi).
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo di potere – a nome dell’Assemblea intera – far eco e dare la mia adesione alle parole pronunciate dall’onorevole Simonini. Il nome di Camillo Prampolini sta all’alba del movimento socialista italiano. Ma per trascorrere di tempo e volger di vicende, con l’affermarsi di altri uomini – gareggianti in spirito di sacrificio e profondità di loro studi e capacità pratiche di organizzazione nel quadro dell’azione sociale e politica dei lavoratori – il suo nome non si è mai offuscato. Ed anche oggi, pronunciandolo, noi sentiamo che non tanto rievochiamo, così, un’ombra venerata ma di tempi lontani e superati, quanto un’energia spirituale, che ancora oggi ci sospinge, conforta ed ammaestra.
Né vi è contesa né vi può essere contesa fra le diverse correnti nelle quali purtroppo il grande fiume del socialismo, allontanandosi nel tempo dalla sua prima modesta sorgente, si è suddiviso. Poiché nel grande e generoso patrimonio di pensieri e di affetti che Camillo Prampolini ha lasciato, ognuno trova da attingere per nutrire nel bene e migliorare la propria opera.
L’Assemblea Costituente, che sta redigendo una legge fondamentale per la Repubblica italiana, assidendola sui diritti del lavoro, si unisce nel ricordo di Camillo Prampolini che ai lavoratori aprì le vie dell’ascesa e delle civili conquiste. (Vivissimi, generali applausi).
Ha chiesto di parlare il Presidente del Consiglio dei Ministri. Ne ha facoltà.
DE GASP ERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo si associa con reverenza e con commozione alla rievocazione delle nobili figure di Camillo Prampolini e di Giovanni Zibordi. (Applausi).
Seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace fra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947.
È iscritto a parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.
NENNI. Onorevoli colleghi, giunti ormai alla fine di questa discussione, credo si possa dire che il solo punto acquisito è che non esistevano e non esistono ragioni di carattere internazionale, e di carattere nazionale, tali da giustificare l’iniziativa presa dal Governo circa la anticipata ratifica del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio scorso.
Non esistono ragioni di carattere internazionale in quanto la dimostrazione è stata data che la mancanza della firma di uno degli Stati promotori del Trattato rende il Trattato stesso ineseguibile in condizioni tali che il nostro voto non gli dà la vita che ancora non ha, né gliela toglierebbe se l’avesse. Non esistono le condizioni di politica interna, nelle quali noi pensavamo che questa discussione dovesse farsi; perché il Governo che l’ha promossa non è rappresentativo dei settori popolari e repubblicani del Paese, ed è legato, per la sua origine, a particolari interessi internazionali.
Vorrei aggiungere che con la ratifica anticipata del trattato, ci si domanda di accettare uno stato di diritto e di fatto, che non corrisponde più alla situazione che vi dette origine, la quale si è trasformata proprio a causa del piano Marshall e delle conseguenze che il piano ha avuto nei rapporti tra gli autori del Trattato che oggi dovremmo ratificare.
Credo anche di poter dire che è mancata da parte del Governo la piena coscienza della sua responsabilità, di fronte alla quale esso avrebbe dovuto accettare la proposta del collega Valiani di convocare l’Assemblea in seduta segreta. Penso che se la seduta segreta non c’è stata, è perché il Governo non aveva niente da dire di eccezionalmente importante, come non ha avuto niente da dire in seduta di Commissione dei trattati, dove non c’erano né una tribuna diplomatica, né una tribuna dei giornalisti e dove quindi era possibile abbandonarsi alle comunicazioni più confidenziali. La verità è che il Governo si è avventurato in questa discussione, senza misurarne le conseguenze, senza rendersi conto che esercitava un vero e proprio ricatto sull’Assemblea e sul Paese (Commenti al centro – Applausi a sinistra). Signori, la prova della mancanza di serietà del Governo sta nel fatto che esso è venuto davanti alla Commissione dei trattati a sostenere l’urgenza della ratifica per potere andare alla conferenza di Parigi, per ripiegare in seguito su una posizione analoga alla nostra, accettando la subordinazione della nostra ratifica a quella delle quattro Potenze e chiedendoci in definitiva un voto che potrebbe restare privo di conseguenze.
Infatti, ammettiamo per un momento l’ipotesi – da non scartarsi a priori – che l’Unione Sovietica non firmi o non ratifichi più il Trattato; avremo allora discusso per quindici giorni ed avremo rischiato di lacerare spiritualmente la Nazione, per dare un voto privo di conseguenze giuridiche e politiche, un voto nella notte e nel buio. (Rumori al centro).
Vedremo più tardi che cosa si può dire dell’atteggiamento delle Quattro Potenze davanti al Trattato, ma reputo che siamo tutti d’accordo nel pensiero che, se ci fosse una possibilità su un milione di vedere il Trattato, a seguito della mancata ratifica di una delle Quattro Potenze che l’hanno promosso, restare lettera morta o ridursi a carta straccia, mancheremmo al dovere verso noi stessi e verso il Paese, se tale possibilità non secondassimo rinviando la nostra ratifica al momento in cui le condizioni previste dall’articolo 90 si saranno verificate ed il Trattato sarà diventato definitivo ed eseguibile.
In tali condizioni, onorevoli membri del Governo, io considero un mistero il fatto che voi non abbiate accettato la proposta dell’onorevole Orlando, nelle condizioni in cui fu formulata, un mistero che diventerebbe ancora più impenetrabile se la proposta di rinvio fosse di nuovo respinta. (Commenti).
Prima di chiarire questo mistero o di cercare di chiarirlo, desidero ripetere che il Gruppo parlamentare socialista, come ha votato, nello spirito in cui essa fu presentata, la sospensiva dell’onorevole Orlando all’inizio della discussione, così la rivoterà ove sia ripresentata, pronto a prendere l’iniziativa se altri non lo facessero e ad insistervi, ponga o no il Governo la questione di fiducia.
Ci sono, signori, due fatti nuovi ed una situazione nuova. Il primo fatto nuovo – l’ho già detto – è la mancata ratifica di una potenza che, al pari dell’onorevole Orlando, vorrei poter chiamare «x», per non accendere attorno ad essa discussioni e passioni di carattere ideologico e politico.
L’altro fatto nuovo è il cambiamento di fronte del Presidente del Consiglio, di alcuni dei suoi più autorevoli Ministri e del Gruppo della democrazia cristiana (Commenti al centro), cambiamento di fronte del quale, fino a questo momento, non ci è stata data nessuna spiegazione.
Un anno fa l’onorevole De Gasperi voleva dimettersi dal Governo per non arrendersi alla decisione dei Ventuno a Parigi, ed alcune settimane or sono noi lo abbiamo visto prendere su di sé personalmente la responsabilità della firma, senza neppure coprirsi con un voto dell’Assemblea, che eravamo ponti a dargli.
Il 23 ottobre scorso, mentre un socialista stava per andare al Ministero degli esteri, il Gruppo della democrazia cristiana votava un ordine del giorno contro la firma e la ratifica del Trattato. Oggi, questo medesimo Gruppo ci domanda la ratifica del Trattato in condizioni del tutto eccezionali, allorché il Trattato non ha vita e addirittura non esiste come strumento esecutivo.
Signori, noi socialisti abbiamo una certa dimestichezza col metodo dialettico, che consiste nell’adoperare le parole non nel loro senso assoluto ed astratto, come ce ne offriva un esempio commovente, l’altro giorno, il nostro amico Canepa, quando con virgiliano candore parlava del disarmo universale o dell’esercito internazionale di cui si dovrebbe occupare fra qualche settimana l’O.N.U. Il metodo dialettico insegna ad adoperare le parole nel loro riferimento coi fatti concreti e positivi. Da questo punto di vista, riconosco che le parole «ratificare», «ratificare subito», «non ratificare», «non ratificare subito» acquistano, in rapporto alla concreta situazione di alcune settimane or sono e di oggi, un senso preciso che m’induce a riconoscere la logica dell’onorevole De Gasperi e quella del Gruppo parlamentare democristiano.
Che cosa ha sempre pensato l’onorevole De Gasperi del Trattato? Non parlo dell’apprezzamento morale e politico ma della sua esecuzione. Il Gruppo democristiano, l’onorevole De Gasperi, i suoi Ministri in materia più autorevoli (per esempio l’onorevole Gonella, che non è al banco del Governo, ciò che è naturale dopo una certa indicazione dell’Assemblea… (Applausi a sinistra – Rumori al centro) e che vedrei volentieri al suo banco di deputato (Commenti – Vivaci proteste al centro), potrebbe spiegarci perché egli giudica con animo così diverso un problema sul quale, in Consiglio dei Ministri fu sempre così intransigente.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Citeremo la sua logica: citeremo qualche cosa! (Applausi al centro).
Una voce al centro. Lui è dialettico! (Commenti).
NENNI. Io sono meno misterioso di De Gasperi, e non seguirò l’esempio di De Gasperi il quale non ha dato nessuna spiegazione…
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le darò domani!
NENNI. …nessuna spiegazione dei suoi voltafaccia. Io indicherò invece quali sono state e sono le nostre perplessità.
Dicevo dunque, onorevoli colleghi, che il Presidente del Consiglio, i suoi più autorevoli Ministri democristiani, anche Don Luigi Sturzo – il quale di fronte al Trattato ha avuto una posizione di assoluta intransigenza mossa da considerazioni di ordine morale e storico, piuttosto che politico – hanno sempre sperato che il Senato americano non avrebbe ratificato il Trattato; ipotesi questa che secondo le nostre affermazioni era da scartarsi, per quanto meritasse tutta la nostra attenzione.
Senonché, quando De Gasperi è andato in America, egli si è trovato al famoso banchetto dove il ministro segretario al dipartimento di Stato, signor Byrnes, lo ha salutato non precisamente come l’uomo della provvidenza (Proteste al centro) ma in ogni modo come colui che avrebbe ratificato il Trattato contro gli estremismi di destra e di sinistra…
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ha letto lei, il testo.
NENNI. Ho letto ciò che è stato pubblicato.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io l’ho smentito già allora!
NENNI. Così è stato pubblicato e non è stato smentito. (Rumori – Proteste al centro). È da questo momento e dal ritorno del Presidente del Consiglio dall’America che data il voltafaccia del Presidente del Consiglio e della democrazia cristiana di fronte al Trattato, né gliene faccio carico essendo naturale che venuta a mancare l’ipotesi della non ratifica americana anche l’atteggiamento di coloro che su di essa avevano contato doveva modificarsi.
Senonché, fra l’uno atteggiamento e l’altro, ci sono anche altre cose: c’è la presa di posizione del Presidente Truman, col messaggio del 12 marzo, che ha avuto tanta importanza anche nella recente crisi ministeriale; c’è l’evoluzione subita dalla politica mondiale in rapporto al messaggio del 12 marzo. Ieri Togliatti diceva che uno degli elementi negativi della politica estera di De Gasperi è che essa è stata unilaterale. Signori, la prova più evidente dell’unilateralità di questa politica l’abbiamo in codesta discussione.
Io domando all’onorevole De Gasperi: se sotto il Trattato mancasse la ratifica americana, chiederebbe egli all’Assemblea Costituente italiana di ratificare? (Commenti al centro). Se mancassero la ratifica inglese o quella francese, verrebbe in mente ad uno solo dei nostri Ministri, ad uno solo dei Gruppi dell’Assemblea, di domandare la ratifica anticipata del Parlamento italiano ad un testo senza vita e senza valore esecutivo?
Signori, sono sicuro che, nella vostra buona fede tutti, a questo quesito, rispondete «no». E siamo allora al punto dolente della questione. Io condivido l’impressione, già espressa da altri, che per De Gasperi l’Europa finisce alla linea Trieste-Stettino. Mi sono perfino domandato se le sue naturali preoccupazioni di cattolico militante non contribuivano a fargli dimenticare che l’Europa finisce agli Urali; se, intravedendo, al di là di quello che i giornalisti chiamano le rideau de fer, la rossastra figura del Maligno (Si ride), egli non sia portato ad esorcizzare il nemico con un vade retro Satana.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Sono vissuto venti anni al di là di quella linea, onorevole Nenni! (Approvazioni al centro).
NENNI. Può darsi, ma ella onorevole De Gasperi dimostra oggi, con la sua politica, la parzialità della sua comprensione del mondo, e dà la prova che mentre era disposto, ed aveva ragione, a considerare la mancata ratifica del Senato americano come un avvenimento fondamentale, considera invece che la mancata ratifica sovietica non ha nessuna importanza, non altera i termini del problema, non modifica la situazione giuridica politica.
Ebbene, onorevole De Gasperi, una gran parte del Paese, non per ragioni ideologiche, ma per una concreta visione degli interessi della Nazione, non è affatto disposta a considerare come trascurabile tutto ciò che avviene all’est.
Certo, onorevole De Gasperi, noi siamo molto sensibili, specialmente in questi banchi socialisti, all’opinione espressa dai nostri amici inglesi e francesi; siamo molto sensibili, soprattutto in questi banchi, all’opinione del Ministro Bevin, ma io credo di non sorprendere i nostri amici inglesi se dico che in questa questione non ci può essere coincidenza fra gli interessi inglesi e quelli italiani e il nostro dovere è di attenerci all’interesse italiano. (Applausi a sinistra).
Onorevole De Gasperi, eccomi a dire quale è stata e quale è la nostra posizione nei confronti del Trattato. Prima di tutto, come lo abbiamo giudicato? Il Ministro Sforza ha espresso l’opinione di tutta l’Assemblea allorché nel suo discorso ha detto che il Trattato è una pace degli alleati fra di loro. Qualche cosa del genere abbiamo sempre detto noi, sostenendo che il Trattato è un compromesso fra gli alleati, del quale noi abbiamo fatto le spese. Il nostro giudizio, sul Trattato, è stato sempre di un realismo brutale, non turbato da considerazioni sentimentali, non appesantito da valutazioni morali o storiche. Fino dall’inizio, abbiamo detto che il problema non era quello di firmare o ratificare, non firmare o non ratificare, ma eseguire o non eseguire, e siccome consideravamo e consideriamo che il nostro Paese sia in condizioni di non eseguire, così abbiamo sempre detto e diciamo che quando il Trattato ci sia presentato perfetto giuridicamente e politicamente in tutte le disposizioni dell’articolo 90, non resta a noi nazione italiana, che firmare (e l’abbiamo fatto); o ratificare, e lo dovremo fare non appena il Trattato abbia acquistato il carattere esecutivo che oggi non ha.
Si è parlato del mio discorso di Canzo e si è creduto di trovare una contraddizione fra l’atteggiamento che assumiamo oggi (di fronte a un Trattato che consideriamo – non mi stancherò di ripeterlo – senza valore esecutivo) e quanto io dicevo nell’ottobre scorso.
Mi scusi l’Assemblea se, contrariamente all’onorevole De Gasperi il quale non ci ha dato nessuna spiegazione dell’evoluzione del suo pensiero, io mi richiamo al discorso di Canzo per dimostrare la perfetta logica del nostro atteggiamento. S’era all’indomani dell’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno. Ed io mi ponevo il quesito «che fare adesso?» e rispondevo così:
«Prima di tutto, ripresentare il problema ai Quattro nella sua complessità. E poi, come lo abbiamo fatto per venticinque anni contro il fascismo, anche quando pareva che urtassimo al granito o all’acciaio, non rinunciare mai alla difesa del nostro diritto e inscrivere la nostra integrità territoriale e la nostra indipendenza nazionale politica ed economica fra gli obiettivi permanenti della nostra politica estera e della nostra politica generale.
«Niente isterismi, ma neppure niente rinunzie. L’Europa si troverà, da ora in poi, davanti ad una Italia che vuole collaborare all’opera comune di progresso, che vuole vivere in pace coi suoi vicini, che fonda la sua azione sul principio della solidarietà internazionale, che non punta sugli anglo-americani contro l’Unione Sovietica o Sull’Unione Sovietica contro gli anglo-americani, ma sull’unione di tutte le forze democratiche dell’Europa e del mondo, che rinunzia ai miti insanguinati dell’impero e della potenza militare, ma che mantiene aperte le sue sacrosante rivendicazioni, decisa a farle trionfare appellandosi al diritto ed alla ragione».
Ciò voleva dire che finché fosse esistita la possibilità di trattare sul Trattato, noi lo avremmo fatto.
E, signori, qual è stato il mio atteggiamento come Ministro degli esteri, dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Quattro? Io inviavo allora, d’accordo naturalmente con il mio Presidente del Consiglio, ai Quattro ministri degli esteri la nota seguente: «Il Ministro degli esteri della Repubblica italiana ha preso conoscenza del Trattato di pace quale è stato definitivamente redatto nella riunione di New York dei Ministri degli esteri della Francia, della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il Ministro degli esteri constata che non è stata accolta nessuna delle richieste di modifica delle primitive clausole del Trattato presentate dal Governo italiano alla Conferenza di Parigi. Il Trattato urta la coscienza nazionale, specie per le clausole territoriali. In queste condizioni il Ministro degli esteri si trova nella necessità di formulare le più espresse riserve e di chiedere che sia riconosciuto il principio della revisione del Trattato sulla base di accordi bilaterali con gli stati interessati sotto il controllo e nell’ambito dell’O.N.U.».
Signori, è forse questo l’atteggiamento di qualcuno, deciso come che sia a firmare e ratificare? Dopo l’approvazione del Trattato da parte dei Ventuno, io avevo annunciato il nostro ricorso ai Quattro; dopo la decisione dei Quattro, preannunciavo il ricorso all’O.N.U., mentre cercavo, attraverso accordi bilaterali, di iniziare la revisione del Trattato.
Se non ci fossero state le mie dimissioni, sarei andato il 21 gennaio a Londra (Commenti) e malgrado la riluttanza del Foreign Office avevo pregato il Ministro Bevin di mettere all’ordine del giorno delle nostre discussioni il problema del ritorno degli italiani in Africa come mandatari dell’O.N.U., e in una posizione non di conquistatori ma di collaboratori del movimento di indipendenza degli arabi.
Avevo pregato il Ministro degli esteri francese dell’epoca, Léon Blum, di ricevermi al ritorno da Londra e lo avevo pregato di ricercare con me se non ci fosse una formula la quale consentisse all’Italia e alla Francia di risolvere direttamente la questione di Briga e di Tenda.
Avevo fatto presente al Ministro Molotov il mio desiderio di andare a Mosca al più presto possibile, per iniziare le discussioni e le trattative per il trattato di commercio e per dare alla Repubblica sovietica la prova dell’interesse profondo che la diplomazia e la Nazione italiana attribuiscono a questo grande Paese dalle infinite possibilità nel campo che ci interessa, quello degli scambi commerciali.
E debbo dire, a rettifica parziale di ciò che affermò ieri il mio amico Togliatti, che cercai di approfondire col Ministro jugoslavo Simic e col Governo di Belgrado tutte le possibilità concrete offerte dall’incontro Tito-Togliatti, di arrivare ad un accordo diretto fra l’Italia e la Jugoslavia su una linea etnica di confine accettabile per entrambi, oppure sull’estensione del territorio libero di Trieste fino a Pola, in modo da comprendervi la maggior parte degli italiani dell’Istria.
Quando lasciai il Ministero il Governo jugoslavo era riluttante ad una discussione sulla questione territoriale; ma aveva accettato di normalizzare i nostri rapporti con la nomina di un rappresentante jugoslavo in Italia e quella di un rappresentante italiano a Belgrado. Né io sono in grado di dire gli sviluppi ulteriori di tale questione.
Mi sembra così di aver dimostrato che, nei limiti delle possibilità di allora, io feci quanto era possibile per porre la questione della revisione in termini concreti e nel solo modo possibile, non l’eventuale e problematica discussione all’O.N.U., ma le trattative con i Governi ed i Paesi interessati a stabilire buone relazioni con noi, liquidando gli errori del Trattato di pace.
Signori, quando il terzo Ministero De Gasperi si è presentato davanti all’Assemblea, ho avuto occasione di fare delle riserve sulla procedura del Governo di firmare senza consultare l’Assemblea, ed ho annunciato che se fossimo stati consultati noi socialisti avremmo dato parere favorevole alla firma. Similmente se oggi il Trattato fosse perfetto, noi saremmo favorevoli alla ratifica, senonché un tale stato di necessità non esiste e io dico che se ci fosse una possibilità su un milione che il Trattato divenga un pezzo di carta straccia, sarebbe deplorevole che sotto quel pezzo di carta ci fosse anche la firma della Repubblica italiana. (Applausi).
Tutta la questione è qui, onorevole De Gasperi.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. La firma c’è già e col suo consenso. (Commenti).
NENNI. La firma c’è già, ma impegna il Governo. Ella stessa, onorevole De Gasperi, e il Ministro Sforza con la dichiarazione con la quale accompagnò la firma, vollero salvaguardare il diritto dell’Assemblea di ratificare o meno, né credo di interpretare male il pensiero del Governo di allora se dico che non impegnando l’Assemblea per la firma, esso intendeva di preservare la nostra libertà di ratificare nel momento giudicato il più opportuno. Perciò capisco l’onorevole De Gasperi e non capisco l’onorevole Sforza. Capisco l’onorevole De Gasperi perché egli lega la anticipata ratifica alla sua politica generale ed interna. Capisco l’onorevole De Gasperi perché per lui la ratifica, nelle attuali condizioni, significa accettazione a priori della divisione dell’Europa in due blocchi e presa di posizione in favore di uno dei blocchi. (Applausi a sinistra – Commenti al centro).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. È il contrario!
NENNI. Non capisco l’onorevole Sforza perché sono sicuro che egli ed i suoi collaboratori valutano l’importanza di mantenere aperta ancora per qualche settimana o qualche mese la questione della ratifica. Non capisco l’onorevole Sforza perché penso che nel dissidio europeo e mondiale, egli non ha preso finora nessuna posizione definitiva.
Quando io cerco le ragioni del Ministro degli esteri, e tengo naturalmente conto di quanto egli ci ha detto in Commissione dei trattati, non trovo un motivo, una spiegazione al suo atteggiamento se non quella della comodità, che non mi pare degna né del Ministro né dei suoi collaboratori a Palazzo Chigi.
Concludendo su questa questione, in perfetta coerenza col nostro costante atteggiamento, noi socialisti diciamo:
1°) che la ratifica è una dolorosa necessità ed è anche allo stato delle cose un obbligo di lealtà, ma solo quando siano state adempiute le condizioni poste dagli alleati per dare validità al Trattato;
2°) che nelle condizioni attuali la ratifica anticipata è un errore tecnico, politico e morale, in rapporto alla generazione presente ed alle generazioni di domani;
3°) che noi consideriamo il Trattato ingiusto, senza perciò abbandonarci al pessimismo di coloro che, ripetendo l’errore del 1919, gridano alla inutilità e al tradimento dei sacrifici e del sangue versato dal settembre 1943 all’aprile 1945 dai marinai, aviatori, soldati del Corpo italiano di liberazione e dai partigiani.
Signori, se la guerra si fosse conclusa nel settembre del 1943, con la capitolazione senza condizioni, oggi il nostro Paese non discuterebbe, in una relativa condizione di libertà, se ratificare o non ratificare il Trattato di pace, ma sarebbe diviso, come la Germania, in quattro zone di occupazione, con gli angloamericani che occuperebbero le isole e la penisola fino alla Valle Padana, i sovietici sul Tagliamento, la Francia in Liguria ed in Piemonte.
Avere impedito ciò, torna ad onore imperituro dei Comitati di Liberazione Nazionale e dei partigiani. (Applausi a sinistra).
Signori, codesta parte del dibattito, alla quale ho portato il mio modesto contributo, a nostro giudizio era inutile e pericolosa; utile invece è la discussione sul piano Marshall e la Conferenza di Parigi.
Della Conferenza di Parigi e del piano Marshall si sono prospettate tesi, delle quali, a mio giudizio, talune hanno peccato di eccessivo ottimismo, talune di eccessivo pessimismo.
Non c’è ancora nessuna ragione perché possiamo attenderci un miglioramento rapido e sensibile delle condizioni del nostro Paese, in rapporto con le trattative internazionali in corso, né c’è motivo di considerare tutto morto e fallito.
Pare a me che nella fase attuale delle trattative internazionali, piuttosto che ad un piano Marshall siamo di fronte ad un piano Bevin. (Commenti).
Il Ministro britannico degli esteri, spinto dalla grave situazione economica del suo Paese e dal suo idealismo socialista, ha colto a volo l’accenno, contenuto in un discorso del Ministro Marshall circa la opportunità che l’Europa si metta d’accordo e proceda senz’altro ad una intesa per presentare una domanda cumulativa di aiuti all’America.
Credo che quando gli Americani parlano di paesi europei, si riferiscano ai paesi fuori della influenza sovietica, agli stati della seconda zona, dove per combattere l’influenza della Russia e del comunismo, l’America è disposta ad intervenire economicamente per arrestare lo sviluppo del «comunismo della miseria».
Il Ministro Bevin ha probabilmente data un’altra interpretazione al discorso Marshall, allorché, mosso dall’ardente desiderio di realizzare l’unità dell’Europa, ha convocato a Parigi per il 27 giugno i «Tre Grandi». Purtroppo i fatti non hanno corrisposto alle speranze del Ministro Bevin. Non solo l’unità dell’Europa non si è fatta, ma si è creata una divisione che, se dovesse approfondirsi, condurrebbe l’Europa e il mondo verso un disastro.
Di chi la colpa? Signori, per parte mia, ammiro coloro che, su dati sommari, elementari, sono arrivati a delle conclusioni definitive.
Luigi Salvatorelli, storico emerito, uomo di principî democratici, in un articolo recente nel Messaggero ha emesso senz’altro la sua sentenza. Ai suoi occhi, è l’Unione Sovietica che avrebbe, con le sue mani, creato il blocco occidentale.
Altri hanno emesso giudizi radicalmente contrari. Non mi fido né degli uni né degli altri.
Molti avvenimenti devono ancora prodursi perché noi possiamo renderci conto dei motivi profondi della rottura del 27 giugno a Parigi.
Secondo me, la rottura ha una delle sue cause nel fatto che il Ministro Bevin ha interpretato il discorso Marshall come un superamento del piano Truman; il Ministro Molotov ha visto nel discorso e nel piano Marshall un tentativo di trasferire il piano Truman dalla politica all’economia.
Signori, chi ha ragione, chi ha torto? Noi cominceremo a capire quando vedremo come funzionerà il patronato economico dell’America sull’Europa. Se sarà un patronato politico, tipo Grecia, allora vorrà dire che il piano Marshall è una applicazione di quello Truman: se avremo un intervento economico, senza pretese di egemonia politica, allora vorrà dire che il piano Truman non è destinato a generalizzarsi a tutta l’Europa. Allo stato attuale delle cose, ogni giudizio appare avventato.
D’altra parte, per noi Assemblea Costituente, per voi Governo, la ricerca delle responsabilità è meno importante del fatto. Ora il fatto esiste, brutale, inquietante. C’è una rottura, c’è una lacerazione dell’Europa. Dire in queste condizioni che a Parigi è nata una grande speranza, è contrario alla verità delle cose. La Conferenza di Parigi è stata la più grave delusione dalla fine della guerra ad oggi, una delusione che pertanto non comporta soltanto le conclusioni negative di chi pensa e dice: non interessiamoci più della Conferenza di Parigi, non occupiamoci più dell’idea Marshall, né del piano Marshall. Occupiamocene, onorevole Ministro degli esteri, ma valutando i pericoli insiti nella situazione che è grave per il mondo, per l’Europa e gravissima per noi. Occupiamocene sapendo che se l’Europa dovesse restare divisa in due blocchi opposti, essa sarebbe rovinata.
I paesi dell’Europa occidentale hanno delle economie concorrenti e non complementari. Ognuno di essi produce le cose, le macchine che gli altri producono o vorrebbero produrre. L’economia occidentale è quella che il mio vecchio amico Vandervelde chiamava du cheval vapeur in contrapposto all’economia orientale du cheval animal. La complementarietà è fra le due economie occidentale e orientale.
Se abbiamo coscienza di ciò, allora dobbiamo stare a Parigi, per concorrere modestamente a superare la divisione fra ovest ed est e non cedere alla vanità di vedere nelle conferenze internazionali delle tribune di propaganda. Abbiamo bisogno di ben altro.
Tutto il dramma della moderna politica estera – credo che Sforza sarà d’accordo con me – è nelle parole che ha pronunziato l’altro giorno il Ministro Bevin, rispondendo ai suoi critici, che lo rimproveravano di non aver abbastanza iniziativa, con parole che sarebbero naturali sulle labbra del Ministro dell’industria e commercio e sembrano straordinarie – e non lo sono – su quelle del Ministro degli esteri: «che cosa volete che faccia se non ho una tonnellata di carbone da offrire a nessuno?!».
Questa è la politica estera moderna! Le tonnellate di carbone, le tonnellate di grano, le materie prime, da mettere in competizione: questa la politica estera dei tempi nostri! Noi non abbiamo carbone, non abbiamo materie prime, né grano ma soltanto la forza del nostro lavoro, che dobbiamo cercare di valorizzare al massimo.
Fare una buona politica estera di trattati di commercio, di trattati di emigrazione: ecco ciò che noi vogliamo; capire che l’indipendenza e il prestigio del paese non sono in rapporto con la posizione della poltrona del nostro Ministro al tavolo della Conferenza di Parigi, ma con la rinascita economica del paese. Il materialismo storico non si era mai presa una tale rivincita, in questo campo della politica estera che pareva quello della politica pura!
Ecco, signori, le ragioni della nostra angoscia di fronte alla Conferenza di Parigi. Vera angoscia di socialisti, di europei, soprattutto di italiani, che sanno che il problema dell’Italia non si risolve in occidente, come – del resto – non si risolve in oriente, ma si risolve soltanto se, con i nostri modesti sforzi, possiamo contribuire ad unire l’occidente con l’oriente.
Vorrei adesso richiamare l’attenzione del Governo su cinque problemi.
Il primo è che esso non deve perdere di vista alla Conferenza di Parigi la connessione fra i crediti e il grano americano e i mercati orientali. Non possiamo fare a meno dei crediti americani; non possiamo fare a meno del grano americano; ma non possiamo nemmeno fare a meno dei mercati orientali, perché, coi crediti che ci verranno, o che speriamo ci vengano dall’America, continueremo ad indebitarci rischiando di diventare una Nazione vassalla, mentre è soltanto riconquistando i mercati orientali che possiamo sperare di risanare la nostra economia, comprando non con delle valute, ma con delle macchine, dei tessuti, coi prodotti della nostra industria e del nostro artigianato.
Il secondo è che il Governo deve tener conto degli interessi della nostra industria meccanica e della nostra industria tessile. Si è smentito – lo ha smentito il collega Tremelloni – che esista a Parigi un piano di limitazioni della nostra produzione meccanica, siderurgica e tessile. Però il fatto solo che di ciò si parli dimostra che c’è una tendenza naturale in questo senso.
Non paghi il Governo effimere promesse con la contrazione della nostra produzione industriale e con la rinuncia alla industrializzazione del Mezzogiorno. In questo caso, gli interessi dell’industria sono gli interessi non solo di coloro che amministrano e sfruttano le aziende, ma di milioni di operai. Noi pensiamo alla socializzazione prossima o futura delle industrie, ma si socializza soltanto ciò che esiste. Non si socializza la miseria.
Terzo punto. A Parigi c’è un piano di valorizzazione economica dell’Africa. Ne ha parlato il Ministro Morrison alla Camera dei Comuni, esponendo in questa materia il piano del Governo laburista britannico. Tutta una sezione del piano francese Monnet è consacrata alla valorizzazione dell’Africa. Signori, mi pare venuto il momento di dire che da un piano di valorizzazione dell’Africa, l’Italia e gli Italiani non possono essere esclusi. Ci sono 180 mila famiglie italiane reduci dall’Africa che conoscono nelle nostre città la più nera miseria, che come coloni, come commercianti, come artigiani, come operai hanno dato un contributo insostituibile alla organizzazione della vita economica delle ex colonie italiane. Nessuno, su questi banchi, pensa che l’Italia possa tornare in Africa come potenza conquistatrice, oppressiva, sfruttatrice…
CONDORELLI. Non l’ha mai voluto nessuno!
NENNI. …tutti pensiamo che l’Italia può e deve tornare in Africa come elemento di progresso e di civiltà, come alleata naturale del mondo arabo nello sforzo teso verso l’indipendenza del continente nero.
Il quarto problema è quello tedesco, non nel suo complesso, ma sotto l’aspetto particolare del carbone della Ruhr. Sul carbone della Ruhr ci sono piani di ogni genere: c’è il piano americano, che affida la soluzione alla libera iniziativa, e cioè ai magnati che finanziarono l’hitlerismo e sarebbero felici di ricominciare a farlo; c’è il piano britannico della socializzazione del sottosuolo renano e dei complessi industriali della Ruhr; c’è il piano francese della internazionalizzazione; c’è il piano sovietico dell’unità economica della Germania.
Non c’è un piano italiano, né io ne chiedo uno, visto che i nostri interessi sono limitati. L’Italia non può però rimanere esclusa dalla distribuzione del carbone della Ruhr: sia pure per via di compensazioni interne fra i paesi europei, l’Italia deve avere la sua quota parte, senza di che la ricostruzione italiana resterebbe esclusivamente affidata alle importazioni del carbone americano troppo caro e troppo lontano.
Signori, mi rimane da parlare di un ultimo punto, il più essenziale, quello del nostro avvenire come Paese indipendente. Se noi mettiamo un dito nell’ingranaggio dei blocchi contrapposti, finiremo per essere trascinati. La difesa di un popolo povero e la difesa di un Paese disarmato è nella sua neutralità politica. Noi domandiamo al Governo una politica di neutralità. Noi domandiamo al Governo di non assumere impegni politici all’ovest; noi gli domanderemmo, se fosse necessario, di non assumerne all’est. Noi domandiamo una strenua difesa della neutralità che ci è imposta dalla storia e dalla geografia, Posti al limite di due civiltà, noi non possiamo interamente identificarci né nell’una né nell’altra.
Negli ultimi cinquant’anni, il destino del nostro popolo e della nostra Nazione è stato tradito e fuorviato dalle classi dirigenti tutte le volte che hanno voluto incorporarci in un sistema di alleanza contro un altro.
L’onorevole De Gasperi parlava recentemente, nel suo discorso di Trento, della fama di machiavellismo che ci siamo fatti in Europa e nel mondo. Da che deriva? Da una duplicità dei nostri ideali, da una perversità dei nostri costumi, dalla malafede dei nostri uomini politici? No, deriva dalle contradizioni in mezzo alle quali ci siamo dibattuti e che non abbiamo mai potuto risolvere in un sistema politico determinato di alleanze.
Ci fecero aderire alla Triplice alleanza, e nel 1900 dovemmo correggere la Triplice con giri di valzer a Parigi e a Londra, per poi nel 1914-15 passare, in piena guerra, ad altre alleanze.
Mussolini ci condusse all’Asse e per uscirne dovemmo, in piena guerra e in piena disfatta, cercare protezione ed aiuto presso le Potenze stesse contro le quali il nostro Paese era stato trascinato in guerra.
Sono abbastanza obiettivo per dire che una politica contraria avrebbe dato gli stessi risultati. E allora domando: onorevoli colleghi, vogliamo ricominciare fra occidente ed oriente le oscillazioni che la nostra politica ha conosciuto fra la Triplice alleanza e l’Intesa cordiale, fra l’Asse e gli Alleati della grande guerra?
Se noi facessimo questo, ci condanneremmo a divisioni interne che paralizzerebbero i nostri sforzi di rinascita e torneremmo ad essere sul piano internazionale una foglia sbattuta una volta verso un blocco, una volta verso l’altro blocco. Da un simile tragico destino ci può salvare soltanto una politica che porti il suo modesto contributo al tentativo della pacificazione europea e che non prenda impegni politici nel conflitto fra le grandi Potenze.
Signori, ho letto un discorso attribuito al signor Eden. In esso si dice che se la guerra scoppiasse, i primi paesi a farne le spese sarebbero la Finlandia e l’Italia. Credo che nel pensiero dell’ex ministro Eden ciò significhi che noi saremmo immediatamente occupati dalle potenze occidentali per diventare un campo di battaglia, una pista di lancio della guerra aerea, un deposito di bombe atomiche e quindi un bersaglio di bombe atomiche. Basta affacciare una simile ipotesi per diffidare di ogni atto della nostra politica interna ed estera il quale dia un’impressione di parzialità o di presa di posizione per gli uni contro gli altri. Ecco perché noi riteniamo che non è possibile ratificare, oggi, il Trattato di pace, quando la nostra ratifica può dar luogo al sospetto che prendiamo posizione nell’urto fra le potenze. Ecco perché alla fine, come all’inizio del mio discorso, a nome del gruppo socialista ripeto: Saremmo grati al Governo se accettasse la sospensiva. Voteremo la sospensiva. Ma se il Governo non l’accettasse, gli lasceremo allora la responsabilità di una decisione che, presa in un momento propizio, poteva e potrebbe unire tutti gli italiani nella coscienza della ingiustizia patita e nella volontà della rinascita; ma che, presa oggi, ci divide all’interno e ci rende sospetti all’estero. (Vivissimi applausi a sinistra – Congratulazioni).
Chiusura della votazione segreta.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo Provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio.
Invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.
(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).
Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che gli onorevoli Bennani, Grilli, Vigorelli, Moscatelli, Ghidini, Canevari, Treves, Bocconi, Badini Confalonieri e Cifaldi hanno chiesto la chiusura della discussione. (Applausi).
Pongo ai voti tale proposta, avvertendo che, ove sia approvata, tutti gli oratori iscritti decadono dal diritto; potranno solo parlare, per un tempo massimo di venti minuti, i presentatori degli ordini del giorno non svolti, salvo le repliche della Commissione e del Governo.
Pongo ai voti la proposta di chiusura.
(È approvata).
Annuncio delle dimissioni di un Vicepresidente.
PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che mi è pervenuta la seguente lettera:
«Onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente, La prego di comunicare all’Assemblea le mie dimissioni dall’ufficio di Vicepresidente. Con osservanza. – Giovanni Conti».
Voci. No, No!
GRONCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Questa mattina l’onorevole Corbino ha avuto occasione di invitare la Assemblea, e l’Assemblea gli ha dato immediatamente cordiale consenso, a far sì che l’onorevole Conti non mettesse in atto il proposito che aveva manifestato.
Oggi, di fronte alla lettera formale di dimissioni, noi desideriamo esprimere il rammarico che il nostro collega abbia voluto trarre tali conseguenze da un incidente che vorrei chiamare quasi banale, perché non ha comunque l’importanza che può essergli stata attribuita in un momento di eccitazione. E preghiamo il Presidente della Assemblea di farsi interprete presso l’onorevole Conti del nostro voto unanime che egli rimanga al posto finora da lui tenuto con tanta imparzialità e capacità e con senso così vivo del decoro di questo consesso. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).
VERNOCCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
VERNOCCHI. Mi associo, a nome del Gruppo parlamentare socialista, alle parole pronunciate dall’onorevole Gronchi.
Vorrei proporre all’Assemblea di respingere le dimissioni presentate, come manifestazione della nostra solidarietà e come affermazione di quella stima che abbiamo per l’onorevole Conti. (Vivissimi applausi).
CORBINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Devo ripetere quanto ho avuto occasione di dire questa mattina a proposito del nostro collega Conti e pregarlo, a nome di questo settore, di recedere dal suo proposito, continuando a rimanere nel suo ufficio. (Applausi).
SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. II Gruppo comunista si associa alle parole espresse all’indirizzo dell’onorevole Conti e dichiara che, se le dimissioni venissero mantenute, nella nomina per un nuovo Vicepresidente, voterebbe ancora il nome dell’onorevole Conti. (Vivissimi, generali applausi).
CRISPO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CRISPO. Anche a nome del Gruppo liberale, esprimo lo stesso desiderio e lo stesso invito. (Applausi).
COLITTO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
COLITTO. A nome del mio Gruppo, mi associo alle parole espresse dai precedenti colleghi. (Applausi).
PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta formulata dai vari oratori, che le dimissioni presentate con questa lettera dall’onorevole Conti non vengano accettate e che l’onorevole Conti sia riconfermato al posto che ha tenuto finora con così piena approvazione da parte dell’Assemblea.
(La proposta è approvata all’unanimità – Vivissimi, generali, prolungati applausi).
La seduta è sospesa per alcuni minuti.
(La seduta, sospesa alle 19.25, è ripresa alle 19.45).
Risultato della votazione segreta.
PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Convalida del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato in data 29 marzo 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio:
Presenti e votanti 439
Maggioranza 220
Voti favorevoli 358
Voti contrari 81
(L’Assemblea approva).
Hanno preso parte alla votazione:
Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.
Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Beffato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.
Cacciatore – Caccuri – Caiati – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Costa – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.
Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.
Einaudi – Ermini.
Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo –Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.
Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Germano – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Vererin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.
Imperiale – Iotti Leonilde.
Jacini – Jacometti – Jervolino.
Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.
Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marconi – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzatto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Matteotti Carlo – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.
Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Notarianni – Novella – Numeroso.
Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.
Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paris – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Pistoia – Platone – Ponti – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.
Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.
Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo– Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.
Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sapienza – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Selvaggi – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spallicci – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella.
Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti– Togni – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Turco.
Uberti.
Valenti – Valiani – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Vilardi – Villani – Vinciguerra – Vischioni.
Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zappetti – Zerbi – Zotta – Zuccarini.
Sono in congedo:
Abozzi.
Bellavista – Bianchi Bianca.
Cairo – Cannizzo.
Galioto.
Lombardo Ivan Matteo.
Marazza.
Persico.
Raimondi – Ravagnan – Rubilli – Russo Perez.
Si riprende la discussione del disegno di legge: Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze alleate ed associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).
PRESIDENTE. L’onorevole Selvaggi ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente italiana, di fronte al Trattato imposto e alle sue iniquità, eleva una solenne protesta nel nome dei morti, dei nostri figli, di questa Italia la cui vita esuberante e le cui forze di ripresa sapranno dimostrare al mondo di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito».
Ha facoltà di svolgerlo.
SELVAGGI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho aderito volentieri alla richiesta di chiusura della discussione, perché mi è parso che tutti gli argomenti possibili siano stati sufficientemente trattati.
Questo dibattito non è stata una discussione sul Trattato di pace, poiché la tesi sostenuta da tutti noi è stata sempre che si trattava d’un Trattato imposto e che pertanto non poteva essere discusso, ma, se mai, subito e non accettato, ma è stata una discussione sulla politica estera; sulla politica estera di un triennio, poiché noi dobbiamo partire dalla data dell’8 settembre, per vedere quale politica estera è stata fatta, per domandarci se era possibile ottenere un Trattato migliore.
Noi dovevamo scontare e pagare una sconfitta militare, ma dovevamo anche domandarci se, coi sacrifici fatti dal popolo italiano dopo l’8 settembre, si poteva ottenere qualcosa di meglio, qualcosa che meno offendesse la dignità della nostra Nazione.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre, ci furono due fatti importanti: la dichiarazione di guerra alla Germania e la cobelligeranza, e poi l’accordo Prunas-Russia.
Il primo fu un atto positivo autonomo, la prima iniziativa che l’Italia prendeva dopo l’armistizio-capitolazione; ed infatti fu seguito da una dichiarazione, anzi, dall’impegno di Quebec, fra Roosevelt e Churchill, che l’armistizio sarebbe stato modificato in relazione all’apporto italiano alla guerra contro la Germania.
Il secondo atto, il riconoscimento da parte della Russia del Governo italiano, anch’esso atto autonomo, fu negativo e influì sulla successiva politica estera italiana, perché insospettì l’altra parte, gli anglo-americani.
A questo punto s’inserirono i Comitati di liberazione nazionale ed i Governi che ne furono l’espressione.
La prima dichiarazione di politica estera l’abbiamo nel settembre del 1945, quando l’onorevole De Gasperi tornò da Londra e da Parigi. Egli disse allora: «Nulla è pregiudicato». Ed il popolo italiano si mise nella euforica aspettativa che ben poco gli sarebbe stato tolto. Questo fu errore grave di impostazione della nostra politica estera e dei nostri contatti diplomatici; infatti nel gennaio del 1946 l’onorevole De Gasperi doveva dichiarare che egli non aveva carte. Noi ci eravamo messi nella nostra azione di politica estera su di un piano, che era stato un piano della propaganda dei vincitori, piano che voleva dividere l’Italia dal fascismo, e non ci eravamo accorti che i nostri vincitori erano passati, appena ottenuta la vittoria, sul piano cinico della realtà, sul piano del Vae victis!. Noi ci battevamo: mea culpa, ci accusavamo di colpe non nostre, dimostravamo di rassegnarci a dover subire ogni qualsiasi imposizione.
La difesa della nostra politica estera non è stata unilaterale. L’onorevole Togliatti ieri e l’onorevole Nenni oggi hanno detto che è stata unilaterale. Se fosse stata unilaterale, sarebbe stata una politica nazionale nell’interesse dell’Italia, mentre non ha potuto essere nazionale, proprio perché i Governi non erano uniformi; erano discordi i partiti al Governo ed hanno impedito una politica nazionale e lineare. È molto facile oggi esprimere delle critiche, dire che la colpa è dell’onorevole Bonomi e dei circoli che gli erano intorno. Ma se i Comitati di liberazione nazionale avevano tutto in mano, quali altri circoli potevano impedire una politica nazionale? Anche nel settore diplomatico, non si è stati sufficientemente efficaci. Cosa si è controbattuto alla propaganda slava, che ha riempito e, direi, letteralmente inondato i circoli politici inglesi ed americani di pubblicazioni sulla Jugoslavia? Noi abbiamo contrapposto un modestissimo «Libro bianco» e non ci siamo accorti che la propaganda slava – che ancor oggi è forte proprio in Inghilterra – è riuscita a far entrare nella testa di molti che la Venezia Giulia non è territorio italiano ma è territorio slavo.
Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il 25 luglio, che cosa ha significato l’8 settembre, cioè l’apertura di quella fortezza europea che gli stessi americani credevano impossibile ad effettuare.
Non si è sufficientemente valorizzato quello che è stato il contributo di sangue versato dagli italiani dopo l’8 settembre, da parte delle truppe dell’esercito regolare, della marina, della aeronautica, da parte dei patrioti, i quali non hanno fatto il giuoco del cavallo vincente, perché non si affrontano i plotoni di esecuzione se non per ideali altissimi, quali quello della libertà e quello della patria. Si continuò a recitare il mea culpa dinanzi a Tito, la cui vittoria era costata il sangue di ventimila soldati italiani.
Contemporaneamente, a Vienna, un Governo messo a capo di un popolo che ha fatto fino in fondo la guerra nazista, avanzava pretese territoriali nei nostri confronti e manovrava tra le contrastanti forze d’Europa. Ma non si era nemmeno tentato di fare quello che altri popoli hanno fatto: un Governo in esilio al quale tutti gli italiani avessero potuto appellarsi ed avvicinarsi. Questo chiedo in modo particolare all’onorevole Sforza, che ancora nel 1942 dava garanzia a nome altrui.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Mai!
SELVAGGI. Sì, e la lettera al Re d’Italia?
SFORZA, Ministro degli affari esteri. È un falso!
SELVAGGI. Ne prendo atto. L’onorevole De Gasperi dunque disse: non abbiamo carte! Ma in quella tremenda partita di poker che è la politica internazionale, dichiarare prima ancora d’iniziare il giuoco una cosa come questa è, a mio giudizio, estremamente grave. Soprattutto quando si ha a che fare con dei carnivori dalle mandibole possenti quali erano coloro che volevano assidersi a nostri giudici. Credo che mai un Governo si sia trovato da vinto in posizione più favorevole di quella in cui si è trovato il Governo italiano, fra potenze divise da ambizioni antitetiche ed inconciliabili, tra le quali – ripeto la frase pronunciata nel suo discorso dell’altro giorno dall’onorevole Sforza – «il nostro Trattato costituiva un compromesso ed un atto di pace». Eravamo cioè soggetto e non oggetto: eravamo elemento indispensabile per questo compromesso e per questo atto di pace. Riconosco e do atto che l’eredità, che è stata assunta dai Governi che hanno preceduto l’attuale, è stata dura, ma ciò nonostante resta il fatto che noi siamo andati a Londra e a Parigi con il saio dei penitenti, mentre avremmo potuto additare con l’indice molti di quelli che si erigevano a nostri giudici e che potevano essere al banco degli accusati come noi, perché essi avevano civettato con il fascismo e con il nazismo. Basti il ricordo di Monaco del 1938, quando fu tradita l’Europa intera.
Ma, a parte il 25 luglio, la cobelligeranza e la dichiarazione di guerra, due carte c’erano: la promessa fatta durante la guerra dalle nazioni alleate ed associate, e la dichiarazione di Quebec che erano un vero e proprio patto, un do ut des, perché da parte nostra si entrava in guerra contro la Germania e ci si disponeva a versare dell’altro sangue; dall’altra parte si prendeva l’impegno di modificare gradualmente le clausole dell’armistizio in relazione al nostro sacrificio. Ma vi sono anche dei dati precisi.
Dopo l’8 settembre, i tedeschi hanno fatto 600.000 prigionieri italiani; di questi 30.000 sono morti in campi di concentramento e soltanto 23.000 hanno aderito ai nazisti. Per contro, dei 700.000 prigionieri in mano inglese, 578.000 hanno chiesto, dopo l’8 settembre, di poter collaborare e cooperare alla guerra. Questo era l’indice dell’orientamento di un popolo.
Non esistette praticamente una politica estera, perché le lotte interne, perché quella politique d’abord di Nenni, avevano la preminenza di fronte agli interessi nazionali verso l’estero.
E così siamo giunti a quel fatale giorno della firma; ma dobbiamo domandarci se dal punto di vista della politica interna, se dal punto di vista degli strumenti diplomatici, siamo stati all’altezza della situazione. Indubbiamente, un nesso vi è fra politica interna e politica estera, se non così stretto come lo si vuol fare apparire. Troppo ci si è fidati che il democratico cristiano Bidault potesse favorire il democratico cristiano De Gasperi e il laburista Bevin il socialista Nenni. Signori, questi uomini, prima di essere uomini di parte, sono uomini del loro Paese. Bevin è prima inglese e poi laburista. Dobbiamo imparare anche noi ad essere prima di tutto italiani e poi uomini di parte.
JACINI. Non abbiamo niente da imparare.
SELVAGGI. Abbiamo da imparare, onorevole Jacini.
Al momento della firma, l’onorevole De Gasperi si assunse una gravissima responsabilità, della quale gliene ho dato e gliene do atto: fu un atto di coraggio. Non so però se in quest’atto di coraggio non ci sia stato anche un certo senso di paura, che non arrivassero aiuti e rifornimenti.
E poi vi era una speranza: la speranza della revisione. Lo disse egli stesso nelle dichiarazioni che fece in quel momento, che nel lasso di tempo che sarebbe intercorso fra la firma e la ratifica qualcosa avrebbe potuto modificare le clausole dell’armistizio. Non mi pare che molto si sia modificato. Viceversa, temo che se la ratifica viene presentata sotto lo stesso aspetto, con la stessa speranza, avremo delle forti disillusioni, e le disillusioni sono molto, molto pericolose.
E siamo al punto della ratifica. Sono state analizzate un po’ da tutti le ragioni addotte dal Governo il quale chiedeva con urgenza, con immediatezza che si procedesse alla ratifica. Si chiedeva questo per un complesso di ragioni che vanno dal piano Marshall, che era imminente, all’O.N.U., ad una politica autonoma, ad un fatto politico e non ad un fatto giuridico. Mi sembra che tutti questi argomenti siano un po’ caduti e la riprova è data dalla nuova formula che ci viene presentata per la ratifica. Non si tratta più di ratificare, quindi di eseguire, ma si tratta di prendere un impegno di eseguire ad una data, che non sappiamo quando sarà. Cioè, non c’è più l’urgenza, non c’è più l’immediatezza.
Due soli aspetti degli argomenti presentati dal Governo vorrei chiarire. Il primo è quello che si riferisce alle pressioni che possono essere venute per questa ratifica nostra. Ma, a questo proposito, io vorrei domandare: di fronte a queste pressioni, è stato chiesto se veramente chi ce le faceva riteneva che la ratifica fosse nel nostro interesse o non riteneva, invece, che fosse precisamente nell’interesse proprio?
E se così era, dovevamo contrattare qualche garanzia. Dovevamo, cioè, per esempio, chiedere una interpretazione di quel famoso articolo 90: dovevamo chiedere che ci fosse accordato un termine dalla ratifica russa dopo del quale poter trattare direttamente. Allora sì che io avrei capito un principio, un inizio di revisione.
Certo, può darsi benissimo che ci siano delle ragioni segrete, riservate che noi non conosciamo. L’onorevole Sforza ne ha fatto anche un vago accenno. Ma, se ci sono, l’onorevole Sforza avrebbe dovuto chiedere una seduta segreta per riferircene. C’è un precedente poi che mi autorizza a formulare una ipotesi di questo genere; ed è il precedente del Trattato di Rapallo, con la clausola segreta su Porto Barros che fu conosciuta soltanto dopo che l’onorevole Sforza l’aveva smentita.
L’altro punto riguarda la nostra entrata nell’O.N.U. In verità, onorevoli colleghi, troppe illusioni noi ci facciamo a proposito di questa entrata nell’O.N.U. Prima di tutto è da osservare che, per i due articoli 53 e 107 dello Statuto dell’O.N.U., noi siamo in condizioni di potervi entrare soltanto in una patente condizione di inferiorità, perché vi possiamo entrare soltanto come Stato nemico, neppure come ex nemico. In secondo luogo, l’O.N.U. non è fatta, come si crede, per la revisione o – come dice l’onorevole De Gasperi – per lo svuotamento dei Trattati; essa è invece fatta proprio, tutto al contrario, per il mantenimento dello status quo.
L’O.N.U. esclude quindi per statuto ogni possibilità revisionistica per quello che concerne questo nostro infausto Trattato. Forse l’onorevole Sforza, quando ci ha parlato di questo, ha pensato allo statuto della Società delle Nazioni; all’articolo 141, se non erro, che prevedeva la revisione dei Trattati che fossero risultati non applicabili.
Si è poi parlato anche del discorso di Truman: ma, onorevoli colleghi, il discorso di Truman non è che un’opinione personale del medesimo. Si afferma solo un principio che i vincitori, specie se soddisfatti, non comprendono. E allora che cosa resta? Non restano che delle speranze e delle prospettive. C’è un solo punto che, a mio parere, è fondamentale a sostegno della tesi che l’onorevole De Gasperi ci presenta ed è il nesso logico tra la firma del Trattato e la ratifica del Trattato. Se infatti la firma del Trattato, da parte del Governo, è stata un atto sostanziale – ed è per questo che noi a suo tempo ci siamo dichiarati contrari – la ratifica non costituisce che un atto complementare e formale in quanto ci siamo già impegnati.
Ma la nostra ratifica non rende ancora perfetto il Trattato. Non lo rende perfetto, perché esso deve essere anche ratificato da tutte e quattro le grandi Potenze. Ora, ci si è domandato perché la Russia non abbia ancora ratificato; la Russia, come ebbe a dichiarare Molotov, ha considerato il nostro Trattato come il migliore che l’Italia potesse avere. Quindi questo significa che è anche passibile di peggioramento.
Quali problemi si sono aperti oggi per la Russia, e che impongono ad una diplomazia esperta, come quella russa, di avere delle carte in mano? C’è ancora il problema austriaco, il problema tedesco, il problema di Trieste che si regge soltanto sull’accordo Tito-Morgan, che lascia quella zona aperta all’infiltrazione slava e chiusa all’italianità.
L’onorevole Nenni ha domandato – se per caso gli Stati Uniti non avessero firmato – se l’onorevole De Gasperi ci avrebbe chiesto la ratifica del Trattato. Io sono contro la ratifica, in ogni caso, ma vorrei chiarire questo punto. Se si tratta dell’interesse italiano, se si tratta, cioè, di fare qualche cosa che sia utile al Paese, se, cioè, proprio la mancata ratifica russa – e quindi un rinvio o una nostra mancata ratifica – possa significare un danno per il nostro Paese, allora, la tesi dell’onorevole De Gasperi è esattissima, cioè la ratifica è necessaria.
E ciò, in relazione alla situazione che si è verificata col piano Marshall. Il piano Marshall è stato definito dall’onorevole Sforza una improvvisazione anglosassone. Effettivamente, dal modo come si sono svolte le cose, si è trattato di una improvvisazione tecnica – per lo meno – ma non credo politica.
Che cosa è questo piano Marshall o che cosa dovrebbe essere?
A mio parere, esso ha due aspetti, uno squisitamente economico, e risponde ad una frase che è stata abbastanza usata: aiutati che il ciel ti aiuta. L’America ci ha detto: «Io posso venirvi incontro e darvi quello che vi serve, ma mettetevi d’accordo». Ma questo l’America l’ha detto a tutta l’Europa, compresa la Russia. Se un disaccordo c’è stato a Parigi per questo piano Marshall, per cui questo si è limitato ad una parte dei paesi europei, questo è stato un disaccordo su un problema politico.
Ma, allora, noi abbiamo un compito che possiamo bene eseguire, proprio fra questi due blocchi che si sono formati fra l’occidente e l’oriente; ma sia chiaro che il blocco occidentale si è formato perché preesisteva un blocco orientale slavo, che si era formato già da tempo e che non è di oggi.
Non dimentichiamo che questa situazione è molto analoga a quella del 1912, quando il panslavismo intendeva formare il blocco di tutti i popoli slavi.
Di fronte a questa situazione, noi abbiamo un problema, ed è quello di far sì che questo piano si mantenga sul terreno economico, che è quello al quale possiamo contribuire col nostro lavoro ed è quello dal quale possiamo avere quegli aiuti che ci sono indispensabili, perché, quello che ha impressionato favorevolmente a Parigi, è stata la Fiera di Milano e la Mostra ferroviaria di Roma, che sono stati gli indici della capacità di ripresa del nostro popolo, capacità che molti ci invidiano.
Dobbiamo inserirci in questo piano ed essere presenti in questo programma economico, insistere perché esso sia aperto a tutti, perché se tutti potranno entrare in questo programma economico generale, anche i problemi politici saranno superati e forse allora soltanto il nostro contributo sarà decisivo e potremo conciliare un’antitesi fra i due blocchi, che noi soprattutto dobbiamo temere. Perché noi la revisione l’avremo, perché i vincitori dovranno rendersi conto, di fronte alla storia, che hanno assunto una terribile responsabilità, quella di privare un popolo di territori che sono entro i confini che Dio ha dato a questo popolo, e che sono stati conquistati col sangue di 700.000 figli!
Oggi, mi pare che il problema si ponga in termini molto chiari. Se, prima che questa discussione si fosse iniziata, si poteva ancora parlare di rinviare la questione della ratifica, non mi pare che questo problema possa sussistere oggi. Abbiamo discusso per una settimana sulla politica estera; abbiamo anche discusso sulla ratifica o meno o sul rinvio della ratifica; oggi il problema di un rinvio, a mio parere, non si pone più: oggi ognuno deve assumere di fronte alla propria coscienza, per coerenza politica, la propria responsabilità, per un «sì» o un «no», si ratifica o non si ratifica. Non è più il caso di rinviare; non faremmo una figura seria di fronte all’estero – e questo dibattito ha valore di fronte al mondo più ancora che di fronte al nostro Paese – se noi ancora rinviassimo questa discussione o la decisione su di essa.
Appunto perché il Trattato è un Trattato imposto, che noi subiamo, non dobbiamo dubitare della buona fede di chi si assume la responsabilità della ratifica o di chi si assume la responsabilità di dire «no» alla ratifica. È per tutti, credo, il più doloroso sacrificio che si possa fare; sacrificio dal quale, però, dobbiamo augurarci che sorga una nuova era di pace all’interno e nel mondo intiero.
Questa responsabilità di un «sì» o di un «no» spetta all’Assemblea per diritto suo: è nella sua legge istitutiva. Non è un problema politico, non è un problema di Governo; è un diritto dell’Assemblea; è una responsabilità nostra, di fronte alla quale noi ci troviamo individualmente, un problema di coerenza, un problema morale.
Di fronte a questo problema morale, io dichiaro che non posso ratificare, che sono contro la ratifica, perché ritengo che la revisione potrebbe venire soltanto non ratificando, perché ci sono due articoli che offendono la dignità degli italiani, la dignità dei nostri morti: l’articolo 15 e l’articolo 16 che riguardano coloro che hanno tradito mentre i nostri soldati combattevano e morivano.
Tuttavia io credo che, di fronte all’interesse generale del Paese, di fronte alla dignità nostra, noi possiamo, noi dobbiamo, al di sopra delle fazioni che ci dividono, trovare un denominatore comune; e su questo denominatore comune che è l’oggetto dell’ordine del giorno da me presentato, elevare la nostra protesta contro tanta iniquità che è stata perpetrata ai danni del popolo italiano: una protesta nel nome dei nostri morti, dei nostri figli, di questa Italia, la cui vita esuberante e la cui forza di ripresa sapranno dimostrare al mondo intero di saper vincere sulla lettera per far trionfare lo spirito. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. L’onorevole Saragat ha presentato il seguente ordine del giorno:
«L’Assemblea Costituente, subendo lo stato di necessità e in considerazione dei superiori interessi solidali della Patria e della pace, approva il testo dell’articolo unico presentato dal Governo.
L’onorevole Saragat ha facoltà di svolgerlo.
SARAGAT. Signor Presidente, non mi è possibile riassumere in venti minuti gli argomenti a sostegno dell’ordine del giorno che ho presentato. Sono quindi costretto a rinunciare a parlare, riservandomi di chiedere la parola in sede di dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:
«L’Assemblea Costituente, non essendo ancora il Trattato diventato esecutivo per il difetto delle condizioni richieste dall’articolo 90, delibera di rinviare l’approvazione del disegno di legge».
L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha facoltà di svolgerlo.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. La dichiarazione fatta dall’onorevole Saragat mi crea un caso di coscienza, perché l’onorevole Saragat ha detto che, non potendo osservare il limite dei venti minuti, preferisce rinunciare ora alla parola e parlar dopo per dichiarazione di voto: il che fa supporre che la dichiarazione di voto non abbia limiti di tempo. (Commenti).
Ora, io mi trovo in condizioni perfettamente simmetriche: quindi, o rinuncio alla parola, riservandomi di parlare in sede di dichiarazione di voto…
Voci. No! No!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …oppure parlo ora, ma non in venti minuti.
Voci. Parli! parli!
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, io mi permetto di fare alcune osservazioni. Problemi di questo genere si risolvono in via di consenso; ma evidentemente non in via di un accordo di carattere personale, a meno che non restiamo d’intesa che il Regolamento non vale per nessuno. È evidente che io non desidero – e l’ho dimostrato – restare nell’orbita del tempo rigidamente stabilito, ma suppongo che, se la chiusura è stata chiesta e votata, ognuno che l’ha chiesta e specialmente ognuno che l’ha votata sapeva ciò che essa avrebbe significato.
Di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat, l’onorevole Orlando a sua volta ha tratto delle conseguenze. Se l’onorevole Orlando parlasse – come egli ha diritto di parlare – ma molto al di fuori di quell’ambito di comprensione che ognuno di noi ha sempre dimostrato, specialmente nei confronti dei nostri colleghi che chiamerò maggiori, è evidente che si porrebbe a me personalmente il problema di coscienza di fronte alla dichiarazione dell’onorevole Saragat.
E vorrei precisare a questo proposito che è evidente che non si può fare, in sede di dichiarazione di voto, ciò che non si può fare in sede di svolgimento di un ordine del giorno. La dichiarazione di voto è ancor più stringata e riassuntiva che non lo svolgimento di ordini del giorno. È evidente che la dichiarazione di voto è uno svolgimento che ha altro tipo di struttura che non lo svolgimento dell’ordine del giorno, ma proprio quel suo tipo di svolgimento dev’essere contenuto in un limite minore che non lo svolgimento dell’ordine del giorno.
Ciò ho voluto dire perché – l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele me lo insegna – la legge che il Parlamento si dà per il suo funzionamento ha una sua ragion d’essere e, come ogni legge più ampia, ha un valore impegnativo.
Detto questo, do facoltà di parlare all’onorevole Orlando Vittorio Emanuele per svolgere il suo ordine del giorno.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Da parte mia, prendo impegno di contenermi entro quel tempo in cui si usa o si tollera che si vada al di là dei limiti fissati. (Si ride – Applausi).
E allora, secondo il titolo di un famoso monologo, condensiamo.
Argomenti di esordio ne avrei parecchi.
Per esempio, vorrei spiegare come, a proposito del Trattato di Versaglia, avesse ragione Nitti quando diceva che poteva firmarlo e non volle, e avevo ragione io quando, alla mia volta, dicevo che potevo firmarlo e non volli. Ed ecco. Io, come Presidente del Consiglio, provochi la crisi il 19 giugno del 1919 e mi succedette il Ministero Nitti, costituitosi il 23 giugno o il 29 giugno, a Parigi si firmava il Trattato di pace colla Germania. Io avrei dovuto firmarlo come Presidente della Delegazione, poiché rappresentavo l’Italia alla Conferenza, non per la mia qualità di Presidente del Consiglio, ma per le credenziali che mi affidavano la Presidenza della Delegazione. Nitti, nuovo Presidente del Consiglio, poteva, e normalmente avrebbe dovuto, esonerarmi senz’altro da questo mandato specifico per assumerlo egli stesso col suo Ministro degli esteri. Preferì correttamente di lasciare a noi il compito della firma conclusiva, dato che noi avevamo operato e, direi, sofferto, durante tutto il periodo della preparazione; la sostituzione come delegati avvenne subito dopo la firma. In questo senso, dunque, è giusto dire che egli preferì di non firmare. In conseguenza di ciò, io, alla mia volta, avrei dovuto firmare come Presidente della Delegazione, qualità che avevo serbata sia pure per quei pochi giorni. Or io ero a Roma, dove ero venuto per la crisi; ma l’apporre la firma a un documento storico di così enorme importanza avrebbe indotto a sacrifici di gran lunga maggiori del viaggio che sarebbe occorso per recarmi a Parigi. Invece, io preferii non muovermi da Roma e in questo senso può dirsi che non volli firmare quel Trattato. Il che indica pure che non l’ammiravo affatto; ma se, a questo punto, spontanea viene la suggestione del confronto di esso con l’attuale documento, di quanto si avvantaggia il primo! Non sarebbe però questo un momento adeguato per tali discussioni. Meglio è parlarne in altra sede.
Avrei pure voluto, in questa occasione, parlare a proposito di quella famosa frase «la guerra continua» del manifesto badogliano, la cui origine mi è stata attribuita, dapprima in maniera obiettiva, poi con commenti estensivi di una disapprovazione, necessariamente vaga, perché dietro quelle tre parole non c’era altro. Or io riconosco alla stampa, in tutte le sue forme, come giornale, come diario, come storia, come politica, riconosco il diritto di ricostruire fatti e di esprimere giudizi come meglio o peggio creda. Non riconosco però il diritto di chiamare davanti a sé l’uomo politico come un incolpato che debba giustificarsi. Di fronte a tutto quanto si è potuto dire a proposito di tutta la grande storia cui ho partecipato, io rispondo, se lo credo, quando lo credo, e, soprattutto, in quella sede che mi appare legittima. Nel caso attuale, il momento storico cui si riferiva quel mio intervento era estremamente delicato; complessi e formidabili erano gli argomenti che vi si collegavano. Posso oggi, ma solo oggi, discorrerne qui, al cospetto di un’Assemblea che rappresenta il Paese e in una discussione attinente al tema. Non altrove, né altrimenti.
Con quella brevità imposta dall’ora, dirò dunque che, in sostanza, io che non ebbi più rapporti politici col Re dopo quello che fu il vero colpo di Stato del 3 gennaio 1925; avevo mandato l’ultima avvertenza, nel dicembre del 1924. E diceva quel mio messaggio: finora può il Re riprendere la situazione in mano, e dominarla; d’ora in poi non lo potrà più; prima d’ora sentivo che del mio consiglio si sarebbe fatto a meno, ma senza danno irreparabile; dopo di ora, il consiglio non sarebbe più utile poiché l’autorità della Corona verrà a cessare costituzionalmente, col cessare dell’autorità del Parlamento. Tutti sanno quel che seguì. Non ebbi altri rapporti politici col Capo dello Stato. Con le mie dimissioni nel 1925, dopo la magnifica battaglia antifascista di Palermo, dichiarai di ritirarmi da ogni forma di attività politica, poiché, dissi, la forma di regime non consentiva ad un uomo della mia fede di restare nella vita pubblica, neanche all’opposizione.
Questa lunghissima interruzione dei miei rapporti con la Corona ebbe una parentesi quando si preparava il 25 luglio 1943. Allora fui richiesto di consiglio. In generale, chi dà un consiglio per accondiscendere ad una richiesta, dovrebbe aspirare a questa garanzia minima: che non si cerchi, dopo gli eventi, di riversare sul consigliere una quota di responsabilità di un’azione cui questi non ha partecipato; il che vale tanto più, quando il dare un consiglio costituisce un dovere verso il rappresentante della sovranità dello Stato. Ci fu chi non osservò questo dovere. Comunque, i consigli che diedi non furono seguiti. Non furono seguiti, nel modo con cui l’intervento ebbe luogo. Poiché il trionfo del fascismo si era affermato con un colpo di Stato contro il Parlamento, contro la libertà e contro gli organi costituzionali, io pensavo che vi dovesse corrispondere un colpo di Stato inverso, diretto alla reintegrazione dello stato giuridico violato, e quindi attraverso un intervento della Corona, che sotto la sua esclusiva iniziativa e responsabilità restituisse al Paese quelle garanzie parlamentari e quella libertà statutaria che gli erano state tolte.
Non mi fu detto, né io pensavo, che si sarebbe ricorso ad una forma pseudo-parlamentare di un voto di sfiducia, come sarebbe stata la votazione del 24 luglio in Gran Consiglio, famosa votazione, poi tragica. Gli eventi dimostrarono come l’uso di una tal forma fosse un grave errore, anche a parte ogni riflesso interno, soprattutto nei rapporti internazionali, poiché si determinò un dubbio sulla sincerità della rottura definitiva con il fascismo, essendo il mutamento avvenuto sulla base di un voto dato dai gerarchi e che poteva supporsi derivato da una loro persistente autorità.
Or per l’appunto, in quel momento, la questione più essenziale, questione di vita o di morte, e nel tempo stesso la più delicata e la più pericolosa, era di sciogliersi dall’alleanza nazista e di liberarsi da quella guerra sciagurata: il quale argomento, dunque, era compreso ed anzi dominava nelle conversazioni cui presi parte e per cui preparai, sempre richiesto, bozze di atti o proclami che sarebbero potuti occorrere. Or su quel punto il mio consiglio fu questo: prima fase, prima dichiarazione: la guerra continua e l’Italia non manca agli impegni contratti. Come poteva essere diversamente? Era una questione di onore, che si poneva al di sopra di tutti gli interessi politici e di tutti i pericoli paventati; era anche una questione di tecnica militare, a causa della impossibilità materiale di una immediata separazione fra due eserciti, che avevano combattuto e combattevano insieme. Pensate! In quel momento, combattevano fianco e fianco, proprio nella mia Sicilia, truppe tedesche e truppe italiane. Come potevano, immediatamente, rompersi l’unità del fronte e l’unità del comando?
Prima dichiarazione, dunque: la guerra continua. Ma questa prima fase doveva superarsi rapidissimamente, nelle prime 24 ore. Nelle seconde 24 ore, doveva iniziarsi una seconda fase con questa comunicazione all’Ambasciatore tedesco: «L’Italia non è in condizione di andare avanti; l’Italia deve chiedere l’armistizio. Lo chiederà per voi, non per sé, sacrificando, se occorre, se stessa per tener fede all’alleanza contratta». Come? Chiedendo agli alleati di concedere il tempo tecnicamente necessario, alle truppe tedesche, per ritirarsi: lealtà elementare, necessità militare. Ricordo che indicai un precedente da me vissuto, per dimostrare che gli alleati non potevano rifiutare il loro consenso, poiché l’avevano già dato un’altra volta in condizioni eguali: il precedente dell’armistizio chiesto dall’esercito bulgaro nel settembre del 1919, in cui la Bulgaria aveva curato di stipulare un termine di 15 giorni per dar modo alle due divisioni austriache e tedesche, impegnate nel fronte macedone, di ritirarsi. Termine che fu accordato, proprio da quelle medesime nazioni cui ora si doveva chiedere. Vi era poi un’altra questione, che doveva trattarsi nelle condizioni dell’armistizio: l’occupazione interalleata avvenuta. Noi tenevamo dei territori anche per conto della Germania e così reciprocamente. Questa comunicazione costituiva la seconda fase nelle seconde 24 ore.
Doveva poi seguire la terza fase, con la stessa rapidità. A queste dichiarazioni del Governo italiano doveva darsi pubblicità e diffusione larghissime. Con l’aiuto della radio tutto il mondo doveva conoscerle. Si determinava così per l’Italia una situazione di una lealtà perfetta e, in pratica, la più favorevole, relativamente alle formidabili difficoltà. La Germania, infatti, o poteva aderire, e noi ci saremmo trovati nella più onorevole maniera a trattare con gli alleati un armistizio in quelle chiare condizioni; o la Germania, come per verità io pensavo, si sarebbe orgogliosamente rifiutata, ed allora era la guerra immediata fra noi e la Germania, per una causa nobilissima di perfetta lealtà italiana. E questa guerra noi avremmo combattuta quando in Italia le divisioni tedesche erano cinque o sei, in luogo delle 27, che Hitler vi concentrò, poi, fra luglio e settembre! E ci saremmo trovati spontaneamente accanto agli Alleati; e non avremmo avuto la vergogna e la rovina dell’armistizio!
Questo era il contenuto della mia frase: «la guerra continua». Beninteso: io non intendo trarre da questi ricordi alcuna gloria o semplicemente alcun merito: so bene che altro è un consiglio astratto, altro un’azione concreta. E ne avrei taciuto certamente, come è mio costume, se non fossi stato costretto da una pubblicazione proveniente da una fonte che ignoro e che riferiva quelle parole in forma tronca, interpretata poi da altri in un senso diverso ed anzi difforme dal mio pensiero.
Ma lasciamo stare queste vecchie storie e veniamo al solenne tema odierno.
L’onorevole Togliatti, ieri, nel considerare la situazione italiana, diceva: «dove andiamo?». È un problema angoscioso. Poi egli rispose che andare bisogna con la visione di una politica estera da fare, con un sistema di politica estera da seguire. Vi corrisponde il discorso di oggi dell’onorevole Nenni. «Dove andiamo?». Onorevoli colleghi, è certamente un problema, questo, che può essere di vita o di morte per l’Italia nostra, ma è problema che io non mi pongo; mi giova in ciò la mia vecchiezza, poiché mi mancherà il tempo di godere del meglio o di soffrire del peggio.
Ma la questione del «dove andiamo»? è preceduta da quest’altra: «dove siamo?». E la questione «dove siamo?» è preceduta da quest’altra: «come ci siamo arrivati?». Problemi non scindibili; quando sapremo bene «dove siamo?» avremo necessariamente conosciuto «come ci siamo arrivati?».
Questo secondo problema è per se stesso storico, ma in un certo senso si collega con tutta la politica attuale; però, in questo secondo senso, quando alludo ai nessi della politica passata con quella attuale, vogliate credere, colleghi tutti, in qualunque settore sediate, e voi particolarmente che siete al banco del Governo e che non avete mai potuto concepire dubbi sulla mia lealtà politica e oso aggiungere anche sul mio perfetto disinteresse, vogliate credere che io non intendo menomamente ricercare le colpe o i torti di questo o quel Gabinetto, o Partito, o Ministro, né sollevare dai ricordi delle azioni od omissioni nella storia politica di questo triennio, il problema delle responsabilità. Io penso che sia un ben piccolo argomento, in confronto di così grande tragedia, l’attribuire questa o quella colpa all’onorevole Tizio o all’onorevole Caio. Ma l’esame di tali questioni, se si eleva dalle persone alle cose, ha un’importanza che non si può trascurare senza una leggerezza imperdonabile, e questa importanza si pone sotto due aspetti: 1°) per trarre dal passato il più realistico insegnamento per il futuro; 2°) per servire di guida nella giusta comprensione della situazione attuale. Come ci siamo arrivati?
Sono tre anni di vita vissuti, e quali anni! Per il 1870-71, la Francia trovò e mantiene l’espressione: l’année terrible; per noi sono, invece ben tre questi anni terribili. Cos’è avvenuto in questo periodo così denso di storia, come mai, incomparabilmente, alcun altro periodo? E più particolarmente, cos’è successo che ci riguarda, che ci tocca?
Ahimè! Per varie ragioni, vere e proprie discussioni di politica estera non sono mai in questa Assemblea avvenute. Tutti gli eventi che si sono seguiti, tutti i problemi che vi si collegano – e son tanti e così complessi e così formidabili! – possono dirsi affatto nuovi – non voglio dire ignoti – in questa Assemblea in cui dovrebbe manifestarsi la massima espressione del pensiero politico d’Italia. Ognuno intende come sia impossibile l’esaminare oggi quei problemi anche di sfuggita. E allora ho pensato di trattarne uno solo, semplicemente come un esempio, cioè come mezzo di dimostrazione di un assunto, come un caso che serve ad una dimostrazione. Non ho assolutamente nessun secondo fine, che mi abbia indotto a scegliere questo fra i vari momenti storici attraversati. Non so e non m’importa di sapere chi fosse il Presidente del Consiglio e chi il Ministro degli esteri: mi potrebbero solo interessare quei chiarimenti di fatto, che potesse darmi l’attuale Ministro, non come persona, che non c’entra, ma come capo dell’ufficio rappresentativo della diplomazia italiana. Purtroppo però vi è da ritenere che nulla gli risulti, come implicitamente apparirà dalla stessa esposizione del precedente.
Or, dunque, il 27 luglio 1944 il New York Times (voi sapete l’autorità di questo giornale, il quale non pubblicherebbe notizie di questa importanza senza un sicuro controllo) riprodusse una notizia che proveniva dall’Associateti Press, fonte per se stessa autorevole, che diceva:
«Washington, 26 luglio. Si è appresa oggi una proposta britannica nel senso che gli Alleati stipulino una pace provvisoria con l’Italia, la quale ha ora la condizione combinata di nemica sconfitta e di cobelligerante. Questa proposta è nelle mani delle autorità militari. Il piano prevede la discussione con la Russia e con gli altri Paesi interessati alla sistemazione italiana. Ciò servirebbe a regolare le relazioni dell’Italia con le Nazioni Unite e a chiarire la posizione dei prigionieri di guerra italiani, che furono tanto tempo e così ingiustamente trattenuti.
«Il Governo d’Italia ha chiesto che l’armistizio degli Alleati con l’Italia sia pubblicato, presumibilmente in vista del fatto che la reazione pubblica ai suoi termini forzerebbe una revisione».
Su questa notizia sopravvenne un articolo pubblicato nei giornali del tempo (credo nel Giornale d’Italia) da Don Luigi Sturzo, che si trovava allora in America, nel quale egli diceva: «Mi ricordai allora che alla fine di giugno o al principio di luglio era stato riferito da Londra che il Gabinetto britannico aveva discusso la richiesta del Governo italiano del riconoscimento dell’Italia come alleata, e questo formava il substrato di quella proposta».
Volli profittare della presenza qui dell’insigne uomo ed ho avuto con lui un lungo colloquio proprio in questi giorni. Egli mi ha dato tutti i particolari dei passi da lui allora fatti, recandosi espressamente a Washington, ricorrendo a fonti della cui autorità nessuno vorrà dubitare. La conclusione cui si perviene è sicura: vi fu quella proposta britannica e fu accolta dal dipartimento di Stato americano. E badate alla coincidenza cronologica con altri eventi, onde si può risalire alle cause determinanti. La notizia è data dall’Associated Press il 27 luglio; il 5 giugno 1944 avviene lo sbarco a Cherbourg; il 15 agosto lo sbarco in Provenza; nella stessa estate coincide il risoluto inizio della marcia in avanti degli eserciti sovietici per la cacciata dei Tedeschi dal territorio nazionale.
Quale il rapporto causale fra questi eventi coincidenti nel tempo? Evidente. Quegli sbarchi in Francia erano stati richiesti dalla Russia, che faceva valere verso gli Alleati gli impegni da essi assunti dell’apertura di un secondo fronte in Europa. Il nuovo ingente sforzo militare richiesto dagli Alleati doveva determinare quel rallentamento delle operazioni militari in Italia, il quale culminò nel famoso arresto dell’autunno del 1944, sulla linea gotica. Il fronte italiano era in certo senso abbandonato a se stesso: tragica situazione, cui corrisposero le dichiarazioni di Alexander, tremende, quando disse che la campagna d’Italia aveva ormai il solo scopo di attirare e mantenere in Italia truppe tedesche. Tremende parole, per le quali facilmente poteva prevedersi la sensazione di dolore e di pena, che doveva destare in Italia l’attribuire al nostro fronte la missione di trattenere qui quanti più tedeschi fosse possibile, con un prolungamento, presentato come indefinito, di quella crudele separazione delle due Italie, che virtualmente era guerra civile. Sempre con quel suo proclama, Alexander dichiarò che i partigiani dovevano considerarsi in stato di «smobilitazione». Come si smobilita il partigiano sulla montagna, che è il suo fronte di battaglia? Come può egli tornare a casa se non per consegnarsi al plotone di esecuzione? Tremendo proclama, che dava il senso immediato di un sacrificio immane, che si chiedeva all’Italia, a quell’Italia in cui pur si combatteva, in cui pur sostavano corpi d’armata alleati, che non potevano restare indifesi, tanto più quanto meno potevano essere protetti dall’invio di altre truppe.
Ecco, dunque, il nesso causale che lega quegli eventi: il bisogno, avvertito dagli Alleati, di dare un compenso all’Italia in un momento in cui essa doveva sopportare un così immane sacrificio per una causa che, per ciò solo, diventava più che mai comune. Questo compenso, che spontaneamente prendeva le mosse dalla concessione dell’inestimabile beneficio dell’alleanza, si concretò alla fine nel comunicato di Hyde Park del 26 settembre 1944, dopo un incontro Roosevelt-Churchill, che faceva all’Italia le seguenti concessioni:
1°) la Commissione alleata di controllo si sarebbe chiamata semplicemente «Commissione alleata». Si levava la parola «controllo». Questo fu il primo beneficio. Cospicuo, come ognun vede;
2°) uno scambio di rappresentanti diretti sarebbe avvenuto tra Roma, Londra e Washington; Mosca non aveva aspettato e aveva consentito reciprocità di rappresentanza diplomatica, gratuitamente, sin dal 14 marzo. In ottobre avvenne, con Inghilterra e Stati Uniti, lo scambio degli ambasciatori, che non presentarono però credenziali, come del resto non le hanno presentate sinora;
3°) aiuti sanitari e rifornimenti essenziali all’Italia, mediante l’U.N.R.R.A.;
4°) modifica della legge per il commercio col nemico, in guisa da permettere all’Italia la ripresa dei rapporti commerciali con gli Alleati.
Si aggiungeva che tutti questi provvedimenti avevano lo scopo essenziale di «gettare nella lotta – parole testuali – tutte le risorse dell’Italia e del popolo italiano per la sconfitta della Germania e del Giappone». Quale abisso fra la prima forma (l’alleanza conteneva tutto) e quella finale! Dalla montagna quale piccolo topo era nato! Come avvenne un mutamento così disastrosamente radicale? Temo che di questa storia si siano perdute le tracce e che lo stesso Ministro degli esteri ed il Presidente del Consiglio non ne siano informati. Ma, a parte l’enigma che tormenterà gli storici futuri, vi è una materia viva che qui interessa, come lezione da trarre dalle cose; e a tal fine può bastare un semplice processo induttivo. È certo che la situazione dianzi descritta determinava negli alleati la spontanea suggestione di dare all’Italia un compenso, e quello cui pensarono pure spontaneamente era di un valore inestimabile. Dunque, essi, in quel momento avevano bisogno dell’Italia. Questo proposito in seguito svanisce; dunque, un’altra forza si oppose e prevalse. Ma come si può non pensare che, se da parte dell’Italia fosse stata opposta una resistenza più risoluta, più energica, più decisa a tutto (per esempio, le dimissioni in massa dei Governo, con conseguente impossibilità di sostituirlo), la forza che si oppose a quella prima proposta sarebbe potuta essere superata? Ecco l’utilità dell’insegnamento che deve trarsi dalle stesse delusioni sofferte: la nostra politica è stata sempre quella di accondiscendere; è stata politica di assoluta remissività. Il motto, per cui il rispetto verso un’autorità si circonda di misticismo: Parum de principe, nihil de deo, si rovesciò: parum de deo, nihil de principe… alleato! Se in quel momento si fosse osato e si fosse detto: non possiamo restare in questa condizione di abbandono militare senza che la solidarietà del popolo non ne resti turbata e scossa; occorre una concessione che sia di conforto e di incitamento insomma, se si fosse mostrata allora la decisione energica di chi non vuol soffrire un torto, proprio in un momento in cui gli stessi alleati lo ammettevano spontaneamente, si deve riconoscere che le cose sarebbero potute andare altrimenti. Invece, si è ceduto e questa è stata la politica dell’Italia per tre anni. (Commenti al centro).
Venne assunta e mantenuta un’aria di umiltà sino a vedere i Ministri d’Italia deferire a funzionari relativamente modesti. Del resto, e da un punto di vista più generale, governare sotto il controllo dello straniero, mai! (Commenti e interruzioni al centro). Eh! sì, lo so che c’era l’armistizio, ma non è pensabile una clausola che obbligasse i Ministri italiani ad essere organi sovrani ed uffici subordinati nel tempo stesso! (Rumori al centro). Resistere si poteva e si doveva, anche sotto l’aspetto dell’utilità. Io non escludo, che la politica in una grande storia imponga, nell’interesse dello Stato, atti di remissione, e persino di umiliazione. Per ciò ho detto che non intendo qui far questione di responsabilità contro alcuno. Ci sono momenti in cui l’uomo di Stato si deve umiliare e se obbedisce a questo imperativo, è quello un momento di grandezza per lui. Il verso il mio paese non ho nessun titolo che sia di credito da parte mia… (Interruzioni al centro). Ripeto: non ho verso il mio Paese nessun credito, perché la Patria ha tutti i diritti sopra i suoi figli sino al sacrificio della vita. Eppure, poiché l’onore vale più della vita, per una sola cosa, dico la verità, mi sento creditore verso il mio Paese: l’umiliazione, che consapevolmente dovetti soffrire quando tornai a Parigi dopo la partenza determinata dal famoso proclama di Wilson…
Voci al centro. Eravamo vincitori allora!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Eravamo vincitori; ma quando si tratta di accettare un’umiliazione, vuol dire che le condizioni, in quell’atto stesso, sono simili a quelle dei vinti, non dubitate! (Vivi commenti al centro). Se con queste interruzioni dimostrate di non aver il senso di quella fierezza e di quella dignità, che, soprattutto in certi momenti, un uomo di Stato, rappresentante di un grande Paese, deve imporsi, il resto del mio discorso non è per voi. (Applausi prolungati a sinistra e a destra). Or questa politica di continua remissione… (Interruzione del deputato Aldisio).
GIANNINI. Ma non si può più parlare in questa Assemblea! (Commenti e rumori a sinistra).
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io ho il diritto e il dovere di denunziarla. (Interruzioni del deputato Villani). Ho detto e ripeto che non cerco di accusare alcuno né di fare questioni di responsabilità. Aggiungo che considero come un’offesa fatta a me stesso credere che io, per la vita spesa al servizio dello Stato, pretenda di crearmi una situazione di privilegio fra voi. No, interrompete pure quanto volete, ma, almeno, interrompete con intelligenza! (Applausi a sinistra e a destra).
PRESIDENTE. Penso che la cosa migliore sia che nessuno più interrompa né con intelligenza né senza. Prosegua, onorevole Orlando.
VERNOCCHI. Non lo dica a noi.
PRESIDENTE. Lo dico a tutti.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta, come si mantiene tutt’ora nella forma e nel tempo e nel modo con cui si chiede questa ratifica. Badate, ogni spirito o intento di partito è da me ben lontano. Sono politicamente un solo; ma nel tempo stesso nessuno più di me anela all’unione di tutti gli italiani. Nella mia opera, nei miei discorsi, purtroppo inascoltati, ho sempre detto: verso lo straniero, unione; la divisione in partiti è privilegio di un popolo libero. Il mio attuale dissenso con molti di voi non infrange questa unità, poiché dopo la discussione, dopo il contrasto, e la critica, indispensabili ad un giusto giudizio, l’unità si ricompone nell’unità della coscienza collettiva, come avviene nell’unità della coscienza individuale, dopo l’urto di motivi contrastanti nell’individuo stesso. In un certo senso, si può dire che, in ognuno di noi, nel suo foro interno, esista ed agisca un’assemblea parlamentare simile a questa nostra. Di fronte ad una decisione individuale da prendere, noi abbiamo interiormente partiti in contrasto, si agitano discussioni, vi sono perplessità, incertezze; infine, le decisioni di un uomo si prendono per la prevalenza dei motivi, come qui con un voto di maggioranza. Io vi prego di ritenere che in questo momento io sono una parte di voi, così come voi, che mi interrompete, siete una parte di me; qui discutiamo insieme perché dai nostri contrasti sorga una decisione la quale ritrovi la sua unità nella comunione dell’intento: che questa decisione sia la migliore possibile per la salvezza del nostro Paese, per la resurrezione, per la grandezza di esso. Dicevo che vi è questo senso di pavidità quando si parla… de principe, cioè degli alleati. Io non so se Nitti se ne sia andato. (Voci: È qua). Ebbene, quando egli parlava, l’altro giorno, io avvertii un particolare stato d’animo in una parte dell’Assemblea che l’ascoltava; lo avvertii con quella specie di sesto senso, che l’oratore acquista nei rapporti col pubblico: e fra gli oratori mi classifico per quel lungo corso della mia vita che mi ha fatto parlare tante volte a pubblici così diversi e da così varie tribune. Ed io, dunque, avvertii che quando egli fece delle allusioni alla sconfitta francese, vi fu un bisbiglio sommesso, come in un’assemblea di religiosi una frase che desse scandalo. Sì, una sconfitta ci sarà stata, ma il dirlo è un’indiscrezione; si tratta di vincitori e bisogna usare forme riguardose. Badate, i francesi che sono gente di spirito sono essi stessi i primi a riconoscere la gravità di quella loro disfatta e a dedicare tutta una ricca bibliografia sulle cause di essa. Riprendendo il tema di Nitti, dirò anche io che, insomma, i nostri soldati si sono battuti in una guerra ingiusta, infame quanto volete, ma per l’onore della bandiera si sono battuti e sono caduti da valorosi, cui va tutta l’ammirazione e tutto il rispetto, anche dell’avversario. (Applausi a destra).
E il nostro collaborazionismo, effetto puro della coazione nazista, fu molto più limitato per tempo e per spazio; e in quanto ai personaggi più rappresentativi, al nostro Farinacci si contrappone un cardinale Baudrillart, membro dell’Accademia, grande storico o grande patriota, e a Starace si contrappone Charles Maurras, anch’egli della Accademia, uno dei più grandi scrittori francesi contemporanei. Lasciamo stare; la Francia è vittoriosa e noi abbiamo tradito la causa della libertà e dobbiamo essere rieducati alla scuola della democrazia. Cosa volete? La storia ha di questi paradossi. Ma egli è che una vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese. Nessuno, e tanto meno io, contesterà la opportunità dell’adesione nostra all’invito di concorrere al piano Marshall; ma il «sì» pronunciato dall’onorevole Ministro Sforza a Parigi fu, con il colore e il calore della sua parola, aleggiato dallo stesso conte Sforza come pronto, fervido, immediato. È sempre così: nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e di essere ripresi in grazia. Ebbene, in quell’occasione dell’invito a Parigi, l’onorevole Sforza, in sede di Commissione dei Trattati, pronunciò una frase particolarmente felice e giusta, a proposito della quale si verificò uno di quelli che io chiamo plagi involontari, e cioè quando due persone, indipendentemente l’una dall’altra, e reciprocamente ignorandosi, coincidano in un medesimo pensiero e lo esprimano con una medesima frase. Io, infatti, onorevole Sforza, avevo per l’appunto pensato ciò che lei disse e nella forma stessa. Ella disse: ma insomma, a Parigi, valsero assai più che qualunque mia parola, a darmi autorità come Ministro d’Italia, l’Esposizione ferroviaria di Roma e la Fiera Campionaria di Milano. Perfettamente! Ma che cosa significa ciò? Significa che l’Italia vale per quel che è, non per le finezze, le astuzie, l’abilità di una diplomazia flessibile. Or l’Italia è grande, perché è l’Italia: quia nominor leo. Ma bisogna averne il sentimento.
Così, io mi avvicino al problema che per l’abito della remissività pesa su molti qua dentro come un incubo: cosa succederebbe se non si ratificasse? Or la migliore risposta a questa domanda consiste nel ritorcerla: cosa credete che possa succedere di peggio della ratifica stessa?
Riconosco spontaneamente che a questa maniera di considerare la politica estera corrisponde un sentimento che sembra di scarso interesse nel Paese: corrispondenza che giustifica in parte l’Assemblea in quanto organo rappresentativo di questo stesso Paese. In questo momento, si riscontra nel popolo nostro come uno squilibrio, fra il senso che l’italiano ha di sé stesso come individuo in rapporto ad altri individui e il senso che egli ha dello stato della sua Patria come unità collettiva, di cui sente di esser parte. Normalmente tra quei due sensi si stabilisce un equilibrio, come liquidi che si livellano in vasi comunicanti. L’individuo comprende, nel suo complesso psicologico, il senso di grandezza o di miseria dello Stato cui appartiene. Il romano antico, anche se era un proletario, avvertiva con fierezza la potenza della sua Patria: civis romanus sum. L’Italiano del 1943 aveva la tragica visione della disfatta e come rovina individuale e come disfacimento dello Stato. Ma in questi anni successivi questa correlazione è venuta man mano scomparendo. Per le sue qualità, onde nei secoli è stato educato a lottare contro le avversità, l’italiano è venuto migliorando il complesso delle sue condizioni di vita, mentre quelle del Paese, come unità di Stato, son rimaste le stesse: cioè senza effettiva indipendenza e con autorità quasi nulla; e sono precisamente le condizioni che questa cosiddetta ratifica riassume, riconosce e consacra. È umano il desiderio di non esser turbati da ammonimenti penosi e così l’italiano preferisce ignorare in quali condizioni questo orrendo Trattato ponga l’Italia. Da parte sua, il Governo fa il possibile per nasconderle. Da ciò la relativa indifferenza che il popolo dimostra verso questo epilogo della sua tragedia, onde i giornali, che sono i termometri dell’interesse del pubblico verso i vari argomenti, riservano il maggiore spazio della loro prima pagina (e non ne hanno che due) a qualche delitto o processo celebre, al campionato di calcio o al giro ciclistico di Francia. Ma in verità vi dico, o colleghi: diffidate di questa apparente indifferenza, diffidate. Il cervello di questo nostro organismo collettivo è ancora «schoccato», per usare un neologismo brutto, ma espressivo, degli psichiatri; è ancora sotto il colpo tremendo della catastrofe sofferta. Ma guai se si risveglia. Le collere del popolo, quando ha attraversato vicende così atroci, possono essere terribili, specie perché il fondo dell’anima italiana è profondamente patriottico e l’esasperazione di questo sentimento può dar vita a quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo. Ne soffrimmo per ventidue anni e i mali attuali ne sono la conseguenza.
Badate, ripeto. Il popolo attualmente non ha l’idea giusta delle condizioni cui è ridotta l’Italia da questo Trattato, che stiamo discutendo, per ratificarlo senza necessità! E bisogna illuminarlo e soprattutto non fargli credere (e non credere voi stessi) che il resistere all’ingiustizia ci esponga a chissà quali oscuri pericoli, poiché oltre i danni estremi che ci sono stati inflitti, non si potrebbe andare, senza destare l’opposizione invincibile delle stesse gelosie e rivalità internazionali. Anche di ciò posso portare un esempio di un’efficacia incomparabile, di cui dirò le fonti a tutti accessibili, senza che occorra che io le convalidi con altre da me raccolte in Sicilia, che non derivano dalla pubblica sicurezza e che anzi con essa non han nulla di comune, ma che come valore di informazioni non lasciano nulla a desiderare.
Or, nell’Umanità dell’11 luglio 1947, recentissimo dunque, c’era un articolo non firmato – in generale gli articoli vi sono firmati – non firmato, ma scritto da persona di primo piano, che sapeva bene quello che diceva.
Ebbene, questo articolo conteneva un singolare ricordo storico – ripeto che l’autore aveva tutta l’aria di essere bene informato, specialmente di cose inglesi – diceva ad un certo punto: «L’abbandono di parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria…». Notate il significato profondo di questo ravvicinamento della Sicilia con Pantelleria. Piccola isola questa, cara al mio cuore ed a quello di Maffi, che vi fu relegato – ma ne parla con memore ammirazione ed affetto – cara bella isola, ma pur piccola isola in confronto della massima isola mediterranea. Che, dunque, si parli di un controllo sopra Pantelleria, abbinandolo con uno sulla Sicilia, ha un significato eufemistico che fa fremere.
Bene, l’articolo diceva: «L’abbandono da parte inglese della volontà di controllare la Sicilia e Pantelleria fu dovuto sostanzialmente ad un’azione informativa condotta sull’opinione pubblica, quando a Londra non esisteva ancora ombra di diplomazia italiana».
Dunque, stando a questo autorevole scrittore, ci sarebbe stata quell’intenzione, sì; però una indagine condotta sull’opinione pubblica, persuase che era meglio abbandonarla. Quale opinione pubblica? Quella dell’Italia no, perché l’Italia era divisa in quattro o cinque compartimenti fra loro non comunicanti. L’eufemismo è trasparente, lo si vede come attraverso un vetro, anche per quanto riguarda questa curiosa «azione informativa» condotta su di un’opinione pubblica non altrimenti identificata, che poteva anche essere quella… americana, francese, russa; e allora l’eufemismo significa che questo «controllo» che si sarebbe esteso su tutto il Mediterraneo, non piaceva alle altre… opinioni pubbliche! Fu grazie a questa azione informativa che l’Italia sfuggì ad una minaccia: che sarebbe stata la più grave fra quante hanno pesato su di noi. Ecco, dunque, dove sta una garanzia, forse più forte di tutte e che sostituisce le carte che mancano. Ecco la risposta alla domanda: che cosa succede se rifiutiamo la ratifica? Succede che resta l’Italia, alla quale ben può dirsi che sia capitato il peggio sotto forma di questo Trattato, che è feroce, ma che segna pur tuttavia un limite al di là del quale ogni ulteriore pretesa straniera viene contenuta dallo stesso gioco delle aspirazioni, delle gelosie, delle rivalità internazionali.
Ma, riprendendo nei suoi sviluppi l’accennato episodio così significativo, esso ha pure delle coincidenze con un articolo, di cui non ho conservato la data, ma è qui presente l’autore. È un mirabile articolo nella Voce Repubblicana di Randolfo Pacciardi, il quale articolo cominciava così: «Un membro della Commissione Alleata di controllo – si chiamava ancora di controllo, non c’era venuta come concessione graziosa la soppressione di queste parole, il che riporta l’articolo ad una data anteriore al settembre del 1944 – ha affermato pubblicamente che la Sicilia non è matura per un regime democratico». Io vorrei conoscerlo questo membro, dico la verità (Ilarità), e avere con lui un contraddittorio davanti a dei neutrali, perché io lo devo convincere che o è un ignorante o è uno sciocco! (Applausi generali).
PACCIARDI. Non ricordo bene.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ma guardi che c’è. L’articolo continua: «Molti hanno rilevato l’errore di questa affermazione. Ma che cosa significa essa dal punto di vista internazionale? – diceva giustamente Pacciardi – La Sicilia è parte integrante dello Stato italiano, e quando lo straniero stacca una regione italiana dal complesso nazionale e ci dice che quella regione non è matura per un regime democratico, abbiamo diritto di domandarci che cosa significa. Il Texas non ha lo stesso sviluppo politico dello Stato di Nuova York, ma gli Americani troverebbero assai curioso che noi dicessimo che il Texas non è maturo per la democrazia». E continua (è molto bello tutto l’articolo, ma io debbo qui limitarmi a citarne solo quest’altra parte): «I nostri confini meridionali non si discutono; bisognerebbe occupare militarmente non soltanto la Sicilia, ma tutta l’Italia per un secolo, per impedire che la generosa isola, da cui partì la falange garibaldina per l’unità nazionale, sia unita nella forma che gli Italiani stessi desidereranno di dare alla Nazione italiana».
Per un secolo avrebbero dovuto occupare l’Italia! Non poteva dirsi né più energicamente, né più nobilmente. Ma oggi, per evitare la firma spontanea di un Trattato disonorante, io non le chiedo che di aspettare soltanto un mese, onorevole Pacciardi! (Applausi a destra e a sinistra).
Occorrerebbe ora considerare – io la prego, signor Presidente, di scusarmi se mi dilungo…
ROMITA. Non glielo ricordi!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. No, no, verso l’autorità del Presidente io sono sempre disciplinato; se egli trova che io troppo ecceda, desisto.
Occorrerebbe dunque considerare come sia venuto formandosi questo singolare Trattato, del quale, pur sempre con esclusione rigorosa, quando non fu anche scortese, dell’Italia da ogni negoziato, le condizioni nei nostri riguardi ebbero questo carattere: di diventare sempre più dure. Soprattutto a Parigi, dove era avvenuta la effettiva definizione di tutte le clausole per la volontà assoluta dei quattro Grandi, ricordate in qual modo? Il pubblico italiano veniva a conoscere attraverso indiscrezioni di stampa, sapientemente manovrate, che si era discussa una data questione e, dopo varie alternative di timore e di speranza, veniva a sapere che fra le varie tesi era prevalsa la peggiore. Ma dopo qualche tempo apprendeva che la questione era stata ripresa e che la soluzione finale era… ancora peggiore. All’italiano, col solito sistema ottimistico, si era fatto vagamente sperare, dopo il disastro di Parigi, che a Nuova York qualcuna delle più dure clausole fosse potuta essere migliorata. Nessun miglioramento avvenne; ma le modificazioni non mancarono del tutto: alcune ne furono introdotte, ma tutte in senso peggiorativo per noi! Insomma tutto questo lungo procedimento è stato per l’Italia una via crucis; sempre di male in peggio.
Questa constatazione paradossale ha trovato non solo una conferma ma una espressione particolarmente incisiva proprio nella relazione della maggioranza della Commissione, affidata (Rivolgendosi al centro) ad uno dei vostri migliori, a quell’onorevole Gronchi, verso cui io provo una simpatia particolare, perché egli è un Toscano intellettualmente fine come i Toscani sanno essere, anche se la finezza è qualche volta sottigliezza. Or fra i Toscani egli è forse il più sottile di tutti; e la frase di cui si è servito questa volta, si risolve in un tale epigramma che vien fatto di domandarsi: «Ma l’ha fatto apposta?». (Ilarità). Non lo credo; sinceramente, non lo credo. Ma direi quasi che quanto più quel senso dell’espressione non fosse stato voluto ma gli fosse stato invece suggerito dal subcosciente, tanto maggior valore acquisterebbe, perché tanto più spontaneo. Nella relazione, dunque, della maggioranza della Commissione, l’onorevole Gronchi ha avuto cura di enumerare in forma sistematica le ragioni per cui convenga ratificare subito. E viene così un numero 2° in cui si dice: «Lontana è da noi ogni idea di speculare sui dissensi altrui od ogni speranza di trarne qualche profitto…».
Consentite, onorevoli colleghi, che a proposito di quest’ultima frase, io apra qui una parentesi. Il tempo stringe è posso accennare solo per incidenza ad un argomento di una tale autonomia logica e politica che si dovrebbe considerarlo adeguatamente in una sede propria: si tratta infatti, dello spirito generale che dovrebbe animare la nostra politica estera. Io qui mi pongo all’estremo, in una posizione intransigente, poiché dissento profondamente dai mezzi con cui è stata sinora condotta questa nostra politica, la quale culmina nell’atto che oggi ci si richiede: di accettare un Trattato disonorante senza almeno la scusa della necessità. Ma non dissento sugli scopi essenziali. Assicurare la pace: ma chi è quel pazzo delinquente che in Italia possa in questo momento non desiderare la pace? Io più di ogni altro, perché nessuno più di me ha presenti i tremendi lutti, che sarebbero riserbati al Paese proprio per questo Trattato costruito appositamente in vista di un’Italia destinata ad essere il campo di battaglia di una guerra futura. Ed è pure il mio augurio più fervido, se anche affidato ad una opera pur troppo modesta, che si raggiunga l’unione, l’accordo fra Oriente e Occidente, che si crei una salda unione internazionale per la pace; tutte queste cose sono anche per me sommamente desiderabili, ed hanno, se mai, questo solo difetto: che tendono a divenire degli slogan ripetuti in maniera automatica senza più penetrarne il profondo significato.
Ma chiudiamo la parentesi.
Continua la relazione della maggioranza: «Se un simile modo di concepire il ruolo dell’Italia non dovesse essere respinto per molte e validissime ragioni morali e politiche, sarebbe pur sempre contro di esso una constatazione amara: che cioè la nostra pace, da Potsdam in poi» (e Potsdam – osservo io – succede al famoso periodo che si concluse così ironicamente, ad Hyde Park) «la nostra pace, da Potsdam in poi, ha conosciuto soltanto peggioramenti e aggravamenti, e che ogni transazione successiva fra i Grandi si è risolta con un ulteriore crescente nostro danno. Il ratificare, dunque, vale a segnare una linea di arresto sul pericoloso piano inclinato di patteggiamenti rinnovantisi senza di noi e contro di noi».
Una voce a destra. È un bell’elogio per il vostro Ministro degli esteri!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Per carità, ratifichiamo subito! Guai se si ritarda, guai! Chissà dove ci porta ogni nuova attesa! È una rovina di più che ci aspetta! Questo dice Gronchi con spietata chiarezza. Perciò io vi dicevo che questo giudizio, pronunziato in sede così solenne, si risolve in un epigramma, sia pure involontario. E tanto più s’impone la ricerca del modo con cui si è pervenuti a questo incomparabile paradosso storico, la quale ricerca, come ho detto e ripeto, non serve per attribuire responsabilità politiche ma per trarre insegnamenti che ci proteggano dalla persistenza in un sistema fallito, così miseramente fallito. Se, per riferirmi a quanto diceva ieri Togliatti, fu sempre fatto difetto nell’azione di Governo una decisione ferma e risoluta, un senso di fierezza e di dignità, non dovrebbe esser questa una ragione sufficiente per la condanna del sistema? Per raggiungere questo scopo io, nel silenzio degli altri, mi sono dovuto assumere il compito duro e amaro di precisare con franchezza, anche se dovesse sembrare brutale, come il Trattato cui siamo pervenuti, attraverso un triennio di questa politica, ferisca la libertà, l’indipendenza e l’onore stesso dell’Italia.
Nell’accingermi a questa dimostrazione, necessariamente rapida, non mi soffermerò sull’angoscia delle mutilazioni sofferte. Esse aprono nel corpo della Patria ferite che non potranno mai rimarginarsi senza una restaurazione. Trieste, travestita in uno Stato ridicolo, se non fosse anche tragico, che manca di tutto, a cominciare dalla sovranità per finire con l’acqua da bere, e Pola e Fiume e Zara: nomi di città che ricapitolano tutte le ansie e tutte le speranze, tutti i dolori e tutte le gioie della storia d’Italia dal 1860 al 1919, redente dal sangue di seicentomila caduti, fiore della giovinezza italiana; città, che dànno al mondo la lezione eroica di un plebiscito in cui il voto è espresso col sacrificio supremo dell’abbandono in massa della propria terra e di ogni cosa diletta più caramente; la feroce amputazione di questa Venezia Giulia, che da secoli difende la sua italianità contro tutte le invasioni di tutti i barbari calati in Italia in tutti i tempi, onde, fucinata in queste prove, è quella, fra tutte le altre Regioni, dove l’italianità è più profonda, più intima, più pura. Questa inaudita violenza contro una giustizia, che pure gli stessi Alleati avevano riconosciuta e proclamata, superò le peggiori aspettative, e tuttavia non bastò; anche al confine di occidente è stata imposta una mutilazione in cui l’arbitrio prescinde da ogni ipocrisia con cui giustificarsi. Sia pure per un ingiusto, crudele destino, l’Istria nei secoli è stata la posta di un gioco tremendo. Perduta, ripresa, riperduta; auguriamo, speriamo, di riprenderla. Ma il Moncenisio? Ma la Val di Roja? Chi ne ha mai contestata l’italianità nel nostro versante? e il Col di Tenda? L’Alpe, questa cintura che separa l’Italia, ma nel tempo stesso la protegge contro l’invasione, tende, attraverso quel colle ad addolcirsi verso l’Appennino, così puramente, così esclusivamente italiano. Con pensiero commovente quei due sindaci montanari, e per ciò incorruttibili, il sindaco di Tenda e il sindaco di Briga, issavano la bandiera tricolore sul loro Municipio; ed è proprio notizia di ieri l’altro quella del reclutamento militare: si sono presentati alla leva tutti gli iscritti, quasi tutti validi. Bella, brava gente! È magnifico! Onde oggi il dolore e le proteste del vecchio Piemonte, pilone dell’estremo Nord, trovano la loro espressione accorata in una voce di Sicilia, pilone dell’estremo Sud, congiunto all’altro, attraverso il grande ponte d’Italia.
Ma ogni rimpianto per questi brani di carne, anzi di organi vitali, strappati alla Patria, viene dai cinici, che si dicono realisti, qualificato come rettorica nazionalista. Procediamo oltre.
Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia quella indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15, il quale dice:
«L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone soggette alla sua giurisdizione, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione, il godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ecc.».
Questo articolo si collega con quella rieducazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità. Voi capite che qualunque degli Stati che figurano vincitori – anche l’Etiopia, che è compresa tra questi ed è tra i firmatari del Trattato – può sollevare la questione se le libertà fondamentali siano state rispettate a proposito di una qualsiasi legge italiana, per esempio di una legge per l’istruzione, come quella che potrebbe presentare l’onorevole Gonella (Si ride – Commenti) e che fosse da alcuni, anche in Italia, considerata come lesiva della libertà di coscienza, che è libertà fondamentale. Un Paese che nell’esercizio del più sovrano dei diritti, che è il potere legislativo, sia soggetto a tali controlli, non è più un Paese indipendente! Qualche cosa di simile poteva forse avvenire nell’antico impero Ottomano, la vecchia Turchia; ma la nuova Turchia ha superato questa possibilità d’interventi. L’Italia l’ammette con questo articolo 15, che vorreste approvare d’urgenza, senza necessità, ma bensì come un’accettazione, sia pure rassegnata, ma pur sempre volontaria.
Poi c’è l’articolo 16, il quale si presenta a prima vista semplicemente privo di senso, perché dice:
«L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle Forze armate, pel solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia o d’aver agito in favore della causa delle Potenze alleate od associate».
Salvo l’oscura allusione agli «appartenenti alle Forze armate», l’articolo manca di serietà quando dispone che l’onorevole De Gasperi non potrebbe incriminare me o l’onorevole Pacciardi o – persino – se stesso, per avere espresso simpatia alla causa degli alleati! E c’è poi l’articolo 17 che dice:
«L’Italia, la quale, in conformità dell’articolo 30 della Convenzione di armistizio, ha preso misure per sciogliere le organizzazioni fasciste in Italia, non permetterà, in territorio italiano, la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici».
Or ecco. Non c’è nessuno che sia stato più intransigente di me contro il fascismo. Nessuno più di me avverte l’inesorabile nesso causale, che lega la nostra presente catastrofe a quel terribile fenomeno verso cui non abbiamo neanche il conforto di una immunizzazione, come c’è stata negli altri Paesi. Perché non è vero che il fascismo sia stato un fenomeno esclusivamente italiano. Gli stessi Inglesi hanno avuto qualche anticipazione di metodi fascisti verso la fine del Governo di Cromwell: lord Protettore è affine, anche nel significato della parola, a Duce o a Führer. Certamente egli fu un grand’uomo; e fu fortuna dell’Inghilterra che quella parentesi nella grande storia delle libertà di essa non abbia nociuto ma giovato alla sua potenza. Eppure il ricordo di questo Protettore fu così esecrato da arrivare sino alla profanazione di una tomba e ad atti feroci contro un cadavere. La Francia ebbe il suo secondo Impero, che rassomiglia al fascismo come due gocce d’acqua. E finì nel disastro, come fu per l’Italia. Il ricordo però, direi l’orrore per quel regime, per quel periodo si perpetuò talmente che a Milano, dove si era preparata una statua equestre per Napoleone III, artisticamente assai bella, non si poté farla uscire dal magazzino dov’era custodita, perché discretamente il Governo italiano era avvertito che l’impressione in Francia sarebbe stata penosa…
Il fascismo è come il vaiolo: chi lo ha avuto ha almeno il vantaggio che non lo avrà più. (Ilarità). In Italia, purtroppo, dobbiamo sentir parlare di neofascismo; temo che in gran parte ciò si debba agli errori dell’immediato antifascismo.
Non è già, dunque, che l’articolo 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo all’accusa della violazione dell’articolo 17. Intanto, tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata; e del resto, le organizzazioni di cui si vieta la rinascita sono anche quelle politiche: ogni associazione, la stessa organizzazione dei partiti può esservi compresa. Che cosa sono, poi, questi «diritti democratici», la cui privazione violerebbe l’articolo 17? Vorrei conoscere il collega che ha inventato frasi così bislacche. Certo è che vi è qui un vastissimo campo, a proposito del quale il nostro Ministero degli esteri potrà bruscamente ricevere da parte di un diplomatico etiopico o lussemburghese una protesta formale perché un qualsiasi provvedimento avrebbe violato l’articolo 17. E badate che le censure contro provvedimenti od atti accusati aver carattere fascistico, sono continue e reciproche anche in questa Aula: in discussioni di politica interna sono forme polemiche quasi ordinarie. Quante volte non abbiamo inteso noi un deputato di quei settori (Accenna all’estrema sinistra) accusare di fascismo questo o quell’atto di Governo, questa o quell’altra opinione e quante volte la stessa accusa è stata ritorta dai settori opposti! Lo straniero, pertanto, che vorrà sollevare una questione di quel genere, potrà sempre fondarsi sull’autorità di ammissioni italiane, ed anche autorevoli, a favore del suo assunto!
E non mi sento di andare oltre. C’è tutta una collezione di articoli, mortificanti quando non sono umilianti. Quelli sul disarmo sono orribili. Si potrà entrare in ogni casa italiana per vedere se c’è nascosto un ordigno più progredito, utile all’offesa e difesa militare. Le poche truppe che ci lasciano devono avere un armamento ridotto, che può dirsi primitivo in questa epoca dei carri armati e dei cannoni a grande portata. Al Paese di Galileo, di Volta, di Marconi è vietato persino di fare scoperte che valorizzino di più il proprio esercito. È già una prepotenza odiosa; ma chi può dire se e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!
Or questa non è più indipendenza. La sovranità italiana non è più completa, e, in questa materia delicatissima, un limite qualunque si pone per sé come una negazione totale. Anche grammaticalmente, sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativo, lo si annulla.
L’indipendenza sovrana del nostro Stato vien dunque meno formalmente, cioè come diritto. Ma che dire dell’indipendenza come fatto? Argomento forse ancor più doloroso. Non è più un segreto l’intervento degli stati maggiori e degli ammiragliati nella formazione di questa camicia di forza, che toglie all’Italia ogni possibilità di difendersi. Questa imposizione di pace è fatta in maniera da trasformare immediatamente l’Italia nel campo di battaglia della guerra futura, fra Occidente ed Oriente, se questo orrore non sarà evitato. Peggio ancora, l’Italia è stata considerata come un territorio alla mercé degli eserciti combattenti, tanto di oriente che di occidente.
Tutto ciò è stato fatto consapevolmente, con quello scopo preordinato. Aperta la frontiera orientale, dove avevamo la chiusura delle Alpi culminante al monte Nevoso, l’eventuale esercito dall’oriente è già in territorio italiano e si è assicurata la demolizione delle nostre fortificazioni per venti chilometri. Quindi il giorno – Dio non voglia – (nessuno più di me può presentirne l’angoscia) in cui avvenisse l’irruzione, noi sappiamo che essa non potrà essere arrestata ma solo contenuta ritardandone l’afflusso in quella Valle Padana che è stata nei secoli, e tornerebbe ora ad essere, campo di battaglia in tutte le guerre europee. Si ripeterà quella che è stata la storia dei mille cinquecento anni seguiti alla caduta di Roma. E gli stati maggiori dell’altra parte han facilmente previsto l’evento di un insuccesso in pianura ed han pensato alle Alpi. Così si arriva alla frontiera occidentale: Briga e Tenda.
Appena si intese parlare di Briga e Tenda, nessuno poté credere che lo scopo fosse di annettersi quelle poche migliaia di montanari italianissimi. Vero è che vi è un tesoro di energia elettrica. Non so a questo proposito se l’onorevole Ministro Sforza, quando mise a disposizione del piano Marshall tutta la forza derivante dalle acque delle nostre Alpi, si sia astenuto per cortesia verso il collega Bidault, dall’includervi anche quelle della Roja e quelle del Moncenisio. Ad ogni modo prescindiamo dal lato economico; a titolo di riparazioni si potevano dare le ore di energia desiderate. Ma il passo del Col di Tenda dato alla Francia significa il punto di arresto delle invasioni orientali. Le Alpi non servono più a difendere l’Italia; ma gli altri paesi, dopo il sacrificio dell’Italia!
Quello che accadde poi, a proposito del disarmo navale, rappresenta un mistero inspiegabile o, peggio, profondamente conturbante, quando si pensa alle spiegazioni possibili, poiché qui l’incredibile è che le limitazioni sarebbero state richieste proprio dagli Stati che hanno rispetto a noi una schiacciante superiorità navale. Perché ci hanno portato via tutte le motosiluranti e tutti i sommergibili e qui hanno vietato di costruirne o di acquistarne? Non sono queste per eccellenza armi difensive? Chi dunque poteva avere interesse che l’Italia non potesse neanche difendersi? Si dice che siano stati gli Inglesi. Ma, almeno, a Parigi si erano salvati gli antisommergibili. A Nuova York però, davanti ai 21, sarebbe stata la Francia a rilevare che una tale concessione fosse eccessiva. E fu così che ci furono definitivamente negati anche gli antisommergibili!
Questo è l’atto che per beffarda antifrasi si chiama Trattato di pace, con cui l’Italia perde l’indipendenza in diritto, la perde in fatto, perché non può più difenderla; e perde l’onore. Perde l’onore! Tutto il testo e tutto il contesto, ma soprattutto lo spirito del Trattato consiste in questo, o signori: nel dare il più duro, il più inesorabile rilievo a questo punto: che durante la guerra e dopo, sinora, sempre, noi siamo stati considerati come nemici. Ce l’hanno detto in tutti i toni: nemici! Ed allora i partigiani che si sono battuti ed il corpo di liberazione e gli aviatori veramente eroici che hanno volato con i loro apparecchi vecchi, logori e stanchi, perché non davano loro quelli nuovi e buoni e partivano senza sapere se avrebbero fatto ritorno, tutti questi per chi si sono dunque battuti? Per un nemico?
Quale maggiore offesa? E noi dobbiamo tollerarla: intendo non in quanto ci venga imposta per legge di necessità, ma per atto volontario e in certo senso spontaneo? Quei nostri soldati, partigiani, aviatori, marinai sarebbero considerati peggio dei mercenari guidati dai condottieri, da un Alberigo da Barbiano o da un Muzio Attendolo Sforza (Ilarità) o da un Giovanni delle Bande Nere, perché quelli almeno si battevano per un compenso; onestamente e, in generale, valorosamente si battevano per colui che li aveva ingaggiati. Ma questi nostri, secondo la definizione del Trattato, si sarebbero battuti per un nemico!
E ancora ancora, minore sarebbe l’offesa rapporto agli uomini. Ordinati essi in unità militari, di queste, quando sono disciolte, non rimane che un nome; e l’onore dei morti e dei vivi dipende dalla causa per cui si sono battuti, giudicata secondo quella giustizia ideale, che è ben più grande di tutti i quattro Grandi messi insieme.
Ma la questione dell’onore rimane invece ed è ardente per la marina. Qui, l’uomo si fonde con la cosa: la nave. E la nave continua ad esistere con la sua bandiera e voi intendete quel che ciò significhi per il marinaio, il quale deve morire, prima della sua nave o con essa. E si sono battute queste navi, infaticabilmente, in tutti i mari, ed hanno corso tutti i rischi; hanno tutta la legione eroica dei loro morti. Ed ora si viene a dir loro: queste vostre navi debbono esserci consegnate come bottino di guerra, cioè come navi nemiche come quelle che battendosi per noi, alleati, si sarebbero battute per un nemico. Si può dare ingratitudine più atroce?
Queste navi si trovavano nel porto di Spezia o altrove; ricevono l’ordine di sottrarsi ai Tedeschi, di raggiungere Malta per mettersi a disposizione dell’Ammiragliato inglese. La flotta francese si trovò in una situazione simile, quando il 27 novembre 1940 Tolone fu occupata dai Tedeschi; le navi furono autoaffondate: bel gesto, in quanto imposto dalla impossibilità dei movimenti. Ma la nostra uscì senza alcuna protezione aerea e sapendo a quali rischi si esponeva. E la nave ammiraglia, la bella corazzata Roma, affondò sotto bombe di aeroplani tedeschi col suo Ammiraglio, coi suoi 1800 marinai. Queste navi, dicevo, hanno continuato a battersi ed ora sono bottino di guerra, e debbono ora esser consegnate come se fossero state vinte e prese! E noi, per secondare il piano Marshall o per contendere alla Bulgaria l’onore di entrar prima nell’O.N.U., approviamo tali iniquità, senza almeno la scusa di una urgenza improrogabile.
Badate! non domandate ai nostri marinai – i quali hanno fatto prodigi di disciplina, che è coraggio morale, oltre che di coraggio fisico – non domandate loro di ammainare la loro bandiera, per farla sostituire da un’altra, come dei vinti. Essi non lo tollererebbero, non potrebbero tollerarlo; vi è qualcuno, qua dentro, che darebbe loro torto? Evitatelo. Non so; credo che ci siano forme da studiare capaci di togliere alla nave la sua qualità di militare e di combattente. Credo che si dica: rendere le navi borghesi. Tra le altre cose, il Trattato impone all’Italia non solo la consegna delle navi, ma anche che esse siano rimesse in efficienza, cosa che non si chiese alla Germania, nel 1919. Il Trattato di pace con la Germania fu allora incomparabilmente più mite di questo nostro attuale. L’Italia deve spendere alcuni miliardi per mettere in efficienza le navi danneggiate nella lunga campagna fatta a favore degli stessi alleati. Così perdiamo le nostre navi migliori: le ammirabili Italia e Vittorio Veneto; nomi così cari ad ogni cuore d’italiano. Pensateci! I nostri marinai han meritato che il loro onore, per quanto possibile, sia salvo.
Ma è ormai tempo di avviarmi alla conclusione. La critica da me fatta al cosiddetto Trattato, per quanto prolungata anche troppo, resta sempre inferiore a tutto quello che si potrebbe e dovrebbe dire per un’analisi appena adeguata. Ma l’ora non lo consente. Or la conclusione è in forma di questo dilemma: dare o negare l’approvazione? Parecchi oratori, l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Corbino ed altri hanno avuto per me un pensiero affettuoso e deferente, quando hanno riconosciuto che la storia da me vissuta, l’avere avuto la fortuna e l’onore di legare il mio nome alla vittoria della Patria, vittoria che ci diede quello che ora perdiamo, costituiscono per me un titolo quasi personale, che mi consenta di rifiutare l’approvazione. In altri termini, l’approvazione per sé è cosa amarissima, ma a cui non ci si può sottrarre; a me questa esenzione è consentita. Ringrazio del pensiero, ripeto, affettuoso e deferente; ma dico subito che se pure avessi questo titolo di immunità non vorrei servirmene in via pregiudiziale.
Un’umiliazione che io riconoscessi necessaria alla salvezza del Paese dovrebbe essere accettata da me come dagli altri: nel rifiuto a priori io troverei i segni di quel nazionalismo, che è la degenerazione del patriottismo, e di esserne immune io lo dimostrai in memorandi eventi. Ché se lo storico futuro volesse riconoscere in quegli eventi un titolo, di merito per me, penso che dovrebbe riscontrarlo nell’essere io stato sempre al centro di due estremi, esposto al fuoco incrociato dell’una parte e dell’altra, in questa Italia sulla quale – o almeno su alcune regioni di essa – pesa la sciagurata tradizione delle divisioni estreme ed irriconciliabili: Guelfi e Ghibellini. Così io ebbi contro, con pari veemenza, non meno i rinunciatari che i nazionalisti. Quanto a questi ultimi, se qualcuno pensasse che io con il mio atteggiamento di intransigenza contro il Trattato, riveli tendenze nazionaliste, lo pregherei di andare alla Biblioteca della Camera e consultare il giornale, organo di quel partito: L’Idea Nazionale. Se mai vi fu un uomo cui nessun oltraggio fu risparmiato, fui io quello. Ci fu un famoso articolo che aveva questo titolo abbastanza significativo: «Tagliategli la lingua». Se quindi gli antinazionalisti vogliono tagliarmi qualche altro organo, mi rimetto alla loro discrezione. (Ilarità). Per ciò, ho detto e ripeto che se ritenessi necessario un atto di umiltà per la salvezza della Patria, chiederei di essere io stesso il primo a compierlo. Ma, per l’appunto, mi sono soffermato sulla storia di questa politica triennale fatta di sottomissione e di umiltà, perché sia a tutti presente il rapporto con lo stato cui quella politica ci ha ridotti: stato di così estrema miseria da giustificare l’atto inverso, cioè di una ribellione che si ponga, non foss’altro, come una sfida al destino, quando tutto è perduto e non resti che salvare l’onore. Ringrazio vivamente l’onorevole Gasparotto del pensiero che ha avuto, di citare oggi qui quel mio telegramma a proposito della decisione di quella che fu la battaglia di Vittorio Veneto. Or mi importa di precisare che la copia di quel telegramma egli non la ebbe da me; io non me ne sono mai vantato, ed anzi di quel mio intervento non ho mai parlato…
GASPAROTTO. Ho ben il diritto di farlo sapere.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Certamente; voglio solo dire che la rivelazione di quello storico episodio non proviene da me. Ma una volta che essa è avvenuta, ho bene il diritto di metterne in rilievo il significato, in quanto abbia rapporto col solenne momento storico attuale. E il significato è questo: che come ci sono momenti in cui bisogna umiliarsi e sottomettersi, ci sono pure i momenti in cui bisogna osare. L’uomo di Stato si rivela proprio in questi momenti, quando si tratta di assumere le grandi responsabilità dell’azione, e non già di abbandonarsi a quella sostanziale fuga da ogni responsabilità che è la sopportazione. Ed io dissi che l’episodio di quel mio telegramma dell’ottobre del 1918 poteva avere un rapporto con la discussione odierna, sotto questo aspetto: che la responsabilità da me allora assunta fu così grave che se Vittorio Veneto fosse stato una sconfitta, io avrei dovuto essere mandato in Alta Corte di Giustizia e condannato forse anche alla fucilazione. Certamente, io ritenevo e continuo a ritenere che il Capo del governo civile, nelle guerre di popolo e non solo di eserciti, come le due recenti, ha il diritto ed il dovere di ingerirsi in ciò che riguarda l’andamento della guerra anche dal lato puramente militare; da qui il mio insanabile dissenso con il Generale Cadorna. Ma non è men vero che anche quel diritto ha dei limiti ed io confesso che con quel telegramma avevo quei limiti sorpassati, esponendomi con ciò a quelle estreme conseguenze, che, qualora l’evento fosse stato avverso, avrebbero comportato un giudizio ed una severa condanna.
Per ciò, dunque, pur rinnovando i miei ringraziamenti ai colleghi che han voluto attribuire a me una specie di asilo spirituale per sottrarmi ad un voto amarissimo, dico che non intendo servirmi di questo titolo. Se io sono risolutamente, irriducibilmente ostile all’approvazione che ci si chiede, egli è perché sento come una morale impossibilità, superiore ad ogni utilità (se pure ci fosse!) di dare un consenso, sia pure coatto, ad un documento che, in fatto di iniquità e di ingiustizia, raggiunge una delle vette più elevate fra le tante prepotenze ed arbitrî onde è contaminata la storia dei rapporti internazionali. Ma tanto più poi e tanto peggio per il momento e per il modo onde il voto ci si chiede, pregiudicando dinanzi alla storia l’unica scusa e cioè di aver ceduto ed una legge di necessità. Questo sentimento ha carattere ideale; ma trova altresì conforto in una ragione d’ordine pratico, la quale avverte di essere ormai venuto il momento di interrompere il sistema di cedere ed accondiscendere finora seguito e di compiere finalmente un atto di fierezza e di dignità. Per tre anni ci siamo sottomessi continuamente, e ne vedete i risultati. Ora, basta.
Non mi soffermo sulla causa specifica della ratifica che manca. Per me basta l’articolo 90, così brutale per noi, poiché quanto all’esecuzione dell’atto prescinde totalmente dalla nostra volontà; ma, per ciò stesso, ci fa sapere che sino a quando le quattro ratifiche non siano depositate, l’atto non entra in vigore e noi non siamo obbligati a subirlo e tanto meno a riconoscerlo. Se dunque quella condizione manca, il nostro consenso si presenta libero e volontario e ciò determina la mia ribellione. Che poi la potenza la cui ratifica sinora manchi, sia la Russia o l’America o la Gran Bretagna o la Francia, mi è perfettamente indifferente. I colleghi Nenni e Togliatti, che mi furono compagni nella Commissione dei Trattati, mi han dato atto di ciò ed uno di essi ha ripetuto una mia frase detta allora, e cioè che per me la ratifica che manca basta che sia attribuita ad una potenza X.
Quanto alla Russia, peraltro, vi fu un curioso documento che l’A.N.S.A. diramò come proveniente da un portavoce di Palazzo Chigi, e secondo il quale la ratifica della Russia era lì lì per venire e sarebbe arrivata fra pochi giorni. Sono ora invece passate varie settimane e non se ne vede il principio. Ah, questi portavoce! Ad ogni modo, ripeto, a me che sia la Russia a non ratificare non importa nulla e si dovrebbe aggiungere che anche per la Russia non vi è nessun rapporto fra la sua astensione e la ratifica, che pur hanno fatta alcuni degli Stati che si dicono satelliti di essa. Il mio intento è puramente obbiettivo: il Trattato per ora è ineseguibile. Perché, dunque, questa fretta di approvarlo spontaneamente, proprio noi, i sacrificati e gli offesi?
Tutto ciò assorbe la questione della utilità poiché la soverchia di gran lunga. Ma, ad ogni modo, in che consisterebbe questa utilità? Prima ci si disse, in Commissione dei Trattati, che occorreva la ratifica per l’ammissione dell’Italia al convegno di Parigi per il piano Marshall: l’evento dimostrò che non era così. Ora ci si dice che occorre per l’ammissione all’O.N.U. Ma dove è la disposizione che subordina l’ingresso nell’O.N.U. alla ratifica? Dove è? Ho qui lo Statuto, dove si parla dell’ammissione dei nuovi membri e se ne stabiliscono le condizioni; nulla, in esse, che si colleghi con la ratifica. Se sbaglio, mi si interrompa e mi si dica quale sia l’articolo, il capoverso, la parola che importi una tale conseguenza. Dunque, questa ragione non sussiste.
Non è vero nemmeno – l’hanno ingannata, onorevole Ministro – quando si dice che se passa il 10 agosto non potremo avere questa fortuna di essere ammessi e perdiamo l’anno. Neanche ciò è vero, perché l’anno scorso il Siam fu ammesso a novembre. La procedura è la seguente. In agosto avviene un esame preliminare da parte di una Commissione, che nei suoi membri riproduce le undici potenze del Consiglio di sicurezza. Quando si trattò del Siam, siccome pendeva una contestazione con la Francia per i confini con l’Indocina, la Francia chiese ed ottenne che la domanda del Siam non fosse ammessa. Senz’altro. In seguito, il dissidio si compose e il Siam fu ammesso, come ho detto, in novembre.
A voler chiamare le cose col loro nome e senza ipocriti infingimenti, la verità è che per l’ammissione all’O.N.U. tutto dipende dall’accordo delle cinque Potenze che hanno il seggio permanente e quindi il diritto di veto. L’opposizione di una sola di esse basta a fermare l’ammissione. Dall’altro lato, per il noto contrasto tra i due gruppi di Potenze, avviene che se non si arriva ad un compromesso, l’uno impedirà l’ammissione favorita dall’altro, e reciprocamente. Così, l’anno scorso, la Russia ha messo il veto all’ammissione del Portogallo e dell’Irlanda dando per ragione che non avevano curato di avere rappresentanza diplomatica a Mosca e quindi non davano nessuna garanzia di essere amici della pace. Allora, per evidente contraccambio, gli Stati anglosassoni misero il veto all’ammissione dell’Albania voluta dai Sovieti. Il Governo britannico ha ora fatto sapere che non darà l’assenso neppure alla Romania, per i recenti episodi che voi conoscete. Quindi, è tutto un gioco di veti. Lascio poi stare, per l’ora che urge, un’altra indagine più sostanziale per cui si pretende che l’ammissione nell’O.N.U. sia un così grande beneficio da valere come una giustificazione di questa sciagurata ratifica. Io non solo contesto risolutamente che vi sia un vantaggio qualsiasi, ma ritengo invece che si tratti di cosa non desiderabile e mi asterrei, nonché dal chiederla, dall’accettarla, considerandola come un’altra mortificazione inflitta al nostro Paese. Il posto che esso prenderebbe lo graduerebbe dopo Stati minuscoli; diciamolo francamente: sarebbe come una firma apposta alla nostra rinuncia alla qualità di grande Potenza. Ammetto che questa sia purtroppo la situazione attuale; ma perché andare verso il riconoscimento di questa nostra decadenza con così premurosa e soddisfatta sollecitudine? Ma anche a parte tutto ciò, lo Statuto dell’O.N.U. contiene quei due famosi articoli, 53 e 57, che non leggo, ma il cui senso, per quanto poco chiaro, importa che, mentre la garanzia essenziale per i membri dell’O.N.U. è che nessuno possa essere aggredito senza violare solenni impegni dando luogo all’immediato soccorso di tutte le nazioni unite, a questa regola si introduce con quegli articoli un’eccezione pel caso che l’iniziativa provenga da uno degli Stati alleati ed associati contro uno Stato ex nemico. In altri termini, la Jugoslavia o l’Etiopia potrebbero aggredirci senza che noi fossimo protetti dalle garanzie che proteggono gli altri Stati dell’O.N.U.!
Il Ministro si rende conto della enormità di queste disposizioni e dice di aver avuto l’affidamento che saranno soppresse, poiché tutte le repubbliche del Sud America si son dichiarate contrarie. Sì, ma gli debbo ricordare il veto che, da solo, annulla tutte le maggioranze. In ogni caso io vorrei che quei due articoli fossero già soppressi, prima di accettare la situazione che ne deriva, la quale ci mette in uno stato di inferiorità verso gli altri membri dell’associazione, sin dal momento in cui entreremmo a farne parte.
Nessuno, dunque, dei vantaggi che si fanno sperare come conseguenza di questa approvazione anticipata può dirsi sussistente ed effettivo; la stessa condizione armistiziale continua formalmente immutata, perché il termine dei 90 giorni fissato per la cessazione di essa, non comincia a decorrere se non dal deposito delle quattro ratifiche. Ma ci fossero pure dei vantaggi, nulla essi varrebbero, per me, in confronto dei sacrifici estremi che ci si vogliono imporre, come ho dimostrato in questo mio discorso, incompleto se pur lungo. Perciò io sono, in ogni caso e in ogni tempo, contrario all’approvazione, perché non vale vivere quando si perdono le ragioni di vivere. L’Italia non può opporre al disfacimento cui l’atto la vorrebbe condannare che il fatto della sua esistenza come grande e gloriosa Nazione; e questo fatto è insopprimibile, malgrado ogni iniquità. Che se, però, questa mia decisione estrema la maggioranza di voi non crede di consentire, io posso rispettare codesta perplessità. Ma considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più caro, di più prezioso, di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria. Vi prego, vi scongiuro, onorevoli colleghi, al di là e di sopra di qualunque sentimento di parte – quale stolto potrebbe attribuirmelo? – non mettete i vostri partiti, non mettete voi stessi di fronte a così paurosa responsabilità. Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future; si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità. (Vivissimi applausi a sinistra e a destra – Proteste vivaci al centro e al banco del Governo – Rumori vivissimi – Scambio di epiteti fra sinistra e centro – Ripetuti richiami del Presidente – Nuovi prolungati applausi a sinistra e a destra – Proteste e rumori vivissimi al centro – Scambio di apostrofi fra il centro e le sinistre – Viva agitazione).
PRESIDENTE. Prego i colleghi di prendere posto ai loro banchi.
Voci al centro. Deve ritirare! Deve ritirare!
PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Suppongo che non sia possibile chiarire nulla, finché loro non vorranno tacere. Onorevole Coccia, lei ritiene con il suo chiasso di aiutare a chiarire la situazione?
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Onorevoli colleghi, io non avevo alcuna intenzione… (Prolungati rumori al centro). Queste sono le ultime parole che pronunzierò qui dentro!
PRESIDENTE. Attenda un attimo, onorevole Orlando: la prego. Onorevoli colleghi, basta!
Ogni manifestazione, anche se di giusta reazione, perde il suo valore, quando cessa di stare nei limiti di un certo ordine. Permettano dunque all’onorevole Orlando di riprendere la parola e allora, da ciò che egli dirà a chiarimento di quanto ha detto prima, risulterà il valore del suo pensiero e, se sarà quello che si è ritenuto che fosse, qualcuno potrà replicare all’oratore.
Onorevole Orlando, la prego di parlare e di tener presente che, forse, sta spirando quel limite al quale Ella stesso accennava un’ora e tre quarti fa.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Mi dispiace di dover dare spiegazioni, e le do solo per rispetto a lei! (Vivi applausi a sinistra – Commenti e vivaci proteste al centro).
GUERRIERI FILIPPO. Ricordatevi che avete davanti l’uomo di Vittorio Veneto! (Applausi – Rumori al centro).
BENEDETTINI. È il Presidente della Vittoria! (Applausi a sinistra e a destra – Rumori al centro).
PRESIDENTE. Onorevole Orlando, mi perdoni, io le sono grato della deferenza particolare che mi vuole dimostrare, ma sarei lieto che le sue parole fossero non soltanto udite da tutta l’Assemblea, ma fossero dirette a tutta l’Assemblea.
La prego di parlare.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io, rispettando il Presidente, rispetto l’Assemblea! (Commenti al centro).
La parola «servilità» qualifica l’atto, e non le persone. Io stesso, proprio in questo mio discorso, ho detto di me di aver compiuto un atto di umiliazione, che credetti necessario, nell’interesse del Paese. L’atto in sé è servile, ma poiché non vi risponde l’intenzione di compierlo come tale, nessuno può restarne offeso. Ma, ad ogni modo, poiché come vi dicevo, ritengo che questo sia l’ultimo discorso che io pronunzio in quest’Aula…
Voci No. No!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. …io voglio che, come mi è sempre accaduto nella mia lunga vita parlamentare, il mio appello sia per la concordia o, almeno, contro l’esasperazione dei contrasti inevitabili e riunisca l’animo di tutti. E dico ai colleghi di tutte le partì dell’Assemblea: Convenite con me, obiettivamente, indipendentemente da ogni giudizio politico, indipendentemente da ogni preferenza verso questa o quella linea di condotta, convenite con me, tutti, che questo Trattato di pace è una solenne ingiustizia?
Voci da molti banchi. Si!
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ed allora non ho null’altro da aggiungere. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra e a destra – Molte congratulazioni – Commenti prolungati al centro).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri. (Applausi al centro – Rumori a sinistra).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, il rispetto, l’ammirazione che io ho sempre nutrito per lei, la devozione che le ho sempre dimostrato, mi permettono di dire una parola franca anche in questo momento molto agitato.
Io sono stato colpito nel profondo dell’anima dalle ultime frasi, che dovevano essere un giudizio, mentre ella dichiarava che la proposta di ratifica era un’abiezione fatta per mancanza di coraggio e per cupidigia di servilità. No! onorevole Orlando: si tratta di concezione diversa degli interessi del Paese in questo momento. Domani mi riservo di dimostrare tutte le ragioni che militano per la mia concezione; e lo farò senza offendere nessuno. (Approvazioni al centro).
Però le devo dire che sono profondamente offeso e con me sono offesi tutti coloro che hanno affrontato il nemico non soltanto come combattenti sui campi di battaglia, ma hanno affrontato il fascismo con coraggio, soffrendo giorno per giorno. (Vivissimi applausi al centro – Rumori e commenti a sinistra e a destra).
Ho anche la coscienza e la consapevolezza, nei momenti tristi, nei consessi internazionali, d’aver rappresentato degnamente, fieramente il mio Paese. (Interruzioni a sinistra – Vivissimi applausi al centro – Scambio di apostrofi fra la sinistra e il centro). Questo è stato constatato da tutti, da molti giornali, anche avversi.
Una voce a sinistra. Avete i fascisti nel Governo! (Rumori al centro).
Una voce a destra. Li avete voi i fascisti! mettete fuori i vostri fascisti, prima di parlare! (Proteste a sinistra).
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A coloro che ci chiedono un rinvio in nome dell’unità nazionale, si può dire, però, che la premessa indispensabile per qualsiasi… (Rumori e interruzioni a sinistra – Ripetute interruzioni del deputato Farini – Richiami del Presidente) la premessa… (Rumori a sinistra).
PRESIDENTE. Desidero sapere se devo sospendere la seduta.
FARINE Sì! sì!
PRESIDENTE. Onorevole Farini, mi pare che lei, nel suo entusiasmo, non si renda conto di quello che significa la sospensione della seduta. (Interruzione del deputato Farini).
Onorevole Farini, non mi costringa ad applicare il Regolamento nei suoi confronti! (Commenti).
Posso comprendere tutti gli impeti di passione, ma non le forme di vana petulanza. Capisco perfettamente tutto, ma non le grida che non hanno alcuna giustificazione, da qualunque parte vengano. E prego specialmente i colleghi più autorevoli, che in certi momenti mi pare adoperino la loro autorevolezza a suscitare maggiore tumulto, di ricordarsi che io mi attendo da loro un contributo a questa mia opera di dirigere i lavori dell’Assemblea. (Approvazioni).
Continui, onorevole Presidente del Consiglio.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Onorevole Orlando, avrei aspettato dalla sua lealtà che ella avesse dichiarato che le parole «cupidigia di servilità» non si riferivano a coloro che propongono in buona fede e con retta coscienza di ratificare il Trattato. Avrei preferito che lo avesse dichiarato.
ORLANDO VITTORIO EMANUELE. L’ho detto.
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se questa è la sua dichiarazione, io sono lieto di accettarla, quantunque il linguaggio altrimenti doveva essere interpretato. Tuttavia sono lieto di accettarla, per questo: perché la situazione è molto difficile, la tensione degli animi è grave, senza dubbio; ma quello che non si può negare all’avversario è il coraggio, e molto meno si può negare a chi come me e il Governo sostiene in questa difficile situazione una posizione che esige maggior coraggio civile di qualsiasi rinvio e la sostiene perché crede di doverla sostenere nell’interesse del Paese, della pace e della collaborazione internazionale! (Vivissimi, prolungati applausi al centro – Commenti).
PRESIDENTE. Suppongo che l’Assemblea sia concorde con me sull’opportunità di rinviare il seguito della discussione a domani.
Vorrei però ricordare che per impegno non tacito, ma esplicito, preso ieri sera, dovremo finire questa discussione domani insieme con gli ordini del giorno relativi.
L’Assemblea è dunque convocata per domani mattina alle 9.30 per il seguito della discussione sul Trattato di pace.
Dovranno ancora parlare i presentatori degli ordini del giorno, onorevoli Jacini, Damiani, Giannini e Caroleo.
Interrogazioni e interpellanza.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.
AMADEI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno soprassedere alla costituzione del Consorzio nazionale canapa, se pure con la sola partecipazione degli agricoltori, essendo tale provvedimento in contrasto con la volontà dei canapicoltori, i quali chiedono la libera disponibilità del loro prodotto. L’ammasso obbligatorio della canapa avrebbe, quale risultato, un’ulteriore riduzione di tale coltura, con grave danno dell’economia nazionale.
«Scotti Alessandro».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere quale fondamento di verità abbia la notizia, apparsa sui giornali, che in Sicilia è stata abolita la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. E per sapere, nel caso in cui la notizia sia esatta, quale atteggiamento intende prendere il Governo.
«Tremelloni, Segala, Ghidini».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se sia a conoscenza del grave malcontento che serpeggia nel Corpo forestale a causa del ritardo a concretare le sue aspirazioni manifestata nel Convegno di Firenze del maggio scorso; ed in particolare per conoscere le ragioni per le quali, mentre si tolgono dal servizio attivo sottufficiali e guardie forestali provenienti dalla posizione ausiliaria, per il solo periodo di guerra, con provvedimenti anteriori al 9 dicembre 1943, uguale trattamento non si faccia agli ufficiali superiori, il che inceppa ed impedisce lo sviluppo normale degli avanzamenti e promozioni di ben 400 funzionari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Piemonte».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria circa la distribuzione ed assegnazione dei concimi per favorire la ripresa della produzione agrumaria, tenendo presente specialmente le deplorevoli condizioni degli agrumeti della penisola sorrentina e della costiera amalfitana. Tali agrumeti si trovano in stato di preoccupante deterioramento per il lungo periodo di mancata fertilizzazione dovuta ai criteri seguiti dalle associazioni agrarie preposte alla distribuzione, le quali hanno trascurato l’agrumicoltura che rappresenta importantissima ricchezza di quelle zone ed ha il suo grande peso sulla bilancia economica del nostro Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Scotti Alessandro».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’industria e commercio e dell’agricoltura e foreste, per conoscere se è esatta la notizia secondo la quale la società generale «Montecatini» non consegna da oltre un mese perfosfato minerale agli agricoltori, che ne hanno urgente bisogno, solo per il fatto che non è stato ancora approvato un ulteriore aumento del prezzo di tale prodotto. In caso affermativo quali provvedimenti intende proporre il Ministro dell’agricoltura e delle foreste per eliminare detto arbitrario provvedimento che danneggia notevolmente la produzione agricola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Scotti Alessandro».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente deli Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sollecitare il finanziamento della ricostruzione delle fogne di Diano Marina, secondo il progetto già approvato.
«Perché non si rinnovi l’epidemia di tifo, che l’anno scorso decimò quella cittadina, l’autorità sanitaria dichiarò indispensabili due provvedimenti: un acquedotto e le fogne.
«Il primo è in corso d’esecuzione (senza peraltro le diramazioni alle frazioni che pur vi hanno diritto; per il secondo si dice che mancano i fondi.
«Ma è assurdo che non si trovino i fondi per un’opera assolutamente necessaria a prevenire il ripetersi di una mortale epidemia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Canepa, Pera, Rossi Paolo».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per chiedere – in considerazione che il Ministero della difesa ha aderito alla domanda della provincia di Imperia di cederle il possesso delle caserme di Diano Marina per adibirle ad ospedale psichiatrico (di cui essa è priva) – che si provveda senza indugio a riparare i danni che il tempo e l’incuria hanno cagionato a detti edifici abbandonati, salvo poi naturalmente alla provincia sostenere le spese per il nuovo uso.
«Ogni giorno che passa senza che si metta mano ai lavori aggrava la rovina d’un ingente capitale dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Canepa, Pera, Rossi Paolo».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi che ritardano la sanzione dell’accordo già intervenuto fra il comune di Reggio Calabria ed il Ministero della pubblica istruzione per la nazionalizzazione del Museo civico di Reggio Calabria; sanzione in vista della quale l’Amministrazione dello Stato sta già sostenendo le spese pei lavori di adattamento dell’edificio.
«La pratica relativa, trovasi da oltre sette mesi all’esame del Ministero dell’interno e già quello della pubblica istruzione ha fatto presente la necessità che la pratica sia definita con sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Sardiello».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e della marina mercantile, per conoscere che cosa si aspetti per concedere, in base ad esigenze di giustizia sociale, la libertà di lavoro e di organizzazione anche nei porti, la sola che potrà garantire un regime di concorrenza, pur mantenendo fermi i diritti e le conquiste dei lavoratori portuali e serbando anche in vita, con le adeguate e opportune riforme, gli Uffici di lavoro dei porti sotto la diretta dipendenza e responsabilità del Ministero della marina mercantile. Si chiede che le imprese e le cooperative possano liberamente funzionare nei porti e intrattenere i loro rapporti diretti, come tutte le imprese industriali, con i lavoratori, pur servendosi esclusivamente delle maestranze iscritte nei ruoli delle capitanerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Finocchiaro Aprile».
«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non creda debba il Governo della Repubblica provvedere finalmente ad accelerare quei lavori delle strade di serie rimaste incomprensibilmente allo stato di indicazione o poco meno, il cui elenco è stato stabilito nella provvida legge che il Ministro Baccarini propose e che porta il numero 337 del 23 luglio 1881, in modo che nel più breve termine venga assolto l’impegno che lo Stato ha assunto verso le popolazioni interessate; e questo per le strade di valico appenninico particolarmente, come quelle del Bratello, del Lagastrello, del Pradenena, ed in specie per la più urgentemente attesa – la seconda numero 161 – la quale interessa quattro provincie (Massa Carrara, Spezia, Parma e Reggio Emilia) e sarà per divenire una fra le più importanti arterie dell’Alta Italia, abbreviando notevolmente il percorso dalla Toscana a Milano. In essa, dopo gli appalti del 1922, non si continuò che un solo chilometro, giacché le complesse burocrazie statali non seppero in tanti anni risolvere un cambiamento di tracciato modificatore della legge e che non ebbe mai alcun fondamento.
«Micheli».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si richiede la risposta scritta.
Così pure l’interpellanza sarà inscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.
La seduta termina alle 22.50.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 9.30:
Seguito della discussione sul disegno di legge:
Approvazione del Trattato di pace tra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947. (23).