Come nasce la Costituzione

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GIOVEDÌ 25 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XIII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 25 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE GRANDI

E DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE:

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Annuncio di risposte scritte ad interrogazioni:

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Presidente                                                                                                        

Canevari                                                                                                          

Caroleo                                                                                                           

Gallico, Spano Nadia                                                                                     

Cortese                                                                                                            

Benedetti                                                                                                         

Molè                                                                                                                 

Martino Gaetano                                                                                           

Cevolotto                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri,

Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri                                            

Russo Perez                                                                                                     

Nobile                                                                                                               

Bertone                                                                                                            

Meda                                                                                                                 

Orlando                                                                                                           

Labriola                                                                                                          

Nitti                                                                                                                  

Lucifero                                                                                                           

Cianca                                                                                                              

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Chieffi, Segretario                                                                                             

La sedata comincia alle 16.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i Deputati Sardiello, Vanoni e Caso.

(Sono concessi).

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Ministri dell’interno, dell’agricoltura e delle foreste, dei trasporti, della pubblica istruzione, delle poste e telecomunicazioni, hanno trasmesso le risposte scritte alle interrogazioni dei Deputati: Scotti, Braschi, Bubbio, Cicerone, Terranova, Cremaschi, Sullo, Bovetti, De Michele.

Saranno inserite, a norma del Regolamento, nel resoconto stenografico della seduta odierna. (Vedi Allegato).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua riunione odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni dei seguenti Deputati per il Collegio unico nazionale, e concorrendo negli eletti le qualità richieste dalla legge elettorale, le ha dichiarate valide: Togliatti Palmiro, Longo Luigi, Scoccimarro Mauro, Secchia Pietro, Amendola Giorgio, Nobile Umberto, Massola Umberto, Pratolongo Giordano, Sereni Emilio, Li Causi Girolamo, Spano Velio, Di Vittorio Giuseppe, Negarville Celeste Carlo, Damiani Ugo, Giannini Guglielmo, Patrissi Emilio, Fresa Armando, Marina Mario, Tieri Vincenzo, Venditti Milziade, Rognoni Arturo, Corsini Tommaso, Patricolo Gennaro, Maffioli Catullo, Sforza Carlo, Facchinetti Cipriano, Azzi Arnaldo, Magrini Luciano, Perassi Tommaso, Martino Enrico, Natoli Lamantea Aurelio, De Mercurio Ugo, Sardiello Gaetano, Bruni Giraldo, Micheli Giuseppe, Piccioni Attilio, Pecorari Fausto, Restagno Pier Carlo, Pastore Giulio, Chatrian Luigi, Fuschini Giuseppe, De Unterrichter Maria, Federici Maria, Storchi Ferdinando, Mortati Costantino, Tosato Egidio, Nenni Pietro, Lombardo Matteo Ivan, Modigliani Emanuele Giuseppe, Lizzadri Oreste, Merlin Angelina, Pertini Alessandro, Morandi Rodolfo, Cacciatore Luigi, Vernocchi Olindo, Parri Ferruccio, La Malfa Ugo, Cianca Alberto, Lombardi. Riccardo, Calamandrei Piero, Schiavetti Fernando, Valiani Leo, Foa Vittorio, Codignola Tristano, Orlando Vittorio Emanuele, Croce Benedetto, Nitti Francesco, Bonomi Ivanoe, De Caro Raffaele, Ruini Meuccio, Paratore Giuseppe, Einaudi Luigi, Gasparotto Luigi, Porzio Giovanni, Cevolotto Mario, Benedetti Tullio, Bencivenga Roberto, Bergamini Alberto, Selvaggi Vincenzo, Fabbri Gustavo.

 

La Giunta stessa ha verificato non essere contestabili le elezioni dei seguenti Deputati subentrati in ciascuna circoscrizione a quelli eletti nel collegio unico nazionale, e le ha pertanto dichiarate valide:

per la circoscrizione di Torino (I): Flecchia Vittorio, Moranino Francesco, Rapelli Giuseppe, Villabruna Bruno;

per la circoscrizione di Cuneo (II): Platone Felice, Badini Confalonieri Vittorio;

per la circoscrizione di Genova (III): Rossi Paolo;

per la circoscrizione di Milano (IV): Cavallotti Alberto, Tumminelli Michele Maria, Cairo Arrigo, Treves Paolo;

per la circoscrizione di Verona (IX): Saggin Mario, Burato Arturo;

per la circoscrizione di Venezia (X): Ravagnan Riccardo;

per la circoscrizione di Udine (XI): Pellegrini Giacomo;

per la circoscrizione di Parma (XIV): Corassori Alfeo, Pignedoli Antonio;

per la circoscrizione di Firenze (XV): Saccenti Dino, Targetti Ferdinando, Cappugi Renato;

per la circoscrizione di Pisa (XVI): Amadei Leonetto;

per la circoscrizione di Siena (XVII): Gervasi Galliano;

per la circoscrizione di Roma (XX): Massini Cesare, Gallico Nadia, Mastrojanni Ottavio, Perugi Giulio, Camangi Ludovico, Bellusci Giuseppe, Matteotti Gianmatteo, Lucifero Roberto;

per la circoscrizione di Napoli (XXIII): Gatta Alessandro, Persico Giovanni, Cortese Guido, Fusco Giuseppe, Reale Eugenio, La Rocca Vincenzo, Puoti Renato, Mazza Crescenzo, Buonocore Giuseppe, Colonna di Paliano Carlo, Lombardi Giovanni;

per la circoscrizione di Salerno (XXIV): Sicignano Ludovico, Vinciguerra Ireneo;

per la circoscrizione di Bari (XXVI): Assennato Mario, Miccolis Leonardo, Rodi Cesario;

per la circoscrizione di Potenza (XXVII): Reale Vito;

per la circoscrizione di Catanzaro (XXVIII): Mazzei Vincenzo;

per la circoscrizione di Catania (XXIX): D’Agata Antonino;

per la circoscrizione di Palermo (XXX): Montalbano Giuseppe, D’Amico Michele, De Vita Francesco;

per la circoscrizione di Cagliari (XXXI): Laconi Renzo.

 

Do atto alla Giunta di queste comunicazioni, e, salvi i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente dei Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Come l’Assemblea ricorderà, è stata ieri approvata la chiusura della discussione generale. Ora si deve procedere allo svolgimento degli ordini del giorno, per il quale, a norma del Regolamento, ogni oratore dispone di venti minuti.

Si dia lettura dell’ordine del giorno presentato dall’onorevole Canevari.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente invita il Governo a promuovere una legge che rivendichi alle cooperative, alle società di mutuo soccorso e agli istituti similari, senza eccezioni di termini di prescrizione o trasferimento a terzi, la proprietà dei beni sottratti o alienati anche con la parvenza della legalità, durante il regime fascista, e il risarcimento dei danni comunque subiti dagli enti medesimi per le violenze fasciste; e perché siano perseguiti civilmente e penalmente i responsabili delle criminose distruzioni del patrimonio cooperativo.

Canevari, Mazzoni, Cosattini, Tonello, Piemonte».

L’onorevole Canevari ha facoltà di svolgere l’ordine del giorno.

CANEVARI. Onorevoli colleghi, sarò brevissimo e mi limiterò a pochi punti che considero della maggiore importanza nel difficile momento che attraversiamo.

Ritengo che il compito principale di questo primo Governo della Repubblica sia quello di assicurare al Paese la maggiore tranquillità nel lavoro; e che a tal fine siano da indicare i seguenti provvedimenti:

1°) Una sollecita e coraggiosa politica dei consumi che sottragga la distribuzione dei generi di largo consumo popolare alla speculazione privata, ormai intollerabile; onde l’intervento in pieno e la valorizzazione del movimento cooperativo, sotto la vigilanza, il controllo e l’aiuto dei Comuni.

2°) Un’audace politica di lavori pubblici, dando il maggiore sviluppo ai lavori ferroviari, di ponti e strade, di porti, di bonifica, di montagna, di opere idrauliche e di difesa, di opere edilizie, di canali per la navigazione interna e per la irrigazione, ecc.

Specialmente alle opere intese ad aumentare la superficie irrigabile dovrebbe essere rivolta la prima e più attenta cura.

Attualmente, con circa 3000 metri cubi di acqua al secondo, vivifichiamo una superficie di circa due milioni di ettari di terreno; cioè un terzo della superficie di pianura, e il 9 per cento della superficie agraria. Potremmo raddoppiarla. Ma in un primo tempo potremmo aumentarla del 25 per cento. Altri 500 mila ettari di terreno potremmo sottoporre a irrigazioni entro un termine abbastanza breve, con un piano di relativa facile attuazione. Vi è interessata tutta l’Italia: il Nord, il Centro, il Sud, le Isole.

Oltre alla aumentata produzione, la irrigazione assicura il lavoro continuo e la vita al maggior numero di persone. Si calcola che ogni litro-secondo utilizzato, vuol dire una persona in più che può lavorare regolarmente e continuamente, e che può certamente vivere.

La sistemazione montana interessa tutta l’Italia e – mentre consente l’impiego immediato di numerose maestranze nelle zone di montagna più povere e più dedite alla emigrazione – può essere attuata sollecitamente, poiché presso i Corpi forestali numerosi progetti sono pronti.

Essa avrebbe un’importanza enorme nell’equilibrio idrico del Paese e aumenterebbe notevolmente le superfici bonificabili e irrigabili.

3°) Il problema del latifondo, da affrontarsi e risolversi gradualmente, ma tenacemente, ravvisando in ciò la possibilità di occupare larghe maestranze, di preparare le condizioni indispensabili per le successive trasformazioni agrarie e fondarie e di attuare una colonizzazione interna che assicuri a numerose famiglie di lavoratori della terra una vita tranquilla e feconda.

4°) Facilitare ai lavoratori diretti associati in Cooperative agricole la occupazione delle terre incolte o malcoltivate, specialmente di quelle suscettibili di miglioramenti agrari, e prorogare le occupazioni in corso, per un minimo di nove anni, in maniera da indurre i lavoratori interessati ad eseguirvi tutti i lavori di miglioria, con conseguente maggiore impiego di mano d’opera e con una maggiore produzione agricola.

La riforma agraria sarà certamente oggetto di esame e di dibattiti nella nostra Assemblea, ma intanto il Governo può, nell’interesse vivo e urgente del Paese, adottare i provvedimenti sopra accennati, quali mezzi efficaci per iniziare e sviluppare da una parte l’opera di ricostruzione e dall’altra per adeguare i prezzi di largo consumo popolare ai salari e agli stipendi.

Esempi potrò fornire all’onorevole Ministro dell’agricoltura, se richiesto, per dimostrare quali eloquenti risultati abbiano conseguito nei dintorni di Roma le Cooperative agricole, sui terreni tanto faticosamente ottenuti in temporanea concessione.

Provvedimenti lungamente attesi dai lavoratori della terra della Sicilia, alla quale io, figlio del Nord, mi sento così vivamente e fortemente legato, il Governo potrebbe immediatamente adottare, senza sacrifici per il bilancio dello Stato.

Onorevole Aldisio, la prego di insistere presso il suo collega onorevole Segni, Ministro per l’agricoltura, e presso il Consiglio dei Ministri, perché sia fatto quello che a lei forse è stato difficile di conseguire come Alto Commissario per la Sicilia: colpire a morte il gabellotto: questo intermediario inutile, nocivo, feudale, reazionario gabellotto, che è la causa principale della miseria materiale e morale dei contadini della Sicilia.

Un altro punto debbo rapidamente svolgere, ed ho finito.

Con l’ordine del giorno che ho avuto l’onore di presentarvi, mi sono limitato a chiedere un atto di giustizia riparatrice, al quale i cooperatori italiani hanno pieno diritto.

Il fascismo ha distrutto molti beni, mobili e immobili, che costituivano il risparmio collettivo di tanti lavoratori associati nelle loro cooperative, nelle mutue e in altri enti simili.

Case del popolo, sedi, spacci e magazzini, aziende agricole modello, che rappresentavano il frutto di tanti anni di lavoro associato ed erano elementi di prova di quanto si potesse conseguire, in forma civile, nella solidarietà fra gli uomini di buona volontà, per giungere a forme sempre più elevate di convivenza umana, furono incendiati, devastati, distrutti.

Altri beni immobili furono occupati violentemente dalle criminose bande fasciste, come bottino di guerra: mezzi d’opera furono asportati; cantieri di lavoro liquidati; bestiame da lavoro, da produzione e da allevamento, fatto oggetto delle più inique rapine, anche se mascherate dalla così detta legalità fascista.

In molti casi le Cooperative furono obbligate, come a Frascarolo, a convocarsi in Assemblea per fare cessione o donazione dei loro beni ai fascisti, al dopolavoro fascista, a nuovi enti creati dal fascismo, per il fascismo.

Potrei citare un elenco impressionante di casi simili, che interessano ogni parte d’Italia; mi limito ad alcuni di essi, senza soffermarmi su quanto è avvenuto nella mia Federazione, perché troppo vi sono direttamente interessato, limitandomi a ricordare che l’occupazione fascista di otto aziende agrarie cooperative venne fatta contemporaneamente alla marcia su Roma e tutto fu liquidato come fosse un bottino di guerra.

Nell provincia di Bologna i danni segnalati finora alla Lega Nazionale delle Cooperative ammontano a lire 1.485.000 (valuta, va da sé, d’allora); alla Cooperativa di Binasco lire 1.421.000; nella provincia di Mantova lire 7.958.159; a Cremona lire 977.750; a Pistoia lire 250.000; a Siena lire 312.000; a Ravenna, vari milioni, ecc. Ma come esempio tipico vale quello di Molinella. Sia permesso di ricordarlo brevemente.

L’organismo cooperativo di Molinella, alimentato attraverso il tempo dal genio creatore e dalla fede animatrice di Giuseppe Massarenti, a cui tutti siamo debitori di un atto di riparatrice giustizia, nel 1920 costituiva un vasto complesso di istituzioni fiorenti che assicuravano ed incrementavano la produzione e difendevano il salario del povero e il pane del popolo.

Una cooperativa agricola che gestiva cinque tenute, un’azienda macchine ricca di motori, aratrici, trebbiatrici, decanapulatrici, ecc., sette cooperative di consumo, una cooperativa di tessuti, una per prodotti ortofrutticoli, una cooperativa muratori ed un’altra di birocciai, cinque asili infantili (giacché la grande famiglia dei cooperatori molinellesi si preoccupava anche di contribuire all’educazione dei figli del popolo); insomma un capitale di 40 milioni di lire di quel tempo, messo insieme frusto a frusto, con ritenute sui salari, con ore gratuite di lavoro compiuto dopo l’orario normale consumato nelle terre altrui; tutto questo patrimonio è stato selvaggiamente saccheggiato e disperso. Ed ora si è arrivati a questo colmo: la Cooperativa agricola di Molinella deve prendere a nolo le proprie macchine che furono vendute all’asta come preda o trofeo della guerra contro la classe lavoratrice.

Con l’ordine del giorno presentato impegniamo il Governo ad emanare disposizioni di giustizia riparatrice.

Confido, onorevoli colleghi, nella vostra adesione. Confido, signori del Governo, nella dichiarazione favorevole che da voi attendono i lavoratori cooperatori italiani. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Caroleo. Se ne dia lettura.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, ritenuta la necessità che siano emanati provvedimenti d’urgenza a favore delle classi agricole, specialmente del Mezzogiorno, alle quali deve essere assicurata, come per i lavoratori della industria, la continuità di una prestazione d’opera, non soggetta alla mutevole volontà dei proprietari della terra, in funzione di datori di lavoro, raccomanda al Governo di dar vigore ad opportune norme rivolte ai seguenti scopi:

1°) prorogare, ad equo corrispettivo e per la durata che parrà conveniente (in ogni caso non inferiore ad un triennio), gli affitti a coltivatore diretto, estendendo tale qualifica anche ai conduttori diretti di azienda agricola nelle zone soggette a colture estensive;

2°) realizzare, attraverso la giusta moderazione dei canoni locatizi e una esatta determinazione dei costi di produzione, un sistema di calmieramento dei prezzi, con vincoli parziali dei prodotti agricoli, adeguati alle esigenze di consumo delle provincie produttrici od almeno alle esigenze delle categorie meno abbienti delle stesse provincie;

3°) garantire ai coltivatori il reale conseguimento di tutti i sussidi ad essi destinati dal Governo per il grano prodotto mercé l’impiego della loro opera;

4°) assicurare con eventuali norme interpretative l’assoluta irrevocabilità dei decreti prefettizi di assegnazione di terre incolte o insufficientemente coltivate, emessi o da emettere in base al decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 279;

5°) impedire, a carico dei coltivatori diretti, l’applicazione, da parte degli uffici provinciali dell’alimentazione o di altri enti, di speciali contributi per insussistenti spese di distribuzione sui quantitativi di grano trattenuti per consumo familiare e per i bisogni aziendali».

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha facoltà di svolgere quest’ordine del giorno.

CAROLEO. Onorevoli colleghi, debbo per poco infastidirvi allo scopo di prospettare due gravi problemi, che attualmente si presentano di urgente soluzione per il popolo calabrese. C’è un problema di lavoro e un problema di consumi. In riferimento al problema di lavoro, che interessa particolarmente tutta la classe agricola della provincia di Catanzaro, in quest’ordine del giorno io propongo che l’Assemblea rivolga raccomandazione al Governo di voler rendere stabile, tranquilla e continuativa la possibilità di una prestazione di opera dei lavoratori della terra.

Questa continuità è stata in certo qual modo pregiudicata e compromessa dal decreto del 5 aprile 1945, con cui si sbloccavano gli affitti dei fondi rustici e la proroga si concedeva unicamente nei confronti dei coltivatori diretti.

La proroga, che andrà a scadere fra qualche mese, dovrà essere rinnovata almeno per un triennio, in relazione a quelle che sono le esigenze colturali della nostra zona e andrà estesa anche ai conduttori diretti di aziende, perché noi in Calabria, con la questione del latifondo, non abbiamo di fronte coltivatori di poderi che per esigua quantità, mentre il coltivatore della terra che al sole dà e prodiga la sua fatica, nelle nostre zone malariche si identifica in qualche cosa che è tra il coltivatore diretto e il cosiddetto grosso coltivatore.

Le commissioni istituite dal decreto Gullo, e che dovevano avere indubbiamente, nelle aspettative del Governo, altra applicazione, hanno finito col restringere il concetto e la qualifica del coltivatore diretto, identificandolo addirittura soltanto nel contadino che zappa la terra.

Ora noi chiediamo che la proroga sia estesa anche a quest’altra categoria di lavoratori, che sono i benemeriti della produzione della Calabria e che hanno anche diritto alla garanzia della continuità del loro lavoro. Parecchi di essi sono stati messi sulla strada, dopo decenni di conduzione di terre a cui avevano dato non soltanto l’opera propria, ma anche quella dell’intera famiglia. E la ragione è stata una sola: quella, per i proprietari, di realizzare maggiori profitti.

Noi non chiediamo che la proroga sia data senza un equo aumento, perché quando si parla di giustizia sociale non si può pensare di attuarla attraverso espropriazioni o indebiti arricchimenti, ma è certo che l’equo corrispettivo non deve andare al di là dei limiti giusti.

A questo punto si innesta anche la questione del problema che ho definito dei consumatori, perché si collega strettamente sia al lavoro, sia al consumo. Ieri diceva l’onorevole Togliatti – e diceva bene – che non si è fatto nulla finora per allarmare la classe dei possidenti. Io dico di più: si è fatto nel 1945 qualche cosa di contrario all’allarme, perché per noi, che abbiamo potuto assistere da vicino alle conseguenze dello sblocco degli affitti delie terre, e quindi dello sblocco dei canoni locatizi, si è presentata precisamente la realtà di una posizione iniqua, che si determinava sia di fronte a categorie di possessori di capitali di altra natura, sia di fronte, principalmente, alla grossa massa dei consumatori. Tutti gli aumenti che derivarono strettamente dall’applicazione del decreto di sblocco agli affitti delle terre si scaricarono – onorevoli colleghi, è questa l’esatta parola – sui consumatori italiani, e principalmente su quei consumatori calabresi che sono niente altro che contadini, reduci senza lavoro, impiegati, pensionati che non riescono a superare il tormento alimentare della giornata.

Ora, io ho sentito ed ho seguito con molto interesse e con molta attenzione i diversi discorsi di professori di economia e di finanza, ma non ho trovato ad un certo momento la ragione sufficiente di quel, quasi direi giuoco di prestidigitazione, per cui i salari vengono subito inghiottiti da qualche cosa che non si vede, o che si vede e si intravvede, come la terza carta del giuoco del prestidigitatore.

Ebbene, noi in Calabria questo giuoco lo abbiamo seguito bene, e il denaro fresco che affluisce nelle casse dello Stato, i diversi milioni e miliardi che si sottoscrivono al debito pubblico provengono unicamente da grossi proprietari e da grossi produttori. Sono nidi di biglietti da mille che si possono facilmente rintracciare. Ora, questi nidi di biglietti da mille si sono nella Calabria formati attraverso aumenti iperbolici di prodotti agrari, come olio, fave, fagioli ecc.; ed attraverso iperbolico aumento di canoni locatizi.

Se si attende che si realizzi una discesa di prezzi nei prodotti alimentari attraverso una immissione sovrabbondante nel mercato di questi prodotti, che dovrebbe avvenire attraverso la trasformazione e il miglioramento della terra, non ci ritroveremo più.

Quello che ieri diceva un onorevole collega di altro settore è esattissimo ed è assai più vero per le nostre popolazioni calabresi: siamo ridotti al muro, i nostri reduci e disoccupati sono all’osso. A tutto questo bisogna pensare e la via è una sola: controllare i prezzi, ribassare i prezzi ed il controllo dei prezzi si attua principalmente attraverso il blocco dei fitti dei fondi rustici. Già nel 1945 i proprietari terrieri hanno avuto modo di elevare le loro rendite e si preparano a fare un altro aumento per il 31 agosto 1946. Il nuovo, blocco, come sempre, si scaricherà sulla massa dei consumatori; ma questa è una ingiustizia ed una iniquità, anche di fronte agli altri possessori di capitali di altra natura. I possessori di danaro dell’altra guerra sono rimasti col 5, con il 4, con il 3 per cento che davano i mutuatari privati e lo Stato ai sottoscrittori del debito pubblico. Altrettanto i proprietari di immobili urbani, che hanno avuto per di più il laccio dei Commissari degli alloggi. E, per i proprietari delle terre, perché vi deve essere una disparità di trattamento? Per dare impulso alla, produzione; sta bene, ma perché la produzione si aumenti e si migliori questo limite deve essere contenuto. Non bisogna andare al di là del rimborso di tutti i tributi, delle spese di manutenzione e di altra natura, ed è necessaria pure una rimunerazione di questo capitale. Arrivati ad un certo limite bisogna dire basta, perché l’eccedenza ricade sui consumatori, sui salariati, i quali faranno portare poi questo denaro fresco al Ministro del tesoro. Ma è la via più infame di afflusso di questo denaro alle casse dello Stato, perché è la via del patimento, è la via del lavoro, della fatica.

Quindi, se il Governo vuole, può ritrovare i nidi dei biglietti da mille. Così, quando si parla di prezzo politico del grano, io vorrei dire ai signori del Governo, che hanno tanta competenza: guardate che nell’analisi dei costi del grano bisogna andare principalmente al primo elemento che concorre in questi costi e che è il corrispettivo di quel mezzo di produzione che è la terra. È lì che dovete puntare, perché beccando su questo margine, che non è giustamente appreso da coloro che sono i proprietari delle terre, voi potrete anche risparmiare i 3 miliardi al mese che vi preparate ad addossare al popolo italiano per far entrare in vigore il nuovo prezzo del pane. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Signora Gallico Spano Nadia e da altri Deputati. Se ne dia lettura.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, interprete della giustificata attesa popolare, chiede al Governo di voler estendere l’assegnazione del premiò della Repubblica alle vedove di guerra ed alle mogli dei prigionieri, nella misura di lire 3.000, come manifestazione di solidarietà per le durissime condizioni di vita in cui versano queste donne con le loro famiglie e che le pongono fra le più colpite e misere categorie della Nazione.

«Gallico Spano Nadia, Montagnana Rita, Merlin Lina, Mattei Teresa, Noce Teresa, Rossi Maria Maddalena, Bianchi Bianca, Delli Castelli Filomena, Gotelli Angela».

PRESIDENTE. L’onorevole Signora Gallico Spano Nadia ha facoltà di svolgere quest’ordine del giorno.

GALLICO SPANO NADIA. Il programma del Governo comprende una prima misura immediata per venire incontro alle più urgenti necessità delle classi lavoratrici. Il premio della Repubblica, che non sostituisce l’adeguamento dei salari, è tuttavia manifesta volontà del Governo di aiutare le masse lavoratrici a superare l’attuale grave momento ed a permettere loro di aspettare con minore sofferenza nuovi più sostanziali provvedimenti. È in questo spirito che i lavoratori, i disoccupati, i reduci, i quali hanno saputo imporsi sacrifici e privazioni pur di raggiungere i grandi obiettivi che si proponevano, la proclamazione della Repubblica e la convocazione dell’Assemblea costituente, è in questo spirito che essi hanno accolto l’annuncio del Governo. E il loro sdegno, come lo sdegno di tutta la Nazione è oggi ampiamente giustificato di fronte all’atteggiamento degli industriali e degli agrari, di coloro cioè che della guerra hanno approfittato o che per lo meno non hanno sofferto delle tragiche conseguenze che la guerra ha invece imposto a tutto il popolo italiano. Costoro, infatti, vorrebbero che i sacrifici inevitabili di questo dopoguerra fossero sopportati esclusivamente dalle classi lavoratrici, dalle famiglie e dai bambini dei lavoratori. Costoro vorrebbero che per la maggioranza del popolo italiano la Repubblica avesse il volto del passato regime che favoriva, opprimendo i lavoratori, coloro che non sanno il significato della parola sacrificio e che non vogliono conoscerlo.

Il popolo italiano tutto sa bene che essi furono in gran parte i responsabili delle sciagure del nostro Paese, sa bene che essi seppero trarre da queste sciagure benefici e vantaggi, il popolo vuole tuttavia che essi si mettano su una nuova strada e imparino che i sacrifici del Paese per la ricostruzione e per la rinascita dell’Italia debbono essere sopportati da tutti e in primo luogo da coloro che non li hanno mai sofferti.

I lavoratori sanno che debbono sopportare ancora altri sacrifici e non si illudono che il premio della Repubblica significhi per essi la fine delle loro miserie, delle ansie, delle sofferenze, la possibilità di sottrarre i loro bambini alla mortalità così paurosamente aumentata in questi ultimi anni, o alla tubercolosi; essi sanno che non vorrà dire poter proteggere dal freddo del prossimo inverno le loro famiglie, né sfamarle oggi. I lavoratori sanno che il premio della Repubblica è solo un piccolo respiro e soltanto la possibilità di aspettare in condizioni un po’ meno paurose i nuovi provvedimenti che il Governo dovrà inevitabilmente prendere, se vuole essere effettivamente il primo Governo della Repubblica italiana, cioè di quel regime che deve essere il regime di tutti gli italiani e non di poche caste privilegiate.

Ecco perché il Governo non può sottrarsi all’impegno di emanare disposizioni impegnative affinché il premio della Repubblica sia effettivamente corrisposto, stroncando la resistenza della Confindustria e della Confida, resistenza che è oggi un insulto per tutto il popolo italiano.

Nell’attesa che, così agendo, il Governo dia ai lavoratori una prova che oggi, in Italia, i diritti del lavoro sono riconosciuti, noi proponiamo che il beneficio di tale premio sia esteso ad un’altra categoria di capi famiglia che troppo spesso viene dimenticata ed esclusa dai minori benefici, categoria che ha invece diritto a tutto il rispetto e a tutta la solidarietà della nazione: alle vedove di guerra.

La loro situazione è oggi veramente tragica e merita di essere brevemente esaminata, perché questo esame dimostra il loro diritto ad essere considerate come capi famiglia disoccupati.

La guerra ha portato nelle loro case il lutto; vi ha portato inoltre, quasi sempre, la miseria. Prive di sostegni, esse hanno dovuto a poco a poco vendere tutto ciò che avevano in casa, cercando in pari tempo una occupazione, perché dovevano sostituire presso i loro bambini l’assente senza ritorno. Il lavoro è per esse una necessità assoluta. La pensione non solo è insufficiente a condurre una vita modesta ma decorosa, ma serve appena per i primi due o tre giorni del mese. Per tutto il resto del tempo, quando non vi è più niente da sacrificare, neppure i ricordi più cari, restano la miseria, la fame, la disperazione.

Ma il lavoro non si trova facilmente in un paese dove vi sono due milioni di disoccupati, molti dei quali hanno delle capacità e delle qualifiche e possono quindi aver facilmente la precedenza su donne che l’estremo bisogno solo ha fatte uscir di casa in cerca di lavoro; non si trova facilmente lavoro in un paese distrutto, paralizzato, privo di materie prime, in un paese infine in cui giustamente i reduci chiedono di essere riammessi per primi nel ciclo produttivo.

Le vedove di guerra hanno quindi diritto di ottenere questo duplice riconoscimento: primo, di essere considerate capi famiglia: esse hanno dovuto assumere per colpa della guerra tutte le responsabilità del capo famiglia ed è giusto che godano anche gli scarsi benefici collegati a tale qualifica; secondo, conseguentemente, anche se non sono mai state occupate, debbono essere considerate disoccupate e godere dell’assistenza concessa a questa immensa categoria.

Si potrà opporre a questa giusta rivendicazione che la corresponsione del premio alle vedove di guerra rappresenterà un aggravio eccessivo per lo Stato. Si è tuttavia parlato di oltre 30 miliardi quale cifra presumibile che sarebbe raggiunta dalla corresponsione totale del premio della Repubblica. Oltre al fatto che la corresponsione alle vedove di guerra aumenterebbe di poco questo aggravio totale, sarebbe veramente immorale e vergognoso soffermarsi in questo caso ai dati puramente contabili e non tener conto dell’immenso sacrificio che queste donne hanno sopportato.

Considerazioni analoghe dovrei fare per le mogli dei prigionieri e pertanto non le ripeto.

Molte sono le donne che oggi vengono a chiedere la soluzione dei loro problemi, grande è l’attesa soprattutto per la nostra azione di rappresentanti, di difensori del popolo. Noi siamo stati inviati dal popolo per difendere i suoi interessi.

Chiedendo che venga concesso alle vedove di guerra ed alle mogli dei prigionieri il premio della Repubblica noi ci facciamo interpreti di uno di questi interessi, dei più giusti e dei più tristi. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno degli onorevoli Cortese, Fusco e altri. Se ne dia lettura.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri,

riafferma il diritto dell’Italia all’integrità dei suoi confini naturali consacrati dal sacrificio di intere generazioni e da tutta la storia liberale e democratica d’Italia;

esprime la legittima aspirazione del popolo italiano a non vedersi spogliato delle Colonie acquisite col consenso delle grandi potenze europee e arricchite dal lavoro e dal capitale italiano;

si leva contro l’ingiusta diffidenza che muove le potenze cobelligeranti ad imporre alle nostre Forze armate limitazioni umilianti, in dispregio del contributo di sacrificio e di sangue dato dall’Italia alla causa comune;

protesta contro la minaccia di sanzioni economiche che colpirebbero i nostri lavoratori in Italia e all’estero, abbassando il tenore di vita di tutti gli italiani ed ostacolandone l’opera di ricostruzione;

auspica che il riconoscimento dei diritti italiani sia fatto all’infuori di ogni spirito nazionalistico, ma con l’energia necessaria;

dichiara che i rapporti tra l’Assemblea Costituente e il Governo restano regolati dal decreto legislativo luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, e afferma che il Governo deve limitare l’esercizio dei poteri conferitigli dall’articolo 3 ai casi che non incidano, in maniera diretta o indiretta, sulla materia costituzionale;

constata che la composizione dell’attuale Governo non è tale da garantire la efficace direzione della cosa pubblica in un momento così grave per il Paese e che il suo programma contraddittorio, oscillante tra un indirizzo pianificatore e inflazionistico e una tendenza di libertà economica e di difesa della lira, non fa sperare in quella opera coerente di ricostruzione che il Paese esige;

e passa all’ordine del giorno.

«Cortese, Fusco, Perrone Capano, Cifaldi, Martino Gaetano, Badini Confalonieri, Villabruna, Reale Vito».

PRESIDENTE. L’onorevole Cortese ha facoltà di svolgere quest’ordine del giorno.

CORTESE. Onorevoli colleghi, io mi dispenso dall’illustrare la prima parte del nostro ordine del giorno che esprime l’ansia ed il dolore di tutto il popolo italiano di fronte ai preannunci della pace che sono in così duro contrasto con l’ottimismo tante volte espresso dall’onorevole Presidente del Consiglio, Ministro degli esteri. Né qui farò l’esame critico della condotta da lui spiegata, o non spiegata, in difesa dei nostri diritti, limitandomi a rilevare che se è innegato che l’opera del Ministro degli esteri è difficile per ovvie ragioni, queste però non debbono valere come facile alibi per coprire tutte le eventuali deficienze e tutti gli errori della nostra politica estera. Noi qui, in quest’ora di estrema vigilia per le sorti del nostro Paese, leviamo innanzi all’equità dei popoli e alla giustizia della storia le nostre istanze di giustizia.

Quando, onorevoli colleghi, Ulianov il grande Lenin, ritornò nella sua patria percorsa dai primi fremiti della rivoluzione, egli portò non soltanto al suo popolo, ma a tutti i popoli del mondo travolti nel turbine della guerra, una grande promessa di umana giustizia che si espresse nella formula: «né annessioni, né riparazioni».

E nel congresso dei sovieti egli ripetè per due volte che laddove si parla di annessioni e di riparazioni, là non vi è pace democratica. Oggi l’Italia chiede alla grande nazione russa la pace di Lenin, chiede alle grandi nazioni anglo sassoni la pace annunciata da Roosevelt, quando proclamò che fine principale delle Nazioni Unite era quello di non permettere ingrandimenti territoriali.

L’onorevole Togliatti ha ricordato l’esempio della Francia della restaurazione. Ebbene, la Francia che aveva cercato l’egemonia dell’Europa insanguinandola per 20 anni, non perdette un pollice del suo territorio e si ritrovò intatta nei confini pre-napoleonici. Forse perché essa aveva Talleyrand, forse perché si riconobbe che anche la Francia vinta aveva un’utile funzione da svolgere nel riassetto dell’Europa. Ma quando Bismarck le tolse l’Alsazia e la Lorena, la Francia non riconobbe la mutilazione; innalzò a Parigi un monumento alle sue terre e alle sue città perdute, impresse nella pietra il ricordo, il dolore, la speranza, l’attesa che erano nel cuore dei francesi.

Briga e Tenda, il Moncenisio, Trieste Pola e Albona e tutte le città dell’Istria, non sono meno italiane di quanto l’Alsazia-Lorena è francese.

Oggi, onorevoli colleghi, si parla di réale politique. Ma non è politica realistica quella che non guarda all’avvenire, perché le memorie, le ingiustizie subite, le speranze, i risentimenti sono una realtà viva ed operante nella vita dei popoli, che non si ferma per il prepotere dei vincitori. Noi, difendendo le nostre istanze di giustizia ascendiamo dai nostri interessi nazionali, difendiamo un ideale di giustizia internazionale che è di tutti i popoli e cerchiamo di evitare che sorgano i germi di irrequietezza e di malcontento che minano la democrazia e all’interno e nei rapporti internazionali. Pur dissentendo dal programma del Governo, e pur non approvando la politica estera precedentemente svolta dal Ministro degli esteri, noi ci dichiariamo pienamente solidali con questo e con ogni altro Governo italiano che operi concordemente, con energia, con fermezza e con coerenza nella difesa di queste richieste che si levano dal cuore di tutti gli italiani. Ma, come liberale e come rappresentante del Gruppo parlamentare dell’Unione democratica Nazionale, devo dire, al termine dei lavori di questa Assemblea, fedele al compito di controllo e di critica, senza dei quali la vita democratica perde la sua essenza ed il suo ritmo, che noi non approviamo le comunicazioni del Governo per tre ragioni:

1°) Perché la genericità di quel programma denunzia che alle radici dell’attuale Governò si è trasferito quello stesso difetto che era alle origini del Governo esarchico, cioè la mancanza di un chiaro, preciso, rigoroso programma governativo accettato da tutte le forze contrastanti che compongono il Governo, senza riserve, in un impegno leale.

I liberali desiderano che questo difetto non si trasferisca anche a questo Governo. Tale mancanza di accordo è anche riprovata dalla discordia di indirizzi e propositi recentemente rivelatisi nella Confederazione generale del lavoro, dal riconoscimento in parte fatto ieri dall’onorevole Gronchi; dalle dichiarazioni dell’onorevole Alberganti, che ha espresso la ostilità delle forze che egli rappresenta verso un componente del Ministero che dirige uno dei dicasteri chiave; dalle stesse dichiarazioni dell’onorevole Togliatti, che non ci ha detto perché egli non è al Governo (Commenti), ma ci ha detto invece, in modo chiaro, tutto il suo dissenso verso la politica economica del Ministro del tesoro ed ha fatto le sue più ampie riserve per l’avvenire.

Ora, onorevoli colleghi, quando un Governo di coalizione è formato di forze ideologicamente opposte, se non vi è alla base un chiaro, preciso, rigoroso accordo, il quale faccia sì che esso diventi un armonioso strumento per il conseguimento di fini comuni, allora il Governo è soltanto un mezzo, attraverso un computo di voti, per la detenzione del potere da parte di più partiti, e non dà garanzie di poter agire come efficiente strumento per risolvere i problemi del Paese.

2°) Un’altra ragione di dissenso è quella della contraddittorietà. Mentre il Governo esprime il proposito di sempre più ampi interventi statali, di razionalizzare l’economia, di nazionalizzare, nello stesso tempo dichiara di volere difendere l’economia libera e l’iniziativa privata. È questo, dicevo, il secondo motivo del nostro dissenso: questa contraddittorietà; perché è preferibile stabilire in modo specifico quali sono gli interventi statali che ci si propone di operare, quali i limiti di libertà d’azione che si intende consentire all’iniziativa privata, anziché, con annunzi vari ed allarmanti, mantenere questa atmosfera pesante e nuvolosa sul campo economico, questa atmosfera di incertezza e di eterna vigilia di imprevedibili riforme di struttura; sicché è intimidita l’iniziativa privata, sono imboscati i capitali, che nel nascondimento cercano la difesa, è inerte lo spirito di intrapresa.

3°) V’è un ultimo motivo, che giustifica il nostro dissenso.

Nelle dichiarazioni del Governo si parla di avviamento a riforme costituzionali, di razionalizzare l’economia, di consigli di gestione, di nazionalizzazione o per lo meno di controllo di tutte le industrie connesse con la ricostruzione, cioè di tutte le industrie nazionali, di autonomie locali; cioè si è espresso il proposito di invadere, in certo senso, sia pure sulla soglia, sia pure incompletamente, la sfera della materia costituzionale.

Noi siamo, signori, su di un ponte di passaggio sull’altra riva. Dopo che l’Assemblea costituente avrà redatto la carta costituzionale, gli organi da essa creati potranno attuare quelle riforme che sono conseguenti ai principî inseriti nella carta costituzionale.

Ma ora occorre rispettare i limiti, i rapporti e i binari, altrimenti tutti i deragliamenti sono possibili.

Noi dichiariamo, fin da questo momento, che riconoscendo la validità dell’ordine costituzionale provvisorio e di fortuna, postosi dall’8 settembre 1943 al 2 giugno 1946, negato il quale si avrebbe il vuoto giuridico, in cui precipiterebbe perfino il titolo originario di legittimità di questa Assemblea, noi riconosciamo la validità del decreto 16 marzo 1946 e pertanto affermiamo che il Governo debba limitare l’esercizio dei poteri conferitigli dall’articolo 3 a tutti quei casi che direttamente o indirettamente incidano sulla materia costituzionale. La quale è demandata esclusivamente a questa Assemblea, che non dovrà nemmeno essa affrontarla in via frammentaria e tanto meno farla decidere con delega dei suoi poteri, sia pure parziale, al potere esecutivo, ma dovrà affrontarla e risolverla redigendo la carta costituzionale, alla quale noi liberali intendiamo collaborare come ad un documento storico che attesti che il popolo italiano, risalendo nell’ora più buia, ha saputo con leggi italiane porre la pietra fondamentale per la ricostruzione della Patria. (Applausi al centro).

Presidenza del Vicepresidente GRANDI

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Benedetti. Se ne dia lettura.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente Italiana, udite le dichiarazioni del Presidente del Consiglio e quelle degli oratori che hanno partecipato alla discussione,

invita il Presidente della Costituente a rendersi interprete dell’unanime sentimento dell’Assemblea, facendo pervenire alle Assemblee tutte delle Nazioni Unite ed associate l’appello del popolo italiano,

che domanda giustizia per le sue ragioni di vita,

che vuole non dimenticato il generoso concorso prestato durante due anni alla causa alleata ed alla guerra, contro il nemico comune, per mezzo delle forze regolari italiane e delle forze di resistenza militari e civili,

che chiede non sia tradita la causa della democrazia con la rinunzia ai grandi principî, in virtù dei quali il popolo italiano, spontaneamente, in condizioni particolarmente difficili, sposò la causa alleata, perché essa si identificava con quella della libertà e della fratellanza dei popoli».

PRESIDENTE. L’onorevole Benedetti ha facoltà di svolgere quest’ordine del giorno.

BENEDETTI. Onorevoli colleghi, non mi attarderò in vane e sterili recriminazioni. Troppo dovrei dire e la ristrettezza del tempo non me lo consentirebbe. La mia indipendenza e la mia obiettività, d’altronde, mi porterebbero a pronunziare parole che potrebbero riuscire sgradite ad avversari e ad amici, e sarebbero inopportune nelle attuali congiunture.

Allo svolgimento dell’attività del Governo noi assistiamo, non come taluno pretende, con l’animo del nemico in agguato, ma con italiana speranza e ferma volontà di non frapporre ostacoli al suo cammino, se questo cammino sia diretto verso la comune salvezza.

Verrà forse anche il giorno – Dio non voglia – e potrebbe essere assai presto, nel quale voi e noi, la vecchia Italia e la nuova, avvertiremo la necessità dell’unione sacra di tutti i cittadini, dell’unione sacra degli italiani per difendere con i fatti le ragioni di vita della Nazione. Ma sono eventualità eccezionali che deprechiamo per carità di patria. Oggi il nostro compito è più limitato e diverso: compito, di oppositori leali, che non sono in fregola di compromissioni maggioritarie. Il compito di governare è vostro, esclusivamente vostro. Il controllo è un dovere e un diritto nostro.

Portando i problemi attuali di governo davanti a questa grande Assemblea popolare l’onorevole De Gasperi ha certamente inteso riconoscerne il supremo indiscutibile diritto di sindacato, la piena sovranità in ogni campo, non soltanto in materia costituzionale, di trattati ed elettorale.

A questo proposito mi piace ricordare che, come è stato promesso, l’Assemblea deve affrontare il problema pregiudiziale e fondamentale della divisione dei due poteri, legislativo ed esecutivo. Rilevo inoltre che la tendenza a portare nel chiuso di commissioni, sia pure autorevoli, anche le questioni esplicitamente riservate dalla legge all’Assemblea, non è democratico, perché riduce la possibilità di controllo dell’opinione pubblica.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha espresso un programma di Governo ricolmo di buone intenzioni. Alcune ambiguità ci lasciano perplessi, qualche enunciazione non ci piace; perplessi per talune promesse demagogiche irrealizzabili che contiene e per le allusioni imprecise a soluzioni di gravi problemi come quello agrario, che sollevano vive inquietudini in larghe correnti di interessi e della pubblica opinione.

Esaminare il programma in dettaglio sarebbe un fuor d’opera, come forse è stato un fuor d’opera l’enunciarlo così vasto, complesso e irrealizzabile nel breve periodo di vita concesso al Governo.

Non abuserò pertanto dell’attenzione dell’Assemblea e mi limiterò ad esprimere il mio pensiero sulla politica estera. Sarò brevissimo, e ripeto, non mi attarderò in recriminazioni sul passato, sulla lealtà o slealtà degli alleati, sulle loro antiche complicità col regime dittatoriale, sulla perniciosa illusione di coloro che, accusando la generalità degli italiani, instaurarono povere fortune politiche in quel mancato reingresso dell’Italia che fu la tragica beffa della cobelligeranza. Né insisterò sulla vostra azione o cattiva azione diplomatica. Come avete potuto non prevedere la possibilità di accuse di subordinazione della vostra politica estera alla volontà di un gruppo di potenze? Come avete potuto illudervi sulla efficacia di assicurazioni che certamente vi furono date, ma che erano condizionate dagli sviluppi del giuoco fra i grandi? Come avete potuto non prevenire il sacrificio della Venezia Giulia e di Trieste, oggetto di cupidigie contrastanti e perciò forse superabili per la stessa virtù dei contrasti? Vi è mancato il metodo, se non l’animo, onorevole Presidente del Consiglio. Forse anche, salvo poche fortunate eccezioni, sono mancati gli strumenti che, per vero, non avete potuto né forgiare né scegliere, perché ve li hanno imposti i partiti o, meglio, i comitati.

Anche per ovviare a certa carenza diplomatica, per sostenere autorevolmente l’azione che sta svolgendo in questo momento il Ministro degli esteri, questa prima Camera eletta da oltre 23 milioni di cittadini italiani dovrebbe far pervenire per le vie più opportune ai Parlamenti, ai Governi, alle opinioni pubbliche dei Paesi che si dicono per antonomasia vincitori, l’appello unanime della Nazione italiana. Ho tradotto questo appello in un ordine del giorno.

Le decisioni anguste nella lettera, nello spirito, nella procedura, inique nella sostanza, ripugnanti ai principî di democrazia evocati durante la guerra e anche dopo di essa riaffermati, sono pericolose per tutte le nazioni, perché la pace, per essere durevole, dovrà essere un patto bilaterale, un trattato. Se sarà un Diktat, una sentenza, preparerà prossimi e pericolosi cambiamenti.

Sono anche io certo, amico Labriola, che l’Italia sarà un giorno in piedi.

Lo sarà anche prima di vent’anni, e non soltanto per opera di ben costruiti piani quinquennali, di un provvido e tenace sforzo economico, liberale o socialista, come l’onorevole Labriola preferisce, o altro. Sarà in piedi, per difendersi, cogliendo qualsiasi occasione, anche le più disperate, con una concordia, con una disciplina di ferro, che andrà, se occorre, da questi banchi a quelli opposti ed estremi, quando saremo tutti estremi, se ciò diverrà necessario per salvare l’Italia.

L’Italia non ridiventerà l’espressione geografica cara alle Sante Alleanze di tutti i tempi. L’Italia è il cuore dell’Europa. È una massa di quasi 46 milioni di anime. Non è soltanto un pontile di sbarco di merci o il terreno di atterraggio di future flotte aeree, non sarà il cieco e passivo strumento di altre guerre.

La famosa fatalità che porta a concludere le guerre europee nella valle del Po, ha pur sempre bisogno del nostro concorso. Questo Paese, anche inerme e sminuzzato, riuscirà a difendere la sua libertà e la sua neutralità, quando che sia, contro chicchessia.

Questo non è il nazionalismo del quale parlano, non sempre a proposito, coloro che non hanno occhi per quel che avviene al di là di certe frontiere. Qui non si invocano primati di letteraria memoria, né assurde restaurazioni imperiali. Si vuol difendere la più onesta, la più democratica potenza di pensiero e di lavoro di un popolo ricco d’ingegno e di miseria, che ha sempre ricevuto meno di quello che ha dato. Esso oggi dovrebbe essere mutilato, perdere i suoi sbocchi economici, le sue antiche e sudate colonie. Dovrebbe limitarsi ad esportare coolies a vile prezzo, merce umana, destinata a scendere, in regime da galeotti, in fondo a quelle miniere che disertano i proletari degli altri Paesi. Dovrebbe limitarsi ad inviare all’estero, in tutta perdita di corpi e di anime, il suo eccesso di popolazione, non per consacrare una nuova auspicata fratellanza dei popoli, ma soltanto per sanare le ferite di quei paesi che, oggi, ci vogliono umiliare e spogliare.

Questa Italia che si difende è l’Italia dei lavoratori e dei poveri. È la vostra, onorevoli colleghi dei partiti cosiddetti di massa.

Il collega Pacciardi ha sostenuto, con la autorità che gli deriva dalle esperienze vissute, che le possibilità di negoziare il trattato di pace non debbono essere sminuite da discussioni su questioni accessorie. Ha ragione. Ha torto soltanto quando parla di trattato di pace. Il trattato è già redatto, e se è conosciuto da noi a causa di indiscrezioni, non è stato ancora comunicato al Governo italiano. E il Presidente del Consiglio non è stato ancora chiamato a Parigi, non dico già per trattare, ma per essere udito.

Io temo, onorevole Presidente del Consiglio, che la nuova più energica azione diplomatica cui sembra vi accingiate, in ultima istanza, dinanzi ai ventuno, sia tardiva. Comunque, tentarla si deve, in ogni senso e in ogni direzione.

Le nostre speranze si rivolgono con gratitudine verso le Potenze che già hanno dimostrato di comprendere la nostra angoscia.

Se la nostra azione fallisse, ricordatevi che il popolo non vi perdonerebbe di firmare un trattato che non sarebbe un trattato, ma una sentenza di condanna. Le sentenze vengono notificate.

Se una tale firma dovesse essere da noi apposta, io mi auguro che ciò sarà fatto non in modi che impegnino il nostro popolo, bensì con cautele che saranno per sempre la prova della violenza subita.

Onorevoli colleghi, per concludere, lasciatemi dire che se non vogliamo tradire il mandato affidatoci, noi non ci dobbiamo lasciar dividere su questo terreno, in questa ora, nemmeno dalle nostre ideologie discordanti, dalle nostre passioni ed ancor meno da ambizioni politiche.

L’Italia democratica sarà salvata dalla resipiscenza delle democrazie straniere, che oggi debbono ascoltare il nostro grido di dolore ed il nostro appello; sarà sorretta dalla ferma disciplina degli italiani auspicanti una libera, pacifica e democratica comunione italiana. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Segue l’ordine del giorno dell’onorevole Basile. Se ne dia lettura.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente,

ritenuto che il potere legislativo non può essere sottratto alla sovranità dell’Assemblea elettiva, che nel regime parlamentare rappresenta la volontà del popolo,

chiede che ogni provvedimento legislativo sia sottoposto all’esame e alla ratifica dell’Assemblea Costituente».

Non essendo presente l’onorevole Basile, si intende che vi abbia rinunciato.

Si dia ora lettura degli ordini del giorno presentati dopo la chiusura e che perciò non possono essere svolti.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente, libera e sovrana espressione di tutto il popolo italiano;

riafferma la inscindibile unità della Patria nella sua gente e nei suoi confini;

invita il Governo a perseverare tenacemente nella difesa del buon diritto dell’Italia a una pace giusta e onorevole, che possa avviare il Paese alla rinascita interna e alla cooperazione internazionale;

approva le dichiarazioni del Governo e passa all’ordine del giorno.

«Molè, Persico, Cevolotto, Gasparotto, Nasi, Preziosi, Pasqualino,Vassallo».

«La Camera confida che nell’opera di risanamento del bilancio e della ricostruzione economica e finanziaria saranno adottati provvedimenti concreti per ottenere:

  1. a) che tutti i cespiti della ricchezza nazionale siano chiamati a contributo per l’imposta straordinaria sul patrimonio;
  2. b) che il risparmio privato possa tornare alla sua normale destinazione e funzione di investimento nella libera economia, della cui espansione e del cui sviluppo esso è condizione;
  3. c) che sia ripristinata e rinvigorita la preminente funzione degli organi centrali e periferici di accertamento delle imposte normali, da ridursi ad aliquote ragionevoli.

«Bertone».

«L’Assemblea Costituente, preoccupata dell’intensifìcarsi delle violazioni della libertà e della legalità, invita il Governo ad un’azione energica, alla immediata riorganizzazione ed al potenziamento di tutte le forze destinate alla tutela dell’ordirie e passa all’ordine del giorno.

«Meda, Cappi, Uberti».

PRESIDENTE. A norma dell’articolo 80 del Regolamento, do la parola all’onorevole Molè che l’ha domandata per dare, come ex Ministro, chiarimenti su un suo atto di Governo, cui si è riferito durante la discussione l’onorevole Martino Gaetano.

MOLÈ. Ho dovuto, mio malgrado, chiedere la parola a termini del Regolamento alla fine della discussione generale, per spiegare e difendere dinanzi all’Assemblea costituente – il che risponde ad un dovere democratico – un mio atto di Governo, per il quale ho avuto censure e critiche assolutamente erronee. Si tratta di questo. Come Ministro della pubblica istruzione, ho annullato la nomina di 39 professori delle Università siciliane. L’onorevole Gaetano Martino, professore di fisiologia, ma non di diritto, e Rettore dell’università di Messina, e come tale, collaboratore… nelle nomine, mi ha accusato, con qualche spunto polemico di sapore arsenicale, di violazione di diritti quesiti, di offesa dell’autonomia, non so se politica o universitaria della Sicilia, e ha gridato all’atto di arbitrio, anzi allo scandalo.

Potrei essere anche d’accordo in questa definizione; ma bisogna vedere se l’arbitrio fu commesso prima o dopo, se lo scandalo è consistito nella revoca o invece nelle nomine fatte senza concorso in aperto disprezzo della legge vigente.

Il fatto è semplicissimo. Durante l’occupazione della Sicilia furono chiamati 39 professori a coprire cattedre di ruolo con una ordinanza del comando militare Alleato: e precisamente 17 all’Università di Messina, 17 all’Università di Palermo, 5 all’Università di Catania: alcune, per giunta, di nuova istituzione!

A giustificare codesta inflazione, che fu detta scherzosamente degli am-professori – a somiglianza della inflazione valutaria – si addusse la necessità di coprire alcuni insegnamenti deserti, perché alcuni professori erano incompatibili con la nuova situazione politica e altri si erano allontanati abusivamente dalla Sicilia.

Il motivo poteva anche esistere ed essere legittimo, sebbene non spieghi la istituzione di nuove cattedre. Ma il procedimento usuale, legale, corretto, era quello di affidare degli incarichi agli studiosi locali, senza ipotecare le cattedre, senza deludere le legittime aspettative, senza sbarrare la strada agli studiosi di tutta Italia, di cui molti erano combattenti o deportati in Germania, molti raminghi o nascosti nelle zone occupate o dispersi nel mondo per motivi politici o razziali dalla bufera della guerra e dalla persecuzione fascista.

Io ho letto in qualche giornale che con il mio provvedimento ho offeso la Sicilia e la sua autonomia, come se la Sicilia non facesse parte dell’Italia; come se l’ordinamento universitario non fosse unico in tutta la nazione, come se alle cattedre di Sicilia non avessero il diritto di poter aspirare tutti gli studiosi d’Italia, da Torino a Siracusa, come se gli studiosi della Sicilia non avessero trovato ospitalità premurosa nella Università di Torino in altri momenti gloriosi e drammatici della vita italiana. Se volete in Sicilia l’autonomia degli studi, nel senso angusto che solo professori siciliani debbano insegnare a studenti siciliani, dovete proporla, «de jure condendo». Ma se oggi vi è un unico ordinamento universitario, dovete osservarlo. E perciò i concorsi devono essere in maniera legale banditi, giudicati, esauriti; e non è lecito, come si è fatto, procedere a nomine di ruolo, senza concorso, in base a semplice giudizio locale, sia pure di Commissioni – non saprei come dire – irreggimentate in seguito ad un convegno dei tre Rettori delle Università a Palermo…

MARTINO GAETANO. La prego di chiarire la parola «irreggimentate», perché offende e lede la nostra personalità.

MOLÈ. Signor Rettore, ella non ha evidentemente l’abitudine dei dibattiti parlamentari: io le ho lasciato dire tutto ciò che ha voluto senza interromperla…

MARTINO GAETANO. Domando la parola per fatto personale.

MOLÈ. Non ho difficoltà a spiegare che con l’espressione «irreggimentate» volevo dire discrezionalmente scelte dai rettori tra i soli professori siciliani.

La irregolarità è dunque evidente e non so come si possa parlare di diritti quesiti violati per la revoca di un provvedimento che rappresenta la patente violazione delle leggi regolatrici dell’ordinamento universitario.

Vero è che le nomine mantennero efficacia anche dopo la restituzione del Sud, perché nel regime armistiziale, essendo non solo ridotta ma quasi annullata la sovranità dello Stato italiano, il Governo di Salerno dovette emanare una disposizione con cui si dava effetto legale ai provvedimenti del Comando alleato. Ma quando, il 31 agosto 1945, la materia dei pubblici uffici conferiti dalle autorità alleate fu regolata con una norma «ad hoc»; quando un Governo legittimo, non più sotto le pressioni del regime armistiziale, stabilì che queste nomine a pubblici uffici o enti pubblici dovessero essere ritenute come incarichi temporanei, revocabili, stabilendone il trattamento economico; quando una circolare del Presidente del Consiglio diede la interpretazione autentica a tale norma, che fu chiaro dovesse applicarsi anche ai professori universitari, le cui nomine fossero avvenute in dispregio delle leggi vigenti; io ho creduto allora non dico di valermi di un diritto, ma di compiere un mio preciso dovere, andando incontro ai voti espressi da tutte le università italiane, dalla Associazione dei professori universitari, da uomini insigni della cultura e dell’insegnamento. E ho annullato queste nomine di ruolo, lasciando a quelli che ne avevano beneficiato l’incarico annuale secondo l’ordinamento universitario, salvo a bandire più tardi i concorsi, ai quali potranno partecipare tutti i meritevoli e preparati: non meno di 120 liberi docenti o studiosi d’Italia, di tutta Italia, compresi quelli tornati dall’esilio, o restituiti dalla prigionia, o dispersi per il mondo e che hanno il diritto di subire il vaglio del pubblico concorso perché possano, se degni, ascendere alle cattedre.

Di questo si tratta. Ho compiuto atto di arbitrio o restaurato la legge? Il professor Martino propende pel primo corno del dilemma e mi ha dato un diploma di incompetenza.

Mi perdoni se io, che ho molto rispetto per la sua competenza in materia scientifica, preferisca in materia giuridica alla sua la mia opinione, che è, del resto, l’opinione dei giuristi ai quali mi volsi, i maggiori giuristi italiani, anche dell’isola generosa; ed ha avuto il suggello del Consiglio di Stato. Perché – trattandosi di una materia molto delicata e non volendo che rimanesse anche solo un’ombra di dubbio che le decisioni che stavo per prendere non fossero ispirate ad un senso di rigorosa giustizia – ho chiesto anche il parere del Consiglio di Stato. E il Consiglio di Stato mi ha confortato col suo parere autorevole, non soltanto per l’annullamento, ma anche per le modalità.

Onorevoli colleghi, l’argomento è esaurito. Io ho semplicemente servito, come era mio dovere, la legge, sanando un arbitrio. (Approvazioni).

Dopo di che, non voglio nemmeno ricordare un piccolo episodio infelice che è stato rievocato innanzi all’Assemblea. Si è voluto ricordare che un mio predecessore voleva attuare e non attuò le decisioni che io ho preso, perché dovette cedere a pressioni straniere. Se il fatto è vero, è doloroso. Comunque, io non ho ceduto. E voglio domandare ai siciliani, che sono tanto gelosi della loro autonomia di fronte all’Italia, se non ho fatto bene a rivendicare l’autonomia del Governo italiano in una materia così gelosa, che attiene all’osservanza della legge e all’esercizio della sovranità statale, che non potevano essere impunemente violate. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

CEVOLOTTO. A norma dell’articolo 80 chiedo di parlare come ex Ministro dell’aeronautica, per riferimenti fatti dall’onorevole Nobile a miei atti di Governo.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

CEVOLOTTO. Anche io non avrei voluto prendere la parola; ma il discorso dell’onorevole Nobile, che ha voluto trattare di qualche questione del mio Ministero, mi obbliga a fornire chiarimenti. Nessuna discussione in proposito, da parte mia, ma semplici chiarimenti su fatti. Il generale Nobile ha criticato le famose promozioni di alcuni colonnelli e di alcuni generali dell’aviazione. Bisogna essere precisi su questo punto.

Nel 1945 avevamo ancora un organico il quale lasciava ampio campo alle promozioni, perché vi erano molti posti liberi, né io potevo modificarlo, perché allora non si era ancora ottenuta la legge dello sfollamento che permettesse di mandare a casa gli ufficiali in condizioni, non dico decorose, ma almeno di non patire la fame. Questi generali, questi colonnelli, che hanno tutti compiuto il loro dovere dopo l’8 settembre, che sono stati vagliati attraverso la discriminazione e l’epurazione e sono stati riconosciuti indenni, che si sono comportati bene anche il 2 giugno (e molte volte qualcuno di loro forse aveva un’idea differente dalla nostra), si sono messi disciplinatamente al servizio della Repubblica. Questi generali avevano da parecchi anni maturato il diritto alla promozione, che non era loro stata data. Avevano quindi ragione di chiedere allo Stato che rispettasse quel contratto da essi accettato quando avevano adito alla milizia aeronautica, quel contratto che, da parte sua, il generale Nobile – anch’egli promosso da me – ha chiesto che fosse rispettato. Ed io ho riconosciuto che doveva essere rispettato e l’ho promosso. (Si ride – Commenti).

E non ho cercato di sapere se era vero che quando il generale Nobile aveva chiesto all’onorevole. Bonomi di essere reintegrato nella milizia aeronautica attiva, aveva dichiarato che se fosse stato riammesso avrebbe domandato di essere posto in congedo, cosa che poi non ha fatto. (Commenti).

Ad ogni modo io ho ottenuto, insieme ai miei colleghi Ministri militari, pel 1946 la legge di sfollamento. In base a quella legge ho formato un organico pel 1946 ridotto, che manderà quindi a casa tutti i generali superflui.

Non sarà ancora l’organico definitivo, che verrà dopo la pace.

In conseguenza di questo, i generali e i colonnelli che sono stati promossi, dovranno, nei limiti dell’esuberanza rispetto a questo organico ridotto del 1946, essere mandati a casa. Ma saranno mandati in base alla legge di sfollamento, che dà loro delle condizioni sufficienti di vita, soprattutto con quel grado superiore che avevano il diritto di raggiungere e che consente loro una posizione moralmente migliore ed anche materialmente un poco più decorosa. Non credo che in questo vi sia o vi possa essere motivo di critica, perché bisogna anche rendersi conto che, se vogliamo realmente ricostituire una aviazione piccola, ma efficiente, non dobbiamo poi deprimerne il morale, con campagne contro ufficiali perfettamente rispettabili, che sono ingiuste e che non possono portare alcun beneficio. (Applausi).

BOLDRINI. E i sottufficiali perché non li avete promossi? (Rumori).

FEDELI. E i partigiani perché non li avete promossi? (Rumori – Interruzioni).

CEVOLOTTO. Anche per i sottufficiali sono in corso provvedimenti adeguati. La seconda critica che il generale Nobile ha portato è questa: che io avrei creato nuove direzioni generali ed avrei aumentato l’organico del Ministero. Non è vero.

Prima di tutto, io riconosco che non sono riuscito, ed in coscienza non l’ho potuto fare, a mandar via neanche un avventizio. Non mi sono sentito di accrescere il numero dei disoccupati, ma non ho aumentato gli organici. Anche qui il generale Nobile è caduto in un curioso equivoco. (Commenti).

Era successo che il Ministero di Bari, non so perché, aveva cambiato il nome alle «direzioni generali» e le aveva chiamate semplicemente «direzioni». Caduta, anche dal punto di vista giuridico, quella legge per la cessazione dello stato di guerra, io ho dato alle direzioni generali il loro vecchio nome. Questo non significa aumentarne il numero.

Il generale Nobile ha infine criticato le famose convenzioni per la navigazione aerea civile. Anche qui bisogna rendersi conto del valore di queste convenzioni. Si tratta di convenzioni di massima, le quali non possono avere effetto se non in quanto siano approvate dal Consiglio dei Ministri. Ed il Consiglio dei Ministri, per ora, non ha che approvato una legge la quale consente al Governo di partecipare a queste società miste, italiane e straniere. Si tratterà di vedere poi in che modo saranno costituite queste società, da quali enti, in quali forme: tutte cose forse prossime (ed è da augurarlo) ma di là da venire, sulle quali il Governo porterà il suo giudizio.

Però, non è esatto quello che ha detto il generale Nobile, cioè che in queste convenzioni si sarebbe pattuito di comperare in America determinati apparecchi o determinati strumenti. Non è vero. Le società sono perfettamente libere di comprare in Italia tutto il materiale che possono comprarvi, sono perfettamente libere di non comprare niente all’estero. Soltanto se le società ritenessero necessario comprare qualche cosa all’estero, in America – e ricordiamoci che vi sono strumenti ed apparecchi che in Italia non si producono e che anche in materia di costruzioni aeronautiche siamo rimasti indietro di almeno dieci anni – in questo caso le società americane si mettono a loro disposizione per facilitare tali acquisti. Questo e nient’altro.

Non è del pari esatto che si siano stabilite fin da ora delle maggioranze particolari qualificate per determinate deliberazioni. Èvero che ciò è stato chiesto, ma è vero che ho fatto delle riserve nell’adire alla richiesta dicendo che della questione si sarebbe dovuto ridiscutere. Però, nella trattazione per la convenzione con la B.A.C., il Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, ha proposto e sostenuto che queste maggioranze qualificate dovessero essere riservate a quelle deliberazioni essenziali o più importanti nelle quali l’accordo fra la maggioranza e la minoranza è evidentemente necessario. Ed a questo criterio tutti hanno acceduto.

È vero che vi era, e vi è in corso, una trattativa per l’acquisto di una ventina di apparecchi Douglas, acquisto che viene fatto non all’estero, ma in Italia, attraverso l’A.R.A.R., perché si tratta di apparecchi rimasti in Italia nel «surplus» americano e che sono vivamente richiesti, specialmente dalle Compagnie private, le quali sul prezzo inferiore di questi apparecchi di risulta hanno fondato i loro piani finanziari, che dovrebbero modificare, se dovessero comperare apparecchi italiani nuovi molto più costosi.

Però, siccome sulla opportunità dell’acquisto di tali apparecchi – durante il mio incarico – vi era una disparità di vedute fra la Direzione dell’aviazione civile e la Direzione delle costruzioni (la prima era favorevole e la seconda contraria all’acquisto) e il Consiglio dell’aeronautica non ha espresso parere definitivo, io, malgrado le sollecitazioni con fissazione di termini da parte dell’A.R.A.R. e le sollecitazioni da parte degli Alleati per una pronta decisione, ho ritenuto doveroso e corretto di lasciare questa decisione al mio successore.

Credo di avere agito come dovevo agire.

Il generale Nobile ha criticato la mia azione anche in questo campo, dicendo: «Perché vi siete affrettato a trattare con gli americani e con gli inglesi per avere la loro partecipazione, sia pure in minoranza, per la ricostruzione dell’aviazione civile e non avete atteso la conclusione della pace?»

Io ricordo che una Commissione di studio, della quale è stato relatore il mio amico Pesenti, aveva dichiarato che noi non potevamo ricostruire utilmente la nostra aviazione civile, se non col concorso del capitale straniero, specialmente di quello americano.

Una voce. Dando ad esso la supremazia.

CEVOLOTTO. Concorso di minoranza, il 40 per cento; con personale italiano, sia quello di direzione che di amministrazione e di volo; e maggioranza agli italiani nel consiglio di amministrazione. Questa non è supremazia dello straniero.

Io ho creduto doveroso fare questo, perché per mezzo di tali trattative ho ritenuto, prima della pace, che, a modifica delle condizioni di armistizio, fosse consentito all’Italia libertà di azione nel campo della navigazione aerea civile interna. Ritengo che questo sia stato un successo ed un vantaggio.

Ho potuto così organizzare e creare tutto uno schema di lavoro, che, se verrà – come credo – continuato, porterà alla possibilità di attuare le linee aeree civili, almeno quelle interne, anche prima della pace.

Non avrei ottenuto questa libertà di manovra, se non avessi agito come ho agito. Questo è bene sia stato detto.

Comunque, se ciò io non avessi fatto, sono sicuro che il generale Nobile sarebbe venuto ora a domandarmi perché in questo campo non avevo fatto nulla. (Si ride).

Ho agito con la convinzione di creare un utile strumento per i traffici interni in Italia. Ho agito con la dovuta ponderazione, non ho pregiudicato né precipitato nulla.

Mi auguro e spero che il mio successore possa ora ottenere condizioni anche migliori.

Mi auguro soprattutto che quello che ho fatto porti rapidamente i suoi frutti. (Applausi a destra e al centro).

MARTINO GAETANO. Ho chiesto di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Non posso accordarle la facoltà di parlare. L’onorevole Molè ha parlato appunto per fatto personale, in seguito ad un accenno del suo discorso che lo riguardava. Non è ammissibile un nuovo fatto personale in dipendenza dell’altro. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. (Segni di attenzione). Onorevoli colleghi, ho seguito con molta attenzione ed interessamento il dibattito, sempre utile e spesso elevato, di questa Assemblea, senza fare distinzioni fra maggioranza e minoranza. E chiedo scusa se, in qualche momento, ho dovuto assentarmi per ragioni di servizio. La mia assenza non era certo diretta contro l’opposizione. So l’utilità del controllo dell’opposizione e so che un Governo ha il dovere di ascoltarla, poiché nell’Assemblea vi è parità di doveri e di diritti.

Prima di entrare nel merito di alcuni argomenti che hanno formato oggetto del dibattito, ad integrazione, o discussione, o a critica delle dichiarazioni del Governo, permettete che io faccia un’introduzione generica, rivolgendo la mia attenzione a taluni discorsi, per qualche rilievo particolare.

Ringrazio in modo speciale l’amico Lussu per aver proclamato qui che nessuno può invidiare il Governo, che viene citato a Parigi come un imputato. Questa affermazione risponde sufficientemente a chi vuol vedere nel compito che mi sono assunto una leggerezza ed un senso di irresponsabilità che credo finora di non aver dimostrato.

Il mio assenso più vivo va specialmente al discorso dell’amico Grandi, Segretario della Confederazione generale del lavoro. L’ho sentito con grande commozione, ricordando i meriti di quest’uomo che tutta la sua vita ha dedicato all’elevazione della classe operaia; e ricordando il coraggio che ha dimostrato in momenti così critici. Coraggio, quando ha dichiarato «che lo Stato democratico non deve essere ricattato»; coraggio quando ha detto che «le caratteristiche dell’azione sindacale sono la gradualità e il riformismo»; coraggio quando ha affermato l’universalità della Confederazione generale del lavoro, alla quale desidera che tutte le correnti aderiscano; coraggio quando ha rivendicato la libertà per tutti i servizi ausiliari che non trattino direttamente e sostanzialmente la questione sindacale, naturalmente riservata ai sindacati.

Ringrazio anche l’onorevole Lombardo per la sua realistica e profonda esposizione di politica economica estera con riguardo speciale alla ripresa industriale.

Gli onorevoli Pellizzari, Bianchi e Gronchi ci hanno richiamato all’importanza della scuola. È vero: non le avevamo dato particolare rilievo, non perché volessimo accantonare la questione, ma perché intendevamo riservarla ad un maggiore studio e a una più tranquilla deliberazione di questa Assemblea.

L’onorevole Persico ha fatto una critica molto oggettiva del sistema elettorale. Gli sono grato per taluni accenni che vorrebbero introdurre nel sistema proporzionale una maggiore libertà degli elettori, perché questi accenni corrispondono alla mia tendenza personale e, direi, alle conclusioni della mia esperienza di tutta una vita.

Gli onorevoli Pecoraro e Valiani hanno espresso qui la passione e l’angoscia dei Giuliani. Essi hanno riscosso dall’Assemblea un attestato di simpatia ed un applauso che ha manifestato l’unanimità della nostra volontà e l’unanimità della nostra solidarietà con i nostri fratelli giuliani.

L’amico Lombardi, uscito testé dal Ministero, ha fatto un’esposizione economica lucida e originale, ripetendo anche argomenti che egli aveva trattati e sostenuti in seno al Consiglio dei Ministri. Ma la libertà maggiore e la più facile logica che si possono mantenere da un banco dell’Assemblea anziché dal banco del Governo, hanno suscitato in me un certo senso d’invidia.

Gli onorevoli Angelini e De Martino hanno fatto una proposta originale circa la ricostruzione, l’uno per la ricostruzione edilizia, l’altro, che è un perito, industriale che ha presieduto la prima esposizione della ricostruzione a Salerno, circa l’organizzazione di Commissioni che dovrebbero essere organi del Comitato centrale della ricostruzione. Io credo che i colleghi dello stesso Comitato siano d’accordo che queste proposte meritino la nostra considerazione.

Infine ringrazio in modo particolare l’onorevole Pacciardi per il suo caldo contributo ad una politica estera dignitosa e costruttiva del nostro Paese.

A molti altri avrò occasione di accennare, durante la trattazione degli argomenti che formano l’oggetto delle mie conclusioni.

L’onorevole Nitti, un po’ all’acido corrosivo, mi ha fatto una critica per i metodi seguiti e per le risultanze ottenute nella combinazione ministeriale e fra l’altro ha detto che nessun paese in Europa ha tanti Ministri e Sottosegretari come l’Italia. Non ho avuto tempo di confrontare tutte le statistiche, ma alcune ne ho viste. Il Gabinetto di Sua Maestà britannica è composto di 20 Ministri, compreso il Primo Ministro; vi sono poi 15 Ministri fuori del Gabinetto; i Sottosegretari di Stato sono 42, oltre a 14 posti di rango equiparato. Sono dunque 35 Ministri e 56 fra Sottosegretari ed equiparati: in totale 91. (Applausi al centro).

Devo poi dire che anche i nostri amici francesi, se questo è un peccato, peccano nella stessa misura e anche di più. Essi sono venti al Ministero, oltre i Sottosegretari, e dell’attuale Governo, oltre i venti Ministri, fanno parte due Vicepresidenti senza portafoglio e due Ministri di Stato senza portafoglio. Se mai non è un’invenzione mia, né un peccato mio, è una epidemia. (Si ride).

Egli mi ha fatto accusa di avere inventato all’ultimo momento dei Ministeri, di averne aumentato il numero, introducendo quello della marina mercantile. Devo osservare anzitutto che il numero resta quello di prima, perché altri Ministeri sono caduti; ma quello della marina mercantile, come ho accennato nelle dichiarazioni, non è una invenzione dell’ultimo momento. È stato creato per tener conto del desiderio degli armatori e dei marittimi. Vi sono dei documenti, delle domande formali che del resto non è la prima volta che sono state presentate. L’amico Corsi, che si trovava a dirigere prima il Sottosegretariato della marina mercantile, mi può essere testimonio che egli stesso alcuni mesi fa, quando non si parlava né di crisi, né di nuovi Ministri, né di titolari di Ministeri, aveva dimostrato l’opportunità di fare del Sottosegretariato o un Ministero o, in ogni modo, un Alto Commissariato autonomo che corrispondesse all’importanza del momento.

Poi v’è stata la critica di aver pregato l’amico Micheli di dirigere la marina da guerra (Commenti)non so se sia stato l’onorevole Nitti od altri – come se si dovesse sempre giudicare dal punto di vista della competenza tecnica l’investitura di un Ministero. Credo che l’Assemblea difficilmente potrebbe adattarsi a questa soluzione.

In certi momenti non bisogna mettere il tecnico. Noi abbiamo una speciale situazione nel personale della marina, tutto rispettabile; con diverse correnti che corrispondono alla situazione politica che noi abbiamo superato. Mettere un vecchio, autorevole e saggio parlamentare di fronte agli ammiragli è opera politica di opportunità. Quindi non si tratta di una questione di giornali umoristici, ma di una questione molto seria (Commenti), e il punto di vista nostro è stato quello di sottoporre tutte le forze armate ad uomini politici di sicura fede, di abilità e saggezza e questo devo anche dirlo a proposito della facile dichiarazione che è venuta da tante parti: perché non riducete il numero dei Ministri? È un postulato di diversi partiti, e anche del mio; un postulato ideale, evidentemente; ma non è che noi siamo arrivati alla necessità di mantenerli o di aumentarli di uno, per la così detta dosatura, perché la dosatura andava benone anche con dodici. No! È che quando voi unite in un periodo, bene o male di avanzato sviluppo, dei Ministeri, sotto una sola persona, dovete avere le persone adatte per queste concentrazioni. E non è sempre facile.

La mia poca esperienza – che non sarà come quella dell’onorevole Nitti – mi dice però che prima di far cambiamenti bisogna andare adagio. Certo, noi abbiamo trovato razionale che i Ministeri delle forze armate siano riuniti in un solo dicastero. È una meta a cui questo od un altro Governo deve arrivare, perché si tratta di semplificazioni di servizi, si tratta di una contrazione che risulta dalle esigenze della guerra, o meglio della pace. Però bisogna scegliere il momento giusto. E ci siamo posta la questione se in un momento in cui bisogna mandar via moltissima gente, in cui c’è la smobilitazione, c’è una questione di depressione morale anche in qualche parte – accenno alla marina – sia opportuno significare, simboleggiare anche nelle persone, questa smobilitazione, questa concentrazione, al di là di quello che è assolutamente necessario. Sono considerazioni oggettive che ci hanno portato a non poter corrispondere a questo razionale, logico desiderio che molti partiti, che fanno parte anche dell’attuale Governo, avevano espresso.

L’onorevole Togliatti, nel suo sereno e ampio discorso, nella prima parte, ha rivolto a me un monito speciale, dicendomi che «il suo Governo – cioè il mio – sarà tanto più vitale e riuscirà a lavorare tanto meglio, quando più esso si presenterà e funzionerà non come un Governo del Partito democratico cristiano, con appendici più o meno considerevoli provenienti da altri gruppi politici, ma come un Governo di coalizione. Questa è una necessità non soltanto parlamentare, ma di politica generale».

Ora, mi domando se, specialmente prendendo in considerazione i due partiti di sinistra, si possa parlare di appendici. I dicasteri economicamente più importanti, senza parlare della giustizia e degli esteri, cioè quelli delle finanze, dei trasporti, dell’assistenza postbellica, del lavoro, dell’industria e commercio, dei lavori pubblici, sono controllati da rappresentanti molto degni di questi partiti. Quindi non è che si possa parlare di appendici. Si deve parlare di struttura sostanziale. Niente di riforme economiche, niente di riforme sociali e finanziarie, niente di riforme essenzialmente politiche, niente può venir fatto senza il concorso, la corresponsabilità di questi miei cari colleghi. Quindi, non mi pare che si possa sospettare il Ministero, che qui si presenta, come un Ministero democristiano o come un Ministero personale. Senza dire che il Ministero dei lavori pubblici è stato affidato alla esperienza e provata abilità dell’amico Romita, il quale vi troverà un campo d’azione importantissimo, perché è notorio che in questo momento il compilare un programma di lavori pubblici e saperlo attuare, è uno dei compiti principali, una delle ambizioni essenziali che può avere un Partito riformatore.

Riguardo poi al programma economico finanziario, mi si è detto che noi siamo entrati troppo in dettaglio; ci siamo sforzati di arrivare a chiarire tutti i settori su cui verteva una discussione, in modo da trovare una linea di corrispondenza per tutti i settori e per un periodo che corrispondesse press’a poco all’attività che poteva avere questo Ministero.

Evidentemente non diamo fondo all’universo, non tutte le riforme potranno essere compiute, ma avviate sì, iniziate sì, se avremo la concordia fra noi e se avremo una ferma volontà di attuarle.

Il programma economico e finanziario è naturalmente, nelle sue linee sostanziali, un programma difficile; cioè l’attuarlo è cosa difficile, perché, come ho accennato, non è un programma che possa venire da libri o da premesse ideologiche, ma è un programma che è imposto dalle circostanze, è il binario su cui camminare, e corrisponde a esigenze oggettive al di fuori di noi e al di sopra dei partiti.

In quest’opera io credo preziosa la collaborazione dell’onorevole Corbino. Io ho avuto l’impressione di essere davanti ad un uomo non solo di grande preparazione, non solo di somma integrità e rappresentante dei veri lavoratori – è venuto dalla gavetta e per forza propria è arrivato al sommo della cultura universitaria e perciò rappresenta un’esperienza in se stesso, di quello che può essere la vita del ceto medio, dell’uomo colto e del lavoratore – e credo che nella sua preparazione scientifica egli sia temprato da questo senso di esperienza ad una certa duttilità, anche quando si tratta di deviare da certe tesi nei momenti in cui è assolutamente necessario.

Egli è nel Comitato di ricostruzione – che deve essere potenziato, che ha già cominciato i suoi lavori e che rappresenta un collegio non soltanto entro il Ministero, ma che funziona col concorso di rappresentanti di altri enti e categorie – uno dei primi collaboratori, e la linea economica e finanziaria che ne uscirà dovrà tener conto di tutta la situazione così come man mano si evolve, purché si sia tutti d’accordo sopra la linea programmatica anti-inflazionistica.

Si è fatto cenno alla passata discussione sul cambio della moneta e si è accusato l’onorevole Corbino di averlo impedito. Devo dire la verità che Corbino è stato contrario, si è battuto per questa tesi, per ragioni teoriche e pratiche. Ma, oltre a questo, c’è stato un rapporto della Banca d’Italia che era tecnicamente contrario, ed in quel momento, quando abbiamo presa la decisione, che cioè non lo si poteva fare entro quel termine stabilito – prima delle elezioni ecc. – siamo arrivati a tale conclusione per la impossibilità della tempestiva esecuzione. Quindi non vorrei che si desse all’intervento suo un significato che lo faccia quasi apparire come lo spettro di Banco, che domani potesse allungare ancora la mano e strappare un’altra concessione in favore del mondo capitalista contro i desideri dei partiti riformatori.

Debbo dire che in questi giorni egli è stato poco assiduo a quest’Assemblea, perché sempre occupato nelle questioni salariali e sindacali, onde contenere le agitazioni operaie, ed ha dovuto svolgere un’opera per la quale sembrerebbe in teoria che egli non sia né adatto, né disposto.

Ma, rispondendo all’onorevole Togliatti, il quale mi dice che il Ministero deve essere di coalizione e non del partito democratico cristiano e non, soprattutto, un Ministero personale, io dico: d’accordo; però il pericolo non sta qui. Il pericolo è in quella irrequietudine in cui si trovano i partiti, perché le elezioni sono troppo vicine. Se noi avessimo due anni innanzi e potessimo fare davvero un patto nell’interesse del nostro Paese, una tregua politica per poter risanare la situazione finanziaria, credo che ci potremmo dire felici. Non l’abbiamo; però la dobbiamo sostituire con una specie di «tregua repubblicana».

Ricordatevi come siamo arrivati a superare tutte le difficoltà che si opponevano al referendum ed alla risoluzione della Questione istituzionale: ci siamo arrivati con grande impegno, facendo sacrifici da una parte e dall’altra e ci siamo arrivati – soprattutto – senza conflitti esterni, smentendo tutte le dicerie che c’erano in giro e che ci arrivavano anche sul banco come Ministri.

Questa unità, questa calma, questo spirito costruttivo del popolo italiano è senza dubbio merito delle masse, soprattutto; ma io credo che sia anche un merito dei capi di partito. E quando ci siamo l’un l’altro felicitati, in un Consiglio dei Ministri, per il risultato pacifico di queste elezioni, mi ricordo di aver detto: «si vede che quando i capi vogliono, l’unione, la pace e l’ordine sono possibili». (Applausi al centro).

Io non voglio negare né sminuire il merito del Ministro dell’interno il quale, senza dubbio, con grande zelo ha vigilato perché l’ordine fosse mantenuto e la libertà garantita; devo aggiungere però che il povero Ministro dell’interno e il Presidente con lui se avessero dovuto contare solo sopra le quattro «forze armate miste» che dovevano assistere ciascuna sezione per mantenere l’ordine, evidentemente avrebbero contato su forze assolutamente insufficienti. L’ordine è stato mantenuto dalla volontà dei partiti…

Una voce. Dal popolo italiano.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim degli affari esteri. Senza dubbio il popolo italiano ha in sé il merito di aver mantenuto la calma; però quando questo non avviene, è segno che qualche turbamento è introdotto dal di fuori.

Io dico: vogliamo, onorevole Togliatti, vogliamo fare un Ministero che veramente, per i sette od otto mesi, lavori con tutto lo zelo a risolvere i problemi di politica estera e di politica interna italiana?…

Una voce. Meno scioperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Bisogna che manteniamo l’ordine e bisogna che diciamo onestamente ai nostri partiti: è il momento del sacrificio…

Voci a sinistra. Sacrifici da tutte le parti. Bisogna dare lavoro e pane.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Quindi, il mio appello è questo. Vi saranno in ottobre o in novembre le elezioni amministrative. Ma, vigendo la proporzionale, non cade il mondo se un voto di più o di meno va a questo o a quel partito. Non giustifica questo un accanimento tale che investa tutto il problema politico e quindi, in realtà, se abbiamo volontà e se il Governo è vigile ed assecondato dai partiti, noi potremo arrivare fino all’ineluttabile termine della campagna elettorale prossima, per la prossima Camera, con una certa tregua repubblicana. E la chiamo «tregua repubblicana», perché si tratta non di salvare un Ministero qualsiasi, ma di salvare la democrazia, e la Repubblica. (Applausi).

Io conto che l’amico Togliatti, il quale mi ha aiutato nel passato Ministero con la sua autorità ad ottenere questa concordia, possa oggi che è più libero…

Voci. Questo è il guaio! (Ilarità).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. …e non ha più impacci e incarichi di Ministero, dal suo posto di capo di partito, contribuire ancor di più a consolidare e a tenere compatti dietro i suoi Ministri, e attraverso i suoi Ministri anche un poco dietro di me, il suo partito che rappresenta forze così degne di considerazione.

Ed ora vengo al problema che è forse il principale, del quale non si è parlato molto, ma che era sottinteso in quasi tutti i discorsi: il problema dell’ordine pubblico.

Per essere preciso, dirò quello che in parte ho detto e che in parte intendo dire ai Prefetti, in modo che essi possano a questa dichiarazione pubblica richiamarsi in confronto di tutti. La dirò perché l’Assemblea, sentendola e approvandola, dia maggior forza alle parole del Governo.

Ai Prefetti dirò: 1°) fedeltà nella forma e nella sostanza al regime che il popolo si è dato, alla Repubblica Italiana (Vivi generali applausi): ogni debolezza a questo riguardo verrà repressa e punita; 2°) difesa della autorità, del prestigio, del decoro del nuovo Stato.

Un Prefetto repubblicano (fino a che le nuove leggi autonomistiche non abbiano modificato l’organismo pubblico) deve essere più forte, più dignitoso, più rispettato che mai, perché egli incarna la democrazia. Non deve avvenire, non deve più ripetersi (e aspetto i risultati di inchiesta per provvedere) quello che è avvenuto a Rovigo, dove un Prefetto è stato trascinato al balcone e costretto a parlare, dopo essere stato malmenato. Ciò non può corrispondere alla autorità del nuovo Stato, all’autorità repubblicana. (Vivi applausi al centro e a destra).

Quanto ho detto vale naturalmente per tutte le autorità dello Stato, ma in particolare per le forze adibite all’ordine. E qui bisogna dire anche a tutti gli organi dell’ordine che Repubblica non vuol dire rilassatezza, mancanza di disciplina, mancanza di stile. Repubblica vuol dire maggiore e più schietta coscienza di servire la causa del popolo e del proprio paese. (Vivi generali applausi).

Dichiaro da questo posto dell’Assemblea Costituente che se a tale coscienza non si corrisponderà, prenderemo tutti i provvedimenti per suscitarla e per ravvivarla. (Approvazioni).

Nelle vertenze sindacali e sociali, nei problemi del lavoro, di disoccupazione e della terra, i Prefetti – e con essi tutte le autorità – devono avere la massima comprensione delle legittime esigenze e fare il massimo sforzo per andar loro incontro, facendo da mediatori, ricordando che questo è Governo di popolo e per il popolo; ma dovranno nello stesso tempo reagire con la massima risolutezza contro atti di violenza e violazioni della legge. (Applausi al centro e a destra).

La violenza, tanto padronale che operaia, chiama la violenza; le armi chiamano le armi; le imposizioni con minaccia di morte reclamano una reazione più profonda e pericolosa, e noi qui in quest’aula, noi vecchi, noi anziani, abbiamo passato dei momenti simili e, perché non abbiamo avuto il coraggio di affrontare l’impopolarità ed impedire in certi momenti lo sfogo violento, abbiamo dovuto pagare con la perdita della libertà e con la dittatura per venti anni! (Applausi al centro).

Il Governo, per celebrare la nascita della Repubblica, ha fatto un grande atto di pacificazione. Esiste però una legge contro la rinascita del fascismo. Bisogna vigilare ed intervenire contro il troppo provocante atteggiamento di qualche amnistiato e stare soprattutto in guardia contro l’abuso di certa stampa che minaccia di indebolirci di fronte allo straniero. (Applausi al centro e a sinistra).

Ma, come dissi – per quanto l’onorevole Nitti, risalendo a Nietzsche, abbia parlato di Stato, di volontà, di potenza – lo Stato non può da solo riuscire in quest’opera di ordine pubblico: ci vogliono i partiti, i capi dei sindacati, le organizzazioni di categorie.

Se noi, che siamo responsabili di partiti, oltreché Ministri (ed in questa funzione la responsabilità è altrettanto grave ed ampia), faremo il nostro dovere appellandoci al senso innato di disciplina del popolo italiano, lo potremo condurre a salvamento.

Due cose contemporaneamente non si possono fare: non è lecito sedere al Consiglio dei Ministri, partecipare alla responsabilità della Amministrazione, avere i vantaggi dell’apparato statale, e contemporaneamente fare l’opposizione nei giornali e nella propaganda! (Applausi). Questo non è diretto in particolare contro nessuno, ma vale per tutti. Ciò disgrega la democrazia, annulla il metodo democratico e rende fatale la dittatura. Non sarà questo o quel Ministero in crisi; in tal caso, come dissi prima, sarà in crisi la democrazia, sarà in pericolo la Repubblica.

Quanto ai Prefetti, dirò ed inculcherò l’imparzialità più assoluta, una superiorità dignitosa sopra i partiti: la legge, lo spirito della legge: niente altro.

E non mi vengano a dire che io ho desiderato avere il Ministero dell’interno per fare le elezioni! Cosa vecchia! Le elezioni non si fanno più. Le fa il popolo le elezioni. Dopo l’introduzione della scheda di Stato, è impossibile pensare a certi pasticci che si facevano un tempo per guadagnare mandati attraverso il Prefetto o il Ministero dell’interno. (Applausi). Comunque, se qualche Prefetto o qualche autorità dello Stato si richiamasse a me per fare il contrario, sarà denunciato, e sarà severamente punito.

Siamo però in situazione molto triste. Io non voglio esagerare ma devo dire: siamo agli inizi di una brutta china. Bisogna opporsi con coraggio da principio. Quando l’altro giorno, a Mantova, si è arrivati, durante uno sciopero, a dover chiedere il permesso alla Camera del lavoro per entrare o uscire dalla città, siamo proprio in quella situazione che voi ricorderete, amico Mazzoni, del tempo passato, che ci ha portato alle squadre fasciste e agli stessi sistemi. (Applausi al centro e a destra – Rumori a sinistra).

Un momento, so benissimo… (Interruzioni) lasciatemi spiegare, so benissimo che in generale le Camere del lavoro intervengono per ordinare, sedare ed arginare i movimenti. (Rumori).

Una voce a sinistra. E allora lo dica!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Però, amici comunisti ed amici socialisti, noi dobbiamo essere d’accordo che questo debba avvenire con la forza della legge e dell’ordine. (Rumori a sinistra).

Amici miei, vi sono armati in tutti i campi. Non abbiamo avuto il tempo né la possibilità, col vostro concorso, di poter disarmare, né a sinistra né a destra, ed io confesso che in questo momento il pericolo maggiore può venire da reazioni armate, che mi ricordano il fascismo, e quindi sono altamente preoccupato a non dare a questa gente nessun pretesto, nessuna ragione, soprattutto ai proprietari di campagne, di armarsi, perché non si sentono sicuri da eventuali violenze e coazioni. (Applausi al centro e a destra – Rumori a sinistra). Mi pare che sull’ordine pubblico siamo d’accordo. (Commenti).

Una voce a sinistra. I fascisti sono armati!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Non credo che il Governo abbia mai dato l’ordine di sparare sugli scioperanti. (Rumori a sinistra – Commenti). Però devo dire, amici dei sindacati, che noi abbiamo per primi interesse a controllare la piazza, perché disgraziatamente in certi luoghi, dove i Prefetti hanno avuto il coraggio di fare degli arresti, quando si sono esaminate le carte degli arrestati, si è visto che talvolta si aveva da fare, non con lavoratori autentici, ma con della vera teppa. (Applausi a destra e al centro – Rumori e interruzioni a sinistra).

Passiamo ad altro argomento, sul quale forse saremo più d’accordo, o almeno, non avremo bisogno di esprimere le nostre differenze in modo così deciso.

Devo, cioè, occuparmi di certe affermazioni fatte dall’onorevole Finocchiaro Aprile, dal punto di vista della politica estera, oltre che interna.

Egli ha detto – e non dubito che il testo stenografico possa non essere esatto –:

«Voi sapete che nei due trattati di pace, l’uno americano e l’altro britannico, era compresa, e non so se sia ancora compresa, la clausola della smilitarizzazione delle due maggiori isole mediterranee. Già erano venuti funzionari in Sicilia. Le due potenze si erano divisi i porti e gli aeroporti, avevano cominciato a comperare terreni e avevano mandati numerosi funzionari, soprattutto siculi-americani, che non avevano taciuto lo scopo della loro venuta in Sicilia.

«Io seppi che il Governo italiano, nella imminenza del trattato di pace, che avrebbe dovuto essere stipulato alla fine di settembre 1945, aveva dato disposizioni perché i capi degli uffici affrettassero i lavori di preparazione per le consegne.

«Lessi io il telegramma del Governo italiano».

FINOCCHIARO APRILE. Due telegrammi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Non c’è nessuna traccia di quello che lei ha affermato. È vero questo: che in uno degli abbozzi del trattato di pace si parlava di smilitarizzazione delle isole. Questo è esatto. Ma non c’è mai stata ombra di accettazione da parte nostra o possibilità da parte nostra, o comunque di adesione alla situazione da lei indicata, cioè, che le due isole fossero non soltanto smilitarizzate, ma rese indipendenti, eventualmente in confederazione, al di fuori dell’Italia. E mai il Governo, alla fine del settembre 1945 – vedo l’onorevole Parri, che me ne farà fede – mai il Governo ha pensato di fare qualcosa di simile, di dare ordine di preparare le consegne in Sicilia. Le informazioni dell’onorevole Finocchiaro Aprile sono veramente fantastiche.

E vorrei ricordare anche questo. Quando il Governo, il 4 ottobre 1945, prese la decisione di confinare Finocchiaro Aprile e i due suoi colleghi…

FINOCCHIARO APRILE. Il primo ottobre.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri… io ho la data del 4 ottobre; sono tre giorni di più… il Governo aveva agito sotto l’impressione di un memoriale, presentato da quei signori ai Ministri degli esteri a Londra, il primo settembre del 1945. Ricordate? Io ero andato allora, in quella bruttissima situazione, a cercare di salvare il salvabile e ottenere qualcosa di buono per l’Italia; in quel momento mi son visto arrivare un telegramma di quei signori:

«Il popolo siciliano agogna a che la grande Isola sia eretta a Stato sovrano, salvo la sua eventuale partecipazione ad una confederazione di Stati italiani o di altri Stati mediterranei». (Interruzioni).

Poiché, fino a prova contraria, non voglio credere a mala fede, penso che l’onorevole Finocchiaro Aprile ed i suoi amici siano stati vittime di qualche subalterno, che credeva di interpretare le disposizioni dei Governi alleati, mentre è notorio che il 9 agosto l’Ambasciatore inglese a Roma rendeva noto, attraverso l’Ansa, una lettera diretta il 14 giugno dal signor Malcolm, Capo della Cancelleria dell’Ambasciata.

Nella lettera, rispondendo alla richiesta del capo separatista perché Churchill e Eden si pronunziassero a favore del separatismo stesso, il diplomatico inglese richiamava l’attenzione di Finocchiaro Aprile sulla dichiarazione fatta alla Camera dei Comuni il 27 ottobre 1944 dal Sottosegretario di Stato per gli esteri in riferimento al movimento per l’indipendenza siciliana.

Questa dichiarazione suonava così:

«Sono a conoscenza che questo movimento esiste ed è presentemente attivo. È altresì giunto a mia conoscenza che si ritiene tale movimento trovi l’appoggio degli Alleati. Sono pertanto lieto di cogliere l’occasione per affermare che, per quanto riguarda il Governo di Sua Maestà il Re, tutte le voci a questo proposito sono del tutto destituite di fondamento»:

E va ricordato che a questa dichiarazione, di cui ho il testo, si è associata anche l’America. Credo che da quel momento gli uomini di buona fede potevano ritenere di essere stati vittime di una falsa informazione.

Quanto ai maltrattamenti della «sbirraglia italiana», come ha detto con una cattiva parola nell’aula della Costituente l’onorevole Finocchiaro Aprile, devo ricordare che se vi sono fatti che vanno condannati, essi saranno puniti: il Governo è pronto a farlo, e non chiede altro, se non che siano denunciati.

Ma devo affermare che in questo conflitto vi sono stati in un anno 30 carabinieri morti e 42 feriti, due agenti morti e sette feriti, e non conto i militari di truppa.

Inoltre da rivelazioni fatte in quest’ultimo periodo è risultato che si intendeva sequestrare ed eventualmente sopprimere molte autorità della Sicilia, e soprattutto l’onorevole Aldisio, segnalato come responsabile delle misure di difesa dell’italianità dell’isola. E colgo l’occasione per ripetere a lui tutta la mia simpatia e la riconoscenza della Nazione. (Vivissimi applausi al centro e a destra).

L’onorevole Finocchiaro Aprile ha accennato anche ad un argomento scottante, a cui anche qualche altro ha accennato, cioè l’intervento della Chiesa nella campagna elettorale. È un argomento che non è di mia competenza e potrei fare a meno di toccarlo. (Commenti). Però una parola va detta per spiegare, ed eventualmente per conciliare.

Prima di tutto, quando si parla di «donnaccole e suore» e si attribuisce a loro il successo del partito che ho ancora l’onore di presiedere (per poco, onorevole Nitti: deporrò questa carica prossimamente), si esagera veramente sul numero. Secondo le statistiche, le suore in Italia – di tutte le specie – raggiungono il numero di centomila. Come si vede, su 8 milioni e più, tale cifra non rappresenta davvero un contributo decisivo al successo della Democrazia cristiana.

Devo anche credere che «l’apparato della Chiesa» (come lo designa l’amico Togliatti in un articolo della Rinascita), non sia, almeno organizzativamente, così forte, così compatto, così uniforme, come l’apparato del Partito comunista. (Si ride – Applausi al centro e a destra).

Ad ogni modo, l’onorevole Togliatti sa, per averlo io spesso ripetuto, rispondendo alle sue rimostranze, che il mio partito non ha chiesto mai l’intervento ufficiale dei rappresentanti della Chiesa. (Si ride – Commenti). Dovete distinguere in ogni modo, se vogliamo arrivare ad un chiarimento con forze notevoli che agiscono in Italia, dovete distinguere bene tra due casi.

Altro è il diritto che reclama la Chiesa per un insegnamento e per misure disciplinari entro la Chiesa, che riguardano naturalmente i quadri della Chiesa e i suoi aderenti, i quali hanno anche il mezzo di ricorrere a superiori istanze, come chi viene escluso dal Partito democratico cristiano o dal Partito comunista; altro è se vi è abuso di potere per atto coattivo diretto di intervento nelle elezioni, come è previsto negli articoli 69 e 70 della legge. (Commenti – Interruzioni).

Ma non bisogna fare tutto un fascio dei due casi, che sono molto differenti. Nel primo caso, evidentemente, gli articoli sono inoperanti. Vediamo invece di comprendere la preoccupazione della Chiesa. Se sarà infondata, tanto meglio, ma esiste una grossa preoccupazione che la libertà religiosa vada perduta; e sapete perché? Perché disgraziatamente là dove, in alcuni Paesi d’Europa, c’è stato un rivolgimento in un certo senso, la gerarchia è stata o soppressa o imprigionata, o la sua libertà è molto ridotta, anche nelle sue funzioni più proprie. E allora voi dovete pensare che in Italia, ove è il Capo di questa Chiesa cattolica (Vivissimi applausi al centro e a destra), la preoccupazione possa essere viva, tanto più in quanto noi siamo chiamati a fare una Costituzione. Nella Costituzione non si parla soltanto di programma economico e sociale, si parla in prima linea di principîe non soltanto dei diritti della persona umana, ma di libertà, di scuola, di limiti, di rapporti fra Chiesa e Stato. Che in tale vigilia la Chiesa abbia sentito il dovere di dire la sua parola, non ve ne dovete meravigliare. Sapete cosa dobbiamo fare? Dobbiamo fare una buona Costituzione, dobbiamo garantire la libertà e i Patti lateranensi, e la Chiesa sarà felice di limitare il suo intervento al puro necessario. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni all’estrema sinistra).

Devo poi aggiungere che non si può negare che nel clero vi sono molte vittime e quindi c’è anche un risentimento contro il Governo, che non è in grado di scoprire gli autori di queste uccisioni. Ne abbiamo una serie che io ho fatto annotare ed esaminare e che il collega che mi ha preceduto al Ministero dell’interno ha esaminato. Per nessuna di esse c’è un qualsiasi indizio che il delitto risalga a ragioni non politiche. Si tratta di gente che viene soppressa e poi, data l’omertà e il terrorismo di certe zone, non è possibile ottenere testimonianze di nessun genere; i morti sono morti e non è possibile scoprire i responsabili.

Questo stato di cose non riguarda soltanto il clero, ma riguarda anche altre categorie di persone; riguarda anche altri membri di tutti i partiti, intendiamoci bene. Non si tratta quindi solo del clero e questo fatto di uccisioni invendicate produce inquietudine, e un senso di dissoluzione. E bisogna che noi ci mettiamo d’accordo perché il delitto e l’uccisione scompaiano dalle nostre file e scompaiano dai metodi della vita politica italiana. (Applausi al centro e a destra).

Ora parlo di un argomento meno acceso: il grano.

«L’amico La Guardia» l’avete sentito; avete sentito il suo serio monito circa la scarsezza del grano nel mondo. Se non bastasse, proprio ieri ho ricevuto una lettera dal Governo inglese, che mi ricorda che il Governo italiano era presente alla conferenza dei cereali di Londra, tenutasi in aprile, e ultimamente anche alla Delegazione dell’alimentazione e dell’agricoltura a Washington, e che ha avuto occasione, attraverso i nostri osservatori – e questo è vero – di constatare che veramente le risorse sono molto limitate. Bisogna dirle queste cose, perché noi abbiamo dovuto assistere ad un certo franamento da parte dei prefetti e da parte degli interessati, quasi che fossimo ormai in carnevale, in tempi di abbondanza, e si potesse esagerare. Vi sono stati dei prefetti che hanno concesso 300 grammi; altri hanno concesso 280 grammi; altri vogliono migliorare l’abburattamento, altri vogliono il pane bianco.

Ora, signori, bisogna dir questo: noi, per quanti ammassi facciamo, non avremo abbastanza del nostro prodotto e dovremo cercare almeno 20 milioni di quintali all’estero; ma abbiamo difficoltà a comperarlo: difficoltà per la moneta e difficoltà per la ricerca del grano stesso. Ora, non dobbiamo, prima di tutto, dare la sensazione di leggerezza, e in secondo luogo non possiamo permetterci deviazioni come quelle che ho accennate. Ho richiamato con un telegramma i prefetti in questo senso: che in materia annonaria non possono agire autonomamente, neanche sotto le pressioni tumultuanti; devono dare la responsabilità ai Dicasteri dell’alimentazione e dell’agricoltura, che sono chiamati a decidere in materia.

E bisogna poi reagire anche contro una certa propaganda, che purtroppo non è di un solo settore, quella della facilità circa gli ammassi. Si dice: «Perché non avete aumentato la quota agli agricoltori, come era stato promesso prima?» Perché? Perché, data la situazione mondiale, date le statistiche che ci venivano fornite e le pressioni di coloro che devono poi intervenire per aiutarci, abbiamo dovuto tornare su quella nostra decisione e ripristinare la situazione dell’anno scorso. Bisogna pure che si persuadano anche gli agricoltori che noi non siamo padroni assoluti della nostra situazione economica e che siamo una parte del mondo, tributari di altri paesi che hanno maggiori risorse del nostro. Inoltre non possiamo dimenticare – e questo è stato già detto, mi pare, dall’onorevole Lombardo, o da altri – che in paesi non abituati al tesseramento, paesi della libertà più assoluta, si è introdotto il razionamento, e in modo molto più severo che da noi, mentre il mercato nero non è tollerato come da noi, o come non vorrei che venisse più tollerato. (Commenti).

Faccio quindi appello, oltre che agli agricoltori (gli ammassi relativamente non vanno male, perché quest’anno al 22 del mese corrente c’erano 13 milioni di quintali; nel 1943, con un raccolto di 66 milioni, anziché di 60, ne avevamo a questa data 11; ma vi sono ancora vaste zone in cui si trova resistenza, dovuta in gran parte anche alla campagna di stampa), ai giornalisti, perché sentano che si tratta non di un problema di Governo, di un problema sociale, che si pone ad ogni Governo; si tratta di compiere un atto di solidarietà, altrimenti non solo andiamo alla fame, ma è in giuoco l’inflazione. Vi sono agricoltori ingordi che credono di vendere sul mercato nero e di ingrossare il loro portafoglio. Pensino che se ci sarà la fame, ci saranno le agitazioni; se ci saranno le agitazioni, ci saranno aumenti salariali e se ci saranno aumenti continui di salari, si arriverà all’inflazione e le agognate ricchezze degli agricoltori si tradurranno in carta straccia. (Commenti).

Voi sapete che l’U.N.R.R.A. finisce – l’avrete sentito dal Direttore generale – e quindi è necessario di trovare un qualche cosa, un qualche espediente internazionale che sostituisca l’U.N.R.R.A., o che per lo meno in gran parte la supplisca. Quindi non possiamo in partenza consumare più di quello che possiamo calcolare come consumabile.

Qui, per esempio, vedo un telegramma in cui si parla che il bracciantato agricolo avventizio ha chiesto l’assegnazione di 150 chilogrammi pro capite in sostituzione della normale razione di pane che è di 80 chilogrammi. Il tentativo di componimento fino ad ora non ha raggiunto nessun risultato; ma bisogna che i prefetti, che i partiti dicano: noi non possiamo incominciare a largheggiare, altrimenti ci troveremo questo inverno di fronte ad una situazione difficilissima.

A questo riguardo vorrei proprio fare un appello alla stampa. Credo che se c’è un Governo che ha lasciato libertà di stampa – troppa dicono – è stato il Governo della democrazia. La libertà di stampa impone però dei sacrosanti doveri, che sono soprattutto quelli della solidarietà sociale. Io spero che gli organi di stampa si persuadano che questo è un dovere assoluto; e soprattutto che alla Radio nessuno mi venga a fare discorsi contro gli ammassi. Se un altro anno non si potranno fare, ne discuteremo, ma quest’anno si fanno, e non bisogna dare il cattivo esempio, per cui qualcuno trovi la scusa egoistica di non voler dare quello che deve dare.

Un altro argomento che è stato toccato – e che ci è stato fatto rimprovero di avere accennato troppo rapidamente – è quello della lotta contro le epidemie e le malattie. Vorrei osservare che l’Alto Commissario per l’igiene ha sviluppato una notevolissima attività e che i Ministeri precedenti hanno messo a disposizione molti fondi. Ultimamente sono stati messi a disposizione 2 miliardi contro la tubercolosi, senza parlare di tutta l’opera che si è dedicata a combattere la malaria.

Riguardo alla mortalità infantile, sono lieto di poter dire che i dati pubblicati in una rivista riguardano l’evoluzione fino al 1944; invece possiamo notare che dopo l’intervento dell’azione del Commissariato dell’igiene la mortalità infantile è diminuita sensibilmente, specie nelle città sopra i 100 mila abitanti. A Roma, per esempio, nel 1944 la percentuale era del 123,8 per mille e oggi è dell’85,7 per mille.

Riguardo alla tubercolosi, il fondo straordinario è di 2 miliardi. È verissimo che la mortalità è notevole e più che raddoppiata; ma in parte ciò è dovuto al ritorno dei reduci ed in parte alla denutrizione delle classi lavoratrici. Si è trovata una terribile situazione dei Consorzi antitubercolari, poiché erano in grande dissesto, non soltanto economico, ma anche per mancanza di attrezzatura. In conseguenza, si è dovuto provvedere a dare una migliore sistemazione ai sanatori. Per la sistemazione di reduci, si è attrezzato un sanatorio a Merano, che funziona tutt’ora. Si è dovuto, con lo stanziamento di fondi, sovvenzionare soprattutto i consorzi provinciali, i quali hanno avuto già 800 milioni per l’immediato ricovero in sanatori e case di cura di tubercolotici non assicurati. Si è assunta a carico dell’Alto Commissariato metà della retta di ricovero per i bambini predisposti, con una spesa di 200 milioni; si sono pagate tutte le rette arretrate per circa 250 milioni; si è avuto un notevole incremento di posti-letto per tubercolotici, potenziando l’attrezzatura esistente; è in corso la messa in efficienza di un grandioso villaggio sanatoriale a Sondalo, con un primo fondo assegnato di 250 milioni; è in corso lo sviluppo di un centro sanatoriale ad Arco per la provincia di Milano; un nuovo sanatorio a Pesaro.

Si sono impiegati molti aiuti che provengono anche dall’U.N.R.R.A. e dal Dono Svizzero e si è bloccato presso l’A.R.A.R. il materiale sanitario per utilizzarlo in questi sanatori. Si sono, quindi, ottenuti notevoli risultati. C’è stata anche una diminuzione dei casi di tubercolosi, ma una diminuzione troppo piccola per essere consolante: il flagello continua, i mezzi devono essere aumentati. Il Governo terrà d’occhio questo problema di assoluta necessità per l’igiene pubblica.

Ciò vale anche per la malaria. Avete letto sili giornali che in Sardegna si sta organizzando, con l’aiuto della Rockefeller, una lotta concentrata contro la malaria, che dovrebbe servire come esempio per estenderla ad altre provincie. C’è già una fortissima riduzione di nuovi casi di malaria: da 103 mila nel 1945 sono scesi a 49 mila nel 1946. Ciò è dovuto agli illustri funzionari che sono alla testa di queste imprese e, soprattutto, all’amico Bergami che presiede l’Alto Commissariato.

Ora vengo ad una questione politica che riguarda i poteri dell’Assemblea.

I poteri dell’Assemblea, come è noto, sono fissati nel decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98. Il 28 febbraio 1946 fu davvero una giornata terribile e troppo piena per il Consiglio dei Ministri: la seduta durò dalle 11,30 della mattina fino alle 22 di sera con una breve sospensione. Fu quel famoso Consiglio in cui si presero decisioni fondamentali circa il referendum e circa l’Assemblea. Era, allora, in discussione anche un secondo referendum, cioè se – seguendo l’esempio francese – si dovesse sottoporre a referendum, oltre la questione istituzionale, anche la questione dei poteri dell’Assemblea. Per il senso di un eccesso di complicazione, per la difficoltà tecnica, si finì con l’escludere questo secondo referendum, sostituendolo però con un impegno formale dei partiti rappresentati, degli uomini che rappresentavano i partiti al Governo; impegno che nel comunicato veniva fissato come segue:

«Dopo avere approvato le disposizioni concernenti il referendum sulla questione istituzionale e la determinazione dei poteri e della durata della Costituente, tutti i Ministri hanno preso impegno solenne di spiegare opera efficace affinché i loro partiti rispettino le disposizioni stesse nello svolgimento dell’azione politica durante la Costituente e nei confronti di questa».

La Consulta perse atto di tale impegno a grande maggioranza.

Circa le disposizioni che riguardano i poteri dell’Assemblea Costituente, nella relazione alla Consulta si rilevò anzitutto che in base al decreto fondamentale di Salerno (noi ci siamo preoccupati di mantenere l’unità giuridica con quel decreto-legge antecedente), il Governo doveva continuare ad esercitare il potere legislativo ordinario «finché (sono parole del decreto di Salerno) non sarà entrato in funzione il nuovo Parlamento». Però il progetto che sottoponevamo alla Consulta rendeva responsabile il Governo di fronte all’Assemblea e istituiva un ulteriore collegamento tra Assemblea e Governo «facultando quest’ultimo – facoltà che è prevedibile sarà largamente esercitata per i problemi di maggiore importanza, così come diceva la relazione – a sottoporre alla Assemblea qualunque argomento sul quale ne ritenga opportuna la deliberazione».

Ora io credo di poter fare, a nome del Governo, questa dichiarazione generale. Noi teniamo a che la continuità giuridica non venga intaccata. Ma, salvo la forma, in sostanza vogliamo tener conto della volontà e anche dei desideri dell’Assemblea. Quindi: 1°) faremo il più largo uso dell’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946, sottoponendo prima della deliberazione, e comunque prima della promulgazione, all’Assemblea Costituente i disegni di legge, anche se non riguardino le materie avocate già alla competenza della Costituente; 2°) intendiamo che anche la Costituente possa intervenire di sua iniziativa per l’esame di qualche disegno di legge. (Interruzioni). La parola «qualche» significa questo o quel disegno di legge. È, evidentemente, compito dell’Assemblea deliberare la procedura, esaminando le proposte che l’apposita Giunta riterrà opportuno prospettarle. Si tratterà, a mio avviso, di creare un organismo il quale possa delibare, avere sott’occhio i disegni di legge e decidere se il Governo debba essere invitato a sottoporli all’Assemblea; oppure, data la poca loro importanza o gli impegni che l’Assemblea possa avere in un determinato momento, se debba il Governo provvedere direttamente.

Circa i modi con cui questo diritto dell’Assemblea potrà essere esercitato, invito il Presidente dell’Assemblea, e l’Assemblea stessa, a volere, secondo le procedure stabilite, determinarli. Il Governo li accetterà.

Si è fatto accenno ad una specie di Commissione di controllo. Preferirei che si trattasse di più Commissioni, ciascuna con una propria sfera di competenza tecnica, onde assicurare un esame critico più oggettivo ai disegni di legge, i quali, come si sa, concernono materie molto eterogenee. Comunque ripeto che il Governo è disposto a tener conto delle deliberazioni dell’Assemblea e degli organi ai quali essa vorrà deferire la funzione di collaborazione legislativa col Governo. Con ciò credo di essere venuto incontro alle proposte fatte e agli ordini del giorno che trattano di questa materia.

Ed ora un’ultima parola sulla politica estera.

Chi sa perché, dopo che un giornale ha dato il primo esempio, anche qualche membro della Costituente è venuto qui a proclamare che io non ho nessun diritto di riconoscermi come un Talleyrand redivivo. Io non ho mai avuto questa ambizione, non l’ho affatto, perché so che fra le grandi abilità di Talleyrand c’è stata anche quella di tradire il suo paese; io non voglio affatto imitarlo. Ma devo dire di più, che quello era il diplomatico abile dell’800 e che voler rifare il giuoco suo, sarebbe come presentarsi a Parigi o a Londra in parrucca. (Commenti).

E qui l’onorevole Nitti mi ha rimproverato di aver curato poco i contatti a Londra, di non aver saputo riprendere l’animo dell’Inghilterra, antica nostra amica, ed ha portato l’esempio di come lui, in altre occasioni, abbia avuto miglior abilità e fortuna.

Eh! lo so, onorevole Nitti. Voi avete avuto i vostri contatti cogl’inglesi dopo Vittorio Veneto, dopo che gli eserciti italiani avevano contribuito alla vittoria degli Alleati con grandi sacrifici. Voi stesso potevate rappresentare un’Italia che aveva dato un contributo essenziale dalla parte giusta della barricata. A me è toccato, andando à Londra, di trovare che più ancora che negli strati superiori, dirigenti, nella psicologia popolare, gli italiani erano ricordati soprattutto  per il pazzo tentativo di strozzare l’impero inglese impossessandosi del canale. E quella vigilia di Alessandria, quando si temeva l’arrivo dei tedeschi e degli italiani non si dimentica così facilmente, e non così facilmente si crede alle nostre parole.

Onorevole Nitti, non io, ma un mio autorevole collega ebbe recentemente occasionai di parlare con uno degli alti rappresentanti del Foreign Office; un autorevole collega che non ha peccati di fascismo sulla sua coscienza e nel suo passato. Quando egli si mostrò stupefatto della durezza con cui quell’illustre signore si opponeva alle insistenze dell’amico per una pace giusta, sapete cosa disse l’autorevole inglese? Disse: «Vede, a lei fa impressione questo mio linguaggio, ma lei deve ricordare che io ero a questo medesimo tavolo quando ho ricevuto la dichiarazione di guerra del vostro Governo fascista!».

Con questo non voglio scusare le mie eventuali insufficienze. Però molto lavoro è stato fatto, lavoro che è dovuto soprattutto all’Ambasciatore Carandini e ai suoi colleghi e collaboratori, nel campo della cultura, nel campo dei contatti, e la situazione in quel riguardo è modificata, notevolmente modificata. Però siamo ben lontani dalla reciproca comprensione.

Sapete come inglesi illustri, intelligenti e di buona volontà accolgono la nostra reazione nella questione di Trieste? L’accolgono con irritazione. Sono veramente persuasi di essersi battuti per un anno diplomaticamente per ottenere la soluzione in nostro favore e sono meravigliati che il popolo italiano non sia entusiasta ed abbia ancora tali reazioni. Io non ho davvero sulla coscienza, come neppure i miei colleghi che hanno trattato, di aver dissimulato la situazione. Ho sempre ripetuto a tutti, ai più alti ed ai più subordinati: badate che Trieste è un punto nevralgico; ed è una disgrazia per l’Italia che sia un punto nevralgico, non solo per la coscienza italiana, ma anche per le grandi potenze. È una disgrazia, ma è così. Non possiamo farne a meno. La nostra reazione sarà naturale, non potremo superarla!

Questo discorso l’ho fatto a tutti con grande franchezza e siccome nel primo periodo mi sono sempre comportato con molta moderazione, tanto che all’estero ne erano contenti, ed invece a casa non erano contenti di me, avevo diritto di credere che quando, viceversa, anch’io reagissi, facendomi interprete del sentimento del popolo italiano, venissi creduto, e che questa reazione venisse accolta come istantanea e ragionevole. Ma direi che la stessa irritazione c’è anche in America. Ed io comprendo che questa azione diplomatica si è svolta con sforzo e fatica tale da mettere in crisi la pace ripetutamente e dopo lo sforzo delle cancellerie e dei negoziatori; comprendo il senso di liberazione che può averli animati quando finalmente credettero di aver trovato un espediente qualsiasi per uscirne. Ma noi abbiamo la responsabilità, dinanzi alla Nazione, e più che alla Nazione, dinanzi alla cooperazione internazionale, dinanzi all’Europa e al mondo di dire: quell’espediente non va, quell’espediente non conduce ad una mèta, quell’espediente ci metterà in più grossi guai in un tempo prossimo.

CORSINI. Perché Trieste è italiana e deve rimanere italiana.

Una voce a sinistra. È la guerra!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Che Dio disperda il presagio. Non pensiamo alla guerra! Noi ne saremmo in ogni caso vittime.

Io prego la stampa di tener conto di questo stato d’animo degli inglesi e degli americani, come l’ho pregata altre volte di tener conto dello stato d’animo russo. Inglesi e americani hanno torto, quando denunziano en bloc come fascismo rinato ogni reazione nazionale in questa questione nazionale, come hanno torto i russi quando chiamavano neo-fascista ed anti-comunista ogni reazione che riguardo alla frontiera è totale e non fascista. Bisogna però che la stampa si padroneggi, che non pubblichi certi articoli, che, adoperando un gergo passato, una argomentazione di altri tempi, non sono più consoni colla situazione di un’Italia democratica e che deve inquadrarsi ed inserirsi nella nuova democrazia del mondo. (Applausi al centro). Riconosciamo che anche la Russia ha speciali vincoli con la Jugoslavia e che per essa la internazionalizzazione è un passo per venirci incontro; ma è insufficiente, non è durevole ed implica per noi la perdita del centro sud istriano, che dovremo perdere definitivamente per l’italianità. Aggiunte ad altre perdite di questa guerra, queste condizioni diventano difficilmente sopportabili. Si può dire che a Pola, dove 30 mila tra operai, artigiani e pescatori chiedono di emigrare verso l’Italia, essi siano fascisti? Si può dire che non rispondano veramente ad una situazione di fatto, quando rinunziano alla loro vita attuale, ed anche a parte anche dei loro possessi e chiedono al Governo di organizzare la loro partenza e di emigrare verso l’interno? Si può forse pensare che siamo artificiosamente noi intellettuali a creare, dal punto di vista nazionale, un postulato impossibile, o che si tratti di risucchi di fascismo? Sono operai, artigiani, pescatori, contadini, cittadini, ceti medi, gente che lavora, che abbandona il posto del lavoro, piuttosto che abbandonare il nesso con l’Italia.

Quando si fanno critiche alla mia politica estera o meglio alla politica estera mia e dei governi passati ed ai miei collaboratori, bisogna distinguere i tempi. Se volete avere un giudizio generale su quello che avremmo dovuto e potuto fare, dovete ricordare le date.

Noi siamo in armistizio. I rapporti internazionali ci fu lecito riprenderli lentamente: Carandini andò a Londra solo nel novembre del 1944, Tarchiani a Washington nel febbraio del 1945, Saragat a Parigi il 21 aprile del 1945. Appena alcuni mesi dopo avemmo l’autorizzazione ad usare gli indispensabili mezzi diplomatici, come il cifrario e la valigia. Il 19 settembre 1945 siamo già alla decisione di Londra.

Ora, a Londra – è questo a cui dobbiamo richiamarci – a Londra (forse un po’ anche per la maniera cauta degli italiani che hanno rappresentato gli interessi d’Italia), si è arrivati a questa decisione chiara: il problema economico di Trieste e di Fiume si deve assommare nella internazionalizzazione dell’amministrazione del porto, con collegamenti ferroviari, eventualmente in raccordo con Fiume; il problema, invece, nazionale nella ripartizione dei territori fra le due nazioni con una linea etnica. Per questa linea etnica si è mandata una commissione; c’è un rapporto dei quattro. E non dimenticherete che c’è un rapporto in cui è detto quali distretti sono italiani e quali città sono slave. Questo rapporto, firmato da tutti e quattro, attribuisce a noi assolutamente la parte sud-ovest dell’Istria, proprio quella che oggi non verrebbe all’Italia, e nemmeno sarebbe internazionalizzata, ma abbandonata alla Jugoslavia.

Allora vi ricorderete: venimmo qui alla Consulta con la sensazione di aver fatto dei sacrifici; avevamo tentato di aggrappami alla linea Wilson ed invece si era parlato di linea etnica e di proporzione. Però, quando si venne a delineare ed a tracciare questa linea, si vide che quella americana era relativamente vicina a quella Wilson e quella inglese era tollerabilmente lontana; le altre non potevano essere materia di discussione.

E allora, il 2 maggio, fummo sentiti altra volta e io venni via con la convinzione – non smentita nei colloqui privati – che Trieste era sicura e che purtroppo era in discussione Pola. Questa è l’informazione che io portai al Consiglio dei Ministri. Si sospesero allora le trattative. Perché? Forse con riguardo proprio alle elezioni che si stavano facendo in Italia, perché si temeva, ed erano in questo tutti d’accordo, che una decisione potesse influire sfavorevolmente sulle elezioni in senso antidemocratico.

Poi si ripresero le trattative, che furono fatte in assoluto segreto. Avreste voluto che il Presidente del Consiglio o il Ministro degli esteri fosse andato a Parigi a scodinzolare presso i redattori dei giornali americani od inglesi per scoprire che cosa si discutesse e che cosa si fosse deliberato, a rischio di avere notizie inesatte e cervellotiche?

La ragione dell’assoluto segreto è evidente: si era certi che non si sarebbe venuti a nessun risultato, se la pubblicità fosse intervenuta ad intorbidare le discussioni. Si facevano tutti gli sforzi per concludere, pur lasciando egualmente malcontente le due parti.

La soluzione, dunque, a nostro sfavore è del 2 luglio. Mi è stato detto che il Ministro degli esteri doveva fare una politica manovrata.

Primo: l’armistizio impone che nessun trattato spossa venir concluso senza il permesso della Commissione di controllo.

Una voce a sinistra. Questo non concerne le Nazioni Unite.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Secondo: la situazione è tale che se anche qualcuno avesse voluto fare un trattato segreto, prima di concluderlo sarebbe già stato svelato.

Terzo: eravamo talmente dipendenti per la benzina, per il carbone e per il grano, che se anche avessimo voluto farlo, non avremmo potuto.

Dico di più. Credo che, oltre questi impedimenti estrinseci, ci fosse un impedimento intrinseco. Dovevamo fare un accordo con la Russia? Che cosa potevamo offrire per avere Trieste? Le Colonie? Erano occupate dagli inglesi. Il Dodecanneso? Era reclamato dalla Grecia, e la Grecia era sostenuta dagli anglo-americani.

Potevamo offrire l’Alto Adige? Questo è qualche cosa che la Russia non vuole, perché non intende ingrossare troppo – credo – un secondo stato germanico; comunque la sua direttiva è chiara.

E allora che cosa si poteva fare? Barattare Trieste? C’è un Ministro italiano che potrebbe barattare Trieste? E in ogni caso con che cosa?

Si parla sempre di accordi con gli slavi. Ma l’amico Togliatti sa che io ho tentato in cento maniere di avvicinare gli slavi. C’era anche la buona occasione, perché era qui, come rappresentante della Jugoslavia, un mio ex collega della Camera austriaca, e, in tempi tristi, filo-italiano contro altri slavi. Impossibile!

Sono allora ricorso alla Russia chiedendone formalmente la mediazione. E quando ho capito che la Russia non voleva farlo, forse per correttezza verso gli Alleati, sono ricorso a tutti e tre gli Alleati insieme per vedere se ci fosse la possibilità di riuscire.

Gli slavi rispondevano sempre che sono stati imbrogliati una voltai dagli italiani – e si riferivano evidentemente ai trattati dell’altro dopo guerra – e che in questo giuoco non entravano più. Questo imbroglio si riferisce a quello che ieri veniva qui detto circa le correnti Bissolati, Sforza, ecc., ecc. Ricordate le difficoltà che vi sono state perfino nelle trattative per l’evacuazione dei partigiani e degli appartenenti all’esercito che hanno combattuto con Tito. Ricordatevi quale difficoltà ha dovuto superare la missione Palermi, per quanto essa sia stata l’unica che potè avvicinare i rappresentanti slavi. È poi avvenuto che qualche rappresentanza non ufficiale è stata bene accolta e io ne ho subito fatto tesoro. Ma voi potete credere che se ci fosse stata la possibilità, veramente sul serio, di accordarsi con questi nostri antagonisti, Togliatti che è un uomo di prim’ordine e che è un amico di Tito, non avrebbe avuto, almeno lui, l’occasione per dimostrare alla nazione… (Applausi al centro). L’onorevole Togliatti ha fatto ogni sforzo e si è trovato in questa occasione a dover lasciare dividere le proprie forze a Trieste stessa, ove una parte dei comunisti filoslavi lo accusano di essere troppo italiano o di essere filoitaliano.

Dico anche che senza dubbio è una disgrazia che i sentimenti cristiani di Bidault non abbiano potuto servirci di richiamo per averlo più generoso verso di noi. Ma almeno lì non abbiamo una organizzazione, non abbiamo dato nessuna speranza, non siamo ancora riusciti a questa che dovrebbe essere veramente una internazionale di giustizia auspicata tra i partiti di ispirazione cristiana. Ma il Comintern, l’organizzazione internazionale del comunismo, che è succeduta all’organizzazione internazionale del socialismo (Interruzioni all’estrema sinistra) era una forza politica. (Interruzioni – Commenti).

Non voglio dire niente che possa diminuire la vostra collaborazione. Dico anzi che, nonostante questo, non è stato possibile né a me né a voi di ottenere un risultato diverso. Dico questo perché in ciò vi è naturalmente implicita anche una giustificazione mia. (Interruzioni all’estrema sinistra).

In ogni caso io, per la storia e nell’interesse del nostro Paese, respingo l’accusa di aver fatto una politica contro la Russia. (Interruzioni all’estrema sinistra – Commenti). Assolutamente no!

Una. voce. E Il Popolo? (Commenti – Interruzioni).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Dobbiamo distinguere tra la politica fatta dal Governo e la campagna elettorale… (Commenti – Interruzioni) tanto è vero che la prova migliore è che la Russia stessa, nell’ultimo periodo, ha fatto una politica di benevolenza per l’Italia. Se il Ministro degli esteri si fosse mostrato indegno di questa benevolenza, certamente essa non l’avrebbe fatta.

Una voce a sinistra. L’ha fatta per il popolo! (Interruzioni – Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Voi vi appellate alla stampa…

Una voce a sinistra. Alla stampa democratica cristiana.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Va bene. Prima di tutto voi sapete bene, data la situazione della nostra stampa, che un Governo non può assumere la responsabilità di tutto quello che si pubblica. (Interruzioni a sinistra – Commenti).

Una voce a destra. Non abbiate riguardo!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Vi ricorderò che io per ben due volte, alla conferenza della stampa, ho fatto appello nell’interesse del Paese e dell’unità…

Una voce a sinistra. Lo faccia come capo partito!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri… per sospendere gli attacchi. Vi aggiungo… (Interruzioni a sinistra – Proteste a destra) che il Governo russo ne ha preso nota; allora prego anche voialtri di prendere nota. (Commenti).

Io deploro tutti gli attacchi contro gli Stati, domani chiamati a decidere sopra le nostre sorti, che per lo meno sono attacchi imprudenti. Però, se faccio appello alla responsabilità della stampa e dei partiti, bisogna che faccia appello anche ad un certo senso di comprensione di chi al di fuori interpreta questi nostri atteggiamenti. Talvolta avviene che qualche attacco diretto contro il Partito comunista venga interpretato come attacco al comunismo in genere o contro la Russia in particolare. (Interruzioni a sinistra).

Talvolta avviene che certe esagerazioni in una certa stampa, in senso favorevole, provochino la reazione in senso sfavorevole dall’altra parte. Avviene anche di avere l’impressione che se in Italia il Partito comunista non avocasse quasi a sé la rappresentanza, direi ufficiosa, psicologica, ideologica di tutto quello che avviene in Russia, sarebbe più facile avere il consenso per molte cose che in Russia… (Applausi al centro e a destra).

Accenno ora alla questione dell’Alto Adige; questione risollevata recentemente alla Camera dei Comuni. C’è un largo settore nell’opinione pubblica inglese che pensa ancora all’Alto Adige di Andrea Hofer, all’Alto Adige pittoresco del concorso forestieri, all’Alto Adige di montanari che non abbiano subita l’infezione di grandi movimenti in Europa. Questo è un sogno, è un anacronismo. Comunque, non una parola uscirà oggi da me per turbare quello che in Alto Adige si sta compiendo.

Posso annunciare che il progetto di autonomia si sta elaborando d’accordo con tutti i partiti, non solo di Trento, ma anche di Bolzano, compreso – le consultazioni sono state molto attive – quel partito che portava finora la bandiera separatista come pregiudiziale assoluta. Completeremo questi accordi, che, naturalmente, per la parte costituzionale devono essere sottoposti a quest’Assemblea; completeremo questi accordi con delle convenzioni di carattere economico e di comunicazioni con l’Austria.

Siamo disposti a venire incontro più che sia possibile, sia dal punto di vista delle esportazioni, come pure delle importazioni e delle comunicazioni; mi auguro che i desideri espressi anche pubblicamente, in discorsi fatti da uomini di Stato austriaci, possano venire accolti, che cioè noi possiamo fare del nostro Alto Adige un ponte di vera cooperazione fra i popoli, un ponte di vera internazionalità.

Debbo ricordare altresì, non senza commozione, una riunione tenutasi recentemente a San Dalmazzo di Tenda dall’amico Brusasca, che rappresentava l’interessamento del Governo, e dirvi che, comunque le sorti possano cadere, quei nostri valligiani sono italiani, si sentono italiani e tra i primi sono i partigiani, quelli che hanno combattuto col maquis, che sollevano la bandiera dell’italianità. (Applausi al centro e a destra).

Signori, se ci confortate del vostro appoggio, andremo a Parigi, vi faremo il massimo sforzo, chiameremo a concorso tutte le buone volontà, ci avvarremo di tutte le esperienze tecniche. E qui devo rivolgere un particolare ringraziamento ai diplomatici (sia ai politici che a quelli di carriera) che finora hanno lavorato su questo duro e angusto terreno, dovendo dichiarare che l’accusa «en bloc» di essere essi rappresentanti del fascismo non ha fondamento.

Ho trovato tanto zelo, tanto impegno patriottico nel difendere la linea del Governo (tesi la cui responsabilità naturalmente risale al Governo) in tutte le forze tecniche del Ministero, che sono convintissimo che anche da qui innanzi potremo utilizzarle nell’interesse della pace internazionale, con quello spirito nuovo della nuova democrazia europea mondiale, con lo spirito che rinnega ogni egoismo nazionalista, con quello spirito soprattutto che vuole aprire un varco all’avvenire della Repubblica italiana. (Prolungati applausi al centro – Grida di: Viva l’Italia!).

Ora devo dire qualche cosa a proposito degli ordini del giorno. Alcuni sono molto importanti e li vorrei riservare allo studio del Consiglio dei Ministri, perché contengono elementi che debbono essere tradotti in provvedimenti legislativi; altri sono di direttiva e riguardano soprattutto la difesa di nostri postulati nella politica estera.

Così io prego l’onorevole Russo Perez di associarsi all’ordine del giorno presentato dall’onorevole Molè e dall’onorevole Persico, che mi pare sia il più breve e il più significativo. Lo stesso mi pare di dover chiedere all’onorevole Benedetti, almeno per la prima parte, per quello che riguarda il testo. Lo spirito è un po’ diverso, per dire la verità, soprattutto per il lato della fiducia. Anche quello dell’onorevole Bertone mi pare una raccomandazione che il Comitato della ricostruzione dovrà studiare e trasformare in provvedimenti.

Non mi pare che conti sulla mia approvazione l’onorevole Nobile: il suo ordine del giorno, se è una raccomandazione, merita considerazione come tanti altri; se intendesse avere un carattere di direttiva, non potrei – in questo momento – accettarlo.

Riguardo al premio della Repubblica, è questa una questione finanziaria che dobbiamo vedere, a parte le nobilissime intenzioni delle firmatarie, alle quali, naturalmente, mi associo. Dobbiamo, tuttavia, considerare l’effetto finanziario, prima di prendere una decisione…

Una voce a sinistra. La prenderà Corbino! (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Io devo dire che questa mania di fare di una persona il bersaglio continuo rende impossibile una collaborazione cordiale ed attiva al Governo. Mi pare che questa sia una tattica sbagliata. Mi pare che per voi, se Corbino non ci fosse, lo vorreste inventare per avere sempre un bersaglio. (Commenti).

In ogni modo, intendo accettare l’ordine del giorno Molè, naturalmente per tutto il Governo. Prego l’Assemblea di pronunciarsi sopra la direttiva politica con riguardo particolarmente a quella internazionale, esprimendosi sull’ordine del giorno Molè.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Russo Perez se intende mantenere il suo ordine del giorno.

RUSSO PEREZ. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Canevari, ella mantiene il suo ordine del giorno?

CANEVARI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Caroleo, ella mantiene il suo ordine del giorno?

CAROLEO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Nobile, ella mantiene i suoi due ordini del giorno?

NOBILE. Li ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Signora Gallico Spano Nadia, ella mantiene il suo ordine del giorno?

GALLICO SPANO NADIA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Cortese, ella mantiene il suo ordine del giorno?

CORTESE. Mantengo la seconda parte; per la prima parte, relativa alla politica estera, mi associo all’ordine del giorno Molè.

PRESIDENTE. Onorevole Benedetti, ella mantiene il suo ordine del giorno?

BENEDETTI. Mi dispiace di non poter aderire alla richiesta del Presidente del Consiglio; ma intendo mantenere il mio ordine del giorno perché è concepito con altro spirito.

PRESIDENTE. Onorevole Bertone, ella mantiene il suo ordine del giorno?

BERTONE. Mi dichiaro soddisfatto delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Meda, ella mantiene il suo ordine del giorno?

MEDA. Prendo atto delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e trasformo l’ordine del giorno in raccomandazione.

PRESIDENTE. Secondo la consuetudine parlamentare, si deve cominciare dal votare quegli ordini del giorno che hanno la portata più generale e successivamente quelli che hanno una portata più particolare. Quindi l’ordine del giorno che deve essere votato per primo è quello dell’onorevole Molè, che è di carattere generalissimo e chiude la discussione sulle comunicazioni del Governo. Successivamente saranno votati gli altri ordini del giorno.

Comunico che gli onorevoli: Canevari, Cosattini, Stampacchia, Taviani, De Unterrichter Jervolino Maria, Balduzzi, Viale, Pecorari, Dugoni, Negarville, Moro, hanno proposto la seguente aggiunta all’ordine del giorno Molè:

«inserire prima dell’ultimo comma quanto segue:

«e invita il Presidente dell’Assemblea a rendersi interprete di tale unanime sentimento della Costituente presso le Assemblee delle Nazioni unite ed associate».

Tale aggiunta è accettata dall’onorevole Molè e dal Governo.

Avverto pure che i seguenti Deputati chiedono che l’ordine del giorno Molè, integrato con il comma proposto dall’onorevole Canevari ed altri, sia posto in votazione per divisione in due parli, la prima comprendente i primi commi fino alle parole: «Nazioni unite ed associate», la seconda comprendente l’ultimo comma; e che questa seconda parte dell’ordine del giorno stesso, dalle parole: «approva le dichiarazioni del Governo» sia votata per appello nominale: Foresi, Vigo, De Unterrichter Jervolino Maria, Angelucci, Delli Castelli Filomena, Cotellessa, Galati, Taviani, Balduzzi, Viale, Guidi Angela Maria, Carbonari, Uberti, Tosato, Fanfani, Caronia, Marconi.

BENEDETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTI. Ho frequentato la Camera dei deputati nei tempi passati ed ho sempre saputo che l’ordine del giorno avente diritto alla precedenza è quello puro e semplice, di fiducia, o di sfiducia. Questo non è un ordine del giorno che può avere la precedenza. Esso riassume altri ordini del giorno e riassumendoli ripropone il contenuto in forma diversa e mutilata. Non è pertanto un ordine del giorno puro e semplice di fiducia o di sfiducia. L’Assemblea è sovrana nello stabilire le procedure, ma se prevarrà il metodo che è stato proposto dal Presidente non si tuteleranno mai i diritti delle minoranze. (Commenti). Ed è soltanto per tutelare questi diritti che io chiedo una procedura sempre coerente e sempre conforme al Regolamento. Protesto perciò per la forma di procedura che viene oggi instaurata.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno Molè non solo è il più generale, ma è stato accettato dal Governo. Esso quindi deve avere la precedenza. Ricordo in proposito all’onorevole Benedetti che tutte le volte che la Camera fu chiamata a dare un voto si è riconosciuto al Governo il diritto di scegliere l’ordine del giorno sul quale doveva aver luogo la votazione.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Farò una dichiarazione di voto di un’estrema semplicità e sobrietà. Io mi riferisco alla divisione che è stata chiesta. Non contesto, né posso contestare il diritto di chi l’ha chiesta e il dovere di chi l’ha consentita. Ma dal mio punto di vista, che è del tulio individuale – io sono ancora l’ultimo che rimane dei rappresentanti del popolo i quali non si credevano vincolati da altro che dalla propria coscienza…

NITTI. Il penultimo! (Si ride).

ORLANDO. L’ultimo, e parlo quindi a nome del mio gruppo, che si riassume nella mia persona. (Si ride). Per me, dicevo, questa divisione dell’ordine del giorno Molè è considerata come inesistente. Per me, l’ordine del giorno resta nella sua integrità, considerato come inscindibile. Se sarò obbligato a votarlo in due parti, voterò affermativamente sulla prima e sulla seconda. (Vive approvazioni). La seconda parte riguarda questioni di politica interna. Data la gravità dell’argomento sarebbe da fare un altro ben lungo discorso. Non rabbrividite: ne sono ben lontano. (Ilarità). Perché, come politica interna, qui è in questione o tutto, o niente. Tutto, perché qui può farsi questione della natura stessa di questa forma di Governo, di cui usiamo. Che cosa è? Non per vantare priorità, ma soltanto per riaffermare la perfetta obiettività del mio pensiero, dirò che per il primo io allusi a questa maniera ampia, totale, di considerare il nostro stato di Governo e fu nelle parole che ebbi l’onore di pronunziare inaugurando questa Assemblea. Dissi allora: credo che ormai si tratti di una nuova forma di Governo che viene elaborandosi, di cui può dirsi che non è nero ancora e il bianco muore, poiché da un lato è la forma di Governo parlamentare che si dilegua, mentre viene sostituendosi questa nuova organizzazione che le masse popolari danno a sé stesse, personificandosi nei loro Capi, dai cui accordi si determina e la formazione e l’indirizzo del Governo. Ma è ancora come uno stato di nebulosa. Speriamo che diventi chiaro.

L’onorevole Togliatti diceva ieri: non c’è più Governo parlamentare. E aveva ragione. Bisogna vedere che cosa vi si sia sostituito.

Or tutto questo non può non renderci perplessi, poiché si tratta di sapere quale è il criterio misuratore di questo voto che daremmo di fiducia o sfiducia, a quali cause lo riferiremmo, a quali fini potrebbe tendere. Potrebbe questo nostro voto farsi dipendere dal numero dei Ministri? Dal numero dei Sottosegretari? Dai dissensi sulle riforme economiche o finanziarie? O, addirittura, dal modo di risolvere la questione sociale? Sotto questo aspetto ognuno dovrebbe fare, io penso, grandi sacrifici, quando darà il suo voto. Forse ne dovrò fare io meno di molti altri. Quando io sentivo le interruzioni, diciamo così, alquanto vivaci, di quella parte della Camera (Accenna all’estrema sinistra) verso quest’altra, dovrei reputare che quella voterebbe contro. Voterà probabilmente a favore, perché farà un sacrificio. Ebbene, facciamolo tutti questo sacrificio! (Applausi).

Di fronte alla questione internazionale da cui dipende forse la nostra esistenza, come Stato sovrano, autonomo ed indipendente, dobbiamo dare ancora al mondo lo spettacolo di una divisione dovuta a questioni le quali, per quanto in se stesse gravi, sono, in confronto a quella, di un’importanza affatto trascurabile? No, voterò a favore e sulla prima e sulla seconda parte. (Vivissimi applausi).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Parlo a nome degli amici del mio gruppo. L’ordine del giorno si compone di due parti: la prima si riferisce alla politica estera, la parte conclusiva si riferisce alla politica generale del Governo. Io dichiaro che noi voteremo favorevolmente alla prima parte, perché nel momento in cui il Ministro degli esteri si reca a Parigi a difendere gli interessi e i diritti dell’Italia, noi vogliamo che la sua posizione sia rafforzata dal voto unanime di questa Assemblea, che rappresenta il pensiero di tutto il popolo italiano. (Applausi).

LABRIOLA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Una rapidissima dichiarazione di voto. Ognuno comprenderà che io non darò il voto favorevole al Governo. Darò il voto favorevole alla prima parte dell’ordine del giorno Molè. Noi non siamo che una minutissima e sparuta opposizione in questa Assemblea, ma un dovere di lealtà politica ci obbliga a mantenerci fedeli alle direttive con le quali ci siamo presentati agli elettori. Io ho detto che considero il Governo attuale come la continuazione del Governo che ha emanato un decreto col quale i poteri dell’Assemblea Costituente sono poco più o poco meno ridotti al semplice fatto di preparare un nuovo Statuto albertino, da valere come Costituzione della Repubblica.

Trovo inammissibile che la prima Assemblea sovrana, eletta dal libero popolo italiano, debba essere privata della facoltà legislativa. Il Governo può non aver fiducia nell’Assemblea per l’esercizio della facoltà legislativa; l’Assemblea può non aver fiducia nel Governo per l’uso che esso potrà fare della medesima facoltà legislativa. La questione verrà un’altra volta dinanzi all’Assemblea. Io dirò apertamente la mia opinione: non si può assolutamente negare che l’Assemblea, la quale riassume in sé tutta la sovranità del popolo italiano, possa essere defraudata della qualità di Assemblea legislativa ordinaria, oltre che di Assemblea che prepara un nuovo Statuto di tutti gli italiani.

Vi è la seconda ragione per la quale io, pur accettando la prima parte dell’ordine del giorno Molè, voto contro la seconda parte. Questo Governo è per me, e l’ho detto – la lealtà è il primo di tutti i doveri – la continuazione dei Governi dell’esarchia, il cui maggior torto fu di esser costituito in potere sovrano nel Paese senza delega alcuna dello stesso Paese. (Commenti – Interruzioni).

Onorevoli colleghi, potrei farmi applaudire come si son fatti applaudire i miei predecessori dando un voto unico.

Voci. Basta! basta!

LABRIOLA. Non capisco perché si dica basta, quando la mia dichiarazione ha coperto finora pochissimi istanti. Per me nessuno dei grandi problemi dinanzi ai quali si trova il Paese, non quello delle frontiere, di una pace giusta, dell’eccessiva interpretazione fatta dalle potenze alleate nei confronti dell’armistizio, è stato non solo risolto, ma neanche affrontato dai Governi precedenti di cui questo non è che la continuazione. (Interruzioni).

Potrei avere rinunciato al mio voto, se il Governo avesse rinviato in avvenire la richiesta di un voto di fiducia; poiché il voto di fiducia è stato chiesto, per la seconda parte io non voto l’ordine del giorno accettato dal Governo. (Commenti).

NITTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Io devo dichiarare che non desidero in alcuna guisa diminuire il prestigio e la forza del nostro rappresentante che va a Parigi nelle condizioni più difficili e va non invitato, ma di sua iniziativa. Devo quindi dire che sia ben chiaro che il mio voto non riguarda che la politica interna e gli argomenti che ho svolto nel mio discorso. Io rimango fermo a quelle dichiarazioni. L’onorevole De Gasperi mi ha fatto oggi l’onore di riconoscere che una parte di quelle cose egli le ha già accettate e mi ha dato solenne impegno di accettare la maggiore, di essere non un capo partito, ma di essere veramente capo rinunziando ad essere segretario del suo partito. Quindi, la mia coscienza non mi rimorde. Io devo votare contro quella parte dell’ordine del giorno che implica la fiducia generale anche sulla politica interna. Avremo occasione, onorevoli colleghi – non è il momento adesso di far lunghi discorsi – non siamo alla fine, ma siamo ancora al principio dei nostri lavori – avremo occasione di discutere di questi argomenti. Dichiaro dunque che io voto contro tutto ciò che riguarda l’azione di politica interna e la stessa concezione economico-finanziaria del Governo, ma desidero che sia anche chiaro che la mia fiducia, per dir meglio il mio consenso, la mia adesione, la mia volontà di aiutare l’opera del Governo in tutta l’azione internazionale non può mancare. È un dovere, che riguarda la nostra coscienza. Quindi prego il Governo di considerare quello che dirò come un atto amichevole.

Io sarei ridicolo all’estero, se, dopo quello che ho detto e che tutti conoscono, votassi la fiducia al Governo su tutta la sua azione. Ciò diminuirebbe, non aiuterebbe il prestigio all’estero.

Rimango dunque fermo in questa precisa dichiarazione e spero che il Governo accetti la mia leale dichiarazione.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, l’ordine del giorno che dobbiamo votare non è uno, sono due; ed io sono dolente di dovermi trovare ancora una volta, da quando sono su questo banco, in contrasto col più caro dei miei maestri, l’onorevole Orlando.

Noni si tratta di dare una manifestazione per acclamazione o totalitaria. Si tratta di fare vedere all’Italia e all’estero che voi, che sostenete il Governo, e che noi che lo combattiamo, diamo una manifestazione responsabile. Le acclamazioni sono sempre irresponsabili.

La prima parte dell’ordine del giorno non è questione di politica estera, è la questione dell’Italia. Sulla questione dell’Italia non ci possono essere discussioni. Tutti voteremo la prima parte dell’ordine del giorno.

La seconda parte dell’ordine del giorno, o meglio l’altro ordine del giorno, si riferisce a tutto il complesso delle dichiarazioni del Governo, si riferisce soprattutto al carattere ed alla natura del Governo, ai suoi intendimenti, e ai metodi che esso suole ed intende adoperare.

Noi tutto questo non lo possiamo approvare.

La prima parte del voto è la solidarietà all’uomo che a Parigi non va a rappresentare il Governo, ma a rappresentare l’Italia; e l’Italia siamo anche noi.

La seconda riguarda il Governo e la sua politica: noi non possiamo che essere contrari.

CIANCA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Con questo voto si conclude un dibattito, in cui ogni partito, ogni gruppo ha chiarito la propria posizione ed ha assunto la propria responsabilità.

Le riserve, le preoccupazioni, le critiche, che gli oratori del gruppo autonomista, nel cui nome ho l’onore di parlare, hanno enunciate sulla composizione del Governo e sulle insufficienze del suo programma, critiche e riserve cui coerentemente seguirà una seria e franca opposizione democratica, devono essere da noi confermate in questa sede.

Peraltro, dato il momento politico attuale, data la situazione delicatissima internazionale, che impone, come è stato detto, ad ogni formazione politica responsabile, il dovere di non ostacolare né indebolire il Governo nell’azione di difesa degli interessi legittimi del nostro Paese, noi ci rifiutiamo di votare contro il primo Governo della Repubblica, soprattutto in considerazione del fatto che in questo Governo sono espresse forze popolari, con le quali abbiamo lavorato e combattuto per l’avvento della libertà.

In conclusione noi voteremo con fermissima coscienza la prima parte dell’ordine del giorno, che porta il nome del collega Molè.

Per la seconda parte ci asterremo, ma la nostra astensione non esclude, anzi implica, la nostra piena leale collaborazione nell’eventualità che le libertà democratiche e repubblicane venissero comunque minacciate. (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Pongo ai voti, per alzata e seduta, la prima parte dell’ordine del giorno Molè, di cui do nuovamente lettura:

«L’Assemblea Costituente, libera e sovrana espressione di tutto il popolo italiano;

riafferma la inscindibile unità della Patria nella sua gente e nei suoi confini;

invita il Governo a perseverare tenacemente nella difesa del buon diritto dell’Italia a una pace giusta e onorevole che possa avviare il Paese alla rinascita interna e alla cooperazione internazionale;

e invita il Presidente dell’Assemblea a rendersi interprete di tale unanime sentimento della Costituente presso le Assemblee delle Nazioni unite ed associate».

(È approvata all’unanimità – Vivissimi generali, prolungati applausi – Dall’Assemblea sorta in piedi si grida: Viva l’Italia!).

Procediamo ora alla votazione nominale sulla seconda parte dell’ordine del giorno Molè:

«approva le dichiarazioni del Governo e passa all’ordine del giorno».

Chi approva questa seconda parte dell’ordine del giorno Molè risponderà ; chi non l’approva risponderà no.

Estraggo a sorte il nome del Deputato dal quale comincerà la chiama. Esso è: Vilardi.

Si faccia la chiama.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

CHIEFFI, Segretario, fa la chiama.

Rispondono sì:

Adonnino – Aldisio – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Basso – Battisti –     Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bennani – Benvenuti – Bernamonti – Bernardi – Bernini Ferdinando – Bertola – Bertone – Biagioni – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Braschi – Bruni – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Cairo – Caldera – Calosso – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Carbonari – Carboni – Carignani – Carmagnola – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Cassiani – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Ciccolungo – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Conti – Coppi Alessandro – Corassori – Corazzin – Corbi – Corsanego – Corsi – Cosattini – Costa – Cotellessa – Cremaschi.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dì Giovanni – Di Vittorio – D’Onofrio – Dossetti – Dugoni.

Ermini.

Fabriani – Facchinetti – Falchi – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Fietta – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grandi – Grazia Verenin – Grilli – Grisolia – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi CingoIani Angela Maria – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Nilde.

Jacini – Jervolino.

Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Lizier – Lombardi Giovanni – Lombardo Matteo Ivan – Longhena – Longo – Lozza – Luisetti – Lupis.

Macrelli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Mariani Enrico – Martinelli – Martino Enrico – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mattarella – Mattei Teresa – Mazzei – Mazzoni – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morini – Moro – Mortati – Motolese – Mùrdaca – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Negro – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Oro – Noce Teresa – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pacciardi – Pallastrelli – Paolucci – Parri – Pasqualino Vassallo – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pellizzari – Pera – Perassi – Perlingieri – Persico – Pertini Sandro – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Ponticelli – Pratolongo – Pressinotti – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Rapelli – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodinò Ugo – Roselli – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Segala – Segni – Sereni – Silipo – Simonini – Spataro – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Terracini – Terranova – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Treves – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vernocchi – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Villani – Vinciguerra – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zannerini – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Rispondono no:

Abozzi.

Badini Confalonieri – Bencivenga – Benedetti – Bergamini – Bonino – Bozzi – Buonocore.

Cannizzo – Capua – Caroleo – Cifaldi – Colitto – Colonna – Condorelli – Coppa Ezio – Cortese – Covelli – Crispo.

De Falco.

Fabbri – Finocchiaro Aprile – Fresa – Fusco.

Giannini – Grassi.

Labriola – La Gravinese Nicola – Lucifero.

Marinaro – Martino Gaetano – Mastrojanni – Miccolis – Morelli Renato.

Nitti.

Patricolo – Patrissi – Penna Ottavia – Perrone Capano – Perugi – Puoti.

Quintieri Quinto.

Reale Vito – Rodi – Rodinò Mario – Russo Perez.

Selvaggi.

Tieri Vincenzo – Trulli – Tumminelli.

Vallone – Villardi – Visocchi.

Si astengono:

Bordon.

Cianca – Codignola.

Foa.

Lussu.

Schiavetti.

Valiani.

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione:

Presenti                449

Astenuti                   7

Votanti                 442

Hanno risposta   389

Hanno risposta no   53

(L’Assemblea approva la seconda parte dell’ordine del giorno Molè).

 

Rimangono gli ordini del giorno Russo Perez, Canevari, Caroleo, Gallico Spano Nadia, Cortese e Benedetti.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, per gli affari esteri. Dichiaro di accettare come raccomandazione gli ordini del giorno Russo Perez, Canevari, Caroleo, e Gallico Spano Nadia.

(Gli onorevoli Russo Perez, Canevari, Caroleo, Gallico Spano Nadia dichiarano di trasformare i loro ordini del giorno in raccomandazione).

CORTESE. Ritiro il mio ordine del giorno, tenuto conto che il mio gruppo ha avuto modo di prendere posizione sulla seconda parte dell’ordine del giorno votato.

BENEDETTI. Il mio ordine del giorno è stato oggetto di una specie di appropriazione indebita, mediante la quale è trasferito, mutilato, nell’ordine del giorno Molè-Persico già approvato dall’Assemblea, Non mi resta altro, quindi, che subire l’appropriazione indebita, e perciò lo ritiro. (Approvazioni a destra).

PRESIDENTE. Come la Camera ha udito, l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, non solo ha dichiarato che il Governo intende fare il più largo uso della facoltà attribuitagli dall’articolo 3 del decreto legislativo 16 marzo 1946, ma ha chiesto alla Assemblea di stabilire i modi di esame per quei disegni di legge sui quali, a cagione della loro particolare importanza, essa stessa ritenga opportuno di deliberare.

Raccogliendo questo invito del Governo, convocherò al più presto la Giunta del Regolamento per determinare ì modi predetti, e sarà cura sottoporre all’Assemblea, alla prima seduta della prossima ripresa, le relative proposte, che, appena approvate dall’Assemblea medesima, entreranno in vigore.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, avendo l’onorevole Alessandro Pertini rinunciato a far parte della Commissione per la Costituzione, ho chiamato a sostituirlo l’onorevole Giovanni Lombardi.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sui provvedimenti che intende prendere perché, in ordine all’applicazione dell’amnistia, sia consentito a coloro che abbiano fatto parte delle forze di liberazione di beneficiare largamente di essa e all’uopo siano, in considerazione del loro passato, abrogati, nei loro confronti, i casi di esclusione dal beneficio del condono, di cui all’articolo 10 del decreto in esame.

«Bordon».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere – premesso che, con decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 238, fu stabilito che i trasferimenti dei professori universitari di ruolo, disposti durante il periodo fascista dal Ministro della pubblica istruzione senza il voto delle Facoltà interessate, fossero revocati, e che i professori così trasferiti venissero restituiti alla sede di origine, salvo che le Facoltà non credessero di chiedere con esplicito voto il trasferimento annullato – se non ritenga conforme a giustizia e coerente ai diritti di autonomia tradizionalmente riconosciuti nelle Facoltà universitarie, provvedere affinché tali disposizioni vengano estese anche ai casi dei professori i quali, vincitori di concorso per una determinata sede, vennero dal Governo fascista, arbitrariamente e spesso contro l’esplicito voto delle Facoltà, destinati a sede diversa da quella per la quale avevano vinto il concorso; non solo privando con ciò le Facoltà dell’esercizio del loro diritto di chiamata, ma danneggiando gli evidenti diritti dei professori di ruolo delle altre Università, ai quali veniva così prelusa la possibilità di un trasferimento spesso ambito come legittimo premio di una onesta attività di studio e di insegnamento.

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, se non ritengano ormai tempo di riprendere in considerazione e finalmente emanare i due decreti-legge con i quali venivano autorizzati i bandi di un concorso speciale per maestri e di altro per le direzioni didattiche riservati a coloro, i quali per comprovate ragioni politiche o razziali non avevano potuto partecipare a quelli banditi in periodo fascista; e che già elaborati fin dal novembre 1945, vennero accantonati a causa delle obiezioni sollevate dal Tesoro su un dettaglio non essenziale, e precisamente sulla data di decorrenza dell’anzianità da attribuire agli eventuali vincitori dei concorsi.

«Marchesi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’interno e delle finanze, per sapere se non intendano smobilitare al più presto e sopprimere la G.I. (Gioventù italiana) o E.N.A.G. (Ente nazionale assistenza gioventù) che, nel metodo e nella scarsa serietà d’organizzazione, troppo ricorda l’ex G.I.L. Gli interroganti sono d’avviso che l’assistenza potrebbe essere affidata ai patronati scolastici, e l’insegnamento della ginnastica potrebbe essere affidato (come vien fatto per le altre discipline) al Ministero della pubblica istruzione.

«Lozza, Platone, Mezzadra, Iotti Leonilde».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’assistenza post bellica, per conoscere se non intenda:

1°) aumentare le somme destinate al risarcimento dei danni provocati dai fascisti e dai tedeschi durante le azioni di guerriglia partigiana;

2°) accelerare i lavori di accertamento dei danni suddetti da parte delle commissioni prefettizie, affinché la ricostruzione degli immobili possa avvenire prima dell’inverno;

3°) iniziare detti lavori in alta montagna, perché tale zona è colpita nell’inverno prima della pianura.

«Mezzadra».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere se non si ravvisi la necessità di bandire al più presto i concorsi (tanto generali quanto speciali per reduci, partigiani, combattenti) a carattere di scuole elementari (concorsi provinciali) e di scuole medie, al fine di alleviare la disoccupazione magistrale e per dare alla scuola un corpo insegnante stabile e selezionato.

«Lozza, Platone, Iotti Leonilde».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se intende, in considerazione che gli aumenti salariali corrispondono a necessità insopprimibili ed agli aumentati costi di vita, concedere ai dipendenti dello Stato ed agli agenti ferroviari con famiglia numerosa esenzioni tributarie totali o parziali e non limitarle alle prime lire 100,000, in esecuzione dell’articolo della legge 14 giugno 1928, n. 1312, non più corrispondente alle esigenze di equità e di giustizia.

«Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della guerra, per sapere se, nello spirito di una vera giustizia sociale, il Ministero, in accordo col Ministero del tesoro, intenda affrontare e risolvere la situazione economica degli ufficiali e sottufficiali attualmente in servizio effettivo presso le forze armate, prima di tutto per una esigenza reale indilazionabile di vita materiale ed anche per tutelare la dignità della gloriosa divisa delle forze armate italiane.

«Geuna».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se e quando intenda accogliere il desiderio degli abruzzesi del circondario di Cittaducale, che il fascismo distaccò e trasferì di arbitrio ad altra regione, senza minimamente interpellare gli interessati, di ritornare in seno all’Abruzzo, così come ininterrottamente per secoli è stato. Questa volontà degli abruzzesi si è espressa in ogni occasione, ma la più sorda accoglienza si è fatta sino ad oggi a tutti i loro voti. Essendo questo un caso unico di trasferimento forzato di un territorio da una regione all’altra, al quale non si è adattata e non intende di adattarsi la popolazione interessata, l’interrogante domanda se non ritenga opportuno il Governo dare soddisfazione immediata alla volontà unanime di quella generosa popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rivera».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici, delle finanze, del lavoro e previdenza sociale e dell’agricoltura e foreste, per sapere se e quando intendano venire incontro alla popolazione di Campotosto (Aquila), messa alla disperazione ed alla fame dalla perdita del territorio coltivato a causa della istituzione del lago artificiale, che ha sommerso la conca. Questa popolazione ha domandato che le venga concesso in fitto o in enfiteusi un sufficiente territorio coltivabile a Montemaggiore, presso Roma o altrove, in cambio delle terre coltivate a Campotosto, espropriate dalla Società Terni ed ancora in gran parte non pagate. Una commissione tecnica governativa ha dato parere favorevole per l’assegnazione di quelle terre demaniali ai naturali di Campotosto. L’interrogante chiede se non creda il Governo di accettare la indicazione dei propri tecnici e di assegnare il territorio prescelto ai cittadini del comune di Campotosto prima del periodo delle semine, sollecitando il lavoro d’ufficio che si deve svolgere per tale assegnazione. (L’interrogante chiede, la risposta scritta).

«Rivera».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, sulla necessità di disporre con assoluta urgenza l’attuazione di un larghissimo programma di restaurazione forestale nella montagna friulana, al duplice scopo:

  1. a) di porre un tempestivo rimedio all’impressionante disordine delle pendici in causa dei tagli vandalici o distruttivi fatti dai nazi-fascisti e dalle orde cosacche e caucasiche ai loro ordini, nonché delle devastazioni conseguenti alla mancata polizia forestale degli ultimi anni;
  2. b) di offrire in tal modo la possibilità di un largo assorbimento della mano d’opera disponibile in una zona sovrapopolata e ormai ridotta dalle spogliazioni e dalla lunga disoccupazione in uno stato di estrema miseria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se gli consti che a Bergamo, in conseguenza della inopinata assoluzione dell’ex Ministro della giustizia fascista Pietro Pisenti, avvenuta perché i fatti rubricati non costituirebbero reato, tutti i partiti antifascisti, dal comunista al liberale, partigiani e combattenti compresi, avrebbero proceduto ad una vivacissima protesta e se gli constino i seguenti fatti specifici:

1°) che dei cinque magistrati proposti dal Pisenti a consiglieri di cassazione, quattro ricusarono di essere giudici al processo, mentre il quinto, tale consigliere Artina, attuale presidente della Corte d’assise speciale accettò e condusse il processo, dando tale un tono di deferenza al Pisenti, da stupire indistintamente tutti;

2°) che nel fascicolo di causa del prevenuto giudicabile, vennero a mancare i due noti bandi del febbraio-aprile 1944, in cui per i renitenti alla leva repubblichina veniva comminata la fucilazione sulle soglie di casa, documenti personalmente recapitati alla Corte d’assise speciale di Bergamo dall’avvocato Fumagalli;

3°) che l’accusatore Sigurandi, pur sapendo che Pisenti era uno dei firmatari di leggi di morte a patrioti e partigiani, anziché pronunciare una requisitoria, si limitò a tessere nei confronti del Pisenti uno sperticato elogio tra lo stupore dei presenti e la indignazione di madri e vedove dei caduti per la liberazione del suolo della Patria. In caso affermativo quali provvedimenti intendonsi adottare. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Caprani».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), sui provvedimenti che si intendano prendere per combattere efficacemente la malaria nel Polesine e ciò in modo sistematico ed efficace. L’U.N.R.R.A. deve fornire materiale opportuno allo scopo. Si chiede di conoscere quale riparto sia stato fatto di tale materiale e quale assegnazione alla provincia di Rovigo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Umberto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sulla urgente necessità che sia ripristinato ad Este il tribunale che, soppresso nel 1922, mentre per il lavoro svolto, per la vasta circoscrizione territoriale e per l’interesse delle popolazioni, meritava di essere conservato anche in omaggio alla tradizione storica e culturale ed alla importanza della città di Este. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Merlin Umberto, Guariento».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere:

  1. a) se è vero che è in corso un provvedimento legislativo, relativo al ripristino della legge 26 dicembre 1909, n. 805, sull’insegnamento e gli insegnanti di educazione fisica, col conseguente inquadramento degli insegnanti stessi nel ruolo del Ministero della pubblica istruzione (gruppo A, ruolo b) a completa parità di condizioni con altri docenti;
  2. b) se è vero che egli intende demandare alla ricostituenda Commissione centrale lo studio della revisione delle leggi e dei regolamenti della educazione fisica nell’ambito della scuola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere:

  1. a) se intende emettere un provvedimento legislativo, tendente a definire la posizione giuridica degli insegnanti elementari non di ruolo, incaricati nei corsi governativi di avviamento;
  2. b) ed, in particolare, se intende disporre che l’attività da essi prestata sia equiparata a tutti gli effetti, ed anche per l’eventuale inquadramento nei ruoli per anzianità, al servizio espletato nelle scuole elementari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri degli affari esteri e dell’assistenza post bellica, per conoscere se e quali pratiche siano state espletate per accertare se – come sembra debba ritenersi – nella zona della Germania occupata dalle Armate russe, si trovino tuttora cittadini italiani già internati in campi di concentramento tedeschi, ed in caso affermativo quali pratiche si intendano espletare per ottenere la loro liberazione ed il rimpatrio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canevari, Gullo Rocco, Stampacchia».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per conoscere:

1°) quali provvedimenti abbia disposto nei confronti delle autorità che con il loro metodico disinteresse verso le esigenze alimentari irrinunciabili della popolazione di Vasto, hanno create le condizioni obbiettive per lo sciopero generale che, ad iniziativa di tutti i partiti rappresentati in quella Camera del lavoro (repubblicani, democratici cristiani, socialisti, comunisti) è scoppiato in quella città il giorno 5 luglio con strascico nei giorni successivi ed incresciosi incidenti;

2°) se, avendone avuto conoscenza, abbia riprovato l’iniziativa delle stesse autorità di procedere ad arresti a «rastrellamento», senza preventivi accertamenti di responsabilità, in offesa ai principî elementari dell’inviolabilità personale ed esclusivamente fra gli aderenti od i supposti aderenti di alcuni partiti;

3°) se, appurati i fatti, non ritenga di provocare sanzioni a carico del tenente dei carabinieri di Vasto, il quale, nell’esecuzione di tali immotivati arresti, non si è peritato di farsi coadiuvare da elementi civili – notoriamente fascisti faziosi e collaboratori col tedesco – da lui, per l’incombenza, forniti di armi pubblicamente e provocatoriamente esibite;

4°) se, a riportare tranquillità nella città ancora turbata, non consideri opportuna e saggia cosa sollecitare la scarcerazione degli arrestati a cui carico non siano ancora state appurate colpe specifiche o quanto meno la loro denuncia a piede libero, salvo alla Magistratura la emanazione di più severi provvedimenti cautelativi. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Terracini, Corbi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle poste e telecomunicazioni, per sapere se non ritenga opportuno sospendere il progettato licenziamento di personale fuori ruolo assunto dopo il 30 giugno 1940, e ciò in considerazione:

  1. a) del nocumento che avrebbe l’Amministrazione privandosi di elementi impratichitisi e divenuti ormai provetti dopo oltre sei anni di esperienza;
  2. b) del riguardo dovuto a dipendenti che hanno prestato servizio durante la guerra, in condizioni sempre assai dure e spesso pericolose;
  3. c) del fatto che è stata nominata un’apposita commissione ministeriale per il problema del licenziamento del personale fuori ruolo;
  4. d) dell’affidamento dato alle organizzazioni sindacali, in ordine alla sistemazione di detto personale.

«Per sapere, inoltre, se non ritenga di dover procedere a una nuova assunzione di reduci disoccupati, mediante l’eliminazione, o riduzione, degli straordinari, cottimi, tantièmes, praticati largamente in tutti i principali uffici. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Rossi Paolo, Cartia, Gullo Rocco, Vigorelli, Musotto, Zappelli, Battisti, Canevari, Canepa».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Essendo esaurito l’ordine del giorno, l’Assemblea sarà convocata a domicilio.

La seduta termina alle 20.50.

MERCOLEDÌ 24 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 24 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                              

Verifica di poteri:

Presidenti                                                                                               

Sostituzione di Deputati dimissionari:

Presidente                                                                                              

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni:

Presidente                                                                                              

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Togliatti                                                                                                

Selvaggi                                                                                                 

Caso                                                                                                        

Gronchi                                                                                                  

Pacciardi                                                                                                

Interrogazioni e interpellanza (Annuncio):

Presidente                                                                                              

Chieffi, Segretario                                                                                   

La seduta comincia alle 16.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che la onorevole Signora Ottavia Penna e l’onorevole Giovanni Ponti hanno rassegnato le dimissioni da componenti della Commissione per la Costituzione.

A sostituirli ho chiamato, rispettivamente, l’onorevole Gennaro Patricolo e l’onorevole Giovanni Uberti.

Comunico anche che la Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha proceduto alla elezione di un Vicepresidente, nominando l’onorevole Grieco Ruggero in sostituzione dell’onorevole Velio Spano, decaduto per la nomina a Sottosegretario di Stato.

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha verificato non essere contestabile l’elezione del Deputato Uberto Bonino per la circoscrizione di Catania, Messina, Siracusa, Enna (XXIX) e, concorrendo nell’eletto le qualità richieste dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.

Analogamente la Giunta ha verificato non essere contestabili e ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti Deputati per la circoscrizione di Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì (XIII): Montagnana Rita, Colombi Arturo, Dozza Giuseppe, Bosi Ilio, Cavallari Vincenzo, Boldrini Arrigo, Bucci Quinto, Landi Romolo, Ricci Giuseppe, Pacciardi Randolfo, Macrelli Cino, Zanardi Francesco, Preti Luigi, Taddia Gherardo, Villani Ezio, Longhena Mario, Tega Renato, Grazia Verenin, Gronchi Giovanni, Manzini Pierraimondo, Braschi Giovanni, Zaccagnini Benigno.

Do atto alla Giunta di queste sue comunicazioni e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Sostituzione di Deputati dimissionari.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dimissioni del Deputato Giuseppe Alberti, accettate ieri dalla Camera e, a termini dell’articolo 64 del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, ha accertato che nella stessa lista gli segue immediatamente il candidato Zagari Mario, del quale propone la proclamazione.

Pongo ai voti questa proposta.

(È approvata).

S’intende che da oggi decorre il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali reclami.

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dichiarazioni di opzione fatte da Deputati convalidati eletti in più collegi e, per le Circoscrizioni cui essi hanno rinunziato, ha proceduto all’accertamento dei candidati subentranti, proponendone la proclamazione.

Al Deputato Lelio Basso, che ha optato per la circoscrizione di Como, subentra per la circoscrizione di Milano (IV) il candidato Pistoia Umberto.

Al Deputato Piero Mentasti, che ha optato per la circoscrizione di Venezia, subentra per la circoscrizione di Brescia-Bergamo (VI) la candidata Bianchini Laura.

Al Deputato Randolfo Pacciardi, che ha optato per la circoscrizione di Pisa, subentra per la circoscrizione di Bologna (XIII) il candidato Spallicci Aldo.

Al Deputato Giovanni Gronchi che ha optato per la circoscrizione di Pisa, subentra per la circoscrizione di Bologna (XIII) il candidato Salizzoni Angelo.

Al Deputato Andrea Finocchiaro Aprile, che ha optato per la circoscrizione di Palermo, subentra per la circoscrizione di Catania (XXIX) il candidato Castrogiovanni Attilio.

Pongo ai voti queste proposte.

(Sono approvate).

S’intende che da oggi decorre, nei riguardi dei nuovi proclamati, il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È inscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi. Ho seguito con attenzione la discussione che si è svolta in questa assemblea sulle dichiarazioni fatte a nome del Governo dall’onorevole Presidente del Consiglio, discussione la quale, se non erro, dura ormai da più di otto giorni e nel corso della quale molte cose interessanti ed utili c’è accaduto di udire, alcune di carattere autobiografico, come quelle che ci ha dette l’onorevole Nitti, altre che hanno rappresentato una specie di contributo a nuove elaborazioni dottrinarie da parte di uomini, a cui in verità non si può negare, di aver sempre posseduto in questo campo una fecondità e versatilità che sono potute sembrare persino eccessive, altre che hanno affrontato questioni tecniche non direttamente legate al programma che si tratta di esaminare.

Debbo dire che nel complesso e soprattutto per rispetto ad alcune manifestazioni oratorie che si sono avute nel corso della discussione, non escludo che alcuni di noi possano aver sentito la nostalgia del metodo a cui accennava il vecchio parlamentare, il quale diceva che nelle discussioni al Parlamento si alzava quando aveva qualche cosa da dire sull’argomento, la diceva e poi si sedeva. Se tutti avessero fatto così molto tempo avremmo risparmiato.

Ma questo è un difetto forse di forma più che di sostanza. Nella sostanza, mi permettano gli onorevoli colleghi di osservare che non si può sfuggire all’impressione che vi sia pur stato un difetto in questa nostra discussione, difetto tale per cui non so se il Paese potrà essere effettivamente soddisfatto del modo come si è svolto questo primo grande dibattito nell’Assemblea Costituente eletta di 2 giugno dai cittadini italiani.

Perché il fatto è, signori, che noi siamo la prima Assemblea rappresentativa liberamente eletta in Italia a suffragio universale, dopo più di venti anni di un regime di tirannide e di soppressione di ogni libertà.

Questa tribuna dalla quale noi parliamo è la più alta tribuna dalla quale si possa parlare al popolo italiano, ed in nome del popolo italiano anche agli altri popoli. Abbiamo riconquistata questa tribuna con una lotta che abbiamo combattuta tutti o quasi tutti assieme, alla quale abbiamo chiamato a partecipare tutto in popolo italiano; ed è quindi naturale che oggi il popolo, riconquistatasi la libertà, guardi a questa tribuna con particolare passione e attenda che da essa si dicano parole le quali abbiano un peso per lo sviluppo della vita politica della Nazione.

Ma il popolo guarda a noi anche per altri due motivi che immediatamente soccorrono alla mente di ciascuno di noi: perché siamo la prima Assemblea repubblicana nazionale italiana e perché siamo l’Assemblea Costituente. A questi nomi di Repubblica e di Costituente – e voi amici repubblicani per ragioni storiche particolari lo sentite forse meglio e più di tutti noi – è legata una grande tradizione, è legata una grande attesa, una grande speranza di tutto il popolo italiano: la speranza di avere finalmente un’Assemblea la quale si accinga, in relazione coi bisogni e con le aspirazioni espresse dal popolo intiero, ad un’opera di profondo rinnovamento della vita politica, economica, sociale della Nazione.

A questa attesa dobbiamo corrispondere dimostrando, per lo meno, che la nostra attenzione aderisce alle esigenze fondamentali di vita dei lavoratori italiani nel momento presente, che essa si china sui problemi che oggi non solo preoccupano, ma angustiano tutti gli italiani, tutta la Nazione che noi qui rappresentiamo.

D’altra parte comprendo che lo scopo di questa discussione è limitato. L’onorevole Presidente del Consiglio ci ha letto, a nome del Governo, le sue dichiarazioni e il programma del Governo; egli ci chiede o ci chiederà un voto di fiducia, anche se la legge costitutiva di questa Assemblea formalmente non lo impegna a chiederlo, e noi a questa richiesta di voto di fiducia, quando essa sarà fatta, risponderemo affermativamente. Daremo la nostra fiducia a questo Governo prima di tutto perché vi partecipiamo, e vi partecipiamo in gran parte per i motivi stessi che sono stati esposti ieri qui dal collega Lombardo a nome del Partito socialista, motivi che condividiamo per convinzione, e condividiamo anche per il patto di unità di azione che ci unisce al Partito socialista. Ma daremo la nostra fiducia al Governo, oltre che per queste ragioni generali, perché abbiamo attivamente lavorato all’elaborazione del suo programma e perché vogliamo dare tutto il contributo che sta in noi e che dipende dalle nostre forze alla realizzazione di esso. Pensiamo infatti che alla realizzazione di questo programma, nelle sue linee fondamentali e nei suoi particolari, sono legate non soltanto le sorti di questo Governo, non soltanto di questa o quella maggioranza nell’Assemblea, ma sono legate la stabilità del regime democratico e il consolidamento del regime repubblicano: stabilità democratica e consolidamento della Repubblica che sono obiettivi fondamentali dell’azione politica del nostro Partito nel momento presente.

Ricevere la fiducia dell’Assemblea mi pare, del resto, che non sia un compito molto difficile per questo Governo. Forse, anzi è questo il più facile dei compiti che stanno davanti all’onorevole Presidente del Consiglio, e ciò deriva dal fatto che il Governo riflette, in sostanza, la composizione dell’Assemblea, e non poteva non rifletterla; è un organismo tessuto sopra le posizioni che i partiti si sono conquistate nel Paese, attraverso la consultazione elettorale, e che costituiscono, e nell’Assemblea e nel Paese, il canovaccio sul quale bisogna e bisognerà tessere per costituire un Governo, capace di vivere, capace di lavorare, capace di dirigere tutta la attività di ricostruzione del Paese. Ed è vano protestare perché la costituzione del Governo aderisca troppo strettamente e rigidamente allo schieramento dei partiti, e in particolare di quattro partiti, di cui tre di massa, che siedono con i loro rappresentanti in questa Assemblea. Questa è la realtà della nostra vita politica di oggi e ad essa non si può sfuggire.

Ho sentito l’onorevole Nitti ricordare con rammarico i tempi nei quali la vita politica d’Italia e l’Assemblea parlamentare stessa erano costituite in un altro modo, e organizzate sulla base di personalità marcate e di gruppi – allora i maligni dicevano di clientele – che si raccoglievano attorno a loro. Ho la impressione che quei tempi non torneranno mai più, che sempre più ci si staccherà da quel tipo di organizzazione politica, avviandoci a un tipo di organizzazione nel quale i grandi partiti, sulla base di idee, di programmi e di disciplina, saranno la forza fondamentale del Paese. Questa, del resto, è una necessità della democrazia, quando si esce dall’ambito della piccola, diciamo pure, oligarchica cerchia delle poche centinaia di migliaia di elettori scelti secondo il censo, e si fanno scendere in campo con la scheda del voto 25 milioni di uomini e donne, di tutte le età e di tutte le professioni sociali. È indispensabile che i partiti intervengano per organizzare, disciplinare, dirigere anche, queste forze.

I partiti sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più. Tanto è vero che quando qualcuno è sorto per maledire i partiti, egli ha finito per organizzare il partito dei senza partito.

D’altra parte mi si permetta di osservare che questi grandi partiti non sono soltanto una necessità della vita nazionale e della democrazia; che la loro esistenza è una fortuna per il nostro Paese. Queste grandi formazioni unitarie, infatti, che raccolgono masse di lavoratori di tutte le regioni, i cui dirigenti possono indifferentemente raccogliere le votazioni che hanno ottenuto a Napoli o a Trento, a Palermo o a Torino, a Roma o a Milano, sono una garanzia che l’unità del nostro Paese non andrà perduta, che fra i tanti beni che possiamo aver perduto e che forse potremo perdere ancora, questo non lo perderemo mai.

Ho sentito l’onorevole Nitti affermare essere egli l’ultimo credente fanatico della unità. Mi permetto di fargli osservare che vi sono anche dei credenti nuovi, e fanatici pure, dell’unità del nostro Paese. Tali siamo noi. L’unità materiale e morale della Nazione italiana, conquistata attraverso lotte di secoli, è un bene che vogliamo e sapremo difendere, al di sopra di ogni altra cosa.

Ma non solo sono necessari i partiti. È necessaria la loro collaborazione; è necessaria la loro unità; è necessaria – se scendiamo sul terreno parlamentare e governativo – la coalizione dei partiti per formare il Governo. Perché nessun partito, oggi, qualunque esso sia, può affermare di possedere le qualità e le capacità di reggere da solo le sorti del Paese.

Per questo, lascio da parte le considerazioni che si potrebbero ancora fare sul modo come si è venuti alla composizione di questo Governo, e sulla differente ripartizione dei posti di maggiore o minore importanza in seno ad esso. Fra tutte le considerazioni che si potrebbero fare a questo proposito desidero ritenerne solo una.

Vi sono in questa Assemblea due blocchi di forze: un blocco democristiano e un blocco socialista e comunista. Relativamente, il blocco socialista e comunista è prevalente per numero di suffragi raccolti nelle elezioni e per rappresentanti al Parlamento. Però, pur essendo il blocco democristiano un blocco politicamente e socialmente eterogeneo e pur essendo il blocco socialista e comunista un blocco più omogeneo, sia politicamente che socialmente, del blocco democristiano, è avvenuto che il secondo blocco si è presentato, in questa occasione come in altre occasioni, meno unito, meno compatto dell’altro. Di qui la conseguenza della sua debolezza nella compagine governativa. Il Governo rimane però, nonostante questa debolezza, un Governo di coalizione.

Richiamandomi a quanto ho detto sulla necessità della collaborazione dei partiti e sulla impossibilità per un solo partito di rivendicare da solo la direzione della vita politica nazionale, desidero fare in relazione a ciò un semplice avvertimento al nostro collega Presidente del Consiglio. Il suo Governo sarà tanto più vitale e riuscirà a lavorare tanto meglio, quanto più esso si presenterà e funzionerà non come un Governo del partito democristiano con appendici più o meno considerevoli provenienti da altri gruppi politici, ma quanto più saprà presentarsi e lavorare come Governo di coalizione. È questa una necessità non soltanto parlamentare, ma di politica generale.

Siamo quindi portati a parlare del programma del Governo, base inevitabile, necessaria, di ogni coalizione politica, la quale voglia presentarsi come una formazione seria e mettersi in grado di svolgere un serio lavoro.

E prima di tutto alcune parole sulle questioni di politica estera; cioè sui problemi che si riferiscono alla posizione internazionale che il nostro Paese occupa oggi in Europa e nel mondo.

Sono state elevate qui voci di protesta. Sono risuonati accenti di sdegno e di dolore per le condizioni in cui ancora si trova l’Italia e per le condizioni che noi possiamo prevedere che per un certo periodo di tempo ci saranno fatte. 

Addolorati, lo siamo tutti. Chi potrebbe non sentir dolore al vedere il proprio paese, che fu già una delle grandi potenze europee, e che dovrà tornare ad esserlo, ridotto alle condizioni in cui l’Italia è stata ridotta dal fascismo, dalla politica reazionaria, nazionalistica, imperialistica delle classi dirigenti che per più di venti anni tennero il potere e fecero quello che vollero, escludendo il popolo da ogni partecipazione alla vita politica?

Addolorati, lo ripeto, lo siamo tutti. Non c’impedisca però questo dolore di essere uomini politici e non c’impedisca di essere uomini di ragione, altrimenti potrebbero, dalle manifestazioni stesse del nostro dolore, sorgere pericoli politici gravi, sia per il presente che per il futuro.

La realtà è che stiamo liquidando una dura eredità, l’eredità del nazionalismo e dei fascismo. È giusto che ci sforziamo di liquidare questa eredità nelle condizioni più favorevoli per il popolo italiano. Ma d’altra parte, permettetemi, come uomo politico e come uomo di ragione, di ricordare a tutti voi che non si rompe mai la continuità della vita di un Paese.

Quando a Napoli, nel 1944, abbiamo detto: – Sì, siamo disposti ad assumerci la responsabilità della direzione della vita nazionale e di partecipare, noi, partito tradizionale dell’opposizione, al Governo stesso – quando abbiamo detto questo sapevamo che questa eredità esisteva. Lo sapevamo, e pur sapendolo ci siano addossati la responsabilità di entrare nel Governo del Paese. Ancora oggi crediamo di aver fatto bene, di aver servito non soltanto la causa del nostro partito, ma la causa della Nazione.

La. continuità della vita nazionale non si rompe mai. La Restaurazione pagò i danni, in maggiore o minor misura, dell’espansionismo napoleonico; i bolscevichi pagarono per lo zarismo firmando le paci di Brest Litovski e di Riga.

Non dico questo per giustificare anticipatamente questo o quell’atteggiamento di politica estera, questa o quella posizione che possano prendere i nostri rappresentanti nelle prossime consultazioni internazionali. Lo dico unicamente per ricordare a tutti e soprattutto ai democratici, che sono in maggioranza in questa assemblea, quale è la direzione nella quale dobbiamo indirizzare il colpo della nostra critica, e dirigere l’espressione del nostro dolore, della nostra angoscia, del nostro rancore, per le condizioni cui è stata ridotta l’Italia, allo scopo di evitare che dalle espressioni di un legittimo e giustificato dolore si passi al disfattismo nazionale, si passi ad agitare nel popolo passioni e ad assumere posizioni le quali corrispondono più o meno esattamente a quelle che vedemmo assumere dalle correnti nazionalistiche venti anni fa e dalle quali sappiamo che doveva nascere e che nacque il fascismo.

Ecco, per fare un esempio concreto, un giornale che mi è testé arrivato e che si pubblica in Italia legalmente, col nome della tipografia, la firma del responsabile. Il titolo di prima pagina di questo giornale, su sei colonne, dice: «Quattro criminali di guerra». Chi sono questi «quattro criminali di guerra»? Sono i quattro uomini che dirigono le più grandi nazioni democratiche del mondo, con le quali noi dobbiamo collaborare, alle quali dobbiamo la nostra liberazione, e alle quali dobbiamo rivolgerci per la soluzione di tutti i nostri problemi. Leggiamo ora l’editoriale. Esso incomincia naturalmente con lo stesso tono e con le parole seguenti: «La sanguinosa umiliazione che i quattro gangster di Parigi…» e in questo tono continua, e termina, voi lo potete facilmente immaginare, onorevoli colleghi, come termina, con l’esaltazione delle «camicie nere», le quali sarebbero state le sole che hanno fatto l’interesse d’Italia negli anni passati. (Commenti).

Ho voluto citare questo esempio perché qui in una pagina, in una sola pagina, anzi, in una sola colonna, ho trovato le premesse e le conclusioni. Si tratta di un giornaluccio, è vero, ma si tratta di espressioni che vediamo diffondere e diffondersi nel Paese e che non possono essere altro che esiziali per esso, preparando le condizioni di una catastrofe della nostra democrazia.

Si è detto che i nostri morti, i morti gloriosi che voi, compagni partigiani, avete lasciato là, sulle Alpi, nelle campagne, sulle piazze e nelle strade delle città che avete riconquistato con la vostra lotta, si è detto che questi morti sarebbero morti invano. No, colleghi, no, non sono morti invano. E non sono morti invano non soltanto per il motivo ideale per cui chiunque muore per una idea non muore mai invano, perché afferma morendo l’idea per cui è vissuto, ma per motivi di politica concreta, perché essi hanno conquistato all’Italia qualche cosa, ci hanno conquistato la libertà, ci hanno conquistato questa Assemblea repubblicana, questa tribuna dalla quale ora parliamo (Vivi applausi a sinistra ed al centro); ci hanno conquistato fra l’altro – e bisogna pure dirlo e riconoscerlo – hanno conquistato all’Italia una condizione che è profondamente diversa da quella in cui si trova la Germania e in cui noi pure ci saremmo trovati se non ci fosse stata la lotta liberatrice del nostro popolo e il sacrificio dei nostri morti. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Vero è che l’iniziativa della lotta di liberazione, soprattutto in quelle regioni che più a lungo hanno sofferto sotto il giogo dell’invasione tedesca e del tradimento fascista, l’iniziativa della lotta di liberazione fu di popolo e non di Stato. Essa ebbe inoltre una impronta particolare, politica, che le venne da un programma di rinnovamento del Paese, non solo nazionale, ma anche sociale. Da quella iniziativa e da quella lotta doveva sorgere il movimento dei Comitati di liberazione, movimento il quale aveva il suo programma e lottò per realizzarlo, ma noi sappiamo attraverso quali difficoltà, superando quali resistenze.

È vero, colleghi, sono venuti in questa Assemblea in stragrande maggioranza rappresentanti di quei partiti i quali dall’inizio alla fine sinceramente vollero i Comitati di liberazione, militarono in essi, riconobbero che quella era la via maestra per la riorganizzazione della vita nazionale. Coloro invece i quali condussero le campagne che voi ricordate, di denigrazione e di disgregazione del movimento dei Comitati di liberazione, non li vedo in misura notevole in quest’aula. Non vedo l’avvocato Cattani che condusse contro i Comitati di liberazione quelle lotte memorabili! Mi hanno detto che avrebbe raccolto duemila voti in un solo Collegio d’Italia: pochi di fronte a una massa di 25 milioni di elettori; il che vuol dire che il popolo italiano ha riconosciuto quale era la via giusta: e in ciò è la risposta implicita alle critiche che qui ancora abbiamo sentito risonare contro la formazione politica che fu alla testa del Governo e della Nazione sino al 2 giugno, sino alla convocazione dell’Assemblea Costituente.

Ho aperto questa parentesi partendo dalla constatazione che l’iniziativa del movimento di liberazione è stata più di popolo che di Stato, per arrivare alla constatazione che non sempre le idee rinnovatrici che animarono la lotta di liberazione e soprattutto animarono i lavoratori, riuscirono a ispirare la nostra politica, ivi compresa la politica estera. Forse anche in questo è da ricercare uno dei motivi per cui le carte mancarono a un certo momento nelle mani di chi doveva giocarle.

Ma qui si apre un altro capitolo: quello delle possibili critiche alla nostra politica estera. Voi sapete che determinate critiche le abbiamo formulate ed espresse, con le cautele, con le riserve che la nostra responsabilità ci imponeva. Ritengo non sia ancora questo il momento, né la sede opportuna per sviluppare a fondo le nostre critiche, perché lo stesso senso di responsabilità ancora ci trattiene. Desidero però sottolineare e sviluppare davanti a voi, se mi permettete, alcuni punti, e prima di tutto desidero ripetere ancora una volta – e chiamo a testimoni i colleghi che furono con me, nei precedenti Ministeri – che noi non abbiamo mai manifestato dissensi sugli obiettivi della nostra politica estera; non abbiamo nemmeno mai avanzato subordinate a questi obiettivi. Ho sentito, ho letto che oggi si incominciano ad avanzare determinate subordinate: vuol dire che si incomincia a fare una politica, In fondo il pregio di una politica estera sta proprio nel sapere in un momento determinato, ma giusto – non quando le questioni sono già risolte – avanzare quelle determinate subordinate che possono servire a migliorare tutto lo schieramento degli altri a nostro favore e soprattutto a spostare a nostro favore le forze decisive. Non desidero oggi però discutere di queste possibili subordinate: abbiamo una Commissione degli Affari esteri, ed in essa, se sarà necessario, discuteremo più a fondo.

Desidero soltanto ricordare che se c’è stato da parte nostra un dissenso, questo è stato prima di tutto nella graduazione dell’importanza relativa degli obiettivi della nostra politica estera. Al di sopra di tutto, al di sopra di qualsiasi rivendicazione particolare, noi poniamo oggi due beni fondamentali che debbono essere rivendicati, riconquistati e difesi ad ogni costo: essi sono la indipendenza del Paese e la pace per il popolo italiano. (Applausi a sinistra).

Siamo d’accordo con l’onorevole Lombardo, quando afferma che per difendere l’indipendenza italiana, il metodo da seguire è quello di non far aderire, di non legare l’Italia a nessuno dei blocchi che sembrano opporsi nel mondo e di cui tanto si parla.

Senza alcun fondamento è la critica che ci si fa, che noi avremmo proposto che il nostro Paese aderisse ad un così detto e non so in quale misura esistente blocco orientale. Non abbiamo mai fatto proposte simili, bensì abbiamo chiesto che verso l’Unione Sovietica – il più grande degli Stati continentali europei, la più grande potenza industriale e agricola d’Europa, lo Stato che noi sappiamo aver dato il contributo più grande nella lotta terrestre, per la nostra salvezza e che è inoltre, uno Stato socialista – venisse usata la stessa cordialità, e venissero prese nei suoi confronti le stesse iniziative politiche che venivano prese nei confronti di tutte le altre grandi Potenze. Nessun servilismo verso gli uni; la stessa condotta sia verso gli uni che verso gli altri. Questo è ciò che abbiamo sempre richiesto, questa è la politica estera che abbiamo rivendicato.

Ma invece abbiamo visto dilagare nella stampa italiana una campagna sfrenata di ingiurie, di calunnie e di provocazioni contro l’Unione sovietica. La nostra stampa qui a Roma è diventata in un certo momento la stampa che sta all’avanguardia, credo, in tutto il mondo, nelle campagne di calunnie, di discredito, di provocazioni contro l’Unione dei Soviet. (Commenti).

Voi sapete a quali giornali mi riferisco, a quali campagne mi riferisco. Queste campagne non potevano non compromettere il nostro Paese. Penso vi fosse effettivamente qualcuno che faceva apposta a orientare e dirigere in questo modo la stampa italiana, perché in questo modo non solo si avvelenava la nostra opinione pubblica, ma si danneggiavano, anzi si rendevano impossibili tutte le nostre iniziative di politica estera.

È ridicolo e vergognoso vedere ancora oggi sui nostri giornali scatenarsi le campagne contro il cosiddetto imperialismo sovietico, come se fosse l’Unione Sovietica che rivendica il dominio di un mare, che giace tra territori lontani migliaia di chilometri da una metropoli, unicamente perché attraverso questo mare, il Mediterraneo, passano certe vie di comunicazioni imperiali; come se fosse l’Unione Sovietica che possiede basi militari a 12 o 14 mila chilometri dal territorio nazionale. (Commenti).

È ridicolo vedere un giornale italiano, – di scarsa importanza, è vero, come tiratura, ma la cui importanza deriva dal suo collegamento con uomini autorevolissimi della nostra politica estera – è ridicolo vedere questo giornale mettere in discussione le frontiere nazionali e militari dell’Unione Sovietica.

Queste sono le cose che noi abbiamo detto, le cose che diciamo e ripetiamo. Tutte queste campagne, tutte queste manifestazioni non potevano non compromettere, e seriamente hanno compromesso la causa della difesa dei nostri interessi nazionali e prima di tutto della nostra indipendenza.

Noi siamo apparsi, a un certo momento, e in parte appariamo ancora, come un Paese il quale abbia già perduto per lo meno la sua indipendenza di giudizio, la sua indipendenza ideologica. Per il nostro popolo questo non era vero e non è vero. Forse era ed è vero per qualche gruppo dei suoi dirigenti.

Vogliamo, dunque, una lotta seria per la difesa e la riconquista della nostra indipendenza. La vogliamo in tutti i campi. Perciò, quando abbiamo avuto notizia dalla stampa che certi Stati tendevano, persino dopo conclusa la pace, a lasciare accampate sul nostro suolo, e per un tempo indefinito, le loro truppe, eserciti stranieri, autorizzati persino ad avere nelle loro file uomini di altre nazionalità, autorizzati a mettere un’ipoteca su tutto quello che può avere in Italia un valore militare, abbiamo levato una energica voce di protesta.

Piani simili devono essere respinti e dal nostro Governo e da questa Assemblea e da tutta l’Italia nel modo più energico, se vogliamo presentarci al mondo col viso di un Paese che è indipendente e che vuole rimanere tale. (Applausi a sinistra).

Noi non vogliamo che l’Italia diventi naviglio portaerei per conto di nessuna potenza imperialistica. Non vogliamo che l’Italia diventi un deposito di bombe atomiche, qualunque sia l’efficienza maggiore o minore di questi ordigni di bellica criminalità. Vogliamo che l’Italia sia un paese libero, autonomo politicamente ed economicamente; sappiamo che abbiamo bisogno dell’aiuto altrui, che dovremo chiederlo e che dovremo anche pagarlo, ma non vogliamo pagarlo con una rinunzia di nessun genere alla nostra indipendenza nazionale.

E dobbiamo difendere la nostra indipendenza anche nelle piccole cose, denunciando e respingendo il sopruso quotidiano nelle regioni, per esempio, dove ancora sono accampate le truppe di nazionalità polacca. (Commenti). Non esagero. È in mie mani un memoriale da me presentato a suo tempo alla Presidenza del Consiglio, il quale contiene un elenco dì atti di violenza e fatti di sangue sino ai più gravi, compiuti da militari appartenenti a queste truppe, contro libere organizzazioni democratiche italiane, contro i nostri partiti. Sia reso onore agli ufficiali e ai soldati polacchi che sono caduti combattendo insieme con noi per la libertà. Non crediamo però che questo sacrificio dia a nessuno il diritto di intervenire nella nostra politica interna con atti di violenza di tipo fascista e crediamo sia compito di un Governo che voglia difendere l’indipendenza d’Italia e condurre una politica estera nazionale chiedere che al più presto queste truppe vengano allontanate dall’Italia e non vi rimangano sotto nessun travestimento. (Commenti – Applausi a sinistra).

Secondo obiettivo fondamentale della nostra politica estera deve essere la difesa della pace; di una pace giusta e permanente. Il popolo italiano ha perduto la maggior parte dei suoi beni, delle sue ricchezze attraverso una politica di guerre imperialistiche, ingiuste, che lo hanno portato alla catastrofe. Ha bisogno di pace e la nostra politica estera gliela deve garantire. Ma, se vogliamo garantire al popolo italiano una pace permanente, dobbiamo prima di tutto soffocare nel germe ogni rinascita di nazionalismo che domani verrebbe sfruttato dagli stessi circoli imperialistici di ieri, dagli stessi reazionari, dagli stessi fascisti, per spingerci ancora una volta per la strada della guerra e della rovina; in secondo luogo non dobbiamo esasperare nessuna delle questioni concrete che ci si presentano, in modo che essa alla fine si presenti come una questione non più solubile se non con mezzi di guerra.

Ad ogni modo, per una politica la quale non garantisca l’indipendenza e la pace del nostro popolo, voi non avrete il nostro appoggio; ve lo dico apertamente, sinceramente.

Il nostro dissenso circa la politica estera dei precedenti Governi riguarda inoltre problemi importanti di metodo, sui quali dirò soltanto poche parole, limitandomi a osservare che quello che ci ha nociuto è il fatto che la nostra politica estera, in determinati momenti, sia potuta apparire come dominata da motivi ideologici o da speculazioni di carattere politico interno antidemocratico. Allo stesso modo ci ha nociuto il fatto di fondare una politica estera soltanto su delle promesse e non su una azione diplomatica concreta, seria; soprattutto poi su promesse sollecitate o date con motivi particolari del tipo che prima ho indicato e che annullavano ogni loro efficacia. In questo modo a noi esiziale si conteneva, per esempio, il nostro Ambasciatore a Washington, Tarchiani, quando lasciava pubblicare, senza smentita, una sua, spero, sedicente intervista nella quale chiedeva l’appoggio a determinate rivendicazioni italiane da parte del Governo e dell’opinione pubblica degli Stati Uniti, dicendo che questo appoggio doveva esser dato per impedire in Italia la marcia in avanti del comunismo o l’estendersi dell’influenza sovietica. (Commenti). Questo tipo di politica estera, questo tipo di raccattare promesse e di sollecitare assicurazioni con motivi di faziosità antidemocratica, è ciò che deve essere abbandonato completamente. Ciò che deve essere abbandonato, e che sopra ogni cosa può nuocerci e ci ha nociuto, è che tra le idee direttive della nostra politica estera, se mai vi sia stata – e se non vi è stata che sia apparsa – una ispirazione anticomunista. Una ispirazione anticomunista è fatale oggi ad una politica estera italiana la quale si proponga gli obiettivi essenziali della difesa dell’indipendenza e della pace.

TIERI. Trieste!

TOGLIATTI. Verrò anche a Trieste.

Una voce. Zona B.

TOGLIATTI. L’ispirazione anticomunista è stata fatale alle grandi democrazie occidentali nel periodo immediatamente precedente questa seconda guerra mondiale da cui siamo appena usciti. È stata fatale alla Francia, è stata fatale al Belgio, è stata fatale alla Cecoslovacchia, è stata fatale alla stessa Inghilterra, è stata fatale a tutto il mondo capitalistico occidentale. L’ispirazione anticomunista è stata uno degli elementi che hanno contribuito allo scatenamento della guerra mondiale, perché ha impedito che si costituisse a tempo un fronte di forze democratiche, nazionali ed internazionali, che potesse impedirla. L’ispirazione anticomunista, oggi, per il nostro Paese, può generare soltanto due cose: la perdita oggi parziale e forse domani totale della nostra indipendenza, trasformandosi il nostro Paese in terra di occupazione e in semicolonia, oppure il nostro isolamento completo.

Evitiamo, evitate voi che fate la politica estera di questo Governo, le ispirazioni anticomunistiche se volete fare una politica estera nazionale corrispondente alle aspirazioni, ai desideri, alle necessità del popolo italiano.

Sulle singole questioni concrete del trattato di pace non voglio ora entrare. So quali sono le più ardenti. So quali sono le più difficili a risolversi. So che fra queste vi è la questione di Trieste.

Continuo a ritenere – e il mio Partito ritiene – che il metodo più appropriato per la soluzione della questione di Trieste, fosse dal primo momento quello delle trattative e dell’accordo diretto con la Jugoslavia. Ritengo che nonostante in questo momento si sia arrivati a un tal punto di esasperazione dalle due parti, ancora oggi la soluzione più favorevole non la troveremo che quando riusciremo a trovare la strada di queste trattative, di questi accordi.

Quando ieri, onorevoli colleghi, ho letto sui giornali che sui cantieri dì Monfalcone, in seguito ad un conflitto ivi svoltosi tra operai e industriali, erano state issate le bandiere anglo-sassoni, questa cosa non mi ha per nulla rallegrato, perché so che i cantieri di Monfalcone sono una creazione dell’ingegno e del lavoro italiano (Commenti) e non è per nulla una consolazione per me il sapere che su di essi sia issata una bandiera inglese o americana. (Rumori – Commenti).

E lo stesso per Trieste. Il giorno che ci trovassimo di fronte al risultato di avere, come conseguenza della politica da noi seguita, installato a Trieste, come dominatori o arbitri, i rappresentanti delle potenze anglosassoni, per quanto questo possa essere una cosa conveniente, commercialmente o militarmente, per queste potenze, ritengo che non avremmo raggiunto un risultato nazionale degno di nota. Al contrario. Un risultato nazionale degno di nota lo avremo raggiunto solo il giorno in cui fossimo riusciti a Trieste a trovare una soluzione che garantisca l’accordo e la collaborazione permanente coi popoli jugoslavi.

Una voce. La trovi lei.

TOGLIATTI. Non sono il Ministro degli esteri (Commenti).

Una voce. È comodo (Rumori – Commenti).

TOGLIATTI. Ciò che dico è del resto nella tradizione di una politica nazionale italiana; di una tradizione che parte da Cavour, che continua con Visconti Venosta e con tutti i Ministri degli esteri italiani, che seppero fare una intelligente politica nazionale, infine con quella sinistra democratica, antidalmatina, antizaratina, antifiumana, la quale ebbe una parte abbastanza importante nelle lotte dell’altro dopo-guerra. Quando quella corrente scomparve, non essendo riuscita a influenzare in modo decisivo l’opinione pubblica; quando essa fu sommersa dall’ondata nazionalistica, noi sappiamo quali furono le conseguenze. Di lì nacque il fascismo.

Io mi auguro che nelle prossime conversazioni e consultazioni internazionali riesca al nostro Governo di garantire all’Italia una pace giusta, una pace che ci assicuri le migliori condizioni possibili, data la nostra situazione e il punto cui già si è arrivati, ed una pace, soprattutto, la quale soffochi, estingua i motivi di contrasto fra noi ed i popoli d’Europa e soprattutto fra noi e i popoli che confinano col nostro Paese.

E vengo alle questioni di politica interna, fra cui quelle economiche hanno preso, e non potevano non prendere, il sopravvento.

Abbiamo presentato all’inizio delle conversazioni fra i diversi partiti un programma di cui non sto a ricordare tutti i punti; perché voi li conoscete. Uno dei punti era la richiesta di un adeguamento dei salari, degli stipendi, delle pensioni, un aumento dei sussidi di disoccupazione e un’azione organica, vasta, energica per alleviare il flagello della disoccupazione. Abbiamo discusso, confrontando questo nostro programma con quelli presentati dagli altri partiti, e voi tutti conoscete le fasi della discussione. Alla fine abbiamo accolto, come misura di compromesso, la concessione del premio della Repubblica, cioè un limitato aumento salariale per un limitato periodo di tempo, in attesa che si realizzi la speranza, che noi condividiamo e a realizzare la quale vogliamo collaborare, che si riesca a ridurre il costo della vita con altri provvedimenti.

Ci si è detto: voi volete l’inflazione, dunque volete la rovina del ceto medio e di tutto il Paese. No, signori, non vogliamo l’inflazione, e respingiamo sdegnosamente questa accusa. Mi riferisco qui ancora una volta a coloro che furono colleghi con me nei passati Ministeri, perché essi attestino che noi sempre demmo, senza alcuna riserva, la nostra approvazione a tutte le misure le quali erano dirette ad evitare una inflazione. Alcune di queste misure, anzi, come per esempio il prestito lanciato dal povero collega Soleri, poco prima della liberazione del Nord, fu una misura che noi avevamo reclamato insistentemente per sei mesi, prima ancora che Soleri si decidesse a far sua la nostra proposta, perché vedevamo in essa un mezzo efficace di lotta antiinflazionistica. Sappiamo che cosa la inflazione potrebbe significare in un Paese così profondamente disorganizzato come il nostro. La inflazione non la vogliamo. Desidero aggiungere infine che se l’altro ieri il Ministro del tesoro ha potuto, in una Assemblea come questa, fare risuonare per la prima volta il termine di pareggio del bilancio ordinario, questo è il risultato di un’azione che è stata svolta da un Ministro comunista.

Le misure da noi presentate rimangono un programma concreto antiinflazionistico, un programma che tiene conto però del punto cui è arrivata la situazione economica generale, e soprattutto del punto cui è arrivato il popolo, del punto cui sono arrivate le classi lavoratrici, cioè della urgenza con cui sono sentite dai lavoratori determinate necessità, urgenza tale, per cui qualunque cosa si decida o si faccia, ad un certo momento queste necessità dovranno essere soddisfatte.

Meglio è dunque partire con una previsione larga, con una prospettiva avanzata, con un piano di misure bene organizzate, e realizzarlo, attraverso una forte direzione governativa, che non attendere passivamente che gli eventi maturino.

Il fatto è che si è arrivati a un punto, oltre il quale determinate categorie di cittadini, le più numerose, quelle degli uomini che vivono del loro lavoro, nelle fabbriche, nei campi, negli uffici, non possono più andare avanti. Siamo arrivati all’osso: con 2 milioni di disoccupati, che prendono 35 lire al giorno, e non tutti; con salari, per comune riconoscimento, inferiori, e di molto inferiori, per la maggioranza delle categorie, alla metà di ciò che è necessario per vivere; con stipendi, che nei gradi più alti vengono in certo modo integrati col sistema dei premi, ma che nei gradi medi e inferiori sono inadeguati alle necessità primordiali dell’esistenza, con pensioni che non è retorico dire che bastano solo a non morire di fame, perché vi è in Italia gente che già muore di fame.

Siamo arrivati a un punto tale, che un Governo, il quale sia un Governo nazionale, che si preoccupi degli interessi permanenti della Nazione e non degli interessi di una sola categoria di cittadini privilegiati, deve porsi il problema della integrità fisica del popolo e della salvaguardia di essa.

Ho visto che parecchi di voi hanno prestato attenzione alle cifre sull’aumento della mortalità infantile, fornitemi da un insigne scienziato italiano e da me pubblicate sulla Rinascita. Sono cifre di tragedia, ma un quadro analogo e forse anche più tragico voi avreste, se prendeste a esaminare – e dovete prenderle – le cifre della tubercolosi, delle malattie veneree, della diffusione di altre malattie negli strati popolari, le cifre della diminuzione di rendimento del lavoro nelle fabbriche, direttamente legata, questa, alla permanente insufficienza della razione del pane, di quello che i lavoratori mangiano e di quello che sanno di poter mangiare domani.

Di qui anche la disgregazione morale, il dilagare dei vizi, della corruzione, della prostituzione nelle città.

Perché avviene questo? Perché abbiamo chiesto ai lavoratori italiani uno sforzo enorme, superiore alle loro possibilità fisiche. Lo abbiamo chiesto noi e lo hanno chiesto i regimi che ci hanno preceduto. I lavoratori sono stati mandati prima a fare la guerra, una guerra in cui la maggior parte di loro non credeva, ed hanno perduto non so quanti anni della loro esistenza in campi di prigionia, da cui sono ritornati sfiniti, esauriti, esasperati, incapaci alle volte di riprendere a lavorare. Poi abbiamo chiesto ai lavoratori di combattere la guerra di liberazione; e l’hanno combattuta; e hanno lasciato nuove vittime. Abbiamo chiesto loto di sacrificarsi per salvare il macchinario, il capitale tecnico della Nazione: lo hanno fatto. Abbiamo chiesto loro di ridurre il tenore della propria esistenza; e questo è stato ridotto. Cosa vogliamo chiedere, cosa possiamo chiedere di più ai lavoratori, i quali dicono di non potere più andare avanti?

Ci è stato detto che bisogna tranquillizzare le classi possidenti. Ma io vi chiedo: che cosa abbiamo fatto fino ad oggi, che possa far perder loro la tranquillità? Che cosa abbiamo fatto di così minaccioso, di così terribile? Quali misure sono state prese per incidere sui privilegi delle classi possidenti?

Nessuna, o quasi nessuna! Non abbiamo fatto il cambio della moneta, perché è stato levato contro di noi uno spauracchio, per non lasciarcelo fare. Non ci siamo messi d’accordo per applicare una imposta sul patrimonio. Paghiamo un tasso d’interesse superiore a quelli che si pagano in tutti gli altri paesi e il nostro Ministro del tesoro, – che si dice deflazionista! – ci annuncia che il tasso di sconto dovrà crescere. Non sono stati ancora riveduti i contratti di lavoro delle principali categorie industriali e quindi non sono state riconquistate quelle posizioni che i nostri operai avevano conquistato prima del fascismo, e alcune delle quali erano riusciti a mantenere anche dopo, mediante la loro resistenza. Non abbiamo ancora rifatto i contratti per i lavoratori agricoli, e quindi, per lo stesso motivo, alcune delle conquiste che voi, democratici cristiani, negli anni dal 1920 al 1922, eravate riusciti a realizzare, si presentano ancora come un sogno, che sta troppo al di là delle condizioni odierne dei lavoratori della campagna.

Che cosa abbiamo fatto dunque per destare così serie preoccupazioni nelle classi possidenti?

Io riconosco che se i ceti possidenti, quando ci chiedono la tranquillità, la intendono nel senso che vogliono conoscere un programma preciso di Governo, in modo da sapere esattamente che si farà questa o quest’altra cosa a un certo momento, hanno ragione: ciò è necessario perché l’iniziativa privata possa svilupparsi e dare il contributo che deve dare alla ricostruzione.

Ma se, quando ci parlano della loro tranquillità, questi signori possidenti intendono che non si debbano far ricadere su di loro e sui responsabili le spese della catastrofe nazionale, allora non possiamo consentire.

Se quando ci parlano della loro tranquillità intendono che dovremmo impegnarci a rinunciare alle misure di rinnovamento della economia e della struttura del Paese, di cui tutti i grandi partiti riconoscono e hanno affermato la necessità, perché sentono che solo attraverso queste misure riusciremo a rendere impossibile la rinascita del fascismo e dare ai lavoratori la possibilità di portare tutto il contributo che devono alla ricostruzione del Paese; se questo ci chiedono, anche a questo dobbiamo rispondere di no: che non siamo d’accordo.

Ma qui il problema non è più economico, diventa politico: diventa il Problema – scusate, non voglio spaventarvi, ma è necessario guardare in faccia questo problema – della ricostituzione e della rinascita di un movimento reazionario e fascista che scateni la stessa offensiva che scatenò allora contro le classi lavoratrici e contro il ceto medio per riversare su questo e su quelle le conseguenze della guerra e della catastrofe.

Io non credo che il pericolo di una rinascita fascista stia nei giovani che credettero in passato nel fascismo, che ora sono profondamente delusi, dispersi, e cercano una nuova strada. A questi giovani abbiamo voluto perdonare; abbiamo voluto fare verso di loro un atto di clemenza affinché, rinunciato al fascismo, si ricongiungano ai gruppi sociali ai quali appartengono, e come lavoratori, come produttori, riprendano a lavorare e combattere insieme a tutti noi per la ricostruzione d’Italia.

Non è qui il pericolo, come non credo che stia in quelle masse o gruppi di lavoratori, di reduci, di disoccupati che in alcune regioni specialmente meridionali hanno votato per il partito dell’Uomo Qualunque. Questi gruppi hanno pure delle necessità a cui dobbiamo dare una soddisfazione e se la loro manifestazione politica è stata fatta per richiamare l’attenzione sul fatto che questa soddisfazione deve essere data, ebbene noi dobbiamo comprenderla e adeguarci a questa esigenza.

Il pericolo della rinascita fascista sta invece nel fatto che vediamo organizzarsi e muoversi, con lo stesso metodo di allora, le stesse forze sociali di allora, gli uomini che hanno nelle mani la Confederazione degli industriali e la Confederazione degli agricoltori; questi uomini, che nemmeno accettano il lodo per la mezzadria, il quale non corrisponde ad altro che ad un premio di liberazione dato a una categoria dei lavoratori della terra; questi uomini che nemmeno il premio della Repubblica, questo limitato e temporaneo aumento di salario, non vogliono che sia dato, se non dopo che si sia scatenata una lotta attraverso la quale i lavoratori se lo conquistino.

Ecco dove sta il pericolo. In questi gruppi sociali, in questi uomini e nei loro portavoce, che noi vediamo spuntare di nuovo da tutte le parti, che si stanno insediando di nuovo alla testa delle società anonime, delle grandi associazioni industriali, dei grandi consorzi di agricoltori, mentre i loro portavoce ricompaiono sulla stampa, tutti, fino ai più abietti di essi, fino a Delcroix, uomo che fu bollato, come tutti ricordate, dal nostro povero Gobetti, ed ora riprende a scrivere come se dovesse lui dare una lezione alla Nazione italiana che egli ha contribuito a portare alla rovina. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Stiamo attenti al pericolo, cerchiamo di comprendere come a questo pericolo si deve far fronte tutti insieme e sin dall’inizio. Domani, quando esso si fosse già manifestato nel modo più aperto sul terreno politico, forse troveremmo più facilmente la via della unità per fronteggiarlo; ma credo sia saggia politica trovare oggi la via dell’unità sul terreno dell’azione economica rinnovatrice del Paese, di un’azione la quale deve riuscire a impedire che i gruppi e gli uomini che una volta ci dettero il fascismo e ci portarono alla rovina riescano o tentino un’altra volta di prendere nelle mani le sorti dell’Italia, oppure fermino la mano del Governo quando cercherà di fare opera di rinnovamento politico, economico e sociale della Nazione.

Debbo dire a questo punto che siamo rimasti alquanto perplessi – almeno noi del gruppo comunista – a sentire le dichiarazioni dell’onorevole Corbino, perché è sorto in noi il dubbio prima di tutto che queste dichiarazioni, apparentemente descrittive, non celassero un contrasto con la politica economica, esposta dal Governo. Questa politica contiene infatti parecchi elementi nuovi che sono la sua sostanza e di cui attendiamo la realizzazione. L’onorevole Corbino invece si è presentato e ci ha detto: «La mia politica ha avuto successo. Continuiamola».

Ha avuto successo? Mi permetto di dubitarne. L’onorevole Corbino ha svolto una determinata azione, la quale, mi pare, sia consistita essenzialmente nel far fronte ai bisogni di cassa con l’emissione di buoni del tesoro, il che non è – soprattutto quando queste emissioni raggiungono le cifre che egli ci ha qui indicate – il mezzo normale di indebitamento dello Stato. È un mezzo anormale, pericoloso, molto pericoloso. Pericoloso prima di tutto sotto l’aspetto economico, perché quando lo stesso Corbino ci parla di quei 150 miliardi di beni produttivi, di materie prime, che non vengono impiegati perché il capitale che ad essi corrisponde non viene messo in circolazione, io desidererei chiedergli se questo non avviene perché egli ha immobilizzato questo capitale con la sua politica di rastrellamento dei risparmi a mezzo dei buoni del tesoro.

Il pericolo appare ancora più chiaro quando si pensi che questa enorme massa di debito fluttuante, che non serve più soltanto per colmare difficoltà o squilibri mensili di cassa, ma serve a finanziare tutta l’attività straordinaria ricostruttiva del Governo, essendo una massa, come dice la parola stessa, fluttuante, rappresenta un rischio: il rischio che essa possa a un certo momento e all’improvviso defluire dal luogo ove essa è affluita. Rischio economico, e rischio politico, perché nulla è peggiore per un Governo, il quale si propone di adottare e applicare determinate misure di rinnovamento economico, nulla è peggiore che l’avere un Ministro del tesoro il quale da un momento all’altro può presentarsi e dire: «Alt! questo non lo potete fare, se no incomincia il deflusso». Ricordo – e forse la ricorderanno anche i colleghi che erano allora con me – una seduta del Consiglio del Ministri, dove, a partire dall’onorevole Scoccimarro fino a Brosio e Cattani, eravamo tutti d’accordo che si dovesse fare il cambio della moneta; ma non se ne fece nulla perché un uomo disse di no, e disse di no proprio per quell’argomento. Stia attento, onorevole Presidente del Consiglio, che questo «no» non le venga ripetuto, e con lo stesso argomento, quando si tratterà di mettere mano al programma di rinnovamento economico, all’organizzazione dell’industria elettrica, o a un programma serio di lavori pubblici, o a misure serie di miglioramento delle condizioni di determinate categorie di dipendenti dello Stato, cioè quando sarà necessario fare cose che sono indispensabili e che sono scritte nel programma stesso del Governo.

È vero che l’onorevole Corbino ha terminato parlando di fede. Riconosco che a questo proposito l’onorevole Presidente del Consiglio è più competente di me. (Ilarità). Dicevamo, però, che «fede è sostanza di cose sperate». Non vedo nulla di male nel fatto che l’onorevole Corbino speri, come anche noi speriamo, come tutti sperano, che le cose vadano meglio; o, che è lo stesso, che il Signore ce la mandi buona – come ha detto nel corso della discussione un deputato democratico cristiano. Fede, però, è anche «argomento di cose non parventi», e temo che il nostro Ministro del tesoro tendesse più a questa seconda definizione che alla prima. «Argomento di cose non parventi», appunto perché non siamo convinti che se il programma del Ministro del tesoro, come si manifestò nel passato, dovesse continuare ad essere il programma del Governo, si riuscirebbe a realizzare il programma vero del nuovo Governo, quello al quale noi diamo la nostra approvazione.

Temiamo che se quella dovesse essere la direttiva della politica economico-finanziaria governativa, il Governo sarebbe costretto a fare la peggiore delle cose. La peggiore delle cose è che sul frontone del palazzo dove siedono e lavorano i nostri Ministri si scriva: «Qui si vive alla giornata». La peggiore delle cose è quando tale scritta sta sul frontone del palazzo dove siede e lavora il Ministro del tesoro. Oggi non si può vivere alla giornata. Bisogna saper prevedere; e lo sforzo che facemmo nel presentare il nostro programma e nel dare un contributo all’elaborazione del programma governativo, era precisamente uno sforzo di previsione e di adeguamento di una determinata attività governativa a questa previsione. Occorre prevedere, e prevedere soprattutto che, dato che per determinate categorie di lavoratori le condizioni di esistenza sono diventate insopportabili, in un breve periodo di tempo sarà necessario di far fronte alla situazione, altrimenti ci si troverà di fronte a movimenti disordinati, incomposti: il prefetto portato sulla piazza e costretto a firmare non so quali impegni; gli industriali obbligati da un determinato movimento a concedere 50 milioni per opere pubbliche, e così via. Io mi chiedo: è questa la prospettiva di un Governo ordinato? No, questa non è una prospettiva accettabile, perché se le cose si dovessero sviluppare così, non avremmo più un vero Governo e non si farebbe nemmeno fronte alle vere esigenze delle classi lavoratrici. Né si tratta di far fronte alla situazione come fece Noske, che sparò sugli operai, e di cui mi par che qualcuno qui abbia fatto il nome.

Nessuno può sparare, oggi, sui lavoratori, sui reduci, sui disoccupati! Non si spara sui lavoratori dopo che questi hanno salvato l’Italia col loro sacrificio nella guerra di liberazione. (Applausi a sinistra). Non crediate di poter aver mai la nostra collaborazione o anche solo la nostra tolleranza per una politica simile.

Una politica simile incontrerebbe, del resto, prima di tutto la resistenza e la ripugnanza dei lavoratori democristiani, iscritti alla Confederazione del lavoro e alle stesse associazioni cristiane dei lavoratori. Non sarebbe una politica cristiana.

Occorre quindi prevedere, avere un piano economico e finanziario preciso e lavorare alla realizzazione di esso. Abbiamo espresso il dubbio che la politica esposta dal Ministro Corbino non sia in coincidenza con questo piano.

Chiediamo che per la realizzazione del piano economico-finanziario del Governo si lavori sul serio. È necessario che il nostre Paese cessi di essere quello di cui l’onorevole Corbino, credo, si compiaccia soprattutto: il Paese della assoluta libertà economica. Noi siamo, sotto questo aspetto, una eccezione in tutta l’Europa e in tutto il mondo; siamo il solo Paese dove si lascia fare tutto, dove si lascia libertà alla speculazione, dove si approvano da parte del Governo misure legislative contro gli speculatori che poi nessun prefetto si degna di applicare. Siamo il solo Paese dove non si fa una lotta sistematica contro il mercato nero. Quando si parla di inflazione e dei rapporti fra inflazione e prezzi, perché non si tiene conto di questo semplice fatto che da 15 giorni in qua la massaia ha pagato le pesche circa 30 lire di più al chilogrammo sul mercato di Roma, senza che l’onorevole Einaudi abbia emesso nessun biglietto, ma unicamente perché è intervenuto un elemento di speculazione che non siamo in grado né di controllare, né di ostacolare? Dobbiamo cessare di essere il Paese dell’assoluta libertà economica. Appunto perché siamo il Paese più rovinato e disgregato, appunto per questo dobbiamo dividere più giustamente i nostri scarsi beni di quanto non sia necessario a coloro che vivono in Paesi più ricchi.

Il Governo si propone di svolgere un’attività direttiva economica attraverso il Comitato di ricostruzione: attraverso 1’I.R.I. Sta bene. Salutiamo queste proposte per quanto hanno di efficace, ma vorremmo che questa attività direttiva scendesse dalla sommità fino alla periferia, che il Comitato per la ricostruzione non si limitasse a essere un’assemblea di Ministri che espongono i loro punti di vista e poi ritornano all’ufficio loro e ognuno fa quello che gli pare e piace, mentre i funzionari continuano a lavorare come prima. Occorre che, come voi Governo avete un programma di emergenza, simili programmi di emergenza siano elaborati nelle provincie, con il contributo dei rappresentanti di tutte le categorie dei lavoratori e dei produttori, in modo che tutto il popolo veda che noi lavoriamo sul serio nel suo interesse, per soddisfare le sue necessità, elementari. Allora, quando il popolo vedrà questo, noi potremo chiedergli lavoro, e anche sacrifici, e ce li darà. Altrimenti non so quale potrebbe essere il successo di un Governo.

Ma il quadro a questo punto si allarga, sino a comprendere quelle misure di rinnovamento economico che nel programma governativo sono pure comprese e che dovranno essere realizzate, e non nel corso di alcuni anni, come si è detto, ma subito. Ritengo, infatti, che anche queste siano misure di emergenza. L’istituzione dei consigli di gestione nell’industria è indispensabile per riuscire a controllare e dirigere l’attività industriale e quindi riorganizzare l’industria, indispensabile per dare uno slancio alla massa operaia, per interessarla alla soluzione dei problemi della produzione. Né può mancare quell’inizio di riforma agraria, che nel programma governativo è enunciata e che in realtà è modesta cosa: centomila ettari, mi pare, non so in quanto tempo. Ricordiamo che coi semplici decreti Gullo – riproduzione di una vecchia legge che fece l’onorevole Micheli nel tempo in cui non aveva ancora deciso. di consacrare la sua perizia nei problemi agricoli alla Marina da guerra (Ilarità) – coi semplici decreti Gullo sono stati distribuiti più di 60 mila ettari di terre ai contadini. È vero che da queste terre una parte dei contadini tende ora a ritirarsi perché non ha i mezzi per renderle feconde. Occorre darli questi mezzi e occorre chiedere che, nelle regioni del Mezzogiorno, dove il latifondo ancora pesa su tutta la vita economica e sociale, quote adeguate di terra siano date da ogni grande proprietario per la ripartizione immediata ai contadini, garantendo lo Stato ai contadini i mezzi che permettano la coltivazione.

Tutte queste misure sono comprese nel programma governativo: noi le approviamo e chiediamo che vengano realizzate, e realizzate presto. Questa, vorrei dire, è la base dell’unità di questo Governo: quindi è la base della sua efficienza.

Il Partito democratico cristiano approvava nel mese di ottobre dell’anno scorso una risoluzione nella quale si parla dei problemi economici e sociali del Paese e nella quale si afferma la necessità di una profonda opera di rinnovamento. Si parla, in questa risoluzione, tra l’altro, di una politica di solidarietà vasta e comprensiva di tutto il popolo, di una democrazia economica e sociale, di una riforma agraria che elimini i tipi di proprietà parassitaria e antisociale, di una riforma industriale che sottoponga al controllo la grande industria ed elimini le posizioni monopolistiche, di un intervento nella direzione della impresa dei lavoratori, dei tecnici, dei consumatori, di una riforma finanziaria di carattere democratico e così via.

Onorevole De Gasperi, noi non le chiediamo altro se non di applicare questo programma. Applichi questo programma e avrà dato il più grande contributo alla creazione di una permanente unità delle grandi masse lavoratrici, qualunque sia il partito di massa al quale esse appartengono, perché ella avrà dato un contributo al rinnovamento politico e sociale d’Italia. Noi l’attendiamo a questa prova. Ma stia attento, onorevole De Gasperi, che, nel momento in cui ella si accingerà a realizzare questo programma, stia attento che non sorga un braccio, una mano che la trattenga, e che questo braccio non sorga dal seno stesso dal suo Governo. Stia attento che una mano che la trattenga su questa strada non sorga dal seno del suo stesso partito (Commenti – Applausi a sinistra).

Una voce. No.

LEONE. Siete solo in tre a dire no! (Commenti).

TOGLIATTI. Ed io dico questo perché so, e mi permettano gli onorevoli colleghi democristiani di ricordarlo, contenendo per qualche istante la loro suscettibilità, che la loro campagna elettorale è stata fatta su una duplice rotaia: da un lato questo programma, e le affermazioni, secondo le quali, in sostanza, non vi sarebbe differenza tra il programma sociale dei socialisti e dei comunisti e quello democristiano, e dall’altro lato una campagna sfrenata anticomunistica. Le due cose sono in contraddizione, le due cose non si possono conciliare…

Una voce. No.

PALLASTRELLI. Si tratta di differenza di metodo.

TOGLIATTI. L’una elimina l’altra (Commenti – Interruzioni) se non immediatamente, a una certa scadenza.

L’ispirazione anticomunistica rovina l’Italia se diventa l’ispirazione della nostra politica estera; ma rovina l’Italia o la rovinerà anche se diventerà l’ispirazione della nostra politica interna.

Desidererei attirare la vostra attenzione su un semplice fatto molto significativo. Di tutti i partiti che hanno affrontato la lotta elettorale e siedono in questa Assemblea, il partito che ha riportato, in confronto degli ultimi risultati elettorali del 1924, la maggiore affermazione, è il nostro.

I socialisti hanno conservato su per giù le loro posizioni; voi (Rivolgendosi al centro) avete raddoppiato le vostre; i liberali… le hanno viste sensibilmente ridotte (Si ride); noi, che avevamo avuto allora appena 300.000 voti, ne abbiamo ottenuti ora 4.300.000. Siamo il partito che ha riportato – non vi rincresca l’affermazione – il più grande dei successi elettorali; siamo una forza con la quale non si possono non fare i conti; siamo una forza con la quale non si può non collaborare se si ha con essa un accordo programmatico e se si vuole fare opera utile per la nazione italiana e di ricostruzione della vita economica e sociale. (Applausi all’estrema sinistra).

Diceva l’onorevole Nitti che la Repubblica deve essere conservatrice. No, onorevole Nitti, la Repubblica non può essere conservatrice. Se questo è il suo punto di vista, noi non siamo soltanto delle parallele, che non si incontrano mai, ma siamo delle linee rette che non si incontreranno mai perché giacciono su piani che non hanno nessun possibile punto di contatto.

Che cosa conservare? L’eredità del fascismo? La dobbiamo liquidare invece, e il più presto possibile, nel campo internazionale, nel campo interno, nel campo economico e sociale e in quello morale. Che cosa conservare? Due milioni di disoccupati? I salari di oggi, le condizioni di oggi della nostra industria, della nostra agricoltura, la struttura attuale economica del Paese da cui una volta è uscito il fascismo ed il fascismo è pronto a risorgere, e affermarsi ancora una volta? Che cosa dobbiamo conservare? Questa distinzione, questo abisso tra Nord e Sud che grava come una palla di piombo su tutta la nostra vita nazionale? No, dobbiamo andare incontro a tutti questi problemi, risolverli, liquidare tutte queste eredità del passato. Il problema stesso del Mezzogiorno non lo risolveremo soltanto con piccole riforme, con piccole concessioni a questo o a quel comune, o provincia, o regione. Dobbiamo affrontarlo in pieno, attraverso la riorganizzazione della nostra industria e attraverso la realizzazione di una profonda riforma agraria. Qui non vi è niente da conservare; tutto è da rinnovare. Ma dobbiamo andare incontro al Mezzogiorno anche con misure politiche.

Onorevole Finocchiaro Aprile, noi abbiamo combattuto tenacemente contro il separatismo siciliano. Non rinneghiamo nulla di questa lotta, perché abbiamo considerato che i lavoratori della Sicilia non avevano il diritto, avanzando una questione di separatismo, di porre in discussione un problema che non era e non è soltanto siciliano, ma è di tutta l’Italia: il problema della nostra unità.

Per questo vi abbiamo combattuto, ma riconosciamo che i torti fatti al popolo siciliano e ad altre regioni meridionali dallo Stato accentratore e burocratico devono essere riparati anche sul terreno politico con larghissime concessioni autonomistiche. In questo ambito dovremo e potremo collaborare.

Non conservare, dunque, ma rinnovare l’Italia. Questo deve fare la Repubblica. Ho sentito parlare da molti oratori, in tema di politica estera, della missione che incomberebbe all’Italia nel mondo. Credo che oggi incomba a noi una missione di civiltà la quale consiste in questo: che dobbiamo diventare noi stessi un Paese civile.

Abbiamo perduto molto tempo. Sulla base della formula dei Comitati di liberazione nazionale avremmo potuto ottenere molto di più e non è stata colpa forse di nessuno di noi in modo particolare, ma della situazione a cui l’Italia era stata portata, e anche della politica di certi funzionari del controllo alleato, politica molte volte gretta nelle singole misure politiche, economiche, amministrative, politica che troppo tardi si è accorta che il popolo italiano era ed è maturo per governarsi da sé, politica che troppe volte ha cercato di seminare fra gli italiani la discordia, come quando piovevano sul tavolo del Presidente del Consiglio, del Ministro degli interni, del Capo della polizia i rapporti denunzianti il nostro Partito perché ogni 15 giorni avrebbe organizzato insurrezioni e colpi di mano, e i compagni Longo e Moscatelli ogni 15 giorni erano denunciati di partire e di raccogliere truppe per fare non so quale marcia comunista su Roma. Tutto questo veniva fatto per seminare la discordia fra di noi. Noi comunisti invece andavamo dai partigiani e dicevamo loro: «Disarmate, lavorate». Andavamo dove c’era il malcontento e dicevamo che del malcontento si doveva fare una volontà di rinnovamento che si traducesse in azione politica coordinata, che fosse di aiuto a tutto il Paese. (Applausi a sinistra).

Non si tratta quindi oggi, onorevoli colleghi, di andare fantasticando quali possano essere i reconditi motivi per cui io non sono nel Governo e quale recondita azione starebbe preparando il nostro Partito. Non si tratta di chiedersi se e quando noi lanceremo l’appello agli operai e ai contadini perché scendano nelle piazze. Lasciate stare queste sciocchezze. Le rivoluzioni non le fanno i partiti. I partiti, se sono capaci, le dirigono e niente di più. Le rivoluzioni scoppiano quando le grandi masse lavoratrici sono ridotte a un punto tale che non possono più andare avanti, e le classi dirigenti si dimostrano incapaci di governare nell’interesse della Nazione.

Ma io voglio citarvi le parole non di un rivoluzionario, bensì di un uomo politico e uomo di Governo italiano, Giovanni Giolitti, che già nel 1900 osservava come «le classi ricche scambiassero le agitazioni economiche addirittura con una rivoluzione sociale», e affermava di sapere che le masse dei lavoratori non si adattavano ad andare avanti perché i salari erano insufficienti non solo a vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Oggi siamo in una situazione per certi aspetti analoga, ma profondamente diversa per altri aspetti. Òggi non si tratta solo di dare libertà alla azione sindacale delle singole categorie, di concedere la libertà di sciopero, oggi si tratta di svolgere un’azione di rinnovamento che modifichi profondamente la struttura, l’organizzazione economica e sociale del Paese. Oggi voi non potete risolvere, non potete nemmeno impostare la soluzione di nessuna questione singola, senza trovarvi davanti. a questioni profonde, di sostanza, che richiedono con urgenza una soluzione.

Occorre rinnovare l’Italia ed occorre rinnovarla nel senso di una. maggiore giustizia sociale, nel senso di una maggiore solidarietà sociale. Occorre rinnovarla nel senso del socialismo. Invano si è dichiarata morta questa idea, invano avete cercato di mettere in soffitta gli uomini che hanno dato a questa idea la forma scientifica; invano, Oggi questa è la realtà che avanza in tutto il mondo, è la realtà che appare nei vostri stessi programmi, quando qualcuno di voi ha il coraggio di affrontare con serietà e sincerità i problemi della riorganizzazione della nostra vita nazionale e di dare una risposta adeguata alle questioni che trovate dinanzi a voi. (Applausi).

La Repubblica deve rinnovare il Paese; deve dare soddisfazione alla volontà di rinnovamento del popolo, volontà di rinnovamento che – siatene convinti – vincerà, trionferà, supererà tutte le resistenze.

Concludo, anzi, ho terminato.

Possa questo Governo realizzare rapidamente e in concordia il suo programma.

Possano rapidamente dissiparsi le nubi cariche di tempesta che ancora gravano sul cielo della nostra Patria.

Possa il popolo italiano marciare, essere guidato con mano sicura, e più rapidamente che sino ad ora, verso la sua rinascita, verso il progresso economico, politico, sociale. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Selvaggi.

SELVAGGI. Onorevoli colleghi; prima di prendere la parola in questa Assemblea, mi è tornato insistente alla memoria un episodio della storia parlamentare russa e della grande rivoluzione di quel Paese. Nel 1917 si discuteva alla Duma non so più quale questione particolare. Un deputato della frazione bolscevica si rivolse a Lenin chiedendogli quale fosse il punto di vista del partito da sostenere nella discussione. Al che si dice che il capo dei bolscevichi rispondesse: «Voi non siete stati mandati lì dentro per discutere. Voi dovrete prendere la parola per imprecare contro la borghesia».

Prendendo la parola in questa Assemblea, creata da una consultazione popolare che rappresentò l’acme di una profonda crisi politica del popolo italiano, che minaccia di squarciare l’unità morale e politica della Nazione, io che in quella lotta assunsi precise posizioni e responsabilità, sento il dovere di dichiarare lealmente, per coloro che mi hanno inviato qui dentro, e per norma degli avversari, che non intendo considerare la mia funzione in questa Assemblea in modo analogo a quello del deputato bolscevico nella Duma. Ed io non imprecherò contro nulla né nessuno. Io non intendo cioè sollevare drammatiche contestazioni sulla situazione uscita dal 2 giugno, che non ammetterebbero sbocchi.

Io ed i miei amici abbiamo inteso combattere una battaglia politica su di una precisa piattaforma politica: la piattaforma della democrazia e della libertà. Abbiamo sempre respinto con angoscia ed orrore la prospettiva di un piano diverso, di un metodo diverso. Abbiamo sempre sentito che sul piano delle soluzioni di forza nessuno in realtà sarebbe stato vincitore. Vinta sarebbe stata invece la libertà, distrutta l’indipendenza, vinta sarebbe stata insomma l’Italia che non può vivere senza libertà ed indipendenza. Per questa ragione, consapevoli delle nostre responsabilità e dei nostri doveri verso la Nazione in questa grave ora della Patria, noi abbiamo preso atto della situazione determinata dalla proclamazione fatta dalla Suprema Corte di Cassazione dei risultati del referendum sulla questione istituzionale. Tale nostro riconoscimento non può tuttavia cancellare il ricordo dei modi, dei tempi, delle condizioni e delle circostanze in cui la consultazione popolare fu indetta, promossa ed attuata. Tali modi e condizioni hanno fatto gravare sui suoi risultati un’ombra che soltanto gli sviluppi della situazione potranno dissolvere.

In ogni caso io ritengo mio dovere ricordare al Governo ed ai partiti della maggioranza che l’unità morale della Nazione, la sua pace e la sua ripresa dipendono essenzialmente dalla loro condotta politica e dal rispetto e dalla comprensione che essi sapranno dimostrare verso i pensieri, i sentimenti, le esigenze e gli ideali di coloro che hanno votato per la monarchia e che costituiscono comunque quasi la metà del popolo italiano.

Per queste ragioni, non rinunciando a quegli ideali morali e politici che in noi si legano ad una considerazione storica complessiva della realtà e dei problemi italiani, io ritengo che coloro che sono stati e sono monarchici e come me vedono la soluzione dei loro problemi sul pieno politico, non intendono rinunciare a vivere la vita della Patria e continueranno pertanto ad operare per la realizzazione di un ordinamento statale libero ed articolato, per un regime di effettive garanzie di libertà, poiché soltanto nella libertà ogni problema può trovare la sua soluzione. I regimi passano, si trasformano, ritornano; mutano le forme di Governo, ma resta l’Italia; resta il popolo italiano con tutti i suoi problemi aperti, i suoi dolori, le sue ferite, con le sue ansie, le sue speranze, le sue delusioni. Per questo popolo italiano, per le sue libertà, per la sua indipendenza, per la sua vita, noi intendiamo lavorare lealmente nei nuovi liberi ordinamenti che esso ci darà.

Si è parlato già spesso in quest’Assemblea di consolidare la repubblica, di difendere la repubblica. A parte quanto di fazioso o di equivoco vi possa essere in simili espressioni, riconosco francamente che il problema obiettivamente esiste. Lasciate che vi dica, senza eccessiva ironia, che anch’io, credo che abbiate ragione. Un regime fondato sul consenso del 51 per cento dei cittadini votanti, un regime sorto in uno dei momenti più tragici e sinistri della nostra storia nazionale, è un regime che legittima ogni riserva ed ogni apprensione circa il suo consolidamento. Ma sarebbe folle pensare di risolvere questo problema estremamente delicato e complesso con stile e metodi di polizia, o, peggio, autoritario. La nostra presenza e la nostra azione qui dentro hanno, tra l’altro, la funzione di ricordare al Governo ed ai partiti della maggioranza la virtù cardinale della prudenza e la virtù cristiana dell’umiltà.

Chiarita in questo modo, per debito di lealtà verso amici ed avversari, la nostra posizione per quanto riguarda i problemi del troppo recente passato, intendo toccare qualche punto caratteristico della situazione politica presente.

Il nuovo Governo si è presentato a questa Assemblea. Non intendo discutere la sua struttura tecnica (cosa che del resto è stata già fatta da altri e da qualcuno anche con una certa voluttà parlando della competenza o della incompetenza dei vari Ministri, del cumulo delle cariche e della conseguente pratica impossibilità ad operare). Intendo osservare invece la sua struttura politica e prima di tutto il processo di formazione della sua struttura politica. Esso è nato non tanto dall’Assemblea, dagli accordi e dalle designazioni dei suoi membri e dei suoi gruppi, quanto invece dagli accordi diretti di carattere e di stile diplomatico intercorsi tra le direzioni di alcuni partiti. Nulla di nuovo rispetto alla tradizione inaugurata due anni or sono dai governi del Comitato di liberazione nazionale. Ma se allora la mancanza di una Assemblea eletta giustificava in qualche modo tale procedura, il suo perdurare ora denota un concetto particolare dei rapporti fra Assemblea, gruppi, partiti e Governo che dovrebbe essere attentamente studiato; poiché è qui uno dei modi più gravi del funzionamento tecnico di un regime democratico parlamentare. Con ciò io non intendo ora criticare od esprimere un giudizio su tale sistema. Intendo soltanto avvertire e porre il problema, poiché è evidente che se questa consuetudine dovesse sviluppare tutte le conseguenze che essa comporta, ci si avvierebbe verso forme politiche sempre più lontane dalla tradizione della democrazia parlamentare. Non dico che ciò non possa avvenire, né che ciò non sia in una certa misura nel solco della evoluzione della politica moderna. Dico solo che bisogna sapere su che strada si cammina e dove essa conduce.

Ma a parte questo aspetto particolare della sua formazione, la composizione politica di questo Governo dà luogo a dubbi e perplessità di vario genere. È un Governo uno o trino? Non è un problema teologico che io pongo. Voglio dire: è un Governo De Gasperi, un Governo democratico-cristiano con la collaborazione limitata, quindi la solidarietà limitata degli altri partiti? O è invece un Governo a tre dei tre partiti solidali? Ed anche in questo, caso, qual è il grado di solidarietà dei tre partiti? È una solidarietà comune e totale o è in rapporto al numero dei portafogli di ciascuno e contiene quindi una riserva?

Qui non giova illudersi né illudere. È un problema di onestà e di moralità politica. E, sia detto per inciso, uno dei problemi più gravi che noi dobbiamo affrontare, è quello della moralizzazione della vita politica italiana. Una adesione con riserva non solo minaccia dall’esterno la compagine ministeriale, ma la paralizza nel suo interno, nella sua efficienza, nella sua funzionalità. E se non è un gioco leale quello di concedere una collaborazione così condizionata, è debolezza colpevole faccettarla. Dei chiarimenti al riguardo sarebbero quanto mai opportuni per non giudicare equivoca la situazione politica espressa dalla compagine ministeriale.

La presentazione del programma di governo a questa Assemblea ha fatto sorgere delle questioni pregiudiziali di estrema gravità, per cui sarà necessario giungere ad un esplicito chiarimento. Vi è innanzi tutto la questione dei rapporti tra questa Assemblea Costituente ed il Governo per quanto riguarda la normale attività legislativa; questione che è legata a quella più vasta del carattere vincolante di tutta la legislazione precedente di fronte ai poteri di questa Assemblea Costituente. Ma poiché tale complesso di questioni è stato rinviato ad una speciale seduta dell’Assemblea, mi asterrò dal parlarne.

Ma il contenuto del programma laboriosamente espostoci dall’onorevole De Gasperi pone in realtà un’altra questione pregiudiziale più politica che giuridica, concernente i rapporti tra l’attività governativa e quella dell’Assemblea Costituente come tale, cioè nella sua funzione costituente.

Per quanto riguarda i problemi economici, l’onorevole De Gasperi ci ha esposto un «programma di lunga portata»; troppo lungo in verità, poiché supera evidentemente i preventivi temporali della vita del suo Governo, che contemplano meno di un anno di vita, salvo imprevisti.

Il programma, secondo la sua lettera, è ambizioso. «Occorre organizzare semplici e vasti settori controllati dallo Stato e dare infine ad alcune industrie particolarmente connesse con lo sviluppo della Nazione, come quelle elettriche e della ricostruzione (cioè praticamente tutte), un regime che meglio risponda agli interessi economici nazionali ed alle direttive economiche del Governo che verranno elaborate, formulate e vigilate nella loro applicazione dal C.I.R.». Praticamente un programma di nazionalizzazione e di pianificazione.

Altrettanto ambizioso è il capitolo delle riforme agrarie, dove, si parla di «riforma fondiaria che porta una più equa distribuzione della proprietà», di «espropriazione di terre», di «piano di trasformazione obbligatoria», ecc. Al centro di questo programma pianificatore fa bella mostra di sé l’aperto omaggio all’iniziativa privata che il Governo promette di suscitare e di incoraggiare. È un tentativo di conciliare, come scriveva un giornale del mattino giorni or sono, il diavolo con l’acqua santa.

Una sorpresa è poi il ripristino del prezzo politico del pane. Era stato un atto di coraggio il sopprimerlo; non sappiamo se sia oggi un atto di saggezza caricare il nostro barcollante bilancio di altri 36 miliardi annui per dare l’illusione alla massaia che va dal fornaio che il prezzo del pane non subisce la sorte di tutti gli altri prezzi. Se si tratta di politica illusionistica, essa è condannata facilmente a dare risultati negativi. Infatti nessun serio accenno è fatto ai mezzi pratici progettati per soddisfare il bisogno improrogabile e riconosciuto di assicurare agli impiegati, ai salariati ed ai ceti medi sufficienti mezzi di vita e per sopperire alla disoccupazione dilagante soprattutto fra i reduci della prigionia, ai quali vengono ammannite delle belle parole, ma pochissimi fatti concreti.

Grande perplessità desta infine il programma di risanamento finanziario per il quale il contribuente dovrebbe essere sottoposto ad un adeguamento della imposizione ai valori dell’anteguerra, dovrebbe essere assoggettato all’imposta straordinaria e invitato, il tutto simultaneamente, a sottoscrivere un prestito di insolite proporzioni, nonché costretto, se agricoltore, a costose opere di trasformazione fondiaria, fermo restando il suo reddito per il noto sistema del blocco sui prezzi. Finanza contro economia che finirebbe col colpire fatalmente gli stessi salari, mentre i trafficanti improvvisati, non avendo né un nome né un credito da salvaguardare, passeranno indenni attraverso la fiamma purificatrice del fisco.

L’isolato Ministro Corbino ci ha ieri esposto il suo programma finanziario; è forse più che altro un’esposizione di volontà, cioè un tentativo di imporre ad ogni costo, lavorando sul fattore psicologico, la fiducia, quella fiducia della quale abbiamo tanto bisogno all’interno ed all’esterno e che è la base prima del valore di ogni moneta. Difendere la lira ed escludere l’inflazione è lo «slogan» del Ministro Corbino, sul quale tutti possiamo essere d’accordo. Ma io ho detto, l’isolato Ministro Corbino, perché non so se tutti i suoi compagni di équipe governativa siano della sua idea o non cercheranno piuttosto, direttamente o indirettamente, di mettere il bastone fra le ruote al suo programma che pur desta qualche preoccupazione, ad esempio per il perdurare di una politica che ha fatto del Tesoro la banca delle banche. E il mio timore si riferisce alla azione che può essere svolta sul terreno politico dai sindacati che fanno capo alla C.G.I.L., la quale ogni giorno di più, anziché essere un sindacato di difesa degli interessi economici dei lavoratori, va assumendo l’aspetto di un sindacato politico di parte.

Una voce. Non è vero!

SELVAGGI. Ora io mi domando: tali riforme toccano o non toccano la struttura ed il carattere fondamentale della nostra organizzazione economica? E con quale autorità il Governo dispone tali riforme di struttura? Pensa di poter varare tali riforme con un decreto-legge, poiché non è tenuto a sottoporre alla Assemblea la legislazione ordinaria?

Il Capo provvisorio dello Stato nel suo messaggio ha detto che: «La Costituzione… consacrerà per i rapporti economico-sociali i principii fondamentali che la legislazione ordinaria dovrà in seguito svolgere e disciplinare». Io ritengo che questa Assemblea Costituente non abbia, per la sua natura, la facoltà di discutere in concreto l’organizzazione economico-sociale del Paese e che debba attenersi al criterio esposto dal Capo provvisorio dello Stato. Soltanto la nuova Assemblea legislativa, eletta dopo la Costituente, avrà la facoltà ed il compito di fissare le forme e le strutture economico-sociali del Paese. A parte ciò, c’è un problema tecnico ed è che noi non sappiamo ancora quali controlli e quali garanzie vi saranno nella nuova Costituzione, né se quei controlli e quelle garanzie e in quali misure saranno affidati a una o due Camere.

Ora il Governo enuncia un piano di riforme strutturali per l’economia italiana. È un tentativo di creare dei fatti compiuti; in quanto tale piano implica dei principî direttivi fondamentali, esso costituisce un fatto compiuto proprio per l’Assemblea Costituente, la quale è appunto chiamata a stabilire i principî fondamentali dell’ordinamento economico italiano. E nel merito, è un fatto compiuto vincolante per la futura Assemblea legislativa. Questa iniziativa governativa è pertanto inammissibile; approfittando di circostanze contingenti e transitorie, colpisce ed offende la libertà legislativa del Parlamento, sa di pieni poteri; è in aperto conflitto con le direttive enunciate dal Capo provvisorio dello Stato.

Ascoltando l’esposizione dell’onorevole De Gasperi non potevo non pensare amaramente quanto sia comodo, allettante e corruttore il sistema di un Governo senza controlli e limiti, che con un nome vecchio ed odioso si chiama autocrazia e con un nome moderno ma egualmente odioso si chiama totalitarismo, e quanto sia difficile riacquistare, anche per chi ne sia intellettualmente convinto, il gusto, il senso e l’effettivo esercizio della democrazia.

Per me è evidente quanto siano stati negativi, per questa rieducazione democratica, i due anni di esperienza di Governo del Comitato di liberazione nazionale, in quanto esso ha perpetuato in Italia il sistema della partitocrazia, anzi, del dominio delle direzioni sui partiti e quindi di alcuni uomini soltanto sui partiti stessi. Quel sistema che i francesi hanno respinto nel loro recente referendum.

Ma a questa esperienza non è estranea la colpevolezza di quegli uomini e di quei partiti non di massa che, per timore di dirsi e di agire da quel che sono realmente, hanno consentito a tale sistema di prendere piede. Eppure, io ritengo che oggi sia molto più sentita nel Paese, per l’equilibrio politico del Paese stesso, l’esigenza di una unione di queste forze sparse, talune delle quali qui dentro sono abbarbicate fra banchi che non sono i loro. Queste forze debbono prima saper vincere l’eccessivo individualismo, individualismo pernicioso non solo in questo campo.

Ma quell’ebrezza legislativa innovatrice da parte del Governo che tende a precostituirsi al lavoro della stessa Costituente, esiste anche nel campo dell’ordinamento amministrativo. Il programma dell’onorevole De Gasperi infatti ritiene «indispensabile in genere… che il Governo emani direttive per una maggiore autonomia dei Comuni e crei ogni possibile autonomia regionale». D’accordo sulla necessità del decentramento e sullo smantellamento della pesantissima burocrazia statale che con questo Governo, dato il numero enorme dei Ministeri, deve aver raggiunto un peso soffocante.

Ma a parte il fatto che per quante ricerche abbia svolte non mi è riuscito di trovare l’ente amministrativo regione ed ho trovato invece l’ente provincia, della quale non si è parlato, il problema investe un’organica riforma costituzionale.

Questo nostro atteggiamento riguardo ad alcuni aspetti essenziali del programma governativo, non va considerato come un espediente dilatorio. Il nostro atteggiamento riguardo al problema della struttura economico-sociale è ben chiaro. Noi non ci spaventiamo di nessuna riforma, ma la vogliamo tecnicamente studiata e democraticamente discussa. Poiché vi sono due maniere di considerare e di volere le riforme. Si possono volere le riforme per conservare una certa struttura fondamentale della società a cui sono legati non solo certi interessi, ma anche certi valori e certi ideali che sono insiti e connaturati alla nostra civiltà cristiana. E si possono volere le riforme per aggravare la crisi di questa struttura, per accelerarne il disfacicimento. Noi non nascondiamo di volere le riforme per conservare, ma intendiamoci bene: per conservare quegli istituti, quelle forze e quelle strutture che, prima di tutto sul piano morale, sapranno rendersi conto del problema sociale, sapranno risolverlo, ed oserei dire, prevenirne le necessità; e sapranno comprendere che la ricchezza deve contribuire alla ricostruzione e che si tratta di redistribuirne equamente i redditi.

Ma nelle forme e nei modi in cui molte riforme sono oggi avanzate e proposte, noi ravvisiamo invece una precisa e calcolata volontà rivoluzionaria. Una riforma intempestiva è inefficace, aggrava la crisi ed alimenta il disordine. Una riforma strappata al di fuori della normale prassi democratica, incrina e svuota il principio stesso della necessità del metodo democratico. Si dirà allora: ma che cosa volete dal Governo? Rispondiamo: ordinaria amministrazione per tutto ciò che è riducibile sul piano ordinario; amministrazione straordinaria con qualsiasi mezzo straordinario efficiente che non costituisca un fatto compiuto per questa Assemblea Costituente e per la futura Assemblea legislativa per tutti i problemi straordinari che la contingenza pone.

Il nostro non è un rimprovero al Governo per la sua volontà di fare, è un rimprovero per l’equivoco delle sue intenzioni e delle sue soluzioni.

E fin qui quello che il Governo ha detto. Ma c’è quello che il Governo ha taciuto. C’è il problema della pacificazione degli animi, al quale pure ha accennato, ed in maniera esplicita, il messaggio del Capo provvisorio dello Stato. C’è il problema della frattura fra il Nord e Sud che qualcuno ha definito psichica e che è molto più complessa di quanto non appaia e che in ogni caso non può essere risolto soltanto con lo stanziamento di un certo numero di miliardi o, meglio ancora, con la promessa dello stanziamento. C’è il problema del superamento del fascismo e dell’antifascismo nella democrazia, unica antitesi ad ogni totalitarismo. Problema che si è cercato di risolvere con una pace senza pace indiscriminatamente e che importa invece una vera, solida e costruttiva pacificazione discriminando tra onesti e disonesti, capaci ed incapaci, e tenendo conto del processo di autocritica cui si sono sottoposti gli onesti e i capaci. C’è il problema, infine, dei monarchici e dei repubblicani, a cui ho accennato in principio.

In sostanza lo stesso problema che si pone a noi che siamo mandati qui per lavorare, per costruire, per non perderci in chiacchiere, si pone per il Governo, poiché il Paese è assetato di fatti, e di fatti concreti per riacquistare fiducia in se stesso e in coloro che si assumono la responsabilità di governarlo. In una sana amministrazione ordinaria e straordinaria c’è abbastanza lavoro, se veramente c’è la volontà di costruire, da tenere i Ministri al loro tavolo di lavoro da mane a sera, e c’è anche modo per un piano di sana amministrazione senza correre il rischio di perdere il senso della realtà presente.

E vengo alla politica estera.

Le reazioni sentimentali sono qui più forti, tali da turbare quella fredda considerazione politica che pur è necessaria per chi voglia concretamente operare. Tali reazioni, che hanno spesso agitato l’opinione del Paese, sono state giudicate spesso da stranieri, e purtroppo anche da alcuni italiani, come ritorni di fiamma nazionalistici. Ma nella misura in cui tale giudizio è dato in buona fede e non è cioè pretesto per manovre non confessabili, esso è un evidente errore. Non si può parlare di nazionalismo, almeno nel preciso significato politico di questa parola, in un Paese di cui è in discussione la stessa indipendenza, la stessa sovranità. Se di un nostro nazionalismo si può parlare, è di quello che si identifica con il nostro sentimento di nazionalità offeso, mortificato, mutilato, deluso con il nostro trepidante attaccamento alla collettività del popolo italiano ed alla terra in cui ha vissuto; vive ed opera, con il senso istintivo del nostro diritto alla vita e ad una vita libera e dignitosa. Non si può parlare di un nostro nazionalismo se non come indipendenza, in contrasto con i dilaganti imperialismi altrui, che formano il maggiore ostacolo ad ogni intesa e possibilità di vita internazionale.

Tra poco ci sarà presentato il trattato di pace e dalle indiscrezioni possiamo già valutarne la gravità. Noi lo esamineremo, lo discuteremo, decideremo in concreto quale atteggiamento ci converrà assumere, ma da quelle indiscrezioni io ritengo che non sarà possibile accettarlo e quindi firmarlo. Mi domando però se questa Assemblea, se il Governo e il Paese tutto sono nelle condizioni di effettiva libertà morale e politica per discutere, accettare o respingere quel trattato di pace che ci sarà presentato. O se piuttosto esso non assumerà il carattere di un diktat che ponga noi di fronte ad una irresistibile pressione, ad una coazione morale e politica, di fatto e di diritto. In questo caso, la nostra volontà, di fronte ad un atto iniquo e vergognoso, potrà essere piegata, ma non accordata.

Il Governo, in queste ore tragiche e decisive per il destino della Nazione, potrà contare sulla solidarietà morale di tutto il popolo italiano, ma non ci si faccia illusioni sul significato politico di tale solidarietà. Non ci si illuda cioè che essa contenga un giudizio positivo, una approvazione della sua linea di condotta politica.

Su questo preciso punto, le riserve che noi abbiamo da fare all’impostazione dell’azione diplomatica in vista del trattato di pace, sono precise. Riguardo ai problemi della pace, sia nostra che generale, esistevano due piani distinti. Un piano ideologico moralistico ed un piano realistico empiristico.

Obiettivamente, questi due piani, al principio confusi o ravvicinati, si sono andati sempre più distinguendo o separando fino quasi ad opporsi apertamente. Obiettivamente è un fatto che il piano ideologico moralistico sia stato abbandonato per quello realistico della tradizionale politica di potenza. Chi oggi ricorda, se non noi, gli otto punti del Potomac e le Quattro Libertà rooseveltiane? Qualcuno, che si piccava di conoscere molto bene gli alleati, dichiarò un giorno pubblicamente che essi non ci avrebbero tolto nemmeno un pollice del nostro territorio. Costui, come tanti altri, non aveva considerato il fatto che non esiste Governo al mondo che mandi i suoi uomini a morire per un semplice ideale. In guerra i Governi vanno per vincere e quindi per conquistare e la pace si risolve fra chi conquista di più e chi di meno. Gli uomini soltanto, e non tutti purtroppo, combattono e muoiono per un ideale, senza calcolare se ne valga o meno la pena. E gli italiani hanno dimostrato di saper morire per l’ideale della libertà.

Ora, l’errore fondamentale della nostra politica estera è consistito nel non aver avvertito questo distacco dei due piani, questo lento ma irresistibile cambiamento del punto di vista internazionale, questo tramontare delle ragioni ideologiche della guerra e questo prevalere degli interessi statali, imperiali, continentali. Basta confrontare le dichiarazioni di Londra dopo l’attacco tedesco al generoso popolo di Polonia con quelle di Byrnes dopo le decisioni di Trieste per rendersi il conto di ciò e comprendere come il civismo dei vincitori non poteva capire il peso ed il valore morale della lotta italiana accanto agli alleati.

Mentre tutto ciò virtualmente avveniva, siamo rimasti fermi al piano ideologico moralistico.

Abbiamo sperato nella solidarietà antifascista che avrebbe distinto, in definitiva, secondo le iniziali promesse e speranze, il fascismo dall’Italia. Abbiamo sperato nella solidarietà e comprensione democratica per una Italia democraticamente rinnovata. Si è persino portato un argomento che in ogni caso poneva di fronte ad un dilemma angoscioso: quello che un’Italia repubblicana avrebbe avuto un posto dignitoso ed onorevole al tavolo della pace.

Abbiamo ammesso il principio di una riparazione morale, di una espiazione, e non ci siamo accorti che quel piano era praticamente sterile, che su quel piano non avevamo nulla da tentare e da sperare, che su quel piano, ma solo su quello, non avevamo alcuna carta. Non ci siamo accorti che partendo dalla colpevolezza dell’Italia, l’unica conseguenza logica era quella di una pace punitiva, e che l’unica speranza che ci rimaneva era la pietà dei vincitori.

Abbiamo così abbandonato l’altro piano, quello che ho chiamato realistico ed empiristico, nel quale era invece possibile almeno tentare di trattare con i vincitori nel loro complesso, o più facilmente con ognuno singolarmente, tenendo presente la particolare posizione geografica dell’Italia ed il concetto che domina e dominerà ancora i problemi internazionali: quello dell’equilibrio fra le potenze.

Ma quello che più stupisce e sgomenta nella condotta della nostra politica estera è la mancanza di ogni negoziato, di ogni tentativo di negoziato, di ogni abbozzo di negoziato per inserire i nostri interessi ed i nostri diritti, o una parte di essi, nel fronte tutt’altro che unitario dei vincitori sulla base del franco riconoscimento della nostra sconfitta. Ma se è mancato ciò, vuol dire puramente e semplicemente che è mancata una politica estera italiana. E ciò è dimostrato dalla questione di Rodi, che è stata restituita a chi non l’aveva mai posseduta; dalla questione di Briga e di Tenda che oggi riporta sul piano storico il problema della Tunisia, una pistola spianata nel fianco italiano, per interessi che non sono tutti francesi e che per quanto riguarda la Francia sono dominati dall’incubo della sicurezza. Mentre forse oggi solo l’Italia ama veramente la pace ed aspira alla pace, perché sa che soltanto nella pace potrà ricostruire.

Ed in ogni caso ci si è dimenticati di una formula fondamentale, ma semplice, delle trattative internazionali, e si è offerta una mano per far prendere all’avversario tutto il braccio. Eppure questo piano realistico dei negoziati, delle trattative, questo piano della tradizionale diplomazia, è l’unico su cui potremo poggiare domani la nostra politica internazionale. Nella misura in cui accentuassimo una qualsiasi posizione ideologica, noi fatalmente saremmo condotti a legarci strettamente ad uno dei due blocchi in formazione; e già è stato annunciato questo concetto, ma aggiungo che tra questi due blocchi noi potremo compiere la funzione di ponte di collegamento. E sarebbe quello di entrare nei negoziati di uno dei due blocchi l’errore più funesto che potremmo commettere, perché ci toglierebbe ogni mobilità e ci esporrebbe in ogni caso a pericoli mortali per la nostra indipendenza.

La nostra politica estera deve avere uno scopo essenziale: riacquistare, difendere e tutelare la nostra indipendenza, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, tentando il negoziato, negoziando fino al parossismo. Per questo occorrevano, e malgrado tutto occorrono ancora oggi, contatti personali, occorreva ed occorre parlare, non basta presentare soltanto delle note diplomatiche, occorreva ed occorre cercare questi «grandi» o i loro sostituti ad ogni costo, a costo di esser messi alla porta per più volte, ricercandoli dovunque, e riempir loro il cranio dei nostri diritti e delle nostre esigenze in senso assoluto e in senso relativo ai loro interessi ed alle loro esigenze, come del resto essi hanno riempito il nostro cranio di una propaganda di promesse che si sono risolte nel nulla. E per quanto riguarda in particolare le colonie io ritengo che questa volta ci sia ancora molto da fare. Ma in particolare nelle trattative si tenga presente la necessità che noi abbiamo di una emigrazione stagionale e permanente, di una emigrazione che sia dignitosa per coloro che si dovessero decidere a lasciare il suolo della Patria. Si tenga anche presente la situazione degli italiani all’estero e dei loro averi. Essi rappresentano per noi una fonte non indifferente di forza morale e di ricchezza materiale.

Mentre nel mondo si va velando e quasi spegnendo quella luce di speranza che, unica, aveva illuminato e quasi redenta tanta tragedia, noi abbiamo un solo dovere: difendere questa piccola e povera, ma anche grande ed eterna nostra Italia; difenderla per noi e per il mondo come una grande riserva morale e civile per un mondo migliore, se e quando questo potrà sorgere. Per questo occorre amare, amare tanto l’Italia. E chi l’ama e agisce così potrà contare sull’appoggio di tutti. Dobbiamo cioè far sì che il destino dell’Italia non sia oggetto dell’arbitrio altrui, ma diventi lei, l’Italia, l’arbitra del suo destino. (Applausi a destra e al centro).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Caso.

CASO. Onorevoli colleghi, desidero fare qualche osservazione in tema di assistenza ai lavoratori, nella mia qualità di studioso dei problemi medici del lavoro.

Il Presidente del Consiglio, nella seduta del 15 luglio, ci ha detto che «lo Stato si propone anche di intensificare, con provvedimenti che verranno fra poco formulati, le misure di lotta contro la tubercolosi, la malaria ed in genere le malattie infettive». Bisogna subito plaudire a tali intenzioni, ma nello stesso tempo esigere che siano tradotte in pratica in forma completa e con tempestività, onde siano veramente efficaci le norme da emanare, per le quali sarebbe consigliabile sentire il parere dei medici Deputati che sono abbastanza numerosi in questa Assemblea.

Ognuno di noi sa a quale via crucis molte volte siano sottoposti, ad esempio, i poveri infermi di tubercolosi, sia per la lontananza dai centri diagnostici, che per le personali difficoltà economiche, pure essendo la legge contro la tubercolosi una delle più perfette in Italia. Gli stessi inconvenienti sono da segnalare per le malattie infettive e per la malaria, sia per le deficienze del Testo unico delle leggi sanitarie, che per le interferenze fra questo ed il Regolamento di Igiene del Lavoro, sicché la duplicità delle disposizioni regolamentari annulla spesso la tempestività dell’intervento, che, invece, deve essere una delle caratteristiche essenziali nella lotta contro le malattie infettive, specie in mezzo alle comunità dei lavoratori. Oltre a ciò v’è da segnalare la mancanza di alcune malattie sociali, cioè di facile diffusibilità, nell’elenco delle malattie per le quali si applicano le norme di prevenzione contemplate dal Testo unico delle leggi sanitarie. Alcune di queste malattie sono: la brucellosi (così diffusa in molti centri rurali in seguito agli aborti delle vacche), la leptospidosi delle risaie, l’echinococcosi e l’anchilostomiasi. Per quest’ultima malattia parassitaria si verifica l’incongruenza che è soggetta all’intervento medico statale se colpisce gli operai dei cantieri e degli opifici (che per lo più ne sono esenti), mentre che viene lasciata a tutte le sue possibilità d’insorgenza e diffusione se riguarda gli ortolani ed, in genere, i lavoratori agricoli (che facilmente ed a cagione del loro lavoro, se ne contagiano).

Per la malaria, altra malattia di grande interesse sociale, soprattutto perché riduce, a causa dell’anemia post-malarica e di altre complicanze, notevolmente la capacità lavorativa, la sezione VII del Testo Unico (articolo 311 e seguenti) persegue fini di riduzione della mortalità specifica, finalità assistenziali e profilattiche, la distruzione dell’agente morboso. Gran parte di tali compiti, di ampiezza sconfinata, sono affidati ai Comitati Provinciali per la lotta antimalarica e ai Consorzi di Bonifica con risultati, invero, molto scarsi, soprattutto in applicazione dei mezzi preventivi che invece debbono essere quelli preminenti nella lotta contro la malattia.

Un’altra deficienza attuale è quella di non contemplare, per lo meno in certi particolari, la malaria come infortunio sul lavoro, mentre che tutto concorre a definirla tale: la provenienza del lavoratore da zona sicuramente immune, la puntura della zanzara (microtrauma) equivalente ad una percossa e l’occasione di lavoro, cioè l’ineluttabile necessità, per quel lavoratore compromesso nella sua salute, dì aver dovuto prestare il suo lavoro in zona malarica.

Ritengo che, fra le misure di lotta da formulare prossimamente, si debba anche dare un più largo posto alle malattie del lavoro, giacché quelle attualmente soggette all’assicurazione sono più una lustra teorica che una realtà assicurativa. Basta, fra le altre, tener presente la legge sulla silicosi, del 12 aprile 1943, n. 455, per convincersi che tutto è da rifare non solo per una reale e fattiva ragione di assistenza, ma per un atto doveroso di fratellanza e di moralità verso i nostri operai che compiono un duro lavoro negli ambienti polverosi ad alto contenuto di silice, che è la polvere più dannosa per l’apparato respiratorio.

Immaginarsi che l’indennizzo e l’assistenza sono limitati solo agli operai che abbiano perduto per lo meno il 33 % della loro capacità al lavoro, mentre che sono del tutto trascurati i casi iniziali, cioè proprio quelli effettivamente riparabili. In tal maniera viene contraffatto in pieno il concetto fondamentale della medicina del lavoro, che mira a prevenire, per quanto possibile, le malattie professionali piuttosto che curare l’irreparabile. Nella modifica che s’impone di una tale legge è bene tener presente altre malattie professionali come l’actinomicosi, l’intossicazione da arsenico e da manganese (studiate recentemente dal Prof. Aiello di Siena), l’estensione dell’assistenza per l’anchilostomiasi anche ai contadini, le malattie respiratorie da polveri (pneumo-coniosi) non solo industriali ma anche per gli addetti all’agricoltura (pastori, vaccari, stallieri), in attesa, ben s’intende, di più vaste ed organiche provvidenze da sancire a favore della salute e del benessere dei lavoratori nelle leggi costituzionali del nuovo Stato Italiano.

Per rimediare alle deficienze attuali della legge e secondare il programma del Governo, così chiaramente rinnovatore, in tempi come i nostri nei quali il primato del lavoro si affaccia impetuoso ad equilibrare più cristianamente i rapporti sociali, credo che si debbano prendere due ordini di provvedimenti:

1°) diffondere l’insegnamento della medicina del lavoro nelle Università, onde ottenere che le Cattedre stesse della specialità diventino i naturali organi di consulenza e di coordinamento scientifico e clinico della mutualità e dell’assicurazione contro le malattie che, pur rivestendo un rischio generico per tutti, diventano professionali per l’intervento delle più svariate cause da lavoro, anche se questo assuma, a volte, soltanto la figura di un agente concausale di malattia.

In Italia si verifica questa contraddizione nei termini: la metà circa degli Statuti delle Università escludono la medicina del lavoro dalle materie d’insegnamento, mentre che il titolo della specializzazione è professionale per gli Ispettori medici del lavoro e per i medici di fabbrica. E questo avviene nella patria di Bernardino Ramazzini, di Luigi Devoto e di Luigi Ferranini, fondatore il primo (circa tre secoli or sono) e rinnovatore gli altri due (quaranta anni fa a Milano ed a Napoli) di una tale gloriosa branca della medicina, che è tutta un’anticipazione della assistenza sociale così come oggi si vuol concepire ed attuare.

Per ora la medicina del lavoro, anche nella Università dove è costituita in cattedra ordinaria (Milano, Torino, Padova, Siena e Napoli) è ritenuta materia complementare, mentre che ortopedia, otorinolaringoiatria, odontoiatria sono materie obbligatorie di esame. Stando così le cose è ovvio che, salvo qualche rara eccezione di studenti che abbiano innata la vocazione per i problemi sociali della medicina, la grandissima maggioranza dei giovani medici esce dalle Università senza conoscere i rudimenti di una scienza che, si può dire, sia nata col lavoro umano, tanto intimi sono i rapporti fra la fatica che ogni lavoro comporta e le reazioni che ogni organismo vi oppone. Per ovviare basterà rendere obbligatorio l’esame/anche se l’insegnamento dovesse, per ora, ridursi a venticinque lezioni, cioè ad un solo semestre.

Una volta diffuso l’insegnamento della medicina del lavoro bisognerà poi occuparsi dell’impiego pratico dei medici del lavoro che non solo devono trovar posto adeguato negli opifici, ma anche nelle campagne, per lo studio importantissimo della patologia rurale, possibilmente accanto al medico condotto, all’Ufficiale sanitario, all’agronomo condotto, del quale ultimo pur s’invoca da più parti l’istituzione come una necessità della riforma agraria.

E così, nel campo di riforma delle leggi di tutela del lavoro, forse si potrà utilmente arrivare all’istituzione dell’Ispettorato Medico del lavoro a sede circondariale, tanto più che, se deficienze vi sono state finora nel servizio d’igiene nel lavoro, queste non sonò attribuibili al personale che è competente e selezionato, ma alla difficoltà e precarietà delle visite mediche e alla scarsezza numerica dei funzionari medici.

Un Ispettore medico, decentrato, potrà meglio compiere visite di controllo alle aziende industriali, commerciali, agrarie, artigianali (in queste comprese le aziende a tipo familiare), sorvegliare il lavoro delle donne e dei fanciulli, visitare spesso gli addetti alla produzione e smercio delle sostanze alimentari, vigilare la legge sulla risicoltura, assistere i mietitori, gli operai delle fabbriche di tabacco, essere accorti nell’ammissione delle donne minorenni e dei fanciulli al lavoro (scartando i mestieri pericolosi allo sviluppo delicatissimo della pubertà), compiere, insomma, quella funzione d’igiene integrale del lavoro, che veramente darebbe ai lavoratori il senso dell’assistenza paterna e fraterna insieme, da parte di una società più civile e più giusta.

2°) Diffondere e coordinare meglio i servizi sanitari del Ministero del lavoro e della Previdenza sociale, aumentando il numero dei funzionari medici e l’attrezzatura tecnica dei servizi periferici e stabilendo rapporti, ben precisi e diretti, con l’Alto Commissariato della Sanità pubblica, in attesa che si discuta ed eventualmente si decida la creazione di un unico Dicastero Sanitario o della Difesa Sociale (come ha proposto l’onorevole Persico), da cui far dipendere tutti i servizi medici e igienici della Nazione.

Per ora, è bene evitare, come spesso accade, proprio per quella tale deficienza di personale sanitario, che gli Ispettori dei Circoli del Lavoro, per lo più ingegneri, si occupino, attraverso gli ufficiali sanitari, di problemi interessanti la medicina. Essi non possono concorrere con efficacia alla difesa della salute dei lavoratori, in quanto questa è legata, non tanto a prescrizioni regolamentari formali, quanto ad una serie di acquisizioni scientifiche e cliniche che soltanto i medici, e non tutti i medici, possono conoscere e prontamente applicare.

Di una schiera di medici del lavoro si sente appunto oggi il bisogno in mezzo agli operai per completare quell’opera costante, sagace e coraggiosa di difesa integrale del lavoro che compiono i nostri valorosi colleghi che si sono dedicati all’organizzazione sindacale.

Accogliete, dunque, con fraterna e serena comprensione, i medici del lavoro nel campo stesso del sindacato, in ogni ambiento lavorativo, e voi avrete riempita una grande lacuna, a tutto beneficio dei lavoratori che saranno più sani, e, quindi, più produttivi, non in nome soltanto di un’arida per quanto legittima esigenza economica, ma di un superiore bene spirituale che tutti ci può cristianamente affratellare sotto il simbolo nobiliare del nostro comune lavoro. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi.

GRONCHI. Onorevoli colleghi, le discussioni sulle dichiarazioni del Governo – salvo quanto ha detto l’onorevole Togliatti – sono state di natura e di carattere prevalentemente particolare. Hanno cioè preso di mira i vari aspetti del programma del Governo, ne hanno esaminato l’attuabilità e la consistenza, hanno aggiunto raccomandazioni o suggerimenti, manifestando in generale consenso e fiducia.

Evidentemente questo esame concreto della politica governativa ha la sua importanza. Guai alle classi politiche, guai ai governi che sollevino problemi senza disegnarne nelle forme più concrete le attuazioni.

Vi è oggi nell’azione pratica di ogni Ministero la necessità, direi, di un tecnicismo, di una aderenza alla realtà, senza la quale si cade troppo spesso in astrattismi verso cui si rivolge il gusto delle larghe assemblee politiche, mentre oggi non è più il tempo né delle reazioni né delle rivoluzioni ideologiche. La stessa mansuetudine dei programmi dei partiti più estremi dimostra come in questo momento si renda omaggio alla necessità di ancorarsi alla realtà il più saldamente possibile, di scegliere fra le soluzioni dei problemi quelle più concrete, più attuali, più attuabili.

Ma si possono tutti questi problemi di Governo risolvere in sede puramente tecnica? E può il complesso delle misure che un Governo propone all’attenzione del paese determinare, per il solo suo contenuto «tecnico», la fisionomia e la funzione politica di questo Governo in un determinato momento?

Evidentemente quello che maggiormente interessa per orientare il Paese e l’Assemblea è piuttosto l’indirizzo generale politico nel quale questi problemi s’inquadrano.

È forse utile perciò, senza cadere in astrattismi, parlare innanzi tutto di questo indirizzo, sia pur brevemente.

Esso è stato la nostra preoccupazione maggiore. Per noi, usciti dalla lotta elettorale con una manifestazione di fiducia più grande di quella riscossa da qualsiasi altro partito, il problema della formazione del Governo non si è presentato come una preoccupazione di conquista di posti e di accaparramento di influenze, ma come una necessità di imprimere alla politica del Governo quell’orientamento che meglio rispondeva ai problemi e alle responsabilità che di fronte al paese abbiamo assunte. E, se dovessimo esprimere il nostro pensiero di gruppo sul modo come la crisi si è risolta, non avremmo ragione di esserne eccessivamente contenti.

Siamo spesso stati accusati, con espressioni più o meno argute, di avere una certa avidità di posti e di potenza. Basta che voi diate un’occhiata alla distribuzione dei portafogli in questo Governo e, più che al numero, all’importanza effettiva che ciascuno di questi posti ha nella politica del Governo, per vedere che la moderazione del nostro amico Gasperi è stata tale da suscitare anche tra noi una certa perplessità. (Applausi al centro – Commenti). Perché poco interessa, come forza politica, di occupare i portafogli militari quando posizioni di reale influenza sono state lasciate ad altre correnti politiche, con le quali è pure una necessità ed è nostra volontà di collaborare. (Commenti).

La resistenza fatta in alcuni momenti della crisi e che ne ha resa delicata la soluzione, riguardava problemi di carattere programmatico o questioni di principio poste innanzi a vietarci di occupare, come un qualsiasi altro partito, il Ministero dell’istruzione, o ad impedire che alcune delle leve della vita economica e sociale del nostro Paese subissero il nostro diretto controllo.

L’onorevole Togliatti, in alcune sue manifestazioni giornalistiche, più che nel discorso che egli ha fatto qui, mostrò del tripartitismo una concezione nella quale noi non conveniamo interamente. Egli accusò allora l’onorevole De Gasperi di voler fare non un governo tripartito, ma un governo suo, volendo con ciò indicare quello che, in termini banali, si ripete sulle gazzette e anche dentro questa aula, che la Democrazia Cristiana volesse ancora una volta farsi, in questa situazione politica, la parte del leone. Non era qui la questione di fare un governo proprio; la questione era di rispondere all’aspettativa del Paese e accettare in pieno la responsabilità; e per accettarne in pieno tale responsabilità, tenere sì conto della utilità, ai fini nazionali, della collaborazione delle maggiori forze politiche, ma stabilire, primi inter pares, che un’influenza del nostro pensiero e del nostro orientamento prima che un diritto, era soprattutto un dovere. (Applausi al centro).

Era soprattutto un dovere e noi siamo disposti ad accettare uguale criterio quando una diversa situazione politica spostasse l’asse delle maggiori responsabilità verso altre parti di questa Camera.

Quale sia, dunque, l’indirizzo che noi abbiamo cercato e cerchiamo di imprimere alla politica generale di questo Governo non è forse inutile riassumere, perché dal complesso dei problemi concretamente prospettati nelle dichiarazioni del Governo si deve desumere soprattutto, come dicevo, l’orientamento generale che intendiamo dare alla politica del Paese. Innanzi tutto la rivalutazione dei fattori morali. Noi la abbiamo espressa anche in quella rivendicazione relativa al Ministero dell’istruzione, non perché intendiamo di creare un qualsiasi monopolio o farne campo di qualsiasi attività di parte, ma per affermare quale è l’importanza che, secondo noi, hanno la formazione della coscienza e il rinnovamento della scuola, posti a base di quel rinnovamento che dovrebbe essere il fondamento della nuova vita politica e della nuova democrazia.

Per noi il problema si pone o nei termini della educazione delle coscienze, cioè di quello che si chiama, e si riconosce da ogni parte come necessario, lo sviluppo della personalità umana, oppure in termini di compressione e di violenza. Le trasformazioni profonde nei regimi politici e nei regimi economici si realizzano attraverso la lenta permeazione delle menti e dei cuori, la quale crea nelle singole coscienze la persuasione che tali trasformazioni rispondono ad una maggiore giustizia e all’interesse superiore oggettivamente interpretato. Oppure questa abolizione dei privilegi, questa migliore distribuzione della ricchezza, questa più integrale partecipazione del popolo alla vita dello Stato, non possono essere ottenute che attraverso la compressione, o con la forza della legge.

Ma poiché per un popolo, il quale non intenda la necessità e la legittimità di queste rivendicazioni, non vi è sanzione che valga e non vi è legge che sia sufficiente ad imporre radicali rinnovamenti del costume, oltre che degli ordinamenti, è evidente che questo appello che noi facciamo ad una rinnovazione, ad una elevazione delle coscienze, è certo la via più sicura, più concreta e durevole per quel rinnovamento profondo che noi tutti ci auguriamo. Donde quel nostro feticismo per la libertà, che fa sorridere qualcuno; donde l’accento che noi poniamo su questo fondamento della vita democratica, senza il quale – secondo noi – non vi può essere nessuna vera e reale civiltà. Noi temiamo la violenza, non tanto perché la violenza ferisce i corpi, quanto perché opprime gli animi, quanto perché offende la dignità dello spirito, quanto perché impedisce alle idee di liberamente espandersi ed affermarsi nella vita dei popoli, di conquistare le coscienze con la sola forza che deve essere legittimamente espressa, e che è quella della rispondenza di queste idee ai concetti superiori di fraternità, di solidarietà, di giustizia, verso i quali l’umanità dopo ogni guerra, e soprattutto dopo questa guerra, corre irrefrenabilmente. (Applausi).

Noi abbiamo bisogno della libertà, perché senza libertà la nostra propaganda perde qualsiasi possibilità. Noi non esitiamo a ripetere come un principio, che aborriamo la violenza. Non perché questa sia un fenomeno di viltà morale, quanto perché nella virtù costruttrice della violenza non crediamo. Noi crediamo invece nella riconquista lenta e nella graduale liberazione delle coscienze, alla quale rivolgiamo ogni nostra opera, ogni nostro sforzo, ogni nostro intendimento.

Per quanto riguarda l’esigenza della giustizia, è necessario che noi diciamo ancora una volta, dopo le accuse di eterogeneità che vengono troppo spesso rivolte a questa parte della Camera, come sia bensì vero che talvolta in talune enunciazioni affrettate la nostra posizione di fronte al problema economico possa essere parsa ben poco dissimile dalle posizioni tradizionali del pensiero liberale, ma la nostra impostazione, che è stata espressa anche nelle enunciazioni particolari delle dichiarazioni del Governo, è profondamente diversa. Secondo noi, non i principî di giustizia debbono essere sottoposti alle esigenze tecniche o alle «leggi» economiche della produzione; ma queste devono subire il primato di quelli. Non è possibile che noi vediamo nei fenomeni della vita collettiva di un popolo soltanto le esigenze della produzione, intese nella bruta forma di un termine insuperabile. Non è possibile che noi applichiamo all’economia sociale di un popolo i criteri che possono essere applicati alla vita individuale di una azienda, per la quale il maggior reddito – il guadagno massimale, come dicono taluni economisti – è la sola legge alla quale essa deve obbedire. Vi è una esigenza sociale superiore, alla quale anche questa legge del profitto deve piegarsi e obbedire. Vi è questa esigenza di giustizia sociale, per la quale noi non accettiamo la libertà dell’iniziativa privata, se non fino a quando essa coincide con gl’interessi generali, e crediamo che lo Stato non possa assistere impassibile allo svolgersi della vita economica di un Paese, perché ha il dovere di tutelare, al di sopra degli interessi particolari, gli interessi della collettività. (Applausi).

Quando nel passato, ad esempio, si sono subordinate ad esigenze di bilancio certe riforme sociali, come la lotta contro le malattie sociali, contro la malaria, contro la tubercolosi, contro la stessa miseria e il pauperismo, si è obbedito ad un concetto che non è nostro, poiché di fronte a certe supreme leggi dell’interesse collettivo, non vi possono essere esigenze finanziarie che abbiano maggiore peso, o influenza predominante.

Occorre che la collettività faccia qualunque sforzo perché questi problemi, che hanno importanza suprema, possano essere risolti. Occorre cioè che siano poste in primo piano queste esigenze sociali ed umane, al di sopra delle necessità economiche e tecniche e al di sopra di ogni altra esigenza. Per noi la vera civiltà non è il progresso meccanico; a noi interessa fino ad un certo punto che la macchina, sostitutrice dell’uomo, abbia perfezionato ogni tecnicismo della produzione e ne abbia aumentato il volume o abbassato il costo, e posto a disposizione una più larga massa di merci e di generi di prima necessità, se, al di sotto di questo progresso della macchina, l’umanità rimane profondamente refrattaria e negata ad ogni senso di solidarietà, sia nel campo interno, come nella più vasta vita internazionale. Se cioè nell’uomo si risveglia periodicamente la brutalità dell’egoismo e della violenza, per noi la civiltà è ancora ben lungi dal raggiungere il suo ideale. Ed ecco perché noi poniamo queste esigenze dello spirito al di sopra e al di là di ogni esigenza economica ed ecco perché le esigenze dello spirito condizionano tutta la nostra politica. Come è possibile che noi lasciamo incontrollata l’iniziativa privata, che pure valutiamo come una delle leve motrici più effettive ed efficienti del progresso attuale, e come può lo Stato non sentire il dovere di interessarsi di questa attività economica, quando è così preminente oggi e universalmente sentito l’interesse della vita collettiva?

Gli interessi particolari richiedono invero di essere rigorosamente subordinati all’interesse collettivo. Questo è il nostro pensiero intorno all’intervento dello Stato, dovunque tale subordinazione non sia spontaneamente sentita come un dovere sociale.

È non è poi che l’idea dello Stato debba essere necessariamente connaturata con un intervento limitatore e compressore di ogni attività.

Oggi si ragiona ancora con dinanzi la figura dello Stato totalitario, la visione di uno Stato accentratore di ogni attività; ma lo Stato democratico quale noi vogliamo creare sarà certamente non il surrogato dell’iniziativa privata, dove questa manterrà la sua spinta e la sua forza di progresso, nonché il suo rispetto degli interessi collettivi, ma ne sarà il correttivo ed il controllore; sarà, in sostanza, quello che ragionevolmente regolerà e disciplinerà l’attività privata ai fini generali.

Questa è la concezione nella quale noi insistiamo e che indubbiamente – insieme a certi tratti caratteristici del nostro programma, dà la nostra posizione attuale rispetto ai problemi del Governo. Ogni problema, anche il più piccolo, anche il più particolare, contiene in se stesso problemi che involgono tutta la organizzazione nazionale e persino tutta l’organizzazione del mondo. Ogni problema rispecchia in sé una piccola faccia di quel poliedro che è l’attività degli Stati moderni ed ogni problema deve essere pervaso da questo spirito ed indirizzo. Ecco la concezione dello Stato che noi abbiamo e che ci sembra che il Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni abbia espresso in rapporto alla soluzione dei problemi concreti.

Si potrebbero discutere, si potrebbero esaminare in questi problemi concreti le soluzioni proposte, ma io vorrei porre di fronte a voi il problema politico della possibilità di queste soluzioni, la quale possibilità dipende dall’appoggio che i tre partiti maggiori daranno al Governo e dalla misura di questo appoggio. Ci ha detto l’onorevole Togliatti che il programma del Governo è praticamente il più accettabile anche per loro. Ha citato una nostra mozione dell’ottobre, nella quale sono disegnate rapidamente alcune riforme politiche ed ha invitato il Presidente del Consiglio a dar loro attuazione, perché su quelle può convergere il consenso di ognuno dei nostri tre partiti.

Non so se egli abbia distinto la posizione attuale del Governo da quella del partito di allora. Noi la troviamo pressoché identica e crediamo che quanto il Presidente ha detto nei rispetti dei problemi industriale e agrario non sia che un avviamento a quelle più radicali riforme che nella nostra mozione erano più largamente disegnate, in quanto proiettate in un tempo indeterminato; mentre il Presidente del Consiglio dei Ministri bene ha fatto a dirci soltanto quanto egli crede che sia attuabile nel periodo in cui è prevedibile duri e si svolga la vita di questo. Ministero.

Ma non posso non osservare che l’atteggiamento serbato dai socialisti e dai comunisti di fronte al programma del Governo non è identico. Vi è stata, da parte dell’amico e collega Lombardo una esposizione concreta di problema pratici verso i quali egli ha concentrato l’attenzione dell’Assemblea, ed egli lo ha fatto in pieno accordo, direi quasi in armonia, con quelle che erano le dichiarazioni del Governo.

Il collega Togliatti ha assunto invece una posizione, se egli me lo consente, di un certo distacco. Egli ha esaminato dal suo banco, più da osservatore che da collaboratore, la esposizione del pensiero del Governo, ne ha messo in rilievo talune deficienze, e, in sostanza, più che dichiararsene soddisfatto, ha espresso un certo moderato pessimismo. In questo sta il problema politico del Governo attuale. O esso veramente riesce a raggiungere quella unità nazionale che deve cominciare dalla convergenza sincera e leale dei tre maggiori partiti e del partito repubblicano che lo fiancheggia, e per far ciò deve guadagnare quella fiducia generale attraverso una sua politica di aperta ma ferma pacificazione; o se, nella stessa compagine che lo sostiene, delle venature e delle incertezze si determinano, lasciate che vi dica che la politica di unità nazionale riesce gravemente compromessa. Ed è stata, malgrado le parole, assai spesso compromessa anche in passato, quando troppi degli uomini appartenenti agli altri partiti della esarchia, che facevano parte del Governo, si sono assicurati insieme i vantaggi del Governo ed i benefici dell’opposizione. (Applausi vivissimi al centro e a destra).

Questa dovrebbe oggi essere una via risolutamente abbandonata. Voglio essere indulgente e osservare che in un Governo così poliedrico e complesso come era quello della esarchia, dove necessariamente si doveva sempre trovare un punto di convergenza – e il punto di convergenza era spesso assai più vicino al compromesso artificioso che non al giusto mezzo e alla visione realistica delle cose – una certa libertà di atteggiamento poteva rispondere ad un senso di responsabilità e, diciamolo pure francamente, anche ad una necessità psicologica interna di partito.

Ma questo Governo, che per la prima volta ha posto il problema della sua composizione sulla formulazione di un programma, e che per la prima volta ha discusso tale programma, prima di addivenire alla distribuzione dei posti, dovrebbe avere la più larga e la più sicura convergenza dei partiti che lo compongono, senza distinzioni troppo sottili o troppo comode; per cui si dovrebbe giungere alla constatazione che se le soluzioni che il Governo indica non sono inevitabilmente di quell’ampiezza che ciascuno di noi desidera, questo è non perché si sia voluto accentuare un punto di vista politico particolare, ma perché si sono volute limitare realisticamente le possibilità di attuazione. Infatti questo solo deve fare un programma di Governo e non cominciare da Adamo ed Eva ad esaminare il problema del mondo sub specie aeternitatis; cioè limitarsi alle possibilità pratiche di attuazione, prescindendo dal suscitare aspettative per un desiderio di. popolarità.

Anche su questo terreno le limitazioni, le insufficienze che da qualche parte si sono lamentate non si debbono certo ad una diversità di indirizzo e ad una incertezza di applicazione.

Vi è però uno stato di disagio al quale dobbiamo guardare con franchezza, e lo stato di disagio deriva proprio dai vostri amici, onorevole Togliatti, dei quali noi non sappiamo se e fino a quando l’adesione ad una azione di Governo possa essere lealmente e sicuramente da considerare. Le stesse contraddizioni che voi avete poste a base delle vostre dichiarazioni e che si riflettono soprattutto sulla politica estera, fanno sorgere e rafforzare in noi il dubbio che per molti di voi, forse per la vostra politica di partito, la politica interna sia considerata e valutata soprattutto in rapporto alla politica estera. E questo significa non già che noi diamo credito alle voci di vostra dipendenza dall’estero, di vostre relazioni con l’estero, che potrebbero menomare la vostra funzione, fisionomia, vita di partito; ma vi pone certo in una sfera di influenza spirituale, la quale gravita verso un altro Paese che con la sua massiccia e magnifica efficienza ha creato dentro il vostro spirito un mito e può, per avventura, limitare la vostra libertà di giudizio ed il vostro pensiero in rapporto alla politica interna. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni – Commenti a sinistra).

PAJETTA. Il territorio di un altro Stato è più piccolo, onorevole Gronchi, ma l’influenza è più vasta (Commenti).

GRONCHI. Lasciate che noi esprimiamo in libertà il nostro pensiero, perché la stessa estrema moderatezza di cui date prova di fronte alla possibilità di realizzare certi problemi, la stessa estrema moderatezza della forma con la quale vi esprimete ha un singolare contrasto con quella che è la temperatura delle masse alla periferia, temperatura delle masse alla quale voi non potete dichiararvi estranei, perché non potete dire che in essa voi non esercitate un’influenza preponderante, altrimenti dovreste arrivare alla conclusione che queste masse si sottraggono perfino al vostro controllo, e per un partito di massa una considerazione di questo genere sarebbe una dichiarazione d’impotenza. (Applausi al centro e a destra).

Una voce. E le vostre? (Rumori).

PAJETTA. Voi le avete fatte votare per la monarchia. (Rumori – Commenti).

Una voce. È il peccato di origine! (Commenti).

GRONCHI. Colleghi comunisti, queste osservazioni vi vengono da uno il quale nel seno del suo partito ha sempre combattuto la politica dell’«anti». Sono qui i colleghi che mi hanno sentito parlare al congresso, nei consigli nazionali, e sanno questa mia posizione.

Una voce. Ma non erano d’accordo con lei.

GRONCHI. Non importa. Io dico qual è la mia posizione in questo momento. (Interruzioni – Commenti).

La politica dell’«anti» che qualche volta a praticata in certi ristretti strati anche del mio partito, ma che soprattutto è largamente praticata da altre forze e correnti politiche, convengo che è una delle più sterili e delle più pericolose: è sterile perché non porta se non ad una posizione negativa e non costruttiva; è pericolosa perché potrebbe riprodurre, involontariamente, quella situazione dalla quale siamo usciti per virtù nostra e, dev’essere anche detto, per virtù del movimento socialista, che ha esaminato così a fondo anche nell’ultimo congresso i propri problemi, e di tutte le forze sinceramente democratiche, che possono dirsi forze di equilibrio. (Applausi).

Quando si crea e si segue feticisticamente la politica dell’«anti» non vi è che l’estremo opposto a cui ci si possa raccomandare e quando si realizzano cosi fattamente le due posizioni, si rischia di riprodurre la situazione del 1920-1921, quando per riconquistare la libertà che si diceva minacciata dal cosiddetto bolscevismo imperante, anche il ceto medio non vide altra salvezza che correre nelle braccia del fascismo sorgente; quando cioè le forze anche nostre, di tutti i partiti, di centro o di centro sinistra, se non vi dispiace questa geografia politica inconcludente, furono frantumate, perché si sentì che esse non possedevano alcuna reale efficienza, non possedevano alcuna reale possibilità di garantire quella libertà che soltanto per paradosso una dittatura sembrava di poter tutelane e sviluppare.

È evidente che se io rivolgo a voi talune osservazioni lo faccio non per spirito puramente Negativo. Io sento quanto voi la necessità dell’unità nazionale. Io so che noi dobbiamo percorrere molto cammino insieme, perché la configurazione politica del nostro Paese, se non ne avessimo la convinzione oggettiva, ce lo imporrebbe come una pratica necessità. Ma è evidente, che per creare l’assetto di una repubblica democratica, occorre che le forze che vi cooperano non diano la sensazione di servirsi della democrazia come di un mezzo strumentale o di una fase transitoria, ma diano invece la sensazione di credere alla realtà ed alla stabilità, nel suo sviluppo e nella sua evoluzione, di un metodo democratico che escluda il metodo di ricorso alla dittatura ed alla violenza. (Applausi al centro).

Voi che andate inevitabilmente rivendicando l’attualità permanente del marxismo e siete voi soli, perché i vostri cugini socialisti sono alquanto più guardinghi (non vi è che il Vangelo che affermando principî morali riflette e domina perennemente la vita dei secoli e dei millenni, ma tutte le dottrine che legano la loro sorte a quella dei fenomeni economici inevitabilmente mostrano delle rughe dopo qualche decennio di vita, anche se sono frutto di ingegni poderosi come Marx, Engels e altri della loro scuola), voi che rivendicate questo metodo, non potete non negare che vi sia al fondo di esso l’ineluttabilità di un ricorso alla violenza. Adopro questo termine nel significato più largo e più lato della parola. Vi è un momento nel quale la evoluzione non serve a vincere le resistenze, non serve a distruggere le distinzioni di classe. Non vi è possibilità se non in un mondo mitico o mitologico che ciascun uomo o ciascuna classe sappia sacrificare il proprio egoismo all’interesse degli altri individui e classi, ma all’infuori di questo mondo metafisico non c’è che la compressione e la sanzione della legge che possano realizzare un regime così organizzato. Ed allora il dilemma in cui praticamente si svolge per voi la storia, se voi lo confessate apertamente, è: rivoluzione borghese o rivoluzione proletaria, dove la democrazia appare molto spesso una specie di elemento di transizione.

Può darsi che questo d’ora innanzi non sia. Può darsi che anche fra voi un processo di revisione si vada approfondendo. E se noi leggessimo certe vostre recenti affermazioni, dovremmo convenirne, perché non c’è neanche bisogno di essere marxisti per prendere la vostra tessera, in quanto basta rispettare il vostro programma politico. Ora il vostro programma è il nostro; è quello d’ogni partito democratico. Ed io stesso vi dico che non farei alcuno sforzo a chiedere la vostra tessera, se si trattasse solamente di accettare il vostro programma.

Una voce. È questione di tempo!

GRONCHI. Ma perché volete privare la vostra azione di quello che è il solo fermento da cui essa trae tutto il suo valore e tutta la sua forza rivoluzionaria? Voi avete un principio ed una base ideologica che sta in fondo alle vostre rivendicazioni, alla base delle impostazioni dei vostri problemi concreti e non dovete irritarvi se trovate in mezzo a noi dei perplessi e dei dubbiosi. Non dovete meravigliarvi se nel Paese c’è questo senso di disagio che dice: fino a quando e fino a qual punto? Ed è questo disagio che assume una portata politica ed è lo stesso problema politico che si pone per la stabilità di questo Governo.

Certamente vi è anche nei riflessi della politica estera una riprova di quanto sto dicendo. Noi ci troviamo di fronte a problemi nei quali l’atteggiamento dei nostri partiti è stato uguale. È vero che le proposte cosi infelici e dolorose della frontiera occidentale si devono ad un capo di governo che ha con noi stretti motivi di parentela, ma è altrettanto vero che se i socialisti hanno assunto atteggiamenti diversi e differenti, i vostri uomini hanno caldamente sostenuto questo stesso punto di vista. E vorrei dire che se Bidault ha commesso l’errore di pensare che il cedere sulla posizione del nostro confine orientale gli avrebbe guadagnato l’appoggio per la soluzione della Renania, sulla quale egli puntava, non si deve dimenticare che egli aveva una situazione interna di governo e di equilibrio di partiti per cui non poteva sembrare meno nazionalista dei comunisti.

La stessa situazione oggi si crea e si è creata di fronte a Trieste, per cui ha ragione Togliatti quando dice: guardiamoci dal risvegliare questa mentalità nazionalistica, guardiamoci dal fare appello a questi sentimenti che troppo spesso sconfinano nello sciovinismo. Pienamente d’accordo. Ma siete voi completamente sicuri che questo spirito e questo stato d’animo non scaturiscano dall’atteggiamento eccessivamente scettico e freddo e negatore di una gran parte dei partiti politici italiani e non si affermi, come si affermò, col tempo, come il mito della vittoria mutilata, che fu uno dei moventi ideologici del sorgere del fascismo? Siete ben sicuri che stia nelle nostre mani impedire questa colorazione nazionalistica del nostro dolore e del nostro rimpianto o se questo non possa produrre il crearsi e il rafforzarsi di molti stati d’animo e di reazioni, che investirebbero le basi stesse della nostra vita democratica? (Applausi).

Di tutti questi fattori spirituali bisogna tener conto, anche se dobbiamo contenerli entro le forme che le nostre considerazioni politiche e, direi, fredde della realtà, ci consigliano. Di questi interessi e di questi moventi ideali bisogna tener conto perché sono vivi nella vita di un popolo. Un popolo non è soltanto entità economica, non è soltanto entità sociale; è qualche cosa di più. Quando parliamo di tradizioni, di lingua, di comunanza di vita e di pensiero, noi non suscitiamo fantasmi retorici e letterari, ma constatiamo la realtà viva, al di fuori di tutte le farneticazioni dell’imperialismo, di tutte le esasperazioni dello spazio vitale; constatiamo il germe più vero, più naturale di tutte le collettività nazionali. (Applausi).

Ecco perché bisogna avvicinarsi a questi problemi con rispetto.

Questa guerra riproduce stranamente le situazioni che l’altra guerra sembrava avere avviate a soluzione. Tutte le guerre creano nuove aspettative nei popoli, un po’ perché, dopo ogni diluvio, si spera che il sereno ritorni, un po’ perché gli stessi governanti e le stesse classi dirigenti eccitano queste aspettative per indurre i popoli al contributo supremo che essi possono dare: il meglio di loro, la loro vita, i loro affetti. Dopo ogni guerra si crea l’aspettazione di una umanità che sia alquanto diversa di quella che nella guerra è precipitata. Così allora, così oggi.

Ed oggi, l’equilibrio internazionale che si va creando rassomiglia stranamente a quello di allora. Se rileggessimo con pacatezza la Carta atlantica, parrebbe preistorica perché molto diverso è lo spirito e l’atmosfera spirituale, nella quale viviamo in questo momento.

Non v’è più senso di solidarietà o di fraternità, ma si è tornati alla politica degli antagonismi, che sono tali da aver condotto il mondo slavo a dilagare in Europa, come mai era avvenuto nella storia; mai stabilmente, poiché il 1876 vide la Russia in Albania, il 1877 la vide ritornare, attraverso il trattato di Berlino, nei suoi naturali confini (Interruzioni – Commenti).

Ora questo espansionismo io non l’ho sopravvaluto come forza di espansione ideologica, per cui taluni, che sono i più inclini alla formulazione teorica o metafisica degli avvenimenti politici, pensano che la Russia tenda a bolscevizzare l’Europa o il mondo; ma la valuto per quello che esso è: ossia, massiccio blocco di popoli; i quali, con interessi convergenti, pongono il loro problema, oltreché economico, politico, proprio sulla linea di displuvio nella quale si trova l’Italia.

Ed ecco la delicatezza della nostra posizione; delicatezza che ci trae naturalmente al di fuori di quella adesione all’uno o all’altro blocco, che l’onorevole Togliatti paventava, perché noi da una alternativa di questo genere non avremmo che da ricavare tremende conseguenze, essendo evidentemente il pacifico vaso di coccio manzoniano tra due vasi di ferro.

Ma una posizione di questo genere ci dà anche la linea che dovremmo seguire in questo momento. Noi ci appelliamo a questi motivi sentimentali che hanno il loro valore; ma dovremmo soprattutto appellarci nella nostra politica estera a due concetti realistici. Il primo è la nostra adesione a quei principî che vengono ad essere oggi negati e che eliminano una politica di clientele, di blocchi contrapposti; cioè la nostra adesione ad un principio di solidarietà più vasta che crei la federazione di popoli, sola base di una pace più sicura. Il secondo è una specie d’interrogativo che possiamo porre agli Alleati o ai «Quattro» che hanno deciso – sembra ormai per trattato stampato – dei destini del nostro Paese.

Il problema dell’Italia non è soltanto problema italiano: è problema europeo e mondiale. Europeo, perché siamo 45 milioni di abitanti che non hanno nel loro Paese, per scarsezza di risorse naturali, la possibilità, nonché di sviluppare alto il tono di vita sociale, di alimentare i propri figli.

Si tratta di un Paese che ha teso verso le colonie per la necessità di espansione, che era una necessità sociale nel suo complesso nazionale, che ha posto nell’emigrazione uno dei mezzi di risolvere l’angoscioso problema che si addensa anche oggi al di là e al di sopra della paralisi delle industrie e della disoccupazione.

Se all’Italia toglierete le colonie, centellinerete le materie prime, se ne minaccerete l’indipendenza, voi potrete avere la pace in Europa, ma con un popolo inquieto al quale avrete negato le sue ragioni di vita. Ed è questa l’impostazione del problema che dobbiamo raccomandare a coloro che hanno difficilissimo incarico di riorganizzare il mondo. Non si riorganizza l’Europa senza l’Italia al suo giusto posto, quale le deriva non da smanie d’imperialismo, ma dalla sua capacità, dalla sua volontà costruttiva di lavoro: ed è questo soltanto che chiediamo in questo momento. (Vivi applausi).

Sta in ciò, probabilmente, la maggiore ragione di ottimismo con la quale ci stringiamo attorno al Governo, senza fare, e consigliando anche agli altri di non fare, eccessive analisi su questioni di impostazione e di metodo. Ci sarà tempo di esaminare tutto questo: o attraverso quella Commissione dei trattati internazionali che è stata insediata, o attraverso altre discussioni che si faranno quando potranno esser fatte liberamente, perché ciascuno di noi saprà che questa libertà di esame non nuocerà in nulla alle nostre posizioni nazionali.

Ma non sarà inopportuno dire come, in fondo, si siano fatte da qualche parte non critiche di metodo, ma impostazioni generali, convenendo che su questa unica linea si poteva battere.

Ho sentito l’onorevole Togliatti ripetere un suo concetto, che il metodo migliore per risolvere la questione dei nostri confini orientali è l’accordo diretto. Ne siamo persuasi anche noi. Soltanto l’accordo è come il matrimonio: bisogna essere in due. Ed è chiaro che ogni nostra buona volontà non ha trovato, per usare una frase eufemistica, uguale corrispondenza dall’altra parte. È a conoscenza di tutti come i nostri tentativi, diretti o indiretti, di metterci in contatto con quelli che si contrapponevano e si contrappongono ancora come nostri antagonisti, siano tutti caduti. Altra forma non c’era se non di accettare quel lavoro paziente ed estenuante di giuochi e dì influenze attraverso i «Quattro» che hanno nelle loro mani i destini di Europa.

Oggi l’interesse nazionale ci impone dì dire al Governo che prosegua nel suo sforzo di difendere la integrità delle nostre terre meglio che gli sia possibile; che consideri come sia necessario assumere e mantenere quella posizione di fermezza alla quale non potrà mai essere imputato un carattere di ostilità, che possa crearci difficoltà nell’avvenire. L’onorevole De Gasperi, che capeggerà questa ultima fase delle trattative, tornerà poi a riferire quali sono stati i risultati degli sforzi e questa Assemblea dovrà decidere. Io non voglio oggi dire come debba decidere. So che non abbiamo alcun interesse ad estraniarci dalla vita internazionale, ad isolarci dalla vita europea; so che abbiamo una coincidenza delle nostre idealità e delle nostre stesse esigenze ed è reinserirci al più presto possibile, non soltanto per ragioni, direi, economiche, perché dipendiamo ancora per qualche tempo troppo strettamente dalle potenze anglosassoni, quanto perché si sia possibile sviluppare al massimo questa nostra forza di espansione che si manifesta oggi pur attraverso tante difficoltà e tanta lentezza di scambi.

Io dico, né suggerisco all’Assemblea oggi quale potrà essere il nostro pensiero; dico che oggi il nostro dovere è di essere dietro al Governo come una vera unità nazionale, perché si senta ovunque che, al di fuori e al di sopra delle divisioni di partiti, c’è una concezione di giustizia alla quale noi aderiamo; concezione che risponde alla difesa sin qui fatta della nostra integrità, dei nostri interessi e dei nostri diritti.

Credo di avere così detto con brevità quale, secondo me e secondo noi, è la nostra posizione della vita politica del Paese in questo momento. Noi non deluderemo le aspettative. Vi sono molti dentro questa Camera e fuori che aspettano con una certa curiosità il cimento coi problemi concreti. Qualcuno ha detto che noi siamo l’ultima Thule della borghesia italiana; che noi abbiamo raccolto così gran numero di voti perché la borghesia ha veduto in noi il suo ultimo baluardo di difesa. Seppure questo fosse accaduto, seppure esistesse questo detrito di classe dirigente che sembrerebbe scomparso dalla vita politica italiana – poiché non si delinea nella nostra geografia politica neanche il debole segno di un partito conservatore – esso non avrebbe potuto domandarci più ingenuamente una difesa che contrasta col nostro pensiero, col nostro programma e col nostro atteggiamento.

Io credo che la eterogeneità tante volte rimproverata al nostro gruppo voi la vedrete scomparire quando si tratterà di applicare alla soluzione dei problemi concreti un criterio di giustizia sociale, perché non potremmo essere degni del nome che ci siamo scelti se non volessimo questa esigenza di giustizia sociale al di sopra di ogni considerazione politica, o peggio, elettorale (Applausi al centro).

Questo nome che noi abbiamo assunto ha una tradizione e noi l’abbiamo scelto dopo quello di «Partito popolare» non a caso. È una tradizione che ci riconduce al 1902 e al 1908 e che aveva avuto i suoi segni precursori perfino nel 1900, quando le carceri di Milano videro, accanto a Filippo Turati e ad Andrea Costa, Don Davide Àlbertario. (Applausi).

Noi possiamo risalire un po’ lontano nel tempo, anche prima della partecipazione che molti nostri amici hanno preso alla lotta per la libertà, per dire come questa esigenza della libertà sia qualche cosa che non risponde ad un interesse contingente, ma che è la sostanza stessa del nostro pensiero. Ecco perché sentiamo di costituire il fondamento di una vita democratica vera; ecco perché abbiamo voluto e vorremmo assumere anche maggiormente su di noi la responsabilità di condurre questi primi passi della Repubblica, perché noi siamo sicuri che attraverso la nostra influenza la libertà e la democrazia saranno sostanziate in ordinamenti che ne formeranno le più solide basi per il futuro. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Pacciardi.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, mi rendo conto della stanchezza di questa Assemblea dopo così lunga e, sotto molti aspetti, veramente interessante discussione. Io sono sfortunato, perché parlo all’ultima ora, in questa sede conclusiva, e d’altra parte, guai a questa Assemblea, se dopo cinquanta discorsi, ci fosse ancora qualche cosa di originale da dire.

Ormai i problemi, io credo, sono stati tutti sviscerati e le posizioni sono state tutte chiarite. Vi domando scusa, se debbo fare alcuni rilievi sulla posizione del Partito repubblicano.

È la prima volta, dalla conquista dell’unità in poi, tranne le eccezioni commissariali di Chiesa e di Comandini pel periodo eccezionale della prima guerra mondiale, che il Partito Repubblicano partecipa ad un Governo nazionale. C’è stata qualche critica a questo nostro atteggiamento; c’è stato anche gualche dileggio. L’onorevole Nitti, per esempio, ha parlato di Governo di tre partiti e mezzo. Io ho un grato ricordo dell’onorevole Nitti. Ricordo che nella sua casa di Parigi pendeva, dalle pareti modeste e onorate del suo esilio, un solo ritratto – e Nitti si vantava che ci fosse questo solo ritratto – il ritratto di Mazzini che, secondo lui, aveva inspirato sempre, nella vita, la sua condotta ed era anche fiero di vantarci le memorie garibaldine della sua famiglia. Se scandagliate nell’animo di ogni italiano, troverete sempre questo orgoglio, perché è la migliore linfa a cui ha sempre attinto il migliore sentimento nazionale.

Un partito che ha raccolto nella votazione più di un milione di voti, e ne avrebbe potuto raccogliere due milioni, se i movimenti neo-repubblicani, che sono nati nella lotta clandestina e nella inevitabile confusione della disfatta, avessero trovato (come stanno per trovare in gran parte) la loro strada, non si può dire «mezzo partito».

Comunque, ci permettano l’onorevole Nitti e gli altri onorevoli colleghi di essere fieri di questo mezzo partito. Per settant’anni siamo stati i soli, o quasi, che hanno tenuta viva la protesta storica del Risorgimento nazionale italiano contro la monarchia.

Questa repubblica è nata un po’ in pantofole e con un berretto frigio che somiglia troppo a un berretto da notte, quasi scusandosi di essere venuta al mondo. Per fortuna ci sono queste memorie, queste tradizioni repubblicane, saldamente radicate nell’animo nazionale. Chiusa questa tragica parentesi monarchica, il Paese può riprendere il suo corso, il corso della sua storia più bella, dimenticandosi – se n’è già quasi dimenticato – della monarchia di Savoia.

Per fortuna la repubblica non nasce soltanto dalla disperazione, dal dolore, dal dispetto, dai tormenti, dagli sgomenti della disfatta, ma è anche lo svolgimento, il coronamento delle stesse premesse storiche della nostra unità nazionale, e questo si deve alla presenza secolare sulla scena politica italiana di un partito come il partito repubblicano italiano.

È per questo, onorevoli colleghi, che, quando i tre grandi partiti di questa Assemblea hanno voluto costituire un Governo, hanno creduto di non poter fare a meno dell’apporto del partito repubblicano italiano, perché sentivano che questo apporto significava qualche cosa di più della mera forza numerica del partito; era una specie di anello storico che congiunge il passato al presente e all’avvenire; ed è per questo che noi non abbiamo rifiutato, e non potevamo rifiutare il nostro consenso a così affettuoso richiamo. Ne è venuto fuori un Governo non di tre partiti e mezzo, ma di quattro partiti; non lo dico per gonfiarmi di piccolo orgoglio, ma perché il nostro partito intende assumere la sua parte di direttiva e di responsabilità. (Applausi a sinistra).

Naturalmente è un Governo transitorio, che ha la durata strettamente limitata dalla stessa legge, ed è un Governo di coalizione. Ha tutti i pregi e tutti i difetti del Governo di coalizione. Infatti questi Governi hanno anche dei pregi, tanto è vero che i Governi di coalizione sorgono nei momenti di emergenza nazionale, nei momenti più gravi della vita di una nazione. Noi tutti abbiamo assistito con una certa pena e preoccupazione al contrasto ideologico che si è manifestato testé in questa Assemblea e che aveva certamente un sottinteso politico che non è certo sfuggito, e dinanzi al quale ci troviamo nella condizione di voler restare indipendenti in mezzo a un conflitto di blocchi contrapposti. Io credo che il Paese guardi a questa collaborazione di partiti diversi in momenti in cui gli interessi nazionali sovrastano decisamente sull’interesse di partito, con molto. favore.

Io credo che questa Assemblea, lo stesso onorevole Gronchi, e il Paese si sentano molto più tranquilli nell’avere al Governo i comunisti, in questa tremenda crisi, nella quale lo sfruttamento di tutte le miserie e di tutti gli scontenti sarebbe possibile, piuttosto di averli all’opposizione. Questi sono i vantaggi dei Governi di coalizione.

Ma hanno anche difetti. Noi crediamo che, pure impegnati come siamo, senza riserve e senza doppi giuochi, a sostenere l’azione del Governo, noi possiamo tranquillamente sottoscrivere a molte delle critiche che sono state fatte al Governo stesso.

Nessuno più di noi è partigiano di una semplificazione dello Stato, di una smobilitazione dell’apparato monarchico fascista, rimasto in piedi in questo periodo, nel quale la monarchia è scoronata, ma la repubblica non ha ancora i suoi istituti. Nessuno più di noi è favorevole a sfrondare nella farraginosa macchina dell’amministrazione statale. Abbiamo domandato anche noi, per cominciare, una unificazione di ministeri. Per esempio, ci pare un assurdo che, nelle condizioni in cui siamo, non si siano potuti unificare i tre Ministeri delle forze armate che ne hanno, addirittura, partorito un quarto all’ultimo momento. E questo è uno dei difetti dei Governi di coalizione, che cominciano sempre col programma di ridurre i Ministeri e poi finiscono regolarmente per aumentarli.

Non è senza significato che noi abbiamo fatto iscrivere nel programma del Governo l’impegno a ricostituire, o tentare di ricostituire, quella cellula prima di ogni libera organizzazione statale che è il Comune; e vedremmo volentieri, anche in questo periodo transitorio, che si cominciasse a tentare di dare corpo all’altro ente che dovremo creare nella costituzione e che è la Regione, magari con una giunta provvisoria nominata dai Comuni.

È ovvio che quanto più si dà iniziativa, autonomia, responsabilità agli enti locali, tanto più si toglie alla pesante macchina dello Stato; cosi come quanto più si dà libertà, autonomia, responsabilità, iniziativa al popolo, agli individui, tanto più si alleggerisce la soffocazione dello Stato centrale.

E non credo che ci sia alcuno in questa Assemblea che più di noi senta l’esigenza di moralizzare la nostra amministrazione, di renderla più parsimoniosa. Se c’è una dignità storica, in mezzo a tante virtù e a tanti errori delle repubbliche italiane in tutto il corso della storia italiana, è proprio quella di aver trasportato nell’amministrazione e nei costumi un’austera, rigorosa moralità. Se la corruzione si infiltra negli organi dello Stato, ogni tentativo, anche il meglio intenzionato del migliore dei Governi, si può infrangere.

Prima ancora dell’esistenza di questa Assemblea, noi abbiamo vivacemente domandato di rivedere i quadri della nostra burocrazia, delle nostre forze armate e di polizia e del nostro personale diplomatico. Abbiamo fatto molte esperienze, abbiamo visto sorgere e tramontare le repubbliche dopo la prima guerra mondiale, e le abbiamo viste tramontare quasi sempre per un’unica via. Noi richiediamo alla burocrazia statale non soltanto un’adesione di tessera, ma una adesione di anime in questo difficile momento della vita nazionale di trapasso da un regime all’altro; noi chiediamo alle forze armate molto di più di un’adesione formale. Io non ho voluto imbarazzare il mio amico Facchinetti al Ministero della guerra, domandandogli quanti generali ha a sua disposizione; ma sono sicuro che se si volessero impiegare tutti nelle forze armate di oggi, un generale comanderebbe una squadra, quella unità che normalmente comanda un caporale. Invece voglio imbarazzare l’amico Micheli del Ministero della marina per dirgli che ci sono, fra ammiragli in servizio e ammiragli a disposizione, più di 80 ammiragli. Per doverli impiegare tutti bisognerebbe mettere un ammiraglio a comandare un motopeschereccio. (Commenti).

Ho vissuto la tragedia di Spagna; ho visto anche il tramonto della repubblica di Weimar, che aveva conservato tutta la casta imperiale dei Lüdendorff e degli Hindenburg. Sapete come s’è accorto il Presidente Azaña che la Repubblica spagnola correva serio pericolo? Perché un giorno gli addetti militari alla Presidenza e la stessa guardia non s’erano presentati in servizio; tutti i generali, da Franco a Queipo de Llano, avevano fatto adesione formale alla Repubblica.

Per fortuna nel nostro Paese non ci sono tradizioni di pronunciamenti, ma indubbiamente vi è ancora una casta militare che è stata legata tradizionalmente alla monarchia e che durante il cosiddetto periodo della tregua istituzionale ha costituito cellule militari e para-militari che sono potenzialmente delle cellule di cospirazione. Io dico al Governo di fare estrema attenzione. Per la Repubblica spagnola sarebbe stato molto meglio schiacciare per tempo la testa a qualche generale, piuttosto che correre il rischio di due anni di guerra civile con un milione di morti e con l’istaurazione di un regime che costituisce anche oggi un insulto alla civiltà europea (Vivissimi applausi a sinistra) e soprattutto piuttosto che rischiare l’inizio di una guerra universale, che è nata appunto nei campi di Spagna e che è costata all’umanità 30 milioni di morti ed un ammasso apocalittico di rovine.

La diplomazia. È notorio che Palazzo Chigi non è proprio una fucina ardente di repubblicanesimo. Nelle ambasciate sono stati cambiati alcuni titolari; ma quando gli stranieri si avvicinano ai servizi delle nostre ambasciate, trovano sempre le stesse facce e quando vanno nei convegni internazionali trovano gli stessi giornalisti che erano intorno a Mussolini. (Applausi a sinistra).

Ciò è molto compromettente per il nostro interesse nazionale. Ma io non giudico per il momento questo problema dal punto di vista della politica estera. Lo giudico dal punto di vista della difesa nazionale e della difesa della Repubblica.

È notorio che il primo Ambasciatore della Repubblica Spagnola a Parigi, in tutti gli ambienti politici di Washington, si vantava apertamente di avere ingannato Léon Blum sulla reale situazione della Spagna creata dall’improvviso colpo di Stato, mentre il Governo della Repubblica spagnola lanciava alla Repubblica amica invocazioni disperate di soccorso.

Per la difesa della Repubblica occorre fare molta attenzione ai suoi ordinamenti di sicurezza all’interno, ma anche ai suoi rappresentanti all’estero: in un momento di crisi si deve essere non dubbiosi del loro comportamento. I Consolati sono sempre gli stessi.

Sono tentato a raccontarvi un episodio del Consolato di una grande città degli Stati Uniti. Voleva inviare un plico (e non so perché non si è servito delle normali vie dell’Ambasciata) direttamente al Ministero degli esteri e si è servito di una personalità americana, del resto estremamente seria e onorevole. Gli ha dapprima inviato il plico con lo stemma di Casa Savoia. Poi quando ha saputo dalle agenzie che i dati del Ministero degli interni segnalavano una netta prevalenza repubblicana, ha ritirato il plico ed ha mandato al suo messaggero un altro plico senza lo stemma dei Savoia. Poi è venuta la funerea cerimonia della sala della Lupa, che tutti ricordiamo e la resistenza del Re ed allora ha ritirato il plico repubblicano ed ha rilasciato un nuovo plico monarchico. Poi è venuta la notizia che il Re era partito ed allora ha mandato a questo messaggero due plichi: uno… monarchico ed uno repubblicano ed ha detto: si arrangi lei. Quando va a Roma veda se c’è la repubblica o la monarchia e consegni uno dei due plichi! (Ilarità).

Voi ridete, ma una diplomazia che fa ridere non è una diplomazia che possa salvaguardare i supremi interessi della Nazione (Applausi a sinistra). Del resto, come negare che c’è un certo «laisser aller?» Questa è la repubblica dei buoni figliuoli!

L’altro giorno, il nostro amico Lombardi ha sbalordito questa Assemblea leggendo un tipico esempio di prosa fascista. Oggi Togliatti ce ne ha dato un altro esempio. Ma si vede che gli esempi sono copiosi. Volete sentire poche parole di questo giornale che si pubblica, come quello citato da Togliatti, col consenso assai liberale del nostro bravo Arpesani, che dà permessi a tutti?

Sentite come conclude questo articolo. Parla dell’uccisione di Mussolini e delle pagine che l’ex duce riempì all’ultimo, e che – dice il giornale – «andarono disperse come le foglie, disperse le valigie e i documenti raccolti, quando il capo della Repubblica sociale abbandonò Villa Feltrinelli, e disparve anche il diario di cui pubblicammo tempo addietro le profetiche pagine: l’appello ai giovani che intona il carme dei secoli a un decennio di gloria. Ma qualche memore fiamma riscalderà la cenere e qualche memore seme la renderà feconda. La nemesi vendicherà un popolo che non si rinnega, spegnendo quelle ceneri e distruggendo quel seme chè il sole dei morti non tramonta». Ebbene, non c’è nessuno che si accorga di questo linguaggio fascista? E allora io dico che qui non si tratta della tradizionale gentilezza repubblicana e italiana, non si tratta più di repubblica di buoni figlioli; si tratta di vera dabbenaggine, se permettiamo nostalgie e apologie del regime di crimine che ci ha fatto tanto soffrire. (Applausi a sinistra).

Una voce. Ce ne siamo accorti.

Altra voce. Ben altre apologie ci sono in giro!

PACCIARDI. Noi non siamo sospetti di ondeggiamenti nella difesa della libertà. Mi rivolgo a quella parte dell’Assemblea che lo sa. Consideriamo la libertà come sacra e fra le sacre libertà noi consideriamo come più sacra la libertà del pensiero e quindi la libertà della stampa. Noi pensiamo ed abbiamo sempre pensato che senza la libertà la vita non vale la pena di essere vissuta, che l’umanità degraderebbe verso l’animalità. Ma è appunto per questo che noi non vogliamo la libertà di distruggere la libertà. (Applausi a sinistra – Commenti).

Una voce. La libertà è libertà.

BENCIVÉNGA. La libertà è una sola!

PACCIARDI. Non pensiamo in che cosa possano offendervi queste affermazioni. Noi siamo anche stati sostenitori, e non ce ne vergogniamo, e ce ne assumiamo tutta la responsabilità, di un’ampia amnistia. Noi sentivamo che il primo governo veramente nazionale italiano, il Governo della Repubblica, avrebbe assolto ad una grande missione italiana, se avesse spento per sempre questo gusto, questo urto delle fazioni, che è stato sempre il tormento della nostra storia. Noi ci siamo fatti fautori dell’iniziativa di un’ampia amnistia, perché pensavamo che il regime del popolo, che noi abbiamo voluto, fosse il solo regime capace di ricreare l’unità nazionale della Nazione. Evidentemente ci siamo riferiti alla grande massa degli illusi e dei traviati che la Repubblica doveva accogliere nel suo seno con chiaroveggente indulgenza; ma quando noi domandavamo questa amnistia, quando io personalmente l’ho domandata in un’occasione solenne al Campidoglio (mentre si innalzava sulla Torre Capitolina tra la commozione generale, la bandiera del 1849), ho esplicitamente detto che i veri responsabili, che i veri criminali dovevano restare al bando della Nazione. Ed invece ritornano per la erronea, pare, applicazione dell’amnistia, in circolazione. Ebbene sia. Ma il Governo ha il dovere di una maggiore vigilanza; non può continuare con questo «laisser aller»; il Governo ha il dovere, se non li ha, di darsi i mezzi perché questi pericolosi individui, immessi nel nostro corpo sociale, non diventino altra sorgente d’infezione. (Applausi).

Tralascerò altre considerazioni, perché con me deve finire la vostra fatica.

Vorrei dire due parole sul programma economico e finanziario del Governo.

Forse si aspetta dal Partito Repubblicano, che è accusato di vivere fra le nuvole, di non interessarsi di questi problemi. Io non sono, disgraziatamente, un tecnico e deploro che la necessaria decurtazione della lista degli oratori abbia impedito ad alcuni tecnici del mio gruppo di parlare di questo argomento; del resto mi consolo, perché mi pare che Wilfredo Pareto dicesse: «La La tecnica serve qualche volta a rendere inintelligibili le cose di senso comune più semplici», o qualche cosa di simile.

Io mi voglio appellare, nell’esame di questa materia, infatti, al semplice senso comune.

Voglio fare un’osservazione, che non è peregrina, che è già stata fatta in quest’Assemblea, e non è neanche consolante; ma forse è bene ritornarvi sopra, perché sia ascoltata fuori di qui.

La crisi nella quale diguazziamo, non è crisi italiana; è una crisi universale, che riguarda non solo i vinti, ma anche i vincitori. Questa è una delle tante prove che la guerra non paga, che la guerra, oltre ad essere un grande crimine, è una grande imbecillità. Vincitori e vinti si trovano in questo campo press’a poco nelle identiche condizioni. C’è un severo razionamento in Inghilterra ed anche in Francia; e si incominciano a razionare i generi di prima necessità anche in America. E chi è stato in America sa quello che significa: con quello che normalmente gli americani buttavano via, non soltanto in cibi, ma in suppellettili e vesti, ci poteva vivere largamente tutto il popolo italiano. Del resto, con quello che hanno buttato via o venduto i soldati del corpo di spedizione americano, è vissuta una larga aliquota del popolo italiano. Ebbene, anche in America comincia il razionamento. E gli stranieri che vengono nel nostro Paese sono meravigliati e qualche volta scandalizzati delle nostre condizioni di vita, che sono più apparenti che reali. È esatto quello che diceva testé l’onorevole Togliatti: ci sono degli indici che bastano da soli a considerare quanta terribile povertà c’è nel popolo italiano. C’è l’indice della mortalità infantile, il 430 per mille, un indice vergognoso, per stabilire il vero stato delle nostre condizioni economiche. Però, è anche vero che un popolo vissuto come il nostro, sempre più o meno in miseria, si adatti meglio a queste condizioni di un popolo che, vissuto nell’agiatezza, è piombato nella indigenza, come i popoli vinti o vincitori di questa guerra.

È un miracolo che in questo disastro, fra tante macerie e con gli obblighi internazionali che abbiamo, è un miracolo che ce la siamo in qualche modo cavata, che siamo riusciti non dico a vivere, ma a vivacchiare.

È un miracolo dell’energia, della capacità, dell’intelligenza, dello spirito di adattamento del popolo italiano, senza trascurare naturalmente la riconoscenza che dobbiamo all’UNRRA ed al suo Presidente, che oggi è ospite gradito, tra i più graditi ospiti del nostro Paese.

C’è un punto nel quale, ormai che siamo all’ora della conclusione, mi pare che siamo tutti d’accordo, ed è la lotta alla inflazione. L’inflazione significa la fame, la miseria, il suicidio. È inutile che l’operaio guadagni 10 milioni al giorno, se deve spendere un milione per una scatola di cerini. Questo l’operaio oggi lo sa. Alla fine dell’altra guerra sembrava non se ne rendesse conto. L’inflazione è la morte, e poco importa se il lenzuolo funebre è intessuto di biglietti da mille.

Però si muore lo stesso anche salvando la lira, salvando tutta la capacità d’acquisto della lira, quando la lira non è più in circolazione, ma è come una dea inaccessibile o sentinella lucente sul cimitero economico della Nazione. Anche Mussolini volle salvare la lira, e la difese sulla quota 90. Ma la conseguenza fu il corteo di 1200 fallimenti al mese, fu la vera ecatombe della vita economica della nazione. La difesa della lira, per parlare in linguaggio militare, che più mi è usuale, deve essere elastica, non può essere rigida.

Tra queste due croci devono destreggiarsi i Ministri del tesoro e delle finanze.

Si fa presto a dire che bisogna fermare rigidamente i salari ed aspettare che il costo della vita diminuisca. Questo mi ricorda un po’ la favola del capraio alla corte dei faraoni. Il capraio si era impegnato, contro un vistoso premio, a far parlare una capra. Ma aveva preso tempo dieci anni nella speranza che nei dieci anni morisse o il re, o la capra o, Dio ne scampi, lui stesso (Applausi).

Ebbene, la fame non può aspettare. Il problema ha un carattere sociale evidente. È chiaro che i nostri impiegati, i nostri operai di certe categorie, le «cagne magre studiose e conte» della piccola borghesia, questa miseria che si nasconde, questa miseria col colletto duro che è la miseria più tragica, non sono più in condizioni di vivere. E sono ormai parecchi mesi che attendono i provvedimenti del Governo, e hanno dato prova della loro disciplina durante le elezioni, evitando scioperi e disordini. Ebbene, tutta questa gente non può più aspettare.

C’è un problema della disoccupazione, è vero, e credo che i due milioni di disoccupati, cifra che mi pare sia stata data dall’amico Lombardi, non siano indicati in numero sufficiente. La cifra è ottimistica. Comunque non sono ancora rientrati tutti i nostri profughi. Bisogna dunque calcolare ad una cifra più vasta il numero dei disoccupati.

Ed è terribile che in un paese come questo, dove tutto è da rifare e dove, anche tenuto conto della mancanza di materie prime, le occasioni di lavoro non mancano, dove l’iniziativa è sempre stata sveglia, e dove c’è pace sociale, in questo paese non si è ricominciato ancora l’assorbimento dei disoccupati.

Quando abbiamo trattato il programma di Governo ci siamo naturalmente preoccupati di questo problema.

È stato criticato il premio della repubblica. A parte che è un provvedimento simpatico, sapete che cosa significava economicamente? Significava dare – i calcoli sono stati fatti dai tecnici – il 5 o 6 per cento di aumento di salari per quattro mesi. Era qualcosa perché la capra non crepasse subito; era una necessità impellente che l’onorevole Corbino ha dovuto accettare.

Che cosa manca allora per assorbire la disoccupazione? Per lo Stato, è chiaro, mancano i capitali. Si sono fatti molti prestiti. Non so se dico cosa azzardata, ma comunque riguarda soltanto la mia responsabilità. Non so se non sarebbe convenuto ai primi Governi di liberazione nazionale di prendere atto della bancarotta dello Stato monarchico fascista. È curioso che noi dobbiamo impiegare gran parte del nostro reddito nazionale nel pagare gli interessi del debito pubblico. Se l’onorevole Corbino emetterà adesso un prestito e arriverà a cento miliardi, cinquanta miliardi andranno per pagare gli interessi del debito pubblico. Se si fossero ridotti gli interessi, per esempio, all’1 per cento, molto probabilmente non ci troveremmo in questa situazione (Commenti).

Comunque qualche provvidenza radicale bisogna prenderla ed è scritta nel programma del Governo e noi l’abbiamo consapevolmente accettata.

Fino ad oggi era impossibile, io penso, fare una politica economico-finanziaria. C’erano tre Stati nel nostro Stato nazionale, ognuno dei quali batteva moneta per conto proprio: gli alleati, i repubblichini del Nord e il nostro Governo. Io non so e forse nessuno sa ancora esattamente a quanto ammonti la moneta in circolazione emessa dal Governo repubblichino, ma si conosce quella emessa dagli alleati. Fino al 15 giugno di quest’anno gli alleati hanno stampato moneta o l’abbiamo stampata noi per loro, per un valore di 115 miliardi di lire. Bisogna poi aggiungere altri 15 miliardi di moneta italiana che gli alleati hanno sequestrato agli eserciti e agli Stati nemici, senza contare i sessanta miliardi, o presso a poco, che noi abbiamo speso per le truppe che coadiuvavano gli alleati o che erano nelle retrovie a disposizione degli alleati stessi, o per gli operai a disposizione degli alleati o per i sussidi alle loro famiglie. Ebbene il governo della Repubblica ha ereditato questa enorme mole cartacea. Non era possibile fino ad ora non solo fare una politica economico-finanziaria, ma nemmeno fare un bilancio; un bilancio presuppone un inventario della nostra ricchezza, della nostra cosiddetta ricchezza. Soltanto ora possiamo cominciare ad orientarci. L’inventario della nostra ricchezza immobile lo conosciamo; non conosciamo invece, e lo dico in senso proprio, i sacchi di migliaia di lire di moneta nascosta. Si è proposto un cambio della moneta e non lo si è accettato. Ho sentito parlare di stampigliatura della moneta che costituirebbe un cambio alla pari. Comunque bisogna trovare i mezzi per conoscere questa nostra ricchezza nazionale e per stabilire una imposizione straordinaria progressiva sul patrimonio come il Governo ha accettato di fare.

Bisogna poi che gli italiani si comincino a convincere che essi debbono pagare le tasse e le imposte. Questo è un paese in cui le tassazioni sono complicate, ma è anche un paese nel quale le evasioni sono facili… Ho letto in questi giorni in un giornale americano che il padrone di uno dei più grandi trusts di ristoranti di New York, Longchamp, famoso in tutto il mondo, è stato condannato a quattro anni di carcere e alla confisca dei beni che aveva sottratto al fisco, nonché a due milioni e ottocento mila dollari di multa. In America ogni cittadino fa la sua denuncia, riempie i moduli delle imposte e giura che quella è la verità. I rapporti dello Stato americano coi cittadini e dei cittadini fra loro, sono basati sempre su questa presunzione di verità. Il cittadino giura e lo Stato crede.

Washington non è grande per gli americani, perché è stato il fondatore della patria, perché ha rifiutato, dopo due termini, di essere nominato un’altra volta presidente della Repubblica, perché durante la guerra civile ha rifiutato la corona di Re: sono tutti titoli ognuno dei quali lo innalzerebbe nella storia di tutti i paesi. È grande, soprattutto perché, così si insegna nelle scuole degli Stati Uniti, non ha mai detto una bugia!

Su questi rapporti di verità sono fondate anche le finanze dello Stato. Ieri La Guardia diceva che è difficile «collettarle» in America; se è difficile «collettarle» in America, figuriamoci in Italia, dove rubare allo Stato non sembra un delitto! E bisogna che Scoccimarro faccia meno paura e ci dia più fatti; questi sopraprofitti di regime non sono entrati ancora nelle casse dello Stato. Avrete sempre il consenso del Partito Repubblicano in queste misure, come lo avrete nelle riforme di struttura sociale, ad incominciare dalla riforma agraria.

SCOCCIMARRO, Ministro delle finanze. Onorevole Pacciardi, l’assicuro che entreranno nelle casse dello Stato. (Applausi).

PACCIARDI. Due sole parole sulla politica estera.

Innanzi tutto noi siamo stati favorevoli – l’onorevole De Gasperi lo sa – a mantenere l’onorevole De Gasperi come titolare del dicastero degli esteri; e quando la proposta veniva da noi, che non eravamo in competizione per altri portafogli, il Presidente del Consiglio poteva credere che non nascondeva il proposito di rapirgli il portafoglio degli interni: era per ragioni obbiettive, era per ragioni nazionali, perché in questo momento un nuovo Ministro degli esteri avrebbe impiegato almeno tre mesi per orientarsi sui complicati problemi di politica estera, e poi avremmo dato l’impressione alle nazioni che ci circondano che la politica estera avesse subito un cambiamento; e noi siamo interessati invece a mantenere, non dico il cartello delle nostre rivendicazioni, perché non abbiamo rivendicazioni da fare ad alcuno, ma a mantenere la trincea della nostra resistenza.

Nessuno ha sollevato obiezioni sul programma, sulle finalità della nostra politica estera, per quello che riguarda i nostri confini occidentali, per quello che riguarda i nostri confini orientali, per le colonie, per le navi e per le riparazioni; ma è facile costruire il muro delle nostre lamentazioni, il muro del nostro pianto nazionale. È più difficile darsi un programma per raggiungere gli obbiettivi. Secondo me, onorevole De Gasperi, è un errore – non credo che lei l’abbia mai fatto, ma è venuto da vari settori di questa Assemblea – è un errore minacciare velatamente o apertamente gli alleati del risorgere di un altro fascismo. Così facendo raggiungeremmo l’effetto di una più grande antipatia verso di noi. In qualsiasi condizione bisogna che il fascismo non rinasca più: questo deve essere un impegno nazionale.

Certe esperienze non si ripetono due volte nel giro di una stessa generazione.

Credo che sia anche errore insistere troppo sulla nostra linea di resistenza, presentandola soltanto come espressione dei nostri bisogni e dei nostri interessi nazionali: quella linea di resistenza va presentata, come infatti è, la linea di congiunzione fra i nostri interessi e gli interessi degli altri.

Quando la Francia crea questo artificioso problema territoriale fra i suoi confini e i nostri, questa «niaiserie» come Léon Blum ha avuto il coraggio di chiamarla, ferisce, i nostri interessi, ma ferisce anche i propri. C’è troppo confluenza di rapporti tra le due repubbliche latine e c’è troppa comunità di missione europea, perché rompendo questa rete di interessi comuni non si produca un danno vicendevole.

Il punto più sensibile e dolente del nostro piano di resistenza è Trieste, e qui siamo veramente su una grande linea di giustizia dalla quale non è possibile distaccarsi.

Io credo che sia stato male che abbiamo discusso di ipotesi subordinate ed ho apprezzato molto la riservatezza di Togliatti a questo riguardo, perché, fino a quando i nostri negoziatori sono in funzione, sinché il nostro Governo tratta coi Governi alleati, non bisogna scendere a ipotesi subordinate. Bisogna dire che Trieste e l’Istria sono italiane e questo è un dato che non si discute. (Applausi).

Nel 1914 Pasic, il premier serbo, non negò mai l’italianità di Trieste e dell’Istria ed il primo Ministro russo Sazonov nel 1915, mentre si facevano le trattative per il trattato di Londra, contestò bensì – ed aveva ragione – la rivendicazione italiana sull’intera Dalmazia, ma non disse mai una parola per contestare l’italianità di Trieste e dell’Istria. Wilson fu una specie di Dio per gli jugoslavi. Quando i russi hanno trattato con la Polonia per definire i confini con quella Nazione, si sono appellati ad una alta autorità internazionale neutra, ed hanno domandato la linea Curzon, e così il nostro Governo ha fatto bene ad appellarsi a questa alta autorità neutrale che è stato Wilson, idolatrato dagli jugoslavi del tempo alla conferenza della pace, così come fu bestemmiato dai nazionalisti italiani. È vero, onorevole Togliatti, che una parte della democrazia italiana, capeggiata da Bissolati, da Salvemini, da Borgese, da Arcangelo Ghisleri e da tutti noi repubblicani, ebbe il coraggio in quel momento – quando il nazionalismo italiano era vittorioso e irrompente – di sfidare la impopolarità nazionale mettendosi al di sopra dei contrasti del momento, su un piano di giustizia per noi e per la Jugoslavia; ma è deplorevole che nel campo jugoslavo non ci sia stato oggi né un Salvemini né un Bissolati. Nessuno si è levato in Jugoslavia per schierarsi su un piano di giustizia. (Approvazioni).

Ma siamo uomini politici e uomini di ragione, e vedremo dopo, non oggi – oggi il Governo deve essere fermo nella sua linea – vedremo dopo se e come potremo discutere di ipotesi subordinate.

L’onorevole Nitti ha detto l’altro giorno che i repubblicani avevano fatto intendere, o addirittura promesso, che la repubblica ci avrebbe dato condizioni di pace migliori, e che quindi votare per la repubblica era un dovere nazionale.

Infatti sono stato proprio io che ho lanciato nel mio giornale, non questo «slogan», come si dice, ma questa verità: nella quale ardentissimamente credevo e credo: votare per la repubblica era, fra le altre cose, un grande dovere nazionale (Applausi). Perché? Perché noi volevamo che al tavolo della pace sedessero non i responsabili della guerra e della disfatta, che al tavolo della pace in cospetto alle Nazioni alleate, a rappresentare questo Paese che è dilaniato all’interno e che è circondato da gente implacabile, fossero uomini che hanno sempre combattuto il fascismo, anche quando qualche maestro di democrazia dell’ultima ora dichiarava che sarebbe stato fascista, se fosse stato italiano. Noi volevamo che l’Italia fosse rappresentata dagli uomini della resistenza, dai democratici senza macchia. Può darsi benissimo che gli Alleati impongano a questa Italia del popolo – non facendo nessuna distinzione tra il regime monarchico-fascista e il popolo italiano, cioè tra i carnefici e le vittime – può darsi che impongano la stessa pace che avevano pensato d’imporre alla monarchia; ma mi meraviglio che l’acume dell’onorevole Nitti e il suo istinto nazionale non lo abbiano avvertito di questa grande differenza: che una imposizione fatta alla monarchia fascista aveva almeno un’apparenza di giustizia, fatta al popolo italiano è un atto di violenza e di ingiustizia. (Vivissimi generali applausi).

Ed è per il nostro Paese, che non ha carte oggi, onorevole De Gasperi, una grande carta nell’avvenire, perché il nostro Paese non muore oggi, non vuole morire: è un grande Paese, che ha avuto glorie e trionfi, rovesci e anche abiezioni, come tutti i Paesi di lunga storia; e non è stato grande il giorno in cui si è inorgoglito nei suoi trionfi, ma sarà grande il giorno in cui riuscirà a superare virilmente le proprie afflizioni.

Noi ci siamo messi – lo sa il Governo, lo sa l’Assemblea – su questa via. Noi abbiamo liquidato i responsabili del fascismo e della guerra; abbiamo liquidato la monarchia; abbiamo lottato e stiamo lottando per conquistarci il diritto di rientrare rinnovati nel circuito delle nazioni libere. Stiamo per riprendere la nostra indipendenza, cioè abbiamo già tratto qualche lezione dal nostro martirio e ci avviamo a grandi passi verso la nostra resurrezione. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura. Domanda se è appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

 

Dichiaro chiusa la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, riservando la parola ai Deputati che hanno presentato ordini del giorno.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

CHIEFFI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere le ragioni che hanno determinato il sindaco di Rignano Flaminio ad ordinare, con foglio di via obbligatorio, al cittadino italiano Gardin Alberico Antonio di abbandonare quel paese, senza che ricorresse alcuno dei motivi previsti dalla legge di pubblica sicurezza; e per conoscere, inoltre, perché il sindaco predetto, nonostante l’intervento della Prefettura di Roma, cui il Gardin Alberico si rivolse per protestare contro l’ingiusto provvedimento, non abbia fino ad oggi revocato l’arbitrario ordine.

«Mastrojanni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim degli affari esteri, per sapere quale azione egli ha esercitata per affrettare il ritorno dei prigionieri di guerra che, con singolare sperequazione, sono ancora nei campi di prigionia, e quanto tempo – a suo avviso e secondo le sue informazioni – vi sarà ancora da attendere per ridonare questi figli alle madri che sono in attesa.

«Sullo, Stella».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri degli affari esteri e della guerra, per sapere se abbiano intenzione e possano pubblicare le cifre relative ai nostri prigionieri in Russia; fino a che punto si sono interessati della sorte di quei circa ottantamila italiani dell’Armir, dichiarati scomparsi, di fronte all’esiguo numero dei rientrati; se ritengono utile interessare altre Potenze per far luce su questo mistero o se alla Conferenza della pace il Governo italiano abbia intenzione di porre pubblicamente la questione dei nostri prigionieri in Russia.

«Bertola, Genua, Giacchero».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno, dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere:

«Dal Ministro dell’interno i provvedimenti presi in relazione ai gravi fatti avvenuti a Rovigo il 23 luglio.

«A seguito della dolorosa situazione in cui versa la popolazione per causa della disoccupazione, la Camera del lavoro aveva dichiarato lo sciopero generale. Una folla, guidata da elementi irresponsabili, assaltò la prefettura e, non incontrando resistenza nella forza pubblica assente, usò violenza alla persona del Prefetto.

«Chiede altresì di conoscere le disposizioni adottate per punire i colpevoli di così grave reato, che costituisce offesa alla autorità dello Stato.

«Chiede inoltre al Ministro dei lavori pubblici se intenda immediatamente di far eseguire nel Polesine tutti i lavori pubblici già disposti, che sono indispensabili per alleviare il triste fenomeno della disoccupazione.

«Interroga in fine il Ministro del lavoro e della previdenza sociale sulla necessità di intervenire perché nel Polesine sia sollecitamente concluso il patto colonico per l’anno agricolo in corso, patto tuttora non firmato, il che è causa di grave turbamento dell’ordine pubblico.

«Merlin Umberto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se intende, aderendo ai ripetuti e legittimi voti della popolazione di una importante frazione della città di Caserta, quella di Casola (Caserta-Vecchia), che trovasi isolata e assai lontana dal centro, istituire colà un ufficio postale, di cui si sente urgente il bisogno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se, nei riguardi della direzione della R.A.I., non reputi necessaria ed urgente l’adozione di severi provvedimenti diretti ad evitare che un servizio tanto importante e delicato di diffusione dei principî democratici e repubblicani continui ad essere affidato a funzionari infidi o – quanto meno – impreparati; e se – in ispecie – non ravvisi una ennesima prova di tale necessità ed urgenza nel fatto occorso ad un Deputato alla Costituente, e manifestamente lesivo della sua dignità e libertà di parola, di «censurare» il testo di un radio-discorso, sopprimendovi espressioni contrarie al fascismo, al nazionalismo, ed al combattentismo professionale, e di imporre all’ultimo momento, e come condizione per la trasmissione, la lettura di un testo rifatto dai funzionari della R.A.I. a loro esclusivo arbitrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carpano Maglioli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per conoscere quali provvedimenti abbia disposti al fine di rendere più efficaci in provincia di Latina – com’è richiesto dalle condizioni locali – la lotta anti-malarica e la bonifica dei campi minati, per eliminare, o almeno contenere, le dolorose conseguenze dei due fenomeni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quali provvedimenti d’urgenza intenda, ormai, adottare per la ricostruzione ed attivazione delle linee ferroviarie Velletri-Terracina e Gaeta-Formia-Sparanise, distrutte dalla guerra, sicché ventisette tra comuni e centri minori nelle provincie di Latina e Caserta si son trovati, e tuttavia si trovano, dopo oltre due anni dalla liberazione, senza comunicazioni ferroviarie tra loro, con i porti di Formia, Gaeta e Terracina e con le provincie di Frosinone e Caserta, linee imprescindibili non soltanto per la ricostruzione, ma anche per la ripresa industriale ed agricola, già in atto per coraggiosa, spontanea, iniziativa privata, ma i cui sviluppi – specie nel campo della produzione e dell’esportazione – sono, per ciò stesso, seriamente compromessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se, dopo il pronto intervento personale del Sottosegretario di Stato a Formia – ove, a quanto si apprende dai giornali, avrebbe disposto che sia stimolata l’attività delle imprese appaltatrici – non intenda intensificare ed accelerare:

1°) la ricostruzione edilizia dei numerosi centri della provincia di Latina devastati dalla guerra, ovunque aspramente combattuta dal Garigliano a Cisterna; e ciò prima che un altro duro inverno trovi quelle popolazioni ancora senza tetto;

2°) i lavori alle tante condutture idriche ed elettriche gravemente danneggiate dalla guerra e tuttavia abbandonate;

3°) la ricostruzione della rete stradale ed il riassetto, sia pure nei limiti dell’indispensabile, dei porti di Terracina, Gaeta e Formia disponendo – per una concreta realizzazione di tali improrogabili problemi e per alleviare la preoccupante disoccupazione – adeguati stanziamenti che consentano di attuare, finalmente e sia pure con graduale ritmo, programmi da troppo tempo invocati ed in corso di esame, ma, sin qui, non affrontati con urgenza, con metodo e con sani principî di giustizia distributiva. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo»

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della guerra, della marina e dell’aeronautica, per conoscere quale è il trattamento giuridico, disciplinare, economico verso quegli ufficiali che, deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, ebbero nei primi mesi ad aderire alla pseudo repubblica italiana impegnandosi di combattere a fianco del Terzo Reich, firmando apposita dichiarazione, venendo così meno al proprio dovere, alla propria dirittura morale, alla dignità e fierezza dell’ufficiale italiano.

«Il trattamento usato suonò e suona offesa, insulto a coloro che preferirono la permanenza nei campi di prigionia, rischiando fame, sevizie, lavori forzati e anche la morte, piuttosto che cedere alle minacce e lusinghe del secolare nemico d’Italia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Cappelletti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, se non ritenga opportuno estendere sollecitamente la facoltà di trattenere un determinato quantitativo di grano per uso familiare anche ai proprietari, i cui contratti di affitto prevedano il versamento del canone in natura.

«Gl’interroganti vedono la opportunità del provvedimento nel fatto che l’allargamento del beneficio eviterebbe le moltissime evasioni, che naturalmente si sono verificate e si verificano e darebbe un certo senso di sollievo – naturale dopo l’aumento della razione del pane – ad una categoria che da tempo subisce un blocco indiscriminato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sullo, Stella».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, se non creda urgente intervenire per accelerare e semplificare la procedura per facilitare agli operai emigranti il passaggio all’estero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non creda conveniente accelerare la ricostituzione dei comuni soppressi dal regime fascista, specialmente quando si tratta di comuni che hanno possibilità di bilancio attivo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se, dopo il discorso pronunciato alla Camera dall’onorevole Finocchiaro Aprile, e prescindendo non solo dal merito delle sue idee, ma dagli stessi lamenti che riguardano dolorosi cruenti incidenti di zuffe civili difficilmente accertabili nella loro oggettiva verità, non ritenga però necessario ordinare una severa e tranquillante inchiesta su particolari e circostanziate denunzie di sevizie che, se fossero accertate, reclamerebbero gravi ed esemplari provvedimenti nell’interesse del principio di autorità che il Governo deve tutelare e difendere.

«Mazzoni».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20,35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

MARTEDÌ 23 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XI.

SEDUTA DI MARTEDÌ 23 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Commemorazione:

Badini Confalonieri                                                                                        

Presidente                                                                                                        

Macrelli, Ministro senza portafoglio                                                                 

Dimissioni di un Deputato:

Presidente                                                                                                        

Proposta di aggiunta al Regolamento:

Perassi, Relatore                                                                                               

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

De Martino                                                                                                      

Lombardo Ivan Matteo                                                                                  

Perrone Capano                                                                                                

Vanoni                                                                                                              

Nobile                                                                                                               

Cingolani, Ministro dell’aeronautica                                                                 

Interrogazioni (Annuncio):

Presidente                                                                                                        

Chieffi, Segretario                                                                                             

La seduta comincia alle 16.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Commemorazione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Badini Confalonieri. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Il distacco degli anni, la differenza della posizione morale e culturale di Marcello Soleri, possono fare apparire un gesto di superbia le parole che io voglio dire di lui per ricordarlo, nel primo anniversario dalla sua dipartita. O peggio un gesto di vanità per rendere appariscente un legame di cordiali rapporti. Pure eletto coi voti delle popolazioni che gli furono fedeli, io avverto di dover superare qualunque disagio di posizione, qualunque preoccupata prudenza per commemorare insieme lo scomparso.

Scomparso quasi prima che potesse consolare la mestizia degli anni di servaggio col conforto delle nuove speranze del paese; scomparso tuttavia prima che potesse sentirsi raggelato il cuore dalla infinita mestizia di vedere la sua terra fatta a brandelli nel mercato dei popoli vittoriosi; fatta strumento di baratto fra le superbie degli stati maggiori, fra le avidità golose di quelli che frodolentemente annunciarono al mondo la volontà di una pace giusta che frantumasse le spade della guerra, che sopprimesse i germi dei contrasti cruenti.

E poiché commemorare vuol proprio solo dire ricordare insieme, di Lui vorrò innanzi tutto far presente la coerenza costante, la dirittura serena e per questo invincibile, la limpida onestà ingenua di una convinzione di fede che per avere la caratteristica politica non era meno travolgente di qualunque altra fede.

Per questo motivo, o almeno anche per questo, egli compì degli atti di supremo coraggio, oggi ancor più così valutabili, senza convincimento di fare cose eroiche. Con la sola consapevolezza di ottemperare all’imperativo della propria coscienza, di obbedire alla forza logica delle conseguenze dalle premesse spirituali. Sul terreno politico questo fatto mi pare simbolicamente dover rievocare di lui: nella tornata della Camera dei Deputati del 29 aprile 1926, fu tutto un sussulto di cortigiano entusiasmo per l’ingresso del duce scampato a un altro attentato alla propria vita. Il Presidente Casertano si levò con approvate parole per dire la riprovazione dello stolto fanatismo, la repugnanza sorgente dall’essere stata l’aggressione ordinata da mano femminea di pazza straniera. Fu tutto, nella Camera servile, un retorico richiamo al motto napoleonico contorto per l’occasione: «Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca». E nessuno volle essere contumace; ma appena spenta era l’eco di questo clamore da suburra, appena si erano raccolti dagli stenografi gli appunti dei vivissimi prolungati applausi cui si associarono le tribune, che si levò, per avere avuta la parola, Marcello Soleri a commemorare Giovanni Amendola. Ma a commemorarlo sul serio, non facendo alla sua tomba il rimprovero avere Giovanni Amendola errato, come disse il Presidente: non avere compreso l’avverarsi dello Stato forte da lui auspicato, essersi ridotto così ad una isolata e macerata tortura morale; a commemorarlo sul serio, richiamando le austere virtù politiche e private dello scomparso, esaltando la fede animosamente agitata, rievocando l’alta coscienza ed il fiero carattere temprati alla virtù del sacrificio.

Il gesto era coraggioso, proprio anche perché veniva dopo le accomodanti parole del Presidente.

Ma Marcello Soleri evidentemente lo compì come un puro e semplice atto di obbedienza ai propri convincimenti, che dovevano manifestarsi anche nei momenti difficili o pericolosi.

Era nel suo carattere; era nel suo temperamento. Quello stesso carattere e quello stesso temperamento che – anti interventista all’epoca della grande guerra – lo aveva fatto volontario fra gli alpini, soldato combattente delle montagne, ferito al Vodice, medaglia di argento al Valor Militare.

Non si era dato alle propagande retoriche delle retrovie; ma con la gente della sua terra fedele, nella umiltà piemontese del sacrificio aveva creduto di ravvisare, nel richiamo della Patria, la voce dei morti, le speranze dei vivi, i segni dei confini posti da Dio e violati dagli uomini.

La gente della sua terra era con lui; quella che ancora giovinetto lo aveva acclamato sindaco di Cuneo. Deputato costantemente rieletto alla Camera, membro influente del Governo agli approvvigionamenti, alle finanze, alla guerra, al tesoro.

Gente dei monti dunque che apprezza le virtù concrete, che vuole le sincerità aperte, che non conosce i tentennamenti.

Di essa egli aveva tutte le virtù, di essa egli rispecchiava tutte le idealità.

Mirabile esempio di carattere, di fedeltà alle amicizie e alle idee, di semplicità umile per cui gli parve che la obbedienza agli intimi comandamenti, la obbedienza alle conseguenze ineluttabili delle proprie opinioni altro non fosse che il rispetto di quel comandamento, doversi vivere come si pensa per non correre il rischio di pensare come si è vissuti, che è il sigillo supremo della aristocrazia del carattere.

Marcello Soleri può dunque levarsi dalla sua tomba per indicare a noi quell’adamantina virtù di carattere, che più di ogni altra deve costituire il patrimonio spirituale degli uomini politici.

O meglio è che alla sua tomba noi idealmente ci portiamo per ritrarne questo insegnamento e questo comandamento: se dalla sua tomba egli si levasse, le ossa del vecchio alpino avrebbero un sussulto per le ferite che sui confini di ghiaccio e di neve i mercanti della guerra stanno segnando con la grave consapevolezza del bisturi, con la perduta coscienza di un comune traffico di affari.

Nella speranza del domani, nella convinta volontà che il nostro Paese si rialzi, che gli istituti democratici si impastino di queste coerenze e di queste virtù, il nome, il ricordo di Marcello Soleri hanno l’impeto di un simbolo, la forza di una grande ed alta seduzione.

Che essa sia raccolta (Applausi).

PRESIDENTE. A nome dell’Assemblea, mi associo alle parole pronunziate in onore e memoria dell’onorevole Soleri, che è stato veramente servitore probo ed appassionato del suo Paese. Sia reso onore alla sua memoria.

MAGRELLI, Ministro senza portafoglio, Il Governo si associa alle commosse parole pronunziate dall’onorevole Badini Confalonieri.

Dimissioni di un Deputato.

PRESIDENTE. Comunico alla Camera la seguente lettera dell’onorevole Giuseppe Alberti:

«All’onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente.

«Avevo già manifestato il proposito ai miei amici politici che nel caso di mia elezione non avrei potuto assolvere pienamente, per ragioni di studi (dai quali sono molto assorbito attualmente) i miei compiti di Deputato alla Costituente.

«Ora, essendo nel procinto di dovermi recare all’estero per un numero imprecisato di mesi presso l’istituto Pasteur e l’Opera Grancher di Parigi, allo scopo di completare alcune ricerche sul problema sociale della cura della tubercolosi, urgente e drammatico problema del dopoguerra, dichiaro di rinunziare al mandato.

«Con ogni ossequio – Prof. Dott. Giuseppe Alberti, Deputato per la circoscrizione di Roma, Latina, Frosinone».

Nessuno chiedendo di parlare, pongo ai voti l’accettazione di queste dimissioni.

(È approvata).

Proposta di aggiunta al Regolamento.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Proposta di aggiunta al Regolamento.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Perassi. Ne ha facoltà.

PERASSI, Relatore. Nella breve relazione distribuita sono spiegate le ragioni per le quali la Giunta del Regolamento propone di istituire una Commissione per l’esame delle domande di autorizzazione a procedere.

Si tratta di una Commissione necessaria, quantunque rispetto a questa Commissione, a differenza che per le altre, si possa e si debba augurare che abbia meno lavoro da fare.

La ragione per la quale è stata fatta questa proposta dipende dal fatto che fino al 1920, ossia secondo l’antico Regolamento della Camera, le domande di autorizzazione a procedere seguivano la consueta procedura degli uffici.

Quando nel 1920 la Camera istituì le Commissioni permanenti, le autorizzazioni a procedere furono comprese nella competenza della Commissione che si occupava degli affari politici in generale.

Nelle attuali condizioni si rende necessario creare una Commissione speciale avente specificamente l’oggetto di preparare le proposte da sottoporre all’Assemblea Costituente tutte le volte che ci sia una domanda di autorizzazione a procedere.

Si tratta di un lavoro particolarmente delicato, che attiene all’esercizio di una competenza dell’Assemblea Costituente, che tocca una prerogativa fondamentale per la tutela della libertà e dell’indipendenza dell’Assemblea stessa.

La Giunta del Regolamento si è posto il problema di proporre in che modo procedere alla composizione di questa Commissione.

A questo riguardo la Giunta ha ritenuto di ispirarsi al principio adottato nel Regolamento per le Commissioni permanenti, e cioè che i componenti di questa Commissione siano designati dai gruppi costituiti in Uffici.

In relazione al carattere particolare di questa Commissione, che evidentemente non ha bisogno di essere molto numerosa, ma ha bisogno di dare tutte le garanzie di un esame imparziale, obiettivo delle singole domande, la Commissione è venuta nella determinazione di proporre che la nomina dei componenti avvenga secondo questo criterio: ogni Ufficio – inteso questo nel senso attuale di Ufficio formato da un gruppo – avente un numero di iscritti non superiore a 50 deputati, designerà un delegato. Gli altri Uffici designeranno un delegato ogni 50 deputati, senza computare le frazioni.

La Commissione si limita a proporre questo articolo aggiuntivo. È inutile aggiungere che per quanto concerne le attribuzioni della Commissione medesima e le norme relative alla validità delle sue sedute, restano applicabili le norme del Regolamento vigente.

Credo che queste spiegazioni siano sufficienti per raccomandare all’Assemblea l’approvazione della proposta.

PRESIDENTE. Nessuno chiedendo di parlare, metto ai voti il seguente articolo aggiuntivo al Regolamento della Camera presentato dalla Giunta del Regolamento;

«È istituita una Commissione incaricata di riferire sulle domande di autorizzazione a procedere.

«Ogni Ufficio avente un numero di iscritti non superiore a 50 deputati designerà un delegato. Gli altri Uffici designeranno un delegato ogni 50 deputati, senza computare le frazioni.

«La Commissione si costituirà nominando il presidente, un vicepresidente e un segretario».

(È approvato).

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha facoltà di parlare l’onorevole De Martino.

DE MARTINO. Chi vi parla, onorevoli colleghi, può affermare con sicurezza di aver sempre ispirato la sua modesta attività ai principî della sociologia cristiana, ed è appunto il solo problema sociale che intende brevemente trattare, come quello che nel momento attuale è da considerarsi, dopo la politica estera, il problema cruciale della Nazione.

In linea di massima sono d’accordo sul programma di Governo annunziato dall’onorevole De Gasperi.

Non mi sembrano però trattati esaurientemente alcuni aspetti dell’accennato problema che, a mio avviso, rivestono carattere di eccezionale urgenza e di vitale importanza per il Paese. Mi riferisco alla disoccupazione, alla ricostruzione e alla produzione. Tali problemi sono connessi tra di loro al punto che, risolvendo il primo, si avviano alla risoluzione anche gli altri due.

Consentitemi, onorevoli colleghi, che io, parlando con la semplicità di un lavoratore quale sono, illustri il mio pensiero dal punto di vista pratico, con l’esperienza di un trentennio di lavoro trascorso in mezzo ad altri lavoratori che ho sempre considerato miei fratelli e collaboratori, e ai quali, da questa tribuna, desidero inviare il mio più fraterno e affettuoso saluto.

Onorevoli colleghi, devono essere ricostruiti o costruiti ponti, canali, acquedotti, strade, scuole e, più di ogni altro, case. Ancora in tempo si farebbe oggi, con opportuni e tempestivi provvedimenti a dare, per il prossimo inverno, il tetto a quegli italiani che ne sono privi; per fare ciò occorrono pietre, calce, cemento, ferro, legno, braccia e poco altro. Abbiamo quasi tutto; manca soltanto una saggia organizzazione, tanto più che, a mio avviso, questo sembra il momento migliore di varare provvedimenti atti a far sì che ogni cittadino abbia finalmente in proprietà la sua casa.

Nei provveditorati regionali delle opere pubbliche le pratiche si attardano, forse anche nel lodevole intento di far risparmiare qualche biglietto da mille allo Stato; ma, in definitiva, poi questi risparmi si risolvono in maggiori spese per sussidi, carteggi, viaggi ecc. Non basta. Gli uffici regionali, ancor meno quelli centrali, non sono adatti a disporre e dirigere i lavori nelle singole provincie come nei singoli comuni, e ciò perché essi:

1°) non sono a diretto contatto coi bisogni locali, specialmente dei disoccupati;

2°) non sanno quanto dà allo Stato in contributi e, specialmente, con la produzione la provincia o il comune che chiede di fare lavori;

3°) non possono perché non sanno né possono sapere né tener conto delle necessità e principalmente della utilità dei lavori che da ogni parte vengono proposti.

Le spese dovrebbero essere, naturalmente fino ad un certo punto, e salvo circostanze speciali, proporzionate alla effettiva e potenziale capacità produttiva e al gettito che la provincia dà o può essere capace di dare.

La breve esperienza di queste ultime settimane mi autorizza ad insistere su questo concetto: occorrono per i lavori pubblici organi a circoscrizione provinciale, non regionale, perché questi ultimi, agendo a largo raggio di azione, provocano ineluttabilmente sperequazioni e ingiustizie.

Del resto è evidente che ai fini della produzione e del benessere occorre decentrare. Col decentramento il lavoro e la produzione saranno maggiori, migliori e costeranno di meno.

La distanza, specie nei tempi in cui viviamo, è talvolta dannosa. Funzionari e pratiche vanno e tornano da un ufficio all’altro e le opere quindi sono molto più costose di come potrebbero èssere. È perciò che soltanto organi locali, opportunamente controllati, dovrebbero, a mio avviso, provvedere allo studio dei vari problemi che investono l’economia della zona, la quale naturalmente si risolve in economia nazionale.

E occorrerà mettersi su un piano di pratico controllo, per poter studiare e provvedere e anche determinare fenomeni economici che sfuggono talvolta con grave danno agli organi centrali. Determinante non ultimo di un tale provvedimento è l’esistenza della mano d’opera e il genere dei disoccupati, con speciale riguardo ai reduci, cui un Ministero è preposto quasi esclusivamente ad infliggere l’umiliazione di un periodico sussidio, mentre una saggia politica economica potrebbe, e potrà, in pochi giorni, dare un lavoro utile ad essi, alle loro famiglie e alla, nazione intera.

Un Comitato provinciale, che chiamerei della ricostruzione e della produzione, dovrebbe avere i più ampi mandati, contenuti soltanto entro limiti degli stanziamenti dei due Ministeri dei lavori pubblici e dell’assistenza post-bellica. Parlo di Comitato provinciale per utilizzare immediatamente l’attrezzatura attuale in attesa delle riforme che saranno deliberate nella nuova costituzione. Tale Comitato potrebbe essere composto di pochi elementi: il prefetto, il capo del genio civile, l’intendente di finanza, il preside della provincia, il questore e i deputati alla Costituente eletti nella provincia stessa.

Il Comitato provinciale dovrebbe:

1°) funzionare con pochissimo personale, attingendolo possibilmente da altri uffici pubblici;

2°) appaltare lavori contemperando l’urgenza, l’importanza e l’utilità degli stessi, sempre però raggiungendo la finalità di occupare tutti i cittadini che cercano lavoro, e sono di meno di quanto si possa pensare;

3°) agevolare lo svolgimento di ogni sana iniziativa, al fine di ridurre l’intervento dello Stato, ed avviare l’economia provinciale ad una vita normale in cui i singoli cittadini contribuenti dell’erario possano attuare i loro programmi di lavoro e di produzione nel campo industriale, ma molto di più nel campo agricolo, ove il prodotto di una saggia coltura intensiva può darci insperati risultati.

È necessario che il Comitato provinciale non metta in esecuzione lavori sproporzionati per eccesso o per difetto alla disponibilità della mano d’opera; ed anzi è qui che io ravviso una delle principali ragioni di questa forma di estrinsecazione delle autonomie economiche provinciali.

Solo un Comitato locale può e deve tener conto delle necessità delle private iniziative. Così non dovrà dare vita a lavori pubblici non indispensabili, se la privata iniziativa assorbirà personale per produzioni più utili all’economia generale, ripercuotendosi siffatto vantaggio anche sull’economia dello Stato. Solo un Comitato locale può e deve tener conto della importanza dei lavori rispetto ai singoli comuni, nonché dell’utilità pubblica che determinerà l’ordine dei lavori stessi, in modo che essi si risolvano in una maggiore produzione.

Nessun cittadino sia più costretto a rubare per vivere. Diamo lavoro a tutti, e vedremo risorgere la patria, se per patria si intende l’insieme di tutti i suoi figli. Quando tutti avranno lavoro finirà quel tanto di parassitismo che, come è stato già detto da illustri colleghi, è in ragione diretta della disoccupazione, e che deve preoccupare chi ha la responsabilità di governare, e principalmente chi anche da questi disoccupati ha avuto l’onore e l’onere di partecipare a questa Assemblea.

Spendere in case, strade, ponti, ecc., non è spendere inutilmente, signori del Governo; ciò facendo, noi impieghiamo materiali che possediamo: fratelli nostri che desiderano guadagnarsi la vita, sono accontentati in questo minimo delle loro richieste: ed il tutto si risolve in un aumento del patrimonio nazionale.

Non spaventatevi delle cifre, specialmente voi, onorevoli Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, fate ciò senza esitazione; il disborso di cassa sarà certamente fronteggiato dalle entrate di Tesoreria che, spontaneamente, affluiranno dai cittadini per la fiducia che sarà determinata dall’ordine pubblico e dalla concordia generale; e fatelo subito, perché sarete benedetti da Dio e da tutto il popolo.

Per la ripresa della produzione devo fare qualche considerazione.

È fuor di dubbio che molta gente nasconde i propri risparmi, perché ha paura di due cose: del fisco e dei movimenti che possano comunque determinare la perdita. Quanto all’ammontare dei capitali imboscati sono dell’avviso che sia molto, ma molto superiore, a quello che opina l’onorevole Ministro del tesoro.

Occorre quindi creare un ambiente di tranquillità, che se non è da solo sufficiente, è certamente indispensabile per la ripresa della vita economica della Nazione.

Le imposte devono essere pagate, ma devono applicarsi a tempo opportuno: se non finisce l’opprimente intervento del fisco ogni qualvolta un privato cittadino inizia un’impresa, o si accinge a ripristinare quella distrutta, noi saremo responsabili della completa rovina economica dell’Italia.

Così avvenne per la caduta dell’Impero Romano, quando l’esosità del fisco esaurì e distrusse le fonti della ricchezza, quando per pagare i balzelli si giungeva a vendere perfino i propri figli, quando si lasciò il deserto e la landa alle invasioni barbariche!

Sono convinto che un provvedimento che desse la possibilità di emettere da parte delle Società per azioni titoli azionari al portatore, darebbe il desiderato risultato di disboscare quei capitali, cui accennava ieri l’onorevole Ministro del tesoro. Egli ha dichiarato di non avere i mezzi per poterli disboscare, mentre desidererebbe di poterli fare affluire nelle casse dello Stato. Da queste dovrebbero, e ciò è indispensabile, passare alla utilizzazione nella produzione nazionale. Applicando questa proposta, già fatta invero da un illustre collega, eviterebbe partite di giro, e si arriverebbe molto meglio e più velocemente alla stessa conclusione con la massima semplicità.

Purché si ricostruisca, si produca, si elimini la disoccupazione, ogni provvedimento diventa santo. Che ci importa di un immediato bilancio attivo o passivo, quando tutti i cittadini possano avere il lavoro che li faccia vivere in discreta agiatezza, e quando nella Nazione fosse stabile un ambiente di tranquillità tale da non fare più maledire la vita, e quando nessuno potrebbe più avere attenuanti, se si dedicasse al furto e al delitto? Col lavoro non si è mai procurato la miseria, si è sempre creata la ricchezza, anche quella dello Stato.

I disoccupati – sembrerà un paradosso quello che dico – potranno essere non un danno ma un vantaggio, se essi saranno considerati come una riserva che conviene però subito utilizzare nel loro interesse e nell’interesse di tutti. Bisogna però avere la forza di saperla utilizzare e valorizzare questa massa di nostri fratelli: essi, ben guidati, adempiranno al patriottico compito di contribuire alla ricostruzione del Paese. Essi si guadagneranno la vita e creeranno ricchezze per le future nostre generazioni.

Uscite straordinarie, onorevole Ministro del tesoro: meglio qualche centinaio di miliardi di spese in più, e tetto, e lavoro per tutti, che qualche centinaio di miliardi di spese in meno e disoccupazione, e senzatetto, e disordine!

Esiste un lembo della provincia di Salerno, la mia provincia che fu chiamata «Divina Costiera». Milioni di stranieri verrebbero nel nostro Paese, se l’Italia offrisse ospitalità e sicurezza; e come un tempo i nostri emigrati mandavano parte dei loro risparmi in Patria, così oggi potremmo ottenere quelle stesse valute e forse di più, ospitando, con la cavalleria che ci è tradizionale, quelli che volessero, e che sono moltissimi, venire a godere il nostro sole e i nostri giardini.

Ma dove li metteremo questi ospiti, se pure esistendo migliaia e migliaia di disoccupati, pure abbondando di pietre, di cui la natura ci è stata prodiga fino all’inverosimile, nonché di ogni altro elemento necessario alle costruzioni, noi non abbiamo ancora affrontato il problema di organizzare tutti questi elementi che possono, che devono creare alberghi, centri turistici, stabilimenti balneari ecc.? E qui non posso non ricordare che le sole acque di Castellammare di Stabia potrebbero far vivere migliaia e migliaia di persone.

Perché non avviarsi subito alla pratica esecuzione? Costituite di urgenza, signori del Governo, i Comitati provinciali della ricostruzione e della produzione, anche, se volete, sotto un larga vigilanza del Comitato interministeriale della ricostruzione, e voi affronterete una volta per sempre, ma realmente, il problema e lo risolverete.

Tutto ciò rientra anche sotto il vigile esame del Ministero del tesoro, al quale di certo non sfuggirà però che l’aumento del patrimonio nazionale implica sicurezza di futuri vantaggi di bilancio.

Sul piano della ricostruzione va anche messo il problema che riguarda la bilancia commerciale: sono convito che il nostro popolo, incline e dedito al lavoro, per tradizione, per convinzione, per religione, saprà produrre quanto basta per dare, in cambio di ciò che ci manca, il prodotto delle sue quotidiane fatiche.

Come acquistare, in avvenire, milioni e milioni di quintali di grano all’estero, se non avremo la valuta e il controprodotto da offrire?

E come offrirlo se non lo potremo produrre?

E come produrlo se gli stabilimenti sono distrutti, le vie rovinate, i ponti abbattuti, e molti lavoratori non hanno neppure la più modesta casa che ospiti i loro cari e dia loro la tranquillità del lavoro?

Ecco allora che, ricostruendo, convoglieremo all’estero, in cambio, ad esempio, del grano, i prodotti che avremo potuto ottenere in esuberanza al nostro fabbisogno.

I Comitati cui ho accennato dovranno anche avere il compito di dare impulso alle produzioni di generi che potranno esportarsi e che potranno determinare una bilancia commerciale attiva.

Per le importazioni occorre andare guardinghi: non consentirei, ad esempio, importazioni di generi non indispensabili alla vita e alla ripresa. E qui non posso non rilevare come il tabacco, genere di monopolio, sia ancora oggi l’oggetto più esteso della «borsa nera» e della corruzione di minorenni!

Si sarebbe dovuto già fare; ma io ritengo assolutamente indispensabile e indilazionabile eliminare, con ogni energia, questa forma di illecite speculazioni. Lo Stato dovrebbe reprimere tale contrabbando. Sulla scorta dei risultati economici del bilancio del monopolio, si può presumere che si ricaverà da tale repressione una somma annua non minore di 20 miliardi e tale somma potrebbe essere parzialmente devoluta per educare questi ragazzi al culto del lavoro e della onestà, mediante apposite scuole ed asili. Né a me par del tutto trascurabile l’idea che questi ragazzi – che io calcolo in tutta l’Italia intorno agli 800 mila – debbano essere educati, perché alla loro generazione sarà affidata la definitiva ricostruzione della Patria!

Ancora sull’argomento della borsa nera io mi domando: è possibile far mangiare agli italiani il pane bianco? Ed allora fatelo fare il pane bianco. Non è possibile? Ed allora perché mai il pane bianco si può comperare in ogni angolo di strada, mentre poi si proibisce al panettiere, che paga le tasse, di offrirlo ai propri clienti?

Ed a proposito: il Governo lo scorso anno annunciò provvedimenti tendenti ad una parziale riduzione degli ammassi: la notizia fu accolta con entusiasmo in tutti gli ambienti, dal produttore al consumatore. Ma forse perché sembrò troppo bello un simile progetto, si cambiò rapidamente strada!

La ridda dei decreti e provvedimenti, talvolta contrastanti l’un l’altro, crea un senso di sfiducia! È di questi giorni il provvedimento che proroga a fine mese il premio di lire 300 a quintale per le consegne agli ammassi. E non si è pensato all’incongruenza che per consegnare sollecitamente e guadagnare il premio, molti conferiranno grano umido, destinato ad ammuffire ed a guastare anche il prodotto sano e genuino?

Un altro problema è stato solamente sfiorato nel programma di Governo con la promessa assicurazione di un miglioramento di stipendi e di salari. Questo problema si risolverà solo aumentando la produzione, e la produzione aumenterà man mano che lo Stato se ne disinteresserà, nel senso cioè di non intervenire in ogni fenomeno economico produttivo col volere per forza o fissare una imposta, o dare un premio!

Ha detto l’onorevole Ministro del tesoro che conseguenza della politica monetaria sarà il ribasso dei prezzi. E sta bene. A noi interessa principalmente, e vorrei dire quasi unicamente, che tutti i cittadini abbiano la possibilità di soddisfare le loro necessità, non avvicendarsi a stare digiuni. Quindi il ribasso dei prezzi determinato dalla rivalutazione della lira, determinato a sua volta dalla propria scarsezza, non risolve per niente il problema che ci assilla. Il ribasso che occorre auspicare non è quello dovuto alla mancanza di circolante, bensì quello derivante dall’aumento della produzione.

Comunque, in attesa che la produzione possa far ridurre il costo dei generi, non bisogna dimenticare e disinteressarsi degli impiegati dello Stato che hanno una funzione indispensabile nella vita della Nazione.

Bisognerà, in un secondo momento, eliminare, destinandoli ad altro più confacente lavoro, quelli che non rendono; ma a quelli che rendono occorre pur dare la possibilità di vivere con decoro ed onore, di non elemosinare!

Ho accennato solamente ad alcuni dei problemi che, se appaiono in un primo momento complessi, non lo sono e non lo saranno nella pratica attuazione. Sorpassiamo per un momento sul rigido sistema burocratico. Costituiamo i Comitati provinciali della ricostruzione e della produzione, immediatamente, senza pletora di personale, e vedremo che, col buon senso pratico degli italiani, e col senso di dovere che non manca, anche nei funzionari capi degli organi provinciali, coadiuvati da noi per ogni singola provincia, il problema sarà non solo affrontato, ma risolto in pieno e in breve ora.

Onorevoli colleghi, chi vi ha esposto questi concetti è un uomo che la sua vita vive del lavoro diuturno e costante: egli osa additarvi nel lavoro la soluzione dei problemi più assillanti: solo il lavoro salverà la nostra Patria, e in questo lavoro dobbiamo essere tutti concordi: per il salvataggio generale occorre che generale sia la concordia.

Il nostro popolo è buono, si contenta di vivere modestamente; ma vuole lavorare e vuole vivere col lavoro in un clima di tranquillità e sicurezza. Non lo si illuda con promesse che potranno pure non essere fallaci, ma che certamente provocheranno il più nero sconforto, in una snervante attesa di provvedimenti, che, per essere studiati ed attuati, dovranno subire una indefinibile gamma di giri burocratici.

Facciamo gli interessi di tutti, praticamente, dando corso alle proposte che sono di immediata attuazione. Solo così risponderemo alla fiducia del popolo che qui ci ha mandato; solo così potremo sperare giorni migliori per l’Italia.

Ho detto «sicurezza»: è nella mancanza di questa la causa prima di uno sbandamento quasi generale: non si sa se e fino a che punto certi moti siano leciti: non si sa se economizzare sia un bene per sé e per le proprie famiglie: ma è certo che è volontà comune di tutti gli italiani di voler vivere in un ambiente di tranquillità, ambiente indispensabile per la vita, la rinascita, il progresso della Patria.

Attuate ciò, signori del Governo, ed avrete la fiducia e la gratitudine non soltanto di questa Assemblea, ma quella ben più desiderabile del popolo italiano. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Lombardo Ivan Matteo.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Onorevoli colleghi, quando più intensa ferveva la battaglia per la questione istituzionale, i più intelligenti fra i reazionari nostrani, ammonivano i pavidi ed i poveri di spirito a non fare il «salto nel buio».

Si servivano cioè dello stesso poderoso argomento pedagogico che le balie asciutte usano per tenere a freno i bambinelli intraprendenti, minacciandoli del «babau» che li aspetta nel buio…

L’onorevole De Gasperi ci ha presentato il primo Governo non più Regio, ma finalmente Repubblicano e non mi sembra che tanto il Governo quanto il programma concordato, abbiano l’aspetto del «babau».

È un Governo formato dai tre partiti di massa, ai quali si è aggiunta la rappresentanza dei repubblicani storici. Desidero sottolineare questo ultimo fatto; noi socialisti, in sede di trattative, quando sembrò che i repubblicani storici non avrebbero partecipato alla responsabilità di Governo, insistemmo perché essi vi entrassero con condizioni di prestigio.

Non volevamo che il carattere moderno della Repubblica rinnegasse la tradizione repubblicana del Risorgimento; volevamo legare strettamente la democrazia a tendenze sociali, con le tradizioni più nobili della storia nazionale.

La partecipazione di tutti e tre i partiti di massa era indispensabile. Vi è stato chi prima delle trattative, e poi nelle more di queste, si è fatto zelatore della formazione di un Governo che comprendesse solo due dei partiti, anzi persino uno solo dei partiti stessi. Ciò sarebbe stato stolto.

La formula della partecipazione dei tre partiti di massa al Governo, è una formula europea (vedasi quanto è avvenuto in Francia, Belgio, ecc.) dettata dalla situazione che si è venuta creando nell’Europa Occidentale per ragioni nazionali ed internazionali.

La ragione internazionale va ricercata nella necessità di dare alla struttura politica del nostro Paese un equilibrio che garantisca la sua autonomia interna nei confronti delle massime potenze mondiali.

La rottura di questo equilibrio interno rischierebbe di far cadere il nostro Paese nella sfera di influenza dell’uno o dell’altro dei grandi potentati che dominano la scena del mondo.

Non si vuol dire con questo che partiti al Governo possano in qualche modo subire l’influenza di potenze straniere.

Si vuol dire solamente che la rottura dell’equilibrio di cui il Partito socialista è l’elemento determinante, indebolirebbe le forze che hanno maggiore coscienza dell’esigenza assoluta di una politica, che si ponga esclusivamente dal punto di vista degli interessi solidali della classe lavoratrice italiana e della Nazione.

Delle ragioni interne, è fondamentale quella che esige la necessità di un equilibrio politico che garantisca, nell’atto in cui il Partito socialista non ha ancora la maggioranza assoluta, lo sviluppo della democrazia.

Nella situazione attuale la rottura di questo equilibrio determinerebbe polarizzazioni pericolose per il consolidamento e lo sviluppo della democrazia stessa, esigenza cui è legato il destino della classe lavoratrice e della Nazione.

Di tale equilibrio il Partito socialista è l’elemento essenziale.

Perciò la partecipazione del nostro Partito al Governo risponde alle seguenti necessità:

1°) possibilità di difendere più efficacemente gli interessi solidali delle classi lavoratrici e della Nazione;

2°) necessità di non indebolire la posizione dell’Italia al tavolo della pace, cosa che si sarebbe verificata ove noi fossimo stati assenti dal Governo:

3°) considerazione che l’assenza dal primo Governo Repubblicano del partito che si è battuto con coerenza e tenacia per la Repubblica, ravvisando in questo problema basilare importanza storica e politica, avrebbe indebolito la Repubblica stessa.

Queste supreme esigenze hanno fatto sì che il nostro partito partecipasse alla formazione del Governo anche se il programma dello stesso non dia in tutti i punti soddisfazione ai socialisti.

Perché infatti il partito ha posto, in primissimo luogo, una questione di programma.

Coloro che s’impazientivano perché si discuteva abbondantemente attorno ad un programma, non riflettevano al fatto che non siamo in un periodo di Governo d’ordinaria amministrazione. La partecipazione ad una compagine governativa non aveva alcun interesse per il Partito socialista italiano se non fosse stata solidamente ancorata ad un programma elaborato per la presumibile durata del Governo stesso, programma alla cui esecuzione integrale ed inflessibile abbiamo condizionato la nostra partecipazione.

Naturalmente un programma per essere realizzato, deve essere sorretto dalle forze di cui è l’espressione.

Di qui anche il problema dei posti, problema (con buona pace dei facili critici) non di prestigio e di vanità, bensì di lavoro e di efficienza.

Noi eravamo dell’opinione che i partiti dovessero distribuirsi i posti per settori, affidando a ciascun partito quel settore in cui è suscettibile di esercitare un’azione efficace, tenendo conto però della designazione del corpo elettorale.

Il settore propriamente politico doveva logicamente essere affidato al partito che ha avuto il maggior numero di voti: quello della Democrazia Cristiana.

Tuttavia, sarebbe stato opportuno riconoscere l’efficacia dell’azione socialista del Ministero dell’interno e ciò, del resto, a somiglianza di quanto avviene in altri Paesi dell’Europa Occidentale governati dalla formula dei tre partiti di massa.

Non si è voluto e la maggior parte dei nostri pensa sia stato un errore, tanto più che la suprema ragione addotta per non lasciarci continuare a svolgere l’azione iniziata ed avviata tanto efficacemente dal nostro compagno Romita, si basava su una tradizione, nella cui continuità vi sono tuttavia diverse eccezioni.

Ma noi socialisti non potevamo, né volevamo porre pregiudiziali che non vertessero sul programma.

Abbiamo quindi accettato gli Esteri con una formula sulla quale si è fatto dell’ironia, ma che – per chi sa guardare alle cose una spanna più in là del proprio naso – risponde all’interesse del Paese.

Abbiamo accettato gli Esteri a quella condizione perché ritenevamo che alla vigilia della conclusione di un periodo di negoziazione che dura da oltre due anni, sarebbe stato un errore sostituire chi di quelle negoziazioni è stato il coordinatore. Si dice in America che non si cambiano i cavalli durante il guado e ciò è tanto più vero se ciò debba avvenire là dove la corrente è più violenta. Si cambiano invece a guado attraversato, per le ragioni che dirò in tema di politica estera.

I socialisti avevano sostenuto la necessità della concentrazione di vari Dicasteri, ma non si è creduto di poter accogliere il nostro suggerimento per varie considerazioni, alcune delle quali di carattere obiettivo.

Ma veniamo agli altri Dicasteri. Noi socialisti, per la nostra natura di partito delle classi lavoratrici, abbiamo rivendicato i ministeri sociali, quelli cioè dai quali era possibile esercitare un’azione diretta a favore delle classi lavoratrici stesse.

Vi sono problemi essenziali della politica interna: 1°) problema della disoccupazione; 2°) problema dei proletari delle fabbriche; 3°) problema dei proletari della terra; 4°) problema degli impiegati. Purtroppo un’azione organica e risolutivamente efficace è resa difficile dai seguenti fattori:

  1. a) insufficienza di successo del Partito socialista italiano che non gli conferisce nella compagine governativa il peso che dovrebbe avere:
  2. b) deficienza, o addirittura sfasciamento dell’apparato burocratico dello Stato che, nelle attuali condizioni, metterebbe a rischio di insuccesso vaste riforme di struttura e comprometterebbe agli occhi del Paese un piano organico di socializzazione.

Tuttavia, nel quadro delle condizioni obiettive attuali, noi intendiamo sfruttare tutte le possibilità, per ricostruire il nostro Paese su basi che diano alle classi lavoratrici il mezzo della loro emancipazione.

Che fare? La politica generale deve essere orientata nel senso del rinnovamento totale delle basi economiche, sociali e morali del nostro Paese.

Prima e fondamentale condizione del rinnovamento è di impedire la disgregazione, la marcescenza di ciò che è ancora in piedi, anche se vogliamo sostituirlo con altro di più solido.

Vi sono varie politiche: quella del tanto peggio tanto meglio, quella della «tabula rasa» per poi ricostruire.

Noi non siamo per alcuna di tali politiche, perché abbiamo la nostra: quella di sostituire metodicamente ciò che esiste ma è condannato, senza disgregare tutta la struttura.

Sul piano generale, la politica del tanto peggio tanto meglio e della «tabula rasa» tende alla dittatura; la nostra invece serve a dar consistenza e forma alla democrazia sociale.

Sul piano sociale la politica della «tabula rasa» non vede la possibilità di rinnovare se non distruggendo tutto. È la politica di Mefistofele: «Tutto ciò che esiste, merita di essere distrutto».

La nostra, rinnova sistematicamente, senza rompere la continuità dell’organizzazione.

Citiamo un caso concreto e prendiamolo nella politica monetaria.

La politica del tanto peggio tanto meglio e della «tabula rasa» tende all’inflazione. Orbene di tutte le sciagure che possono colpire una nazione questa è senza dubbio la più mostruosa. Persino i disastri di una guerra, quale quella dalla quale emergiamo, impallidiscono al confronto.

Conseguenze dell’inflazione sono: il sempre più rapidamente decrescente potere di acquisto dei salari e dei redditi fissi sino ad annullarlo in un’orgia di carta-moneta; la concentrazione della ricchezza in un numero sempre più esiguo di mani; il cataclisma per gli ultimi anni di vita dei pensionati; il pauperismo – non la proletarizzazione – dei ceti medi i quali dopo aver tutto venduto, tutto barattato, inadatti e inesperti al lavoro manuale, senza risorse, senza speranze, sprofonderebbero nell’abisso.

È, questa, una politica anti-sociale e quindi anti-socialista.

Dalla putredine di questa situazione, non nasce un regime sociale sano: nasce il totalitarismo, come si è visto in tutti i Paesi che ne furono colpiti dopo la prima guerra mondiale.

La nostra politica tende alla stabilizzazione: non già per stabilizzare uno stato di cose iniquo, ma per evitare la putrefazione.

Il cadavere di una società in decadenza è più pernicioso del corpo vivo di quella società stessa.

La linea generale del nostro Partito è quindi di lotta contro l’inflazione.

Ma qui si pone il tremendo problema dei salari e degli stipendi, dei sussidi e delle pensioni. Come sbloccare le retribuzioni se il costo della vita aumenta?

È impossibile, è iniquo. Ma aumentando i salari non si contribuisce a favorire l’inflazione? È in apparenza un circolo vizioso, anzi una spirale infernale dalla quale non si può uscire.

Come tutti i problemi economici è un problema di misura e di equilibrio.

La linea giusta è questa: non mettere l’accento sulla corsa infernale dell’aumento ciclico dei salari e dei prezzi, ma fare una politica draconiana per ripartire meno iniquamente il reddito nazionale.

È per questo che insistiamo nel dire che il miglioramento dell’attuale basso tenore della vita dei lavoratori (in alcuni casi troppo basso anche dal punto di vista fisiologico) non può essere raggiunto – data l’attuale situazione economica e finanziaria del Paese – mediante un indiscriminato aumento delle mercedi, bensì comprimendo il costo della vita e ricorrendo all’uopo a tutti i provvedimenti – nessuno escluso – che consentano di conseguire tale risultato.

Nei capisaldi del programma pubblicato dal Partito socialista italiano vi era all’uopo la richiesta di aumento delle razioni del pane e della pasta subito: dei grassi e dello zucchero quanto prima possibile: l’importazione di prodotti alimentari disponibili all’infuori del «Food combined board»: la adozione di provvedimenti incisivi che consentano la possibilità di fornire a buon mercato generi d’abbigliamento al popolo italiano.

Sarebbe assai grave, infatti, che le forniture dell’UNRRA per 23 milioni di chilogrammi di cotone, 25 milioni di chilogrammi di lana-base lavata e di 10 milioni di chilogrammi di materiale per mista in cardato, non possano andare a ricostruire a buon prezzo il depauperato guardaroba degli italiani, solo perché non sia coordinata la possibilità di lavoro delle filature e tessiture in rapporto alle richieste internazionali ed alle inderogabili esigenze del mercato interno; oppure perché il costo della «façon» di filatura tessitura e finissaggio sia troppo esoso, oppure perché non sia burocraticamente stipulabile d’urgenza un accordo con il tesoro per il pagamento della «façon» relativa; oppure perché si abbiano difficoltà e dubbi circa la distribuzione, anche per tema di danneggiare i… benemeriti ceti commerciali.

Noi vogliamo che le mercedi abbiano un valore reale e non uno nominale. (Vivi applausi).

Ci si beffa delle classi lavoratrici, quando si procurano loro aumenti di salario che (a volte ancor prima di ricevere la busta-paga, lo stipendio o la pensione) non servono a comperare nulla di più di quanto esse potevano acquistare prima di aver ottenuto gli aumenti stessi.

Non si può pretendere che le classi lavoratrici sappiano di economia quanto gli economisti (benché spesso tra i lavoratori vi siano molti che hanno la percezione istintiva delle realtà economiche); ma noi che delle classi lavoratrici sappiamo le sofferenze e le miserie, noi le dobbiamo mettere in guardia, anzi salvaguardare, dall’essere vittime di una tragica beffarda vicenda.

Ne va di mezzo la salvezza delle classi lavoratrici e perciò del Paese.

Anzi, se tutti sapessero quanto diffusa sia la tendenza inflazionistica in numerosi ceti industriali tutti dovrebbero sentirsi subito in sospetto. Solo l’equa distribuzione di quanto è indispensabile ad assicurare un sia pur limitato tenore di vita può – tra l’altro – frenare prima, colpire a morte poi, quell’immondo cancro denominato «borsa nera» nel continente ed «intrallazzo» in Sicilia, cancro che ha contribuito ad intossicare il corpo sociale italiano.

Ancora una volta la guerra ha portato a galla gli elementi deteriori delle varie classi sociali: dal capitalista che incetta qualsiasi bene di consumo, al commerciante tradizionale od improvvisato che s’impingua sul bisogno altrui, al «rurale» che saccheggia il proprio compagno di lavoro fornendogli a prezzo esoso dieci chilogrammi di farina di polenta.

Questa guerra ha visto formarsi una vasta stratificazione di gente proveniente da tutti i ceti sociali che ha ripudiato il piacere e la dignità dell’onesto lavoro ed ha accumulato denaro, con i più immondi traffici: dalla «borsa nera» al «baito», alla ricettazione, alla prostituzione.

Una specie di borghesia di nuovo ed orribile conio che delle vecchie borghesie non ha né i meriti, né le capacità!

Ma un Governo ha il diritto di chiedere sacrifici, altri sacrifici, alle classi più povere solo quando abbia colpito gli sperperi delle classi più ricche.

L’esempio dell’Inghilterra insegni.

In quel Paese, ove la solidarietà nazionale ed una ferrea cosciente autodisciplina sono veramente sentiti, una incruenta rivoluzione egualitaria è in atto. Laggiù ricco e povero, capitalista ed operaio ricevono non solo di che vestirsi alla stessa guisa, ma anche di che mangiare allo stesso modo, in virtù della lapalissiana constatazione fisiologica che la capienza dello stomaco di un povero è uguale a quella di un ricco.

La «borsa nera» è una cosa quasi inesistente e comunque non riferibile ai generi di prima necessità.

Là dove manchi però la solidarietà sociale e l’autodisciplina, è necessaria l’azione di Governo.

So benissimo che questa è funzione quasi sovrumana per un Paese come il nostro, ove abbonda un diffuso individualismo che rende difficilissimi, inutili, e per giunta enormemente costosi, restrizioni e vincoli.

Ma a quelli occorre attenersi almeno per le cose di fondamentale necessità.

Né mi si dica che in Inghilterra si ha tutto, mentre qui manca tutto.

In Inghilterra il razionamento è veramente rigido ed inoltre mancano per buona parte i prodotti ortofrutticoli e, del resto, la dieta degli inglesi è sempre stata, anche per ragioni climateriche, superiore a quella caratteristica della sobrietà della nostra gente. Ma laggiù la politica fiscale ha veramente operato in profondità ed ha colpito in guisa sempre più fortemente progressiva la ricchezza, ed anzi, dei recenti sgravi fiscali annunciati dal Cancelliere dello Scacchiere, hanno beneficiato principalmente le categorie dal bilancio più modesto.

No! Non possiamo chiedere altri sacrifici alle classi povere se non operiamo una violenta riduzione del tenore di vita delle classi privilegiate, sì da non renderlo troppo vergognosamente dissimile da quello dei lavoratori: operai, contadini ed impiegati.

È tempo di farla finita con la smania godereccia e spendereccia di certo popolo grasso che non ha un solo pensiero – sia pure ipocrita – per le sofferenze del popolo magro. (Applausi a sinistra).

D’altra parte vi è un imperativo al quale non possiamo sfuggire: quello di contrarre drasticamente i consumi non indispensabili allo scopo di incrementare al massimo le nostre esportazioni.

In proposito sarà bene riflettere che se noi non provvediamo subito a potenziarle, siamo condannati.

Privi di valuta aurea, senza, afflusso di turisti per un lungo periodo a venire, con scarse rimesse da parte degli emigranti, senza prospettive immediate di ampli crediti esteri, come faremo ad assicurarci le materie prime indispensabili, i combustibili, tutto ciò che serve al processo produttivo del Paese, quando cesserà l’apporto dell’UNRRA, il cui programma di aiuto si concluderà a fine di anno?

Si sono fatti dei calcoli preventivi, in base ai quali è constatabile come dal 1946 al 1949 il nostro fabbisogno per importazioni si aggiri su una media di 1150 milioni di dollari annui e cioè circa 4 miliardi e mezzo di dollari per il quadriennio. Si tolgano pure le forniture UNRRA (diciamo in cifra tonda 500 milioni di dollari) e si vedrà come, per dare pane e lavoro al popolo italiano, sia necessario importare in quattro anni materie prime e materiali per 4 miliardi di dollari.

Si può sperare di ottenere a tempo debito un importo complessivo di prestiti esteri, a breve e lunga scadenza, di qualcosa attorno ai 1500 milioni di dollari od altre valute equivalenti, ma per poter colmare gli altri 2500 milioni di dollari per il quadriennio occorre provvedere mediante esportazioni in tutti i Paesi del mondo.

Orbene, se saremo saggi e fortunati, si preventiva che passeremo, in fatto di esportazione, dai 150 milioni di dollari per il 1946, ai 550 per il 1947, agli 800 per il 1948, ai 1.000 per il 1949.

Ciò vuol dire «grosso modo» raddoppiare per quell’anno la cifra di esportazioni del 1938.

Sono curioso di sapere come l’onorevole collega, che sosteneva la possibilità di ricostruire l’Italia col solo apporto degli italiani all’estero (per quanto generosi ed attaccati al Paese natio essi siano) pensi che la cosa sia fattibile, quando si rifletta che non è solo la ricostruzione, ma la vita quotidiana di 45 milioni di italiani che esigono le cifre astronomiche che ho citato.

Per questo occorre mettersi subito all’opera da oggi, non da domani, con una selvaggia volontà di riuscire nell’intento, perché la posta è troppo grossa per fallire: comprimere disperatamente i consumi, da quelli voluttuari giù sino a quelli non indispensabili: ridurre all’osso i costi ed i profitti, per affrontare la concorrenza, non più molto lontana, sui mercati internazionali; realizzare la nostra produzione e potenziare quella che – tenuto conto delle richieste dei mercati stranieri – implichi il massimo impiego di mano d’opera e quanto più ridotto impiego di materie prime.

Il potenziamento dell’apparato produttivo ed esportativo si impone anche per assorbire quanto più possibile la mano d’opera disoccupata.

Questo è un problema angoscioso, il problema che deve assillare continuamente gli uomini di Governo, i partiti, la gente che ha senso di responsabilità. Se non debelliamo la disoccupazione, noi avremo fatto fallimento.

La disoccupazione è infatti l’altro nostro terribile cancro roditore, anzi il più grave. Essa è acutissima ovunque, esasperata nel Mezzogiorno, a beneficio del quale bisogna dare, se non la esclusività (come sosteneva sabato un onorevole collega), certo la precedenza ed amplissima parte del programma di lavori pubblici.

A questo solo non può naturalmente limitarsi il contributo a beneficio delle masse affamate e disoccupate del Mezzogiorno. Occorre agire nel campo delle riforme agrarie, della ricostruzione edilizia, di quella industriale (là dove essa non sia antieconomica superfetazione), dello stimolo ad installare industrie connaturate e compatibili con l’economia locale: ma per far ciò non bisogna perdere tempo.

L’azione di Governo deve essere efficace e rapidissima; tagliando nel vivo delle complicazioni burocratiche, della legislazione relativa, impedendo che ogni decisione e provvedimento isterilisca a causa della lentezza con cui gli organi centrali e periferici affrontano e risolvono problemi così scottanti.

È tempo che gli organi competenti finiscano di considerare ogni problema contemplandolo «sub specie aeternitatis».

Ai disoccupati, e questi naturalmente includono i reduci, occorre dare subito modo di non disperare.

Mentre una parte potrà man mano essere assorbita nel ciclo produttivo, stimolato e potenziato, ed altra parte dovrà essere riassorbita in lavori pubblici, occorrerà provvedere a far sì che su un vasto piano nazionale venga impostato il problema della istituzione di corsi di qualificazione e di riqualificazione per mano d’opera non specializzata e manovalanza, nonché scuole di addestramento per personale destinato all’amministrazione.

Il diritto al lavoro, e quando non ve ne sia a sufficienza per tutti, almeno la garanzia contro la fame, è problema primordiale dello Stato. Esso deve provvedere ai bisogni minimi indispensabili di ogni cittadino.

Il Partito socialista italiano chiede al Governo, quanto prossimamente possibile, di rivedere gli attuali sussidi per avvicinarli alla dolorosa realtà del costo della vita. Naturalmente poiché lo sforzo dello Stato, cioè della collettività, non può essere consacrazione di una preferenza per l’ozio, il sussidio dovrà venire negato a coloro che – essendo in buone condizioni fisiche – rifiutassero il lavoro loro offerto.

L’enorme sforzo da fare in fatto di lavori pubblici ha un campo vastissimo. Noi sosteniamo anzitutto che essi non debbono essere antieconomici, ma debbono a loro volta costituire il presupposto di produrre altra ricchezza, creando cioè altre possibilità di lavoro.

I      programmi relativi dovranno essere fondati sulla effettiva disponibilità dei materiali e dei trasporti.

Se verranno resi rapidamente efficienti gli organi tecnici statali che si debbono occupare dei problemi e se verrà avviata una più stretta cooperazione tra essi ed i comuni e le regioni, purché non vengano lesi però i diritti del lavoro, il beneficio degli stanziamenti opportuni di bilancio si renderà tosto palese.

Il Governo nel suo programma ne dà assicurazione e noi invochiamo solamente che si studi subito tutto quanto si può e si deve fare.

Vi sono progetti pronti in larghissima copia, alcuni anzi dormono da anni un ingiusto sonno tra le scartoffie innumerevoli.

Il campo è vastissimo: ricostruzioni e potenziamento di attrezzature portuali; completamento di opere idrauliche e di irrigazione già in corso: ricostruzione di case, scuole, ospedali; sminamento di campi minati; bonifica agraria là dove è già in corso la bonifica idraulica; sistemazioni montane; rimboschimento; rifacimento di ponti; riattamenti di strade, escavazione di canali e sistemazione di argini: un lavoro colossale.

Naturalmente esigenze così vaste esigono provvedimenti finanziari d’eccezione: il Governo si propone di emettere un gran prestito interno facendo appello alla solidarietà di tutti i cittadini. Tutti dovranno rispondere; non vi può essere nessun disertore. Dopo tutto, chi desse saggio della solita miope furberia, darebbe prova di scarsa intelligenza. Ciascuno dovrà seriamente riflettere che non si può sfuggire all’obbligo che ciascuno faccia il proprio dovere e che chiunque sfugge a tale imperativo è colpevole al cospetto di tutti, ma è soprattutto responsabile, per la parte che lo concerne, del disastro che può incombere sulla Nazione.

O ci si salva tutti, o si perisce tutti! Il prestito interno non è sufficiente da solo.

Occorrerà procedere alle misure fiscali d’eccezione, applicando l’imposta straordinaria sul patrimonio preannunziata dal Governo. Il gettito di questa, unitamente alla confisca dei profitti di regime dovrà costituire il nerbo del bilancio straordinario.

È una riparatrice opera di giustizia che impone tale provvedimento. Non si potrebbero chieder più alle classi lavoratrici i sacrifici necessari se non si desse loro la certezza assoluta che la ricchezza contribuisce in larghissima misura all’opera di ricostruzione.

Ancora una volta non si può far ricadere sulle classi operaie e medie gli oneri derivanti dalla guerra. Non esse si sono impinguate nella preparazione e nella congiuntura bellica.

Il bilancio ordinario dovrà essere pareggiato quanto prima possibile con le entrate ordinarie. Si dovranno sollecitamente potenziare i sistemi di accertamento e di imposizione; si dovrà ripristinare la moralità del contribuente caduta tanto in basso e colpire spietatamente la corruzione e l’inefficienza troppo spesso dilaganti in alcuni servizi.

Occorrerà guarnire con elementi scelti dalla guardia di finanza le frontiere e specialmente quelle terrestri e in particolar guisa quella svizzera, attraverso le quali si sta esercitando il più sfacciato contrabbando di prodotti, di valuta, di ricchezza nazionale.

In questo settore attendiamo dalla severità e dall’abilità organizzativa dell’onorevole Ministro delle finanze lo sforzo maggiore e senza dubbio più difficile.

Chi rileggesse oggi il grande discorso «Rifare l’Italia» pronunziato ventisei anni or sono dal grande apostolo Filippo Turati in questa stessa Camera, proverebbe, a lettura ultimata, un senso di sgomento. Lo stesso senso di tragedia immanente, le stesse tare, le identiche necessità e preoccupazioni di allora, affiorano oggi, ingigantite.

Quel fallimento che egli preconizzava allora, è oggi una pratica realtà, e ne incombono su tutti noi le conseguenze.

E sugli uomini di governo, nonché su quelli che hanno la responsabilità dei partiti, pesa la curatela della più dolosa delle bancarotte fraudolente che la storia ricordi. Ventitre anni di tirannia furono il prezzo pagato da tutti gli italiani, per aver voluto la classe dirigente di allora sfuggire all’obbligo morale e materiale di pagare essa lo scotto di quella situazione. Allora si volle riversarne sulle spalle dei poveri il peso.

Ma il gioco non è ripetibile: non lo permetteremo.

Ventisei anni or sono si trattava di «rifare l’Italia»: oggi si tratta di salvare e ricostruire l’Italia.

Nel suo programma il Governo, accogliendo un postulato accennato nel programma del Partito socialista italiano, si impegna a dare «ad alcune industrie particolarmente connesse con la ricostruzione e la ripresa costruttiva, un regime che meglio risponda agli interessi dell’economia nazionale».

Permettetemi, onorevoli colleghi, di dilungarmi un tantino se non altro per chiarire perché richiediamo dallo Stato che vigili ed intervenga.

Abbiamo presenti le industrie elettriche: ci sembra sia di capitale importanza che, almeno come passo iniziale, si provveda ad una razionale distribuzione dell’energia e ad una parificazione delle tariffe su base nazionale.

L’elettricità è, come il carbone e l’olio combustibile, la terza fonte di energia: la cui importanza diventa preponderante quando sussista una estrema scarsità delle altre.

Ora per quanto riguarda il carbone (il cui consumo prebellico era di circa un milione di tonnellate al mese) si prevede un fabbisogno di 800 mila tonnellate, ma si dubita di poterne ottenere molto più di 500 mila, e, per giunta, per buona parte, non di eccellente qualità (condizione questa assai importante per il fossile destinato alla distillazione).

Per quanto concerne gli olî combustibili, difficilmente si potranno ottenere i quantitativi previsti in base alle capacità massime: un milione e mezzo di tonnellate annue.

In queste condizioni è necessario prevedere il regime delle priorità nelle assegnazioni di fonti di energia, in rapporto all’importanza ed alla particolarità della produzione.

Non sembra possibile, se ci si basi sulla non lieta esperienza fatta l’anno scorso, di riuscire ad ottenere dalle industrie elettriche, nel regime attuale, il massimo rispetto delle priorità indispensabili e la rinuncia ad avvalersi degli utenti più redditizi, se non intervenga lo Stato con un ente tecnico che regoli la distribuzione secondo lo impongano le necessità contingenti.

Si aggiunga poi che, in linea di massima, va subito affrontata la questione delle tariffe che debbono essere adottate con una visione di assieme, rispetto alle esigenze dei vari settori industriali, in rapporto alle superiori necessità; occorre poi che cessi il controsenso, sia pure economicamente giustificato oggi, ma ingiustificabile da un punto di vista unitario e razionale, della differenziazione di tariffa, per identico settore, tra Italia settentrionale, centrale e meridionale.

Tutto il problema della nostra produzione di energia idroelettrica e termoelettrica dovrà essere affrontato. Se tutti gli impianti fossero ultimati ed efficienti dovremmo oggi produrre attorno ai 20 miliardi di chilovattora annui; ma lo stato di guerra e le distruzioni hanno ridotto questa produzione, sicché la nostra disponibilità è priva di qualsiasi riserva. E pensare che noi avremmo dovuto a quest’ora aver portato da 20 a 39 miliardi annui i chilovattora producibili.

Se le industrie andassero a pieno regime la nostra situazione sarebbe grave; gravissima è già, se si tenga conto quanto incidano nel periodo invernale le utenze elettrodomestiche specialmente in alta Italia, a causa della scarsezza di gas e di combustibili per riscaldamento.

Altro settore industriale al quale, agli effetti della ricostruzione, occorre por mano, è quello degli agglomeranti idraulici; il carbone che può venire destinato a tale settore non deve essere assegnato a un prezzo vincolato per servire a fare del cemento, ad esempio, che viene venduto a prezzi di affezione.

Di contro, a «tot» di carbone occorre poter contare su «tot» di agglomeranti aventi le caratteristiche prescritte, a prezzo giustificabile, senza di che vanno in fumo tutte le speranze della ricostruzione e buona parte dei programmi di lavori pubblici.

Anzi, noi riteniamo che si dovrebbe favorire, anziché scoraggiare, l’importazione di cemento in cambio, per esempio, di prodotti ortofrutticoli.

Altro settore ove occorre razionalizzare e guardare un po’ a fondo, è quello siderurgico. Il fabbisogno nazionale si calcola intorno ad annui milioni due e mezzo di tonnellate di acciaio per soddisfare la necessità di una forte ripresa nelle costruzioni finali, strade ferrate, carri ferroviari, installazioni portuali, ecc. A ciò si può provvedere in gran parte o con una produzione spinta alla piena utilizzazione degli impianti, oppure con una maggiore importazione di prodotti finiti, chiudendo gli stabilimenti meno efficienti. Ma la situazione internazionale rende attualmente difficili i rifornimenti, tanto che le previsioni di arrivi sul piano UNR.RA (cui avevamo richiesto centoseimila tonnellate di semifinito e circa 28.000 tonnellate di finito) sono sfavorevoli.

Pertanto il grave problema della razionalizzazione della industria siderurgica non può avere soluzioni immediate ed il fabbisogno dovrà essere coperto quanto più possibile dalla produzione nazionale; ma il problema si sposta ancora verso il rifornimento delle disponibilità delle tre fonti di energia.

L’industria siderurgica è sempre stata refrattaria a sottostare ad un controllo della produzione, controllo atto ad assicurare il massimo dei prodotti finiti richiesti.

Orbene non è ammissibile che si fornisca carbone, olio combustibile ed energia elettrica a prezzi vincolati, quando, per esempio, il lamierino per l’inscatolamento di prodotti alimentari è fornito in misura assai inferiore al fabbisogno; quando le lamiere, godendo di larga richiesta sul mercato libero, vi si dirigono a prezzi di affezione eludendo il blocco esistente perché ci si «arrangia» a trasferire in lingotti (non vincolati) alla laminazione marginale.

Si rifletta che senza lamierino magnetico non si fanno trasformatori elettrici, senza lamierino sottile non si inscatolano prodotti alimentari, senza lamiere di spessore adeguato non si costruiscono navi, carri ferroviari, carri cisterna per olii minerali, ecc., ecc.

Altro settore che meriterebbe attenzione è quello dei grassi industriali già assai scarsi, ma che divengono ancora più scarsi per effetto di quanto viene sottratto per la vendita clandestina.

Converrebbe forse controllare e regolare le assegnazioni di solfuro per ottenere, in base a quelle, la disponibilità dei grassi industriali, materia prima per la produzione saponiera, delle vernici, ecc.

Lo stesso dicasi per i concimi chimici fosfatici e azotati, la cui produzione dovrebbe corrispondere a norme di priorità e la cui disponibilità a prezzi giustificabili dovrebbe essere rapportata alla quantità di materia prima e di fonte di energia messa a disposizione.

Altrettanto dicasi, per esempio, dell’industria zuccheriera, la cui produzione dovrebbe essere severamente vincolata per la alimentazione, l’industria conserviera, ecc., in rapporto al carbone fornito per la produzione relativa.

Oltre a questi esempi di situazioni che impongono urgenti soluzioni vi sono parecchi altri settori industriali ove l’iniziativa privata può essere, deve essere, sostenuta dal Governo, ma ove si richiede vigilanza e controllo per ridare moralità al processo produttivo e distributivo e per evitare che si abbiano ripercussioni dannose allo sforzo di compressione del costo della vita.

A questo proposito vi è tutto il problema della razionalizzazione del nostro apparato industriale – spessissimo sfasato, antiquato, antieconomico – cresciuto ed ingigantito alla bell’e meglio.

Tanti anni di privilegio, monopoli di ogni genere, hanno dato sviluppo più alla tendenza a realizzare profitti molto spesso esosi ai danni dei consumatori, che non ad impostare industrie economicamente sane ed equilibrate, veramente al servizio della collettività.

Non è sempre un paradosso l’affermare che troppo spesso certa nostra industria non si è resa conto che esisteva un mercato interno, se non per produrre ai prezzi massimi, limitati quantitativi di merci di scadente qualità.

Ora il problema della potatura dei rami secchi, dello svecchiamento, delle razionalizzazioni del nostro apparato produttivo si impone in maniera ferrea.

Considerevole apporto anche in questo campo, soprattutto agli effetti del miglior rendimento, potrà dare il contributo delle classi operaie, attraverso l’intervento dei Consigli di gestione, che il Partito socialista italiano nel suo programma ha richiesto vengano istituiti per legge, richiesta accolta nel programma governativo.

Noi non crediamo che si possa risolvere alcuno dei problemi assillanti dell’apparato industriale se non si provveda ad un coordinamento basato su una programmazione studiata, sia pur per grandi linee. Noi esortiamo il Governo a far elaborare sollecitamente dal Comitato industriale della ricostruzione tale materia.

Tuttavia non riteniamo che, dopo il tracciamento di ampie linee direttive, sia possibile impostare una più dettagliata azione di coordinamento del ciclo importazione – produzione – distribuzione – esportazione, se non si proceda ad un inventario sistematico e generale dei beni strumentali, scorte e beni di consumo esistenti nel Paese.

Se sapremo operare seriamente nel campò industriale, avremo risolto alcuni dei problemi più gravi che ci attendono al varco.

Ed ora, per finire, qualche commento alle dichiarazioni di Governo sulla politica estera.

Qual è la posizione del Partito Socialista in politica estera?

La posizione fondamentale del nostro partito, simile del resto a quella dei partiti socialisti degli altri paesi, è questa: difesa intelligente dell’autonomia della Nazione di fronte alle immani forze mondiali in presenza. Questa difesa si fa in un modo solo: non abdicando di fronte a nessuno e stringendo accordi con tutti.

Guai, guai all’Italia, se essa dovesse cadere nella sfera di influenza di questa o di quella delle grandi Potenze mondiali! Sarebbe la fine della sua autonomia e vi sarebbe il pericolo di contribuire a rompere il delicato equilibrio sul quale si può edificare la pace.

Se l’Italia vuole risolvere i propri problemi secondo il genio delle proprie classi lavoratrici, deve fare questa politica.

È interesse dell’Italia mantenere i migliori rapporti con tutti, ma per la sua stessa esistenza è di vitale importanza che essa mantenga rapporti particolarmente cordiali con la potenza terrestre più forte sul continente europeo e con le più forti potenze marittime.

L’Italia confina direttamente con il mondo slavo, questo giovane mondo profondamente compreso, in maniera direi mistica, della propria missione: dietro quel mondo vi è la Russia.

L’Italia, poi, in virtù del lunghissimo sviluppo delle sue coste e della sua posizione mediterranea, sopra tutto nella recente aggressione geo-politica derivata da questa ultima guerra, confina direttamente con il mondo anglo-americano.

Questa posizione, e non occorre altro, definisce la politica estera dell’Italia.

Qualsiasi altra politica si risolverebbe in un’avventura pericolosa e l’ultima avventura che ha ignorato questo postulato fondamentale e che venne realizzata dal fascismo, ha lasciato le sue tragiche tracce in tutta la Penisola.

Ma vi sono poi ragioni economiche che ci impongono amicizia con la Russia, l’Inghilterra e l’America. Il mondo slavo, ritengo, ha bisogno anche di noi e noi abbiamo bisogno del mondo slavo.

La Russia è tutta protesa in uno sforzo formidabile di ricostruzione e di potenziamento del suo apparato industriale: avrà necessità di alcune produzioni industriali, caratteristiche nostre e specialmente dell’attività dei nostri cantieri navali.

Questo Paese potrà acquistare nostri prodotti industriali contro rifornimento di materie prime, non appena le condizioni politiche ed economiche obiettive lo consentiranno.

Ma ancor maggior copia di lavoro dovrebbe esserci possibile nei più svariati campi manifatturieri con il resto del mondo slavo ed in generale con tutta la zona della sfera di influenza russa.

Mercati già un tempo da noi largamente serviti, poi quasi perduti a beneficio della Germania, potrebbero venire nuovamente serviti da noi in sempre maggiore misura, con i nostri prodotti dell’industria tessile, metalmeccanica, chimica, di precisione, ecc. almeno per tutto quel tempo durante il quale la Germania sarà assente o diminuita.

Potrebbe perfino esservi la possibilità di vedere, un giorno, correnti migratorie temporanee di operai specializzati, inquadrati da tecnici nostri, magari scortanti macchinario di nostra produzione, recarsi nei paesi della sfera di influenza russa per installarvi industrie leggere.

Con l’America del Nord e con l’America latina (per la massima parte nella sfera di influenza degli Stati Uniti) i legami tradizionali non si possono allentare. Vie marittime ed aeree congiungeranno l’America con la nostra penisola, buona parte dei capitali tanto necessari per la nostra ricostruzione potranno venirci da laggiù; le correnti turistiche di quantità, sulle quali potremo contare in futuro, ci giungeranno specialmente dal continente americano; i legami che stringono i nostri emigrati con la Patria, le future possibilità di emigrazione, sono elementi che non possiamo ignorare: materie prime fondamentali per la nostra economia verranno dal continente americano; l’esportazione di manufatti di qualità e della massima parte della nostra produzione serica, sono ovviamente destinati agli Stati Uniti, mentre altre esportazioni nostre di prodotti, sia di massa che di qualità, sono destinati ad essere assorbiti da nazioni centro e sudamericane.

Vi è infine il Commonwealth Britannico verso il quale potremo riprendere nostre esportazioni, dal quale riceveremo materie prime, ove potremo trovare forse anche possibilità di prestiti e verso alcuni territori del quale non è improbabile che si avvii un giorno una nostra corrente migratoria.

Questa è dunque la nostra posizione obbiettiva, dal che si deduce che la politica del passato Governo era giusta sostanzialmente, anche se poteva e può essere criticata nel dettaglio. Era sostanzialmente giusta perché onestamente non si è legata a nessuno.

Si osserva da parte di qualcuno: il passato Governo avrebbe dovuto giocare decisamente la carta anglo-americana o quella russa.

Noi socialisti rispondiamo: la carta antirussa, no! Perché non avremmo potuto avallare una politica insana che sarebbe stata né più né meno che la riproduzione, che fu così funesta per noi, di quella del fascismo.

La carta russa allora? Alcuni sono tentati di considerare questa, ma è ovvio che anche tale politica avrebbe avuto risultati funesti a lunga scadenza e non avrebbe migliorato quelli immediati.

Non senza dimenticare che una carta del genere non avrebbe potuto venir giocata distrattamente.

Il risultato tangibile sarebbe forse stato quello di inaridire le fonti degli aiuti che la benemerita UNRRA e governi stranieri hanno fornito, permettendo al popolo italiano di affrontare le conseguenze della terribile bufera, col mettersi pian piano, ma sicuramente al lavoro.

In fine dei conti, non si dimentichi che tra forniture del periodo di occupazione, piani FEA, UNRRA, ecc. le forniture che ci sono state fatte (per la massima parte gratuitamente) ammontano a qualche cosa come mille milioni di dollari.

E poi io non credo che si possa seriamente pensare che, anche se l’Italia si fosse legata alla Russia, questa avrebbe fatto mancare il suo appoggio al Governo di Tito che è slavo, e che ha affinità ideologiche con quello russo.

Vi sono necessità geografiche e storiche che si impongono attraverso i secoli e che non è facile mutare; vi sono necessità di carattere nazionale che dettano il corso dei rapporti con altre Nazioni.

Per essere convinti di quanto dico, mi basta osservare il caso della Francia. La Francia, pur non venendo meno alla propria autonomia, si è legata alla Russia con uri trattato di alleanza, e le ragioni che hanno spinto la Francia ad agire in tal senso mi sembrano ovvie: si trattava di una precisa assicurazione nei riguardi della Germania.

 

Orbene, quando si è trattato di un problema, per essa Francia vitale, quello della Ruhr, cosa è avvenuto? Semplicemente questo: che tra la Francia alleata e la Germania ex nemica la Russia non ha esitato, e noi crediamo abbia agito giustamente nel proprio interesse, a prendere una posizione favorevole all’unità germanica.

Da un punto di vista internazionale e di vantaggi nazionali la Russia non avrebbe potuto comportarsi altrimenti.

Per me è chiaro che, anche se avessimo avuto un trattato di alleanza con la Russia (né potevamo averlo perché vincolati da clausole di armistizio) la sorte di Trieste non sarebbe stata diversa da quella deprecabile che è stata decisa a Parigi.

Lasciamo pertanto in disparte l’esame di questi motivi, ormai sorpassati, di polemica elettorale; per venire alle linee di una politica estera di difesa degli interessi nazionali, così come la vede un socialista.

1°) Per Trieste: se fosse impossibile modificare le decisioni del Lussemburgo, cercare di includere nella zona internazionale i territori italiani situati ad oriente ed a sud della cosiddetta linea Bidault e ciò allo scopo di dare una più chiara consistenza etnica linguistica ed economica a questo lembo che viene lacerato dal nostro corpo. Che allo Stato libero così costituito si riconosca il diritto di decidere per plebiscito, entro 10 anni dalla sua appartenenza all’Italia.

Rinnovare il tentativo già ripetutamente fatto di accordi diretti politici con la Jugoslavia, accordi che purtroppo sino ad ora sono stati respinti.

Rinnovare tali tentativi nel quadro di uno statuto internazionale, che dia serie garanzie che dall’accordo risulti un effettivo miglioramento dei nostri rapporti e non un tragico inganno ai danni dell’italianità di quelle popolazioni.

È vero, sono stati fatti torti alle popolazioni di origine e lingua slava da parte del regime fascista, ma non sono stati solo gli slavi a subire le persecuzioni degli scherani fascisti; anche gli italiani che non la pensavano in modo ortodosso per il regime hanno subito le persecuzioni!

Tanto è vero che nelle ore di lotta disperate della resistenza i nostri uomini si sono trovati a combattere a fianco a fianco ed a cadere, affratellati per sempre dalla morte, con i patrioti slavi.

E spesso i nostri e i loro partigiani che assieme combatterono, ciascuno per la liberazione del proprio paese, si sono dovuti difendere contro fascisti ed ustascia alleati al servizio dei tedeschi.

Ora non sembra che si possa correggere i torti commessi contro genti slave, consentendo che altri torti siano commessi contro genti italiane.

Noi chiediamo uno Statuto internazionale che sia nel quadro dell’O.N.U., di quell’organizzazione delle Nazioni Unite la cui forza e la cui legge possono basarsi solo sui princìpi della sicurezza collettiva.

Questo è il grande principio della politica estera socialista.

Fin tanto che il diritto di veto arresterà l’esecuzione della giustizia internazionale, l’Italia dovrà essere di una estrema prudenza nella ricerca di accordi politici che, senza le dovute garanzie, potrebbero concludersi con una grave delusione.

Non si tratta di sapere se questa o quella Potenza vuole la guerra; tutti sono d’accordo nel ritenere che la guerra sarebbe una tragica follia, forse veramente la follia definitiva che questa nostra presuntuosa e disumana umanità potrebbe tentare.

Ma il problema è di sapere se, indipendentemente dalla volontà dei governi e dei timori dei popoli, non si vengano creando situazioni che contengono virtualmente i germi di un conflitto.

È compito, anzi è suprema missione del socialismo, il lottare con tutte le sue forze perché questi germi vengano distrutti.

Nel settore italiano la prima condizione del successo è lo sviluppo di una decisa autonomia e di sostanziosi accordi commerciali con i russi, gli inglesi e gli americani.

L’Italia – ripeto – non dovrà stringere accordi politici con nessuno se non nel quadro dell’O.N.U. e ciò solo quando avrà trionfato il principio della sicurezza collettiva.

2°) Frontiera occidentale. È un problema doloroso. La Francia ha lasciato cadere un’occasione unica, forse, per gettare le basi di una vera intesa fraterna tra i nostri due popoli.

La Francia, ossessionata dal pericolo tedesco, ha sacrificato l’Italia ed all’ultimo si è visto come questo sacrificio non le abbia giovato affatto.

Ma anche qui rifulge di vivida luce la chiaroveggenza della politica socialista.

L’unico partito in Francia che abbia visto con chiarezza il problema dei rapporti tra i nostri due popoli è stato quel Partito socialista (Approvazioni); esso non si è lasciato trascinare alla politica nazionalistica, non si è lasciato ipnotizzare (in tempi di dominio della bomba atomica) dalle ipotesi (sempre aggiornate) sull’ultima guerra passata, quale è la consuetudine degli Stati Maggiori di tutti i tempi e paesi; non ha ritenuto di dover pretendere amputazioni territoriali per sistemare una situatone idroelettrica che capitali, tecnici ed operai avrebbero potuto impostare e risolvere felicemente.

Noi dobbiamo invocare dai francesi che abbiano coscienza dell’errore che commettono.

3°) Problema delle colonie. Per l’Italia repubblicana e democratica, il problema delle colonie prefasciste è un problema di coloni italiani, di valorizzazione di territorio con duro lavoro dei nostri, di possibilità, di mantenere rapporti di scambio con quella nostra gente.

Il Partito socialista italiano ritiene che non sia equa né necessaria la richiesta del «surrender of right», la rinuncia cioè ai nostri diritti.

Il problema delle colonie può benissimo essere accantonato per un anno, senza che da parte nostra si sia tenuti a pronunciare questa rinuncia.

4°) Riparazioni. Il pagamento di eventuali riparazioni non può non tener conto, per quanto riguarda la Jugoslavia e Grecia, delle opere compiute dall’Italia nella Venezia Giulia e nel Dodecanneso e, per quanto riguarda l’Unione sovietica, dell’impossibilità in cui l’Italia si trova di pagare riparazioni in altra forma che non sia il lavoro dei suoi cantieri e delle sue industrie contro forniture di materie prime.

Vi è il problema poi delle riparazioni nei riguardi della Germania per gli incalcolabili danni causati al nostro Paese.

Il Partito socialista italiano ritiene che debbano essere restituiti all’Italia i beni, le installazioni, le proprietà asportate; per quanto concerne gli altri danni causati, il Partito socialista italiano ritiene che, anziché stremare ulteriormente il popolo tedesco con le richieste di risarcimento, un compenso potrebbe essere accordato all’Italia, concedendo, per un periodo da stabilirsi, il diritto di escavazione di carbone da miniere tedesche, escavazione cui potrebbe provvedere con propria mano d’opera e tecnici.

La ripresa di relazioni normali e fiduciose dell’Italia con i Paesi già ex nemici e che hanno tratto motivo dalla guerra per chiedere ed imporre revisioni di frontiere, riparazioni od altre sanzioni, è legata:

  1. a) per quanto riguarda la Jugoslavia, al rispetto ed alla protezione della minoranza italiana compresa nello stato federativo jugoslavo;
  2. b) per quanto riguarda la Francia, al ritorno di Briga e Tenda;
  3. c) per quanto riguarda la Gran Bretagna, ad una organizzazione delle colonie che non escluda l’Italia dall’Africa, ove essa ha da compiere una funzione di lavoro e di progresso per cui sarebbe somma ingiustizia il sostituirla.

Il Partito socialista italiano pensa che non si serve la causa del Paese con le manifestazioni incomposte di dolore o, peggio ancora, con manifestazioni isteriche che possono aggravare il sospetto, in chi è naturalmente sospettoso verso di noi, di frenesie nazionalistiche risorgenti.

Fatti quali quelli di Padova, di Venezia, e di altre città d’Italia sono deprecabili soprattutto perché inutili.

Servono essi a qualche cosa di concreto?

Purtroppo no e questo «no» è la loro chiara condanna.

Grande è la missione del Partito socialista italiano come fattore di autonomia, di aspirazione e di opere volte allo scopo di mobilitare a nostro favore la giustizia internazionale.

Quella stessa putrefazione che noi vogliamo evitare nell’interno del nostro Paese, noi vogliamo assolutamente evitarla nei rapporti internazionali.

E se anche la situazione che ci verrà fatta dal Trattato di pace fosse iniqua, noi non ci irrigidiremmo in un isolamento mortale che favorirebbe il processo di disgregazione e disorganizzazione dell’Europa.

Noi tenteremo di stabilire buoni rapporti con la Francia, così come con tutte le altre Nazioni, anzitutto per la considerazione che l’inimicizia – che solo le forme interessate alla disgregazione possono desiderare – debba essere sostituita da una reciproca comprensione.

Il Partito socialista italiano vuol difendere la pace con tutte le sue forze, con una volontà dettata dalla disperata necessità di riuscirvi. Il nostro Partito si è imposto il compito di salvaguardare le classi lavoratrici dal mostruoso pericolo di un’altra guerra.

Ho udito, nei giorni scorsi, un onorevole collega dei banchi di destra pronunciare una bestemmia, con l’asseverare che se i partigiani e gli uomini della resistenza avessero potuto prevedere le ingiustizie commesse contro il nostro Paese non avrebbero voluto morire invano.

Uomini della resistenza, dei volontari del Corpo della libertà, delle Forze armate della liberazione, hanno combattuto, e molti sono caduti, per alti ideali e non per ragioni mercenarie.

Solo per queste ultime ragioni si può pesare se convenga o meno il rischio ed il sacrificio, ed in tal caso nessuno affronta quello supremo.

Chi combatte e cade per un ideale lo fa anche se nel cuore tremi il timore dell’inutilità immediata dell’olocausto. È proprio allora, anzi, che il cavaliere dell’ideale combatte con animo puro.

Chi sopravvive, anche se sconfitto, ha nel cuore, nell’anima, nel cervello un solo assillo: quello di continuare la lotta perché o prima o poi l’ideale trionfi.

Se l’inanità di uno sforzo o di una battaglia potessero avere un qualsiasi peso, l’umanità si sarebbe fermata alle prime sconfitte.

Ma noi la fede trasformiamo in certezza, la certezza di essere alle soglie di un mondo migliore. Al popolo italiano che cerca la via della rinascita noi additiamo con buona coscienza quell’unica che può portarlo verso libere altezze: la via del socialismo. (Vivissimi applausi).

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Perrone Capano.

PERRONE CAPANO. Nel solco del discorso dell’onorevole Nitti, farò delle rapide e sintetiche osservazioni di opposizione al governo: di critica forse, meglio che di vera e propria opposizione.

Io non sono d’accordo con l’onorevole Lussu il quale diceva che la Democrazia Cristiana avrebbe consacrato con un successo in sede di formazione di governo la sua vittoria del 2 giugno.

Sembra al contrario a me che la Democrazia Cristiana abbia diminuito in sede di formazione del governo la prevalenza assicuratasi in sede elettorale.

Era inevitabile, indubbiamente – atteso il risultato delle elezioni – il compromesso. Ma il compromesso doveva essere chiaro.

È stato invece oscuro ed equivoco. La triarchia rappresenta indubbiamente, di fronte all’esarchia, un potenziamento del potere direttivo dei partiti di massa in seno al Governo. Esigeva quindi questa triarchia una assunzione precisa ed inequivocabile di responsabilità da parte di tutti i componenti di essa.

Questa assunzione precisa ed inequivocabile non si è realizzata, se è vero che l’onorevole Togliatti ha preferito di prendere il suo posto di deputato forse per manovrare con maggiore libertà le leve di comando della Confederazione generale del lavoro (Commenti) e se l’onorevole Nenni ha accettato, come nelle società commerciali, una responsabilità limitata e, contro il divieto sancito dal Codice civile, una successione non ancora aperta.

Quello dunque che apparirebbe un potenziamento del potere presidenziale risulta, in sede consuntiva, un autentico indebolimento.

La Democrazia Cristiana non annovera nel suo programma la pianificazione e la collettivizzazione. Viceversa, in sede di formazione del governo e di delineamento del programma di esso, ha accordato l’avallo con programma che, mentre sembra avere di mira soltanto la finalità di arrecare un notevole aiuto alle classi più bisognose e di fare centro sull’iniziativa, al contrario tende, in realtà, alla collettivizzazione e alla pianificazione.

Infine, esaminando sempre la formazione del Governo, bisogna riconoscere che sono stati abbandonati dei sistemi tradizionali che si erano dimostrati felicissimi al vaglio della esperienza e che non si è avuta sempre mano felice e rispetto verso il Paese nell’assegnazione degli incarichi. Vengo subito a spiegarmi: sta di fatto che si è abbandonata la tradizione in virtù della quale il Presidente soleva, nell’ambito s’intende di determinati criteri qualitativi e quantitativi, scegliersi lui i suoi collaboratori. Il Presidente del Governo attuale, anche dopo che il Paese aveva eletto una Assemblea sovrana, e quindi era stata rimessa la finzione esarchica, ha preferito lasciarsi imporre i suoi collaboratori. E a questo proposito vien fatto di osservare – sia detto senza volere con ciò mancare di riguardo all’onorevole Gullo, verso il quale indubbiamente io non ho alcun che di personale e tanto meno il proposito di menomarne il prestigio – che si è verificato il fatto che, mentre una sentenza della Corte di Cassazione ha detto che l’onorevole Gullo, quale Ministro dell’agricoltura (non entro nel merito del provvedimento e mi limito ad esaminare i fatti) aveva compiuto un vero e proprio eccesso di potere, eccesso di potere concretantesi nell’esercizio in sede amministrativa di un potere legislativo che non gli spettava, il Ministro Gullo è stato posto a capo del dicastero della giustizia, cioè esattamente al di sopra di quella stessa autorità giudiziaria che gli aveva rimproverato un eccesso di potere. (Applausi al centro).

Non vi pare, signori, che questo sia qualche cosa che offenda il prestigio del diritto? Quel prestigio (Interruzioni – Commenti), del diritto che noi tutti qui dentro, estrema sinistra ed altri partiti, abbiamo il dovere al contrario di rialzare, di risollevare se intendiamo costituire sul serio una società basata sulla collaborazione di uomini liberi.

E mi sembra di poter muovere a questo riguardo anche un rimprovero al partito comunista, nel senso cioè che mi pare che esso, dato il prestigio e l’efficienza di cui gode nel Paese, non aveva bisogno di ricorrere ad una affermazione del genere per dimostrare l’aumentato suo potere, l’efficienza sua in sede di formazione del Governo.

Politica estera. Indubbiamente il programma tracciato dal Presidente De Gasperi per l’avvenire è un programma accettabile da tutti. Tutti lo sottoscriviamo, augurando sinceramente che esso possa essere realizzato. Ma il quesito che noi ci poniamo è questo: vi sono, attesi i precedenti dello stesso Ministro degli esteri, attesa la situazione odierna che il Ministro degli esteri ha determinata, le garanzie perché questo programma possa essere realizzato?

Anche qui debbo dire che il rilievo non è diretto contro la persona, ma anche qui vien fatto di osservare spontaneamente che dobbiamo essere tutti d’accordo che non solo l’onorevole De Gasperi non passerà alla storia come un Talleyrand redivivo, o sia pure come un conte Witte, ma che egli non ha neanche tentato il ruolo che nel corso della storia recente di Europa svolsero tanto felicemente Talleyrand a Vienna e il conte Witte dopo la disfatta della Russia di fronte al Giappone a Porst Mouth. Non lo ha neanche tentato, signori, perché sta di fatto che egli ha accettato il portafoglio degli esteri in un’ora irta di estreme difficoltà, senza aver mai praticato quella diabolica arte che si chiamala diplomazia. (Si ride).

Capisco, quando si fanno delle critiche e si toccano degli idoli, se non si interrompe, si sorride; ma penso che oggi sia trascorso il periodo degli idoli.

CINGOLANI, Ministro dell’aeronautica. Non esistono idoli; esistono dei colleghi.

PERRONE CAPANO. Allora ascoltate in silenzio, o interrompete dicendo delle cose esatte, e rispondete come va risposto. Ma questo nervosismo, appena si presenta a parlare un oratore il quale non fa coro con quelli che hanno detto bene di De Gasperi e del Governo, non è del caso. L’onorevole De Gasperi ha avuto 300 mila voti di preferenza; non per questo non si ha il diritto di muovergli delle critiche. (Commenti).

Io rilevo, signori, che il portafoglio degli esteri è stato mantenuto anche quando si doveva assumere contemporaneamente in mezzo a colossali difficoltà interne oltre che internazionali, la Presidenza del Consiglio, ed oggi è ancora conservato mentre si assume la Presidenza del Consiglio ed il Ministero dell’interno. Il che dimostra che si vuole continuare come prima, peggio di prima, in quanto questo Dicastero si tiene a mezzadria con Nenni, in condizioni di non poter dedicare alla politica estera, che dev’essere il centro vitale di ogni pensiero e di ogni attività del Governo italiano, altro che dei ritagli di tempo. (Interruzioni – Commenti).

Ora, mi sembra evidente che non sia oggi la politica estera in Italia qualche cosa a cui si possa dedicare soltanto un ritaglio di tempo, in mezzo a tutti gli oneri e alle preoccupazioni che vi sono.

Ha detto l’onorevole De Gasperi che tutti gli elementi utilizzabili sono stati utilizzati e che si è fatto tutto quello che si poteva fare. L’espressione è agevole, l’affermazione vorrebbe essere tranquillante, ma non risponde, per chi voglia approfondire il contenuto di essa, alla verità. Al contrario, si può assumere che fino ad oggi non si è fatto tutto quello che era possibile fare e non sono stati utilizzati tutti gli elementi che si potevano utilizzare. Difatti il nostro Ministro degli esteri delle carte le aveva, perché non si può negare che 45 milioni di uomini, anche se sconfitti, anche se presidiati oggi da un esercito straniero, siano una grande forza, siano un imponente elemento nella vita dell’Europa. Qui non si vuole perorare una politica di blocco nel senso di muovere dei rimproveri, perché non si sia aderito ad un blocco piuttosto che ad un altro. Ma si vuol rilevare che quando si profilano degli antagonismi profondi tra gruppi di potenze, fra quelle potenze che dovranno decidere, non si può disconoscere che 45 milioni di uomini rappresentano qualche cosa che si può far giocare e passare nel calcolo internazionale. Non è stato nemmeno tentato questo. Viene fatto inoltre di ricordare che noi abbiamo 2 milioni di fratelli in America, e questi fratelli proprio questa mattina ci hanno dimostrato in una maniera toccante come vibrino nel loro spirito, nel loro cuore all’unisono col nostro, come desiderino che la nostra Italia risorga!

Ebbene, signori, nessuna valorizzazione e mobilitazione di questa forza è stata compiuta. In modo assoluto, non la si è nemmeno lontanamente messa in valore. E così si potrebbe dire della nostra cobelligeranza e degli altri fattori che indubbiamente esistevano nel giuoco politico internazionale.

Al contrario, onorevoli colleghi, noi abbiamo avuto, in seno alla Consulta, da parte dell’onorevole Ministro degli esteri nell’inverno scorso, un discorso nel quale non si seppe fare altro che mettere a nudo quelli che erano stati i torti del nostro Paese, quella che era la condizione disgraziata in cui il nostro Paese si trovava; non si seppe fare altro che porre in evidenza tutte le cause di debolezza, tutti i motivi che potevano rendere ostica la causa degli italiani.

CINGÓLANI, Ministro dell’aeronautica. Non è esatto! Rilegga i verbali della Consulta.

PERRONE CAPANO. Io allora non facevo parte della Consulta. Ascoltai attentamente quel discorso alla radio ed ebbi precisa questa sensazione, e pensai: queste cose un Ministro degli esteri le lasci dire ad un Deputato; egli deve proclamare in faccia al mondo il buon diritto dell’Italia e l’assenza assoluta di colpa degli italiani. (Commenti).

CINGÓLANI, Ministro dell’aeronautica. Lo ha fatto, e tutta la Consulta ha applaudito. Legga i verbali!

Una voce. Allora, avrebbe dovuto solidarizzare con Mussolini!

PERRONE CAPANO. Non consento simile espressione. Non doveva solidarizzare affatto, ma valorizzare le ragioni italiane. Noi diciamo, signori, che non è stata spesa nemmeno una cartuccia a difesa del nostro buon diritto. (Interruzioni – Commenti – Rumori).

Lo so che dispiace sentir dire queste cose; ma il Paese le sente e le dice ogni giorno.

PRESIDENTE. Non raccolga le interruzioni.

PERRONE CAPANO. Vi dirò un’altra cosa, onorevoli colleghi: che noi abbiamo vista la Jugoslavia, appoggiatissima dalla Russia, inviare a Parigi una delegazione di cento membri, affinché nessun settore fosse rimasto inesplorato e nessuna via fosse rimasta imbattuta dei settori e delle vie che dovevano essere esplorati e battuti, perché si raggiungesse lo scopo. Noi abbiamo mandato invece una delegazione ridottissima, e screditata, perché fanno parte di essa elementi che già avevano fatto parte della Commissione di armistizio con la Francia.

E non solo, Signori, noi non abbiamo un regolare ambasciatore a Parigi. Quando il nostro ambasciatore ha creduto di ritornare in Italia non lo abbiamo sostituito! E mi rincresce dover rilevare a questo proposito che una parte del torto va al partito socialista, e dico mi rincresce, perché verso il partito socialista ho sempre sentito vivissima simpatia. (Commenti).

In questa occasione noi dobbiamo rilevare che l’Ambasciata di Parigi è rimasta senza titolare evidentemente perché il Partito socialista ritiene che spetti ad esso designare l’ambasciatore a Parigi e fino ad oggi non ha trovato l’uomo, e quindi l’Ambasciata è rimasta deserta. Ora, l’Ambasciata non doveva rimanere deserta.

L’onorevole Pellizzari faceva rilevare che l’onorevole Nitti, quando a Parigi aveva dovuto mandare qualcuno in occasione di altre trattative di pace, mandò il Ministro degli esteri ed egli prese per sé l’interim di quel portafoglio. Mi pare che la dimostrazione tentata dall’onorevole Pellizzari sia controproducente, perché quello che fece allora l’onorevole Nitti è esattamente l’opposto di quello che si è fatto ora. L’onorevole Nitti mandò a Parigi il suo Ministro degli esteri, che si chiamava Tommaso Tittoni, e, siccome in quel momento si ritenne che non un Ministro degli esteri bastasse, ma che ne occorrevano due, egli assunse l’interim degli esteri a Roma, per dirigere la politica estera da Roma, mentre il titolare del portafoglio andava a riunire tutti i suoi sforzi, ad esercitare tutta la sua opera a Parigi, dove era chiamato dal dovere e dall’interesse nazionale.

Un ultimo rilievo, onorevoli colleghi, in merito alla politica estera. Il Presidente del Consiglio ci ha fatto sapere, al termine della sua esposizione, che il Governo, prima di prendere una decisione inerente alla firma o meno di un «diktat» che segnasse per noi una così grave condanna come quella che ci è stata annunciata, si appellerebbe all’Assemblea e chiederebbe alla Costituente di assumere le sue responsabilità. Ebbene, signori, noi diciamo che il Governo ci dovrebbe dire sin da ora come la pensano i tre partiti che lo formano, perché qui è inutile starci ad illudere reciprocamente: i tre partiti che dominano l’Assemblea sono rappresentati nel Governo e lo costituiscono essenzialmente. Dunque essi possono avere ed hanno una volontà in ordine a questo punto; anziché trincerarsi dietro un rinvio puramente simbolico, incomincino da ora a farci sapere quale è il loro punto di vista a questo riguardo.

Politica interna. Il Presidente del Consiglio ne ha taciuto, ed il silenzio deve ritenersi significativo. Sembra a me, onorevoli colleghi, che viceversa il problema dell’ordine pubblico e gli altri problemi della politica interna che sono all’ordine del giorno (contrabbando di armi, contrabbando di grano in Jugoslavia, elezioni amministrative) meritassero una parola da parte del Presidente del Consiglio.

Per quanto riguarda il problema dell’ordine pubblico noi diciamo che è un problema principalmente, anzi essenzialmente di prevenzione. È rimasto dimostrato che violenze non ne accadono dove vi è presidio di forza al servizio dello Stato, perché, come è stato più volte affermato dai rappresentanti delle estreme sinistre e dalla stampa di estrema sinistra, in generale le violenze sono opera di facinorosi che si infiltrano in mezzo ai disoccupati, in mezzo ai cittadini che si agitano per delle ragionevoli considerazioni. Ebbene, questi facinorosi si sbizzarriscono quando operano in zone dove il presidio della forza pubblica non sussiste, o è puramente simbolico; quando questo presidio vi è, questi facinorosi si astengono dalle violenze. E oggi, dunque, se siamo tutti d’accordo che la violenza va bandita, che i dibattiti, che i contrasti devono aver luogo democraticamente – e democraticamente significa perfino attraverso l’arma dello sciopero – noi dobbiamo essere tutti ugualmente d’accordo nel predisporre i mezzi perché le violenze non si ripetano, e questi mezzi sono, come dicevo, essenzialmente preventivi e rispondono alla necessità di mantenere, nei punti particolarmente pericolosi, quei presidi che costituiscono la remora di cui parlavo poco prima.

Bisogna stroncare il contrabbando delle armi cominciando con l’operare in quel settore seriamente e non facendo seguire, immediatamente dopo l’emanazione di norme che dovrebbero punire severamente i detentori di armi, le provvide amnistie che rimettono in libertà i rei. A questo riguardo io debbo spezzare una lancia nello stesso senso spezzata dall’amico Persico, debbo cioè reclamare che l’Italia democratica limiti le sue amnistie al settore politico bandendole dal campo dei delitti comuni, perché nel campo dei delitti comuni l’amnistia è incitamento a commettere nuovi reati.

E bisogna sul serio aprire gli occhi ed impedire l’esodo del grano verso la Jugoslavia. Gli episodi di questo genere si sono purtroppo ripetuti ed hanno assunto talvolta delle proporzioni pericolose. Il Governo deve mobilitare tutti i suoi mezzi perché questo ignobile mercimonio ai danni di tutte le categorie sociali cessi una volta per sempre.

Affrettare le elezioni amministrative, sorreggere le amministrazioni nei Comuni dove le elezioni sono intervenute; quando per deprecabili motivi le amministrazioni sono sciolte, nominare commissari o dei funzionari o degli esponenti dei Partiti che abbiano dimostrato in quel Comune di avere la prevalenza.

Politica finanziaria.

Ottimistica ed incoraggiante indiscutibilmente è stata l’esposizione di ieri del Ministro Corbino, il quale ha voluto dire una parola rassicurante al Paese ed esprimere, con l’ansia del suo animo, un augurio che tutti quanti raccogliamo e facciamo nostro. Ma non pare che l’esposizione del Ministro Corbino contenga un programma che collimi con quello enunciato dal Presidente del Consiglio. Ad ogni modo quello che è certo è che l’enunciazione del programma finanziario da parte del Presidente del Consiglio si fonda su criteri vaghi e contradittori i quali non possono tranquillizzare il contribuente, e quindi non facilitano quella ripresa della produzione che noi dobbiamo auspicare.

Si dice che dobbiamo incrementare l’iniziativa privata; si dice che dobbiamo aumentare la produzione e l’esportazione; si dice che dobbiamo accelerare l’intervento del credito estero, ma tutto questo, che indubbiamente costituisce il presupposto fondamentale della ricostruzione, va d’accordo solamente con una parte del programma governativo, perché si intona indubbiamente con l’adeguamento delle imposte al periodo prebellico, con l’istituzione di una imposta progressiva sul reddito, con l’emissione di un prestito, ma non con lo spargimento del terrore finanziario che seguirebbe ad un eccessivo fiscalismo ed alla attuazione dell’imposta patrimoniale oggi. Insisto sulla parola oggi perché, a mio sommesso avviso, l’imposta patrimoniale progressiva indubbiamente deve intervenire, ma non fuori tempo, ed oggi essa sarebbe nociva anziché vantaggiosa. Realizzerebbe la leggenda di quel tale che, proprietario di una gallina dalle uova d’oro, aprì il ventre alla gallina per vedere come faceva le uova d’oro, e conseguentemente la gallina morì e le uova d’oro cessarono. Così morirebbe il popolo italiano. (Commenti). Morirebbero cioè le risorse economiche che debbono servire a potenziare l’iniziativa privata e la produzione per giungere allo sviluppo di quelle imprese che possono soltanto realizzare la resurrezione economica e commerciale del nostro Paese.

Noi siamo pienamente d’accordo per quanto riguarda l’adeguazione delle imposte al periodo prebellico, perché questa adeguazione, in effetti, non si è ancora avverata ed effettuandosi darà allo Stato introiti notevolissimi. Siamo ugualmente d’accordo per la istituzione di un’imposta progressiva sul reddito, perché l’imposta progressiva sul reddito colpirebbe il superfluo, quella parte del reddito che può e deve essere devoluta a beneficio della comunità. Siamo d’accordo per l’emissione di un prestito interno e raccogliamo l’augurio e la raccomandazione, venuta dall’onorevole Ivan Lombardo, che esso possa trovare rispondenza immediata in tutti i settori e larghissima eco nel popolo italiano.

Ma quando si viene a dire che in 8 mesi bisogna attuare una vera e propria palingenesi in tutti i campi, si viene a determinare una condizione che paralizza la possibilità delle realizzazioni finali che il Governo si propone.

Bisogna colpire i nuovi ricchi, come diceva bene l’onorevole Condorelli, i quali, viceversa, riescono comodamente a sfuggire. Bisogna eliminare parzialmente il prezzo politico del pane. Se vi sono categorie le quali si possono permettere di pagare a prezzo di contrabbando il pane nella parte che acquistano oltre la razione, queste stesse categorie possono pagare anche la razione a prezzo elevato. Non è giusto che un vantaggio che spetta indubbiamente alle categorie bisognose, sia esteso anche alle categorie che non hanno egualmente bisogno. Bisogna rinviare l’imposta sul patrimonio ad un secondo momento, quando, potendola abbinare con quei provvedimenti che assicurino anche l’incisione sui redditi liquidi, cioè sulla moneta fluttuante, sui depositi, sui titoli di Stato, sui titoli nominativi o industriali, l’imposta patrimoniale avrà quel carattere di generalità, di universalità e di giustizia che, se le venissero a mancare – ed in questo momento le verrebbero indubbiamente a mancare – le toglierebbero la sua vera finalità, la sua autentica fisionomia.

Quanto al programma economico-sociale concordiamo pienamente, e non potrebbe essere diversamente, nel propugnare (e ne discorreremo subito, rapidissimamente) la eliminazione della disoccupazione, la necessità di assicurare agli impiegati, salariati e ceti medi miglioramenti economici, con la i necessità di risarcire a preferenza i danni di guerra ai bisognosi, la necessità di rivedere il sistema di assicurazione degli impiegati e degli operai, snellendo gli istituti e la procedura, la necessità di venire incontro ai pensionati.

Per quanto attiene a queste due ultime cose – rivedere il sistema di assicurazione e venire incontro ai pensionati – non vi può essere dubbio che si tratti di cose rapide e facili che vanno attuate senza indugio e che quindi bisogna attuare con la massima possibile rapidità. Ma per quanto riguarda il resto la divergenza nostra non sta sulla sostanza, ma sul metodo. Si tratta di un punto di vista differente in ordine al modo come dobbiamo raggiungere quelle finalità. Non si tratta di divergenze relative alle finalità stesse, perché non vi può essere in Italia oggi alcuno il quale non riconosca, come diceva l’onorevole Lombardo, che il problema della disoccupazione è il primo problema di politica interna del nostro Paese. Non vi può essere alcuno il quale non riconosca che i salariati, gli impiegati ed i ceti medi in genere, devono essere soccorsi in modo che la vita per loro si renda più facile. Ma quando si dice, signori, che si vogliono sviluppare le industrie e poi viceversa si vogliono attuare consigli di gestione, che in Russia sono stati attuati e poi messi da parte, e in Cecoslovacchia hanno paralizzato prima, distrutto poi l’intero apparato industriale, noi diciamo che in questa maniera non si arriva a porre le condizioni per le quali si potrà, stabilmente, definitivamente abbassare il livello medio della vita ed eliminare la piaga della disoccupazione. Si vogliono, signori, sviluppare le trasformazioni agricole ed è necessario farlo, perché in un Paese che ha 31 milioni di ettari di terra e 46 milioni di abitanti, indubbiamente, soltanto portando tutto il piano produttivo agricolo su una piattaforma più elevata, attuando la superproduzione, si può effettuare una diffusione di agiatezza, che prescinde dallo spezzettamento, il quale non diffonderebbe agiatezza, ma povertà.

Ma questo sviluppo delle trasformazioni agricole non si può favorire in soli otto mesi, perché non dobbiamo dimenticare che il Governo ha dinanzi a sé un periodo di vita di otto mesi, procrastinabili al massimo di pochi altri.

Si promette la palingenesi integrale della industria e dell’agricoltura, attraverso la nazionalizzazione da una parte e l’espropriazione dall’altra, espropriazione di terre, espropriazione di godimenti. Siamo ben convinti che le espropriazioni saranno necessarie; siamo ben convinti che bisognerà arrivare anche a forme di godimento collettivo, che possano, nel nuovo clima creatosi in questo secolo, fare partecipi del godimento della terra sempre più vasti strati della società rurale. Ma riteniamo che allo stato delle cose, oggi, dire che bisogna incrementare la produzione, che bisogna portare tutto l’ingranaggio industriale ed agricolo italiano su una piattaforma più alta e minacciare al tempo stesso a breve scadenza queste cose, significa scuotere la fiducia di coloro i quali dovrebbero principalmente agire; significa mobilitare lo Stato perché faccia esso in otto mesi o in un anno quello che i privati cittadini non potrebbero fare. Non ci facciamo illusioni. Uno Stato che ha sulle spalle 350 miliardi di deficit, come diceva ieri il Ministro Corbino, che ha sulle spalle un’immensa quantità di oneri eccezionali, da fronteggiare con sistemi eccezionali, e che deve a sua volta fronteggiare le riparazioni, non si può assumere rapidamente una somma così vasta di nuovi oneri, quali sarebbero quelli che graverebbero sulle sue spalle, se, paralizzata l’iniziativa privata, dovesse operare esso soltanto.

Il problema italiano è problema di pace, è problema di tranquillità, di collaborazione; è problema di intesa tra le categorie e la produzione. E questa collaborazione e questa intesa si possono attuare e si devono attuare sol che si eviti la continua distillazione dell’odio e si adotti e si pratichi sul serio non il sistema dell’interventismo burocratico, che tante volte è controproducente, ma, invece, il sistema di favorire le intese.

Noi abbiamo visto, onorevole Di Vittorio, che, quando le categorie agricole, si sono tesa la mano, hanno finito per incontrarsi. E se gli accordi tra esse categorie conclusi – alludo per esempio al tema della disoccupazione agricola – non sempre sono stati messi in esecuzione, questo non è dipeso da cattiva volontà degli uni o degli altri, ma dalla inefficienza dell’azione dello Stato. Abbiamo concluso accordi in tema di disoccupazione diretti a fare in maniera che gli agricoltori subissero la mano d’opera nella quantità massima di cui erano capaci le loro aziende. Gli agricoltori, i contadini, si sono impegnati ad accettare questo criterio e a non gravare le singole aziende oltre quella capacità massima. Questo accordo presupponeva che lo Stato fosse stato il terzo elemento di esso, e fosse intervenuto con i suoi organi a prendere su di sé la mano d’opera eccedente.

Ma lo Stato non ha fatto ciò ed allora la mano d’opera si è riversata sulle aziende agricole ed industriali provocandone la paralisi e in definitiva il danno degli stessi disoccupati.

Il problema della disoccupazione va risolto rapidamente e compiutamente; ma per risolverlo non dobbiamo ricorrere ad espedienti, bensì a programmi organici e veramente illuminati dall’idea di porre come base ferma i presupposti necessari alla sua risoluzione.

Finora si sono attuati, per quanto riguarda l’industria, dei rimedi peggiori del male. Leggevo che a Torre Annunziata uno stabilimento capace di 800 operai doveva subirne duemila. Ciò significa il fallimento dell’industria e il danno degli stessi operai che per ora hanno la mercede, ma che non l’avranno più quando lo stabilimento non sarà più in condizioni di reggersi.

Gli stessi gravi inconvenienti si verificano nell’agricoltura, anzi per gli agricoltori la condizione è peggiore perché l’eccedenza della mano d’opera che batte alle loro porte chiedendo lavoro è anche fomite di contrasti e di confusione tra le diverse categorie agricole, che si dispongono l’una contro l’altra, sicché nascono agitazioni e ne deriva la paralisi dell’agricoltura e della produzione.

Bisogna porre rimedio, e il rimedio non può essere che uno solo: innanzi tutto restituire alle industrie ed all’agricoltura la tranquillità di poter assorbire tanta mano d’opera quanta ne possono assorbire.

E a questo punto, onorevoli Deputati dell’estrema sinistra, nessun allarme: perché io non vengo a dire che gli altri lavoratori bisogna cacciarli via, o che gli agricoltori possano fare i loro comodi senza preoccuparsi degli interessi generali. No, io sono con voi nell’invocare un programma di produzione. Ma si deve restituire all’industria e alla agricoltura la libertà nel senso che, per quanto riguarda l’agricoltore, esso sappia che se s’impegna in una trasformazione potrà assumere tanta mano d’opera quanta gliene occorra e non gli accada quello che è accaduto a molti, che cioè chi ha bisogno di cento operai se ne veda presentare mille e li debba assumere.

DI VITTORIO. Ma non fanno le trasformazioni.

PERRONE CAPANO. Vengo precisamente a questo punto. Io dico: cominciamo col porre questo punto fermo, cioè restituiamo all’industria e all’agricoltura la libertà di assunzione della mano d’opera e poi sottoponiamole ai necessari controlli. Allora gli agricoltori non si potranno rifiutare di fare le trasformazioni: ci sarà la vigilanza dello Stato e delle organizzazioni. Ma gli agricoltori si sentiranno mobilitati in un’opera d’interesse nazionale. Le coltivazioni dovranno esser fatte a tempo debito, e le trasformazioni potranno essere rese obbligatorie. Ma quando si potranno fare?

Quando l’agricoltore saprà che il domani, per chi sarà in regola con la sua funzione sociale, sarà un domani di pace e di tranquillità, per modo che i frutti del suo lavoro e del suo sacrificio, l’opera sua svolta in collaborazione e in armonia coi figli del popolo, suoi collaboratori, sarà un’opera benedetta e riconosciuta dalla società. In quel giorno le trasformazioni si faranno e si moltiplicheranno spontaneamente, perché non è una frase fatta, o amici, è una verità che in questo momento in Italia ferve dovunque un’ansia viva di resurrezione, una volontà fervente di ripresa. Il nostro popolo è un grande popolo e la sua storia – che certamente non starò qui a ricordarvi – dimostra che in pochi decenni ha fatto miracoli, ha trasformato il Tavoliere, ha trasformato le terre abbandonate e i pascoli in ridenti oliveti e giardini. Ora questo popolo ha ancora viva l’ansia di ripigliare questo fervore di opere, ma ha bisogno di sapere che tutto ciò avvenga in una atmosfera di collaborazione, di armonia, e di fiducia,

I lavori pubblici debbono costituire l’integrazione dell’iniziativa privata. Debbono essere attuati non come sono stati attuati fino ad ora, sporadicamente, frammentariamente, saltuariamente, in una maniera vorrei dire irresponsabile e caotica, ma in virtù di un piano organico il quale ne preveda il compimento razionale in tutte le zone ove siano necessarie opere di miglioramento e di ricostruzione e preveda le necessarie migrazioni all’interno ed all’estero. Oggi, signori, avviene che alcuni lavori pubblici sono disposti in una maniera che, invece di eliminare la disoccupazione, la inflazionano. Onorevole Di Vittorio, voi ne sapete qualche cosa, perché anche voi negli incontri che a questo riguardo avete avuto in Prefettura e nelle assemblee con me avete ammesso che l’inflazione della disoccupazione è un fatto vero. E perché si effettua?

Io non starò qui a gridare il crucifige addosso ai lavoratori, ma dico che quando avviene, come è avvenuto, per esempio, a Gravina che un bel giorno piovono 24 milioni per riattare una strada e dopo 15 giorni i 24 milioni sono scomparsi e della strada non è stato riattato che un miserabile chilometro, indiscutibilmente allora dei milioni si è fatto sperpero e quando si fa sperpero del danaro accade che anche chi non è disoccupato si va ad iscrivere fra i disoccupati e anche chi ha da guadagnare un pezzo di pane preferisce andarselo a guadagnare in una maniera più semplice e meno fastidiosa. E così si sono potuti verificare episodi come quelli constatati in diversi comuni delle Puglie di bandi pubblici, che sono stati fatti per le strade, chiamando a raccolta i cittadini che si volevano iscrivere nei ruoli della disoccupazione.

Noi tutto questo lo dobbiamo eliminare nell’interesse della società, del nostro paese, soprattutto delle categorie dei lavoratori. Noi dobbiamo fornire alla intera Nazione la tranquillità di una vita di lavoro che si svolga in armonia e in pace fra le diverse categorie sociali. Se i nostri agricoltori avranno questa tranquillità, essi dimostreranno di essere valorosi e ferventi come i migliori soldati di Italia; se i nostri contadini sentiranno e constateranno che questo fervore di opere è veramente il frutto di un’ansia patriottica di risurrezione, saranno prontamente e spontaneamente a fianco degli agricoltori, come gli operai a fianco degli industriali. Diamo agli uni e agli altri la tranquillità di un domani sicuro, e noi avvieremo tutti i nostri problemi alla risoluzione; anche il famigerato problema meridionale che è soprattutto un problema di riequilibrio economico e di collaborazione tra lo Stato e il Mezzogiorno.

Il Mezzogiorno non è più quello di ieri e non è quello che tante volte piace a taluni di raffigurare. Molto è stato fatto, molto deve esser fatto e sarà fatto; ma non lo sarà, se alla base della vita italiana continuerà ad essere posta la distillazione continua dell’odio e sull’orizzonte non un programma concreto, fattivo, agile, quale si può attuare nelle condizioni del momento in cui l’iniziativa privata, tanto conclamata da tutte le parti, veramente può essere il centro propulsore e fecondatore, ma al contrario il miraggio di una rivoluzione dell’economia agricola e industriale. Arriveremo allora al peggio, cioè al disordine e alla confusione, mentre abbiamo bisogno di lavoro e di armonia. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE, Ha facoltà di parlare l’onorevole Vanoni.

VANONI. Onorevoli colleghi, il programma economico e finanziario del Governo è stato criticato da due opposti punti di vista: alcuni ritengono che questo programma sia eccessivo per la durata del Governo stesso, prevista in otto o dieci mesi; altri invece, come il collega Bruni, hanno lamentato che in questo programma non fossero incluse decisive prese di posizione su questioni di struttura economica e sociale.

Ora, io ritengo che entrambe queste critiche non hanno un fondamento accettabile: non quella che ritiene troppo scarsi i programmi del Governo, perché è troppo evidente che le questioni di modificazione di struttura non sono ormai di competenza del Governo ma di questa Assemblea: non quella che lamenta un eccessivo impegno del programma, perché è evidente che di fronte alle esigenze della nostra economia e di fronte alla gravità della nostra situazione, non si poteva accettare che un Governo impostasse soltanto soluzioni valide per pochi giorni o per pochi mesi, ma si doveva richiedere la impostazione di un vero e proprio piano di ricostruzione economica, se questa ricostruzione si vuole effettivamente realizzare.

I problemi dell’economia moderna sono così complessi e si legano così strettamente l’uno all’altro che non è più concepibile intendere l’opera del Governo come un’opera del giorno per giorno.

Bisogna avere delle idee chiare e lungimiranti; bisogna pensare all’avvenire, bisogna impostare i problemi per periodi di anni se effettivamente si vuole arrivare a risolverli ed a fare qualche cosa di costruttivo, qualche cosa di rispondente alle necessità che tutti sentono.

Il programma del Governo è, a mio modo di vedere, nel complesso soddisfacente e bene articolato, anche se nella sua esposizione è potuto ad alcuno sembrare che faccia centro più sull’aspetto monetario che sul problema economico, e lasci nell’ombra l’aspetto sostanziale della ricostruzione produttiva del Paese.

Il pregio del programma sta nel fatto di avere esattamente indicato quelli che sono i punti centrali della manovra economica, di avere rilevato che oggi in Italia lo Stato ha la possibilità di entrare a fondo nella vita economica attraverso molteplici strumenti che fanno capo ad esso e nell’aver segnato come proprio scopo di azione quello di coordinare tutti i mezzi di cui lo Stato stesso dispone.

Voi tutti sapete che, per esempio, lo Stato ha la possibilità di dirigere direttamente o indirettamente tutto il credito. Dalla relazione della Banca d’Italia abbiamo appreso che circa il 68 per cento dei depositi bancari è affidato agli Istituti, la cui gestione direttamente o indirettamente è sotto il controllo dello Stato; che un altro 11 per cento è amministrato dalle Banche popolari e soltanto il 20 per cento è presso le banche private; ma la nostra esperienza ci dice che anche fra queste bandelle, alcune portano delle partecipazioni statali importanti nel loro pacchetto azionario. Il credito a lungo terminò si può dire interamente controllato dallo Stato. Infatti vi sono tutta una serie di Istituti, dall’I.M.I. al Consorzio sovvenzioni valori, all’Istituto per le opere di pubblica utilità, ai diversi Istituti di credito fondiario ed industriale, nei quali l’azione dello Stato può essere immediatamente fatta valere. Lo Stato agisce direttamente e indirettamente nel mercato delle assicurazioni attraverso l’istituto nazionale e le norme di controllo sulle assicurazioni.

Mediante l’I.R.I. lo Stato entra nel vivo della vita industriale.

L’I.R.I. è un perfetto punto di osservazione dei problemi della produzione; è un punto di osservazione davanti al quale passano tutti i più alti problemi dell’industria italiana, come i problemi dell’industria siderurgica – che condiziona l’industria meccanica e metallurgica – quelli dei trasporti marittimi, dell’elettricità e della relativa distribuzione e così via.

Attraverso il controllo delle importazioni e la distribuzione delle materie prime, lo Stato opera su ogni settore dell’attività produttiva. L’intervento, che qui non occorre indagare se voluto od imposto dalle circostanze, non può che essere coordinato secondo un piano: e l’impostazione dei piani di attività produttiva sta diventando sempre più efficace con l’entrata in azione della Commissione centrale dell’industria, che si sta articolando in quattro sottocommissioni, una avente sede a Roma, l’altra a Milano, un’altra a Napoli, ed una, infine, a Palermo, a testimonianza queste ultime del vivo, decisivo interesse che il Governo intende di prendere alla ricostruzione industriale della Sicilia ed alle provincie meridionali.

Con la politica delle spese pubbliche e col controllo delle spese private, realizzato attraverso l’intervento, non sempre voluto ma spesso reso necessario dalla situazione, nella politica salariale, lo Stato riesce ad entrare ancora una volta fino in fondo nei gangli vitali della vita economica. Infine, la politica tributaria e quella monetaria condizionano tutta l’attività economica del Paese.

Ora, per la prima volta, forse, in Italia noi sentiamo in un programma di Governo affermare che tutti gli strumenti della politica economica e finanziaria devono essere tra di i loro collegati e debbono operare in armonia; per la prima volta sentiamo affermare che ognuno degli Istituti che sono venuto ricordando e dei molti altri dello stesso ordine, che ometto per ragione di brevità, non è il piccolo regno di un tecnico che opera secondo il proprio sentimento o il proprio intelletto, ma è un ganglio vitale della vita economica del Paese che deve agire secondo un piano concertato tra tutti gli organi responsabili, avendo per mèta uno scopo solo: favorire ed accelerare la ripresa dell’economia del Paese.

Il Paese, noi tutti lo sappiamo, esce da un cataclisma, cataclisma politico, ma anche e soprattutto un cataclisma economico. Il patrimonio ed il reddito nazionali sono decurtati di circa del 40 per cento rispetto alla situazione del 1939. Il Paese e la sua economia non possono ulteriormente sopportare i costi delle frizioni, degli attriti, delle fasi di inerzia provocati dall’indipendenza dell’azione dei diversi organi e dei diversi mezzi di politica economica.

Il programma del Governo intende, dunque, di coordinare l’azione pubblica non per soffocare l’attività individuale, ma per condizionarla ed indirizzarla verso quegli scopi di bene comune, che stanno a cuore a noi, soprattutto, che facciamo di questo bene comune lo scopo della nostra azione politica.

Io mi permetterò, onorevoli colleghi, di toccare alcuni punti soltanto di questo programma, per sottolineare consensi e dissensi di carattere tecnico sugli elementi essenziali di esso.

La politica finanziaria proposta dal Governo, secondo me, ha il grande merito di far centro sulla riorganizzazione della finanza ordinaria, dei tributi ordinari. I provvedimenti di finanza straordinaria sono considerati necessari, ma posti quasi – temporaneamente – in secondo piano, perché è sembrato indispensabile che prima di tutto si cercasse di ottenere tutto quello che era possibile di ottenere attraverso le normali fonti di entrata.

L’onorevole Corbino, nella sua esposizione di ieri, ha previsto il pareggio della parte ordinaria del bilancio per l’esercizio 1947-48 o tutto al più per l’esercizio 1948-49. Egli ha detto di essere molto ottimista; io sono, per temperamento e per abitudine di studi, piuttosto freddo e pessimista e trovo che un’indicazione come quella che ci ha dato ieri l’onorevole Corbino dice molto o forse non dice niente, perché la ripartizione del bilancio in ordinario e straordinario è una ripartizione assolutamente esteriore, che non ci può dare un criterio di giudizio definitivo su quello che è il risultato della politica finanziaria di un Governo. Quello che interessa di sottolineare e che mi pare estremamente importante tener presente è che, nell’attuale nostra situazione finanziaria, in mezzo a molti elementi di preoccupazione, vi sono pur anche degli elementi di tranquillità e di speranza. Soprattutto vi sono questi elementi: che il volume di alcune spese tenderà inevitabilmente a deprimersi. Pensate, per esempio, alle spese militari: Io non vi voglio tediare ricordandovi analiticamente l’ammontare delle spese militari nei bilanci prebellici dell’Italia, ma vi posso dire che nell’ultimo decennio antecedente alla guerra queste spese ammontavano a circa il 40 per cento delle entrate. È evidente che tali spese, come sottolineava del resto l’onorevole Corbino, andranno gradatamente comprimendosi fino a portarsi ad un livello di gran lunga inferiore a quello prebellico, lasciando così un margine per altre spese ben più utili al benessere del popolo.

Il carico per il debito pubblico, per effetto della stessa svalutazione monetaria, è, in senso relativo, diminuito. Noi avevamo, nel 1939, circa 175 miliardi di debito pubblico e di oneri patrimoniali che pesavano nel bilancio dello Stato circa 7 miliardi per i relativi servizi, il che significava da un quinto ad un quarto del bilancio stesso, mentre oggi noi abbiamo 938 miliardi ed il relativo servizio si aggira intorno ai 50 miliardi, cioè un decimo del bilancio previsto per l’anno in corso.

È evidente che l’esposizione dell’onorevole Corbino è stata l’esposizione del cassiere dello Stato, l’esposizione cioè di colui il quale ha la preoccupazione di reggere e governare la cassa dello Stato, preoccupazione nobilissima che in questi tempi ha il diritto di andare avanti a tutte le altre preoccupazioni, ma preoccupazione evidentemente che non può esaurire tutto il programma economico e finanziario del Governo. Su alcuni punti tecnici si può del resto dissentire dal suo modo di vedere. Per esempio, l’onorevole Corbino ci ha detto che egli pensa che il prestito del consolidamento finanziario della ricostruzione, sarà certamente un grande successo nella forma del consolidato che egli intende di proporre al Governo. Io mi permetto, dal punto di vista tecnico, di fare qualche riserva su questo programma e di suggerire al Governo di considerare se non sia preferibile, di fronte alla diversità dei desideri, delle opportunità, delle aspirazioni dei risparmiatori, di offrire contemporaneamente, secondo il consiglio che più volte ci ha dato l’onorevole Einaudi, due diversi tipi di prestito, in modo che il risparmiatore possa scegliere quello che più si adatta alle proprie esigenze ed alle proprie necessità; mentre concordo pienamente con l’onorevole Corbino quando sottolinea che questo prestito difficilmente darà del denaro nuovo, del denaro fresco che possa essere impiegato in opere di ricostruzione.

Sarà un prestito la cui funzione essenziale è quella di dare un primo assestamento alla posizione di tesoreria mediante il consolidamento di una parte di quegli impegni fluttuanti che oggi rendono incerta e difficile la posizione di cassa. Ma intorno al suo gettito, nonostante il doveroso impegno di tutti noi e di tutto il Paese a garantirne la riuscita, vorrei raccomandare una certa prudenza di previsioni. Anche qui si può rinviare all’insegnamento che il Senatore Einaudi ha posto implicitamente quando, nella relazione della Banca d’Italia, offrendoci lo specchio dei prestiti pubblici fatti in Italia dal 1940 in poi, e raffrontandoli con l’ammontare dei depositi e della circolazione, ha reso evidente l’esistenza di una certa regolarità statistica nel rapporto tra il flusso dei prestiti e l’ammontare della circolazione e dei depositi. Il dato che risulta tenendo conto degli elementi noti appare, a parità di altre condizioni, lontano dalle previsioni eccessive che si son lette in questi giorni nei giornali.

Il programma del Governo non si esaurisce nel prestito, ma parla da un lato di rivalutazioni delle imposte ordinarie, e dall’altro di imposizione straordinaria. Non parlerò della imposta straordinaria, di cui mi sono già occupato in altra occasione ed in altra sede. Ma vorrei raccomandare al Governo di insistere prima in particolare sulla riorganizzazione delle imposte ordinarie perché io ritengo che è da questa parte che noi riusciremo più rapidamente ad avere il denaro fresco, di cui le casse dello Stato hanno bisogno.

Io ho qui dinanzi a me i dati del bilancio italiano del 1940-41, quelli del 1941-42 e i dati del gettito delle imposte del mese di aprile di quest’anno, che è l’ultimo mese di cui mi è stato possibile conoscere i dati.

Ora, nel 1940-41 il totale delle entrate del nostro bilancio era di poco più di 33 miliardi, da cui deducendo 867 milioni di entrate patrimoniali, abbiamo entrate tributarie per circa 32 miliardi e 200 milioni.

Nel 1941-42 abbiamo entrate per il totale di 37 miliardi e 796 milioni. Con la deduzione di 991 milioni di entrate patrimoniali, ci restano entrate tributarie per 36 miliardi e 800 milioni circa.

Nel mese di aprile del 1946 abbiamo avuto entrate tributarie per 15 miliardi e 338 milioni.

Ora, se l’aumento della circolazione si può calcolare essere stato 20-25 volte rispettò ai due periodi considerati, anche facendo il debito conto della riduzione del reddito nazionale, della diminuita velocità della circolazione delle merci e degli affari a cui si commisurano molte imposte, non vi è dubbio che il gettito delle imposte ordinarie è di gran lunga inferiore a quello che dovrebbe essere.

Partendo dai 15 miliardi del mese di aprile, immaginando che il gettito fosse uniforme per tutto l’anno, abbiamo 180 miliardi di gettito d’imposta all’anno, laddove io ritengo che si potrebbe, che si dovrebbe arrivare, senza aumentare la pressione tributaria rispetto a quella che era nel 1940, intorno ai 300-350 miliardi.

Dove sono i punti, nei quali, secondo la mia valutazione personale, la manovra della finanza ordinaria potrebbe essere più efficace?

Dal punto di vista della giustizia distributiva, non c’è dubbio che bisogna insistere nella strada degli accertamenti delle imposte dirette ed accelerare questa revisione anche come elemento preparatorio dell’applicazione dell’imposta straordinaria. Ma richiamo l’attenzione dei tecnici su un rilievo che emerge dall’andamento del gettito dell’imposta di ricchezza mobile.

Nel 1940-41 e nel 1941-42 il gettito dell’imposta di ricchezza mobile riscossa per ruoli era tre volte tanto l’imposta di ricchezza mobile riscossa per ritenuta diretta, cioè in buona sostanza l’imposta di ricchezza mobile sui salari e sugli stipendi. Ora osserviamo invece la situazione attuale nella quale, nell’aprile 1946, l’imposta di ricchezza mobile riscossa per ruoli è di 1400 milioni, mentre quella riscossa per ritenute dirette è di 808 milioni, cioè quattro settimi del totale. L’imposta riscossa per ritenuta è di più facile ed immediato accertamento e segue immediatamente la variazione dell’espressione monetaria dell’oggetto imponibile. Dico allora che balza chiaro questo insegnamento: che bisogna insistere soprattutto sulle imposte che risentono immediatamente della variazione del potere di acquisto della moneta, che bisogna insistere soprattutto su quelle imposte le quali seguono direttamente la variazione dei prezzi e la espressione monetaria dei beni e dei servizi. Bisogna che, facendo violenza parziale alle nostre convinzioni politiche, diamo pieno riconoscimento ad una esigenza tecnica.

Nei momenti di svalutazione monetaria le imposte che colpiscono i trasferimenti delle merci e dei servizi, sono le imposte che più di tutte sono idonee a far fronte alle necessità della finanza ordinaria. Per esempio, l’imposta sulla entrata, per discutibile che ne sia il fondamento politico nel suo ordinamento attuale, presso molti dovrebbe essere al centro della manovra della finanza ordinaria. L’imposta sull’entrata, introdotta nel 1940 in sostituzione della tassa scambi, già nel primo anno di introduzione, dava 4 miliardi e 800 milioni e nell’anno immediatamente successivo 5 miliardi e 964 milioni, mentre oggi ha dato, nell’aprile 1946, 4 miliardi e 901 milioni. Questa imposta credo che non abbia esaurito tutta la sua funzione e la sua capacità di espansione. Quindi bisogna avere il coraggio, secondo me, di innovare ad alcuni indirizzi che recentemente si sono affermati. Essa dà a ragion d’anno circa dieci volte il gettito del 1941-42: ancora troppo poco se si tien conto dell’aumento dei prezzi. Prima di tutto bisogna badare molto alle aliquote. L’aliquota dell’attuale imposta sulla entrata è il doppio dell’aliquota introdotta nel 1940 e per alcuni prodotti è diventata due o tre volte l’aliquota fondamentale del 1940.

Richiamo l’attenzione degli esperti soprattutto su quello che si verifica nel campo del commercio tessile, dove la esistenza di una sovrimposizione straordinaria in favore degli enti locali ha fatto sì che la evasione raggiunga, io credo, non meno del 70-80 per cento. Anche le aziende più serie oggi vendono senza fattura o con fattura con prezzi truccati, in modo che la evasione raggiunge limiti che nessuno si sarebbe mai aspettato.

Una voce. La smetteranno presto.

VANONI. Io penso che in questo campo una coraggiosa revisione delle aliquote, accompagnata dalla ripresa della sorveglianza, da inserirsi eventualmente anche nell’opera di sorveglianza sulle speculazioni commerciali, possa dare dei frutti veramente importanti e preziosi per la nostra finanza. Bisogna, secondo me, anche eliminare o ridurre, in questa fase di prezzi instabili, il sistema degli abbonamenti. Nell’autunno del 1944 si era rinunziato all’abbonamento ai fini dell’imposta di entrata per le vendite al minuto: ciò indubbiamente costituiva un grave aggravio per l’Amministrazione finanziaria che avrebbe dovuto fare molti controlli e verifiche. Ma in tempi di rapida variazione nei prezzi e nel volume degli affari, ritengo che l’abbonamento mal si presti a percepire tutta l’imposta dovuta; mentre il sistema della tassazione sulle fatture al momento del ricevimento poteva, sia pure in via transitoria, dare buoni risultati e nuovi gettiti per la nostra bilancia.

E qui viene anche il grosso problema della sorveglianza che accomuna l’imposta sull’entrata con l’altro grande tributo di questo momento, i monopoli, e soprattutto il monopolio dei tabacchi. Anche questo, per due terzi, è problema di sorveglianza e di controllo, e per l’altro terzo problema di politica più coraggiosa in tema di prezzi nell’acquisto della materia prima. C’è stata e c’è tuttora un’eccessiva evasione all’obbligo di consegna del tabacco al monopolio, evasione spiegata ma non giustificata dalla eccessiva differenza tra il prezzo pagato ufficialmente ed il prezzo che si realizza sul mercato nero.

Bisogna controllare i costi di produzione per dare agli agricoltori il giusto prezzo, bisogna ristabilire la sorveglianza tradizionale, bisogna che il monopolio dei tabacchi ci dia quel reddito proporzionale a quello dell’anteguerra, che tutti abbiamo il diritto di aspettarci, sovrattutto… i fumatori accaniti, quale io sono.

SCOCCIMARRO, Ministro delle finanze. Sono 50 miliardi.

VANONI. È troppo poco: eravamo a 5 miliardi e 421 milioni nel 1941-42, quando le Serraglio costavano 5 lire; oggi le Serraglio costano 150 lire; abbiamo diritto di aspettarci di più.

Ma giustamente, al di sopra di queste osservazioni di carattere tecnico, deve essere sottolineato che la politica finanziaria è intesa nel programma del Governo, soprattutto come risultante e come incidente sulla politica della produzione, e la politica della produzione viene meritatamente posta nel suo giusto piano.

Ora, se consideriamo la situazione dell’economia produttiva italiana, noi abbiamo la sensazione che esiste una situazione di atonia e di sfasatura in molti dei suoi elementi. Vi è una sfasatura nel sistema dei prezzi, perché molti prezzi sono aumentati di gran lunga al di sopra dei limiti che sarebbero stati portati dal solo fattore monetario, mentre altri prezzi, compressi da norme legali o contrattuali, sono rimasti di gran lunga al di sotto. Vi è sfasatura nella distribuzione dei redditi, la quale provoca, a sua volta, un arresto nella circolazione dei beni. Vi è il fatto grave che molti bilanci familiari, soprattutto i bilanci delle classi lavoratrici, non riescono neppure a colmare il fabbisogno alimentare. Vi è il fenomeno preoccupante della disoccupazione.

Ora giustamente, io ritengo, è stato indicato che non esiste un’unica ricetta per tutti questi mali. La guarigione di questi mali non può essere che il risultato di una complessa e continua opera del Governo e degli operatori economici. Occorre soprattutto osservare che noi siamo in questo momento ad una svolta decisiva della nostra politica economica.

Le polemiche, svoltesi in sede di formulazione del programma di Governo, che hanno avuto il loro strascico nelle discussioni così vive ed interessanti presso la Confederazione generale del lavoro, hanno posto a fuoco il punto centrale della manovra economica in questi momenti. Si ritiene da un lato che possa essere conveniente procedere ad un aumento dei salari, perché, attraverso l’aumento dei salari nominali, si pensa di potere provocare la circolazione di una maggiore quantità di beni e dare un’ulteriore spinta all’economia ed alla occupazione. Si oppone dall’altro che l’aumento dei salari provocherebbe un aumento dei prezzi, che le condizioni di vita dei lavoratori occupati resterebbero uguali, mentre peggiorerebbero le condizioni dei lavoratori disoccupati e di tutti quelli che hanno redditi fissi, soprattutto del ceto medio.

Qui non si tratta di fare poesie, ma di constatazioni molto precise ed esatte.

Noi siamo convinti, in base ad indagini fatte ed alla esperienza anche recente, che un aumento nominale dei salari verrebbe assorbito da una ulteriore richiesta di prodotti alimentari, perché il bilancio alimentare della media del popolo italiano non ha ancora trovato un equilibrio sostenibile.

L’aumento della domanda di generi alimentari in un mercato in cui i generi domandati non sono sufficienti non può che tradursi in un aumento dei prezzi, destinato a bruciare il vantaggio del nuovo salario nel momento stesso in cui è concesso.

La esperienza che stiamo facendo in questi giorni di un aumento dei prezzi provocato dall’annunzio del premio della Repubblica, conferma l’esattezza della nostra valutazione.

Ma fare questo rilievo non significa ritenere che la situazione attuale dei lavoratori, occupati o disoccupati, possa essere considerata come cristallizzata e che l’attuale compressione possa ritenersi sostenibile a lungo ed in modo definitivo.

Noi diciamo realisticamente che non è attraverso provvedimenti nominali che si migliora la situazione dei lavoratori, ma è attraverso l’organizzazione ed il potenziamento del sistema produttivo, attraverso l’aumento della produzione dei beni, che può solo creare una massa di mezzi da distribuire fra tutti coloro che ne hanno bisogno e che meritano questi beni per il loro sacrificio e per il loro lavoro. (Applausi).

Giustamente allora si considera come essenziale al programma economico del Governo l’avvio a soluzione del problema della ricostruzione della attività produttiva italiana, cioè il problema della cosiddetta riconversione, della conversione dell’industria che è stata fuorviata non soltanto dalle necessità belliche, ma anche dalla lunga politica autarchica, in una industria moderna, che risponda alle necessità ed alle opportunità del mercato internazionale e nazionale, così come oggi si presentano.

Il problema della riconversione non è e non può essere un problema dell’industriale privato, almeno nelle grandi linee. Questo problema della riconversione, già di per se stesso tanto difficile, è complicato nei suoi termini economici da una necessità politica alla quale finora nessun Governo è riuscito a sottrarsi per un doveroso senso di solidarietà: la necessità del blocco dei licenziamenti. Ci troviamo quindi di fronte a questa situazione: che le industrie devono modificare il loro orientamento tecnico per adattarsi alle nuove opportunità di mercato. Ma l’industria manca della possibilità di valutare interamente la propria situazione, perché la visione esatta è oscurata dalla presenza di un vincolo di natura politica, dovuto a preoccupazioni legittime, ma che complicano il puro calcolo tecnico ed economico intorno alla convenienza di una determinata organizzazione.

Ho notato che questa situazione non dispiace interamente alla classe industriale, perché l’abilita a portare i propri bilanci dinanzi al Governo e a dire: io ho il bilancio in perdita perché voi mi obbligate a tenere della mano d’opera inefficiente; aiutatemi quindi a provvedere al pagamento dei salari e concorrete a sanare il deficit del mio bilancio.

Ho avuto occasione di esaminare in questi giorni la situazione di due aziende che richiedono l’intervento dello Stato e che l’ottengono, anche perché appartengono a un complesso controllato dallo Stato; e questa situazione è particolarmente interessante.

Uno stabilimento di produzione di materiale ferroviario ha 84 milioni di deficit al mese per ragioni tecniche ed economiche e 60 milioni di deficit al mese per mano d’opera inefficiente. Se questo stabilimento, invece di essere un’azienda dipendente dallo Stato nella quale è stato possibile fare questa analisi, fosse una impresa privata, io sono sicuro che porterebbe al Ministro del tesoro il suo bilancio con 144 milioni al mese di deficit e chiederebbe l’integrazione da parte dello Stato per questo ammontare.

Un altro stabilimento di produzione di materiale elettrotecnico ha 90 milioni al mese di deficit per ragioni tecniche e 44 milioni al mese di deficit per mano d’opera esuberante. Anche questa azienda, secondo sistemi che mi si dicono oramai invalsi, potrebbe chiedere al Tesoro i 134 milioni della totale perdita. In questo modo e seguendo questa strada è lecito pensare che l’industriale si adagi, rinunci a mettersi in grado di rimediare con le proprie forze alle deficienze tecniche della propria organizzazione.

Chiedo al Governo di considerare se in questo ordine di casi non sarebbe più conveniente per lo Stato e per l’economia che lo Stato si assuma direttamente il carico della mano d’opera, che transitoriamente non può essere occupata, e metta gli industriali di fronte alla responsabilità di organizzare la loro industria secondo le nuove necessità, con le loro forze. Se nonostante ciò chiedessero l’intervento dello Stato, allora lo Stato avrebbe il diritto di chiedere garanzie, sotto forma di cessioni di partecipazioni o di organizzazione di controlli, perché lo Stato potrebbe dire all’industriale: «Tu non sei capace di gestire la tua impresa da solo; il mio aiuto non può essere dato alla cieca ed a fondo perduto». Soprattutto ritengo che sarebbe un buon affare per il Tesoro perché, doverosa opera di solidarietà verso gli operai che restano disoccupati, andrebbe direttamente in favore di questi lavoratori e non porterebbe a caricare sulla comunità le perdite dell’imprenditore privato.

Per far fronte alla necessità di rianimare la nostra economia, il programma prevede un largo piano di lavori pubblici. Credo che quando si parla di lavori pubblici in un momento così drammatico della nostra economia, non se ne può parlare nel senso tradizionale dei lavori pubblici a sfondo elettoralistico, così come mi è sembrato affiorasse in qualche affermazione di alcuno degli oratori che mi hanno preceduto. Qui occorre un piano organico da parte dello Stato, un piano di cui i termini essenziali sono questi: l’economia ha a disposizione una quantità limitata di beni che possono essere trasformati in beni capitali; questi beni debbono essere investiti in modo da diventare il più possibile riproduttivi di nuove utilità, produttivi di richiesta di lavoro secondario, come dicono gli economisti. È chiaro che i lavori pubblici non si debbono esaurire in inutili spalature di terre o in demolizioni di bastioni che stavano da secoli, per esempio, nella mia Milano, e non c’era proprio bisogno di demolirli in questi giorni, quando tante altre opere necessarie e produttive sorgono davanti a noi.

Quando parliamo di un piano di lavori pubblici intendiamo riferirci anzitutto ad un piano di ricostruzioni ferroviarie, di ricostruzione della rete stradale, di ricostruzione dei porti, di ricostruzione della marina mercantile, di costruzione o di ricostruzione degli impianti elettrici, di costruzione di case nei centri dove esse scarseggiano; noi intendiamo cioè che ogni unità di bene economico, che viene sottratta all’economia per essere investita in questi lavori, o produca un incremento di benessere per la collettività, o produca un incremento nella produzione di domani; e quindi determini un permanente riassorbimento di mano d’opera. Solo intesa così l’opera del Governo può essere ritenuta come indirizzata a stabilire un nuovo e più felice equilibrio di tutto il Paese.

Questo piano, che presenta già di per sé delle enormi difficoltà di realizzazione, perché mai come in questo momento si sente il difetto fondamentale dell’economia italiana che è rappresentato da un eccessivo squilibrio tra beni capitali e lavoro disponibile, questo piano può essere ulteriormente reso difficile nella sua attuazione dalla situazione internazionale.

Voglio parlare in particolare della situazione internazionale che ci tocca in modo prossimo, soprattutto attraverso le richieste delle riparazioni economiche che sono state avanzate e che sembra stiano per essere comminate all’Italia nel trattato di pace.

Occorre spendere qualche parola sui due aspetti delle riparazioni e sugli inconvenienti che esse possono provocare nella nostra economia, nella nostra situazione. Ci chiedono anzitutto il pagamento diretto di riparazioni sotto forma di trasferimento all’estero di prodotti della nostra industria. Ci chiedono queste riparazioni, dopo che l’esperienza storica e la critica scientifica hanno dimostrato che riparazioni non nel senso di asportazione di ricchezze eccedenti e disponibili nel paese vinto, ma nel proprio e vero senso di trasferimento protratto nel tempo di beni economici da una economia nazionale all’altra, non possono essere che fonte di disordine economico per entrambe le nazioni. Sembra che l’esperienza fatta con le riparazioni tedesche nell’altro dopo-guerra non abbia insegnato nulla e non serva a nulla.

Ma deve essere detto che nella situazione in cui si trova l’Italia, di essere un paese che non possiede materie prime, che può quindi esportare soltanto il proprio lavoro, il pagamento delle riparazioni sotto forma di prodotti industriali non si può che risolvere in una riduzione del tenore di vita del popolo che lavora. Perché, che cosa significa pagare le riparazioni, quando non abbiamo materie prime da esportare per il pagamento? Significa ritirare dall’estero le materie prime, aumentarne il valore col nostro lavoro, ed esportarle. Significa caricare il costo della sussistenza dei lavoratori impiegati in questa produzione sui lavoratori impiegati in tutte le altre attività; significa dunque incidere permanentemente sul tenore di vita del popolo italiano, su quel tenore di vita che già in tempi normali era notoriamente inferiore a quello delle altre nazioni civili.

Mi chiedo se da un lato le nazioni che hanno più interesse all’ordinato svolgimento della vita economica internazionale, e dall’altro le nazioni che hanno fatto della elevazione della classe lavoratrice la propria bandiera, vorranno veramente insistere fino in fondo, per un puntiglio prevalentemente politico, su una misura la cui ripercussione è così grave per la nostra debole economia, mentre i vantaggi per l’economia altrui sono quanto meno incerti e comunque di scarsissima rilevanza. (Applausi al centro).

Il secondo tipo di riparazioni che ci chiedono è la espropriazione dei beni degli italiani siti nei Paesi che si trovano verso oriente.

Sembra una richiesta di scarsa importanza; ma in realtà questa misura significa l’annullamento dell’azione svolta attraverso diverse generazioni per attivare dei rapporti economici tra il nostro Paese e la penisola balcanica; significa privarci di quei modesti mezzi sui quali faceva perno la nostra azione economica in quei paesi, che non era un’azione di sfruttamento, che non era un’azione a fondamento imperialistico, ma era un’azione che continuava la tradizione della Repubblica Veneta, che si moveva secondo correnti economiche naturali affermate nei secoli.

Oggi la possibilità di riallacciare i tradizionali rapporti viene troncata ad un tratto. Domando se giova al mondo, se giova ai paesi balcanici, se giova alla Russia, che ha assunto in quei paesi i maggiori interessi, di escludere l’economia italiana dal riprendere la sua azione moderatrice e mediatrice, sia pure modesta, nell’economia balcanica. Confido che questo errore possa essere risparmiato alla economia italiana ed all’economia dei paesi balcanici.

L’onorevole Lombardo, che mi ha preceduto, vi ha parlato di un problema che a me sta profondamente a cuore ed è il problema della inflazione e delle conseguenze economiche e politiche di una inflazione. Egli ne ha parlato con termini così efficaci che mi dispensano dal dilungarmi su questo argomento, se non per darvi una testimonianza personale di quello che significa dal punto di vista sociale e politico un fenomeno di inflazione. Io ho vissuto in Germania, dove mi trovavo per i miei studi, durante il periodo successivo all’inflazione. Ho assistito alla decadenza della classe media tedesca ed ho visto di quali involuzioni ed evoluzioni è stata causa la rovina morale ed economica di quel ceto. Il nazismo in Germania probabilmente non sarebbe diventato un partito di Governo, un partito forte, un partito che ha vinto le elezioni del 1930, se la classe media tedesca avesse mantenuto la fede nei propri ideali e avesse conservato una base economica per ricostruire la propria vita dopo le difficoltà della guerra. Fu l’annientamento di questa base economica, fu il tracollo di ogni vincolo morale, che ha disancorato il ceto medio e lo ha gettato verso l’estremismo. E non verso l’estremismo di sinistra – come qualche ingenuo teorizzatore può pensare – ma verso l’estremismo di destra.

Mi permetto di ricordare una espressione che ho letto alcuni giorni or sono in una pubblicazione sui problemi economici internazionali, che mi ha particolarmente colpito. Lo scrittore, un economista, osserva che lo Stato moderno possiede tali e tanti mezzi di azione nell’economia, che egli è sempre in condizione – quando sia sovrano ed indipendente – di evitare l’inflazione. Ed aggiunge: «Ma per elaborare e mettere in applicazione un piano di resistenza all’inflazione è necessario avere un Governo stabile ed energico ed è ugualmente necessario un minimo di armonia tra le diverse sezioni politiche del Paese».

Noi abbiamo un Governo che ha tutta la possibilità di essere un Governo stabile, perché si fonda sui tre maggiori ripartiti di questa Assemblea, sui tre maggiori partiti del Paese. Noi abbiamo un Governo che ha la possibilità di impegnare tutte le forze vive del Paese. Noi dobbiamo fare in modo che questo Governo abbia veramente dietro di sé tutte le forze efficienti del Paese. Le abbia dietro di sé, non soltanto per quelle ragioni internazionali, che molti valorosi oratori hanno illustrato prima di me, ma anche per questa necessità improrogabile di fare una politica economica che assicuri al popolo tutto una rapida ricostruzione delle sue condizioni di vita.

Noi dobbiamo sentire questo impegno, non tanto verso questo o quel partito, dobbiamo sentirlo verso la democrazia e verso il Paese. Quando si sente parlare di fermenti neofascisti che pullulano nel Paese – e noi vediamo che questi fermenti allignano soprattutto presso coloro che dimenticano come le nostre difficoltà del momento non sono dovute agli errori della democrazia, ma agli errori ed ai delitti del fascismo – noi sentiamo che la democrazia è impegnata fino in fondo a dimostrare che questo è il solo sistema di Governo, che può fare un popolo libero e sicuro, che questo è il solo modo per dare a tutte le nostre famiglie la tranquillità politica ed economica di oggi e di domani.

Di fronte a questo compito della nuova Repubblica e della nuova democrazia, ritengo che tutte le piccole o grandi manovre tattiche che si dice serpeggino nell’Assemblea e nel Paese, dovrebbero essere abbandonate, perché penso che se noi falliremo nell’opera di ricostruire condizioni di vita accettabili, non sarà in pericolo la democrazia con l’aggettivo cui appartengo, o il socialismo o il comunismo; ma sarà in pericolo la democrazia senza qualificazione, sarà in pericolo quella Repubblica che abbiamo voluto e conquistato con la nostra volontà. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Nobile.

NOBILE. Onorevoli colleghi, nella esposizione del Capo del Governo si è completamente taciuto sul grave e complesso problema delle forze armate, che, ora, con le prime notizie che ci giungono sulle clausole del trattato di pace, diventa un problema di attualità.

Soltanto il Ministro del tesoro, nel suo discorso di ieri, vi ha fatto, di sfuggita, un accenno.

Certo, non si potrà discutere esaurientemente di tale problema se non a pace conclusa; ma frattanto vi sono taluni aspetti di esso e taluni fatti concreti sui quali ritengo mio dovere richiamare l’attenzione del Governo.

Il mio esposto sarà breve, ma chiedo di ascoltarmi con pazienza, perché ritengo che le cose che vi dirò non siano prive di importanza.

Anzitutto considerate la notevole entità delle somme stanziate per i tre Ministeri militari nello stato di previsione della spesa per il corrente esercizio finanziario. Ecco le cifre: guerra, 56 miliardi e 267 milioni; marina, 23 miliardi e 626 milioni; aeronautica, 9 miliardi e 981 milioni; cioè una somma totale di circa 90 miliardi rappresentante il 25,6 per cento di tutta la spesa dello Stato prevista in 350 miliardi e 876 milioni. Se riferissimo le spese militari all’entrata statale troveremmo niente di meno che il 69 per cento.

Ci troviamo così davanti alla situazione assurda che, mentre la guerra è già terminata da oltre un anno, le spese militari gravano sullo stremato bilancio statale in proporzione più forte che nell’anteguerra. Infatti, nel decennio 1925-35 la spesa complessiva dei tre Ministeri militari rappresentava solo il 21 per cento della spesa totale, pur essendo l’Italia stata cacciata, per nostra disgrazia, in due imprese militari. Nel 1938-39, alla vigilia della seconda guerra mondiale, la percentuale era del 21,9 per cento.

Quando si consideri che nello stato di previsione la spesa stanziata per il Ministero dei lavori pubblici rappresenta appena una percentuale del 7,1 per cento, di poco superiore a quella anteguerra, in un momento in cui da tutti i lati si invoca un vasto programma di lavori pubblici per riparare le devastazioni della guerra e fronteggiare la disoccupazione, non possiamo non concludere che il problema di ridurre le spese militari in proporzione delle necessità attuali e delle disponibilità del bilancio assume una importanza vitale.

Occorre mettere termine alla situazione paradossale che, a guerra terminata, quando il nostro esercito è ridotto ad una piccolissima frazione di quello che era durante la guerra, quando la nostra flotta conta poche unità e la nostra aviazione appena qualche centinaio di aeroplani efficienti, le spese per le forze armate rappresentino una percentuale più forte di quella che si aveva nell’immediato anteguerra.

Certamente non si può tacere che il ridurre le spese militari in proporzione alle disponibilità del nostro bilancio ed alle necessità attuali presenta difficoltà assai gravi. Così, considerando ad esempio il Ministero della guerra, non è cosa facile ridurre di colpo un organismo che fu creato per un esercito di milioni di uomini alle modeste proporzioni corrispondenti alle forze che attualmente si hanno sotto le armi, di appena 142 mila uomini. I tre Ministeri militari si trovano nella condizione di organismi costituiti di un’enorme testa (rappresentata dai quadri degli ufficiali e da una grande congerie di uffici burocratici) che sovrasta un corpo piccolissimo. Ora ridurre quell’enorme testa alle giuste proporzioni significa mandare a casa un gran numero di ufficiali e funzionari che hanno servito onorevolmente il paese per molti anni.

Ma non si può far questo alla ventura; molti ufficiali si batterono da eroi. Vi sono perciò distinzioni da fare e soprattutto bisogna tener conto di quelli che presero parte alla guerra contro i tedeschi e di quelli che, con rischio, si rifiutarono di mettersi al servizio della repubblica fascista. Si può, dunque, ben comprendere che si vada adagio in questa indispensabile opera di sfollamento. Tuttavia bisogna pur una volta cominciare a fare sul serio, se si vuole uscire dalla penosa situazione in cui ci troviamo. Il problema va affrontato energicamente. Occorre decidersi a smobilitare i tre dicasteri. La pletora di ufficiali, di cui la maggior parte non può trovare alcun utile impiego, costituisce un fenomeno, oltre tutto, anche demoralizzante.

Si considerino, ad esempio, queste cifre:

Al 1° giugno erano in servizio nell’esercito 298 generali,1036 colonnelli, 1877 tenenti colonnelli; 1879 maggiori; un totale di 5090 ufficiali, cui devono aggiungersi 3617 capitani e 6558 subalterni. Si ha così una cifra di 15.265 ufficiali, di cui ben 4302 richiamati dal congedo, che non si sa per quale ragione vengono ancora trattenuti in servizio. Per i 142.000 uomini, tra graduati e soldati, attualmente sotto le armi, basterebbe soltanto una terza parte di quegli ufficiali.

Presso a poco la medesima situazione si ha anche nell’aeronautica: circa 3000 ufficiali per 30.000 uomini di truppa. Con tale stragrande numero di ufficiali – anche se una gran parte di essi, pur godendo dei pieni assegni, è lasciata a casa – avviene che gli uffici in ambedue i suddetti Ministeri siano congestionati di personale che spesso ha poco o nulla da fare. Inevitabile conseguenza è il disordine, la confusione, il disperdimento di responsabilità. La cosa più grave è che la necessità di eliminare questa pletora di ufficiali e di funzionari non apparve chiara ai dirigenti di quei due dicasteri, dal momento che si tollerò che negli ultimi due anni al Ministero della guerra venissero assunte in servizio 150 dattilografe, le cui mansioni, io penso, avrebbero potuto, senza alcuna difficoltà, essere affidate ad impiegati di ruolo, che sono in numero di gran lunga esuberante ai bisogni del servizio, ed eventualmente anche a sottufficiali.

Un errore anche più grave di questo è stato commesso in Aeronautica, che purtroppo risente ancora del suo difetto di origine, perché, come tutti sanno, durante il ventennio fascista, i Ministri ed i Sottosegretari dell’aeronautica, salvo qualche onorevole eccezione, si preoccuparono, non tanto di costruire aeroplani, quanto di accrescere i quadri degli ufficiali superiori e generali, onde permettere una rapida carriera ai protetti delle alte gerarchie fasciste.

Questa non è affermazione mia, ma di ufficiali stessi del ruolo navigante dell’arma aerea.

Del resto due cifre bastano a comprovarla: nel 1927 vi erano in organico 15 generali; nel 1940 il loro numero era sestuplicato, cioè 90!

Il generale Pricolo, in un documento da lui firmato, asserisce che quando alla vigilia della guerra assunse la carica di Sottosegretario per l’aeronautica, trovò che erano in servizio, nel ruolo naviganti, 60 generali con appena 1300 apparecchi efficienti, ed osserva, per fare un confronto, che nella guerra 1915-18, con poco meno di mille aeroplani, vi erano un solo generale ed un solo colonnello!

Oggi gli apparecchi in servizio, efficienti, sono in numero di molto inferiore alla cifra di 1300, di cui parla il generale Pricolo. Si tratta solo di 228 velivoli. Per questo esiguo numero di aeroplani efficienti l’anno scorso erano in servizio una diecina di generali; eppure, in questi ultimi mesi, si è sentito il bisogno di quadruplicarne il numero, senza contare naturalmente tutti quelli che, pur percependo gli assegni, sono tenuti a casa senza avere nulla da fare. Fra questi ultimi, mi affretto a dirlo, sono anch’io.

Vi è di peggio. Nel dicembre scorso furono creati 22 nuovi generali, mentre 15 generali di brigata vennero promossi generali di divisione, e 3 generali di divisione, generali di squadra. Queste promozioni non sono ancora tutte apparse nel Bollettino Ufficiale, ma gli interessati ne hanno avuto comunicazione per lettera. Notate che fra i promossi vi sono perfino 2 generali che negli annuari aeronautici sono contrassegnati col distintivo di squadrista.

I piloti dell’aeronautica italiana hanno compiuto alte gesta di valore in tutti i cieli in cui hanno combattuto ed anche nella guerra di liberazione. Al loro valore rendo omaggio, con ammirazione tanto più grande, in quanto so che spesso i mezzi messi a loro disposizione erano inadeguati. I miei rilievi non si riferiscono ad essi, ma agli organi dirigenti dell’aeronautica, i quali, a mio parere, effettuando quelle promozioni, hanno commesso un errore anche politico.

Con un suo recente comunicato, il Ministero dell’aeronautica dichiarava che le promozioni fatte non potevano venire oltre ritardate per non privare ingiustamente di un trattamento più favorevole gli ufficiali che devono lasciare l’aeronautica in seguito a riduzione di quadri. Se così fosse, se cioè alla promozione seguisse il collocamento nella riserva, non vi sarebbe nulla da osservare, ma questo finora non è avvenuto, mentre sta il fatto che durante gli ultimi mesi il numero di generali in servizio è venuto man mano aumentando fino a quasi quadruplicarsi, come ho già detto. D’altra parte nel foglio d’ordini del 2 giugno 1946 è apparsa una disposizione con cui vengono istituite otto direzioni generali e due ispettorati, con lo scopo evidente di creare posti per una parte almeno dei generali promossi in precedenza. Secondo tale disposizione, quelle che prima erano chiamate semplicemente divisioni hanno assunto la denominazione di Direzioni generali e conseguentemente le sezioni e gli uffici di una volta hanno assunto la denominazione di Divisioni e Sezioni. Il pretesto probabilmente addotto è che tali direzioni esistono anche negli altri Ministeri, ma si dimentica che i Ministeri militari debbono ridurre e non già ampliare i loro uffici.

Ma, mentre nel modo che ho detto, sono stati accresciuti i quadri dei generali ed istituiti otto direzioni generali e due ispettorati, nulla si è fatto per cominciare a risolvere il problema di dare lavoro ed impiego ad una parte del personale civile e militare ed alle maestranze attualmente disoccupate, od occupate in modo inadeguato.

Vi sono oggi in aeronautica centinaia di tecnici, disegnatori, operai specializzati di grandissima esperienza che non sono affatto utilizzati. Molti eccellenti meccanici sono tenuti a fare da inservienti negli uffici. Qualche cosa si potrebbe cominciare a fare per risolvere il problema di un adeguato impiego di questi tecnici e di queste maestranze.

Non abbiamo visto stanziato nello stato di previsione di spese per l’esercizio in corso la somma occorrente per ripristinare le officine di Guidonia. A Guidonia furono fatte trasferire, negli anni in cui fu creato quell’importante centro aeronautico, centinaia di famiglie, che ormai non è possibile fare trasferire altrove.

Bisogna trovar loro lavoro sul posto. Ora, con una spesa non eccessiva, si potrebbero riattare le officine, attrezzandole per i lavori occorrenti ad altre amministrazioni statali, ad esempio, le ferrovie, in attesa che venga il giorno in cui possano adibirsi all’aeronautica, a quella civile se non a quella militare. Queste officine potrebbero avere gestione autonoma, e, se ben dirette, potrebbero non gravare affatto sul bilancio dell’aeronautica, mentre sgraverebbero questa di una parte del personale, specialmente tecnico. Comunque, sarebbe assai utile, se facendo economia su altri capitoli, come, ad esempio, quelli per l’acquisto e la riparazione di autoveicoli e per la provvista di carburante (per i quali si prevede una spesa di circa tre quarti di miliardo), si cominciasse a fare qualcosa. Credo pure che non bisognerebbe tardare a riattivare e mettere in funzione una parte almeno degli impianti aeronautici di Guidonia, dove, proseguendo una nobile tradizione, iniziata ben prima del fascismo, sono stati nel passato eseguiti studi ed esperienze di importanza notevolissima.

Certo, lo ripeto ancora una volta, il problema di smobilitare i tre dicasteri militari è un problema complesso, che richiede tra l’altro provvedimenti di carattere generale. Si potrà collocare a riposo il personale che sta per raggiungere il limite di età; un’altra parte, profittando delle agevolazioni previste nella legge di sfollamento, potrà abbandonare spontaneamente il servizio; una parte potrebbe venire assorbita dalla marina mercantile e dall’aviazione civile, man mano che queste branche si svilupperanno. Ma, dopo ciò, rimarrà pur sempre una grande quantità di ufficiali, sottufficiali, ragionieri, tecnici, applicati, ed anche operai, che non si potranno con disinvoltura mandare a casa con pensioni o buonuscite irrisorie. Il problema si dovrà risolvere, secondo me, facendo assorbire questo personale dalle altre amministrazioni statali e parastatali, che possono averne bisogno, come Ferrovie, Lavori pubblici, Pubblica istruzione, Monopoli, Poligrafico dello Stato, Istituto nazionale di assicurazione, ecc.

Si rende perciò necessaria, a mio avviso, ed anche urgente, una legge che blocchi l’assunzione di nuovo personale in queste varie amministrazioni statali, per lasciare liberi i posti che si faranno vacanti al personale esuberante dei tre Ministeri militari.

Quando questa smobilitazione sarà stata compiuta e quando saranno conosciute le condizioni del trattato di pace, si potrà parlare di fusione dei tre Ministeri in unico Ministero delle forze armate. Evidenti ragioni di economia consigliano questa unificazione, tanto più facile, in quanto la marina e l’aviazione saranno ridotte. Ma questa unificazione va studiata e preparata fin d’ora, perché, come ha detto bene l’onorevole Persico, non è durante una crisi ministeriale che tali problemi possano essere risolti. A questo proposito mi sia permesso esprimere modestamente l’opinione che la costituzione ed il numero dei Ministeri dovrebbe venire stabilita per legge e non dovrebbe essere lecito variarla senza apposita legge. Solo così si potrebbe porre termine alla cattiva abitudine di mutare il numero dei Ministeri a seconda delle esigenze politiche di una crisi ministeriale.

Un’osservazione mi sia permesso fare a proposito della critica mossa dall’onorevole Nitti alla istituzione, recentemente deliberata, del Ministero della marina mercantile.

La marina mercantile, oggi più che mai, ha importanza vitale per un Paese come il nostro. Basta riflettere che oltre due milioni di persone vivono dei traffici marittimi e delle varie industrie ad esse connesse. E non bisogna dimenticare che questi traffici hanno importanza fondamentale per l’indipendenza economica ed anche politica dell’Italia.

Se vi è un Ministero delle poste, non vedo perché dovremmo meravigliarci che vi sia anche un ministero della marina mercantile, come del resto è attualmente in Inghilterra e in Francia. Finora i vari servizi della marina mercantile, delle vie d’acqua interne e della pesca sono stati divisi tra cinque Ministeri: Marina da guerra, Trasporti, Industria, Agricoltura e commercio, e siffatta dispersione di servizi, per la loro natura intimamente fra loro collegati, ha creato difficoltà enormi. La necessità di unificare queste varie attività marinare, dando loro un’amministrazione autonoma, con la formazione di un dicastero indipendente, a me sembra evidente.

Far ritornare, come taluno ha suggerito, la Marina mercantile al Ministero dei trasporti sarebbe stato un errore. I trasporti ferroviari, marittimi ed aerei sono così sostanzialmente differenti fra loro, che a riunirli in una sola amministrazione sarebbe ben difficile trovare qualche cosa di comune che permetta, unificando, fare delle economie. Mettere insieme queste tre grandi branche di trasporti così diverse l’una dall’altra non servirebbe a nulla. Bisogna che ognuna di esse abbia la sua piena autonomia, soprattutto la Marina mercantile, non fosse altro che per ragioni di prestigio e per rispetto alle nostre grandi tradizioni marinare, specialmente nel momento in cui viene ridotta la flotta da guerra.

La stessa cosa dovrà farsi, come ho detto, per l’aviazione civile. Se il trattato di pace limiterà la nostra aviazione da guerra non sarà grave danno, anche perché le nostre condizioni economiche non ci consentiranno mai di competere con i grandi paesi che oggi controllano il mondo nell’apprestamento di un’arma che, grazie ai sorprendenti progressi realizzati ultimamente, sta per subire profonde trasformazioni. Ma nessuno potrà impedirci di sviluppare, almeno sul nostro territorio, l’aviazione civile, la cui importanza andrà sempre più crescendo. Prossimamente, quando da Roma a New York si andrà in una dozzina di ore, nessun uomo d’affari vorrà più rassegnarsi ad impiegare quasi altrettanto tempo per andare da Roma a Milano. Il tempo in cui si andrà a prendere all’aeroporto, senza preavviso, un aeroplano per recarsi da una città all’altra d’Italia è assai più vicino che non si pensi. Vi saranno taxi aerei come vi sono taxi terrestri. L’importanza che l’aviazione va assumendo nella vita economica, civile e sociale, sarà sempre maggiore, al punto che l’organizzazione di un apposito dicastero per controllare lo sviluppo di questo nuovo mezzo di trasporto e di tutti gli impianti e servizi relativi diverrà una necessità imprescindibile, come già è oggi per la marina mercantile.

Una raccomandazione, però, mi permetto di fare, e cioè che questi due nuovi Ministeri tecnici, quello della Marina mercantile già istituito e quello dell’Aviazione civile che dovrà istituirsi domani, vengano organizzati in maniera semplice ed efficiente, senza prendere come modello gli altri Ministeri esistenti, senza creare farraginosi organismi burocratici ed anche senza Sottosegretariati di Stato, i quali secondo me, per dei Ministeri tecnici, sono cosa assolutamente superflua.

Ed avrei finito se non sentissi il dovere di fare, da ultimo, qualche osservazione su un argomento di vitale importanza, e cioè sugli accordi intervenuti con società americane ed inglesi per l’esercizio delle nostre linee aeree interne.

In data 11 febbraio il Ministro dell’aeronautica firmò un accordo con la Trascontinental & Western Air Inc., con cui il Governo italiano assumeva impegni gravi, giacché dava facoltà alla costituenda società italo-americana di acquistare, costruire, gestire e prendere in concessione aerodromi, aviorimesse, officine, istituendo e gestendo tutti quei servizi che, direttamente o indirettamente, potessero interessare la società stessa. Con tale impegno veniamo a legare, nel modo più completo, l’aviazione civile italiana ad una società straniera. Nell’articolo 11 è previsto implicitamente di effettuare all’estero l’acquisto di aeromobili, di parti di ricambio, di attrezzature, ecc., sacrificando così l’industria nazionale con doppio, grave danno: da un lato verrebbero dispersi, per mancanza di utilizzazione, tecnici e maestranze espertissime, e dall’altro si danneggerebbe l’economia del Paese comprando all’estero anche ciò che possiamo costruire in Italia.

Il danno economico è poi accresciuto dal fatto che si consente alla TWA di esportare in America le somme che le spetteranno come dividendi, obbligandoci quindi a procurare la valuta corrispondente. Tutte le garanzie vengono infine date a favore dei capitalisti stranieri, i quali, in base all’articolo 3 dell’accordo hanno facoltà, dopo solo due anni dalla costituzione della società, di ritirarsi da essa, vendendo le loro azioni allo Stato italiano, in cambio, s’intende, di valuta americana. Sicché, in definitiva, se la gestione delle linee aeree non desse agli azionisti americani quel profitto che se ne aspettano, essi se ne uscirebbero senza alcuna perdita sostanziale, e la perdita sarebbe tutta a carico dello Stato italiano. Come si vede, l’intero affare si risolve a beneficio della TWA, la quale nel peggiore dei casi avrebbe, direttamente o indirettamente, venduto allo Stato italiano del materiale aeronautico.

Né ci si venga a dire che è stata prevista la partecipazione del capitale italiano in una misura preponderante del 60 per cento del capitale sottoscritto, con che sarebbe assicurata la prevalenza italiana nelle decisioni, perché l’articolo 10 dell’accordo stabilisce che per la validità delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione costituito di 6 italiani e 4 americani, occorre il voto favorevole di due terzi dei membri del Consiglio, il che vuol dire che niente potrà deliberarsi senza il consenso degli azionisti americani.

Questo accordo italo-americano, come è noto, sollevò proteste in Inghilterra e la conseguenza ne è stata che si è dovuto stipulare un altro accordo con società inglesi, accordo che, non si sa per quali ragioni, è tenuto segreto. Io chiedo che ambedue gli accordi siano resi di pubblica ragione.

Per l’impianto e la gestione perfino delle nostre linee interne il passato Governo, con gli accordi stipulati, ha messo l’aeronautica italiana completamente in balìa di società straniere. Ciò è stato fatto a mio avviso senza alcuna necessità, perché non vi era alcuna necessità di stipulare frettolosamente quegli accordi, proprio alla vigilia della Costituente. In fatto di trasporti, anche i più entusiasti assertori dell’aviazione civile, e fra essi sono certamente anche io, devono riconoscere che nelle circostanze attuali quello che più preme ripristinare sono i trasporti terrestri e marittimi. Sono questi che oggi interessano da vicino l’economia generale del Paese. I trasporti aerei non possono, oggi, considerarsi di importanza talmente vitale per la rinascita dell’Italia che convenga, costi quel che costi, precipitarsi a legarci a stranieri pur di vederli subito attuati. (Applausi a sinistra).

Per essi si può ancora attendere. Gli attuali servizi aerei, fatti con velivoli militar costruiti in Italia, possono ritenersi sufficienti ai bisogni attuali, ma, volendo, potrebbero anche venire estesi. Molto meglio fare dei servizi modesti adoperando mezzi completamente nostri, anziché legarci nel modo che si tenta di fare a delle società straniere, con grave e forse irreparabile danno dell’economia nazionale e specialmente della nostra industria aeronautica. La nostra industria aeronautica dovrà essere alimentata soprattutto dall’aviazione civile, e noi abbiamo il dovere di sorreggerla, specie in questo periodo di crisi. Dobbiamo dar lavoro ai nostri ingegneri e ai nostri operai. Non possiamo rinunciare a beneficio degli stranieri perfino a progettare e costruire i velivoli che dovranno servire alle nostre linee aeree. Da trenta anni abbiamo esportato le nostre costruzioni aeronautiche nei paesi più lontani del mondo, anche in America e in Inghilterra. Non possiamo ora dichiararci incapaci di costruire gli aeroplani che alla nostra aviazione occorrono. È una immeritata umiliazione che si tenta di infliggere ai nostri tecnici, alle nostre maestranze, delle quali oso dire che non vi è chi per bravura le uguagli nel mondo.

Io sono sicuro di interpretare il pensiero di molti colleghi chiedendo che si soprassieda a qualunque costituzione di società per trasporti aerei nelle quali intervenga capitale straniero alle condizioni onerose che ho dianzi ricordato. Comunque, nessun impegno si prenda senza introdurvi una clausola che riservi a questa Assemblea l’approvazione dell’impegno. Né sarebbe inopportuno che il Governo deferisca fin da ora tutta la questione all’esame dell’Assemblea stessa, ed in proposito presenterò un ordine del giorno.

Ho terminato, onorevoli colleghi. Alle poche osservazioni che mi sono permesso di fare sono stato mosso solo dall’amore che porto al mio Paese ed alle cose dell’aeronautica. Avrei creduto di mancare ad un preciso dovere se ciò non avessi fatto. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Cingolani, Ministro dell’aeronautica. Ne ha facoltà.

CINGOLANI, Ministro dell’aeronautica. Per una semplice precisazione, onorevoli colleghi, ho chiesto di parlare dopo il discorso dell’onorevole Nobile. Mi riserbo di ritornare ampiamente sull’argomento.

Siccome le questioni qui sollevate dall’onorevole Nobile nell’ultima parte del suo discorso, possono aver lasciato nell’Assemblea una impressione non molto simpatica, tengo a fare alcune precisazioni. Ecco dei dati di fatto.

L’11 febbraio 1946 fu firmato un accordo dal Ministro dell’aeronautica e dal rappresentante della Compagnia americana T.W.A. L’8 giugno fu firmato un analogo accordo col rappresentante della B.O.A.C. inglese. Ambedue gli accordi prevedono l’ulteriore costituzione di due società italiane, a capitale misto, rispettivamente italo-americana con la sigla L.A.I. (Linee Aeree Italiane), e italo-inglese, cori la sigla A.I.I. (Aviolinee Italiane Internazionali) per la gestione di aviolinee indicate in alcuni allegati che al momento opportuno metterò a disposizione dell’Assemblea.

Varie altre iniziative sono sorte in Italia per l’esercizio di linee aeree, e da parte di società già costituite o di gruppi promotori sono state avanzate domande di concessione. Numerosissime sono le interferenze fra i vari progetti. Per tale fatto solo ad alcuni richiedenti è stato dato un affidamento, con le formule «si concede autorizzazione di massima» ovvero «si esprime parere favorevole in linea di massima», seguendo in genere il concetto di dare affidamento solo per quelle linee per le quali non vi fossero interferenze.

Il prospetto che comunicherò all’Assemblea ci dà lo spettacolo consolante di un tentativo di ripresa veramente organico ed energico della futura attività aviatoria civile italiana.

Io ho trovato, nel prendere possesso del mio Ministero, preparati ed approvati due progetti di costituzione delle due società italo-americana e italo-inglese; come anche ho trovato maturata e studiata la proposta di acquistare immediatamente 22 apparecchi «Douglas» come surplus americano da mettere poi a disposizione delle società. Naturalmente io ho inteso il dovere di prendere visione di tutto il problema, perché intendo rispondere con conoscenza di causa dei miei atti.

Prima di emettere un giudizio su quanto è stato fatto finora, io ho il dovere, e oso dire anche il diritto, di approfondire lo studio delle due convenzioni e di esaminare il modo come sarebbero esercitate le attività delle due società.

Intanto posso dire di avere indirizzato diversamente l’acquisto dei 22 «Douglas» che dovevano servire soltanto per queste due società, con questa decisione fatta all’A.R.A.R.: «A modifica dei precedenti indirizzi, questo Ministero non ritiene di procedere all’acquisto degli apparecchi «Douglas» per la successiva assegnazione alle due società di navigazione, nella considerazione che tali operazioni esorbitano dai limiti della competenza ministeriale. Questo Ministero potrà segnalare a codesta azienda le società di navigazione aerea che intendono procedere all’acquisto di materiale surplus americano per ogni possibile facilitazione. Potrà anche assicurare agli interessati l’assistenza dei propri organi tecnici per le trattative da svolgere circa la scelta del materiale e la determinazione del prezzo relativo».

Stia sicuro, onorevole Nobile, che è cura nostra precipua, e di coloro che mi coadiuvano, la tutela degli interessi italiani, del personale navigante italiano e delle valorose maestranze italiane. (Applausi al centro e a destra).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla necessità di una pronta decisione per la nomina, da parte del Governo, della Delegazione incaricata di trattare con il Governo svizzero per l’idrovia Locarno-Venezia e concludere rapidamente le trattative sulla base dei punti seguenti:

1°) a carico della Svizzera: la progettazione definitiva del canale e concorso nelle spese dei lavori con anticipo e in misura non inferiore al 50 per cento della spesa totale;

2°) costruzione del canale per natanti da 600 tonnellate, secondo la formula internazionale, con navigabilità in ogni giorno e ora dell’anno;

3°) libertà di navigazione assicurata alla Svizzera, secondo il diritto internazionale;

4°) sistemazione e tutela, in linea di massima e di principio e di fatto, delle necessità e risorse idriche delle zone agricole adiacenti al canale;

5°) celere inizio dei lavori, anche per ovviare ai danni della disoccupazione.

Gli interessati chiedono come mai il Governo abbia tanto ritardato nell’appoggiare questa iniziativa, e perché non si affretti a nominare la Delegazione d’intesa con gli enti interessati.

L’interrogante sottolinea l’estrema urgenza economica e sociale di una soluzione, tanto più che al Governo non si chiedono né denari, né compromissioni in partenza.

«Roselli».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se e quando il Ministero intenda dare adeguato corso ed impulso al pagamento degli indennizzi per danni di guerra verso persone e ditte private onde facilitare sia la indispensabile sistemazione delle più elementari necessità di vita delle famiglie lese, sia la ripresa efficace, particolarmente di attività artigiane o di piccolo commercio od industria, che non hanno altro mezzo per farlo e che avrebbero modo di ridare lavoro e sussistenza, oltreché ai diretti interessati, anche ad una vasta categoria di lavoratori.

«Pressinotti, Ghislandi».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del tesoro, se non crede di trasformare in obbligo di legge la semplice «facoltà» riconosciuta agli Enti locali di concedere o meno la estensione delle provvidenze previste dei decreti luogotenenziali numeri 41, 85, 116, 722 in favore dei pensionati degli enti stessi; o se, quanto meno, ritenga di dover disporre l’intervento finanziario dello Stato nei casi di comprovata impossibilità economica di tali enti a far fronte al maggior aggravio che ne deriverebbe ai loro bilanci; aggravio, però, che non può essere ragione sufficiente, specialmente dal punto di vista umano e sociale, per negare il minimo pane necessario a lavoratori, che hanno dato per decenni l’opera loro all’ente da cui dipendevano, versando per di più in moneta valida il loro contributo per quella modestissima pensione che oggi è loro corrisposta in moneta svalutata.

«Ghislandi, Pressinotti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle foreste e di grazia e giustizia, sulla predisposizione dell’Ispettorato agrario per la provincia di Siracusa ad ostacolare le aspirazioni delle cooperative agricole di lavoro nella concessione delle terre incolte o mal coltivate, sia per la determinazione delle indennità a favore dei proprietari quasi sempre eccessive, sia per l’imposizione di lavori di bonifica a carico delle cooperative, non compatibili con la brevità delle concessioni.

«Né le cooperative trovano la necessaria tutela nelle speciali Commissioni, per quanto presiedute da magistrati, anch’esse piuttosto inclini a sostenere le pretese dei proprietari, tanto nella determinazione delle indennità e nella convalida di procedure assicurative e coattive, spesso astiose, che espongono le cooperative a costosi litigi, quanto nella negata proroga annuale delle concessioni, in conseguenza di una erronea e troppo letterale applicazione del decreto di proroga.

«Tutto ciò tradisce lo spirito informatore dei provvedimenti sulla concessione delle terre incolte o mal coltivate, provoca il malcontento giustificato dei lavoratori e li costringe alla disoccupazione, con il conseguente pericolo per l’ordine pubblico.

«Di Giovanni».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se, nell’interesse dell’economia generale del Paese, e nello stesso tempo per richiamare all’attività del lavoro una massa non indifferente di mano d’opera disoccupata, non si debba favorire in ogni modo la possibilità di ripresa dell’industria turistica e specialmente l’afflusso in Italia di correnti turistiche dall’estero; se tale ripresa non sarebbe favorita dall’abolizione di inutili impacci burocratici che allontanano i forestieri dai nostri confini anziché attirarli, incominciando in primo luogo coll’abolire il visto consolare ai passaporti dei forestieri che dalla Svizzera desiderano entrare in Italia.

«Zappelli, Fornara, Bordon, Momigliano, Jacometti».

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non credano sia urgente emanare una nuova legge di pubblica sicurezza, la quale sostituisca quella ora in vigore, che indubbiamente costituisce negazione di ogni principio di libertà, lasciando il cittadino in balìa dell’autorità politica e d’altro canto non garantisce sufficientemente la società contro i delinquenti abituali ed i pregiudicati pericolosi.

«Stampacchia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se non pensi essere necessario ed urgente, conformemente al voto espresso in più occasioni dal Foro italiano nella sua grande maggioranza, di provvedere con sollecitudine alla preparazione dei nuovi codici, i quali sostituiscano quelli ora in vigore, impregnati, permeati e sostanziati nella disciplina di molteplici istituti da spirito e criteri non rispondenti al nuovo clima storico di libertà e di democrazia;

2°) se non pensi che, richiedendo la predetta preparazione studi e tempo non brevi, debbasi abrogare subito il codice di rito civile dimostratosi perturbatore di ogni sano principio che deve garantire le ragioni e i diritti delle partì litiganti, il prestigio della difesa, la celerità dei giudizi; e sostituirlo intanto col Codice del 1865 e successivo e relativa legge sul rito sommario, con opportuni ritocchi specialmente in rapporto ai termini, da abbreviare, ed alla materia incidentale.

«Stampacchia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non creda di doversi procedere, senza più indugiare, a nuova formazione degli albi di curatori di fallimenti, poiché quelli attualmente in vigore furono formati con criterio partigiano escludendosi tutti i professionisti non muniti di tessera fascista; e se non creda di dover dare immediate disposizioni perché il magistrato – sino alla compilazione dei nuovi albi – prescinda, nell’assegnazione degl’incarichi, dagli albi formati durante il fascismo.

«Stampacchia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali ostacoli ancora si frappongano perché la pretura di Cassino ritorni nella sua sede naturale e lasci quella provvisoria di Cervaro, anche come prova di adesione da parte del Governo alla volontà di rinascita della martoriata città.

«Persico».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se – considerato che la monda del riso è in corso quest’anno con la retribuzione giornaliera di lire 285, che lo stesso Ministero dell’agricoltura riconosceva al termine delle trattative come inferiore di lire 15 al minimo necessario per un lavoro fra i più faticosi tuttora condotto in condizioni di alimentazione, di alloggio e di igiene indegne di una società civile ed organizzata – non ritenga equo ed opportuno estendere il premio della Repubblica a questa categoria di lavoratrici nella misura di lire 500 per ogni mondariso locale o forestiero.

«Lombardi Carlo, Farina, Leone, Scarpa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali siano i criteri fondamentali ai quali si ispirerebbe il progetto di autonomia in favore della «Regione Tridentina», che la stampa ha annunciato recentemente come di prossima emanazione, e per richiamare l’attenzione del Governo sulla inopportunità che provvedimenti di questo genere, di natura tipicamente costituzionale, vengano emessi per mezzo di decreti governativi, mentre la Costituente è chiamata ad elaborare la nuova costituzione dello Stato italiano: segnalando particolarmente il pericolo che l’intera riforma in senso autonomistico della struttura statale, auspicata da larghi settori della Costituente, possa essere compromessa da provvedimenti legislativi ispirati piuttosto ad esigenze particolaristiche, che non ad una visione complessiva del problema, nel generale interesse del Paese.

«Codignola».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, per conoscere le ragioni che si oppongono alla pronta ricostruzione dei ponti ed opere della strada nazionale tiberina 3-bis nel tratto Pieve Santo Stefano (Arezzo)-Bagno di Romagna (Forlì), strada che rappresenta la comunicazione più diretta della Romagna e della Valle Padana con la Toscana e la Capitale, e che è l’unica grande strada appenninica ancora interrotta. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Braschi, Fanfani».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle foreste e del tesoro, per conoscere quali immediate provvidenze intendano emanare per rimborsare integralmente e subito agli agricoltori, specialmente proprietari di piccole aziende, le somme che hanno anticipato e sono per anticipare (anche in relazione al cosiddetto lodo De Gasperi) ai coloni mezzadri, sostituendosi allo Stato nel risarcimento dei danni dai medesimi subiti nel bestiame o nei prodotti per razzie o per azioni di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per conoscere se non possa dare istruzione ai Prefetti perché consiglino le amministrazioni comunali non elettive a dimettersi e le sostituiscano con altre più rispondenti ai sentimenti espressi dalle popolazioni nelle elezioni politiche.

«La situazione di contrasto tra amministrazioni del defunto CLN e popolazioni, che hanno espresso voti assolutamente contrari a questo, sta avvelenando l’esistenza di intere provincie, e aggravando la frattura tra Nord e Sud; l’interrogante segnala per il suo collegio specialmente i comuni di Taranto, Lecce, Francavilla Fontana e Squinzano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno per conoscere se non ritenga opportuno di indire un concorso per l’ammissione a segretari comunali di quei funzionari municipali che, pur non avendo il prescritto titolo di studio, furono incaricati di tale funzione in virtù della legge 1° settembre 1940, n. 1488, ed hanno dato prova di capacità e di solerzia.

«Tale provvedimento non costituirebbe fatto nuovo perché fu già preso dopo la guerra 1915-18. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lucifero».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se non creda opportuno comprendere gli ospedali fra le aziende di pubblica utilità alle quali è concesso di avere il carbone fossile di importazione a lire 3362,40 invece che a lire 4364 la tonnellata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non creda utile e bello, dopo l’esposizione di Londra, organizzata dall’Istituto nazionale per le relazioni culturali, ad opera del prof. Lionello Venturi, dove solo 22 artisti italiani furono accolti e tutti d’una tendenza artistica, a soddisfazione dei molti artisti italiani di altre tendenze, misconosciuti dal fascismo e costretti a vivere in accorata solitudine, organizzare una seconda mostra, che, preparata da una Commissione eletta liberamente da tutti gli artisti, indichi che l’Italia non è povera di personalità artistiche, ma ha ricchezza di pittori, e che non una è la tendenza dell’arte pittorica, ma molte e tutte alte e nobili. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Longhena, Taddia».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, se non creda doveroso di proporre un decreto uguale a quello emanato alla fine della guerra europea, per cui il Governo si addossò l’onere dei debiti che i comuni avevano verso gli ospedali per rette di degenze accumulatesi.

«Se i bilanci economici degli Enti ospitalieri non presentano che modesti disavanzi, le difficoltà di cassa sono tali che fanno temere possa cessare ad un tratto l’assistenza loro ai malati.

Ora basterebbe che lo Stato si accollasse il pagamento delle somme arretrate dovute dai comuni fino a tutto il 1945.

«Tale aiuto rimetterebbe in sesto tutti i bilanci e sarebbe un avviamento verso la soluzione del problema ospitaliero, soluzione che sarà, credo, demandata agli studi di apposite Commissioni in seno alla Costituente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, sulla urgenza di esaminare – di fronte al ripetersi di atti aggressivi sulla strada del Bracco – la necessità di predisporre un servizio continuo di sorveglianza a mezzo di camionette lungo la strada stessa, arteria di estrema importanza nelle comunicazioni fra Torino, Genova e il Centro Meridione italiano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Faralli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della guerra, sull’azione che ha in corso o che intende di svolgere onde ottenere notizie precise sulla sorte delle tante decine di migliaia di combattenti della eroica divisione Julia e delle altre valorose unità dell’ARMIR, fatti prigionieri nella sciagurata campagna di Russia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla urgente necessità di ripristinare il ponte a chiatte sul Po tra Stellata (Ferrara) e Ficarolo (Rovigo). Questo ponte creato da un Consorzio di comuni nel 1906 venne distrutto da bombardamento aereo. Esso è necessario come mezzo di collegamento tra zone agricole fertilissime, nell’interesse locale e generale.

«Si tratta da parte dello Stato di risarcire un danno di guerra, ma soprattutto di ripristinare un servizio utile all’economia generale.

«L’interrogante chiede inoltre se il Governo consentirebbe – in subordine – l’applicazione di una tassa di pedaggio a favore di quegli enti locali che si assumessero il costo della ricostruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Umberto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga ormai necessario procedere allo scioglimento delle deputazioni provinciali costituite a suo tempo in regime di Comitato di Liberazione e non ancora volontariamente dimessesi, per ricostituirle con sano criterio democratico in base agli ultimi risultati delle elezioni politiche, dalle quali si può considerare stabilita la effettiva consistenza dei partiti. In attesa che sia approvata la nuova Costituzione e fino all’effettivo assetto degli enti locali, appare necessario che le attuali loro amministrazioni siano, per quanto possibile, diretta espressione delle correnti politiche definite e in proporzione alla loro reale consistenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mannironi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e della marina mercantile, per conoscere se il Governo intenda prendere in considerazione la categoria dei pensionati marittimi, le cui pensioni sono tuttora spesso al disotto delle 1000 lire mensili. Recentemente è stato emanato un decreto che stabilisce l’aumento del 70 per cento di tali pensioni.

«Si chiede innanzitutto che venga dato corso nel più breve tempo possibile a questo decreto, anziché lesinare gli acconti corrispondenti in piccola parte ai pur piccoli aumenti previsti dal decreto stesso; in secondo luogo che venga esaminata la possibilità di concedere almeno una indennità di caroviveri anche a questa categoria di pensionati, che comprende circa 17.000 individui in tutta Italia e che è stata più delle altre dimenticata e negletta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

 

«Taviani».

 

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Governo, per sapere se non sia opportuno intervenire per opporsi a che un Senatore decaduto ed epurato sia nominato presidente onorario di un grande istituto bancario, con manifesta violazione di quanto disposto dalla volontà rappresentante la coscienza popolare. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Jacometti, Fornara, Scarpa, Zappelli».

«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere:

  1. a) se i provvedimenti del Ministero dell’assistenza post-bellica a favore dei reduci (decreto 26 aprile 1946, Capitolo IV: istruzione e rieducazione professionale) potranno essere estesi ai disoccupati bisognosi di una specifica preparazione al lavoro;
  2. b) se le somme occorrenti, per l’applicazione di tali provvedimenti, dovranno essere stanziate, nello stato di previsione, dal Ministero dei lavori pubblici (il quale attualmente dispone del fondo per i lavori di disoccupazione) o, eventualmente, dal Ministero dell’istruzione pubblica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

 

«Titomanlio Vittoria».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20,15

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

LUNEDÌ 22 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

X.

SEDUTA Di LUNEDÌ 22 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Commemorazione:

Bibolotti                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Macrelli, Ministro senza portafoglio                                                                 

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Convocazione del Gruppo parlamentare misto:

Presidente                                                                                                        

Svolgimento di interrogazioni:

Presidente                                                                                                        

Corsi, Sottosegretario di Stato per l’interno                                                         

Nasi                                                                                                                   

De Gasperi, Presidente del Consiglio, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri     

Valiani                                                                                                             

Corsi, Sottosegretario di stato per l’interno                                                         

Martino Gaetano                                                                                           

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Pertini                                                                                                              

Togliatti                                                                                                          

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Presidente                                                                                                        

Corbino, Ministro del tesoro                                                                              

Bianchi Bianca                                                                                                

Grandi                                                                                                              

Sardiello                                                                                                         

Corsini                                                                                                              

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Chieffi, Segretario                                                                                             

La sedata comincia alle 16.30.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati Pignatari, Pella, Simonini e Castiglia.

(Sono concessi).

Commemorazione.

BIBOLOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BIBOLOTTI. Onorevoli colleghi, è ben triste per me prendere per la prima volta la parola in questa Aula, per tessere l’elogio funebre di Luigi Salvatori, già Deputato della Versilia, eletto nel 1919 nella circoscrizione Lucca – Massa Carrara, e spentosi a Pietrasanta il 20 luglio corrente.

Quando Luigi Salvatori venne eletto dalle masse lavoratrici della Versilia e della Lunigiana, nell’altro dopo guerra, assieme allo avvocato Francesco Betti, Sindaco di Massa, che decedette nel successivo 1920, una grande speranza albergava nel cuore dei lavoratori apuani e versiliesi, nei cuori di tanti italiani, protesi verso quel gruppo di 156 deputati socialisti che dovevano incarnare la volontà di rinnovare la vita nazionale italiana.

Allora quelle speranze andarono deluse anche per le insufficienze ideologiche e per la impreparazione organizzativa del grande partito della classe operaia.

Luigi Salvatori appartenne a quel piccolo nucleo dei nuovi eletti che subito avvertì quell’insufficienza e quella impreparazione, ed al congresso socialista di Livorno aderì al nuovo partito della classe operaia, al partito comunista, al partito di Gramsci e di Togliatti; ma fin d’allora Luigi Salvatori lottò per l’unità politica della classe operaia, per il partito unico dei lavoratori.

Anche nelle successive elezioni del 1921, Luigi Salvatori raccolse il suffragio dei lavoratori nella circoscrizione Pisa  Livorno – Lucca e Massa Carrara. Ma il fascismo era da noi già tanto potente e prepotente da rendere formalmente non valida la sua elezione a Deputato.

Amato dalle masse, ma profondamente odiato dalla classe padronale, che ha nei baronetti del marmo una sottospecie particolarmente gretta e reazionaria, Luigi Salvatori fu fatto segno alle violenze ed alle persecuzioni del fascismo toscano.

Luigi Salvatori venne arrestato e deferito al Tribunale speciale nel processo al Comitato Centrale del partito comunista, coimputato di Gramsci, di Togliatti, di Scoccimarro, di Terracini e di tanti altri colleghi, ivi compreso chi vi parla. Carcerato prima, confinato poi, l’onorevole Luigi Salvatori doveva conoscere dolori e pene d’ogni genere, perché colpito anche nei suoi affetti familiari per la morte di uno dei suoi figli annegatosi in quella maliarda spiaggia viareggina, che raccolse anche le spoglie mortali del grande poeta inglese Shelley; un altro suo figlio non doveva far ritorno dalla Russia, dove il fascismo lo aveva spinto in armi con l’esercito fascista di aggressione.

Da alcuni mesi, Luigi Salvatori era costretto all’immobilità per grave paralisi, e non poteva così partecipare alla vita politica dell’Italia risorta. Tuttavia Luigi Salvatori aveva potuto precedentemente contribuire validamente alla guerra di liberazione confortando, col suo saggio ed ascoltato consiglio, quelle formazioni partigiane versiliesi ed apuane che resero impossibile la vita al nemico in quella che fu la testa tirrenica della linea gotica.

Il Comitato elettorale comunista della mia circoscrizione rinunciò con rincrescimento nel maggio scorso alla candidatura di Luigi Salvatori, la cui elezione era da ritenersi sicura. Si è che il partito comunista non volle sfruttare la immensa popolarità del Salvatori, sapendolo irrimediabilmente ammalato e destinato a prossima morte. Il contributo di Luigi Salvatori ai lavori della nostra Assemblea Costituente sarebbe stato certamente notevole, data la sua vasta cultura, i profondi legami con le masse e la sua non comune esperienza.

Luigi Salvatori era un penalista insigne, un letterato, un poeta, un oratore di classe. La sua compagnia, la sua conversazione, la sua prosa furon ricercate ed apprezzate da quanti ne ebbero conoscenza. In chiunque ebbe la ventura di avvicinarlo egli lasciò un ricordo incancellabile di uomo superiore.

Oggi le bandiere dei partiti della classe operaia, le bandiere di tutti i sodalizi dei lavoratori della Versilia, della Lunigiana e della Garfagnana sono abbrunate. Oggi in ogni casa di lavoratori, a Carrara come a Viareggio, a Massa come a Pietrasanta, a Forte dei Marmi come a Serravezza, ovunque vive un figlio del popolo di quelle contrade che sono tra le più duramente e crudelmente colpite dalla guerra, che sono oggi fra le più miserabili, esse che furono tanto ricche e che tanto dettero alla ricchezza nazionale durante decenni e decenni, oggi in quelle case senza tetto, senza masserizie e senza pane, si piange nuovamente e si pensa che Luigi Salvatori, vivo e forte, avrebbe tenacemente difeso gli interessi del popolo lavoratore.

Sia permesso a me suo conterraneo, suo allievo, suo fratello di lotta, succedutogli nel mandato parlamentare quale deputato comunista di quelle terre tanto belle quanto infelici, sia permesso a me che Luigi Salvatori seguii ed amai giovanetto, di esprimere anche a nome vostro, onorevoli colleghi, oltre che a nome dei deputati comunisti e socialisti, il cordoglio della prima Assemblea Costituente italiana.

Ai compagni comunisti e socialisti, alla famiglia, al popolo tutto della Versilia e della Lunigiana, il mio commosso reverente saluto da questa sovrana Assemblea depositaria della volontà repubblicana di tutto il popolo italiano. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Sono certo di interpretare i sentimenti unanimi di questa Assemblea associandomi alle parole pronunciate dall’onorevole Bibolotti in memoria dell’onorevole Luigi Salvatori.

MACRELLI, Ministro senza portafoglio. Il Governo si associa.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in risposta al telegramma, col quale la informavo dell’omaggio reso dall’Assemblea Costituente a Cesare Battisti, la vedova del Martire mi ha inviato da Trento la seguente lettera:

«L’omaggio reso alla memoria di Cesare Battisti è esaltazione dei principî soli per cui il mondo si riaffacci alla Giustizia e la Patria risorga a Libertà. Che l’omaggio sia reso nella prima Assemblea repubblicana italiana, a cui è affidato il compito di ridare struttura e spirito alla Patria; e che la rievocazione del Martire sia fatta dalla voce di un compagno di ideali sociali fra il plauso del Governo e il consenso unanime dei Deputati, appare solennità simbolica di speranza e di fede. La partecipazione ha invaso il mio animo di commozione profonda.

«Rendo le espressioni della più viva riconoscenza.

«Ernesta Ved. Battisti».

(Vivi applausi).

Convocazione del Gruppo parlamentare misto.

PRESIDENTE. Il Gruppo parlamentare misto che era stato convocato per questa mattina alle ore 10, non ha potuto procedere alla propria costituzione per l’assenza della quasi totalità dei suoi componenti.

Esso è, pertanto, convocato nuovamente per domani alle ore 10. Poiché tale costituzione deve permettere al Gruppo stesso di partecipare all’attività interna dell’Assemblea, prego gli onorevoli colleghi che ne fanno parte, di evitare che questa seconda convocazione vada deserta.

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni. La prima è quella dell’onorevole Tonetti al Ministro dell’interno, «per conoscere quali urgenti provvedimenti intenda prendere per evitare il ripetersi dei gravi incidenti provocati da elementi fascisti giuliani e dalmatici, culminati nel proditorio attacco della sera del 25 giugno corrente anno al Centro Raccolta Profughi nel «Marco Foscarini» di Venezia, durante il quale il partigiano Filippo Monteleone, col distintivo di decorato al valore, con quattro anni di campagna, più volte ferito, fu sanguinosamente malmenato da elementi fascisti residenti nel medesimo Centro. Il Comitato Provinciale di Venezia dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ha fatto presente che, ove non si provveda d’urgenza contro i responsabili, è fermamente deciso a por termine con qualsiasi mezzo a simili provocazioni. Ad evitare incresciosi disordini, che ridonderebbero a grave danno per il Paese, in genere, e per quella zona in ispecie, soprattutto in questo delicato momento della vita nazionale, l’interrogante invoca esemplare punizione dei colpevoli e misure adeguate per tutelare i combattenti per la libertà».

Non essendo presente l’onorevole Tonetti, l’interrogazione si intende decaduta.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Nasi al Ministro dell’interno, «per sapere: a) se è vera la notizia, pubblicata dai giornali, che il Prefetto di Milano abbia disposto l’aumento a 300 grammi del pane per quella provincia; b) se ritenga tale decisione tempestiva mentre il Governo sta studiando la possibilità di aumentare il pane a 250 grammi per tutta l’Italia; c) se non ritenga, altresì, tale provvedimento inopportuno, traducendosi in una sperequazione di trattamento specialmente grave verso il Mezzogiorno; d) se non siano, infine, anche per ragioni politiche, da regolare i poteri dei Prefetti in tale materia».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CORSI, Sottosegretario di Stato per lo interno. È esatto che il Prefetto di Milano qualche giorno prima di quello in cui il Governo decise di aumentare la razione del pane a 250 grammi, pressato da contingenze di particolare rilievo fu costretto ad aumentare la razione del pane a 300 grammi. Ma questa autorizzazione fu immediatamente revocata e attualmente a Milano il pane si distribuisce secondo la razione unica nazionale.

È stato già fatto presente ai Prefetti che iniziative del genere esulano dalla loro competenza e che devono conformarsi alle disposizioni che vigono in tutto lo Stato.

PRESIDENTE. L’onorevole Nasi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

NASI. Mi dichiaro in parte soddisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario di Stato, perché egli non ci ha detto per quale ragione il Prefetto di Milano fu costretto ad aumentare il pane, mentre il Governo stava studiando la razione eguale per tutti gli italiani, e mentre lo stesso Prefetto distribuiva oltre che 300 grammi di pane, zucchero e caffè alla popolazione.

La preoccupazione maggiore che mi ha indotto a presentare l’interrogazione era costituita dall’impressione deleteria che hanno questi provvedimenti presi parzialmente, specialmente verso le popolazioni del Mezzogiorno, le quali sono in uno stato d’animo speciale che la Camera conosce, e che non possono sopportare forme di provvedimenti, i quali, anche se giusti, debbono davanti a queste popolazioni apparire soprattutto giusti.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Valiani, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere la sua opinione sulle misure che si possono e si debbono prendere per rafforzare la compattezza politica democratica degli italiani di Trieste, i quali debbono esser messi in grado di poter sempre far prevalere il carattere italiano della loro terra».

L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di rispondere.

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Ho fatto appello, nel discorso programmatico governativo, alla unità degli italiani a Trieste, perché dovevo supporre che di fronte a proposte concrete che dividono il territorio della Venezia Giulia in una parte ridata all’Italia, in un’altra parte riservata ad una soluzione internazionale ed in un’altra parte ancora riservata alla Jugoslavia, potessero sorgere discordie fra i rappresentanti di quella regione. Ho fatto appello a questa unità.

Si è risposto a questo appello, inviando delle delegazioni a Roma, con le quali ho potuto avere uno scambio di idee che mi ha dimostrato l’unità sostanziale dei rappresentanti, per quanto non eletti, designati dai partiti della Venezia Giulia.

La deputazione nominata attorno allo avvocato Puecher è rappresentata direttamente a Parigi nelle trattative. Altre delegazioni potranno far parte, e dovranno far parte, della delegazione definitiva per il trattato di pace.

Io credo che il Governo farà ogni sforzo per dare a tutte le correnti diverse una rappresentanza equa. In quanto agli organi che devono democraticamente ricostituire la compattezza degli italiani di Trieste, abbiamo avuto finora il Comitato di liberazione nazionale, il quale fa degli sforzi per conciliare tutte le correnti e avere anche contatti diretti con le forze del lavoro.

Io mi auguro che riesca ad avere una tale rappresentanza unitaria che possa veramente, di fronte all’estero e di fronte all’interno, al resto del Paese, rappresentare l’unità democratica della città.

Sarò, del resto, grato all’interrogante e ad altri suoi amici se vorranno, in proposito, darmi dei suggerimenti, secondo i quali il Governo possa favorire questa compattezza.

PRESIDENTE. L’onorevole Valiani ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

VALIANI. A nome dei giuliani, ringrazio l’onorevole De Gasperi per le sue dichiarazioni.

La situazione degli italiani della Venezia Giulia è grave, per le ragioni che conoscete. Ottimamente fa il Governo a sostenere, a difendere ad oltranza a Parigi la causa dell’italianità di Trieste e delle altre zone. Ma questa causa va difesa energicamente a Trieste stessa. È vero quello che l’onorevole De Gasperi dice, cioè che il Comitato di liberazione nazionale triestino, e il Comitato di liberazione nazionale delle altre città italiane della Venezia Giulia hanno fatto e fanno tutto quello che possono. Però si trovano in una situazione difficile. Desiderano un maggiore appoggio morale e materiale dal Governo italiano e dalla nazione italiana tutta intera. Non hanno i mezzi, finora non ne hanno avuti sufficienti per resistere alla propaganda jugoslava, che invece è fornita di mezzi infinitamente maggiori.

C’è il caso doloroso dei lavoratori di Trieste, e non soltanto di Trieste, ma anche di città che, anche secondo le inique decisioni di Parigi, restano all’Italia, come Monfalcone. Essi si sono trovati e si trovano privi dei salari per i 15 giorni dello sciopero che fu loro imposto, mentre coloro che fanno parte delle organizzazioni della Camera del lavoro, dominata e diretta dai Sindacati unici, hanno i sussidi per le mancate giornate di lavoro. I lavoratori italiani che fanno parte della Camera del lavoro italiana non hanno nessuno che paghi loro i salari per le giornate (sono 14, mi pare) perdute per uno sciopero che non era il loro. Ora, questi lavoratori chiedono un aiuto finanziario oltre che un aiuto morale. Sono molto sensibili all’aiuto morale che già viene loro e verrà loro dalla Confederazione del lavoro con la sospensione del lavoro decisa per il 29 luglio; desiderano però che questo aiuto venga esteso anche al campo finanziario e materiale. Questo per quanto concerne la classe operaia italiana di Trieste; ma non c’è soltanto la classe operaia, c’è anche la questione dei profughi che affluiscono in numero sensibile a Trieste e che chiedono aiuti e sussidi.

Onorevoli colleghi, noi siamo tutti decisi a combattere con tutte le armi della ragione per l’italianità di Trieste e della Venezia Giulia; però purtroppo bisogna dire che la sottoscrizione nazionale per la Venezia Giulia non ha dato finora, nemmeno lontanamente, i risultati che noi attendevamo. Io chiedo perciò (e ringrazio il Governo della sua buona intenzione) che si dia tutto l’aiuto materiale possibile, oltre che morale, agli italiani della Venezia Giulia e che il Governo si rivolga alla pubblica opinione affinché la sottoscrizione per la Venezia Giulia dia quei risultati che deve dare.

C’è poi il problema della unità politica: io so che il Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia ha preso l’iniziativa per avere nel suo seno i rappresentanti di tutti gli interessi. I nostri compatrioti di Trieste si preoccupano di avere un fronte democratico larghissimo.

Spero che essi in questa loro azione troveranno ogni appoggio possibile. Vi sono molti problemi che noi dobbiamo tenere presenti. Una parte della classe operaia triestina è sensibilissima alla questione del problema sociale; essa sarà guadagnata alla causa dell’italianità in rapporto anche alle misure con le quali noi sapremo dimostrare che l’Italia democratica non ha più nulla di reazionario e che, anzi, tutti i lavoratori della Venezia Giulia saranno da noi tutelati meglio che da coloro che fanno loro tante promesse e che effettivamente non potranno realizzarle. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Martino Gaetano al Ministro dell’interno «per conoscere quali provvedimenti eccezionali intenda adottare, al fine di combattere l’impressionante dilagare del banditismo in Sicilia».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CORSI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il grave e doloroso problema del banditismo in Sicilia è stato oggetto di particolare considerazione da parte del Ministero dell’interno ed alla sua soluzione è stata dedicata ogni cura nei limiti dei mezzi disponibili.

Al fine di eliminare qualsiasi ritardo di natura burocratica ed ogni interferenza del genere, e per una rapida lotta, è stata promossa l’istituzione di un Ispettore generale di pubblica sicurezza per la Sicilia col compito di integrare ed affiancare l’azione della polizia e degli organi locali. I mezzi e le armi a disposizione delle forze dell’Isola fin dal gennaio di quest’anno rappresentavano il dislocamento massimo che era consentito nel quadro generale della situazione; e, comunque, erano già superiori di gran lunga alle forze di polizia destinate in altre regioni, le quali pure avevano esigenze non meno impellenti. L’azione di questo complesso di forze è stata abbastanza soddisfacente ed il largo numero degli arresti operati sta ad attestarlo; molti delinquenti pericolosissimi sono stati infatti assicurati alla giustizia.

D’altra parte non si può disconoscere una sensibile attuale recrudescenza di delitti nelle provincie siciliane e questo aggravarsi della situazione è forse conseguenza della distrazione delle forze di polizia che si è dovuta operare durante il periodo elettorale: dal marzo ai primi di giugno di questo anno è stato necessario distrarre notevoli reparti per quei servizi che hanno assicurato la regolarità delle operazioni elettorali. Ma, appena la situazione del Paese lo ha consentito, altre forze cospicue sono state destinate al fine di reprimere il banditismo in Sicilia e 3 mila carabinieri vi sono stati inviati.

Ora, con tali rilevanti apporti, è da augurarsi che una rapida e intensa azione di repressione possa essere compiuta. Essa sarà accompagnata da una energica opera preventiva, vale a dire da misure di sicurezza che la recente legislazione consente per eliminare individui pericolosi.

Voglio anche rilevare, a proposito della necessità di eccezionali provvedimenti, che, nei casi previsti dalla legge, le gravi forme di rapina di cui all’articolo 1° del decreto luogotenenziale 10 marzo 1945, n. 234, vanno giudicate dai tribunali militari straordinari, in maniera da assicurare una giustizia pronta ed esemplare.

PRESIDENTE. L’onorevole Martino Gaetano ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MARTINO GAETANO. Ringraziò l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno delle sue dichiarazioni e sono lieto che il Governo abbia considerato con tanta attenzione questo gravissimo problema nostro, problema che, in sostanza, è esistito sempre in Sicilia, ma non è mai esistito nella forma attuale.

La mia interrogazione parla di «provvedimenti eccezionali», perché io penso che la situazione sia davvero eccezionale.

Sono lieto che il Governo, con i mezzi a sua disposizione ed in base alla legislazione attuale, abbia pensato già a provvedere a questo gravissimo inconveniente. Vorrei tuttavia permettermi di suggerire di esaminare eventualmente l’opportunità dell’adozione di leggi speciali, di misure eccezionali analoghe – se necessario – a quelle che furono usate, per esempio, allo scopo di combattere la mafia all’epoca del prefetto Mori. (Commenti).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Pertini al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, « per sapere se s’intende: 1°) prendere urgenti provvedimenti, onde impedire che il recente decreto di amnistia emanato il 22 giugno 1946, il quale per la sua assurda larghezza non ha precedenti nella storia né del nostro, né degli altri Paesi, sia dai competenti organi della Magistratura interpretato in modo così lato da rimettere in libertà e da reintegrare nei beni già confiscati anche i veri responsabili della presente tragica situazione, in cui versa il nostro Paese, offendendo in tal modo la sensibilità di quanti per la guerra e per il fascismo hanno tanto sofferto e suscitando, quindi, sdegni e risentimenti che non varranno a portare nel nostro popolo quella pacificazione, che dovrebbe essere lo scopo primo dell’amnistia in parola; 2°) provvedere perché venga veramente applicato il decreto 6 gennaio 1944, n. 9, affinché siano riassunti senza ritardo in servizio e reintegrati in tutti i loro diritti di carriera gli antifascisti, che sotto il fascismo e per motivi politici furono dispensati o licenziati dal servizio e che ancora oggi si trovano disoccupati, mentre si vedono fascisti resisi a suo tempo colpevoli di gravi infrazioni in danno della Nazione rioccupare i loro posti e riscuotere non solo gli arretrati per il servizio non prestato ma, cosa più assurda, anche il premio di liberazione; 3°) emanare provvedimenti legislativi atti a seriamente difendere la Repubblica contro tutti i suoi nemici».

Il Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Instaurata la Repubblica, non si volle venir meno alla tradizione di emanare un atto di clemenza e ciò pienamente giustifica l’amnistia quanto ai reati comuni. Quanto ai reati politici si pensò che la Repubblica, che era nata appunto dalla ferma volontà unitaria della maggioranza degli italiani, dovesse procedere ad un atto di pacificazione ed appunto a questo fine fu emanata l’amnistia del giugno.

Chiede l’interrogante che il Ministero voglia emanare delle norme interpretative perché, nell’applicazione dell’amnistia, non si cada in esagerazioni che possano suscitare legittime reazioni.

Non si contesta che nell’applicazione dell’amnistia si possa essere incorsi in errore da parte dei magistrati (Commenti); comunque non può il Governo emanare norme interpretative, in quanto l’ufficio di interpretare la legge è appunto demandato alla magistratura, ed il Governo esplicherebbe quindi una illecita ingerenza (Commenti).

È chiaro che l’atto di pacificazione doveva avere dei limiti, in quanto il fascismo e la complice monarchia hanno lasciato agli italiani in tragico retaggio uomini e crimini verso i quali, nonché il perdono, anche l’oblio costituirebbe indubbiamente un delitto di lesa patria, una offesa tremenda, nonché ai diritti dei singoli, a tutto il popolo italiano, che è appunto la vittima maggiore e del fascismo e dell’opera disgregatrice compiuta da esso e dalla monarchia.

Ma limiti ci sono, in quanto l’articolo 3 dice appunto che il beneficio non va concesso a coloro che comunque esercitarono elevate funzioni di direzione civile o politica o di comando militare. Questo per la qualità subiettiva di coloro che avrebbero dovuto beneficiare dell’amnistia e a me pare che, applicata questa eccezione, nessuno che avesse sul serio esercitalo sotto il fascismo funzioni di direzione, potrebbe usufruire dell’amnistia stessa. Quanto alla natura obiettiva dei reati è da osservare che l’articolo 3 appunto esclude dall’amnistia quei fatti in relazione dei quali si siano consumati omicidi, stragi, o che siano stati compiuti per ragioni di lucro.

È evidente che, con una interpretazione serena di queste norme, non si sarebbe dovuto affatto andare verso fatti che potessero suscitare giuste reazioni.

Vi possono essere stati errori; questi errori furono segnalati al Ministro della giustizia del tempo ed il Ministro della giustizia ritenne doveroso inviare ai procuratori generali delle circolari in proposito, perché veniva segnalato anche il fatto che, mentre con eccessiva facilità, si diceva, veniva concessa l’amnistia ai condannati o agli indiziati fascisti, invece si stentava a concederla ai condannati o agli indiziati dell’altra parte. Cosicché le circolari del Ministro della giustizia furono due: con la prima si invitavano appunto i magistrati a prendere subito in esame i fatti che potessero riguardare patrioti, partigiani, combattenti; con la seconda si richiamavano i magistrati alla retta osservanza dell’articolo 3, ossia alle cause di esclusione dal beneficio della amnistia. Ma l’onorevole interrogante fa anche cenno ai provvedimenti che dovrebbero essere presi perché tutti coloro che furono allontanati sotto il fascismo dai pubblici impieghi venissero subito riammessi. Disposizioni non mancano a questo proposito ed il Governo farà di tutto perché le varie amministrazioni ne accelerino la esecuzione. Si fa anche cenno ad un’altra questione; e per essa la interrogazione dell’onorevole Pertini va abbinata ad altre dello stesso genere dirette anche al Ministro della giustizia, ossia alle questioni degli indiziati o dei condannati che beneficiano dell’amnistia e che sono senz’altro riammessi all’ufficio che essi avevano abbandonato.

La legge dispone che soltanto coloro che siano sottoposti a procedimento penale vengano sospesi dall’ufficio o dall’impiego fino alla definizione del processo penale stesso. Evidentemente si può – ed io penso che il Governo ne abbia il proposito – disciplinare anche in maniera diversa questa materia, affinché si eviti appunto qualche riammissione in servizio che può, ripeto, suscitare delle legittime reazioni. Ma si ponga mente anche a questo, che si tratta cioè di amnistia, ossia di un beneficio di cui ha potuto avvantaggiarsi non soltanto il condannato, ma anche il semplice imputato, ossia colui che può uscire anche completamente indenne da un eventuale giudizio. Si tenga anche presente poi che per i condannati che beneficiano dell’amnistia vi è l’obbligo della denuncia degli stessi per il procedimento disciplinare. E quante volte nel procedimento disciplinare si accertano fatti su cui ha inciso l’amnistia, l’accertamento porta senz’altro all’allontanamento dell’impiegato o del funzionario dal pubblico ufficio. Si cercherà, in ogni modo, di accelerare questi procedimenti e ottenere che coloro che sono colpevoli ed hanno usufruito dell’amnistia vengano senz’altro allontanati dal pubblico impiego, in modo che non abbiano a ripetersi i fatti segnalati e lamentati dall’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole Pertini ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PERTINI. Mi duole, ma non posso dichiararmi soddisfatto della risposta datami dall’onorevole Ministro della giustizia. Con mia grande sorpresa ho sentito dall’onorevole Ministro della giustizia che il Governo non può emanare norme interpretative di una legge. Il Governo non le può emanare in quanto potere esecutivo, ma siccome il Governo che ha emanato il decreto d’amnistia, come l’attuale Governo, aveva anche il potere legislativo, aveva la possibilità di emanare norme interpretative. Richiamo alla mente dell’onorevole Ministro della giustizia gli studi che egli ha fatto per diventare avvocato. (Si ride).

Egli ricorderà che, oltre all’interpretazione di carattere analogico e letterale, vi è anche una cosiddetta interpretazione di carattere autentico. Quando si ha, onorevole Ministro della giustizia, questa interpretazione autentica? Si ha quando il legislatore con un provvedimento di legge interpreta se stesso. Noi siamo contrari ad ogni intervento del potere esecutivo sul potere giudiziario; quindi siamo contrari all’emanazione di circolari da parte del Ministero della giustizia per interpretare la legge. (Applausi). Questo sì che è contro la legge! Questa è un’interferenza del potere esecutivo sul potere giudiziario. Invece il Governo, in quanto aveva il potere legislativo, quando si avvide (e noi sappiamo che si avvide in tempo) che l’articolo 3 veniva interpretato in modo troppo lato e, l’ha d’etto oggi l’onorevole Ministro, in modo anche errato, aveva il dovere di intervenire immediatamente con provvedimento legislativo interpretativo, onde ovviare a questi errori e ad interpretazioni di carattere troppo lato.

L’articolo 3 del decreto in parola dice: «È concessa amnistia per i delitti ecc., salvo che siano stati compiuti da persone rivestite di elevate funzioni e di direzione civile o politica o di comando militare, ovvero siano stati commessi fatti di stragi, sevizie particolarmente efferate ecc.».

Balza agli occhi di chiunque, onorevole Ministro della giustizia, che la distinzione fra chi ha rivestito cariche di elevata o non elevata funzione e chi ha commesso sevizie di particolare efferatezza, o non di particolare efferatezza, può variare da giudice a giudice, perché si presta ad un apprezzamento di carattere soggettivo, specialmente nella cosiddetta amnistia propria, cioè quando questa viene applicata prima ancora che il giudizio sia celebrato e sia stata pronunciata una vera e propria sentenza. Difatti, attraverso queste maglie del decreto di amnistia, noi abbiamo visto uscire non soltanto coloro che dell’amnistia erano meritevoli, cioè coloro che avevano commesso reati politici di lieve importanza, ma anche gerarchi: Sansanelli, Suvich, Pala; abbiamo visto uscire propagandisti e giornalisti, che si chiamano Giovanni Ansaldo, Spampanato, Amicucci, Concetto Pettinato, Gray. Costoro, per noi, sono più responsabili di quei giovani che, cresciuti e nati nel clima politico pestifero creato da questi propagandisti, si sono arruolati nelle brigate nere ed in lotta aperta hanno affrontato i partigiani e ne hanno anche uccisi. (Applausi).

Questi giornalisti e questi propagandisti che dalla radio e sui giornali hanno cercato di trasformare in fanatica convinzione nell’animo di questi giovani italiani tutte le determinazioni, tutti i provvedimenti pazzeschi e criminosi del fascismo, sono più responsabili di chi rivestiva un vero e proprio ufficiale incarico gerarchico. Attraverso queste maglie abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi con i tedeschi, che hanno violentato donne colpevoli solo di avere assistito dei partigiani.

Guai, onorevole Ministro della giustizia, se per confermare quello che dico, dovessi dare lettura di tutte le proteste che giungono dalla provincia! A Bassano del Grappa hanno visto rientrare coloro che avevano incendiato i paesi vicini. A Carrara hanno visto rientrare coloro che avevano incendiato Vinca e Bergiula. Altrettanto si dica per la Spezia, dove hanno visto rientrare coloro che avevano incendiato i paesi che circondano il Golfo della Spezia. Attraverso queste maglie, abbiamo visto uscire anche dei seviziatori. Il giudice che li ha scarcerati ha ritenuto, nel suo apprezzamento soggettivo, che non si trattasse di sevizie efferate; ma andatelo a chiedere a coloro che sono stati seviziati, se le sevizie patite erano o no efferate.

Abbiamo visto uscire una parte della banda Koch, la Marchi, la Rivera, Bernasconi. Onorevole Presidente di questa Assemblea, il nome di Bernasconi deve ricordarvi qualche cosa: il nostro arresto e la nostra consegna ai tedeschi, e se non siamo stati fucilati non è stato per volontà del Bernasconi, ma per intervento dei patrioti di Roma, che ci fecero evadere da Regina Coeli. Tutti sanno come ha operato questa banda a Roma, poi a Firenze e quindi a Milano. Io sono stato, durante il periodo cospirativo e durante l’insurrezione, a Firenze. Questa banda consumava i suoi reati e le sue sevizie a Villa Triste. Basta andare a Firenze e pronunciare questo nome per vedere il volto di centinaia di donne, spose, madri, coprirsi di orrore. Ebbene, in virtù dell’amnistia sono usciti una parte dei complici della banda Koch ed oggi sono in piena libertà.

Naturalmente, oltre all’uscita di tutti costoro, che per noi sono dei veri criminali e dei responsabili diretti dell’attuale situazione, abbiamo visto anche uscire molti fascisti i quali devono essere considerati dei complici necessari di quanto ha fatto il fascismo.

E vi è di più: l’articolo 3 dichiara amnistiati anche quei reati comuni, che sono connessi con reati di indole politica; di modo che si è verificata, come si verifica, questa incongruenza. Chi durante un rastrellamento ha compiuto un reato comune, solo perché è amnistiato per il rastrellamento, reato di indole politica, viene amnistiato anche per il reato comune.

Sicché, un partigiano, che subito dopo la guerra di liberazione ha commesso quello stesso reato comune – e l’ha commesso in quello stato d’animo che crea sempre la guerra ed ha creato anche la guerra di liberazione – egli rimane in carcere, perché il suo reato non viene amnistiato.

Quell’impiegato, che per vent’anni ha condotto vita onesta e non ha mai commesso atti di disonestà – ricordo la figura di Demetrio Pianelli – e che, trovandosi di fronte alla tragica situazione del Paese e della sua famiglia, si è visto costretto a vendere quanto di più caro aveva per non vedere morire di fame le sue creature ed ha commesso un reato di peculato; egli deve rimanere in carcere, mentre quel funzionario, che collaborando coi tedeschi e facendo il delatore ha commesso lo stesso reato, soltanto perché il reato principale è reato di indole politica ed il reato comune è stato commesso nell’occasione di questo, è scarcerato.

Evidentemente, tutto questo non vale, onorevole Ministro della giustizia, a portare la pacificazione nel nostro Paese. Così si è verificato quello che il Ministro della giustizia del tempo aveva previsto, quando scriveva questo nella sua relazione:

«Un disconoscimento di questa esigenza, anziché contribuire alla pacificazione, contribuirebbe a rinfocolare odi e rancori, con conseguenze certamente per tutti incresciose».

Ed è quello che si è precisamente verificato. Tanto più che costoro, onorevole Ministro della giustizia, non hanno considerato il decreto di amnistia come un atto di clemenza; cioè non hanno dimostrato comprensione verso questo nostro atto di perdono, ma l’hanno considerato e considerano come un atto di debolezza, come un atto di resipiscenza; essi pensano, onorevole Ministro della, giustizia – perché questa è la realtà, che è confermata nei reclami che abbiamo ricevuti – che noi antifascisti ci siamo ravveduti, che siamo noi ad avere commesso un errore e che essi sono nel vero.

Questi signori, rilasciati dalle carceri, rientrano nei loro paesi e vi rientrano arroganti, manifestando il loro antico animo e propositi di rivincita e di vendetta.

Mi scriveva un amico che in un paese vicino a Verona, due di costoro, che avevano a suo tempo cooperato all’incendio di villaggi vicini, sono rientrati arroganti, si sono fermati dinanzi ad una lapide che ricorda la caduta di partigiani, ed hanno sghignazzato.

Questo è l’animo che dimostrano costoro, che hanno beneficiato dell’atto di clemenza.

Vi è di più, onorevole Ministro. Costoro rientrano e rioccupano i posti, che avevano prima di andare in carcere; non solo, ma vogliono – ed hanno ragione, secondo il decreto di amnistia, perché l’amnistia estingue il reato e ne fa cessare tutte le conseguenze – vogliono incassare anche le indennità.

Vi è un caso in queste proteste: quello di un fascista, il quale vuole che gli siano liquidate – ed ha ragione secondo l’atto di clemenza – ben 200 mila lire.

Questo si verifica quando ancora vi sono degli antifascisti i quali non vedono accolta la loro domanda di riassunzione e di ricostruzione della loro carriera in base al decreto del 6 gennaio 1944.

È vero che si sono create delle commissioni paritetiche per i ferrovieri e per i postelegrafonici, commissioni che anzi dovrebbero essere create per tutti i settori dell’amministrazione statale, ma esse non funzionano, o per lo meno il loro procedere è molto lento, prima di venire a qualche decisione utile.

Sicché è ancora disoccupata una grande quantità di antifascisti, specialmente fra i postelegrafonici ed i ferrovieri. I ferrovieri, che sono stati all’avanguardia della lotta dell’antifascismo, hanno visto vuotare le loro file con la formula dello scarso rendimento: centinaia e centinaia di essi sono disoccupati.

Noi chiediamo quindi, e saremo qui a vigilare, che le promesse non rimangano allo stato di promessa, ma si concretino in fatti e che il decreto del 6 gennaio 1944 sia senza ritardo applicato nei confronti di tutti gli impiegati statali e parastatali. Bisogna tener presente la situazione di coloro che hanno partecipato agli scioperi del 1922 e del 1921. Quello del 1921 che si ebbe nel compartimento ferroviario di Firenze fu a scopo di protesta contro l’assassinio di Lavagnini, Segretario del Sindacato ferrovieri.

Né va dimenticata la sorte di quegli insegnanti che nel 1925 firmarono una dichiarazione di protesta per l’assassinio di Matteotti. Molti di costoro non erano allora in ruolo e non sono quindi stati riassunti; mentre i loro compagni, che quella dichiarazione non hanno firmato ed hanno fatto atto di sottomissione al fascismo, oggi rimangono ai loro posti.

Vi è anche la situazione di quegli ufficiali e impiegati che sotto il governo repubblichino hanno dato le dimissioni per non andare al Nord e non assoggettarsi al governo fascista. Costoro non possono essere riassunti, nonostante la domanda che all’uopo hanno presentata.

Tutto questo ci preoccupa. Ricordiamo che l’epurazione è mancata: si disse che si doveva colpire in alto e non in basso, ma praticamente non si è colpito né in alto, né in basso. Vediamo ora lo spettacolo di questa amnistia che raggiunge lo scopo contrario a quello per cui era stata emanata: pensiamo, quindi, che verrà giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo e costituirà colpa essere stati in carcere ed al confino per questo.

Non si è risposto alla terza parte della mia interrogazione, strettamente connessa alle altre due.

Osservo che sarebbe vano il recriminare se non traessimo un insegnamento dagli errori compiuti.

Avremmo dovuto servirci dell’istituto della grazia ed applicarlo caso per caso; avremmo dovuto stabilire la condizione che il beneficiario del condono, qualora compisse entro cinque anni un nuovo reato, dovrebbe non solo rispondere di questo, ma subire anche la revoca del beneficio ottenuto.

Comunque, dobbiamo trarre insegnamento dagli errori commessi per evitarli domani. Pertanto riteniamo che ogni provvedimento legislativo – come già è stato detto qui da un insigne giurista – non dovrebbe essere emanato dal potere esecutivo, ma essere soltanto l’espressione della volontà popolare. Al di sopra di questa non vi sono altri poteri e altre volontà.

Quindi ogni provvedimento legislativo deve essere vagliato, discusso, nell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, e soltanto da questa Assemblea emanato. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Concluda, onorevole Pertini.

PERTINI. Mi conceda ancora un minuto. Voglio accennare alla situazione di carattere obiettivo creata da questa amnistia. Con essa sono usciti dalle carceri dei veri criminali tetragoni ad ogni pentimento, e che hanno ancora l’animo che avevano sotto il fascismo.

Costoro sono per noi dei veri nemici della Repubblica. Sappiamo benissimo che la Repubblica non può e non deve imporsi con la violenza e coi tribunali speciali, come ha fatto il fascismo; ma la Repubblica si imporrà anche a coloro che hanno votato per la monarchia quando realizzerà se stessa, cioè quando darà vita a quelle riforme di carattere sociale ed economico che faranno apparire la Repubblica come l’espressione degli interessi e delle aspirazioni del popolo italiano. Ma perché la Repubblica possa dar vita a queste riforme bisogna che non sia insidiata nella sua esistenza. Noi vogliamo essere indulgenti verso tutti coloro che, nemici ieri, si dimostrano ravveduti oggi e vogliono operare nella legalità repubblicana, ma dobbiamo essere inesorabili e implacabili contro tutti coloro che tentassero di violare l’ordine repubblicano. (Vivi applausi a sinistra).

Noi non dobbiamo attendere che da questa situazione derivino conseguenze irreparabili, ma nostro dovere è quello di prevenire le cause che potrebbero dar vita a queste conseguenze.

Si crei quindi una legge che consenta al potere esecutivo di allontanare dalla società, per un determinato tempo, coloro che tentassero di violare la legalità repubblicana. Solo in questo modo noi potremo apprestarci ad assolvere il compito che ci è stato affidato dal popolo italiano; solo in questo modo noi potremo veramente dare solide fondamenta alla nascente Repubblica democratica italiana. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, a termini dell’articolo 80 del Regolamento, l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, essendo stato Ministro Guardasigilli nel Governo che ha emanato il provvedimento di amnistia che è stato posto in discussione, ho avuto una parte di primo piano nella elaborazione, nella presentazione e nella approvazione di questo decreto. Ciò mi autorizza, credo, a intervenire nel dibattito che a proposito di esso è stato sollevato.

Condivido le espressioni di dolore e vorrei dire anche di sdegno, con le quali l’onorevole Pertini ha commentato alcuni aspetti dell’applicazione dell’amnistia, sottolineando determinati stati d’animo, suscitati nel popolo da questi aspetti.

Desidero, d’altra parte, ricordare alcune cose e la prima è che era unanime il desiderio di un atto di clemenza, di maggiore o minore larghezza, il quale intervenisse nel momento in cui si creava in Italia uno Stato repubblicano, nel momento in cui la Repubblica cominciava la propria esistenza come regime di tutti gli italiani. Questa esigenza era stata avanzata, credo, da tutti i partiti, non esclusi i partiti dell’estrema sinistra, e da tutti gli strati dell’opinione pubblica, con maggiore o minore insistenza.

Il Governo non poteva non aderire a questa richiesta, non poteva non far propria questa esigenza, e il fatto che il Governo l’abbia fatta propria, – l’onorevole Presidente del Consiglio mi permetterà di parlare in questo modo benché non faccia parte del Governo, ma allora ero Ministro – credo sia stata una manifestazione di forza e non di debolezza del regime repubblicano. Abbiamo guardato in faccia alla realtà; abbiamo compreso che vi era una grande parte dell’opinione pubblica, soprattutto degli strati medi della popolazione, la quale ci chiedeva un atto di clemenza, e lo abbiamo concesso, pur rendendoci conto che, per quanto bene formulassimo la legge di amnistia, mai avremmo potuto formularla in modo tale che aderisse perfettamente, come il regolo elastico di Aristotile, alla superficie scabra della realtà. Pur rendendoci conto di tutto questo, abbiamo pensato che la Repubblica era così forte, per la vittoria conquistata con la consultazione del 2 giugno, e così forte ormai il regime democratico nel cuore di tutti gli italiani, che si poteva fare quello che abbiamo fatto.

Tutti i partiti, del resto, furono d’accordo nel concedere questo atto di clemenza, pure essendovi state discussioni circa il modo come si dovesse formulare il relativo decreto.

Riguardo alle circolari interpretative, noi ci trovavamo di fronte alla necessità di dare un’amnistia non indifferenziata; dovevamo fare una distinzione tra alcuni delitti politici e gli altri. Trovammo una formula che è quella che è stata citata dall’onorevole Pertini, la quale esclude dall’amnistia prima di tutto coloro che hanno avuto elevate cariche di responsabilità civile e politica, o comandi militari e coloro i quali hanno commesso reati particolarmente gravi ed a scopo di lucro.

COSATTINI. Perché «particolarmente»?

MAZZONI. «Particolarmente» inoltre è soggettivismo: di fronte ad un «particolarmente» che cosa fa un disgraziato giudice?

TOGLIATTI. Mi permetta l’onorevole Mazzoni: i reati da noi considerati particolarmente gravi sono indicati nel testo di legge. Inoltre, la regola della connessione, che qui è stata citata dall’onorevole Pertini, è stata ricordata un quel decreto, non allo scopo di escludere dalla sanzione particolari delitti, ma allo scopo di includerli, cioè allo scopo di colpire… (Interruzione dell’onorevole Cosattini) …reati anche meno gravi commessi in connessione con i reati più gravi a cui l’amnistia non si applica. (Interruzioni).

D’altra parte, tutti i decreti di amnistia che abbiamo fatto finora – e ne abbiamo fatto due altri – di carattere politico, sono informati allo stesso criterio; anzi uno fu emanato da uno dei Governi che precedettero la liberazione di Roma. Anche in quel decreto, che è del 1944, si introduce un criterio di differenziazione politica generica; e altrettanto si può dire di un decreto successivo, fatto per discriminare gli atti commessi in violazione di determinate leggi dai partigiani. Se non si segue questa norma, che in tali casi diventa inevitabile, non si ha più un decreto di amnistia, ma una casistica; non si ha più, cioè, un provvedimento di carattere politico.

Questo rendeva necessario, – ho constatato che vi è stata in questo senso una pratica costante di tutti i Guardasigilli – da parte del Guardasigilli stesso di interpretare le disposizioni della legge, ciò che io feci in parte nella relazione e in parte con istruzioni inviate ai Procuratori generali della Repubblica, servendomi della facoltà di vigilanza sulle Procure generali che è prevista dalla legge.

Secondo le informazioni che possedevo nel momento in cui ho lasciato il Ministero di grazia e giustizia, su 13 mila procedure circa aperte o condanne, vi sono state circa 2500-3000 scarcerazioni.

Questi sono i fatti. Per concludere ritengo, nonostante vi siano stati quegli episodi dolorosi cui si è accennato, e verso i quali la mia posizione è analoga a quella dell’onorevole Pertini, che il decreto di amnistia doveva ad ogni modo essere emanato e difficile sarebbe stato a qualsiasi Governo fare un atto di amnistia che non desse luogo a determinati errori.

Quello in cui sono pienamente d’accordo con l’onorevole Pertini e su cui credo saremo d’accordo tutti in questa Assemblea, perché è nel comune intento di tutti noi, è lo spirito col quale abbiamo condotto la guerra di liberazione e creato la Repubblica; è la considerazione che se la Repubblica, sorgendo, ha voluto compiere un atto di clemenza, lo ha dato a degli uomini, ai quali ha perdonato, non lo ha dato al regime, non lo ha dato al fascismo, contro il quale dovremo continuare e continueremo a condurre un’azione politica e, se sarà necessario, anche legislativa, per impedire che possa in qualsiasi modo rinascere. Questa è la base del regime democratico, questa è la base della Repubblica nel nostro Paese. Se essa dovesse venir meno, né Repubblica né democrazia potrebbero sopravvivere. (Applausi all’estrema sinistra).

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Prima di dar facoltà di parlare all’onorevole Ministro del tesoro, rivolgo viva raccomandazione agli onorevoli deputati, che sono tra gli iscritti e che non intendano rinunziare alla parola, di contenere i loro discorsi entro i più brevi limiti di tempo, affinché la discussione non sia troppo prolungata. (Approvazioni).

Avverto in proposito che, qualora sia chiesta, appoggiata e approvata la chiusura della discussione, nessun Deputato potrà più parlare, a meno che – come è previsto dagli articoli 77 e 88 del Regolamento – prima della chiusura stessa, abbia presentato, senza svolgerlo, un ordine del giorno, ovvero intenda fare una pura e succinta spiegazione del proprio voto.

Ha chiesto di parlare. l’onorevole Ministro del tesoro. Ne ha facoltà.

CORBINO, Ministro, del tesoro (Segni di viva attenzione). Onorevoli colleghi, il Presidente del Consiglio ha creduto opportuno che, interrompendo la serie degli oratori, io fornisca all’Assemblea quel minimo di dati sulla nostra situazione finanziaria che sono indispensabili per avere un quadro esatto delle possibilità di azione da parte del Governo e della capacità d’assistenza che a quest’azione può dare il complesso delle forze economiche del Paese.

Adempio al compito affidatomi dal Capo del Governo e lo farò nei più brevi limiti di tempo compatibili con il minimo di chiarezza e compiutezza di esposizione, e con la massima obiettività, se non addirittura con aridità.

Il bilancio del 1945-46, secondo i risultati provvisori finora accertati, si è chiuso con un disavanzo effettivo di 350 miliardi, ma non sarebbe agevole per l’avvenire prendere a base i dati di questo bilancio, perché esso è stato il risultato di numerosissime variazioni di stanziamenti dovute da una parte alla progressiva restituzione all’Amministrazione italiana delle varie province, dall’altra all’influenza che, specie nei riguardi della spesa, ha esercitato la situazione economica del Paese.

L’azione del Governo costituito nel dicembre del 1945 è stata a questo proposito molto intensa, con stanziamenti superiori alle possibilità iniziali, ed a confermarlo basteranno poche cifre.

Sono stati disposti stanziamenti straordinari per un complesso di 175 miliardi di lire così distribuiti: 68 miliardi per lavori pubblici; 15 miliardi per opere collegate ai miglioramenti agrari; 22 miliardi per aiuti alle industrie; 56 miliardi per provvidenze a favore delle Aziende autonome statali (ferrovie, poste, telegrafi, telefoni e tabacchi), oltre a stanziamenti minori.

Né minore è stato l’intervento governativo per il miglioramento delle condizioni di tutti i dipendenti degli Enti pubblici, poiché il complesso delle somme già stanziate o rispetto alle quali l’Amministrazione del Tesoro ha già dato il suo assenso dal 12 dicembre del 1945 fino al 20 luglio 1946, comportano oneri di bilancio ordinari e straordinari a carattere transitorio o permanente che per il periodo che va fino alla fine dell’anno finanziario in corso e senza comprendervi l’onere del premio della Repubblica, si avvicina, e forse la supera, alla somma di 80 miliardi di lire.

Come voi vedete, lo sforzo che la pubblica finanza ha sopportato per tenere all’impiedi tutto ciò che di sano e di fondamentale vi era nella economia del Paese raggiunge, nel breve giro di 7 mesi, la cifra rilevante di 250 miliardi, di cui una notevole parte è stata già pagata ed il resto graverà sull’esercizio testé iniziato e su qualcuno ancora dei prossimi.

Il dato più notevole di tutto ciò non è il fatto che a questo incremento di spesa si sia provveduto, quanto la circostanza fondamentale che i bisogni di cassa creati da questa mastodontica azione di finanza sono stati fronteggiati con i mezzi ordinari di tesoreria, senza ricorrere all’emissione di una sola lira di carta moneta in più di quella che esisteva in circolazione alla data del 12 dicembre del 1945. (Vivi applausi al centro e a destra).

Non solo, ma nello stesso periodo di tempo, e precisamente dal 15 marzo al 19 di questo mese, sono stati messi a disposizione del Comando Militare Alleato, per paghe truppe, dei biglietti della Banca d’Italia per un ammontare di 16.394 milioni di lire.

Come sia accaduto quello che, dentro certi limiti, si potrebbe considerare come un vero miracolo, è merito del Governo solo entro i limiti della sua azione generale che, avendo creato nel Paese quello stato d’animo di fiducia nell’azione governativa, ha fatto spontaneamente affluire al Tesoro i mezzi con i quali questo enorme sforzo ha potuto essere compiuto.

L’esperienza di questo periodo rende assolutamente inaccettabile il suggerimento dato da qualcuno di espandere un po’ la circolazione per far fronte alle immediate esigenze della tesoreria. Questo rimedio sarebbe pericoloso ed inutile: pericoloso perché aprirebbe la via della inflazione in un momento particolarmente delicato; inutile perché, per l’ondata di sfiducia che ne seguirebbe, il Tesoro perderebbe da una parte più di quanto non possa ricevere dall’altra.

La circolazione non sarà aumentata di una lira e i mezzi occorrenti si troveranno egualmente nella quantità compatibile con la situazione del mercato. Finora non vi è stato bisogno di rinnovare nessuna delle leve speciali attraverso le quali si può determinare un più copioso afflusso di fondi, ma ove ciò fosse necessario il Tesoro non esiterebbe a farvi ricorso.

Coloro che attendono una fase lucrosa di profitti di speculazione monetaria, è bene che si disilludano. Per ragioni monetarie i prezzi dovranno scendere e scenderanno fino ai limiti della parità dei poteri di acquisto sul mercato internazionale.

Senza fermarci ulteriormente sul passato, per quanto, come voi avete potuto vedere, sia estremamente suggestivo l’insegnamento che da esso si può ricavare, guardiamo un po’ all’avvenire.

Il bilancio in corso, cioè quello del 1946-47, tenendo conto di altri oneri che non sono stati inclusi nelle previsioni ufficiali, perché venuti dopo, prevede nella parte effettiva un disavanzo di 224 miliardi dovuto ad una previsione di spesa di 372 miliardi e ad una di entrate effettive di 148; ma dividendo questi dati negli elementi costitutivi relativi alla spesa ordinaria e straordinaria, si vede che per la parte ordinaria il disavanzo è relativamente modesto.

A fronte di una previsione di spesa normale di 223 miliardi, sta una previsione di entrata di 147 miliardi; ma spingendo lo sguardo al di là dei limiti che si ponevano tre mesi or sono, quando il bilancio in corso è stato preparato, si deve ammettere come certa la possibilità di un ulteriore incremento della spesa ordinaria, ma come ugualmente certa anche la espansione delle entrate normali di bilancio, poiché le previsioni di 147 miliardi sono il risultato di un prudente apprezzamento del probabile gettito dei tributi quale si poteva fare nel mese di marzo ultimo scorso, mentre il congegno delle imposte si va sempre più perfezionando e gli effetti sul gettito si cominciano già a rivelare al punto che oggi si possono aumentare le cifre di previsione di quel tanto che occorrerà per compensare e probabilmente anche superare il probabile incremento del bilancio.

Se il ritmo di attività economica del Paese non sarà turbato da notevoli sconvolgimenti interni o dai riflessi di gravi fatti esterni, solo per virtù del normale assetto dei tributi potremo considerare come meta raggiungibile il pareggio fra entrate e spese ordinarie forse per l’esercizio 1947-48, certo per l’esercizio 1948-49.

A tal fine si tenga presente che i bilanci militari oggi gravano per un onere normale di 92 miliardi e per uno straordinario di 34 miliardi; ma essi sono destinati a pesare gradualmente meno, non appena la smobilitazione degli organi bellici sarà stata effettuata, grazie alle disposizioni di sfollamento già approvate dal precedente Governo o in corso di approvazione.

Ma nell’esercizio in corso e ancora per qualche anno noi dovremo fronteggiare oneri straordinari ingenti. Le previsioni rispetto a questi oneri non sono possibili. Vi è un imperativo categorico che si riferisce alla spesa straordinaria, la quale dovrà essere quella massima consentita dalla situazione della pubblica finanza, per dare all’attività economica del Paese l’impulso più grande che sia in potere del Governo di dare (Approvazioni). Ora, dal momento che il limite massimo non può essere cercato nella spesa – dovendosi erogare tutto quello che sarà possibile – evidentemente il massimo dovrà esser dettato dalle disponibilità di cassa, ed allora il problema della ricerca del maximum si sposta dal terreno puro e semplice della spesa su quello molto più positivo e limitato dell’entrata, sia dei proventi di tributi straordinari, sia per movimenti di capitale collegati a prestiti interni ed esteri.

Si è parlato di un fondo di 3-400 miliardi da destinare a questo scopo. È bene che si sappia che il Governo non ha alcuno scrigno dal quale attingere una somma così ingente, e non può fissare alcun limite preventivo. Più che di un fondo si dovrebbe meglio parlare di un flusso di mezzi che nel giro di un anno potranno consentire quella spesa straordinaria.

Una voce. Troppo tempo!

GORBINO, Ministro del tesoro. È allora evidente la necessità di avere un’idea chiara delle disponibilità liquide del mercato, perché sul terreno del problema di cassa non basta pensare alle imposte straordinarie o ad un rincrudimento delle imposte ordinarie, se il ricorso ai nuovi tributi – perfettamente giustificabile e assolutamente indilazionabile sul piano di una maggiore giustizia sociale e di una diversa distribuzione dell’onere tributario – deve soltanto provocare una modificazione delle fonti a cui attinge la tesoreria e non un loro effettivo aumento.

Si tenga presente a questo proposito che le fonti dalle quali i mezzi possono affluire allo Stato sono esclusivamente due e cioè:

1°) i biglietti in circolazione effettiva, per la parte esuberante i bisogni minimi della circolazione per ogni cittadino;

2°) in via subordinata, le disponibilità collegate con i depositi bancari.

Di fatto oggi una parte della circolazione è tesaureggiata. Non sappiamo esattamente quanta sia questa parte, ma non è da ritenere che sia molto grande; in ogni caso essa è molto meno grande di quanto taluni pensano. Ma qualunque sia la cifra che corrisponde al tesaureggiamento, non c’è dubbio che non vi sia nessun vantaggio per lo Stato a scovarlo dai suoi nascondigli, se non con mezzi fiscali che ne consentano il trasferimento definitivo al tesoro. Quest’opera di ricerca è in corso con l’accertamento dei profitti di regime e di speculazione, e sarà intensificata fino al massimo consentito dalla struttura dell’amministrazione finanziaria. Per il resto della circolazione si tratta di far sviluppare gli ordinamenti bancari in maniera da ridurre relativamente a quantità sempre più piccole la massa dei biglietti che occorre per le ordinarie transazioni commerciali, facendo trasferire agli Enti bancari di ogni tipo i biglietti resi in tal modo disponibili. Ma è questa opera lenta e di cui i risultati non possono essere immediati: basta pensare che una riduzione media di 500 lire per abitante sulla massa che ciascuno di noi porta abitualmente in tasca provocherebbe un incremento di disponibilità bancarie di appena 23 miliardi e noi abbiamo bisogno di una somma 15 volte maggiore!

Per quello che concerne le disponibilità attuali dei depositi bancari, le possibilità di aumentare i mezzi della tesoreria o attraverso imposte o attraverso prestiti sono limitate, perché la grandissima parte dei proventi delle operazioni passive delle banche è già affluita al tesoro. Infatti sulla situazione di tesoreria gravano oggi i buoni ordinari per un ammontare che alla data del 20 luglio superava i 254 miliardi e le anticipazioni in conto corrente ordinario che alla data del 15 luglio ammontavano a 133 miliardi.

Ora è vero che non tutti i buoni del Tesoro sono sottoscritti dalle banche, ma non c’è dubbio che i 133 miliardi sono prelevati dai 500 miliardi di deposito esistenti presso i vari istituti di credito, istituti che nel loro portafoglio hanno altri titoli dello Stato e altri titoli a reddito fisso.

Per conseguenza, qualsiasi imposta straordinaria o ordinaria, qualsiasi provento darà poco di quello che si potrebbe chiamare capitale liquido di nuova formazione, ed in genere provocherà solo uno spostamento della fonte dei proventi della Tesoreria, perché colui il quale deve pagare l’imposta preleva le sue disponibilità liquide dai propri conti correnti bancari e le versa allo Stato. Se perciò da un lato crescono le entrate di Tesoreria per l’incremento delle imposte, dall’altro aumentano le uscite di Tesoreria per il prelievo dei conti correnti bancari. In altri termini oggi la Tesoreria ha nel mercato creditizio italiano una funzione curiosissima: è diventata una specie di banca delle banche e dei privati e gli spostamenti in più da una parte finiscono con l’essere compensati dagli spostamenti in meno dall’altra.

A questo punto si potrebbe dire che il problema si presenta quasi come un problema insolubile; ma per fortuna non è così, perché quello che importa dal punto di vista economico e finanziario non è tanto il giro fra le varie partite attive o passive della Tesoreria verso le banche e reciprocamente, quanto il complesso dei movimenti di capitali all’interno nelle loro successive trasformazioni tecniche da capitale circolante in capitale fisso, e nell’immediata surrogazione sotto forma di nuovo capitale circolante o con nuove produzioni o con apporto di beni provenienti dall’estero.

È qui che la Tesoreria può attingere come ad un flusso continuo di disponibilità; è nella migliore utilizzazione dei capitali circolanti, nella loro più rapida trasformazione in investimenti fissi a carattere produttivo e nella formazione di nuovi capitali monetari che sono il risultato del risparmio, che la Tesoreria può attingere per i suoi bisogni di carattere straordinario.

Dobbiamo quindi sforzarci di ridurre al minimo la massa dei capitali liquidi circolanti nel Paese sotto forma di beni di ogni genere, ma perché questo accada occorre che i beni reali disponibili sul mercato e facilmente trasmissibili non siano ricercati come forma di investimento monetario per la paura di successive svalutazioni.

Da impressioni tratte dalla mia permanenza al Tesoro io mi sono convinto che esistono oggi in Italia materie prime, semilavorate e prodotti finiti non strettamente necessari per il normale processo produttivo, per un valore non inferiore ai 150 miliardi di lire.

Sono questi i veri capitali inerti, che bisognerebbe disimboscare per farli passare al consumo o alle successive fasi produttive. Ma non c’è da illudersi che il Governo abbia il modo di trovarli, perché prima di noi non ci sono riusciti né i fascisti, né i tedeschi, né gli anglo-americani; questi beni sono nascosti per il timore di svalutazioni monetarie, e per questo timore i loro possessori perdono (a tener conto solo degli interessi) almeno 10 miliardi all’anno, e li continueranno a perdere fino a che il rischio perdurerà. Se noi daremo a costoro il senso della tranquillità politica e monetaria (Applausi al centro e a destra), una parte notevole di questi capitali rientrerà subito nella circolazione, ed allora o lo Stato potrà espandere il suo programma straordinario, o l’iniziativa privata assorbirà per proprio conto una parte notevole dei disoccupati. Data questa tranquillità, il Tesoro si propone di continuare a raccomandare alle banche che esse si astengano dal fare operazioni di finanziamento, quando siano dirette esclusivamente a consentire la conservazione di merci a carattere puramente speculativo. (Applausi a destra).

È per dare la tranquillità monetaria che il Governo, indipendentemente da qualsiasi considerazione di carattere tecnico che lo renderebbe impossibile per molto tempo, non intende ricorrere al cambio della moneta con intenti fiscali, riservandosi l’impiego di altre forme di accertamento per quelle imposizioni di carattere personale e straordinario, che sono state enunciate nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. In tal modo il flusso del nuovo risparmio sarà sufficiente ad assicurare da solo mezzi cospicui; infatti nei primi sei mesi di quest’anno, l’incremento della emissione dei nuovi buoni del Tesoro ordinario è stato di 64 miliardi di lire, cioè in media di oltre 10 miliardi al mese.

Ciò non significa che talune modifiche tecniche della circolazione non debbano essere effettuate.

Già da tempo è stato autorizzato il ritiro dei biglietti di piccolo taglio e la loro sostituzione con monete metalliche, che saranno le prime a portare la dicitura della Repubblica Italiana. Si spera che, espletate le gare necessarie nella forma di legge, questo miglioramento nella circolazione degli spezzati possa essere presto realizzato.

Ma un’altra sostituzione relativa ai biglietti di taglio più grosso s’impone. Come è noto, dal 15 marzo di quest’anno i mezzi monetari occorrenti agli Alleati sono forniti dal Tesoro con biglietti della Banca d’Italia, e da allora si è arrestata la emissione delle Am-lire. Non c’è più nessuna ragione che possa giustificare il mantenimento ulteriore delle Am-lire in circolazione, anzi, data la loro estrema facilità di falsificazione, vi sono ragioni molto serie per eliminarle. Sono in corso le trattative con la Banca d’Italia per le operazioni necessarie alla sostituzione delle Am-lire con titoli equiparati, a tutti gli effetti, ai biglietti di banca di valore multiplo di mille lire e cioè: cinquemila e diecimila lire – e non venticinquemila come hanno pubblicato i giornali – con il che, oltre a togliere una moneta della quale, specialmente in alcune regioni del Nord, è piuttosto difficile la circolazione, si viene incontro al desiderio del mondo bancario e degli uomini di affari in genere di diminuire il gravosissimo lavoro per il controllo dei biglietti che passano per le loro mani.

Va da sé che le Am-lire conserveranno pieno valore legale, fino a quando non saranno stati presi accordi con gli Alleati per la loro totale sostituzione.

I nuovi titoli erano già predisposti per il famoso cambio della moneta e sono dunque pronti in quantità sufficiente per iniziare quel riordinamento della circolazione, che appare quanto mai indispensabile. Essi saranno emessi in sostituzione delle Am-lire, specie del taglio grosso, da cinquecento e mille lire, valore per valore, senza una lira di aumento della circolazione globale.

Vi sono delle ragioni serie per non rinviare oltre questa sostituzione. Spero un giorno di poterla comunicare. Ma, circa il metodo prescelto per farlo, desidero eliminare la falsa impressione inflazionista, che la notizia della introduzione di tagli superiori alle mille lire potrebbe avere determinata.

È bene a questo proposito ricordare che, anteriormente alla prima guerra mondiale, quando in qualche periodo la lira-carta faceva aggio sulla lira-oro, noi avevamo in circolazione, oltre alle monete d’argento da una e due lire di allora, dei biglietti di Stato da cinque e dieci lire per un ammontare di cinquecento milioni, in confronto di una circolazione di biglietti delle allora tre banche di emissione per un totale di 2.283 milioni al 31 dicembre 1913, formata da biglietti di taglio compreso tra le cinquanta e le mille lire di allora. Ora, ove si tenga conto del diminuito potere di acquisto della moneta, il titolo odierno da cinquemila lire corrisponde grosso modo al biglietto di cinquanta lire del 1913 e quello da 10 mila al biglietto da cento lire, mentre l’attuale biglietto da mille lire corrisponde al vecchio biglietto di Stato di 10 lire.

Avere finora rispettato il limite massimo di mille lire per il biglietto di banca, quando il potere d’acquisto della lira si è nel frattempo ridotto a meno di un centesimo, significa avere di fatto soppressa la vecchia circolazione di biglietti di banca sostituendola in valore per intero con biglietti da dieci lire, determinando un forte aumento del costo della circolazione, sia per lo Stato, che paga per la stampa dei biglietti, sia per i privati che devono continuamente maneggiarli.

Dobbiamo gradualmente avviarci ad un sistema più normale e sono sicuro che i nuovi tagli da 5 e 10 mila lire saranno accolti dal pubblico con soddisfazione – e prima di vederli in circolazione dovremo attendere perché ci sarà la tendenza a farli sparire – sia perché più comodi, sia perché meno esposti al rischio della falsificazione.

Con il che tutto non sarà finito e io lascio all’iniziativa dei futuri Ministri del tesoro lo studio delle possibilità e della convenienza d’introdurre un multiplo legale della lira, su cui potrebbe essere basata la futura riforma della circolazione monetaria con il ritorno alle monete d’argento, se e quando questo sarà possibile.

Anche senza tener conto delle anticipazioni, poiché i biglietti che costituiscono oggi la quasi totalità della circolazione non saranno mai rimborsati, ma potranno essere, trasferiti alla Banca d’Italia quando si risolverà a nostro favore la questione dell’oro asportato dai tedeschi, la situazione di tesoreria – con duecentocinquanta miliardi di buoni del tesoro e centotrentatrè miliardi di anticipazioni in conto corrente – è indubbiamente preoccupante, perché basterebbe un leggerissimo allarme nella situazione monetaria per gettare lo scompiglio nei rapporti fra il Tesoro e le Banche e i loro clienti.

Da ciò sorge la necessità di provvedere al consolidamento di una parte almeno di questo notevole debito fluttuante, mediante la emissione di un prestito consolidato già deliberato dal precedente Governo e di cui non restano da determinare che alcune caratteristiche tecnico-finanziarie importantissime e la data di emissione.

Posso fin da ora dire che il nuovo prestito sarà disposto in maniera tale che i sottoscrittori privati riceveranno direttamente all’atto del versamento i titoli definitivi, di cui la stampa è a buon punto, mentre per i grossi enti sottoscrittori, ove i titoli definitivi non fossero sufficienti, si provvederà con certificati provvisori al portatore già pronti e negoziabili in borsa.

Il Governo confida che questa grandiosa operazione finanziaria, per la quale a suo tempo verrà chiesta la collaborazione di tutti i membri dell’Assemblea e di tutte le forze politiche nazionali, darà anche un deciso apporto di disponibilità liquide che almeno in parte potranno consentire il finanziamento della politica diretta a combattere con tutti i mezzi la disoccupazione.

Fino a quella data l’afflusso ordinario dei mezzi consentirà alla Tesoreria di fronteggiare gli oneri straordinari che sono prevedibili in questo momento. Ciò è successo finora e non c’è nessuna ragione per credere che non debba continuare a succedere. I momenti di ansia sono passati e li ho divisi col Presidente del Consiglio, ma ormai possiamo essere tranquilli.

La curva di incremento dei buoni del tesoro ordinari, che aveva mostrato delle punte minime e talvolta anche negative nel periodo compreso fra il 15 giugno e il 2 luglio, ha ripreso dopo il suo ritmo normale e negli ultimi tempi ha toccato delle cifre che sono veramente significative.

In un giorno della seconda decade di luglio abbiamo avuto nuove sottoscrizioni per un miliardo e 76 milioni. Dopo pochi giorni nuove sottoscrizioni per un miliardo e 706 milioni solo in una giornata.

Ma l’apporto principale per il finanziamento della futura politica di ricostruzione non può essere dato da mezzi interni anche con la certezza della conservazione dell’ordine più assoluto e di una ripresa produttiva che consenta la piena utilizzazione di tutte le forze del paese.

L’Italia purtroppo non è oggi in condizioni di provvedere alle sue necessità immediate senza il ricorso a prestiti esteri. Questo ricorso ci è indispensabile per ragioni economiche e per ragioni finanziarie: per ragioni economiche, in quanto che noi non abbiamo ancora potuto attrezzare la nostra economia fino al punto da consentirci le esportazioni di merci per un valore sufficiente a controbilanciare la massa delle importazioni necessarie. Lo sforzo che il Paese va facendo in questa direzione è veramente formidabile e i risultati conseguiti sono superiori a qualsiasi aspettativa. Dopo l’entrata in vigore della concessione del 50 per cento di valuta libera agli esportatori, la massa delle merci esportate è sensibilmente aumentata da circa 11 milioni di dollari per il periodo 15 febbraio – 30 aprile; cioè per due mesi e mezzo, è passata a 16 milioni di dollari nel solo mese di maggio e forse si deve essere avvicinata ai venti milioni di dollari nel mese di giugno per il quale mancano ancora i dati completi. Ma i nostri bisogni di importazione superano di gran lunga le disponibilità valutarie provenienti dalle esportazioni ed esigono una larga integrazione attraverso il concorso del capitale straniero o di quello nazionale rifugiatosi od esistente all’estero.

Ma sia qui ben chiaro: noi non abbiamo bisogno dei capitali; abbiamo bisogno delle merci che quei capitali ci consentono di acquistare perché soltanto le merci giungendo nel territorio nazionale si possono trasformare in fonti di finanziamento diretto o indiretto dello Stato.

Ora per disponibilità in valute da trasformare in mezzi o in merci dirette noi possiamo contare:

1°) su quello che, entro i limiti della sua durata, ci verrà per la esecuzione del piano UNRRA 1946;

2°) sui proventi della vendita dei surplus americano e inglese che ci è stato già o ci verrà ceduto nei prossimi mesi e che ammonta a parecchie diecine di miliardi;

3°) sull’accreditamento nel fondo paga truppe da parte del Governo nord-americano, che per il mese di giugno ultimo scorso è stato di 18 milioni di dollari e complessivamente finora di 175 milioni di dollari;

4°) sulle rimesse degli emigranti e sul rientro in Italia di capitali precedentemente investiti all’estero e che rientreranno tanto più facilmente e più copiosamente quanto maggiore sarà il senso di sicurezza economica e politica che essi potranno trovare all’interno;

5°) sui proventi della marina mercantile, che però ancora per molto tempo saranno destinati per l’acquisto di altre navi o per l’ammortamento dei debiti contratti per le 50 Liberty ships;

6°) infine sui proventi del movimento turistico, che è ora appena all’inizio, ma che, con altre fonti da considerare come esportazioni invisibili, non manca già di esercitare una moderata influenza sulla nostra bilancia dei pagamenti.

Ma tutto ciò non basta, costituirà solo una frazione di quello di cui avremo bisogno ai fini del finanziamento degli acquisti di carbone, di petrolio, di grano e di tante altre cose, e che fino a tutto il 1947 si avvicinerà ad un miliardo di dollari. Ottenere prestiti esteri è dunque per noi condizione di vita o di morte, ed è da sperare che le ragioni di ordine politico che hanno pesato per far preparare nel campo territoriale una pace così dura per noi, quale quella di cui abbiamo avuto notizie, non eserciteranno più alcuna influenza, quando si tratterà di darci quell’assistenza economica della quale abbiamo bisogno.

Come, da quale Paese, a quali condizioni questa assistenza ci possa essere data con impegno di rimborsi a lunga scadenza, non si può in questo momento indicare. Se diamo uno sguardo al mercato monetario internazionale e alla possibilità di spostamento di capitali da un paese all’altro, ci si presenta uno spettacolo di estrema suggestione per la grande complessità e l’enorme varietà degli elementi che vi entrano in gioco.

Sono attualmente in corso nel mondo spostamenti immensi di masse auree, come risultato del ritiro di depositi precedenti e delle liquidazioni di debiti e crediti fra i vari Stati; movimenti nei prezzi interni di ogni Paese per le particolari condizioni dei rispettivi sistemi di circolazione; accaparramenti di mercati per creazioni di nuove posizioni finanziarie o per liquidazioni di antiche; prestiti per cifre astronomiche, destinati a conservare situazioni monetarie pericolanti ed a creare i presupposti di una più stretta solidarietà internazionale. In questa ridda di miliardi di dollari che si trasferiscono da un punto all’altro del mondo, determinando qui procedimenti di inflazione e altrove di rivalutazioni, come se si avesse paura dell’afflusso del metallo giallo, noi ci inseriamo con le nostre esigenze e cercheremo di farci strada.

Due punti dobbiamo tenere bene presenti: le possibilità di trovare crediti non sono illimitate nel tempo, perché nel giro di pochi anni i motivi che molti oggi hanno di esportare dei capitali verranno quasi completamente meno e se non riusciremo oggi ad avere i prestiti, a parte il loro grado di estrema urgenza, non li otterremo mai più, o li otterremmo a condizioni molto più onerose di quelle che oggi il mercato consente. Ciò perché, ed è questo il secondo punto, il mondo va incontro ad un sensibile rialzo del saggio dell’interesse e nessuna forza politica potrà impedirlo, nessun Governo avrà i mezzi per ostacolarlo. Ma se noi abbiamo bisogno di prestiti per importare e dobbiamo contrarli subito, è evidente che dobbiamo dare ai paesi stranieri, che potranno figurare fra i futuri creditori, la sensazione precisa che in Italia si vuole lavorare sul serio, si vogliono affrontare i problemi con consapevolezza della loro natura, si vogliono gettare le basi di una struttura economica del Paese veramente sana ed equilibrata. Solo a queste condizioni noi potremo insistere per essere accolti in quegli accordi monetari e bancari di Bretton Woods che sono destinati a guidare nel futuro i grandi movimenti internazionali di capitale, e ad assicurare al mondo un regime di relativa stabilità monetaria. Ma noi non potremo pretendere di andare a Bretton Woods, se nell’atto stesso in cui lo chiediamo, minacciamo di sconvolgere il nostro assetto monetario dando l’impressione di essere un Paese bisognoso di una tutela internazionale sul tipo di quella dell’Austria e dell’Ungheria dopo del 1919.

Non ci sarebbe nulla di umiliante se lo stato delle cose imponesse obiettivamente tale tutela. Ma poiché il nostro è un problema di volontà, il non risolverlo con decisioni coraggiose e con fermezza sarebbe veramente cosa che ci potrebbe mortificare.

Le indubbie prove di solidarietà e di affettuosa assistenza che sul terreno economico si sono già avute da parte degli Stati Uniti dell’America del Nord, quelle che sul terreno politico ci vengono oggi dalle Repubbliche Sud Americane, ci fanno fondatamente sperare che le nostre giuste richieste di collaborazione del capitale internazionale potranno essere accolte. Potremo così avere gli altri mezzi dei quali abbiamo bisogno per superare questo difficilissimo periodo di pochi mesi, trascorso il quale, come nel passaggio dalla notte al giorno, noi potremo prima intravedere le luci dell’alba e poi vedere sorgere il sole.

Onorevoli colleghi, consentitemi poche parole di carattere personale: desidero ringraziare gli oratori che mi hanno rivolto parole benevole, ed anche coloro che criticandomi mi hanno reso il grande servigio di rafforzare ancora di più, se ne avessi avuto bisogno, la mia convinzione.

A tutti desidero fare rilevare che dopo le elezioni mi sarebbe stato facile coprirmi dietro la disciplina di partito per sottrarmi alla responsabilità di partecipare al Governo e di andare a sedere nei banchi dell’opposizione nei quali si trovano i miei compagni di lista. Non volevo farlo e non l’ho fatto. Invitato dall’onorevole De Gasperi e dai colleghi degli altri partiti, che sono entrati nella combinazione ministeriale, a continuare a reggere il Dicastero del Tesoro, ho accettato, infrangendo la disciplina di partito, perché sentivo che era mio dovere, una volta che me ne era offerta la possibilità, di stare in momenti duri nello stesso posto in cui c’ero stato in momenti relativamente più facili. Sono qui quindi a fare il mio dovere, ad assumere tutte le odiosità che il posto porta come non lieto appannaggio, ad affrontare tutte le impopolarità, per dare quello che posso per il consolidamento della Repubblica. Lo darò col mio abituale ottimismo, cari colleghi, che il passato ha giustificato e che il futuro, spero, giustificherà. (Vivissimi prolungati applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la onorevole Bianchi Bianca. Ne ha facoltà.

BIANCHI BIANCA. Onorevoli colleghi, un senso di elementare giustizia ci impegna oggi, nella nostra vita, a dare quanto più è possibile un volto ed una essenza umana al corpo del nostro Stato, ad adeguare istituzioni e costumi alle nostre vive esigenze di sana democrazia.

In questo senso trova giustificazione tutta la politica delle riforme sociali, di cui si tratta anche nelle dichiarazioni del Governo. Noi vorremmo sperare che questi provvedimenti, promessi a beneficio dell’umana dignità dei poveri e degli umili, fossero davvero messi in atto il più presto possibile. Vorremmo augurarci che queste sane leggi, a servizio delle classi più diseredate, più servili della servile economia odierna, potessero essere prese in seria considerazione. Non vorremmo che rimanessero ancora per lungo tempo promesse scritte sulla carta.

L’adeguamento delle pensioni al costo della vita: è un senso di giustizia che ci richiama a questa rivendicazione sociale; è un senso di giustizia che dà ai nostri uomini, che hanno speso tutta la vita nel lavoro a beneficio e a servizio della società in cui hanno vissuto, il medesimo diritto all’esistenza. Bisogna non aprire loro la porta dell’elemosina, della pietà delle istituzioni e dei singoli; bisogna dar loro il diritto elementare alla vita che è diritto di qualsiasi cittadino nella compagine dello Stato, e occorre al più presto rivedere tutto il sistema di assicurazioni che dia ai lavoratori – interamente impegnati nella vita attiva di questa nostra umana società – quella sicurezza concreta di uno Stato che si serve della loro opera ma, nello stesso tempo, li difende, li protegge negli infortuni e nelle avversità tutte.

E per questo senso della giustizia che dà ad ognuno quel che gli spetta in questo mondo suo e che ci conduce a considerare ogni problema dello Stato come un compito serio di noi stessi, io vorrei parlarvi di un altro problema sociale, un po’ dimenticato in verità. È un peccato che nelle dichiarazioni del Governo si sia parlato troppo poco del problema della scuola. L’accenno, messo lì a chiusura del discorso dell’onorevole De Gasperi su una questione tanto assillante della nostra coscienza contemporanea, ci giustifica certe nostre preoccupazioni o che si sia volontariamente sfuggito il problema e non si sia preso ancora sul serio, o che il silenzio di parole d’oggi voglia significare assenza di opere domani; ci giustifica anche la preoccupazione che si continui a seguire quella nostra inveterata abitudine di riporre la scuola, l’educazione tutta, all’ultimo degli ultimi interessi del vivere sociale.

Bisogna mettersi in mente che la scuola è una cosa seria; e tanto più seria oggi nella nostra coscienza; un’esigenza che tutti noi dobbiamo sentire, soprattutto noi italiani ai quali è affidato il compito di ricostruire moltissime cose.

Il nostro Paese, voi sapete, non ha soltanto da rifare la sua economia distrutta e non ha soltanto da ricostruire le sue case; deve far risorgere tante altre ricchezze, tanti altri vaioli negati o sepolti nella coscienza umana, deve ricreare l’onestà e la libertà nelle coscienze, deve educare questo nostro popolo che è sempre vissuto nella povertà dello spirito, alla ricchezza e alla forza della vita morale (Applausi).

Per questo, onorevoli Colleghi, se il problema della scuola è sentito oggi vivamente da tutte le nazioni civili, europee ed extraeuropee, io direi che ancor più fortemente deve essere sentito da noi, nella nostra Italia distrutta e nella carne e nell’anima; nella nostra Italia che ha troppe piaghe da dover curare, nel nostro Paese che ha tante cose da dover rifare.

Voi potete aver seguito gli studi di questi ultimi tempi ed esservi persuasi che anche le nazioni che hanno vinto la guerra, in Europa e fuori d’Europa, si interessano vivamente alla revisione di tutto il problema educativo e fanno un’opera di critica, oggi, di tutto il sistema della scuola. Inghilterra, Russia, Stati Uniti, a cui si può aggiungere la Svizzera, e i popoli del Nord si manifestano insoddisfatti della organizzazione scolastica dalle elementari sino all’università. Vogliono migliorare l’istruzione primaria, cercano di prolungare il termine di questi studi elementari, vogliono aprire scuole ad un numero sempre maggiore di alunni, cercano tutti i mezzi per istituire corsi post-scolastici atti a dare cultura a coloro che hanno speso e spendono la vita nel lavoro; studiano insomma i modi e le situazioni per poter dare un accento un po’ più moderno, e democratico a tutto il sistema.

E noi in Italia, con tutte le nostre anime distrutte, dopo tanti anni di assenteismo, di miseria morale, di violenze che ci hanno dato l’ipocrisia delle coscienze e la sfiducia in noi stessi; atrofizzati, come siamo, nei sentimenti e nelle idee più pure, sofferenti nella carne e nel cuore sentiamo il dovere di far qualcosa e di prendere una coraggiosa posizione a beneficio della scuola. Noi rimettiamo ancora la scuola, come hanno fatto i governi passati da 30 o 40 anni fino ad ora, all’ultimo degli ultimi posti. Ci sono altri interessi di immediata esigenza: ed è vero. La nostra casa brucia ancora di tutte le sofferenze; noi abbiamo viva negli occhi la visione di tanti lutti; il popolo soffre per la disoccupazione e per la miseria economica; ha sempre davanti a sé questa tristezza, questa disperazione, questo dolore che attanaglia la sua vita giorno per giorno. Ed è difficile liberarsi. Questi problemi sono di così immediata importanza che vanno risolti immediatamente, non si possono rimandare a domani. Il problema del pane, per esempio, e del lavoro non si può rinviare; non si può temporeggiare su di esso senza distruggere nel medesimo tempo la nostra possibilità di vita quotidiana.

Però, badate, fra i precetti degli uomini civili c’è quello di dare la mercede agli operai, ma ce n’è ancora un altro, giustissimo, maturato nel corso della storia dell’umanità, di tutte le epoche: dare il sapere liberatore agli spiriti, perché insieme ai valori del corpo ci sono i valori dell’anima che non si possono assolutamente dimenticare (Applausi), perché insieme alla nostra esistenza quotidiana c’è la vita dei valori dello spirito di cui noi dobbiamo essere i difensori.

Per ciò bisognerebbe prendere con serietà il problema della scuola. Dico con serietà, perché fino ad oggi tutti i Governi non l’hanno mai preso seriamente. Hanno dato delle riforme, sì, ma sono state semplici atti d’archivio, legate ai Governi che avevano interessi reclamistici in politica; hanno finito per asservire la scuola a determinati fini di partiti ed hanno ucciso quella che è l’opera stessa dell’educazione, il culto, la libertà al di là di tutte le organizzazioni politiche. La libertà deve esistere in sé e per sé, come fine a se stessa.

La scuola in Italia non è stata mai libera, è stata sempre asservita a qualche cosa o a qualcuno. E per aver sempre cercato il fine fuori di sé, nasconde ancora nel suo seno elementi conservatori e reazionari. Si presenta come una povera scuoletta che vivacchia, che tira avanti, vuota di contenuto, priva di anima, piena di parole, di frasi, di sapere enciclopedico che vi forma un uomo molto colto ed erudito, ma male educato. Perciò il nostro popolo è colto, erudito e sapiente; ma è uno dei popoli peggio educati della vita civile internazionale, perché noi non sappiamo formare la coscienza, né irrobustire il carattere, né dar vita all’intelligenza libera. Io non vorrei. offendere la suscettibilità di nessuno, se dico che noi formiamo la coscienza a base di catechismo. Purtroppo non facciamo il catechismo soltanto in religione; ne facciamo anche quando insegniamo filosofia, letteratura, aritmetica e gli altri rami del sapere, perché diamo formule vecchie e ripetute e non impegniamo l’alunno a discutere queste medesime formule. Io chiamo questa nostra scuola confessionale, perché non educhiamo l’alunno a criticare e a pensare e non gli diamo sufficiente fiducia in se stesso affinché da solo possa camminare, orientarsi e affrontare e risolvere ogni problema. (Applausi).

Ora, quando noi parliamo della laicità della scuola vogliamo intendere questa volontà seria che formi uomini dalle convinzioni serie e forti, come diceva Silvio Spaventa nel tardo Risorgimento. È un atteggiamento religioso di fronte alla vita e non è, come osserva lo stesso pensatore, negazione del divino, ma affermazione di esso; uccisione della lettera e affermazione dello spirito. Quando la lettera tiranneggia, lo spirito muore e quando è morto lo spirito è morta anche la forma religiosa. Cristallizzate pure la religione nel catechismo, fatene pure oggetto d’una particolare disciplina di competenza ecclesiastica; l’alunno vi ripete le formule, ma non si convince dell’idea, vi ridice la letteratura, ma non capisce niente dell’anima della poesia (Applausi), vi può ripetere tutti gli schemi, ma l’animo suo è privo del contenuto di ciò che ha imparato e ripetuto e finisce per non aver concluso nulla in tutti gli anni passati a scuola.

Questo senso di libertà è una cosa sola con la serietà delle istituzioni e degli intendimenti. La prova che abbiamo preso alla leggiera il nostro compito, la troviamo nei numerosi istituti privati che hanno ottenuto con tanta benevolenza la parificazione. Oggi abbiamo tante scuole, senza alcun controllo, che ogni anno vi mettono fuori in libera circolazione, diplomati atti, o inadatti, come sarebbe meglio dire, ad esercitare il loro compito: povera gente che non si orienta nel sapere e non sa trovare la forza della vita, perché non ha libertà, non sa agire per conto proprio e non sa discutere dei suoi problemi di esistenza. Ora noi dovremo rivedere tutto questo sistema educativo e porre un freno all’invasione di istituti privati, per rendere alla scuola la sua serietà. È necessario che la scuola sia purificata, come tutti noi abbiamo promesso al popolo, ed è necessario prima di tutto dar libertà agli insegnanti perché ne facciano un degno uso al servizio dei discepoli. A questi poveri insegnanti, che giuridicamente ed economicamente costituiscono un mondo irrequieto di servi, di ribelli nell’odio impotente della loro anima, verso tutto quel vecchio ordinamento che li soffoca in ogni atto, noi vorremmo fosse ripristinato lo stato giuridico che avevano conquistato nel 1902 ed hanno poi perduto in seguito alla politica del fascismo. Conseguenza di questa perdita è stato l’asservimento non solo ai fini di un particolare partito ma a tutte le regole e regolucce della scuola, a tutti i provvedimenti disciplinari. Se volete cercare una classe di servi, la potete trovare negli insegnanti, perché li abbiamo abituati così. Non importa se il loro cuore ha sofferto nella soggezione. Il fatto è che per paura della norma disciplinare, abbiamo ottenuto da loro sempre il sì, non abbiamo avuto se non raramente il loro no, indice di santa ribellione all’ingiustizia delle cose; dicono di sì perché hanno paura della sospensione, del trasferimento in località disagiata; obbediscono passivamente con un abito di fuori ed uno di dentro, lavorano come meglio possono, ma non rendono molto per la scuola.

E vorrei dire un’altra cosa in base a queste dichiarazioni. Bisogna liberare gli insegnanti anche economicamente. A questi poveri cittadini si è finito per chiedere troppo. Si è chiesto loro di essere apostoli, missionari di civiltà in terra nostra, e di dimenticare perciò tutto il resto e di rinunciare alle più comuni necessità di vita comune, molto spesso col pane quotidiano. Non bisogna mai mettere gli uomini in condizioni di essere disonesti, e noi stiamo mettendo la categoria degli insegnanti nella triste necessità di esercitare la disonestà in seno alla scuola e di non svolgere serenamente il loro compito nel migliore modo in cui lo dovrebbero svolgere. (Approvazioni). Noi possiamo chiedere fino da oggi che si prendano provvedimenti in tal senso e si adeguino gli stipendi al costo della vita, perché i maestri non siano necessitati a riempire la loro esistenza di lezioni private, ad asservirsi agli interessi privati, e possano avere la serenità opportuna per svolgere dignitosamente il loro dovere. Per questo lavoro, il Governo potrebbe trovare benissimo consensi e collaborazione in tutte le correnti sane della democrazia. A parte gli aspetti diversi di posizioni ideologiche, mi sembra che chi concepisce la democrazia debba nello stesso tempo concepire la scuola come prima formazione democratica delle coscienze. È assurdo richiedere ad un popolo di essere democratico prima di averlo educato ad essere tale. È ingenuo sperare di porre i fondamenti della democrazia, se non ci impegniamo a dare questo insegnamento in seno alla scuola. La rigenerazione ci deve venire dagli insegnanti e dagli alunni, da una purificazione completa, da un ripristino del senso di serietà e di giustizia in tutto l’ordinamento scolastico. Il Governo potrebbe intanto cominciare a far qualcosa: c’è da sostenere la lotta contro l’analfabetismo, troppo diffuso ancora in Italia, e contro l’ingiustizia sociale che considera sempre la cultura come un lusso e un privilegio di coloro che possiedono ricchezze, e non un diritto sacrosanto delle persone umane. Su questo piano di idee e di realizzazioni il Governo dimostrerebbe la sua forza e la sua altezza. Io credo che la scuola sia il banco di prova della intrinseca forza e ricchezza del nostro Stato democratico.

Sé fallisce la nostra opera qui, fallisce il problema della democrazia, perché non porremo le basi per avere domani una sana legislazione di libertà nella nostra vita italiana.

E credo anche che questo sia l’unico mezzo di difendere il nostro patrimonio di entità nazionale.

Il patrimonio territoriale ci viene spezzettato dalla compravendita dei mercati dei potenti Stati vincitori. C’è però una ricchezza, che nessuno può dividere, frazionare, comprare o vendere a suo piacimento: è questo patrimonio di cultura sana, di idee giuste, di verità e di libertà, di concreta storia che porta il timbro e l’anima della nostra gente. È un valore spirituale, che costituisce l’entità della nostra nazione, e ci unifica nelle reciproche differenze. Questa nostra opera di salvezza ci darà il modo di riconquistarci un diritto che sembra perduto: quello di appartenere al mondo della giustizia e di vivere una vita civile fra gente civile. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Grandi. Ne ha facoltà.

GRANDI. Onorevoli colleghi, vi parlo semplicemente nella mia qualità di Deputato, incaricato dal mio gruppo.

Vi parlo così, per quanto un senso di velata malinconia non mi consenta di arrogarmi qualunque rappresentanza ufficiale e ciò in riferimento a quanto è avvenuto in questi giorni.

Ma sento il dovere di coscienza di parlare anche come uno dei più anziani operai, organizzatori sindacali, all’Assemblea, al Governo e ai lavoratori italiani.

Le ampie dichiarazioni del Governo in materia economica finanziaria e di riforme sociali (non mi addentrerò nei dettagli), in generale, sono chiare e soddisfacenti.

L’onorevole De Gasperi non ne ha parlato con freddezza, se per essa non si vogliano intendere le doti del suo carattere e della sua terra, il suo scrupolo e la sua onestà, come uomo di Stato.

Chi lo conosce sa quale amore egli porti a tutti i lavoratori ed alla loro sicura ascesa.

Mi soffermo sui primi obiettivi del Governo. Gli obiettivi da tenersi presenti in materia di riforma sociale e ai quali dobbiamo tendere con tutte le nostre forze sono: intensificare la produzione; abbassare i costi e consentire la ripresa delle esportazioni; assicurare agli impiegati e salariati sufficienti mezzi di vita; difendere il potere di acquisto della lira avviando il bilancio dello Stato all’equilibrio e procurando con risorse ordinarie e straordinarie il finanziamento di un vasto programma di lavori pubblici.

Dalla prima liberazione dell’Italia insulare e meridionale sino alla liberazione totale d’Italia sono passati oltre due anni. Le condizioni più disagiate, le condizioni più miserabili, le condizioni più dolorose sono state quelle delle classi lavoratrici, particolarmente di quelle masse lavoratrici che hanno veduto gli stabilimenti in cui lavoravano, le officine in cui davano la loro attività, le loro case, tutti i mezzi di vita e di sussistenza distrutti o nell’impossibilità di funzionare.

Ora, o signori, bisogna considerare questo stato di cose, se si vuol comprendere lo stato d’animo dei lavoratori.

È facile oggi elevare voci di critica contro i lavoratori. E qualcuno si permette persino di ritenere che ci sia una questione sola da risolvere, quasi per salvare tutta l’economia del nostro Paese e i suoi mezzi di ricostruzione.

Ora io dico che se si considera quello che è avvenuto nel nostro e in altri paesi, ma soprattutto se si considera quello che è avvenuto anche in Italia dopo la guerra dal 1915 al 1918 – e fu guerra vittoriosa – noi dobbiamo dire che le agitazioni avvenute nel nostro Paese in questi due anni sono state minori, nella loro portata e nelle loro conseguenze economiche, persino di quelle che vi sono state quando avevamo vinto la guerra.

E perché? Perché ad una organizzazione coatta totalitaria, inscenata dal fascismo, si è contrapposta una forza costituita dalla Confederazione generale italiana del lavoro.

È chiaro che non è possibile andare sempre d’accordo, anzi che non è possibile far coincidere tutte le aspirazioni più o meno ardite di queste correnti. La colpa non è tanto di queste correnti, la colpa è che la Confederazione è sorta dichiarando apertamente di aprire la strada a tutte le altre correnti, dalla liberale fino alla repubblicana e a tutte quelle altre che avessero potuto manifestarsi. In pratica effettivamente la corrente anche più moderata della Confederazione non ha mai trovato nessun sostegno perché alle diverse correnti che stavano e stanno fuori della vita sindacale era facile criticare e non facile operare e condurre i loro sforzi in una organizzazione che avrebbe potuto essere l’espressione – e lo potrebbe essere ancora oggi – della grande maggioranza, se non della totalità dei lavoratori.

Quanto alle condizioni dei lavoratori, esse sono quelle che sono. Quanto si è potuto fare si è fatto. Le paghe sono state aumentate, anche gli stipendi, anche altri trattamenti, sempre attraverso lunghe e penose discussioni in cui la parte dirimpettaia ha trovato sempre il modo di resistere quasi senza nessuna differenza con quello che esisteva prima del fascismo. Malgrado tutto ciò, qualche cosa si è potuto raggiungere. Ma quale è stata la conclusione, signori? Ve lo ha già detto qualche altro collega. La capacità di acquisto della classe lavoratrice è oggi ridotta a meno della media del 50 per cento in confronto delle condizioni del 1938-1939. Quindi impossibilità di acquistare il minimo indispensabile – dato che i generi annonari sono stati male distribuiti, e non con quella regolarità con cui lo dovevano essere – impossibilità di acquistare vestiari, calzature e tutto il resto che occorre alla vita di qualunque, anche modesta, persona. E allora, quando tutto si è consumato, quando i nostri impiegati statali hanno le scarpe rotte e non hanno più il vestito da rivoltare, quando quelle che erano le scorte sono state esaurite, cosa si deve fare? È chiaro che non si può fare una critica alla classe lavoratrice, una critica seria, una critica fondata ad essa ed alla sua organizzazione. Si è gridato più che operato, ad alta voce talvolta, e ancora oggi si domanda che questo minimo di assicurazione per il mantenimento della vita sia concesso.

Ciò nonostante io ho affermato e ripeto che la politica del continuo aumento dei salari è una politica disastrosa per l’avvenire del nostro Paese; ed è una politica dannosa per gli interessi delle stesse classi lavoratrici. Ho detto che su questa strada noi andiamo alla svalutazione monetaria; e su questa strada c’è qualcuno che ci può seguire: sono le classi della Confederazione dell’industria e della Confida, le quali possono anche concedere non mille-duemila-tremila lire di premio o di anticipi o di acconti o di aumenti, ma anche di più, se vogliono. A loro non importa che la moneta vada a finire nel disastro; essi possiedono non capitali liquidi e circolanti; possiedono impianti più o meno efficienti. Questi impianti sono sostenuti da un’opera di finanziamento che essi vanno a chiedere soprattutto alle banche, e quindi alla Banca d’Italia e in definitiva allo Stato.

Quando sarà il momento dei provvedimenti finanziari, probabilmente il liquido che i Ministri delle finanze e del tesoro dovrebbero colpire saranno ben pochi: ci saranno degli impianti. Si possono prendere delle garanzie, è verissimo o signori, ma si può arrivare anche al punto in cui lo Stato debba assumere la gestione, non di determinate industrie-chiave, per cui è giusto che intervenga dal momento che paga già il 100 per cento o 1’80 per cento di sovvenzioni, ma di tutte le aziende, e quindi pagare per conto di tutti, lavoratori compresi, in quanto sono la grande massa e in maggior numero.

Questa è la tesi di principio sulla quale io mi sono scontrato, con me altri colleghi della mia corrente, in una discussione che ha onorato in questi giorni i lavoratori italiani; perché è durata cinque giorni e i dissensi si sono largamente manifestati e non sono successi inconvenienti, come talvolta succedono nella stessa Assemblea Costituente. Questa discussione ha segnato un contrasto: quello che vi ho descritto. Alcuni avrebbero voluto che noi andassimo alle ultime conseguenze, cioè che abbandonassimo la grande organizzazione dei lavoratori, che creassimo una scissione nell’ora della battaglia.

Signori, sono un modesto operaio, ma non sono mai abituato ad abbandonare i miei colleghi in mezzo alla lotta, alla battaglia. (Applausi al centro). Questa può essere accentuata da diverse origini, dal bisogno evidente dei lavoratori, perché lo sentono e ne vivono e naturalmente si agitano; forse anche da altre mire politiche o avveniristiche. Comunque, il Governo ha dato dimostrazione di andare incontro anche a queste agitazioni. Cito due agitazioni di carattere importantissimo: quella dei petrolieri, anzitutto, e qui si tratta di un pubblico servizio. Infatti, quando si tocca il pane, quando si toccano i gangli vitali della vita della Nazione, quando si tolgono i mezzi per cui essa deve potersi esplicare, ed affermarsi (lo dico cosi apertamente perché non sono stati solo i miei colleghi di sinistra a cercare di giustificare questo atteggiamento, ma è stato anche qualche amico della mia parte); quando ci troviamo di fronte a queste condizioni è chiaro che lo Stato, tanto più se è uno Stato democratico, non deve essere assalito né ricattato, e ha diritto di prendere quei provvedimenti che devono essere presi. Ma si è detto che questi provvedimenti li ha presi l’onorevole De Gasperi come Ministro dell’interno: ed è questa una bugia che si deve pubblicamente smentire. I provvedimenti furono presi dal Governo precedente, e precisamente dagli onorevoli Romita e Scoccimarro. Non li critico. Il Ministro dell’interno ne ha avuto notizia il giorno stesso in cui ha assunto il Ministero dell’interno; né si deve, per speculazione di partito, lasciar diffondere queste calunnie in mezzo alle classi lavoratrici. Il Governo ha fatto il suo dovere.

Io credo che questa agitazione, come altre, sarà risolta, ed a questo scopo non mancherà lo sforzo da parte della Confederazione del lavoro.

Devo dir poi che se è vero che noi dobbiamo fare uno sforzo per frenare la rincorsa a continui aumenti di paghe, altrettanto debbono fare le altre classi sociali. Non basta il prospettarci le condizioni dell’industria, non basta domandarci lo sblocco dei licenziamenti. Signori, il fatto è questo: negli stabilimenti, è vero, esiste una percentuale di operai che è esuberante al fabbisogno. Economicamente parlando, questa situazione non può continuare. Ma d’altra parte vi sono milioni di disoccupati e di reduci i quali anch’essi urgono alle porte; ed è pur questa una ragione per tenere conto di quanto prima ho esposto. È umano anche capire che quelli che sono negli stabilimenti e che sono esuberanti non lo fanno per loro gusto, ma per un senso umano di solidarietà, cioè non sempre come estremisti. In questo atto c’è un quindi un senso di fraternità verso i loro colleghi; ed allora bisogna che dei sacrifici siano fatti da tutte le parti, e contemporaneamente devono anche essi venire incontro nei limiti delle possibilità.

Sono stati invocati tanti provvedimenti: non li illustro, perché la stampa ne ha parlato, come ne ha parlato una nostra mozione sindacale in modo abbastanza sufficiente e chiaro. Bisogna, quindi, compiere uno sforzo per sostenere i nostri lavoratori, i quali versano in una condizione di estremo bisogno, dato che le attuali retribuzioni non consentono alle classi operaie e impiegatizie, e specialmente alle categorie degli statali, nemmeno un minimo di vita.

Di fronte a tutte queste necessità, bisogna che rispondano dei provvedimenti. Quali? I provvedimenti sono la compressione del costo della vita. Ebbene, il Governo ci ha presentato alcuni provvedimenti di immediata attuazione; non è possibile seguire dinanzi ai lavoratori la linea di condotta di trascurare, quasi, questo impegno. Bisogna constatare che un inizio di questi provvedimenti è in corso di attuazione. Occorre una politica di assorbimento dei disoccupati. È grave il problema, grave perché è soprattutto in funzione della politica dei lavori pubblici. Ebbene, in parte questa politica è in atto; in parte essa può essere applicata con mezzi che siano a disposizione del Governo; i mezzi straordinari si possono anche comprendere e il Governo potrà esaminarli in un secondo momento.

Anche questo fatto è stato accennato da qualche mio collega. Vi sono dei lavori pubblici e delle necessità, quali i mezzi di cui il nostro Paese avrà bisogno per la ricostruzione futura del Paese.

Tante volte, io dico, si potrà anche discutere se non sia il caso di assorbire una buona parte di disoccupati in questi lavori, lavorando e non sussidiando, dando lavoro anziché disperdere miliardi per sussidi ai disoccupati. È un problema vasto che non può essere immediatamente risolto e che, se dovesse essere immediatamente risolto, ci porterebbe certamente verso la svalutazione monetaria.

Perché mi preoccupo tanto di questa questione? Mi si è osservato che non è detto, che non è vero che l’aumento delle paghe determini sempre la svalutazione della moneta. Io sarò sempre lieto di conoscere la dimostrazione dell’asserto: non lo voglio negare né affermare. Però è chiarissimo che fino adesso, tutte le volte che si è parlato di aumenti di paghe e di salari, tutte le volte, prima ancora che questi aumenti si fossero verificati, c’è stato un aumento di tutti i prezzi di generi di prima necessità; quindi, è chiaro che una causa economica esiste ed allora dobbiamo limitarci a fare quello che possiamo: adeguare i salari al minimo necessario, reale, al costo della vita; completare i contratti collettivi di lavoro; cercare attraverso il movimento della scala mobile di determinare un elemento di stabilità per cui si sappia dove si deve arrivare.

Faccio osservare ai miei amici il pericolo di un’altra illusione, cioè che lo sforzo salariale, anche laddove è necessario e indispensabile, deve tendere ad elevare i salari più bassi al livello di quelli più alti. Ciò in parte è giusto, ma ciò fa sì che i nostri operai specializzati, a poco per volta, si convincano che la differenza che prima esisteva, ora è ridotta ai minimi termini. Così noi perdiamo la mano d’opera specializzata, la quale va avviandosi verso l’estero, e c’è oggi un mercato nero di mano d’opera specializzata. Ed allora con quali speranze noi rimarremo nel nostro Paese? Questa è una delle verità che debbo dire ai miei compagni lavoratori (Approvazioni); è una verità di cui devo assolutamente sgravare la mia coscienza anche di organizzatore. Io mi preoccupo anche per l’avvenire dei lavoratori stessi e del Paese. Non è giusto che degli operai; i quali sono venuti su da soli, si son fatti in un paese di lentissima preparazione tecnica e di scarsa preparazione professionale, con grandi sacrifici, siano considerati quasi come nemici. Noi dobbiamo invece incoraggiare, stimolare l’istruzione tecnica e professionale delle classi lavoratrici.

Queste non sono affermazioni propagandistiche; debbo dire alla mia coscienza che quello che ho fatto, che ho detto nella propaganda elettorale (chi ha ascoltato i miei discorsi in pubblico ed in privato può affermarlo) non è stato illusionistico. Ma in ogni modo in linea pratica che cosa succede? Che con il concorso e l’aiuto del Governo cerchiamo di realizzare il minimo indispensabile, e finiamo per diventare dei demagoghi.

Mi rincresce che i banchi della sinistra siano così deserti: ma io affermo questo principio, che l’azione sindacale è sempre un’azione gradualistica; è sempre, se vuol essere una cosa seria, un’azione riformista. Il sindacato organizza i lavoratori, li guida, li istruisce, li conduce a delle conquiste, sempre deve aver presente che suo dovere è quello di difendere i lavoratori. Oggi ottiene dieci, domani venti, poi trenta e così via, ma deve avere il coraggio, il giorno in cui non può più andare avanti, di tornare indietro. Questa è la scuola sindacalista, del sindacalismo democratico e libero, quel sindacalismo che c’era in Italia prima del fascismo, che c’era in Germania, che è nel Belgio, in Olanda, in Inghilterra, negli Stati Uniti. Questo sindacalismo è fatto così ed ha queste mete; non può averne delle altre; laddove c’è un altro sindacalismo, ci saranno anche diecine di milioni di organizzati, ma quello non è sindacalismo: è obbedienza ad una dittatura di Stato (Applausi). Io faccio appello ai vecchi organizzatori, che siedono nella Confederazione del lavoro, a d’Aragona, a Carmagnola, a Barbareschi. A tutti rammento la memoria di Bruno Buozzi. Le correnti sono due: la cristiana sociale e la socialista. Vi sono qui modestamente anch’io. Ci sono stati i nostri maestri, ci sono stati organizzatori come Gronchi, Quarello, Valente, ecc., ma quale è stata l’azione sindacale che abbiamo compiuta? È stata sempre un’azione gradualista.

Ci fu un caso nella prima Confederazione del lavoro, e ve lo cito perché serva il ricordo: nel 1919-20 si è avuta l’agitazione che ha condotto all’occupazione delle fabbriche. Presiedeva ed era segretario della F.I.O.M. Bruno Buozzi, che fu posto in minoranza dai lavoratori che pure lo avevano seguito da tanti anni. Orbene, l’agitazione si svolse con quei risultati che tutti conosciamo ed ebbe poi la tragica ripercussione nell’avvento del fascismo. I lavoratori stessi hanno poi richiamato Bruno Buozzi a dirigere la loro organizzazione.

Venne a Milano in quel tempo l’onorevole Miglioli, in un’adunanza di organizzatori operai bianchi, ad incoraggiarli nell’occupazione delle fabbriche. Ormai essi stavano aderendo tutti a questo invito, quando io intervenni e dissi: «Ma che cosa si domanda? L’occupazione delle fabbriche? Ma quali stabilimenti tu hai organizzati? Tu hai i contadini nelle cascine. Ma quelli le occupano tutto l’anno, dal 1° gennaio al 31 dicembre». È facile parlare di occupazione! Ed i nostri organizzatori bocciarono la proposta!

Io devo ai miei colleghi confederali, con animo leale, un onesto riconoscimento dell’esperienza fatta. Abbiamo lavorato due anni insieme, anche talvolta in dissenso. Devo quindi respingere gli attacchi polemici che sono stati fatti nella stampa contro taluno dei miei colleghi. Noi abbiamo lavorato nella Confederazione spesso oltre orario, senza nessuna retribuzione.

Anche attualmente il mio collega Lizzadri ed io non abbiamo retribuzione dalla Confederazione del lavoro. Io ho avuto la modesta indennità come liquidatore di una ex Confederazione. Non abbiamo domandato nulla; e qualche retribuzione che è in corso non supera la paga di un operaio specializzato. Questa è la verità.

Così; come io riconosco del resto sul terreno politico all’onorevole Giannini di non essere stato personalmente e nelle sue origini un fascista e sono disposto anche a riconoscere che egli non vuole attuare il fascismo in Italia e che ha cercato di offrire questa sua attività politica prima ad altri.

Il Governo affida la politica economica al Comitato di ricostruzione industriale, chiamando i rappresentanti di tutte le organizzazioni, di tutti gli interessi, per risolvere il problema che è il costo della vita, dei lavori pubblici e della disoccupazione. Io ne prendo atto, desidero che alla parte operaia sia data la più larga rappresentanza. Avrei desiderato, che risorgessero in Italia il Consiglio superiore del lavoro e il Comitato permanente del lavoro. Noi abbiamo avuto precedenti notevoli, che hanno condotto nello immediato dopo guerra (ci sono dei volumi in materia) a studiare tutta una serie di provvedimenti del dopoguerra ed hanno permesso di approvare la legislazione delle otto ore di lavoro, che non fu una conquista fascista, ma una conquista delle organizzazioni operaie.

Nel Belgio, recentemente, il Capo del Governo socialista, vecchio organizzatore, ha convocato questo grande Consiglio, che si è pure dedicato alla discussione dei problemi del lavoro e della industria. La convocazione di tutte le rappresentanze, delle organizzazioni operaie e delle altre organizzazioni industriali e dei tecnici ha condotto anche alla riduzione delle paghe, ma contemporaneamente il Governo ha imposto, la riduzione del costo della vita e l’obbligo di ribassare i prezzi.

È difficile perseguire il mercato nero, questo lo riconosco anch’io, ma se noi con coraggio ed energia ci permettessimo di mandare la forza pubblica nelle bische consentite o clandestine, sulle spiagge, nei luoghi di divertimento, dove si spendono migliaia e migliaia di lire, e sequestrassimo, noi avremmo anche per le finanze ed il tesoro un certo numero di milioni e comunque una fonte interessante di accertamento.

Politica finanziaria. Ho già detto il mio parere. Siate coraggiosi in questa materia. Il Ministro Corbino è un ottimista; egli ha espresse le sue idee; ma è chiaro che io non posso seguire il suo ragionamento. Su questo terreno, bisogna svolgere un’azione coraggiosa, immediata e sollecita, soprattutto pensando ai problemi della disoccupazione e dei reduci, e dei lavori pubblici.

Provvedimenti di carattere sociale, educativo, assistenziale: ma c’è il problema della riforma degli istituti assistenziali.

Ho sentito dire da un mio amico carissimo: aboliamo tutta questa roba, che comporta spese enormi; lasciamo che negli stabilimenti tutto si svolga in piena libertà.

Prima di tutto ci sono i due problemi: quando gli operai sono disoccupati, questi istituti o mutue aziendali non funzionano; gli industriali non pagherebbero.

Il problema dell’assistenza è anche, e soprattutto, problema di Stato. Assicurare il lavoratore, operaio o contadino, contro le malattie, gli infortuni sul lavoro, l’invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione, ecc., è un dovere sociale dello Stato.

Qui bisogna vedere quello che avviene in altri Paesi.

In Paesi democratici, come l’Inghilterra e l’America, questi problemi, che prima venivano lasciati alle libere iniziative, adesso sono oggetto di discussione e di riforma da parte dello Stato.

Io penso che non si deve accentrare tutto nello Stato, ma l’assistenza sanitaria e previdenziale nel senso più largo e completo ai lavoratori italiani, implica il suo intervento.

Contributi unificati. Gli industriali e i proprietari di terre versano (e non tutti) il denaro alle casse di assicurazione, ma segnano la spesa in conto del costo di produzione. Prima si aveva un triplice contributo: quello del lavoratore, quello del datore di lavoro e quello dello Stato. I fascisti hanno abolito quello dello Stato.

Questo dell’assistenza ai lavoratori è un problema gravissimo che deve essere immediatamente affrontato.

Un altro problema è che questi enti non possono che in minima parte diminuire il personale, perché si devono collocare i reduci e gli epurati.

Sul problema dell’emigrazione io richiamo l’attenzione del Governo.

Vi è un’azione del Ministero del lavoro, appoggiata dalle organizzazioni, che tende ad assorbire anche le competenze particolari del Ministero degli esteri. È necessario delimitare le rispettive funzioni, evitando i contrasti con una precisa linea di accordo. Non dico che bisogna pensare alla ricostituzione del Commissariato dell’emigrazione, ma una intesa è comunque necessaria.

Uffici del lavoro. Questi uffici furono creati in Italia fin dal 1902: origine prettamente italiana nel campo sociale. Noi siamo stati i primi; poi, poco per volta, con l’avvento del fascismo tutto ciò è scomparso ed è sorta una congerie di istituzioni attraverso un falso corporativismo, per cui siamo giunti a questo punto: c’è un istituto di medicina sociale il quale ha ottenuto un decreto di erezione in ente morale. I Governi, compreso quello dell’esarchia, e il Ministero del lavoro hanno autorizzato l’aumento dei fondi, ed ora vengono a chiedere a me, quale Commissario dell’I.N.A.M., 800.000 lire per pagare un istituto che non fa niente o quasi. Siccome io ho risposto che non darò i danari, prima di tutto perché non li ho, mi hanno mandato una lettera quasi minatoria in cui dicono che ricorreranno!

Ora io devo dichiarare che sono del parere che una riforma debba attuarsi nel campo assicurativo e previdenziale.

Riconosco le funzioni sindacali del collocamento, ma debitamente controllato da apposite Commissioni miste. In quanto alle forme di assistenza, di carità e di patronato io sono per la libertà. Le faccia la Confederazione per quanto può: riconosco che è una delle sue funzioni. Ma non è possibile impedirle ad altri enti. Soprattutto che non si impediscano le iniziative che derivano dalla Chiesa, che ha dato una prova così grande di carità e di assistenza in tutto questo doloroso periodo, senza distinzione di parte o di razze, per cui non è possibile negare una delle funzioni che risponde allo stesso mandato divino, al quale la Chiesa non può rinunciare (Applausi al centro).

E vengo alla seconda parte del discorso dell’onorevole De Gasperi: riforma agraria e provvedimenti per il Mezzogiorno. Dichiaro che l’ampio programma del Governo in linea di massima è da me approvato e risponde a postulati della democrazia cristiana. Però riconosco giusta l’osservazione di coloro che provvedimenti di questa portata debbano essere studiati e tradotti in disegni di legge.

Alla presentazione di questi provvedimenti noi esprimeremo il nostro giudizio.

Ai miei amici che temono un Governo democratico forte, ricordo che in Germania nel 1918, per salvare la costituzione di Weimar, per salvare la Repubblica nascente, che era presieduta da un grande socialista, Ebert, un ministro socialista ebbe il coraggio di comprimere i moti rivoluzionari che erano stati determinati.

Una voce. Ed ha aperto la strada al fascismo.

GRANDI. Non è vero! È continuato per 14 anni un Governo democratico in Germania; e se i partiti democratici avessero sentito l’unità come un impegno di collaborazione consentanea, leale, la Germania si sarebbe salvata. (Applausi al centro).

E in Inghilterra, anche recentemente, uno sciopero dei lavoratori del mare provocò l’intervento del Governo laburista e la militarizzazione. Questo non vuol dire che sia diventato meno democratico il Governo; vuol dire che il Governo ha provveduto agli interessi generali della Nazione e che non può farsi togliere la mano da nessuno quando si tratta di tali responsabilità.

Del resto questi esempi ci sono non soltanto negli Stati Uniti, ma anche, o amici, in Russia. Potremmo portare documenti formidabili per dimostrare lo Stato forte in Russia; e ne dovremmo dedurre le conseguenze. Io non lo faccio, perché non voglio dividere i lavoratori italiani. (Applausi al centro).

Ripeto dunque: una politica di svalutazione monetaria condurrebbe alla svalutazione dello stesso metodo democratico e metterebbe in pericolo la Repubblica democratica, perché quando tutto va a precipizio, sorgono subito pochi uomini cosiddetti salvatori, a dire che possiedono la panacea per tutti i mali. Questi falsi salvatori conducono alle dittature; le quali si chiamano con diversi nomi, ma sono dittature. (Approvazioni).

Concludendo, badate, o amici, specialmente della democrazia cristiana: noi abbiamo un grande maestro, Luigi Sturzo. Voi sapete come anche in questi giorni, egli – che ha mantenuto la cittadinanza italiana in America e che esercita una influenza mondiale – difenda gli interessi del nostro Paese e come abbia il coraggio di parlare agli stessi popoli.

Egli ci ha indicato una linea democratica in cui ci ha esortato a fare quello che ha fatto De Gasperi finora: uno sforzo per la coalizione dei partiti di massa. Ha esortato a difendere la Repubblica, cercando di riunire le grandi correnti politiche. Ebbene, teniamo presente il suo insegnamento, perché il giorno in cui tutto fosse fallito, non rimarrebbero che due forze. Una di queste è la forza morale, che è quella della Chiesa, colla sua perenne opera di giustizia e di pace, di fratellanza, di amore, in tutto il mondo; e si può discutere finché si vuole, ma venti secoli stanno a dimostrare che il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo ha trionfato su tutte le avversità. (Applausi al centro).

Le forze del lavoro possono coalizzarsi in tutte le parti del mondo. I più interessati a non voler più la guerra (che forse non verrà subito) sono proprio i lavoratori, perché è sulle loro famiglie e sulle loro carni che si abbatte la guerra. Essi possono coalizzarsi e si coalizzeranno. Ai Governi che perdono la testa e che impazziscono, essi diranno: di guerre non ne vogliamo sentire parlare più. (Approvazioni al centro). Questo è lo sforzo che dobbiamo compiere, incoraggiare, in Italia e fuori d’Italia; il lavoro ha con sé l’avvenire e la sorte della civiltà umana. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sardiello. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Onorevoli colleghi, parlando intorno alle comunicazioni del Governo, il pensiero va anzitutto ai massimi problemi del momento, quelli che più urgono nella nostra coscienza e che agitano le nostre passioni: i nostri rapporti internazionali.

Non riesaminerò adesioni e critiche, le quali ultime mi pare sostanzialmente attengano più ai modi della esecuzione che all’indirizzo; il quale è condizionato e anzi necessitato dalla situazione del momento, dal fatto che i vincitori, obliosi delle promesse, cercano di riconfermare rinsaldare le loro egemonie.

In questa situazione di cose quella politica di equidistanza o di equilibrio fra i due blocchi, oltre ad un valore attuale, ne ha forse, anzi certamente, uno per l’avvenire: lasciare impregiudicato e più libero il nostro indirizzo di domani, quando potremo fare liberamente una politica estera nostra, dopo la firma del trattato di pace. Oggi l’Italia ha bisogno di due cose: persistere senza abbattimenti e senza esaltazioni (gli uni e le altre espressioni non sempre soltanto di patriottismo) nella difesa rigida, inflessibile, del suo diritto, nell’affermazione della giustizia che lo assiste e, se i quattro più forti persisteranno a violarlo, levare davanti al mondo la protesta in termini storici, perché vi sono delle ore in cui i popoli, i Governi che li rappresentano e ne interpretano il sentimento, lavorano, parlano per la storia di domani, quel domani in cui l’Europa avrà ancora bisogno di noi. Un’altra cosa, onorevoli colleghi, è necessaria in questo momento: rinnovare sempre più vivamente la consapevolezza di un monito che è nelle parole di un grande italiano, in tempi egualmente tristi della nostra storia: «rispettarci da noi perché, se altri ci opprime, almeno non ci disprezzi». E le parole del grande italiano hanno oggi questo significato e devono avere questa attuazione pratica: ricostruire la nostra vita, la vita del nostro Paese, coltivare questa rinata democrazia italiana, attraverso la quale, nella sua forma luminosa repubblicana, l’Italia può e deve ritrovare il senso della sua missione di civiltà nel mondo.

In questo senso di civiltà che noi dobbiamo sforzarci di ritrovare, in questa fatica di ricostruzione di tutta la nostra vita nazionale, io vedo ingigantire la portata dei problemi della politica interna. Noi abbiamo bisogno di rilevare sempre più alto e più chiaro il volto nuovo dell’Italia e questo si fa affrontando tutti i problemi della vita interna della Nazione, problemi che sono vari, molteplici, problemi pratici, concreti di realizzazione di opere, piccole e grandi; problemi, piccoli e grandi, di ordine ideale, morale.

Consentirete che io non li esamini, neppure accenni a tutti in quest’ora; consentirete che io porti soltanto qui, nel coro delle voci italiane, accanto a quelle di altre regioni, che si sono levate, la voce della mia terra di Calabria, che sente di avere qualche cosa da rivendicare in nome del suo diritto, della sua storia, dei suoi sacrifici di tutti i tempi, sempre generosamente affrontati per passione di Patria.

Il problema del Mezzogiorno ha avuto già troppi ad esaminarlo, a vivisezionarlo in questa aula. Io mi limito a prendere atto delle promesse che sono nelle parole dell’onorevole De Gasperi, nelle comunicazioni del Governo: «Il Governo è deciso ad affrontare i problemi del Mezzogiorno».

Intendo e valuto il sottile scetticismo dell’illustre onorevole Nitti: «Non fate promesse!». È vero; ne furono fatte tante nei tempi passati. Ma, allo scetticismo che viene da età che dobbiamo sentire distanziate, io oppongo, come mi suggerisce l’ansia di questa alba di nuova vita italiana, una parola di fede; e il grido si converte in questo: «Mantenete le promesse che fate!».

Questa è la nostra speranza, la speranza particolarmente della mia terra di Calabria, che ha un’esperienza particolare, di provvidenze legislative speciali, rimaste però sempre inefficaci all’opera che si pensava, che si disegnava quasi, della sua rinnovazione, della sua vita nuova. Perché? Perché questa inefficacia di tanti provvedimenti, che pure venivano da saviezza di legislatori ed erano ispirati da una passione di solidarietà nazionale? Perché avevano per obietto soltanto dei problemi esclusivi, particolari di un momento ed erano costretti nella linea, nell’indirizzo, nella struttura dello Stato accentrato. Ecco perché oggi la Calabria, che da quelle leggi non vide mai venire, oltre la soddisfazione (quando pur venne) ad un bisogno momentaneo, quella rinnovazione che aspettava. da lungi decenni, guarda con fede alla Costituente, che deve dal fondo impostare le nuove linee della vita nazionale, dare allo Stato una struttura elastica, dare a quella regione la possibilità di esplicare le attività proprie, le proprie energie, di costruire da sé il suo avvenire.

Oh, intendo; il problema del Mezzogiorno – e chi potrebbe mai dubitarne? – implica riforme profonde di ordine politico e costituzionale; implica riforme sociali importanti e serie da affrontare. Ma di questo parleremo quando quelle riforme verranno alla discussione dell’Assemblea.

Oggi, nell’ansia di sollecitare qualcosa che può esser fatta dal Governo sarebbe accademia la parola, se non si fermasse a qualcosa di concreto. Perciò io dico: guardate le linee di quella struttura nuova dello Stato che già si disegna nella mente; hanno un presupposto certo, ormai accettato da tutti, cioè la più ampia libertà dei comuni; hanno per presupposto l’autonomia regionale – e credo che la voce più viva della Calabria sia in questa mia espressione – in un senso che voglio chiarire, in un senso cioè che riconfermi, rinsaldi il sentimento dell’unità nazionale, che nella popolazione calabrese viene dal suo intuito storico dalla sua fede, come una realtà che supera tutte le illusioni e tutti i dolori. (Approvazioni).

Voi del Governo potete ora, con le leggi che ci sono, ma interpretandole con lo spirito nuovo che già l’Assemblea vi ispira, dare questo senso di libertà ai comuni, avviare a questa concezione dell’autonomia regionale, favorire tutte le iniziative che colà possono sorgere, e vi assicuro che, se sapranno di essere tutelate e lasciate alla loro libertà di esplicazione, non mancheranno.

Questo potete fare, voi del Governo, e vi chiedo che lo facciate da questo momento.

Come? In che modo? Vi dirò. Qualcosa di modesto (ma è un ritornello che avete udito attraverso la parola assai più autorevole di tanti altri oratori): lavori pubblici. Sì, lavori pubblici; ma, guardate, non torniamo ai vecchi sistemi coi lavori donati una volta tanto (un ponte, una strada, una ferrovia, un torrente sistemato e basta); lavori pubblici, direi, con un ritmo costante, secondo un piano organico, con una visione chiara delle necessità vere, dei bisogni più urgenti di quelle popolazioni.

So che fra giorni gli organi della Confederazione generale italiana del lavoro presenteranno un piano organico di lavori pubblici per le tre province della Calabria. Una preghiera, signori del Governo: non archiviate; eseguite quei lavori: è una cosa che potete fare al più presto.

La disoccupazione, come giustamente il collega Lombardo diceva, è il primo problema della vita italiana. Questo pensiero io lo condivido incondizionatamente.

Ma la disoccupazione, il ritardo dei traffici, la difficoltà dello sviluppo dei rapporti fra paese e paese, e la stessa riforma agraria che volete affrontare, che dovrà essere affrontata e realizzata, hanno in Calabria un presupposto: il problema delle comunicazioni. E sovrattutto guardate alle strade: vie ordinarie, vie ferroviarie delle quali miglioramenti si sono avuti in questo ultimo periodo, ma delle quali bisogna anche guardare, curare, migliorare assai i servizi perché è grande in quei paesi il bisogno di intendersi, trovarsi, di rafforzare tutti i rapporti di vita. A qualcuno può parere esagerato parlare di questo bisogno così vivo e così primordiale e vederlo additato all’assillo costante del Governo. Ho qui, ma non vi leggerò, una lettera che anche l’onorevole De Gasperi, Presidente del Consiglio, conosce, un appello di alcuni paesi della fiorente piana della Calabria. Sono circa 65 mila abitanti di pochi paesi vicini che chiedono pochi chilometri di ferrovia secondaria, che faciliterebbe lo sviluppo dei loro traffici, lo smercio delle loro produzioni, i rapporti fra paese e paese, con un’importanza decisiva per la loro vita. Non segnalo questa richiesta solamente per sé, perché ve ne potranno essere altre sullo stesso argomento; ma la segnalo perché va rilevato il tono con il quale è espressa. Dicono quei cittadini: «Provvedete con giustizia e con amore!». Questo è l’anelito di quelle popolazioni. Voi lo ascolterete.

I mezzi? Lo so… La relazione, vastissima ed acutissima dell’onorevole Corbino, nella seduta di oggi, non mi persuade veramente con l’indirizzo che egli ha per la ricerca di fondi per stanziamenti speciali. Potrò non avere afferrato interamente il suo pensiero.

Comunque c’è un fatto: se credo, come credo, alla sincerità della promessa, che oggi, in questo momento, è un impegno d’onore dell’onorevole Capo del Governo, di affrontare il problema del Mezzogiorno, io credo, per la serietà stessa e la dignità della cosa, che i mezzi siano già avvistati e vi chiedo – io che ho il senso del limite – in quanto può esser dato quello che può esser dato; ma vi dico che tutto quello che può essere dato dev’essere dato a quelle popolazioni nobilissime, che in ogni momento più grave della vita della Patria hanno risposto, e rispondono, con la più generosa dedizione.

Accanto a questo problema di ordine pratico noi ne avvertiamo qualcun altro d’ordine diverso, ma non meno vivo.

Noi abbiamo bisogno che la Repubblica dia la prova, direi tangibile, che nella vita italiana che si rinnuova, si rinnuova anche il costume politico.

L’onorevole Presidente del Consiglio accennava alla sua ferma volontà e di tutto il Governo di consolidare, di difendere la Repubblica. Ecco, uno dei mezzi più forti e più sicuri: rinnovare il costume politico. Laggiù ne abbiamo bisogno ed io non vi riferirò qui l’analisi di un fenomeno troppo noto attraverso le pagine degli studiosi, saputo da tutti, e vissuto. Vi dirò che, in sintesi, potrebbe ridursi a questo: che alle autentiche forze politiche sovrastano spesso le clientele personali, degenerazione della politica, le quali non seguono un criterio politico nella scelta e nell’impiego dei mezzi e conseguentemente non hanno limiti alla difesa dei loro diritti. A questa degenerazione politica, che ha riflessi in tutta la vita di quelle regioni e ripercussioni nella vita nazionale, è urgente provvedere. Come? Il problema è tale che si risolve dal basso e dall’alto. Io non invocherò un miracolo dal Governo della Repubblica. Si risolve dal basso con l’educazione, con l’opera delle organizzazioni, dei partiti, della stampa: opera di tutti e di ciascuno.

Ma c’è qualcosa da fare anche dall’alto: piccole cose, ma che avrebbero un grande significato. Un momento fa accennavo all’importanza dei problemi interni per dare alla Patria quel volto nuovo di cui ha bisogno: problemi di ordine materiale e di ordine morale. Quello di cui parlo adesso è di ordine morale, ma è sempre un problema politico della più grande importanza e in qualcosa il Governo può intervenire.

Ecco: date alle autorità, agli organi periferici, la sensazione precisa che l’Italia che si ricostruisce, che rinasce e rinnuova il suo volto, intende garantire la libertà per tutti ed una giustizia inflessibile per tutti. Date questa sensazione a quelle popolazioni. Fate intendere che i comuni non sono lasciati, come è vecchia opinione, alla mercé del potere centrale attraverso le influenze manovrate delle Prefetture.

Fate anche un’altra cosa. Ma bisogna proprio esemplificare, ricorrendo a considerazioni di situazioni cosi modeste? È una piccola cosa; ma guardate, onorevole Presidente del Consiglio, io vado laggiù, trovo l’eco di un bisogno, l’ansia di un rinnovamento; scendo nell’ultimo casolare, ve ne porto la voce: liberate anche gli organi più modesti della polizia, gli uffici delle questure, le piccole caserme dei carabinieri dalle stratificazioni della vecchia politica, dalle pressioni delle clientele. Insomma, sentite che quelle popolazioni, per il fermento della loro storia, delle loro tradizioni, sono portate a valutare anche le situazioni politiche alla stregua di criteri morali, soprattutto la libertà, l’onestà, la giustizia in ogni manifestazione della vita. E se avrete colto il senso di una tale esigenza, avrete guadagnato definitivamente alla nuova vita italiana l’anima di quelle popolazioni. (Applausi).

Ed ora un’ultima considerazione, che mi è venuta dopo aver ascoltato la parola della collega Bianchi: guardate alla scuola!

Non ripeterò le esperte dissertazioni della egregia collega; vi additerò qualche necessità pratica, urgente.

Guardate alla scuola! Laggiù abbiamo bisogno di scuole, scuole, scuole; quelle che potete, quante potete, non palazzi scolastici, non grandi edifici, ma luoghi dove si possano raccogliere i maestri con i loro scolaretti. Per la Calabria sarebbe questo il premio migliore della Repubblica.

Se non potete istituire nuove scuole, ravvivate quelle esistenti.

Vi addito un fenomeno, segnalatomi dagli insegnanti: lo spopolamento della scuola elementare.

Provvedete ad aiutare la popolazione scolastica. Soprattutto nelle scuole di ogni ordine, particolarmente nell’inferiore e nella media, riportate, rinnovate, rafforzate un senso di dignità interiore ed esteriore, nella disciplina della popolazione scolastica, nella funzione dell’insegnante, nei libri di testo.

A questo proposito vorrei dire: Perché ancora non torna nelle scuole – con diritto di cittadinanza piena – uno di quei libri coi quali, come ha detto un illustre rappresentante della scuola italiana, che è anche nostro valoroso collega, l’Italia può ancora parlare al mondo? perché non torna il libro dei Doveri dell’uomo di Giuseppe Mazzini? Non penso che possa riscontrarsi qui una di quelle «zone di non coincidenza ideologica» delle quali parlava il Presidente del Consiglio. Siamo nel 1946; siamo soprattutto in Repubblica!

Rendiamo dunque ai giovani, dei quali oggi l’onorevole Pertini rilevava con note vive e profonde la tragedia spirituale, le dolorose vicende, il senso di comprensione, che hanno diritto di richiederci quelle pagine, che possono suscitare una ventata di idealità, ispiratrice del dovere; del dovere, onorevoli colleghi, non entro gli scenari di cartapesta della potenza o nelle infatuazioni nazionaliste, sia pure delle rivincite, ma nell’umile e grande realtà della vita quotidiana.

Se voi, signori del Governo, espressione del popolo, questa volta finalmente, in nome della Repubblica, ascolterete queste esigenze, che vi vengono espresse modestamente, sì, ma che hanno una forza d’impulso per il senso di giustizia che le assiste, ed obbedirete a queste necessità di ordine pratico concreto e di ordine morale, voi potrete dire che la vostra promessa, che, ripeto, è impegno di onore, di guardare al problema del Mezzogiorno, avrà soddisfatto non pure a quelle terre lontane, ma ad un bisogno dell’Italia, che umile ma diritta, percossa ma in piedi, ha da stare oggi davanti al mondo con la forza della sua civiltà, che le deriva dalla sua storia e dal suo genio, ma anche col senso profondo della giustizia uguale per tutti i suoi figli. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Corsini. Ne ha facoltà.

CORSINI. Onorevoli colleghi, mi dispiace molto di dovervi tediare dopo quattro ore che siete in quest’aula. Cercherò di riassumere le cose che volevo dirvi. Ma non è facile, perché già avevo cercato di comprimere le idee al massimo.

Altri più competente di me ha già messo in luce come l’attuale Governo abbia la facoltà di alterare lo stato di fatto e di diritto anticipando le decisioni di questa Assemblea. Quindi spero che non vorrà metterci di fronte al fatto compiuto, per esempio, per quel che riguarda il campo agricolo.

È questa una materia di grande importanza, di cui vi intratterrò brevemente nella mia qualità di tecnico agricolo. Devo osservare che la parte che riguarda la nostra agricoltura risente di preoccupazioni di carattere politico e trascura i problemi pratici, tecnici e produttivi, che hanno invece carattere preminente.

L’intenzione, appena accennata, di istituire degli agronomi condotti, lascia perplessi, in quanto questa figura è già stata discussa, e non favorevolmente, in seno ad assemblee di tecnici agricoli.

Si teme che questa massa di giovani non provenienti dall’agricoltura possano essere impari al grave compito tecnico che dovrebbero svolgere.

Io raccomando al Governo di cercare quanto più è possibile sollecitamente di sopprimere i tanti enti, i tanti uffici di complicazione degli affari semplici, come furono spiritosamente definiti qualche anno fa, che rendono penosa la vita degli agricoltori.

Si parla ora di misure di emergenza. Quali? È lecita la domanda?

La nostra agricoltura, dalla Sicilia alle Alpi, mostra confortanti sintomi di ripresa nonostante le difficoltà. Ora due sono le preoccupazioni: la necessità di produrre il più possibile, dar lavoro ai contadini. Possono questi provvedimenti ottenersi con la dovuta sollecitudine? A me sembra di no.

Per conseguire la maggiore produzione possibile occorre che si provveda ad incoraggiare tutta la massa dei produttori agricoli di tutto il territorio nazionale. Sembra quasi, a volte, che si dimentichi che vi sono 45 milioni di persone da sfamare e che se il raccolto del grano quest’anno è stato ottimo, pure in condizioni difficili quali, fra l’altro, la mancanza di concime, verranno presto a cessare i soccorsi dell’U.N.R.R.A. e ogni importazione di grano dovrà essere pagata o compensata altrimenti.

Perciò speravamo che il Governo si fosse preoccupato di stimolare con tutti i mezzi a sua disposizione, dal prezzo alle sanzioni contro i retrogradi, con la propaganda generica e spicciola del Ministero e di tutti i suoi organi periferici, l’interesse e la capacità degli agricoltori piccoli e grandi, in modo di spingerli al massimo sforzo produttivo con beneficio di loro stessi e con vantaggio dei consumatori.

Invece vediamo agitare lo spauracchio della riforma fondiaria e tra l’altro spingere istintivamente i produttori a sfruttare la terra, anziché a utilizzarla nel modo più razionale.

Bisogna tener presente che tutte le statistiche indicano che le aziende che più contribuiscono agli ammassi e alla produzione per il mercato di consumo sono quelle medie e grandi. Quindi, anziché parlare di espropri e simili angherie a carico di una categoria di cittadini che nulla ha da rimproverarsi e che forse è tra le più sacrificate dalle bardature fasciste, sarebbe stato più opportuno introdurre, magari provvisoriamente, il concetto dell’obbligo di annuale rinvestimento nel fondo di una parte del reddito lordo o netto a scelta, onde tendere al risultato doppio di accrescere la produzione e dare lavoro ai disoccupati.

Oltre alle molteplici difficoltà derivate direttamente o indirettamente dalla guerra, gli agricoltori si sono trovati ostacolati nel loro essenziale lavoro di produzione e ricostruzione anche dal clima, quanto mai contrario in questi due anni. Nonostante ciò, hanno saputo e voluto fare del loro meglio e il raccolto di quest’anno lo conferma. Per di più hanno largamente contribuito a dar lavoro a chi non ne aveva.

Incidentalmente osservo che se qui fosse presente qualcuno della Camera del lavoro di Firenze potrebbe essere testimonio degli sforzi che sono stati fatti per persuadere, e con notevole successo, gli agricoltori di quella provincia a dar lavoro presso le singole aziende.

Perciò mi pare che avrebbe potuto essere risparmiato a questa categoria il continuo ingiustificato stato di disordine e agitazione, coi suoi riflessi nell’organizzazione produttiva, nel quale, per motivi non chiari, si è voluto tenere una classe che era tra le meno bisognose di quante ce ne siano in Italia e che di sua spontanea volontà non avrebbe mai sognato di creare confusione e di mettersi nella illegalità: intendo alludere ai coloni mezzadri. Come giustamente ha accennato l’onorevole Pellizzari, sarebbe stato utile che nel programma governativo fosse stata compresa una categorica assicurazione che – non fosse altro per evitare danni di riflesso sulla produzione e distribuzione delle derrate – la legge e l’ordine sarebbero stati fatti rispettare anche nelle campagne.

Per dare corpo alle cosiddette misure di emergenza ci si è ridotti a riesumare concetti, metodi, istituti ed enti di non lieta memoria che si speravano in via di liquidazione al seguito del regime che li aveva creati e che hanno dato luogo in passato a non poche critiche sul loro operato. Si parla di indennità di esproprio non regolarmente pagate, di lavori fatti dove era meno utile, ma più vistosa, l’opera di espropriazioni di terreni già coltivati, mentre altri in peggiori condizioni non furono presi in esame, ecc. Non dubitiamo che nella diversa atmosfera di oggi la libera critica potrebbe aver ragione di tanti inconvenienti. Ma a che prezzo, ci dobbiamo domandare? Il costo fu esorbitante; per di più le immense somme spese furono per forza concentrate su comprensori di poche migliaia di ettari e i risultati rimasero ivi limitati. Invece le stesse cifre assegnate all’iniziativa privata e nel vasto campo del territorio nazionale avrebbero senza ombra di dubbio dati risultati produttivi di gran lunga maggiori. Ed è questo che ci interessa. La stessa argomentazione vale oggi, sia per quanto riguarda opere di miglioramento fondiario e di trasformazione fondiaria, sia per quanto si riferisce all’assorbimento di mano d’opera. Questa infatti si trova disoccupata in modo abbastanza diffuso. Per fare un esempio, se si cominciassero a fare dei lavori a Radicofani, non si risolverebbe la disoccupazione né nella provincia di Roma né nella provincia di Firenze.

Oggi in Italia ci troviamo nella più nera miseria: abbiamo scarsezza di capitali, e urge ricostruire, produrre, dare lavoro a chi lo va cercando, dar da mangiare agli affamati; non mantenere in vita enti di mediocre utilità nel campo produttivo, oggi arrugginiti e sempre costosi e burocratici nel loro funzionamento.

Nella odierna situazione occorre avere cura che ogni foglio da mille – una volta si sarebbe detto ogni soldo – disponibile per l’agricoltura vada dove fa scaturire a più breve scadenza occupazione e produzione. È quindi grave errore – tremenda responsabilità verso il Paese – parlare di costruzione ex novo di case, di colossali investimenti finanziari a tassi d’interesse inverosimilmente bassi, come la riesumazione di quegli enti fa pensare.

Quel genere di trasformazioni fondiarie presenta infatti inconvenienti che si debbono oggi evitare a tutti i costi, e sono:

1°) elevatissimo costo;

2°) lungo periodo fra l’investimento e l’effetto produttivo (diversi anni);

3°) effetto produttivo che si limita comunque a poche migliaia di ettari;

4°) assorbimento solo locale della mano d’opera;

5°) forte assorbimento finanziario-burocratico, quando chi opera sono Enti.

Ma c’è di peggio: ci si propone di dare a tali Enti contributi statali e istruzioni per procedere il più rapidamente alla esecuzione delle opere.

Ciò vuol dire non solo aumentare le spese, non guardare a qualche milioncino in più o in meno, ma vuol dire, come nelle epoche in cui si facevano le inaugurazioni il 21 aprile o il 28 ottobre, che i lavori devono essere fatti in modo affrettato, senza sufficiente meditazione, spesso improvvisati e con errori moltiplicati dalla furia. Se si fa uno sbaglio nel progettare una casa e se ne costruiscono 100 tutte insieme, ognuna soffrirà per quella svista. E l’arte dei campi non tollera «fretta, che l’onestade ad ogni atto dismaga», ma vuole che si lavori con lenta sicurezza come in tutte le cose di natura.

Nel particolare periodo attuale occorre che ogni capitale dia il massimo risultato, e rientri al più presto per poter dar vita ad un altro ciclo produttivo. Confondo qui volutamente capitale di investimento e capitale circolante, perché in agricoltura questa confusione avviene spesso e bisogna tenerne conto.

Attualmente bisogna valutare accuratamente l’effetto di ogni investimento che si faccia in agricoltura.

Una casa nuova costa oggi parecchio più di un milione di lire, e un milione al chilometro costa una strada poderale massicciata in terreni argillosi; peraltro l’effetto immediato sulla produzione di tali opere è molto scarso. Per contro, con la stessa somma, si possono fare diversi silos da foraggio e vari chilometri di medie affossature da acqua, dove mancano affatto o dove la rete è difettosa. E poiché i sili e le sistemazioni idrauliche hanno effetto subito, occorre dedicarsi a queste opere.

In Italia è già disgraziatamente abitudine di tutte le categorie di agricoltori di trasformare il loro denaro in pietra, calce e mattoni; si tratta molto spesso di capitale circolante che viene così congelato, mentre è notoria la deficienza cronica di circolante che affligge la nostra agricoltura.

Occorre che il Governo, per il tramite del Ministero dell’agricoltura – organo tecnico per eccellenza – diffonda questi concetti semplici per mezzo della sua organizzazione periferica, faccia propaganda, consigli, imponga, se occorre, agli agricoltori piccoli e grandi, senza distinzione di sorta, di concentrare la loro attività sulle opere che siano per dare a più breve scadenza, possibilmente fin dal prossimo raccolto, un vantaggio alla produzione.

Una campagna in questo senso, ben condotta, sortirà maggior effetto di quanto non possa offrire il lavoro di tutti gli enti escogitati dal passato regime.

Abbiamo in Italia plaghe a coltura intensissima, e poi tutta una graduatoria fino a giungere a zone dove la terra è utilizzata in modo estensivo sommario, apparentemente affatto irrazionale. Perché avviene ciò? Molto spesso la ragione è fuori dalla volontà o capacità umana, risiede in fondamentali difetti di carattere climatico e pedologico che rendono la produttività di quelle terre incostante ed aleatoria. In tali condizioni la grande azienda accorpata riesce a tirare avanti perché ha la possibilità economica di sopravvivere, nelle annate cattive o pessime, in attesa di più favorevoli circostanze di stagione. Forme di conduzione tramontate, e quindi più deboli economicamente, si troverebbero in paurose difficoltà a così brevi intervalli da lasciar dubbi sulla loro possibilità di mantenersi in vita.

Le risorse della tecnica, della buona volontà, del risparmio, sono infinite ed è pensabile che in un domani si possa trovare la maniera di affrontare e superare anche le difficoltà di queste zone infelici Ma non è ora, poiché siamo poveri e affamati, che possiamo rischiare di profondere i capitali che ci mancano in tali opere di dubbio esito.

Limitatamente, per carità, a suggerire – e se occorre ad imporre – anche per tali zone miglioramenti colturali di poco costo e di sicura efficacia (piccole e medie sistemazioni idrauliche, sistemazione superficiale, introduzione di macchine e concimi adatti, ecc.), che potranno avere, agli effetti della produzione che va al consumo, effetti da non disprezzarsi.

In tali zone infelici si provvede in modo agile ed economico, a fornire agli agricoltori i finanziamenti occorrenti, col contributo dello Stato qualora si rientri nelle condizioni previste dalle vigenti leggi.

Per quanto la piccola proprietà contadina pecchi molto spesso dal lato tecnico e tenda (eccezion fatta per i poderi ortivi, a vigna o simili) a far più un’agricoltura familiare che una produzione di mercato per i consumatori, pure sono da guardarsi con favore i provvedimenti che il Governo si propone di adottare per facilitare l’acquisto di terre da parte dei coloni. Questa categoria dispone oggi di larghissimi mezzi, e le progettate agevolazioni fiscali verranno indubbiamente a favorire trapassi di proprietà che si sono già iniziati e che rappresentano indubbiamente il principio di un vasto movimento di terre analogo a quello imponentissimo che ebbe luogo dopo la prima guerra mondiale.

Se non erro, allora cambiarono mano a un dipresso un milione di ettari, e poiché attualmente i contadini sono, proporzionalmente, molto, molto più ricchi di allora, c’è da aspettarsi che i trasferimenti spontanei saranno anche maggiori.

A tal fine mi permetterei, conoscendo bene la mentalità degli interessati, di dare un suggerimento: si studi e si diffonda presso i notari incaricati un contratto tipo, da adottare per simili trapassi, in cui sia lecito non far parola del prezzo pagato. Ai contadini secca molto far sapere al pubblico quanti soldi hanno.

Sarebbe però opportuno che i fondi che verranno così trasferiti fossero tutelati dal lato tecnico. Occorrerebbe pertanto che gli acquirenti beneficiari delle provvidenze governative si dovessero impegnare per un congruo periodo, per esempio 10 anni, a sottostare ad un controllo tecnico da parte dell’ispettorato agrario provinciale onde garantire la collettività – a cui spese sono stati concessi i vantaggi e le facilitazioni – che i fondi in oggetto saranno portati a una maggior produzione globale rispetto al passato, arricchiti e migliorati, anziché barbaramente sfruttati. Gli inadempienti dovrebbero perdere ogni beneficio per il seguito ed essere costretti a rimborsare quanto risparmiarono per effetto delle provvidenze e facilitazioni godute.

In merito alle affittanze collettive, concessioni di terre a braccianti e simili, si dovrà andare con la massima cautela; già vi sono state occupazioni assolutamente ingiustificate, sistemate provvisoriamente in modo assai criticabile, nelle quali gli occupanti hanno dimostrato la più palese incapacità a coltivare e gestire il fondo. Occorre assolutamente, nell’interesse della produzione e quindi del consumatore, e agli effetti della conservazione stessa del suolo, che gli interessati siano in grado di dimostrare di essere bona fide gente della terra e di avere un’organizzazione economico-tecnica, tale da garantire che faranno meglio di chi, prima di loro, gestiva il fondo.

Troppe volte infatti è avvenuto ed avviene che questi gruppi, che si qualificano in vari modi per ottenere l’uso di fondi, siano composti di barbieri, ciabattini, macellai, ecc., assolutamente inadatti a fare gli agricoltori.

In tali casi spesso non si è provveduto a rispettare i patti convenuti, non si sono pagati i modesti affitti, la terra è stata anche subaffittata a scopo di pascolo. Altre volte fondi caduti in simili mani sono stati rapidamente sfruttati (la terra non si deve mai sfruttare, ma utilizzare) rapinati di ogni fertilità, ridotti in condizioni pietose per il dilavamento superficiale. Orbene, tutto ciò non è ammissibile, l’Italia non può permettere che si scialacqui la già scarsa fertilità delle sue terre.

Onorevoli colleghi, molto vi sarebbe ancora da dire su quello che il programma non dice: vi è il problema della istruzione agraria di tutti i gradi, che è fondamentale; vi è l’altro, vitale più di quanto non si creda, delle stazioni sperimentali e di quelle fitopatologiche, che sono prive, o quasi, di fondi…

Ma sento di aver abusato anche troppo della vostra pazienza con un’argomentazione arida e noiosa per chi non s’interessa di agricoltura.

Ma una cosa mi resta da dire: nel campo agricolo, come in tutti gli altri di questo nostro povero Paese, occorre, come oratori precedenti hanno già detto, ridestare la fiducia; e fiducia significa tranquillità nel lavoro, significa essere disposti a rischiare nella speranza di ottenere un premio da questo rischio che si chiama «utile».

Poiché la terra è il più immobile fra tutti i beni immobili, la fiducia in essa deve essere assoluta. Una tale sicurezza deve essere basata su incrollabili fondamenti, o manca affatto. Per crearla occorre ben poco: basta dare a tutti gli agricoltori, grandi e piccoli, poveri e ricchi, la precisa sensazione che, se essi faranno o continueranno a fare il loro dovere, saranno rispettati i loro diritti.

I doveri si potranno e si dovranno chiarire: sono passati i tempi del «Jus utendi et abutendi» e tutti sentono ormai che, oltre a pagare le tasse, occorre che ciascuno si dedichi toto corde ad aumentare la fertilità della terra di cui dispone onde trarne, per tutti gli italiani, il massimo di prodotti compatibile con le condizioni di ambiente. La terra, come tutte le cose vive, deve essere amata, e con amore trattata perché dia tutto quanto è possibile.

Ma a coloro che abbiano compiuto il loro dovere verso la terra e verso la collettività compete il diritto, per sacrosanta giustizia, di godere e disporre liberamente di ciò che possiedono. E ciò senza timori o preoccupazioni per l’avvenire, che facciano diminuire l’attività e l’affetto per la terra, che hanno portato e continueranno a portare, nel tempo, a quei reinvestimenti di risparmio, per i quali si è compiuto il miracolo di permettere a 45 milioni d’italiani di vivere, o quasi, sul nostro territorio ristretto. (Applausi).

A nome dei numerosi agricoltori, dirigenti e tecnici agricoli, che mi onoro di rappresentare, presento la seguente dichiarazione in cui si riassumono e fissano, in brevi e schematici punti programmatici, le aspirazioni di quanti mirano, al tempo stesso, al potenziamento della produzione agricola nazionale ed all’effettivo conseguimento dei fini sociali cui il Governo si ispira:

  1. A) Ogni e qualsiasi riforma agricola intrapresa dal Governo dovrà essere preceduta dalla più ampia e libera discussione dei suoi fondamenti politici, sociali, giuridici ed economici. A tale discussione è altresì da subordinarsi l’adozione di tutti i provvedimenti relativi a riforme strutturali e funzionali dell’economia agricola.
  2. B) La discussione dovrà aprirsi, massimamente, sui seguenti problemi, di manifesto, supremo interesse per la vita economica e politica del Paese:

1°) riorganizzazione delle scuole agrarie di ogni grado;

2°) riordinamento delle istituzioni agrarie preposte all’incremento ed al controllo delle produzioni agricole;

3°) potenziamento degli istituti sperimentali per l’agricoltura;

4°) incremento e disciplina dei mezzi strumentali indispensabili all’agricoltura;

5°) riforma dei criteri informativi dei contributi associativi ed assicurativi;

6°) agevolazioni ed obblighi di trasformazione fondiaria ed agraria;

7°) riordinamento degli istituti finanziatori e bancari istituzione e perfezionamento di enti creditizi specializzati in operazioni di mutuo agricolo, opportunamente garantite dallo Stato, in analogia a quanto è stato già praticato, con proficui risultati, nel settore industriale;

8°) tutela dei costi di produzione dei prodotti agricoli;

9°) miglioramento delle condizioni sociali ed economiche del bracciantato agricolo e dei piccoli proprietari terrieri. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

CHIEFFI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere quando il Governo intenda di realizzare il collegamento elettrico con la Sicilia – presupposto di ogni miglioramento delle deplorevoli condizioni economiche dell’Isola – e se sia vera l’informazione pubblicata dalla stampa che al progetto siano stati posti o siano ancora posti ostacoli, – e nel caso che ciò sia rispondente al vero – se intenda comunicare all’Assemblea Costituente i documenti che occorrono per dimostrare che qualunque difficoltà di ordine tecnico o politico sia stata prospettata, è insussistente e non può che mascherare interessi contrastanti con lo sviluppo industriale della Sicilia, che è problema non regionale, ma italiano, di alta giustizia, ed è necessità indilazionabile per la ricostruzione nazionale.

«Basile».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere come e quando il Governo intenda venire in aiuto della città di Messina, risolvendo anzitutto la questione vitale della sistemazione del porto in cui occorre provvedere alla rapida ricostruzione delle banchine e degli ormeggi, allo sgombro dei relitti di piroscafi affondati, che ostruiscono ancora l’approdo delle navi, paralizzando ogni ripresa della vita portuale e della rinascita di Messina.

«Basile».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se non ritenga di interessare il Governo degli Stati Uniti d’America per la restituzione del Consolato a Messina, centro dell’emigrazione calabro-sicula.

«Basile».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non reputi necessità urgente assegnare – sia pure in via temporanea – ai comuni capoluogo di provincia i patrimoni (edifici e ville) già appartenenti alla disciolta G.I.L., onde sia lecito a tali comuni proseguire l’opera di difesa e di assistenza ai fanciulli bisognosi, opera interrotta per i danni recati dalla guerra ai loro stabilimenti. Si ritiene questa concentrazione di attività nei comuni più rispondente alla pochezza dei mezzi attuali e più conforme alla magnifica attività da essi dispiegata nel passato.

«Longhena, Bianchi Bianca».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non ritenga conveniente alla serietà della scuola, nel prossimo movimento del personale, trasferire quei capi d’istituto che, con la loro condotta di soverchia condiscendenza verso il fascismo, non possono oggi – evidentemente – con dignità e con fermezza ristabilire nella scuola severità di disciplina e dirittura di comportamento.

«Longhena, Bianchi Bianca».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga di intervenire efficacemente e prontamente per assicurare il ripristino a Messina della Scuola allievi ufficiali della guardia di finanza, inviando sul posto un ispettore generale e sospendendo il provvedimento della direzione generale del demanio che con ministeriale 10 corrente n. 93969 – senza attendere l’esito delle pratiche già in corso col Comando generale della guardia di finanza, ha destinato il palazzo della Libertà – ex littorio – (che doveva accogliere la scuola) a sede dell’ufficio tecnico erariale che può trovare ampi locali nell’ex G.I.L., attualmente inutilizzati e non adatti e insufficienti come sede della Scuola nautica.

«Basile».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se intenda abolire l’ammasso dell’olio, iniziando così la smobilitazione di tutte le dannose e costose bardature di guerra.

«Persico».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se non ritenga assurda la sopravvivenza del ruolo degli amministratori giudiziari compilato durante il regime fascista, quando – come è noto – requisito indispensabile per esservi iscritti era l’appartenenza al partito fascista e le cosiddette benemerenze fasciste costituivano il principale criterio di graduatoria;

2°) se, dato che la sopravvivenza del vecchio ruolo è offensiva e dannosa per quanti professionisti seppero mantenere durante l’abbattuto regime la propria. dignità ed indipendenza, il Governo non ritenga opportuno disporre che il predetto ruolo venga considerato non più esistente e che, in attesa di uno nuovo, gli incarichi vengano dati a coloro che ne siano oggettivamente più meritevoli.

«Cappi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se sono a sua conoscenza gli atti di banditismo, che quotidianamente sono commessi da evasi dal carcere nella provincia di Reggio Calabria con rapine a mano armata e continue grassazioni; e quali provvedimenti intende prendere al fine di ovviare alla situazione di terrore determinatasi nella popolazione, specialmente nella piana di Rosarno. Se è a sua conoscenza che tali bande sono al servizio dei monarchici della provincia suddetta allo scopo di far diminuire agli occhi della popolazione il prestigio della repubblica, come di fatto sta avvenendo, senza che le autorità tutorie intervengano efficacemente contro tale opera sobillatrice.

«Musolino».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere:

se, allo scopo di lenire con urgenza la dilagante disoccupazione ed in previsione dell’impiego per importanti lavori pubblici di mezzi provenienti da misure finanziarie di emergenza, non ritenga opportuno disporre che intanto vengano utilizzati gli attuali stanziamenti di bilancio, concentrandoli nel corrente semestre, onde ottenere il duplice risultato di dare un forte impulso a dette opere ed impostare i lavori prima della stagione invernale;

se, in connessione con tale provvedimento, non ritenga indispensabile mobilitare tutti gli apparati tecnici ed amministrativi delle provincie e dei comuni che abbiano la necessaria efficienza, incaricando gli stessi della progettazione degli appalti e dell’esecuzione, e concedendo i relativi finanziamenti, salvo la riserva al Genio civile dei collaudi e della definitiva liquidazione.

«Tale provvedimento, già annunciato nel programma dell’attuale Governo e ritenuto utile dai precedenti, come da circolare 25 gennaio 1945, n. 309, diretta ai prefetti e con decreto legislativo luogotenenziale 12 ottobre 1945, n. 690, articolo 4, dovrebbe concretizzarsi con provvedimento legislativo e conseguente regolamento, per consentire agli Enti locali di farsi parte diligente per dette progettazioni ed impegnare la personale responsabilità dei funzionari del Genio civile e dei Provveditorati alle opere pubbliche per la evasione in termini stabiliti di ciò che loro compete.

«Si ritiene che questo provvedimento concorrerebbe a risolvere le difficoltà burocratiche inerenti all’inizio ed esecuzione dei lavori pubblici, difficoltà sentite e lamentate da tutti gli amministratori degli Enti locali.

«Ruggeri, Molinelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, perché dica se non ritiene necessario deplorare il prefetto di Chieti, il quale, arrogandosi poteri che non gli spettano e piegando l’autorità dello Stato a servizio di parte, ha indirizzato 1’11 luglio una nota di riprovazione e di aperta deplorazione al sindaco di Lanciano per le parole da questo pronunciate nel suo discorso dell’11 giugno, in celebrazione della Repubblica, contro l’azione elettorale del clero e specialmente contro il manifesto pastorale emanato, la vigilia delle elezioni politiche, dai titolari delle cattedre vescovili ed arcivescovili di Abruzzo a coartazione della libera scelta degli elettori – manifesto condannato, sia pure con ragionato ritardo, persino dalle supreme autorità ecclesiastiche romane.

«L’atto del prefetto di Chieti (lesivo dei diritti elementari dei cittadini ed offensivo delle libertà comunali appena riconquistate, delle quali il sindaco è espressione e portavoce) fa supporre che in questo funzionario persistano atteggiamenti mentali e metodi di amministrazione che, propri del fascismo, non sono più tollerabili nel nuovo Stato repubblicano e democratico, e per i quali si esige un’aperta condanna da parte di chi è oggi investito del compito geloso di tutelare e rassodare le libertà appena riconquistate.

«Terracini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se ritiene giusto il provvedimento del premio assegnato ai consegnatari del grano agli ammassi in funzione dei periodi di consegna.

«Il provvedimento, che viene a favorire coloro i quali ebbero a seminare i grani precoci prima della promulgazione del provvedimento stesso, quelli che si trovano in pianura ed i grossi agricoltori attrezzati per una rapida trebbiatura, viene invece ad escludere i piccoli agricoltori dipendenti dal turno imposto dalle trebbiatrici a noleggio, nonché gli agricoltori della media e alta collina.

«Si prospetta la necessità di eliminare ingiustificate sperequazioni e di corrispondere a tutti gli agricoltori il premio in unica misura, purché la consegna non vada oltre una data fissa, che potrebbe essere quella del 31 agosto.

«Miccolis, Trulli, Rodi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, sulla necessità di prendere gli opportuni accordi con la Società delle ferrovie del Sud-Est per il ripristino di un’altra coppia di treni sulla linea Lecce-Gallipoli (come già nel periodo pre-bellico).

«Quelli attualmente esistenti sono assolutamente insufficienti ai bisogni delle popolazioni locali. Tali treni potrebbero svolgere servizio per viaggiatori e merci. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«De Maria, Gabrieli».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della guerra, dell’agricoltura e delle foreste e dei lavori pubblici, per sapere le ragioni per le quali con tanta lentezza si è finora proceduto allo sminamento dei campi minati.

«Si chiede particolarmente quali piani siano in corso e quali mezzi siano in opera per una immediata liberazione dalle mine che infestano e sottraggono alla produzione tanti terreni della zona emiliano-romagnola, con tanto danno della ricchezza pubblica e privata. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Braschi, Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere le ragioni che ancora ritardano l’abrogazione del vigente Codice fascista di procedura civile, che ha paralizzato quasi totalmente l’attività giudiziaria, abrogazione attesa vivamente da tutte le Curie d’Italia e dalla stessa Magistratura.

«Si impone l’immediato ritorno al vecchio Codice ed alle norme del procedimento sommario, cui in seguito potranno apportarsi opportune modifiche. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere a quale punto siano le trattative con la Svizzera per l’auspicata costruzione dell’idrovia Locarno-Venezia, alla quale è direttamente e vivamente interessata anche la provincia di Brescia, e quali siano i propositi del Governo al riguardo. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bulloni, Bazoli, Ghislandi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se e quali accordi il Governo italiano ha stabilito con le autorità jugoslave circa la possibilità e il permesso ai cittadini italiani già residenti nell’Istria e nel Fiumano di trasportare i beni mobili di loro proprietà e circa le garanzie a quelli proprietari di immobili per il godimento e l’eventuale realizzazione dei loro beni, (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bulloni, Bazoli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se, con i provvedimenti annunciati dal Governo a favore dei pensionati, s’intenda eliminare l’ingiusta sperequazione esistente fra i pensionati dello Stato e quelli a carico di Istituti amministrati dalla Cassa depositi e prestiti (Cassa di previdenza sanitari, Cassa di previdenza impiegati enti locali, Cassa di previdenza salariati enti locali, Cassa di previdenza ufficiali giudiziari), concedendo a tutti indistintamente i pensionati piena parità di trattamento di fronte all’identità dei bisogni e intervenendo quindi con mezzi a carico dello Stato alle necessarie integrazioni degli assegni dei pensionati a carico degli Istituti di previdenza amministrati dalla Cassa depositi e prestiti, le cui condizioni finanziarie sono attualmente tali da non consentirle di corrispondere ai pensionati dipendenti gli aumenti che lo Stato dispone a favore dei propri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della guerra, per sapere i motivi che hanno potuto consigliare la soppressione in Catanzaro dell’ospedale militare, che conta novant’anni di vita e ha un movimento mensile di duemila entrati e duemila usciti. Tale provvedimento, oltre a colpire gravemente gli interessi di una città, vittima di continue spoliazioni di sedi di enti ed uffici pubblici, toglie a due regioni d’Italia, la Calabria e la Lucania (le sole della Penisola, che resterebbero prive di Ospedale militare), una importante istituzione, a tutto danno dell’assistenza sanitaria, con i pregiudizievoli inconvenienti, che sono stati così individuati in una recente deliberazione della Giunta municipale di Catanzaro:

  1. a) l’afflusso dei militari distaccati nella Calabria, che già è difficoltoso per Catanzaro, data la notevole estensione del territorio di giurisdizione e la scarsezza dei mezzi di trasporto, diventerà addirittura gravoso ed oneroso per il nuovo centro ospedaliero (Napoli) cui i militari dovrebbero essere avviati e che da Catanzaro dista ben 500 chilometri;
  2. b) verranno meno le possibilità di intervento immediato per risolvere crisi di vita in imminente pericolo;
  3. c) aumenterà il contagio di certe malattie, quando gli infermi saranno costretti a raggiungere la sede di Napoli in treno, in scompartimenti misti e civili;
  4. d) risulteranno lente e tardive le determinazioni medico-legali e le definizioni della posizione dei cittadini chiamati alle armi, a causa della distanza, del tempo e della congestione che verrebbe a prodursi nell’Ospedale militare;
  5. e) egualmente per le stesse ragioni, lenti e tardivi il ricovero, l’assistenza e l’aiuto in tutti i casi di eventuali gravi emergenze.

«L’interrogante chiede di conoscere se l’onorevole Ministro della guerra, di fronte al giustificato allarme della città di Catanzaro, non ritenga necessaria ed urgente la revoca dell’indicato provvedimento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Caroleo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non ritenga opportuno disporre il pagamento dei danni di guerra agli agricoltori della provincia di Messina od almeno la corresponsione sollecita di un acconto, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Martino Gaetano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro del tesoro, per conoscere se non ritengano opportuno, al fine di facilitare la ricostruzione dell’abitato delle città fortemente danneggiate dalla guerra:

  1. a) elevare al 75 per cento il contributo dello Stato ed a lire 500.000 il limite di cui all’articolo 12, n. 1, ed all’articolo 16, lettera b), del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 305, per i comuni già terremotati;
  2. b) adottare provvedimenti che assicurino il concorso di istituti finanziari per fronteggiare i mutui necessari con l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Martino Gaetano».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere – in relazione alla preoccupante situazione esistente nella provincia di Treviso, dove i disoccupati sono trentamila, molti i progetti della provincia, dei consorzi, dei comuni, ma pochi, limitati i finanziamenti, erogati dopo esaurita una troppo, tremendamente lunga procedura, tanto che spesse volte vanno deserte le aste – se e quali siano le somme, nel corrente esercizio finanziario, messe a disposizione del Provveditorato di Venezia.

«Se non ritenga necessario, in via assoluta, di aumentare quanto disposto, e se non creda di dare autorizzazione perché, se non tutta, almeno una parte della somma stanziata dal Provveditorato sia messa, con le dovute garanzie, a disposizione degli Enti interessati, onde facilitare l’appalto dei lavori e il pagamento degli stessi, evitando che le ditte restino esposte con forti capitali per mesi e mesi. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Sartor».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, in considerazione dell’aggravarsi dello stato di disagio in cui versano le popolazioni, non ritenga doveroso revocare le disposizioni impartite con telegramma circolare ai prefetti per la sospensione dei sussidi in danaro, erogati per il tramite degli enti comunali di assistenza, a favore dei bisognosi. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Vicentini, Cavalli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, perché dica quali provvedimenti sono stati adottati o intende adottare per accelerare la ricostruzione e l’attivazione delle linee ferroviarie dell’Abruzzo. In particolare l’interruzione della linea Pescara-Roma dura da oltre due anni dalla liberazione, sicché praticamente l’Abruzzo si è trovato e si trova ancora tagliato fuori dalla Capitale. Anche per le altre linee ferroviarie d’Abruzzo, dello Stato e secondarie, si attende da tempo la ricostruzione, imprescindibile per dare incremento alla ricostruzione edilizia delle zone di quella regione devastate dalla guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Castelli Avolio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, perché dica se ritiene opportuno, dato lo stato di isolamento in cui si trovano molti paesi della provincia di Chieti e della Vallata del Sangro, che più fortemente hanno subìto le distruzioni della guerra, di ripristinare con assoluta urgenza le comunicazioni telefoniche di quei paesi, delle quali è sentita la imprescindibile necessità in casi di soccorsi sanitari e per esigenze di ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Castelli Avolio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti sono stati presi o si intende prendere per stroncare l’ingente clandestino passaggio di generi alimentari oltre frontiera, rappresentati soprattutto, in questo periodo, da uova e grano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della guerra, per sapere se non creda necessario revocare il provvedimento che scioglie il deposito 59° reggimento fanteria in Tempio.

«Tale provvedimento avrebbe per conseguenza il licenziamento della quasi totalità degli impiegati e dei salariati diurnisti (mutilati, invalidi, combattenti e reduci delle passate guerre e dell’ultima) e molte famiglie sarebbero messe sul lastrico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Abozzi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere se per gli insegnanti titolari esonerati dal servizio per motivi politici o razziali e rientrati nei ruoli dopo la liberazione, verranno computati gli anni che furono fuori servizio tanto agli effetti degli scatti di stipendio quanto a quelli della pensione. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Lozza, Mezzadra, Iotti Leonilde, Platone».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e delle finanze, per conoscere se non ritengano fondati i reclami dei mutuatari morosi dell’ex Istituto Vittorio Emanuele III pro danneggiati del terremoto 28 dicembre 1908 di Reggio Calabria, chiedenti, a cagione dei danni di guerra subìti:

1°) la riduzione del mutuo al danno effettivamente sofferto;

2°) l’abolizione degli interessi e delle provvigioni, che, per l’ammortamento in 50 anni, diventano onerosi rendendo in conseguenza necessario un nuovo ammortamento per il solo capitale;

3°) in subordinata, l’esonero del residuo mutuo per i proprietari dei fabbricati distrutti o gravissimamente danneggiati dai bombardamenti aerei. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno bandire un concorso speciale per titoli riservato agli insegnanti elementari che posseggono un minimo di 5 anni di servizio provvisorio con la qualifica di valente.

«Si tratta di una non grande aliquota di insegnanti, che non hanno potuto adire a concorsi negli anni scorsi, soprattutto a causa della guerra e dello stato di emergenza ad essa inerente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Taviani».

«II sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non intenda dare disposizioni o promuovere le misure necessarie affinché sia data validità in Italia, anche per l’accesso alle Università e scuole superiori, ai titoli di studio di scuole secondarie conseguiti all’estero da coloro le cui famiglie sono state costrette per motivi politici a emigrare e a rimanere lontano dalla Patria per lungo periodo di tempo con gravi sofferenze e privazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pera».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere quando e come intenda regolarizzare la posizione del corpo insegnante del conservatorio musicale «Gioacchino Rossini» di Pesaro, la cui assunzione fuori concorso, effettuata dal maestro Riccardo Zandonai nel 1940, è stata successivamente annullata senza discriminazione, in applicazione del decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1945. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Molinelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e delle finanze, per conoscere se non ritengano opportuno ed urgente disporre studi intesi ad attuare una riforma dell’ordinamento delle Casse di previdenza per gli impiegati degli enti locali, la quale, portando modifiche della legge 6 luglio 1939, numero 1035, del Regio decreto-legge 13 marzo 1938, n. 680, e delle leggi 11 giugno 1916, numero 720 e 25 luglio 1941, n. 934, elimini la disparità fra il trattamento di quiescenza fatto a tali impiegati in confronto a quello fatto agli impiegati dello Stato, nonché la snervante lentezza burocratica della procedura per la liquidazione delle pensioni, in modo che, per effetto di una diversa costituzione dei Consigli di amministrazione delle Casse (chiamando a farne parte esclusivamente rappresentanti degli enti locali ed iscritti), nonché di un largo ed oculato decentramento dei servizi (mediante la istituzione di uffici regionali o provinciali col compito di provvedere alla completa trattazione delle pratiche, dall’accertamento dei contributi alla liquidazione delle pensioni), e della semplificazione di tutta la procedura, sia possibile che il conferimento dell’assegno di riposo venga eseguito entro uno o due mesi al massimo dalla cessazione del servizio; e per conoscere altresì se frattanto, durante il periodo, inevitabilmente non breve, necessario per approntare tali studi, non credano di provvedere con la massima urgenza, attraverso rivalutazioni o assegnazioni di congrue indennità, a sollevare i pensionati ed i pensionandi degli enti locali dal gravissimo stato di indigenza in cui versano, conseguendosi in tal guisa anche l’intento che moltissimi vecchi dipendenti, che già abbiano raggiunto i limiti di età, resi tranquilli per la loro vecchiaia, sfollino gli uffici per lasciare i posti da essi occupati ad elementi più giovani e più validi: il che recherebbe anche un efficace contributo alla soluzione dell’arduo problema della disoccupazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ponticelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se, in materia di epurazione, anche in armonia al proposito di pacificazione degli animi espresso nel proprio messaggio dal Capo dello Stato ed al suggerimento recentemente dato al Governo dal Consiglio di Stato, non ritengano giusto ed opportuno disporre un provvedimento che, eliminando la disparità di trattamento fra coloro che beneficiano delle disposizioni assai più miti sancite dal decreto legislativo luogotenenziale 9 novembre 1945, n. 702, e coloro che invece furono dispensati dal servizio, in ordine alle precedenti e assai più severe disposizioni, offra la possibilità a questi ultimi, di grado inferiore al 7°, di ottenere, o per iniziativa dell’Amministrazione da cui dipendono, o su loro domanda, la revisione della posizione loro per conseguire la riammissione in servizio sempre che non sussistano nei loro confronti manifestazioni di grave faziosità fascista o gli estremi previsti dall’articolo 2 del sopracitato decreto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ponticelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga ingiusto, che ai piccoli agricoltori che per ragioni climatiche o per poco terreno posseduto non raggiungono la necessaria produzione familiare, sia rilasciato dagli uffici accertamenti solo il quantitativo di quintali 1,50 per persona, quantità assolutamente insufficiente per il nutrimento di dette famiglie rurali che si veggono anche menomate in confronto agli altri agricoltori, a cui vengono rilasciati quintali due per persona. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritenga opportuno stabilire:

1°) che il premio fissato per chi consegna il grano entro il mese di luglio sia esteso indistintamente a tutti quegli agricoltori che consegnano il grano entro dieci giorni dalla trebbiatura;

2°) che il fabbisogno familiare per gli agricoltori dai dieci ai sessant’anni sia fissato in quintali tre annui;

3°) che sia provveduto in tempo il grano per la futura semina, il cui prezzo non dovrà superare di lire 500 il prezzo del grano pagato all’agricoltore;

4°) che sia stabilito un severo controllo sul prezzo e sulla equa distribuzione dei concimi, i quali devono essere dati a chi possiede la terra e non già a chi possiede la tessera sindacale;

5°) che il quantitativo di grano da seme, per le zone collinari e montane, venga elevato alla quota di quintali 2,5 per ettaro;

6°) che sia risolta con la massima urgenza e con un provvedimento definitivo la nota questione del prezzo del grano da valere per la corresponsione del canone d’affitto;

7°) che il quantitativo necessario all’approvvigionamento della popolazione non produttrice, residente nei comuni rurali, sia subito accantonato e non asportato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Scotti Alessandro, Badini Confalonieri».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per conoscere se siano state date istruzioni precise ai funzionari della magistratura giudiziaria e della pubblica sicurezza (a questi nella loro qualità di agenti della polizia giudiziaria), perché si proceda con la necessaria energia e tempestività contro le varie pubblicazioni periodiche che, con illustrazioni e scritti osceni, corrompono le coscienze e le intelligenze della popolazione italiana, specialmente degli adolescenti, e cooperano notevolmente alla decadenza morale del Paese. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«De Maria, Titomanlio Vittoria».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quando intende far ristabilire normali comunicazioni giornaliere, ascendenti e discendenti, sulla linea Milano-Gallarate-Luino delle ferrovie dello Stato, dando così una giusta soddisfazione a gran numero di lavoratori e favorendo lo sviluppo del turismo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Buffoni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga opportuno di proporre un provvedimento legislativo che dia modo agli israeliti, vittime della politica razzista del fascismo, di rientrare in possesso dei beni mobili e immobili, degli appartamenti, dei fondi di commercio, dei quali furono spogliati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Buffoni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per dare soddisfazione alle richieste di riordinamento e miglioramento dei servizi del tribunale di Busto Arsizio, che fin dal maggio scorso sono state presentate dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Busto Arsizio, d’accordo coi sindaci dei centri più importanti dell’Alto Milanese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Buffoni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione; per sapere se non creda equo soprassedere al collocamento a riposo per limite di età di alcuni insegnanti di scuole elementari pei quali, nelle condizioni attuali del Monte pensioni, il provvedimento significherebbe passare dopo 45 anni di lavoro a una vita di fame.

«Si fa notare che un simile trattamento è stato già fatto ai professori delle Università. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro ad interim dell’Africa italiana, per sapere quali provvedimenti si intenda adottare, per affrettare il rimpatrio di nostri connazionali, ex prigionieri, i quali attendono in Somalia da più di un anno, privi di ogni mezzo di sussistenza, un piroscafo italiano che li riconduca in patria. Il rimpatrio a proprie spese sembra sia impossibile per il costo del biglietto (lire 100.000). (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Moro».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere quali provvedimenti intenda prendere allo scopo:

1°) di adeguare i mezzi ed il personale degli uffici delle imposte alla molteplicità dei tributi diventati oggi così numerosi che gli uffici distrettuali sono impegnati per più di quattro mesi all’anno a compilare ruoli;

2°) di assicurare una relativa stabilità alle nuove leggi fiscali.

«In molti uffici delle imposte il personale di concetto è uguale ed anche inferiore a quello esistente nel 1920; gli uffici non sono dotati di telefono; la somma assegnata per cancelleria è quella fissata nel 1931; i lavori di riparazione agli immobili e mobili richiedono una lunga e spesso infruttuosa pratica presso il Ministero, ecc.

«Si rende, pertanto, necessario l’adeguamento del numero del personale e della relativa retribuzione; ed occorre, inoltre, che per l’emanazione delle nuove leggi tributarie siano preventivamente sentiti non soltanto i teorici di cattedra, ma i tecnici, cioè coloro i quali dovranno poi applicarle, evitando così che alcune leggi, subito dopo la loro promulgazione, per difficoltà di attuazione, debbano essere assoggettate a radicali riforme. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Del Curto».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere quale condotta egli intende seguire per dirimere il grave conflitto che pone di fronte contadini mezzadri e proprietari terrieri. In considerazione dell’irrigidimento della Confida, che respinge il lodo arbitrale, gli interpellanti chiedono se non ritenga opportuno, per un principio di equità e di giustizia, trasformare il lodo in decreto-legge, per dare soluzione ad un conflitto che si trascina nel tempo e che minaccia l’economia nazionale e l’ordine pubblico.

«Di Vittorio, Farini, Fedeli Armando, Dozza, Bardini, Barontini».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

  1. – Proposta di aggiunta al regolamento. (Doc. II, n. 3).
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

SABATO 20 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

IX.

SEDUTA DI SABATO 20 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Aldisio, Ministro della marina mercantile                                                           

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Presidente                                                                                                        

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                          

Corsi, Sottosegretario di Stato per l’interno                                                        

Miccolis                                                                                                           

Recca                                                                                                                

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                      

Preziosi                                                                                                            

Gonella, Ministro della pubblica istruzione                                                          

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Preziosi                                                                                                            

Alberganti                                                                                                      

Valiani                                                                                                             

Condorelli                                                                                                      

Coppa                                                                                                                

Bruni                                                                                                                  

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Schiratti, Segretario                                                                                         

La seduta comincia alle 16.30.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Aldisio. Ne ha facoltà.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Onorevoli Colleghi, durante la seduta di ieri l’onorevole Finocchiaro Aprile ha fatto esplicito accenno ad una sua dichiarazione pubblicata su due giornali romani, e contenente affermazioni di carattere calunnioso nei miei riguardi. A suo tempo, sporsi querela con ampia facoltà di prova contro lo onorevole Finocchiaro e contro i giornali che avevano ospitato la sua prosa. Lo invito formalmente ad usare della facoltà stabilita nel decreto all’articolo 5, di rinunziare alla amnistia in modo che il procedimento possa avere regolare svolgimento.

Per quanto riguarda le affermazioni di natura politica, sono certo che al momento opportuno gli sarà data la dovuta risposta. Desidero solo rilevare che l’ingiuria rivoltami con la frase «traditore della Sicilia» non mi tocca e non mi turba. Essa riecheggia l’altra fatta scrivere sui muri della città di Palermo: «Morte ad Aldisio, venduto all’Italia!».

Orar per chi non lo sapesse, io devo fieramente affermare qui che, durante i diciotto mesi di Alto Commissariato, vissuti in un ambiente reso estremamente difficile dalla azione criminosamente sobillatrice dei dirigenti del movimento separatista, io tenni a garantire costantemente e gelosamente gli interessi dell’Isola, ma tenni a difendere al tempo stesso l’italianità della Sicilia (Applausi al centro) e l’unità della Patria, alla quale i siciliani, nella loro totalità, si sentono indissolubilmente legati. (Vivissimi applausi al centro).

Essi sono estranei al famigerato ordine del giorno che, primo firmatario Finocchiaro Aprile, fu presentato al Colonnello Carlo Poletti per intimargli, sotto minaccia di gravi rivolte, di non consegnare, nel febbraio del 1944, l’amministrazione civile dell’isola al Governo italiano.

E sono estranei ai cosiddetti memoriali che Finocchiaro Aprile si vantò di aver fatto pervenire a San Francisco ed a Londra ai rappresentanti delle Nazioni Unite, memoriali coi quali si chiedeva l’intervento delle nazioni straniere, Jugoslavia compresa, per la elevazione a Stato sovrano indipendente della Sicilia.

In questa ed in altre numerose circostanze, io mi sono comportato – e lo hanno riconosciuto tutti i governi, da Bonomi a De Gasperi – come doveva comportarsi un italiano degno di questo nome. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Signori Deputati, io confermo in pieno tutte le accuse cui si è riferito testé l’onorevole Aldisio, e da me mossegli durante il mio internamento a Ponza e prima; accuse contenute nel giornale Il Risveglio e, se non erro, anche nella Voce Repubblicana, giornali entrambi pubblicati a Roma.

Non è mistero per alcuno. Basta camminare per le strade di Palermo per sapere che cosa fu l’Alto Commissariato Aldisio. Una inchiesta s’impone.

Egli mi invita oggi a dichiarare, a norma di legge, di rinunziare all’amnistia. Ma c’è dubbio in proposito? Però, dobbiamo ristabilire l’uguaglianza fra di noi di fronte al magistrato, come dichiarai al giudice istruttore. Quando Giovanni Bettolo, Ministro della marina, querelò l’onorevole Enrico Ferri, il primo dovere che intese fu quello di rassegnare le sue dimissioni da ministro. Senta questo dovere l’onorevole Aldisio. Quando egli lo avrà adempiuto, io farò il mio. Prima no. (Commenti).

Una voce. Molto comodo!

FINOCCHIARO APRILE. Per quanto riguarda la comunicazione fatta da noi indipendentisti al Colonnello Poletti, si tratta di dichiarazioni che oggi io ripeterei. Io protestai con gli alleati, e particolarmente col Colonnello Poletti, perché non volevamo che la Sicilia fosse riconsegnata alla traditrice monarchia sabauda. (Interruzioni – Rumori).

Per quel che si riferisce ai memoriali alla Conferenza di San Francisco ed alla Conferenza di Londra, questi memoriali furono approvati dal Comitato nazionale del Movimento per l’indipendenza della Sicilia.

Perché questi appelli furono inviati? Lo dissi già molte volte e lo ripetei ieri: non già per chiedere aiuto agli alleati. Noi dichiarammo sempre che l’indipendenza il popolo siciliano dovrà sapersela conquistare da sé e la conquisterà.

Noi ci rivolgemmo agli alleati nel momento in cui il Governo chiedeva che la cobelligeranza fosse trasformata in alleanza. Ci rivolgemmo non a nemici, ma ad amici, a coloro che avevano l’effettiva sovranità in Italia, per denunziare il Governo italiano, emanazione del Comitato di liberazione, una delle cose più ignobili che… (Interruzioni – Rumori vivissimi).

PRESIDENTE. La richiamo all’ordine!

FINOCCHIARO APRILE. Sta bene. Ci rivolgemmo agli alleati, dopo avere inutilmente fatto appello al Governo italiano, per denunziare – dicevo – che vi erano cittadini in Italia ai quali era negata ogni più elementare libertà, che non avevano né libertà di stampa, né di parola, né di riunione; e l’onorevole Aldisio sa bene ciò, perché fu precisamente lui a non volere che queste libertà fossero concesse a noi suoi conterranei e suoi perseguitati. Non mi occupo degli altri rilievi dell’onorevole Aldisio che non mi riguardano.

GRONCHI. Perché non si è svegliato indipendentista sotto Mussolini?

FINOCCHIARO APRILE. Prima di tutto, quando ci rivolgemmo la prima volta agli alleati, si era appunto sotto il regime fascista ed in piena guerra guerreggiata; e noi sapevamo che fare gli indipendentisti sotto Mussolini era correre serio pericolo, pericolo che voi non correste affatto quando c’era Mussolini al potere. (Rumori – Interruzioni – Commenti animati).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i Deputati Angelini, Martinelli, Sforza.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che stamane si è riunita la Commissione per la Costituzione, la quale ha proceduto alla nomina del Presidente, di tre Vicepresidenti e di tre Segretari. Ecco il risultato delle votazioni:

Per la nomina del Presidente: votanti 61. Hanno ottenuto voti i Deputati: Ruini 47, Mastrojanni 7, Tupini 1, Calamandrei 1, Zuccarini 1. Schede bianche 4.

Risulta eletto il Deputato Ruini.

Per la nomina di tre Vicepresidenti: votanti 61. Hanno ottenuto voti i Deputati: Tupini 27, Ghidini 21, Terracini 18, Lucifero 7, Calamandrei 6, Penna Ottavia 6, Einaudi 3, Zuccarini 2, Ambrosini 1, Bocconi 1, Lussu 1, Perassi 1.

Risultano eletti i Deputati: Tupini, Ghidini, Terracini.

Per la nomina di tre Segretari: votanti 60. Hanno ottenuto voti i Deputati: Perassi 50, Molè 12, Marinaro 10, La Rocca 9, Colitto 7, Pertini 2, Bozzi 1, La Pira 1, Ambrosini 1, Zuccarini 1, Pesenti 1.

Risultano eletti i Deputati: Perassi, Molè e Marinaro.

Avendo l’onorevole Molè rinunziato, si è proceduto ad una seconda votazione, col seguente risultato: votanti 53. Hanno ottenuto voti i Deputati: Grassi 31, La Rocca 9, Colitto 6, Ambrosini 1, Bozzi 1. Schede bianche 5.

Risulta eletto il Deputato Grassi.

Anche la Commissione per i Trattati internazionali ha proceduto alla nomina del Presidente, di due Vicepresidenti e di due Segretari. Ecco il risultato delle votazioni:

Per la nomina del Presidente: votanti 27. Hanno ottenuto voti i Deputati: Bonomi Ivanoe 18, Sforza 6, Orlando 2. Schede bianche 1. .

Risulta eletto il Deputato Bonomi Ivanoe.

Per la nomina di due Vicepresidenti: votanti 27. Hanno ottenuto voti i Deputati: Togliatti 13, Gronchi 13, Cianca 1.

Risultano eletti i Deputati Togliatti e Gronchi.

Per la nomina di due Segretari: votanti 27. Hanno ottenuto voti i Deputati: Treves 21, Persico 5, Matteotti Matteo 1.

Risultano eletti i Deputati: Treves e Persico.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni.

Poiché è assente l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’agricoltura, lo svolgimento dell’interrogazione dell’onorevole Preziosi al Ministro dell’agricoltura è rinviato ad altra seduta.

La prima interrogazione è quella degli onorevoli Miccolis, Trulli, Rodi, Patrissi, Ayroldi, Lagravinese Pasquale, al Ministro dell’interno, «per conoscere se e quali provvedimenti intenda prendere in seguito al ripetersi dei tumulti provocati in San Severo (Foggia) da elementi armati, dopo esplicita minaccia dei dirigenti della locale Camera del Lavoro rivolta all’indirizzo dei rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque, nella mattinata di lunedì 15 luglio nell’Ufficio comunale del lavoro. Siffatti episodi di cruenta sopraffazione civile – divenuti frequenti e che sembra rispondano ad un piano preordinato – contrastano in modo patente con i propositi platonicamente espressi dal Governo e sottolineano lo stato di voluta impotenza nel quale versano gli organi costituiti a presidio delle pubbliche libertà. Gli interroganti chiedono che provvedimenti della maggiore severità siano presi tempestivamente contro i responsabili, non tanto a difesa dei cittadini quanto a salvaguardia dell’autorità dello Stato, che da questi fatti si appalesa sminuita, se non addirittura annientata».

Sullo stesso argomento è stata presentata l’interrogazione dell’onorevole Recca, al Ministro dell’interno, «sulle misure che intende adottare perché non si ripetano in San Severo (Foggia) incidenti simili a quelli che il 16 luglio hanno portato il lutto in tante famiglie di quell’importante centro agricolo».

Le due interrogazioni vengono abbinate nello svolgimento per identità di materia.

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CORSI. Sottosegretario di Stato per l’interno. I fatti ai quali si riferiscono le due interrogazioni dei nostri onorevoli colleghi si sono svolti la sera del 15 luglio in San Severo.

Il 15 luglio, in seguito alla costituzione in San Severo di Foggia di un libero sindacato dell’Uomo Qualunque, le organizzazioni preesistenti, a mezzo di manifestini, riunivano la popolazione operaia e artigiana del luogo per proclamare lo sciopero generale in segno di protesta. Lo sciopero generale doveva esser messo in esecuzione il giorno successivo 16, ma la sera, alle ore 21, un forte gruppo di persone proveniente da varie direzioni, si concentrava davanti alla sezione dell’Uomo Qualunque, nella piazza del Municipio, inscenando una manifestazione durante la quale purtroppo restarono ferite 5 persone, delle quali una gravemente.

La forza pubblica, intervenuta prontamente, impediva l’invasione dei locali dell’Uomo Qualunque, faceva sgombrare la piazza ed effettuava anche delle scariche in aria di mitra a scopo di intimidazione. Successivamente, il comitato ordinatore dello sciopero interveniva perché fossero assicurati nel paese alcuni servizi essenziali; e la forza pubblica, a sua volta, immediatamente rinforzata, impediva altri tentativi di aggressioni isolate e di invasione di edifici pubblici e privati.

Questi sono i fatti obiettivamente esposti. Ora gli onorevoli interroganti domandano al Governo quali provvedimenti immediati ed efficaci si intendono adottare perché i fatti così deplorati non abbiano a ripetersi. Il Governo deve dichiarare che, dopo i provvedimenti già adottati, perché i presidii della forza pubblica del paese siano in grado di reprimere ogni ulteriore e deplorevole agitazione di questo genere, provvederà a far denunciare all’autorità giudiziaria competente gli autori dei fatti e manterrà la forza pubblica necessaria perché gli incidenti incresciosi non abbiano a ripetersi. Questi sono i propositi e i provvedimenti del Governo.

La libertà sindacale – pensa il Governo – deve esser ad ogni costo garantita. Una libera e seria democrazia è fondata precisamente su questa possibilità: sulla libertà di organizzazione, poiché l’unità sindacale, che risponde alle esigenze e al desiderio della totalità della classe lavoratrice italiana, trova come suo essenziale presupposto e come legittimazione morale e giuridica soltanto la libertà di tutti i cittadini di costituire, ove lo credano, libere organizzazioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Miccolis ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

MICCOLIS. A nome dei firmatari dell’interrogazione, mi dichiaro soddisfatto nella speranza che effettivamente si possa ristabilire l’ordine, in quanto che l’incidente di cui nell’interrogazione è uno dei tanti episodi che si stanno verificando in provincia di Foggia.

PRESIDENTE. L’onorevole Recca ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

RECCA. Non solo sono stati minacciati e feriti alcuni qualunquisti, ma si trovano anche all’ospedale, come mi risulta da certa relazione che ho in tasca, dei democristiani, contusi e feriti.

La forza pubblica dovrebbe avere in San Severo funzioni preventive e non repressive. L’intervento della forza pubblica esistente si impone; ed è necessario che il numero degli agenti cosi incrementato resti sul posto. Intanto, da che cosa è stato provocato lo sciopero? Esso è stato provocato non da richieste di aumenti di salari, ma dalla disoccupazione più nera che noi abbiamo in quel di San Severo. A San Severo vi sono 45 mila abitanti per la maggior parte braccianti. Ora, è la disoccupazione che è più sentita, specialmente nei mesi di luglio e agosto, ossia subito dopo i lavori di trebbiatura, e specialmente nei mesi di gennaio e di febbraio, subito dopo la raccolta delle olive, è proprio questa disoccupazione che genera uno stato d’animo veramente tempestoso.

Per ovviare a questa disoccupazione, tenendo presente quel grave problema del Mezzogiorno, che tanto noi desideriamo venga risoluto, vedendo in quel di San Severo certi tuguri abitati da famiglie numerose, e anzi da più famiglie, si dovrebbe provvedere una volta per sempre alla costruzione delle case popolari. Noi assistiamo poi in San Severo ad una minaccia che impressiona da parecchio tempo: alla minaccia della falda freatica. Noi possiamo da un momento all’altro, così come poteva avvenire pochi anni fa in quel di Corato, avere il crollo di tutte le case di San Severo. Esiste un progetto per evitare il pericolo; perché questo progetto non viene analizzato, studiato e messo in esecuzione? Ecco le opere pubbliche che si chiedono, atte anche ad eliminare questa disoccupazione. Cosi operando, indubbiamente nella mia pacifica San Severo si eviteranno altri incidenti simili a quelli avvenuti e che minacciano sempre di verificarsi in eternità. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Valiani, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «sulla situazione a Trieste».

L’onorevole Presidente del Consiglio ha chiesto di poter rispondere lunedì. Lo svolgimento dell’interrogazione è quindi rinviato alla seduta di lunedì.

VALIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VALIANI. Ho chiesto la parola, onorevole Presidente, per motivare la mia interrogazione. Non l’ho motivata, perché quando l’ho presentata, la situazione a Trieste era più grave.

PRESIDENTE. Presenti la motivazione questa sera. Il Presidente del Consiglio le risponderà lunedì.

Segue un’interrogazione dell’onorevole Preziosi, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere come e quando intendano portare su un piano iniziale di soluzione l’assillante problema del Mezzogiorno, che è sul momento un problema di lavori pubblici e quindi anche di ricostruzione delle industrie, andate in gran parte perdute a causa degli eventi bellici, e se non credano indispensabile di far deliberare dal Consiglio dei Ministri, in una delle sue prime riunioni, lo stanziamento straordinario di somme tali da permettere la risoluzione concreta, almeno in parte, dello stato di enorme miseria in cui si trovano le popolazioni meridionali, che, avendo subito le maggiori distruzioni della guerra, reclamano effettiva assistenza da parte dello Stato».

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Il problema del Mezzogiorno che, come è noto, attende la sua soluzione dall’epoca della costituzione dell’unità italiana, è indubbiamente uno dei più gravosi fardelli assunti in eredità dalla nascente Repubblica Italiana. Ma è indubbiamente un problema che non può essere affrontato in sede di interrogazione.

È ovvio che il problema stesso, i cui termini furono abbondantemente sfruttati durante la recente campagna elettorale, dovrà formare oggetto di attento studio e di radicali quanto sollecite decisioni da parte del Governo e della Costituente. D’altro canto, l’onorevole interrogante vorrà considerare che il nuovo Governo si è insediato da appena qualche giorno, e che la vastità e la complessività dei problemi connessi con la questione del Mezzogiorno richiedono un piano organico di provvedimenti adeguati alle particolari esigenze e caratteristiche delle singole regioni, e non tutti rientrano nella specifica competenza del Ministero dei lavori pubblici; il cui studio, già iniziato, non potrà necessariamente esaurirsi in un breve ciclo di tempo, considerato anche che dovranno essere stabilite opportune intese con tutte le Amministrazioni interessate.

Posso comunque assicurare l’onorevole interrogante che la risoluzione del problema della rinascita e della valorizzazione dell’Italia meridionale costituisce e costituirà una delle principali cure del Governo, anche per gli evidenti riflessi di ordine morale, materiale e psicologico che la risoluzione stessa è destinata ad avere sull’unità e sul progresso del Paese.

PRESIDENTE. L’onorevole Preziosi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PREZIOSI. Non sono del tutto soddisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario di Stato ai lavori pubblici, e mi riservo di spiegarne le ragioni in sede di risposta alle dichiarazioni del Capo del Governo.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione del l’onorevole Pertini al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri di grazia e giustizia e dell’interno «per sapere se s’intende: 1°) prendere urgenti provvedimenti, onde impedire che il recente decreto di amnistia emanato il 22 giugno 1946, il quale per la sua assurda larghezza non ha precedenti nella storia né del nostro, né degli altri Paesi, sia dai competenti organi della Magistratura interpretato in modo così lato da rimettere in libertà e da reintegrare nei beni già confiscati anche i veri responsabili della presente tragica situazione in cui versa il nostro Paese, offendendo in tal modo la sensibilità di quanti per la guerra e per il fascismo hanno tanto sofferto e suscitando, quindi, sdegni e risentimenti che non varranno a portare nel nostro popolo quella pacificazione, che dovrebbe essere lo scopo primo dell’amnistia in parola; 2°) provvedere perché venga veramente applicato il decreto 6 gennaio 1944, n. 9, affinché siano riassunti senza ritardo in servizio e reintegrati in tutti i loro diritti di carriera gli antifascisti che sotto il fascismo e per motivi politici furono dispensati o licenziati dal servizio e che ancora oggi si trovano disoccupati, mentre si vedono fascisti resisi a suo tempo colpevoli di gravi infrazioni in danno della Nazione rioccupare i loro posti e riscuotere non solo gli arretrati per il servizio non prestato ma, cosa più assurda, anche il premio di liberazione; 3°) emanare provvedimenti legislativi atti a seriamente difendere la Repubblica contro tutti i suoi nemici».

Lo svolgimento dell’interrogazione è rinviato alla seduta di lunedì.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Pellizzari al Ministro della pubblica istruzione «se non ritenga opportuno indire al più presto una sessione di esami speciale per l’abilitazione alla libera docenza di coloro i quali, essendo stati già dichiarati idonei alla prova orale dalle rispettive Commissioni, furono poi, per vicende belliche, impediti dal sostenerla. Si tratta, per alcuni, di vicende che risalgono agli anni dal 1941 al 1943, e sembra giusto che non si aggravino con ulteriori ritardi i gravi danni che essi hanno già subiti per avere onoratamente servito il loro Paese».      

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. È allo studio un provvedimento che verrà incontro al desiderio espresso dall’onorevole Pellizzari.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. È iscritto a parlare l’onorevole Preziosi. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. Onorevoli colleghi, non è senza ragione che molti di noi si sono iscritti a parlare sulle dichiarazioni del Capo del Governo. Non certo per fare della vana accademia, ma perché si sente il dovere di farsi portavoce di tutti coloro dei quali si è rappresentanti in seno all’Assemblea Costituente, in un momento così duro per la storia della Patria. Il Paese ha necessità di sentire come si discutono e si dibattono i problemi della sua esistenza e vuole soprattutto sapere la verità, e non intende in alcun modo che la libera Assemblea dei suoi rappresentanti, dei suoi eletti, si trasformi in un qualunque codicillo delle direzioni dei vari partiti.

Il Capo del Governo, nelle sue dichiarazioni, ha dato il primo posto, come era giusto, alla politica estera. In sostanza egli ci ha ripetuto, con altra forma, quello che aveva già detto nelle sue dichiarazioni alla Consulta: «Non ho, o non abbiamo, nessuna carta nelle mani da portare sul tappeto internazionale». Invero, nessuno di noi si era più illuso. In questi ultimi tempi l’Italia è una povera merce di scambio, una pedina nel giuoco degli interessi internazionali. Siamo stati ingannati: ecco quello che duramente bisogna riconoscere, e una nuova, più crudele Versaglia risorge, e premesse per un’altra, più terribile guerra si vanno formando.

Giustizia, libertà e fratellanza dei popoli sono parole ormai cancellate dal vocabolario internazionale, perché gli egoismi nazionalistici sorgono più prepotenti a danno dei popoli inermi, soprattutto del nostro eroico e sfortunato Paese, dannato alla miseria per decenni, mentre le sue popolazioni fuggono dinanzi al terrore slavo, avendo esse perduto tutto, tranne l’amore smisurato ed inestinguibile verso la madre Patria.

Dinanzi a tanto scempio non ci rimane che essere dignitosi e fieri nel nostro dolore, affermare tenacemente, anche se non vi è una speranza di comprensione, il nostro buon diritto: poiché una Italia compatta etnicamente, nella sua massa di 45 milioni di abitanti, non può essere cancellata dalla carta geografica, né può essere distrutta, col suo enorme molo proteso nel mare.

Fanno sorridere amaramente il popolo italiano, dopo tanto scempio, le richieste di riparazioni; come se non contassero la perdita di Briga e di Tenda e dell’Istria, con la sistemazione del così detto «stato libero» di Trieste.

Tutti sappiamo, per esempio, che la perdita di Trieste e di Pola, con i loro cantieri navali che producono rispettivamente 14 ed 8 motonavi l’anno, significa per noi una perdita del 50 per cento del fabbisogno italiano di tonnellaggio. Tutti sappiamo. – ed è riportato anche da alcuni nostri giornali – che l’Italia perderebbe 150 mila tonnellate di ghisa l’anno, 60 mila tonnellate di acciaio, 620 mila tonnellate di olii minerali, cioè l’intera produzione delle raffinerie di Trieste e di Pola, pari al 30 per cento dell’intera produzione nazionale; 118 mila tonnellate di olii vegetali; 1 milione e 600 mila tonnellate di carbone, cioè il 30 per cento del nostro fabbisogno nazionale. Insomma, enormi perdite, ed è inutile dire quello che perdiamo con la consegna di Briga e di Tenda alla Francia: basta pensare che l’energia elettrica prodotta in quella zona rappresenta il 30 per cento del fabbisogno di tutta la zona piemontese è ligure.

Ma lasciamo andare per un momento tutte le umiliazioni che stiamo sopportando, non ultima quella di concedere un termine perentorio ai nostri esperti per presentarsi dinanzi alla Commissione nominata dai quattro grandi, senza quasi la possibilità di difendersi, lasciamo andare questo e diciamo una dura verità per la nostra politica estera: sin dagli inizi, sin dal giorno in cui gli alleati hanno dato all’Italia una parvenza di personalità internazionale sì da farle credere, quasi, che avrebbe potuto affermare e sostenere le proprie ragioni, vi è stato un difetto di origine nella nostra politica estera. Vi è stato cioè uno stato d’animo ed un atteggiamento psicologico assai strani, che un acuto scrittore di politica estera ha definito «volontaria offerta di espiazione», un desiderio vivo di svolgere una politica di riparazioni ultra petita verso le nazioni alle quali il fascismo aveva fatto dei torti.

Credete voi, onorevoli colleghi, che ci abbia forse giovato questo offrire riparazioni e rinuncie, questo continuo umiliarci e presentarci sotto veste di accusati pronti a pagare qualunque debito pur di riscattare l’onta del passato?

La verità, è che nello stesso momento in cui si recitava un esagerato mea culpa, che non spetta al popolo italiano o che gli spetta in minima parte, si dimenticavano tutti i sacrifici sofferti, dopo avere ingenuamente creduto alla propaganda radiofonica degli alleati e ai cosiddetti sacri principî della Carta atlantica; si dimenticavano le nostre distruzioni, i nostri morti gloriosi, i quali si erano sacrificati per la nuova Italia democratica e per la libertà del mondo da ogni ignominia e dittatura, i nostri morti che più tardi dovevano essere traditi in un salone del Lussemburgo.

Firmare una pace la quale ci possa gravemente mutilare? Che ci ponga al rango di colonia? Ecco l’interrogativo. Volontariamente, non dovremmo firmare, perché si tradirebbe il proprio paese. Obbligati con la forza, forse sì, poiché nessun viandante fermato da rapinatori lungo la strada, inerme, al grido di «o la borsa o la vita», può rifiutare di consegnare il suo portafoglio.

Ci sono state però anche voci amiche. Peccato però che esse siano sterili presso i quattro grandi.

Noi sentiamo il dovere di rivolgere il nostro pensiero ai popoli dell’America latina, figlia meravigliosa della nostra civiltà, a coloro che ci difendono, a Léon Blum, che ha avuto il coraggio di affermare che Briga e Tenda sono italiane, agli amici americani come Poletti, come Antonini, come La Guardia, i quali difendono ancora tenacemente e coraggiosamente gli interessi italiani.

Strana ironia della sorte! Credevamo, e lo credeva sovrattutto l’onorevole De Gasperi, che lo ha ripetuto ancora una volta nel suo discorso, che non facendo parte di blocchi, dando una leale, aperta, sincera collaborazione nel campo internazionale, ci avrebbe ciò aiutato presso i quattro grandi. Ed invece, mentre noi dichiaravamo di essere contro la politica di blocchi, gli altri si sono messi d’accordo a nostre spese.

Cavour visse momenti assai duri: si trovò dinanzi all’alternativa del blocco austriaco o del blocco francese. Seppe scegliere in tempo e fu così che si iniziò, sia pure faticosamente, l’unità d’Italia.

Dichiarazioni di politica interna: in queste sue dichiarazioni l’onorevole De Gasperi ci ha detto, per sommi capi, quale è il programma del Governo. Forse è stato troppo generico nei principî esposti. Siamo sicuri però che quando si tratterà di passare alla realizzazione dei principî stessi, la nostra Assemblea non rimarrà estranea, poiché è suo diritto intervenire nella discussione per approvare o meno certe leggi che potrebbero trasformare da cima a fondo la nostra economia.

Riforma industriale, riforma agraria: note dolenti nella vita del nostro Paese. Problemi che investono il nostro avvenire, nella cui risoluzione bisogna andare assai cauti, senza improntitudine soprattutto, poiché una volta decise ed iniziate le relative soluzioni, difficilmente si torna indietro.

Le avventure, a qualunque campo appartengono, possono ritardare il processo di normalizzazione tanto necessario al nostra Paese

Oggi, nello stato di disastro in cui siamo, bisogna per primi affrontare un problema, il più concreto ed il più difficile: quello del nostro vivere quotidiano, nel quale sono coinvolte tutte le classi lavoratrici del nostro Paese, dal professionista all’operaio; ed è questo un problema che si può suddividere e trattare in quattro punti: far vivere meglio i lavoratori di tutte le classi, specialmente quelli a reddito fisso; non rovinare la lira con nuove svalutazioni; dare lavoro ai disoccupati; colmare il disavanzo del bilancio dello Stato.

Queste quattro cose vanno di pari passo. Tutto quello che oggi si guadagna viene speso in derrate alimentari, che quasi sempre non bastano, mentre si rimandano le altre compere, anch’esse necessarie, ad epoca migliore. Ed è ciò che fa aumentare la disoccupazione; poiché, se non si consuma, non si produce, non si pagano le imposte e il bilancio dello Stato va a rotoli. Nessuno può dubitare della giustezza di certe richieste di aumento di salario e di stipendio, poiché, mentre colui che guadagna due o tre mila lire il giorno può fare altri acquisti oltre quelli alimentari, colui che ne guadagna 300 o 400 non riesce a campare. Ma, d’altro canto, se tutti guadagnassero 3.000 lire il giorno, in un attimo le aumentate paghe si rivelerebbero inconsistenti per l’aumentato prezzo dei generi. Ed è a questo punto che il Governo deve intervenire nella maniera più energica. Il problema assillante, che investe soprattutto le classi umili a reddito fisso, si risolve solo col fare una politica alimentare e di generi di abbigliamento di prima necessità. Se si potesse arrivare a dare una parte del salario e dello stipendio sotto forma di generi in natura a prezzi normali, una iniziale tranquillità sorgerebbe nelle famiglie dei lavoratori.

È di questi giorni la notizia che in alcune grandi o piccole città del Mezzogiorno l’aumento della razione del pane, per quanto modesto, ha fatto diminuire il costo del pane in borsa nera da lire 140 a 90 lire il chilogrammo.

Dare lavoro ai disoccupati e ai reduci: ecco la nota più sentita della nostra situazione odierna. Tutto ha contribuito a rendere più grave questo problema. Non si produce oggi in Italia per la mancanza di materie prime e le nostre industrie, salvatesi dalle distruzioni della guerra, in gran parte sono inattive. Ma non basta preparare un vasto e concreto programma di lavori pubblici, perché purtroppo lo Stato, nonostante ogni sua buona volontà, non può stanziare somme oltre una certa cifra del suo bilancio. D’altro canto tutti sappiamo che il più povero degli imprenditori è oggi lo Stato. Al contrario ci sono enormi capitali nascosti, che, se venissero alla luce, risolverebbero molti dei nostri bisogni. Piuttosto che pagare allo Stato 10 si preferisce – è doloroso il dirlo – pagare 100 sotto forma di imposta straordinaria alle migliaia di speculatori esistenti, acquistando valuta estera a prezzi iperbolici, che poi va a finire in vari nascondigli. Diecine di migliaia di detentori di capitale hanno paura che lo Stato li colpisca e diventano evasori del fisco con grave danno dell’economia nazionale, ed i loro capitali rimangono improduttivi. Bisogna far di tutto perché questo folle timore per lo Stato venga meno.

Soltanto così l’iniziativa privata in Italia risorgerà ed i molti che sono più ricchi dello Stato potranno contribuire alla rinascita del Paese. Bisogna dare ad essi fiducia. È necessario far loro comprendere che le varie iniziative saranno appoggiate dallo Stato con facilitazioni varie, che le case nuove che saranno costruite non saranno in alcun modo soggette a requisizione. Insomma, bisogna dire a questi possessori di ricchezze nascoste che è nell’interesse reciproco uscire dall’ombra e contribuire alle necessità comuni e che anch’essi, se saranno tutelati nell’esercizio dei loro diritti e nelle loro varie iniziative, non possono negare allo Stato un onesto gettito di imposta che è la controprestazione di quanto ad essi viene dato dallo Stato stesso.

Soltanto così gli ignorati detentori di capitale si persuaderanno, una buona volta per sempre, a rendere produttivi i loro beni.

  1. Governo non dimentichi poi che non va trascurato il problema turistico, del quale non si parla in alcun modo, dimenticando che per il passato una delle maggiori risorse nazionali era l’affluenza degli stranieri in Italia.

L’industria turistica, oggi quasi completamente abbandonata a se stessa, va incoraggiata in tutte le forme e con tutti i mezzi.

E passiamo a discutere brevemente il problema del Mezzogiorno. Ne hanno un po’ discusso tutti gli oratori e la risposta data dall’onorevole Sottosegretario di Stato ai lavori pubblici alla mia interrogazione mi dimostra che il problema è sempre più vivo sul tappeto e che il Governo non fa che ripetere le promesse di ieri, le promesse di sempre. Ed il Mezzogiorno dovrebbe nutrire fiducia soltanto in queste promesse! Badate che il Mezzogiorno è la terra più legata alla Patria, è la terra che, nonostante tutti i sacrifici sopportati, nonostante insomma tutti i dinieghi avuti, è legata indissolubilmente alla Patria. Il Mezzogiorno non è una Vandea; lo diventerebbe se si vedesse trascurato e ciò sarebbe solo per colpa del Governo, se il Governo non provvedesse alle sue necessità. Perché, intendiamoci, del problema del Mezzogiorno si discute tanto da Giustino Fortunato a tutti gli studiosi, a tutti i meridionalisti; ma se ne discute soltanto. Il problema del Mezzogiorno è problema di civiltà nel senso che non solo è problema di lavori pubblici, ma è anche problema elementare di igiene. La nostra terra non è conosciuta da molti degli onorevoli componenti del Governo e dallo stesso onorevole De Gasperi, che pure, diceva l’onorevole Persico, si dovrebbe sentire come un rappresentante del popolo meridionale, se è vero, come è vero, che ne ha avuto il maggior numero di preferenze nella sua lista democristiana. L’onorevole Presidente del Consiglio, dunque, dovrebbe sentire il dovere di conoscere meglio il Mezzogiorno, soprattutto perché esso lo ha nominato suo rappresentante. Conoscere meglio i problemi del Mezzogiorno significa apprenderne tutte le necessità, le quali sono le più elementari che si possano immaginare; ma sono necessità di cui non si può in alcun modo fare a meno. Pensate, ad esempio che, ci sono centinaia e centinaia di paesi che non soltanto non hanno acquedotti, non soltanto non hanno acqua, ma dove in molte famiglie si usa quello che voi, amici della sinistra e voi amici del centro e della destra, avete conosciuto nella dura sofferenza subita nel più infame carcere dell’Italia e del mondo, Regina Coeli, col nome di bugliolo. Basterebbe questa parola per bollare d’infamia un Governo che non si interessasse a risolvere sul serio i problemi del Mezzogiorno.

Ora, perché bisogna abbandonare questa nostra terra, quando io potrei dare esempi, che scottano a noi, ma anche a voi, che siete uomini, i quali hanno sofferto per la civiltà e per la libertà d’Italia?

Una volta ebbi la macabra possibilità di assistere al trasporto di un povero morto portato a spalla da un piccolo paese, Valle Seccarda, al suo cimitero; ebbene, per il seppellimento della salma dovevano essere percorsi molti chilometri a piedi, quanti ne occorrono, per arrivare all’altitudine di 1.100 metri, poiché in quel paese non esisteva cimitero. A questo punto molti di voi potrebbero domandarmi: ma è possibile che nella nostra nazione esistano paesi senza cimitero? Purtroppo è vero!

E che direte se vi affermo che vi sono province d’Italia, che mancano d’acqua e qualche volta di luce elettrica, come la mia, l’Irpinia, la quale è assetata? Ebbene, questa mia provincia, ove si trovano le sorgenti del Sele e quelle del Serino, che danno acqua a tutta la Puglia e a tutta Napoli, non ha acquedotti; vi sono 60 paesi, a poche centinaia di metri o a pochi chilometri dalle sorgenti meravigliose, le cui popolazioni vedono zampillare l’acqua dalle loro montagne e provano la triste ironia e l’amarezza di sapere che quelle acque sono convogliate per dissetare altri paesi lontani e non per dissetare le proprie famiglie e i propri cittadini.

E cosa direste ancora, se vi dicessi che mi è arrivato in questi giorni un giornaletto locale, contenente una corrispondenza, la quale dimostra ancora di più come il Mezzogiorno sia stato una terra abbandonata, e come tuttavia esso sia rimasto eroicamente legato alla Patria, nonostante tale abbandono? Se leggessi questo brano di giornale, rimarreste tutti fortemente impressionati per le sofferenze delle nostre popolazioni: poiché vi si parla di un piccolo paese della zona di Montoro, ove la popolazione, costretta a prendere l’acqua da un pozzo non spurgato, ha visto i suoi figli colpiti da un morbo provocato dall’acqua sporca. E la gente va in cerca dell’acqua disperatamente, come se fosse in un deserto.

Se ci sono zone senza acquedotti, paesi senza cimiteri e senza farmacie, il problema del Mezzogiorno è un problema che s’impone all’attenzione del Governo. Non provvedendo alla soluzione di questo problema, si commetterebbe un grave atto di inciviltà e ci si macchierebbe sempre più di onta incancellabile.

Io sono sicuro che tutti siete compresi di questa situazione, anche voi, uomini del settentrione, ai quali noi ci siamo sentiti uniti ieri nella lotta contro la tirannia, poi nella lotta clandestina, oggi in questa lotta per l’unità, che deve essere salda, invincibile, infrangibile, nell’interesse della nazione e del nostro popolo.

Ed io concludo amici, per dirvi che un grande dovere – è un uomo del Mezzogiorno che ve lo dice – esiste per noi: essere uniti in un blocco di volontà e di cuore, blocco compatto da sinistra a destra.

Si può dissentire quanto si vuole nei programmi, nelle idee; ma non è il momento questo per dividersi, per scavare solchi di odio tra parte e parte del nostro popolo.

È l’ora suprema in cui una sola voce dev’essere da noi ascoltata: quella della Patria, di questa nostra madre sventurata, ma eroica, alla quale ci sentiamo fanaticamente avvinti contro tutte le avversità, per difenderla col nostro inestinguibile amore e perché prima viva e poi risorga dalle sue macerie e dalle sue rovine. (Applausi).

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare, l’onorevole Alberganti.

ALBERGANTI. Onorevoli Colleghi, vorrei richiamare l’attenzione dell’Assemblea e del Governo su un aspetto fondamentale della vita della nostra Nazione.

Nel suo discorso l’onorevole De Gasperi ha fatto molto bene a mettere in rilievo la questione economica nazionale. Ma questo problema non è stato da lui sottolineato con tutta la forza e l’importanza che merita, sia per il poco posto che ha avuto nell’economia del discorso stesso, sia per il suo contenuto.

Ascoltando questa parte del discorso del Presidente del Consiglio, ho avuto la netta impressione che il Governo non ha una visuale chiara della situazione in cui vivono le masse lavoratrici, e soprattutto non ho rilevato una chiara prospettiva per uscire dalla situazione in cui ci troviamo e per migliorare le condizioni delle masse medesime

Vediamo per esempio il problema della disoccupazione. L’onorevole De Gasperi ne ha parlato; ma così, come se ci trovassimo di fronte ad una disoccupazione, direi, di tipo normale, stagionale, e come se il problema si riducesse solo a quello di occupare un maggior numero di disoccupati.

Io penso che il problema della disoccupazione debba essere affrontato con una visuale più larga, perché tale ne è l’importanza, da potersi affermare che alla sua soluzione è legata quella di alcuni problemi nazionali e fondamentali del nostro Paese.

Ecco perché di fronte ai milioni di disoccupati che non domandano altro che di lavorare, non possiamo preoccuparci solo di dar loro da mangiare, ma anche di vedere come utilizzare (e penso che questo sia il compito dello Stato) queste immense forze del lavoro per poter risolvere in modo decisivo il problema fondamentale del nostro Paese: la Ricostruzione. E ciò richiede un grande sforzo della società nazionale.

Ecco perché il problema di utilizzare questa grande forza del lavoro inoperosa deve essere anche legato al problema della terra, dalla quale, col nostro lavoro, con la nostra tecnica, con la nostra scienza, dovremo ricavare tutto quello che è possibile per garantire al nostro popolo un livello superiore di vita materiale e culturale degno di un popolo veramente civile.

Si pone a noi oggi lo stesso problema, che si è posto in altri momenti della storia del nostro Paese e che si tentò di risolvere utilizzando mezzi e metodi che noi condanniamo e respingiamo con tutte le nostre forze. Vi è un dato di fatto ed è che noi siamo un popolo numeroso e siamo relativamente poveri di terra. Nell’ultimo decennio del secolo scorso le classi reazionarie che dominavano il nostro Paese e dalle quali presero origine il nazionalismo, l’imperialismo e quindi il fascismo, hanno cercato di risolvere questo problema non nell’interesse del popolo, ma nel loro interesse particolare, attraverso una politica di guerra e di conquista di territori altrui e l’oppressione di altri popoli. Questa via ha portato alla catastrofe il nostro Paese; e oggi il popolo, e particolarmente la classe lavoratrice, sentono tutto il peso di questa situazione che incide ferocemente nelle carni vive delle masse lavoratrici. Ecco perché noi respingiamo questa via e dobbiamo trovare in altre la soluzione dei problemi nazionali. Di vie da scegliere effettivamente non ce ne sono molte, anzi ce ne rimane una sola ed è quella di riuscire a condurre una battaglia, oggi più grande e più importante della lotta per la guerra di liberazione, che abbiamo condotta e abbiamo vinta, battaglia civile ed umana, ma dalla vittoria della quale dipendono le sorti dei lavoratori e l’avvenire del nostro popolo.

Vediamo alcuni esempi: cosa abbiamo noi oggi? Avete sentito prima di me un oratore che vi ha descritto le condizioni particolari del Mezzogiorno. Io, come rappresentante dei lavoratori del Nord, prima di tutto penso che il problema del Mezzogiorno deve avere, sotto molti aspetti, la precedenza di fronte a determinati problemi del Nord. (Vivi applausi).

Noi lavoratori del Nord sentiamo una grande simpatia verso i lavoratori e le masse popolari del Mezzogiorno, e la sentiamo soprattutto perché se oggi noi viviamo in una situazione dura, quando facciamo un confronto con certe situazioni che esistono nel Mezzogiorno, ancora peggiori, non possiamo non sentire una solidarietà con quelli che vivono nella miseria e che sono nel Mezzogiorno. (Applausi a sinistra).

Ecco perché agli esempi che sono stati qui citati per il Mezzogiorno, vorrei aggiungerne qualche altro per trarne alcune conclusioni che forse non sono eguali a quelle dell’oratore che mi ha preceduto.

Nel Mezzogiorno vi sono esempi che dimostrano come centinaia e centinaia di ettari di terreno non possono essere sfruttati e lavorati, perché alcuni fiumi durante i periodi piovosi allagano vaste zone dove l’acqua rimane stagnante e apportatrice di malaria per le popolazioni.

In queste condizioni, la terra non si può lavorare; ma facendo dei canali di bonifica ci sarebbe la possibilità di sfruttarla e di rimunerare in breve tempo il capitale investito. Questi canali non vengono fatti perché attorno alle zone allagate cresce dell’erba che serve solo per il pascolo delle mandrie dei grandi proprietari. E per l’interesse di questi pochi, pochissimi, grandi proprietari si impedisce l’attuazione di quei lavori di bonifica così indispensabili per l’economia e la salute del paese.

Ma non occorre andare nel Mezzogiorno per trovare esempi di necessità di bonifiche e di lavori: anche prendendo l’Italia del Nord, e direi le province più sviluppate dal punto di vista agricolo e industriale, noi troviamo tali esempi, come nelle province di Novara e di Pavia. Per esempio, il congiungimento del Ticino col Canale Cavour darebbe la possibilità di rendere vaste zone fertili al punto tale da raddoppiare la produzione del riso. E voi sapete oggi che cosa vuol dire la produzione del riso, per i bisogni che abbiamo dal punto di vista alimentare, e anche, se volete, di esportazione, per importare ciò di cui abbiamo bisogno dagli altri paesi.

Ebbene, questi lavori non si fanno. A Milano da molto tempo si parla di un Canale Milano-Cremona-Po, che dovrebbe legare tutta la parte occidentale della provincia milanese su fino al Lago Maggiore, e in gran parte sviluppare i traffici, essendo utile anche alle industrie che sono nella Valle Olona, ecc. Eppure non si fa. Perché? Noi abbiamo insistito molto perché si iniziassero questi lavori; ma non si è ottenuto, per i particolari interessi di alcuni agrari che non volevano che il Canale passasse sulle loro terre, perché avrebbe diviso i loro poderi. Si sono dovuti cosi mantenere centinaia migliaia di reduci, di partigiani, che avevano già comperato gli attrezzi per assumere in cooperativa piccoli lotti di questi lavori; si sono dovuti condannare alla fame e alla miseria, perché alcuni agrari impedivano che il Canale passasse sulle loro terre.

Sono queste le cose che bisogna vedere, che bisogna avere il coraggio di eliminare, perché si tratta di interessi particolari di gruppi di privilegiati: interessi antinazionali, contrari ai bisogni del popolo e delle masse lavoratrici.

Lavori pubblici, si dice. I lavori pubblici non possono essere fatti così a casaccio, solo per dar da mangiare ai disoccupati. Si sono avuti dei casi anche qui a Roma di determinati lavori pubblici, per cui si prende la terra da un posto e la si porta in un altro; e poi altri la riportano al medesimo posto, e tutto ciò solo per dar da mangiare ai disoccupati. Non sono questi i lavori pubblici che ci vogliono. Ci vuole un piano di ricostruzione edilizia concreto che esamini gli aspetti fondamentali della ricostruzione delle strade, dei ponti, soprattutto dei villaggi, delle case coloniche distrutte dalla guerra; la ricostruzione delle nostre città. Mentre questo piano darebbe pane e lavoro ai disoccupati, offrirebbe anche la possibilità di risolvere un problema di carattere nazionale: per le scuole, per gli ospedali, per le case agl’italiani. È una questione fondamentale, poiché è legata a quella di ridare una vita civile al nostro popolo, di finirla una volta per sempre di abitare in sette od otto persone in un solo vano, e soprattutto per mettere un freno alla tubercolosi e alla mortalità infantile, che dilagano continuamente e spaventosamente.

Perché non si dà inizio e non si sviluppano questi lavori? Perché vi sono alcuni esponenti di coloro che detengono i mezzi per potere iniziare questi lavori, ed hanno delle strane teorie, di questo genere: che oggi i capitali non s’investono, perché non trovano la rimunerazione, perché non è vantaggioso l’investimento.

E noi dovremo aspettare che la situazione maturi e che i capitali abbiano il loro tornaconto e possano essere investiti. Questo è un modo di ragionare col paraocchi: si vedono soltanto cifre, si fanno solo dei calcoli aridi e non si tiene conto delle condizioni in cui vivono milioni di lavoratori che non possono aspettare. Perciò è necessario che si intervenga subito e lo Stato ha il dovere di intervenire stimolando, organizzando, mobilitando l’iniziativa privata. Lo Stato deve trovare i miliardi necessari. A noi occorrono oggi non meno di trecento miliardi per far fronte al piano di ricostruzione e trarre il Paese dalla situazione catastrofica in cui si trova. Dove trovare questi miliardi? Bisogna decidersi ad iniziare veramente una politica fiscale energica. Troppi milionari sfuggono oggi al fisco; solo i lavoratori, gli impiegati e gli operai che vivono nella miseria sono costretti a pagare la ricchezza mobile, la complementare ecc., mentre chi ha i milioni non paga nulla. Il nostro Paese penso che sia il solo dove la speculazione non ha nessun freno, dove non vi è ritegno, e questo è un insulto alla miseria. Noi vediamo nel nostro Paese giornalmente chi, con speculazione od altri mezzi illeciti, fa una vita gaudente, ed altri che debbono stendere la mano per non morire di fame. I denari per la ricostruzione bisogna trovarli presso i responsabili della catastrofe del nostro Paese. Sono essi che hanno i miliardi e debbono contribuire fortemente alla ricostruzione, perché la Nazione possa uscire dalla situazione in cui si trova. Ciò facendo, non faranno altro che dare a Cesare quello che è di Cesare, riparare in parte al mal tolto, aiutando il popolo a migliorare le sue condizioni di vita. Noi vediamo però (e noi lavoratori siamo molto preoccupati di questo) uomini che sono ancora al Governo, come per esempio il Ministro del tesoro Corbino, creatore e sostenitore di un piano che, se fosse stato applicato, avrebbe voluto dire la miseria generale per tutti i lavoratori d’Italia.

Ed io qui, in qualità di membro del Comitato direttivo della Confederazione. Generale del Lavoro, esprimo il voto non solo di preoccupazione, ma anche di ostilità dei lavoratori italiani verso il Ministro del tesoro, perché se quel piano fosse realizzato avrebbe un solo scopo: scaricare sulle spalle dei lavoratori tutte le spese della ricostruzione, ed esentare i responsabili della catastrofe dai sacrifici che invece debbono fare, essendo essi in condizioni e in dovere di fare tali sacrifici. Può darsi che quel piano, se fosse stato realizzato, avrebbe anche potuto raggiungere l’obiettivo economico che l’onorevole Corbino si prefiggeva, ma la strada per raggiungere questo obiettivo sarebbe stata seminata di morti di lavoratori, dei loro bambini, e noi non possiamo accettare un piano simile.

Ecco perché raccomandiamo al Governo e allo stesso Ministro del tesoro non solo di vedere strettamente dal lato delle cifre, ma di considerare quale è la reale situazione delle masse lavoratrici, del popolo, per potere – tenendo conto dell’una e dell’altra questione – trovare la via migliore per dare la possibilità al nostro Paese di marciare contemporaneamente nel campo economico e sociale verso un avvenire migliore.

Vi è un altro problema che preoccupa in modo particolare noi lavoratori dei centri industriali: quello dello sblocco dei licenziamenti. Io penso che tale questione, legata alla disoccupazione dei centri industriali, va anch’essa osservata da un punto di vista nazionale: la sua soluzione deve avere carattere nazionale. Per noi, il blocco dei licenziamenti non è da mantenersi eternamente: pensiamo però di eliminarlo sviluppando la produzione. Come possiamo oggi parlare di sblocco dei licenziamenti, quando nelle città industriali del Nord decine e decine di migliaia di disoccupati attendono di andare a lavorare (a Milano sono 65 mila), quando sappiamo che si ha bisogno di tutto: di locomotive, di carri ferroviari, di navi mercantili, di aviazione civile, di trattori, di macchine agricole? Di tutto ha bisogno il nostro Paese e chi ce lo può dare, se non le nostre industrie?

Ecco perché noi vediamo questo problema non in senso di regresso, ma nel senso di sviluppare di più la produzione.

D’altra parte, vi sono esempi che dimostrano come noi siamo nel giusto, quando sosteniamo il blocco dei licenziamenti. A Brescia, appena dopo la liberazione, gli Alleati hanno imposto lo sblocco dei licenziamenti e i datori di lavoro hanno licenziato il 50 per cento dei lavoratori. Noi stessi, nel mese di dicembre dell’anno scorso, siamo venuti nella determinazione di ammettere uno sblocco dei licenziamenti che è arrivato fino al 13 per cento. Cosa dimostra l’esperienza? Che con questo sblocco abbiamo avuto la riorganizzazione delle aziende e la ripresa del lavoro? Niente affatto: abbiamo visto invece il contrario. A Brescia, col 50 per cento di lavoratori licenziati, si potevano riorganizzare le aziende: invece, sei mesi dopo i datori di lavoro e gli industriali venivano da noi per domandare altri licenziamenti. Ma allora, signori, che cosa volete? Volete veramente riorganizzare le aziende, mettere queste in condizioni di produrre, o volete raggiungere qualche altro scopo? Poiché per noi è chiaro che per circa un anno e mezzo grandi aziende che avevano la possibilità di riorganizzarsi e di organizzare il loro lavoro, non solo non l’hanno fatto; ma per motivi politici hanno sabotato la ripresa del lavoro e lo sviluppo della produzione.

E se oggi vi sono aziende le quali si trovano in condizioni precarie – soprattutto le piccole e medie aziende – pensiamo che il Governo debba andare loro incontro aiutandole, soprattutto dando ordinazioni di lavori di cui lo Stato ha molto bisogno: e aiutare anche le grandi aziende, non col metodo fascista, regalando dei miliardi, ma aiutandole e spronandole ed anche prendendo le precauzioni e le garanzie necessarie.

In modo particolare bisogna cominciare a porre il problema dell’inizio della nazionalizzazione di alcune industrie chiave del nostro Paese, poiché il progresso e l’avvenire della Nazione non possono dipendere da gruppi di uomini che per interessi particolari sacrificano l’interesse nazionale e collettivo. (Applausi a sinistra).

Ecco perché noi non possiamo, signori, accettare lo sblocco dei licenziamenti, quando abbiamo milioni di disoccupati e possibilità di sviluppo nella nostra industria. Lo sblocco dei licenziamenti significherebbe retrocedere dalle nostre posizioni, mentre noi vogliamo marciare avanti con tutta la nostra industria, con tutto il nostro Paese, con tutto il nostro popolo.

Un altro problema assillante di questi giorni è quello dell’adeguamento di salari, degli stipendi e delle pensioni. Come membro del gruppo comunista, deploro che gli altri partiti di massa non abbiano fatte loro le proposte concrete che il nostro partito ha presentato nel suo programma di emergenza, base su cui il Governo doveva orientare il suo programma. Il problema degli aumenti di salario e degli stipendi, posto come lo abbiamo posto noi, corrisponde ad una esigenza non solo di difesa degli interessi dei lavoratori, ma anche ad una esigenza nazionale e direi democratica, poiché non si può permettere che milioni e milioni di lavoratori vivano nell’indigenza e nella miseria, il che vorrebbe dire mettere la classe lavorativa alla mercé di quelle che sono le caste privilegiate, le quali non attendono altro che poter riportare ancora una volta il nostro Paese alla schiavitù del fascismo. Come lo abbiamo posto noi, l’adeguamento dei salari, inquadrato nei limiti delle possibilità della situazione del nostro Paese, può e deve dirsi giustamente posto.

Né è vero che l’adeguamento dei salari provochi automaticamente un aumento del costo della vita, un aumento del costo di produzione. Il costo di produzione di un prodotto non è dato solo dal salario. Oltre agli altri coefficienti generali ed alle materie prime, ecc., il salario contribuisce certamente a determinare il costo di produzione, ma vi sono altri due elementi fondamentali che troppo sovente si dimenticano e che contribuiscono direttamente alla sua determinazione: il tasso del profitto e la produttività. Ora nel nostro paese vi sono branche industriali che lavorano in pieno, come quelle dei tessili, dei chimici, della produzione della gomma, del vetro, della ceramica, nella stessa metallurgia. Le aziende che producono materiale elettrico lavorano in pieno, e questo è un sintomo importante poiché queste aziende sono state sempre il termometro della situazione industriale. Il fatto è che molti industriali contano sulla ripresa, ottengono delle ordinazioni, ma non danno subito loro corso, le tengono di riserva, perché vogliono raggiungere prima lo sblocco dei licenziamenti, vogliono avere un esercito di gente disoccupata e affamata che domandi di lavorare a metà salario o stipendio. Ora noi vogliamo che a questo adeguamento dei salari corrisponda una diminuzione del tasso del profitto, perché in tal modo si eviterà che l’aumento delle mercedi provochi un aumento dei costi di produzione.

D’altra parte, anche il rendimento, la produttività del lavoratore, è legato strettamente al costo dei prodotti. Se riusciamo oggi ad aumentare la produttività individuale dei lavoratori (che arriva sì e no al 60 per cento), è evidente che ciò ha subito un’influenza sul costo del prodotto. Ma per poter arrivare a sviluppare la produttività dei lavoratori, è indispensabile dar loro più da mangiare. Un lavoratore che è sul posto di lavoro solo con il corpo, che ha il pensiero a casa, preoccupato dal dubbio se i bambini mangeranno a mezzogiorno, se avrà il necessario per comperare il vestitino al suo bambino, non può sentire l’attaccamento al lavoro e quindi non è nemmeno in grado di poter lavorare con pieno rendimento. Ecco perché un adeguato aumento dei salari non deve portare automaticamente ad un aumento del costo della vita. Anzi, avremmo dato la possibilità con questo adeguato aumento di comperare qualche paio di scarpe, rimettendo così in moto il piccolo e medio commercio anch’esso arenato a causa dell’insufficiente capacità di acquisto delle masse lavoratrici. Ed è anche falso che l’aumento dei salari debba portare all’inflazione, come molti sostengono. Molti sono in buona fede quando temono che l’adeguamento dei salari possa portare all’inflazione, ma molti non sono in buona fede. Vi è una categoria di manigoldi nel nostro Paese (mi limito a dire manigoldi per il rispetto che ho di questa Assemblea), i quali tutte le volte che noi lavoratori abbiamo fatto dei grandi sacrifici (per esempio come nella lotta partigiana, negli scioperi, per salvare il salvabile del nostro Paese) hanno subito tentato di screditarci facendoci passare per banditi e per delinquenti. Ora, domandiamo un tenue aumento dei salari per migliorare le nostre condizioni di vita, per raggiungere un minimo biologico al disotto del quale c’è il pericolo di morire di fame. Ebbene, ci si vuole tacciare quali responsabili di una futura inflazione. In questo caso, signori, noi vi diciamo subito che se tenterete di porre sulle nostre spalle la responsabilità della situazione in cui avete gettato il Paese, i lavoratori non abboccheranno. Noi siamo contro l’inflazione, poiché saremmo noi e i ceti medi a farne le spese; e faremo di tutto per evitarla e assicurare un minimo di garanzia al diritto alla vita, che è sacro soprattutto per i lavoratori, ricchezza fondamentale della nostra Nazione, base della nostra ricostruzione e garanzia di un solido avvenire per il nostro Paese. (Applausi).

Noi apprezziamo il Governo per il suo primo atto. Il primo Governo della Repubblica ha dato un premio di 3.000, lire. Noi lo abbiamo accettato e abbiamo detto alle masse lavoratrici: ecco una prima dimostrazione che il Governo si interessa delle condizioni dei lavoratori. Però questo premio dà a noi solo un breve respiro. Noi domandiamo che il premio sia dato a tutti i lavoratori dell’industria, del commercio e soprattutto ai lavoratori della terra, poiché la «Confida» non ci sente da questo orecchio; e da parte dello Stato sia dato a tutti gli impiegati statali, compresi gli agenti ed i carabinieri, i quali sono in condizioni economiche tali da non poter compiere il loro dovere come lo esige la situazione, per garantire l’ordine pubblico e far rispettare le leggi, essendo anch’essi preoccupati dai bisogni dei loro bambini e delle loro famiglie. (Applausi a sinistra).

Una parola sui pensionati.

Si parla da molto tempo della necessità di aumentare le pensioni. Io vorrei citare un esempio solo. È venuta da me una vecchietta di circa 65 anni, una insegnante pensionata che, nonostante la sua miseria, era rattoppata nei vestiti puliti, la quale mi diceva: «Io sono un’insegnante pensionata. Pochi anni fa ho avuto la pensione e potevo con essa comprarmi mezzo etto di prosciutto a mezzogiorno, e alla sera, con un quarto di caffè e latte vivevo. Il mio stomaco è piccolo; ciò era sufficiente per me. Oggi, con questi denari, riesco appena appena a comprare la minestra alla mensa collettiva, ma il mio stomaco non la digerisce. Sarò costretta a morire!». Io vorrei che ognuno di noi, qui, e il Ministro del tesoro soprattutto, sentissero quello che ho sentito io in quel momento: grande simpatia, e commozione, perché attraverso quella vecchietta vedevo la situazione dei nostri pensionati.

Ma perché nel nostro Paese, accanto a gente senza scrupoli che quotidianamente fa i milioni speculando sulla miseria del nostro popolo, vi debbano essere coloro che hanno dato 30, 40 anni della loro esistenza, sia con il loro lavoro manuale, sia attraverso un lavoro intellettuale, come sono gli insegnanti, i professori, gl’impiegati, i tecnici, gl’ingegneri, i pensionati, che dopo aver dato tanto per arricchire materialmente e spiritualmente la Nazione arrivano alla vecchiaia senza avere la possibilità di comprare una fetta di prosciutto per vivere? Ma questo non è solo un problema economico sociale o politico, è anche un problema civile ed umano che noi dobbiamo risolvere.

Onorevoli colleghi, concludo. Penso che, da una situazione così eccezionale, come la nostra si possa uscire solo con mezzi eccezionali. Io apprezzo alcune misure che il Governo ha preso o sta prendendo, ma penso altresì che se questo piano concreto di misure necessarie per uscire da una situazione così tragica non venisse iniziato subito e realizzato in breve tempo, non si potrebbe comprendere come dei rappresentanti dei partiti di massa, soprattutto rappresentanti dei lavoratori, potrebbero rimanere in questo Governo. Il Governo, prima di tutto, deve sentirsi all’altezza della situazione, poiché se vi sono (come vi sono) ingiustizie che ci vengono inflitte da parte dei vincitori e che noi vogliamo con tutte le nostre forze impedire e riparare, vi sono altresì ingiustizie non meno gravi all’interno del nostro Paese e che le masse popolari e lavoratrici non vogliono più tollerare.

Noi pensiamo che il nostro Paese, che ha bisogno dell’amicizia e dell’aiuto di tutti i popoli, e che da essi ha molto da imparare, debba avere un Governo all’altezza della situazione, che gli dia la possibilità di potere a sua volta insegnare agli altri popoli. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, cercherò di fare un esame critico della situazione politica internazionale e della politica estera che dobbiamo svolgere.

Permettetemi, innanzi tutto, di rivolgere un saluto agli uomini politici che sono partiti stamane per l’estero, per rappresentare, in Europa l’uno e nell’America del Sud l’altro, gli interessi dell’Italia, per portarvi la voce dell’Italia; di rivolgere un saluto, dico, a Pietro Nenni e a Carlo Sforza.

Se posso permettermi di rivolgere loro una raccomandazione, è quella di parlare alto e forte, come rappresentanti di un Paese, che potrà essere, secondo le convenzioni giuridiche, che sono finzioni, un Paese vinto, ma che non si rassegnerà alla sconfitta ed al trattamento che gli si vuole infliggere.

Quando si viene a parlare, nella prima Assemblea elettiva che l’Italia si è data, dopo vent’anni di dittatura e cinque anni di guerra, della politica estera del nostro Governo, è comprensibile ed inevitabile che si parli dell’eredità del fascismo. Il fascismo fu conseguenza della situazione internazionale creatasi a Versaglia e soprattutto della incapacità dei movimenti democratici di reagire in modo positivo a quella situazione.

Oggi ci troviamo in una situazione peggiore, ma di ciò è responsabile il fascismo.

Ora, che residui del fascismo sostengano ancora la politica estera condotta per vent’anni, è pur comprensibile e, in certo senso, fa onore alla loro coerenza. Ma è strano che, in seno all’antifascismo, si accettino qualche volta gli argomenti del fascismo, che possono anche avere qualche valore, in quanto sostenuti da quelli che desideravano la vittoria della Germania, non da coloro che erano dall’altra parte. Eppure vediamo che la maggior parte delle critiche che si fanno alla politica estera dell’attuale Governo e dei Governi dei Comitati di liberazione nazionale in generale, sono critiche che avrebbero una ragion d’essere ed una coerenza, se il presupposto fosse stato quello fascista, cioè di vincere la guerra a fianco della Germania; mentre, invece, il nostro presupposto era un altro: quello di vincere la guerra contro la Germania, al fianco delle Nazioni Unite, anche se queste non ci hanno trattato come dovevano, anche se contro di esse dobbiamo condurre oggi un’azione di resistenza politica per modificare la situazione.

Chiunque creda alla realtà della nuova Italia democratica, per giudicare esattamente, equamente la politica estera del Governo, deve misurare il cammino che abbiamo percorso da tre anni: l’abisso dal quale siamo risaliti. Nel 1943, dopo l’armistizio, non potevamo fare alcuna politica estera. Oggi qualcosa si può fare; perché, pur con le nostre forze modeste e coi nostri modesti mezzi, l’Italia ha riacquistato parte, se pure non sufficiente, della sua indipendenza politica; bisogna oggi riacquistare il resto.

Dobbiamo renderci conto della nuova situazione internazionale, creatasi in quest’ultimi mesi, direi settimane, perché solo la comprensione di essa ci permette di fare d’ora in poi quello che in passato non abbiamo potuto fare, non per mancanza di capacità nei governanti, ma perché la situazione non lo consentiva; cioè, una politica estera attiva.

L’onorevole De Gasperi avrà commesso errori, anche numerosi, specialmente nel campo della propaganda, dove noi siamo stati battuti dalla propaganda jugoslava, non solo all’estero, ma presso gli stessi ambienti internazionali di Roma. Potremmo anche lamentare molta incoerenza nella esecuzione di quella politica estera. I nostri rappresentanti all’estero, specialmente i minori, molto spesso agiscono ciascuno per conto proprio, senza alcuna direttiva unitaria. Ma questi sono errori di dettaglio: nelle sue linee generali la politica estera è stata svolta com’era possibile.

Non si poteva infatti svolgerla in altro modo sino a quando non si conoscevano le intenzioni delle grandi potenze vincitrici, fino a quando gli stessi vincitori non conoscevano le proprie intenzioni.

Coloro che a priori erano convinti delle malvagie intenzioni degli alleati contro di noi, così come gli altri che a priori erano fiduciosi e ottimisti, confondevano entrambi la realtà coi propri sentimenti soggettivi.

Le potenze vincitrici finora non hanno mai pensato all’Italia, né per nuocerle né per giovarle. Ma vi hanno pensato come un terreno di prova, per saggiare reciprocamente le loro intenzioni di fronte ai problemi della nuova sistemazione mondiale; vi hanno pensato per accertare se vi era un pericolo di conflitto fra loro, oppure se esisteva la possibilità di delimitare le reciproche sfere d’influenza. Questo tastare il terreno era una specie di scaramuccia, una specie di guerra dei nervi: guerra che è stata perduta dagli anglo-americani. Perché essi, per qualche tempo, hanno creduto che la Russia nutrisse intenzioni aggressive, hanno montato, rese inquiete, e talvolta isteriche le proprie pubbliche opinioni: ricordiamo il discorso di Churchill. E poi hanno dovuto constatare che la Russia non ha intenzioni aggressive, ma che vuole opporre resistenza passiva ad una pace formale, finché non abbia raggiunto le sue mire.

Gli anglo-americani, avendo eccitato le proprie opinioni pubbliche, avendo dichiarato che se non si otteneva una pace formale indivisibile sarebbe stato imminente il pericolo di una nuova guerra, si sono trovati disarmati dinanzi all’atteggiamento della Russia, che non vuole la guerra, ma vuol tirare le trattative in lungo per ottenere maggiori vantaggi.

Così le potenze anglo-americane hanno capitolato sulla questione della Venezia Giulia, perché, dopo aver drammatizzato la necessità di un accordo con la Russia, non hanno avuto il coraggio di non farle delle concessioni dal momento che essa aveva l’aria di farne qualcuna.

Che le cose siano andate in tal modo io potrei documentare.

Da questa analisi scaturisce la possibilità di precisare in quale direzione dobbiamo orientarci, ed il senso nel quale dobbiamo rinnovare la nostra politica estera.

Noi dobbiamo metterci in condizioni di provare all’opinione pubblica anglo-americana, la quale è ora più o meno convinta che con la internazionalizzazione di Trieste ha evitato un conflitto con la Russia, che da un lato Trieste italiana non può esser causa di alcun conflitto perché noi siamo in grado di entrare in trattative dirette con la Russia, e, di farle delle concessioni commerciali; e dall’altro lato dobbiamo provare che i soldati anglo-americani e i soldati russi coesistono oggi su un terreno che può considerarsi una polveriera, senza che si possa avere il benché minimo sospetto che siamo noi a trasformarlo in polveriera.

La Jugoslavia non può essere considerata alla stessa stregua della Russia, perché mentre la Russia è saggia, prudente ed avveduta, la Jugoslavia ha un Governo giovane e veemente; perché mentre la Russia sta attenta a non bruciarsi e giuoca sempre a colpo sicuro, la Jugoslavia finora ha provato di scherzare col fuoco. Ecco dunque il primo passo positivo da compiere: deve aver l’obbiettivo di separare il problema delle nostre relazioni con la Russia dal problema delle nostre relazioni con la Jugoslavia.

In secondo luogo, occorre condurre una azione energica sull’opinione pubblica anglo-americana per spiegare gli errori dei Governi di Londra e di Washington.

In terzo luogo, occorre fare un appello diretto al Governo di Mosca, perché valuti l’utilità che può per esso rappresentare la nostra amicizia e la nostra cooperazione. Se dobbiamo rifiutare la nostra firma alla pace, quale oggi ci si presenta, è questo un problema che dovremo discutere con senso di responsabilità e anche con fermezza; perché non è possibile che in un problema del genere si vada da un eccesso all’altro. Se dobbiamo rifiutare, dobbiamo accompagnare questo rifiuto da un rinnovamento della nostra azione diplomatica, perché altrimenti, se ci limitassimo soltanto agli argomenti passionali e sentimentali che sono sacrosanti, ma che possono commuovere solo il popolo all’interno e non l’opinione pubblica estera, faremmo dei gesti che poi non saremmo capaci di sostenere con i fatti. Se gesti dobbiamo fare, dobbiamo farli soltanto quando ci siamo messi in grado e quando abbiamo la ferma volontà di sostenerli con i fatti. Per fatti intendo naturalmente la resistenza civile. Va da sé che ogni idea bellicosa esula dalla nostra mentalità. Se resistenza ci deve essere, essa deve essere infrangibile.

Onorevoli colleghi, è impossibile ottenere che delle potenze vincitrici siano senz’altro nostre amiche. Lo saranno quando avranno bisogno di noi. Forse avremmo potuto consolidare qualche iniziale rapporto di alleanza, finché durava la guerra. Èstata una debolezza non averlo fatto nel 1943 e nel 1944, finché durava la guerra partigiana; è quello che noi del Nord, quando combattevamo, abbiamo chiesto agli uomini che erano allora al Governo a Salerno e a Roma: valorizzare la guerra di liberazione, la guerra partigiana, ottenere qualche cosa, finché questa durava, perché quando la guerra è finita, tutto si dimentica.

Diciamo senz’altro che per il momento non possiamo sperare di avere amiche tutte le potenze vincitrici. Se non possiamo avere amiche neanche alcune di queste potenze, possiamo però avere le simpatie di almeno una parte dell’opinione pubblica, di una parte degli uomini politici responsabili. È meglio proporsi degli obiettivi più limitati in fatto di politica estera e andare fino in fondo, per ottenere qualche cosa, piuttosto che avere il desiderio di conquistare contemporaneamente le amicizie di tutti, di Churchill e dei suoi oppositori e via dicendo in tutti gli altri Paesi. Le grandi speranze sono illusorie e sono esattamente quelle che ci impediscono di consolidare alcune più limitate amicizie.

Guardate che una parte dell’opinione pubblica americana e degli uomini politici responsabili, degli uomini di Governo che non hanno partecipato alla montatura del pericolo di conflitto con la Russia ed è rimasta fredda davanti a tale montatura, oggi non ha fretta di vedere i trattati firmati, ma preferisce un rinvio della loro firma pur di lavorare in tal modo ad una pace veramente solida e ad un accordo con la Russia che non sia improvvisato e perciò fragile come quello concluso l’altro giorno a Parigi: che sia invece un accordo veramente solido e meditato e tale da non poter essere domani incrinato da nuove montature giornalistiche. Questa parte dell’opinione pubblica e degli uomini politici responsabili esiste in America e fu quella che a suo tempo ci consigliò di non insistere per una rapida redazione e una rapida firma dei trattati di pace e di chiedere invece un modus vivendi che rimandasse di qualche tempo, di due o tre anni, il problema delle nostre frontiere, un modus vivendi che ci permettesse di vivere in indipendenza politica ed economica fino a quando un chiarimento generale non sia intervenuto nella situazione europea; un chiarimento tale che permetta una pace più equa.

Forse non abbiamo fatto tutto il possibile per poggiare su questa parte dell’opinione estera. Forse ci siamo lasciati ingannare da coloro invece che ci spingevano a chiedere la più rapida possibile redazione dei trattati di pace. Io credo che a questo errore – errore che non è del Ministro degli esteri, ma del Governo nel suo insieme, anche se non vi sono mai state discussioni collegiali di politica estera, perché questi non sono problemi di dettaglio della diplomazia, ma sono problemi di impostazione generale – non sia ancora tardi per rimediare, perché non è ancora sicuro che le potenze vincitrici stesse siano in grado di effettivamente redigere e firmare quel trattato di pace. Forse prima ancora che si ponga a noi il problema se firmare o meno la pace, si porrà loro il problema se siano invece capaci di redigere questi e altri trattati connessi. E io credo che noi dobbiamo svolgere un’azione diplomatica, un’azione di Governo intesa a rimandare la firma e ad ottenere intanto questo famoso «modus vivendi»; non nella forma coloniale che pare esso abbia secondo le indiscrezioni della stampa, ma in una forma che ci assicuri indipendenza politica ed economica.

Questa è l’unica politica estera che in questo momento è davanti a noi. Il resto è dato da bellissime parole, alti e nobili propositi; ma non è qualche cosa che sia politica, perché politica è scelta fra due ipotesi, scelta fra due mezzi, due strumenti, due soluzioni che bisogna prospettarsi. Non basta dire: noi protestiamo, occorre dire che protestiamo, e scegliamo: o vogliamo il trattato di pace il più presto possibile, o vogliamo ritardarlo.

Credo che dobbiamo fare uno sforzo anche ora, anche in extremis per riuscire a far rimandare la stipulazione del trattato di pace, di quel trattato di pace che in questo momento può essere soltanto cattivo, perché non c’è stato ancora quel chiarimento generale che avverrà più tardi. Dobbiamo a tal fine collegarci con coloro che in America, in Inghilterra, in Francia e probabilmente anche in Russia e altrove, hanno la stessa opinione. È vero che viviamo in un’epoca di esasperazioni imperialistiche delle quali noi italiani, che siamo sempre stati, anche sotto il fascismo, i meno imperialisti di tutti, facciamo oggi le spese; ma è anche vero che esistono dappertutto forze che comprendono che l’esasperazione imperialistica indica solo che si approssima la fine dell’epoca imperialistica stessa, e che si preoccupano di abbreviare i dolori della morte della vecchia epoca e del parto della nuova. A queste forze che si preoccupano del domani noi dobbiamo parlare come quel paese che in realtà è uno dei più civili del mondo, dei più pacifici, dei meno nazionalisti, ma anche dei più decisi a non rassegnarsi all’oppressione, a resistere all’ingiustizia. Dobbiamo parlare a quelle forze, dovunque si trovino, in nome dell’Italia e non solo dell’Italia, ma in nome di quasi tutta l’Europa, in nome di quei 200 o 300 milioni di europei che non fanno parte di alcun blocco di grandi potenze, ma che un giorno si fonderanno in unità, saranno una nazione europea e conteranno qualche cosa.

Se questo coraggio noi l’avremo, la battaglia politica internazionale che dobbiamo condurre per salvarci, noi la guadagneremo, non in un giorno, non in un anno, ma entro la vita della nostra generazione. Ma dobbiamo renderci conto che non si tratta soltanto di protestare; si tratta anche di una vera e propria battaglia politica e diplomatica. E questa battaglia va condotta con tutte le armi politiche e diplomatiche e non soltanto con quelle della protesta sentimentale e morale.

Permettetemi di fare anche alcune considerazioni sulla politica economica del Governo. Precisamente desidererei chiedere al Governo alcuni chiarimenti sulla politica tributaria che intende condurre. Vorrei sapere se si intende fare o meno una riforma tributaria degna di questo nome. È chiaro che il Governo non può fare molte grandi riforme, ma alcune può farle e quella tributaria è la più urgente. Desidererei a questo riguardo, sapere come si pensa di arrivare a quel famoso grande prestito, a cui, si è detto, il Governo intende arrivare. Sarebbe interessante sapere a quali condizioni il Governo intende lanciarlo. Il Governo ha a questo riguardo pieni poteri, in virtù dell’articolo 3 che istituisce la Costituente. Perciò io chiedo che su questo capitolo finanziario il Governo, prima di farsi dare la fiducia dell’Assemblea, dia qualche chiarimento maggiore.

Si è sentito poi parlare di imposta straordinaria sul patrimonio. Ora, io ho l’impressione che otterremo il solo effetto di spaventare i capitali e il Governo non avrà la volontà e gli strumenti tecnici sufficienti per colpirli effettivamente. Le imposte si pagano sul reddito e non sul capitale. Io sono favorevole alle confische, perché non è giusto che ci sia gente che possa godersi gli illeciti acquisti fatti con la guerra o con la borsa nera. Bisogna agire con le confische. Diciamo quindi francamente quali sono le confische che si possono operare e non confondiamo le confische con le imposte.

Lo stesso vale per la riforma agraria: non dirò nulla sulla riforma stessa, perché il mio collega Lombardi ha già detto tutto il necessario; debbo soltanto osservare che ci troviamo in mezzo a una battaglia agraria. È una battaglia in atto. Anche qui, mi domando se il Governo ha l’energia di realizzare gli scopi che si prefigge. Sarà opportuno che ci si renda conto di questo; perché anche qui è necessario che ci siano i mezzi ed io credo che il Governo possa trovarli. Dopo il lodo sulla mezzadria, bisogna arrivare ad una riforma di tutti i patti agrari, colonici e delle affittanze. Bisogna sviluppare il ceto dei coltivatori diretti della terra. Questi sono i problemi più urgenti e soltanto attraverso queste soluzioni si potrà arrivare ad una vasta riforma agraria.

C’è infine la questione salariale, sollevata dal collega Alberganti. Io avrei preferito che il Segretario della Camera del Lavoro di Milano, che ha partecipato alle discussioni della Confederazione del Lavoro, avesse portato qui i problemi già approntati e le mozioni adottate. Non mi pare conveniente, per il credito e il prestigio di questa Assemblea, che essa sappia soltanto di straforo dai giornali quali sono le deliberazioni che in questo momento si prendono.

PAJETTA. Voi avete i vostri rappresentanti nella Confederazione.

VALIANI. Purtroppo, nessuno di essi è deputato. Quindi gradirei che i rappresentanti della Confederazione del Lavoro esponessero qui i termini del problema. Io ho visto sulla «Voce Repubblicana» alcune frasi della mozione approvata che mi paiono degne del massimo interesse; una frase parla di perequazione dei salari meno elevati. Il problema è questo; ma dobbiamo sapere che cosa è stato deciso. Si tratta soltanto di aumentare i salari degli operai che sono pagati di meno, di coloro che soffrono la fame? È giusto e bisogna farlo; è nell’interesse della produzione stessa, perché una delle ragioni del basso rendimento è il denutrimento dei lavoratori. Ma ci sono altre industrie che non possono concedere aumenti, se non si effettua lo sblocco dei licenziamenti o se non si introducono dei perfezionamenti nei sistemi di produzione.

Bisogna che su questo problema ci sia chiarezza. Si svolgono delle agitazioni nel Paese. Noi dobbiamo la Repubblica alla classe operaia italiana: questa è una verità storica che rimarrà ad onore della classe operaia italiana…

PAJETTA. Però anche con la Repubblica siete disposti a fare i licenziamenti!

VALIANI. Ma è altrettanto vero che l’interesse della Repubblica è questo: che le classi lavoratrici e proletarie si immedesimino esse stesse della difesa della Repubblica; e la Repubblica non si può difendere se il Governo e l’Assemblea Costituente non sono in grado di avere una visione unitaria della lotta salariale e degli scioperi.

Credo sarebbe opportuno che i Segretari della Confederazione del Lavoro esponessero qui il programma da loro approvato, in modo che l’Assemblea stessa potesse pronunziarsi. È passato il periodo in cui l’azione sindacale poteva essere distinta dall’azione politica. Io credo che ci sarà una maggioranza che approverà il criterio di elevare i salari più bassi: io stesso voterei in favore di una proposta di questo genere. Questa approvazione obbligherebbe maggiormente gli industriali a soddisfare la richiesta. Però, se ci fosse anche qualche cosa che non quadrasse con la politica economica e finanziaria del Governo, sarebbe il caso di discutere con i dirigenti della Confederazione del Lavoro. Guardate che il Paese non ammette questa distinzione tra Costituente e Governo…

ALBERGANTI. Ma c’è la libertà sindacale.

VALIANI. Libertà sindacale, non significa che la classe operaia risolve i suoi problemi esclusivamente attraverso le sue organizzazioni: la classe operaia sente il bisogno di portare questi problemi anche qui alla Costituente.

Io chiedo, prima di chiudere la discussione e di dare il nostro voto di fiducia, che il Governo dica qualche cosa sulla risoluzione dei problemi salariali più urgenti che agitano in questo momento il Paese.

Penso che la soluzione che uscirà di qui dovrà essere intonata a simpatia e solidarietà verso la classe operaia, specialmente per quella parte di essa che è meno pagata. Però non è possibile che si abbia una soluzione sul terreno puramente sindacale ed una soluzione completamente diversa, quasi opposta, sul terreno della politica economica e finanziaria del Governo. Se le due soluzioni fanno a pugni, noi possiamo correre il rischio di non realizzare niente.

Solo in questo modo la classe operaia sarà in grado non solo di rafforzare, ma di portare avanti questa Repubblica fino al punto in cui essa potrà veramente essere una Repubblica democratica dei lavoratori. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Condorelli.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, prendo la parola perché sento che è necessario, dopo il discorso dell’onorevole Finocchiaro Aprile, che una voce siciliana si levi in questa Assemblea a riaffermare la inesausta passione italica dei siciliani, i quali non sono soltanto un popolo di lingua italiana, come con reticenza assai significativa ama dire l’onorevole Finocchiaro Aprile, ma sono parte cospicua ed essenziale del popolo d’Italia che non richiede altra giustizia che quella di essere considerata tale. (Approvazioni).

Noi siciliani ci pregiamo del nostro mare glauco, delle nostre dolci campagne feconde, delle nostre glorie, della nostra storia, della nostra civiltà, trimillenaria, dei prodigi dell’arte che raggiungono da noi i fastigi del divino, ma sentiamo soprattutto di avere un titolo di nobiltà irrinunciabile: il titolo della primogenitura italica, perché noi siamo gli antichi Siculi che vennero proprio dal Lazio a portare una civiltà essenzialmente italica in quell’isola a cui diedero il nome. Da noi ebbe le prime manifestazioni dell’arte quel «volgare» che doveva divenire la lingua di Dante; da noi nacque l’unità d’Italia, dai monti di Salemi, dove al. grido di «Italia e Vittorio Emanuele» si mise dietro il condottiero del popolo italiano tutto il popolo di Sicilia: e là veramente fu formata l’unità d’Italia. (Approvazioni).

Noi perciò respingiamo ogni espressione che a nome del popolo siciliano si possa dire per mettere in dubbio la sua profonda italianità. Noi siciliani, educati da tremila anni di vivere civile, dalla convivenza per oltre mill’anni sotto uno Stato unitario monarchico, noi che mai conoscemmo gli odii di parte che insanguinarono altre zone d’Italia e d’Europa, noi sentiamo, o signori, e sentiamo profondamente, che quegli che osò, come ieri ha qui confessato, intrecciare maneggi con popoli nemici durante le ostilità e prima dell’armistizio per chiedere la loro protezione contro l’Italia, quegli ha fatto onta alla Sicilia. E il popolo siciliano, che ha l’animo generoso e cavalleresco, non potrà mai dimenticare che uno della sua stirpe chiami altri siciliani a lanciarsi contro il corpo della Madre ferita a morte. (Vive approvazioni).

Anche se questo movimento dovesse avere fortuna, non pensi l’onorevole Finocchiaro Aprile di poter essere ascritto fra gli uomini rappresentativi della Sicilia. Questi rimarranno sempre Rosolino Pilo, Francesco Grispi, Cascino, Vittorio Emanuele Orlando, gli eroi dell’unità d’Italia e del patriottismo italico! (Applausi al centro).

La sola funzione positiva che può essere riconosciuta a questo movimentò è quella di aver portato alla ribalta dell’opinione pubblica italiana e mondiale un problema che, bisogna riconoscere, è stato negletto. Ma è giunta l’ora in cui questo problema dev’essere esaminato ed urgentemente risolto.

I siciliani hanno respinto ormai in modo irrevocabile questo indipendentismo, che prima è stato separatismo ed ora è confederalismo, poiché essi sanno che il popolo siciliano non può avere giustizia che dal popolo italiano, cioè da sé stesso. Questo i siciliani lo hanno detto nella maniera più perentoria.

La maggioranza, la stragrande maggioranza di voti addensati il 2 giugno sulla monarchia, fu prima di tutto affermazione del sentimento unitario, perché in quella monarchia il popolo italiano vedeva il simbolo e l’espressione dell’unità d’Italia. E peraltro questa ferma volontà unitaria il popolo siciliano l’ha riaffermata inequivocabilmente facendo addensare tutti i suoi voti sui partiti più fermamente unitari. Gli indipendentisti, che assumevano di aver con loro la maggioranza del popolo siciliano, hanno avuto il torto di lasciarsi contare. Erano molto rumorosi, ma erano pochi: quattro soltanto sono venuti in questa Assemblea ed i voti dati a loro non sono, credetelo, affermazione indipendentista, sono espressioni generose verso questi uomini ai quali una politica non sempre oculata del Governo accendeva attorno l’aureola del martirio.

Si consentì da principio, non sappiamo se a ragion veduta o per debolezza o per necessità, che si facesse una propaganda che era palesemente delittuosa, perché tendente alla disgregazione territoriale dello Stato. E poi, quando questa propaganda diede fuoco alle polveri, così che si era già formato un esercito per l’indipendenza siciliana (l’E.V.I.S. purtroppo ha mietuto le sue vittime), fu necessaria la repressione, che è, come sempre, l’effetto di una pietà crudele.

Bisognava stroncare da principio questo movimento inammissibile perché disgregatore dello Stato. E le conseguenze di questa debolezza furono amare.

Comunque, il problema era posto, è stato sottolineato, e l’Italia ha il dovere di affrontarlo.

Il problema siciliano, o Signori, non è un problema diverso sostanzialmente dal problema meridionale.

È il problema del Mezzogiorno d’Italia, forse arricchito da qualche mutamento che discende da questa circostanza: che la Sicilia è l’unica regione d’Italia che ha la fortuna di una bilancia commerciale, delle importazioni ed esportazioni, nettamente e fortemente favorevole.

Ora il problema non è soltanto, come generalmente si ripete, per la Sicilia e per il Mezzogiorno d’Italia, un problema di lavori pubblici. Sì, sono necessari, indispensabili in Sicilia, strade, ponti, scuole, canali, bonifiche, la lotta contro il banditismo, ma non è questo il problema. Il problema è soprattutto problema di bilancia economica interna ed estera.

Come ieri ebbe a dirvi l’onorevole Romano, il Mezzogiorno d’Italia, e la Sicilia in ispecie, hanno subìto delle asportazioni di denaro massive dopo la unificazione di Italia, da principio con la liquidazione dell’asse ecclesiastico che fece sì che gran parte del denaro siciliano emigrasse e giovasse ai bisogni del nascente Stato italiano, soprattutto alle necessità del Nord. Poi la guerra del 1915-18, le spese di quella guerra che si fecero quasi esclusivamente nel Nord, infine questa guerra, non escluso il fatto ultimo del prestito del 1945 che, come è noto, servì a sussidiare la lotta parmigiana. Ma accanto a questa emigrazione massiva del denaro e del risparmio meridionale, vi è un processo di impoverimento lento e continuo che deriva essenzialmente da varie cause dipendenti dal sistema tributario e dalla politica economica.

Il sistema tributario è imperniato da noi essenzialmente sul sistema reale, che colpisce principalmente la ricchezza immobiliare e quella ricchezza mobiliare che non può sfuggire, quale la ricchezza mobile degli impiegati, professionisti e commercianti, ma non colpisce quel volume di ricchezza che certamente è il più cospicuo, la ricchezza in numerario, in crediti commerciali, in titoli di credito ed azionari, in preziosi, che è incomparabilmente maggiore e prevalente nella economia del Nord. Ora ciò crea palesemente una sperequazione tributaria. Noi del Mezzogiorno d’Italia subiamo una pressione tributaria proporzionalmente, infinitamente più grande. E poi si aggiunge la politica di protezione dell’industria, che finisce coll’essere pagata proporzionalmente di più dal Mezzogiorno d’Italia, che è il principale acquirente dei manufatti del Nord.

Ora non si nega che lo Stato possa perseguire dei fini di benessere che lo inducano alla protezione dell’industria, ma è pure necessario creare qualche partita di compenso. Ma a questo, a dire la verità, non si è pensato mai.

È avvenuto che la nostra Trieste, proprio per effetto dell’unificazione, perdesse la quasi totalità del trafficò del suo porto; ma l’Italia, come madre amorosa, si preoccupò dell’economia triestina ed al traffico marittimo seppe sostituire la ricchezza proveniente dallo sfruttamento delle industrie e delle miniere, si crearono grandi istituti di cultura, e l’economia di Trieste non soltanto rimase invariata, ma si accrebbe.

Niente di simile si è pensato di fare per il Mezzogiorno. Si è lasciato che questo processo di lento ma inesorabile depauperamento continuasse naturalmente, senza che gli uomini si preoccupassero minimamente di arrestarlo o di diminuirlo. Anche da noi si dovrebbe fare un’intensa politica di lavori pubblici, che compensasse la ricchezza che noi mandiamo al Nord. La Sicilia e il Mezzogiorno dovrebbero, per esempio, essere arricchite di grandi istituti di cultura, che sfruttassero e mettessero al servizio dell’Italia la disposizione dei meridionali per gli studi e per la scienza. Tutto questo non si è fatto. Anzi, le nostre università sono decadute ed hanno potuto molto faticosamente, soprattutto per opera di uomini e non per aiuto di mezzi, seguire l’ascensione della scienza italiana.

Ora, è tempo che tutto ciò sia riparato. L’Italia, purtroppo, malgrado i programmi, non è nella possibilità di affrontare oggi in pieno tutti questi problemi. Però, qualcosa si può cominciare a fare.

Si parla di larghi lavori pubblici, soprattutto per soccorrere le necessità della mano d’opera. Bene! Si può cominciare dall’Italia meridionale, non con precedenza o con preferenza, ma con quasi esclusività, perché, se, per iattura comune, tutti abbiamo perduto, Sud e Nord, c’è da pensare che il Nord abbia perduto una parte di ciò che costituiva privilegiò in rapporto a noi, mentre noi abbiamo perduto quasi tutto quello che era essenzialmente indispensabile.

La solidarietà nazionale, la buona volontà di riparare cominci a manifestarsi subito!

Da questo mese si può cominciare a dare la prova di questa concreta e seria volontà.

Hic Rhodus, hic salta!…

Noi, signori del Governo, vi attendiamo finalmente alla prova. È questa la risposta che voi dovete dare all’onorevole Finocchiaro Aprile, il quale vi ha detto che vuole una Confederazione italiana, unicamente perché non crede di poter avere più fiducia nello Stato italiano.

Si cominci da oggi a provare il contrario.

E soprattutto, fratelli del Nord, fratelli d’Italia, non diamo altri colpi all’unità morale del popolo italiano.

Un colpo fiero è stato dato con la proposizione della questione istituzionale. Si sapeva che il Sud era prevalentemente e appassionatamente monarchico.

Non vi era ragione di proporla, questa questione istituzionale, perché se da parte vostra si faceva questione di risentimento, e voi eravate mossi dal risentimento e dall’odio, noi eravamo mossi soltanto dall’amore per un’idea, che era l’idea e il simbolo dell’unità d’Italia. (Commenti).

Questo essenzialmente è stato il significato del nostro schieramento monarchico passivo. Io vi voglio dire che i risultati del referendum hanno profondamente scosso il popolo meridionale. Noi abbiamo una profonda coscienza giuridica che ci proviene dalle nostre trimillenarie tradizioni di viver civile, e non siamo tranquilli sulla promulgazione di quella legge che pose la questione in quel senso e in quel senso la volle risolvere. Perché ci sembra incomprensibile come una questione di tanta importanza si possa risolvere con un referendum introdotto per decreto reale, mentre il referendum è un istituto sconosciuto all’ordinamento giuridico italiano. Non siamo altresì tranquilli su quella legge (Commenti), perché non costituiva le necessarie garanzie: prima di tutto una maggioranza qualificata quale era indispensabile allorché si trattava di modificare la costituzione.

Anche nel diritto privato le più importanti disposizioni collettive sono prese non a semplice maggioranza. Così in materia di condominio, quando si tratta di atti di disponibilità, e così dicasi per altre materie, via via discendendo da una maggioranza costituita con proporzioni numeriche maggiori, sino alla maggioranza della metà più uno.

Comunque nulla era disposto in quella legge per accertare e reprimere gli eventuali brogli elettorali, che, purtroppo, seguono come ombra necessaria tutte le votazioni. E pur qualcosa bisognava predisporre in modo che non vi fossero dubbi sulla genuinità dei risultati della votazione. Questi rappresentano ancora una questione insoluta, ed è necessario soprattutto per la Repubblica chiarire il suo atto di nascita.

Una voce. L’ha chiarito la Corte di Cassazione.

CONDORELLI. I poteri dati in questa materia alla Corte di Cassazione non erano tali. La Cassazione si è limitata alla verifica dell’esattezza di un computo numerico.

La Repubblica ha il maggiore interesse a chiarire il suo atto di nascita. Vi ha interesse più di noi.

Ma noi in questo momento non solleviamo la questione, (Interruzioni – Commenti) perché la nostra mente è rivolta ad altri pensieri. È la Patria in pericolo che impegna oggi tutto il nostro spirito. Ma alla questione non abbiamo rinunziato, né essa è stata accantonata. Verrà a suo tempo, quando l’Italia uscirà da questa situazione. Luce deve esser fatta, e intera, nell’interesse comune.

Signori, io avrei ancora alcune cose da dire in rapporto alle dichiarazioni del Governo, e dicendole so di prestare la mia porzioncina di collaborazione al Governo del mio Paese.

Noi abbiamo sentito le censure che da tutti i lati sono state mosse circa la formazione di questo Governo.

Non ne vogliamo aggiungere altre, perché comprendiamo la situazione estremamente delicata in cui si trova il Governo nazionale in questo momento e noi vorremmo fare quanto è in noi per rafforzarlo. Ma un’obiezione soltanto faccio, non a questo Governo ma a tutti i governi che potranno succedersi in Italia in tempo più o meno lontano, cioè un maggior rispetto delle competenze. È vero che i Ministri, come membri del Governo, hanno una funzione politica, ma sono anche capi di amministrazione e come tali debbono essere competenti. Questa seconda parte, a mio giudizio, è la parte più importante, perché la politica senza l’amministrazione diviene una qualche cosa che Socrate chiamava kalekeia, espressione che non voglio tradurre in italiano. Soprattutto questo difetto ci ha colpito per quanto riguarda i Ministeri militari. In essi sono tutti borghesi, che provengono da attività diametralmente opposte ai Ministeri di cui debbono occuparsi.

Capisco che ciò potrebbe avere un significato politico, che cioè noi vogliamo smilitarizzarci anche prima che altri ce lo imponga; ma quando un popolo è costretto, per esigenze esterne o interne, a ridurre i propri armamenti, deve cercare di supplire quanto è più possibile alla quantità con la qualità e proprio in quei momenti il bisogno di tecnici diventa più urgente. E l’Italia aveva dei tecnici da chiamare a quei posti. Comunque che Iddio vi aiuti nell’opera vostra per il bene dell’Italia!

Noi avremmo ancora alcune osservazioni da fare circa la politica economica e tributaria del Governo.

Ci annunciate il ripristino del prezzo politico del pane. È una necessità. Però io mi sono sempre posto questo problema: è proprio impossibile fare una discriminazione? Èproprio necessario dare il pane a prezzo politico a tutti gli Italiani? Si potrebbe dare a prezzo politico ai bisognosi, ai meno abbienti e forse facendo questa discriminazione si potrebbe risparmiare un miliardo o mezzo miliardo al mese e ce ne sarebbe tanto bisogno. Esamini il Governo questa possibilità. Se la cosa dovesse durare ancora, varrebbe la pena di fare le spese necessarie per impiantare gli appositi uffici per fare questa discriminazione.

Altro problema: si parla di una politica tributaria, che dovrebbe consistere essenzialmente nel potenziamento degli attuali mezzi di accertamento e di imposizione. Cioè gli ordinamenti dovrebbero restare immutati, cercando di stringere ancora, per quanto è possibile, il torchio. Credo che ciò non sarebbe secondo giustizia, perché si accentuerebbero quelle tali sperequazioni di cui ho avuto occasione di intrattenermi parlando del problema del Mezzogiorno. È necessario provvedere in modo che paghino anche le categorie oggi non accertabili e non tassabili, presso le quali forse è riunito il principale volume della ricchezza nazionale: i borsari neri; quel commercio che si eleva un po’ dalla borsa nera, ma che ha con essa tanta affinità, e che indubbiamente si è arricchito sulla sciagura comune. E poi ci sono altre categorie: gli affittuari, i mezzadri. Ora, secondo gli attuali ordinamenti tributari, questa gente è pressoché immune.

Questo è il problema principale di cui vi dovete occupare, perché ormai in Italia si è creata questa situazione paradossale: pagano sempre le persone che hanno pagato, sempre le stesse: basta avere una casetta, un palmo di terra, uno studiolo aperto, un buchetto di negozio, perché si sia tartassati. Le nuove attività, prosperate nel disordine economico che ci ha aggredito, quelle sono assolutamente intatte e intangibili. Ma davvero, la scienza finanziaria italiana si deve arrendere e dichiarare la propria impotenza di fronte a questo spettacolo scandaloso che fa pagare i lavoratori, i produttori e lascia totalmente indenni i parassiti? (Applausi a destra).

È proprio indispensabile che voi mobilitiate uffici e università e scienza per risolvere questo problema?

Un altro argomento che bisogna brevemente toccare è quello del prestito interno che vi proponete di fare. È una necessità indiscutibile. Però è anche una necessità indiscutibile cercare di aiutarne, di prepararne il successo nel miglior modo possibile.

Ora, mi sembra che nel vostro programma si dicano tante cose che non sono certamente utili a preparare il successo e che diventano tanto più inutili in quanto probabilmente non potrete fare tutte le cose che vi proponete, specialmente nel breve giro di tempo che è accordato al vostro Ministero. Si parla di una imposta patrimoniale, che potrebbe spaventare la gente, che potrebbe essere una confisca. Orbene, di fronte allo spettro di questa imposta, voi troverete certamente uno stato di resistenza nei risparmiatori, i quali non si disfaranno del loro denaro perché non sanno quanto potrà loro abbisognare per far fronte a questa imposizione straordinaria.

Si parla di trasformazioni coattive dei poderi; e anche qui, creando la prospettiva di dover spendere ingenti somme per evitare la perdita delle proprietà, metterete gli agrari in uno stato di resistenza e di allarme per il che non saranno disposti a sottoscrivere al prestito nazionale.

Si teme ancora il cambio della moneta. Probabilmente non cadrete in questo errore che ormai sarebbe duplice, perché non si raggiungerebbero le finalità che una volta si sarebbero potute raggiungere e perché si creerebbero enormi sperequazioni: voi raggiungereste l’effetto di colpire i poveri gonzi, probabilmente i nostri ingenui contadini che conservano il denaro. Non colpireste nessun altro, perché nessuno che sappia maneggiare il denaro se lo tiene a casa, nelle tasche, nei cassetti, sotto le mattonelle. Il denaro si investe. Se doveste accertare il denaro per svalutarlo, dovreste accertare scrupolosamente anche tutta la ricchezza mobiliare: crediti, preziosi, titoli di credito ed azionari ecc. E voi non lo potreste fare ed otterreste il solito effetto di colpire i più ingenui. Bisogna chiarire al popolo italiano che questo pericolo non c’è; e soprattutto usate delle cautele, perché questo risparmiatore, ormai giustamente allarmato, sia sicuro dell’assoluta segretezza della sottoscrizione a questo prestito.

Desidero dire qualche cosa sulla riforma agraria. Nelle dichiarazioni del Governo abbiamo inteso che esso si impegna a non modificare lo stato giuridico, dicono le dichiarazioni, l’ordinamento giuridico, direbbero i giuristi, altro che nei punti in cui concorre la volontà dei gruppi al governo.

Scusate, questo è profondamente antidemocratico: non basta che siano d’accordo i partiti al potere; è necessario, in regime democratico, sentire anche le minoranze, a meno che non si voglia sostenere che le vostre leggi siano esclusivamente degli atti di volontà. Le minoranze devono essere intese perché, allorquando si modifica una situazione legislativa non basta il concorso ed il consenso dei partiti che stanno al potere.

Queste raccomandazioni io le faccio nell’interesse della rinascente democrazia italiana.

In rapporto a questo problema agrario io debbo anche dirvi che nelle vostre dichiarazioni c’è qualche cosa che potrebbe preoccupare: dichiariamo che anche da questi banchi siamo perfettamente d’accordo sul principio «la terra agli agricoltori», che però non vuol dire «la terra ai contadini»; significa la terra anche ai contadini, ed a tutti quelli che si occupano veramente della terra, a coloro che sanno veramente di adempiere ad una funzione sociale.

Anche questo bisogna che sia fatto democraticamente.

Ora, nella vostra dichiarazione si dice che sarà ripresa, intensificata, l’espropriazione a favore dell’Opera nazionale combattenti, dall’Ente per il latifondo siciliano, ecc. Perché, se si trattasse di modificare le antiche leggi, vi diciamo e ripetiamo l’istanza che abbiamo già fatta, e cioè: interessate la Costituente, perché è un punto che deve interessare probabilmente la costituzione, ed è necessario che ciò non sia operato facendo trovare la Costituente di fronte a dei fatti compiuti che poi si dovrebbero disfare. Bisogna anche su questo punto mettersi d’accordo.

Una lieve critica debbo fare in rapporto al progetto di imporre delle trasformazioni coattive con la eventuale perdita della proprietà in caso di mancato adempimento, nel qual caso si darebbe la terra a coltivatori diretti che verrebbero sussidiati. Questa mi sembrerebbe una ingiustizia. Prima di tutto il sussidio, se nessuna condizione si oppone, bisogna darlo a chi possiede la terra, a meno che non si tratti di latifondo; ma se si tratta di una proprietà normale compatibile col nuovo ordinamento terriero che deve avere l’Italia, non vedrei la ragione di espropriare chi l’ha per darla ad altri, che verrebbe poi sussidiato per utilizzarla. L’offerta deve essere fatta prima di tutto a chi è attualmente possessore.

Io confesso alla Costituente che, con un certo sforzo, mi sono intrattenuto su questi problemi, che per altro non richiedono idee peregrine. Il sentimento di noi italiani e, consentitemelo, di noi siciliani in ispecie, in questo momento, è rivolto al nostro problema internazionale.

Tutta l’anima della Patria è oggi a Trieste, che è la capitale d’Italia! E noi siciliani abbiamo l’orgoglio di non sentirci secondi a nessuno in questo vivo e lancinante sentimento. Noi riaffermiamo che Trieste e l’Istria sono italiane, perché lo dice la natura e la storia; sono italiane, perché abitate da italiani che vogliono vivere nella comunità nazionale italiana; sonò italiane perché la loro italianità è gridata dalle pietre e dalle tombe; sono italiane perché la loro italianità è stata riconsacrata da un secolo di passione patriottica e da 600 mila morti; sono italiane perché l’ha riconosciuto il mondo nei congressi internazionali che hanno chiuso l’altra guerra. E anche oggi nelle riunioni di esperti che si sono tenute durante queste lunghe e defatiganti conversazioni e trattative, nessuno ha potuto negare – neanche quelli che avevano un partito preso – che Trieste e parte dell’Istria siano anche etnicamente e tipicamente italiane.

Ma vi era una potenza ansiosa di introdurre il suo prestigio nel Mediterraneo che ci ha conteso queste terre per darle ad una sua ancella. Il piano non è riuscito.

Non sappiamo perché questo sinedrio internazionale si sia orientato verso una soluzione di internazionalizzazione di quelle terre italiane.

Il perché rimane ancora occulto, giacché questa dell’internazionalizzazione non può essere una soluzione che soddisfi colei che ci aveva contrastato. Forse dipende da una perdita di credito presso gli Alleati che ci avevano sostenuto fino a ieri. Comunque, lo scempio si vuole fare; si vuol farlo senza ricordare che così, anche con la internazionalizzazione, si viene a ledere il diritto nazionale italiano, si viene a ferire insanabilmente il principio di nazionalità, che è la sola base di un ordinamento internazionale stabile, si viene a dare la prova palmare della frode ordita a danno del popolo italiano che si è fatto combattere per una guerra che doveva essere di liberazione, ma che poi si vuol concludere con l’asservimento dell’Italia allo straniero, con la lacerazione delle carni d’Italia, con la espropriazione delle nostre Colonie, frutto meraviglioso del nostro onesto lavoro, con l’espropriazione della flotta, che pure sino a ieri è stata riconosciuta come uno strumento prezioso della vittoria alleata.

Noi protestiamo per il diritto leso e per la frode consumata. Ci si è gridato duramente sul volto: «Guai ai vinti!». Ma noi rispondiamo: «Guai agli stolti!».

Guai agli stolti, perché è stolto chi si oppone ai disegni di Dio. Guai agli stolti, perché è stolto colui che vuole cambiare l’ordine che la volontà che Dio e la natura hanno impresso nelle cose. Trieste e l’Istria sono italiane, per storia e per natura, e italiane resteranno o torneranno. (Applausi). L’Italia è un ponte lanciato dall’Europa verso l’Africa, e le flotte italiane torneranno a lanciarsi sul mare verso l’Africa.

Una voce. Questo è imperialismo!

CONDORELLI. Non è imperialismo. Anche Mazzini pensava così. Quella sponda che ci è di fronte è sponda storicamente affidata all’Italia, sponda nella quale l’Italia è sempre stata esaltata come madre benefica di civiltà e di umanità, e che è ormai irrevocabilmente nostra.

Così come altri già in questa Assemblea hanno fatto, io ammonisco il Governo che una simile pace si può subire come dettato dei vincitori ai vinti, giammai accettare come libero patto. (Applausi). E ammonisco tutti i governi del mondo che è errore, supremo errore, violare i diritti del popolo italiano, perché lo Stato italiano è prostrato ed inerme. Il popolo italiano scuoterà le macerie che su di lui sono state accumulate, si ergerà, e saprà ottenere la giustizia che oggi gli si nega.

Io chiudo facendo alla Costituente una osservazione e una proposta. Col decreto del 16 marzo 1946, nel convocare i comizi elettorali in Italia, fu sospesa, rinviandola ad altri tempi, la convocazione dei comizi elettorali nella Venezia Giulia e nell’Alto Adige. Probabilmente tale convocazione di comizi elettorali non sarà possibile, anche nella migliore delle ipotesi, prima che questa Assemblea termini i suoi lavori. Ed allora, non sente la Costituente la necessità di integrarsi coi rappresentanti di quella che ormai è la parte principale ed essenziale d’Italia?

Una voce. In che modo?

CONDORELLI. Si autointegri la Costituente nella sua sovranità. I modi possono essere studiati. Si può dare un voto plurimo a quei rappresentanti che già si trovano in questa Assemblea e che sono nativi di quella regione: si possono anche chiamare di autorità dalla Costituente alcuni dei Giuliani che si trovano nel regno (Commenti)…

Una voce. Nella Repubblica!

CONDORELLI… e che purtroppo sono molti. Ma è necessario che mentre si forma questa Costituzione, che deve essere il nuovo patto di unità dell’Italia, quella, che è la melior pars d’Italia, non sia assente. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Coppa.

COPPA. Onorevoli colleghi, il gruppo parlamentare a cui appartengo ha già espresso, attraverso i suoi autorevoli rappresentanti, le ragioni che lo inducono a non appoggiare incondizionatamente il programma del Governo, e ritornarvi su sarebbe per lo meno ozioso.

Pertanto io mi limiterò solo a fare alcuni rilievi, per richiamare soprattutto l’attenzione del Governo su argomenti di particolare gravità, sui quali la relazione del Presidente del Consiglio tace o si è soffermata appena di sfuggita.

E poiché la mia non vuole essere critica, ma, ripeto, solo segnalazione, anche e soprattutto perché – è bene si intenda da tutti – noi non concepiamo l’opposizione fine a se stessa, io mi limiterò ad enunciare quanto in ordine alla politica interna riteniamo abbia particolare carattere di urgenza e richieda l’opera pronta ed energica del Governo.

Non occorrono particolari rilievi statistici per dar colore all’affermazione, che la delinquenza dilaga sotto tutte le sue forme. Basta scorrere i quotidiani. Altri oratori hanno già trattato l’argomento. Ma noi sentiamo il bisogno di insistervi. È proprio vero che l’autentica civiltà di un popolo non si misura soltanto dalla quantità di sapone che consuma o dalla percentuale di analfabeti, ma anche dalla maggiore o minore sicurezza con cui si percorrono le sue strade. Quindi è assolutamente necessario che questa sicurezza ritorni con l’impero della legge, magari ricorrendo a misure repressive di particolare energia, come proponeva, se non erro, l’onorevole Persico. E l’impero della legge non può aversi se non attraverso un potenziamento dei corpi di polizia, il cui personale non solo deve essere trattato economicamente bene, ma deve anche essere accuratamente selezionato. Non bastano le benemerenze patriottiche per trasformare un valoroso combattente in un abile agente o in un solerte carabiniere. Se c’è un settore che non può e non deve essere il refugium dei disoccupati, siano pur reduci, questo è proprio quello dei corpi a cui è affidata la tutela dei beni e della vita dei cittadini. E, secondo me, si dovrebbe ritornare alle buone tradizioni di una volta, quando per la scelta di un agente era condizione essenziale l’appartenere ad una famiglia (collaterali compresi) che non avesse avuto mai familiarità col Codice penale. Gli arruolamenti in massa possono costituire solo un rimedio del momento, che non può esimere il Governo dall’attuare man mano un’accurata selezione tra gli agenti così arruolati, e non resi certo inappuntabili e perfetti da alcuni mesi di scuola e di una disciplina che dovrebbe essere rigida.

E credo cada a proposito considerare che sarebbe ora che i corpi di polizia, quelli dipendenti direttamente dalla questura, non fossero manovrati per servire questa o quella corrente politica, ma fossero restituiti allo scopo preciso cui devono servire, di garantire cioè la libertà e la sicurezza di tutti i cittadini, in tutte le ore del giorno e della notte. Accanto alla delinquenza che possiamo definire volgare, esiste un’altra forma di violenza contro la libertà e la vita dei cittadini, ed è quella a carattere politico. La violenza, l’assassinio non possono mai trovare nella passione politica una scusante che ne dissimuli il carattere criminoso. Anzi io penso che il movente politico aggravi maggiormente la criminalità dell’atto, perché, mentre nei confronti del delinquente volgare può talora levarsi la voce dello scienziato, che verrà a parlarvi di ereditarietà e di costituzione, o quella del sociologo, che ricercherà più nella miseria che nel vizio le radici remote o prossime del delitto; nei confronti del delitto politico, quando già questa etichetta non serva di comoda quinta per una vendetta personale, il più delle volte agiscono il calcolo, il proposito, la premeditazione, ed è quindi, l’organizzazione dell’agguato e dell’intimidazione, espressione suprema di ferocia e di viltà. Non può esistere delitto politico che si sottragga a questo duplice marchio. Nessuno può pretendere di servire un’idea, aggredendo un avversario inerme col vantaggio del numero e della sorpresa. Il sangue delle vittime è il miglior fertilizzante dell’idea che si vuol sopprimere con l’uomo. E le idee non si uccidono!

Nel nostro paese, purtroppo, continuano queste aggressioni a sfondo, diciamo, politico. E chi sa se colui o coloro che le commettono non facciano un preventivo assegnamento su di un’amnistia, quando già non facciano più sicuro affidamento sull’oscurità della notte, in cui, con la vita dell’assassinato, si perdono anche le tracce dell’assassino? Io sono sicuro che il Governo non sia disposto a tollerare che si protragga un simile stato di cose che getta una luce sinistra sul nostro Paese e sulla nostra civiltà.

Accanto a questo tragico fenomeno ve ne sono altri altrettanto dolorosi: l’infanzia abbandonata, la delinquenza minorile, fenomeni questi collegati fra loro, ed il dilagare della corruzione delle adolescenti. Non c’è guerra, specie quando questa guerra investe tutta una nazione, che non travolga, con i valori materiali, anche quelli dello spirito. È il doloroso bilancio che pesa più di qualsiasi distruzione materiale. Perché a questa si pone riparo, in un tempo più o meno, lungo; le devastazioni morali invece diventano irreparabili, se non soccorre una tempestiva, vasta, minuziosa opera di risanamento spirituale e di rieducazione, che non può esplicarsi senza il concorso degli appositi istituti di ricovero, in cui i fanciulli e le fanciulle devono apprendere ad amare l’onestà e il lavoro. Il lavorò costituisce certo la migliore profilassi della delinquenza.

E veniamo ad un altro problema che, se fosse altrettanto grave nella realtà così come lo è nella sua enunciazione, io riterrei prossimo il giorno in cui noi riperderemmo il bene, l’unico bene, che in questo tormentato dopoguerra abbiamo creduto di aver raggiunto, cioè la libertà.

Si sente dire un po’ dovunque, e di tanto in tanto i giornali ne danno notizie concrete, che nel paese esistono grandi quantità di armi. Leggemmo tempo fa che a Chioggia ed a Bari si sbarcavano armi di imprecisata provenienza. Ogni tanto leggiamo che la polizia ha scoperto un deposito di armi e munizioni di tutti i tipi in questo o quel sito.

Si ha la sensazione di assistere al lento, fatale avvicinarsi di un uragano, di cui si vede in lontananza soltanto il rado lampeggiare.

Perché tante armi nascoste?

Innanzi tutto il Ministero degli interni è al corrente di questa situazione? I fatti corrispondono alle voci? I carabinieri e la polizia sono facilitati nel loro compito dai prefetti e questori, o non piuttosto c’è chi ne ostacoli l’opera?

Queste armi certamente sono a disposizione di forze incontrollate.

Noi non pensiamo neppure per un istante che esse, distribuite, così come si sente dire, un po’ dappertutto, siano espressione di una organizzazione politica, che dovrebbe trovarsele a portata di mano al momento opportuno.

Io penso che nessuno dei partiti politici, che hanno i loro rappresentanti qui dentro, possa essere sospettato di una anche minima corresponsabilità, perché, se così fosse, quel partito sarebbe per ciò stesso fuori legge, essendo evidente lo scopo di una simile organizzazione, quella cioè di sovvertire, armata manu, l’ordine dello Stato.

E allora?

Se le voci raccolte fossero false, nessuno più felice di noi. Ma nel timore che dovessero trovar riscontro nella realtà, noi richiamiamo l’attenzione del Governo sulla gravità del problema, e però ne invochiamo la più energica azione di indagine e rastrellamento, una più stretta vigilanza delle nostre coste, dove può aver luogo il contrabbando delle armi, le più severe sanzioni per i trasgressori della legge.

E per finire su questo aspetto della politica interna, chiedo ai Governo se non aia finalmente il caso di modificare opportunamente le leggi di polizia del 1926, in quel che di esse si è reso incompatibile non solo con il clima democratico, che vuol rinnovare la vita della nazione, ma col presupposto fondamentale del programma di quasi tutti i partiti, che durante la campagna elettorale hanno affermato a gran voce che a base della vera democrazia è il rispetto assoluto della personalità umana; quelle leggi, sotto certi aspetti, sono la negazione di questo principio; e voi, onorevole De Gasperi che siete a capo di un Governo che si afferma democratico, dovete sentire non l’anacronismo, ma l’assurdo di poterne disporre.

Corollario logico di questo rilievo deve essere l’abolizione definitiva dei prefetti e questori politici.

Ma c’è un punto della relazione del Presidente del Consiglio che ha richiamato la mia attenzione ed io intendo esporre le impressioni del mio gruppo.

Il Presidente del Consiglio, nella nobile chiusa del suo discordo, ha fatto appello alla santità dei trattati ed al dovere di reciproca lealtà nella nostra politica interna, che deve ispirarsi alle ormai classiche quattro libertà.

Per chi furono dette quelle gravi parole? Pacta sunt servanda! Ma a quali patti si riferisce l’onorevole De Gasperi? Credo che la risposta al mio interrogativo sia contenuta nelle seguenti parole del Capo del Governo: «Questo Governo, come i precedenti, non intende spostare, come che sia, lo stato giuridico e di fatto esistente nelle zone ove non si ha coincidenza ideologica fra le varie correnti rappresentate nel Governo. Esso si contiene entro i limiti segnati dalle leggi fondamentali e dai vigenti Patti Lateranensi».

È nei confronti dei Patti Lateranensi, onorevole Presidente del Consiglio, che voi avete fatto appello alla santità dei trattati? Naturalmente questo appello non può essere rivolto che alle correnti rappresentate nel vostro Governo e che non coincidono ideologicamente con la vostra.

Io mi auguro di ingannarmi nella interpretazione del vostro pensiero espresso, forse volutamente, in forma alquanto involuta. Ma se la interpretazione fosse esatta, mi permetterei di esprimervi non solo la sorpresa del nostro gruppo parlamentare, ma anche quella di larghissimi strati di elettori non nostri. Questa non coincidenza ideologica è una sorpresa di Governo. Ma nei Comizi elettorali abbiamo, dico abbiamo personalmente ascoltato, non una ma varie volte, discorsi in cui la più aperta professione di fede e di rispetto per la fede e per la Chiesa era fatta da oratori che strenuamente si difendevano dall’accusa di essere rappresentanti di partiti, le cui idee non erano conformi agli insegnamenti della Chiesa. Ed io ho visto manifesti con sacre immagini e mottetti evangelici che non erano del vostro partito, onorevole De Gasperi, e neppure del nostro.

Molti popolani si sono sentiti dire, onorevole Sereni – che non vedo qui presente – che il rosso di un certo simbolo era il rosso del manto del Cristo, che la stella era quella dei Magi, che il martello era quello di Giuseppe, e finalmente la falce era simbolo degli apostoli contadini; ma c’era un piccolo errore: ci voleva la rete perché gli apostoli erano pescatori.

Questo, onorevole Sereni – speriamo che vi sia stato riferito – si dice che abbiate detto voi a Caivano, ove io ho avuto l’onore di succedervi mezz’ora dopo e naturalmente di smentirvi.

Ed ora il Presidente del Consiglio sente il bisogno ed il dovere di rassicurarci, che, nonostante tutto, i Patti Lateranensi non sono in discussione.

I Patti Lateranensi – che, come pochi sanno, sono oggetto di un particolare, meticoloso, studio da parte di un gruppetto di giuristi, studio che si dice sia a buon punto ormai, per vedere se e come essi siano giuridicamente attaccabili – i Patti Lateranensi sono patrimonio del popolo italiano, sono parte intrinseca del patrimonio spirituale del nostro popolo, perché corrisposero e corrispondono al bisogno profondo di poter servire Iddio ed amare la Patria senza restrizioni e senza contradizioni.

Non è questa la sede per impiantare una discussione giuridica che non solo ha importanza dal punto di vista internazionale, ma anche vastissima ripercussione nel campo della politica interna.

Ma non possiamo fare a meno di riaffermare, che il nostro gruppo parlamentare non solo ritiene intangibili i Patti Lateranensi, ma non ammette che possano venire neppure in discussione, a meno che ciò non avvenga col consenso e nei limiti concordati d’ambo le parti interessate.

Può forse negarsi che la stragrande maggioranza del popolo italiano professi la religione cattolica? E se questo è un dato di fatto indiscutibile, quale legislatore oserebbe manomettere ciò che ha soddisfatto alle esigenze di milioni e milioni di cittadini?

Bisognerebbe solo poter affermare il contrario per discutere i Patti Lateranensi in ciò che hanno di sostanziale. Ma tale contraria affermazione dovrebbe derivare soltanto da una consultazione popolare, il cui esito non sarebbe difficile prevedere.

Perché, se per il problema istituzionale si è ritenuto necessario il referendum, con quanta maggior ragione e diritto il popolo italiano potrebbe pretendere di essere interpellato, se si volesse attentare alla garanzia giuridica di quanto esso ha di più alto, di più sacro, di più santo: la sua fede?

E in quest’aula già si rilevano le prime avvisaglie di una lotta che io immagino da tempo meditata e preparata. Ma l’Italia, il popolo italiano, che ascrive a suo sommo onore ed immensa fortuna di avere nel suo seno la Cattedra di Pietro, il popolo italiano che sa che se dolori e lutti gli sono stati in parte risparmiati, lo deve alla Santa Sede, il popolo italiano, che sa che molti di coloro che oggi sono disposti a lottare contro la Chiesa furono e sono salvi, e di essi alcuni sono presenti qui dentro, perché Pio XII li accolse e protesse senza domandar loro se fossero amici o nemici, il popolo italiano, di fronte a un tentativo di denunziare unilateralmente il Concordato, insorgerebbe e griderebbe all’inganno e noi uomini qualunque denunzieremmo al paese il tradimento che i suoi rappresentanti volessero consumare ai suoi danni dopo tante e ripetute dichiarazioni, in periodo elettorale, di ossequio verso la Chiesa e di rispetto del sentimento religioso dei popolo.

Qui non si ha il diritto di parlare contro la Chiesa e la religione, quando fuori di qui, fino al 2 giugno, ci si è sforzati di far bene intendere che le questioni economiche e politiche non avevano nulla a che vedere con la religione.

Ebbene, è il caso di scoprire il giuoco. I Patti Lateranensi sono una barriera ben più salda di qualsiasi forma istituzionale: hanno una base granitica.

Chi tocca i Patti Lateranensi è contro la religione e la Chiesa.

Il Concordato non può essere ritoccato se non di comune accordo, ed in quanto si riconosca da entrambe le parti l’utilità o la necessità di provvedervi. Oltre questo punto non c’è che la lotta alla religione, ed il popolo italiano lo deve sapere chiaro e tondo.

Perché c’è poco da illudersi: il mondo non è agitato se non alla superficie per le apparenti questioni economiche. Il sostrato profondo della lotta è tra due opposti mondi di idee, tra il mondo dello spirito ed il mondo della materia, tra una civiltà cristiana e una civiltà anti cristiana. (Applausi al Centro e a destra). Quest’Assemblea Costituente, che inizia i suoi lavori di costruzione dell’edificio costituzionale del Paese, può e deve porre come pietra angolare della nostra Costituzione i Patti Lateranensi, espressione e sintesi dei valori eterni dello spirito e del carattere cristiano che sono la base della civiltà italica.

Perché, è bene riaffermarlo, la frattura che separa i due mondi in conflitto è insanabile, il baratro che li divide è abissale. L’uomo qualunque è sulla sponda ove son coloro che credono nei supremi valori dello spirito, e questa sua fede erge a vessillo per la lotta di oggi e per quelle di domani. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Bruni.

BRUNI. Sul programma del Governo ha ormai interloquito un numero così grande e vario di oratori, che a me resta ben poco da dire utilmente.

Con la massima concisione toccherò tuttavia un aspetto della nostra questione della pace, un aspetto della nostra questione economica, ed infine aggiungerò una postilla relativa al problema della convivenza, in questa nostra Repubblica, delle diverse famiglie spirituali che la compongono, problema al quale l’onorevole Presidente del Consiglio ha fatto un rapido, ma significativo accenno nel suo discorso.

Questione della pace. L’onorevole De Gasperi, nelle sue dichiarazioni, ha voluto particolarmente sottolineare, a mio giudizio, il problema della Venezia Giulia.

Non v’è dubbio che attorno a questo problema graviti una massa notevole dei nostri interessi, non soltanto di ordine materiale, ma dirò soprattutto di ordine spirituale e sentimentale.

Bisogna proprio riconoscere, con profondo rammarico, che la sistemazione escogitata per i nostri confini orientali offende gravemente la giustizia; e la offende non per ragioni di puro prestigio della nostra Nazione o del nostro Stato, ma in quanto si vuol decidere delle sorti di quelle popolazioni, senza tener conto delle loro aspirazioni.

Applicare, pertanto, il principio dell’autodecisione dei popoli nei loro confronti ed ordinarne quindi il risultato al carattere internazionale che senza dubbio possiede il porto di Trieste, ecco, a mio parere, la via dell’onestà da seguire.

L’onorevole Lombardi ha fatto cenno alla possibilità di allargare i confini del piccolo Stato che ora si vorrebbe creare attorno a Trieste. Anche questa non è una soluzione da scartare.

L’anno scorso mi giungeva un ordine del giorno votato dalla Federazione provinciale di Treviso del Partito cristiano sociale, di cui in questa Assemblea sono l’unico rappresentante, in cui si auspicava da quei miei compagni, che pure devono vivere la passione, come ora si dice, dei confini, la creazione di uno Stato Giuliano che dovesse arrivare fino al Quarnaro, Fiume compresa.

L’onorevole Lombardi mi ha fatto ricordare quest’ordine del giorno, e ritengo che, in considerazione dello svolgersi degli avvenimenti, questa proposta e questo auspicio debba essere preso in considerazione dal Governo, almeno come il minor male per la salvaguardia dei nostri interessi nazionali, per la libertà ed il benessere delle popolazioni in causa e per avviare i rapporti italo-jugoslavi verso una amichevole composizione.

Preoccupante ed anch’essa lesiva della giustizia, benché avente carattere provvisorio, è la sistemazione escogitata per le nostre colonie; ma temerei di offendere la verità se non dichiarassi particolarmente inintelligente l’assetto che si vorrebbe dare ai nostri confini occidentali, sui quali nessun problema poteva essere ragionevolmente sollevato.

E ora due brevi osservazioni attorno alla polemica sorta in questi ultimi giorni sulle condizioni di pace che ci vogliono imporre.

Quasi tutti hanno voluto rimarcare, per sostenere la nostra giusta causa e gridare contro l’ingiustizia altrui, il contributo – senza alcun dubbio notevole – di uomini e cose, da noi dato alla causa comune.

A questo proposito tengo a dichiarare che il nostro contributo, anche se fosse stato immensamente più grande, non ci avrebbe dato alcun diritto – in una revisione generale dell’assetto mondiale – a perpetuare delle condizioni d’ingiustizia, qualora fossero esistite, e nella misura che fossero esistite, nelle nostre colonie e sui nostri confini.

E non credo sia neppure il caso di menar vanto delle dimostrazioni di buona volontà date dal nostro Ministro degli esteri alla causa della pace e della concordia internazionale, perché, come molti hanno voluto osservare, non essendo state quelle dimostrazioni negoziate, non avendo avuto esse delle contropartite, hanno forse costituito un atto dì troppo fine diplomazia per poter essere intese ed apprezzate.

Ma non sono queste piccole cose che preferisco sottolineare. Sento invece il dovere di richiamare soprattutto l’attenzione dell’Assemblea sopra un problema assai più vasto di quello stesso dei nostri confini, delle nostre colonie, della nostra flotta e delle riparazioni che ci vorrebbero far pagare; problema che incide sul nostro benessere nazionale assai più di tutti gli altri problemi; e questo è il problema della pace in generale, e del futuro assetto giuridico, politico ed economico-sociale del mondo.

In occasione del nostro dolore e dei nostri giusti risentimenti sarebbe ingiusto che questa Assemblea non sapesse trovare una espressione di solidarietà e di simpatia verso tutte le altre Nazioni sorelle che i vincitori hanno sistematicamente depauperato ed assoggettato politicamente ed economicamente.

Riparazioni iperboliche; deportazioni di popoli interi; linee di demarcazione; zone di influenza; spazi vitali. Siamo ancora, più di prima, in pieno caos internazionale; siamo ancora alla trincea, alla vita della jungla. In un mondo così fatto, quale potrà essere l’avvenire della nostra Nazione? C’incombe l’obbligo, per noi e per gli altri, di lavorare per mutarlo. Ciò che presiede alle relazioni tra i popoli non è un diritto oggettivo, una norma di universale valore – e perciò in grado di affratellare tutti, vinti e vincitori – ma la regola disgregatrice del proprio «particulare».

Tutti sono in affannosa ricerca della propria sicurezza, della propria pace, quando addirittura non coltivano sogni folli di egemonia e non si accorgono – o mostrano di non accorgersi – che l’una e l’altra si trovano in strettissima funzione della pace e della sicurezza di tutti e del rispetto dei diritti inalienabili della persona umana, non importa a quale famiglia razziale, nazionale, sociale, religiosa essa appartenga.

È certo malinconico constatare come da tutti siano stati traditi – in così grave misura – i principî ei valori della civiltà cristiana – e con ciò la stessa causa dell’uomo – in un momento così solenne della storia dell’umanità, dopo il terribile disastro della guerra e mentre si annuncia un’era pericolosa a causa della scoperta di terribili energie fisiche distruttive, che non fanno che aggravare le condizioni della vita del mondo, in difetto delle superiori energie dello spirito.

Raccomando perciò al Governo, se pure gli verrà dato di interloquire in qualche modo nella pace, o se anche questa opportunità gli venisse ingiustamente negata, di fare tutto il possibile, servendosi all’uopo di tutti i mezzi diplomatici e di propaganda a sua disposizione, per promuovere un nuovo assetto internazionale in cui i nostri e gli altrui interessi ed aspirazioni di pace e di progresso troverebbero certamente la migliore delle garanzie. La battaglia per i confini non si combatte utilmente che col cercare di superarli.

E passo alla questione economica.

L’onorevole Presidente del Consiglio ha presentato un programma economico tracciato a così grandi linee, da non permettermi né un giudizio sicuro, in alcune sue parti, né tanto meno favorevole nel suo assieme.

Può essere una semplice impressione, ma a me pare che sia stato tracciato con la preoccupazione che non prestasse il fianco a seri attacchi della critica formale, più che con la fiducia di poterlo realizzare.

E se si guarda bene, non poteva questo programma destare la fiducia neppure agli stessi suoi autori. Perché in questo programma è promesso ciò che purtroppo non potrà essere realizzato nella breve vita di un Gabinetto – ossia un livello umano di esistenza per tutti – e non è contenuto quel tanto che invece poteva essere mantenuto.

Bisogna riconoscere che promettere il ribasso dei prezzi di produzione, e quindi un salario e un pane a tutti sufficiente, non è davvero poco a questi lumi di luna.

A tal proposito mi permetterò di incoraggiare il Governo, non solo ad adeguare i salari, gli stipendi e le pensioni; ma soprattutto a far sì che tutti i disoccupati possano lavorare e tutti, come si sia, abbiano un salario o uno stipendio. Veramente questo è l’obbligo di onore che il Governo dove assumersi, prima di ogni altra cosa. Far sussistere le cause sociali della miseria rappresenta un peccato gravissimo della comunità, che questa non può né deve tollerare. Ogni provvedimento di emergenza, come ora si dice, deve essere messo in opera per cancellare questa vergogna dalla faccia della nostra società.

Il Governo presenti pure a questa Assemblea leggi di eccezione ed essa, nel suo alto senso di responsabilità umana, non mancherà di approvarle.

Tutti questi provvedimenti per dare un pane a chi non l’ha rivestono dunque un carattere della massima urgenza. Ma bisogna tuttavia confessare che non sono sufficienti. Con essi la situazione umana dei lavoratori viene ben poco a mutare.

L’uomo non vive di solo pane; e la nuda promessa del pane non giova neppure perché gli uomini mettano tutto in opera per procacciarselo.

In questo programma economico di dopo fascismo, di dopo guerra, di pieno periodo rivoluzionario in atto di tutti gli ordinamenti sociali, manca un’anima; e vanamente riuscirete a scorgervi, onorevoli colleghi, il fermento di quella nuova vita, la promessa di quei nuovi ordinamenti per l’avvento dei quali molti di voi per tanti anni si sono sobbarcati alla miseria, hanno subito persecuzioni ed hanno affrontato l’esilio e la prigione.

Non di solo pane vive l’uomo; ma anche, e soprattutto, di libertà e di giustizia.

Nel programma economico del Governo vedo pertanto frustrate le più nobili aspettative del popolo lavoratore.

Mentre cerchiamo affannosamente il nostro pane quotidiano, non meno affannosamente cerchiamo riforme di struttura, che finalmente sciolgano l’uomo da ogni servitù.

È il problema della libertà e della dignità umana nel campo degli ordinamenti economici che vedo trascurato nel programma del Governo. E in ciò sta il suo difetto, senza dubbio più grave.

Chiedo pertanto al Governo – la cui responsabilità di direzione cade soprattutto sugli attuali tre partiti di massa – di calmare l’apprensione popolare, di colmare la grave lacuna lamentata, e di dare una dimostrazione – sia pure iniziale e parziale, ma chiara – che in Italia si vogliono abbandonare le vecchie vie e seguire le nuove; che si vuole uscire dalla mediocrità sociale in cui ci dibattiamo da troppo tempo, sotto il cui peso geme l’anima cristiana, e che non è affatto adatta a contribuire efficacemente ad accelerare lo stesso ritmo produttivo, perché, in un ordinamento economico dove l’uomo non possa vivere da par suo, mancherà a lui lo slancio per conquistare anche il mondo della materia.

Il Governo mostri d’essere più coraggioso nella promessa espropriazione del latifondo e non circondi questa annosa questione e questa urgentissima operazione di formule anodine. Questa riforma, condotta onestamente a termine nel più breve tempo possibile, aprirà la via ad operazioni di ben più vasta portata, le quali dovranno dare la terra, tutta la terra, a coloro che – in un modo o in altro – concorrono personalmente a renderla produttiva.

L’onorevole Giannini non veda in ciò un’offesa al sacro principio della proprietà privata; noi, e parlo a nome degli amici cristiano-sociali, non vogliamo abolire la proprietà, ma darla esclusivamente a tutti coloro che ne fanno il posto del proprio lavoro e la ordinano al bene comune.

Il Governo presenti, inoltre, precise proposte di legge per la nazionalizzazione integrale degli istituti di credito, delle assicurazioni, delle industrie idroelettriche.

Queste operazioni sarebbero fondamentalmente urgenti e sommamente indicative.

Ci dia l’impressione che si intende combattere in forma radicale i privilegi; ci faccia nascere la fiducia in una prossima fine dell’attuale disordine stabilito. Includa questi modesti propositi nel suo programma. È il meno che potrebbe fare.

Non si limiti a scalfire reverenzialmente il regime capitalistico, ma incominci a colpirlo a morte.

II programma del primo Governo della Repubblica italiana ci ridia la fiducia negli uomini.

Gli amici socialisti, comunisti e democristiani mi perdonino il rilievo; ma io non arrivo a comprendere come dei cristiani e dei marxisti abbiano potuto accordarsi sopra un programma di Governo così incredibilmente timido sotto alcuni aspetti.

Un’altra questione – non meno importante di quella della nostra pace e della nostra economia – è la questione della convivenza, in questa nostra Repubblica, delle diverse correnti, come ora si dice, ideologiche.

A questo proposito l’onorevole Presidente del Consiglio ha voluto fare appello alla santità dei trattati, e in particolare al rispetto dei Patti Lateranensi.

Ma perché l’onorevole De Gasperi ha sentito il bisogno di fare questo esplicito richiamo ai Patti Lateranensi? Crede forse che questi Patti siano in istato di crisi? Nutre forse dei timori? Spero, ad ogni modo, che i suoi timori non riflettano il Trattato: io credo che nessun italiano, che sia cosciente degli interessi del proprio Paese, abbia intenzione di rimettere in discussione il Trattato e riaprire, in tal modo, la «questione romana». Ma sul Concordato invece – e qui bisogna riconoscere che i timori dell’onorevole De Gasperi, se mai ne nutra, non sarebbero infondati – non esiste la stessa unanimità di giudizio.

Infatti, alcuni lo vedrebbero volentieri abolito e volentieri vedrebbero instaurato in Italia un regime di separazione.

Ora io penso che non si possa instaurare in Italia un tale regime, che poi dovremmo vedere necessariamente smentito nella pratica di Governo, senza dire che potrebbe risultare gravemente lesivo della giustizia.

Moltissimi, al contrario, optando per lo Stato aconfessionale ma non areligioso, desiderebbero sostituire l’attuale Concordato con altro strumento, oppure modificare il vecchio in alcuni suoi articoli, in modo da renderlo più conforme alla missione della Chiesa Cattolica in un regime di libertà e di democrazia, quale noi ci prepariamo ad inaugurare.

Costoro giudicano il vigente Concordato come un documento peculiare dello Stato totalitario fascista e lo vorrebbero mondare dalle tracce di regalismo e di giurisdizionalismo ch’esso presenta.

Perciò chiedono che dal Concordato siano fatti scomparire tutti gli anacronistici resti di ingiustificata ingerenza dello Stato negli affari ecclesiastici e vengano cancellati quegli articoli con i quali si tentò di aggiogare al carro fascista la missione spirituale della Chiesa.

Osservano costoro che chi ancora nutrisse eventualmente qualche nostalgia per gli exequatur o i placet di regia memoria, o per il beneplacito preventivo di mussoliniana memoria, somiglierebbe assai a quel tale Governo piemontese di appena cent’anni fa, che tra le sue prerogative in materia ecclesiastica si riservava, tra l’altro, la facoltà di autorizzare gli ecclesiastici ad assentarsi dalla propria parrocchia, di benedire i paramenti sacri, e di portare la parrucca.

Vogliono dunque costoro che la Chiesa Cattolica sia lasciata libera nella nomina dei suoi vescovi e dei suoi parroci o in tutto il suo regime interno; come vogliono che siano altresì libere le chiese protestanti nella nomina dei loro ministri e pastori e nel loro regime interno; e libera la chiesa israelitica nella nomina dei suoi rabbini e nella sua interna amministrazione.

Ma qui io non voglio anticipare le discussioni in questa materia, che certamente sarà ampiamente trattata in altra occasione, e concludo il mio discorso con due osservazioni, sempre sullo stesso argomento.

Prima osservazione: sino a che il Concordato del Laterano non potrà essere modificato con il consenso delle due parti contraenti, la giustizia vuole e la pacificazione sociale richiede che esso sia rispettato scrupolosamente.

Per questo accetto l’appello dell’onorevole Presidente del Consiglio alla santità dei trattati.

Seconda osservazione: non si può risolvere secondo equità il problema della pacificazione degli italiani, della civile convivenza fra le diverse famiglie religiose e metafisiche, del mutuo rispetto e della tanto necessaria amicizia politica fra loro, se non garantendo a ciascuna di esse le condizioni esterne di sviluppo conformemente alla natura di ognuna, sulla base comune del rispetto della morale e dei diritti naturali, sacri ad ogni uomo, i quali non permettono che il criterio religioso e metafisico possa essere chiamato in causa per eventuali discriminazioni di carattere politico e sociale. (Applausi).

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim degli affari esteri, per conoscere i motivi che hanno fatto sospendere dall’agosto 1945 il rimpatrio di prigionieri dall’Australia.

«Mazza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, sui provvedimenti urgenti che intendono prendere per lenire la grave disoccupazione che colpisce la grande massa dei lavoratori agricoli della Puglia; disoccupazione che tenta di utilizzare la reazione agraria, provocando fatti luttuosi come quelli recenti di Sansevero (Foggia).

«Di Vittorio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

1°) se debba, nei suoi propositi, prolungarsi in concreto ancora per molto il problema dei reggenti Presidi e Provveditori, i quali nominati a suo tempo in via provvisoria dagli Alleati, spesso su designazione dei C.L.N. in funzione esclusivamente politica, rimangono troppo spesso ancora a quei posti, i quali viceversa dovrebbero essere rioccupati dai funzionari tecnici di ruolo, ora pienamente assolti dai procedimenti di epurazione, e che, malgrado ciò restano – sebbene pagati – inoperosi;

2°) se ritenga consentaneo, nell’interesse della Scuola italiana che, a capo di uffici centrali da cui dipendono grandi settori della istruzione pubblica (personale del Ministero, i Provveditorati agli studi ecc.) siano conservati funzionari di grado e di esperienza inferiore al grado e all’esperienza di coloro che dovrebbero essere guidati;

3°) se non consideri necessario porre finalmente termine alla contraddittorietà e intempestività di molti ordini e direttive ministeriali, mentre per la serietà degli studi è oggi più che mai necessario procedere con metodo e ponderazione sia al centro che alla periferia.

«Tumminelli».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per risanare la gravissima situazione in cui si trovano le Università italiane, in molte delle quali è praticamente sospesa per mancanza di dotazioni ogni attività scientifica e didattica, le collezioni e i musei continuano ad andare rapidamente in rovina per mancanza di materiali di disinfezione e di mezzi di restauro, e al pagamento del personale insegnante e amministrativo si deve provvedere con prestiti bancari ad alto interesse, che aggravano sempre più il pauroso dissesto dei bilanci universitari.

«Calamandrei, Codignola».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per definire la sorte delle Facoltà di scienze politiche, la cui esistenza rimane tuttora in sospeso, con grave disagio di docenti e di studenti, dei quali da più di due anni nessuno sa quale sia esattamente la situazione giuridica; ed in special modo come intenda provvedere alla ricostituzione dell’Istituto di scienze sociali e politiche «Cesare Alfieri» di Firenze, in ossequio alle alte tradizioni liberali di questo Istituto, il cui patrimonio autonomo fu assorbito nel bilancio dell’università di Firenze: ricostituzione che già trovò il parere favorevole della Consulta e del Consiglio superiore della P.I.

«Calamandrei, Codignola».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e dell’assistenza postbellica, per conoscere quali provvedimenti intendano adottare per continuare nel prossimo anno accademico 1946-47 l’assistenza agli studenti reduci e per ovviare ai gravissimi inconvenienti causati nel decorso anno dalla mancata coordinazione tra i provvedimenti del Ministro della pubblica istruzione, che hanno istituito i corsi di integrazione divisi in due semestri per ogni anno, e i provvedimenti del Ministro dell’assistenza postbellica, che hanno limitato ad un solo semestre le erogazioni destinate a provvedere al mantenimento degli studenti iscritti a tali corsi, coll’assurda conseguenza che alle Università che hanno fin dall’inizio del primo semestre provveduto con loro mezzi ad anticipare agli studenti reduci il vitto e l’alloggio, affidandosi alle istruzioni contenute nelle circolari ministeriali, il Ministero dell’assistenza postbellica nega il rimborso delle spese anticipate.

«Calamandrei, Codignola».

«Le sottoscritte chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro delle finanze, per sapere se non ritengano necessario, mentre il Governo si dispone ad affrontare il gravissimo problema del finanziamento del programma di lavori pubblici e di assistenza sociale, che solo giustifica la sua formazione ed anima la fiducia che lo sostiene, di avocare senza ritardo alle casse dello Stato i beni che già furono della corona, per devolverli, con tassativa disposizione di legge, all’azione di assistenza immediata dell’infanzia e della adolescenza, minacciate tragicamente nell’attuale dissoluzione della vita economica e sociale del Paese cui ancora non si è saputo porre argini, nella loro fisica e morale esistenza.

«Rossi Maria Maddalena, Montagnana Rita, Minella Angiola, Pollastrini Elettra, Noce Teresa, Iotti Leonilde, Gallico Nadia, Merlin Lina, Bianchi Bianca».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Governo, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per l’urgente bonifica dei campi minati che tuttora rendono improduttivi (nella sola provincia di Ravenna oltre 4000 ettari), terreni già fertilissimi con grave danno dell’economia locale e nazionale, tenendo presente che un ritardo oltre il mese di novembre significa la perdita dei prodotti per un’altra annata; e per sapere se non ritenga equo abrogare il decreto legge luogotenenziale 12 aprile 1946, n. 320, mediante in quale si intende porre a carico dei proprietari, già tanto duramente colpiti (salvando, però, a spese della propria distruzione, le ricche regioni agricole e industriali dell’Italia settentrionale), una quota che varia dal 50 al 60 per cento della spesa di sminatura, mentre parrebbe veramente giusto, che in un equo concetto di solidarietà nazionale, tale spesa dovesse far carico a tutta la Nazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zaccagnini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se – stante l’urgente necessità di riattivare il turismo, indispensabile più che mai all’economia nazionale, e in considerazione che molti alberghi lesionati per la guerra sono tuttora inabitabili, perché i rispettivi proprietari non mettono mano alle riparazioni – voglia autorizzare i comuni a requisire gli alberghi stessi per curarne le riparazioni e poi gestirli o affittarli ad albergatori, ricuperando colla pigione le somme spese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Canepa».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della marina, dei trasporti e dell’agricoltura (Alto Commissario per l’alimentazione), per sapere perché lo scarico del grano e del carbone viene fatto in Sicilia solo nei porti di Palermo, Messina, Catania e Siracusa trascurando quello di Trapani, che è da tempo in condizioni di ricevere piroscafi di oltre ottomila tonnellate; se non creda urgente riparare a tale omissione e perché Trapani città martire, ha e deve avere gli stessi diritti delle altre città e per decongestionare il traffico ferroviario insufficientissimo per mancanza di carbone e per dare lavoro alle categorie dei lavoratori di Trapani che da tempo sono disoccupati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Nasi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), sulla urgente necessità di provvedere in provincia di Rovigo ad una pronta assistenza ai reduci tubercolotici. Il numero dei posti letto a disposizione è insufficiente nei vari ospedali, mentre dal punto di vista igienico-sanitario la promiscuità degli ammalati tubercolotici con altri malati è pericolosa. L’ufficio dell’assistenza postbellica di Rovigo ha proposto l’adattamento a sanatorio di un fabbricato in comune di Crespino (Rovigo).

«L’interrogante chiede di conoscere le decisioni del Ministro sui possibili aiuti per la iniziativa meritevole di pronta attuazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Umberto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere quando gli operai infortunati in Germania, e rispettivamente le loro famiglie, potranno avere il pagamento delle loro pensioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere, se, ai fini dell’assorbimento della disoccupazione, non creda conveniente procedere all’allargamento e completamento della strada Trento-Fricca-Vicenza, che costituisce il più breve allacciamento della Venezia Tridentina colla pianura veneta, essendo tale arteria di grande interesse interregionale e nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle poste e telecomunicazioni e delle finanze, per sapere se è a conoscenza del Governo che gli uffici del registro impongono alle sezioni dei partiti politici il pagamento del contributo obbligatorio di abbonamento alle radioaudizioni circolari, di cui agli articoli 14 e 15 del Regio decreto-legge 17 novembre 1927, n. 2207, modificato col decreto-legge 1° dicembre 1945, n. 834; il che è manifestamente illegittimo non potendo essere considerati «associazioni» i partiti politici, i quali comunque debbono considerarsi come aventi scopi culturali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«De Michele».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’assistenza post-bellica, per conoscere se e quali provvedimenti intenda adottare a favore delle famiglie di caduti nei campi di prigionia, dei mutilati e invalidi provenienti dagli stessi campi; se non creda di dare disposizioni perché sia rimborsato al reduce quanto speso per le svariate cure di cui ebbe bisogno al suo rientro in patria, mancando tempestive disposizioni o non trovando la dovuta assistenza; e se non creda di estendere ai reduci i provvedimenti già adottati a favore dei partigiani. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferrarese».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quali motivi impediscono che venga estesa all’Amministrazione delle ferrovie dello Stato la applicazione del decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 138, che reca le «norme integrative per la riassunzione e l’assunzione obbligatoria dei reduci nelle pubbliche Amministrazioni. (Gli interroganti chiedono la risposta, scritta).

«Cappelletti, Rumor, Valmarana, Segala, Faccio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della guerra, per conoscere i motivi per i quali gli indennizzi di occupazione e quelli derivanti dalle esplosioni avvenute nel 1944-1945, nel deposito esplosivi in Tormini di Brescia, già liquidati dalla competente sezione del genio militare di Brescia, non siano ancora ad oggi pagati agli interessati, nella maggioranza piccoli proprietari senza altre risorse all’infuori del godimento del loro terreno. (Gli interroganti chiedono, la risposta scritta).

«Bulloni, Montini, Bazoli».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della guerra e dell’assistenza post-bellica, per sapere se non ritengano urgente e doveroso emanare disposizioni dirette a:

1°) attribuire ai partigiani, per ogni effetto morale e legale, la qualifica di «combattente»;

2°) riconoscere finalmente i gradi partigiani, per i quali da oltre un anno si discute, senza risultato, sulle proposte del C.V.L.;

3°) disporre che tutti i mutilati ed invalidi della guerra di liberazione siano ammessi all’assistenza protetica e sanitaria dell’Opera nazionale invalidi di guerra, secondo la delibera 5 maggio 1945 del Commissario straordinario della O.N.I.G. del Nord;

4°) risarcire i danni, particolarmente riguardanti attrezzi di lavoro, abitazioni popolari, e case coloniche, subiti dai partigiani e dalle loro famiglie in accertata conseguenza della lotta per la liberazione;

5°) liquidare le pensioni di guerra a tutti i partigiani mutilati ed invalidi, alle famiglie dei caduti partigiani e deportati, ai minorati reduci dai campi di deportazione e di internamento;

6°) riordinare le Commissioni per l’attribuzione delle qualifiche di partigiano, attribuendo maggior ampiezza e rigore di poteri alla Commissione di secondo grado, così da dare certezza che l’attribuzione stessa sia conferita soltanto a coloro che hanno effettivamente preso parte durante la lotta di liberazione a formazioni militari. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Vigorelli, Bonfantini, Caldera, Boldrini, Cavalli, Barontini Ilio, Cavallotti, Cremaschi».

«I sottoscritta chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’assistenza post-bellica, per sapere se – in vista del prossimo rimpatrio di tutti i prigionieri e internati italiani – non ritengano necessario:

  1. a) integrare e coordinare le disposizioni fin qui emanate per il collocamento obbligatorio e per gli assegni alimentari a favore dei reduci;
  2. b) istituire un unico Centro nazionale per la raccolta e il coordinamento delle diverse e spesso contraddittorie informazioni sui dispersi della guerra 1940-43 e della lotta di resistenza;
  3. c) rivendicare al Governo italiano la facoltà esclusiva di discriminazione politica e morale degli italiani, anche se in mani straniere, in ispecie per quanto riguarda la precedenza nei rimpatri e le eventuali sanzioni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Vigorelli, Cavalli, Boldrini, Caldera, Bonfantini, Cavallotti, Cremaschi, Barontini Ilio».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio, circa i motivi che hanno indotto il Governo a tollerare la propaganda elettorale fatta dal clero in chiesa o in radunanze di carattere religioso; e quali provvedimenti siano stati adottati verso coloro i quali hanno violato la legge.

«Calosso».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri competenti non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.15.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì.

Alle ore 16,30:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

VENERDÌ 19 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

VIII.

SEDUTA DI VENERDÌ 19 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE GRANDI

INDICE

Sul processo verbale:

Pellizzari                                                                                                         

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Costituzione e convocazione della Commissione per la Costituzione e della Commissione per i Trattati internazionali:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Martino Gaetano                                                                                           

Molè                                                                                                                 

Lombardi Riccardo                                                                                         

Romano                                                                                                            

Angelini                                                                                                           

Finocchiaro Aprile                                                                                         

Presidente                                                                                                        

Mattarella                                                                                                     

Aldisio, Ministro della marina mercantile                                                                 

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Guidi Angela Maria                                                                                        

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Molinelli, Segretario                                                                                        

La seduta comincia alle 16.30.

MOLINELLI, Segretario, leggo il processo verbale della, seduta precedente.

Sul processo verbale.

PELLIZZARI. Chiedo di parlare sul processo verbale, circa le parole da me pronunziate riguardo al Ministero della pubblica istruzione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PELLIZZARI. Gli accenni che ieri ho fatti circa l’afasia e l’atassia del Ministero dell’istruzione nell’anno decorso, da qualche collega sono stati intesi in senso troppo estensivo a carico del collega onorevole Molè. Desidero dichiarare che quelle mie parole non miravano a diminuire la stima personale e politica della quale l’onorevole Molè è pienamente degno. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputali Lazzati e Mattei Teresa.

(Sono concessi).

Costituzione e convocazione della Commissione per la Costituzione e della Commissione per i Trattati internazionali.

PRESIDENTE. Comunico che, valendomi della facoltà conferitami dall’Assemblea, ho chiamato a far parte della Commissione per la Costituzione i seguenti Deputati:

Ambrosini Gaspare, Amendola Giorgio, Basso Lelio, Bocconi Alessandro, Bordon Giulio, Bozzi Aldo, Bulloni Pietro, Calamandrei Piero, Canevari Emilio, Cappi Giuseppe, Caristia Carmelo, Castiglia Pietro, Cevolotto Mario, Codacci Pisanelli Giuseppe, Colitto Francesco, Conti Giovanni, Corsanego Camillo, De Michele Luigi, De Vita Francesco, Di Vittorio Giuseppe, Dominedò Francesco Maria, Dossetti Giuseppe, Einaudi Luigi, Fabbri Gustavo, Fanfani Amintore, Federici Maria, Finocchiaro Aprile Andrea, Fuschini Giuseppe, Ghidini Gustavo, Giua Michele, Grassi Giuseppe, Grieco Ruggero, Iotti Leonilde, Lami Starnuti Edgardo, La Pira Giorgio, La Rocca Vincenzo, Leone Giovanni, Lombardo Ivan Matteo, Lucifero Roberto, Lussu Emilio, Maffi Fabrizio, Mancini Pietro, Mannironi Salvatore, Marchesi Concetto, Marinaro Francesco, Mastrojanni Ottavio, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè Enrico, Moro Aldo, Mortati Costantino, Nobile Umberto, Noce Teresa, Paratore Giuseppe, Penna Ottavia, Perassi Tomaso, Pertini Sandro, Pesenti Antonio, Piccioni Attilio, Ponti Giovanni, Porzio Giovanni, Rapelli Giuseppe, Rossi Paolo, Ruini Meuccio, Simonini Alberto, Targetti Ferdinando, Ravagnan Riccardo, Taviani Emilio Paolo, Terracini Umberto, Togliatti Palmiro, Togni Giuseppe, Tosato Egidio, Tupini Umberto, Vanoni Ezio, Zuccarini Oliviero.

Avverto che la Commissione è convocata per domani sabato alle ore 10, perché proceda alla sua costituzione, nominando il Presidente, tre Vicepresidenti e tre Segretari.

Comunico pure che, valendomi della stessa facoltà conferitami dall’Assemblea, ho chiamato a far parte della Commissione per i Trattati internazionali i seguenti Deputati:

Bertone Giovanni Battista, Bettiol Giuseppe, Bonomi Ivanoe, Bosco Lucarelli Giambattista, Cianca Alberto, Colonnetti Gustavo, Cosattini Giovanni, De Unterrichter Jervolino Maria, Ermini Giuseppe, Giordani Igino, Gronchi Giovanni, Jacini Stefano, Labriola Arturo, Lombardo Matteo Ivan, Longo Luigi, Manzini Raimondo, Matteotti Matteo, Montagnana Mario, Montini Lodovico, Negarville Celeste Carlo, Nitti Francesco, Orlando Vittorio Emanuele, Pacciardi Randolfo, Pajetta Gian Carlo, Parri Ferruccio, Patrissi Emilio, Pellizzari Achille, Persico Giovanni, Pieri Gino, Rossi Maria Maddalena, Russo Perez Guido, Selvaggi Vincenzo, Sforza Carlo, Silone Ignazio, Togliatti Palmiro, Treves Paolo.

La Commissione è convocata per domani, sabato, alle ore il, perché proceda alla sua costituzione, nominando il Presidente, due Vicepresidenti e due Segretari.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È inscritto a parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Non è possibile, onorevoli colleghi, prendere in esame una dichiarazione programmatica così profondamente innovatrice, almeno in apparenza, come quella dell’onorevole De Gasperi, senza che spontaneamente sorga la questione dei rapporti tra Costituente e Governo, senza cioè che si ripresenti quella questione così acutamente proposta giorni or sono dal collega Calamandrei circa la delega del potere legislativo al Governo durante il periodo della Costituente; questione per la cui discussione è stata proposta un’apposita seduta e della quale dunque io non mi occuperò, tanto più che molto più autorevolmente di me dovrà interessarsene, a nome del gruppo al quale appartengo – gruppo dell’Unione Democratica Nazionale – altro oratore. Ma è certo che fin dall’inizio dei nostri lavori, tale questione ha quasi dominato la nostra discussione. Basti dire che il primo a fare cenno a questo articolo 3 della legge 16 maggio 1946 fu lo stesso Presidente della nostra Assemblea nel suo davvero notevole discorso di insediamento, quando egli, accennando appunto a questa delega dei poteri legislativi al Governo, definì questo un saggio accorgimento del legislatore, poiché in tal modo si realizza un’utile divisione del lavoro e dunque una maggiore sveltezza nell’attività di questa Assemblea.

Ora, io mi permetterei soltanto di esprimere qualche riserva a questo proposito. A me pare indubbio che il Paese sia ormai ansioso di tornare ad una effettiva democrazia, e la delega dei poteri legislativi al Governo, mentre esiste un’Assemblea di rappresentanti del popolo liberamente eletti – sia pure eletti con uno scopo ben determinato e diverso da quello dell’ordinario Parlamento – costituisce, a parer mio, una deroga ai principî della democrazia.

Con ciò naturalmente non si vuole da parte paia esprimere sfiducia preconcetta nell’attività legislativa dell’attuale Governo; si vuole solo segnalare o, se preferite, sottolineare che con tale accorgimento, mentre viene da una parte semplificato il compito nostro, viene d’altra parte procrastinata l’instaurazione di una democrazia in Italia. Si vuole soprattutto esprimere l’augurio – che potrà essere considerato da qualcuno forse come un’ingenuità, ma che del resto è già stato espresso, se ben ricordo, ieri dal collega Russo Perez – che il Governo, rinunciando spontaneamente alla propria facoltà di emanare autonomamente norme giuridiche, voglia fornire all’Italia e al mondo la prova che la democrazia non è più soltanto una nostra sincera aspirazione, ma che essa è qui invece una concreta realtà.

 

Tra la fine del fascismo e il 2 giugno, una democrazia in Italia non poteva esistere, e non esistette. I Comitati di liberazione nazionale e la Consulta furono utili espedienti, ma non potevano rappresentare, e non rappresentarono, un freno o una seria guida all’azione del Governo nel campo legislativo; tanto più che nella caotica situazione, nella quale ci siamo trovati, era più che facile per i Ministri o per il Consiglio dei Ministri emanare provvedimenti o norme identificabili con atti di imperio.

Il professore Arturo Labriola, nel suo brillante discorso dell’altro giorno, disse una cosa esatta, e cioè che tutti i Governi tendono all’abuso dei poteri, che tutti i Governi, anche quelli democratici, amano l’eccesso di potere. Ma io direi ancora di più: più che i Governi è la burocrazia che ama l’abuso di potere, quando non esiste il freno del Parlamento legislativo, soprattutto quando alla direzione dei dicasteri si trovano – come spesso accade – persone non perfettamente fornite di sufficiente conoscenza della materia della loro Amministrazione.

Io non sono di coloro i quali dicono che i Ministri dovrebbero essere dei tecnici; tutt’altro: io ritengo che i Ministri debbano essere soprattutto dei politici. Ma penso che una certa competenza da parte del Ministro politico alla direzione di un determinato dicastero sia soprattutto auspicabile per evitare appunto che il Ministro finisca con l’essere un semplice strumento dei suoi uffici, un semplice strumento della burocrazia. Io non so, ad esempio, quanto grande sia la dimestichezza dell’onorevole Aldisio, del quale io mi onoro di essere un amico, con la navigazione marittima; ma io l’avrei più volentieri visto al Ministero dell’interno, perché nessuno può disconoscere una sua sicura conoscenza in quel ramo, tanto più che egli è già stato Alto Commissario per la Sicilia. Comunque, come esemplificazione per quanto ho detto, cioè per il pericolo che rappresenta, al fine della instaurazione di una vera democrazia nel nostro Paese, da un lato la delega dei poteri legislativi al Governo, dall’altro la presenza di Ministri non sempre sufficientemente preparati alla direzione di determinati dicasteri, io vorrei riferirmi ad un singolo provvedimento legislativo ed alla applicazione che di esso è stata fatta dal Ministero della pubblica istruzione. Alludo al decreto luogotenenziale del 31 agosto 1945, n. 571, relativo alle nomine disposte dalle autorità militari alleate nei territori occupati.

I fatti sono a tutti noti. Nei territori occupati dalle forze alleate, il Governo militare aveva nominato a pubblici uffici persone estranee all’Amministrazione allo scopo di sostituire funzionari che avevano abbandonato il loro posto o altri che erano ritenuti politicamente inidonei. Poiché la Sicilia fu la prima delle regioni italiane ad essere occupata dalle forze militari alleate, le prime nomine furono fatte in Sicilia e 1’11 febbraio 1944, al momento del passaggio della Sicilia all’Amministrazione italiana, il Governo di Salerno pubblicò il Regio decreto-legge n. 31, col quale riconosceva valide queste nomine fatte dagli alleati in Sicilia e stabiliva che la posizione giuridica ed economica dei funzionari nominati dal Governo militare alleato sarebbe stata regolata a norma delle leggi italiane.

Questo Regio decreto-legge fu successivamente confermato dal decreto legislativo luogotenenziale 20 luglio 1944 ed esteso a tutte le regioni italiane.

Ora, il 31 agosto 1945 un nuovo decreto stabiliva invece che le nomine alleate dovessero essere considerate come incarichi provvisori e che le persone preposte ai pubblici uffici dagli alleati avrebbero continuato nell’esercizio delle funzioni ad esse affidate e col trattamento economico corrispondente fino al momento della loro sostituzione da parte delle competenti autorità del Governo italiano.

Non solo. Ma l’articolo 4 di questo decreto legislativo luogotenenziale stabiliva che tale norma dovesse estendersi anche alle regioni precedentemente trasferite all’Amministrazione italiana, annullando cosi i diritti quesiti e rendendo vano ed inefficace l’impegno precedentemente assunto di rispettare queste nomine e considerarle valide agli effetti di legge, come se fatte dal Governo italiano.

Ora, è evidente la gravità sul terreno teorico di questo provvedimento legislativo: il diritto dell’individuo fu leso, sia pure per ragioni di opportunità e sia pure con il consenso delle autorità alleate.

Vediamo ora quale è l’applicazione che di questa legge ha fatto il Ministero della pubblica istruzione: molti di voi sanno che tra l’altro gli alleati nominarono in Sicilia pure dei professori di ruolo nelle Università. Queste nomine non avvennero nella medesima forma discrezionale delle altre nomine alleate, perché le nostre autorità accademiche ottennero dal Governo militare alleato che esse fossero precedute da atti preparatori, che in certo senso fornissero quella garanzia che normalmente deriva dagli ordinari concorsi. Precisamente: stabilirono prima le autorità accademiche quali cattedre dovessero coprirsi e quali dovessero rimanere scoperte; espressero poi le commissioni tecniche costituite da professori di ruolo, nominate dagli Alleati, un giudizio di idoneità e un giudizio comparativo sui titoli dei concorrenti. Infine, le nomine avvennero a posti di professori straordinari, dunque per la durata di un triennio, dopo il quale – a norma delle leggi italiane – una nuova prova avrebbe dovuto essere superata da questi professori ai fini del conferimento della stabilità, cioè un nuovo giudizio espresso da una commissione di professori ordinari, nominata dal Ministro italiano.

Ora, su queste nomine di professori universitari in Sicilia si è fatto un certo chiasso nell’ambiente accademico: i professori nominati sono stati qualificati profittatori o peggio. In realtà, si è giudicato con grande leggerezza: si è dimenticato che occorre conoscere per giudicare. Nessuno si è preoccupato di informarsi prima come erano andate le cose, quali erano i professori nominati, quali titoli avevano. E io vi dirò – io che conosco molto bene la questione – che, intanto, alcuni di questi professori avevano già vinto un concorso nazionale, che la maggior parte degli altri avevano già ottenuto giudizi di idoneità in precedenti concorsi. E, se qualcuno fosse stato veramente inidoneo, l’errore avrebbe potuto essere corretto poi alla prova dell’ordinariato.

Comunque, lasciamo stare tutto questo e vediamo quale applicazione il Ministrò ha fatto del decreto in questo caso.

Il Ministro si pose il quesito se il decreto luogotenenziale fosse applicabile al caso dei professori universitari per i quali le nomine non erano state discrezionali, ma precedute da una specie di concorso, e chiese il parere in proposito della prima sezione del Consiglio di Stato. La prima sezione del Consiglio di Stato diede parere favorevole e pochi giorni fa il Ministro procedette all’applicazione della legge, badate bene, senza nemmeno interpellare le facoltà e gli organi accademici competenti e stabilì semplicemente con un suo decreto, con un atto amministrativo, che i professori nominati dagli alleati dovessero essere considerati come incaricati a partire dal 26 settembre 1945 – giorno successivo alla pubblicazione del decreto – e fino al 31 ottobre prossimo venturo.

Ora, la figura dell’incaricato non è corrispondente a quella del professore straordinario: non sono analoghe né le funzioni, né il trattamento economico. E quel tale decreto legislativo che il Ministro intendeva applicare dice esplicitamente che questi funzionari hanno il diritto di continuare nelle loro funzioni col trattamento economico relativo fino a quando non vengano sostituiti dalla competente autorità del Governo italiano. Nel caso in ispecie, malgrado l’apparenza, la competente autorità non è il Ministro, perché il Ministro non può sostituire un professore senza richiesta della facoltà interessata e senza l’approvazione del Senato accademico.

L’applicazione rigida della legge avrebbe dovuto invece portare a questo: tali professori avrebbero dovuto continuare nell’esercizio delle loro funzioni di professori straordinari fino a quando le Facoltà non ne avessero chiesto la sostituzione o fino a quando non si fosse verificata la «immissione in ruolo» dei medesimi in base ai risultati di concorsi nazionali (previsti dal decreto Luogotenenziale citato).

Io sono lieto di vedere qui l’onorevole Molè, col quale ho discusso parecchio questa faccenda. Ho preso visione di questo decreto solo qualche giorno fa e mi sono accorto che il Ministro ha fatto qualche cosa di più ancora, cioè che egli ha esteso l’applicazione di quella legge anche ai trasferimenti dei professori di ruolo. I trasferimenti non sono nomine. Non solo, ma egli ha annullato, in base a quella legge, concorsi di avventizi dell’amministrazione universitaria per passaggio in ruolo, già approvati dallo stesso Ministero.

Ora, io mi domando, onorevoli colleghi, se tutto questo non rappresenta un vero e proprio atto di imperio, tanto più grave in quanto sancito non già da un provvedimento legislativo, ma da un semplice atto amministrativo; tanto più grave in quanto danneggia notevolmente le università interessate.

Se io vi ho tanto annoiato con questi dettagli non è solo perché la questione vivamente mi interessa nella mia qualità di Rettore di una delle università siciliane, ma è soprattutto perché essa coinvolge principî più elevati. Tutto ciò che calpesta i diritti dell’individuo, offende l’essenza stessa della democrazia. Democrazia non è soltanto una forma di organizzazione dello Stato. Democrazia è anche, e soprattutto, un costume. Lo disse molto autorevolmente, molto bellamente, il Presidente della nostra Assemblea: «la democrazia diviene davvero una realtà vivente ad opera del costume che si stabilisce fra gli uomini». Non vale l’assicurazione dei propri intendimenti se questi non trovano concreta espressione nei fatti. È vano promettere agli uomini la libertà, se non se ne rispettano scrupolosamente i diritti. Giacché voi sapete che la libertà non viene dalla legge. «Das Gesetz gibt uns keine Freiheit», scriveva Goethe: La legge non ci dà la libertà. Badate che ciò è molto importante, perché se noi non sapremo, se voi soprattutto cui è confidato il potere legislativo, non saprete imporvi, non saprete imporre quel costume, il paese si avvierà ancora una volta – e voglia Iddio che io mi inganni! – verso nuovi esperimenti, verso nuove avventure insensate.

Così non deve destare meraviglia se provvedimenti del genere di questo che ho ricordato a titolo di esempio si mostrano suscettibili di promuovere forti correnti di sfiducia nella opinione pubblica della Sicilia, perché i siciliani sono molto sensibili a tutto quello che tocca i diritti dell’individuo. In Sicilia è tradizionale l’attaccamento alla democrazia, l’aspirazione alla libertà. Non bisogna dimenticare che la Sicilia ebbe il suo parlamento prima ancora dell’Inghilterra, e che quello spirito autonomistico, di cui noi abbiamo visto l’esplosione recente col Movimento per l’indipendenza siciliana, ha in sostanza sempre, e fin dalla Communitas Siciliae, fin dalla Repubblica siciliana del 1282, serpeggiato nel popolo, sia pure mutando aspetto e aspirazioni, a seconda delle condizioni economiche e sociali dei tempi.

Io non sono di coloro che amano criticare per principio i passati governi della esarchia, anche perché appartengo a un partito, il liberale, che di questi governi condivide tutta la responsabilità. Ma io penso, onorevoli colleghi, che se noi avessimo sempre ripudiato accuratamente ogni forma, ogni parvenza di prepotere del governo centralizzato, noi avremmo accresciuto la fiducia del popolo nella democrazia, avremmo forse anche accresciuto il nostro prestigio nel mondo. A chi di questo eventualmente dubitasse, vorrei segnalare un articolo del giornale cattolico londinese The Tablet del 7 ottobre 1944, dal titolo «Educazione e rieducazione dell’Italia meridionale», dove si possono leggere frasi di questo genere: «Ora qual è la posizione del nuovo Governo italiano di fronte a tutto ciò? Esso si proclama democratico e le sue solenni affermazioni in proposito sono numerose. Queste affermazioni possono soltanto ritenersi l’opposto della sua azione».

Parole gravi e certamente esagerate.

Ma, d’altra parte, risponde forse al concetto che noi abbiamo della democrazia l’emanare provvedimenti che superano e la lettera e lo spirito della legge, e che incidono sull’attività accademica, senza neppure consultare gli organi interessati?

Badate, io mi riferisco sempre al campo della pubblica istruzione, perché è quello che meglio conosco, ma non mi riferisco al solo esempio che ho fornito. Altri esempi potrei fornirvi se non avessi timore di tediarvi. E questo proprio oggi che tanto si torna a parlare in Italia di autonomia universitaria?

Io segnalo al Governo quest’argomento dell’autonomia universitaria. Nella dichiarazione programmatica del Governo non ho visto nessun altro accenno alla pubblica istruzione se non l’assicurazione che il nuovo Ministro non avrebbe fatto niente di nuovo. Inertia sapientia, diceva Napoleone.

Due anni fa Gustavo Colonnetti scriveva queste parole: «Qualunque ingerenza dello Stato nell’amministrazione universitaria, sia pure la più discreta e la meglio intenzionata, è inammissibile perché fatalmente si tradurrebbe in una ingerenza nella sua funzione scientifica e didattica. Ora lo Stato è essenzialmente incompetente in fatto di cultura. Esso è necessariamente ridotto ad apprezzare della cultura le manifestazioni esteriori e le applicazioni immediate, ispirandosi nei suoi giudizi a quelle che sono le sue ideologie e a quelli che sono i suoi fini politici. E l’Università non può accettare di venire asservita né a questi fini, né a quelle ideologie. Essa sola è competente a fissarsi le sue mete e a giudicare dei risultati che consegue, perché essa sola possiede il metro con cui quei risultati vanno misurati».

Come dicevo, non da ora si parla di autonomia universitaria. È una vecchia molto dibattuta questione. Mezzo secolo addietro Giovanni Pascoli, precorrendo l’onorevole Nenni nell’amore per i dilemmi, in un pubblico discorso esclamava: «le università italiane saranno autonome o non saranno».

Vi dicevo, onorevoli colleghi, che un costume rigidamente democratico avrebbe accresciuto il nostro prestigio nel mondo. Noi assistiamo oggi, necessariamente inerti, al più brutale castigamento del nostro orgoglio nazionale, alla più ingiusta imposizione di una dura pace che potesse mai aspettarsi da parte dei vincitori. Noi assistiamo oggi (è bene dirlo apertamente) al fallimento della nostra politica estera. E dicendo questo non intendo alludere alla politica della cobelligeranza, ché se pur essa non ha portato o non porterà i frutti che ci attendevamo al tavolo della pace, merita tutte te benedizioni del popolo italiano, perché valse a salvare la nostra dignità. Alludo invece a quella politica di amicizia coi paesi vincitori che avrebbe dovuto rappresentare il presupposto per un riconoscimento giusto ed onesto dei nostri sacrifici, della nostra buona volontà, del nostro diritto di assiderci dignitosamente nel consesso delle Nazioni. Evidentemente a questa politica alludeva l’onorevole Nitti nel suo discorso dell’altro giorno, quando amichevolmente rimproverava al Presidente del Consiglio di… non aver viaggiato.

(Ed a questo proposito credo che sarebbe molto interessante per noi sapere se, come, quando, fino a che punto la missione Tarchiani a Washington sia stata utile). È certo che noi avremmo dovuto rivolgerci, avremmo dovuto poterci rivolgere piuttosto che alla generosità, all’amicizia dei vincitori: amicizia eventualmente in funzione di interessi. Fin da principio noi avremmo dovuto e potuto scegliere fra Oriente ed Occidente e quindi battere decisamente la nostra strada, apertamente. E non può dirsi che incoraggiamenti ci siano mancati per questa politica, non solo da parte dell’America, ma anche da parte della Russia. Ricorderete che in un primo momento proprio Vishinsky fu fra quelli che ci dimostrarono maggiore comprensione e simpatia. Una rete di interessi non avrebbe dovuto essere difficile crearla, io penso, con gli Stati Uniti d’America. Ma gli interessi non si creano senza la reciproca fiducia. Ora (e questo io dico anche per scagionare in un certo senso l’onorevole De Gasperi), abbiamo noi fatto di tutto per conquistare la fiducia degli americani, per conquistare la fiducia degli alleati?

Fin da quando Roma fu liberata, una ostinata reazione si manifestò contro la politica degli alleati in Italia, soprattutto una reazione della nostra burocrazia contro tutto quello che gli alleati, a torto od a ragione, avevano fatto nei territori occupati. Noi non considerammo mai la Commissione alleata come il nostro consigliere, come il nostro collaboratore. La considerammo piuttosto come rappresentante del nostro nemico, come rappresentante del vincitore. Una ostinata reazione si manifestò contro quello che gli alleati avevano fatto nei territori occupati: e, poiché non avevamo sufficiente autonomia per disfare quello che essi avevano fatto, esercitammo continue pressioni sugli organi della Commissione alleata, per essere autorizzati a non mantenere i nostri impegni. Fummo tenaci ed alla fine ci riuscimmo, ma non conquistammo la fiducia di coloro che avrebbero dovuto diventare i nostri amici. A me risulta, per esempio, quali e quante furono le pressioni sulla Sottocommissione per l’educazione per ottenere il consenso alla revoca di quelle nomine universitarie, e l’onorevole Vanoni, che è qui presente, potrebbe farne testimonianza. (Commenti).

VANONI. Vorrei poter parlare per fatto personale. Fu una vergogna il suo intervento in quella occasione.

MARTINO GAETANO. Non pensavo, facendo il nome dell’onorevole Vanoni, di provocare un fatto personale. Se ciò ho provocato inscientemente ed involontariamente, chiedo scusa alla Camera.

Dicevo che so quante furono le pressioni esercitate sulla Commissione alleata e so come la Commissione alleata resistette, finché si pervenne ad un accordo fra il Tenente Colonnello Smith, Capo della Sottocommissione per l’educazione ed il Ministro De Ruggiero. Ora quest’accordo esisteva ancora quando fu promulgata quella legge del 31 agosto 1945 e il 23 ottobre 1945 io ricevetti questa lettera della Sottocommissione per l’educazione della Commissione alleata: «In riferimento alla sua nota le confermo che la questione delle nomine universitarie in Sicilia è stata definita, come ella sa, da un accordo intervenuto fra il Tenente Colonnello Smith e il Ministro della Pubblica istruzione. Tale accordo è in vigore, nonostante il decreto legislativo Luogotenenziale del 31 agosto 1945». Quando la Sottocommissione per l’educazione della Commissione alleata non ebbe più nessun’ingerenza negli affari della Pubblica istruzione in Italia, il Ministero pensò che poteva non tener conto di questo accordo. È evidente che nessun anglosassone potrebbe mai considerare, questo gentleman-like. E se voleste altri esempi – ché questo è esempio recente – io potrei ancora riferirmi ad altri provvedimenti nel campo della pubblica istruzione, ad altri di quegli «atti o fatti compiuti dagli alleati», ai quali avrebbe dovuto essere riconosciuta piena validità ed efficacia, agli effetti di legge, come se compiuti dal Governo italiano: alla questione dell’Istituto di antropologia di Palermo, della facoltà di lettere di Messina, delle scuole ecclesiastiche e private. Ma non ha importanza moltiplicare gli esempi.

Io ho udito un alto ufficiale alleato affermare che se questi fatti non fossero stati compiuti proprio dagli alleati in Italia, nessuno avrebbe mai protestato. Il che evidentemente non è vero. Ma ciò dimostra quale era lo stato d’animo che noi avevamo saputo creare.

Il capo della Sottocommissione per l’educazione della Commissione alleata lamentava un giorno la difficoltà di incontrarsi col Ministro italiano ed asseriva che, avendo finalmente ottenuto udienza, aveva prima dovuto fare un’ora di anticamera, perché il Ministro era occupato col suo capo di gabinetto. (Interruzioni). Tutta una critica psicologica, onorevoli colleghi, sarebbe necessaria. (Commenti).

Può darsi che io mi sbagli, anzi mi sbaglio, visto il vostro disappunto. A me pare che tutti questi fattori psicologici possano aver avuto la loro importanza nel creare uno stato d’animo non perfettamente disposto alla simpatia e alla amicizia verso di noi. Io penso che sarebbe necessaria tutta una critica psicologica, volendo esaminare le cause e le concause del nostro insuccesso diplomatico, critica non facile; può essere facile una critica razionale, è sempre difficile una critica psicologica.

Comunque, chi di questo dubitasse, chi volesse avere l’idea del valore di questi piccoli fattori psicologici e dell’acume col quale, nonostante la contraria apparenza, gli alleati ci studiavano, potrebbe leggere utilmente un libro recente del tenente colonnello G.R. Gayre dal titolo Italy in transition edito a Londra da Faber and Faber.

E passiamo ad altro argomento. In compenso, per la tolleranza che mi avete dimostrato, cercherò di abbreviare al massimo il mio discorso.

Procurerò di conquistarmi così la vostra simpatia. A me pare che problema fondamentale del Governo sia il problema della ricostruzione. C’è il programma di riforme sociali, che, senza dubbio, ha importanza e portata molto maggiore, ma questo programma, come giustamente disse qualcuno ieri (credo l’onorevole Persico) non potrebbe essere esaurito nello spazio di otto mesi. È inoltre probabile che sorga la discussione se queste riforme non siano piuttosto materia costituzionale e quindi sottratte all’attività legislativa dell’attuale Governo.

A me pare che il problema della ricostruzione sia il problema fondamentale, tanto più in quanto che dalla prontezza della ricostruzione dipende il nostro avvenire. Problema questo molto complesso. L’onorevole Nitti ci disse qual è l’entità della diminuzione della struttura produttiva del Paese.

Il problema della ricostruzione non è soltanto un problema edilizio, industriale, ma anche agricolo, commerciale, ed è anche, sia consentito dirlo, un problema sanitario.

Non bisogna dimenticare che anche il lavoratore è una macchina e che le condizioni sanitarie del Paese sono oggi molto più gravi di quello che grossolanamente non appaia. Se voleste formarvene un’idea, poiché un indice dello stato di salute del popolo è dato dalla mortalità infantile, vi suggerirei di leggere quell’articolo del professore Frontali pubblicato dalla rivista diretta da Palmiro Togliatti, che abbiamo trovato nelle nostre caselle.

Raccomando al Governo di tener desta la sua attenzione su questo argomento che chiamerei della «ricostruzione sanitaria» del Paese.

Il problema della ricostruzione, dunque, è molto complesso e impegna gli organi di numerosi dicasteri. Per la sua soluzione occorre un piano organico altrettanto complesso.

E penso che per questo suo compito fondamentale almeno sarebbe opportuno che il Governo si servisse della collaborazione di questa Assemblea. Penso, d’altra parte, che questa Assemblea sarebbe molto lieta di offrire la propria collaborazione al Governo, se pure ciò dovesse importare il sedere qualche settimana di più sugli scanni di questa aula.

Tanto più dico questo, in quanto il problema della ricostruzione ha aspetti diversi secondo le. diverse regioni d’Italia, le diverse città e l’entità dei danni che esse hanno subito. Io rappresento una città che è stata fra le più colpite del Paese, una città che è stata distrutta due volte nel corso di questo secolo: prima dal terremoto e poi dalla guerra.

Tecnici ed uomini politici eminenti concordano nel ritenere che sarebbe assurdo pensare che la ricostruzione di Messina possa aver luogo con l’ausilio delle semplici provvidenze escogitate per i senza tetto di tutto il Paese. Probabilmente per questa città, come per altre che hanno subito danni analoghi o forse maggiori, saranno necessarie leggi speciali, provvidenze speciali, finanziamenti speciali.

Così pure, mi parrebbe opportuno studiare se nel quadro del problema della ricostruzione non possano eventualmente rientrare alcuni dei più grossi problemi industriali ed agricoli del Mezzogiorno.

Per esempio, si è parlato molto del problema del latifondo siciliano. Ma si è spesso dimenticato che questo problema è molto frequentemente un problema di strade e quindi di sicurezza, un problema di bonifica sanitaria, un problema di acque; in una parola un problema di opere pubbliche.

La Sicilia ha sempre aspirato al rinnovamento economico, e dunque al rinnovamento sociale. E se le correnti indipendentistiche hanno trovato tanto facili consensi, ciò è perché i siciliani hanno timore non già della politica di rinnovamento (come spesso è stato detto da osservatori superficiali delle cose nostre), ma della politica di abbandono. Qui è la vera genesi del separatismo siciliano: nel fatto che i siciliani, desiderosi di rinnovamento economico e sociale, hanno perduto ogni fiducia nell’opera del Governo centralizzato di Roma.

E se è bastata la promessa dell’autonomia, non dirò per debellare (non vorrei dare questo dispiacere al mio amico onorevole Finocchiaro Aprile), ma certo per deprimere il movimento per l’indipendenza siciliana, ciò si deve al fatto che nell’autonomia, a torto o a ragione, i siciliani hanno visto lo strumento del loro rinnovamento, lo strumento per il miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali.

Ieri accennò a questo problema l’onorevole Russo Perez. Si fa presto a dire, onorevoli colleghi, che se la Sicilia è così poco progredita in confronto con le altre regioni italiane, ciò si deve ai siciliani, ciò si deve alla mancanza di iniziativa dei siciliani. Ma come si spiega allora che i siciliani si mostrano capaci di tante iniziative quando sono fuori della Sicilia? Come si spiega che quando essi sono fuori della Sicilia sanno dar vita con tanta facilità, con tanta fortuna, alle industrie e ai commerci?

La verità è che tutte le iniziative hanno sempre trovato da noi ostacoli molto maggiori che altrove. Ne diede un esempio ieri l’onorevole Russo Perez. Vorrei darvene un altro anche io: ebbi l’occasione un anno e mezzo fa di interessare le competenti autorità all’istituzione di un centro per la fecondazione artificiale presso l’istituto di medicina veterinaria dell’università di Messina, centro che potrebbe essere molto utile all’economia della Sicilia e della Calabria, soprattutto se si tiene presente che con un probabile ritorno ad una economia di mercato, noi dovremmo necessariamente abbandonare gran parte delle nostre colture cerealicole e che dal punto di vista zootecnico l’Italia non è purtroppo uno dei paesi più progrediti. La fecondazione artificiale nel Paese di Lazzaro Spallanzani, che ne fu il pioniere, è assai poco conosciuta e il nome del calabrese Giuseppe Amantea, alle cui ricerche sperimentali si devono i recenti progressi della fecondazione artificiale, è da questo punto di vista forse più conosciuto in Russia che in Italia.

Questo progetto avrebbe importato la spesa di 20 milioni di lire. Nonostante l’esiguità della somma, nonostante il pronto e caloroso interessamento del Ministro Gullo, alla cui perspicacia e chiaroveggenza desidero rendere omaggio, nonostante la mia tenacia (potrebbe farci testimonianza l’onorevole Aldisio), questo progetto non si è potuto finora, non dico realizzare, ma neppure avviare. Ora, onorevoli colleghi, sarebbe bastato, io penso, l’interessamento concreto ed efficace del Governo a questi problemi della nostra economia per risolvere, prima ancora dell’autonomia forse, il problema politico della Sicilia. E non è vero che il popolo siciliano voglia in questo tragico momento – esso che è uno dei popoli più generosi della terra – disfarsi del proprio dovere di solidarietà col resto della Nazione. Io vi dico al contrario che, nella loro stragrande maggioranza, i siciliani oggi aspirano soprattutto a contribuire al consolidamento dell’unità della Nazione, dell’unità della Patria. Io vi dico che essi, nell’attuale immane tragedia della Nazione, aspirano soprattutto a contribuire, con tutte le loro forze e con tutta l’anima loro, alla salvezza del popolo italiano. (Applausi).

MOLÈ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLÈ. Quale ex Ministro della pubblica istruzione, intendendo rettificare un’affermazione del precedente oratore, relativa ad atti di Governo, chiedo di parlare, a termini del capoverso dell’articolo 80 del Regolamento, alla fine della discussione.

PRESIDENTE. Sta bene.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Lombardi Riccardo.

LOMBARDI RICCARDO. Onorevoli colleghi, faccio anzitutto una solenne promessa: quella di attenermi rigorosamente all’ordine del giorno il quale reca la discussione sulle comunicazioni del Governo, cioè sulle comunicazioni e sulla politica del Governo e non sulla Costituente, perché le questioni all’ordine del giorno della Costituente le discuteremo in sede competente.

In questo momento è importante – perché il Governo deve pure agire, e non può aspettare, e deve agire col mandato della Assemblea – sapere se e fino a che punto noi approviamo le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi.

Io voglio parlare su questo punto, a nome del gruppo dei miei amici del Partito d’Azione, e dire che cosa pensiamo, quali dubbi, quali suggerimenti abbiamo da esprimere sulle dichiarazioni del Governo: una critica costruttiva, perché nessuno più di noi è interessato a che questo Governo non fallisca, perché il fallimento di questo primo Governo democratico non sarebbe il fallimento di un qualunque Governo: sarebbe un fallimento che travolgerebbe molte cose che ci stanno profondamente a cuore.

Si è parlato qui di ordinaria amministrazione. Io contesto che il Governo attuale abbia il compito di perseguire una ordinaria amministrazione. Non si persegue una ordinaria amministrazione con due milioni di disoccupati nel Paese. Il Governo che in questo momento ci sta davanti deve avere una amministrazione di eccezione, una amministrazione la quale essendo limitata a pochi mesi e non potendo risolvere tutti i problemi, deve affrontarne, centrarne alcuni, e quelli imperiosi risolverli e presentarsi davanti a noi dopo averli risolti.

Quello che noi vediamo di strano nelle comunicazioni del Presidente del Consiglio è appunto questa genericità, questo eccesso di carne al fuoco: troppe cose si vogliono risolvere. Sembra che tutto sia sullo stesso piano, direi su un piano uniforme, quasi piatto; molte cose, troppe cose, quando importante per un Governo chiamato ad affrontare una situazione di emergenza, sarebbe proprio centrare quell’uno o quei due problemi essenziali, quelli che effettivamente dominano la situazione in questi mesi che ci separano dalle elezioni legislative e dalla costituzione del nuovo Governo.

Ora, a mio avviso, il vero problema, il problema centrale che il Governo deve affrontare, se vuole essere un Governo e non una accolta di politicanti, è il problema della disoccupazione. Non c’è nessun altro problema in questo momento, compreso quello dei salari – me lo consentano i miei amici della Confederazione Generale Italiana del Lavoro – che sia così essenziale come quello della disoccupazione. Se faremo arrivare il Paese fra un anno ancora con due milioni o più di disoccupati, avremo perso la partita, anche se avremo consentito agli operai occupati di avere migliori salari.

Ora, il problema dei disoccupati non si può affrontarlo coi metodi dell’ordinaria amministrazione, voglio dire col metodo degli espedienti, anche costosi, coi quali è stato affrontato fino ad oggi. Non si può di questo problema, che è anche problema morale oltre che politico, fare un problema che abbia la stessa statura, lo stesso rilievo di tutti gli altri. Questo è un problema essenziale e tutti gli altri punti di vista devono essere fatti convergere su di esso. Si sacrifichi qualunque altra cosa, si sacrifichino anche dei principî, ma il problema della disoccupazione deve essere risolto. E per essere risolto, c’è tutta una politica che deve essere indirizzata.

Io ho scritto già in questo senso, forse in modo eccessivamente colorito di una politica impopolare; tuttavia bisogna avere il coraggio, in un momento come questo, anche di affrontare una politica impopolare, perché quello che noi oggi stiamo rischiando è di creare una discrepanza, un solco fra gli operai disoccupati e gli operai occupati. Quello che noi stiamo rischiando è di far nascere il sospetto e la convinzione che ci sia una parte della. popolazione (quella fortemente organizzata per esigenze tecniche del proprio lavoro), la quale pieghi la politica del Governo ai suoi interessi, trascurando invece la mano d’opera disoccupata, l’immensa moltitudine non soltanto dei reduci e dei braccianti dell’Italia Meridionale e Settentrionale, ma che rappresenta anche la categoria di tutti coloro che non hanno potuto trovare lavoro e che oggi si trovano in una necessità primordiale: quella di avere bassi i prezzi. Questa è una necessità che coincide anche con l’essenza delle esigenze dell’Italia Meridionale; nell’Italia Meridionale in special modo vi è questa forte necessità di avere bassi i prezzi per poter comprare quei prodotti industriali, quel minimo di prodotti la cui acquisizione è già assicurata per molte altre parti d’Italia. Altrimenti si avrebbe laggiù una miseria spaventevole. È necessario che questa gente abbia il minimo indispensabile per una vita civile. Il problema della disoccupazione coincide quindi col problema dell’Italia meridionale.

Ora, di fronte a questi problemi vi è una politica finanziaria da studiare; perché evidentemente tutti questi problemi si risolvono anche con i lavori pubblici, ma non soltanto con quelli. Sarebbe erroneo pensare che la disoccupazione si può risolvere senza altro con il sistema delle opere pubbliche.

Quindi c’è effettivamente un problema che non è tanto di lavori pubblici quanto di bassi prezzi, e c’è un problema finanziario per cui si tratta di non inaridire le fonti con cui si deve acquisire il reddito. L’onorevole Corbino sa quanto ci siamo trovati in contrasto in seno al precedente Governo circa la politica finanziaria straordinaria. Io riconosco che l’onorevole Corbino si è assunta la impopolarità di una politica che era di tutto il Governo. Effettivamente è stato il Cireneo di una politica di cui tutti eravamo responsabili, anche quelli fra di noi che l’avevano avversata, ma che in definitiva avevano consentita restando al Governo. Io sostenni allora la necessità di una politica di cambio della moneta e di imposizioni straordinarie. Oggi il problema è mutato perché noi abbiamo la essenziale necessità di far rifluire nel circolo produttivo i capitali che non riusciamo né a censire, né a colpire con una imposizione straordinaria. Se le nostre industrie fallissero, se non fossero in grado di poter procedere alla loro attività produttiva, se economicamente fossero a terra, se i capitali non potessero affluire alle industrie, sarebbe una situazione assai grave quella che si verrebbe a determinare.

Dobbiamo vedere quali sono i mezzi e se questi mezzi fossero anche l’abbandono, per esempio, dei consigli di gestione, della nominatività dei titoli, io affronterei anche questa eventualità con il coraggio con cui questi problemi si affrontano, purché le nostre industrie non muoiano e i nostri operai possano lavorare. Qualunque politica, dunque, purché sia veramente una politica, realistica dev’essere affrontata con tutto il coraggio per le masse popolari.

Invece che a tutti i mezzi i quali potevano essere considerati opportuni per fronteggiare il basso livello dei salari (basso, intendiamoci bene: quando si dice che gli operai chiedono troppo, bisogna viverci in mezzo per sapere quale è la vita dell’operaio onesto, di quello che ha la famiglia sulle spalle; vediamo tutti che cosa sia il livello di vita degli operai) si è ricorso all’espediente del premio della Repubblica. Quando si pensa di poter provvedere ad una situazione di questo genere, che è una situazione estremamente penosa, con l’espediente del premio della Repubblica, io dico, illustre Presidente, che questo è il peggiore espediente che ha scelto come programma di Governo.

Oggi il premio si deve pagare, una volta che ormai il mercato ha già reagito con l’aumento dei prezzi. Ma se il Governo o i partiti che hanno discusso il programma di Governo, al momento in cui hanno discusso questo espediente si fossero ricordati del precedente, che noi, specialmente al Nord, ricordiamo bene, il precedente del premio della liberazione, non avrebbero potuto non considerare quelle conseguenze economiche che era facile prevedere.

Il mio amico Sereni si ricorderà che io fui il solo ad oppormi a che il premio fosse pagato, perché abbiamo regalato alla borsa nera o gettato dalla finestra una ricchezza di circa 35 miliardi. Avevo allora proposto che il premio di liberazione fosse tradotto in risparmio obbligatorio.

Questa imposta del valore di circa 35 miliardi si poteva prendere sotto forma di una imposizione straordinaria. In realtà non è una forma straordinaria di imposizione, è una vera e propria imposta sulla occupazione della mano d’opera. È chiaro che l’industria idroelettrica che impiega pochi operai sarà pochissimo colpita, al contrario dell’industria edilizia che ne impiega moltissimi; comunque, in tempi di emergenza si può anche passare sopra a tutto questo. C’è necessità di far soldi, c’è una imposta straordinaria da prelevare e si preleva. Ma c’è un modo razionale di spendere.

II Governo aveva due mezzi, tutti e due buoni, per spendere questi 30-35 miliardi del premio della Repubblica: o poteva provvedere a dei servizi sociali organizzati, oppure poteva provvedere a dei lavori pubblici.

Cosa si poteva fare con 30 miliardi? Con 30 miliardi si sarebbe potuto occupare per sei mesi un quarto dei nostri disoccupati; avremmo potuto raddoppiare il programma delle ricostruzioni ferroviarie; avremmo potuto fare opere immense in Calabria e in Sardegna; si sarebbero potuti costruire 100-150 mila vani di abitazione per la povera gente.

È vero che mi si può obiettare – e forse l’obiezione è quella che è stata il fondo della cedevolezza di coloro che hanno discusso questo programma – che non tutto quello che si potrebbe fare si può fare. È verissimo; a qualunque programma forzato di lavori pubblici manca la base delle materie prime e dei manufatti in grandissima parte. Ma allora, per questa parte, il Governo aveva un’altra alternativa: aveva appunto i servizi sociali organizzati. Poteva pensare a tanti servizi diretti a diminuire di fatto il costo della vita. Con 30 miliardi si possono bene organizzare – anche in un Paese in cui i gangli della vita amministrativa sono da tanto tempo interrotti – dei servizi sociali. Quando si pensa che siamo in un Paese dove la cifra degli analfabeti è spaventosa (sono milioni e milioni gli analfabeti), è possibile che non si riesca ad organizzare un servizio sociale diretto ad un insegnamento straordinario che utilizzi tutte le forze disoccupate? Un geometra, un ingegnere può benissimo fare il maestro in caso di emergenza. È possibile che non si possa riuscire a fare tali scuole? Vi sono tanti modi per spendere il pubblico denaro e per ovviare alla disoccupazione, ma vi è anche un mezzo moderno: l’esercito volontario del lavoro, sul quale io insisto da tanto tempo.

In una delle sedute del Consiglio dei Ministri dell’ultimo Governo, quando io insistei sulla necessità di giungere ad una politica razionale di occupazione di fronte alla politica degli espedienti, l’onorevole Togliatti mi disse che quel Governo non era in grado di affrontare questo problema. Caro Togliatti, il Governo attuale non è quello della esarchia. Fa parte di questo Governo l’onorevole Sereni, uomo della resistenza, che è proprio al suo giusto posto, all’assistenza. Caro Sereni, il problema della disoccupazione non si affronta con l’imponibile del 5 o del 10 per cento sulle amministrazioni pubbliche e sulle aziende private. Ciò non fa che disorganizzare le amministrazioni, senza portare nessun sollievo alle famiglie dei disoccupati. Tu puoi veramente organizzare l’esercito volontario del lavoro. Quello che hanno fatto le dittature è possibile che non lo possa fare la democrazia? È possibile che noi dobbiamo ancora usare, per affrontare il problema della disoccupazione, i metodi dell’anno 1000, dei trogloditi, dell’economia medioevale?

Io penso che su questa strada il Governo potrà fare molte cose. Potrà fare moltissimo se avrà, naturalmente, un programma serio. Io mi preoccupo del tandem Corbino-Scoccimarro: è un tandem in cui i due ciclisti pedalano in senso opposto, a meno che non abbiano trovato un terreno comune di intesa. Io stimo moltissimo tutti e due, ma la politica di un Governo, anche se politica di emergenza, la si fa con unicità di direzione. Non è molto importante che i Ministeri delle finanze e del tesoro siano unificati. L’importante è che questi due Ministeri abbiano una politica in una stessa direzione, e che il Governo, nel suo complesso, assuma la sua responsabilità anche per l’opera dei diversi Ministri, in modo che non si ripeta, ad esempio, quello che è avvenuto nel passato Governo, e che doveva avvenire necessariamente, data la costituzione meccanica onde era formato, e cioè che i rimanenti membri del Governo, che si era appena costituito, non sapevano quale politica avrebbe fatto il Ministro del tesoro.

. Nella prima riunione di quel Consiglio dei Ministri il nuovo Ministro del tesoro dichiarò di essere contrario al cambio della moneta, fra la sorpresa generale, perché evidentemente non era stato interpellato su questo grave problema politico. Il Governo della esarchia era purtroppo così fatto: vi era un notevole campo di arbitrio nelle amministrazioni dei vari Ministeri. Ma il muovo Governo è il primo Governo di maggioranza, anche se di una maggioranza composita, ed è stato composto sotto la responsabilità del partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana; quindi quel certo grado di responsabilità complessiva, che non potevano avere i precedenti Governi, ha il diritto di averlo questo Governo, il quale deve impostare un programma e quando lo ha impostato deve portarlo in fondo e deve essere giudicato non soltanto da questa Assemblea, ma dal Paese.

Io lodo il Governo per l’estrema cautela con la quale l’onorevole De Gasperi ha parlato del programma di socializzazione. La socializzazione è una cosa molto seria. Occorre non improvvisarla e deciderla in sede di Costituente.

A me dispiace molto che l’onorevole Labriola abbia parlato di socializzazione, di socialismo aziendale, in termini che direi quarantotteschi. Il socialismo aziendale in una economia moderna è piuttosto strano. Egli ci ha parlato di diversi socialismi, ma intendiamoci bene: oggi, se vogliamo avere degli esempi tipici dobbiamo riferirci al solo modo di fare andare avanti le fabbriche socializzate, e noi sappiamo che questo è il modo usato in Russia. Non scherziamo con sistemi che sono sistemi di un’economia povera o con sviluppo embrionale, perché è verissimo che vi sono diversi socialismi, ma c’è un solo socialismo serio e quello è un socialismo…

LABRIOLA. La socializzazione fu proposta un secolo fa.

LOMBARDI RICCARDO. Si è parlato di socializzazione di oggi e dobbiamo adattarci alla soluzione di oggi.

E passiamo al programma agrario sul quale il Presidente del Consiglio è stato molto breve, ma coraggioso, tanto da spaventare più del necessario. Forse il Presidente del Consiglio non ignora che si è molto equivocato sui famosi 100 mila ettari da appoderare, che sono divenuti perfino… 10 milioni. C’è stato un illustre professore universitario il quale domandava come mai si pensasse di appoderare quasi la metà della superficie agraria del Paese. Indubbiamente c’è del serio nel programma agrario del Governo. Pensare però che questo sia un programma che possa essere il primo avviamento della riforma agraria, mi pare eccessivo, anche perché ha qualche cosa di confusionario, qualche cosa che combina i decreti Visocchi e Falcioni con la legge Tassinari. Quello che meraviglia è che ci si voglia servire, in sostanza, degli stessi organi. Ora, a mio avviso, conveniva che il Governo fosse più modesto nel programma agrario, ma che enunciasse un programma che fosse sicuro di poter realizzare, e facesse entrare in questo programma alcune zone tipiche di disoccupazione, centrasse cioè alcune zone veramente sismiche di disoccupazione, con l’impiegare tutte le forze, senza diluire questi provvedimenti, per modo che si presentano in una maniera veramente confusa, tanto che non si sa se i 100 mila ettari che devono essere appoderati sono quelli stessi che bisogna espropriare.

Effettivamente io penso che quando il Governo presenterà un piano organico su questo punto noi avremo qualche cosa di più tranquillante; ma oggi come oggi, data l’inefficienza degli organi esecutivi, dato anche il fatto che essi sono anchilosati dalla lunga inoperosità, io penso che si possa fare solo un programma di emergenza, dato che il Governo ha pochi mesi dinanzi a sé. Quanto al grande programma agrario, non può essere cómpito di questo Governo, in quanto è cómpito della Costituente.

Vorrei ancora dire poche parole circa la politica interna, circa la politica scolastica e circa la politica estera.

Politica interna: il Governo si è limitato ad alcune considerazioni ovvie. Evidentemente al fondo delle dichiarazioni del Governo sta rassicurazione che l’ordine pubblico sarà mantenuto. Questo è troppo poco. Io ho una cattiva o buona memoria di quello che avveniva nei Governi di prima, del fascismo, quando tutti i Governi che si presentavano, o quelli che si proponevano all’approvazione del Parlamento, si presentavano col programma di ristabilire l’autorità dello Stato.

Ma nessuno aveva il coraggio di dire che ristabilire l’autorità dello Stato significava disarmare il fascismo. Ora il Presidente del Consiglio sa e non può non sapere, perché Ministro degli interni, che c’è nel Paese una viva preoccupazione per le conseguenze dell’amnistia. È chiaro che l’amnistia, e più che l’amnistia il modo come è applicata, col ritorno al paese di delinquenti tipici fascisti, conosciuti da tutti, crea veramente uno stato di perplessità, uno stato di incertezza ed anche in qualche posto uno stato di esasperazione veramente inquietante. Ora che cosa noi possiamo fare di fronte a questo? Quale tranquillità possiamo dare al Paese? Accanto alla generosa legge sull’amnistia diamo la prova di essere fermi nella repressione delle mene fasciste. Noi abbiamo una legge che interdice la riorganizzazione del fascismo e la propaganda fascista. Ma questa legge si è dimenticata di dire che cosa s’intende per fascismo, così che qualsiasi organizzazione fascista si può fare, purché abbia l’accorgimento di non chiamarsi tale e di non mettere i fasci littori sulle tessere. Ora, tanto più che questa legge sta per scadere, il Governo ha il dovere di precisare con una legge sostanziale su questo punto quali sono i limiti e gli estremi della attività fascista, di tranquillizzare il Paese ed assicurarlo che questi signori, verso i quali siamo stati generosi, avranno le unghie tagliate per sempre. Quando si leggono nei giornali cose di questo genere: «Avete pugnalato il vostro paese per darvi un regime che avrebbe dovuto significare pace e solidarietà umana. Avete ucciso il paese e sopra il suo cadavere ballano gli stranieri che voi avete aiutato a vincere. Aveva ragione il deputato Patrissi: sciacalli!», io mi domando, io che sono partigiano della libertà di stampa, se non c’è qualche cosa da fare, se i Prefetti ed il Ministro degli interni esistono per qualche cosa! (Applausi a sinistra).

Quando si sa, perché a Roma tutti sanno, che c’è un accentramento di capitali in questo momento per fare giornali da affidare a dei fascisti appena usciti in seguito alla amnistia, io domando: quando c’è una corsa di investimenti di capitali in giornali, la quale, se riuscisse, ridurrebbe fra pochi mesi tutti i giornali politici di partito al formato di bollettini parrocchiali, domando se non c’è qualche cosa di serio, di energico da fare, perché la stampa non si può lasciare soltanto nelle mani di coloro che hanno i soldi mal guadagnati e che ancora non siamo riusciti a strappare loro dalle mani. (Applausi a sinistra). Pertanto il Governo deve proporre e sottoporre all’Assemblea nel giro dei mesi che ci separano dal termine dei suoi poteri, una legge per disciplinare la materia.

Sulla scuola sarò estremamente moderato. L’onorevole Gonella è andato al governo della pubblica istruzione dopo che l’onorevole Togliatti ha tolto il «non expedit» pronunciato dai socialisti. Io mi domando se egli si sia reso conto delle ragioni per le quali il Gruppo Socialista aveva posto il «non expedit». Evidentemente c’era una preoccupazione. Si era parlato della candidatura Colonnetti, che a un certo momento è tramontata per dar luogo a quella Gonella. Evidentemente questo ha suscitato perplessità e inquietudine legittime. Però c’è la dichiarazione del Presidente del Consiglio circa il Ministero della pubblica istruzione, dichiarazione molto elittica, della quale, quando l’ho sentita, non ho capito niente. C’è stato tutto un giro di parole per dire quello che avrebbe fatto il Ministro della pubblica istruzione e quello che non era stato fatto dal Ministro di giustizia. Non lo avevo capito. Poi ci ho pensato e devo ritenere che il Presidente del Consiglio abbia detto questo: che il Ministro dell’istruzione rispetterà lo status quo; questa è l’interpretazione che penso più logica e più ovvia (Segni di assenso del Presidente del Consiglio) e che in questo momento il Presidente del Consiglio conferma e di cui mi compiaccio. Ora c’è uno status quo giuridico che nessuno pensa di discutere fino alla costituzione. C’è però in atto, una applicazione in materia scolastica: del concordato è stato fin’oggi fatto un uso relativamente moderato.

Io ritengo che il Presidente del Consiglio in questa sua dichiarazione abbia inteso a rassicurare l’Assemblea che non soltanto nulla sarà innovato durante questi mesi in sede legislativa, ma che nulla sarà innovato nel costume e negli usi, nell’applicazione della legge. Se questo è, credo che possiamo essere tranquilli sulla attività dell’onorevole Gonella in seno al Ministero della pubblica istruzione. (Nuovi segni di assenso del Presidente del Consiglio).

Politica estera. È stata una corsa curiosa: per il Ministero degli affari esteri si giocava a chi non doveva essere Ministro degli esteri; e si giocava, contemporaneamente a chi doveva essere Ministro dell’interno. Il che suscita il grave sospetto che, durante questi mesi, si voglia governare ancora col sistema dei prefetti, cioè mantenere quello Stato accentratore e poliziesco che tutti deploriamo. C’è una curiosa concordanza sul regime autonomistico, sul quale tutti si dichiarano d’accordo; però vogliono che i prefetti continuino a fare quello che hanno fatto fino a oggi. Se vogliamo sul serio l’autonomia, dobbiamo cominciare a fare qualche cosa. E ciò significa semplicemente non servirsi dei poteri discrezionali dei prefetti, come si è fatto fino adesso. Parlo con esperienza personale, perché sono stato prefetto, e dico che si possono molto limitare i poteri discrezionali dei prefetti, se si vuole preparare sul serio il funzionamento autonomo del comune e della regione (Applausi).

Questa corsa al Ministero dell’interno è giustamente sospetta a una buona parte dell’Assemblea.

L’onorevole De Gasperi ha presentato un programma di politica estera moderato e fermo, che credo tutti approviamo.

L’onorevole De Gasperi potrà essere criticato, però dobbiamo riconoscergli il merito che egli ha sempre voluto sottrarre il nostro Paese al dominio di uno di quei blocchi che si vanno formando in Europa. Egli non ha mai giocato sui dissensi; egli non ha mai cercato di impegnare la politica italiana in questa linea; questo è un grande merito che dobbiamo riconoscergli. Che poi questa buona volontà abbia potuto essere frustrata, dipende in gran parte dallo stato di fatto, perché siamo in regime di occupazione. È chiaro che il sospetto esiste sempre, per il paese occupato, di essere al servizio della parte occupante.

Se mai un’osservazione c’è da fare alle precisazioni sulle nostre rivendicazioni, che l’onorevole De Gasperi, quale Ministro degli esteri, ha fatto davanti alla Costituente, è che non ha tenuto forse conto sufficiente di una alternativa: quella della possibilità di internazionalizzazione, non della sola di Trieste. Se, ammessa l’idea della internazionalizzazione, si potesse ottenere l’estensione a una zona più ampia, economicamente e politicamente vitale, forse creeremmo qualcosa di utile, qualcosa di europeo: una zona che potrebbe essere il terreno propizio perché i nostri rapporti con la vicina Jugoslavia siano quali noi li desideriamo. Noi ci lamentiamo giustamente del torto che viene fatto al nostro Paese, ma non dimentichiamo che quando si contesta o si violenta la nazionalità della zona di confine, questo attentato non è soltanto all’Italia ma anche alla Jugoslavia, perché è un attentato all’Europa.

Con la Jugoslavia si è scavato un abisso che bisogna cercare non diventi permanente. Non bisogna dimenticare la politica fatta verso la Jugoslavia da Bissolati, da Salvemini, da Sforza: abbandonare questa politica non potrebbe portare altro che al fascismo. Le esacerbazioni naturalmente conseguenti a queste evidenti violazioni del diritto nazionale possono portare ad una situazione di cui non possiamo non preoccuparci.

Si dice che non si tratta di nazionalismo, ma di nazionalismo si tratta indubbiamente quando si sente dire, come si è sentito dire dal nostro illustre e venerando collega onorevole Orlando nella seduta inaugurale di questa Assemblea: «Se coloro che sono morti per la lotta di liberazione avessero potuto prevedere quello che avviene ora, sarebbero morti invano». Mi sono sentito gelare il cuore, perché questo non è vero. (Vivi applausi a sinistra).

Quelli che sono morti, sono morti per una grande idea, per un nuovo ordine in Europa e nel mondo. (Applausi a sinistra – Interruzioni – Commenti al centro).

E se oggi questo loro ideale è sconfitto perché prevalgono ancora i vecchi imperialismi, perché le nuove idee non si affermano mai immediatamente, questo non vuol dire che i loro ideali siano stati vani. Sono ideali che hanno un valore permanente e noi saremo democratici in quanto sapremo mantenerli e portarli avanti.

Nessuna soluzione dovrà essere scelta se essa ci dovesse condurre ad appartarci ringhiosamente dall’Europa e dal mondo: questo significherebbe ristabilire il fascismo. Non possiamo più essere separati ed avulsi dal corpo della solidarietà mondiale. Per un popolo che si è battuto sempre contro il fascismo internazionale, dalla guerra di Spagna alla guerra di liberazione, c’è sempre modo di poter nobilmente approfittare di tutte le possibilità che sorgono nel consorzio mondiale, perché la situazione non è rigida, ma è mobile e non c’è soltanto la politica estera contingente, ma anche la politica internazionale sulla quale bisogna far leva ed affidamento.

Non ho altro da dire.

Il nostro Presidente, onorevole Saragat, ha detto, nell’insediarsi alla Presidenza, che il volto della Repubblica sarà umano, e tutti lo abbiamo approvato. Io domando di aggiungere solo una cosa: il volto della Repubblica deve essere non solo umano, ma virile. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente GRANDI

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Romano.

ROMANO. Onorevoli Deputati, ho chiesto di parlare principalmente per sviluppare alcuni bisogni urgenti del Mezzogiorno e specialmente della Sicilia.

L’onorevole De Gasperi ha fugacemente accennato alla questione del Mezzogiorno; noi meridionali avremmo gradito una più ampia spiegazione.

Non sarà certo dipeso da scarsa benevolenza, perché tutti sappiamo che l’onorevole De Gasperi guarda con speciale simpatia il Mezzogiorno d’Italia.

L’onorevole Nitti ha detto che non bisogna far molte promesse al Mezzogiorno.

Onorevole Nitti, la promessa è una parola d’onore; questa fu data e non mantenuta da voi e dagli uomini di Governo che vi precedettero e vi seguirono; questa parola d’onore può bene essere mantenuta dal Governo della Costituente. Ed allora perché non accettarla?

L’onorevole Labriola ha aggiunto che il Mezzogiorno è diffidente, che non crede più alle promesse e che bisogna lasciarlo libero di fare da sé.

Anche questo è un modo di lavarsi le mani: il problema del Mezzogiorno è complesso e non possono le singole regioni del Mezzogiorno, anche dichiarate autonome, con il solo bilancio regionale risolvere così complesso problema. (Commenti).

La questione del Mezzogiorno è una questione molto complessa ed io vorrei che l’Assemblea fosse più attenta. L’inferiorità economica del Mezzogiorno è il risultato di un insieme di fattori di carattere politico e storico, di una serie di ingiustizie, ed a colmare tanto vuoto devono concorrere tutte le regioni d’Italia.

In 80 anni di unità vi sono stati tre grandi spostamenti di capitali dal Sud verso il Nord: uno in seguito all’incameramento dei beni ecclesiastici e successivo impiego del ricavato nell’apertura dei valichi alpini; l’altro in occasione della prima guerra mondiale, sia per le forniture belliche, sia per la permanenza di un esercito di più milioni di uomini nella pianura padana; un terzo in occasione della seconda guerra mondiale.

Basterebbero questi tre fatti storici, gravidi di conseguenze economiche, per giustificare il dovere del concorso delle altre regioni d’Italia.

Quindi, onorevole Labriola, non girate la cambiale già scaduta all’autonomia regionale.

Ed eccomi ora al discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Questo discorso si può scindere in tre parti: a) politica estera; b) politica interna; c) rapporti tra il Governo e l’Assemblea.

Politica estera. – Pur sapendo che ogni nostra protesta troverà sordo il mondo internazionale, noi intendiamo esternare egualmente il nostro giusto risentimento, perché la storia non finisce a Parigi, perché al di sopra dell’imperialismo che è seguito alla Carta Atlantica vi è il tribunale della storia, il quale meglio giudicherà le usurpazioni che oggi si vanno consumando con le violazioni dei più sacri diritti dei popoli.

Due rilievi intendiamo far giungere a Parigi: uno agli intellettuali francesi, l’altro al democristiano Bidault.

Gli intellettuali di Francia hanno sottoscritto il messaggio col quale hanno affermato ai quattro grandi che Trieste è jugoslava.

Questa città, che non appartenne mai ad uno stato jugoslavo, dovrebbe essere tolta all’Italia, cui sempre appartenne per diritto etnico e storico.

E ciò viene affermato dagli intellettuali di quella Francia per la quale migliaia di italiani caddero a Digione ed allo Chemin des Dames.

Intanto il signor Aragon parla di una civiltà jugoslava da contrapporsi quasi ad una civiltà latina, affermando che furono gli Jugoslavi a difendere l’Italia dall’invasione dei turchi.

Non vi è ragazzo della scuola media che non sappia il contrario di quanto ha osato affermare il signor Aragon, cioè che l’Italia e l’Europa furono per lungo tempo difese contro i turchi dalla Repubblica di Venezia.

Sebastiano Venier, Agostino Barbarigo, Francesco Morosino, Raimondo Montecuccoli e il Principe Eugenio di Savoia furono i condottieri di quegli eserciti, che arrestarono i turchi marcianti verso l’occidente.’

Gli intellettuali francesi sono dunque in malafede e svisano anche la storia perché accecati dal ricordo di quella tanto ripetuta pugnalata alla schiena, che d’altra parte ebbe ben scarsa importanza, perché l’attacco italiano sulle Alpi occidentali si effettuò quando l’esercito francese non dava più segni di resistenza, quando il Governo di Parigi fuggiva verso Bordeaux, quando nella chiesa di Nôtre Dame già si recitava la preghiera della disperazione.

Intellettuali di Francia, non fu dunque la cosiddetta pugnalata a far cadere sotto il tallone tedesco il vostro Paese, perché questo era già militarmente crollato.

Ma giacché si parla di pugnalata, dobbiamo anche noi ricordare quelle ricevute dalla Francia: la Repubblica romana, Mentana, gli ostacoli posti nel 1870 per l’impossessamento della Tunisia già popolata dai nostri emigranti, Versaglia, le armi fornite clandestinamente al Negus, il recente incitamento del generale De Gaulle, queste sono tutte pugnalate che la storia non può cancellare.

Ma il più grave è che questo infierire contro un’Italia dolorante, da parte della Francia vinta e vincitrice, è proprio diretto dal democristiano signor Bidault,

È stato lui a reclamare le italianissime Briga e Tenda per soddisfare una vecchia aspirazione dello Stato maggiore francese; è stato lui a sostenere che l’Istria con Pola spettano alla Jugoslavia; è stato lui ad ideare lo strano condominio di Trieste.

Si è quindi in malafede, anche da parte di qualche nostra corrente politica, quando si dice che bisognava seguire altra politica estera e che non sono state usate tutte le carte avute in potere.

Non si può parlare di imperizia, giacché dal 1943 in poi abbiamo avuto sempre una sola carta in mano, la carta della sconfitta, seguita ad una guerra odiosa dichiarata dal fascismo.

Tutti però abbiamo una colpa, quella di avere creduto alla propaganda degli Alleati, i quali ci lusingarono dicendoci che la lotta era diretta esclusivamente al fascismo e che l’Italia prefascista sarebbe stata rispettata.

Oggi l’inganno tremendo è svelato e si minaccia anche l’usurpazione delle colonie conquistate dall’Italia democratica, elevate ad un piano di civiltà dal sudore del popolo italiano.

Quando giungemmo in Libia, in quelle città retrograde non esisteva neppure una fognatura; il popolo italiano fece di Tripoli, Bengasi, Derna, Misurata e Tobruk delle città che nulla avevano da invidiare a quelle d’Europa.

La rete stradale esistente in Tripolitania è superiore a quella delle altre regioni africane sotto l’influenza della Francia e dell’Inghilterra.

Ma, come ha detto Benedetto Croce, l’inganno dei vincitori non chiude il corso della storia ed a noi dovranno essere ridati quei territori che ingiustamente ci furono tolti.

Questo, onorevole Lussu, non è nazionalismo, parola di nuovo conio, parola ignota a quanti concorsero a formare le unità nazionali come Mazzini, Kossut, Fichte.

Tutte le democrazie cristiane di Europa fondano la politica estera su questo concetto: non nazionalismo, ma nazionalità, giusta rivendicazione.

Signor Bidault, Briga e Tenda costituiscono nazionalismo, non giustificata rivendicazione.

Le ingiustizie si aggravano quando si pensa che siamo giudicati in stato di contumacia coatta, senza la possibilità di una qualsiasi discolpa. Un trattamento tanto severo è inspiegabile nei confronti di una Italia considerata ed utilizzata in due anni come cobelligerante.

E che dire degli indennizzi di guerra richiesti dalla Russia, dalla Jugoslavia e dalla Grecia, tutte nazioni consapevoli del nostro stato di impossidenza, tutte a conoscenza che abbiamo una sola moneta da poter offrire, il lavoro del nostro popolo, al quale non si può togliere il necessario per la più modesta vita materiale?

Le nostre navi, i nostri marinai, dopo l’armistizio, accorsero disciplinati a Malta, solcarono con gli alleati i mari, combatterono insieme, ed oggi quelle navi si vogliono comprendere fra il bottino di guerra.

No, tutto si inabisserà nei mari, ma i nostri marinai tanta onta non sopporteranno.

Anche il subire, il supinamente subire, ha un limite, al di là del quale non è lecito andare neppure al vincitore.

L’onorevole Nitti ha accennato alla opportunità dell’amicizia della Francia; ma egli pensa che è stata sempre la Francia ad ostacolare questa amicizia.

Per reciproci malintesi, abbiamo tutti, francesi ed italiani, la responsabilità del suicidio della latinità.

Popolo di Francia, per la ripresa hai bisogno di due milioni di operai che nessuna nazione ti potrà dare.

Solo l’Italia, ed i nostri operai sono pronti ad offrirti il loro lavoro, ma richiedono una ospitalità fraterna, non più dispregiativa ed offensiva.

Abbiamo una comune civiltà da difendere; difendiamola.

Politica finanziaria. – Fra le tante incertezze una domanda si sente con insistenza ripetere: cosa sarà della lira? Cosa avverrà della moneta?

Tale preoccupazione crea una situazione di attesa, che arresta l’iniziativa privata.

Onde il compito del nuovo Governo, uscito dalle elezioni del 2 giugno, è di fissare con serietà di intenti e con fermezza di proposito un programma economico-finanziario improntato alla realtà economica del paese.

Iniziando la ricostruzione bisogna cominciare col dire a noi stessi che le condizioni finanziarie di oggi sono preoccupanti.

Se questa è la dura realtà, bisogna, per carità di Patria, rinunziare ad ogni improvvisata soluzione rivoluzionaria.

Il primo passo sta nel creare la possibilità di lavorare e questa ha come presupposto la eliminazione del pericolo di inflazione, con l’arresto del pericoloso rincorrersi dei salari e dei prezzi, circolo vizioso dal quale non si potrà uscire se non dando stabilità alla lira.

Salvare la lira, questo è il punto di partenza della ripresa economica.

Onorevoli Deputati, noi siamo sull’orlo del precipizio; il bilanciò dello Stato prevede un deficit annuale di 350 miliardi, quasi un miliardo al giorno; fra qualche mese pare che l’U.N.R.R.A. cesserà di funzionare; crediti non abbiamo, i debiti per riparazioni saranno iperbolici, giacché oltre all’appello slavo e balcanico da soddisfare ci toccherà forse di dover restituire agli Alleati il prezzo delle caramelle lanciate nei primi giorni di occupazione sulle strade delle città d’Italia. Le industrie languiscono e muoiono, i disoccupati aumentano di giorno in giorno con il ritorno dei prigionieri e dei connazionali scacciati dalla Tunisia e dall’Algeria, colpevoli unicamente di avere in quelle contrade creato col loro lavoro una seconda Patria.

Le macerie delle case bombardate rimangono a testimoniare lo squallore e la desolazione, mentre la ripresa edilizia è quanto mai lenta.

Intanto se la capacità di acquisto della lira continua a declinare, la inflazione si tramuterà in una tassa patrimoniale alla rovescia.

È quanto mai erroneo ritenere che voler salvare la lira costituisce reazione, come qualcuno può pensare: trattasi invece di un atto di equilibrio, che rientra nel programma delle classi medie e che interessa tutti.

La lira si può salvare aumentando il gettito delle imposte, diminuendo le spese o riducendole al puro necessario; non stampando carta moneta, ma aumentando il quantitativo di produzione.

Tutto questo deve incidere nella ripresa della iniziativa privata, la quale si incoraggia dando stabilità alla lira e mettendo da parte le continue minacce di leggi rivoluzionarie.

Altro fattore che può concorrere ad eccitare l’iniziativa privata è quello di far sì che i depositanti siano consigliati di ritirare dalle banche i depositi per impiegarli in imprese che aumentino l’assorbimento della mano d’opera, la quale in questo momento, per la situazione internazionale, non ha alcuna valvola nella emigrazione.

Solo recentemente è stato disposto il ripristino della emigrazione verso il Belgio e la Cecoslovacchia.

Le Banche vanno già provvedendo in tali sensi in vista della eccessività dei depositi, riducendo sensibilmente gli interessi.

Parlando di aumento del gettito delle imposte bisogna ricordare che il nostro sistema tributario è tale che consente molte evasioni e di queste si avvantaggiano i più scaltri ed i meni probi.

Onde sempre più si sente il bisogno di una anagrafe tributaria nella quale sia rispecchiata la posizione economica di ogni cittadino.

Solo eliminando le evasioni si può sperare in un’aliquota più bassa con l’attuazione di una maggiore giustizia tributaria.

Con una economia che langue non può farsi affidamento sulle entrate ordinarie e si impone la imposta progressiva sul patrimonio, mantenendo fermo il principio che la progressività non deve arrivare all’annullamento del capitale, perché ciò si rifletterebbe dannosamente sulla produzione.

Quello che oggi più si impone è la diminuzione delle spese superflue, e ve ne sono senza fine.

In Italia diecine di migliaia di automobili sono destinate ad uffici pubblici, ed il più delle volte esse servono non all’ufficio, ma alle comodità personali.

Questo sistema fu creato dal fascismo, continua ancora oggi in forma aggravata e nessuno è disposto a rinunciarvi.

Non si pensa che siamo dei pezzenti allegri.

Bisogna ritornare alla semplicità di molti anni or sono.

Ricordo che mi trovavo a Roma per partecipare al concorso della Magistratura, quando vidi Giovanni Giolitti scendere per Via Cavour a piedi, col suo bastone a bilanciarm, per recarsi a Montecitorio.

Oggi le macchine di lusso si susseguono al centro ed alla periferia.

Sono di avviso di appiedare tutti.

E che dire del tecnicismo amministrativo quanto mai pletorico?

Basta guardare una nota nominativa per rilevare le numerose voci; ad ogni voce deve corrispondere uno stampato, ad ogni stampato una busta, ad ogni busta un numero di protocollo e così si affoga nel lavoro improduttivo.

Si è parlato di un taglio della moneta; io penso che qualunque misura di deflazione forzosa produce intralci ed arresti nella vita economica. Infatti un periodo di tempo è pur necessario per operare il cambio. Durante questo periodo i possessori di biglietti, anziché farseli trovare nelle mani a subire la falcidia, cercherebbero di tramutarli in beni; e poiché ogni venditore di beni verrebbe a trovarsi con un fascio di biglietti soggetti a falcidia, anch’egli richiederebbe altri beni e così si avrebbe la fuga della moneta.

Il taglio della moneta neppure riuscirebbe a risanare il bilancio, fino a quando esistono altre fonti di circolazione come le am-lire. Quindi il programma di risanamento finanziario deve fondarsi su questi tre punti: prestiti volontari a breve, medio e lungo termine, attraverso i quali i cittadini devono mostrare di concorrere nella misura possibile alla restaurazione dell’Erario; sostituzione alla pari di nuovi biglietti ai vecchi; imposta straordinaria sul patrimonio.

Il maggiore impulso deve essere dato dalla produzione, perché su trenta voci di generi alimentari di maggior consumo solo per cinque o sei si ha l’eccedenza, cioè risone, legumi, pomodori, frutta secche, agrumi.

Per quanto riguarda il grano, il fabbisogno è di 78 milioni di quintali, la produzione media di 52 milioni di quintali e quindi la deficienza è di 26 milioni di quintali.

Politica sociale. – Parlando di assicurazione obbligatoria, penso che questa non possa più limitarsi ad alcune malattie, come quelle accennate dall’onorevole De Gasperi, giacché chi vive di lavoro deve avere la sicurezza che in caso di infermità lo Stato prontamente ed efficacemente interverrà a sollevare la famiglia colpita dalla sventura.

L’intervento dovrà essere efficace e non irrisorio e dovrà comprendere non solo l’integrale spesa per la cura della malattia, ma anche il mancato guadagno per la sospensione del lavoro.

E così anche la pensione per l’invalidità e la vecchiaia dovrà soddisfare equamente i bisogni della esistenza, non già costringere il lavoratore ad una vita di umiliazioni e di elemosina.

Lavori pubblici. – Parlando di lavori pubblici, intendo spendere una parola speciale per la Sicilia, ove molti lavori hanno carattere di eccezionale urgenza, specie per i piccoli comuni.

Due terzi dei comuni della Sicilia sono senza fognature e con acquedotti insufficienti.

Popolazioni intere soffrono la sete, l’igiene si dibatte fra mille difficoltà e la mortalità infantile è preoccupante.

Stamane, aprendo in albergo il rubinetto e sentendo scorrere l’acqua fresca di Roma, ho ricordato le sofferenze di alcuni comuni, ho rivisto con l’occhio della mente gli abitanti di Centuripe, di Catenanuova e di altri centri, percorrere sotto il sole più chilometri per riempire una brocca, fare per ore la coda presso un filo di acqua.

Rammento che durante gli otto anni in cui fui giudice istruttore presso il Tribunale di Enna, recandomi a Centuripe dovevo portare qualche bottiglia di acqua per la permanenza di un giorno.

Eppure anche quelle popolazioni pagano le imposte.

Questa dimenticanza di tutti i passati Governi, lenita solo da eterne e vaghe promesse, sa di ingiustizia. Lo ricordo anche all’attuale Governo, per quanto non veda in questo momento che pochissimi suoi rappresentanti qui presenti.

Onorevoli Deputati, la questione meridionale. è questione italiana.

Il maggiore suggello dell’unità sta nella eliminazione di certe disuguaglianze che suonano offesa e che hanno dato forza a quel movimento separatista, che tanto ci ha preoccupati.

Il piano regolatore ferroviario della Sicilia è rimasto da numerosi anni sempre sulla carta.

Fu prevista mezzo secolo fa la costruzione della linea Trapani – Marcatobianco – Nicosia – Catania, per una più rapida e diretta comunicazione tra la Sicilia orientale e quella occidentale.

Fu costruito anni or sono il primo tratto, Trapani – Alcamo; il secondo tratto previsto tra Alcamo e Marcatobianco è rimasto sotto forma di progetto; del terzo tratto Marcatobianco – Nicosia manca anche il progetto; il quarto tratto, eseguito in parte da Catania a Regalbuto, è in stato di abbandono e si corre il rischio di perdere il lavoro compiuto.

Trattasi di una grande linea che rappresenta l’aspirazione più sentita di numerosi centri abitati, specie nelle Madonie, tutti tagliati fuori dalle città più importanti della Sicilia.

È una linea che darebbe vita a numerosi centri come Alcamo, che conta 65.000 abitanti, Camporeale, Roccamena, Corleone, importanti centri cerealicoli; Polizzi Generosa, zona molto sviluppata per la coltivazione dei noccioleti e mandorleti, Lercara Friddi, centro solfifero, Petralia, Gangi, Nicosia, Agira, centri di produzione di grano, di olio e di formaggio, Regalbuto, zona di agrumi e mandorleti.

Altre linee ferroviarie da costruire in Sicilia e che sono ritenute indispensabili per lo sviluppo commerciale e per la rinascita dell’isola, sono la linea Caltagirone-Gela, la quale metterebbe in diretta comunicazione la città di Catania col Mezzogiorno dell’Isola, evitando il lungo ed interminabile percorso per Siracusa e Ragusa.

Uguale importanza hanno le linee Canicattì – Riesi – Mazzarino – Caltagirone, e quella Agrigento – Porto Empedocle.

Noi Deputati della Sicilia ben comprendiamo le difficoltà del bilancio; ma vorremmo che almeno si completasse la grande arteria già iniziata e che, come ho detto, dovrebbe congiungere Catania a Trapani, dando nuovo respiro a tutti i centri della Madonie.

Costruire strade in Sicilia significa anche combattere la delinquenza.

Le bande armate sogliono oggi fissare i loro quartieri generali lontano dalle poche arterie stradali, nel cuore delle zone latifondistiche, ove la polizia non può giungere con automezzi, ma solo a mezzo di cavalcature, il che rende difficile la lotta alla criminalità.

Dunque le strade allontanerebbero ed annullerebbero la delinquenza che tiene quattro milioni di abitanti quasi in stato di soggezione.

PRESIDENTE. Onorevole Romano, tenga conto che vi sono altri 60 iscritti a parlare.

ROMANO. Si è parlato di fatti personali, di tante altre cose non tutte importanti. (Commenti). Io parlo di problemi vitali per la Sicilia.

Parlando di riforma agraria, intendo richiamare l’attenzione dell’Assemblea sempre sulla Sicilia.

Spesso e con facilità si sente parlare di terreni incolti e di latifondi, ma si esagera sull’uno e sull’altro argomento.

Giustino Fortunato diceva che molti pappagallescamente ripetono tali scempiaggini. La zona costiera di tutta l’isola è coltivata al millimetro perché il contadino di Sicilia, il sobrio e laborioso contadino siciliano, ha recato a spalla dalla pianura la terra e l’ha collocata tra la lava dell’Etna piantandovi la vite, l’ulivo ed il mandorlo.

È il clima più del suolo che rende la Sicilia ed il Mezzogiorno in genere di valore economico inferiore alla rimanente penisola.

Piogge invernali e siccità estive mantengono stazionaria ed arretrata l’agricoltura, unica fonte di ricchezza.

Il sole, l’acqua spesso non si accompagnano; il sole alle volte brucia e l’acqua distrugge.

Nulla però in 80 anni di unità si è fatto, per eliminare i due gravi in convenienti. Ed è per questo che noi, pur avendo la massima devozione verso vecchi parlamentari che più volte ebbero la responsabilità del Governo, dobbiamo rilevare e censurare che essi fecero molte chiacchiere e pochi fatti.

I corsi d’acqua della Sicilia, che in prevalenza sboccano nel versante ionico, hanno carattere torrentizio.

Per impedire i danni delle piogge invernali e primaverili si sarebbero dovute eseguire in molti punti opere di arginature, dando un letto costante alle acque, ma queste sono rimaste padrone di tutti gli straripamenti ed ecco una delle cause della malaria che infierisce in certe zone.

Come ho detto, nel periodo in cui il sole comincia a bruciare, le piogge cominciano a mancare.

Se la pioggia benefica non cade a tempo propizio bisogna pure che l’uomo intervenga per dominare nei limiti del possibile la natura.

Rimboschire, questa deve essere l’opera dell’uomo.

È accertato che lo scirocco, vento africano, passando sul mediterraneo si impregna di vapore acqueo e questo precipita in pioggia quando passa su zona boschiva, i cui alberi esercitano quasi una forza di attrazione.

Infatti, risalendo lo scirocco verso il Nord, la prima precipitazione si ha sulla Sila, seguono poi le precipitazioni sull’Irpinia, sul Molise e sull’Umbria.

Onde, se si vuole combattere lo scirocco, che in Sicilia distrugge piante ed animali e deprime uomini, se si vuol far piovere in Sicilia bisogna rimboschire.

Invece in questi ultimi anni la scure si è abbattuta senza pietà sui pochi residui boschi dell’isola.

La legge Serpieri del 1927 presupponeva l’esistenza del bosco e quindi non ha potuto avere pratica applicazione in Sicilia, ove i boschi bisogna crearli.

Agli effetti della elettrificazione delle poche ferrovie e dei bisogni industriali, la costruzione dei bacini montani dev’essere coerente al rimboschimento perché, è bene ripeterlo, è il bosco che deve assicurare l’afflusso delle acque nei bacini.

Solo allora l’economia siciliana, esclusivamente agricola, potrà diventare agricolo-industriale.

Per la questione del latifondo mi sono premurato di accertare statisticamente il frazionamento della proprietà terriera.

In Sicilia si contano 422.000 aziende agricole, di cui solo 4.000 hanno una superficie che supera i 50 ettari e ciò si ha nell’interno della Sicilia ove prevale la coltura estensiva.

Il frazionamento di questi 40.000 appezzamenti a carattere latifondistico avverrebbe automaticamente se la questione dei latifondi si risolvesse sollecitamente dando una buona volta realtà concreta al binomio «strada e acqua».

Il fascismo ritenne di dare l’assalto al latifondo sovvenzionando la costruzione di case coloniche nelle vicinanze della rete stradale; giovò anche questo, ma per combattere il latifondo bisogna penetrare nel cuore del latifondo stesso con la strada e con l’acqua, elementi di vita dei futuri villaggi.

Il frazionamento del latifondo non si opera con la violenza, ma con quegli istituti giuridici, che tanto benefici sono stati nel passato e continuano ad essere anche oggi, come l’enfiteusi con le modifiche importanti apportate dal nuovo codice civile, la colonia perpetua, i contratti a lunga scadenza, le mezzadrie miglioratarie.

I proprietari terrieri dell’isola sono pronti a questo frazionamento approntando i capitali per la vita delle nuove aziende, ma prima si devono costruire le strade perché il contadino arrivi nel cuore del latifondo, prima si devono captare le acque necessarie per gli animali e per l’uomo.

Come innanzi ho detto, le promesse sono state infinite.

Ricordo che lo scorso anno venne ad Enna l’onorevole Romita, quale Ministro dei lavori pubblici; egli tenne una riunione in Prefettura, furono invitate tutte le autorità cittadine e vi partecipai anche io quale Presidente del Tribunale.

Numerosi lavori pubblici furono segnalati, il Ministro Romita prese attentamente appunti, lo stesso fecero alcuni ingegneri del seguito ed il provveditore delle opere pubbliche, che aveva in mano un grosso taccuino.

Sembrava che si dovesse sperar bene.

È trascorso un anno e neppure un chiodo è stato messo.

Altro istituto che incide nella riforma agraria è la creazione di un istituto di credito che eserciti esclusivamente il credito agrario, con larghezza di vedute e senza eccessivo fiscalismo.

Il più delle volte l’agricoltore viene a trovarsi nella condizione di un giocatore d’azzardo.

Fino a quando i prodotti non sono entrati nei magazzini, accidenti diversi minacciano il frutto del suo lavoro.

Onde è necessario che l’istituto di credito agrario sia tenuto a prendere in considerazione i casi di inadempienza non dipendenti dalla volontà del debitore, astenendosi per quell’annata agraria da ogni azione coattiva.

L’Istituto del credito agrario non deve essere poi snaturato, da parte dei mutuatari, come purtroppo più volte abbiamo constatato attraverso vari processi civili, nei quali si rilevava che il mutuo era stato destinato non ad opere di cultura o di miglioria, ma a bisogni personali ed alle volte anche voluttuari.

S’impone quindi una maggiore severità di controllo sull’impiego del denaro mutuato.

Bisogna infine prepararsi da oggi ad una vasta riforma culturale.

La Sicilia, come altre regioni, le quali fondano la propria economia sul prezzo dei cereali, è minacciata da crisi a breve scadenze.

Invero, quando i grani del Canadà, della Argentina, degli Stati Uniti, con la ripresa dei trasporti marittimi, potranno affluire a buon mercato nei porti di Genova, Napoli e Palermo, il prezzo del grano crollerà.

Onde la necessità di una trasformazione agraria sostituendo parte della cultura cerealicola, con la vegetazione arborea, come ulivo e mandorlo, con la conseguente revisione dei contratti agrari, perché il contadino deve avere la certezza che egli e i suoi figli raccoglieranno i frutti degli alberi che si vanno installando.

Bisogna dunque ritornare al principio dell’economia secondo natura e questo principio deve trovare applicazione sia nel campo industriale che in quello agricolo, perché in economia ogni artificio, contrastante con la natura del territorio è antieconomico.

Rapporto fra Governo e Costituente. – Dallo onorevole Calamandrei è stata prospettata la questione dei poteri della Costituente.

In verità la discussione meritava maggiore ponderatezza, ma si scivolò nella improvvisazione e fu questo il motivo per cui non si tenne conto che la questione importava l’esame di un istituto delicatissimo che dovrà far parte integrante della nuova carta costituzionale, l’istituto della decretazione di urgenza.

Questo istituto non potrà essere del tutto abolito, perché nella vita dello Stato spesso si presentano casi per cui occorre l’intervento immediato del Governo, il quale deve emettere prontamente la norma giuridica, senza avere la possibilità e il tempo di riunire ed interpellare il Parlamento, oggi Assemblea Costituente.

Presupposto di questo istituto è l’urgenza. Se questa manca vuol dire che si fa abuso dell’istituto.

Quindi la questione andava impostata in questi termini: lasciare al Governo la possibilità di emettere norme giuridiche servendosi della decretazione di urgenza; fare in questo caso obbligo al Governo di richiedere a brevissima scadenza l’approvazione dell’Assemblea, così come si opera in altri Stati; far ritornare all’Assemblea il suo naturale potere di legiferare.

Ma purtroppo del carattere di urgenza non sempre si tiene conto, specie quando entrano in campo fattori politici, lo spirito, l’interesse di parte.

Questo è avvenuto recentemente.

Infatti in Sicilia si discutono in questi giorni con animosità i decreti del Ministro dell’agricoltura ed alle discussioni spesso seguono le vie di fatto.

Sono recentissimi i fatti di Niscemi, ove 40.000 dimostranti hanno dato l’assalto agii uffici pubblici ed ai circoli dei civili.

Indubbiamente tutti sapete che col decreto del 10 maggio 1943, n.347, il Ministro dell’agricoltura fu autorizzato a fissare i prezzi dei cereali e delle fave da conferire agli ammassi.

Con decreto ministeriale del 18 giugno 1944 venne determinato per il raccolto del 1944 in lire 1000 al quintale il prezzo del grano duro.

Con successivi decreti ministeriali del 26 luglio 1944 e 4 giugno 1945, lo stesso Ministro dell’agricoltura divise detto prezzo in due parti: una costituita da una quota rappresentante il prezzo effettivo del grano, l’altra integrativa a titolo di sussidio di coltivazione in compenso delle maggiori spese culturali, attribuendo, nel caso di corresponsione del canone in natura, la prima al proprietario, la seconda al coltivatore o affittuario.

Furono così modificati, con effetto retroattivo, rapporti di diritto privato.

Ne derivarono numerose cause civili aventi per oggetto il prezzo da corrispondersi dai gabellotti.

Molte di queste cause erano giunte già davanti al giudice d’appello, quando in alcune circoscrizioni giudiziarie furono, dalle Procure generali, diramate delle circolari con le quali si consigliava la sospensione dei numerosi processi civili, in attesa del responso della Suprema Corte.

Questa a Sezioni unite, con sentenza 25 maggio 1946, ha deciso la causa tra Seminara Tusa contro Zuccaro affermando la illegittimità del decreto del Ministro della agricoltura del 26 luglio 1944.

La dotta e perspicua sentenza è stata già pubblicata in più riviste sia per le questioni giuridiche, sia per l’importanza politica.

Intanto la stampa del 23 giugno ultimo scorso ha annunciato che il Ministro dell’agricoltura ha sottoposto al Governo un decreto col quale si convaliderebbero i due decreti ministeriali del 26 luglio 1944 e del 4 giugno 1945, disponendo che le norme contenute in detti decreti dovranno avere valore di legge con decorrenza dalle rispettive date.

Non si può mettere in dubbio la legittimità di detto decreto, ma bisogna tener presente che non senza qualche motivo il nostro ordinamento giuridico comprende due disposizioni, una sotto l’articolo 11 delle preleggi al Codice civile, l’altra sotto l’articolo 2 del Codice penale.

Con queste due disposizioni si fissa il principio della irretroattività della legge, principio che, se contenuto nella Carta costituzionale, impedirebbe al legislatore ogni deroga.

In materia di rapporti obbligatori la retroattività della nuova legge può subire limitazioni, se motivi di ordine pubblico ispirino la nuova norma e vietino di far riconoscimento a vincoli obbligatori ravvisati immorali o illeciti.

Niente di tutto questo nel caso in esame e molto meno l’urgenza, ove si pensi che la questione si trascinava da due anni.

Non intendo qui entrare nel merito del decreto, anche esso alquanto discutibile, perché in alcune regioni del decreto stesso si avvantaggiano gli intermediari; ma rimanendo ad esaminare solo l’aspetto giuridico, è certo che se una violazione di legge vi fu, questa non fu operata da alcuna delle parti contraenti, ma dal Ministro, che andò oltre i poteri a lui demandati dal decreto del 10 maggio 1943, n. 397.

Intanto molte parti si erano rivolte al magistrato per la affermazione di questa violazione di legge, ma dopo due anni di attesa, dopo spese non indifferenti, esse hanno vinto, come suol dirsi in Sicilia, la causa ed hanno perduta la lite.

Tutto questo non è serio e non è serio per un duplice motivo: a) il cittadino ha diritto di fare affidamento sulla stabilità della legge; b) provocare un decreto per dare con effetto retroattivo valore di legittimità a due decreti ministeriali dichiarati illegittimi subito dopo il tanto atteso responso della suprema Corte, non costituisce certo deferenza verso il giudicato e verso l’organo supremo che l’ha emesso.

Ormai quello che è fatto è fatto e non si può tornare indietro; ma al Paese interessa che per l’avvenire non si continui a scivolare sul terreno delicatissimo della decretazione di urgenza e della retroattività della legge.

L’Italia è vittima cosciente ed incosciente della decretazione di urgenza: fu attraverso la decretazione di urgenza che il potere legislativo fu annullato e sostituito dal potere esecutivo.

Fra queste mura nel 1923, se non erro, in un solo giorno, su relazione degli onorevoli Cocco Ortu, Codacci Pisanelli, D’Alessio, Matteotti, furono approvati duemila e duecento decreti, alcuni dei quali risalivano al 1915.

Questa decretazione di urgenza mise le sue radici durante la prima grande guerra mondiale, continuò in quell’immediato dopoguerra, diventò unico modus vivendi durante la dittatura fascista e penso che non possa continuare ancora oggi dopo il nuovo battesimo democratico del 2 giugno.

La questione è quanto mai delicata ed incide nella vita stessa di questa Assemblea ed interessa tutto il Paese, che attende da noi la suprema legge dello Stato.

L’Italia ha troppo sofferto in questo ultimo quarto di secolo; ci siamo ridotti senza un amico, tutto il patrimonio fiduciario perduto, ogni giorno umiliazioni sopra umiliazioni.

Facciamo sì che questo disgraziato Paese, almeno per quanto riguarda la vita interna, possa guardare con serenità il futuro.

E noi con dolore possiamo constatare che alcuni troverebbero comodo fare la rivoluzione con decreti-legge.

Guai, se su questo terreno si dovesse continuare a scivolare anticipando il compito di questa Assemblea e trattando istituti riguardanti i così detti diritti sociali, che dovranno far parte integrante della nuova carta costituzionale.

Onorevoli Deputati, questa carta, come legge suprema dello Stato, guarda il futuro e deve fissare i limiti al di là dei quali i parlamenti futuri non potranno andare.

Questo è il motivo per cui ognuno di noi, varcando questa soglia dovrebbe spogliarsi dello spirito di parte.

Una carta costituzionale permeata dallo spirito di parte difficilmente troverebbe l’approvazione del Paese ed ai nostri figli noi daremmo non un documento di pace, ma un documento di discordia.

Si freni dunque la pericolosa decretazione di urgenza e si lasci che l’Assemblea svolga con serenità il suo compito.

Noi dobbiamo preoccuparci non del prevalere di questa o di quella corrente politica, ma di fissare nella legge suprema dello Stato, oggi per il domani, la difesa del diritto di tutti.

Costruendo questo documento storico bisogna guardare con serenità tutte le correnti politiche, perché ogni corrente può avere il suo contributo da dare alla verità sociale.

Onorevoli Deputati, volgo alla fine, ma permettete che io dica una parola per lo stato di difficoltà in cui viene a trovarsi la magistratura dopo il nuovo decreto che dichiara legittimi i decreti ritenuti illegittimi dal Supremo Collegio.

La nomina a Ministro della giustizia dell’onorevole Gullo, già Ministro dell’Agricoltura, non tranquillizza certo la serenità e l’indipendenza del Supremo Collegio.

Si è verificato così il caso dell’alunno bocciato che viene nominato preside per dirigere i professori, autori della bocciatura.

Questo avrebbe dovuto rilevare anche il Capo provvisorio dello Stato, onorevole De Nicola, che per avere vissuto tutta una vita nell’ambiente giudiziario, conosce tutti i nostri tormenti di ogni giorno.

Onorevoli Deputati, questo comportamento nei confronti della magistratura sa di fascismo.

E intanto si parla di indipendenza della magistratura, si parla di democrazia.

In verità penso che rimangano ancora due pii desideri.

Dov’è l’indipendenza, dov’è la democrazia? Molti di noi le cerchiamo, ma non le troviamo.

L’indipendenza della magistratura si avrà solo quando il Ministro sarà un magistrato e non un uomo di parte.

Questo deve essere fissato nella nuova carta costituzionale e non potrà essere altrimenti se si creerà la Suprema Corte costituzionale, che dovrà esaminare la costituzionalità o meno delle leggi.

Molti di voi siete uomini di legge, cultori del diritto.

Ebbene, difendete con noi l’indipendenza della magistratura, perché solo così difenderete la giustizia del nostro Paese. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Angelini.

ANGELINI. Onorevoli Colleghi, il programma che il Governo ha comunicato all’Assemblea merita tutto il migliore plauso e consenso. Esso rivela una precisa e decisa volontà di realizzare quella politica costruttiva e ricostruttiva che, nello spirito di una necessaria solidarietà nazionale, permetta alla nostra Patria di riacquistare quel benessere che assicuri a tutti i suoi figli la possibilità di lavorare e di vivere.

A questo Governo, che non vuol essere, come ci è stato solennemente affermato, un regime di parte, ma un Governo di tutti, noi dobbiamo dare la nostra più onesta collaborazione per affrettare la rinascita, così come questa collaborazione a tale rinascita la dà il popolo italiano che, pure in mezzo a tanti disagi, miserie, umiliazioni e rovine è pervaso da una decisa e ferma volontà di risorgere, volontà che si traduce quotidianamente in uno sforzo di ricostruzione e di ripresa, e che ha trovato la sua più alta espressione nel comportamento sereno e libero con il quale il 2 giugno questo popolo si è dato un nuovo regime ed ha eletto questa Assemblea.

Mentre noi tutti, rispondendo all’attesa degli italiani, dovremo dare al Paese la nuova costituzione che garantisca al popolo, per lunghi anni, tutte le sue libertà democratiche in uno spirito di vera e rinnovata giustizia sociale, il Governo, usando dei poteri che gli sono stati delegati e che, occorrendo, gli saranno confermati da questa Assemblea, deve decisamente realizzare quella ricostruzione e quel rinnovamento che sono da tutti attesi e che sono il presupposto assoluto per la rinascita della Nazione.

Ricostruire e rinnovare: è questo il segno che riassume il programma governativo.

Il Governo ha dichiarato che intende attuare il suo programma di ricostruzione attraverso un organo tecnico, il Comitato Interministeriale di Ricostruzione, il quale dovrà sottoporgli proposte precise e concrete.

I settori principali per la ricostruzione si identificano in quelli:

  1. a) delle opere pubbliche o di interesse pubblico;
  2. b) dell’industria;
  3. c) della marina mercantile;
  4. d) dell’agricoltura;
  5. e) della edilizia;
  6. f) nel risarcimento danni di guerra.

Io esporrò il mio punto di vista sui problemi di ordine politico, giuridico, tecnico e finanziario relativi a tale ricostruzione, problemi che ho maturato nella mia mente vivendo in quotidiano contatto con le popolazioni e con le distruzioni di quei territori della linea gotica tirrenica che portano ancora vivi e purtroppo insoluti, insieme alle sofferenze del popolo, i segni di una spaventosa distruzione.

Per quanto si riferisce alla ricostruzione delle opere pubbliche dobbiamo onestamente constatare che lo sforzo compiuto dai governi che sono stati al potere dall’armistizio ad oggi è stato notevole ed encomiabile, specialmente se posto in relazione alle immense difficoltà tecniche che si sono dovute superare ed alla deficienza di mezzi finanziari. La ricostruzione ferroviaria, quella stradale, e quella portuale sono in atto con il segno di una decisa e fattiva volontà. Occorre insistere su tale azione e progressivamente ampliarla, riconoscendo che la risoluzione del problema delle comunicazioni e dei trasporti terrestri e marittimi, è fondamentale per la nostra ripresa economica.

Occorre che una particolare cura ed attenzione sia posta dal Governo per l’attuazione di una precisa e rapida ricostruzione di opere d’interesse pubblico, cioè delle chiese, delle scuole, delle case comunali, degli asili, degli ospedali danneggiati o distrutti dalla guerra. In questi settori non si è fino ad oggi realizzato che molto poco; mentre si sarebbe dovuto agire con più ferma decisione per poter assicurare, a favore delle popolazioni che più hanno sofferto della guerra, la funzionalità di questi servizi che sono intimamente legati alla vita spirituale e materiale del cittadino.

I fondi posti a disposizione dei vari provveditorati dello Stato per questi scopi, sono stati, sino ad ora, troppo limitati; mentre l’importanza della realizzazione di questa ricostruzione è assoluta ed inderogabile. Richiamo su questo punto la migliore attenzione del Ministro dei lavori pubblici. Nel settore della ricostruzione industriale, agricola, edilizia e della marina mercantile occorre osservare il problema sotto un duplice profilo:

  1. a) provvidenze in atto per potenziare l’industria e la marina mercantile per una ripresa produttiva e di costruzione;
  2. b) provvidenze per operare il risarcimento dei danni di guerra e delle rappresaglie nel settore industriale, della marina mercantile, dell’agricoltura, dell’edilizia e della proprietà mobiliare.

Per favorire la ripresa dell’attività industriale ben poco si è fatto. Il Governo precedente all’attuale ha emanato un primo provvedimento con il quale ha posto a disposizione dell’Istituto Mobiliare Italiano 3 miliardi di lire per mutui da concedersi ai fini della riorganizzazione e ripresa industriale. La cifra è troppo limitata di fronte alle necessità impellenti dei vari settori industriali, onde occorre trovare il modo di effettuare rapidamente l’assegnazione di nuovi importanti fondi e nello stesso tempo snellire ed accelerare, in modo deciso e concreto, la procedura per la concessione di tali benefici, onde essi siano tempestivi ed efficaci.

Per la marina mercantile i decreti che prevedono il concorso dello Stato nelle opere di riparazione e di ricostruzione delle navi danneggiate e per le nuove costruzioni navali, hanno avuto ed hanno assai favorevoli ripercussioni, tanto che essi hanno servito e servono ad una sostanziale attività costruttiva la quale permetterà di realizzare la formazione di una nuova flotta mercantile, specialmente di piccolo e medio cabotaggio, indispensabile per la ripresa della nostra attività marinara.

Il nuovo Governo, perseguendo questa via ed incrementando periodicamente i fondi destinati a questo fine ed aggiornando i premi di costruzione compirà, in questo settore, un’opera altamente proficua.

Contrariamente alla critica mossa dallo onorevole Nitti, plaudo al Governo per aver creato il Ministero della marina mercantile. Questo provvedimento che ha attuato una antica aspirazione degli armatori e dei marittimi italiani, trova la sua piena giustificazione nella necessità inderogabile di realizzare al più presto la piena ricostruzione della nostra flotta mercantile, che, in dipendenza della guerra, si è ridotta da 3.500.000 tonnellate a meno di 350.000 tonnellate.

È questo uno dei più importanti problemi connessi alla ricostruzione dell’economia nazionale, quando si pensi quale compito svolgeva in passato ed è destinata a svolgere in futuro una forte marina mercantile, sia per il servizio dei traffici internazionali, sia per il cabotaggio mediterraneo in collegamento con le grandi linee di navigazione e di allacciamento con i porti e le innumerevoli isole mediterranee, quando si pensi all’urgenza di incrementare decisamente il lavoro dei cantieri navali italiani, con il conseguente impiego dei marittimi disoccupati.

Si provveda, perciò, di urgenza a coordinare un vasto e preciso programma ricostruttivo, specialmente per lo sviluppo della marina di piccolo e medio cabotaggio, di questa marina che, in certo qual modo, rappresenta l’artigianato della flotta mercantile e che per un paese di tradizioni marinare come il nostro ha bisogno di essere seriamente compresa per apprezzarne l’alta funzione che è destinata a svolgere.

Non basta, peraltro, realizzare un programma di ricostruzione, occorre che alla flotta ricostruita venga assicurata la possibilità di lavoro. A questo proposito richiamo l’attenzione del Governo su di una situazione quanto mai difficile e delicata.

Con decorrenza 15 giugno u.s. tutte le navi aventi stazza inferiore alle 300 tonnellate non sono più soggette a vincoli di navigazione.

In questa categoria di navi è compresa la quasi totalità della nostra attuale marina di cabotaggio.

A queste navi, peraltro, non è ancora consentito il libero traffico nel Mediterraneo e solo in determinati casi viene concesso di recarsi nei porti esteri, per modo che l’attività è contenuta nel trasporto delle varie merci disponibili fra i porti peninsulari ed insulari.

Il movimento di queste merci è, d’altra parte, compresso per la scarsa richiesta e produzione dei nostri complessi industriali ancora in fase di ricostruzione.

Poiché le limitazioni al traffico internazionale sussistono anche per le navi di stazza superiore alle 300 tonnellate, avviene che una forte aliquota di queste grosse navi, non utilizzate in traffici internazionali, è impiegata nel trasporto di quelle merci che sono sempre state appannaggio del piccolo e medio cabotaggio italiano. Quando si consideri che grossi piroscafi da 4-5-8.000 tonnellate sono stati destinati al carico di agrumi – merci varie – carbone e sale, si può facilmente immaginare come il sottrarre alla loro normale destinazione quantitativi così ingenti, pregiudichi il lavoro normale delle piccole navi da 2-3-4-500 tonnellate di portata.

Mi risulta che a questo inconveniente la Direzione Generale della Marina mercantile ha tentato di ovviare, e che si fanno giornalmente tentativi di avviare a traffici internazionali i grandi vapori. Speriamo di veder coronati di urgenza questi sforzi da autentici successi. È questo uno dei più urgenti problemi che devono essere risolti dal nuovo Ministero.

Ma altre cause ostacolano la ripresa del cabotaggio o meglio l’allontanano. Tra gli altri ostacoli segnalo le proibitive tariffe portuali.

Oggi si chiedono ancora oltre 500 lire a tonnellata per le operazioni di carico e scarico e tali enormi oneri allontanano dai porti i caricatori che preferiscono qualsiasi altro mezzo di trasporto; mentre coloro che sono obbligati a servirsi del trasporto marittimo non solo limitano al minimo il loro rifornimento ma riducono il nolo a limiti tali che costringono le navi al disarmo.

È indispensabile che le tariffe portuali siano rivedute e aggiornate a cifre possibili e non è concepibile pretendere tariffe centuplicate nei confronti di quelle prebelliche. Questo provvedimento s’impone nell’interesse degli stessi lavoratori dei porti, che solo in tal modo vedranno aumentati i traffici ed assicurato il loro lavoro.

Le difficoltà per il rifornimento dei combustibili: sono un altro grave intoppo. Le navi, giunte nei porti, devono perdere giorni interi per attendere il rifornimento di carburante che, nella quasi totalità dei casi, viene eseguito in quantitativi insufficienti. La nave, impegnata con un carico fissato, nella incertezza di avere il combustibile, è costretta all’acquisto alla borsa nera, dove di combustibile se ne trova quanto se ne vuole, pur di pagarlo lire 35 il litro.

Persistendo in questo stato di cose è da temere seriamente che gli armatori siano costretti a disarmare le loro navi e facile è il valutarne le conseguenze.

D’altra parte, nel mentre la nostra marina di cabotaggio si dibatte tra queste difficoltà, avviene che marine estere – con navi anche di piccolo cabotaggio – navi olandesi, greche, turche entrano nei nostri porti per trafficare nel Mediterraneo! Come si spiega questo fatto se non sulle palesi possibilità da parte degli armatori esteri di godere di costi di esercizio più favorevoli, di noli in valuta, di combustibile a prezzo ridotto, di favorevoli tassi di assicurazione?

E non si vede in queste iniziative un programma di più vasta penetrazione nei servizi di accaparramento del cabotaggio per le linee di navigazione mediterranea?

Il Governo intervenga a tempo e sappia vedere e provvedere per un sicuro domani onde non pentirci quando sarà troppo tardi; e non si dimentichi, fra l’altro, quarte immensa fonte di valuta estera potrà apportare una numerosa e ben organizzata marina di cabotaggio.

Circa le provvidenze per operare il risarcimento dei danni di guerra e delle rappresaglie nei vari settori ove il danno si è verificato, è necessario un riesame profondo dei criteri sui quali è stato impostato fino ad oggi questo importante problema. Tutte le disposizioni legislative adottate si fondono sul principio che il danno di guerra sia sopportato da chi l’ha sofferto, salvo un parziale intervento e concorso dello Stato.

Questi due principî sono da considerarsi ambedue profondamente e sostanzialmente errati. Il principio giuridico che deve regolare il complesso problema del risarcimento dei danni di guerra è, secondo il mio pensiero, che l’onere totale nazionale per tale risarcimento deve essere ugualmente ripartito e sopportato fra tutti gli italiani; è inconcepibile, antigiuridico, antisociale ed iniquo creare una situazione di cose tale per cui vi siano degli italiani che sono costretti a subire nei loro averi le tragiche conseguenze della guerra ed altri italiani che queste tragiche conseguenze non sopportano, avendo avuto i loro beni salvi ed integri. Da questo principio deriva la logica conseguenza che non è lo Stato che deve pagare il danno di guerra, ma è il cittadino che non ha subito alcun danno o ne ha subiti in proporzioni inferiori all’aliquota di onere ad esso spettante che dovrà corrispondere quel tanto che serva a realizzare il risarcimento del danno a favore di chi il danno stesso ha subito.

Fortunatamente per noi il valore dei beni privati salvi è sensibilmente maggiore di quello dei beni distrutti; per cui, la quota di oneri che dovrà gravare sui beni in generale, potrà contenersi in limiti sopportabili tutte le volte che i metodi e i sistemi di accertamento e di realizzazione del relativo contributo fiscale straordinario siano veramente concreti ed efficaci.

E qui è opportuno affermare che, una volta che sia stato ripartito fra tutti gli italiani l’onere dei risarcimenti dei danni di guerra, tutti dovranno ugualmente dare allo Stato quel concorso del quale esso avrà necessità per realizzare i mezzi necessari, onde finanziare il programma ricostruttivo delle opere pubbliche. Una eccezione dovrà essere fatta nel criterio generale della ripartizione dell’onere suddetto, nel senso di stabilire l’integrale risarcimento del danno di guerra a favore delle piccole proprietà edilizie, appartenenti a lavoratori o comunque a persone che, non avendo a disposizione alcuna possibilità marginale di patrimonio o di reddito, non sono assolutamente in grado di concorrere, neanche in minima parte, alla ricostruzione della loro modestissima proprietà. In tutta l’Italia sono state distrutte notevoli quantità di piccole abitazioni, costruite attraverso il sacrificio costante, paziente di più generazioni di lavoratori; piccole abitazioni ove i nostri operai trovavano il modestissimo ricovero per le loro povere famiglie. Queste abitazioni devono rapidamente e con precedenza sulle altre, essere ricostruite e l’onere di esse deve far carico interamente al fondo nazionale per la ricostruzione.

Se non è possibile di predisporre un programma generale governativo di lunga portata per le elidenti difficoltà denunziate dal Presidente del Consiglio, penso e credo che sia, invece, possibile predisporre un piano quinquennale o decennale per realizzare la ricostruzione dei beni danneggiati o distrutti dalla guerra.

Insisto perché il Governo, a servizio di tale piano organico di ricostruzione, istituisca un «Fondo Nazionale per il risarcimento dei danni di guerra», il quale dovrà essere incrementato dal gettito della istituenda imposta generale progressiva sul patrimonio.

Il piano di ricostruzione dei beni danneggiati dalla guerra, dovrà disciplinare la ricostruzione privata in modo da dare anzitutto la precedenza a quella che realizza anche una ripresa nelle attività produttive della Nazione e, secondariamente a quella edilizia, cercando di effettuarla in coincidenza e concomitanza progressiva con l’abbassamento dei prezzi di costo delle costruzioni.

Il Governo ci ha annunciato il suo programma finanziario. Sono d’accordo sulla opportunità di tenere separato il bilancio ordinario, per ricondurlo rapidamente al pareggio, dal bilancio straordinario riguardante entrate straordinarie destinate a fronteggiare spese straordinarie.

I prestiti interni ed esteri, annunziati dal Governo, dovrebbero essenzialmente servire per fronteggiare le spese straordinarie relative a questo eccezionale stato di cose, e le spese inerenti alla ricostruzione di opere pubbliche o di interesse pubblico e per la esecuzione di nuovi lavori pubblici.

L’imposta straordinaria sul patrimonio dovrebbe, come già ho detto, quasi essenzialmente servire per alimentare il fondo nazionale per il risarcimento dei danni di guerra. Ma in relazione a questa imposta straordinaria sul patrimonio è opportuno dire una parola franca e chiara.

L’imposta patrimoniale dovrà colpire tutti i cittadini che posseggono un patrimonio al di sopra di un certo limite minimo, e dovrà colpire il complesso di tutti indistintamente i beni posseduti, senza eccezione alcuna.

Di fronte alla tragica situazione nella quale si trova il nostro Paese, occorrono rimedi drastici, precisi, coraggiosi; rimedi che fino ad oggi non si sono adottati. L’Italia ha subito il suo più grave e grande disastro, ed è necessario affermare l’assoluta necessità che tutti i cittadini concorrano a realizzare la resurrezione della Nazione. Non possono ammettersi disertori od evasori. Oggi la verità è questa: la quantità dei cittadini che attualmente sfuggono al pagamento dei tributi è immensa: oggi chi paga è quello che ha sempre pagato. Attraverso questa guerra, che pur tanti lutti ha portato alla Patria, vi sono una quantità enorme di nuovi ricchi, molti dei quali sono divenuti tali attraverso le fonti più illecite e attraverso la borsa nera, che sono sconosciuti agli uffici fiscali ed il cui patrimonio non è accertabile e perseguibile con gli attuali inefficienti mezzi di ordinario accertamento. Bisogna decidersi a gettare le basi fondamentali di accertamento patrimoniale e di reddito che servano quale punto di partenza per tutte le imposizioni fiscali sia di carattere ordinario, che straordinario.

Occorre stabilire il più esattamente possibile qual è il patrimonio di ciascuno senza esenzione alcuna di attività patrimoniale, il patrimonio imponibile vero e reale; se arriveremo a stabilirlo avremo creato il presupposto che consentirà allo Stato, come agli Enti locali, di realizzare i mezzi ordinari per il risanamento dei rispettivi bilanci e straordinari per la ricostruzione della Patria e per il risarcimento dei danni di guerra e, nello stesso tempo, avremo realizzato in generale un sostanziale alleggerimento degli oneri fiscali che oggi colpiscono una ristretta minoranza di cittadini, in quanto che tali oneri saranno ripartiti fra un numero di contribuenti sensibilmente maggiore. Per ragioni varie non si è fatto il cambio della moneta; ma dovendosi istituire una seria imposta patrimoniale che, per essere efficace e giusta, colpisca tutte le attività patrimoniali da ciascuno possedute, dobbiamo giungere, necessariamente, almeno alla stampigliatura della moneta per stabilire la quantità di essa in circolazione e quella posseduta, sotto qualsiasi forma, da ciascun cittadino.

Questo patrimonio liquido non può, né deve restare esente da tassazione, tanto più quando tutti conveniamo nella necessità di impedire una ulteriore inflazione e svalutazione della moneta. Se l’esenzione si verificasse, si realizzerebbe una rivoltante situazione: quella cioè di vedere che proprio quei denari, liquidi o sotto forma di risparmio che spesso sono frutto della più losca ingordigia e sono stati realizzati attraverso l’affamamento e il sacrificio di tanti italiani e specialmente delle classi medie, impiegatizie e lavoratrici, rimarrebbero non solo esenti da imposta, ma sarebbero rivalorizzati dallo sforzo ricostruttivo della Nazione!

Io chiedo al Governo urgenti provvedimenti per creare in Italia la «Anagrafe tributaria».

BUBBIO. C’è già l’anagrafe tributaria: non è stata attuata, ma vi sono persino gli stampati. Non c’è che da attuarla.

ANGELINI. Essa, opportunamente organizzata per la sua rapida realizzazione e severamente protetta da rigide ed inesorabili sanzioni, costituirà il presupposto fondamentale per la rinascita e la ricostruzione finanziaria della Nazione; attraverso di essa sarà anche possibile accertare il patrimonio ed il reddito di ciascun cittadino, ed inoltre determinare, dopo di aver applicato ai patrimoni posseduti prima del conflitto i più giusti criteri di rivalutazione, quali sono stati gli effettivi incrementi patrimoniali conseguiti da ognuno durante la guerra, per potere, su tali incrementi, incidere decisamente in ossequio a quei principî di superiore giustizia per i quali non può concepirsi od ammettersi che, da un cosi tragico esperimento, possano essere derivati ad alcuni cittadini la morte, la rovina, il dolore e la miseria e ad altri i godimenti e le ricchezze.

Le resistenze che si opporranno da tante parti alla realizzazione di questa anagrafe tributaria, saranno certamente notevoli; perché immenso è l’interesse di chi possiede, e specialmente di chi possiede molto, di nascondere la propria ricchezza ed i propri redditi e tanto più nasconderli in quanto la origine di essi non trovi una onesta e chiara giustificazione.

Ma tali resistenze debbono essere e saranno vinte dalla decisa volontà del Governo, che è volontà determinata a salvare l’Italia, che è e deve essere volontà di affrontare i mali estremi con eccezionali e sostanziali rimedi estremi.

Onorevoli Colleghi, si è detto che la Repubblica non ha dato la giusta pace all’Italia; si è detto che il primo Governo della Repubblica non offre garanzie per un sostanziale migliore avvenire del Paese. Si dica chiaro e forte che la Repubblica è la prima e più diretta vittima degli errori del passato che ingiustamente ricadono su di essa, malgrado che tutti i partiti, che nella Repubblica credono, abbiano, per amore della libertà e della democrazia e credenti nelle promesse alleate, dato pel riscatto delle altrui colpe il contributo del sangue, del sacrificio e dell’azione, nella fiducia che tale contributo avrebbe servito ad ottenere una giusta pace per gli italiani.

La Repubblica italiana saprà tenere alta la fiaccola della giustizia contro tutti i dimentichi di fuori e contro tutti i denigratori di dentro, fino a quando le ingiustizie non siano state riparate. Quanto al primo governo della Repubblica io sono certo della sua volontà decisa di realizzare il programma annunciato; ricostruire con decisione e fermezza, ricostruire per risorgere e riprendere il nostro cammino, risorgere per assicurare a tutti la possibilità di lavoro e di vita; ma resti fermo il principio che ricostruire e risorgere non si potrà se non ci si rinnova nei metodi, nei sistemi, nell’azione; rinnovamento che significa andare verso l’avvenire con quella decisione che gli eventi richiedono, e con quella fermezza che le difficoltà da superare esigono. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Finocchiaro Aprile. Ne ha facoltà.

FINOCCHIARO APRILE. Signori Deputati, colgo occasione dalla discussione sulle comunicazioni del Governo e dalle dichiarazioni che sono state fatte dall’onorevole Presidente del Consiglio per precisare il punto di vista, gli intendimenti e i propositi dei miei colleghi indipendentisti e del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia.

Quello che ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio nei riguardi del Mezzogiorno non ci soddisfa affatto. Noi abbiamo sentito ancora una volta, la millesima volta, ripetere dal banco del Governo le solite melate promesse che il Governo regolarmente non manterrà. (Commenti).

Il Governo non ha neppure detto una parola nei riguardi della Sicilia. Eppure sembrava che sulla Sicilia si fosse in questi ultimi tempi richiamata molto, non soltanto l’attenzione italiana, ma anche quella internazionale. È bene, pertanto, poiché il Governo dell’Isola, i partiti unitari locali e i Comitati di liberazione hanno avuto tutto l’interesse di deformare il nostro pensiero, di calunniarci in ogni modo e di farci apparire diversi da quel che siamo e sempre fummo; è bene che, in occasione di questa discussione, noi precisiamo il nostro atteggiamento.

Sin dal primo momento, signori Deputati, sin dal tempo della occupazione alleata, noi dichiarammo nettamente che il nostro proposito era quello che si addivenisse in Italia ad una Confederazione di liberi Stati. Affermammo ciò, inequivocabilmente, in un memoriale che, appena avvenuta l’occupazione, e precisamente il 23 luglio 1943, noi inviammo al generale Alexander. Tengo a ripetere che si tratta di manifestazione degli inizi dell’agitazione indipendentista e non, quindi, dell’ultimo momento. Ed io aggiungo che la stessa richiesta il Comitato del Movimento dell’indipendenza, prima della occupazione e durante la guerra, aveva fatta ai signori Stalin e Molotov, Roosevelt e Cordell Hull, Churchill e Eden. Anche allora noi dichiarammo che il solo mezzo per superare il conflitto sempre più aspro tra la Sicilia e l’Italia (Interruzioni – Commenti) era precisamente quello di addivenire ad una confederazione di Stati. (Rumori – Commenti – Interruzioni).

BUBBIO. Siamo unitari, siamo tutti italiani!

PRESIDENTE. Non interrompano!

FINOCCHIARO APRILE. Noi siamo nell’Assemblea Costituente, siamo qui per dare vita ad una nuova struttura statale. Come fate voi a negare così semplicemente di prendere in esame, con le altre forme, anche quella confederativa? Ma questo è inconcepibile. Noi siamo qui appunto per decidere quale costituzione dovrà avere lo Stato, se dovrà essere unitario, federale o confederale. (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, non raccolga le interruzioni; continui.

FINOCCHIARO APRILE. Io rispondo. So di parlare ad una Assemblea ostile. (Commenti).

Una voce. No: italiana.

FINOCCHIARO APRILE. Non mi preoccupo di questa ostilità e vado avanti per la mia strada. Io non parlo soltanto a voi, ma intendo rivolgermi soprattutto a coloro che sono fuori di questa Assemblea. (Rumori – Commenti).

Una voce. Parli alla Costituente. Noi siamo degli italiani.

FINOCCHIARO APRILE. Noi rappresentiamo il popolo siciliano.

Una voce. Una parte molto piccola.

FINOCCHIARO APRILE. Una parte che sarebbe stata molto maggiore, se fossimo stati trattati diversamente e se fossimo stati intesi e compresi. Noi siamo qui per parlarvi della Sicilia. Fummo molto perplessi, dopo il trattamento fatto agli indipendentisti siciliani, se fosse conveniente venire in questa aula. Nel comitato nazionale che fu tenuto a Roma, immediatamente dopo la liberazione dei miei amici Varvaro e Restuccia e mia, si manifestarono delle tendenze alquanto diverse. Molti dissero: «Noi non dobbiamo andare all’Assemblea Costituente italiana!» (Commenti – Interruzioni).

Non dobbiamo andare all’Assemblea Costituente italiana, perché la vera Costituente nostra si dovrà riunire in Sicilia. Ed allora intervenimmo noi, pacieri, intervenimmo noi per dire che era ben necessario dare la prova ai nostri avversari che volevamo rimanere, come sempre siamo rimasti, sul terreno della legalità. Noi abbiamo sempre svolta la nostra azione nei modi più pacifici e così continueremo a fare. Appunto per dare all’Assemblea la prova di tutta la nostra buona volontà, noi siamo venuti qui e siamo qui per parlarvi esclusivamente della Sicilia.

Non ci occuperemo di nessun altro problema che non sia un problema siciliano…

Una voce. …e italiano!

FINOCCHIARO APRILE. Siciliano!

Evidentemente noi parlammo sempre di Confederazione di Stati liberi italiani, nella quale Confederazione tutti gli Stati dovrebbero essere e dovranno essere in condizioni di assoluta parità ed eguaglianza. Noi vogliamo che la Sicilia sia nella Confederazione di Stati italiani così come il Piemonte, come la Lombardia, come l’Emilia, e via dicendo, perché fino ad oggi, dopo 86 anni, la Sicilia non è stata mai nelle stesse condizioni delle altre regioni italiane; è stata sempre sfruttata, vilipesa, offesa e trattata come una colonia! (Rumori – Interruzioni).

L’unità accentratrice nel 1860 è stata fonte per la Sicilia di grandi sventure e di molti dolori. Noi desideriamo che sia superata definitivamente questa fase che noi ricordiamo con il maggiore rammarico.

Noi abbiamo sempre, sin dal primo momento, come vi specificherò meglio più avanti, parlato di uno Stato siciliano repubblicano.

Vi fu un momento nel quale gli autorevoli rappresentanti del Partito repubblicano italiano vennero a prendere contatti con noi in Sicilia. Noi li accogliemmo fraternamente. Pacciardi ci disse che il Partito repubblicano italiano si era messo a sostenere la necessità di uno Stato federale italiano. Noi rispondemmo di non potere accedere a questa concezione in quanto preferivamo e preferiamo la forma della Confederazione di Stati. Su ciò non fu possibile un accordo; ma quando sia Pacciardi, sia Conti vennero a svolgere i loro programmi in Sicilia, si sentirono gridare dai loro amici ad una voce: «Noi vogliamo la repubblica di Sicilia». Ed essi non si peritarono di rispondere: «Sta bene la repubblica di Sicilia, purché sia federata all’Italia». Tutti risposero: «Perfettamente». Noi stessi dicemmo: «Perfettamente, siamo d’accordo». Non è quindi da parte nostra che vi sia stata una deflessione. Vi è stata una deflessione da parte del Partito repubblicano italiano, in quanto esso ha oggi rinunciato alla creazione dello Stato federale, alla idea di Cattaneo, per rimanere devoto all’insegnamento di Mazzini. Essi oggi sostengono la necessità di una Repubblica unitaria italiana.

Ora, dal punto di vista nostro, siciliano, dei nostri interessi, dei nostri diritti conculcati, noi rispondiamo che tutte le nostre simpatie sono per la repubblica, ma una repubblica unitaria sarà per noi egualmente deprecabile (la parola è forse troppo forte) quanto la monarchia, perché con la repubblica unitaria italiana noi non risolveremmo nessuno dei problemi vitali della nostra terra amatissima, così come non li potemmo risolvere durante l’infausto periodo monarchico.

Si dice: ma, che bisogno c’è di ricorrere ad una Confederazione di Stati? C’è l’autonomia. Ed oggi, come diceva uno degli oratori più interessanti della tornata, l’onorevole Lombardi, mi pare, tutti parlano di autonomia. Non vi è partito che non accenni alla autonomia come ad un toccasana. Noi non crediamo all’utilità dell’autonomia. Se il Governo ci desse un’autonomia vera, reale, una autonomia finanziaria, economica, tributaria, doganale, noi la sottoscriveremmo fin da ora. Ma voi non ci date niente! Voi ci fate una grandissima beffa! Per questo noi respingiamo la vostra autonomia. Conosciamo benissimo il progetto. Abbiamo constatato con molta pena, a proposito di questo progetto, che accordi fra i vari organi dello Stato non sono neppure potuti avvenire. La Corte dei Conti ha respinto il progetto ed il Governo ha dovuto chiedere la registrazione con riserva. Il Consiglio di Stato, a quel che si dice, avrebbe pure manifestato intenzioni contrarie. La Commissione esistente presso il Ministero dell’epurazione ha detto: che cosa sono queste autonomie? Basta un piccolo decentramento burocratico. Quando il progetto di autonomia siciliana andò alla Consulta Nazionale, vi furono due uomini eminenti, Einaudi e Ricci, che dissero: «Ohibò! ma con questa autonomia si crea uno Stato entro lo Stato». E dettero parere contrario.

Voi comprendete, signori Deputati, che, con questa antifona, ogni speranza cade anche con un progetto di autonomia così striminzito, che non piace a nessuno, perché tutti lo qualificano una nuova turlupinatura per la Sicilia. Che risultati volete che esso possa dare?

Il decreto legislativo sulla autonomia siciliana è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale; ma io non so se esso entrerà presto in attuazione, non so se dovrà essere posto in appendice alla nuova Carta Costituzionale ed entrare in vigore con essa; non so se dovrà essere conglobato con questa Carta Costituzionale. Noi, vi ripeto, a quel progetto siamo decisamente contrari. Ma, nonostante tutto – vi prego di non sorridere – noi lo voteremo. Lo voteremo come un inizio, come il primo passo verso quella indipendenza che sicuramente la Sicilia raggiungerà. (Interruzioni – Rumori).

A proposito di autonomia, il mio caro e vecchio amico, Arturo Labriola, che è onore della scienza italiana ed onore dell’Assemblea Costituente… (Commenti – Rumori). Èprecisamente come dico: onore dell’Assemblea Costituente…

Una voce. Ha onorato tanti partiti!

FINOCCHIARO APRILE. Dio mio! Qui dentro quanta gente c’è che ha onorato vari partiti. Lasciamo andare! (Commenti – Rumori).

Dicevo dunque che il mio amico Labriola, nel suo discorso, si è riferito a questo tisico progetto di autonomia ed ha chiesto che esso sia esteso anche alle provincie meridionali. Il mio amico Labriola è di facile contentatura, evidentemente. Io devo dirvi, invece, a questo proposito, che da ogni parte della Italia meridionale e della Sardegna vengono a noi incitamenti a persistere sulla strada che stiamo battendo, quella della Confederazione di Stati italiani. Ci si dice che si vuole unire l’azione del Mezzogiorno e della Sardegna alla nostra…

Una voce. Della Sardegna.

FINOCCHIARO APRILE. Sì, io sono orgoglioso di avere avuto il particolare incarico della Lega Sarda di parlare anche a nome della Sardegna.

Una voce. Ma sono pochi!

FINOCCHIARO APRILE. Che importa? De Valera alla Camera dei Comuni portò appena quattro deputati, quanti noi indipendentisti siamo qui dentro, e dopo non molti anni l’Irlanda fu uno Stato libero. Così sarà della Sicilia, della Sardegna, del Mezzogiorno. (Vivissimi rumori – Interruzioni – Commenti).

Una voce. E sarà la guerra civile.

FINOCCHIARO APRILE. Ma che cosa dice?

Io devo ripetere che noi, fin dal primo momento, affermammo la necessità che il nuovo ordinamento siciliano sia a base repubblicana. Ma, a questo proposito, io devo rilevare una dichiarazione, fatta qualche tempo fa sul suo giornale di Palermo dal collega onorevole Natoli, il quale scrisse che Charles Poletti, Governatore della Sicilia per conto degli Alleati, aveva proposto a me di fare la Repubblica siciliana e che io mi ero rifiutato. Questo annunzio ha avuto qualche eco internazionale che mi costringe ad una precisazione.

La notizia è completamente destituita di fondamento, perché non è esatto che l’America, al momento dell’occupazione, sostenesse la necessità di una Repubblica siciliana. Poletti non affermò altro che la necessità della permanenza della monarchia e fu nell’occasione nella quale apparve un documento indipendentista contrario alla monarchia che io ebbi un dissidio con lui e gli dissi che non per mantenere la monarchia il popolo siciliano aveva agognato la sua liberazione dal fascismo e che gli Alleati avevano combattuto nel nome della libertà e ci avevano liberati dal vecchio regime.

Questa è la verità, contenuta anche in una lettera di un egregio uomo politico inglese, il quale me l’ha confermata ora. Egli mi scrive: «L’Inghilterra protesse i Savoia e dovette perciò ottenere faticosamente l’aiuto dell’America perché sperava che la monarchia fosse di ostacolo alla marcia del comunismo. Quando gli americani credettero che dal Nord poteva forse venire una forma di vera democrazia che desse libertà reali a tutti, i Savoia furono buttati a mare». Ma in quel momento Poletti sosteneva la monarchia di Savoia che noi invece combattevamo ad oltranza. (Commenti).

GUERRIERI. Ma non dovete combattere l’unità d’Italia.

FINOCCHIARO APRILE. Noi siamo unitari più di lei, e glielo spiegherò. Lei non capisce che…

GJJERRIERI. Io capisco l’unità.

PRESIDENTE. Non interrompano!

FINOCCHIARO APRILE. Noi amiamo l’Italia più di lei. (Interruzioni – Rumori – Commenti).

Agli alleati, quando la Sicilia era occupata, furono prospettate varie possibilità di confederazione. Noi insistemmo per la confederazione tedesca, quella di Bismarck, che dal punto di vista giuridico e costituzionale consideriamo il più perfetto sistema di confederazione. Nella confederazione tedesca, infatti, tutti gli Stati erano sovrani. Vi erano i regni di Prussia, di Baviera, del Würtenberg, di Sassonia e via dicendo. Vi erano anche le città libere anseatiche di Brema, Lubecca ed Amburgo. Ci si è rimproverato dall’onorevole Natoli di aver suggerito questa confederazione tedesca, che fu soprattutto una confederazione di dinastie. Ma a noi tale confederazione interessava soltanto dal punto di vista del diritto pubblico, ed io insisto nell’affermare che essa fu quella che dette i migliori risultati e che merita di essere presa a modello.

Ora io affermo, in risposta ai miei interruttori, che i cittadini della Prussia, della Baviera, del Würtenberg, della Sassonia, delle città libere anseatiche erano tutti cittadini tedeschi che la Confederazione univa ed affratellava in unico granitico blocco. E se la Sicilia diventerà uno Stato libero confederato all’Italia, non ne risulterà una unione più salda di quella presente? Non saranno tutti gli italiani, pur divisi nella tutela dei loro particolari diritti, tutti uniti nell’interesse e per la gloria del nostro Paese? (Interruzioni – Commenti).

L’occasione per la quale avvenne il contrasto tra Charles Poletti e me fu precisamente un ordine del giorno del Comitato dell’indipendenza siciliana, ordine del giorno nel quale noi ricordavamo che la casa di Savoia aveva acquistato il titolo regale in Sicilia con Vittorio Amedeo II, al tempo del trattato di Utrecht del 1713; ricordavamo che il Parlamento siciliano nel Risorgimento aveva offerto la corona di Sicilia al figlio di Vittorio Emanuele II; ma ricordavamo anche che la Casa di Savoia se ne era sempre infischiata della Sicilia.

MATTARELLA. E perché l’avete sostenuta nelle elezioni? Siete stati monarchici. (Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. È una menzogna spudorata. Siete stati voi che prima avete sostenuto la repubblica e poi vi siete fatti sostenitori della monarchia. (Rumori – Interruzioni – Commenti).

Ebbene, in questo ordine del giorno noi rimproveravamo l’abbandono in cui casa Savoia aveva tenuto la Sicilia e noi dichiarammo decaduto Vittorio Emanuele III dal trono e con lui decaduti i suoi successori. E, poiché si continuava a insistere in una specie di protezione della monarchia e del generale Badoglio, io in una lettera dell’ottobre dello stesso anno, lettera violenta e veemente che può avere riscontro in quella del conte Sforza diretta allo stesso sovrano, lo invitai ripetutamente ad abbandonare senz’altro il trono e a decidersi finalmente ad abdicare. E qui mi si viene a dire che abbiamo sostenuto la monarchia! Quando mai lei me lo ha sentito dire?

MATTARELLA. Nelle elezioni.

FINOCCHIARO APRILE. È una menzogna spudorata, e lei mentisce sapendo di mentire. (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti).       :

MATTARELLA. Mentisce lei. A Lercara i suoi mi hanno interrotto al grido di «Viva i Savoia!».

FINOCCHIARO APRILE. E che c’entro io in ciò? Ma la smetta. Lei è un «intrallazzatore» dell’Alto Commissariato della Sicilia e si è arricchito. (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti animati e prolungati).

MATTARELLA. Ritiri la parola, altrimenti non parlerà più.

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, lei deve ritirare questa espressione che è inammissibile. (Approvazioni).

Voci. Ritiri l’ingiuria!

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, torno a invitarla nel modo più formale a ritirare le espressioni inammissibili di cui lei si è servito. (Applausi).

FINOCCHIARO APRILE. Per la forma ritiro quello che ho detto; per la sostanza (Interruzioni) vi è una precisa accusa formulata da me pubblicamente contro l’onorevole Aldisio e i suoi complici in tutte le malefatte dell’Alto Commissariato.

ALDISIO, Ministro della marina mercantile. Il Commissario Aldisio ha querelato con ampia facoltà di prova il signor Finocchiaro Aprile. (Applausi al centro).

GRONCHI. Chiedo di parlare.

FINOCCHIARO APRILE. Io ho la parola.

PRESIDENTE. Onorevole Gronchi, non posso accordarle la facoltà di parlare in questo momento.

GRONCHI. Onorevole Presidente, vorrei chiarire le ragioni della reazione vivace del mio gruppo e mia personale al contegno dell’onorevole Finocchiaro Aprile. (Commenti).

PRESIDENTE. Le ripeto, che lei non può parlare ora.

FINOCCHIARO APRILE. Io ho la parola!

Voci. Parli l’onorevole Gronchi! (Commenti – Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, continui!

FINOCCHIARO APRILE. Poiché la mia non fu che una legittima reazione contro un’accusa ingiusta e falsa, questa mia reazione fu necessariamente vivace. Se l’onorevole Mattarella ritirerà l’accusa falsa, io ritirerò quello che ho detto.

MATTARELLA. Siccome la mia accusa non è falsa, io non la ritiro e mantengo tutto quello che ho detto. (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti animati e prolungati).

FINOCCHIARO APRILE. Ed io non ritiro nulla e mantengo quello che ho detto.

PRESIDENTE. Continui, onorevole Finocchiaro Aprile.

FINOCCHIARO APRILE. Dopo la nostra dichiarazione di decadenza della monarchia di Savoia, dopo l’invito a Vittorio Emanuele III di abbandonare il trono, il Comitato nazionale fece ripetute affermazioni nettamente ed inequivocabilmente repubblicane; ed in tal senso si pronunziarono solennemente il Congresso nazionale di Taormina e poi quello di Palermo.

Però voi dovete rendervi conto che il Movimento della Indipendenza non è un partito, ma abbraccia quasi tutti i partiti, purché indipendentisti.

Una voce. No, non è vero!

FINOCCHIARO APRILE. Noi abbiamo comunisti…

Una voce. Ma dove?

FINOCCHIARO APRILE. …abbiamo socialisti… (Interruzioni), liberali, laburisti, democristiani…

Una voce. Nella sua fantasia!

FINOCCHIARO APRILE. …e poiché nel Movimento vi sono anche dei monarchici, il Comitato nazionale dell’indipendenza, riunito a Roma, dichiarò di lasciar liberi gli indipendentisti di votare come volevano.

Questa è una manifestazione monarchica.

Una voce. Dunque siete repubblicani e monarchici! (Vivi rumori – Commenti).

FINOCCHIARO APRILE. In ripetute occasioni, noi dichiarammo che la repubblica da noi desiderata è la repubblica sociale. (Commenti – Interruzioni).

Dichiarammo che questa repubblica dovrà avere un Governo a democrazia diretta. Perché? Perché noi siamo decisamente contrari al regime puramente parlamentare che ha dato così cattivi risultati in Italia. (Interruzioni – Commenti).

Perché democrazia diretta? Perché precisamente il regime parlamentare dette luogo ad inconvenienti che molti di voi, specialmente i vecchi, ricordano. Quando Don Sturzo, ad esempio, si intrometteva, pur non facendo parte della Camera dei Deputati, nel giuoco delle forze parlamentari, riusciva persino ad impedire la formazione dei Governi con grave pericolo dell’esistenza dello Stato, e fu parecchie volte colto in fallo. (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti animati al centro).

Voci. Legga la storia!

FINOCCHIARO APRILE. …Pensammo così alla necessità di sottrarre il Governo alle compromettenti agitazioni parlamentari, le quali saranno rese inoffensive appunto con la democrazia diretta, mercé la quale il Governo sarà eletto direttamente dal popolo e non potrà cedere ad ogni stormire di foglia per gli isterismi ed i capricci di questo o quel partito o gruppo politico rappresentato nell’Assemblea. Non si verificherà più lo spettacolo inverecondo di allora, per cui ogni sei mesi bisognava cambiare il Gabinetto, dando l’impressione che l’Italia non potesse funzionare in nessun modo.

La ragione della democrazia diretta da noi vagheggiata è precisamente quella di dare al popolo la vera sovranità, la sovranità permanente, non una sovranità che si esaurisce nel momento stesso in cui l’elettore esprime il voto. Con la democrazia diretta il popolo ha permanentemente la sovranità, sia con il diritto di referendum, sia con il diritto di iniziativa, sia con il diritto di revisione. Il popolo è sempre sovrano, in qualunque momento della sua vita.

Questa è la vera democrazia che noi desideriamo in Sicilia e che auguriamo anche all’Italia.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

FINOCCHIARO APRILE. Nel notevole discorso pronunciato oggi dall’onorevole Lombardi si è accennato all’opportunità dell’abolizione dei prefetti; ma precisamente in tutti e due i nostri congressi noi sostenemmo – e la cosa non è affatto peregrina – l’assoluta necessità della soppressione dei prefetti. I prefetti oggi non sono che gli agenti del Governo, perché devono esercitare sulle popolazioni le pressioni, le minacce, le violenze del Governo. (Rumori – Interruzioni).

Noi auspichiamo, con tutte le nostre forze, la scomparsa dell’istituto prefettizio, amorfo e pericoloso (Commenti), istituto non di schietta origine italiana, ma di pura imitazione napoleonica e borbonica. (Commenti).

Una voce. Vuole per caso l’anarchia?

FINOCCHIARO APRILE. Signori, una delle ragioni per le quali i democratici cristiani, in Sicilia, i vescovi, il clero in genere, si accanirono violentemente contro di noi fu questa: a Palermo, quando noi delineammo lo Stato che vagheggiamo e che auspichiamo anche per l’Italia, noi dicemmo che i contadini e gli operai devono avere una rappresentanza concreta ed effettiva nei Governi. Oggi essi non hanno neppure una rappresentanza formale. Contadini e operai sono al di fuori, per quanto nel Governo siano autorevoli sostenitori dei loro diritti e dei loro interessi. Ma noi pensiamo che gli operai e i contadini debbano partecipare direttamente al governo della cosa pubblica, perché soltanto così essi potranno essere i veri interpreti delle classi lavoratrici siciliane, ed italiane. (Commenti).

Una voce. Ha scoperto l’America!

FINOCCHIARO APRILE. Non pretendo di scoprire nessuna America, ma nessuno ha pensato ancora di attuare tali concetti.

La prima manifestazione del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia ebbe la partecipazione di numerosissimi operai e contadini siciliani. Allora io posi il dilemma: o indipendenza o comunismo! (Rumori).

Io ho sempre creduto e credo nell’avvenire del comunismo! (Applausi a sinistra).

Io non so le ragioni per le quali Togliatti – che io non conosco – non ha partecipato al Governo. Sono certamente delle ragioni che devono meritare la massima considerazione. Io ignoro se l’onorevole Togliatti si prepara a dare l’assalto alla diligenza ministeriale. Se lo facesse ne avrebbe pieno diritto, perché io sono profondamente convinto che la vera forza efficiente del Paese sia oggi la forza comunista! (Rumori – Commenti – Interruzioni al centro).

Ma se Togliatti, com’è più probabile, anziché isterilirsi nella funzione di Governo, sia pure nella funzione prevalente di Capo del Governo, per la quale ha innegabili attitudini, dovesse ricorrere ad altro sistema, egli non avrebbe altra scelta che, quella di scendere in piazza: operai e contadini certamente lo seguirebbero. Ed allora tutta la vostra maggioranza – quanti siete? 200? – a che cosa si ridurrebbe?

Quando gli operai ed i contadini scendessero in piazza, che potrebbero fare per opporsi ad essi le vostre donnaccole dalle quali ripetete il mandato… (Rumori vivissimi – Interruzioni – Scambio di vivaci apostrofi fra il centro e l’oratore – Commenti animati e prolungati).

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, sono costretto a richiamarla all’ordine. Le ricordo che, a norma del Regolamento, al secondo richiamo, sarò costretto a proporre l’esclusione dall’Aula. (Commenti).

È probabile che i Deputati non si rendano conto del significato del richiamo all’ordine.

Voci. Non deve parlare!

PRESIDENTE. Fo notare agli onorevoli colleghi che l’onorevole Finocchiaro Aprile richiamato all’ordine, ha diritto di continuare a parlare. (Applausi).

FINOCCHIARO APRILE. La Balcania e la Germania sono ormai bolscevizzate. Il passo verso l’Europa occidentale è breve. È inutile tentare di opporsi all’avanzata trionfale del comunismo. (Commenti – Interruzioni).

Io ero legato di amicizia personale con Cicerin che conobbi a Genova. Fu una delle persone più care della mia vita. Io fui illuminato da lui sul pensiero di Lenin. Me lo illustrò e mi commentò i suoi scritti. Io vi dico che non so se fosse più il pensiero di Lenin trasfuso nella mente di Cicerin o più il pensiero di Cicerin trasfuso nella mente di Lenin.

PRESIDENTE. Resti all’argomento, e lasci stare Cicerin!

FINOCCHIARO APRILE. Noi abbiamo i nostri amici socialisti. Io ho molta simpatia peri socialisti. (Commenti): sono stato molto vicino a loro nel passato. Quando sorgeva su quei banchi la magnifica figura di Filippo Turati, la sua parola illuminava i nostri spiriti. Noi apprendevamo da lui quella che era allora la scienza del socialismo, che era la scienza della vita, che erano la probità e l’onestà politica. Noi ricevemmo insegnamento da Filippo Turati e diventammo tutti, chi più chi meno, socialisti. Voi comprendete, quindi, la mia simpatia per il partito socialista. Vi aggiungo che dei voti da me riportati in Sicilia, e specialmente a Catania, la maggior parte è dei socialcomunisti indipendentisti.

 

Filippo Turati ebbe il grave torto di non andare al potere quando noi lo scongiuravamo di andarvi e lo scongiuravamo a nome di Francesco Nitti, che lo stimava, lo apprezzava e lo amava. Se i socialisti fossero andati al Governo, molto probabilmente non avremmo avuto l’onta del fascismo.

Penso che il partito socialista sia destinato – adesso spero che non strillerete voi di questa parte sinistra dell’Assemblea – a scindersi, perché non pochi socialisti – ritengo sia questo il pensiero del Vicepresidente del Consiglio onorevole Nenni – andrà verso il comunismo (Interruzioni – Commenti), mentre molti altri dovranno andare a costituire un nuovo partito di centro.

Rimane il terzo partito, il più numeroso, o meglio quello che tale appare: la democrazia cristiana. La democrazia cristiana è l’ultima Thule della borghesia italiana e non tarderà a perdere le sue penne maestre. (Commenti).

Vedete! Io modestamente considero un grave errore quello vostro di essere venuti qui in cosi larga misura. (Commenti). I metodi elettorali non davvero commendevoli del clero italiano e vostri, messi in rilievo l’altro giorno dall’onorevole Lussu, sono metodi che sono stati applicati dappertutto, specialmente in Sicilia. E voi non vi siete ancora accorti che, precisamente in conseguenza di tali metodi, che vi hanno portato qui così numerosi, è venuto formandosi in Italia ed in Sicilia un notevole spirito di reazione anticlericale. (Commenti).

Gli episodi sono noti: un po’ qui e un po’ là i preti sono stati insultati, schiaffeggiati, feriti, cosa che dispiace a chiunque abbia senso di umanità.

Ora, quando furono attuati i Patti lateranensi, le ultime tracce dell’anticlericalismo nostrano erano venute sensibilmente attenuandosi e molti che erano al di là della trincea ricomposero il loro spirito verso una maggiore serenità di coscienza. L’anticlericalismo finì. Non so ora che cosa avreste voi democristiani da guadagnare da un risorgere violento dell’anticlericalismo: credo che non provvedereste né agli interessi del vostro partito, né a quelli dell’Italia.

Io torno a quello che dicevo in rapporto al comunismo.

Vi potrà essere una qualche cosa veramente deprecabile e deprecata da noi che potrà ritardare il fatale evolversi degli avvenimenti: una guerra, la guerra fra l’Inghilterra e la Russia.

A questo proposito, io devo dirvi qualcosa che ha inciso profondamente sull’avvenire della mia terra, della mia Sicilia. Perché noi non domandammo mai nulla agli alleati. Noi crediamo che il popolo siciliano l’indipendenza dovrà sapersela conquistare da sé e che se la conquisterà.

Ma, al di fuori di ogni nostra azione, avvenne questo, che sia l’America, sia l’Inghilterra, avevano cominciato a mettere seriamente gli occhi addosso alla Sicilia ed alla Sardegna.

Voi sapete che nei due trattati di pace, l’uno americano, l’altro britannico, era compresa – e non so se vi sia ancora compresa – la clausola di smilitarizzazione delle due maggiori isole mediterranee. Già erano venuti funzionari in Sicilia: le due grandi potenze si erano divise i porti e gli aeroporti, avevano cominciato a comprare terreni, avevano mandato persino funzionari, molti funzionari siculo-americani che non avevano taciuto lo scopo della loro venuta in Sicilia.

Io seppi che il Governo italiano, nell’imminenza del trattato di pace, che avrebbe dovuto essere stipulato alla fine di settembre del 1945, aveva dato disposizioni perché i capi degli uffici affrettassero i lavori di preparazione delle consegne. Lessi io due telegrammi del Governo italiano al riguardo.

Orbene, la Russia capì che la questione della smilitarizzazione avrebbe finito con lo sboccare fatalmente in un diverso ordinamento politico, costituzionale e statale della Sicilia e della Sardegna, e così il signor Molotov avanzò alla conferenza di Parigi che si teneva in quei giorni la richiesta dell’amministrazione fiduciaria esclusiva della Libia. Perché à Yalta, se non sbaglio, vi era già stato un accordo che l’amministrazione fiduciaria della Libia avrebbe dovuto essere a quattro, cioè dell’America, dell’Inghilterra, della Russia e della Francia. Come mai la Russia si decideva allora a domandare l’amministrazione fiduciaria per sé sola? Voleva la Russia dei compensi nel Medio Oriente, voleva dei compensi nel Dodecanneso? È probabile; ma è molto più probabile che la Russia manovrasse al fine di disinteressare l’America e l’Inghilterra dalla loro influenza nelle isole del Mediterraneo. Fu allora, signori Deputati, che gli angloamericani si ritirarono in buon ordine e la questione siciliana fu tolta dal tappeto internazionale dove era stata posata per tanto tempo e ritornò sul terreno interno.

A noi la cosa è rimasta perfettamente indifferente. Noi affermammo – all’inizio ve l’ho detto, rivolgendoci al Generale Alexander il 23 luglio 1943 – la necessità che la Sicilia diventasse uno Stato libero da confederare con lo Stato o con gli altri Stati italiani o, eventualmente, mediterranei ed europei. La stessa affermazione noi abbiamo fatto durante i comizi e la stessa affermazione facciamo oggi qui. Come ho detto, noi nulla chiedemmo agli alleati. Un collega, di cui non conosco il nome, diceva testé: ma perché vi siete rivolti agli alleati? La questione è che noi libertà non ne avemmo mai; il Governo ce la negò sempre, pervicacemente. Soltanto ora, in questi giorni, c’è stato dato il permesso di pubblicare un settimanale. Noi abbiamo fatto la campagna elettorale senza un giornale.

Noi ci rivolgemmo agli alleati per avere le nostre libertà, tutte le nostre libertà, come gli altri cittadini, e ci rivolgemmo agli alleati dopo di avere ripetute e ripetute volte rivolto i nostri appelli, ma invano, al Governo italiano. Del resto, rivolgersi agli alleati significava non rivolgersi a degli stranieri, ma rivolgersi a coloro che avevano e che hanno l’effettiva sovranità sull’Italia. La piena sovranità non è del Governo italiano, la sovranità è degli alleati e noi avevamo il diritto e il dovere di rivolgerci ad essi. E ci rivolgevamo ad essi per protestare contro il trattamento iniquo, ignobile, infame che ci veniva fatto dal Governo. Noi ci riunivamo pacificamente nelle nostre sedi per discutere le idee che vi ho espresse, idee che non sono affatto blasfeme, che sono le idee che hanno cementato per tanti e tanti anni i più grandi paesi del mondo. Ma soltanto perché erano affermate in Sicilia, le idee confederative dovevano essere considerate come idee di pazzi, di gente che doveva essere messa al bando; e cosi le nostre sedi erano devastate, erano distrutte; i nostri ragazzi martoriati, presi a calci di fucile. Quanti, quanti sono stati i nostri giovani oltraggiati, percossi e feriti! Le nostre sedi erano saccheggiate dai carabinieri in uniforme per ordine di Salvatore Aldisio, come disse un colonnello dei carabinieri.

ALDISIO Ministro della marina mercantile. È una pura invenzione, come tutte quelle che sono uscite dalla vostra bocca.

FINOCCHIARO APRILE. È la sacrosanta verità: siete il responsabile di tanto scempio, siete un traditore della Sicilia! (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti animati).

Voci. Adesso basta!

PASTORE. Perché cerca solidarietà solo da quella parte? (Indica la sinistra). Perché se la prende solo con Aldisio?

FINOCCHIARO APRILE. Ebbene, questo trattamento fu veramente turpe, ve lo dico senza nessun risentimento, perché non ho amarezza personale verso alcuno; ma queste cose avevo il dovere di dire all’Assemblea Costituente, ai rappresentanti del popolo italiano. Gli indipendentisti sono stati trattati in Sicilia come nessun Governo austriaco o borbonico mai trattò i nostri conterranei. Il fascismo non giunse mai a tanta vergogna. (Interruzioni – Commenti). Io ho la documentazione di tutto. I nostri ragazzi, portati nelle carceri, vennero seviziati e torturati. C’era un maresciallo dei carabinieri, un certo Leone, un infame aguzzino, il quale ricorreva a tutti i più bassi sistemi di tortura: metteva i nostri ragazzi nelle famose cassette a scale; faceva loro orinare in bocca; metteva sull’ombelico dei giovani detenuti degli scarafaggi. Questo ha potuto fare il Governo che è venuto dopo la guerra per liberare la Sicilia, per liberare l’Italia. Io non posso ricordare ciò che con orrore.

E si venne agli ultimi tempi, che rivelarono come questa non fosse che una ignobile e turpe speculazione elettorale. Si temeva il successo degli indipendentisti, si aveva paura di loro. Aldisio aveva bisogno ed urgenza di eliminarli. (Interruzioni – Commenti).

E allora, suggestionato da Aldisio, intervenne quel piccolo Salazar che ha fatto ridere l’Italia alle nostre spalle, Parri, ad iniziare il fosco periodo del terrore.

Orbene, fu applicata a noi una disposizione fascista; a noi che, come disse alla Consulta Nazionale Vittorio Emanuele Orlando, eravamo l’espressione del più puro antifascismo, perché il Movimento fu l’accolta dei maggiori esponenti dell’antifascismo siciliano. Questo disse Vittorio Emanuele Orlando. Orbene, noi fummo arrestati come dei delinquenti comuni. Varvaro ed io fummo arrestati da Agnesina, quel turpe funzionario contro il quale i nostri patrioti gridavano tutte le sere alla radio: «Al muro, Agnesina!». Ci avete fatto arrestare da questo fiero mascalzone.

PRESIDENTE. Moderi il suo linguaggio!

FINOCCHIARO APRILE. Ebbene, si ebbe la tracotanza di parlare di internamento, si ebbe la spudoratezza di applicare a noi il decreto emesso da Mussolini nel 1940 contro gli antifascisti, per toglierli dalla circolazione senza le formali garanzie del procedimento per il confino, decreto che Mussolini stesso si vergognò di applicare, decreto che era già decaduto per le dichiarazioni di Poletti «che tutte le leggi fasciste dovevano considerarsi abrogate», decreto che era implicitamente abrogato per il fatto che era completamente contrario al nuovo regime di libertà e di democrazia instaurato in Italia. Bel Governo di libertà e di democrazia! E perché fummo liberati? Per clemenza? Bella clemenza! Noi non fummo liberati dal Governo, noi fummo liberati perché ricorremmo al Consiglio di Stato, il quale fece sapere al Ministro dell’interno, Romita…

ROMITA, Ministro dei lavori pubblici. L’avevo già deciso.

FINOCCHIARO APRILE. Non avevi deciso niente; che liberale sei? Che democratico sei? Che socialista sei? Tu dovevi immediatamente liberarci il giorno stesso che avevi preso possesso del Ministero dell’interno. Questo era il tuo dovere! (Rumori – Commenti).

Ebbene, noi siamo usciti perché il Consiglio di Stato si persuase che quella che era stata commessa verso di noi era un’ignominia ed una infamia.

Cari colleghi di questa parte (Accenna a sinistra), fieri avversari di quest’altra (Accenna al centro), io vi dico che il popolo siciliano indipendentista è molto più generoso di quello che voi credete. Il popolo siciliano indipendentista ha perdonato, ma non dimenticherà mai l’oltraggio che, attraverso i suoi rappresentanti, è stato fatto a tutta la nostra terra. Noi, nonostante tutto, abbiamo sempre raccomandata la calma. Non c’è nessuna manifestazione ed incitamento ostile che si possa attribuire a noi, perché noi sappiamo che cosa significa turbamento dell’ordine pubblico in Sicilia.

Se ci furono dei giovani che in seguito a tutti i martirii loro inflitti dovettero darsi alla montagna, ciò fu per sottrarsi alla persecuzione della più ignobile e turpe polizia che esista in Europa, quella italiana. Il popolo siciliano ha perdonato, ripeto, ma non dimenticherà. Noi indipendentisti continueremo, impavidi, la nostra strada. Noi non temiamo nulla: se dovete arrestarci, arrestateci; se dovete spargere il nostro sangue, spargetelo! (Interruzioni – Commenti).

Già, perché non è stato sparso? Noi abbiamo cinque eroi che sono stati massacrati dalla mitraglia della sbirraglia italiana. (Rumori vivissimi – Interruzioni – Commenti).

Una voce. E i carabinieri che avete massacrato voi?

PRESIDENTE. Onorevole Finocchiaro Aprile, le sue espressioni sono inammissibili. La richiamo all’ordine per la seconda volta. (Vive approvazioni).

FINOCCHIARO APRILE. Noi abbiamo i nostri martiri: Turri, Rosano, Giudice, Ilardi, Di Liberto, i quali sono morti con il nome della Sicilia sulle labbra, avvolti nella gloriosa bandiera rossa e gialla dei Vespri, inneggiando all’indipendenza siciliana; i loro, nomi e le loro memorie sono nei nostri cuori.

Noi continueremo a lavorare per il raggiungimento del nostro scopo ed io vi ripeto che ciò faremo, come ieri e come oggi, nell’interesse della Sicilia, ma soprattutto nell’interesse dell’Italia (Vivi rumori – Interruzioni) perché siamo profondamente convinti che soltanto col sistema confederativo noi potremo realizzare quella unità dei popoli di lingua italiana che il sistema unitario del 1860 non ha realizzato.

Questo per l’onore, per la fortuna e per la gloria d’Italia. (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. (Vivissimi applausi). Mi riservo di rispondere o di prendere in considerazione gli argomenti, per. quanto lo meritano, esposti dall’onorevole Finocchiaro Aprile circa la sua tesi indipendentista, autonomista, ecc., e le critiche al mio ed ai Governi passati.

Però fin da ora debbo deplorare amaramente che egli abbia usato contro organi dello Stato espressioni che noi non possiamo assolutamente accettare. Quando, in generale, si qualificano gli organi dello Stato, gli organi del pubblico ordine, i carabinieri, come «sbirraglia italiana», ricordo una sola cosa: che io recentemente a Palermo, entrando nella caserma dei carabinieri, ho visto una lapide dalla quale risultano i numerosi feriti e morti del corpo dei carabinieri, nella lotta in Sicilia. E devo aggiungere che in quella occasione ho fatto soprattutto la commemorazione di otto carabinieri massacrati da uomini, i quali, senza dubbio, avevano affinità politiche con l’oratore precedente. (Applausi).

Aggiungo di aver sentito con una estrema amarezza – e mi riservo di controbatterle – le erronee affermazioni fatte circa l’atteggiamento del Governo italiano in una certa fase di politica estera nel settembre dell’anno scorso, di cui sarei io responsabile. Aggiungo però – a parte le dichiarazioni che a tale riguardo mi riservo di fare – aggiungo la mia viva deplorazione, il mio accoramento, nel sentire un oratole italiano qui, nella Costituente italiana, reclamare il diritto, e difenderlo, del ricorso agli alleati e agli occupanti contro il proprio Governo nazionale. (Vivissimi applausi – Grida di: Viva l’Italia!).

GUIDI ANGELA MARIA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Lo indichi.

GUIDI ANGELA MARIA. L’onorevole Finocchiaro Aprile, nel suo discorso, ha avuto una parola atrocemente offensiva nei riguardi delle donne democratiche cristiane.

PRESIDENTE. L’ho già richiamato all’ordine per questo fatto.

GUIDI ANGELA MARIA. Io, come le mie colleghe, sento di rappresentare una larga massa di donne democratiche cristiane e simpatizzanti, perciò protesto vivamente perché in questa aula si sia tollerata una parola così brutta, così volgare, e che si riflette su tutte le donne italiane, madri, spose, figlie, sorelle, giovani, che hanno dato tanta parte di loro generosamente, coraggiosamente, eroicamente in questi lunghi anni di sofferenze e di dolori.

PRESIDENTE. Non si è tollerato nulla! Ho richiamato per ben due volte all’ordine l’oratore. Evidentemente non tutti gli onorevoli Deputati conoscono la gravità di questa sanzione. (Vivissimi applausi).

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Sono state presentate due interrogazioni per le quali il Governo ha dichiarato di voler rispondere nella seduta di domani. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge.

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se e quali provvedimenti intenda prendere in seguito al ripetersi dei tumulti provocati in San Severo (Foggia) da elementi armati dopo esplicita minaccia dei dirigenti della locale Camera del Lavoro rivolta all’indirizzo dei rappresentanti del Fronte dell’Uomo Qualunque nella mattinata di lunedì 15 luglio nell’Ufficio comunale del lavoro. Siffatti episodi di cruenta sopraffazione civile – divenuti frequenti e che sembra rispondono ad un piano preordinato – contrastano in modo patente con i propositi platonicamente espressi dal Governo e sottolineano lo stato di voluta impotenza nel quale versano gli organi costituiti a presidio delle pubbliche libertà. Gli interroganti chiedono che provvedimenti della maggiore severità siano presi tempestivamente contro i responsabili non tanto a difesa dei cittadini quanto a salvaguardia dell’autorità dello Stato, che da questi fatti si appalesa sminuita, se non addirittura annientata.

«Miccolis, Trulli, Rodi, Patrissi, Ayroldi, Lagravinese Pasquale».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno sulle misure che intende adottare perché non si ripetano in San Severo (Foggia) incidenti simili a quelli che il 16 luglio hanno portato il lutto in tante famiglie di quell’importante centro agricolo.

«Recca».

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«La sottoscritta chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per assicurare alla scuola un conveniente funzionamento nel prossimo anno scolastico, ed alla classe magistrale la possibilità di compiere serenamente il suo alto ufficio, tenendo presente i desideri espressi dalla classe stessa al Congresso tenutosi in Roma dal 23 al 26 aprile e ribadito al Convegno del C.D.N. del 23 e 24 giugno 1946. Questo allo scopo di evitare manifestazioni di forza contrarie ai sentimenti degli insegnanti, che vorrebbero poter esercitare il loro compito educativo con regolarità. L’interrogante chiede anche quali provvedimenti il Ministro intenda adottare a favore dei maestri che per cause di guerra hanno perduto la casa, le masserizie e gli indumenti, e sono impossibilitati dalle loro misere condizioni economiche a provvedere ai più elementari bisogni dell’esistenza.

«Merlin Lina».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno ed il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se, dopo la famigerata recente amnistia, intendano:

  1. a) rimettere in libertà tutti i poveri ergastolani, che contano trenta o più anni di terribile espiazione e distintisi per buona condotta;
  2. b) provvedere gli ergastolani liberati di ricovero e di assistenza, se sprovvisti di mezzi di sussistenza.

«Tonello».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per sapere quali provvedimenti intendano prendere a favore dei maestri elementari per venire incontro, fra l’altro, alle rivendicazioni giustificate, di cui il Sindacato magistrale si è fatto interprete e difensore: a) dei ruoli aperti; b) dell’adeguamento delle pensioni.

«Lozza, Platone».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del lavoro, per conoscere se allo stato della legislazione vigente e nello spirito della nuova democrazia l’organizzazione sindacale s’intende monopolio della Confederazione Generale Italiana del Lavoro o se viceversa è consentita piena ed assoluta libertà di organizzazione.

«Rodi, Miccolis, Martino, Ayroldi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Governo, sulla situazione attuale dei nostri prigionieri di guerra con particolare riguardo a quelli di Jugoslavia e di Russia.

«Gasparotto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se non ritiene giusto e opportuno accogliere la richiesta dei cooperatori italiani, promuovendo una legge che rivendichi alle cooperative, alle società di mutuo soccorso e agli istituti similari, senza eccezioni di termini di prescrizione e trasferìmento a terzi, la proprietà dei beni sottratti o alienati anche con la parvenza della legalità, durante il regime fascista, e il risarcimento dei danni comunque subiti dagli enti medesimi per le violenze fasciste e perché siano perseguiti civilmente e penalmente i responsabili della violenza distruttrice del patrimonio cooperativo.

«Canevari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per conoscere:

1°) se ritiene che abbiano il diritto di usufruire delle provvidenze, di cui al Regio decreto 6 gennaio 1942 (Gazzetta Ufficiale 16 febbraio 1942), non solo quanti dopo il 16 febbraio 1942, ma anche quelli che, prima di tale epoca e dopo la dichiarazione di guerra, parteciparono ai concorsi; se, quindi, nel bandire il concorso riservato, di cui al Regio decreto su richiamato; per vice segretario di Prefettura, intende ammettere agli orali quelli che prima del 16 febbraio 1942 superarono le prove scritte e non poterono sostenere gli orali, perché sotto le armi o per non aver potuto raggiungere le sedi di esami per ragioni dipendenti dallo stato di guerra;

2°) o se, invece, non. ritiene quanto sub 1°) ed intende, prima dei bandi di concorso, emanare un provvedimento legislativo integrativo, che abbia ad estendere le dette disposizioni a quanti si trovano nelle condizioni di cui alla seconda parte del n. 1°) per eliminare sperequazioni ingiuste e rispettare i diritti quesiti.

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non intenda dare disposizioni, perché si proceda alla ricostituzione dei comuni soppressi dall’ex regime fascista. Risulta, per vero, che non pochi comuni hanno da tempo inoltrato al Ministero le relative pratiche completamente istruite e che inutilmente hanno sollecitato i provvedimenti relativi. Si impongono quindi immediate disposizioni e ciò per un doveroso senso di giustizia riparatrice e per evitare nelle prossime elezioni comunali gl’inconvenienti e le confusioni che derivano dall’attuale ibrida situazione amministrativa di molti comuni italiani.

«Bovetti, Stella».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga opportuno disporre per la sospensione del decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1946, n. 247, con cui si elevava il limite di valore della competenza del conciliatore a lire 5000 e a lire 50,000 quello della competenza pretoria, fino a quando non si attui l’invocata riforma del Codice di procedura civile, in vista del disservizio e delle aggravate difficoltà nella risoluzione delle controversie derivanti dalla mancanza di pretori titolari in un gran numero di preture e dalla insufficienza numerica del personale di cancelleria e nel Mezzogiorno anche per la difficoltà delle comunicazioni.

«Pignatari, Di Giovanni, Gullo Rocco, Fioritto, Musotto, Marinaro, Lopardi, Stampacchia, Preziosi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere quale fondamento abbiano le voci relative alla soppressione del Liceo-ginnasio di Carmagnola (provincia di Torino). L’annunzio di tale provvedimento ha suscitato vivo allarme in una vasta e laboriosa zona agricola-industriale del Piemonte, che invoca di non essere privata di una scuola che vanta tradizioni nobilissime per la cultura e la formazione dei giovani. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bovetti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura (Alto Commissariato per l’alimentazione), per sapere:

1°) se non ritenga opportuno far sospendere la validità dei permessi già concessi e non ancora usufruiti per reperimento olio nella provincia di Reggio Calabria, dove la speculazione ha determinato un fortissimo rincaro del prezzo per il consumo locale dell’olio;

2°) se non ritenga inviare colà in corrispettivo dell’olio esportato, attraverso i suddetti permessi, un quantitativo di riso corrispondente, al fine di equilibrare la deficientissima bilancia alimentare della provincia di Reggio Calabria, poverissima di cereali, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga urgente ed indilazionabile la costruzione dell’acquedotto suppletivo per la città di Reggio Calabria, che soffre di grave deficienza di acqua, come pure degli acquedotti di Staiti, Monasterace, Platì, Ciminà, Plaganica, centri rurali privi assolutamente di acque e nei quali, in diretta concorrenza si registrano, annualmente numerosi casi di tifo endemico, aumentando a tale scopo gli stanziamenti previsti quali fondi della disoccupazione e devoluti al Provveditorato alle opere pubbliche di Catanzaro, dimostratisi d’altronde insufficienti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere le disposizioni impartite in relazione alle vive agitazioni e alle preoccupazioni degli amministratori dei comuni a causa dell’obbligo del pagamento degli stipendi, indennità e gratifiche al personale sospeso per epurazione. Le popolazioni si ribellano al pensiero che i comuni debbano pagare dipendenti invisi per i demeriti e le compromissioni politiche di costoro col nazi-fascismo e colla sedicente repubblica di Salò. Alcuni di detti dipendenti pretendono la corresponsione degli assegni dopo avere spontaneamente abbandonato il loro posto al momento della liberazione. Di qui la reazione delle popolazioni al pensiero di vederli riammessi ai loro posti, non senza rilevare le difficoltà dei bilanci e l’onere derivato ai comuni dal pagamento di altri impiegati in sostituzione di quelli sospesi per epurazione. Dato ciò, l’interrogante chiede altresì se s’intenda emanare provvedimenti ispirati alla equità, alla difesa degli interessi dei comuni e alla preoccupazione di dare soddisfazione alle giustificate reazioni della opinione pubblica interessata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bulloni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura, per sapere se non ritenga opportuno di disporre sollecitamente per un congruo aumento della quota grano, lasciata ai produttori in esenzione dal conferimento e che si palesa insufficiente, tenuto conto del notevole calo, della esclusione dall’assegno riso e pasta e delle esigenze del mantenimento della mano d’opera avventizia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Stélla, Bubbio, Bovetti, Baracco».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura, per conoscere se e quali provvedimenti siano stati predisposti per il preventivo approvvigionamento delle materie fertilizzanti ad equi prezzi, attese le difficoltà che da diversi anni ne hanno impedito la produzione e la distribuzione con conseguente grave depauperamento della fertilità dei terreni. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bubbio, Baracco, Stella».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non si ravvisi la necessità d’impartire precise istruzioni alle Prefetture, perché sia attuato il rimborso delle penali comminate e riscosse dalle Commissioni provinciali di vigilanza sui prezzi; e ciò limitatamente ai casi in cui, a seguito della celebrazione del processo, sia stata riconosciuta dal giudice penale la inesistenza del reato, con conseguente pronunzia del diritto al rimborso della penale già pagata. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bubbio, Baracco».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non ritenga per lo meno inopportuna l’attuazione della legge 31 maggio 1946, n. 560, sulla riforma dell’ordinamento delle Corti di assise, promulgata in periodo di ordinaria amministrazione dal precedente Consiglio dei Ministri, attesoché tale riforma, ispirata a principî assai contrastati dalla scienza giuridica e dalla coscienza pubblica del Paese, involge conseguenze molto notevoli sul funzionamento dell’Amministrazione della giustizia e nel settore più delicato di essa, e merita pertanto di essere adeguatamente maturata e sottoposta all’Assemblea Costituente.

«Perrone Capano, Villabruna, Badini, Cortese».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

1°) a quali concreti risultati siano fin qui giunti i lavori delle Commissioni legislative istituite per lo studio preparatorio della riforma dei Codici, della legge sull’ordinamento giudiziario e della legge di pubblica sicurezza;

2°) se nella necessaria attesa della elaborazione e pubblicazione dei testi definitivi non ritenga la urgenza:

  1. a) di abrogare il vigente Codice di procedura civile per ritornare al procedimento sommario regolato dal Codice del 1865 integrato e modificato dalle successive disposizioni vigenti fino al 1942;
  2. b) di garantire, con norme di legge e con atti positivi di governo, la effettiva indipendenza della Magistratura;
  3. c) di abrogare definitivamente tutte le Magistrature eccezionali in qualsiasi tempo istituite, sia nel campo penale sia nel civile.

«Vigorelli, Gullo Rocco, Di Giovanni, Segala, Morini, Rossi Paolo, Cairo, Musotto, Bocconi, Cartia, Fietta, Priolo, Pignatari, Cosattini, Lopardi, Grilli, Ghidini, Buffoni, Caldera, Greppi, Targetti, Pera».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri interessati quelle per le quali si chiede risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20.35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

GIOVEDÌ 18 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

VII.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 18 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Nell’anniversario della guerra civile spagnola:

Scotti                                                                                                               

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Opzione e sostituzione dei deputati eletti in più circoscrizioni:

Presidente                                                                                                        

Votazione per la nomina di un Vicepresidente e di due Segretari:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio:

Presidente                                                                                                        

Persico                                                                                                             

Giannini                                                                                                            

Lussu                                                                                                                

Russo Perez                                                                                                     

Pellizzari                                                                                                         

Risultato della votazione per l’elezione di un Vicepresidente e di due Segretari:

Presidente                                                                                                        

Svolgimento di interrogazioni:

Presidente                                                                                                        

Mattei Teresa, Segretaria                                                                                

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Badini Confalonieri                                                                                        

Meda                                                                                                                 

Di Vittorio                                                                                                       

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Mattei Teresa, Segretaria                                                                                 

La seduta comincia alle 16,30.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli deputati Mastino Pietro, Costa, Villabruna.

(Sono concessi).

Nell’anniversario della guerra civile spagnola.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Scotti Francesco. Ne ha facoltà.

SCOTTI FRANCESCO. Onorevoli colleghi, oggi nel 10° anniversario di quel 18 di luglio 1936 che segnò un nuovo tentativo delle forze del fascismo internazionale per spezzare in ogni paese le libertà popolari, a nome di quegli italiani che furono in Spagna sotto le bandiere della libertà e del diritto per difendere la Repubblica degli Spagnoli e l’onore d’Italia, io, che ebbi l’onore di combattere alla testa di una divisione repubblicana, chiedo che giunga il saluto del nostro popolo al governo di Giral, il solo legittimo rappresentante del popolo spagnolo. (Vivi applausi).

Giunga il nostro saluto, il saluto di un popolo libero per virtù delle armi e del sangue dei suoi figli, agli uomini e alle donne che si battono contro il carnefice Franco, ai guerrilleros, che dai Pirenei all’Andalusia, dalla Catalogna alle Asturie rinnovano le gesta eroiche dei combattenti dell’esercito repubblicano, agli scioperanti, ai militanti della resistenza. Vada il nostro pensiero commosso ai martiri ed agli eroi che hanno sofferto e soffrono, come hanno saputo fare i martiri e gli eroi della liberazione italiana.

Il 18 luglio del 1936 le forze reazionarie monarchiche hanno voluto pugnalare la libera repubblica che il popolo spagnolo si era data con libero suffragio. Le forze fasciste si erano fatte strumento degli imperialisti di Germania e d’Italia, cosicché quel giorno fu l’inizio della guerra che doveva insanguinare l’Europa e il mondo.

E fu allora che molti tra gli italiani capaci di intendere l’estrema rovina che minacciava la patria vollero prendere le armi, versare il sangue, alzare una bandiera che, monda dallo stemma dei Savoia e impugnata da uomini liberi, dicesse che il fascismo non era l’Italia.

E fu allora che a Madrid, a Guadalajara a Brunete, a Teruen, sull’Ebro, fu salvo l’onore dei soldati italiani. Fu allora che a quanti credettero di poter dire: «gli italiani non si battono» noi rispondemmo: «gli italiani liberi sono come nei giorni della tradizione gloriosa degli eroi, quando si battono per la libertà».

Fu su quei campi, in quella lotta, che noi assestammo i primi colpi a quello che pareva il colosso invincibile del fascismo. Fu lì, col sangue e con le armi che facemmo vere per l’Italia e per l’Europa le parole fiere di Madrid: «No pasaran».

Là fecero la loro esperienza di guerra molti dei migliori uomini della nostra resistenza. A coloro che credettero di poter buttar fango sugli esuli abbiamo risposto con sdegno, ricordando quanti nell’esilio diedero inizio alla riconquista della Patria per tutti gli italiani (Applausi): Longo, Commissario Generale, Nenni, Di Vittorio, e Pacciardi comandante della brigata. E quanti altri su questi banchi! Barontini, comandò a Guadalajara e Giuliano Pajetta e Leone, e Bardini, e Saccenti: e non li ho certo ricordati tutti.

E non possiamo volgere il pensiero a quei giorni e a quella lotta senza ricordare coloro che non rivedranno più l’Italia che hanno sognato, e che non sarebbe senza il loro olocausto.

Ogni corrente democratica ebbe i suoi caduti: ci siano presenti nei nomi di Picelli, deputato al Parlamento italiano, di De Rosa, di Battistelli, di Angeloni.

Noi vorremmo che l’Italia non dimenticasse questo passato che è già storia e che pure è tanta parte del nostro presente.

Avremmo voluto che l’opera nostra fosse ricordata là, dove si è discusso da qual giorno dovesse essere considerata iniziata la cobelligeranza o l’alleanza.

Vorremmo che il nostro Governo riconoscesse i diritti dei combattenti e delle famiglie dei caduti per la causa della repubblica spagnola. Ancora non c’è un segno che dica che quella fu una campagna nazionale. Ancora non c’è un provvedimento che dica che si fa conto delle prove di capacità e di eroismo date in quella guerra asperrima. E, più grave e più doloroso ancora, gli invalidi, i mutilati non hanno un aiuto, e le vedove e gli orfani sono lasciati assistere dalle associazioni democratiche, mentre lo Stato pare ignorare il debito contratto dalla nazione.

L’Italia repubblicana saluta oggi la Spagna repubblicana. Il nostro Governo, che deve assicurarsi l’amicizia dei popoli liberi, deve considerare i modi perché anche oggi il popolo spagnolo senta per noi la simpatia fervida che in quei giorni lo legò a noi.

Le forze democratiche sono in ascesa, presto esse saranno tutte per la Spagnia. Aiutiamole nel loro travaglio, prepariamo al nostro Paese amici sinceri nel Mediterraneo. Noi non possiamo continuare a riconoscere il regime fascista di Franco. Esso non è soltanto la prigione degli spagnoli: è il focolare di una nuova minaccia per tutti.

Siamo insieme alle nazioni che hanno già detto basta a quelle che hanno già tratto un insegnamento doloroso dalla guerra di Spagna.

Può accomunare oggi tutti gli italiani il grido che allora lodammo e che fu inteso in Italia e per il mondo, il grido dei nostri garibaldini, dal 1936 al 1939: «Evviva la repubblica spagnola!». (Vivissimi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Mi associo alle nobili parole con cui l’onorevole Scotti ha ricordato i democratici spagnoli ed i valorosi Garibaldini italiani caduti in terra di Spagna per la difesa della libertà di quel grande popolo. (Vive approvazioni).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, a sostituire nella Giunta delle elezioni gli onorevoli Cappa, Cingolani, Facchinetti, Giolitti, Scoca e Spano, chiamati a far parte del Governo, ho designato gli onorevoli Alberti Antonio, Assennato, Notarianni, Sardiello, Sicignano, Tessitori.

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni sottoelencate e, concorrendo negli eletti le qualità richieste dalla legge elettorale, ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti deputati:

per il collegio VII (Mantova, Cremona): Pajetta Giancarlo, Bernamonti Dante, Caporali Giovanni Ernesto, Pressinotti Pietro, Dugoni Eugenio, Cappi Giuseppe, Avanzini Ennio, Benvenuti Lodovico;

per il collegio XIV (Parma, Modena, Piacenza, Reggio Emilia): Noce Teresa, Massola Umberto, Pucci Alberto Mario, Ferrari Giacomo, Gorreri Dante, Iotti Nilde, Fantuzzi Silvio, Ghidini Gustavo, Bernini Ferdinando, Simonini Alberto, Mazzoni Nino, Merighi Mario, Arata Giuseppe, Micheli Giuseppe, Valenti Michele, Dossetti Giuseppe, Pallastrelli Giovanni, Coppi Alessandro, Marconi Pasquale;

per il collegio XVI (Pisa, Livorno, Lucca, Apuania): Bibolotti Aladino, Barontini Ilio, Baldassari Gino, Bargagna Italo, Pacciardi Randolfo, Matteotti Giammatteo, Lami Starnuti Edgardo, Modigliani Giuseppe Emanuele, Gronchi Giovanni, Togni Giuseppe, Carignani Giovanni, Angelini Armando, Biagioni Loris;

per il collegio XVIII (Ancona, Pesaro, Macerata, Ascoli Piceno): Grieco Ruggero, Molinelli Guido, Ruggeri Luigi, Zuccarini Oliviero, Chiostergi Giuseppe, Bocconi Alessandro, Bennani Luigi, Filippini Giuseppe, Tupini Umberto, Tambroni Armaroli Fernando, Tozzi Condivi Renato, Ciccolungo Nicola, Arcangeli Alessandro;

per il collegio XXI (Aquila, Pescara, Chieti, Teramo): Terracini Umberto, Spataro Giuseppe, Proia Alfredo, Delli Castelli Filomena, Cotellessa Mario, Castelli Avolio Giuseppe, Paolucci Silvio, Lopardi Emidio, Tranquilli Secondo (Ignazio Silone), Rivera Vincenzo;

per il Collegio XXVIII (Catanzaro, Cosenza, Reggio Calabria): Gullo Fausto, Silipo Luigi, Musolino Eugenio, Cassiani Gennaro, Galati Vito Giuseppe, Murdaca Filippo, Carratelli Benedetto, Molè Enrico, Tripepi Domenico, Quintieri Quinto, Mancini Pietro, Priolo Antonio, Lucifero Roberto, Caroleo Francesco, Capua Antonio, Vilardi Giuseppe, Sardiello Gaetano;

per il Collegio XXIX (Catania, Messina, Siracusa, Ragusa, Enna): Scelba Mario, Vigo Gaetano, Nicotra Fiorini Maria, Trimarchi Michelangelo, Terranova Corrado, Salvatore Attilio, Guerrieri Emanuele, Caronia Giuseppe, Li Causi Girolamo, Gallo Concetto, Finocchiaro Aprile Andrea, Cartia Giovanni, Saragat Giuseppe, Di Giovanni Edoardo, Cannizzo Bartolomeo, Penna Ottavia, Martino Gaetano, Basile Guido, Candela Giuseppe;

per il Collegio XXX (Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta): Togliatti Palmiro, Li Causi Girolamo, Natoli Lamantea Aurelio, Orlando Vittorio Emanuele, Nasi Virgilio, Bellavista Girolamo, Aldisio Salvatore, Mattarella Bernardo, Medi Enrico, Ambrosini Gaspare, Borsellino Raimondo Salvatore, Adonnino Giovanni Battista, D’Amico Diego, Volpe Calogero, Finocchiaro Aprile Andrea, Varvaro Antonino, Patricolo Di Majo Gennaro, Russo Perez Guido, Fiorentino Giosuè, Musotto Francesco, Gullo Rocco;

per il Collegio XXXI (Cagliari, Sassari, Nuoro): Spano Velio, Lussu Emilio, Mastino Pietro, Corsi Angèlo, Abozzi Giuseppe, Segni Antonio, Mastino Gesumino, Mannironi Salvatore, Chieffi Francesco, Murgia Francesco, Falchi Battista;

per il Collegio XXXII (Val D’Aosta): Bordon Giulio Giuseppe.

La Giunta delle elezioni nella sua seduta odierna, tenuto conto che non è applicabile al caso dell’onorevole Giuseppe Firrao l’articolo 11 della legge per l’elezione all’Assemblea Costituente, ha proposto la sua convalida per la Circoscrizione di Napoli (XXIII).

Do atto alla Giunta di queste sue comunicazioni e, salvo i casi d’incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

La Giunta delle elezioni, nella seduta odierna, esaminati gli atti relativi alla circoscrizione di Perugia (XIX), che hanno portato per un errore materiale alla proclamazione del candidato Gatti Umberto invece del candidato Santi Ettore, ha dichiarato invalida tale proclamazione ed ha proclamato al suo posto il candidato Santi, che risulta primo graduato fra i candidati della lista n. 3 (Foglia d’edera).

S’intende che da oggi decorre il termine di 20 giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Opzione e sostituzione dei Deputati eletti in più circoscrizioni.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni nella sua seduta odierna ha preso atto delle dichiarazioni di opzione fatte da Deputati convalidati eletti in più collegi, e ha proceduto per le circoscrizioni cui essi hanno rinunziato, all’accertamento dei candidati subentranti, proponendone la proclamazione.

Al Deputato Giammatteo Matteotti, che ha optato per la circoscrizione di Pisa, subentra per la circoscrizione di Roma il candidato Alberti Giuseppe.

Al Deputato Giuseppe Caronia, che ha optato per la circoscrizione di Catania, subentra per la circoscrizione di Roma il candidato Orlando Camillo.

Al Deputato Fausto Gullo, che ha optato per la circoscrizione di Catanzaro, subentra per la circoscrizione di Potenza il candidato De Filpo Luigi.

Pongo ai voti queste proposte.

(Sono approvate).

S’intende che da oggi decorre, nei riguardi dei nuovi proclamati, il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Votazione per la nomina di un Vicepresidente e di due Segretari.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la votazione per la nomina di un Vicepresidente e di due Segretari.

Ricordo agli onorevoli Deputati che, a norma del Regolamento, nella scheda di votazione per i Segretari dovremo scrivere un solo nome.

Estraggo, intanto, a sorte i nomi di dodici scrutatori per la elezione del Vicepresidente e di dodici per quella di Segretari.

(Procede al sorteggio).

Le Commissioni di scrutinio risultano così composte:

per il Vicepresidente: Marzarotto, Arcaini, Rodinò Mario, Volpe, Vallone, Bosco Lucarelli, Colombi, Grazia, Andreotti, Sampietro, Binni e Vischioni;

per i Segretari: Saggin, Bellato, Cevolotto, Cartia, Paratore, De Maria, Stampacchia, La Gravinese Nicola, Perlingieri, Cosattini, Bennani e Pellegrini.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli scrutatori a recarsi nelle apposite sale per procedere immediatamente alle operazioni di scrutinio.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Desidero informare l’Assemblea che vi sono ben 58 oratori iscritti a parlare. Prego gli oratori di essere molto sintetici. Come l’Assemblea sa, a norma del Regolamento, un discorso non si dovrebbe leggere oltre il quarto d’ora.

È inscritto a parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevoli colleghi, desidero esprimere brevemente le ragioni per le quali parlerò a favore del primo Governo della Repubblica italiana. La Repubblica è stata come un sogno irraggiungibile della nostra prima giovinezza ed ora che essa è instaurata per straordinarietà di eventi, noi dobbiamo difenderla ad ogni costo e contro chiunque. Siamo sicuri che il Governo sentirà l’urgenza, anzi direi lo spasimo, delle questioni che dovranno essere risolte durante la sua permanenza al potere, e vorrà prendere i provvedimenti opportuni.

Ciò renderà più facile il compito della Assemblea Costituente, la quale dovrà essere lasciata al suo lavoro, di dare il nuovo volto alla Repubblica democratica italiana.

Questo però non ci dispensa dall’obbligo di accennare ad alcuni degli inconvenienti che si sono verificati e che dovevano fatalmente verificarsi, dato il periodo di due anni di governo dell’Esarchia e dati i metodi che durante quel periodo il Governo ha dovuto adoperare per costituire i suoi quattro Gabinetti. Accenno a quella dosatura, fatta quasi con la bilancia dell’orafo, con la quale i Governi dell’Esarchia hanno dovuto accontentare i sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale col sistema illusorio della pariteticità.

È rimasto purtroppo qualche cosa di tutto ciò.

Noi avremmo preferito che il Presidente De Gasperi, una volta investito del potere di formare il Governo, una volta sentita dai singoli partiti quale era la ripartizione del numero di persone che si dovevano chiamare al Governo, avesse liberamente scelto i suoi collaboratori ed avesse liberamente assegnato i ministeri. È però questo un difetto che si potrà correggere in seguito.

Ed avremmo anche gradito che il numero dei portafogli fosse stato ridotto, non per le ragioni che ha esposto brillantemente l’altro ieri l’onorevole Nitti – perché, me lo consenta l’illustre Maestro, non è con una economia di qualche milione annuo che si possono risanare le ferite inferte dal fascismo al bilancio dello Stato – ma perché sarebbe stato opportuno, nella prima formazione del Governo democratico del Paese, dare maggiore organicità, maggiore plasticità al Governo stesso. Si sarebbe potuto, per esempio, arrivare a quella famosa riforma della unificazione in un unico Ministero dei tre Ministeri delle Forze armate – e dico unico Ministero, non un Ministro con tre Ministeri –; si sarebbe potuto fondere il Ministero del tesoro con quello delle finanze, e questa sarebbe stata riforma opportuna, anche per l’attuale situazione economica e finanziaria. Si sarebbe potuto ricondurre il Ministero del commercio estero, nato per ragioni di opportunità politica in una delle precedenti crisi, ad un Sottosegretariato alle dipendenze del Ministero del tesoro, o del Ministero del lavoro. E così il Ministero dell’assistenza post-bellica avrebbe potuto essere ridotto anch’esso ad un Sottosegretariato di Stato.

Ma mi sono convinto che riforme di questo genere non si possono fare durante le crisi; esse vanno studiate, preparate ed attuate in tempi normali. Durante le crisi tutto è tumultuario, tutto si risolve minuto per minuto secondo le circostanze e secondo gli avvenimenti e non è il momento più opportuno per fare riforme sostanziali nella struttura dell’Amministrazione dello Stato.

Comunque, quello che è avvenuto è, in fondo, il risultato delle elezioni: il Governo rappresenta fedelmente lo specchio della situazione che si è formata nel Paese attraverso le elezioni generali ed attraverso una cattiva legge. In questo sono perfettamente d’accordo con molti altri Deputati. E a questo proposito, onorevoli colleghi, io credo necessario che sia messa subito sul tappeto la questione della riforma elettorale.

Io non so – ci ho pensato parecchio – se il progetto della nuova legge elettorale dovrà essere preparato dal Governo e presentato all’Assemblea Costituente, oppure dovrà essere elaborato da quella stessa Commissione dei 75, che provvederà alla riforma dello Statuto fondamentale dello Stato. Perché si potrebbe osservare: come fa il Governo a preparare una legge elettorale se non sa ancora qual è il sistema attraverso il quale si dovrà manifestare la volontà popolare, se vi saranno due Camere, o se ve ne sarà una sola, come sarà formato il corpo elettorale? Quindi potrà forse dirsi a ragione che dovrà essere la stessa Commissione dei 75 a provvedere alla legge elettorale. Ma qui occorre fare un rilievo: che il progetto della nuova legge elettorale sia preparato separatamente dal nuovo Statuto. Sarebbe veramente pericoloso, veramente grave per tutti, non tanto per i Deputati presenti, quanto per il Paese, che si giungesse, come è successo questa volta, alla vigilia delle elezioni senza avere ancora una legge elettorale formata.

In occasione delle ultime elezioni è accaduto un fatto che tutti ricordiamo. Noi ci siamo addormentati una determinata sera sapendo che una data circoscrizione era formata in un certo modo. La mattina dopo abbiamo letto sui giornali che il Consiglio dei Ministri aveva apportato delle sostanziali modificazioni, trasferendo una provincia da una circoscrizione ad un’altra. Le cose, insomma, sono andate in modo che i candidati e il corpo elettorale non hanno potuto conoscersi e apprezzarsi a vicenda.

Quindi la riforma elettorale dovrà essere preparata al più presto.

Sono un vecchio ostinato sostenitore del collegio uninominale; però non mi nascondo che nell’attuale atmosfera politica dei tre partiti di massa, che hanno oltre 400 deputati, riesce un po’ difficile parlare di collegio uninominale. Temo ormai che il collegio uninominale sia sepolto per sempre. E allora, se non potremo ritornare al collegio uninominale, potremo studiare se c’è qualche modo per innestarlo nello scrutinio di lista e nella rappresentanza proporzionale.

Dagli studi che tutti abbiamo fatto sappiamo che questo modo c’è, come ha dimostrato anche l’Irlanda, che ha un sistema elettorale nel quale i benefici del collegio uninominale sono congiunti a quelli dello scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale.

Così pure, onorevoli colleghi, io credo che noi dovremo correggere almeno due grossi errori della legge che ci ha portati qui dentro. La circoscrizione è troppo vasta, di una vastità veramente assurda, per cui si debbono percorrere centinaia e centinaia di chilometri per portarsi da un punto all’altro del collegio. La circoscrizione provinciale potrebbe essere la più adatta alle nostre condizioni politiche. Così ritengo che sarà opportuno studiare il modo di abolire, o attenuare, la lotta cainesca delle preferenze tra i candidati della stessa lista; o si arriverà all’ordine prestabilito, il che potrebbe essere pericoloso, per quella preponderanza delle direzioni dei partiti che molti hanno lamentato; o si potrà adottare il sistema della preferenza unica, la quale rende meno aspra la lotta e che potrà essere integrata dal voto aggiunto, il quale potrebbe essere un utile correttivo del sistema delle preferenze.

Comunque, chi si dovrà occupare della riforma elettorale dovrà tenere presenti i risultati pratici delle ultime elezioni e trarne gli insegnamenti che ne derivano, analizzando le conseguenze dei difetti del sistema adottato. Queste conseguenze sono gravi. Io ritengo che in quest’Aula manchino alcuni rappresentanti di correnti politiche che sono veramente esistenti e pulsanti nel paese. Vedo che l’estrema destra è quasi completamente vuota. Ora, è possibile che in Italia non vi sia un forte, nutrito partito conservatore, il quale non possa assumere a viso aperto le sue imprescindibili responsabilità? Ho letto gli articoli sul «Risorgimento Liberale» del mio amico Mario Ferrara, in cui si auspica la formazione di questo partito conservatore. Vengano ad occupare questi posti, gli amici conservatori. Discuteremo serenamente con loro. E forse la pletora dei colleghi che stanno nei settori centrali verrebbe ad essere in parte travasata nel settore di destra. (Commenti). Così pure manca un partito di vera democrazia, che riunisca tutte le correnti democratiche, quelle che oggi sono così sparsamente raccolte e nel Partito Repubblicano e nella Democrazia del Lavoro e nel Partito d’Azione e che possono formare un grande partito di democrazia progressiva. L’ha sostenuto anche recentemente l’onorevole Togliatti nell’ultimo numero di «Rinascita». Egli si augura che sorga in Italia questo grande Partito Democratico, il quale assume la difesa di quei ceti medi che sono profondamente liberali, che sono profondamente democratici, di tutti quei ceti, impiegati, commercianti, professionisti, artigiani, ecc. che devono essere politicamente rappresentati.

E lo strumento per arrivare a ciò non può essere che una buona legge elettorale. Ecco perché avrà un’enorme importanza la formazione della nuova legge elettorale con la quale dovrà essere formato il primo Parlamento della Repubblica, che dovrà poi discutere le leggi che dovranno sviluppare praticamente i principî fondamentali del nuovo Statuto che sarà approvato dalla Costituente.

Ma non perdiamo altro tempo e veniamo rapidamente ad esaminare il discorso del Presidente del Consiglio. Il discorso dell’onorevole De Gasperi è veramente poderoso, e di grande respiro. Si direbbe che il Presidente del Consiglio non si sia ricordato che una legge dello Stato obbliga lui e i suoi colleghi a lasciare il loro posto nel termine prefissato di otto, o al massimo dodici mesi. Il suo è un programma di Governo che avrebbe bisogno di quattro o cinque anni almeno per essere portato a compimento.

Comunque esaminiamolo brevemente e cominciamo dal punto più delicato: la politica estera.

Incedo per ignes. Bisogna parlare con senso di responsabilità e di misura. Sarebbe stato forse prudente non parlarne, ma lo faccio, visto che il Presidente del Consiglio aspetta che l’Assemblea esprima l’ansia del Paese e ha invitato la Costituente a dire il suo pensiero in proposito.

E allora io dico che, per renderci conto della situazione attuale, bisogna risalire alle cause remote, se no, non potremo comprenderla; e le cause remote sono la responsabilità del regime fascista. Senza questa premessa, l’attuale situazione avrebbe alcunché di paradossale e di assurdo. Le responsabilità del regime fascista ogni tanto dobbiamo necessariamente rievocarle e tenerle dinanzi agli occhi. Chi ha letto il «diario» di Ciano, chi ha letto i verbali dei comitati di guerra, chi ha riletto i discorsi che furono pronunciati dal famoso balcone di Piazza Venezia, ha la precisa sensazione che la situazione, su per giù, doveva sboccare dove fatalmente è sboccata. Per cambiare questa situazione, ci vorrebbe qualche cosa di simile ad una dissolvenza cinematografica, in cui si vede sparire da lontano all’orizzonte una scena e comparirne a poco a poco un’altra. Noi dovremmo vedere sparire la scena delle tragedie del fascismo, delle parole roventi, degli «imperi che tornano sui colli fatali», della «rottura delle reni» e simili… Tutto questo dovrebbe sparire e dovrebbe venire sulla ribalta, come in una visione cinematografica, il volto della vera Italia, di quella vera Italia che è stata per venti anni antifascista e che ha dato alla causa della libertà e della liberazione i suoi martiri, i suoi eroi, i suoi partigiani, tutto quel meraviglioso fiorire di energie e di volontà che è esploso nella resistenza prima, nella ribellione dopo è che ha portato al trionfo delle idee antifasciste, per cui il popolo italiano è stato il primo, il solo in Europa che ha dato l’esempio di sapersi liberare con le sue sole forze dall’oppressione nazista e fascista.

Se questo fosse avvenuto, la situazione sarebbe oramai diversa. Ma era possibile questo? Non credo che fosse possibile.

Ed allora diciamo la verità. Qui si è accennato da parecchi colleghi che noi siamo stati in parte illusi, in parte ingannati, che i manifesti dei Marescialli americani ed inglesi, che la propaganda radiofonica inglese e americana ci hanno tratti in errore e ci hanno fatto agire come abbiamo agito.

Diciamo la verità, diciamola tutta intera, con dignità è fermezza: noi abbiamo agito come dovevamo agire; era l’unica via che ci era aperta per poter tornare a fronte alta nel consorzio delle nazioni civili, e se oggi ci ritrovassimo nelle stesse condizioni, pur avendo l’esperienza fatta, dovremmo agire nello stesso modo, per poter guardare negli occhi i nostri avversari e per poter dire che da parte nostra nulla abbiamo da rimproverarci.

Dunque, confessiamo il vero: la situazione per noi era ferrea. La nostra volontà è stata forse un po’ forzata, e questo si può riconoscere onestamente senza offendere nessuno.

Per esempio, l’altro giorno, a proposito della polemica rovente che si è scatenata sulla stampa italiana dopo la rivelazione inattesa e tragica della mutilazione dal corpo d’Italia di Briga, di Tenda e del Moncenisio, c’è stato un autorevole giornale, forse il più autorevole giornale che si stampi in Europa e nel mondo, il «Times», il quale, rimproverando, con malcelata ironia, questo irresistibile movimento di pubblica opinione come qualcosa di strano, di inesplicabile, di inverosimile, di eccessivo, scriveva testualmente: «In Italia si è avuta la tendenza ad esagerare l’aiuto dato agli Alleati all’ultimo momento».

Come «all’ultimo momento?». Dall’8 settembre 1943, oppure, se vogliamo essere più condiscendenti, dall’11 ottobre 1943, quando il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania, al 9 maggio 1945, quando cessarono le ostilità, sono passati oltre 19 mesi di durissima guerra, alla quale noi abbiamo partecipato con tutte le nostre forze nei limiti che ci sono stati consentiti, e abbiamo cercato di fare anche più di quello che potevamo fare.

Non solo, ma il 14 luglio 1945, abbiamo dichiarato guerra al Giappone, e allora si prevedeva che la guerra sarebbe durata almeno un altro anno e già si preparava una spedizione di nostri volontari nell’Estremo Oriente (e la nostra flotta gloriosa partecipava da tempo alla lotta contro il Giappone) e se la guerra non fosse improvvisamente e inopinatamente finita con le due bombe atomiche del 6 e 9 agosto 1945, noi avremmo partecipato forse più che come cobelligeranti, come alleati alla guerra.

Quindi non si parli dell’«ultimo momento». Né si dica che abbiamo «esagerato l’aiuto». Ma se le cifre sono esatte, come sono, dei nostri morti, delle città distrutte dalla guerra, se è esatto il giudizio espresso dal Generale Alexander, come si può parlare di esagerazione?

Mi è arrivato proprio stamane un documento che ha importanza enorme. È un omaggio della Presidenza del Consiglio, e credo che anche gli altri colleghi lo abbiamo ricevuto. Sono gli atti del Comando Generale del Corpo volontari della libertà dalla sua costituzione, giugno 1944, allo scioglimento, pubblicati dall’ufficio Storico: sono 172 documenti, dai quali si vedrà quale enorme apporto hanno dato i partigiani alla guerra di liberazione.

Sono nell’aula i colleghi Faralli e Martino, i quali ci possono raccontare come il comandante tedesco della Piazzaforte di Genova si sia arreso alle truppe partigiane di quella città, con un atto regolarmente discusso e firmato.

E come si può dire che è stato inefficace il nostro aiuto e che il nostro apporto non è stato efficiente? Forse il «Times» voleva dire che tutto questo non basta a lavare le colpe del fascismo. Allora entriamo nel campo della valutazione politica, che può essere sempre infirmata. Ma, se non è questa che si deve valutare, si deve riconoscere che le espressioni del «Times» sono eccessive, o per lo meno inopportune.

Si dice che saremo costretti a firmare la pace, a qualunque costo. Allora la questione cambia aspetto: il nostro non sarà più un consenso, sarà una violenza; ed alla violenza si soggiace, non si consente.

Qui, secondo la statistica, ci sono 159 avvocati i quali possono dirci come i contratti, in cui il consenso è stato estorto, sono nulli. Quindi, noi firmeremo, se sarà necessario: ma sarà una firma coatta, che non avrà nessun valore.

La questione della pace con l’Italia resterà aperta, e sarà chiusa in tempi migliori. Perché noi siamo 46 milioni di italiani, e siamo in crescenza. Noi siamo nel centro del Mediterraneo, che non è un mare chiuso, ma è aperto, con lo sbocco in Atlantico attraverso Gibilterra, nell’Oceano Indiano attraverso Suez, e, attraverso i Dardanelli, il Mar Nero e il Mar d’Azov, verso il centro della Russia. Geograficamente, storicamente e demograficamente abbiamo quindi un valore incalcolabile.

Se non oggi, la nostra pace la faremo in tempi meno duri. E le nostre discussioni – onorevole Nenni, quando la successione avrà avuto luogo e Lei avrà il suo posto a Palazzo Chigi – le riprenderemo diversamente. La pace sarà conclusa; il triste e tragico episodio sarà chiuso. Ed allora esamineremo tutta la nostra politica estera, senza megalomanie, ma con grande fermezza; politica di pace, ma politica soprattutto dignitosa, su basi meno fiduciose e meno sentimentali, più prudenti è più realistiche. Insomma, in mezzo ai feroci egoismi delle Nazioni amiche o nemiche, noi difenderemo il sacro diritto della Nazione italiana.

E passo senz’altro, onorevoli colleghi, ad un argomento che l’onorevole De Gasperi non ha toccato affatto – sarà stata dimenticanza o esplicita volontà – la politica interna.

Io penso che egli abbia voluto dire questo: «Poiché io sono Ministro dell’interno, evidentemente non ho bisogno di dire altro; la mia persona vi rassicuri, sia garanzia che la politica interna sarà fatta nel modo migliore».

Se fosse presente l’onorevole De Gasperi –   ad ogni modo gli sarà riferito – io vorrei dirgli che attendiamo da lui una parola di conforto sulla politica interna.

Vogliamo essere rassicurati sul rispetto dell’ordine pubblico e della legge. La pubblica sicurezza ed i carabinieri debbono funzionare e riacquistare il loro antico prestigio, anzi devono aumentarlo nel nuovo regime repubblicano.

Vogliamo che si faccia la lotta contro il brigantaggio e contro il banditismo. Vogliamo, se occorre, una legge speciale; si potrebbe ricordare la legge Pica. Vogliamo una legge severissima contro coloro che rendono insicura la strada pubblica. La sicurezza delle strade è il primo indice di civiltà di un popolo.

E vogliamo la lotta contro la depravazione e la delinquenza minorile.

Non si dica che è un fenomeno del dopo guerra: osservo che la guerra si va allontanando nel tempo e la situazione va sempre peggiorando. Noi ne abbiamo avuto un esempio ben più tragico del nostro nell’altro dopo guerra, l’esempio russo. In Russia vi erano 7 milioni di ragazzi abbandonati a se stessi. Eppure la Russia ha saputo con sagaci provvedimenti riassorbire questi 7 milioni di «brespisorni», rieducarli, portarli nelle officine e nella milizia, e sono poi diventati gli operai e i soldati che hanno portato le armate rosse vittoriose da Stalingrado a Berlino.

Si può fare, si deve fare qualcosa. Ed è colpa enorme dello Stato italiano di non provvedere al problema dei giovani per riportarli sulla via dell’onore, perché possano essere i buoni cittadini di domani. (Applausi).

Vi è un istituto che può essere utile, anche se di origine fascista: l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. Lo si adatti, si faccia in modo che serva a togliere la vergogna degli «sciuscià» e delle «segnorine», che infestano le nostre strade. Èuna situazione morale che fa vergogna al nostro Paese anche di fronte agli stranieri che vengono in Italia, o che in Italia sono costretti a vivere.

Ma vi è un’altra lotta che il Ministro dell’interno non fa, quella contro la delinquenza comune. E mi rivolgo all’onorevole Nenni che rappresenta in questo momento il Governo.

Per i delinquenti comuni non dovrebbero esistere amnistie: il delinquente comune non ha il diritto di beneficiarne. Durante il regime fascista, protrattosi per venti anni, le amnistie sono state dieci. Io che ho esercitato intensamente la professione di avvocato, come unico rifugio della mia superstite attività, so che i delinquenti non sono andati quasi mai in galera. Ogni due anni vi era un’amnistia e i delinquenti passavano incolumi tra le maglie della giustizia. Si potranno fare dei condoni: il Presidente della Repubblica potrà usare del diritto di grazia, caso per caso, per raddrizzare qualcosa che stoni col concetto di una superiore giustizia. Ma in massima l’amnistia ai delinquenti comuni non si deve concedere ed io propongo che non se ne facciano più se non in casi eccezionalissimi. Ritengo ad ogni modo che dalla nuova costituzione sarà stabilito che l’amnistia sia concessa per legge, e allora sarà il Parlamento che di volta in volta ne vaglierà l’opportunità e ne stabilirà i limiti ed i criteri. (Approvazioni).

Altro argomento. Il Presidente ha fatto un cenno alla questione del Mezzogiorno, e ne hanno parlato anche i colleghi Nitti e Labriola.

È un problema che non si può trattare per cenni. Il Presidente del Consiglio ha detto che bisogna livellare le condizioni del Sud con quelle del Nord. È la solita promessa: tutti i Presidenti del Consiglio, dal 1860 ad oggi, e tutti i discorsi della Corona dal 1860 all’ultimo, hanno sempre fatto un cenno, obbligatoriamente, al problema del Mezzogiorno. Poi, passato il periodo della discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio o sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona, tutto è stato dimenticato.

È un problema che la Repubblica italiana dovrà risolvere radicalmente.

Il problema va esaminato sotto il profilo storico, perché è un problema che ha radici storiche: si riconnette al modo con cui fu fatta l’unità d’Italia. L’unità fu compiuta facendo centro sul Regno del Piemonte; fu fatta quando tra il Nord e il Sud esistevano veramente profonde differenze e condizioni diverse di civiltà; fu fatta quando ragioni strategiche obbligavano a difendere i valichi alpini per le condizioni incerte del nuovo Regno rispetto alla Francia da una parte e alla Germania dall’altra, che rendevano necessario utilizzare tutte le possibilità di difesa; quindi movimenti di truppe, linee ferroviarie strategiche, grandi strade su cui far passare i traffici per evenienze di guerra. A tutto ciò poi si aggiunse un’altra ragione che non era di ordine politico, ma di ordine economico: il regime doganale, che fu protezionistico per la nascente industria del Nord, la quale aveva tutto l’interesse ad avere le materie prime a prezzi adeguati per potersi sviluppare e poter trovare quindi un campo di smercio colossale nel Sud, che divenne una vera e propria colonia del Nord. Mi ricordo una frase dell’onorevole Nitti, il quale ha scritto per lo meno una decina di libri sulla questione del Mezzogiorno, che diceva che il Sud costituiva una colonia più redditizia e più popolosa del Canadà e dell’Australia riunite insieme. Tutto ciò spiega come si siano formate le attuali condizioni d’inferiorità economica nel Mezzogiorno d’Italia.

Ma oggi la situazione è diversa: non c’è più la monarchia piemontese; il dislivello culturale e ambientale tra Nord e Sud, nel lungo periodo di tempo, si è attenuato e si è venuto formando, come tra vasi comunicanti, un livello unico. Le ragioni strategiche sono completamente scomparse e infatti noi abbiamo visto in questa guerra che i nemici non passano più per le Alpi, come fece Annibale da Cartagine, per scendere a Roma; adesso si sbarca in Sicilia, si sbarca a Salerno, si sbarca ad Anzio, quindi le pretese ragioni strategiche a favore del Nord non esistono più.

Non ci devono essere più i parenti poveri del Mezzogiorno, non ci devono essere più le due Italie, l’Italia ricca e l’Italia povera, l’Italia barbara, come la chiamò una volta il Niceforo, e l’Italia civile.

Noi vogliamo che al Mezzogiorno finalmente sia resa giustizia e che ci sia comprensione dei bisogni del Sud. Noi vogliamo che questo sia fatto da questo Governo, anche perché l’onorevole De Gasperi è il deputato che ha avuto più voti in tutto il Mezzogiorno: primo eletto a Napoli e Caserta – XXIII circoscrizione – con 115 mila voti di preferenza, molti di più dei voti di Giovanni Porzio, dei voti di Nitti, dei voti di Corbino, dei voti di Croce. È il deputato che è più amato e più benvoluto da tutto il Mezzogiorno d’Italia. Anzi dirò che se io fossi stato nei panni dell’onorevole De Gasperi avrei fatto una cosa molto semplice, avrei optato per Napoli.

Sarebbe stato simpaticissimo e significativo il fatto di un deputato trentino, che ha avuto a Trento 17 mila preferenze, diventato deputato di Napoli, dove ha avuto 115 mila preferenze. Si tratta, onorevole Presidente del Consiglio, di 115 mila elettori; è un popolo, è una intera città che ha voluto esprimere la sua fiducia nell’onorevole De Gasperi e che ha il diritto di chiedere che si faccia subito qualche cosa.

L’onorevole De Gasperi, primo eletto di tutto il Mezzogiorno, ha l’obbligo morale di affrontare il relativo problema. Il Mezzogiorno ha bisogno di strade, di ponti, di acquedotti, di case, di scuole; ha bisogno di giustizia tributaria; ha bisogno di decentramento amministrativo; ha bisogno che si creino e si rafforzino le industrie meridionali, perché non è vero che nel Sud siamo privi di materie prime. Le materie prime, non ci sono neanche nel Nord: non ci sono miniere di carbone, o pozzi di petrolio, o foreste dove si produca la gomma, nella valle padana. Le materie prime mancano nel Nord come nel Sud; anzi il Sud ha una materia prima che nel Nord non c’è: la sua agricoltura, la quale con i suoi prodotti pregiati può essere fonte di industrie ricchissime che si possono largamente incrementare. Si rafforzino le modeste industrie meridionali; se ne creino delle nuove, e allora vedrete come le cose cambieranno rapidamente.

Il Presidente del Consiglio dei Ministri, parlando della politica estera, parlando della situazione in cui si trova oggi l’Italia, ha detto una frase che ho voluto notare: e cioè che l’Italia nel campo internazionale soffre di «insufficiente ossigenazione». La frase mi è piaciuta per la sua plastica evidenza: di «insufficiente ossigenazione» soffre oggi l’Italia meridionale. Bisogna darle questo ossigeno. Ma bisogna dire che, oltre l’insufficienza di ossigeno, c’è anche l’insufficienza vascolare, cioè di quelle vie di comunicazione che sono le arterie dello Stato. Dia l’onorevole De Gasperi inizio a questo programma pratico, che anche in otto o dodici mesi potrà essere in parte realizzato.

E poiché ho parlato di autonomie locali, che sono uno degli elementi attraverso i quali il Mezzogiorno potrà avere nuovo e florido sviluppo, mi sia concesso di dire che l’onorevole De Gasperi ha fatto parola anche delle autonomie locali, ma con un accenno troppo generico. Ha detto che bisognerà occuparsi delle autonomie comunali e che bisognerà dare un avviamento alle autonomie regionali.

Accetto come promesse questi accenni che sono un po’ vaghi: siamo ancora nel campo generico, non in quello specifico.

Comunque, siccome questa è materia che dovrà essere discussa dalla Commissione dei 75, e poiché sono fermamente convinto che l’ordinamento regionale dello Stato, come sistema strutturale, dovrà essere sostituito all’attuale ordinamento accentratore, perché noi vogliamo le regioni – e non siamo federalisti, onorevole Nitti; nessuna paura quindi per l’unità dello Stato: l’unità dello Stato sarà rispettata e rinsaldata attraverso le regioni – noi ci accontentiamo anche di questo.

Raccomandiamo comunque all’onorevole De Gasperi ed ai suoi collaboratori che ogni volta che nel Consiglio dei Ministri si parlerà di qualche provvedimento di indole regionale, ne approfittino per affermare il criterio dell’autonomia delle regioni. Noi crediamo, come diceva Mazzini, che tra il Comune e la Nazione c’è spazio per un solo organo intermedio: la Regione, e speriamo che l’Assemblea Costituente della nuova Repubblica Italiana affermerà il concetto dello Stato regionale.

E vengo rapidamente, perché non voglio tediare l’Assemblea Costituente con un lungo discorso, alle riforme sociali.

L’onorevole De Gasperi ha parlato a lungo della riforma agraria: è un tema di grande attualità, ed è un tema che fa veramente tremare le vene e i polsi. La riforma agraria, nelle poche enunciazioni dell’onorevole De Gasperi, non abbiamo ben capito in che cosa consisterà; comunque, sembra che si tratti di una vera e completa riforma. Io ho circa la riforma agraria una sola idea: essa deve servire soprattutto a dare il massimo di produttività alla terra. Questa deve essere la vera profonda riforma agraria: la terra non deve essere sterile, abbandonata, incolta; deve dare il massimo rendimento che giovi a chi lavora la terra e anche al complesso della vita nazionale. Comunque è una riforma che incide certamente sulla materia costituzionale, e allora, per l’articolo 3 del decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, questa questione dev’essere portata all’Assemblea Costituente. Non mi pare che ci debba essere alcun dubbio al riguardo. Comunque, se un dubbio ci fosse, credo che il Governo farà bene ad avvalersi del primo capoverso di detto articolo, che costituisce una specie di valvola di sicurezza, quello per cui il Governo potrà sottoporre all’esame dell’Assemblea Costituente qualunque disegno di legge per cui ritenga opportuna la deliberazione dell’Assemblea medesima. Quindi della riforma agraria dovremo occuparci ampiamente, quando il Governo ci presenterà il relativo disegno di legge.

Inoltre credo che dovrà essere portato all’Assemblea Costituente il disegno di legge relativo ai danni di guerra. Anche questo è un problema vastissimo. I precedenti Governi hanno provato più volte ad affrontarlo, ma le difficoltà tecniche sono state tali e tante che, dopo molte discussioni da parte di vari Comitati, il progetto di legge non è mai arrivato ad una conclusione pratica. Anche questa materia dovrà essere portata all’Assemblea Costituente, per le stesse ragioni esposte a proposito della riforma agraria.

È un problema che interessa milioni di persone: per avere un’idea dell’importanza di questa questione basti dire che nelle ultime elezioni politiche i sinistrati di guerra hanno presentato liste di loro candidati, perché volevano che all’Assemblea Costituente ci fossero loro esponenti per difenderne i diritti. Queste liste non hanno avuto molta fortuna; però possiamo assicurare i sinistrati di guerra che la loro voce sarà raccolta dai membri dell’Assemblea Costituente e sarà fatta ascoltare dal Governo.

Un altro problema a cui ha accennato l’onorevole De Gasperi è quello della difesa sociale. Egli ha detto che bisognerà prendere dei provvedimenti contro le malattie professionali, contro la malaria, contro la tubercolosi e ha detto che bisognerà riformare il sistema assicurativo. Ha accennato a questo riguardo ad una Commissione esistente presso il Ministero dei lavori pubblici (non so perché sia presso il Ministero dei lavori pubblici). Io         ho voluto informarmi a che punto sono arrivati questi lavori. Mi è stato detto che la Commissione non è stata mai convocata! Secondo me, il problema dovrà essere esaminato molto diversamente. Io credo che qui bisognerà fare un nuovo Ministero (non si allarmi l’onorevole Nitti, perché in questo caso si tratterebbe di abolirne due) e precisamente il Ministero della difesa sociale, che dovrebbe assorbire il Ministero del lavoro e l’Alto Commissariato della sanità e dell’igiene. Questa è una mia vecchia idea. Queste idee vanno naturalmente discusse in un tempo di mare calmo e non quando si tratta della formazione di un nuovo Governo. Il            Ministero della difesa sociale dovrebbe occuparsi di tutte le questioni riguardanti la sanità pubblica e la previdenza sociale e armonicamente riunirle con unicità di indirizzo e praticità di azione. È un problema assai importante che è stato egregiamente risolto in altri paesi (Inghilterra, Svezia), e sarebbe opportuno che lo fosse anche in Italia.

E vengo ora rapidamente all’ultima parte della mia breve disamina: la politica finanziaria.

Il punto cruciale della crisi è stato proprio questo, la permanenza o meno dell’onorevole Corbino nel Ministero. L’onorevole De Gasperi non ha voluto privarsi del suo collaboratore ed ha fatto benissimo. Non si cambiano i cavalli durante il guado e non si cambia il nocchiero durante la tempesta. Non perché sono stato modesto collaboratore dell’onorevole Corbino, ma perché l’ho visto alla prova, posso dire che veramente da lui emana un senso di fiducia e di tranquillità, che ha avuto un potere sedativo e calmante nella bufera della vicenda monetaria.

Non è, onorevole Nitti, né la cura Coué, né la questione della Christian Science, perché, se mai, l’onorevole Corbino sarebbe lui o il dottor Coué o la Mary Baker, e noi saremmo i suoi pazienti o i suoi seguaci. In realtà, l’onorevole Corbino ha un felice intuito ed un senso ottimistico della vita, indispensabile in un uomo di Governo, perché il popolo si nutre di speranza e segue volentieri chi lo fa bene sperare. Il popolo, in fondo, è profondamente ottimista. A Roma si dice: «tira a campà», quindi ognuno cerca di augurarsi un domani migliore. Chi gli fa intravvedere questo domani ha certamente successo, e questa è una delle ragioni del successo psicologico e pratico dell’onorevole Corbino.

Comunque, quello che è pacifico è che il cambio della moneta non si farà più. Forse bisognerà farlo; ma non nelle condizioni in cui lo aveva previsto l’onorevole Soleri, il quale aveva un programma organicamente preciso e coordinato nei tempi. Egli diceva: prima facciamo il prestito «ponte» nell’Alta Italia, che darà un gettito di 40-50 miliardi; poi, immediatamente dopo, facciamo il cambio della moneta, che produrrà un vantaggio, con un piccolo taglio, di qualche centinaio di miliardi, e poi applichiamo l’imposta progressiva sul patrimonio e con questo complesso di riforme economiche e finanziarie rimetteremo, se non in pareggio, quasi a posto il bilancio dello Stato, in modo da potere, entrando a far parte degli accordi di Bretton Woods, affrontare la nuova situazione finanziaria.

Tutto questo non si può fare più; comunque, il cambio della moneta, ai puri fini statistici, lo farei ugualmente e subito, perché si potranno guadagnare – sulla carta, perché non entrerà un soldo nelle casse dello Stato – 20 o 30 miliardi. Oggi, in fondo, non sappiamo quanta è la moneta circolante, non sappiamo quanta moneta ha emesso la repubblica di Salò e quanta è stata stampata dai tedeschi; quindi il cambio alla pari ci darà almeno questa sicurezza, che, dopo un certo giorno, la moneta circolante ammonterà ad una data cifra, sicura e fissa. Poi in settembre è annunziato – del resto c’è un decreto che lo dice – che verrà emesso il prestito della ricostruzione, che darà un gettito presumibile di 250 miliardi; poi avremo un’imposta patrimoniale, con esenzione dei patrimoni inferiori a 50 milioni. Io credo che questa cifra sia eccessiva: si potrebbe ridurre a 10 milioni, cioè a circa mezzo milione, anteguerra, e questa non è una cifra che possa spaventare nessuno.

Con questi provvedimenti si potrà superare il capo delle tempeste della situazione monetaria. Quale deve essere lo scopo? Impedire l’inflazione.

Proprio oggi leggevo sul Globo una notizia da Budapest, la quale diceva che prossimamente entrerà in circolazione a Budapest carta moneta spicciola del taglio di 100 milioni di «pengö»: il che vuol dire che con 100 milioni di «pengö» non si compra nemmeno un giornale. L’inflazione rappresenta la rovina di tutti e prima di ogni altro dei ceti medi e dei ceti a reddito fisso.

Ma non vogliamo neppure la deflazione, perché questa porterebbe a gravissime conseguenze finanziarie. Noi vogliamo la stabilizzazione, la difesa della lira, in modo che la moneta riacquisti a poco a poco il suo valore, perché non è il segno monetario che vale: il segno monetario è un simbolo. Quello che conta è il potere di acquisto della moneta. Si impone quindi quel programma di lesina, al quale ha accennato altra volta l’onorevole Corbino, per cui bisogna ridurre le spese più che sia possibile. E riduzioni di spese in Italia se ne possono fare moltissime. Vi è stata una Commissione di Sottosegretari di Stato, da me presieduta, che il 30 giugno ha chiuso puntualmente i suoi lavori in merito alle possibili riduzioni di spese nelle varie Amministrazioni, e spero che tutti i colleghi potranno tra breve ricevere la relazione stampata, la quale vi dirà che, rivedendo le spese in ogni Ministero, si possono economizzare dozzine di miliardi.

Un motivo di dissenso con il programma di emergenza del Governo è quello che concerne il premio della Repubblica.

Nel 1945 si cominciò col premio della liberazione; poi dopo tre mesi si dovette dare il premio estivo, tre mesi dopo un altro premio autunnale, ed un altro ancora a Natale. In sostanza si diede della carta che non valeva quasi niente, perché contemporaneamente venivano aumentati i prezzi, ed i premi erano assorbiti prima ancora di essere pagati. Non è così che si deve fare.

Nessuno mette in dubbio la necessità di andare incontro ai bisogni della classe operaia e della classe impiegatizia. Siamo perfettamente d’accordo che le attuali condizioni di vita sono intollerabili per questi lavoratori, e specialmente per la classe degli impiegati. Anzi è bene che da questa tribuna parta una parola di incoraggiamento agli impiegati, che sono i più utili e fedeli collaboratori dello Stato e sono ridotti a vivere di espedienti. La macchina burocratica dello Stato andrà in rovina, se non riusciremo a dare un minimo di tranquillità e di benessere alle masse impiegatizie.

Bisogna preoccuparsi di questa situazione e provvedere. Ma come? Lavorando di più, producendo di più, esportando di più. Lavorare, produrre, esportare: questo è il trinomio sul quale si deve basare la nostra economia del dopoguerra. (Commenti).

Comunque, vi sono provvedimenti di urgenza che bisogna prendere. Vi sono i disoccupati, e sono schiere enormi. Vi sono i reduci che ritornano e che debbono trovare lavoro. Io sarei favorevole ad una politica dei lavori pubblici, la quale, onorevole Romita, vorrei che fosse limitata a lavori pubblici veramente urgenti, utili e necessari, e sono già tanti. Ho veduto operai che scavavano terra, facendo una buca e buttando la terra in una altra buca. Questo non è un lavoro pubblico utile. Dove la guerra è passata vi è ancora molto da ricostruire. Basta pensare alla Romagna e particolarmente a Rimini, alla Lunigiana, alle strade dove quasi tutti i ponti sono distrutti, e andando in automobile si trovano sempre gli stessi passaggi obbligati agli stessi ponti rotti, senza che nessuno cominci a ricostruirli. Se poi scendiamo verso il Meridione, troviamo intere città distrutte. Cassino, la città martire, non esiste più ed aspetta sempre la sua ricostruzione, che è un dovere di solidarietà nazionale!

Abbiamo Gaeta, Formia, Pontecorvo, Benevento, Capua, centinaia di paesi, tante e tante città che aspettano di essere ricostruite. Quindi opere pubbliche necessarie, indispensabili, urgenti, che possono dar lavoro a migliaia e centinaia di migliaia di disoccupati. Facciamo questa lotta contro le rovine, onorevole Romita, e facciamola con dei piani, anche di più anni se si vuole. L’inverno si approssima e bisogna cominciare subito. E qui, mi consenta l’onorevole Nitti, io proporrei la nomina di un sottosegretario per le abitazioni. In Inghilterra c’è un Ministro. Onorevole Romita, lei è molto dinamico, ma se Ella avesse un ufficio apposta, che si occupasse soltanto della ricostruzione delle case distrutte e spiegasse la sua opera unicamente a questo scopo, io ritengo che ciò sarebbe veramente utile. Ricordo all’onorevole Romita, che è ingegnere, un proverbio inglese, secondo il quale dove lavora il muratore lavorano tutte le industrie, si sviluppano tutte le attività, si mettono in moto tutti i settori.

Onorevoli colleghi, ho finito. Ho detto brevemente, senza nessuna intenzione di critica, ma con intenzione di incitamento, le ragioni per le quali darò la mia piena fiducia al primo Governo della Repubblica italiana; fiducia che è anche speranza! (Vivi applausi).

Risultato della votazione per l’elezione di un Vicepresidente e di due Segretari.

PRESIDENTE. Comunico il risultato delle votazioni per l’elezione del Vicepresidente dell’Assemblea Costituente:

Votanti        408

Hanno ottenuto voti gli onorevoli Deputati: Grandi, 245; Venditti, 29; Lucifero, 11; Tupini, 4; Lussu, 3; Andreotti, 2; Spataro, 2; De Vita, 2; Labriola, 1; Longhena, 1; Cairo, 1; De Giovanni, 1; De Gasperi, 1; Proia, 1; Guidi Angela, 1; Bencivenga, 1; Quarello, 1; Sforza, 1; Persico, 1; Schede bianche, 95; nulle, 4.

Proclamo eletto Vicepresidente dell’Assemblea Costituente l’onorevole Grandi. (Applausi).

Comunico il risultato della votazione per l’elezione di due Segretari dell’Assemblea Costituente:

Votanti        408

Hanno ottenuto voti gli onorevoli Deputati: De Vita, 175; Riccio Stefano, 137; Capua, 32; Lussu, 4; Bovetti, 2; Silipo, 1; Togliatti, 1; Sullo, 1; Russo Perez, 1; Restagno, 1; Valmarana, 1; Grandi, 1; Longhena, 1; Bonino, 1; Geuna, 1; Scotti, 1. Schede bianche, 31; nulle, 16.

Proclamo eletti Segretari gli onorevoli De Vita e Riccio Stefano. (Applausi).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Aldisio – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Ayroldi – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Battisti – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernamonti – Bernardi – Bernini Ferdinando – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bibolotti – Binni – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonfantini – Bonomi Ivanoe – Bordon – Borsellino – Bosco Lucarelli – Bosi – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Buonocore.

Cacciatore – Caccuri – Caiati – Cairo – Calamandrei – Caldera – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Candela – Canepa – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Caroleo – Carpano Maglioli – Carratelli – Cartia – Caso – Castelli Avolio – Castiglia – Cavallari – Cavallotti – Cevolotto – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cimenti – Clerici – Codignola – Colitto – Colombi Arturo – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corassori – Corazzin– Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Costa – Covelli – Cremaschi – Crispo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Carlo Gerardo – De Filpo – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – Di Fausto – Di Giovanni – Dominedò – D’Onofrio – Dozza – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Faccio – Falchi – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gorreri – Gotelli Angela – Grandi – Grazia Verenin – Greppi – Grieco – Grilli – Grisolia – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela– Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti_Nilde.

Jacini – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – Lami Starnuti – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Giovanni – Lombardo Matteo Ivan – Longhena – Lopardi – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lupis – Lussu.

Macrelli – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Manzini – Mariani Enrico – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Enrico – Martino Gaetano – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattei Teresa – Mazza – Mazzoni –        Meda Luigi – Medi Enrico – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montagnana Rita – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morini – Moro – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Musolino – Musotto.

Nasi – Negarville – Negro – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Oro – Noce Teresa – Notarianni – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Patricolo – Patrissi – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pellizzari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Persico – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignatari – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Ponticelli – Porzio – Pratolongo – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Romita – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Salvatore – Sampietro – Sardiello – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Segala – Sereni – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Simonini – Spano – Spataro – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Terracini – Terranova – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tomba – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Treves – Trimarchi – Trulli – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vanoni – Venditti – Vernocchi – Viale – Vicentini – Vigo – Vigorelli – Villardi – Villabruna – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Si riprende la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. È inscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Onorevoli colleghi, è necessario, per me e per chi condivide le mie idee, che vi sia una documentazione di quanto avrò l’onore di dirvi. L’ora che volge non consente improvvisazioni nemmeno nel parlare.

Per quanto poco possa pesare, in una Assemblea dominata per quattro quinti dai partiti qualificati di massa, noi non possiamo concedere la nostra fiducia al Governo formato dall’onorevole De Gasperi.

Il Gruppo Parlamentare Qualunquista non intende però, con questa prima e ferma dichiarazione, preannunziare un’opposizione sistematica in ogni caso e a qualunque costo. Il giorno in cui fosse necessario un atto di solidarietà, specialmente nei confronti dello straniero, mai alleato e tutt’ora nemico, noi non esiteremmo a compierlo.

Non censurerò l’onorevole Presidente del Consiglio per il numero dei Ministri ch’egli ha ritenuto indispensabile chiamare ad aiutarlo, non solleverò obiezioni sul gaietto sciame di Sottosegretari che con i numerosi Ministri collabora. Non è su questo e su altri dettagli che si può basare una critica che, almeno per la parte a me affidata, vuol essere generale, e impostare un problema politico che riteniamo fondamentale. Il dissenso, purtroppo insanabile, fra l’onorevole De Gasperi e noi non insorge tanto a cagione di tutti o di taluno degli uomini che compongono il Governo, quanto sullo spirito che ha presieduto alla composizione di questo Governo.

Su questo particolare argomento siamo debitori, all’onorevole Terracini, d’una informazione. Egli ha detto che noi siamo contrari a tutti i Governi di questi ultimi due anni e che la nostra pretesa di volerne invalidare la legislazione è, in un certo senso, naturale, data «la parte» nella quale militiamo. Non è esatto, e colgo volentieri, l’occasione per precisare all’onorevole Terracini che noi siamo contrari non solo ai Governi degli ultimi due anni, ma a tutti i Governi che si sono succeduti in Italia dal 1914.

Eravamo giovani in quell’anno felice del nostro Paese, e mai, inseguendo, come inseguivamo, altre chimere, avremmo potuto prevedere che un giorno, trentadue anni più tardi, il nostro destino bizzarro ci avrebbe portati a commemorare quell’anno nel Parlamento d’Italia, di cui una sincera modestia e un’effettiva impreparazione non c’incoraggiavano a sognare di poter mai far parte.

 

Fu in una giornata del luglio di quell’anno, come questo luglio afoso e grave, ma con la gente preoccupata soltanto di lieti problemi balneari, che improvvisamente echeggiarono le rivoltellate di Sarajevo che uccisero l’Arciduca Francesco Ferdinando di Asburgo e la contessa di Hohemberg. Pochi giorni dopo, l’esercito austriaco attaccò la Serbia, lo Czar firmò l’ordine di mobilitazione generale, la Germania dichiarò guerra alla Russia e alla Francia. Il 4 agosto l’Inghilterra entrò nel conflitto che divenne mondiale: e da quel giorno l’Italia, che non aveva avuta nessuna delle colpe per le quali si scatenò la catastrofe, perdette la sua pace che oggi, a distanza di 32 anni, non ha ancora riacquistata.

Immediatamente si stabilì un’atmosfera bellica e nacque il mito del cittadino-soldato, dell’agente di polizia-caporale; la libertà di stampa fu limitata prima per quanto riguardava il notiziario militare, poi per ogni altro notiziario; prima sull’amichevole parere dei segretari di prefettura, poi con l’aperta e severa censura sulla stampa, quando gli amichevoli pareri cominciarono ad esser discussi dai giornalisti che pretendevano distinguere quelli giusti da quelli cervellotici.

Poco a poco, in certi casi insensibilmente, molte altre libertà furono soppresse dopo quella di stampa. Non mi riferisco soltanto a quelle di genere, oserei dire, romantico, quali la libertà di parola, di pensiero, di riunione. Praticamente furono soppresse libertà umili, modeste, che prima di perderle nessuno credeva fossero libertà vere e proprie: e che invece lo erano, e lo sono, e tanto più nostalgicamente si rimpiangono quanto più il loro ricordo s’abbellisce nel passato che pure le scolora. Perdemmo la libertà di conversare impunemente con gli amici, la libertà d’esprimere un’opinione personale, la libertà di non diffidare dell’interlocutore come d’una probabile spia. E perdemmo, con quelle, altre libertà, piccole ma preziose: la libertà d’andare in tram senza essere schiacciati come sardine in una scatola, la libertà di procurarci il latte per i nostri bimbi ogni qualvolta occorresse, la libertà di commerciare, di coltivare, di produrre, e, insomma, di vivere, se non nei limiti feroci che a cagione della guerra, della crisi, del disordine, dell’emergenza, dei destini, delle mete, venivano successivamente imposti dalle varie dittature che, dopo quella dello Stato Maggiore instaurata nel 1914, si sono seguite nel nostro paese.

Ci sono state, e sarebbe disonesto negarlo, delle parentesi. Cessato lo stato di guerra, l’onorevole Nitti abolì la censura sulla stampa; ma non tardò a pentirsene e a ripristinarla. In quell’occasione Mussolini lo vituperò; ma, impadronitosi del Governo, egli abolì non soltanto la libertà di stampa, ma la stampa: e si consenta, a me giornalista, di dire che questo fu il suo errore di Governo più grave, dal quale promanarono tutti gli altri.

Finalmente si arrivò alla catastrofe; alla quale non si poteva non arrivare, anche se molti, moltissimi italiani non la previdero, o, almeno, non la supposero così spaventevole. Non intendo recriminare né riacutizzare qui polemiche recenti e in atto: qui noi siamo per aiutare a ristabilire la pace civile, e non contestiamo che gli errori di questi ultimi due anni sono la conseguenza, spesso fatale, della concatenazione d’errori d’un trentennio di vita politica. Ma al 2 di giugno di questo drammatico 1946 s’è verificato un fatto fondamentale: il popolo italiano ha votato, ha fatto una scelta istituzionale, ha eletto i suoi rappresentanti, si è dato un Parlamento col potere di rifare la Costituzione, e, per la prima volta dopo 32 anni, pur attraverso la sventura, il pianto, il lutto, un barlume di libertà, di democrazia, di sano vivere, ha incominciato a schiarire il nostro cielo già tanto cupo. Avremmo avuto l’umano diritto, dopo tanto soffrire e aspettare, d’avere non dico un premio, non dico la promessa precisa d’un dono futuro; ma almeno una speranza, almeno un sorriso; speranza, sorriso che sono il primo e rincuorante conforto per gli scampati al naufragio dopo il miracoloso approdo. Non li abbiamo avuti, e uscendo fuori dal pelago ci siamo imbattuti con l’onorevole De Gasperi alla testa d’un Governo formato con lo stesso spirito con cui furono formati tutti gli altri Governi che lo precedettero da quel tragico luglio di 32 anni or sono.

Forse nessuno più dell’onorevole De Gasperi risente l’amarezza di questo mio rilievo sulla spiritualità del suo, per altro verso, nobile tentativo politico, e in questo caso lo prego di credere che il mio dispiacere nel censurare non è inferiore al suo di dover ascoltare, con democratica pazienza, la mia censura. Ma, ciò doverosamente premesso, debbo aggiungere che, sotto alcuni aspetti, il suo Governo non è fra i meno peggiori della lunga e deplorata serie. Esso è, teoricamente, l’espressione della Costituente Sovrana, liberamente eletta. Non c’è ironia nel «liberamente»: se in questa Camera c’è un gruppo di 32 deputati qualunquisti, ciò prova che una libertà nelle recenti elezioni c’è stata, e mi auguro che sia maggiore e migliore nelle prossime. Ma se in teoria il nuovo Gabinetto De Gasperi è espressione della Costituente, in pratica esso è stato fatto da 3 uomini, con la collaborazione discontinua di un quarto: 4 uomini, su 500 ed oltre, sono troppo pochi.

Né questo è il solo e più grave appunto che si può muovere allo «spirito informatore» del nuovo gabinetto De Gasperi. Esso enuncia un programma troppo vasto e troppo radicale per poter essere creduto sinceramente realizzabile, e, su certi particolari punti, quali, per accennarne qualcuno, quelli riferentisi alla progettata politica agraria, è dubbio che possa riscuotere il consenso unanime dello stesso partito di cui l’onorevole Presidente del Consiglio è autorevole Capo.

La nostra impressione è che l’onorevole De Gasperi, di solito accorto e diligente, sia caduto in un involontario equivoco sui poteri e sulla sovranità dell’Assemblea Costituente. Cito per tutti un solo esempio: «Il Governo» ha detto l’onorevole Presidente del Consiglio, «interpretando le direttive dell’Assemblea Costituente, provvederà alle autonomie locali». Personalmente io sono favorevole alle autonomie locali. Ma come può il Governo dell’onorevole De Gasperi provvedervi, e cioè concederle, fondando soltanto sulla presunzione d’interpretare le direttive dell’Assemblea Costituente? E se la Costituente farà una Costituzione nella quale le autonomie locali non verranno concesse? Cosa farà il Governo in questo caso? Le ritirerà dopo averle date? E sarà possibile ritirarle senza gravi conseguenze?

Certamente non è simpatico supporre che il Governo abbia l’intenzione di mettere la Costituente di fronte a molti fatti compiuti: ma come si fa a non supporlo? E come si fa, dovendo supporlo, a non preoccuparsene vivamente, quando dalle autonomie locali si passa ad una riforma agraria in cui, oltre alle annunziate espropriazioni, che ci inducono a dubitare dell’esistenza d’un diritto di proprietà che per altro la Costituente non ha ancora abolito, si precisa perfino il dettaglio, non del tutto irrilevante, dell’istituzione dell’agronomo condotto?

Sta bene «interpretare le direttive» della Costituente; ma sta anche bene non spingere l’impeto interpretativo oltre i limiti dell’arte, di cui la suprema eleganza è la misura.

Ci rendiamo conto delle gravi difficoltà dell’ora, e non rimprovereremo all’onorevole De Gasperi ed ai suoi predecessori di non aver saputo risolvere il problema della quadratura del circolo. Sappiamo benissimo che ogni Capo di Governo deve innanzi tutto formare il Governo di cui vuol essere a capo, e, necessariamente, conciliare opposte tendenze e contrastanti interessi. Ma è appunto in questa dura fatica d’armonizzazione che spesso si sprecano, all’inizio e inutilmente, le migliori forze d’una compagine governativa.

Per effetto della lunga guerra mondiale incominciata nel 1914 e non ancora conclusa in tutte le sue fasi, sta risorgendo un feudalesimo industriale, agricolo, finanziario, marittimo, feudalesimo ch’è un’evoluzione del capitalismo, nient’affatto morto, nient’affatto moribondo, ma più vivo e forte che mai, fermamente deciso a sottomettere il potere politico, anche a costo d’identificarsi con esso, con la realizzazione d’un capitalismo di Stato di cui molti osservano lo sviluppo con sbigottimento.

In presenza di questo nuovo feudalesimo vivono e s’agitano le forze del lavoro manuale cresciute a dismisura, fatalmente acefale, dominate da aristocrazie intellettuali di cui si può non temere solo a patto d’imprestar loro una mentalità francescana.

Vicendevolmente all’una e all’altra forza i Governi tendono la mano implorante un aiuto che non è mai concesso senza meticolosa e sempre più dura negoziazione; ma sta in fatto che fra le due minacciose ganasce della morsa siamo noi, uomini e donne qualunque, maggioranza smisurata e sofferente, di cui nessun Governo si preoccupa, perché nessun Governo, fino ad ora, ha pensato che anche a noi potrebbe chiedere un aiuto, e ottenerlo a prezzo non esoso.

È per questo che, scartata ogni altra idea, noi abbiamo voluto seguire una via ordinata e legalitaria, e venire qui a far sentire ordinatamente e legalitariamente la nostra voce, proclamare il nostro diritto, chiederne il rispetto. All’onorevole Lussu, a quanti come lui pensano e dubitano, io dirò che lo squadrismo può, sì, aiutare a conquistare il potere, ma che immediatamente dopo averlo conquistato s’impone il problema di mantenere chi ha aiutato a conquistarlo. Questa facile esperienza è stata già fatta e non soltanto in Italia: e sempre con esito sfavorevole. Non certo noi, che fino ad oggi non abbiamo fornito nessuna prova di stupidità, potremmo volerla rifare. Se è vero, come è vero, che da varie parti ci si riconosce una certa intelligenza politica, è anche vero che questo riconoscimento d’intelligenza è in diametrale opposizione col proposito, da taluno gratuitamente attribuitoci, di voler raccogliere la pesante eredità di situazioni politiche fallite.

LUSSU. Chiedo di parlare per fatto personale.

GIANNINI. Ben più lontani e più alti, ben più nobili e ragionevoli sono i nostri obiettivi, uno dei quali, e non dei minori, è quello, già idealmente raggiunto, di collaborare alla preparazione della nuova Costituzione dello Stato italiano, e far di tutto perché questa nuova Costituzione, nascente nella terra del diritto e della giustizia, possa essere, oltre tutto, anche un esempio e un incoraggiamento per coloro che, fuori d’Italia, cercano affannosamente di rifare le loro leggi fondamentali, secondo le nuove interpretazioni del diritto che le necessità del progresso impongono.

A questa grande, e mi sia permesso di dire, stupenda fatica, noi vorremmo attendere tranquilli, senza esser costretti a sorvegliare il nostro Governo, senza esser turbati dall’insorgere, non sempre naturale e improvocato, d’impazienze sociali e politiche. Né, con la manifestazione di questo desiderio, noi pensiamo di svalutare, e comunque diminuire, l’importanza dei gravi compiti del Governo. L’ordinaria amministrazione è la più difficile, e per di più non compensata da splendori d’orpelli. Ricondurre la calma e l’ordine nel paese, alimentarlo, ridargli la sicurezza, restituirgli, soprattutto, quelle enormi forze che sono la speranza e la fiducia, costituisce tale somma di opere da onorare al di là d’ogni ambizione il nome degli uomini che vi si accingono, le varie parti dalle quali possono provenire. E non è certo con l’enunciato proposito di voler in pochi mesi realizzare un programma praticamente irrealizzabile che l’onorevole De Gasperi ci rassicura. Queste, e non altre, sono le ragioni che c’impediscono di condividere le sue responsabilità con un assenso che non potrebbe non essere impegnativo.

Oratore di scarso e improvvisato mestiere, temo di parlare a lungo, e penso – e spero – che la trattazione di un solo argomento – lo spirito che ha presieduto alla formazione dell’attuale Governo – valga a rendere il discorso meno fastidioso. Non toccherò quindi altri punti delle dichiarazioni del Capo del Governo, sui quali altri del mio Gruppo, senza dubbio di me più preparati, potranno dire molto più e meglio di quanto io non saprei. Desidero però – e credo di fare cosa utile – dire poche altre parole su un tema che l’onorevole De Gasperi non ha toccato: gli Italiani all’estero.

Il nostro paese ha delle colonie che non potranno mai essere sottratte da nessun vincitore, per ingeneroso che voglia essere; e queste sono le grandi masse d’italiani che vivono fuori del nostro territorio, in terre che, se non hanno politicamente guadagnate all’Italia, essi hanno innegabilmente conquistate alla civiltà.

Queste grandi masse, questo vero, formidabile partito di massa, sta attraversando una crisi profonda, causata dalle sventure che hanno colpito l’Italia; crisi esasperata dal rifiorire di ostilità locali, di ripercussione e prive di giustificazione. In questo stato di animo, colpita da un dolore cocente, questa grande massa d’italiani oggi guarda alla Patria che rivuole nobile e grande, perché sente che solo su quella rinnovata nobiltà, su quella restaurata grandezza, può fondare ogni sua legittima speranza.

Onorevole signor Presidente del Consiglio, questa massa d’italiani all’estero, che chiede solo di potere sperare, si compone di oltre dieci milioni di fratelli nostri che non vediamo divisi in partiti e correnti politiche, ma solo come il 25 per cento della nostra comunità nazionale, sangue del nostro sangue.

Benché molti di essi siano ricchi, moltissimi prosperi, e quasi tutti vivano di libero e dignitoso lavoro, in quest’ora, che è anche per loro angosciosa, quei nostri connazionali hanno bisogno della Patria, sia pure vinta, umiliata, povera: in forza di quegli irresistibili bisogni dello spirito che nessuno più di lei, onorevole De Gasperi, può sentire e comprendere.

Non per gretto mercantilismo, ma, al contrario, per non infondata fierezza, io mi permetto di dirle che l’Italia può essere ricostruita col solo apporto degl’italiani all’estero, senza bisogno di mendicare elemosine da chi non è nostro parente, e non vuol essere che nostro padrone.

Nel concludere le sue dichiarazioni, ella, onorevole signor Presidente del Consiglio, ha accennato alle quattro libertà di Roosevelt, e ci ha detto che si propone di rivendicarle da chi ce le aveva promesse. Queste quattro libertà – libertà di religione, libertà di parola, libertà dal bisogno, libertà della paura – più che promesse c’erano state concesse, e come concesse e non promesse furono comunicate agli uomini e alle donne di tutto il mondo dalla nave atlantica dove due uomini si erano incontrati e alleati soprattutto per salvare i loro imperi. Rivendichi, rivendichi a gran voce, e al cospetto del mondo, le quattro libertà dagli stranieri, onorevole De Gasperi: ma, in attesa di queste rivendicazioni oltremontane e oltremarine, conceda lei, agli italiani in Italia, le quattro libertà, subito, senza lesina, in dono pieno e perpetuo. È solo su quelle libertà che lei e il suo Governo possono iniziare la ricostruzione del nostro Paese. (Vivi applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Lussu ha chiesto di parlare per fatto personale. Lo indichi.

LUSSU. L’onorevole Giannini, rappresentante dell’Uomo Qualunque, mi ha attribuito un pensiero che va precisato, tanto più che egli, mentre io parlavo, non era presente, col giustificato motivo di doversi fumare una sigaretta. Siccome anch’io sono un grande fumatore, ma non ho creduto fumarmi una sigaretta mentre parlava l’onorevole Giannini, desidero, poiché ho sentito chiaramente le sue dichiarazioni; precisare: io ieri non ho detto già che l’Uomo Qualunque sia tutto composto di fascisti, ma ho detto che, se vi sono dei malcontenti alla base, era mia preoccupazione che si stesse ricostituendo il fascismo. (Commenti a destra). Questo ho detto e desidero che sia ben chiarito. Io penso che i malcontenti siano parecchi nell’Uomo Qualunque, ma rispetto al numero dei fascisti che si organizzano, o si riorganizzino, alla base, essi rappresentano quell’esiguo numero che gli impiegati avventizi rappresentano in una grande amministrazione dello Stato di fronte agl’impiegati in pianta stabile (Commenti – Ilarità). Il fatto poi che l’onorevole Giannini nel suo discorso, che era preparato e non improvvisato, non ha trovato una sola parola di condanna per il fascismo, aumenta le mie preoccupazioni. (Applausi a sinistra – Commenti).

 

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Mi consenta l’onorevole Presidente di dire due parole sole. Non è colpa mia se l’onorevole Lussu ha ascoltato con insufficiente attenzione quello che io ho detto, o mi sono sforzato di dire dalla tribuna. La prossima volta, siccome me ne intendo, pregherò che mi si lasci aggiustare da me il microfono, e allora spero che si potrà sentire meglio.

Comunque, il testo del mio discorso sarà pubblicato nei miei giornali e l’onorevole Lussu potrà trovarci forse quello che oggi non ha sentito. (Commenti).

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Mi permetto dare una breve risposta, oltre quella data dal Presidente del nostro gruppo, onorevole Giannini, all’onorevole Lussu. Noi non l’abbiamo interrotto ieri, nonostante questo avvenga qualche volta in questa Assemblea. Non l’abbiamo interrotto per dargli una prova del nostro alto senso di democrazia e di rispetto all’altrui opinione. Non gli abbiamo risposto, anche perché l’onorevole Lussu è conosciuto, certamente come un uomo d’ingegno, ma anche come un temperamento (scelgo la parola) esuberante, e quindi l’Assemblea sa che quando l’onorevole Lussu muove delle accuse, bisogna sempre accoglierle col beneficio dell’inventario.

Noi non ci siamo difesi da questa vaga ambigua accusa di neo fascismo, perché non era il caso di difenderci, perché in mezzo a noi c’è fiore di gente che ha tali titoli di sano antifascismo, che ha così coraggiosamente saputo combattere nell’ora del pericolo, da potere sdegnare queste facili accuse. Non ci vantiamo del nostro antifascismo, unicamente perché era bene vantarsene al tempo in cui vantarsene apportava dei pericoli, non ora che apporta dei vantaggi, e come prima c’era la gara al più nero, ora c’è la gara al più rosso. (Applausi a destra).

Noi accettiamo l’invito dell’onorevole Lussu, anzi non abbiamo avuto bisogno di aspettarlo, perché coloro che dirigono il partito hanno già sentito il pericolo ed hanno dato i provvedimenti necessari ad evitarlo, e noi guardiamo la base.

L’onorevole Lussu, con garbo, ha parlato di base della piramide per escludere appunto noi che ne siamo alla cima, pensando che il pericolo stia alla base…

Una voce. No, siete voi il pericolo.

RUSSO PEREZ. Noi ci pensiamo, noi provvediamo, e se ci sono persone che hanno al loro passivo delle malefatte nel periodo del regime fascista, noi le escludiamo senz’altro. Però preghiamo tutti i dirigenti responsabili degli altri partiti di fare analoghe ricerche nelle loro file e di emettere gli stessi provvedimenti. (Applausi a destra).

Esporrò poi le ragioni per le quali noi dissentiamo dal programma di questo Ministero: un dissenso che, come bene ha detto il nostro Presidente, non sarà sistematico, giacché noi siamo pronti a dargli il nostro appoggio tutte le volte che sarà necessario nell’interesse della Patria.

La risoluzione della crisi, secondo me, non è stata quella che la situazione del Paese imponeva né quella che risponde allo spirito delle leggi che ci governano. La maniera come è stata risolta la crisi non poteva che essere in funzione del concetto che si aveva dei diritti e dei doveri del Ministero in confronto ai diritti e ai doveri dell’Assemblea Costituente.

O politica di largo respiro, o politica di ordinaria amministrazione. Gli uomini preposti alla risoluzione della crisi hanno scelto il primo corno del dilemma: politica di largo respiro; ed hanno fatto male, secondo me, perché, se il voler legiferare su importanti materie d’ordine economico e sociale (e di conseguenza politico) è in una certa armonia con la lettera di quel decreto-legge 16 marzo 1946 che voi stessi vi eravate preparati, io domando alla profonda coscienza anche inespressa di ciascuno di voi se non è vero che il voler fare, durante i pochi mesi di vita di questa Assemblea, una politica di largo respiro non sia in contrasto col fatto storico che viviamo, con l’Assemblea Costituente, sovrana, eletta dal popolo in libere elezioni.

Con quel famoso decreto-legge si riservava a voi, per delega, un ampio diritto di legiferare; ma la delega non c’è stata. E c’era l’onorevole Calamandrei – la cui faccia tranquilla ben nasconde l’arguzia dello spirito – che voleva, con un piccolo voterello dell’Assemblea, sanare questo grave difetto. Il Governo, a cagione della delega nostra, mentre noi non l’abbiamo data, mentre noi non eravamo ancora nati quando la legge fu fatta, dovrebbe lasciare a noi soltanto il compito di legiferare in materia elettorale, di trattati con l’estero, e di costituzione dello Stato.

Orbene, avendo ascoltato le dichiarazioni del Governo, in molti dei problemi, che esso ha detto di voler risolvere, voi non avete visto qualche cosa che incide profondamente o per lo meno sfiora problemi di indole costituzionale? Per esempio, come ha accennato il Presidente del nostro gruppo, quello della proprietà? Onorevoli colleghi dell’altra sponda, che potrebbe essere la destra e potrebbe essere la sinistra secondo il posto da cui si guarda – anzi, dato che noi siamo seduti su questi scanni, sarebbe questa la sinistra – non crediate che siamo dei reazionari. Noi tutti siamo modesti lavoratori, avvocati, medici, professori, giornalisti, e credo che se c’è qualcuno di noi che possiede un pezzetto di terreno, questo è così piccolo che lo si può girare in tre o quattro minuti. Noi non siamo contrari ad alcuna riforma nell’interesse di tutte le classi lavoratrici, e specialmente delle classi medie, di tutte le classi lavoratrici. Anzi, vi dirò che è mio pensiero che la proprietà posseduta soltanto nell’interesse proprio non dà diritto al proprietario di conservarla, perché il concetto della proprietà nello Stato moderno si è talmente evoluto, da non potersi più accettare il vecchio concetto per cui il proprietario poteva anche lasciare che un feudo esteso per migliaia di ettari non fruttificasse, senza che nessuno potesse dirgli niente. Quindi, noi siamo con voi dove si tratterà di dare al Paese riforme tali che assicurino alle classi lavoratrici un grado di benessere che sin qui esse non hanno raggiunto; ma vorrei che ognuno di voi meditasse, come io tante volte ho meditato, su un problema che profondamente ci divide. Io ho detto: ma è possibile che il torto stia tutto da quella parte?

È possibile che 4 milioni di cittadini in Italia e tanti milioni all’estero credano, abbiano fede in quel partito politico? Io ho meditato e mi sono chiesto: come è mai possibile che un esercito che si senta schiavo di un governo autocratico possa combattere così valorosamente come ha combattuto l’esercito russo? Nessuno di noi, uomini di ingegno, anche mediocre, ha potuto credere alla storiella dei commissari del popolo che minacciavano i soldati con la pistola. Dunque, meditando, ho detto: qualche cosa della verità deve esserci anche su quei banchi. Studiamo, facciamo che questa verità sia anche nostra. Ma anche voi dovete fare lo stesso. Perché voi dovete credere che l’errore stia tutto dalla nostra parte e non avete voluto ascoltare sin qui – e voi che avete composto il Governo non avete voluto ascoltarle nella risoluzione della crisi – queste voci nuove che vengono dal paese e che si sono espresse con un milione e mezzo di voti?

Che cosa significano queste voci? C’è qualche cosa che voi non avete voluto sentire. Noi abbiamo cercato di farvele ricordare in tutti i modi, e anche nei modi più impensati, anche con le nostre votazioni. Ma voi non avete voluto sentirle e avete creduto di poter fare, sempre tra voi, un Governo che è composto sempre dagli stessi tre partiti. Era più rispondente al pensiero del paese che il Governo fosse stato tutto nelle mani del partito democratico cristiano, con qualche appoggio dei partiti di Centro e di quelli di destra: perché nonostante la vostra ben conosciuta gara programmatica «a chi corre di più» coi partiti estremi, è certo che il paese non vi ha dato otto milioni di voti perché voi incoraggiate il movimento dei partiti estremi verso la conquista del potere, ma anzi ve li ha dati per controbilanciarne la spinta. E se volevate fare una politica di largo respiro, sarebbe stato anche più logico, non riuscendo questo tentativo, che i socialcomunisti assumessero da soli il peso e la responsabilità del Governo. Poche settimane or sono, lo stesso onorevole Nenni al congresso di Milano ha detto: «Io sono contrario per principio ai gabinetti di coalizione, appunto perché essi, dovendo tener conto del parere discordante dei vari coalizzati, non possono fare una politica di largo respiro». E come mai adesso si è convertito ancora una volta al gabinetto di coalizione? E proprio perché, egli ha detto (lo abbiamo letto sul suo giornale) che il Governo intende fare una politica di largo respiro?!

La verità è un’altra: il Governo avrebbe dovuto fare soltanto una politica di ordinaria amministrazione col concorso di tutti i settori della Camera, dando un forte impulso perché la Costituente compisse i suoi lavori in un tempo anche più breve di quello prescritto dalla legge.

Comunque, la questione dei rapporti fra i poteri, i diritti ed i doveri del Governo in relazione ai poteri, ai diritti ed ai doveri dell’Assemblea Costituente, sembra che sia stata accantonata, quindi ne parleremo più lungamente a suo tempo. Ma poiché qui, io penso, bisogna fare qualche cosa di costruttivo, io propongo al Governo che, quale che sia la soluzione che darà al problema, voglia intendere come un obbligo, per lo meno morale, la facoltà che gli dà l’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946 n. 98, di sottoporre all’approvazione dell’Assemblea tutte quelle leggi che a suo giudizio eccedano i limiti della ordinaria amministrazione.

Sono il primo siciliano che prende la parola in questa Assemblea e non posso fare a meno di parlarvi della Sicilia. Il problema meridionale esiste ed è ormai minore l’interesse della Sicilia a risolverlo di quanto non sia l’interesse dell’Italia intera.

Onorevole Persico, non soltanto i capi del Governo che si sono succeduti dal 1860 ad oggi hanno fatto soltanto delle vane promesse. Credo che anche voi, che avete partecipato al Governo, non avete fatto nulla e non avete cercato di ottener nulla dai vostri colleghi del Governo. Non aspettate la goccia, amici dell’Italia peninsulare; gocce ne sono già cadute abbastanza ed il vaso è traboccato. Non crediate, solo perché il movimento per l’indipendenza della Sicilia ha portato alla Costituente tanti deputati quanti se ne possono contare sulla punta delle dita, che tutti gli altri siciliani nati da padre e da madre siciliani vogliano trascurare il dovere di difendere, ad ogni costo, gli interessi negletti, offesi della loro terra.

Guardate un po’: La Sicilia, estranea, si è vista regalare dal Nord d’Italia i moti sovversivi del 1919-1921, senza che essa vi partecipasse in senso favorevole o in senso contrario; si è vista regalare Mussolini ed il fascismo nel 1922; si è vista regalare l’antifascismo e l’Esarchia nel 1943-1945; si è vista regalare la repubblica nel 1946, senza che i suoi sentimenti fossero indagati e i suoi interessi presi in considerazione.

Una voce. Adesso c’è la repubblica.

RUSSO PÉREZ. Ho sentito qualche voce che parla di repubblica.

Desidero dire a questo proposito: io sono monarchico!

Una voce. Lo sapevamo! chiediamo come la Sicilia ha votato.

RUSSO PEREZ. La maggioranza dei siciliani si è schierata per la monarchia.

FINOCCHIARO APRILE. Ma in Sicilia vogliamo la repubblica siciliana! (Rumori – Commenti).

RUSSÒPEREZ. Quando lo crederà opportuno, l’onorevole Finocchiaro Aprile farà noto il suo pensiero. Io faccio noto il mio; e siccome sin da quando sono nato son vissuto in Sicilia, credo anche di conoscere un po’ i miei conterranei! Voglio dire questo: la Sicilia ha accettato lealmente la repubblica e la repubblica lealmente servirà, come la servirò io, perché se la repubblica è un fatto, la repubblica è l’Italia, e chiunque ama le proprie idee più della propria Patria non può dirsi che ami veramente la Patria. (Applausi a destra).

Né è vero, amico Finocchiaro Aprile, che vivi e incarni e servi il tuo ideale, non è vero che l’animo della Sicilia, per i torti ricevuti, si sia staccato dall’animo italiano. Noi siamo legati ancora all’Italia forse più per quello che le abbiamo dato, che per quello che ne abbiamo ricevuto, dall’unità al linguaggio, perché tutto ciò che in volgare si scrisse prima di Dante si chiamò siciliano, per le decine e decine di migliaia di morti che hanno impastato del nostro sangue migliore le pietraie del Carso. Ma consentite, fate, amici, fratelli del Nord d’Italia, che noi possiamo ancora continuare ad amarvi.

Ci è stata rimproverata, ad esempio, la mancanza di iniziativa. Ci si è detto: «È colpa vostra se vi trovate in queste condizioni!». Non è vero! Ognuno di noi, vecchi siciliani, potrebbe citarvi diecine di episodi significativi. Io ve ne cito uno soltanto: nel 1915 un mio concittadino ebbe il fegato di impiegare diecine di milioni (milioni di quel tempo) per fare sorgere a Palermo, accanto al vecchio forte, ora distrutto, di Castellammare, un proiettificio, che anche Ansaldo poteva ammirare. Amici, la verità documentata è questa: durante tre anni di guerra non gli si fece fabbricare, coi pretesti più vari, un solo proiettile da 149.

Finì la guerra, calarono gli industriali dal Nord, comprarono il macchinario coperto di ruggine e di ragnatele, se lo portarono via, e tutto fu finito! Dunque occorre che voi, voi del Governo, provvediate. E vi faccio una proposta di carattere pratico. Le parole non giovano a nulla. Quando il Governo era a Salerno, il nostro Consiglio dell’Ordine degli Avvocati pensò che vi erano migliaia di persone che giacevano in carcere in attesa del giudizio della Corte di Cassazione. I ricorsi non potevano essere smaltiti perché eravamo separati, disgraziatamente, da Roma e dal resto d’Italia. Ed allora mandammo due nostri colleghi a conferire col Ministro di Grazia e Giustizia perché concedesse, anche temporaneamente, quella sezione staccata della Corte di Cassazione che fu concessa a Milano. Ebbene, il Ministro disse: «Ma che volete? Che cosa pensate? Se io debbo convocare i capi di collegio, volete che li mandi a cercare in Sicilia? Niente!» Ed i miei colleghi tornando mi dissero: «Siamo partiti unitari, siamo tornati separatisti». Orbene, mentre io raccomando al Governo e raccomando all’Assemblea di prendere veramente a cuore gli interessi di quest’isola generosa, faccio una proposta pratica al Ministro di Grazia e Giustizia: veda di creare subito anche una sola sezione promiscua, civile e penale, staccata, della Corte di Cassazione per la Sicilia. Vi assicuro che il cuore dei siciliani è un cuore di bambini. Basta un piccolo dono perché voi lo conquistiate. E qui ci sono molti siciliani che lo sanno. Certo, questo solamente come una prova della vostra buona volontà e in attesa dei provvedimenti molto più importanti e generali che saranno presi in seguito.

Onorevoli colleghi, io ho preso la parola ora, ma avrei voluto procrastinarla nel tempo, per farmi un po’ meglio all’ambiente, specialmente dopo le sfuriate fatte da taluni quando parlò, non un novellino, ma Francesco Saverio Nitti. E dicevo fra me e me stesso: ma qui bisogna stare guardinghi, specialmente per uno di noi che appartiene ad un gruppo non molto teneramente amato…

GIANNINI. Bisogna essere stimati, non amati.

RUSSO PEREZ. Qui si è quasi impedito di parlare a un Nitti, mentre egli diceva delle cose vere, non potrei dire se ugualmente utili. Comunque venivano dalla sua bocca ed occorreva ascoltarle. Credo che abbiamo tutti tanta memoria da ricordare quello che è avvenuto due giorni or sono. Quindi avrei voluto farmi all’ambiente, studiarne il modo di reagire, vedere se veramente la democrazia abbia fatto molti progressi e lo spirito di tolleranza ed il rispetto delle altrui opinioni sia veramente nell’animo di tutti. Ho dovuto invece prendere la parola subito perché debbo fare una proposta concreta. Critiche pochissime e non conviene neanche farne, perché si tratta di materia delicata: si tratta di politica estera; e anche perché sono convinto che l’onorevole De Gasperi non ascolterà il consiglio dell’onorevole Nitti: figuratevi se potrà ascoltare il mio, di lasciare ad altri questo grave pondo della politica estera.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Prego di fare proposte concrete.

RUSSO PEREZ. Io devo fare appunto una proposta concreta; e vorrei che voi trovaste l’uomo autorevole che possa tentare di ottenere da quelli che si è soliti chiamare Alleati qualcosa di più.

Comunque, siccome sono convinto che voi rimarrete al vostro posto e tutelerete gli interessi dell’Italia con quell’ardente spirito patriottico che è mia onestà riconoscere nei vostri accenti e nei vostri propositi, non voglio dir nulla che possa menomare la vostra figura dinanzi a coloro, con cui voi tratterete – se la parola «trattare» può usarsi in questo caso; – non voglio neanche ripetere le accuserelle mosse dal giornale di un partito molto vicino a quello del Presidente ed a cui appartiene colui che dovrebbe succedergli nel posto di Ministro degli esteri.

Voglio dire qualcosa di generale per richiamare la vostra attenzione sul fatto che noi non abbiamo saputo preparare il clima entro cui i nostri legittimi interessi potessero essere rispettati dallo straniero – mi è scappata la parola, ma è la verità!

Per esempio, si è proclamato festivo il giorno in cui al durissimo tallone tedesco si sostituiva sul suolo della patria un altro tallone straniero, sia pure meno duro. Si dirà che in quel tempo ancora era nell’animo di coloro che hanno propiziato questa dichiarazione l’errore di credere che si trattasse di fratelli e di liberatori. Non è esatto, perché era precisamente il tempo in cui le Nazioni Unite nominavano una commissione, che dovesse studiare fino a quale limite potesse arrivare la nostra capacità di pagamento. Al tempo delle torture vi era un medico incaricato di assistere il torturato per stabilire quanti tratti di corda potesse ancora ricevere senza esalare l’ultimo respiro.

Persone rivestite di cariche altissime ed anche persone non rivestite di cariche altissime, come l’onorevole Lussu, hanno affermato che per noi le colonie sono un peso.

Amici miei! Ma, le colonie sono sassi e sabbia e nulla più per noi? E se pesano a taluno i campi, le strade, impastate dal sudore dei nostri coloni, gli pesano anche i cimiteri dove riposano le ossa dei nostri morti, morti borghesi, morti proletari, tutti fiore del sangue italiano? E che impressione può fare all’estero un modo di pensare e di esprimersi siffatto? Che cosa diranno coloro che ci trattano come una bestia da macello da scannare? Diranno: «Se loro piace, se ci adulano, se proclamano che anche il giorno dell’occupazione – secondo i termini dell’armistizio si chiama «occupazione» – è giorno festivo, continuiamo ancora; essi non reagiranno».

Dunque, bisogna difendere gli interessi dell’Italia con tono più virile e più coraggioso e – lasciatemelo dire – più italiano. Ma, che cosa bisogna fare?

Siamo d’accordo, le dimostrazioni di piazza, specialmente se incomposte e violente, giovano poco. Ma se nessuno grida, se nessuno protesta il nostro diritto offeso, come ci si difende? Volete togliere al nostro popolo anche il diritto di protestare?

Il Times, ricordato anche oggi, dice che il nostro concorso alla vittoria è stato effimero. Il Times però non ricorda che una delle ragioni, e forse non ultima, della loro pronta vittoria su di noi è stato il profondo nostro generale dissenso per questa pazza guerra scatenata dal fascismo. Il nostro concorso poi è stato quello che gli alleati ci hanno concesso di dare, e ricordo che noi abbiamo chiesto formalmente di poter dare un maggiore contributo di sangue.

Si ripete d’altra parte che non ci sono impegni. Ma forse la Carta atlantica non ha più valore? E non costituisce un impegno d’onore dinanzi alla coscienza del mondo civile? Oppure veramente l’onore è qualcosa di particolare e di diverso per gli uni e per gli altri, sicché ciò che macchia il nostro onore lascia intatto e immacolato l’onore degli altri?

Siamo buoni custodi del nostro onore; gli altri custodiscano il loro come vogliono.

E allora io enuncio all’Assemblea questo mio punto di vista: noi abbiamo perduto la guerra, siamo pronti a pagare. Ma noi non abbiamo fatto una sola guerra, ne abbiamo fatte due, e anche la seconda è stata preceduta da una formale dichiarazione. Noi abbiamo fatto la prima guerra contro le Nazioni Unite e l’abbiamo perduta. Abbiamo fatto con loro la seconda guerra in qualità di cobelligeranti contro la Germania e i suoi satelliti: l’abbiamo vinta. Se siamo stati cobelligeranti, evidentemente siamo stati anche, scusate il neologismo, convincitori.

Orbene, non nascono obblighi giuridici da questo fatto?

Guardate, finora il problema è stato affrontato dai vari Governi che si sono succeduti, e dalla stampa italiana, unicamente come un problema morale, mai come un problema giuridico. Si è detto cioè: «Siamo stati buoni, abbiamo fatto qualcosa per voi, trattateci, bene». Anche nel messaggio del Capo provvisorio dello Stato si parla di richiamo ai sacrifici fatti. Allo stesso modo, press’a poco, si è espresso il Presidente del Consiglio onorevole De Gasperi nell’ultimo memorandum diplomaticamente inoltrato a Parigi. Non v’è nulla che faccia pensare che questo problema sia stato visto dal punto di vista giuridico: si parla soltanto dei crediti che l’Italia vanta dalla Germania.

Unicamente l’acume giuridico e il grande cuore di Vittorio Emanuele Orlando hanno sfiorato il problema quando egli ha detto: «Che importano le parole, quando vi è il fatto generatore del più sacro degli impegni, il fatto che ci fu chiesto e fu accettato un contributo di sangue? Non diventava questo, per sé solo, un obbligo? E come è possibile rinnegarlo?».

Dunque, noi abbiamo vinto insieme alle Nazioni Unite la seconda guerra, quella contro la Germania. C’è o non c’è il diritto alle riparazioni? È materia fluttuante, perché parlare di diritto quando si parla di guerra è quasi un non senso.

Ma comunque si sceglie un sistema. Gli antichi, ai tempi omerici, scannavano i vecchi e portavano via le giovani, depredavano le case e poi le bruciavano. Adesso c’è il cambio imperativo, si stampa moneta che non vale nulla, si comprano tutte le cose utili che ancora rimangono e poi per giunta vengono le spogliazioni e le riparazioni. Un sistema è stato scelto. Si ha diritto alle riparazioni. Dunque la Nazione che vince ha diritto di ripetere le riparazioni dalla Nazione che perde; e mi piace ricordare quanto ho letto nell’Unità dell’11 luglio, cioè che il signor Molotoff, a Parigi, ha formalmente dichiarato, parlando proprio della Germania, che vanno date le riparazioni alle nazioni che hanno sofferto in conseguenza della guerra. Orbene, noi non possiamo esigere queste riparazioni a cui abbiamo diritto perché non ci fu concesso di occupare parzialmente il suolo nemico; ma gli Alleati possono ripeterle per noi. E allora possiamo e dobbiamo dire: noi abbiamo accettato che voi svolgeste le trattative di pace con l’Italia preliminarmente perché credevamo che in effetti questo sarebbe stato un dono; adesso, vogliamo che le trattative di pace con noi quale potenza sconfitta da voi e quale potenza convincitrice della Germania debbano aver luogo contestualmente. Poi diremo: noi siamo un popolo generoso; non vogliamo infierire contro un popolo vinto, e dissanguato; e siamo anche un popolo intelligente e pensiamo perciò che non sia interesse del vincitore uccidere un moribondo, quindi siamo disposti ad attenuare le cifre delle riparazioni, ma se e in quanto voi sarete disposti ad attenuare le cifre e le riparazioni che chiedete a noi; e siamo disposti anche a portarle al limite zero, se voi farete lo stesso nei nostri riguardi.

Occorre porre il problema così ed è questo l’ordine del giorno che sottopongo, col consenso del Governo, nelle forme di legge, all’approvazione dell’Assemblea Costituente:

«L’Assemblea Costituente chiede che il Governo consideri senza indugio dal punto di vista giuridico la questione della cobelligeranza e la proponga agli Alleati nella forma che sarà creduta più opportuna, abbinando il problema delle riparazioni passive con quelle attive; chiedendo che le trattative per la pace con l’Italia e con la Germania avvengano contemporaneamente, e sostenendo sotto questo aspetto la necessità e la legittimità di una nostra partecipazione alle trattative con rappresentanza propria, sicché si possa addivenire ad una pace unitaria che armonizzi gli interessi delle Nazioni Unite con quelli dell’Italia e garantisca la futura pacifica convivenza delle nazioni amanti della pace».

Amici, onorevoli colleghi, quando avremo fatto ciò, ci troveremo in migliori condizioni per decidere se la pace debba essere accettata, oppure no. È un problema che dovrà essere discusso con saggezza, senza gesti impulsivi, ma dovremo pure affrontarlo un giorno.

Gli Alleati potranno dire di no alla nostra proposta, ma dal punto di vista giuridico, di fronte al mondo, si troveranno in condizioni difficili. E nessuno dica, per l’amore di Dio, che questo è nazionalismo, a meno che non si voglia sostenere che il famoso agnello della favola di Esopo fosse prepotente in confronto al lupo. È nazionalismo, anzi imperialismo, quello delle Nazioni ricche che vogliono togliere alle nazioni povere quel poco che ancora resta loro per malamente sfamarsi. Non è nazionalismo, ma soltanto sano amore di patria, che noi abbiamo il diritto e il dovere di alimentare nell’animo nostro, cercare di salvare quel poco che legittimamente ci rimane. Né alcuno dica, onorevoli colleghi, che egli si sente più cittadino del mondo che cittadino di questa nostra patria sventurata. È una comoda posizione spirituale, che io, come francescano, posso anche accettare. Ma quando si scende nel campo pratico, quando si tratta di nazioni che devono vivere insieme in un mondo diventato troppo piccolo, non si può passare al campo internazionale se prima non si è amata e servita con devozione la propria patria. Perché ogni nazione non può entrare nella futura consociazione con propositi di collaborazione e di amore, se non si sente garantita nei suoi sacrosanti diritti e rispettata nella sua unità etnica e spirituale.

Quindi, onorevoli colleghi, mal serve anche la causa dell’internazionale chi prima non sa servire la nazione in cui è nato. E quando questo avverrà e se questo avverrà, da ogni settore, tutti uniti e concordi, potremo veramente collaborare alla rinascita della patria; e potremo anche collaborare a quella internazionale di tutte le creature, che però deve essere illuminata, per essere vitale, dalla luce del vangelo, che noi tutti, con diverso animo ma con uguale amore, serviamo. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Pellizzari.

PELLIZZARI. Onorevoli colleghi, io ho seguito con viva attenzione tutti gli oratori che finora si sono succeduti in quest’aula. Ma più di ogni altro – sia detto senza mortificazione di nessuno – ha suscitato la mia attenzione e il mio interesse l’onorevole Nitti, sia perché egli fa parte della mia stessa storia e dell’epoca nella quale ho insieme con lui vissuto, sia perché l’autorità e l’esperienza dell’uomo aggiungevano interesse a ciò che egli diceva; sia, infine, perché io sono sempre stato curioso degli scritti e dei discorsi di carattere autobiografico. E quella singolare ma istruttiva mescolanza delle sue esperienze e reazioni psicologiche con le sue idee di uomo di governo, mentre nutriva la mia cultura, alimentava anche la mia fantasia. Debbo tuttavia confessare che quella autobiografia mi ha alquanto deluso, perché si è tenuta un po’ troppo alla superficie. Avrei voluto che l’onorevole Nitti fosse andato più a fondo dell’esame di se medesimo e delle conclusioni che in lui hanno suscitate i molti e drammatici eventi dei quali è stato a volte protagonista, a volte partecipe e vittima.

Mi è sembrato che troppo vi fosse di aneddoti diplomatici e di ricordi in un certo senso gastronomici, e troppo poco di ciò che più poteva riuscire istruttivo ed educativo nelle sue esperienze e vicende politiche: anche queste, non sempre interpretate, secondo me, in modo rigorosamente esatto. Quando egli ha affermato, per esempio, che per i tedeschi Mussolini era l’amico numero uno ed egli era il nemico numero uno, forse in quel parallelismo retorico egli ha esagerato i termini. Dico ciò perché ne appaiano giustificati così l’attenzione come la delusione e il dissenso ch’egli ha provocati da parte mia.

Egli ha incominciato con una lunga critica della costituzione dell’attuale Governo; critica, per dire il vero, più superficiale che sostanziale. Mi conceda l’onorevole Nitti di osservargli che questo Governo non è stato una improvvisazione dilettantistica dell’onorevole Presidente del Consiglio; è stata la conseguenza logica e necessaria degli avvenimenti che sono sfociati, attraverso la guerra e la rivoluzione, nella consultazione del popolo, e nella composizione di un governo ad essa legato e che molto probabilmente non poteva essere diverso da quello che è. Questo Governo è giustificato, onorevoli colleghi, dal risultato delle elezioni e dalla esistenza dei partiti organizzati. Lei, onorevole Nitti, ha ripetutamente definito «cattiva» la legge elettorale che ha portato in quest’aula gli attuali deputati della Costituente.

Ora, prima di esaminare se la legge sia buona o cattiva, debbo ricordarle che lei si dimostra un genitore troppo crudele con le sue creature, perché in maniera remota ma diretta questa legge dello scrutinio di lista col sistema della rappresentanza proporzionale fu per la prima volta proposta alla Camera dei Deputati e fatta approvare proprio da lei, onorevole Nitti. È stata presentata alla Camera con una sua relazione, nella seduta del 10 luglio 1919; e proprio lei, tracciando allora il suo programma, disse queste testuali parole: «Il Governo intende non solo dare vigoroso impulso alla riforma elettorale, ma farne – badate bene – il cardine della sua politica interna. Ciò – soggiungeva l’onorevole Nitti – va dichiarato nella maniera la più esplicita, perché non si crei nessun equivoco».

NITTI. È una cosa un po’ diversa.

PELLIZZARI. Ora, questa legge rispondeva, anche nelle espresse intenzioni dell’onorevole Nitti, a quelle condizioni politiche, a quel formarsi delle grandi correnti dei partiti, che egli allora vedeva, che riconosceva, e alla cui esistenza subordinava il nuovo sistema elettorale che proponeva all’approvazione della Camera dei Deputati. Questa legge evidentemente postula l’esistenza dei grandi partiti politici, di quei partiti dei quali l’onorevole Nitti teme la tirannide.

Dio mio! io, da quando ho potuto leggere giornali – e fui purtroppo nella smania di leggerli molto precoce – ho sempre sentito parlare in Italia di tirannide. Ho sentito parlare della tirannide di Crispi, poi di quella di Rudinì, e poi di Giolitti, poi dei partiti: non c’è stato un anno in Italia, in cui il partito che era all’opposizione non accusasse o di intenzioni o di attività tiranniche il partito che era al potere.

Il giuoco continua. Ma la pluralità stessa dei partiti esclude, finché essi esistano, la loro tirannide; perché i partiti sono la Nazione stessa, organizzata per grandi categorie di interessi pratici e di schemi ideali, cioè organizzata secondo la sua stessa costituzione fisiologica.

Certo, l’attuale legge elettorale, basata sullo scrutinio di lista e sulla rappresentanza proporzionale, potrà e dovrà essere migliorata in vari particolari. Per quanto concerne, ad esempio, il Collegio Unico Nazionale, essa presta il fianco a critiche molto ragionevoli, poiché conduce all’assurdo che prevalgano candidati i quali riscossero un insufficiente numero di voti, in confronto e a preferenza di altri sui quali si raccolse un numero di suffragi straordinariamente maggiore. D’altra parte queste liste nazionali, subordinate alle direzioni dei partiti, cioè ad organi non ancora inseriti nelle leggi costituzionali dello Stato, evidentemente non hanno una giustificazione sufficiente né giuridica né politica. Ma questo ed altri particolari negativi non possono vulnerare la necessità che all’esistenza dei grandi partiti politici corrisponda una legge elettorale adeguata, una legge che permetta alle grandi masse organizzate di esprimere la loro opinione non attraverso il polverizzamento individualistico dei collegi uninominali, ma attraverso la sensibilità e la professione collettiva dei grandi ideali politici e dei vasti interessi nazionali. Essa è la tutrice legale dei diritti cittadini; tanto che quando il Ministro della tirannide volle schiudere la strada ai suoi propositi di oppressione, dovette prima puntare sopra la riforma della legge elettorale, obbligando la Camera a subirla, e, solo dopo aver distrutto quell’ultima garanzia delle pubbliche libertà, riuscì a ottenere una approssimativa legalizzazione dei suoi faziosi disegni. La legge della rappresentanza proporzionale e dello scrutinio di lista fa parte del nostro patrimonio politico, e noi, per i quali essa si ricongiunge alle prime battaglie che i cattolici combatterono entrando nella vita politica italiana, la difenderemo a spada tratta come un diritto e una necessità, non solo dei partiti ma della nazione tutta. (Applausi).

Che cosa ha fatto l’onorevole De Gasperi, costituendo l’attuale Governo? Egli ha tratto le conclusioni logiche dai risultati della consultazione popolare, la quale fu libera è ordinata, come tutti hanno, riconosciuto. È fortuna che dopo le elezioni si sia potuto riconoscere la coincidenza d’interessi e, entro certi limiti, anche di principî, onde i tre maggiori partiti hanno potuto accordarsi per governare insieme.

C’è chi pensa – si è reso interprete di questo stato d’animo l’onorevole Lussu – c’è chi pensa con rammarico al più semplice e meno elegante giuoco di due soli partiti, al quale è ormai avvezzo tradizionalmente il mondo anglosassone. Esso è conseguenza di quel pacato e ragionevole empirismo che è caratteristico di quei popoli. Noi latini viviamo, come si sa, in un clima spirituale più logico e più consequenziale, ma anche più ricco di fantasia e di sentimento. Amiamo la varietà delle forme e degli aggregati umani, ed è già grande fortuna che al frammentarismo dell’epoca liberale e dei gruppetti personalistici, ai quali vanno i memori rimpianti dell’onorevole Nitti, si sia sostituita la tendenza centripeta e organizzativa di vaste tendenze pratiche e ideali.

Cosi, sottraendolo ai personalismi paesani e municipali, si abitua il popolo alla consapevolezza dei suoi doveri e lo si avvia a forme sempre più ampie e sempre più nobili di solidarietà e di fraternità, non soltanto nazionale ma anche più vastamente umana. E così lo si avvia a diventare da «paese più municipale che nazionale», come è stato definito sempre, dall’onorevole Nitti, a popolo che chiarisce e valuta i suoi interessi, che impara a sostenerli e a difenderli, che si abitua a concretare i propri sentimenti, che, infine, nel realizzare i suoi destini collettivi, riconosce se stesso, e si forma finalmente, da municipio, nazione.

Si capisce che il sistema ha i suoi inconvenienti: tra gli altri la molteplicità dei Ministri e dei Sottosegretari, la quale mal si giudicherebbe da un punto di vista puramente e grettamente tecnico e facendo il conto della serva su quello che costa di più o di meno il Sottosegretariato aggiunto o eliminato. Molti fra gli uomini di questo Governo rispondono, da un lato, ad esigenze tecniche, dall’altro lato ad esigenze politiche, non a dosaggi estrinseci o superflui, come da qualcuno si è insinuato. Il dosaggio è naturale tutte le volte che si fa un Governo di coalizione. Ai tempi dell’onorevole Giolitti e ai tempi dell’onorevole Nitti, Presidente del Consiglio, i dosaggi facevano parte della tecnica naturale della formazione di un Governo. Perché dovrebbero rappresentare un aspetto deteriore della fatica dell’onorevole De Gasperi? Ciò che giustifica il numero dei Ministri e dei Sottosegretari, onorevoli colleghi, è il fatto che le funzioni non si semplificano, ma si complicano e si moltiplicano col complicarsi della vita moderna, e i problemi da risolvere aumentano di numero con l’aggravarsi delle condizioni in cui vive il Paese.

Chiunque di voi abbia esperienza, se non di reggere un dicastero, di presiedere semplicemente a un ufficio un po’ complesso, pubblico o privato, un’azienda industriale o commerciale, quegli sa che un uomo solo «non ce la fa», che ha bisogno attorno a sé di collaboratori fidati ed esperti.

Voi dite: ma c’è la burocrazia!

Noi non siamo per la dittatura della burocrazia. Quando un Ministro è sovraccarico di affari e non ha altri a cui rivolgersi, deve mettersi nella mani dei direttori generali, dei capi divisione e dei capi sezione. È quello che si è fatto, coi frutti che tutti conoscono, durante il periodo fascista. Aggiungete che il numero dei Ministri e dei Sottosegretari non implica soltanto la presenza di competenze tecniche; implica al Governo la presenza di competenze di carattere politico. Le une e le altre costituiscono insieme la capacità amministrativa e la forza politica del Governo; rappresentano gli aggregati regionali, individuano vaste categorie di sentimenti e di necessità, i quali e le quali è giusto che siano concretati in uomini responsabili, perché il popolo degli elettori, che combatte le battaglie politiche attorno ai suoi capi, si abitua naturalmente ad oggettivare i suoi ideali, ed ha il bisogno sentimentale e morale di riconoscerli, questi ideali, nelle persone che lo guidano. Riconoscano, i superstiti amatori del Collegio uninominale, che con ciò si ripara anche al difetto lamentato dello scrutinio di lista, che sottrarrebbe in parte l’eletto agli elettori.

Non aveva siffatta scusante l’onorevole Nitti, quando, nel formare un suo Ministero, anzi l’unico Governo da lui presieduto (e presieduto in circostanze infinitamente più facili e meno dolorose che le attuali), si circondò di ben sedici Ministri e di diciassette Sottosegretari! Tenete presente che, per l’epoca, la cifra era infinitamente maggiore di quel che non sia oggi, nelle condizioni mutate e aggravate, nella popolazione accresciuta, a ben ventisette anni di distanza, il numero dei Ministri e dei Sottosegretari che ha scelti l’onorevole De Gasperi. L’onorevole Nitti giunse allora all’estremo di creare un mezzo dicastero, la cui inopportunità era evidente: egli istituì il Sottosegretariato «per la liquidazione dei servizi, delle armi e munizioni, e dell’aeronautica». Questo, o signori, all’indomani della vittoria che tutti riconoscevano ingiustamente mutilata. Ora, io non voglio fare a tutti i costi l’avvocato di questo Governo, che è solo in parte il Governo di questa frazione della Camera; ma trovo che da un punto di vista – se non pratico – ideale, è giustificato il gesto del Capo del Governo, il quale in un momento, in cui noi non sappiamo ancora se ci sarà concesso domani di avere un esercito, di possedere un avanzo di flotta e un rimasuglio di aeronautica, ha voluto affermare – ponendo tre persone a capo dei dicasteri delle forze armate – il nostro diritto a non essere avviliti dalla pace che ci si prepara, fino al punto non solo da ridurci inermi, ma da considerarci quasi indegni di avere una pur modesta forza armata. (Applausi al centro).

Abbiano pazienza gli ascoltatori, se parlo molto dell’onorevole Nitti; questo dimostra l’attenzione con la quale l’ho ascoltato e l’importanza che attribuisco alle sue parole. Ma quello stesso onorevole Nitti, il quale ora rimprovera all’onorevole De Gasperi come un «grande errore» (precise parole) il non avere riunito i due Dicasteri del tesoro e delle finanze in una sola persona, che cosa fece, onorevoli colleghi, quando poté finalmente tradurre in atto i suoi propositi di risparmiatore di spese inutili e sintetizzatore delle forze del Governo? Egli affidò le finanze all’onorevole Tedesco e il tesoro all’onorevole Schanzer: ossia sacrificò i sacri principî del suo pensiero politico a quei dosaggi dei quali all’epoca sua fu anch’egli maestro emerito. (Applausi al centro). Ma vi dirò una cosa che vi rallegrerà fra tante malinconie. Che cosa fece ancora l’onorevole Nitti in quell’occasione? Non so se molti di voi lo sappiano. Quando formò il suo Governo, come era naturale, egli assunse per sé la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli interni. Ma, vedi caso, dovendo l’onorevole Tittoni partire per Parigi per assistere alla Conferenza della Pace, assunse anche l’interim degli affari esteri; cioè fece quello di cui rimprovera con una disinvoltura, che rasenta – oserei dire – l’improntitudine, il suo coraggioso e sventurato successore, onorevole De Gasperi. (Applausi al centro).

È vero tuttavia che egli non era allora il segretario di un grande partito politico; non perché egli non fosse capace di fungere da segretario o da presidente di un grande partito politico, ma soltanto perché, a causa del suo temperamento pessimistico ed egocentrico, egli fu, è e sarà il segretario a vita di un partito composto di una persona sola: Francesco Saverio Nitti. (Applausi al centro – Ilarità).

Veniamo, dopo la critica negativa, alla critica positiva. Veniamo, dunque, al programma del primo governo della Repubblica italiana.

Il discorso dell’onorevole De Gasperi mi è piaciuto. Voi direte: «bella novità!». No, se non mi fosse piaciuto, mi sarei astenuto dal parlarne. Mi è piaciuto anche, e direi quasi soprattutto, per quel suo procedere, nella forma, probo e dignitoso, come è lo stile dell’individuo, che può apparire scabro, perché pudore spirituale e consapevolezza di uomo politico lo inducono a rifuggire dalla retorica, ma nel quale le due grandi luci del sentimento religioso e dell’amor patrio ardono inestinguibili, o signori, e si traducono in volontà salda ed operosa di bene. (Applausi).

È stata auspicata qui dentro una Repubblica di volontà e di potenza. Queste parole hanno suonato al mio orecchio in modo poco gradevole, perché la volontà e la potenza o la volontà di potenza sono quei termini dei quali si è servita la filosofia tedesca da un secolo a questa parte, per preparare certe manifestazioni di volontà e di potenza, le quali hanno culminato nelle sciagure che tutti conosciamo. Ma se, con parole povere e di origine non idealistica, volontà e potenza o volontà di potenza vogliono soltanto dire Governo consapevole e forte, è naturale: chi di noi può non desiderare che un Governo sia consapevole e forte?

È vero che nel programma del Governo non si parla dell’ordine pubblico, forse perché è cosa implicita che un Governo, quale che esso sia, si impegni a mantenere l’ordine pubblico, condizione preliminare della sua medesima esistenza. Ma non sarebbe forse male – ed io invoco a questo proposito una dichiarazione di Governo – che il proposito divenisse anche esplicito. Troppo disordine c’è ancora oggi in Italia. Non si può aprire un giornale senza leggere notizie che o fanno paura o ci costringono ad arrossire per mortificazione. Brigantaggio, pubblico e privato, scioperi non sempre legittimi, pretese disordinate di masse ancora non organicamente composte; tutto ciò esiste. Vi sono troppi residui delle accomodanti burocrazie fasciste e troppi delle spesso inconsiderate improvvisazioni post-rivoluzionarie.

Il Governo dovrà rivedere certi quadri: dovrà soprattutto rivedere le prefetture e le questure, e le amministrazioni centrali; dovrà procedere con energia; non dubito che lo farà. In quest’opera di risanamento morale del Paese esso avrà il nostro appoggio totale.

Passiamo alla politica estera. L’onorevole De Gasperi mantiene, dunque, interinalmente il relativo dicastero. Si è detto: perché nessuno lo voleva, almeno fino a che egli non avesse condotto alle estreme conseguenze la politica da lui iniziata. Non voglio credere a una simile forma di viltà nei nostri uomini politici. Preferisco pensare (e confido che in ciò sarete d’accordo con me) a una forma di consapevole coraggio in De Gasperi. Colui il quale ha iniziato, nell’ora più aspra della nostra vita nazionale, trattative quasi disperate per salvare la patria dalla mutilazione; colui che ha tentato di strappare la preda dalle mani dei nemici e degli amici, vuole, onestamente e virilmente, condurre fino al termine la sua fatica. Rendiamo omaggio a questa sua volontà di patriota e di galantuomo! (Applausi).

Ma si ripeta ciò che è o dovrebbe essere a tutti noto: egli non è il solo responsabile di quanto è accaduto e accade nella politica estera italiana. È risaputo che la politica estera, onorevoli colleghi, che il Gabinetto conduce da un anno a questa parte, è politica di Governo e non di persona; e se De Gasperi dovrà rispondere – e risponderà – di fronte al Paese di ciò che ha fatto, ne risponderà collettivamente, assieme con tutti gli uomini che gli sono accanto. (Vivi applausi).

Egli ha promesso di tendere tutte le forze alla difesa dell’italianità sulla frontiera orientale. Non duriamo fatica a credergli. Non è soltanto un capo di Governo che difende una posizione politica o i diritti generici della Patria; è anche un uomo che difende i più vicini confini della sua piccola patria: vi porrà certamente tutto l’amore e tutto l’ardore che lo legano alle montagne del Trentino natio.

Però mi permetto di suggerire alla sua esperienza, che in questo scorcio di trattative, se è ancora possibile, se si è in tempo, il Governo, anche qualora i mezzi diplomatici risultino insufficienti o incapaci ormai agli scopi desiderati, punti fino all’estremo limite sull’opinione pubblica mondiale.

E anche se fosse ancora presente in quest’aula l’onorevole Nitti (che non vedo più al suo seggio) direi il mio rammarico per il fatto che, fra tanti Sottosegretariati, non si sia pensato in questo momento a crearne uno che dal punto di vista politico e spirituale sarebbe utilissimo e che, come mi suggerisce un onorevole collega, potrebbe denominarsi della propaganda e stampa. Noi non possiamo ormai che confidare, non dirò nella pietà, ma nel senso di umana equità che, morto nei Governi, ormai smarriti e immiseriti nelle stolte competizioni dei Gabinetti, pur sopravvive nelle grandi masse delle democrazie: in quel sentimento che può e deve suscitare la nostra iniqua condizione di vincitori sconfitti e calpestati. (Approvazioni).

Bisogna parlare alle folle; questo servirà per oggi è per domani. Se i martiri del Risorgimento avessero atteso l’eco immediata e positiva delle loro parole e delle loro sofferenze, il Risorgimento non si sarebbe fatto.

Soltanto fra il 1859 e il 1870 si ebbero gli effetti della propaganda fatta da Giuseppe Mazzini e dagli altri insigni patrioti italiani attraverso il primo quarantennio del Risorgimento. E poiché il Governo ha affermato la sua solidarietà con gli italiani di oltre frontiera, accennando in modo preciso ai territori ancora contestati, permettete che io, associandomi in questo a ciò che ha detto un precedente oratore, gli ricordi (dico così per abbondanza retorica), gli ricordi e sottolinei il problema degli italiani all’estero. In tempo fascista, quando era ancora possibile ai non tesserati circolare per l’Europa, io mi recai a Budapest dove l’Accademia delle scienze mi aveva invitato a tenere alcune conferenze. Giunsi nella capitale ungherese nei giorni anniversari della fondazione di Roma; e fui invitato a parlare alle scuole italiane sull’allora auspicato e vaneggiato impero italiano. Ricordo di aver detto che, al pari di quel remoto sovrano di Spagna, anche gli, italiani avevano un impero sul quale il sole non tramontava mai. Non dovevano dunque cercare ciò che già esisteva: ed era l’impero del lavoro italiano, era l’impero dei proletari e dei professionisti sparsi per tutto il mondo e dovunque recante degne e vigili le qualità più pure e più nobili della nostra stirpe: la modestia della vita, la volontà del lavoro, la dirittura dei costumi.

Questo impero esiste, onorevole De Gasperi. Ci potranno portar via dei brani di carne, ci potranno togliere le colonie, ma non potranno mai rapinarci la prosperità, la ricchezza e le pure e alte tradizioni create dagli italiani al di là delle nostre frontiere. (Applausi).

Bisognerà fare una politica dell’emigrazione; sono certo che lei la farà, anche se essa non è menzionata nel suo programma di Governo in modo esplicito e diffuso. Tanto più ciò mi pare necessario in quanto ho sentito ricordare qui dentro, con una certa angustia di considerazione, i termini, le divisioni storiche, i problemi formidabili del grande urto di forze politiche, al quale assistiamo. Io ho la convinzione che l’attuale sconvolgimento della vita mondiale non derivi nel suo profondo – come molti ritengono – dall’urto fra opposte concezioni politiche o sociali; dunque nemmeno dall’urto fra capitalismo e proletariato. Queste sono per me le forme esteriori, gli aspetti sensibili di qualche cosa di enormemente più vasto e più duraturo.

Signori, le grandi forze che oggi si battono nel mondo per schiudersi la via all’avvenire, sono forze di interessi nazionali, di tradizioni, di civiltà, di lingua, anche di sangue, che da millenni o da secoli si battono per assicurare a sé e ai loro discendenti i più vasti spazi occorrenti alla propria espansione.

È cominciata 2500 anni fa la lotta del germanesimo contro la latinità. Non si trattava e non si tratta solo di aspirazione agli spazi vitali; spesso sono istinti, cupidigie, tradizioni, forze consapevoli e inconsapevoli, che spingono alle guerre. E da oltre un secolo nuovi contendenti si sono fatti innanzi, che camminano, come sempre, lungo la strada del sole, da oriente a occidente: il mondo slavo, che si precipita verso il Mediterraneo e verso l’Oceano atlantico.

Il mondo tedesco, che tante volte tentò di sfondare la barriera italiana, in definitiva fu sempre sconfitto, più che dalle nostre armi, dalla nostra civiltà, perché non ha mai saputo convivere con noi o, vincenti, sopprimerci. A esso si oppose, nella gara dell’espansione, il mondo anglosassone, come tutti sanno.

Sono queste, o signori, le forze di fronte alle quali noi da venti secoli stiamo territorialmente indietreggiando. (Commenti). Pensate alla formidabile massa di latinità che fu l’impero romano, e pensate al risucchio lento che a poco per volta ha ricondotto la romanità dentro i limiti delle Alpi, dei Pirenei e delle Cevenne. Ebbene, dobbiamo perciò disperare dell’avvenire? Io mi sento talmente umano che non mi atterrisce nemmeno l’idea che fra duemila anni, nel gioco alterno delle razze, quella latina sia scomparsa. (Commenti). Razze orientali, non meno ordinate e splendenti, sono da millenni scomparse e obliate. Ma vi è qualche cosa di noi che non si spegnerà giammai, ed è ciò che abbiamo creato di luce civile: e perché abbiamo dato al mondo la coscienza e la forma del diritto e perché gli abbiamo schiuso le vie alle rivelazioni dell’arte e alle conquiste della scienza; e perché tutte le volte che si è trattato di combattere per l’ideale umano, siamo stati i cavalieri dell’ideale, disinteressatamente, eroicamente. Questo non si distrugge: questo si traduce in insegnamento, in istinto civile, questo si eterna in forme ideali, che nessuna invasione o irruzione di popoli, che nessuna bomba atomica varrà a distruggere o a far obliare. (Applausi). Su questa nostra capacità e ricchezza, anche vinti e straziati, dobbiamo fidare per resistere degnamente nell’urto delle forze che oggi si contendono il mondo.

Onorevole Presidente, io non vorrei abusare della tolleranza dei colleghi: le domando, siccome avrei qualche altra cosa da soggiungere, se non sia possibile che continui domani.

PRESIDENTE. Continui, onorevole Pellizzari.

PELLIZZARI. Allora, passiamo al programma economico del Governo, Con quello che abbiamo, anzi che non abbiamo, miracoli non ne possiamo compiere; le nozze coi fichi secchi non si fanno, dice la sapienza popolare. «È necessario razionalizzare la produzione», dice l’onorevole De Gasperi. È giusto, ma attenti a non indebolire o inaridire gli stimoli, che sono generalmente razionali, della iniziativa privata. Vogliamo «assicurare agli impiegati, ai salariati, ai ceti medi, sufficienti mezzi di vita»: d’accordo, onorevole De Gasperi, ma vorrei toccare, in proposito, di un problema che è strettamente collegato con quello della giusta e doverosa retribuzione degli impiegati, e cioè la revisione, non dico la riforma, dei quadri burocratici.

Se noi vogliamo che intorno al Governo si raccolga la fiducia delle forze che liberamente operano nel Paese, quella fiducia che il Presidente del Consiglio definisce giustamente quale «condizione pregiudiziale di una sana politica», bisogna restituire la fiducia del Paese all’Amministrazione dello Stato, o, diciamo più concretamente (perché lo Stato è un termine astratto che serviva al fascismo per santificarlo, ma che noi intendiamo restituire al suo valore puramente simbolico), agli uomini nei quali l’azione quotidiana e l’esercizio del potere politico si concretano. A questo scopo, mentre concordo nella formazione del supremo Comitato direttivo per la nostra ripresa economica, mi auguro che esso sia snello e sciolto da impacci, e non mastodontico come accade spesso in casi consimili; e che sia composto da poche persone, le quali sappiano il fatto loro.

Per quanto riguarda la situazione economico-finanziaria, è giustissimo il proposito formulato dal Governo, di perseguire e «potenziare» i sistemi di accertamento e di imposizione, per proporzionare il gettito delle imposte ordinarie a quello di anteguerra, e coprire così le esigenze del bilancio ordinario. Bellissimo programma; cosa possibile e desiderabile; ma certo non ad immediata scadenza. Il Governo dovrà limitarsi ad avviare il problema a soluzione; perché bisognerà attendere, volendo ristabilire gli antichi gettiti delle imposte ordinarie, che le fonti del reddito vengano restaurate e che sia anche migliorata l’attrezzatura fiscale. In un secondo momento si dovrebbe poi provvedere a coprire le spese straordinarie, coi seguenti cespiti: prestito interno, imposta straordinaria sul patrimonio, appello al credito estero. Soltanto dopo, sui risultati di questi provvedimenti, dovrebbe venir commisurata l’ampiezza del piano di lavori pubblici per affrontare l’opera di ricostruzione…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Non dopo; vuol dire che le misure dipendono da questi provvedimenti, ma non che si aspetti fino allora.

PELLIZZARI. Prendo atto di queste dichiarazioni e mi rincresce di non aver compiutamente inteso le parole del Presidente del Consiglio.

Tuttavia, siccome ciò non potrà farsi immediatamente, desidererei che nel frattempo, per quanto sia possibile, le grandi somme oggi devolute ai sussidi di disoccupazione e i proventi del salasso quotidiano imposto necessariamente alle ditte industriali col blocco dei licenziamenti, vengano utilizzati per una più intensa politica dei lavori pubblici, in maniera che si possa favorire non più il forzato ozio, ma il doveroso lavoro dei disoccupati. (Approvazioni).

D’accordo che non si debba fare una politica di salari, di facilità e di illusioni. Mi piace che questo sia detto dal Governo al quale partecipano tutti e tre i partiti cosiddetti di massa.

Noi confidiamo nell’opera dei nostri amici comunisti e socialisti perché, insieme con noi, facciano presso le masse quella propaganda di persuasione, di chiara visione dei problemi: attuali, che deve indurle ragionevolmente a tollerare, ad avere pazienza, e, anche, a fare dei sacrifici per la necessità…

Voci a sinistra. I lavoratori hanno fame!

PELLIZZARI. Non vi irritate; siamo d’accordo tutti. Per la necessità, dicevo, che nell’interesse stesso delle masse, la nostra ripresa economica possa accompagnarsi con una vigile ed intensa ripresa del lavoro.

Voci a sinistra. Non bastano le parole!

PELLIZZARI. Nel così ricco e vario programma del Governo tralascio di parlare del problema del risarcimento dei danni di guerra, nonché della riforma agraria, attorno ai quali si intratterrà un mio collega.

Una lacuna debbo tuttavia lamentare nel programma del Governo. Si è parlato di tanti problemi; si è naturalmente e giustamente insistito sopra quelli che appaiono più urgenti, direi quasi più vitali e fatali. Ma non vi ho trovato una parola sui problemi, onorevoli colleghi, dei valori spirituali, della vita spirituale… (Commenti).

Non vi alterate, perché non desidero parlare, adesso, dei valori religiosi. Non è meno urgente provvedere alle necessità della vita spirituale che a quelle della vita materiale e fisica.

Io sono ben lungi dall’invocare in questo momento dal Governo una riforma scolastica; non sarebbe il caso di affrontare adesso un tale argomento, tanto meno con un’attività legislativa che sarà in gran parte sottratta al controllo della Costituente. Ma, tralasciando le riforme che dovranno pure aver luogo in avvenire, vi è un problema della vita morale e della vita culturale del popolo italiano, che non si può e non si deve trascurare, che, in ogni modo, deve essere ricordato in questa sede, in quest’aula, perché non si possa credere che i rappresentanti della nazione lo abbiano dimenticato proprio quando si discute dei più alti interessi della nazione.

Onorevole De Gasperi, c’è una gioventù sbandata, ci sono vaste masse di popolo – e non intendo soltanto di popolo lavoratore, parlo anche dei ceti medi e della borghesia – i quali hanno bisogno di essere rieducate ed immesse nella nuova vita nazionale.

Troppo il fascismo aveva abituato, soprattutto i giovani, alla faciloneria degli studi, al disdegno della cultura, all’arrivismo, all’arrendevolezza della coscienza. Bisogna che noi, rappresentanti dei lavoratori italiani, assumiamo come nostro compito la rieducazione dei giovani all’alto e nobile senso del lavoro e del dovere. Bisogna dare un ritmo alla scuola. Io non voglio nessun male al Ministro dell’istruzione del Gabinetto precedente, ma certamente in tutte le scuole italiane non c’è stato uno scolaro il quale abbia fatto tante vacanze abusive quante quel Ministro; e ciò in un momento nel quale era più che mai necessaria un’opera vigile, quotidiana, assidua, di rieducazione della scuola e degli insegnanti. (Commenti).

Quest’opera io invoco dal Governo. Dal Governo invoco soprattutto, e dall’onorevole Corbino, che siano dati agli istituti d’istruzione, in ispecie a quelli scientifici, i mezzi per funzionare. Io vi chiedo, onorevoli colleghi, come possano oggi le Università italiane preparare i medici, gli ingegneri, i fisici, i chimici, i professionisti di domani, quando hanno gli istituti distrutti, il macchinario rubato, le biblioteche incendiate, e quando vi sono cliniche con dotazioni di 24 mila lire all’anno! Qui non si tratta di fare economie, di tagliare sopra il lusso. Qui bisogna che gli onorevoli Ministri dell’istruzione, del tesoro e delle finanze si mettano d’accordo, e provvedano d’urgenza; sarebbe preferibile chiudere per due o tre anni le Università piuttosto che tenerle aperte in indecorosa miseria e dare agli studenti l’esempio e l’insegnamento della impossibilità di studiare e di insegnare. (Commenti).

MARTINI. Non siamo d’accordo: meglio non chiuderle.

PELLIZZARI. Ho finito, onorevoli colleghi. Vi chiedo scusa di avervi tanto tediato.

Uno dei nostri più vivaci colleghi mi diceva due ore fa che egli ormai non vede altro rimedio immediato e compiuto ai mali che affliggono l’umanità, se non un universale cataclisma, o come egli diceva, addirittura lo scoppio di una enorme bomba atomica. (Commenti). Forse sareste meravigliati se vi dicessi il suo nome: è del resto un uomo molto paradossale.

Voci. Calosso!

PELLIZZARI. No, non è Calosso. Ma non è difficile indovinare. Io mi permetto – scusate, la mia età è ormai provetta – di opporre al pessimismo dei giovani l’ottimismo di un vecchio. Io non sono di quelli che credono, come ha detto in quest’aula con mio grande dolore l’onorevole Arturo Labriola, che i maestri debbano o possano odiare i loro discepoli. Io ho quaranta anni e più di insegnamento; e l’unica gioia e l’unico premio che mi è venuto dall’insegnamento è l’amore che ho dato ai discepoli e l’amore che essi mi hanno ricambiato! (Applausi al centro). Sopra le forze di un virile ottimismo, o colleghi di tutte le parti della Camera, dobbiamo far puntello se vogliamo rifare l’Italia. Sperare, volere, domandare a Dio che ci aiuti a vincere le avversità e a ridare alla nostra Patria la somma della gloria e della gioia, che essa raggiunse in epoche passate e che deve conquistare e indubbiamente riconquisterà in un prossimo avvenire. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviata a domani.

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. Sono state presentate due interrogazioni alle quali l’onorevole Presidente del Consiglio intende rispondere questa sera stessa. Se ne dia lettura.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«I sottoscritti interrogano il Ministro dell’interno per sapere se rispondano a verità le notizie apparse in molti giornali secondo le quali gravi agitazioni sarebbero scoppiate nelle provincie di Torino e di Cuneo con l’occupazione – armata manu – di alcuni stabilimenti industriali da parte delle maestranze; e per sapere – in caso affermativo – quali provvedimenti il Governo intenda assumere per fronteggiare tale situazione e per assicurare un ordinato e legale svolgimento delle trattative tra datori di lavoro e lavoratori.

«Vittorio Badini Confalonieri, Bruno Villabruna, luigi einaudi».

«I sottoscritti interrogano il Ministro del lavoro sui motivi che hanno determinato la proclamazione degli scioperi generali in parecchie località d’Italia, e quale azione il Governo abbia svolto e intenda svolgere per evitare che episodi del genere, più che mai dannosi agli interessi dei lavoratori ed alla economia nazionale, abbiano a ripetersi.

«Meda, Avanzini, Cremaschi, Martinelli, Malvestiti».

PRESIDENTE. L’onorevole Presidente del Consiglio ha facoltà di rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Il Ministro del lavoro avrà occasione più tardi di rispondere in dettaglio, riferendosi al complesso della vertenza. Io prendo la parola da un punto di vista dell’ordine pubblico e per quello che riguarda le notizie sparsesi oggi creando un certo allarme. Dopo essere stato in contatto telefonico frequentissimo con Torino, di aver trattato coi rappresentanti della Confederazione e i rappresentanti arrivati da Torino ed aver sentito le voci anche dell’altra parte, cioè degli industriali, sono in grado di poter fare delle dichiarazioni rassicuranti.

Le informazioni esatte sono queste: nessun impiego, nessun uso e molto meno nessuna ostentazione di armi in queste vertenze. Non si può parlare nemmeno di occupazione delle fabbriche. Lo sciopero bianco di Torino non ha alcun carattere acuto. Nessun disordine è avvenuto nella giornata di ieri o di oggi. Accanto al prefetto, che è in frequente e cordiale contatto con le parti, è presente in Torino un membro del Governo che partecipa alle trattative. Ho avuto in questo momento un’ultima notizia, secondo la quale si è accertato che le trattative hanno ottima speranza di ottenere un risultato positivo. Altri delegati sindacali di Torino, come ho detto prima, sono a Roma e con questi il Ministro del lavoro, in particolare, ed altri colleghi del Governo hanno trattato. Nessuna ragione quindi di allarme in questo momento. L’impegno profondo del Governo e di tutti i membri che partecipano direttamente a queste vertenze è di risolvere le questioni in corso senza ricorrere a mezzi straordinari. Oltre questa vertenza che speriamo sia composta rapidamente e che non abbia conseguenze, direi, contagiose, abbiamo buone speranze anche di comporre, o di evitare, una minaccia che sarebbe grave: quella che riguarda Carbonia, cioè la produzione del carbone. Voi sapete che la produzione del carbone, che con mirabile sforzo è arrivata a 108 mila tonnellate al mese, è per noi questione di vita o di morte. La vertenza sindacale sorta è in tali termini che, sentiti gli interessati delle due parti, si ritiene di poterla comporre, entro domani forse, con soddisfazione.

In corso vi è ancora il conflitto dei petrolieri, il quale ha un carattere più acuto, un carattere anche quello di una notevole importanza, perché si tratta della benzina, dell’arrivo e del trasporto della benzina.

Il Governo era disposto a prendere delle decisioni molto importanti, pari alla gravità del servizio. Voi potete pensare quali sarebbero le conseguenze se ad un certo punto la consegna della benzina ci venisse sospesa dall’U.N.R.R.A. e noi non fossimo in grado di dare la benzina necessaria, nemmeno ai servizi pubblici. Le conseguenze nel mondo industriale e nel mondo dei trasporti sarebbero troppo evidenti. Il Governo intende affrontare il problema con tutta l’energia, ma dai contatti che ha avuto attraverso la Confederazione del lavoro con i rappresentanti sindacali dei petrolieri, ha ormai la speranza che non sia necessario, né opportuno, ricorrere a misure straordinarie e spero entro i prossimi giorni, se non domani, che le trattative possano condurre ad una buona soluzione.

Devo dire, perché ciò mi serve di scusa dinanzi agli oratori che a ragione, non conoscendo di quali pene era intessuto il mio pomeriggio, si sono lagnati della mia assenza da questo banco, devo dire che in queste trattative ho tenuto a dimostrare che il Governo affronta con la massima pazienza e con la massima comprensione le vertenze sindacali, ben sapendo che le condizioni e le esigenze della classe operaia, dei salariati o degli stipendiati in genere, sono legittime, ma conoscendo anche i limiti entro i quali ci è possibile venire loro incontro. Noi facciamo vivo appello alle due parti perché, memori della situazione grave del Paese, prendano le loro decisioni con un senso di grande responsabilità e di solidarietà nazionale.

Il Governo farà la parte sua e svolgerà intanto opera immediata per l’applicazione dell’impegno già preso solennemente e proclamato da questo banco per il versamento del premio della Repubblica. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Chiedo al primo firmatario della prima interrogazione, onorevole Badini Confalonieri, se si ritiene soddisfatto.

BAD INI CONFALONIERI. Ringrazio il Presidente del Consiglio della sollecitudine con cui ha risposto alla nostra interrogazione.

Devo dichiarare che siamo soddisfatti per le notizie rassicuranti, che egli ha voluto con tanta urgenza darci, circa una minore gravità dei fatti in relazione a quella apparsa sulla stampa. E mi auguro che l’opera costante del Governo possa costituire apporto concreto per addivenire, nell’ordine e nella legalità, a quei risultati proficui cui è cenno nelle dichiarazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Invito il primo firmatario della seconda interrogazione, onorevole Meda, a dichiarare se sia soddisfatto.

MEDA. I miei colleghi ed io ci dichiariamo soddisfatti delle dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Di Vittorio, e poiché si può considerare che egli parli per fatto personale, data la sua responsabilità nei confronti del movimento operaio italiano, penso che i colleghi non abbiano nulla in contrario a che egli parli. (Commenti).

GRANDI. La responsabilità è condivisa.

PRESIDENTE. Sta bene. Vuol dire che se i rappresentanti che condividono con l’onorevole Di Vittorio questa responsabilità avessero avuto desiderio di affermarla, avrebbero probabilmente chiesto di parlare.

Suppongo che in questo momento sia opportuno permettere una parziale eccezione alle disposizioni del Regolamento.

DI VITTORIO. Non insisto, e mi riservo di presentare un’apposita interrogazione sull’argomento.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulle misure che intende prendere per alleviare la grave e persistente disoccupazione che determina miseria e scontento fra i 45 mila abitanti di San Severo, in provincia di Foggia, per la maggior parte braccianti. Come è noto, tale disoccupazione ha originato i gravi disordini del 16 luglio 1946 e provocato morti e feriti in una città tradizionalmente pacifica, che chiede soltanto pane e lavoro.

«Recca».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’agricoltura, per chiedere se:

considerato che nella campagna per gli ammassi del grano nella scorsa annata 1945 uno dei maggiori ostacoli al conferimento è stato il quantitativo di grano lasciato a disposizione dei produttori in quintali 2 a persona, per numerose ed ovvie considerazioni generalmente giudicato insufficiente;

e che ora è stata aumentata la razione del pane e dei generi da minestra ai consumatori tesserati, non ritengano necessario portare a quintali 2,5 a persona il quantitativo di grano da lasciare a disposizione dei produttori, aumentando inoltre proporzionalmente le quote delle altre categorie che hanno diritto al grano in natura.

«Platone, Lombardi Carlo, Farina, Minio, Grieco, Lozza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Governo, per sapere se l’Assemblea Costituente sarà messa al corrente della precisa situazione dei nostri prigionieri militari trattenuti all’estero, nonché di quella degli internati civili e degli italiani all’estero residenti nelle nostre colonie o territori posseduti anteguerra o in nazioni già in guerra contro di noi. E per sapere anche il pensiero del Governo di fronte al programma del ritorno dei nostri prigionieri.

«Roselli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non ritenga opportuno indire al più presto i concorsi per l’insegnamento nelle scuole secondarie – generali e speciali per ex combattenti – con riserva di una certa percentuale di posti per coloro che non sono ancora rientrati dalla prigionia – ai fini di dare un certo riassetto al pubblico insegnamento danneggiato dalla discontinuità dei docenti e di avviare alla sistemazione la categoria dei supplenti e degli incaricati che si inflaziona ogni giorno di più nel numero e peggiora nella qualità e nella moralità, agevolata in tale peggioramento dallo scandaloso trattamento finanziario.

A proposito della richiesta si ricorda che i concorsi per la magistratura sono stati indetti da tempo dal Ministero di grazia e giustizia e che non è ammissibile la sperequazione esistente rispetto al Ministero della pubblica istruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della guerra, per sapere se non si ravvisi necessario disporre l’immediata sospensione del provvedimento per cui dovrebbe essere licenziato, col 31 luglio corrente, il personale civile non di ruolo (impiegati ed operai) della sezione staccata autonoma di artiglieria di Nuoro, che risultasse esuberante in base ai nuovi organici. Tale provvedimento porterebbe al licenziamento entro questo mese di 700 operai su 900, e di 40 impiegati su 56; ciò, oltre a creare una situazione molto difficile per quanto si riferisce alla manutenzione ed alla alienazione del materiale, alla bonifica del territorio ed a tutta l’economia dell’Isola, rappresenterebbe l’assoluta rovina di centinaia di famiglie perché non sarebbe possibile alla massa dei licenziati trovare nuovo impiego, data l’assenza di possibilità locali. La sospensione che si invoca, per lo meno fino alla fine del corrente anno, sarebbe in armonia col blocco dei licenziamenti finora mantenuto; risparmierebbe la rovina e la fame a centinaia di famiglie e consentirebbe di esaminare la possibilità di sfruttamento degli attuali impianti e di tutto il complesso che oggi costituisce la sezione autonoma d’artiglieria a vantaggio dell’intera economia isolana, come risulterà da apposite proposte concrete, ora allo studio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Mastino Pietro, Lussu, Murgia, Mannironi, Chieffi, Abozzi, Falchi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della guerra, per conoscere se sia vero che s’intenda licenziare gli impiegati dell’Accademia militare di Lecce e sostituirli con elementi dell’Esercito. Si fa presente che tale provvedimento provocherebbe una grave situazione di disoccupazione nella città di Lecce. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della guerra, per conoscere:

1°) se sia a conoscenza di quanto avviene nell’ospedale militare di Catanzaro, l’unico esistente in Calabria e comprendente sotto la propria giurisdizione anche il territorio della Lucania, Ospedale nel quale si stanno sopprimendo, l’uno dopo l’altro, i varî reparti (fino ad ora il gabinetto dentistico, il laboratorio, il reparto oculistico e forse in questi giorni il reparto dermoceltico) con l’evidente scopo di trasformarlo in semplice infermeria presidiaria, nonostante che esso funzioni dal 1865 e che l’esperimento di trasformazione, recentemente tentato, si sia dimostrato tanto inutile e dannoso da doverlo restituire rapidamente alla sua precedente funzione;

2°) se, ciò constatato, non intenda impedire che venga adottata questa misura palesemente ingiusta poiché a causa sua due regioni – le sole d’Italia – verrebbero a restare prive di ospedale militare con grave danno degli interessati e della salute pubblica in generale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) quali provvedimenti intenda prendere per eliminare almeno in parte le pessime condizioni del traffico ferroviario per passeggeri nel settore jonico della Calabria, settore sempre trascurato, anche prima del fascismo, oggi in completo abbandono, essendo il litorale jonico calabrese servito da un unico treno (Reggio Calabria-Taranto e viceversa), che attraversa la Calabria durante la notte (per cui, essendo i paesi della zona tutti interni, un viaggio diventa una cosa faticosissima per le difficoltà di raggiungere nelle ore notturne le stazioni ferroviarie), formato esclusivamente da carri bestiame, spesso senza nemmeno le rudimentali panche per sedere;

2°) cosa intenda fare a favore del settore Catanzaro Marina-Santa Eufemia, che si trova quasi nelle identiche condizioni e per il quale sarebbe assolutamente necessario che invece di una sola e sgangherata vettura diretta di terza classe Catanzaro-Roma ve ne fossero almeno due, dato l’enorme afflusso dei viaggiatori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere se i pensionati fruiranno del premio della Repubblica, o se si provvederà in altro modo affinché i loro diritti non vengano trascurati in tale occasione e per tale titolo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roselli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga opportuno, giusto e doveroso abolire il controllo armato che accompagna la trebbiatura del grano, controllo che umilia ed offende la dignità, la buona volontà produttiva degli agricoltori, specie dei piccoli coltivatori diretti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20,35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

VI.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Presidente                                                                                                        

Bencivenga                                                                                                      

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Per l’anniversario della morte di Cesare Battisti:

Greppi                                                                                                               

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Lucifero                                                                                                           

Nomine di Sottosegretari di Stato (Annuncio):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Sostituzione di Deputati dimissionari:

Presidente                                                                                                        

Opzione e sostituzione dei Deputati eletti in più circoscrizioni:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio

dei Ministri:

Lussu                                                                                                                

Labriola                                                                                                          

Pecorari                                                                                                           

Interrogazioni e interpellanze (Annuncio):

Presidente                                                                                                        

Battisti, Segretario                                                                                           

La seduta comincia alle 16,30.

BATTISTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

BENCIVENGA Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all’onorevole Bencivenga, desidero trarre dagli incidenti di ieri – che non conviene drammatizzare, ma che non si debbono nemmeno trascurare – un insegnamento.

L’Assemblea Costituente non è un’accademia scientifica in cui le discussioni avvengono con la serenità propria degli uomini di scienza: un’assemblea politica è un microcosmo in cui si riflettono tutte le passioni che agitano l’anima nazionale. Vi si dibattono tutti i problemi che travagliano la vita del popolo, ed è possibile, ed anche inevitabile qualche volta, quando la situazione del Paese è drammatica, che drammatiche siano le sue discussioni.

Ma ciò che non è possibile in un’assemblea è che le discussioni avvengano in modo incoerente, assurdo.

Ora, ciò che è avvenuto ieri è assurdo.

Abbiamo veduto ieri un vecchio uomo di Stato pronunciare un discorso, interrotto proprio da coloro che per venti anni furono suoi compagni di esilio, che per venti anni divisero con lui i suoi dolori e le sue speranze.

Altra incoerenza. Abbiamo veduto ieri un valoroso soldato, il quale mosse un rimprovero ingiusto; contro chi? In fondo contro se stesso, perché anche l’onorevole Bencivenga, per venti anni è stato esule, e nella forma più dura: esule in patria!

Vorrei richiamare quindi tutti ad una maggiore coerenza e austerità nella discussione e ricordare che non sarà possibile compiere un lavoro utile, se non vi sarà un minimo di reciproca tolleranza. (Vivissimi applausi).

Ha facoltà di parlare l’onorevole Bencivenga.

BENCIVENGA. Non ho che da ripetere, in un’atmosfera che debbo ritenere più serena, quello che dissi per sera: che quella parte del discorso, che ha scatenato il tumulto, non conteneva offese per alcuno.

Nel muovere acerba critica ai Governi del C.L.N. io ravvisai in essi alcuni aspetti di rassomiglianza coi governi della Restaurazione che si costituirono in Francia dopo il crollo di Napoleone I.

Il riferimento agli emigrati era in relazione a questo argomento.

È semplicemente arbitrario, per non dire assurdo, pensare che io nel rilievo fatto abbia voluto comprendere senza discriminazione tutti gli emigrati, fra i quali conto numerosi amici che molto stimo e di taluni dei quali conosco l’opera patriottica, altamente meritoria, spiegata per l’Italia e per la libertà.

Mi si permetta rilevare che se, coi metodi che vanno usati nei Parlamenti, mi si fosse chiesto tal chiarimento non avrei mancato di darlo ier sera stessa.

Ciò detto, non posso fare a meno di rinnovare la protesta per le violenze usate, nell’aula della Costituente, ad un rappresentante del popolo che ha il diritto e il dovere di esprimere il pensiero dei suoi elettori. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Bencivenga, considero l’incidente esaurito.

Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i Deputati Leone e Vigna.

(Sono concessi).

Per l’anniversario della morte di Cesare Battisti.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Greppi. Ne ha facoltà.

GREPPI. Onorevoli colleghi, cade in questi giorni il 30° anniversario dalla morte eroica di Cesare Battisti. (L’Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi). Egli è stato un Grande Italiano e un socialista ispirato, ed è con purissima e comprensibile commozione che noi lo evochiamo ed invochiamo oggi nel Parlamento che non lo ebbe partecipe, ma del quale fu, fra altra gente, in altra terra, con tanto pericolo e con estremo coraggio, uno dei messaggeri più ardenti e fedeli. Uomo politico e combattente, cospiratore e partigiano, non lo abbiamo mai sentito più nostro e più attuale. Lo catturarono fra i suoi monti, che erano un tempo la sua Patria e il suo esilio; lo giudicarono come un fuori legge; lo fecero salire alla gloria del patibolo. E nell’ucciderlo come sempre è accaduto e come sempre dovrà accadere per i giusti – lo hanno immortalato. Ora egli è qui con noi, con quella sua fronte mirabilmente eretta che la morte, invece di piegare, sembrò fissare in una più granitica fierezza; è qui restituito, rivendicato dopo il tentativo ingenuo e vano del fascismo di usurparlo, di farne il postumo assertore di una parte sola e della meno degna. Si è ribellato ancora una volta, ha combattuto con noi, ci ha ispirati, ci ha guidati. Era morto per l’Italia; voleva essere di tutti gli italiani.

Rivendicato, restituito; ma il suo spirito ancora non si dà pace. Se è vero che gli Eroi sopravvivono nei loro sogni e non disarmano fino a quando questi non siano realizzati (e tra noi c’è qualcuno, l’erede naturale, che meglio di tutti lo sa) Cesare Battisti chiede di essere un Capo anche qui, il più ascoltato. E certo le sue parole ci suoneranno più alte e incoraggianti che mai.

Esse ci dicono, col sigillo della verità testimoniata dal martirio, che la Patria è una cosa sola col nostro onore, con la nostra libertà, col nostro sacrificio; che non è somma di creature e nemmeno misura terrestre, ma la storia, la passione, la speranza di tutta una gente; che è meschino cercare la concordia fra i popoli nella geografia e nella strategia e che soltanto in un reciproco intransigente rispetto, in una profonda, vissuta confidenza morale potrà essere effettivamente raggiunta e conservata.

E nel suo accento aspro ed accorato sentiamo riecheggiare, con la voce di Trento e della Valle dell’Adige, quella di Trieste e dell’Istria e di tutte le terre minacciate. Ma non è soltanto una raccomandazione o una preghiera: è un monito, è un imperativo.

«Non lasciatevi umiliare, non abbandonate i vostri fratelli; resistete contro ogni ingiustizia che vi si voglia fare. Le ingiustizie ricadono solidalmente su chi le subisce e su chi le commette. Nel difendere l’integrità, l’unità della Patria, voi difendete la stessa solidarietà umana e la pace. E fatevi strenui banditori, ma con quella fede che non dovrebbe muovere soltanto le montagne allegoriche, di una intesa ragionevole e civile, che spezzi finalmente il sinistro incantesimo dell’egoismo nazionale, fonte illusoria di fortune per pochi e di effettive catastrofi per tutti».

Per ripeterci questo, dopo oltre venti anni di silenzio e di rinnovato esilio, Cesare Battisti è qui ancora con noi e le sue parole hanno la potenza irresistibile nella sua fede e nel suo esempio.

I grandi italiani tornano all’Italia. Possa l’Italia tornare con loro, per loro, al suo posto meritato e dignitoso tra gli Stati d’Europa e del mondo. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Sono certo di interpretare il pensiero dell’Assemblea associandomi alle nobili parole pronunziate dall’onorevole Greppi in memoria di Cesare Battisti.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Come Presidente del Consiglio e come Deputato trentino, testimone della gloriosa attività di Cesare Battisti e della sua tragedia, mi associo alle parole altissime pronunziate dal collega onorevole Greppi, e soprattutto mi associo all’augurio ed impegno della difesa della italianità e della unità della Patria, che nel ricordo e nella memoria di Cesare Battisti oggi sono state invocate. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Chiedo scusa se manco ad una tradizione parlamentare; ma ho chiesto la parola, perché vedo in questa giusta e santa commemorazione di Cesare Battisti un atto di unità nazionale, che è particolarmente prezioso in questa Assemblea.

Cesare Battisti è stato un repubblicano nobilissimo che è morto per l’Italia quando l’Italia era retta in Monarchia. Credo che non sia inopportuno che un monarchico, che è stato ed è monarchico, dichiari come omaggio di italiano alla memoria di Cesare Battisti, come dovere d’italiano verso la Patria, che, allo stesso modo dei repubblicani di ieri, i monarchici di oggi sono i servitori e i figli della Patria, in qualunque momento questa Patria, sotto qualunque forma, possa avere bisogno di loro e del loro sacrificio. (Applausi).

Annuncio di nomine di Sottosegretari di Stato.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Mi onoro informare che il Capo provvisorio dello Stato, su mia proposta, sentito il Consiglio dei Ministri, ha nominato Sottosegretari di Stato:

Presidenza: Cappa avv. Paolo; Esteri: Giolitti dott. Antonio; Esteri (Italiani all’estero): Lupis avv. Giuseppe; Interno: Corsi dott. Angelo; Grazia e Giustizia: Marazza Achille; Finanze: Scoca prof. Salvatore; Tesoro: Petrilli prof. Raffaele Pio; Tesoro (Danni di guerra): Cavallari avv. Vincenzo; Guerra: Martino avv. Enrico; Chatrian gen. Luigi; Aeronautica: Fiorentino ing. Giosuè; Istruzione pubblica: Bellusci Giuseppe Salvatore; Lavori pubblici: Restagno Pier Carlo; Agricoltura: Spano Velio; Trasporti: Jervolino avv. Angelo Raffaele; Industria e commercio: Tremelloni dott. Roberto; Brusasca avv. Giuseppe; Lavoro: Cassiani avv. Gennaro; Assistenza postbellica Cacciatore ing. Luigi; Carignani avv. Giovanni; Commercio con l’estero: Chiostergi prof. Giuseppe; Marina mercantile: Montalbano prof. Giuseppe.

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella tornata odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni sotto elencate e concorrendo negli eletti le qualità richieste dalla legge elettorale, ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti deputati:

per il collegio I (Torino, Novara, Vercelli): Calosso Umberto, Fornara Pierino, Carmagnola Luigi, Jacometti Alberto, Bonfantini Corrado, Luisetti Virgilio, Carpano Maglioli Ernesto, Giua Michelino, Togliatti Palmiro, Secchia Pietro, Roveda Giovanni, Moscatelli Vincenzo, Leone Francesco, Scarpa Sergio, Scalfaro Oscar, Pastore Giulio, Colonnetti Gustavo, Bertola Ermenegildo, Pella Giuseppe, Bovetti Giovanni, Stella Albino Ottavio, Geuna Silvio, Quarello Gioachino, Einaudi Luigi;

per il collegio II (Cuneo, Alessandria, Asti): Longo Luigi, Lozza Stellio, Giolitti Antonio, Romita Giuseppe, Calosso Umberto, De Michelis Paolo, Grilli Umberto, Scotti Alessandro Filippo, Brusasca Giuseppe, Bertone Giov. Battista, Baracco Leopoldo, Bubbio Teodoro, Raimondi Giuseppe, Bellato Angelo, Giacchero Enzo, Einaudi Luigi;

per il collegio V (Como, Sondrio, Varese): Buffoni Francesco, Bernardi Adriano, Basso Lelio, Momigliano Riccardo, Mariani Enrico, Pajetta Giuliano, Morelli Luigi, Vanoni Ezio, Del Curto Giovanni, Tosi Enrico, Martinelli Mario, Ferrario Celestino;

per il collegio VI (Brescia, Bergamo): Montagnana Mario, Caprani Carlo, Cavalli Antonio, Bulloni Pietro, Montini Lodovico, Cremaschi Carlo, Belotti Giuseppe, Vicentini Rodolfo, Roselli Enrico, Bazoli Stefano, Mentasti Pietro, Ghislandi Guglielmo, Bianchi Costantino, Vischioni Felice, Bonomelli Oreste.

per il collegio XIX (Perugia, Terni, Rieti): Farini Carlo, Fedeli Armando, Pollastrini Elettra, Cingolani Mario, Ermini Giuseppe, Federici Maria, Nobili-Oro Tito, Binni Walter;

per il collegio XX (Roma, Viterbo, Latina, Frosinone): De Gasperi Alcide, Corsanego Camillo, Giordani Igino, Campilli Pietro, Dominedò Francesco, Bonomi Paolo, Andreotti Giulio, Di Fausto Florestano, Angelucci Nicola, Guidi Angela, Caronia Giuseppe, Conti Giovanni, Della Seta Ugo, Azzi Arnaldo, Grisolia Girolamo, Perassi Tomaso, Romita Giuseppe, Saragat Giuseppe, Nenni Pietro, Giannini Guglielmo, Patrissi Emilio, Togliatti Palmiro, Nobile Umberto, D’Onofrio Edoardo, Minio Enrico, Selvaggi Vincenzo, Bencivenga Roberto, Orlando Vittorio Emanuele, Nitti Francesco;

per il collegio XXII (Benevento, Campobasso): Colitto Francesco, De Caro Raffaele, Cifaldi Antonio, Bosco Lucarelli Giambattista, Camposarcuno Michele, Ciampitti Giovanni, Perlingieri Giovanni;

per il collegio XXIII (Napoli, Caserta): De Gasperi Alcide, Jervolino Angelo Raffaele, Leone Giovanni, Chatrian Luigi, Notarianni Giuseppe, Riccio Stefano, Titomanlio Vittorio, Caso Giovanni, Rodinò Ugo, De Michele Luigi, Porzio Giovanni, Corbino Epicarmo, Nitti Francesco, Labriola Arturo, Croce Benedetto, Crispo Amerigo, Sereni Emilio, Amendola Giorgio, Giannini Guglielmo, Venditti Milziade, Rodinò Mario, Coppa Ezio, Selvaggi Vincenzo, Bencivenga Roberto, Pertini Alessandro, Salerno Nicola.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e salvi i casi d’incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Sostituzione di Deputati dimissionari.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dimissioni dei Deputati Piero Montagnani e Niccolò Carandini, accettate ieri dalla Camera, ed ha proceduto all’accertamento dei candidati che, a termini dell’articolo 64 del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, seguono immediatamente l’ultimo eletto nella rispettiva lista, proponendone la proclamazione.

Pertanto al seggio lasciato vacante dall’onorevole Montagnani nella circoscrizione IV Milano-Pavia subentra il candidato Mezzadra Domenico.

Al seggio lasciato vacante dall’onorevole Carandini nel collegio unico nazionale subentra il Deputato De Caro Raffaele, già eletto altresì nella circoscrizione XXII Benevento-Campobasso, ove gli subentra il candidato Morelli Renato.

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella seduta odierna, ha preso atto delle dichiarazioni di opzione fatte da Deputati convalidati eletti in più collegi e ha proceduto per le circoscrizioni cui essi hanno rinunziato, all’accertamento dei candidati subentrati, proponendone la proclamazione.

Al deputato Alcide De Gasperi, che ha optato per la circoscrizione di Trento, subentra per la circoscrizione di Roma il candidato De Palma Giacomo e per quella di Napoli il candidato Numeroso Raffaele.

ÀI deputato Giuseppe Bettiol, che ha optato per la circoscrizione di Verona, subentra per la circoscrizione di Udine il candidato Gortani Michele.

Al deputato Ruggero Grieco, che ha optato per la circoscrizione di Lecce, subentra per la circoscrizione di Ancona la candidata Bei Adele.

Al deputato Umberto Terracini, che ha optato per la circoscrizione di Genova, subentra per la circoscrizione dell’Aquila il candidato Corbi Bruno.

Al deputato Giancarlo Pajetta, che ha optato per la circoscrizione di Milano-Pavia, subentra per la circoscrizione di Mantova-Cremona il candidato Bianchi Bruno.

Al deputato Giuseppe Saragat, che ha optato per la circoscrizione di Roma, subentrano il candidato Grazi Enrico per la circoscrizione di Siena e il candidato Lupis Giuseppe per la circoscrizione di Catania.

Al deputato Giuseppe Romita, che ha optato per la circoscrizione di Cuneo, subentra il candidato Carboni Angelo per la circoscrizione di Roma.

Al deputato Umberto Calosso, che ha optato per la circoscrizione di Torino, subentra il candidato Chiaramello Domenico per la circoscrizione di Cuneo.

Pongo ai voti queste proposte.

(Sono approvate).

S’intende che da oggi decorre, nei riguardi dei nuovi proclamati, il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Onorevoli Colleghi, chi ha vissuto questi ultimi vent’anni di lotta politica molto intensamente ha il dovere di esprimere le preoccupazioni e le ansie sulla presente situazione generale politica, sulla ancora nascente, debole democrazia italiana e sulla stessa vita del nostro Paese.

Mi sia consentito prima di tutto fare un rilievo breve su questa strana forma di provvisorietà che si è data al Capo dello Stato. Il Capo dello Stato si chiama Capo provvisorio dello Stato. Perché provvisorio? Sembrerebbe che non è provvisorio solo il Capo, ma persino lo Stato, cioè la Repubblica. (Commenti). Vero è che noi viviamo in un periodo eccezionale, che ha la durata di otto mesi, diciamo pure di un anno; ma entro quest’anno, prima della convocazione del futuro Parlamento, è chiaro che in realtà niente è provvisorio. Non è provvisorio questo Governo, che è il Governo legittimo della Nazione; non è provvisoria quest’Assemblea, che è l’Assemblea Costituente sovrana eletta a suffragio universale e liberamente; e non è provvisorio il Capo dello Stato. E tanto meno è provvisoria una carica, con questo carattere di provvisorietà che sembra suonare instabilità e interinato, ricoperta da un uomo verso il quale per le sue alte qualità convergono la fiducia e la speranza della Nazione. (Vive approvazioni).

Non è una questione di forma; è anche una questione di sostanza; e in politica la questione di forma, come spesso avviene in altre manifestazioni dell’attività umana, è anche questione di sostanza.

Per questa identità di forma e di sostanza, parecchi fra di noi avrebbero preferito vedere il Capo dello Stato, il primo Presidente della Repubblica Italiana, anziché vagare come un inquilino non fortunato fra Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Giustiniani, entrare alla sua vera sede e casa: al Quirinale.

Il Paese e la Repubblica hanno bisogno non di provvisorietà, ma di stabilità. Io mi auguro che il Governo, d’accordo con questa Assemblea, trovi il sistema di riparare a questo inconveniente.

E poiché questo è il primo Governo che si costituisce nella Repubblica ed è questa la prima crisi che si risolve, mi sia consentito anche esprimere una critica alla forma con cui questa crisi è stata condotta, cioè al comportamento fra il designato a costituire il Ministero e quest’Assemblea.

Prima di questo Ministero, il designato a costituire il Governo interpellava i capi e le direzioni dei partiti politici, ed era naturale: non vi era il Parlamento, e solo i partiti politici allora militanti nella democrazia rappresentavano obbligatoriamente il Paese. Oggi c’è quest’Assemblea, la quale è anche Parlamento. Quando il Capo dello Stato quindi dà incarico al Primo Ministro designato a costituire il nuovo Governo, il Primo Ministro designato si deve rivolgere ai rappresentanti parlamentari di quest’Assemblea e non alle direzioni dei partiti politici. Anche questa è una questione di forma e di sostanza. Noi sappiamo perfettamente che i partiti politici sono rappresentati in seno ai gruppi parlamentari in quest’Aula, che le direzioni stesse vi sono in gran parte rappresentate e quindi le direzioni politiche sono in perfetto accordo con i gruppi parlamentari; tuttavia la direzione politica del partito è una cosa e questa Assemblea è un’altra. È su questo che io desidero richiamare l’attenzione del Governo e della stessa Assemblea. E cito l’Inghilterra come esempio, non già perché l’Inghilterra debba guidarci in questa materia, ma certamente in materia di abitudini parlamentari e di princìpî costituzionali l’Inghilterra può essere di guida per diversi paesi e il suo esempio può servire agli altri.

Voi ricorderete il grosso scandalo recentemente scoppiato alla vigilia delle elezioni in Inghilterra quando il Signor Laski, Presidente del Comitato nazionale esecutivo del Labour-Party, è intervenuto, poco prima della conferenza di Potsdam, sul comportamento di Attlee, chiamato da Churchill a partire con lui per la conferenza. Ebbene, una grande offensiva elettorale fu scatenata da Churchill nei giorni 2 e 3, alla vigilia delle elezioni politiche del 5 giugno, tanto che Attlee dovette intervenire contro il rappresentante del partito conservatore per dimostrare infondata la preoccupazione che influenze estranee al Parlamento toccassero la volontà del Parlamento stesso e la sua emanazione, il potere esecutivo. Attlee dichiarò testualmente: «In nessun tempo ed in nessuna circostanza la Direzione del partito ha avuto intenzione di dare istruzioni al gruppo parlamentare del Labour Party a cui il Presidente del Comitato esecutivo nazionale non ha diritto di dare istruzioni».

Ho fatto questo rilievo perché ritengo che all’inizio della ricostruzione della nostra vita costituzionale e parlamentare democratica, noi dobbiamo incominciare bene.

Ed entro subito in merito alle dichiarazioni del Governo, toccando il problema della politica estera che giustamente il Capo del Governo ha esposto per primo, in quanto fondamentale. Questa è infatti la questione essenziale in questo momento. In tempi normali è la politica interna che influisce sulla politica estera, ma vi sono alcuni momenti, come quello che attraversiamo, in cui è la politica estera che può influenzare enormemente tutta la politica interna del Paese. Noi corriamo il pericolo che si sviluppi una forma morbosa di nazionalismo, che può essere un enorme danno. Di tutte le pesti, il nazionalismo è certamente la peste politica più contagiosa e quella che può essere la più fatale; è una malattia che peraltro si sviluppa sia presso i popoli vincitori, come noi vediamo in questo momento, sia nei popoli vinti; con questa differenza: che mentre nei popoli vincitori essa si sviluppa in progressione aritmetica, nei popoli vinti si sviluppa quasi sempre in progressione geometrica. Guai al nostro Paese se conoscesse questa peste! Sarebbe il crollo di tutto: non pace, non democrazia, non ricostruzione, non Repubblica né vita del Paese.

Certo, ci troviamo in una situazione terribilmente difficile: il nostro rappresentante, il rappresentante dell’Italia, proprio oggi, è chiamato affrettatamente a Parigi, chiamato così come si chiama l’imputato per mezzo di usciere. L’episodio ci dimostra in quale considerazione noi siamo tenuti.

La situazione è veramente drammatica: nessuno può invidiare questo Governo per la responsabilità che esso deve assumere in questi giorni.

La situazione presente è grave perché è tutta viziata da un fatto fondamentale: le grandi Potenze, tutte, nessuna esclusa, sono entrate nella guerra trascinate dalla difesa necessaria dei propri interessi, anche se qualche volta legittimi; ma hanno dovuto fare appello, per avere la coscienza del mondo con loro – e soprattutto quella dei popoli oppressi – a princìpî e verità universali. Ed hanno certamente parlato in buona fede Roosevelt e Churchill dal piroscafo Potomac nell’Atlantico, quando è stato lanciato il grande messaggio dei quattro punti. Hanno certamente parlato in buona fede tutti, nel momento del pericolo. Essi, cioè, hanno saputo – così come facevano e fanno tutt’ora gli onesti integerrimi commercianti quacqueri e facevano i grandi banchieri di San Giorgio – conciliare i loro affari con la loro coscienza.

Quest’appello ha dimostrato come i grandi artefici della vittoria siano stati capaci di sconvolgere l’opinione e la coscienza del mondo.

Poi, passato il pericolo, che cosa è avvenuto? Una politica egoistica: ognuno si preoccupa dei propri interessi. La politica non è morale, e tanto meno la politica estera. Per questo, noi ci troviamo in una situazione che pare non presenti soluzioni possibili, che pare senza rimedio.

Ma sia consentito a noi che siamo chiamati a firmare questo trattato di pace e, con la firma, a dichiarare implicitamente che noi tutti, tutto il popolo italiano, siamo responsabili del fascismo e della guerra, sia consentito di esprimere le nostre idee. Vediamo un po’ rapidamente le responsabilità sul fascismo negli anni immediatamente precedenti alla guerra. Chi ha vissuto quel periodo non può dimenticare. I dirigenti responsabili della Francia signor Daladier e dell’Inghilterra signor Chamberlain, i rappresentanti di queste due grandi Nazioni che, per le loro alleanze e le loro amicizie, avevano la chiave della situazione europea, hanno fatto esclusivamente una politica di incoraggiamento al fascismo per trascinare le grandi potenze fasciste, per trascinare la Germania, anzitutto, alla guerra e all’aggressione contro la Russia Sovietica. Monaco è opera loro. La guerra è opera loro.

Lo storico fra cinquant’anni non vedrà niente di queste cosiddette nostre responsabilità, che diventeranno un piccolo granello di sabbia nel deserto, vedrà solo la manovra compiuta dalle grandi potenze contro la Russia sovietica.

È stata fatta una politica di incubazione del fascismo. Il signor Churchill, il signor Daladier, hanno fatto con Hitler esattamente quello che ha fatto in Italia Giolitti con Mussolini. Mussolini era incapace di covare, da sé, l’uovo fascista. Giolitti credeva di poter allevare Mussolini: lo riscaldò, lo accarezzò, lo portò persino con sé trionfalmente alle elezioni politiche, sicuro di servirsene per domare il partito socialista; ma l’uccello ha dimostrato quello che era, e noi sappiamo che cosa è successo. Lo stesso è stato fatto dai grandi per l’uovo nazista in Germania. Senza ciò, Hitler, non si sarebbe mai potuto affermare né in Germania, né in Europa, e tanto meno avrebbe potuto sconvolgere tutto il mondo. Il cuculo, che pare sia un uccello di rapina, non è capace di covare le sue uova. Le depone nei nidi altrui e sono le miti pernici, le dolci quaglie e le tortorelle tubanti che le covano; e poi l’uovo si schiude e l’uccello sviluppa il becco e gli artigli e spicca il volo.

Io pregherei gli onorevoli colleghi tutti di qualunque settore politico, e pregherei il Presidente del Consiglio e Ministro degli esteri, di leggere un libro apparso il 1943 in Inghilterra, il libro di un giornalista inglese, Cassius, col titolo di «Trial of Mussolini», che è apparso anche in edizione italiana, recentissimamente, con questo titolo: «Un inglese difende Mussolini». In questo libro sfilano tutti i grandi inglesi, Sir Austin Chamberlain, Lord Rothermore, Neville Chamberlain, Lord Simon, Sir Samuel Hoare, Lord Halifax, Amery, Duff-Cooper, lord Mottiston, Hore Belisha e lo stesso Churchill, che consideravano Mussolini come un caro figliolo e lo accarezzavano e gli stringevano la mano e lo abbracciavano, lo incoraggiavano, lo appoggiavano, lo sostenevano, mentre qui in Italia Matteotti veniva assassinato, a Roma, mentre poco dopo Amendola moriva a Cannes in seguito all’aggressione fascista (onorevole Bencivenga, ricordate, perché eravate suo compagno di gruppo e sedevate nel suo stesso settore) e poco dopo Gobetti moriva in esilio, e poi Turati e Treves andavano in esilio e vi morivano, Modigliani in esilio, Don Sturzo obbligato ad andare in esilio, Lucetti condannato all’ergastolo, e fucilati Sbardellotto e Schirru che avevano tentato di sopprimere Mussolini.

E poi tutto il resto: l’antifascismo contro la guerra d’Abissinia, le formazioni volontarie repubblicane contro Franco in Spagna, l’assassinio in Francia di Carlo e Nello Rosselli uccisi dai fascisti francesi e italiani… Tutto questo non è nulla di fronte all’innumerevole serie di martiri, qui e all’estero, in carcere o fuori, e di migliaia d’altri che hanno complottato, rischiato e sofferto, come la gran parte di voi onorevoli membri del Governo, come la gran parte di voi, onorevoli colleghi di questa Assemblea.

V’è il popolo spagnolo. Non esiste nessun popolo nel mondo che abbia combattuto per la libertà più del popolo spagnolo. Eppure esso da circa sette anni subisce il terrore di Franco e non può liberarsi. Chi potrebbe accusare il popolo spagnolo di essere responsabile del regime fascista di Franco? E si può rendere responsabile questo nostro popolo che ha subito il fascismo col colpo di stato, con le leggi eccezionali, con il terrore? Neppure gli Alleati hanno sempre pensato questo.

Nel messaggio di Heisenhower al popolo italiano del 29 luglio si dice: «Italiani, noi veniamo da liberatori». Cioè veniamo a liberarvi dal fascismo che vi opprime.

Il popolo italiano è vittima, non complice.

Il messaggio del Presidente degli Stati Uniti di America e del Primo Ministro della Gran Brettagna del 16 luglio 1943 agli italiani dice: «Italiani assoggettati da Mussolini e dal suo regime». Assoggettati! Il popolo ha accolto da liberatori gli Alleati in Sicilia, in Calabria, a Roma, dovunque. Come liberatori, non come giustizieri. E lo stesso messaggio che io ho citato pocanzi finisce in questi termini: «È giunta per voi l’ora di decidere se gli italiani devono morire per Mussolini o per Hitler, o vivere per l’Italia e per la civiltà».

In quel «vivere» c’è involontariamente del sarcasmo!

Ebbene il popolo italiano ha deciso non già di morire per Hitler o per Mussolini e tanto meno di vivere per sé, ma ha deciso di morire per l’Italia e per la civiltà. Ed è sorto il grande movimento partigiano, sorretto da tutto il popolo, nelle città e nella campagna, volontà di liberazione scaturita dalla coscienza nazionale. E non ha atteso Norimberga il popolo italiano per applicare l’estrema sanzione contro i massimi responsabili. Ed ha spodestato la dinastia, responsabile del fascismo e della guerra, che pure aveva. profonde radici nel popolo italiano e nella sua storia.

Certo, se la Corona avesse fatto il suo dovere e, vista la tragica situazione del Paese, avesse volontariamente abdicato nell’interesse della Nazione, un governo repubblicano non responsabile né del fascismo, né della guerra, avrebbe potuto rappresentare il Paese e non si sarebbe avuto quell’armistizio che è veramente un miserevole tentativo di salvataggio personale ai danni della nazione.

Tuttavia l’atto aggiuntivo dell’armistizio, il cosiddetto documento di Quebec, dice che le condizioni dell’armistizio sarebbero state modificate in favore dell’Italia, ma che questa modifica dipendeva dalla entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano.

Il Presidente del Consiglio, alla Consulta, ha citato il documento di Quebec.

Ebbene, gli Alleati debbono chiedersi: poteva il popolo italiano nelle condizioni in cui si trovava, fare di più? Poteva fare uno sforzo maggiore? E qui il Presidente del Consiglio francese, che è stato il Capo del movimento di resistenza in Francia, può fare il confronto fra la situazione italiana, in cui il fascismo esisteva da 23-24 anni, e quella francese, dove il fascismo di Laval e di Petain esisteva da soli tre anni, e dire se l’Italia poteva fare di più. Neppure la Francia, in quelle condizioni poteva fare di più. Anche la Francia è stata liberata dopo le grandi battaglie date dalle grandi armate alleate sul suo territorio. Un uomo politico della Conferenza dei Quattro, al Lussemburgo, secondo quanto scrive Il Popolo di Roma,e pare si tratti di Bidault – avrebbe detto che, in fondo, bisognava che l’Italia non avesse fatto la guerra. Ma lo stesso poteva dirsi per la Francia di Napoleone III, nel 1870. La Francia ha fatto la guerra che Napoleone III voleva non il popolo francese. Ha dovuto capitolare e firmare, ma di fronte a sé aveva Bismarck e l’imperialismo germanico, mentre noi abbiamo le grandi democrazie, che non possono dimenticare che la democrazia costituisce una costruzione universale che non consente compartimenti stagni.

Io credo che, se le conclusioni dei Quattro dovessero rimanere immutate, l’Italia si troverebbe in questa miserevole situazione: senza pace con nessuno, senza pace con la Francia ostile, senza pace con gli Stati Uniti d’America, non ostili ma quasi, senza pace con l’Inghilterra, senza pace con la Russia Sovietica, senza pace con la Jugoslavia. Ed allora che cosa sarebbe il nostro Paese? Una specie di campo di battaglia riservato alle altrui manovre e battaglie, così come è avvenuto dalla fine del secolo XV in poi: settore avanzato in cui gli eserciti dei blocchi in contrasto si disputerebbero il terreno palmo a palmo, lontani dalle proprie frontiere, a protezione dei loro territori nazionali: gli uni per arrivare alla Russia, questa per arrivare al Tirreno. In queste condizioni quale politica estera potrebbe fare l’Italia? Nessuna. Non ne potrebbe fare nessuna. Oppure, se dovesse fare una politica estera, dovrebbe fare quella di un blocco contro un altro ed armarsi fino ai denti per fare da satellite a questo blocco. In queste condizioni, mille volte, centomila volte meglio sarebbe sciogliere l’esercito, la marina, l’aviazione, i ministeri delle Forze armate e dichiarare l’Italia neutrale per dieci, cinquant’anni, cento anni, finché, migliorata la situazione, potesse riprendere la sua azione indipendente. Una Svizzera in grande. Io so che questo potrebbe sembrare un paradosso. Certo, appare un paradosso. Ma, in una situazione così difficile come la presente, in cui tutto è sconvolto, il paradosso è ancora l’unica forma di ragionamento che il buon senso può fare.

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

La Francia s’è posta come mediatrice, e abbiamo visto cosa ne è venuto.

Parecchi, in questa Assemblea, ed io tra essi, considerano la Francia più che una Nazione amica, una seconda Patria. Quindi, io parlo esattamente come parlerebbe un cittadino francese democratico. Mai, alcuno di noi ha sentito parlare di rivendicazioni; mai, durante i venti anni di regime fascista. All’inizio della guerra, siccome gran parte degli emigrati italiani volevano offrirsi in formazioni volontarie per essere impiegati sul fronte tedesco, il signor Daladier fece una dichiarazione ufficiale di cui è certamente traccia al Quai d’Orsay, nella quale affermava che mai la Francia, uscita vittoriosa dalla guerra d’aggressione fascista, avrebbe chiesto qualcosa al popolo italiano.

Ritengo che su questo il Conte Sforza potrebbe dire qualche cosa. Anche durante la guerra nei contatti che abbiamo avuto col movimento di resistenza francese, con «Libérer-Fédérer» e con «Franc-Tireur» con «Combat», con «Libération», ci è stato dichiarato sempre che mai la Francia avrebbe chiesto rivendicazioni all’Italia.

Poi, attraverso varie tappe ufficiali, si è arrivati a Briga, a Tenda e al Moncenisio. Queste sono piccolezze, sono quisquilie, di fronte al grande problema della Venezia Giulia. Tuttavia hanno importanza, perché non sono soltanto tre località con poca popolazione attorno; ma sono tre punti di alta montagna, sono punti strategici, che in mano nostra sono difensivi, poiché alle nostre spalle c’è la vallata italiana da Cuneo a Torino, mentre in mano francese sono punti offensivi. Dietro i francesi, vi è tuttora una serie di settori difensivi per arrivare a Tolone, città industriale e base navale, e, per arrivare a Lione, la grande città industriale, una serie di montagne e di vallate scoscese. Sono punti di importanza strategica, esclusivamente strategica. Si tratta della difesa del nostro territorio nazionale.

Si dice che Linceo da un porto della Sicilia occidentale contasse le barche e le navi, che uscivano dal porto di Cartagine. Un uomo messo in piedi su quei punti, con un cannocchiale, può contare e riconoscere i cittadini che escono a passeggio a Cuneo, a Pinerolo ed a Torino.

Il signor Bidault ha interposto i suoi buoni uffici per la Venezia Giulia.

Io mi permetto qui di citare l’articolo 46 della Costituente francese, la quale dice: «La Repubblica francese non ha da intraprendere alcuna guerra a scopo di conquista, e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di nessun popolo».

Le libertà di un cittadino sappiamo quali siano: libertà di parlare, di credere, diritto di vivere da eguale, diritto alla protezione della legge, diritto all’integrità della sua persona e alla sua dignità umana. Ma per un popolo, per una nazione, la libertà è la sua indipendenza, la sua sovranità, l’integrità del suo territorio nazionale.

Toccherò, se la Camera mi consente un po’ d’attenzione, brevissimamente, la questione delle colonie. Di esse si parlerà fra un anno, e frattanto, nell’attesa, le Potenze occupanti penseranno alla loro amministrazione.

Ma ecco che cosa si prepara. Il Times, in una corrispondenza da Tripoli in data 5 di questo mese pubblica: «Azam pascià, segretario generale della Lega Araba non fa mistero del suo compito di armare la resistenza contro gli italiani. Se un mandato venisse concesso all’Italia, una esplosione araba scoppierebbe in tutto il Medio Oriente; presso Ibn Saud in Palestina, in Siria, nel Sudan».

Noi sappiamo che cosa questo significhi o possa significare.

Io sulle colonie personalmente credo di non aver proprio nulla da nascondere. Ho sempre considerato il problema coloniale come il problema del disastro. Ero ancora un giovanetto quando vi fu la guerra che portò alla conquista della Libia. Ma pensavo così fin d’allora. L’Italia era troppo giovane, nata da troppo poco tempo all’unità nazionale per affrontare avventure coloniali. Non così dovevamo investire tutti i frutti del nostro lavoro. Con le colonie, noi rischiavamo di perdere anche la Metropoli.

Con le colonie, comincia l’idea imperiale, l’idea delle grandi conquiste che s’impongono una dopo l’altra. Come Massaua ha portato Crispi alla guerra contro l’Abissinia, e alle leggi eccezionali in Italia, così la Libia ha portato Mussolini a una nuova guerra con l’Abissinia e poi alla guerra mondiale.

Io credo che, se il giorno in cui il bastimento della compagnia Rubattino doveva partire per Assab nel 1883, Rubattino lo avesse ancorato nel porto di Palermo ed avesse fatto una gita di piacere o di affari in Svizzera, le fortune del nostro Paese si troverebbero in migliore stato.

È dalla questione coloniale che è dipesa una serie di disastri per il nostro Paese, che hanno portato alla situazione odierna. Tuttavia, se questa è l’opinione di un democratico italiano, discutibile o accettabile a seconda dei diversi punti di vista, io mi chiedo chi, in Europa e nel mondo, può trovar giusta e accettabile la soluzione che si vuole dare al problema coloniale italiano. In mano di chi vanno a finire queste nostre colonie? Se il problema coloniale doveva essere affrontato e risolto, bisognava affrontarlo e risolverlo nell’interesse della pace durevole, della ricostruzione comune, nell’interesse generale, europeo e universale, nell’interesse dei popoli colonizzati, per la loro autonomia, per il loro auto-governo con la protezione degli europei e di alcuni loro diritti, e non già nell’interesse particolare di uno o più Stati. La soluzione del problema coloniale doveva toccare tutti, inglesi, olandesi, francesi, portoghesi, e non solo gli italiani. E tanto meno poteva giustificarsi questa lucrosa soluzione particolaristica, presentandola come una sanzione contro il popolo italiano, quale responsabile del fascismo e della guerra.

Certo, siamo stati liberati, e i più grandi sacrifici sono stati affrontati dagli Alleati; l’Inghilterra ha impegnato tutto il suo impero nella lotta. Ma, se io sono attaccato nella mia ricca casa da una banda di briganti e faccio appello agli altri, e li chiamo al soccorso, ed in mio aiuto viene un gruppo di generosi che mi salvano la vita, ma andando via mi svaligiano la casa, io sarò certamente riconoscente a questi miei salvatori, ma i miei eredi credo che saranno scarsamente grati per tanto valoroso salvamento.

Presidenza del Presidente SARAGAT

PATRICOLO. Questo è oltraggioso per l’onore del popolo italiano. (Commenti).

PRESIDENTE. Non interrompa!

LUSSU. Non capisco che cosa voglia dire l’onorevole interruttore. Io credo di fare un ragionamento abbastanza obiettivo, con assoluta serenità.

Una voce. Non ha capito niente!

PATRICOLO Avete capito bene voialtri!

LUSSU. Le nostre speranze erano puntate sui laburisti, sui socialisti inglesi. La loro vittoria elettorale sembrava anche nostra vittoria: il socialismo è libertà, è giustizia universale. Ma, mentre il partito laburista fa, nella libertà, un grande esperimento sociale verso cui è tesa l’anima di tutti i popoli e delle classi più sofferenti che attendono la liberazione dall’opprimente bisogno e dall’inedia, la politica estera britannica è fatta esattamente sulla falsariga dei predecessori. Il Sig. Attlee e il Sig. Bevin fanno la politica del Sig. Churchill, e del Sig. Eden: la politica del Foreign Office è rimasta la stessa.

Avevamo posto le nostre speranze nella repubblica dei Sovieti. Abbiamo avuto lo stesso risultato.

Sembra che per una legge di natura alle idee universali siano fedeli solo i filosofi e i piccoli popoli o i popoli vinti. Avevamo una grande speranza negli Stati Uniti: ci hanno aiutato enormemente in soccorsi, poi la bomba atomica li ha distratti. Ora, anch’essi sono ricaduti nella stessa complicata matassa diplomatica europea, press’a poco come gli Stati Uniti del Presidente Wilson, dopo l’ultima guerra.

In queste condizioni che cosa dobbiamo fare? Credo che il Governo non abbia ancora un’idea precisa; d’altronde la decisione va presa da quest’Assemblea: o firmare o non firmare. Bisogna cioè esaminare anche l’eventualità di non firmare. Io credo che noi dobbiamo serenamente, senza frastuono, senza retorica, senza gesti e senza dimostrazioni, esaminare freddamente il problema, anche in seduta segreta. Perché si tratta della nostra vita e del nostro avvenire; dell’avvenire di un Paese come il nostro, che fra qualche anno avrà cinquanta milioni di abitanti, e che per riprendere la sua vita, per riprendere i contatti con il mondo, per rivivere, ha anche bisogno del suo prestigio e del suo onore nazionale.

Credo che non si debba porre fin da oggi il problema così: siamo obbligati e dobbiamo firmare. È sbagliato. Noi dobbiamo esaminare il problema nelle sue due parti: firmare, se sarà necessario; vedere veramente se si può anche non firmare. Non serve tutto il baccano che si fa per le strade. Anzi sono convinto che per 50 anni noi non dovremmo mai più fare una dimostrazione di piazza per la politica estera. Questi bravi ragazzi che oggi strepitano per Trieste o per Trento, ci ricordano quegli altri bravi ragazzi che strepitarono per l’Abissinia, o per la Francia.

Io mi chiedo, per esempio, come faranno a firmare questi rappresentanti dei partiti di massa, i cui capi sono stati costretti dal fascismo a prendere le vie dell’esilio, o sono morti a causa del fascismo. Come fa la Democrazia Cristiana a firmare, quando Don Sturzo è stato obbligato a partire in esilio, in Francia, in Inghilterra e poi in America, mentre De Gasperi che gli è succeduto è stato arrestato, messo in carcere e poi obbligato a vivere durante 20 anni una vita modesta di traduttore di libri nella Biblioteca del Vaticano.

Come fa a firmare il Partito socialista, che dopo Matteotti ha avuto Turati e Treves morti in esilio, Buozzi assassinato dai tedeschi alle porte di Roma; Nenni in esilio, rappresentante della Seconda Internazionale (e quindi del Partito laburista inglese e del Partito socialista francese) combattente nelle brigate nazionali in Spagna contro il fascismo; un figlio – mi scuso di doverlo ricordare – fucilato dai tedeschi a Parigi, una figlia uccisa nei campi di concentramento in Germania. Come fa egli, che ha raccolto tanta luminosa eredità, a firmare così, semplicemente?

Come fa il Partito comunista, che ha avuto Gramsci, dopo tanti anni di tortura, morto in carcere, che ha avuto Togliatti e tanti altri ininterrottamente in esilio o in carcere?

Come fanno questi partiti di massa a firmare per il popolo italiano, per la parte del popolo italiano che essi rappresentano, cioè ad ammettere che sono effettivamente responsabili del fascismo e della guerra?

Come fa a firmare, e a dichiararsi colpevole il Partito repubblicano, che ha avuto per grande capo Eugenio Chiesa, milionario qui in Italia e morto misero in esilio, nella più modesta camera del più modesto albergo di Picardia? Come fa a firmare questo Partito la cui eredità, dopo la morte di Chiesa, è stato raccolta da Pacciardi, il quale ha comandato la Brigata Garibaldi in Spagna, alla difesa di Madrid contro i fascisti, e che è il simbolo dell’antifascismo?

E come fanno tutti gli altri partiti, come facciamo noi tutti, come fa quest’Assemblea a dire: «Firmiamo?» Come si fa a decidere una cosa simile in questa Assemblea, dove il suo Presidente ha trascorso la vita in esilio ed in carcere, e si è salvato, a Regina Coeli, insieme all’onorevole Pertini soltanto perché i compagni hanno preparato un’audace evasione? Come si fa a firmare in questa Assemblea in cui sono i figli di Matteotti, di Amendola, di Treves, i compagni di Carlo e Nello Rosselli, gli amici di Gobetti, in cui sono tante centinaia di valorosi rappresentanti dell’antifascismo militante e partigiano, senza offendere la vita e l’onore del nostro Paese?

La Francia dopo il 1870, ha dovuto firmare sotto la violenza di Bismarck; ma all’Assemblea di Bordeaux, se vi erano Thiers Jules Favre, Picard, Victor Hugo e parecchi altri che erano stati sempre avversi all’avventura di Napoleone e contrari alla guerra, vi erano anche gli orleanisti, i legittimisti, i bonapartisti, quelli che avevano servito da sgabello a Napoleone III°, vi erano anzi in maggioranza e fu precisamente questa maggioranza che pochi anni dopo, nel 1873, rovesciò Thiers per sostituirlo con MacMahon; in questa Assemblea non c’è nessuno, che io sappia, che abbia firmato o approvato le leggi fasciste o la guerra d’aggressione. Che io sappia, qui dentro nessuno è responsabile di questo. Occorre pertanto lungamente e freddamente esaminare l’una soluzione e l’altra.

A chiusura di queste considerazioni sulla politica estera io dirò brevemente all’onorevole De Gasperi che è giusto che egli sia rimasto ancora agli esteri. Egli ha fatto la politica estera ininterrottamente, col primo Governo Bonomi, col secondo Governo Bonomi, col Governo Parri e poi coll’ultimo Governo da lui presieduto. La nostra politica estera è la politica estera fatta dall’onorevole De Gasperi. Nessuno può dire che abbia fatto una politica personale, ma nemmeno una politica collegiale. Mai i grandi problemi di politica estera sono stati esaminati a fondo dal Consiglio dei Ministri: che io sappia, mai. Eppure è precisamente la politica estera che poneva l’obbligo del maggiore e più vasto controllo; non perché non si abbia perfettamente fiducia nella capacità, nella dedizione al lavoro e nella fede nei destini del popolo italiano dell’onorevole De Gasperi: tutti riconoscono queste sue grandi qualità morali e politiche; ma questo è un grave problema che due o dieci teste potrebbero vedere meglio. La differenza tra democrazia e dittatura è appunto questa: più teste,/una testa. Mai la politica estera è stata approfondita con un esame collegiale; bisognava farlo e bisogna farlo, da oggi in poi, ininterrottamente, fino a quando la nostra situazione non sarà chiarita.

Io credo che il Governo deve conoscere i problemi nella loro interezza e che i documenti segreti debbano essere portati anche a conoscenza di un collegio di Ministri. È necessario che più persone controllino questo problema, al quale è legata la vita del nostro Paese.

Mentre l’onorevole Nitti ieri ci raccontava la sua esperienza vissuta, io mi sono ricordato del suo libro «Democrazia» in cui rivela che, in Italia, la politica estera è stata fatta sempre dal Re, dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli Esteri: solo tre persone. E quando il Presidente del Consiglio era anche Ministro degli Esteri era fatta da due persone; e quando il Presidente del Consiglio era un uomo piuttosto debole, era fatta soltanto da una persona. Ora, la politica estera deve ritornare ad avere un controllo collegiale permanente. Io credo che debba essere controllata anche dalla Commissione dei trattati internazionali.

L’onorevole De Gasperi ha detto altre volte che non c’erano carte in tavola. Ebbene qualche carta in tavola io credo che ci fosse. Non c’erano armi da poter impugnare; ma c’erano carte da poter giocare. Credo che questo fosse veramente nelle nostre possibilità. C’erano carte da giocare sia per le Colonie, sia per la Venezia Giulia, sia per Briga e Tenda. Credo che si potevano fare parecchie cose sia presso l’opinione pubblica, sia presso i dirigenti in Russia, in Jugoslavia, in Francia, in America.

Io vi chiedo che cosa mai ha fatto il Governo per illuminare l’opinione pubblica e i dirigenti politici in Francia, in Russia, in Inghilterra e in America: si è avuta solo l’opera dei nostri ambasciatori, che è ben poca cosa. Solo in America si è avuta una attività straordinaria, ma lo si deve all’opera volontaria della nostra grande emigrazione.

V’è il problema del Ministero degli esteri. Io credo che l’onorevole De Gasperi non avrà molto tempo da dedicare alle riforme da introdurre in questo Ministero degli esteri, il quale è in mano ad un personale che non è cattivo ma è cresciuto nell’ambiente fascista ed è, anche senza rendersene conto, imbevuto di fascismo, di criteri nazionalistici, non democratici. A Palazzo Chigi, al centro, e nelle sue diramazioni diplomatiche e consolari, il personale del Ministero degli esteri è lo stesso che ha rappresentato l’Italia durante il regime fascista. Bisogna veramente riformare tutto. Bisogna adattare la nostra diplomazia alle esigenze della nuova Repubblica, che non fa una politica nazionalistica e imperialistica. I nostri diplomatici e i nostri agenti consolari, in fondo, sono lo specchio, attraverso il quale i popoli e i governi presso cui sono accreditati, vedono il volto del popolo italiano e del suo regime. È quindi necessario fare opera di trasformazione non per punire, sia ben chiaro. È un dovere che deve essere compiuto nell’interesse superiore dello Stato e del Paese.

Accennerò a qualche altro problema, brevissimamente, poiché mi accorgo d’aver impiegato troppo tempo per esporre quanto credevo poter dire più succintamente. Avevo dedicato una parte particolare a voi (Accenna all’estrema destra), ma sarà per una altra volta.

L’attuale Governo doveva essere composto dei tre partiti di massa. Nella presente situazione nessuna altra combinazione era possibile. Il Governo dei tre partiti di massa era indispensabile. Si è voluto aggiungere anche il partito repubblicano, ma sarebbe stato forse meglio se esso fosse rimasto da parte a controllare lo sviluppo della nascente Repubblica, in una posizione di critica. Chi attacca il Governo a tre vuol dire che non si rende conto della situazione che si è creata. Questo Governo, se indispensabile, non è però Governo di democrazia normale, perché in esso non vi è una maggioranza omogenea, né ha di fronte una minoranza omogenea. La minoranza attualmente è eterogenea, scompaginata. In fondo, si continua, in altra forma, un po’ più accentuata, la stessa politica del Governo dei sei partiti, che era in crisi permanente perché in esso si era tre contro tre. Anche qui, i contrasti interni sono evidenti. E questa minoranza non potrà mai essere maggioranza. Se dovesse continuare in Italia questo Governo, se si avesse una formazione di questo genere per anni ed anni, si arriverebbe alla dittatura o all’anarchia permanenti.

Questo invece deve considerarsi come uno sforzo necessario di avviamento alla democrazia normale. È chiaro che noi dobbiamo prepararci ad una formazione politica in cui vi sia una maggioranza da una parte ed una minoranza dall’altra; una minoranza che sia tuttavia capace di diventare maggioranza e prendere il potere quando con la sua forza avrà rovesciato la maggioranza. Questo si avrà solo il giorno in cui vi saranno, se non come in Inghilterra ed in America, per esempio, due grandi partiti, due grandi schieramenti di partiti: uno di destra ed uno di sinistra che, nell’ambito delle leggi e della Costituzione, si alternino al potere, rispettando sempre la libertà della minoranza. Queste sono le possibilità future d’una normale vita democratica. Io vedo questo schieramento di domani, attraverso due grandi formazioni, una di destra ed una di sinistra, quella di destra imperniata sul partito della Democrazia cristiana con i partiti minori e affini, (Commenti) e quella di sinistra imperniata sul Partito Socialista intorno al quale saranno i partiti minori e affini. (Commenti). E si andrà verso la scomparsa dei piccoli partiti a vitalità piuttosto artificiale. A Roma, per esempio, durante le ultime elezioni del 2 giugno, vi erano 27 partiti, e Roma ha battuto Napoli che ne aveva 23.

Con amarezza ho constatato il modo con cui il Partito Socialista ha condotto e risolto la crisi di Governo. Un Partito socialista che non ha il Ministero degli interni, che non ha il Ministero della pubblica istruzione è in fondo un partito che non riesce a dare a questo Governo la sua azione e con essa la sua impronta politica. Io spero, nell’interesse della democrazia, che il Partito Socialista si riprenda e si dia una più viva azione politica e un maggiore prestigio. L’avvenire della democrazia, con la considerazione dovuta ai partiti minori, è basato principalmente sulla forza del Partito Socialista.

Il Partito Comunista anch’esso evidentemente non è uscita soddisfatto dalla crisi, perché, alla fine, l’onorevole Togliatti ha deciso di non partecipare al Governo. La verità è che chi è uscito bene da questa crisi è un solo partito, è il partito della Democrazia Cristiana. Chi ha vinto in questa crisi è la Democrazia Cristiana: ha vinto nelle elezioni del 2 giugno, ha stravinto in questo Governo.

Però l’onorevole De Gasperi non si faccia molte illusioni. Questa vittoria è molto preoccupante, e a mio parere dovrebbe preoccuparlo come una sconfitta.

Non è a caso quello che è accaduto l’altra sera, ed io voglio rammentarvelo. Questi avvenimenti sono pubblici e bisogna quindi parlarne pubblicamente per trarne degli insegnamenti. Avant’ieri, quando il Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, Capo della Democrazia Cristiana, è entrato in questa aula e quando ha fatto le dichiarazioni del Governo, è stato applaudito solo dal settore della Democrazia Cristiana, tanto più calorosamente quanto più glaciale era la riservatezza e la compostezza di tutti gli altri settori. Non hanno applaudito neppure i socialisti, neppure i comunisti ed i repubblicani, che pure appartengono alla coalizione governativa.

Queste cose devono preoccupare l’onorevole De Gasperi. Perché egli che ha tanta simpatia in ogni settore di questa aula, egli che annovera tanti amici che lo stimano, è stato così accolto? Perché il troppo storpia. Perché non è stato rispettato il senso della misura: quello che nella vita privata si chiama senso del pudore, e si è troppo esagerato. L’onorevole De Gasperi, che ha le antenne della sensibilità politica molte sviluppate, cercherà di ripararle man mano che vedrà le cause che hanno creato questo ambiente di freddezza. Se andrà a fondo si accorgerà che una delle cause è da ricercarsi nelle elezioni. Il modo con cui esse sono fatte ha creato una forma di irrequietezza e di preoccupazione nel Paese, un po’ da per tutto, ma specie nel Mezzogiorno e nelle Isole. Se l’onorevole De Gasperi controllerà, vedrà che nelle elezioni del Mezzogiorno e delle Isole è avvenuto un grande scandalo. Tutti i parroci in Sardegna, per esempio, tranne una ventina (si conoscono tutti), hanno fatto propaganda contrariamente alla legge, all’articolo contemplato nella legge elettorale politica che commina una grave sanzione penale per i sacerdoti che nell’esercizio del loro ministero fanno propaganda a favore d’una lista. (Interruzioni). Nelle chiese, nel confessionale, nella spiegazione del Vangelo, i parroci hanno obbligato esercitando un vero e proprio terrore spirituale, a votare per una lista: quella della Democrazia Cristiana. (Interruzioni – Commenti).

CREMASCHI. Non è vero!

LUSSU. Io ho il dovere in quest’Assemblea politica, che non ha funzioni giurisdizionali, di ricordarlo.

CREMASCHI. È falso. Non si possono tollerare tali insulti da nessuna parte.

LUSSU. Tutto quello che dico qui è documentato. (Interruzioni – Commenti).

I parroci hanno fatto propaganda elettorale e violato la legge, ma aggiungerò che anche tutti i vescovi hanno violato la stessa legge. (Approvazioni – Commenti – Interruzioni al Centro).

Una voce. Hanno fatto il loro dovere! (Commenti – Interruzioni).

LUSSU. Aggiungerò che parecchi vescovi hanno pubblicamente incitato il loro clero a violare la legge. (Commenti). Io credo, Onorevole De Gasperi, che in questa mia critica non vi sia nulla di personale. È una critica che ha la relativa documentazione precisa. Ma io credo che in queste cose bisogna vedere una di quelle cause della freddezza glaciale di cui ho prima parlato. (Interruzioni). Ecco perché parecchi qui dentro sono preoccupati e per il Ministero dell’interno reclamato dall’onorevole De Gasperi, e per il Ministero della pubblica istruzione anch’esso reclamato dalla Democrazia Cristiana.

Una voce. Dovevamo darlo a voi?

LUSSU. Questa preoccupazione è tanto più forte quanto più noi tutti sappiamo che la Chiesa Cattolica non è un’organizzazione anarcoide, ma ha le sue gerarchie responsabili.

Quindi, il Paese è giustamente preoccupato e saranno maggiormente preoccupati gli onorevoli rappresentanti in questa Assemblea, compresi quelli della Democrazia Cristiana specie gli onorevoli colleghi che, non vivendo a Roma, hanno difficoltà di controllare i giornali esteri, quando sapranno che in Francia il Capo del Governo, signor Bidault, (che è stato il capo della resistenza ed è il capo della Democrazia Cristiana in Francia, come l’onorevole De Gasperi, lo è in Italia) ha dato i dicasteri dell’interno e della pubblica istruzione ai socialisti. (Commenti al centro).

Vado verso la fine, per quanto su questo argomento vi sarebbero parecchie altre cose da dire. (Commenti).

Chiedo scusa di aver così a lungo intrattenuto l’Assemblea: mi riservo di risollevare la questione in un altro momento.

Mi sia intanto consentito di fare un accenno all’Uomo Qualunque, senza spirito polemico e con la massima serenità possibile.

Non vi può essere un democratico responsabile, il quale non desideri che l’Uomo Qualunque diventi un partito, anche un grande partito della democrazia. Ma oggi, il partito dell’Uomo Qualunque non è un partito della democrazia. Non è questione dei malcontenti e di quelli che non hanno fatto mai politica. Il partito del malcontento è sempre esistito in Italia, anche in Roma attorno a Pasquino e Marforio. Credo che in tutta Italia vi sia stato sempre questo grande movimento o partito senza tessera dei malcontenti e dei critici, che si sarebbe potuto chiamare movimento o partito «piove, governo ladro!».

In fondo, se ne sarebbe potuto fare non un piccolo, ma un grande partito.

Ma ho l’obbligo di dire (ed il Governo ha l’obbligo di provvedere) che si sta ricostruendo il fascismo. Vi sono fascisti che si riorganizzano: hanno vere e proprie sezioni che organizzano dimostrazioni capeggiate da ex podestà, da ex segretari politici, da fascisti della prima ora. Anche gli ex federali si sono messi in agitazione, specie dopo il 31 marzo, epoca in cui l’epurazione si è chiusa con sanzioni che non sono mai state applicate.

Io chiedo a voi, onorevole De Gasperi, se avrete mai il tempo e la volontà di andare a fondo su questa questione.

Il paese è preoccupato, negli strati popolari, più sensibili, specialmente dopo il decreto di amnistia che ha voluto essere generoso e che ha ridato vita al fascismo. I fascisti tornano già a casa ostentando l’orgoglio di essere stati e di essere fascisti. Finché vi saranno uomini in Italia che si dichiareranno orgogliosi di essere stati fascisti e di esserlo ancora, non vi può essere riconciliazione seria.

Il Governo ha il dovere di andare a fondo perché c’è una legge che stabilisce che il partito fascista non si può ricostituire. Finora, non si è fatto nulla per porre riparo contro questo ritorno fascista, mentre l’epurazione è in gran parte fallita e l’amnistia ha sconvolto e non unito. La pietà nasce solo dalla giustizia.

La situazione generale io la vedo grave; trascuro di toccare altri problemi, quello della disoccupazione, della moneta, della vita impossibile, del mezzogiorno e delle isole che la fanno apparire ancora più grave.

Non pertanto dobbiamo avere fiducia in noi stessi. L’onorevole Nitti ha ieri parlato a lungo. Verso di lui va la devozione di molti in quest’Aula, comunque la mia, anche per la comunanza ideale di vita che mi legava ai suoi due grandi figli, morti così giovani in esilio. Ma devo dire all’onorevole Nitti: Voi siete stato un uomo di Stato, un onesto uomo di Stato. Ma non avete mai avuto fiducia nella grande capacità del popolo italiano, nella sua capacità di ricostruzione e di rinascita. Non l’aveste dopo l’altra guerra e non l’avete nemmeno ora.

Dobbiamo invece credere nella vitalità del nostro popolo, nelle sue possibilità di ripresa, dobbiamo aver fiducia in noi e nel nostro Paese.

Io credo che il nostro popolo, col lavoro dei suoi operai, dei suoi contadini, con il gioioso lavoro dei suoi artigiani, il talento creatore dei suoi tecnici e dei suoi scienziati, col suo pensiero universale possa illuminare di sé, ancora una volta – come spesso gli è capitato nella storia – la civiltà del mondo. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Labriola.

LABRIOLA. Pellegrinando, come probabilmente avrete fatto anche voi, fra i corridoi e i settori della Camera, in mezzo ai quali io mi sono sentito un poco esule, ho avuto un’idea: ho pensato che questa discussione meritasse un proemio. In generale le prefazioni non si scrivono quasi mai prima di cominciare il libro, ma si scrivono dopo o quando il libro si sta componendo.

Ecco perché vorrei servirmi di questo breve discorso, delle poche parole che mi propongo d’indirizzarvi, per eccitare fra i colleghi il desiderio di scrivere questa prefazione alla discussione attuale, della quale ieri l’onorevole Nitti componeva uno dei più interessanti capitoli.

Non mai, dal 1860 fino ad oggi, un’Assemblea italiana si è ritrovata in peggiori condizioni di questa. Si dice che noi siamo un’Assemblea sovrana; ma di che cosa? Onorevoli colleghi, il nemico di prima, le potenze militari occupanti sono stabilite nel nostro Paese e hanno persino il diritto di dare il loro consenso a determinati atti di governo, ed alla scelta degli stessi governanti. Le nostre facoltà di orientamento e di amministrazione, di organizzazione e di controllo sono ridotte ai minimi termini. Noi parliamo da liberi cittadini e da rappresentanti di un grande Paese; la realtà purtroppo è assai diversa. Certo, nelle condizioni attuali non vale la pena di farsi illusioni; ma nelle condizioni attuali si può fare qualche cosa che in un certo senso è ancora la migliore: tentare di comprendere il caso proprio. S’è detto tante volte che comprendere è già un superare, un vincere, almeno astrattamente, le difficoltà in mezzo alle quali ci troviamo. Del resto non tutto poi è così cattivo intorno a noi; vi è qualche elemento di speranza nella nostra situazione. Il migliore di tutti è indiscutibilmente che noi ci siamo trovati concordi nel proclamare la Repubblica. La Repubblica (e gli avvenimenti lo mostreranno) sarà la grande forza di coesione dell’Italia attuale; essa ha dato a tutti noi un’anima sola ed almeno in un punto ci ha tutti uniti. Una volta c’erano comunisti, socialisti, democratici cristiani, radicali e così via; oggi ci sono sempre i loro partiti, ma vi è per essi un denominatore comune nel fatto di esser tutti repubblicani. La Repubblica è dunque il grande legame che stringe oggi gli italiani (Applausi).

Altre volte si parlava della Repubblica come di un tema di letteratura. Noi desideravamo essere cittadini che avessero il pieno possesso delle loro facoltà e perciò appunto esprimevamo un desiderio di vivere in Repubblica. Le dispute che si accendevano spesso fra di noi, il più delle volte fra gli stessi socialisti, erano dispute che vertevano sulla tecnica utilità delle istituzioni repubblicane.

La presenza fra noi del mio grande amico Ivanoe Bonomi m’incita a ricordare le polemiche che io ebbi a suo tempo con lui e con uomini che io ho grandemente amato di riverente affetto come Filippo Turati e Claudio Treves. Il discorso peraltro verteva sul punto se delle idealità repubblicane per noi socialisti si avesse a parlare come di fatto concreto e immediato. Alcuni opinavano in un senso, altri in un altro. Non eravamo concordi; ed il Turati si mostrava molto esitante su questo punto della convenienza per i socialisti di un franco atteggiamento repubblicano. Credo che soltanto dopo l’avvento del fascismo egli sposasse apertamente la tesi repubblicana.

E ciò mi conduce a ricordare che nella mia Storia dei dieci anni mi accadde appunto di formulare un aperto atto di accusa contro la monarchia italiana che ho poi ribadito nelle mie più recenti Spiegazioni a me stesso, edite da un paio di mesi, e nelle quali quel tema politico della mia prima giovinezza è stato pienamente confermato. Ma naturalmente i pigri e gli svogliati, i malevoli ad ogni modo, troveranno sempre l’occasione di cicalare della mia, dicono essi, attitudine a variare. E dire che io mi trovo cosi monotono nella mia uniformità di pensiero!

Il processò alla monarchia può oramai essere passato agli archivi. Uomini come Carlo Cattaneo e Gabriele Rosa, come Federico Campanella e Brusco-Onnis ed Alberto Mario e più tardi Edoardo Pantano stesero questo processo. Possiamo semplicemente prenderne atto.

La stima della Repubblica va fatta al di fuori delle manchevolezze della monarchia; il suo valore sta per sé, ed è proprio questo valore che si tratta di stabilire.

Per la sua virtù interna di suggestione e di creazione, essa si dona un popolo di aderenti, i quali pur debbono su se stessi fare uno sforzo per venire alla repubblica. E perciò son da lodare. I democratici cristiani hanno forse fatto il sacrificio più ampio. Essi potevano ricordare che la gloriosa repubblica romana del 1849 dovette pur essere antipapalina e anticlericale, che non meno anticlericale è stata quella di Francia. Questi ricordi non hanno gravato su di loro; e in un giudizio delle necessità son venuti alla nuova istituzione.

Per i socialisti il problema era insieme più semplice e più complicato. Il socialismo mira a una società senza Stato ed il suo repubblicanesimo è contingente ed occasionale, non una veduta definitiva dell’assetto politico. Ma essi non hanno esitato e si son fatti i più fieri banditori dell’idea repubblicana. E così la Repubblica ha celebrato il suo primo e più grande trionfo nella scelta che essa ha fatto di un Capo come Enrico De Nicola, l’integro cittadino, l’uomo santamente dedito al proprio dovere, l’essere probo e disinteressato che alla repubblica è venuto non per un astratto giudizio, ma per un’alta spinta del cuore amante del proprio paese. Abbiamo cominciato bene.

Da questo felice incontro di circostanze, sorge la possibilità di proporvi la tesi che il problema della repubblica non è di pura forma. Qui non si tratta del Capo eletto invece del Capo ereditario. Qui si tratta di una specie politica, la quale è essa stessa sostanza e spirito di cose nuove. È solo nella repubblica che il cittadino diviene un essere sociale, persona consapevole immediatamente della sua appartenenza ad una collettività, dei suoi doveri verso di essa, delle sue personali responsabilità nello svolgimento della cosa pubblica. Nella Repubblica sentiamo che la cosa pubblica è la nostra cosa; sentiamo che l’essere collettivo è un frammento dello èssere individuale. In Repubblica, anche senza volerlo, l’individuo si abitua a questa grande idea: che la responsabilità degli affari pubblici tocchi specificamente anche a lui stesso. Domani non potremo dire più che gli errori dello Stato sono gli errori di Vittorio Emanuele III, oppure del suo evanescente successore. Male o bene, i responsabili siamo noi, e così apprenderemo prudenza e discernimento. (Approvazioni).

Le esitazioni intorno al decidersi per la forma repubblicana, nascevano dal dubbio che noi non avessimo una classe dirigente repubblicana già formata, come invece era accaduto in Francia dopo il crollo del secondo Impero. La nostra Repubblica ha vinto vittoriosamente questa prova, e l’assunzione di Enrico De Nicola alla suprema carica della Repubblica, è già un indizio che la Repubblica può contare su se stessa ed a sé bastare.

Con la repubblica abbiamo dato all’Italia l’unità. Divisi fra loro, comunisti, socialisti, cristiano-sociali, semplici democratici son pure tutti uniti nel sentimento della Repubblica. E quello che abbiamo detto dei partiti, può e deve ripetersi delle regioni. Esse formano oggi un sol corpo unificato. Alla vita e alla morte, per l’Italia e per la Repubblica. (Applausi generali).

E vengo al tema dei nostri rapporti con le potenze alleate. Si capisce che, essendo io un indipendente, delle cose che io dirò, rispondo soltanto io. (Applausi).

Io agli elettori mi sono presentato come repubblicano e come socialista. Il primo giorno in cui ebbi l’onore di entrare in questa aula dopo diversi anni, e gli anni che sono passati del resto voi li vedete scritti nel colore dei miei capelli… mi sento in obbligo di ripetere la stessa dichiarazione di fede.

Al nostro paese è veramente accaduto un fatto singolare.

Le Potenze fra di loro alleate, cioè che occupano militarmente il nostro paese, sono entrate in questo conflitto col duplice programma della eversione e distruzione del nazifascismo e della riduzione della Germania ad una condizione d’incapacità a riprendere una politica militare aggressiva. Del nazismo poco so, oppure so soltanto che esso in qualche misura ha risposto e tuttavia risponde a certe generali direttive del popolo tedesco ed alle sue aspirazioni di predominio. Del fascismo questa Assemblea testimonia, attraverso i propri rappresentanti, che esso non fu mai, non è in nessuna misura, l’interprete di sentimenti popolari o delle tendenze effettive del popolo italiano. Esso è, e ci è stato completamente estraneo (Applausi).

Se, dunque, ci riferiamo alla prima parte del programma che gli alleati della guerra contro la Germania hanno avuto, non comprendiamo come essi possano prendere verso di noi un atteggiamento diverso da quello della simpatia e dell’amicizia. Parve, nei primi momenti, che appunto così essi si sarebbero comportati; e come le loro trasmissioni radiofoniche c’inducevano a ritenerlo! Propaganda? È chiaro, ma anche la menzogna deve avere un volto umano. E questo ci induca ad essere più circospetti nell’avvenire… Il colonnello Stevens e l’«amico» La Guardia sono stati per noi dei buoni maestri. Singolarissimo è stato che le potenze, nostre nemiche nella guerra ed oggi occupanti il nostro territorio, non abbiano compreso che in una guerra antigermanica noi eravamo i loro naturali alleati.

Dall’anno 103 prima della nostra èra, quando Mario battè Cimbri e Teutoni in terra di Provenza, da quel giorno tutta la storia italiana è una storia antigermanica. Coloro i quali pensano che domani noi potremmo diventare alleati o complici del popolo tedesco in una impresa di rivincita, sanno di non dire la verità, anzi di mentire spudoratamente. La storia d’Italia è tutta una storia antigermanica.

È accaduto che scrittorelli e letteratucoli di Gallia e di Britannia ci siano venuti a domandare quale sia, quale fosse, la nostra missione storica. I vinti hanno sempre torto; i vincitori hanno sempre ragione. La causa dei vincitori è facile a sostenere; la causa dei vinti non riesce mai a chiarire le proprie ragioni. E poiché noi siamo dei vinti, dobbiamo rassegnarci a subire tutti i torti, fra cui anche quello di essere chiamati a mostrare le nostre carte di legittimità, che tutta la storia dimostra.

Ci hanno domandato di spiegare quale fosse la nostra funzione storica. Il guaio è che non conoscono la nostra storia. Questa Italia che apprese al mondo il Diritto e fu iniziatrice della civiltà contemporanea, questa Italia dove nacque il capitalismo e sbocciò la scienza moderna, deve star qui a spiegare perché essa ci sta nel mondo. Ma siamo dei vinti e stoltezze ed iniquità debbono essere il nostro guiderdone. Un razzismo antitaliano dilaga nel mondo, per opera dei vincitori, specie inglesi. I nostri soldati non si sanno battere, e noi siamo un popolo d’ignavi e di pigri. Così, c’informa il signor Ivor Thomas che si giudica di noi in Inghilterra. (Commenti).

Domandate qual è la nostra funzione storica. Dal 410, cioè da quando Alarico invase e devastò l’Italia, la nostra funzione è stata sempre la medesima: contenere i popoli di razza germanica e impedire ad essi di scendere nel Mediterraneo; conservare al Mediterraneo la sua piena libertà e in questo modo renderlo accessibile a tutti i popoli.

Se non parlassi ad uomini come voi, esperti di discipline storiche e sociali insisterei nei richiami storici, e dimostrerei come persino le piccole repubbliche marinare di Amalfi, Salerno e di Napoli, più tardi quella grande di Venezia, le prime fin dal IX secolo, l’altra sino a tutto il XVII secolo, non ebbero che una sola preoccupazione ed una sola funzione: impedire al mondo germanico di dilagare verso il mondo meridionale, conservare al Mediterraneo la sua accessibilità a tutti i popoli, la sua piena ed assoluta indipendenza. Questa è stata la missione storica dell’Italia e noi la rivendichiamo. Questa missione storica dimostra che l’Italia non è esistita solamente per sé, ma che essa si è prodigata per tutti i popoli della terra, a cominciare dai duri nemici di oggi: le potenze occupanti. La loro ingratitudine sembra ripetere quasi un destino della storia d’Italia.

Volete sbarazzarvi di noi, disarmarci, metterci in condizione di non poter più fabbricare cannoni e di avere una flotta? Va bene: il risultato quale sarà mai? Che noi diverremo inetti al nostro compito storico di contenere l’avanzata germanica e di tener libere le vie del Mediterraneo a tutti i popoli della terra. Si vuole proprio questo?

E chi sarà il nostro erede? La Francia? Ma la Francia, che se è una nazione latina quanto a lingua, dal punto di vista etnico è un conglomerato ligure – celto – germanico, non può assumersi i compiti nostri, che sono essenzialmente di un paese latino, e perciò antigermanico. Essa, dopo dieci secoli di lotte veementi con l’Inghilterra, oggi è interamente con essa pacificata, con l’Inghilterra che è anch’essa un popolo di sangue prevalentemente germanico. Del resto Hitler prevedeva possibile un accordo con la Francia, appunto perché di stirpe in prevalenza germanica.

E poi la Francia inclina sempre più verso l’Atlantico, che il suo vero mare. Il suo avvenire è piuttosto americano che antigermanico, e non vedo come essa adempirebbe ad un ufficio di tamponamento della discesa germanica verso il Mediterraneo.

Ciò spiega forse il suo tratto inamicale verso di noi. Perché essa diviene antitaliana e pone il piede sul nostro territorio, con intenzioni evidentemente, dal punto di vista militare, offensive? Preoccupazioni per noi non dovrebbe averne, a parte la stessa impotenza militare nella quale ci troviamo. Oggi sono al potere e prevalgono in Italia quelle forze popolari che furono sempre francamente orientate verso la Francia, forze repubblicane e democratiche che, avversando con tanta risolutezza Germania e Triplice Alleanza, fecero propria una politica di simpatia e di aperta amicizia verso la Francia.

Ma essa si fa sempre più «atlantica» e sì allontana sempre più dai fini di intese mediterranee; quindi della nostra amicizia non fa più conto.

Verità dolorose tutte queste, le quali un sol suggerimento dettano: stringerci fra di noi, fare un corpo solo, tenere il nostro popolo tutto unito intorno ai suoi fini nazionali di ricostituzione politica ed economica. Alla fase degli Stati intercontinentali, gli Stati semplicemente nazionali o locali debbono combattere una dura battaglia per sussistere. E con tutte queste favole di unioni internazionali, le quali non riescono nemmeno a mascherare i fini egemonici dei vincitori, far fede senza esitazione, risolutamente, alla propria gente. Non disperdersi, oggi, è la suprema necessità. (Applausi).

L’intercontinentalità degli Stati ci menerebbe – almeno così si dice – ad ottenere da ciascun popolo quello in cui può avere la maggiore efficienza. Così trionferebbe il principio dei costi comparati e della specificazione della produzione.

Il principio dei costi comparati, che mena alla libertà di commercio, vuole che ciascun popolo sia libero della sua attività, nel suo lavoro e nei suoi capitali.

Si afferma che l’intercontinentalità delle future conglomerazioni territoriali permetterà a ciascun popolo non già di fabbricare tutto e produrre qualunque cosa, ma esclusivamente quelle cose in cui ha una capacità superiore, un’assoluta superiorità.

Signori, il principio della specificazione territoriale della produzione suppone l’indipendenza di ciascun popolo e la sua più assoluta libertà di scelta. Quando la scelta è imposta da un superiore politico, non vige più il principio dei costi comparati ed il principio del libero scambio. In realtà in quel mondo viene a prevalere il principio delle culture obbligatorie. Già! Alcuni popoli dovranno fabbricare piccoli meccanismi, altri come il nostro, dovranno produrre cetrioli, pomodori e zucche. Non so se le barbabietole ci saranno permesse, perché si dice che saranno riservate alla Polonia.

Si farà dell’Europa quello che gli olandesi hanno fatto di Giava. Il principio delle culture obbligatorie fu introdotto dagli olandesi per colonizzare Giava; essi costringevano gl’indigeni a non produrre se non determinate derrate, e poi le compravano a prezzi d’imperio, che non coprivano nemmeno i costi sopportati dagl’indigeni. Il risultato è stato la permanente insurrezione di Giava contro gli olandesi, l’intima rivolta dei malesi contro i propri colonizzatori, e siamo presso un popolo di colore!

Questo avvenire riserbano i vincitori di oggi ai popoli vinti dell’Europa. E pertanto essi annunziano che alla Germania sarà interdetta l’industria pesante e che all’Italia non sarà permesso di costruire navi di grossa portata. Siamo al principio delle colture obbligatorie, un dì riservato dai grandi profittatori coloniali ai popoli di colore, ed oggi offerto come ultima concessione ai vinti popoli dell’Europa. Ed è questa la pace che si annunzia al mondo? È questo l’avvenire del nostro continente? Se a tanto arriveremo, l’avvenire del nostro continente, avrà un sol nome: la schiavitù. E sarà la schiavitù di tutti perché chi toglie la libertà agli altri comincia col toglierla a sé medesimo. Se questo accadesse, schiavitù e miseria sarebbero il prossimo destino del nostro continente.

Noi ci dobbiamo premunire. Alla intercontinentalità dobbiamo opporre la nazionalità.

Ma l’Italia dalle cento vite, e dalle superbe rinascite, non accetta questa condanna. Ed essa si salverà, stringendosi in sé stessa e provvedendo a fare di sé medesima una sola, possente unità. Fra venti anni saremo da capo e in piedi e peggio per chi avrà voluto umiliarci ed abbassarci. (Applausi).

Il problema è soltanto quello della forma che daremo alla nostra unione.

Il mondo si orienta verso il socialismo, anzi si è già orientato verso di quello. La questione consiste soltanto nel trovare il tipo di socialismo adatto a noi, capace di dare alla nostra unità il consolidamento necessario. Il socialismo è in tutti noi, nolenti o volenti che siamo. Voi stessi colleghi di questa parte della Camera lo portate in voi stessi. Molto socialismo c’è nel cristianesimo.

Una voce. Nel nostro spirito cristiano, non nel cristianesimo.

LABRIOLA. Lasciamo andare queste distinzioni. Ci sarebbe molto da dire. Dicevo dunque che anche voi siete trascinati verso il socialismo, verso questa corrente d’idee, di sentimenti e di forme entro cui si va riadattando l’umanità. Il socialismo non sarà il paradiso terrestre; sarà una cosa umana, adatta alla nostra inferiore condizione di uomini.

Il detto latino è che fata volentem ducunt, nolentem trahunt. Perché farsi trascinare? Accettiamo le indicazioni del destino e seguiamole. Esso dice socialismo – che è poi cosa diversa dalla socializzazione – e non ribelliamoci. Aggiungo che un’Italia riorganizzata e rifatta nel senso del socialismo, può essere un’Italia possente di salute e di coscienza. (Applausi).

Lo Stuart Mill, insieme teorico della Libertà e del Socialismo, prevedeva che l’avvenire dell’economia non era un capitalista padrone della fabbrica, ma i dipendenti associati che la conducono. Egli pensava alla cooperazione, e nella cooperazione vi è tanto Socialismo. Noi accettiamo per l’Italia la sua previsione che l’avvenire dell’economia è il Socialismo.

Non pensiamo ad un socialismo di tipo unico; la mia idea è un socialismo plurimo: cooperatore, sindacale, talvolta statale. Questo socialismo potrà essere insieme un grande promotore dell’attività economica e un difensore della libertà di tutti, le due cose che essenzialmente c’interessano.

Si è molto parlato in questi giorni di problemi economici di una prominente gravità: aumenti dei salari, limiti al crescere delle imposte, riduzione della circolazione di carta moneta. Con quanta facilità non si risolverebbero questi problemi se dovessimo affrontarli da un punto di vista socialistico! Oggi tutto è difficile, perché il dipendente non vuol darla vinta al proprio padrone. Se la produzione fosse condotta secondo uno spirito socialistico, il dipendente dell’industria s’imporrebbe esso stesso il limite, che poi è dato dal ricavato della stessa produzione, detratti i capitali e le spese generali, e non ci sarebbero richieste capaci di compromettere il livello delle industrie.

In questo senso del trovare le specie che possono consolidare l’unità nazionale e far dell’Italia un sol corpo unito e compatto per la resistenza e la conquista credo debba concepirsi la questione meridionale. Il Mezzogiorno diffida e sospetta, e non crede più nelle promesse. Ebbene, non fatene più, ma mettete il Mezzogiorno in grado di provvedere da se stesso alle proprie esigenze.

Autonomie regionali, conferimento alle regioni viciniori di federarsi fra di loro, ecco la soluzione che vi propongo. Il Mezzogiorno sarà capace di guarirsi da sé stesso? Io lo credo. Ma se così non fosse, voi avreste fatto tutto quello che era in voi per esaudirlo/

La Repubblica è stato il primo consolidamento del nostro paese. Forme socialistiche dell’economia – che pur rispettassero imprenditori, risparmiatori e capitalizzatori – potrebbero fare il resto. L’avviata ad una soddisfacente soluzione del problema meridionale direbbe l’ultima parola. Lavoriamo indefessamente per il nostro paese. Auspico non lontana la grande resurrezione nazionale, contro tanti odi che ne circodono. L’Italia sarà da capo in piedi per se stessa e per gli altri.

La visione di questo avvenire deve riempire i nostri animi di una grande luce. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Pecorari. Ne ha facoltà.

PECORARI. Come triestino e come giuliano (Vivi applausi) prendo la parola ben cosciente della profonda eco che il nome di Trieste e della Venezia Giulia risveglia nel cuore di ogni italiano. Voglio parlare come italiano ad italiani preoccupato ed angosciato come tutti i giuliani della possibilità di perdere per sempre…

Una voce. Per sempre no!

PECORARI …senza nemmeno più poterla rivedere, la mia regione natale, i miei monti, il mio mare, la mia casa, la tomba dei miei cari.

Ci si accusa di nazionalismo: ma come non offendersi di questa accusa che suona insulto, specialmente a noi giuliani antifascisti che abbiamo offerto la nostra vita, che abbiamo lottato per la libertà, che abbiamo esposto le nostre famiglie per liberare noi e il mondo dal fascismo? Questa Italia che un po’ dappertutto va perdendo terreno, specialmente ad Oriente, come si può accusarla di nazionalismo? La Dalmazia non fu mai interamente italiana, ma nelle sue città notevoli e valorosi nuclei italiani di antica origine bene meritarono della Nazione italiana nelle scienze, nelle arti e nella santità.

Ora in Dalmazia non vi sono più italiani: l’ultima cittadella interamente italiana, Zara, non esiste più, è distrutta nelle sue case, nei suoi monumenti – oltre 70 insistentemente richiesti ma ingiustificati bombardamenti! – è un cumulo di rovine. Dei 25 mila abitanti ben 20 mila sono ora profughi in Italia. Ma questi non sono i soli profughi giuliani: ben altri 60 mila sono sparsi per la penisola; altri 25 mila si trovano a Trieste.

Pola, ora ridotta a 33 mila abitanti, ha chiesto per ben 28 mila suoi cittadini la possibilità di evacuare la città nella deprecata ipotesi che questa venisse ceduta alla Jugoslavia.

Lo Stato internazionale, appena proposto a Trieste, ha già dato i suoi primi tristi frutti: nessuno crede nella sua vitalità. I triestini lo chiamano «topolinia», alludendo alla grossa montagna quadricuspide che l’ha partorito; altri lo chiamano «melonia» con chiara allusione all’intelligenza che l’ha creato. Intanto, i moti in città aumentano e mentre nella zona B occupata dalla Jugoslavia regna ormai la pace del terrore, nella zona A occupata dagli Alleati si va creando uno stato d’allarme sempre più preoccupante.

Malgrado la flotta da guerra concentrata nel porto di Trieste, malgrado i cannoni, i carri armati pesanti e leggeri, gli italiani a Trieste non sono più tranquilli, non sono più sicuri, non hanno più libertà di lavoro e di circolazione e persino in qualche punto e per qualcuno non è neanche sicura la notte nelle proprie case. A chi la colpa? Si cerca un capro espiatorio vivente e si addita al nostro Ministro degli Esteri. Egli saprà difendersi da sé e non con le mie parole; ma, come giuliano, sento il dovere di dire come egli è stato accolto dai giuliani stessi. L’accoglienza fu, da parte nostra, quanto mai benevola: noi lo sapevamo trentino e, come i tale, lo abbiamo sempre considerato come un conterraneo. Il Trentino ha condiviso negli ultimi tempi con Trieste la sorte.

L’onorevole De Gasperi è stato da noi molto benevolmente accolto ed ha accettato la nostra collaborazione; anzi, con una spiccata benevolenza, ci volle con lui a Londra e a Parigi. Allora abbiamo potuto constatare le difficoltà dell’ambiente internazionale, difficoltà che non bisogna dimenticare e che io già personalmente e duramente avevo provato. Gli americani che mi avevano liberato in Germania, e che avevano anche sfruttato la mia posizione per la loro propaganda radiofonica, ripetutamente mi dissero che gli italiani erano considerati come i tedeschi. Questo ambiente si trattava di vincere ed è purtroppo un grande errore quello di aver fatto precedere il trattato di pace con l’Italia agli altri. Ma come non credere a coloro che ci dicevano che facevano ciò per darci un beneficio e per trattarci meglio? E invece è venuto questo progetto di trattato di pace; abbiamo dovuto quindi sopportare il primo urto dell’appetito dei vincitori, abbiamo dovuto senza possibilità di difesa combattere con la sola nostra ragione, ma abbiamo trovato un ambiente quanto mai malpreparato e infido.

La propaganda degli altri Stati ci aveva preceduti. Gli ambienti internazionali ci erano ostili. Il nostro lavorio, poco appariscente, ha cominciato a dare dei frutti, ma troppo presto siamo arrivati a questo trattato. Ed ora ci si dice di accettare questo trattato. Ma perché i quattro Ministri degli Esteri non consigliano altrettanto alla Jugoslavia? Perché non consigliano a Tito di accettare quella pace che egli dichiara di non volere accettare, pubblicamente, nei comizi e nella stampa? Come potremo noi accettare queste condizioni che il vincitore stesso non accetta? È ben più facile per il vincitore rinunciare a qualche parte del frutto della sua vittoria che a noi di rinunciare a terre che sono nostre.

Ora va pur ricordato anche in questa Aula che queste terre sono profondamente italiane. Già dal loro doppio nome di Venezia Giulia si sente il legame ininterrotto dai tempi romani ai tempi nostri, attraverso il Medio Evo, di queste terre italiche. Lo attestano i monumenti romani che da Pola ad Aquileia ornano la nostra costa. Le chiese bizantine di Parenzo, la basilica di Aquileia, confermano la tradizione italica del tardo impero romano. Ma ancor più si continua questa tradizione nell’epoca veneziana. Infatti tutti i campanili delle nostre città furono costruiti seguendo con fedeltà meravigliosa e costante l’esempio luminoso del campanile di S. Marco; Dovunque si vede nei monumenti e nello stile delle case questa continuità della storia e dell’origine italica delle nostre terre. Ma oltre a ciò, oltre alla tradizione artistica, oltre alle tradizioni culturali, è stato recentemente il lavoro italiano che ha rigenerato queste terre aride, arse ed abbandonate. L’Italia ha profuso in esse la ricchezza del suo lavoro; la povera e misera Italia ha saputo valorizzare il porto di Trieste che durante la guerra del 1915-18 fu gravemente danneggiato, in una fase delicata di ingrandimento. Il lavoro italiano ha rimesso in vigore le miniere dell’Istria, ha dato acquedotti all’Istria. E tutto ciò è un prodotto del sudore italiano, del lavoro italiano, è opera della civiltà italiana.

Perché si devono abbandonare queste terre? Perché dobbiamo rinunciare a queste terre italiane? Perché, ancora, soltanto questi italiani della Venezia Giulia devono sopportare il peso della sconfitta fascista? Perché devono essi, soprattutto, pagare lo scotto? Noi non domandiamo in fondo che quello che è prettamente nostro. Noi abbiamo rinunciato ai confini strategici, ai confini naturali, pur così ben disegnati su queste terre, abbiamo rinunciato a tutto questo, pur di difendere semplicemente la nostra gente e la nostra terra.

È una questionò di umanità. Non dimentichiamo che non si tratta di passare da uno stato ad un altro, ma si tratta di passare da una civiltà ad un’altra. Ecco perché tanti sono i profughi già venuti in Italia e tanti sono quelli che si preparano a passare la frontiera. Ma voi dite: con lo Stato internazionale si salva qualcosa dell’Istria.

Invece è bene evidente che non serve a salvare niente. Noi dobbiamo pensare che abbiamo di fronte non uno Stato democratico, ma uno Stato totalitario con le risorse quindi che queste condizioni possono permettere ad uno Stato organizzato in questa maniera. Da noi solamente l’iniziativa privata ed il debole contributo che può dare un governo democratico; dall’altra parte tutta una intera nazione che tende alla conquista, galvanizzata dall’ideale di poter racchiudere nei suoi confini questa grande città che loro sanno, che loro dichiarano, non jugoslava ma italiana e che dovrebbe diventare la metropoli, la più grande città della Jugoslavia.

Questo Stato internazionale, com’è stato concepito, ha una vitalità impossibile. Ridotto a confini ridicoli di estensioni territoriali, tagliato fuori dalle sue risorse prime, non può, non potrà mantenersi. È un emporio commerciale ed industriale e va ricordato che Trieste negli ultimi tempi si trasformò, per vincere la crisi dei traffici dell’Europa Centrale, in un centro industriale. Ora, questo emporio commerciale ed industriale ha bisogno dell’assistenza e dell’aiuto di una grande industria, di una grande organizzazione commerciale che non può essere dato da quell’infimo e misero territorio che circonda così strettamente la città.

Come potrà poi vivere e trafficare se la Jugoslavia, che non accetta questo Stato internazionale, ha già dichiarato che non vorrà aiutare i traffici verso questo porto?

Vi ricordo Fiume e Sussak. Quando Fiume passò all’Italia si volle dare, in segno di fattiva collaborazione, il porto alla Jugoslavia, affittandolo per 90 anni. Ebbene, la Jugoslavia chiuse quel porto e mai più nessuna nave si accostò a quelle banchine, e fece sorgere lì vicino un altro porto, un altro centro commerciale, creandolo pur fra estreme difficoltà nella stretta Baia di Sussak.

Come potete immaginare che tutto questo non avvenga nuovamente? Ecco anche la ragione per la quale la Jugoslavia, ricordando bene quello che ella già fece, domanda ben più del territorio di Trieste: domanda anche Monfalcone e Grado con le sue lagune, perché vuole garantire ogni possibilità di concorrenza all’eventuale suo nuovo grande emporio Adriatico. E come potrà l’industria nascere e vivere in questa città? Come potrà esportare oltre i suoi stretti confini doganali? Ma tutto questo non preoccupa i grandi uomini che hanno deciso questo staterello, questo vero e proprio aborto. Non li preoccupa perché essi hanno cercato di evitare un conflitto fra loro, ma non si sono preoccupati di questa povera gente che è esposta a questa lotta tragica e feroce di due civiltà che cozzano fra loro e che lottano aspramente. Mai come ora nella Venezia Giulia gli attriti sono stati così esasperanti; mai un odio così feroce si vide sorgere fra queste due nazioni che pur convivevano da tanti secoli assieme. È stata l’Austria la prima ad aizzare i popoli jugoslavi contro il popolo italiano. Allora il popolo slavo appoggiava l’Austria, anzi era un baluardo dell’Austria stessa. E così sorsero i primi attriti e le prime divergenze. Ma ancora continuavano ad incrociarsi gli italiani con gli jugoslavi e vi era ancora possibilità di vita. Oggi invece questa sta diventando sempre più difficile.

 

E a questa situazione non si può porre rimedio con l’internazionalizzare questa zona intermedia. Occorre fare quello che s’era dettò e già deciso alla conferenza di Londra. Occorre quindi che si dia all’Italia quello che è dell’Italia ed alla Jugoslavia quello che spetta alla Jugoslavia, cercare di dare la minor parte di minoranze alle due nazioni in contrasto ed evitare che un conflitto divida queste nazioni. Questo lo aveva visto possibile la Commissione Interalleata inviata sul posto nella Venezia Giulia, la quale fece un’inchiesta quanto mai equilibrata. Perché non accettare queste conclusioni e queste proposte linee etniche? Si è invece voluto calpestare ogni principio di giustizia e si è raggiunto un compromesso politico che non tiene conto affatto della situazione locale e neanche della situazione dell’Italia tutta. Come potrà l’Italia accettare queste mutilazioni? Trieste e la Venezia Giulia rappresentano un simbolo. Il Risorgimento italiano si è concluso con la redenzione di Trieste e Trento. Per questo ideale vi furono 600 mila morti nell’altra guerra. Essi ora non avrebbero più quasi uno spazio per la sepoltura nel minimo territorio friulano che viene assegnato all’Italia.

Trieste e l’Istria rappresentano le giuste e modeste richieste della nuova democrazia italiana. Mentre la monarchia si era impegnata a non firmare una pace senza Trieste e l’Istria, come potrà la Repubblica macchiare con un gesto infamante la sua nascita con l’accettazione di questo trattato? Io sono persuaso che questa Assemblea quando sarà chiamata a decidere di questo trattato non potrà che essere univoca, non potrà che fare questo gesto di dignità, questo gesto di alta moralità. Una madre non può vendere la propria figlia, anche se con questo gesto potesse riscattare qualche altra figlia. È una questione di moralità, è una questione di dignità, è una questione di onorabilità del Paese. Noi certo sfigureremo di fronte a tutto il mondo, se ci macchieremo di questo gesto infame, perché è infame abbandonare questa popolazione che grida, che vuole l’Italia, che vuole essere unita alla sua Madre, che grida disperatamente il suo aiuto, che vuole restare con noi, che vuole restare con la civiltà italiana (Vivissimi applausi).

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni c delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

BATTISTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per sapere se s’intende:

1°) prendere urgenti provvedimenti, onde impedire che il recente decreto di amnistia emanato il 22 giugno 1946, il quale per la sua assurda larghezza non ha precedenti nella storia né del nostro, né degli altri Paesi, sia dai competenti organi della Magistratura interpretato in modo così lato da rimettere in libertà e da reintegrare nei beni già confiscati anche i veri responsabili della presente tragica situazione, in cui versa il nostro Paese, offendendo in tal modo la sensibilità di quanti per la guerra e per il fascismo hanno tanto sofferto e suscitando, quindi, sdegni e risentimenti che non varranno a portare nel nostro popolo quella pacificazione, che dovrebbe essere lo scopo primo dell’amnistia in parola;

2°) provvedere perché venga veramente applicato il decreto 6 gennaio 1944, n. 9, affinché siano riassunti senza ritardo in servizio e reintegrati in tutti i loro diritti di carriera gli antifascisti, che sotto il fascismo e per motivi politici furono dispensati o licenziati dal servizio e che ancora oggi si trovano disoccupati, mentre si vedono fascisti resisi a suo tempo colpevoli di gravi infrazioni in danno della Nazione rioccupare i loro posti e riscuotere non solo gli arretrati per il servizio non prestato ma, cosa più assurda, anche il premio di liberazione;

3°) emanare provvedimenti legislativi atti a seriamente difendere la Repubblica contro tutti i suoi nemici.

«Pertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per il funzionamento della Fondazione Banco di Napoli, recentemente eretta in ente morale.

«Buonocore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, sulla impressionante situazione finanziaria delle Opere pie di Napoli e sui provvedimenti di urgenza da adottare.

«Buonocore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non ritenga opportuno indire al più presto una sessione di esami speciale per l’abilitazione alla libera docenza di coloro i quali, essendo stati già dichiarati idonei alla prova orale dalle rispettive Commissioni, furono poi, per vicende belliche, impediti dal sostenerla. Si tratta, per alcuni, di vicende che risalgono agli anni dal 1941 al 1943, e sembra giusto che non si aggravino con ulteriori ritardi i gravi danni che essi hanno già subiti per avere onoratamente servito il loro Paese.

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, se non gli sembri giusto ed opportuno che il bando recentemente pubblicato, col quale si invitano i vicepretori onorari, i laureati in legge col voto 110 su 110, e i procuratori legali, i quali abbiano 3 anni di servizio, a presentare domanda per essere assunti nei ruoli della Magistratura senza concorso, venga esteso anche ai cancellieri laureati in legge, la cui preparazione all’esercizio della Magistratura è attestata dalle medesime funzioni inerenti al loro ufficio, sia per quanto concerne il diritto civile, sia per quanto ha riguardo al diritto penale.

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se non ritenga opportuno ed urgente precisare, coll’autorità che incontestabilmente possiede, dato il carattere politico della misura, la portata, prevista e perseguita, del provvedimento di amnistia, il quale, deformandosi nell’applicazione, da atto di ponderata seppure ampia clemenza, con indiscriminato oblio di colpe gravosissime, riesce, anziché a sopirli, a riaccendere passioni e risentimenti giustificati ove l’aspirazione popolare di giustizia resti od appaia troppo negletta;

2°) in qual modo intenda ottenere che venga, senza ulteriori dilazioni, realizzato l’impegno assunto da autorità competenti di fare fruire di analoga misura di clemenza i partigiani colpiti dalla giustizia dei Tribunali militari italiani o da Corti alleate;

3°) affinché precisi che la scarcerazione od il proscioglimento per amnistia o condono non comportano di diritto la riassunzione nell’impiego presso pubbliche o private amministrazioni, il che provocherebbe – come già sta avvenendo – il licenziamento di coloro che, assunti in sostituzione, dovrebbero – essi senza colpe verso la Nazione – pagare il prezzo doloroso del beneficio concesso ai colpevoli.

«Montagnana Mario».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura, per conoscere in virtù di quale legge, pur dopo la sentenza della Cassazione che dichiarava incostituzionale il decreto Gullo sul dimezzamento dei fitti in natura, si continua a corrispondere dai fittuari i due terzi soltanto dei fitti su istruzioni superiori, di incerta fonte, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per sapere se non credano equo ed opportuno estendere i benefici previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 11 gennaio 1946, n. 18 (a favore del personale statale in servizio nei centri distrutti, semidistrutti o danneggiati), anche agli impiegati che in quei centri risiedono, pur prestando servizio in comuni viciniori, sempreché dimostrino la necessità della residenza nel centro distrutto, semidistrutto o danneggiato, oppure siano stati in precedenza autorizzati alla residenza dalle rispettive Amministrazioni, oppure già vi risiedessero dal periodo bellico; ciò al fine evidente di venire incontro – nello spirito del decreto in causa – ad una categoria che, oltre al disagio di risiedere al centro sinistrato, deve sopportare ulteriori spese di viaggio per compiere il proprio dovere ed anche allo scopo di evitare che circolari ministeriali di talune Amministrazioni diano una interpretazione varia al provvedimento, ora estensivamente, ora restrittivamente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sullo, Ciampitti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della giustizia, per conoscere il suo pensiero in ordine alla necessità di immediata modifica delle norme procedurali, riguardanti il giudizio civile di cognizione, ed alla loro sostituzione con le precedenti norme che regolavano il giudizio pretoriale, prima dell’applicazione dell’attuale codice di rito civile, da estendersi, debitamente coordinate, anche ai giudizi collegiali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Quintieri Adolfo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla urgente necessità di ottenere dal Magistrato alle acque di Venezia la approvazione di numerosi progetti già pronti e preparati dal Genio civile di Rovigo per opere idrauliche, ponti e strade, edilizia pubblica e privata, lavori che, oltre a compiere opere pubbliche necessarie e riparazioni urgenti di danni di guerra, servirebbero anche ad assorbire in buona parte la mano d’opera disoccupata della provincia di Rovigo; nonché sulla urgente necessità di dare le necessarie autorizzazioni per altri lavori pubblici da compiersi nella stessa provincia di Rovigo ad opera di Enti e Consorzi, e precisamente: l’Istituto autonomo case popolari, il Consorzio di bonifica polesana, il Consorzio di Santa Giustina, il Consorzio di bonifica Tartaro Osellin, il Consorzio di bonifica Valli d’Adria ed Amolara, il Consorzio Isola d’Ariano, il Consorzio di bonifica padana, il Consorzio dell’Isola della Donzella, la Società immobiliare Ca’ Venier, il Consorzio di bonifica Campagna Vecchia Inferiore, il Consorzio di bonifica Isole di Ariano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Umberto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non creda di disporre che tutti gli Uffici preposti alla ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati dalla guerra diano la precedenza assoluta alla ricostruzione delle chiese, che le popolazioni reclamano con ogni urgenza. Questa disposizione già fu data dopo la guerra del 1915-18 dal Ministero delle terre liberate. In particolare se non creda di dare ordini immediati per la ricostruzione della chiesa parrocchiale di Lubia (provincia di Rovigo) per la quale, ad oltre un anno dalla liberazione, il Genio civile di Rovigo non ha ancora preparato il progetto. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Merlin Umberto, Schiratti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e della pubblica istruzione, per conoscere che cosa si intenda concretamente fare per alleviare le tragiche condizioni degli impiegati della scuola, cui l’assoluta insufficienza degli stipendi causa continue e gravi preoccupazioni. Si fa notare che gli interessati non reclamano aumenti di stipendio, ma, come altre volte hanno chiesto, insistono perché si voglia distribuire a prezzi di costo i generi di prima necessità (alimentari e vestiario, ecc.) per gli impiegati stessi e per le loro famiglie; chiedono se non sia il caso di servirsi per questa distribuzione della istituzione della «Provvida», pensando che se ciò fosse possibile faciliterebbe molto l’attuazione del progetto e non inciderebbe sul bilancio con nuove istituzioni; ed insistono nel far presente che il provvedimento riveste carattere d’urgenza e si augurano perciò che esso sia adottato con la maggiore sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cremaschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

  1. a) se crede che il provvedimento legislativo, approvato dal Consiglio dei Ministri, relativo all’ordinamento della Corte di assise, sia da ritenersi testo definitivo di legge (la cui attuazione rimane subordinata all’approvazione di altro provvedimento concernente la «costituzione del rapporto processuale, i suoi soggetti ed il suo svolgimento») o invece possa e debba essere sottoposto ad ulteriore elaborazione;
  2. b) se, in caso di ulteriore elaborazione, ritiene opportuno sottoporne lo schema all’esame della Costituente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quale applicazione abbia avuto l’amnistia recentemente concessa, quali direttive abbia seguito la magistratura nella applicazione dell’amnistia agli ex fascisti e se vi sia stata uniformità di direttive, e per invitare infine il Governo a rassicurare l’opinione pubblica allarmata dalla frettolosa rimessa in libertà di elementi pericolosi per l’ordine pubblico e per le istituzioni repubblicane.

«Parri».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’interno, per conoscere:

  1. a) i motivi che lo indussero a concedere e poi a revocare autorizzazioni all’esercizio di case da giuoco;
  2. b) le ragioni per le quali queste autorizzazioni sarebbero, secondo notizie di stampa, nuovamente concesse.

«Gli interpellanti chiedono altresì al Ministro dell’interno di voler comunicare con quali modalità e garanzie sono regolate queste concessioni, che si possono prestare a speculazioni losche.

«Benedetti, Covelli, Crispo, Reale Vito e Lombardi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19,40.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Votazione per la nomina di un Vicepresidente e di due Segretari.
  3. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO DEI RESOCONTI

Dott. Alberto Giuganino

TIPOGRAFIA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

MARTEDÌ 16 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

V.

SEDUTA DI MARTEDÌ 16 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Commemorazione del Dott. J. A. Rios, Presidente della Repubblica del Cile:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Presidente                                                                                                        

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Dimissioni di Deputati:

Presidente                                                                                                        

Discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Nitti                                                                                                                  

Bencivenga                                                                                                      

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.30.

Schiratti, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli deputati: Ponticelli, Matteotti Carlo, Fanfani e D’Agata.

(Sono concessi).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Ho chiamato a far parte della Giunta del regolamento, in sostituzione degli onorevoli Aldisio e Ferrari, nominati rispettivamente Ministri della marina mercantile e dei trasporti, gli onorevoli Gronchi e Di Vittorio.

Commemorazione del Dott. J. A. Rios Presidente della Repubblica del Cile.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e ad interim degli affari esteri. Il 27 giugno ultimo scorso moriva il dottor Juan Antonio Rios, Presidente della Repubblica del Cile.

I vincoli di sentimento e di interesse che così fortemente legano l’Italia al Cile ci hanno fatto associare con vivo dolore al lutto che ha colpito quella Nazione amica per la perdita del suo illustre Presidente.

Diplomatico, Senatore e Ministro di Stato, il dottor Rios è stato eletto Presidente della Repubblica il 25 febbraio 1942. Egli ha dimostrato, anche dalla suprema magistratura del Paese, i suoi sentimenti di amicizia verso l’Italia.

Risale infatti al 1944 l’iniziativa del Cile, ad opera del suo Presidente, di riallacciare i rapporti diplomatici con l’Italia. E fu così che il rappresentante del Cile poté essere fra i primi a giungere a Roma.

Il Governo ed il popolò italiano ricordano con gratitudine questa prima iniziativa, che è stata seguita da quell’azione per una giusta pace che è attualmente in corso da parte di tutta l’America Latina a cui il Cile ha dato e dà un così valido e cordiale contributo, insieme al Brasile, all’Argentina, all’Uruguay e in generale a tutte le Repubbliche latinoamericane, che ci sono oggi, nel triste periodo che la Patria attraversa, così spiritualmente vicine. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Il dottor Juan Antonio Rios, Presidente della Repubblica del Cile testé ricordato con vivo cordoglio dal Ministro degli affari esteri, fu uomo politico di grande valore, di ingegno eletto e di singolare coltura.

Del suo grande affetto per l’Italia egli diede prova nelle circostanze che sono presenti a tutti. Fu specialmente per suo impulso che vennero rinnovati i vincoli di cordiale amicizia che ci legano a quella nobile Nazione che ospita tanti nostri fratelli.

Nell’associarci al dolore del popolo cileno, rivolgiamo un reverente saluto alla memoria dell’illustre estinto.

Non posso con l’occasione omettere di rilevare con profonda gratitudine che le voci di solidarietà che ci pervengono dal Cile e in generale dall’America Latina – in questo periodo decisivo per le nostre sorti – si vanno facendo ogni giorno più vive, più convinte e più insistenti e ci dànno il conforto di un inapprezzabile appoggio morale: l’aspirazione dell’Italia è di conseguire una pace di giustizia che le consenta di riprendere il suo cammino verso una civiltà più alta, in un mondo retto dai principî di libertà e uguaglianza tra i popoli. E questa aspirazione coincide con quella dell’America Latina, cui, sicuro interprete dei sentimenti di tutta l’Assemblea, invio l’espressione della nostra fraterna riconoscenza. (Vivi applausi).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella tornata odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni sottoelencate, e concorrendo negli eletti le qualità richieste dalla legge elettorale, ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti Deputati:

per il collegio III (Genova, Imperia, La Spezia, Savona): Cappa Paolo, Taviani Emilio Paolo, Pellizzari Achille, Guerrieri Filippo, Viale Ambrogio, Gotelli Angela, Terracini Umberto, Novella Agostino, Negro Antonio, Minella Angiola, Barontini Anelito, Barbareschi Gaetano, Pertini Sandro, Faralli Vannuccio, Canepa Giuseppe, Pera Giobatta;

per il collegio IV (Milano, Pavia): Longo Luigi, Pajetta Giancarlo, Farina Giovanni, Gavina Cesare, Alberganti Giuseppe, Lombardi Carlo, Montagnani Pietro, Maffi Fabrizio, Scotti Francesco, Grandi Achille, Lazzati Giuseppe, Castelli Edgardo, Marazza Achille, Arcaini Giuseppe, Meda Luigi, Balduzzi Luigi, Clerici Edoardo, Sampietro Umberto, Zerbi Tommaso, Jacini Stefano, Malvestiti Pietro, Marina Mario, Nenni Pietro, Greppi Antonio, Fietta Cornelio, Canevari Giuseppe Angelo Emilio, Morini Attilio, Montemartini Gabriele Luigi, Basso Lelio, D’Aragona Lodovico, Vigorelli Ezio, Lombardo Matteo Ivan, Malagugini Alcide, Mariani Francesco;

per il collegio VIII (Trento): Battisti Luigi, De Gasperi Alcide, Conci Elisabetta, Carbonari Luigi;

per il collegio IX (Verona, Padova Vicenza, Rovigo): Gonella Guido, Uberti Giovanni, Merlin Umberto, Alberti Antonio, Rumor Mariano, Guariento Antonio, Tosato Egidio, Bettiol Giuseppe, Storchi Ferdinando, Valmarana Giustino, Cappelletti Guglielmo, Cimenti Fiorenzo, Bacciconi Luigi, Marzarotto Achille, Gui Luigi, Pesenti Antonio, Rossi Maria Maddalena, Marchesi Concetto, Bolognesi Severino, Matteotti Giancarlo, Tomba Tullio, Fogagnolo Alberto, Faccio Luigi, Costa Gastone, Caldera Carlo, Segala Mario, Fedeli Aldo;

per il collegio X (Venezia, Treviso): Scoccimarro Mauro, Ghidetti Vittorio, Giacometti Guido, Costantini Antonio, Tonetti Giovanni, Tonello Tommaso, Mentisti Pietro, Ponti Giovanni, Sartor Domenico, Lizier Pietro, Franceschini Francesco, Ferrarese Antonio, Corazzin Luigi;

per il collegio XI (Udine, Belluno): Scoccimarro Mauro, Cosattini Giovanni, Pieri Gino, Piemonte Giuseppe Ernes, Vigna Oberdan, Schiratti Guglielmo, Bettiol Giuseppe, Tessitori Tiziano, Fantoni Luciano, Pat Bortolo Manlio, Garlato Giuseppe;

per il collegio XV (Firenze, Pistoia): Negarville Celeste Carlo, Rossi Giuseppe, Mattei Teresa, Maltagliati Abdon, Bitossi Renato, Bianchi Bianca, Pertini Alessandro, Di Gloria Calogero, Piccioni Attilio, La Pira Giorgio, Bertini Giovanni, Foresi Paimiro;

per il collegio XVII (Siena, Arezzo, Grosseto): Negarville Celeste Carlo, Cerreti Giulio, Bardini Vittorio, Magnani Marino, Saragat Giuseppe, Zannerini Emilio, Fanfani Amintore, Ponticelli Francesco;

per il collegio XXIV (Salerno, Avellino): Amendola Giorgio, Cacciatore Luigi, Preziosi Costantino, Covelli Alfredo, De Falco Giuseppe, Scoca Salvatore, Sullo Fiorentino, Lettieri Raffaele, Rubilli Alfonso, Cuomo Giovanni;

per il collegio XXV (Bari, Foggia): Di Vittorio Giuseppe, Allegato Luigi, Imperiale Giuseppe, Pastore Raffaele, Petrilli Raffaele Pio, Moro Aldo, Germano Attilio, De Caro Gerardo, Recca Raffaele, Caccuri Edmondo, Monterisi Vito, Fioritto Domenico, Ruggiero Carlo, Giannini Guglielmo, Trulli Martino, Lagravinese Nicola, Patrissi Emilio, Perrone Capano Giuseppe;

per il collegio XXVI (Lecce, Brindisi, Taranto): Grassi Giuseppe, Vallone Luigi, Ayroldi Carissimo Giuseppe, Cicerone Vincenzo, Lagravinese Pasquale, Grieco Ruggero, Motolese Alfonso Maria, Gabrieli Antonio, De Maria Beniamino, Stampacchia Vito Mario, Codacci Pisanelli Giuseppe;

per il collegio XXVII (Potenza, Matera): Gullo Fausto, Colombo Emilio, Zotta Mario, Nitti Francesco, Pignatari Aldo Enzo.

Do atto alla Giunta di queste comunicazioni e salvo i casi d’incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Dimissioni di Deputati

PRESIDENTE. L’onorevole Pietro Montagnani, eletto nella circoscrizione Milano-Pavia, mi ha inviato la seguente lettera:

Onorevole Sig. Presidente,

Eletto Deputato nella circoscrizione Milano-Pavia, poiché la fiducia popolare mi ha affidato quasi contemporaneamente la responsabilità di Pro-Sindaco di Milano, di fronte all’evidente impossibilità di svolgere effettivamente le due funzioni, dopo maturata riflessione e con il consenso della Direzione del mio Partito, mi appare opportuno rassegnare le dimissioni da Deputato.

Ben lontano dal sottovalutare l’importanza dell’Assemblea Costituente, dalla quale dipende l’avvenire del nostro Paese, non posso sottrarmi al richiamo della simpatia, intesa nel senso etimologico, per le masse popolari milanesi, che attendono dalla loro Amministrazione democratica la soluzione urgente di angosciosi problemi, che le assillano. Decine e decine di migliaia di cittadini senza tetto, quasi centomila disoccupati, la maggior parte dell’infanzia denutrita ed insidiata dalle malattie, esigono, a giusta ragione, un miglioramento delle loro precarie condizioni di esistenza. Questo compito, che sarebbe assai gravoso in normali condizioni finanziarie, si rende estremamente difficile, dato il dissesto del bilancio comunale, conseguenza della disonesta ed incapace amministrazione fascista e delle distruzioni belliche.

In queste condizioni, disperdere le proprie energie in una duplice direzione significa, a mio parere, porsi nell’impossibilità di assolvere al proprio dovere e, se io desidero optare per la responsabilità di amministratore, lo si deve non a ristretto spirito municipale, per quanto io non sappia e non voglia nascondere il profondo affetto per la mia città, ma anche alla considerazione del grande peso specifico che ha Milano nella economia nazionale.

Per la massa di popolazione di altre regioni, dal Piemonte alla Sicilia, dal Veneto alle Puglie, che in essa vive, lavora o trova fraterna assistenza, per il prestigio nazionale della grande città lombarda, per i riflessi positivi che avrà la ricostruzione di Milano su tutta l’economia nazionale, mi sento autorizzato ad affermare che quando vogliamo lavorare per Milano, noi lo facciamo non soltanto per la città nostra in quanto milanesi, ma nostra, di tutti noi, in quanto italiani.

Il mio posto nell’Assemblea sarà rilevato da un mio compagno che, come tutti i candidati presentati al popolo dal Partito Comunista Italiano, saprà assolvere al proprio dovere, almeno quanto io avrei saputo farlo.

Poiché il nuovo Governo nazionale, che sarà espresso dall’Assemblea Costituente, dovrà attuare un programma di emergenza, inteso a soddisfare le necessità della ricostruzione nazionale ed i bisogni urgenti delle masse lavoratrici, penso che, nell’intento di mobilitare le possibilità locali, il Governo dovrebbe porre allo studio, ed accordare al più presto ai Comuni, almeno una parziale autonomia tributaria. In tal modo l’intervento statale potrebbe essere più modesto e la ricostruzione più snella e più rapida.

Ritengo, onorevole signor Presidente, che la S. V. ed i miei onorevoli colleghi riconosceranno valide le ragioni che motivano te mie dimissioni e rivolgo all’Assemblea, insieme al mio deferente saluto, l’augurio di proficuo lavoro, nell’interesse del nostro Paese.

Piero Montagnani

Pongo ai voti l’accettazione di queste dimissioni.

(È approvata).

Anche l’onorevole Nicolò Carandini mi ha inviato la seguente lettera:

Alla Presidenza dell’Assemblea Costituente

Dato che il protrarsi delle trattative di pace mi costringerà a prolungare oltre il previsto la mia assenza dall’Italia e considerando mio primo dovere il non sottrarmi anzi tempo agli obblighi del mio attuale ufficio, mi trovo nella necessità di rassegnare le dimissioni dalla carica di Deputato a favore di altro candidato che sia in grado di partecipare regolarmente ai lavori dell’Assemblea.

Con la massima considerazione.

Nicolò Carandini

Pongo ai voti l’accettazione di queste dimissioni.

(È approvata).

Discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Chiedo scusa agli onorevoli colleghi se dovrò troppo dilungarmi su alcuni argomenti su cui desidero richiamare la loro attenzione. Devo fare prima di tutto una dichiarazione. Io mi considero al di fuori delle contese attuali di partiti. Da quando sono venuto in Italia, dopo lungo esilio e dopo prigionia, ho cercato di essere elemento di realtà e di pace. Io ho cercato di parlare agli italiani e di trovare, se è possibile, nell’immenso disordine attuale, la via della resurrezione. Io non ho attaccato nemmeno i Governi che non amavo. I due Governi che si sono succeduti da che sono qui, il Governo dell’onorevole Parri e il Governo dell’attuale de Gasperi, non hanno mai avuto da me alcuna insidia. Io chiedo alla loro lealtà – è presente, credo, l’onorevole Parri – che confermino queste mie parole. Da ogni parte mi sono venute proposte per movimenti, diretti a scopo di crisi ministeriali. Io ho detto che queste cose non m’interessavano. E quando l’onorevole Parri mi fece l’onore di visitarmi, gli feci un solo discorso: cercate di avere energia, cercate di essere Governo. Data, io gli dissi, l’idea che voi rappresentate qualcuno e qualche cosa, di forte e di sano e di vitale, e soprattutto una volontà, finitela con questi sistemi d’indecisione e d’incertezza che vanno alla ventura, con questi Consigli dei Ministri inutili e lunghissimi , dove non si sa mai cosa si vuole e chi sia il capo e chi regoli questo disordinato meccanismo che è il Governo. E gli diedi rispettosamente il consiglio di essere forte, di essere Governo.

Io non ho avuto l’onore di incontrare l’onorevole De Gasperi che occasionalmente. Mai ho voluto ascoltare tutti quelli che sono venuti da me a dirmi male di lui (Commenti); mai ho voluto tendere insidie dirette alla esistenza del Governo.

Io sono quindi al di fuori di ogni idea di competizione. Quando amici miei sicuri di parti diverse hanno parlato di una mia candidatura a Presidente provvisorio della Repubblica, immediatamente ho dichiarato che non volevo esser candidato e che se fosse avvenuta non avrei accettato tale nomina. Non era quel posto che volevo. Io volevo venire qui alla Costituente e parlare, non una volta sola (vi annunzio questa ferma intenzione…) (Ilarità), non una sola volta, ma in tutte le occasioni in cui crederò di essere utile con la mia conoscenza e la mia esperienza. Qui potrò dire qualche cosà che è in me, anche se vi spiacerà. Non m’interessa la vita dei partiti. Non ho né ambizioni né vanti; non ho che una sola cosa: una fiera volontà e un amore quasi fanatico per questo mio Paese da cui ho avuto tanti dolori, per questa Italia nostra in cui io credo, per questa Italia che io voglio unita libera e democratica.

Non considerate dunque le cose che dirò come dirette ad alcuno scopo che non sia amore di verità.

Vi devo fare ancora un’altra dichiarazione: non desidero ora essere nulla che sia Governo. Non desidero occupare alcun posto finché non vi sarà una legge elettorale meno perversa di quella che ci ha mandato qui. Non desidero essere alcuna cosa, se non dopo che vi saranno libere elezioni e la possibilità di costituire Governi che non siano servitù di partiti (Applausi) e che non siano e non diano libertà.

I partiti sono una necessità politica, sono anche una necessità e conseguenza della libertà; ma i partiti, interpretati come espressione di volontà, di sentimenti, di energie, di interessi opposti, ma che possono equilibrarsi in una comune libertà e non in una servitù diffusa in un dominio di interessi coalizzati.

Io dunque desidero parlarvi con ogni sincerità, con ogni buona fede e desidero che voi mi consideriate come l’uomo che ha dato al suo Paese tutto ciò che poteva e che ora non vuole nulla. È grande forza non essere nel Governo e non desiderarlo e non volerlo. Ora siamo, infine, in questa Costituente tanto attesa, che aveva fatto sorgere tante speranze e tante illusioni. Per molto tempo si è detto che tutto dipendeva dalla Costituente. Èstata la grande propaganda demagogica. Si è detto: la Costituente avrebbe risoluto subito i problemi dell’Italia: quando avremo la Costituente noi avremo anche pane e lavoro. (Commenti). È venuta la Costituente: abbiamo ancora per qualche tempo pane, ma le nostre condizioni sono gravissime e non abbiamo ancora la sicurezza di lavorare.

ROMITA, Ministro dei lavori pubblici. Avremo anche lavoro.

NITTI: Prendo atto dell’interruzione dell’onorevole Romita, ma ho tuttavia qualche motivo per dubitare. La Repubblica, si è detto ancora, vi darà un buon trattato di pace… (Commenti).

Voci. Chi l’ha detto?

NITTI. La Repubblica non ci ha dato un trattato di pace… (Rumori).

Voci. E la monarchia l’avrebbe dato?

GIANNINI. Lasciatelo parlare! (Interruzioni Rumori).

Una voce. La verità vi brucia. Lasciate parlare!

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, continui il suo discorso. La prego di non raccogliere le interruzioni.

NITTI. Cattivi metodi di propaganda, basati sempre sul prometter ciò che non si può dare. La Costituente era necessaria, ma non poteva dare il lavoro; la Repubblica non ci ha dato un trattato di pace, ma non ce l’avrebbe dato nemmeno la monarchia.

Abbiamo avuto e abbiamo ancora davanti a noi un periodo molto grave da attraversare, qualunque sia la forma politica:

Poi è stata anche un’illusione molto diffusa: le democrazie lavoreranno per la pace.

Signori, io ho scritto due grossi volumi sulla democrazia, tradotti nelle principali lingue, su che cosa è la democrazia. (Rumori – Interruzioni – Scambio di apostrofi fra l’Onorevole Giannini e l’estrema sinistra – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, la prego di continuare.

NITTI. Le democrazie in nessun paese moderno sono pacifiste; Non lo sono state nemmeno nel lontano passato. Non vi è niente di più ridicolo di dire che le democrazie lavorano sempre per la pace. Le democrazie lavorano troppo spesso per la guerra! (Interruzioni).

Noi abbiamo visto che cosa è stato il Trattato di Versaglia, determinato da grandi democrazie. La pace si mantiene soltanto per effetto di sentimenti dell’ordine morale, sia con lo spirito religioso, sia con lo sviluppo dei sentimenti superiori; non sono le forme politiche che danno la pace o la guerra. La pace e la guerra esistono in tutte le forme economiche, ed è ignoranza o malafede dire che la guerra è effetto soltanto del capitalismo… (Interruzioni).

Chi mi interrompe, sappia, che forse a differenza di lui, ho letto Marx; il quale spiega ciò che s’intende per capitalismo ed assegna al capitalismo una nascita relativamente molto recente. Ora, le guerre più di ora vi sono state anche prima che il capitalismo esistesse (Approvazioni).

Ho ascoltato ieri le dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi; non posso dire se concordo o discordo, perché alcune sono indefinite ed incerte e, ascoltate così brevemente, non rendono facile una dichiarazione da parte mia. L’Onorevole de Gasperi non ha mantenuto alcuna proposta definitiva e sicura. Ho udito, fra le altre cose, anche quelle che egli ha voluto dire sul Mezzogiorno, problema ardente che ho tanto studiato e sul quale ho tanto scritto e al quale mi sono tanto appassionato. Ma per ora io consiglio soltanto una cosa. Non parliamo a cuor leggero del problema del Mezzogiorno. Non bisogna oggi promettere ciò che non si può dare. (Approvazioni).

Il Mezzogiorno è stato troppo ingannato e troppo deluso, perché debba provare ancora delusioni. (Interruzioni). Il Mezzogiorno è una grande forza dell’Italia, contrariamente alle opinioni di pochi ignorantelli che ne parlano nei loro giornali con tanta volgare leggerezza. (Applausi a destra). Il Mezzogiorno è una forza immensa e non bisogna scoraggiare le sue energie che non sono mai spente e si rinnovano sempre. Noi dobbiamo essere uniti, Nord e Sud. Io sono l’ultimo credente fanatico dell’unità e odio tutti questi movimenti di divisione e di discrasia. Accetterei qualunque nuovo sacrificio per il Mezzogiorno piuttosto che distaccarlo dalla Madre Patria. Noi, solo se saremo uniti, saremo qualche cosa nel mondo; altrimenti periremo. È finito il tempo delle piccole repubblichette del ’400, delle piccole repubblichette rivali. Ormai andiamo, in Europa e nel mondo, verso grandi unità territoriali, politiche, economiche. Fare opera di separazione è commettere delitto. (Applausi).

Mi sono opposto come potevo a tutti i movimenti, di pretese autonomie e autarchie che potessero determinare divisioni, ho sfidato e sfido anche la impopolarità fra alcuni miei concittadini, che, spesso esasperati dalle difficoltà attuali, mi domandano dichiarazioni autonomiste. Io non ho voluto mai farne una sola, non ho mai eccitato alcuna passione che ci dividesse, noi cittadini della stessa nazione.

Noi dobbiamo seguire verso il Mezzogiorno una politica seria, non ingannare, non promettere invano; dobbiamo riparare, anche nelle difficoltà attuali, a quelle che sono le ingiustizie più patenti, a quelli che sono, più che effetto di mala volontà, spesso effetto di errori involontari e di non conoscenza. Io spero che di questo argomento ci sarà data occasione di discutere con serenità. Questo vorrei, e per ora non mi attardo sulle dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi. Ripeto soltanto che è in ogni caso miglior politica non promettere nulla e non far sperare in alcuna cosa che non si possa fare seriamente. Troppo abituato è il Mezzogiorno a questo triste inganno delle promesse mai mantenute. Io vi parlerò dunque della situazione meridionale, ma non posso ora fuggevolmente. Ve ne parlerò quando si potrà e si dovrà discutere a fondo di questa cosa in cui si ribattono sempre gli stessi luoghi comuni da gente che non vuole e soprattutto non sa.

Da molti secoli l’Italia non ha attraversato mai un’ora così dolorosa e terribile come quella che ora attraversa e mai vi è stata, in alcuni ambienti e in alcuni ceti, tanta incoscienza e tanto desiderio di vane cose. Io me ne angoscio. Io sono uno studioso, abituato a lavorare metodicamente, attentamente. Io faccio ogni giorno il bilancio delle nostre cadute. Provo quindi ogni giorno un senso di tristezza e mi domando se era proprio inevitabile che si arrivasse così in basso e che d’illusione in illusione, di errore in errore, si arrivasse fino al punto in cui siamo.

Abbiamo il primo Ministero della Repubblica. Signori, vi devo parlare con assoluta sincerità: io difenderò la Repubblica con tutte le mie energie, con tutte le mie forze. Dal momento che la Repubblica vi è, dal momento che si è fatta, serviamola senza discutere, sia quelli che la volevano, sia quelli che non la volevano. Il nostro dovere è di mantenerla e di difenderla. (Applausi). Ma, appunto per ciò, vi dichiaro che nell’interesse della Repubblica ciò che speravo e che volevo era che il primo Ministero della Repubblica fosse veramente degno del grande avvenimento. Io non posso adularvi, dicendo che voi rappresentate, signori del Governo, quello che attendevamo. (Si ride). Noi attendevamo… (Applausi). Non mi applaudite, per amor di Dio, e non create incidenti. Noi attendevamo qualche cosa di diverso e di più grande dello spettacolo attuale.

Volevamo far rinascere lo Stato. Noi non siamo più Stato; siamo la permanente confusione. Abbiamo un’accozzaglia di piccoli uomini, che in ogni parte del territorio vanno in vie diverse e che si contendono fra di loro per interessi di parte. Qui non vi è lo Stato nella sua efficienza, non vi è la Nazione, ma la fazione. Lo Stato è volontà, è potenza, sia esso conservatore o bolscevico, sia monarchico o repubblicano. Lo Stato è potenza; e questo Stato attuale dell’Italia non dà né l’idea di potenza, né l’idea di volontà, né ha più dignità.

Io aspettavo dallo Stato repubblicano che il primo Ministero della Repubblica ci portasse questo senso di volontà e di potenza e come un’ondata di entusiasmo.

Ricordo il mio ritorno a Parigi, dopo due anni di deportazione in Germania. La mia vita era stata in pericolo, molte altre volte, prima, molto di più che voi non sappiate e non crediate.

Ero stato in pericolo durante tutto il mio esilio in Francia! Quanti attentati si preparavano e si volevano compiere contro di me, per volontà personale dello stesso duce! Furono evitati per opera del caso, e posso dire di alcuni funzionari italiani della stessa polizia che dinanzi all’idea del delitto si astennero dall’agire. Fui in pericolo non minore, anzi maggiore in Germania.

Sapevo che se per i tedeschi Mussolini era l’amico n. 1, io ero il nemico n. 1 fra quanti italiani erano in Germania prigionieri o deportati. Sapevo che quando Mussolini fosse stato ucciso, anch’io sarei stato ucciso. (Commenti – Interruzioni).

No, non sono un eroe; sono un uomo di ferma volontà e coraggio che affronta con calma gli eventi, ma che non ha mai preso atteggiamenti eroici. Sono un uomo che ha dimostrato sempre con suo danno e pericolo di voler servire sempre il suo Paese e di saper lottare e osare. Lasciando la Germania e tornando a Parigi, dove ritrovai tutti i miei (tranne, ahimè!, due figli, due grandi spiriti che la morte mi aveva tolto), io ebbi le prime impressioni e i primi contatti con l’Italia.

La prima cosa che mi si chiese quando giunsi a Parigi fu se io ero per la monarchia o per la repubblica. Io veramente non ci avevo pensato. (Commenti). Innanzi tutto non sapevo che cosa avrei trovato rientrando nel mio Paese e volevo farmene un’idea. Qualcuno di quelli che vennero ad interpellarmi ebbe la cortesia di dirmi che io sarei stato il primo Presidente della Repubblica, e che i miei precedenti non potevano che riscuotere la simpatia dei repubblicani. Questa non era cosa che poteva interessarmi; io non vedevo che l’Italia e l’avrei comunque servita.

Sono in quest’aula quelli che ricordano che quando ero Presidente del Consiglio dei Ministri fui accusato di voler trasformare la monarchia italiana in repubblica. I miei due complici – si diceva – erano Turati e Treves e il mio emissario Modigliani. Era accusa non vera. Primo Ministro della monarchia, io non pensai mai a tradirla; ma, com’era mio dovere, a servirla onestamente. Non tradii mai, come non tradirò mai, né il mio dovere, né la mia dignità. Ma anche servendo la monarchia fedelmente fui verso di essa sempre indipendente e lontano da ogni adulazione. Il mio contegno fu sempre fiero. Io sono l’unico Presidente del Consiglio – e non il più stupido – che non è Cavaliere dell’Annunziata. (Si ride – Commenti).

Quando s’inaugurò la nuova legislatura nel 1919 si verificò qualche cosa che parve assai strana. La nuova Camera dei Deputati fu inaugurata senza che ministri e deputati avessero decorazioni, senza che i ministri fossero nelle loro grandi uniformi. I ministri erano in abito da passeggio. La cosa parve scandalosa. I socialisti, che pure nella grandissima maggioranza non erano né rivoluzionari né repubblicani, vollero fare però una manifestazione inopportuna che mi dispiacque e che fu un errore: entrarono alla Camera con un garofano rosso all’occhiello e uscirono all’entrata del re. Un vecchio deputato socialista, sul conto del quale Turati mi metteva sempre in diffidenza, consigliò questa inutile e banale manifestazione.

Io abolii tutto ciò che era sfarzo esteriore, volli dare un esempio di modestia con la severità di vita che mi ha sempre contrassegnato. (Commenti).

Quando il non mai abbastanza defunto re Vittorio Emanuele III si rese complice di Mussolini nel 1922 io, dopo essere andato in esilio nel 1924, gli scrissi dall’estero fiere lettere che ho conservato, dicendogli che egli aveva mancato non solo al suo dovere di re, ma ad un dovere di onestà. E queste cose ho avuto il coraggio di scrivere pubblicamente nei miei libri e nella stampa estera.

E quando re Umberto II, allora principe di Piemonte, andò a sposarsi in Belgio, e un giovane, che era a me devoto, a nome De Rosa, fece un attentato contro di lui (Commenti) io osai andare alla Corte di Assise del Brabante a dire parole in difesa dell’imputato e ad affermare che il De Rosa non voleva compiere delitto, ma voleva fare un atto dimostrativo contro la monarchia italiana.

PERTINI. Viva De Rosa! (Applausi).

NITTI. Èmorto combattendo in Spagna. Questo vale più di un evviva. (Approvazioni).

Quando il problema del primo Ministero della nuova Repubblica doveva porsi ai rappresentanti dei partiti vincitori e si dovevano riunire in composta dignità gli uomini migliori e più esperti, essi ci han dato un Ministero che è fatto sul vecchio stile ancora peggiorato. Prima erano i sei partiti; ora sono tre e mezzo! E poi, il solito numero enorme di Ministeri inutili e inverosimili: dieci democristiani, quattro socialisti, quattro comunisti, due repubblicani, un indipendente. Ventuno ministri. Numero enorme. Gran numero di sottosegretari: cosa assurda e sconcia e senza precedenti in Europa e per noi pericolosa e dannosa. Un paese come l’Italia, tanto in disordine, tanto in povertà si è dato il governo più costoso e, se posso dire, più inefficiente, perché più aumenta il numero degli individui chiamati al Governo e più aumenta l’inefficienza. L’istituzione dei sottosegretariati è diventata non solo danno, ma causa di disordine e di ridicolo.

Dal Ministero è uscito invece volontariamente una figura importante: l’onorevole Togliatti. Io mi sono domandato perché sia uscito. Ho molta simpatia per l’onorevole Togliatti… (Si ride – Commenti).

Fra tutte le figure politiche che si sono manifestate in Italia dopo la guerra, la sua mi pare la più interessante. Io ho avuto una sola conversazione con lui. Spero, ora che si dedica alla organizzazione del partito, ed è più libero, di avere altre conversazioni che mi illuminino sulla sua azione e i suoi propositi. L’onorevole Togliatti rappresenta idee e programmi diversi dai miei. Siamo due parallele che non potremo incontrarci che all’infinito.

Perché l’onorevole Togliatti ha voluto abbandonare il suo posto di governo? Si dice: per dedicarsi al partito. Anche questa è una spiegazione. Ma vi possono essere anche altre spiegazioni, che vanno seriamente considerate. Dopo che io ho dichiarato di non volere essere ora per nulla in azioni di Governo, possiamo liberamente discutere e senza destare alcuna diffidenza. (Commenti – Interruzioni).

Per la prima Repubblica si è fatto dunque un Ministero come i precedenti, numeroso e confuso, in cui è difficile spiegarsi la ragione di non pochi nuovi ministeri, e la ragione della scelta di gran parte dei ministri e ancor più dei sottosegretari. Il ministero è ancor più numeroso, con gli stessi partiti, con le stesse passioni, con le stesse incompetenze. Questo Ministero della Repubblica non differisce dal precedente se non per alcune novità. Tutto è considerato come patrimonio dei partiti; niente è abbandonato da ogni partito, e si fa in ogni crisi il dosaggio di tutti i diritti. È sempre lo stesso metodo. Componendo un Ministero, non si pensa che a dosare secondo la volontà o l’interesse dei partiti, non mai secondo le attitudini individuali. Vi è nondimeno in questo Ministero qualche cosa che mi ha colpito. L’onorevole De Gasperi conserva un gran numero di posti e di occupazioni, di cui, se mi permette, gli domanderò notizia tra poco, rispettosamente.

L’onorevole De Gasperi ha perduto in apparenza la collaborazione dell’onorevole Nenni. L’onorevole Nenni è un uomo interessante. Ogni tanto alcuni del suo partito mi annunciano la sua defenestrazione; (Commenti Si ride) ma finisce con l’essere più forte dei suoi avversari. Ora l’onorevole Nenni, nello stesso tempo che ha in certo modo abbandonato il potere, ha una posizione giuridica, rimane Ministro senza portafoglio in attesa di portafoglio. Perché l’onorevole De Gasperi, senza precisare il tempo – e non può – si propone, dopo la pace, di ritirarsi dal Ministero degli esteri e di cederlo all’onorevole Nenni.

Questo è un fatto nuovo nella storia, è una cosa mostruosa che non è mai stata tentata in nessun Paese. Si tratta dunque, per parlare giuridicamente – anche in omaggio all’onorevole Gullo, che deve ora occuparsi di questioni giuridiche (Si ride – Commenti) – si tratta di una costituzione di erede prima della morte del de cujus.

Lo Stato si considera sempre più come proprietà privata dei vari partiti. Se ne dispone secondo le esigenze dei partiti e dei loro aderenti. Coloro che hanno il dominio dei partiti si regolano secondo quelli che credono gli interessi dei loro partiti e secondo le necessità che vengono loro imposte da circostanze mutevoli. La prima preoccupazione nei formare un Ministero non è la scelta degli uomini migliori e più capaci, ma quanti posti di ministri e di sottosegretari di Stato ciascun partito deve avere e a chi dal partito devono essere attribuiti.

È il contrasto degli interessi, la gara delle vanità. Non è in mira la nazione, ma il partito o la fazione: è contrasto di partiti in gara di preminenza, ma anche di individui che vogliono farsi strada all’ombra del partito. Tranne forse il partito comunista, che ha una sua disciplina, gli altri partiti devono, in diversa misura, tener conto dei desideri e dei bisogni e delle incomposte speranze dei loro aderenti. Quanti sono che in ogni crisi vogliono essere ministri o almeno sottosegretari o, se non vi è altro posto, almeno alti commissari?

Si pensi quali spese enormi porta la costituzione di un nuovo Ministero con ministri e sottosegretari. Più il Paese manca di tutto e più è la fiera della vanità e più è la dissipazione. In tanta miseria che cosa il pubblico deve pensare di noi?

L’onorevole De Gasperi ha riunito in sé stesso tutti i poteri e quante funzioni gli era possibile riunire. Solo per ora non ha potuto lasciare il Ministero degli esteri, forse perché nel momento attuale e con la orrenda pace che ci sarà imposta nessuno lo voleva.

L’onorevole De Gasperi ha i più diversi incarichi e le più terribili responsabilità. Dovrebbe occuparsi di tante diverse cose, di tanti problemi, di tanti contrasti per cui l’intelligenza umana non è sufficiente. È quindi obbligato a non occuparsene. (Si ride).

Ora egli, cosa che sembra inverosimile, ha voluto il Ministero dell’interno. Perché lo ha voluto? Non oso fare la domanda al suo predecessore e collega, all’onorevole Romita, che vedo qui vicino. L’onorevole De Gasperi ha voluto l’Interno, dissero i suoi amici, perché rappresenta il partito più numeroso. Noi andiamo verso le elezioni amministrative e poi vi saranno le elezioni per la nuova Camera. L’onorevole De Gasperi rappresenta il partito più numeroso. Però, perché proprio De Gasperi deve essere Ministro dell’interno? Non c’è qualche altro uomo del suo partito che possa assumere questo penoso e terribile Dicastero? Questa è la domanda, a cui io non oso rispondere. Chi è Ministro dell’interno non può fare altro. Vi sono ancora le elezioni amministrative per talune grandi città, come Roma, Palermo, Napoli, Torino, Genova,ecc. ecc. Nella incomposta ridda elettorale che ci tormenta e ci tormenterà, sono accadute le cose più assurde: si sono fatte le elezioni amministrative non in tutte le province, ma in alcune province, scelte secondo criterio di convenienza di partiti o locali, ed in ogni provincia non si sono fatte le elezioni per tutti i comuni…

ROMITA, Ministro dei lavori pubblici. Si sono fatte dove le liste erano pronte.

NITTI. Dicevo dunque che non in tutte le provincie si sono fatte le elezioni e si son fatte soltanto per quei comuni per cui si è ritenuto più utile di farle. Non si son fatte dove non si voleva, anche se le liste erano pronte.

Questo fatto determina la convinzione che le grandi elezioni prossime sono il vero interesse, il solo interesse di partito. L’Italia è disgraziatamente un Paese più municipale che nazionale. L’interesse delle elezioni amministrative è grande. Perciò i partiti di masse hanno grandissimo interesse a risolvere le loro questioni locali in questo momento. Noi avremo una serie di elezioni in cui l’onorevole De Gasperi funzionerà, se egli sarà al suo posto, come dirigente. Io spero, invece, perché egli rimanga utilmente al suo posto di Presidente del Consiglio, che adempia a una condizione che è per lui dovere: e il suo dovere è lasciare il Ministero dell’interno, se deve occuparsi veramente dell’Italia. Io non dico queste cose a caso: sono stato anch’io nei momenti più difficili Ministro dell’interno e so che cosa significa. Io so come non dormivo la notte, o come dormivo inquieto, e figuriamoci quando un uomo ha in più tutte le occupazioni dell’onorevole De Gasperi, ed è in un momento terribile di caduta del suo paese.

Il nuovo Ministero è stato fatto senza un programma ben delineato e soprattutto senza nessun programma di economia, di ordine e di lavoro. C’è una inutile dispersione di energia, c’è una mancanza di coordinazione ed una dissipazione generale. Si continuano e si aggravano i mali preesistenti.

Io ebbi la tentazione, quando esisteva la defunta Consulta, di discutere, o almeno di ricordare, il caso di una magistratura della Repubblica veneta. Nella Repubblica veneta erano in funzione dei magistrati speciali: gli «scanzatori» delle spese superflue. Questi magistrati avevano l’obbligo di proporre la soppressione di tutti gli uffizi inutili e tutte le spese superflue della Repubblica. Mi era venuta la strana idea di fare una proposta simile: ma poi ho pensalo che, forse, avrei ottenuto un risultato contrario. Nella tendenza alla dissipazione che impera si sarebbe cercato un palazzo o due o tre palazzi per questi «scanzatori» di pubbliche spese (Ilarità) e si sarebbero accresciute le spese.

Mi riesce difficile, se non impossibile, ammirare la funzione dello Stato attuale in Italia. Vi sono, non solo politicamente troppi disordini, ma vi sono, socialmente ed economicamente, troppi elementi che danneggiano l’economia del paese. Lo Stato è dissipazione. Spero che l’onorevole Corbino farà non solo solida ricerca, ma azione diretta a sopprimere la enorme massa delle spese superflue, per il personale inutile e per tutto ciò che dà al pubblico questo senso di malevolenza, di sfiducia ed avversione verso di noi. Io spero che si comincerà col togliere tante cose inutili e nel momento attuale dannose. Quando penso alla modestia che è osservata all’estero, anche nei più grandi paesi, questo contrasto con il disordine del governo italiano mi attrista ancor più. Lo Stato tollera la dissipazione e dal canto suo la pratica largamente. Io sono stato a colazione alla Banca d’Inghilterra con i più grandi personaggi del mondo, i quali sedevano modestamente alla stessa mensa; la stanza del Governatore era così modesta e semplice come quella di uno dei nostri più modesti direttori di banca. Quando fui a Downing Street a colazione col Presidente del Consiglio, la modesta casa, dove erano stati i più grandi domini dell’Inghilterra ed i più grandi Capi della politica mondiale, mi colpì. Dovunque ho trovato questo senso di modestia, che dopo il fascismo è scomparso del tutto; in Italia. Purtroppo questa situazione continua anche per opera di quelli che dicono di voler sopprimere pur le tracce del fascismo.

Spese inutili ovunque. Io penso non senza terrore al numero dei Ministri attuali è al numero inverosimile dei Sottosegretari. (Commenti).

Una voce. Lo abbiamo già sentito.

Altra voce. Ma la lezione va ripetuta, perché non è bastata. (Commenti).

NITTI. I Sottosegretari, di cui in Italia si è dimenticata l’origine, sono istituzione inglese, ed hanno uno scopo ben preciso. I Ministri inglesi non possono entrare in alcuna delle due Camere se non ne sono membri. Per necessità però il Governo deve esservi rappresentato. Ora, se il Ministro in Inghilterra è commoner, il Sottosegretario è Lord, o viceversa.

In Italia la introduzione dei Sottosegretari di Stato al posto dei segretari generali fu fatta al tempo di Crispi. Nessuno ci aveva pensato prima. Crispi era, nonostante le sue qualità, megalomane. In certo senso fu prefascista. Ora, Crispi, per ingrandirsi – come Mussolini – moltiplicava le prefetture, ecc. e creò i Sottosegretari di Stato al posto dei segretari generali. Vi furono buoni Sottosegretari di Stato, ma prima che l’istituzione si consolidasse.

È nota la storiella autentica di un Sottosegretario che diceva di preparare grandi riforme legislative da far presentare al Parlamento. Passava ore intere nella sua stanza dove non entrava alcuno. Un giorno il suo capo di Gabinetto e il suo segretario ebbero l’idea di spiare dal buco della serratura per vedere che cosa facesse il loro capo. Egli aveva dinanzi a sé un gran numero di giornali e, siccome, forse, aveva finito la lettura, gonfiava e sgonfiava le guance. (Ilarità). Ora, questa è probabilmente la sorte di qualcuno dei Sottosegretari di questi Ministeri, sopra tutto dell’attuale, dove vi sono anche Ministri che essi stessi non hanno nulla da fare, che non hanno alcuno scopo, non hanno alcuna funzione; che cosa devono fare?

L’ufficio di Sottosegretario di Stato si è avuto in passato in Italia, dopo la sua origine incerta, anche da uomini notevoli, e vi sono stati Sottosegretari insigni: Sonnino e Salandra sono stati Sottosegretari di Stato e così Fortis e Ferrari. Chi diventava allora Sottosegretario sapeva di avere una funzione. Io stesso ho avuti molti giovani sottosegretari che chiamai per la prima volta al Governo. È stato Sottosegretario l’onorevole De Nicola in due ministeri in cui ero io. Gli onorevoli Sforza, Paratore, Ruini, Grassi, Porzio, ecc. (cito solo quelli che sono in questa aula) hanno compiuto cammino nel mondo. Ma ora i Sottosegretari chi sono? E che cosa fanno? Bisognerebbe quasi tutti abolirli, ora che nessuno può spiegare la ragione della loro esistenza e invece vi è, per contentare incomposti appetiti, tendenza ad aumentarli.

Credete che il pubblico sia indifferente a queste cose, a questi sperperi inverosimili? Qualsiasi Sottosegretario implica la spesa di un gabinetto e accrescimento di impiegati, un’automobile o parecchie automobili, di un uffizio (qualche volta di un palazzo intero, ecc.).

Se non ci giudichiamo da noi, è il pubblico che ci giudica. Il pubblico è scontento e giustamente spesso ostile. Non ci illudiamo delle apparenze d’indifferenza: il pubblico vede e osserva e odia tutte le forme di dissipazione.

Io stavo, come tutti i miei predecessori, quando ero Ministro all’interno, in quel piccolo palazzo Braschi, che era più che sufficiente, e che ora non basta per un solo ufficio non ministeriale, tanta è l’ipertrofia di grandezza e di vanità venuta col fascismo e sviluppata dopo il fascismo.

Il Ministro degli esteri risiedeva al palazzo della Consulta, che pareva sontuoso, che tutti consideravamo come un locale elegante, e che ora non basta per un ufficio solo, per un Sottosegretario di Stato.

Ma vi pare che tutto questo il pubblico non senta? Quante sono le case di Roma occupate da uffici inutili, quanti, i locali abusivamente occupati? Rivolgo un invito all’onorevole Corbino: faccia una indagine seria e dica quanti sono posti occupati a beneficio di uffici inutili, soprattutto uffici di stralcio che poi si mantengono per successive autorizzazioni. Credete: vi sarebbero migliaia di case libere a Roma, dove oggi mancano gli alloggi, soltanto se si abolissero gli uffici inutili. (Commenti).

Noi dobbiamo dar prova di austerità, di modestia, di dignità, se vogliamo essere i rappresentanti di una repubblica democratica, e abolire e sopprimere tutto ciò ch’è superfluo o dannoso, o l’una cosa e l’altra.

La composizione dei Ministeri si fa sempre, come ho detto, in base al dosaggio. Vi prego di leggere i giornali di questi giorni: i posti sono stati stabiliti secondo il dosaggio a ciascun partito; tanti Ministri, tanti Sottosegretari. Nessuno si è chiesto qual è l’uomo che ha attitudini per un ufficio, qual è l’uomo che può portare un contributo di volontà o di competenza. E, peggio ancora, non si abbandona un posto, se non per riprenderlo per il partito con altra persona. Così è stato nel passato.

Anche gli Ambasciatori, anche i rappresentanti all’estero, con successo o con insuccesso, sono stati nominati con questo criterio. In conseguenza ogni Governo rappresenta il culto della irresponsabilità e della incompetenza.

Io sono stato sorpreso in questi giorni dalla creazione di alcuni Ministeri che la fertile fantasia del Presidente del Consiglio ha voluto inventare, Ministeri che spesso non esistono in nessun paese e di cui è difficile dire la ragione. A tre membri del Partito della Democrazia cristiana, che senza dubbio meritavano anche di più, sono stati assegnati tre Ministeri che mi hanno veramente sorpreso: la Marina da guerra, la Marina mercantile e l’Aeronautica! (Commenti).

CONTI. La Repubblica non c’è ancora! Questi sono costumi del parlamentarismo monarchico. Il vostro è un discorso contro la repubblica! Fate del male all’Italia! (Commenti – Rumori. Scambio di apostrofi fra l’onorevole Conti e l’onorevole Bellavista).

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, continui il suo discorso e non raccolga le interruzioni.

NITTI. Questi tre Ministeri non esistono in gran parte dei paesi e qualcuno dei nuovi Ministeri è solo ridicolo in altri. Perché si sono creati questi nuovi ministeri? L’onorevole Micheli, che è un uomo dabbene, ha avuto la Marina da guerra; l’onorevole Aldisio la Marina mercantile, che non c’era mai stata come Ministero autonomo, anche quando vi era una marina, che ora non esiste.

MICHELI, Ministro della Marina da guerra. Quando c’era lei, c’era De Vito. Fu sotto di lui che ebbe inizio la marina mercantile.

NITTI. No, è vero perfettamente il contrario. Non ebbi mai un Ministero speciale per la marina mercantile e nessuno lo ebbe; vi fu transitoriamente un sottosegretariato.

Una voce. Questo è disfattismo! (Rumori).

GIANNINI. Questa non è libertà di parola! (Interruzioni – Rumori– Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, continui. Vorrei esortare tutti ad una maggiore serenità. (Approvazioni).

NITTI. Perché creare un Ministero dell’aeronautica? Come volete che in questa dissipazione si trovi una spiegazione?

Perché mantenere un Ministero del commercio estero, che non ha scopo, quando da semplice logica dice di unire il commercio estero a quello interno nel Ministero dell’industria? (Interruzioni).

SAGGIN. Non si serve l’Italia in questo modo. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Saggin, la prego di non interrompere.

NITTI. Io speravo invece di vedere la fusione del Ministero del tesoro col Ministero delle finanze. I due Ministri del tesoro e delle finanze, in concorde discordia, vanno per vie diverse. Gli onesti, ma spesso mal congegnati e duri procedimenti del Ministro delle finanze verso i produttori fanno qualche volta ricordare il vecchio proverbio della cucina piemontese «il coniglio ama di essere scorticato vivo». Vi sono tormenti inauditi o non necessari. Perché tenere separati il tesoro e le finanze, quando la loro funzione in quest’ora è comune? Il Ministero delle finanze si lasciava in passato a uomini di poca intelligenza, perché il vero Ministro era il Ministro del tesoro: Il Ministero delle finanze aveva i migliori capi e grandi direttori generali, e tecnici di valore, ma il Ministro aveva poco da fare. Il Ministero delle finanze era il Ministero della riscossione, che agiva sotto l’indirizzo del Ministro del tesoro. Dividerli in questo periodo è grande errore, perché il Ministro del tesoro deve coordinare tutti gli sforzi nella stessa direzione.

Quando si sono creati tanti Ministeri, valeva, invece, la pena di ricostituire l’unico Ministero delle finanze, come si chiamava prima, e riunire i Ministeri del tesoro e delle finanze in un solo Ministero. Ripeto: il Ministero delle finanze era affidato spesso in passato – tranne qualche eccezione, come nel caso del mio amico Meda – a uomini di scarso intelletto. Tanto che vi fu a lungo un uomo, che fu definito il più grande imbecille di tutti i tempi, il Ministro Facta, che consegnò l’Italia al fascismo.

Una voce. Anche lei fu Ministro delle finanze. (Commenti).

NITTI. Lei non sa nulla e confonde. Io fui Ministro del tesoro.

Comunisti, democristiani, socialisti e repubblicani, almeno come rappresentanza, operano insieme nel Governo, ma operano con attitudini e tendenze diverse, ed in diversa forma.

Alla interruzione dell’onorevole Conti, che mi parlava della repubblica, devo dire che noi dobbiamo essere legati in questo periodo alla Repubblica, perché, bene o male che sia stato, ora non si potrebbe nemmeno dai monarchici disfare ciò che si è fatto senza un’orrenda guerra civile e senza il sovvertimento dell’Italia. Questa questione non esiste più. Non facciamo questione di Repubblica o di Monarchia; ciò veramente equivarrebbe a indebolire la Repubblica.

Dissi anche ieri all’onorevole Conti, che mi stava vicino, che io non mi ero alzato quando qualcuno aveva gridato: «Viva la Repubblica!», perché la repubblica non è ora materia di discussione quotidiana, da applaudire sul processo verbale, ma deve essere considerata da noi come acquisita.

Dobbiamo ora preoccuparci di avere una buona e onesta repubblica, che sia rappresentata da governi onesti e intelligenti. Il pericolo della repubblica è solo nei suoi errori. O la repubblica sarà ordinata, unitaria e rispettabile e avrà la forza nel prestigio della sua opera, o non sarà.

La repubblica non si difende con le parole, con le grida e ancor meno col premio della repubblica, o con l’ingiunzione di gridare o di scrivere nelle strade «Viva la repubblica!». (Commenti – Interruzioni) Si difende e si afferma con lo opere. La repubblica deve essere ordinata, ma anche – înon vi scandalizzate della dichiarazione mia – deve essere conservatrice (Commenti). Voglio dire conservatrice di quelle forme politiche e sociali che sono necessarie alle stabilità del potere ed all’ordinamento delle funzioni sociali.

I principî che adotteremo devono essere applicati con onestà e con ferma volontà. Lontano dal bolscevismo per le mie idee, io riconosco i suoi sforzi di costruzione anche con il sacrificio di una parte della popolazione.

Io ritengo di avere molti meriti verso il bolscevismo, meriti che penso i miei amici comunisti non abbiano dimenticato.

Fu per mio merito che l’Italia non mandò un solo soldato, né un solo fucile in Polonia, contro la Russia. Io mandai il primo messaggio – i vostri capi lo ricorderanno – al Governo dell’U.R.S.S. per sollecitare la ripresa dei rapporti fra la Russia e il resto della Europa. Io opposi pubblicamente al conservatore Tardieu la necessità di fare una politica senza diffidenza verso le istituzioni bolsceviche, per non mettere il bolscevismo contro l’Europa, né l’Europa contro il bolscevismo. Infine io mi opposi a ogni aggressione alla Russia e sciolsi la spedizione italiana che nel 1919 prima di me era stata preparata per occupare ingiustamente un grande territorio russo, la Georgia.

Ogni paese deve darsi all’interno la forma che crede la più opportuna e non importa agli altri che non hanno né la necessità né la volontà di farla propria.

L’Italia non ha mai avuto né una grande rivoluzione, né una grande guerra di religione. Non è fondamentalmente e non fu mai grande paese rivoluzionario.

L’onorevole Corbino, che credo di veder qui, ha consentito – dopo averlo negato – a dare quello che si è chiamato il premio della Repubblica, cioè un aumento ad operai, salariati e funzionari. Non ci ha presentato ancora il conto di questa concessione.

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

È stato utile? Era necessario? L’onorevole Corbino non lo credeva necessario, tanto che è stato annunziato che non voleva e anche opponeva il suo ritiro e la sua non partecipazione al Governo. Poi, per una serie di avvenimenti, l’onorevole Corbino ha partecipato al Governo, ha ceduto ed ha accettato ciò che non voleva. L’onorevole Corbino è un uomo di ingegno, è un uomo che ha preparazione di studi. Ha però un difetto: una natura profondamente ottimistica. Egli vede tutto color di rosa. Io conto di avere qualche conversazione con lui sulla situazione economica e finanziaria. (Si ride). L’onorevole Corbino ha qualche cosa che lo ravvicina alla Christian Science, che è una confessione religiosa diffusissima in America. Gli aderenti a tale confessione risolvono tutto con la fede, con la preghiera. Le malattie guariscono con la preghiera. Hanno un grandissimo giornale che si chiama il Christian Science Monitor. Questo giornale è forse uno di quelli che hanno in America la migliore cronaca di politica estera. I credenti in questa religione dicono che non si guarisce dai mali per mancanza di fiducia. Chi ha fede guarisce; ed allora curano tutte le malattie con la preghiera. Naturalmente molti malati muoiono, ma la Christian Science vive. Poi vi è in Francia un metodo ancora più nuovo, che si chiama il metodo Coué, e consiste nell’idea che ogni malato che soffre deve dire a sé stesso e agli altri che tutto va bene e di non avere sofferenze. Allora guarisce con la sola convinzione di non aver malattia.

L’onorevole Corbino ha un po’ del metodo Coué e della Christian Science. Il metodo può fare anche del bene, ma non bisogna abusarne. Io aspetto dalla pubblica discussione della nostra finanza molti chiarimenti. Vorrei vedere l’Italia con tutti i suoi migliori uomini uscire dalle dure difficoltà dell’ora presente ed è bene che l’onorevole Corbino dissipi i miei dubbi. (Commenti).

Mai, dalla fine del secolo decimoquinto a ora, l’Italia traversò ore più terribili. Dai tempi di Clemente VII ad oggi mai l’Italia ha avuto una così grande umiliazione, una così grande disgrazia, come quelle che ora son cadute sul suo capo. In tutti i campi, di fronte allo straniero, nella vita interna, noi siamo umiliati e in stato di sofferenza. Vediamo con dolore la massa delle nostre sventure; e qualche volta mi viene in mente il grido che Shakespeare attribuisce ad Andromaca. Di fronte alla caduta di tante cose, all’umiliazione di tanta parte della nostra vita, viene la voglia di dire con Andromaca: «Piaccia agli dei che io abbia ancora qualche cosa a temere». Noi abbiamo toccato il fondo di dure sofferenze e di gravissime umiliazioni. Dobbiamo ora essere forti, avere il proposito di tenerci uniti, vedere il pericolo e avere il coraggio di osare.

Dobbiamo essere ormai convinti che la nostra situazione economica e finanziaria non è senza gravità. Da una sola cosa ci siamo però finora difesi: dall’inflazione. Abbiamo una massa enorme di circolazione; ma bisogna dire che non è stata colpa del Governo italiano se abbiamo una circolazione che si avvicina ai 400 miliardi. Questa cifra è gravissima, ma diventerebbe spaventosa, se noi anche di poco la aumentassimo. Bisogna dire, ad onore dei Ministri del tesoro che si sono succeduti, che tutti e tre i Ministri del tesoro, Soleri, Ricci, Corbino, che vi sono stati, non hanno ceduto alla tentazione dell’inflazione: tutti e tre non solo non ne hanno abusato, ma ne sono rifuggiti.

In fondo di quella massa che costituisce la nostra circolazione, che ammonta ora a 389 miliardi e che era nel 1938 poco meno di 20 miliardi, la responsabilità spetta al governo tedesco, al governo di Mussolini, e anche ai nostri, diciamo… alleati. Perché il 61,2 per cento di questa inflazione è dovuta al governo tedesco e a quello fascista, il 37,8 per cento agli alleati e soltanto l’1 per cento ai nostri ministri. Ma appunto perciò bisogna ora evitare che si cambi metodo e si venga all’inflazione. Io raccomando all’onorevole Corbino, in tutti gli impegni che assume, di evitare ad ogni costo qualche cosa che ci spinga ancora ad aumentare la circolazione. È inutile parlare, nell’ora attuale, di pareggio del bilancio, né di rivalutazione della lira; fino a quando la differenza sarà enorme, fra entrate e, spese, è inutile sperare in un rapido miglioramento, ma la lira, così com’è ora ridotta, dev’essere mantenuta con ogni sacrificio. E la inflazione sotto forma di nuove emissioni di carta deve essere ad ogni costo evitata. E però nuove spese, a cui sia impossibile provvedere con mezzi ordinari e straordinari, devono essere ad ogni costo evitate.

Io ricordo quando venne alla Camera il povero Matteotti. Era arrivato assai giovane, pieno di buona volontà. Aveva uno spiegabile orgoglio. Era presidente del Consiglio provinciale della sua provincia… aveva dato molto denaro per le cooperative socialiste e… ne aveva anche perduto. Era circondato da simpatie.

Giunto alla Camera, fece un amaro discorso finanziario contro di me. Io dal banco del Governo non lo contradissi, non lo interruppi; presi nota di tutto. Era caduto in errori di inesperienza, aveva confuso partite diverse del bilancio, aveva male interpretato la funzione dei residui e aveva confuso, perfino, alcune cifre dell’attivo con quelle del passivo, e viceversa. Io mi accorsi di ciò e tacqui. Ma quando gli risposi, cominciai col lodare la sua intelligenza, la sua facondia, e poi dissi soltanto: «È accaduto però che ha confuso alcune cifre dell’attivo con il passivo». Fu uno scoppio di risa, di cui dopo mi pentii. Mi aspettavo che l’onorevole Matteotti mi dicesse delle insolenze, invece all’uscita mi aspettò serenamente e con un sorriso. Aveva grandi, buoni e dolci occhi, e mi disse: Io sono stato troppo poco prudente.

Noi dobbiamo avere la coscienza che la ricostruzione nazionale di un Paese devastato non si fa che con l’economia, con l’ordine e il lavoro e soprattutto trasformando il capitale circolante in capitale fisso.

Noi dobbiamo imporci tutti i sacrifici che possano giovare a questo fine; dobbiamo avere anche la persuasione che noi non possiamo ora tornare alla prosperità, se non attraverso grandi e lunghi sacrifici. Quando si dice che bisogna tornare ora alla situazione dei salari dell’ante guerra, si mentisce, perché non si può. Dal 1938 a ora i salari sono aumentati di 14 volte, il costo della vita di 23volte; gli stipendi degli impiegati di 6 volte per i più alti e di 12 volte per i minori. Ma noi non possiamo aumentare oltre stipendi e salari, senza accrescere la produzione. Quelli che chiedono aumenti di salari hanno ragione, ma tutti devono pensare che il reddito nazionale è diminuito del 45 per cento ed il capitale nazionale del 20 per cento. Se non si ricostituisce la produzione, non si potrà mai arrivare a veri e reali miglioramenti.

Io dicevo nel 1919 una frase che poi mi fu rimproverata, anche in forma grossolana: «bisogna lavorare di più e consumare di meno». Qualche esaltato osò dire che bisognava invece produrre meno e consumare di più.

L’Italia per la sua struttura economica, è paese che più degli altri deve produrre con ogni sforzo e risparmiare. Un insigne statistico francese (Alfred de Foville) fece al principio di questo secolo calcoli accurati sull’ammontare della ricchezza nei principali paesi. Calcolava la ricchezza dell’Italia a poco più della metà della Francia, a poco più di un terzo della Germania e poco meno di un quarto dell’Inghilterra. Le proporzioni sono poi molto variate. De Foville diceva, non senza una certa ironia, che l’Italia è, secondo la frase di Rabelais, malata di impecuniosità.

Riteneva che in Italia vi fossero allora circa 1500 milionari. Allora la moneta non si distaccava mai molto dal corso dell’oro. Ora quanti sono i milionari? 100 mila, 200 mila? Più ancora? Chissà! Sono in grandissimo numero, quando si pensa alla svalutazione della moneta. A Roma, per un piccolo appartamento di 5 stanze, sono stati pagati 3 milioni e per un appartamento di una cooperativa di 8 ne sono stati pagati 5. Se continua questo stato di cose, noi saremo tutti milionari ed avremo poi il solo pericolo di diventare tutti miliardari per ulteriore caduta della moneta.

Si parla con grande facilità nei discorsi elettorali di nazionalizzazione e statizzazioni. Signori, vorrei leggervi un lungo studio a questo proposito; mi limito ad affermare che non esiste in Europa nessun Paese che abbia tanto nazionalizzato come l’Italia. Solo la Russia ha superato l’Italia nelle statizzazioni.

Io feci nel 1911 la più grande statizzazione: il monopolio delle assicurazioni e questa fu la più grande trasformazione politica ed economica che sia stata fatta in Italia, perché metteva lo Stato in condizione di provvedersi da sé. Tutto ciò senza nessuna spesa da parte dello Stato.

Le nazionalizzazioni sono cosa di cui non bisogna abusare. Si può nazionalizzare quando si ha la certezza che si potrà far meglio dell’industria privata, non quando è il contrario.

Non devo abusare della vostra pazienza. Devo raccomandare agli amici miei di lavorare con senso di continuità. Non solo nel campo economico si abusa delle esagerazioni, ma anche nel campo politico. L’iperbole è diventata figura letteraria comune. Si esagerano anche le colpe, si diffondono i sospetti più gravi, solo per impressionare il pubblico.

Bisogna non logorare i nervi del paese. Non si può turbarlo continuamente con notizie mirabolanti, soprattutto se non sono vere.

Si è parlato molto, ad esempio, di una misteriosa lista dell’O.V.R.A., che sarebbe stata pubblicata, e che era o doveva essere lo spavento di tanta gente. Si sono fatte tante e tante anticipazioni e pretese rivelazioni su questa lista. Bisogna pensare che la polizia italiana disponeva nel ventennio di 800 milioni di lire l’anno. Poi la lista dell’O.V.R.A. è uscita. Vera, non vera, ma quale miserabile delusione dopo tanti fieri annunzi! La lunga lista non contiene che un miserabile elenco in grandissima parte di ignoti.

Così per le piccole come per le grandi cose. Tanto danaro, per quei poverelli che sono compresi nell’elenco dell’O.V.R.A., povera gente che si contentava delle migliaia di lire e che non faceva operazioni in grande. Ma credete, onorevoli membri del Governo, che non sia senza pericolo abusare dell’attesa del popolo, ed eccitarlo anche per mezzo della stampa dei partiti di governo, lanciando queste notizie per poi farle scomparire? Piccoli e grandi errori.

Noi siamo minacciati dalle più dure prove, ed ora tra le tante che minacciano il nostro territorio vi è anche quella indeterminata minaccia delle riparazioni. Io combattei sempre le riparazioni di guerra. Ho avuto il merito, dopo la vittoria, di non far mai iscrivere alcuna cifra di riparazioni nel bilancio italiano e non ho mai creduto seriamente alle riparazioni, con grande scandalo della Francia e con irritazione di Clemenceau, al quale dispiaceva quando io dichiaravo che esse sono distruzione inutile del vinto e, poi, danno del vincitore.

Non credetti mai alle riparazioni e non credo ora a quelle che si chiedono a noi non solo dai grandi Stati, ma anche da piccoli Stati, poveri Stati, che ho visto supplici di fronte a noi e con cui siamo stati benevoli e indulgenti. Anche l’Albania chiede riparazioni, forse per averci dato una parte dei suoi insetti e probabilmente una buona dose di quella grave forma di malaria che era quasi scomparsa in Italia.

Tutti osano chiedere all’Italia, e non ho visto da parte del Governo, non dico fare delle dichiarazioni altere… Anche l’attuale Presidente della Repubblica austriaca, Renner, anche il suo governo, chiede qualche cosa a noi e dimentica quando, nel 1919, egli e i suoi colleghi del governo vennero a chiedermi a Roma e come io li accolsi e li aiutai.

Soffro al pensiero che a noi si possa domandare anche da chi non ha alcun diritto e per cui è grave torto chiedere. In materia di riparazioni noi dobbiamo dichiarare che non possiamo darne.

Mi duole molto che queste richieste, tanto territoriali come patrimoniali, vengano anche da parte della Francia che è il paese dove sono nati quasi tutti i miei nuovi discendenti, dove un mio figlio ha fatto una delle scoperte più grandi della medicina moderna e dove l’immagine di una mia gloriosa figlia è alla Sorbonne, dove ha lasciato il ricordo della sua virtù e del suo valore. Non posso parlare della Francia senza rispetto e affezione. Non dirò dunque parola alcuna che sia poco amica. Sono stato e sono amico a tutti i capi francesi e con essi ho avuto vera intimità.

Una voce. Onorevole Nitti, questa è la Costituente!

NITTI. Ma nemmeno le riparazioni sono cose di cui la Costituente si deve occupare? E allora di che si deve occupare?

Alla Francia si deve parlare con lealtà ed evitare malintesi ed equivoci. Quante false leggende sono state diffuse! Dirò che in Francia non si è nel vero quando si afferma che, con Mussolini, l’Italia ha pugnalato la Francia. Non è vero. Qualunque giudizio si dia di Mussolini, la verità è che egli fu sempre un nemico della Francia. Lo dichiarò in tutti i modi. Il suo incontro con Laval, a Roma, nel gennaio 1935, non avvenne per amicizia alla Francia. Fu per una comune azione che avrebbe anche forse soppresso la libertà in Francia e che avrebbe messo l’Italia e la Francia contro l’Inghilterra. Così sono false tutte le leggende sulle colpe dei militari italiani in Francia. Essi furono nel complesso onesti e stimati.

Le accuse diffuse nel pubblico sono ingiuste e false. Non è vero il luogo comune che si ripete sempre: noi e i francesi, se non siamo della stessa razza, siamo della stessa civiltà. Noi siamo paese di civiltà e di lingua affine, e quindi vi è una comunità di natura, non vi è una comunità di razza.

La Francia e l’Italia sono paesi che per necessità, nel comune vantaggio, devono intendersi e vivere insieme e d’accordo se vogliono salvarsi. La Francia può essere molto utile all’Italia, ma l’Italia può dar molto alla Francia.

La Francia è demograficamente in una situazione assai grave. Presenta il fenomeno, senza precedenti, di un grande paese in cui le nascite diminuiscono tutti gli anni e viceversa le morti non diminuiscono e spesso aumentano. La Francia ha prevalenza di vecchi. Il numero delle nascite in Francia è irrilevante, mentre il numero dei morti è preoccupante. La Francia non si salverà se non aumentando le nascite, diminuendo le morti e per parecchi anni introducendo elementi giovani di popolazioni di civiltà affini. Salverà più facilmente il suo avvenire solo con una unione intima e cordiale con l’Italia. Ho esposto tante volte ai capi partiti francesi questa necessità. Noi dobbiamo diventare, Francia e Italia, quasi un solo Paese.

L’interesse è comune. La Francia non può trovare una massa di lavoratori giovani e capaci e abili se non in Italia. La Spagna può dare pochissimo. Il Belgio può dare una emigrazione solamente stagionale e limitata. La prova dell’immigrazione slava, soprattutto polacca, è fallita. I polacchi trasportati per il lavoro delle miniere non si fusero mai con la popolazione francese. Gl’italiani si fondono quasi immediatamente e i figli degli italiani diventano subito francesi. Nessuna serietà nel parlare delle popolazioni del Nord Africa. La Francia ha il bisogno, la necessità del nostro apporto. Essa può rapidamente rinnovarsi, l’ho detto ai francesi più autorevoli e a tutti i capi, solo almeno con 4 milioni di italiani in una serie di anni, che possono rinvigorire le energie di lavoro. Noi e la Francia dobbiamo essere uniti e dobbiamo avere le stesse necessità di vita e, per vie diverse, contribuire alla comune salvezza. La Francia ha più interesse di noi alla ripresa delle buone relazioni con l’Italia. I francesi sono un grande popolo, ma spesso con essi l’intesa non è facile, hanno un antico difetto: non vogliono mai essere giudicati e basta la più piccola osservazione per offenderli. Bisogna, con i francesi, agire con garbo, ma bisogna arrivare al risultato dell’intesa e dell’unione.

Ora siamo chiamati a fare la Costituente. Imiteremo, spero, la Francia in tante cose, non già nella varietà e molteplicità delle sue costituzioni. La Francia è il paese d’Europa che ha dato il maggior numero di costituzioni. Dal 1791 fino ad ora, presso a poco in 150 anni, la Francia ha mutato 13 volte la sua costituzione, mentre l’America ha mantenuto la propria dal 1787, e prima ancora, dalla costituzione dl Virginia; in Inghilterra vi sono state quattro costituzioni secolari, che forse pochi han letto, ma che durano sempre. Nation volage, come diceva severamente e ingiustamente Chateaubriand della Francia politica: cambia spesso di regimi e anche di costituzione.

Noi abbiamo bisogno di fare una costituzione adatta a noi, equilibrata, senza sogni vani, che abbia sicura una durata che garantisca il nostro avvenire. Leggo che la costituzione demandata alla nostra Assemblea è rinviata ad una Commissione, incaricata di prepararla, mentre un’altra Commissione è incaricata di studiare i trattati con l’estero. In fondo d’importante non c’è che la Commissione della costituzione che è nello stesso tempo, troppo o troppo poco numerosa.

Io avrei voluto che i capi dei partiti di massa avessero espresso le loro idee sulla forma della costituzione e sulle linee essenziali.

Non si può sempre improvvisare. Siamo minacciati di andare a questa Commissione, numerosissima, che fu formata, ed in questa Commissione saremo, a quanto si dice, raggiunti da pubblicazioni enormi e che – mi si assicura – arrivano al rispettabile peso di circa 15 chilogrammi. Se vi saranno io non le leggerò. È regola fondamentale: Oportet studuisse, non studere. Prendete uno dei questionari. Quante domande? Vedete se siete in condizioni di rispondere. Io mi auguro, signori, che noi faremo a meno di tutti quei questionari ed andremo noi stessi a fissare le linee principali del nostro lavoro. Noi dobbiamo elaborare la costituzione in otto mesi. La dobbiamo votare e dobbiamo votare nello stesso tempo – questa è la cosa che più desidero – la nuova legge elettorale. Non possiamo andare alle prossime elezioni per le Camere legislative repubblicane con una legge così cattiva, come quella in grazia alla quale siamo qui, e che veramente non è ammirevole e non è nemmeno seria.

Ora, se sbrighiamo. il nostro lavoro, secondo la disposizione della legge, in otto mesi, il 25 febbraio 1947 tutto sarà finito; in modo che le elezioni si potranno fare facilmente, perché, dopo due mesi, vi sarà il tempo più favorevole per i comizi elettorali. Se invece si ritarderà di quattro mesi, le elezioni dovrebbero farsi di estate e non si potranno fare. Quindi, il nostro desiderio è di organizzare il nostro lavoro in tal guisa che la costituzione sia pronta e possa essere approvata entro il detto termine di otto mesi.

Devo ora chiedere all’onorevole De Gasperi qualche cosa che personalmente lo riguarda.

L’onorevole De Gasperi ha in quest’ora il peso più terribile. Egli è Capo del Governo; è capo del suo partito o, come siì dice, segretario del suo partito (Interruzioni) ciò che assorbe in gran parte la sua attività. Egli è Ministro dell’interno ed, ad interim (poiché il posto è riservato all’onorevole Nenni), Ministro per gli affari esteri. Egli si deve occupare poi di tutte le questioni della vita nazionale e di tutti i rapporti essenziali della vita economica e si deve occupare soprattutto della pace.

In Inghilterra, il Capo del Governo non ha nessun Dicastero, perché fa il lavoro di coordinamento; tanto meno pensa di essere Ministro degli esteri e ancor meno Ministro dell’interno; ma non tutte queste cose assieme. E quante cose crede invece di poter fare l’onorevole De Gasperi?

L’onorevole De Gasperi si dovrebbe sempre muovere e non si può muovere. Egli è da gran tempo Ministro degli esteri. È stato Ministro degli esteri nel Gabinetto Bonomi, poi nel Gabinetto Parri, e poi nel suo stesso Gabinetto. Errore! Il Capo del Governo non deve essere mai Ministro degli esteri. Lunga esperienza dimostra che il Capo del Governo, nelle ore difficili, deve essere sempre pronto a sacrificare il Ministro degli esteri e il Ministro degli esteri deve sempre poter ricorrere al Capo del Governo, al Presidente del Consiglio nei casi dubbi e nei casi in

cuinon vuole, o non può dare risposta a rappresentanti stranieri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. È una disgrazia che capita anche in Francia.

NITTI. E la Francia non è l’esempio migliore; essa ha avuto da questa confusione non poco danno.

Ora, l’onorevole De Gasperi unisce a tutto questo qualcosa che non si verifica in Francia, cioè la direzione del partito più numeroso che controlla la vita italiana. (Interruzioni). Unisce, nello stesso tempo la direzione di questa Costituente, presso di cui egli rappresenta il Governo ed in cui viene con i pieni poteri che gli sono conferiti dalla legge e con funzione molto importante.

L’onorevole De Gasperi come Ministro degli esteri avrebbe dovuto assai volte muoversi e viaggiare. L’onorevole De Gasperi doveva fare quello che non ha fatto. Noi non abbiamo mai avuto alleati dopo la guerra. Questa degli alleati è una bugia che è stata diffusa nel nostro Paese. Non ci è mai stato nessun atto formale e politico che ci dia diritto di parlare di alleati. Abbiamo vincitori diffidenti od ostili, e qualcuno soltanto benevolo. L’onorevole De Gasperi doveva muoversi: otto mesi fa, dieci mesi fa, prendendo qualsiasi occasione per andare in Francia e in Inghilterra. Ora è troppo tardi. Doveva stabilire dei contatti personali. Io parlo per diretta conoscenza: so quanto contino in questa materia i rapporti personali. Quando giungevo in Inghilterra, nella mia qualità di Presidente del Consiglio ero oggetto di manifestazioni ufficiali da parte del Governo e dei suoi capi. Ma quando ero esule ero accolto come l’amico desiderato. Lloyd George voleva che andassi a colazione con lui e con i suoi colleghi più eminenti a Westminster. Il capo dei laburisti Mac Donald volle perfino offrirmi una colazione anche lui in una sala di Westminster con l’intervento di tutti gli uomini politici più importanti del suo partito.

Un giorno Mac Donald mi fece un brindisi che fu riportato da tutta la stampa inglese ed ebbe grande eco. Disse che presto io dovevo tornare in Italia e diventare capo del Paese al posto che m’era dovuto. Come vedete anche un esule poteva trovare rispetto personale da parte di un grande capo. L’onorevole De Gasperi avrebbe dovuto trovare in questo tempo il modo di stabilire dei contatti in Francia e in Inghilterra e farci apprezzare e far sentire la voce del suo Paese.

Sì, tutta la diffidenza degli alleati o non mai alleati io conosco, ma l’onorevole De Gasperi poteva aver modo di andare e di dire quelle parole che potevano penetrare l’anima inglese.

Ci voleva tutta la stupidità di Mussolini per dire che l’Inghilterra è il nostro eterno nemico. La verità è il contrario. Nella sua storia l’Inghilterra non ha mai partecipato ad alcuna guerra contro l’Italia e sempre che ha potuto ha aiutato il nostro Paese.

Sono sicuro che se l’onorevole De Gasperi, anche dopo la politica criminale di Mussolini, avesse saputo arrivare agli Inglesi e avesse spiegato tante cose (so quello che mi si dirà a questo riguardo e so quello che devo rispondere) molti avvenimenti sarebbero stati diversi.

L’onorevole De Gasperi si è lasciato prendere degli avvenimenti della politica interna anche quando era soltanto Ministro degli esteri.

È duro essere a capo di un’organizzazione e di vedere tutto attraverso quella organizzazione. Si diventa vittima di se stesso. Avere nello stesso tempo la Presidenza, il Ministero dell’interno oltre ad essere Ministro degli esteri ad interim… e segretario del partito.

Voci. Basta! Basta!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri, Lasciate dire! Io risponderò poi.

Una voce. Dovremo chiedere i pareri a lei!

NITTI. Volentieri: sono, se volete, a vostra disposizione.

L’onorevole De Gasperi è certamente un uomo intelligente; ma oso dire che nemmeno Cavour, assistito da uomini come Talleyrand, Sir Robert Peese e Bismarck, potrebbe adempiere simile compito. Non gli basterebbe neanche un cervello più grande della cupola di San Pietro (Si ride) per caricarsi di un simile lavoro.

Io invito l’onorevole De Gasperi – ed è questo un invito che voglio fargli alla fine del mio discorso – a pensare che noi siamo vana cosa, piccoli uomini che scompariremo più presto che non crediamo dalla scena politica (Commenti) e che dobbiamo dare conto di quello che facciamo e di quello che vogliamo fare. Pensi, onorevole De Gasperi, che questo è un consiglio da amico. Ripeto ancora che non aspiro ora a nulla. (Rumori).

CHIEFFI. Speriamo che l’Italia non abbia più bisogno di lei! (Commenti).

NITTI. Una rispettosa e ferma richiesta all’onorevole De Gasperi: conservi la Presidenza del Consiglio, dia a questo ufficio la dignità che è necessaria, mista a fermezza e a coraggio; mostri di fronte ai vincitori non linguaggio flebile e incerto, ma sicuro e chiaro, non sia disposto ad inutili concessioni, ma abbia contegno fiero. Bisogna, anche nel dolore, e soprattutto nel dolore, avere fierezza.

Ma l’onorevole De Gasperi non può, senza la rovina di tutti, e del suo stesso partito, essere nello stesso tempo Capo del Governo, Capo del partito, Ministro dell’interno, Ministro degli esteri. (Interruzioni – Rumori). Tutte queste funzioni non aumentano il prestigio di chi le ha, ma lo diminuiscono. Ed io, rivolgendo questa rispettosa preghiera all’onorevole Presidente del Consiglio (preghiera che non ha nessun carattere di diffidenza e non contiene nessun sentimento che non sia  volto all’interesse del Paese), spero che ascolterà il mio invito. Io vi prego, onorevole De Gasperi, di pensare in questo momento soltanto all’Italia e vi invito a compiere quell’atto di grandezza e di modestia, allo stesso tempo, che vi ho chiesto. (Applausi).

 

(La seduta, sospesa alle 18,45, è ripresa alle ore 19,15).

Presidenza del Presidente SARAGAT.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bencivenga; ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Egregi colleghi, sarò brevissimo, limitando il mio dire su alcune questioni essenziali. Premetterò un cenno sul risultato delle elezioni.

È innegabile che esse hanno segnato la condanna dell’operato dei governi del Comitato di Liberazione Nazionale. La nostra opposizione non era dunque opera di faziosi!

Di fatto, nonostante che le elezioni siano state fatte sulla base di una legge arbitrariamente architettata al fine di conservare il potere; nonostante tutti i mezzi messi in opera dal Governo per realizzare questo fine, tre dei partiti – quelli non retti da rigida disciplina – sono miseramente crollati; e, ciò che è più significativo, si è che taluni dei capi più rappresentativi e che tennero alte cariche di governo, non hanno ottenuto neppure il suffragio degli elettori.

Egli è che tutta la responsabilità delle tristi condizioni – sia nel campo della politica interna sia in quello internazionale – nelle quali si trova oggi il nostro Paese ricadono sui governi del Comitato di Liberazione Nazionale. (Interruzioni – Rumori – Commenti).

Su di essi ricade la grande responsabilità di aver disorganizzato l’ordinamento dello Stato (Interruzioni) virtualmente eliminandone il Capo; quella di aver perseguito all’interno una politica di vendette e di persecuzioni, gravemente compromettendo l’unità morale del popolo italiano (Interruzioni); quella soprattutto – nel balordo intento di colpire il fascismo – di aver ammesso la piena responsabilità del popolo italiano nello scatenamento della guerra.

Non giova, onorevole De Gasperi, battersi il petto e recitare il mea culpa. La Germania, che pur aveva piena consapevolezza di aver scatenato la guerra nel 1914, non volle mai ammettere la sua responsabilità; ed ottenne maggior rispetto!

Una voce. Non è vero!

BENCIVENGA. Per due anni, noi non abbiamo avuto un Capo dello Stato. Non il sovrano, coi poteri inerenti alla sovranità, non un presidente di repubblica, sia pure provvisorio, che quei poteri esercitasse!

Si ebbe, per contro, una vera e propria dittatura di uomini, che non ebbero alcuna investitura legittima di potere. Essi non ebbero così l’autorità ed il prestigio che da una regolare investitura consegue; ebbero per contro il discredito derivante dal sospetto di una investitura, od almeno del consenso dello straniero! Ed in realtà, se si pensa al numero degli emigrati che ne fecero parte – autorevole per giunta! – non vi è da meravigliarsi che tali governi risvegliassero il ricordo di quei governi della Restaurazione in Francia dopo il crollo dell’impero napoleonico!

Come gli emigrati della rivoluzione francese, i nostri rientrarono in Patria al seguito delle armi straniere. (Rumori vivissimi – Scambio di vivacissime apostrofi – Agitazione).

TONELLO. Che cosa dice? Insultatore, bestemmiatore della verità!

I profughi entrarono a testa alta in Italia!

Una voce. Abbiamo fatto tutto noi! Abbiamo avuto i nostri morti per lottare contro il fascismo! Ritiri le accuse!

PRESIDENTE. Sono convinto che le parole dell’onorevole Bencivenga hanno tradito il suo pensiero. Lo invito perciò a rettificare; poiché si è espresso certamente in termini inammissibili. (Vive approvazioni).

TONELLO. Ritiri quello che ha detto!

BENCIVENGA. Non ho niente da dire. Il discorso era quello che era. Se mi avessero lasciato continuare, gli onorevoli colleghi avrebbero sentito che non c’era offesa per nessuno. Rinuncio perciò alla parola. (Rumori vivissimi – Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Bencivenga ha dichiarato che non voleva offendere nessuno. Siccome le espressioni da lui usate sono, tuttavia, offensive, devo ritenere che esse, per lo meno, non siano state felici. (Commenti).

BENCIVENGA. Domani, se il Presidente crede, farò una dichiarazione sul processo verbale, dalla quale si potrà trarre la deduzione che io non intendevo offendere nessuno. (Rumori vivissimi).

Una voce. Il discorso è scritto! (Rumori).

PRESIDENTE. Prendo atto della dichiarazione dell’onorevole Bencivenga. La seduta è tolta.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

LUNEDÌ 15 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

IV.

SEDUTA DI LUNEDÌ 15 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

INDICE

 

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Messaggio del Capo provvisorio dello Stato:

Presidente                                                                                                        

Per l’italianità delle terre di confine:

Presidente                                                                                                        

Saluto della Camera Cilena all’Assemblea Costituente:

Presidente                                                                                                        

Costituzione di gruppi parlamentari:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni del Presidente del Consiglio:

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, Ministro degli affari esteri        

Dichiarazioni del Presidente del Consiglio:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ministro dell’interno e, ad interim, Ministro degli affari esteri         

Proposte della Giunta del Regolamento relative alla determinazione dei modi e degli organi per la formazione del progetto di Costituzione e alla istituzione della Commissione per i trattati internazionali:

Presidente                                                                                                        

Calamandrei                                                                                                   

Mastrojanni                                                                                                    

Calosso                                                                                                            

Bruni                                                                                                                

Terracini                                                                                                          

Gronchi                                                                                                            

Persico                                                                                                             

Lussu                                                                                                                

Mazzoni                                                                                                            

Caroleo                                                                                                           

Zuccarini                                                                                                         

Perassi                                                                                                                

Stampacchia                                                                                                    

Martino Gaetano                                                                                           

Benedetti                                                                                                         

Tupini                                                                                                                

Colitto                                                                                                             

Giannini                                                                                                            

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Molinelli, Segretario                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 28 giugno.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che dopo la riunione del 28 giugno ho così telegrafato al Capo provvisorio dello Stato, onorevole Enrico De Nicola:

«Sono lieto comunicarle che nella sua seduta odierna l’Assemblea Costituente l’ha nominato Capo provvisorio dello Stato, salutando l’annunzio del risultato della votazione con fervidissima manifestazione».

 

Il Capo provvisorio dello Stato si è compiaciuto di rispondere col seguente telegramma:

«Mi inchino con animo riconoscente e commosso di fronte alla volontà sovrana dell’Assemblea Costituente. L’onore che mi è stato conferito supera troppo la mia persona e le mie forze. Non avrò altra ambizione che di rendermene degno. Gradisca, onorevole Presidente, le espressioni della mia profonda deferenza e devoti ossequi».

Messaggio del Capo provvisorio dello Stato.

PRESIDENTE. Do lettura del messaggio che il Capo provvisorio della Repubblica italiana rivolge alla Nazione:

(Si leva in piedi – Si alzano pure i Ministri, i Deputati e il pubblico delle tribune – Grida ripetute di: Viva la Repubblica! – Vivissimi, prolungati, reiterati applausi).

«Giuro davanti al popolo italiano, per mezzo della Assemblea Costituente, che ne è la diretta e legittima rappresentanza, di compiere la mia breve ma intensa missione di Capo provvisorio dello Stato inspirandomi ad un solo ideale: di servire con fedeltà e con lealtà il mio Paese.

Per l’Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All’opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe.

Dobbiamo avere la coscienza dell’unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s’ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell’abisso per non risollevarci mai più.

I partiti – che sono la necessaria condizione di vita dei governi parlamentari – dovranno procedere, nelle lotte per il fine comune del pubblico bene, secondo il monito di un grande stratega: Marciare divisi per combattere uniti.

La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l’Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale.

Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino Coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini.

Se è vero che il popolo italiano partecipò a una guerra, che – come gli Alleati più volte riconobbero, nel periodo più acuto e più amaro delle ostilità – gli fu imposta contro i suoi sentimenti, le sue aspirazioni e i suoi interessi, non è men vero che esso diede un contributo efficace alla vittoria definitiva, sia con generose iniziative, sia con tutti i mezzi che gli furono richiesti, meritando il solenne riconoscimento – da Chi aveva il diritto e l’autorità di tributarlo – dei preziosi servigi resi continuamente e con fermezza alla causa comune, nelle forze armate – in aria, sui mari, in terra e dietro le linee nemiche.

La vera pace – disse un saggio – è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si dimenticano e sui rancori che ne sono l’inevitabile retaggio.

La Costituzione della Repubblica italiana – che mi auguro sia approvata dall’Assemblea, col più largo suffragio, entro il termine ordinario preveduto dalla legge – sarà certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato sieno egualmente garantiti, trarrà dal passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i principî fondamentali, che la legislazione ordinaria – attribuendo al lavoro il posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza nazionale – dovrà in seguito svolgere e disciplinare.

Accingiamoci, adunque, alla nostra opera senza temerarie esaltazioni e senza sterili scoramenti, col grido che erompe dai nostri cuori, pervasi dalla tristezza dell’ora ma ardenti sempre di speranza e di amore per la Patria: Che Iddio acceleri e protegga la resurrezione d’Italia!».

Roma, 15 luglio 1946.

Enrico De Nicola.

(L’Assemblea saluta la fine del messaggio con vivissimi, prolungati, ripetuti applausi).

Per l’italianità delle terre di confine.

PRESIDENTE. Comunico che, prima e dopo le decisioni di Parigi, mi sono pervenuti numerosi telegrammi che riaffermano la indistruttibile fedeltà alla Madre Patria delle italianissime terre colpite dal verdetto dei Quattro Grandi e chiedono la solidarietà dell’Assemblea Costituente. (Applausi).

Hanno fra l’altro telegrafato:

in rappresentanza della Venezia Giulia e dell’Istria, il Consiglio della zona di Trieste, città e provincia, il Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, l’Associazione triestina dei partigiani e reduci, la Segreteria provinciale di Trieste della Federazione italiana postelegrafonici, la delegazione torinese della Lega nazionale triestina, il Comitato di liberazione nazionale clandestino di Capodistria:

in nome e per solidarietà con la popolazione di Briga e Tenda, il Comitato di tutela degli interessi dell’Alta Roia, il Comitato provinciale torinese dell’Unione Donne Italiane, i Sappisti della SIP di Torino, il Comitato di liberazione nazionale della Fiat-Mirafiori.

Hanno pure espresso la propria solidarietà, i dirigenti centrali dell’Associazione nazionale mutilati di guerra, riuniti a Roma per la prima volta dopo l’avvento della Repubblica; i rappresentanti dei partiti democristiano, liberale, repubblicano, socialista, uomo qualunque, di Pantelleria, e quelli dei partiti movimento unionista italiano, socialista, democratico cristiano, uomo qualunque, repubblicano, sardo d’azione, comunista, di S. Antioco; gli agricoltori combattenti del 1915-18 di Grottammare; la Sezione socialista di Marsala; i mutilati e invalidi di guerra della sezione di Genova, la Federazione socialista friulana.

L’Assemblea Costituente raccoglie questo grido di dolore e di fede, che ha avuto così commossa ripercussione nell’anima del popolo italiano, e fa suo il voto e il proposito che giustizia sia resa al diritto e al sentimento nazionale dei nostri fratelli. (Vivissimi applausi – Si grida: Evviva la Venezia Giulia sempre italiana! – Nuovi ripetuti applausi).

Saluto della Camera Cilena all’Assemblea Costituente.

PRESIDENTE. Sono lieto di comunicare il seguente telegramma pervenutomi da Santiago del Cile:

«La Camera dei Deputati del Cile ha deliberato di inviare all’Assemblea Costituente della Repubblica italiana un cordiale saluto di felicitazioni e fervidi voti perché sia concessa una pace giusta e onorevole a codesta Nazione.

«Dio vi assista». (Vivi applausi).

A nome dell’Assemblea ho ringraziato la Camera cilena per questo cortese saluto augurale, manifestando la più viva gratitudine per le nobili espressioni rivolte alla Nazione italiana.

Costituzione di gruppi parlamentari.

PRESIDENTE. Comunico che, a norma del Regolamento, si sono costituiti i seguenti gruppi parlamentari: autonomista, blocco nazionale della libertà, comunista, democratico cristiano, democratico del lavoro, repubblicano, socialista, unione democratica nazionale, uomo qualunque.

I Deputati, che non fanno parte di alcuno di tali gruppi, costituiranno il gruppo misto.

Comunicazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha facoltà di parola l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, Ministro degli affari esteri. Mi onoro informare l’Assemblea che il Capo provvisorio dello Stato, con decreti in data 1° luglio 1946, ha accettato le dimissioni da me presentate anche a nome dei miei Colleghi Ministri Segretari di Stato ed ha, altresì, accettato le dimissioni dalla carica rassegnate dai Sottosegretari di Stato.

Con successivo decreto del 3 detto mese, il Capo provvisorio dello Stato mi ha incaricato di comporre il nuovo Ministero.

In relazione a tale incarico, con decreti del 13 luglio 1946, il Capo provvisorio dello Stato mi ha nominato Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro Segretario di Stato per l’interno e ad interim per gli affari esteri e per l’Africa Italiana, ed ha nominato, su mia proposta:

Ministri Segretari di Stato senza portafoglio: l’onorevole Pietro Nenni, deputato all’Assemblea Costituente; l’onorevole Cino Macrelli, deputato all’Assemblea Costituente.

Ministri Segretari di Stato per: la grazia e la giustizia, l’onorevole Fausto Gullo, deputato all’Assemblea Costituente; le finanze, l’onorevole Scoccimarro, deputato all’Assemblea Costituente; il tesoro, l’onorevole professor Epicarmo Corbino, deputato all’Assemblea Costituente; la guerra, l’onorevole Cipriano Facchinetti, deputato all’Assemblea Costituente; la marina militare, l’onorevole dottor Giuseppe Micheli, deputato all’Assemblea Costituente; l’aeronautica, l’onorevole dottor Mario Cingolani, deputato all’Assemblea Costituente; la pubblica istruzione, l’onorevole dottor Guido Gonella, deputato all’Assemblea Costituente; i lavori pubblici, l’onorevole ingegner Giuseppe Romita, deputato all’Assemblea Costituente; l’agricoltura e le foreste, l’onorevole professor Antonio Segni, deputato all’Assemblea Costituente; i trasporti, l’onorevole ingegner Giacomo Ferrari, deputato all’Assemblea Costituente; le poste e telecomunicazioni, l’onorevole avvocato Mario Scelba, deputato all’Assemblea Costituente; l’industria ed il commercio, l’onorevole professor Rodolfo Morandi, deputato all’Assemblea Costituente; il lavoro e la previdenza sociale, l’onorevole Lodovico D’Aragona, deputato all’Assemblea Costituente; il commercio con l’estero, l’onorevole dottor Pietro Campilli, deputato all’Assemblea Costituente; l’assistenza post-bellica, l’onorevole avvocato Emilio Sereni, deputato all’Assemblea Costituente; la marina mercantile, l’onorevole Salvatore Aldisio, deputato all’Assemblea Costituente.

Dichiarazioni del Presidente del Consiglio.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, Ministro degli affari esteri. Il primo Governo della Repubblica italiana, per corrispondere alle aspirazioni e alle aspettative del popolo che la Repubblica ha voluto, dovrebbe poter presentarsi in un momento di elevata temperatura psicologica, corrispondente a quella palingenesi profonda che deve attuarsi nella volontà e nell’immaginazione creatrice, quando una nazione rinnova da cima a fondo il suo regime e stabilisce il suo autogoverno.

Ora questo senso di consapevolezza, quest’energia di propositi, questa volontà di rinnovamento esiste davvero tra noi e fra voi, membri dell’Assemblea che siete interpreti fedeli dei voti e delle aspirazioni popolari, e ne è prova la stessa struttura del Ministero, il quale, fondandosi sui settori di più larga base in codesta Camera, accoglie in sé anche i rappresentanti di quella storica corrente che fin dai tempi del Risorgimento ha alimentato le idealità e le speranze repubblicane. Ma parte di queste speranze erano e sono rivolte ad un simultaneo rinnovamento della vita internazionale, e si sono fuse nel corso della storia con le tendenze di solidarietà mondiale delle organizzazioni operaie e sindacali e si sostanziano ora anche del carattere e della funzione universalista del cristianesimo, irradiante dall’Italia sul mondo.

Ora dobbiamo ammettere che tali speranze di giustizia internazionale sono gravemente minacciate, e la Repubblica italiana ne soffre come di una insufficiente ossigenazione nel momento stesso in cui essa intraprende il suo nuovo viaggio nella storia del mondo. La Repubblica italiana si attendeva e attende ancora, e spera fino all’ultimo che la democrazia internazionale le sia madrina; le sarà invece noverca?

Tuttavia, non verremo meno; il viaggio si farà a qualunque costo, anche se si tentasse di tarparci le ali. Se è in pericolo la nostra speranza nella giustizia internazionale, ferma è la nostra fede nel ritmo possente dei nostri motori (scusate l’immagine) che sono le forze del nostro lavoro e l’energia spirituale della nostra civiltà.

La Repubblica non vuol essere regime di parte, ma Governo di tutti e il Ministero attuale, se risponde all’impulso di forze sociali di rinnovamento, non è rivolto contro nessuno, se non contro chi volesse insidiare i nostri liberi ordinamenti. Esso intende consolidare la Repubblica, ma la difende e la consolida con una politica costruttiva, suscitando le libere energie e facendo appello alla solidarietà nazionale.

Purtroppo esso è costretto a fronteggiare subito le difficoltà gravissime della pace. Ed eccomi a rendervi conto – riservando alla Commissione dei trattati ulteriori particolari – dei nostri propositi e delle nostre direttive su questo terreno.

Le difficoltà della pace.

Qui sarò schematico, lasciando al libero dibattito di codest’Assemblea di esprimere l’ansia del Paese, ma una sola assicurazione voglio anticipare: noi tenderemo tutte le forze alla difesa dell’italianità sulla frontiera orientale; tutto il popolo italiano è solidale cogli italiani, con tutti gli italiani della Venezia Giulia. (Vivissimi applausi). Noi chiediamo che essi ci aiutino in uno sforzo d’unità e di concordia. Del pari la nostra solidarietà va agli italiani di altre frontiere e altri territori contestati.

Ed ecco quali saranno i criteri della nostra azione:

1°) Frontiera orientale:

  1. a) rivendicare all’Italia il diritto di una frontiera etnica tracciata sulla base delle deliberazioni dei Quattro a Londra in data del 19 settembre 1945 e del successivo rapporto degli esperti delle 4 Potenze inviati in loco, la quale ci assicuri, come minimo, Gorizia, Trieste e l’Istria occidentale e meridionale;
  2. b) riaffermare la nostra volontà di collaborare con la Jugoslavia e di accettare a questo scopo il concorso e la garanzia delle grandi Potenze, sia per quanto riguarda il reciproco equo trattamento delle rispettive minoranze etniche, sia per quanto concerne la gestione del porto di Trieste con eventuale zona franca, sia, infine, per l’elaborazione di un sistema di coordinamento dei servizi ferroviari che fanno capo a quel porto, inteso ad assicurarne la migliore, più economica e più liberale utilizzazione a vantaggio dell’Italia, della Jugoslavia e degli Stati del bacino danubiano;
  3. c) nell’azione tattica, aver di mira soprattutto gli indissolubili legami che vincolano nazionalmente ed economicamente Trieste con la zona sud-ovest della penisola istriana, senza dimenticare gli altri centri di italianità.

2°) Frontiera occidentale:

Il Governo francese ha presentato una serie di rivendicazioni sulla frontiera occidentale, che sono state integralmente accolte dal Consiglio dei Quattro. Il Governo italiano si è dichiarato disposto ad accettare quelle richieste che fossero soprattutto giustificate dal criterio fondamentale di riportare la frontiera alla linea di cresta, mantenendo invece ferma la sua intransigenza per quanto concerne quelle fra le rivendicazioni francesi che non sono giustificate da alcuna ragione storica, etnica, geografica, economica: Briga, Tenda, Moncenisio. Per venire incontro alle richieste francesi anche in questi ultimi settori, il Governo italiano si è dichiarato disposto ad addivenire ad accordi molto vasti di collaborazione italo-francese per lo sviluppo in comune delle forze idrauliche dei bacini del Moncenisio e dell’Alta Valle della Roja. Dopo la decisione dei Quattro, che contrasta col rapporto degli esperti inviati a suo tempo nelle sole zone di Briga e Tenda, il Governo italiano ha chiesto di essere consultato su tutto intero il problema posto dalle rivendicazioni francesi nel loro complesso e non soltanto su quello di Briga e Tenda, come è invece avvenuto; ha dichiarato di considerare l’intero problema tuttora aperto; ha riconfermato il suo atteggiamento conciliante e il suo profondo desiderio di giungere a una onesta, seria, leale intesa con la Francia.

Il Governo Italiano dovrà continuare ad insistere con fermezza su questa linea, e, soprattutto, persuadere i Governi amici e particolarmente quello francese che l’accoglimento di richieste a esclusivo carattere strategico bloccherebbe quel riavvicinamento tra Francia e Italia che è un dato essenziale della pacificazione europea.

3°) Colonie:

Nella riunione di Parigi è stato stabilito di rinviare di un anno ogni decisione sul problema dei territori italiani in Africa, lasciandone nel frattempo l’amministrazione alla Potenza occupante. Tale proposta è stata demandata all’esame di una Commissione di esperti appositamente nominata. Al tempo stesso è stata in via di massima approvata l’inserzione nel Trattato di pace di una clausola contemplante un «surrender of rights» da parte dell’Italia sui suoi territori africani.

Noi non possiamo dare al rinvio tale significazione pregiudiziale che implica un evidente carattere punitivo. Il rinvio dovrebbe in ogni caso permetterci, sia pure sotto il controllo della Potenza occupante, la possibilità di una ripresa di contatto colle nostre colonie.

L’Italia – che fin dal 1919 aveva promulgato in Tripolitania e in Cirenaica ordinamenti costituzionali ispirati al principio democratico di una forma di governo largamente rappresentativa, appoggiandola in Cirenaica anche ad accordi liberali e di reciproca convenienza con la Confraternita dei Senussi – dichiara oggi nel modo più esplicito di accettare senza riserve i principî sanciti nella Carta delle Nazioni Unite, e di voler a tali principî inspirare la propria azione politica e amministrativa in Libia e nelle altre colonie. Ciò allo scopo di avviare la loro popolazione – cui la uniscono tanti vincoli di sangue e di cultura, e alla cui coesione e socialità le varie diecine di migliaia di italiani stabiliti in quelle terre hanno portato e porteranno un valido e fraterno contributo – verso quelle forme di autogoverno che dovranno assicurare loro una prosperità sempre maggiore, guidandola al tempo stesso verso la libera e cosciente determinazione dei suoi destini.

Questo – nell’interesse del lavoro italiano e delle popolazioni native – diremo con fermezza alle 21 Nazioni se vorranno ascoltare la nostra difesa.

4°) Riparazioni:

La tesi sostenuta dal Governo italiano in materia di riparazioni è che l’Italia non può e non deve pagarle; non può, in ragione delle distruzioni subite e dei sacrifici compiuti; non deve, in ragione della cobelligeranza e della lotta condotta a fianco degli Alleati.

Contro la nostra tesi è stato tuttavia ammesso il principio che l’Italia debba pagare riparazioni alla Russia, in ragione di 100 milioni di dollari, e, in via subordinata, alla Jugoslavia e alla Grecia in misura non ancora fissata.

Il Governo italiano, nel riconfermare il suo punto di vista, ha fatto ufficialmente presente ai quattro Governi che sia almeno:

  1. a) preventivamente accertata la nostra capacità globale di pagamento;
  2. b) anche preventivamente, vagliate ed accertate le pretese che parecchie delle Nazioni Unite hanno iniziato ad avanzare a questo titolo;
  3. c) la determinazione delle modalità degli eventuali pagamenti da parte nostra, non ci sia imposta autoritariamente, ma sia invece concordata con noi che siamo evidentemente i migliori giudici per procedere in concreto a quella determinazione;
  4. d) che almeno un rappresentante italiano qualificato sia autorizzato ad esporre in contraddittorio il nostro punto di vista;

5°) La flotta:

All’inizio della guerra la consistenza della nostra flotta era di 665.581 tonnellate; all’atto dell’armistizio essa era già ridotta a 401.454 tonnellate; in seguito alle perdite subìte durante il trasferimento alle basi alleate e nel periodo di cobelligeranza, la consistenza si è ulteriormente ridotta a 266.011 tonnellate.

In relazione alla leale applicazione dell’armistizio ed al cospicuo contributo dato durante la cobelligeranza, è stato rivendicato il diritto morale di vedere confermato il possesso della flotta che l’Italia attualmente detiene. Tale diritto trova una giustificazione anche nello spirito e nella lettera del documento di Quebec e dell’accordo Cunningham-de Courten, i quali, messi in correlazione con gli avvenimenti di due anni di azione comune, escludono qualsiasi tesi che voglia far apparire la flotta italiana bottino di guerra da ripartire fra vincitori veri o presunti.

In pratica tuttavia abbiamo fatto sapere che saremo disposti:

  1. a) a ridurre la flotta alle 100.000 tonnellate di naviglio difensivo in buone condizioni di efficienza sulle 266.000 residuate dalla guerra, e che appaiono già insufficienti ad assicurare la autodifesa delle frontiere marittime e dei traffici marittimi;
  2. b) a conservare due navi da battaglia (e possibilmente le due più moderne) con funzione di navi-scuola, accettando eventuali riduzioni del loro potenziale bellico;
  3. c) a contribuire nei limiti del richiesto alla costituzione delle forze armate a disposizione del Comitato di Sicurezza dell’O.N.U.;
  4. d) a radiare e demolire tutte le eccedenze;
  5. e) a lasciare agli organi competenti dell’O.N.U. la determinazione definitiva delle forze navali difensive dell’Italia, tenendo conto della particolare situazione geografico-economica italiana e delle forze assegnate alle altre Nazioni.

Abbiamo anche dimostrato di essere disposti a prendere in considerazione eventuali risarcimenti di danni a qualche Marina, la quale potesse invocare particolari condizioni, ma con la procedura stabilita dall’accordo Cunningham-de Courten, il quale prevede sull’argomento negoziati diretti tra i Governi interessati.

Tali più che ragionevoli proposte provano la volontà leale dell’Italia di dare, con proprio sacrificio, un effettivo contributo alla limitazione degli armamenti navali, e di evitare nel contempo di ferire inutilmente e ingiustamente nel suo onore la Marina italiana.

Onorevoli colleghi, questa è stata la linea seguita dal Governo nella questione della pace e questa, se l’Assemblea vorrà, sarà la nostra difesa di domani.

Comunque il Governo dichiara che non impegnerà la sua parola prima di aver consultato la Costituente, alla quale ad ogni modo rimane per legge riservato il diritto di decidere sull’accettazione o sul rifiuto del trattato di pace.

Il Governo considera necessario raggiungere l’unità di tutto il popolo italiano attorno alla difesa del suo avvenire nazionale e democratico e intende che la Repubblica italiana appaia all’Europa e al mondo col suo volto nuovo, pur solcato dai segni profondi delle sofferenze, ma illuminato dalla speranza in una effettiva e concreta collaborazione dei popoli.

Il Governo è animato dal fermo proposito di non cedere alle suggestioni di un nazionalismo della rivincita, né di un angusto egoismo; deve però ammonire che le aberrazioni del passato, come la storia documenta, riaffiorerebbero pericolosamente, se i sacrifici della pace imposta all’Italia oltrepassassero quei limiti che una democrazia sincera, di antica e luminosa civiltà e di 45 milioni di abitanti, può moralmente e materialmente sopportare. (Applausi).

L’Italia non intende far parte di blocchi che non siano di leale, aperta, sincera collaborazione internazionale, né alimentare avversioni fra i popoli, né essere teatro di guerre, né di contrasti economici, preannunciatori di quelle.

Il Governo rinnova all’Austria la dichiarazione impegnativa che intendiamo considerare i duecentomila tedeschi – se tanti sono – che rimarranno al di qua del Brennero, non come una barriera, ma come un ponte fra le due Nazioni. Ogni facilitazione di comunicazioni, ogni possibilità di scambio verrà accolta e promossa, ogni garanzia di giusto rispetto del carattere e del costume nazionale verrà data.

Grande conforto morale ci reca l’azione di solidarietà in corso nell’America latina. Alle sorelle repubbliche latine americane inviamo i sensi della nostra riconoscenza e della nostra speranza. (Vivissimi applausi).

Il Governo rivolge il suo pensiero a tutti gli Italiani all’estero, che hanno assistito da lontano, con angoscia fraterna, alla tragedia della Patria (Applausi), ai prigionieri e internati civili che tuttora soffrono nei campi di concentramento (Applausi), e tiene sopra tutto a che essi abbiano nel loro cuore la nostra certezza: la rinascita della Patria. (Applausi).

Essa non può attuarsi che nella dignità e nell’indipendenza politica ed economica. Da tale punto di vista giudicheremo la pace, il nuovo armistizio, le amicizie e le cooperazioni. Il popolo italiano non è un ingrato, ma esso non può fondare il suo avvenire che sull’integrità e indipendenza nazionale, perché solo la coscienza del proprio onore e della propria unità gli può dare la forza di forgiare – dopo il disastro della guerra fascista – il suo nuovo destino.

Questioni economico-finanziarie. Riforme sociali.

Un programma di lunga portata che riguardi tutte le questioni economiche e finanziarie non può essere fissato in questo momento, perché troppi sono gli elementi che sfuggono alla nostra valutazione.

Si pensi all’incidenza delle eventuali riparazioni (sia nei loro effetti immediati, sia nell’influenza indiretta che esse possono esercitare); alle difficoltà per una ripresa degli scambi internazionali – prestiti esteri, movimento di merci, emigrazione – così connesse al trattato di pace; ai riflessi della situazione valutaria internazionale; al capitolo spese di occupazione e alle possibilità di trasporto, tutti elementi che non dipendono dalla sola nostra volontà né dalla nostra condotta.

Il settore in cui può agire il Governo italiano è oggi molto limitato. I programmi possono contribuire a fissare delle direttive e degli obiettivi e solo limitatamente ed in modo relativo a formulare le soluzioni.

Gli obiettivi da tenersi presenti ed ai quali devono tendere i nostri sforzi sono:

  1. a) sviluppare e razionalizzare la produzione per fronteggiare la disoccupazione; abbassare i costi e consentire la ripresa delle esportazioni;
  2. b) assicurare agli impiegati, ai salariati ed ai ceti medi sufficienti mezzi di vita;
  3. c) difendere il potere di acquisto della lira avviando il bilancio ordinario dello Stato all’equilibrio e procurando con risorse straordinarie il finanziamento di un vasto programma di lavori pubblici che efficacemente promuova la ricostruzione e assicuri la massima occupazione possibile.

Importa, soprattutto, lo spirito con il quale si intende raggiungere tali obiettivi.

Condizione pregiudiziale di una sana politica è la fiducia delle forze che liberamente operano nel Paese. Ma lo Stato ha il compito di animarle, disciplinarle e, ove sia indispensabile, intervenire con la sua partecipazione ed il suo controllo.

In particolare nel campo industriale l’indirizzo della nostra azione dovrà tener conto della importanza che, nel complesso della struttura economica, hanno le piccole e le medie aziende. Occorrerà inoltre riorganizzare e semplificare i vasti settori controllati dallo Stato, e dare infine ad alcune industrie particolarmente connesse – come quelle elettriche – con la ricostruzione e la ripresa produttiva, un regime che meglio risponda agli interessi dell’economia nazionale.

Potenziamento del Comitato della Ricostruzione.

La direttiva della politica economica del Governo viene elaborata, formulata e vigilata nella sua applicazione dal C.I.R. il quale è costituito dai Ministri che dirigono i dicasteri finanziari ed economici e si vale della cooperazione dell’I.R.I. e di quella di organismi statali e parastatali (Banca d’Italia, Consorzio di credito opere pubbliche, I.M.I., ecc.) e del consiglio delle Confederazioni dei sindacati. Il C.I.R. nei suoi sottocomitati economico-fìnanziario, tecnico e dell’alimentazione, ai quali si potrà aggiungere un comitato per la riforma agraria, dovrà essere potenziato al massimo per divenire l’organo di coordinamento della nuova direttiva del Governo democratico, il quale deve tendere a dare agli italiani pane e lavoro ed una più equa distribuzione della ricchezza.

Il C.I.R. sottoporrà al Consiglio dei Ministri le proposte concrete che si adeguino alle mutevoli esigenze della situazione economico-finanziaria.

Dalle discussioni di questi giorni è emerso però che uomini e partiti chiamati a costituire il Governo si trovano concordi nel riconoscere che bisogna:

1°) insistere nel perseguire e potenziare i sistemi d’accertamento e d’imposizione per proporzionare il gettito delle imposte ordinarie a quello dell’anteguerra, allo scopo di coprire le esigenze del bilancio ordinario;

2°) emettere un prestito interno, facendo appello alla solidarietà fattiva dei cittadini, per fronteggiare in uno sforzo comune la situazione finanziaria dello Stato e quella della pubblica economia, prestito che consenta di predisporre le misure fiscali necessarie a coprire le spese del bilancio straordinario;

3°) a quest’ultimo scopo applicare una imposta straordinaria sul patrimonio. Tale imposta straordinaria, che risponde ad esigenze di giustizia sociale, dovrà anche fornire i presupposti di una riforma fiscale a base personale;

4°) fare appello al credito estero, considerando che, quando cessasse il concorso dell’U.N.R.R.A. e di altri contributi contingenti dall’estero, la ripresa industriale e quindi la nostra capacità di esportazione non potrebbe sostenersi con le sole nostre risorse.

Sui risultati di questi provvedimenti sarà commisurata l’ampiezza del piano di lavori pubblici che dovrà fronteggiare la disoccupazione con opere di ricostruzione e di ripresa economica, di bonifica, d’irrigazione e di risanamento di campi minati, attingendo i mezzi dal bilancio straordinario.

Circa i lavori pubblici, un migliore decentramento negli organi tecnici statali ed una più stretta loro cooperazione con i comuni e con le regioni, appaiono indispensabili.

In genere, pur essendo riservata ogni organica riforma costituzionale a codesta Assemblea, il Governo, interpretandone la direttiva, agevolerà nei suoi provvedimenti una maggiore autonomia dei comuni e ogni possibile avviamento alle autonomie regionali.

Il risarcimento dei danni di guerra sarà affrontato con particolare riguardo alle categorie più sprovviste di mezzi ed alle esigenze della produzione industriale e agricola, estendendolo anche ai danni della rappresaglia.

Il miglioramento delle condizioni dei salariati e degli stipendiati sarà oggetto di particolare cura da parte del Governo.

È ovvio che le attuali condizioni del reddito e della ancor precaria ripresa della produzione non permettono di portare salari, rimunerazioni e stipendi alle proporzioni dell’anteguerra ed è anche ormai esperimentato che un aumento dei salari si annulla rapidamente se esso porta, come finora è avvenuto, ad una ascesa dei prezzi con il conseguente pericolo dell’inflazione.

La politica del Governo deve quindi agire sulla disponibilità e sui prezzi dei beni di consumo. Per questo il Governo ha aumentato la razione del pane a 250 grammi e aumenterà i generi da minestra da 2 a 3 chilogrammi, mantenendo il pane allo stesso prezzo, cioè ponendo per ora a carico dello Stato la differenza del costo del grano, contribuendo così al miglioramento delle condizioni di vita in questo settore con un onere di oltre 3 miliardi mensili.

Sarà stabilita una più organica cooperazione del Dicastero dell’alimentazione con quello dell’agricoltura per un miglior rendimento degli ammassi.

Lo Stato, inoltre, si propone di importare generi di prima necessità, utilizzando per lo scambio le eccedenze di alcuni prodotti agrari, di facilitare l’approvvigionamento dei grandi agglomerati urbani per i prodotti ortofrutticoli coordinando l’azione dello Stato con quella dei Comuni, e di procurare agli impiegati e salariati, anche con misure incisive, generi di abbigliamento a prezzi accessibili.

Esso conta che le Confederazioni sindacali seguano questa direttiva di politica economica anche nella revisione dei contratti in scadenza e collaborino con il Governo affinché non si faccia una politica di salari di facilità e di illusioni.

La scala mobile, opportunamente applicata, può adeguare periodicamente le mercedi ai costi della vita. La vasta zona dell’industria è d’altra parte estremamente eterogenea. Vi sono delle industrie che possono sopportare aumenti di spesa, altre che si alimentano solo del soccorso dello Stato. L’eccedenza complessiva della mano d’opera crea un’altra disparità tra le industrie che ne potrebbero assorbire di più e quelle che vanno alla rovina per non poter ridurre le maestranze superflue.

Il Governo dovrà intervenire nel senso di facilitare il trasferimento degli operai nell’ambito dei vari settori industriali o di assicurare loro occupazione nei pubblici lavori e nel senso di permettere alle industrie di proporzionare il proprio personale alle esigenze della produzione, addossando allo Stato le previdenze di disoccupazione in adeguata misura.

In tutta quest’opera di sollecitazione, di coordinamento e di fattivo contributo, lo Stato conta sulla efficace collaborazione degli operai e sulla loro comprensione che la sorte del Paese e delle loro stesse famiglie è legata al superamento della crisi economica ed industriale.

Lo Stato si propone anche di intensificare con provvedimenti che verranno fra poco formulati le misure di lotta contro la tubercolosi, la malaria e in genere le malattie infettive.

Esso disciplinerà pure i Consigli di gestione nelle forme già esperimentate alla Fiat: verrà così creato per la collaborazione della classe operaia un pratico ed efficace strumento.

Mentre seguirà con vigile interessamento l’azione di revisione dei contratti che venisse invocata dagli organi sindacali competenti nei casi di particolare riguardo, il primo Governo della Repubblica, nei limiti delle sue possibilità finanziarie odierne, vuol dare alla classe operaia una prova della sua sollecitudine stabilendo che una volta tanto venga versato un contributo ai suoi dipendenti e chiedendo che altrettanto facciano i privati datori di lavoro.

Il premio della Repubblica verrà corrisposto nella misura di lire 1500 a tutti i dipendenti dallo Stato, dagli enti locali e parastatali e dalle aziende private i quali abbiano una retribuzione mensile inferiore a 30.000 lire.

Esso sarà esteso anche ai reduci ed ai partigiani capi famiglia che non abbiano titolo di impiego per ottenerlo e che si trovino nelle condizioni previste per avere diritto al sussidio di disoccupazione con assegni per la famiglia. Sarà altresì concesso ai mutilati ed invalidi di guerra non dipendenti da aziende dello Stato, e aventi famiglia a carico.

Il premio sarà aumentato a 3000 lire per tutti gli appartenenti alle stesse categorie, i quali siano capi famiglia, e sarà pagato in due rate.

Ai pensionati civili di ogni genere con decorrenza dall’agosto si verrà incontro con un provvedimento da emanarsi prossimamente circa le nuove condizioni per la liquidazione delle pensioni e per l’aggiornamento relativo di quelle in atto godute.

Il Governo si propone inoltre – in attesa che la riforma che sta allo studio di un’apposita commissione presso il Ministero dei lavori pubblici venga formulata e presentata – di rivedere il sistema assicurativo degli operai ed impiegati, unificando i contributi e semplificando conseguentemente il modo di esazione dei contributi e sburocratizzando i rapporti fra gli Istituti assicurativi e i contribuenti delle assicurazioni.

E ora veniamo ad un capitolo molto importante: l’avviamento alla riforma agraria.

La riforma fondiaria, che porti ad una più equa ridistribuzione delle proprietà, è uno dei principali obbiettivi del Governo. Essa può essere efficace solo se preceduta dalla attuazione di imponenti opere di trasformazione agraria sui terreni a coltura estensiva, e suppone quindi impiego di ingenti mezzi finanziari, creazione di appositi enti regionali per l’attuazione della trasformazione, periodo non breve di tempo.

L’espropriazione, anche parziale, delle grandi proprietà a coltura estensiva, non può per se stessa costituire che il primo passo della riforma: ripartire ai contadini la terra non trasformata sarebbe, infatti, condannarli a soccombere.

In attesa della fondamentale riforma, i cui principî saranno fissati dalla Costituente, e verranno formulati da un’apposita Commissione, misure di emergenza e di avviamento alla stessa riforma verranno prese dal Governo.

Esse potranno essere:

1°) ripresa delle espropriazioni delle terre, suscettibili di trasformazione, da parte degli enti esistenti, forniti di mezzi e di organizzazione tecnica, quali l’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano, e l’Ente sardo di colonizzazione, con eventuali contributi di finanziamenti da parte dello Stato. Tali Enti dovranno rapidamente procedere all’esecuzione delle opere indispensabili per la messa in coltura della terra ed al loro successivo trasferimento ai contadini;

2°) formazione di piani di trasformazione obbligatoria, da parte dei proprietari, di terreni a coltura estensiva. La mancata ottemperanza all’obbligo importerebbe il trapasso automatico agli enti espropriatori, o a coltivatori diretti in grado di acquistarli con concessioni di credito da parte dello Stato;

3°) provvedimenti per favorire l’acquisto di terre da parte di lavoratori agricoli consistenti in:

  1. a) facilitazioni fiscali (riduzione delle tasse di registro di iscrizione e trascrizione, e della imposta fondiaria);
  2. b) facilitazioni di credito (per una parte del prezzo di acquisto);
  3. c) sollecitazione di offerta di terre, assicurando i venditori che i terreni volontariamente ceduti verranno considerati come espropriati in casi di trasferimenti coattivi della proprietà fondiaria. Tale offerta verrà provocata anche dai provvedimenti ai commi a) e b).

Per la trasformazione dei poderi familiari così acquistati, lo Stato concederà contributi che per l’anno finanziario 1946-47 potrebbero fissarsi in 10 miliardi (che rappresentano contributi per le trasformazioni di circa 100.000 ettari) da aumentarsi, secondo le necessità, negli esercizi seguenti;

4°) per i contadini che non possono acquistare la terra, incoraggiamento dell’affittanza collettiva, con adeguate forme di facilitazioni fiscali e contributi dello Stato per favorirne il finanziamento;

5°) organizzazione di Centri statali di moto-aratura e di macchine agricole, per favorire le imprese agricole contadine e istituzione dell’agronomo condotto, per dar loro un indirizzo tecnico;

6°) modificazioni alle norme vigenti per la concessione temporanea di terra alle cooperative di contadini, estendendo il periodo di occupazione e consentendo l’occupazione di terreni suscettibili di un razionale avvicendamento colturale, che le cooperative si propongono di realizzare.

Saranno studiati provvedimenti di immediata attuazione per venire incontro alle necessità e alle aspirazioni delle masse agricole del Mezzogiorno.

Il Governo è deciso ad affrontare nel suo complesso il problema del Mezzogiorno e delle Isole e a compiere ogni sforzo perché nell’opera di ricostruzione economica del Paese i problemi dell’economia meridionale abbiano la giusta ed equa soluzione, sicché le condizioni sociali di queste regioni possano essere portate al livello delle regioni più progredite d’Italia.

A tal fine verrà perseguita una politica di lavori pubblici e saranno attuate tutte le provvidenze di carattere fiscale a finanziario per promuovere il sorgere di industrie, specie trasformatrici di prodotti agricoli. Saranno pure studiate provvidenze di immediata attuazione per migliorare le condizioni delle masse agricole del Mezzogiorno.

Alla fine di questa esposizione, che non vuol essere un panorama integrale dei propositi del Governo, ma piuttosto una messa in rilievo dei punti sui quali si propone di concentrare i suoi sforzi, perché imposti dalle contingenze del momento, vorrei aggiungere due punti cardinali del nostro orientamento economico:

1°) noi intendiamo suscitare e incoraggiare, non deprimere le iniziative e le intraprese private, creando le possibilità del loro sviluppo: ecco perché, soddisfacendo un legittimo desiderio degli armatori e dei marinai, abbiamo creato un Ministero della marina mercantile che dovrà ricostruire i nostri trasporti marittimi;

2°) nello sviluppo del nostro programma economico-ricostruttivo e riformatore, terremo d’occhio particolarmente il Mezzogiorno e le Isole, di cui riconosciamo le particolari e più urgenti esigenze.

Infine un’altra osservazione che dovrebbe parere superflua. Anche questo Governo, come i precedenti, non intende spostare come che sia lo stato giuridico e di fatto esistente nelle zone ove non si ha coincidenza ideologica fra le varie correnti rappresentate nel gabinetto. Esso si mantiene entro i limiti segnati dalle leggi fondamentali e dai vigenti Patti Lateranensi e l’entrata di un democratico cristiano al Ministero dell’istruzione non sposta tale base, come non l’ha fatto per il passato e non lo può fare la presenza di un comunista alla Giustizia.

Poiché oggi più che mai la repubblica nasce facendo appello alla santità dei trattati, più che mai è doveroso che noi diamo esempio di reciproca lealtà, ispirandoci nella nostra politica interna alle quattro libertà di Roosevelt, che ci proponiamo d’invocare e rivendicare presso Nazioni grandi e piccole nei rapporti internazionali e nella nostra giusta pace. (Vivissimi, prolungati applausi).

PRESIDENTE. La discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio avrà inizio nella seduta di domani.

Proposte della Giunta del Regolamento relative alla determinazione dei modi e degli organi per la formazione del progetto di Costituzione e alla istituzione della Commissione per i trattati internazionali. (Doc. II N. 1)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Proposte della Giunta del Regolamento relative alla determinazione dei modi e degli organi per la formazione del progetto di Costituzione e alla istituzione della Commissione per i trattati internazionali. (Doc. II N. I).

Come i colleghi sanno, è stata distribuita una relazione a stampa con la quale la Giunta del Regolamento propone l’approvazione di tre articoli aggiuntivi all’attuale Regolamento, diretti a stabilire la nomina di due Commissioni, una per la Costituzione e l’altra per i trattati internazionali, composte rispettivamente di settantacinque e di trentasei membri.

Ha chiesto di parlare sull’argomento l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Non è per fare una proposta che io parlo a nome del partito d’azione, ma soltanto per impostare un problema e per proporre in dubbio alla Giunta ed all’onorevole Presidente. Il regolamento che oggi si tratta di approvare riguarda il modo con cui la Costituente dovrà esercitare i suoi poteri. Sembra che sia preliminare all’approvazione di questo regolamento un chiarimento su questo punto: quali sono i poteri dell’Assemblea Costituente? Perché, onorevoli colleghi, la nostra Assemblea, che desume il suo nome da quella funzione augusta e solenne che è la preparazione di una nuova costituzione, è in realtà una specie di erma a due facce: da una parte è la Costituente che, come ha detto il Presidente della Repubblica nel suo nobile messaggio, deve guardare all’avvenire e lavorare per il futuro; ma nell’altra faccia è, già in atto, se pur con qualche limitazione, un Parlamento. E queste due facce non hanno la stessa espressione: perché, mentre quella che guarda verso l’avvenire deve essere serena ed austera, quella che guarda verso i problemi immediati del presente ha già l’aria preoccupata e – direi quasi – un po’ convulsa di chi vede una realtà che la turba, e più si turba pensando a quello che accadrà da qui a dieci mesi, alle nuove elezioni.

Ora, onorevoli colleghi, non vi è dubbio che nella sua funzione fondamentale di Costituente la nostra Assemblea è sovrana, perché essa è l’unico organo, è il primo organo dell’Italia repubblicana che abbia carattere rappresentativo, e quindi i suoi poteri sono virtualmente illimitati: l’unica limitazione di questi poteri le deriva dal referendum istituzionale, in cui il popolo con diretto responso ha già risolto il problema istituzionale ed ha tolto all’Assemblea Costituente il potere di rimettere in discussione questo problema.

Ma ciò che invece è importante e dà luogo a dubbio sono i rapporti tra il potere costituente e il potere legislativo ordinario. Chi esercita il potere legislativo ordinario? Quali poteri ha la Costituente per controllarne l’esercizio?

Voi sapete che un decreto-legge luogotenenziale del 16 marzo 1946 ha regolato in anticipo i rapporti tra la Costituente c il governo ed ha all’incirca stabilito, con qualche eccezione, che l’assemblea abbia il potere costituente da cui trae il nome, e che il potere legislativo ordinario resti delegato al governo, ad eccezione delle leggi relative ai trattati o alle leggi elettorali.

L’articolo 3 del decreto contiene appunto questa frase: «Il potere legislativo resta delegato, salva la materia costituzionale, al governo». Delegalo da chi? Perché il governo che emanò il decreto 14 marzo 1946, n. 98, era, come sapete, un governo provvisorio, di fortuna, messo su coi mezzi possibili in quel momento; un governo che, come tutti i Governi provvisori, aspetta la sua ratifica, la sua legittimazione a posteriori dall’assemblea rappresentativa che finalmente è stata creata nella Costituente.

Quindi in tanto le disposizioni contenute in quel decreto possono avere, nei confronti dell’Assemblea Costituente, un potere obbligatorio, in quanto la Costituente ratifichi il decreto stesso. Quando quell’articolo 3 parlava di un potere legislativo che rimaneva delegato, evidentemente il potere delegante non poteva essere che un potere in fieri. Il governo con quel decreto ha voluto dire: io delego oggi in anticipo quel potere legislativo che avrà l’Assemblea Costituente, la quale poi ratificherà questa delega, non avendo potuto delegarlo essa stesso con un mandato iniziale, perché ancora essa non esisteva.

Quindi mi pare che per rendere proficuo e sereno il nostro lavoro, che soprattutto ha la sua più importante espressione nella creazione della nuova costituzione, giovi fin da oggi, sulla soglia della nostra attività legislativa, non nascondere a noi stessi questo problema che potrebbe risorgere in avvenire ad attraversare il nostro lavoro, ma cercar di eliminarlo fin da ora. Ed io chiedo appunto alla Giunta del Regolamento ed al suo Presidente che cosa pensino di questo problema e di questo dubbio, che ho accennati.

Non come proposta, ma come suggerimento, crederei che in occasione dell’approvazione del regolamento l’Assemblea Costituente dovrebbe ratificare il decreto 16 marzo 1946, n. 98, in modo da non pensarci più; in modo che non risorga più il problema che ora ho posto. L’Assemblea Costituente dovrebbe, cioè, approvare che l’esercizio del potere legislativo ordinario, con le eccezioni fatte in quel regolamento, rappresentasse una specie di concessione di pieni poteri al governo. In questo modo, dal punto di vista costituzionale, la situazione sarebbe sanata.

Se non che a questo punto domando: crede l’Assemblea che la ratifica di questa delega del potere legislativo ordinario al governo si possa fare in modo definitivo e irrevocabile? Oppure crede opportuno o necessario che sia fatta con qualche riserva, cioè che l’Assemblea Costituente, la quale è sovrana e alla quale, se questa delega non fosse stata fatta, competerebbe anche il potere legislativo ordinario, si riservi, tutte le volte in cui ci sia materia legislativa d’importanza tale da dover riprendere la sua libera iniziativa, di limitare la delega data in anticipo e di riprendere su quel punto oltre che il potere costituente anche il potere legislativo ordinario?

In realtà, come sapete, in virtù del decreto del 16 marzo, l’Assemblea Costituente ha già riservato su certe materie l’esercizio del potere legislativo ordinario, non soltanto sui trattati internazionali e sulle leggi elettorali, ma anche sulle più diverse materie, tutte le volte che al Governo piaccia di prendere l’iniziativa di sottoporle leggi che rientrerebbero nel potere legislativo ordinario a lui delegato.

Ora noi crediamo che l’iniziativa non debba essere soltanto del governo, al quale solo possa spettare il potere di restituirci, quando gli piacerà, una parte del potere legislativo ordinario che gli abbiamo delegato; ma che anche l’Assemblea debba aver la possibilità di riprendere, in quanto lo ritenga opportuno, una parte del potere legislativo ordinario delegato al Governo, che, quantunque da lei delegato, è istituzionalmente suo.

Queste, onorevoli colleghi, non sono proposte; sono dubbi intorno ai quali ameremmo di ottenere un chiarimento dagli organi competenti. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mastrojanni. Ne ha facoltà.

MASTRO JANNI. Condivido le opinioni espresse, con fine senso giuridico, dall’onorevole Calamandrei; ma ritengo che si possa andare anche oltre le argomentazioni di carattere squisitamente giuridico da lui espresse.

Penso che questa Assemblea Costituente, sulla cui sovranità non v’ha alcun dubbio, così come l’onorevole Presidente ha anche confermato, traendo le sue origini dalle fonti più pure e più dirette, che sono quelle del suffragio universale espresso dal popolo, non abbia, per la stessa sua dignità e per la stessa coerenza di sovranità, a tollerare che un Governo, il quale ci ha preceduto, possa, in qualche modo, ipotecare la nostra stessa intangibile ed assoluta sovranità. In altri termini, il decreto luogotenenziale col quale si è data al popolo la possibilità di esprimere la sua volontà sovrana, all’articolo 3, faceva delle riserve, nel senso che, dando a noi il potere di fare la Costituzione, cioè l’atto più solenne, l’atto più importante dal quale debbono scaturire tutte le altre leggi, contemporaneamente ci toglieva il diritto di legiferare, e contemperava questa ipoteca anticipata alla nostra autorità sovrana con una ratifica che dovrà esser data, badate bene, onorevoli colleghi, non da questa Assemblea Costituente, ma dall’Assemblea legislativa che dovrà a noi succedere.

Ed allora noi osserviamo: quando il popolo ci ha investiti del potere sovrano (oltre al quale altro non esiste) per formare la Costituzione, il potere legislativo transitoriamente rimasto nelle mani del Governo trae il suo diritto e la sua origine dalla nostra stessa autorità sovrana. Attraverso di essa, noi possiamo delegare al Governo un potere legislativo, ma non può il Governo affermare il suo diritto mediante un decreto legislativo luogotenenziale che è l’espressione della volontà di un Governo il quale ci ha governati in tempi eccezionali, ma che non ha tratto la sua origine legittima dalla sovrana volontà del popolo! (Approvazioni).

Quindi, onorevoli colleghi, io penso che l’Assemblea Costituente abbia non solo il diritto, ma anche il dovere di negare a quel decreto legislativo luogotenenziale, col quale il Governo si è arrogato il diritto di legiferare, ogni diritto e ogni consistenza dal punto di vista giuridico costituzionale, in quanto che, essendosi formata oggi l’Assemblea Costituente sovrana, tutte le leggi che l’hanno preceduta e che hanno avuto la loro origine non suffragata né giustificata dalla volontà espressa del popolo, debbano, per poter perpetuare in avvenire la loro esistenza e giustificare la loro consistenza giuridico-costituzionale, ricevere il crisma della nostra volontà, cioè della volontà sovrana del popolo che si è espressa recentemente attraverso di noi, che dobbiamo difendere il popolo nei suoi sacrosanti diritti.

Ed aggiungo, onorevoli colleghi, che quando davanti all’Alta Corte di Giustizia sono stati portati quei legislatori i quali, attraverso la impeccabile legalità della forma, avevano creato delle leggi che, incrinando le libertà individuali, avevano anche soppresse le libertà costituzionali, quelle leggi ratificate dalla supina acquiescenza del Parlamento, trovarono in prosieguo di tempo quel legislatore che identificò in quel comportamento un attentato alle libertà costituzionali dello Stato e dei cittadini, tanto che trascinò, e giustamente, davanti all’Alta Corte di Giustizia, gli imprudenti legiferatori.

Di conseguenza, se ratificassimo la situazione di fatto e di diritto che il noto decreto legislativo luogotenenziale ha creato ipotecando la nostra alta e assoluta sovranità, noi, di fronte al popolo, ci renderemmo responsabili di tutte quelle leggi che questo Governo avrebbe il diritto di fare. E voi avete sentito, attraverso le analitiche affermazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, quale congerie di provvedimenti si intendono adottare da questo Governo, leggi e provvedimenti che investono tutta la vita della Nazione, da quella economica e sociale a quella costituzionale, sottraendo a noi il diritto di intervenire in una legislazione che è essenziale per la vita della Nazione, e lasciando che altri, che a noi succederà, possa ratificare questa legislazione, che noi dobbiamo subire e che moralmente impegnerebbe la nuova Camera legislativa e la metterebbe di fronte ad uno stato di fatto e ad un avvenuto esperimento che più non deve esser fatto senza il consenso del popolo, in danno o in beneficio del popolo, perché il popolo ha il diritto di essere governato da leggi sagge e giuste, ma solamente da leggi che siano la espressione della sua volontà attraverso la volontà dei suoi legittimi rappresentanti.

Concludo, chiedendo all’Assemblea Costituente che voglia preliminarmente affermare questo sacrosanto principio di giustizia e di libertà, per cui l’Assemblea Costituente non riconosce la legislazione precorsa, e chiedo che sia demandata alla sua alta sovranità la ratifica o l’abrogazione o le modifiche di tutta la legislazione precorsa e che solo dopo questo atto di sovrano nostro intervento e di sovrano nostrodiritto si possa dar corso costituzionalmente ai lavori della nostra Assemblea. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Devo fare una piccola osservazione. Penso anzitutto che non si possa non aderire alla proposta dell’onorevole Calamandrei, perché noi siamo qui la prima Assemblea che direttamente rispecchia la voce dell’uomo comune. (Commenti – Applausi da parte del gruppo dell’Uomo Qualunque).

L’Uomo Qualunque, preso a caso, potrebbe essere un delegato di Mussolini o un gerarca….. (Rumori – Vivaci apostrofi dal gruppo dell’Uomo Qualunque).

GIANNINI. Non faccia dello spirito, Onorevole Calosso, perché ci scapita!

CALOSSO. Nessuno può negare, dicevo, questa sovranità di fatto. Noi rappresentiamo quella scintilla dell’uomo comune, del cittadino del Paese, che in questo momento è molto impaziente e vuole che facciamo qualche cosa.

Innegabilmente gli esecutivi sono troppo forti per le necessità attuali, perché venti anni di fascismo ci hanno abituati a delegare tutto agli esecutivi, di modo che la base, sia del Governo che dei partiti, molto spesso non sa quello che avviene al di fuori. È innegabile, è un fatto, che la base sbaglia meno degli esecutivi; non dico, che faccia bene, ma certamente sbaglia meno. Che cosa si potrebbe fare in pratica? Quello che importa, la forma elementare di democrazia, non è forse tanto il diritto astratto dell’Assemblea di discutere quanto il fatto che il Paese conosca quello che avviene alla base. Se i disegni di legge fossero pubblicati, tanti errori non si farebbero.

Noi tutti, per poco che abbiamo seguito qualche piccolo disegno di legge, abbiamo visto come sarebbe stato facilissimo correggerlo in tempo, se l’avessimo conosciuto quindici giorni prima. Qualche volta vi si insinua, anche ad insaputa del Ministero stesso, qualche elemento di corruzione, oppure nomine di uomini, ecc. Per esempio, la Radio è stata sistemata in un determinato modo e nessuno ne ha saputo niente; avete visto l’amnistia, ma anche questa ne avrebbe guadagnato, come atto di grazia della Repubblica, se fosse stata conosciuta prima. Quindi se i giuristi qui presenti, che se ne intendono più di noi che siamo dei novellini, ci aiutassero a fare in modo che i decreti-legge fossero noti alla Nazione prima, io credo che ne verrebbe un vantaggio per questa delega che noi facciamo al Governo. (Approvazioni – Commenti).

PRESIDENTE Ha chiesto di parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Ritengo molto opportuno, in questa occasione in cui il primo Governo della Repubblica Italiana si è presentato alla nostra Assemblea, che l’Assemblea stessa prenda atto della propria natura pienamente sovrana di fronte al potere esecutivo.

Il decreto-legge luogotenenziale del 16 marzo scorso, noto come il decreto della Costituente, che mirava a perpetuare l’annosa e pericolosa abitudine di attribuire mansioni legislative ad un organo di sua natura esecutivo, deve essere ormai considerato irrito e nullo, e definitivamente superato.

Questa Assemblea è pienamente sovrana, e credo sia conveniente consacrare questa sua presa di coscienza in un ordine del giorno, a scanso di ogni equivoco. D’altra parte dobbiamo, mi pare, riconoscere che le attuali condizioni interne ed estere del nostro Paese, ancora lontane dalla normalità, e la necessità che abbiamo di non intralciare soverchiamente l’urgente lavoro della Costituente, ci impongano di circondare l’esercizio di questa sovranità con speciali garanzie ed accorgimenti.

Sarei pertanto del parere che l’Assemblea, prima di prendere in esame il programma di lavoro che il Governo intende di svolgere e che ha già ottenuto l’approvazione, almeno di massima, delle direzioni di quattro partiti, nominasse una Commissione piuttosto ristretta, con il compito di discutere le proposte di legge che, nell’ambito di quel programma, dal Governo le saranno presentate. Il varo di queste proposte sarà compiuto da questa Commissione in via provvisoria, in nome dell’Assemblea, sino a tanto che il prossimo Parlamento non avrà il tempo di riprenderle in esame con maggiore cura e di apporvi la sua sanzione definitiva, come del resto prevede lo stesso decreto del marzo. Tale commissione dovrebbe essere autorizzata, a mio avviso, a ricorrere al giudizio dell’Assemblea plenaria in tutte quelle occasioni che essa ritenesse gravi. In ogni caso all’Assemblea dovrà essere sottoposta direttamente dal Governo tutta la materia già prevista dal decreto del 16 marzo.

Onorevoli Colleghi, evidentemente questa soluzione rappresenta un compromesso fra l’inderogabile imperativo giuridico e morale di affermare la natura sovrana di questa Assemblea e la necessità di non disperdere soverchiamente le energie di essa dirette a creare la nuova Carta costituzionale del popolo italiano, nonché di tener conto di quelle che ancora sono le contingenze nazionali ed internazionali nelle quali deve muoversi l’azione della nostra neonata repubblica.

Io non sono un giurista, né tanto meno un costituzionalista, e qualunque altra proposta, che salvi queste due esigenze meglio di quella da me accennata, sia la benvenuta. In questo senso presento il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea, preso atto della natura pienamente sovrana del suo mandato, dichiara di volerlo esercitare tenendo nel dovuto conto le condizioni d’ordine nazionale ed internazionale, ancora anormali, del Paese e senza pregiudizio del carattere d’urgenza che rivestono i suoi lavori per dare al popolo italiano una nuova Carta, costituzionale».

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Terracini. Ne ha facoltà.

TERRACINI. Mi pare che noi dovremmo esprimerci innanzi tutto sopra la proposta dell’onorevole Calamandrei; poiché, in definitiva, è una proposta quella che egli ha fatta, per quanto l’abbia definita semplicemente un dubbio. Ma desidero ancor prima rilevare che, l’onorevole Mastrojanni, sebbene abbia dichiarato di essere completamente d’accordo con la proposta dell’onorevole Calamandrei, in realtà, nelle sue parole, ha messo in evidenza un concetto ben diverso. Mi pare di aver compreso che l’onorevole Calamandrei non desidera che venga mutato l’equilibrio generale politico dei rapporti di lavoro fra l’Assemblea ed il Governo, così com’è stato definito nel decreto luogotenenziale del marzo scorso; mentre l’onorevole Mastrojanni in realtà inficia, ponendo in mora il valore di tutta la legislazione precedente a quella che l’Assemblea Costituente potrà svolgere, la stessa legalità di quel decreto. Né io me ne meraviglio. Da parte dell’onorevole Mastrojanni è naturale che tutto ciò che è avvenuto nel corso di questi due ultimi anni in Italia non abbia fondamento valido. Ma voglio sottolineare che por me, per noi, questo fondamento esiste; e, aderendo alla proposta dell’onorevole Calamandrei, noi pensiamo appunto che l’Assemblea Costituente, riconfermando nelle sue linee generali le statuizioni del decreto luogotenenziale, verrà appunto a significare che il suo pensiero, anche in questo punto, coincide con quello del Governo che di esso ha preso l’iniziativa, nel marzo di quest’anno.

Dichiaro dunque che sono favorevole, che il mio gruppo è favorevole, alla proposta dell’onorevole Calamandrei, cioè che la stessa Assemblea Costituente dichiari di accettare, o meglio ridecida come di propria emanazione quella delega di potere legislativo al Governo che è stata già stabilita – potremmo dire suggerita – dal decreto luogotenenziale. Ma forse questo non è sufficiente. Io credo che occorra sviluppare più in là questo problema; e dare al sistema di rapporti di lavoro fra Governo c Assemblea Costituente un ulteriore coordinamento. Nel decreto luogotenenziale si dichiara infatti che il Governo è responsabile della sua azione di fronte all’Assemblea Costituente; ma si tace assolutamente dei modi coi quali questa responsabilità si deve esprimere, tradurre, oppure presentare. Non si vede infatti in quale maniera organica il Governo risponde all’Assemblea Costituente. L’Assemblea Costituente può, è vero, prendere in esame l’attività del Governo in quei casi nei quali il Governo stesso disponga di sottoporle proprie determinate iniziative. Ed accettando in linea provvisoria il regolamento della Camera, si è dato anche il diritto ai membri dell’Assemblea Costituente di presentare mozioni, interpellanze e interrogazioni al Governo.

È questo un modo col quale l’Assemblea Costituente può controllare il lavoro del Governo, chiamandolo di volta in volta a risponderne di fronte a sé. Ma mi pare che sia un modo disorganico, abbandonato troppo alla iniziativa individuale, mancante di quella continuità che è necessaria perché il controllo stesso abbia un contenuto di responsabilità. Ecco la ragione per la quale io penso che sarebbe opportuno che, discutendo della costituzione delle commissioni attraverso le quali l’Assemblea Costituente opererà e realizzerà il suo scopo, si debba prendere in considerazione la costituzione di una terza Commissione, oltre a quelle proposte dalla Giunta del Regolamento: di una Commissione che chiamerei, tanto per farmi intendere, degli affari politici. A questa Commissione, secondo i miei intendimenti, il Governo dovrebbe passare, per conoscenza, tutte le misure e tutti gli atti che da lui promanassero. Ed essa li esaminerebbe presentando all’Assemblea Costituente quelle misure o quegli atti che ritenesse necessario discutere prima che giungessero a conclusione.

Creando questa Commissione, si alleggerirebbe di molto anche il capitolo delle interrogazioni, delle mozioni e delle interpellanze. Ciascuno di noi, sapendo che vi è un organo collegiale, rappresentativo di tutta l’Assemblea, il quale segue metodicamente l’attività del Governo, non si sentirebbe impegnato a stare in guardia permanentemente per scoprirne gli errori o le insufficienze, e penso che se appunto la nostra Assemblea non sarà sovraccaricata del lavoro delle interrogazioni, delle interpellanze e delle mozioni, l’altro lavoro, quello fondamentale, che l’Assemblea dove svolgere, si svolgerà in modo migliore e più proficuo.

Ecco perché, concludendo, dichiaro di accettare la proposta dell’onorevole Calamandrei nei termini in cui egli l’ha redatta per iscritto, suggerendo insieme di prendere in esame la costituzione della terza Commissione, investita del compito che ho brevemente esposto.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Onorevoli colleghi. Noi ci limitiamo a fare una osservazione pregiudiziale. La questione è esplosa improvvisamente attraverso la proposta dell’amico Calamandrei e dalle sembianze giuridiche in cui egli l’ha, con la sua nota competenza, avvolta, si è venuto man mano rivelando, attraverso l’intervento dell’onorevole Mastrojanni e di altri, come una questione esclusivamente e squisitamente politica, la quale non può essere imposta, diremmo, di sorpresa. Scusatemi; io non faccio il processo alle intenzioni e alle volontà, ma constato il fatto e quindi dico che non può essere imposta all’Assemblea e merita di essere, per la sua gravità e complessità, proposta all’ordine del giorno di una prossima seduta. (Applausi – Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Ho chiesto la parola per una mozione d’ordine. Oggi siamo chiamati a discutere la proposta di modifica al regolamento della Camera formulata in tre articoli aggiuntivi. Tutto quello che ha detto l’onorevole Calamandrei sarà giusto, ma non entra affatto nella discussione dei tre articoli aggiuntivi di cui dobbiamo occuparci oggi, tanto più che, partendo dal punto iniziale dell’onorevole Calamandrei, l’Assemblea è giunta a discutere perfino i poteri dell’Assemblea Costituente e dei suoi rapporti col Governo, cioè tutto un altro argomento di indole squisitamente costituzionale, che non ha nulla a che vedere con la modifica del Regolamento. Quindi propongo che oggi si discutano i tre articoli aggiuntivi, sui quali mi riservo di fare delle osservazioni, e che la proposta Calamandrei, e quella più vasta dell’onorevole Terracini, siano messe all’ordine del giorno di una prossima seduta. (Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Il rilievo testé fatto dall’onorevole Persico, a mio parere, non risponde alla realtà, perché effettivamente è stato messo in discussione l’articolo 3 del decreto luogotenenziale del 16 marzo, trattandosi di nominare una Commissione, quella dei trattali internazionali, che è contemplata nello stesso articolo.

Pertanto, la questione, così come è stata posta dall’onorevole Calamandrei, mi pare giustamente posta. E mi pare anche giusto il commento che ne ha fatto l’onorevole Terracini.

Evidentemente, noi non possiamo entrare nell’ordine di idee espresse dall’onorevole Mastrojanni.

Riteniamo perfettamente legittimo tutto l’operato del Governo e dei precedenti Governi democratici. Essi erano tenuti, dalle dure necessità nazionali, a dare, attraverso le forze effettive della democrazia allora militanti, in cui non era ancora quella che oggi rappresenta l’onorevole Mastrojanni, un Governo legittimo, un Governo di azione, un Governo effettivo alla Nazione.

Pertanto, questa Assemblea, pur riconoscendo perfettamente legittimo l’operato del precedente Governo, ha pur diritto di esprimere la sua opinione sugli atti che da esso sono presentati ed uno di questi atti è l’articolo 3 del decreto luogotenenziale, commentato dall’onorevole Calamandrei, al quale si è associato l’onorevole Terracini.

Vi sono però altre considerazioni da fare ed io credo che si debbano fare subito, senza attendere maggiori lumi, come ha proposto l’onorevole Gronchi.

Il problema è chiaro. Vi è un problema di ordine giuridico, politico, costituzionale, ed un problema di ordine pratico, di economia di tempo.

Vorrei aggiungere qualche rilievo, perché la proposta presentata dall’onorevole Terracini appare razionale, ma in sostanza forse non lo è; perché altra questione, alla quale questa Assemblea deve dare importanza, è quella di precisare il più possibile quali sono i suoi poteri e quali i poteri del Governo.

Evidentemente, non si poteva fare che quello che si è fatto. Il Governo ha presentato all’Assemblea un decreto; e il decreto lo si discute. Questa è un’Assemblea sovrana e, pertanto, ne è regolarmente investita.

Se poi si segue la proposta pratica presentata, per la terza Commissione, dall’onorevole Terracini, ho l’impressione che non siano esattamente delimitati il potere di questa Assemblea ed il potere del Governo. È, o no, obbligato il Governo a presentare le sue proposte, i suoi disegni di legge a questa Commissione? Oppure, come propone l’onorevole Calamandrei, è questa Assemblea che pone al Governo la richiesta di presentare i suoi progetti e i suoi studi legislativi?

La terza Commissione che propone l’onorevole Terracini rimarrebbe, inoltre, molto ridotta: una Commissione mista, che egli chiamerebbe degli affari politici, ma che, in fondo, non può essere limitata agli affari politici. E qui si presenta un altro problema: l’Assemblea Costituente nomina la Commissione per la Costituzione che sarà composta di 75 membri; l’altra parte dell’Assemblea – tolti questi 75 membri e gli altri 36 della Commissione dei Trattati internazionali – cioè circa 500 deputati, che cosa farà? La Commissione di cui presenta la proposta l’onorevole Terracini è una Commissione ristretta e quindi tutto il rimanente della Assemblea se ne starà in vacanza.

Ma io mi chiedo adesso: mentre questo ristretto numero di deputati lavora, cosa fanno gli altri?

Saranno portati a complottare contro il Governo… Non lo faranno. Ma allora che faranno? Desidererei saperlo. Ed ecco perché ritengo che fin da ora occorra pensare, d’accordo col Presidente della Camera, con la Giunta del Regolamento e col Governo, a ricostituire – sia pure in numero ridotto – le Commissioni che esistevano presso la Consulta e presso il Parlamento prima del fascismo. Cosi vi sarà una ripartizione del lavoro, un controllo sull’azione politica del Governo ed una precisa delimitazione dei poteri del Governo e dei poteri di questa Assemblea.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Mazzoni. Ne ha facoltà.

MAZZONI. Ho chiesto la parola soltanto per una mozione d’ordine.

Siamo tutti persuasi della gravità dell’argomento di cui si discute, anche se possiamo avere opinioni diverse. Io, nelle ultime dichiarazioni fatte alla Consulta, a nome del gruppo, un po’ ironicamente, avevo detto: «Mah! stiamo a vedere. Io sto pensando con spavento all’autorità che avrò domani e che mi sarà demandata da una Camera di questo genere».

Comunque, nelle condizioni in cui ci troviamo oggi è lesivo della severità e dell’autorità dell’Assemblea e dell’argomento di cui si discute trattare la questione di sghembo, in questo momento. (Applausi).

Io non voglio, per rispetto a questo principio, esporre le mie opinioni su quanto è stato detto dall’onorevole Terracini e dagli altri. Osservo soltanto che questioni di questo genere non si nascondono: ogni giorno le vedreste riaffiorare. Bisogna onestamente risolverle subito, ma in sede adatta, e non fare i novizi portando qui discussioni che sono fuori della loro sede. (Approvazioni).

Propongo quindi che qualcuno faccia la proposta, presenti una mozione, o comunque nasca l’iniziativa perché sia fissato un giorno, il più vicino possibile, in cui questo argomento possa essere sviscerato con la necessaria compostezza e precisione (Applausi).

Voci. Si accetta la proposta Gronchi.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Caroleo. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Mi limito a prendere atto della necessità di rinvio e presento sin da ora questo ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, consapevole della sua sovranità, ritenendo necessario di partecipare in via diretta alla formazione delle nuove leggi anche durante il periodo di elaborazione delle norme costituzionali dello Stato, chiede al primo Governo, espresso dal proprio seno e responsabile verso di ossa, di preparare d’urgenza uno schema di decreto legislativo da sottoporre all’approvazione della stessa Assemblea sui maggiori e più precisi limiti della delega di poteri, di cui all’articolo 4 del decreto luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, e all’articolo 3 del decreto luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98».

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Mi permetto di ricordare ai colleghi che ho fatto una precisa proposta che ha valore di mozione d’ordine. Su di essa dovrebbe esser fatta la votazione. Anche altri si sono associati alla mia proposta. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Il problema è del più alto interesse, ma non può essere risolto in questa sede, perché non è all’ordine del giorno.

Oggi si tratta unicamente di provvedere alla nomina delle Commissioni per la Costituzione e per i Trattati internazionali. Il problema sarà ripreso in sede opportuna, dopo un più approfondito esame della materia da parte dei gruppi. (Approvazioni).

Passiamo all’esame degli articoli proposti dalla Giunta del Regolamento.

Art. 1.

L’Assemblea nomina la Commissione incaricata di elaborare, redigere e presentare il testo del progetto di Costituzione.

La Commissione sarà composta di 75 deputati, provvederà alla sua costituzione nominando il presidente, tre vicepresidenti e tre segretari, e presenterà il testo del progetto e la relazione entro tre mesi dal suo insediamento.

Su questo articolo gli onorevoli Gronchi e Togni hanno presentato il seguente emendamento sostitutivo del primo comma:

«L’Assemblea nomina la Commissione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione».

L’onorevole Gronchi ha facoltà di svolgerlo.

GRONCHI. Lo svolgo brevissimamente, perché la stessa sensibilità qui dimostrata nei riguardi della proposta sollevata dall’onorevole Calamandrei ne giustifica lo spirito. Nel testo proposto dalla Commissione si specifica che la Commissione è incaricata di elaborare, redigere, presentare il testo della Costituzione; il che sembra attribuire alla Commissione stessa un lavoro pressoché definitivo e analitico di preparazione della Costituzione e produce, in un’Assemblea di questo genere, o almeno nel nostro gruppo, l’impressione che la libertà di esame e di discussione sia in qualche modo menomata, se pure non si possa sostenere che la libertà rimanga integra e intatta quando il progetto sarà presentato alla discussione dell’Assemblea.

Qualcuno più competente di me in materia giuridica e di tecnica parlamentare dirà che in sostanza ciò può sembrare una questione di forma; ma io osservo che, ad esempio, in altri Paesi, nella stessa formulazione dei compiti affidati alla Commissione in una Assemblea di particolare importanza e carattere quale è una Costituente, si sono adoperate formule assai ben precise e impegnative. Ad esempio l’articolo 14 del Regolamento della Costituente francese dice: «per preparare le deliberazioni dell’Assemblea in materia costituzionale». Ora basta raffrontare i due testi per sentirvi, diremo, circolare uno spirito diverso; da una parte è il riconoscimento, anche formale, il più ampio della sovranità dell’Assemblea, la quale si vedrà proposto uno schema (il che non è parlamentarmente esatto, ma rende bene il nostro pensiero) sul quale essa è libera di apportare, sia nell’indirizzo generale sia nella formulazione particolare dei singoli articoli, il suo esame, la sua discussione ed il suo giudizio; dall’altra una formulazione come la nostra nella quale sembra che si dia alla Commissione dei 75 poco meno che una delega definitiva.

Mi rendo conto, come dicevo, che è una questione di forma, ma nella quale si rivela uno spirito diverso su cui richiamo l’attenzione dell’Assemblea; la quale ha una tale sensibilità, che è senso di responsabilità del suo mandato, e merita veramente che anche nella forma questa sua sensibilità sia accolta e rispettata. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Zuccarini. Ne ha facoltà.

ZUCCARINI. Mi limiterò a poche osservazioni. Devo dire intanto che questo progetto non mi soddisfa. Come ha osservato poco fa l’onorevole Gronchi, sembra quasi che l’Assemblea, chiamata ad un compito così importante come è quello di dare la nuova Costituzione al Paese, se ne liberi subito per delegare ad una piccola parte dei suoi componenti l’incarico di redigere la nuova Costituzione.

Ora io penso che il mandato che gli elettori hanno dato ai singoli deputati sia un mandato che deve essere assolto scrupolosamente e nel modo più ampio.

Intanto, prima ancora di passare alla redazione di un progetto di Costituzione, bisognerebbe che qui dentro, nella forma più adatta, tutti coloro che sono stati mandati ad assolvere tale compito esprimessero il loro pensiero, per lo meno sulle linee generali che noi vorremmo date al nuovo Statuto dello Stato. Prima ancora di redigere i vari articoli occorre infatti rendersi conto del tipo di Stato che si vuole costituire; e per rendersene conto bisognerebbe che i Deputati esprimessero qua dentro nella forma – poi parlerò anche di questo – più adatta le tendenze, le loro aspirazioni, desideri e bisogni. L’Italia è varia, i desideri sono diversi, le aspirazioni sono diversissime. Negli stessi gruppi dì partito voi troverete delle concezioni sulla organizzazione dello Stato molto diverse: il deputato che viene dal Trentino probabilmente non vede la Costituzione da fare allo stesso modo del deputato che viene dall’Italia centrale o che è stato eletto a Roma. È allora, per me, molto importante che prima ancora che la Commissione si formi e incominci a funzionare per redigere il nuovo Statuto, l’Assemblea esprima nel suo seno le varie tendenze, facendo conoscere a quale tipo di Stato si vuole arrivare, a quale forma dovrebbero dirigere i loro sforzi i membri della Commissione. E questo non può avvenire – badate bene – in una Commissione molto ristretta, appunto perché una tale Commissione probabilmente finirà coll’eliminare dal suo seno molti rappresentanti che vorrebbero invece interloquire in questo argomento.

Per cui penso che, se dovesse apparire esuberante e magari confusionario che tutta l’Assemblea riunita discutesse in linea generale qui dentro, con tutti i suoi più che 500 rappresentanti, l’indirizzo da dare alla formulazione del nuovo Stato, sarebbe possibile e opportuno che l’Assemblea stessa si dividesse in diverse sezioni, od uffici, per una discussione preliminare. Da tali sezioni, da tali uffici, verrebbero scelti i delegati a costituire la Commissione che dovrà poi redigere il regolamento. Ma non solamente per questo: occorre anche che l’opera della Commissione sia costantemente seguita dai componenti dell’Assemblea; e ciò potrebbe esser consentilo dalla divisione in uffici o in sezioni. E quando fossero scelti dagli uffici o sezioni i suoi componenti, avremmo una Commissione che esprimerebbe meglio i sentimenti, i desideri, i bisogni delle varie regioni d’Italia, cioè le varie tendenze in merito alla costituzione dello Stato, e sarebbe per noi possibile seguire giorno per giorno il lavoro della stessa Commissione.

Vorrei, ad ogni modo, che anzitutto, prima di passare alla nomina di questa Commissione, venisse esaminato il problema della costituzione dello Stato nelle sue linee essenziali in sezioni separate, e non dall’Assemblea tutta, perché allora finiremmo per fare una Commissione di partiti anziché una Commissione di uomini che esprimono dei pensieri e delle tendenze, e che fossero anche nominati i componenti della Commissione destinati a redigere la Costituzione. Non so se ho reso l’idea, non so se mi sono espresso nella forma migliore; so però che in questa materia si dovrebbe procedere con grande cautela. L’Assemblea non deve delegare ad una piccola Commissione tutto il suo lavoro; e in ogni caso il lavoro di tale Commissione, via via che si svolgerà, dovrà esser seguito e anche discusso con la partecipazione di tutti i deputati che costituiscono l’Assemblea Costituente.

Quindi ripeto: la mia proposta è che l’Assemblea, per l’esame e per l’elaborazione della nuova costituzione dello Stato si ripartisca in uffici o in sezioni, lasciando pure che la nomina della Commissione si faccia con i sistemi dei due terzi o del terzo, purché però esca dal voto dei singoli uffici. Noi avremo cosi delle assemblee più ristrette, di 60 o di 70 deputati, i quali, appunto perché pochi, potranno meglio discutere, con maggiore larghezza, anche nei particolari, quelle che sono le strutture del nuovo organismo. Con questo io ho finito ed attendo una modifica al progetto, che mi sembra insufficiente e che in ogni modo delegherebbe ad una ristretta Commissione tutto il nostro lavoro; e forse ci farebbe arrivare ad una Costituzione che probabilmente non è quella che il popolo italiano aspetta, mentre non dobbiamo dimenticare che tale Costituzione deve servire ad aprire all’Italia un periodo di sicurezza interna, sotto tutti i riguardi.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Perassi. Ne ha facoltà.

PERASSI. Intendo di fare brevissime osservazioni sulla proposta dell’onorevole Gronchi. Sostanzialmente siamo d’accordo e credo anzitutto che sia da chiarire un equivoco che potrebbe forse nascere dalla formulazione dell’articolo aggiuntivo proposto dalla Giunta del Regolamento. Questa non ha mai pensato che la disposizione dell’articolo aggiuntivo potesse essere interpretata nel senso che a questa Commissione, per quanto numerosa, venga delegato un potere che è della Assemblea e che solo da questa può essere esercitato. Èevidente che la Commissione dei 75 è una commissione preparatoria, necessaria per l’argomento e per l’oggetto specifico di cui ci occupiamo. Occorre tenere presente che qui non siamo di fronte ad un disegno di legge che sia stato presentato o dal Governo o da un deputato, ma di fronte a tutta una materia che occorre affrontare e la Commissione è investita appunto del compito di elaborare il materiale da sottoporre all’Assemblea Costituente. L’onorevole Gronchi, dando forse un peso eccessivo a qualche espressione, si è particolarmente soffermato sulla parola «redigere». Se questa espressione sembra eccessiva, credo che la Giunta del Regolamento non abbia difficoltà a sopprimerla, come in fondo superflua, perché dicendosi già «elaborare» è implicita l’idea di predisporre un testo da sottoporre all’Assemblea.

Poiché ho preso la parola in questa occasione, mi permetterei di fare un’altra proposta, personalmente almeno. Nel primo articolo aggiuntivo si parla di «testo del progetto della costituzione». Ora, anche tenendo presente l’articolo 3 del decreto legislativo sulla Costituente, è da ricordare che la nostra Assemblea – e su ciò non vi è nessun dubbio – è investita in pieno della competenza su tutta la materia costituzionale. Non è detto che la legislazione in materia costituzionale si esaurisca nell’approvazione del testo della Costituzione. Può darsi che, ancora durante la elaborazione di questo testo, si rendano necessarie leggi costituzionali, sia pure di carattere provvisorio. Perciò io riterrei opportuno che fosse chiarito il compito della Commissione che stiamo per istituire, nel senso che essa sia investita anche dell’incarico di studiare e sottoporre all’Assemblea Costituente altre leggi costituzionali che si rendessero necessarie.

In tal modo, senza voler riaprire un dibattito in argomento, mi pare che anche le altre questioni di carattere costituzionale che sono state oggi sollevate potrebbero trovare la loro soluzione attraverso la proposta alla quale ho accennato, cioè mediante una legge costituzionale provvisoria (da sottoporre preliminarmente all’esame della Commissione per il progetto della costituzione), che regoli i rapporti tra l’Assemblea costituente e il Governo per quanto concerne l’esercizio del potere legislativo ordinario.

Appunto con queste preoccupazioni ed in vista di questi problemi e di altri che potrebbero sorgere, proporrei di modificare leggermente il primo degli articoli aggiuntivi di quelli proposti dalla Giunta del Regolamento, nel senso di sopprimere, conformemente al suggerimento espresso dall’onorevole Gronchi, la parola «redigere», e di aggiungere, in fine al primo comma, le parole «e di eventuali altre leggi in materia costituzionale».

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Stampacchia. Ne ha facoltà.

STAMPACCHIA. Ho chiesto di parlare per una mozione d’ordine.

In occasione della discussione dei tre articoli aggiuntivi, è sorta la questione dell’articolo 3 del decreto, e quindi l’Assemblea si trova di fronte ad una questione alla quale non era assolutamente preparata e che non pensava di dover discutere. Mi pare perciò che il pensiero dei più ed il loro consenso sia che si fissi un’apposita riunione per discutere della questione. Se dobbiamo discutere circa l’estensione dell’articolo 3 del decreto 16 marzo, questione che è sorta in occasione dell’aggiunta dei tre articoli del regolamento, anche questi tre articoli dovranno esser convogliati nella discussione, perché diversamente oggi con essi possiamo pregiudicare in qualche modo anche la questione relativa all’articolo 3 del decreto. Ciò dico anche in considerazione che l’Assemblea è stanca, che il Governo manca, ed è proprio il Governo che dovrebbe dire la sua parola. (Commenti). Io penso che si dovrebbe rimandare la discussione di questi tre articoli a quando si farà la discussione sulla portata dell’articolo 3.

PRESIDENTE. Prego di non creare questioni di procedura. Si tratta oggi di creare due Commissioni che hanno il dovere di presentare progetti che dovranno essere discussi. Chiedo all’onorevole Gronchi se accetta le modifiche proposte dall’onorevole Perassi.

GRONCHI. Pregherei il collega Parassi di chiarire il suo pensiero. Si tratta qui di dare alla Commissione l’incarico di elaborare leggi o di esaminare le leggi che il Governo eventualmente presenta? Si tratta in sostanza di una legge di iniziativa parlamentare, mentre mi pare che invece la discussione odierna verta su leggi di iniziativa del Governo. Vorrei che fosse chiarito questo punto.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Sono perfettamente d’accordo con il collega Gronchi su quanto egli chiama il diverso spirito dell’articolo, cioè sull’abolizione della parola «redigere». Non sono d’accordo con il collega Perassi, il quale fa rientrare dalla finestra quello che abbiamo escluso dalla porta, cioè rimette in campo la questione dell’articolo 3 della legge 16 marzo 1946 in cui è detto: «salva la materia costituzionale».

La proposta Penassi si potrebbe accettare solo in questi termini: tutte le volte che verrà proposto, o dal Governo, o per iniziativa parlamentare, un progetto di legge che riguardi la materia costituzionale, la stessa Commissione dei 75 prenderà in esame il progetto e farà la relativa relazione all’Assemblea. Basta stabilire che ogni volta sia presentato all’Assemblea un progetto riguardante la materia costituzionale esso venga deferito senz’altro alla Commissione dei 75.

Un’ultima parola sulla, proposta Zuccarini. Essa è assolutamente inaccettabile, perché il proponente vorrebbe che noi in Assemblea cominciassimo la discussione generale del nuovo Statuto costituzionale dello Stato; che poi, ad un certo momento, fatta questa discussione, mandassimo il risultato della discussione agli Uffici, che gli Uffici nominassero una Commissione, cioè non quella dei 75, ma quella che nominano gli Uffici secondo il regolamento della Camera agli articoli 66 e seguenti, e che questa Commissione esaminasse: che cosa? Un progetto che non esiste. Mi sembra che ciò non possa assolutamente attuarsi.

Quindi proporrei che l’Assemblea approvasse la proposta Gronchi, ritenendo superflua quella dell’onorevole Perassi e respingendo quella dell’onorevole Zuccarini.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Perassi. Ne ha facoltà.

PERASSI. Vorrei chiarire il mio pensiero in questo senso: a mio avviso, secondo lo spirito della Costituente, tutto ciò che rientra nell’ambito della materia costituzionale è di competenza esclusiva dell’Assemblea. Per precisare questo punto vorrei anche indicare la conseguenza di forma che deriva da questa competenza esclusiva; cioè che la Costituzione o una legge costituzionale nel senso da me indicato, una volta adottata dalla Assemblea Costituente sarebbe perfetta, senza bisogno di nessun altro organo, neppure della sanzione del Capo dello Stato, in quanto, secondo il mio avviso, l’Assemblea Costituente da sola è investita del potere costituente. Ora, accanto al testo della Costituzione, che forma oggetto principale del compito dell’Assemblea Costituente, può darsi che si presenti la necessità, in via transitoria, provvisoria, di adottare altre norme costituzionali, le quali vengano ad integrare quell’ordinamento costituzionale provvisorio che è stato disposto nel decreto del 16 marzo. La stessa Commissione, che è investita del compito principale di elaborare la Costituzione, potrebbe anche, di sua iniziativa, elaborare progetti di leggi costituzionali destinate a risolvere, in via transitoria e provvisoria, taluni problemi. È in questo senso che io ho proposto l’aggiunta, che non ha nulla a che fare col problema di sapere chi esaminerà i progetti di legge ordinari che il Governo presenterà di sua iniziativa all’Assemblea Costituente. Se mai, il solo punto di attacco tra il problema che è stato prima sollevato e quello che ora si discute, in relazione alla proposta da me fatta, è che la Commissione dei 75 potrebbe, come una di queste prime leggi costituzionali provvisorie, adottare e sottoporre all’Assemblea Costituente un testo che regoli provvisoriamente l’esercizio della funzione legislativa in questo periodo. Questa, secondo me, è materia costituzionale e come tale rientra nella competenza dell’Assemblea Costituente e quindi, a titolo di elaborazione, nella competenza della Commissione in parola.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Gronchi se insiste nel suo emendamento e se, insistendo, accetta le modifiche proposte dall’onorevole Perassi.

GRONCHI. Insistiamo sul nostro emendamento e, per quanto riguarda quello dell’onorevole Perassi, mi pare che sostanzialmente l’aggiunta sia superflua, a meno che non si voglia pensare che la materia costituzionale possa essere trattata frammentariamente e all’infuori della preparazione del vero e proprio progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. lo non desidero aggiungere altro a quello che abbondantemente è stato detto a proposito dell’articolo aggiuntivo. Desidero solo, a mia volta, proporre un altro emendamento. E cioè: laddove si dice che «L’Assemblea nomina la Commissione» vorrei che si aggiungesse «con la rappresentanza di tutti i gruppi parlamentari». Ciò apparentemente sembra inutile dire.

Una voce. È già detto all’articolo 3.

MARTINO GAETANO. All’articolo 3 è detto: «La nomina delle Commissioni prevedute nei due articoli precedenti è fatta dall’Assemblea mediante votazione a scrutinio segreto per due terzi dei nomi dei componenti»; ma non è detto che debba essere rappresentato ogni gruppo parlamentare in questa Commissione. Ciò che logicamente avverrebbe, se la nomina fosse demandata al Presidente dell’Assemblea; e può non avvenire, se la nomina è demandata alla stessa Assemblea mediante elezioni.

Ora, noi abbiamo la massima fiducia nel senso di cavalleria dei partiti di massa, che sono cosi largamente rappresentati in questa Assemblea. Però, non vorremmo che nel giuoco della votazione, per caso o per errore, avvenisse che qualcuno dei gruppi parlamentari non fosse rappresentalo nella importante Commissione che l’Assemblea stessa deve esprimere, cioè nella Commissione che dovrà proporre sia pure il progetto, la bozza, di quella che deve essere la nuova Carta costituzionale del nostro Paese. Noi vorremmo che questo non avvenisse, perché, altrimenti, non sapremmo come giustificare davanti ai nostri elettori il mandato che essi ci hanno conferito.

Quindi, ritengo che l’Assemblea possa accogliere la mia proposta di aggiungere, all’articolo 3, le parole «con la rappresentanza di tutti i gruppi parlamentari dell’Assemblea».

PRESIDENTE. Del modo di nomina della Commissione si occupa l’articolo 3.

Pongo ai voti il primo comma dell’articolo aggiuntivo nel seguente testo emendalo degli onorevoli Gronchi e Togni:

«L’Assemblea nomina la Commissione incaricata di elaborare e proporre il progetto di Costituzione».

(È approvato).

Pongo ai voti il secondo comma nel testo proposto dalla Commissione, con la soppressione, per ragioni di coordinamento, delle parole: «testo del».

Il comma risulta, pertanto, così formulato:

«La Commissione sarà composta di 75 Deputati, provvederà alla sua costituzione, nominando il presidente, tre vicepresidenti e tre segretari, e presenterà il progetto e la relazione entro tre mesi dal suo insediamento».

(È approvato).

PERASSI. Volevo precisare che dovrà essere sottoposto al giudizio dell’Assemblea il mio emendamento aggiuntivo.

PERSICO. La formulazione di questo potrebbe essere la seguente: «Alla stessa Commissione saranno trasmessi, per l’esame, tutti gli altri eventuali disegni di leggo in materia costituzionale».

PRESIDENTE. Avverto l’onorevole Perassi che la sua proposta può formare oggetto di un emendamento aggiuntivo, quale 3° comma dell’articolo. Lo prego quindi di volerlo formulare.

PERASSI. La formulazione potrebbe essere questa: «La stessa Commissione è incaricata di elaborare e proporre eventuali altri disegni di legge in materia costituzionale». (Commenti).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Benedetti. Ne ha facoltà.

BENEDETTI. Nella discussione che ha preceduto, sulla questione più vasta del potere legislativo conferito al Governo o alla Assemblea Costituente, è stato richiesto concordemente il rinvio della discussione ad altra seduta. È evidente che se ora aggiungiamo un comma col quale si stabilisce di esaminare quelle questioni di carattere costituzionale che saranno promosse dall’Assemblea, si viene implicitamente ad entrare nel merito della prima questione.

Io insisto pertanto sulle osservazioni fatte dai colleghi Mazzoni, Gronchi ed altri e chiedo che non si torni, per via indiretta e in sede di discussione regolamentare, sulla questione.

La Commissione attuale è soltanto incaricata di preparare il progetto di Costituzione. Mi oppongo alla presa in considerazione della proposta fatta in merito all’aggiunta di un 3° comma.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Caroleo. Ne ha facoltà.

CAROLEO. Credo che questa interferenza non possa sussistere, in quanto è stato già precisato dai diversi oratori che la materia costituzionale rientra nella competenza esclusiva della Assemblea Costituente, in base allo stesso decreto del marzo 1946.

PRESIDENTE. L’onorevole Perassi insiste nella sua proposta?

PERASSI. Non insisto nella mia proposta, che del resto inizialmente era stata avanzata in connessione col primo comma.

PRESIDENTE. L’onorevole Persico insiste nel suo emendamento?

PERSICO. Non insisto.

PRESIDENTE. Allora il primo articolo aggiuntivo proposto dalla Commissione è approvato con le modificazioni testé votate.

Passiamo all’esame dell’articolo 2:

«L’Assemblea nomina la Commissione per i Trattati internazionali.

«La Commissione sarà composta di 36 deputati, e si costituirà nominando il presidente, due vicepresidenti e due segretari».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 3:

«La nomina delle Commissioni, prevedute nei due articoli precedenti, è fatta dall’Assemblea mediante votazione a scrutinio segreto per due terzi dei nomi dei componenti».

Su questo articolo l’onorevole Tupini ha presentato il seguente emendamento sostitutivo:

«La nomina delle Commissioni prevedute nei due articoli precedenti è deferita al Presidente dell’Assemblea».

L’onorevole Tupini ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

TUPINI. Questo emendamento è diretto a rendere più rapida ed armonica la composizione delle Commissioni: più rapida in vista delle difficoltà, delle complicazioni, della frammentarietà della votazione che può lasciar fuori anche una parte notevole di componenti dell’Assemblea; più armonica, perché una volta che avremo deferito al Presidente la scelta dei Commissari, credo che egli vi provvederà con quel senso di proporzione che è insito nell’Assemblea stessa di cui facciamo parte: in tal modo non solo i gruppi maggiori, ma anche i minori, potranno essere rappresentati nelle Commissioni, in quanto tutti ugualmente siamo stati qui mandati dal popolo per collaborare ad una Costituzione, di cui i commissari dovranno sottoporci il progetto sul quale discutere e deliberare. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. A nome del gruppo, del quale fo parte, mi associo alla proposta dell’onorevole Tupini. Noi abbiamo la sicurezza che, solo realizzandosi una siffatta proposta, sarà possibile soddisfare il desiderio, che è nell’animo di tutti i componenti di questa Assemblea, che delle Commissioni facciano parte i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari, i quali così avranno la possibilità di bene collaborare alla redazione della Costituzione fondamentale dello Stato.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Io avevo presentato una proposta in sede inopportuna: avrei dovuto farla in questa sede, a proposito dell’articolo 3.

Dopo la proposta dell’onorevole Tupini, ritengo che la mia non abbia più ragione di essere: la ritiro e mi associo a quella dell’onorevole Tupini.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Bisognerebbe precisare se il Presidente accetta il criterio della proporzionalità dei gruppi in seno alla Commissione.

PRESIDENTE. Tale principio è implicito nell’accettazione del mandato deferitomi dall’Assemblea. (Approvazioni).

GIANNINI. La ringrazio.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento sostitutivo dell’articolo terzo proposta dall’onorevole Tupini.

(È approvato all’unanimità).

Sono così approvati tutti gli articoli aggiuntivi al Regolamento della Camera.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni ed interpellanze pervenute oggi alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali urgenti provvedimenti intenda prendere per evitare il ripetersi dei gravi incidenti provocati da elementi fascisti giuliani e dalmatici, culminati nel proditorio attacco della sera del 25 giugno corrente anno al Centro Raccolta Profughi nel «Marco Foscarini» di Venezia, durante il quale il partigiano Filippo Monteleone, col distintivo di decorato al valore, con quattro anni di campagna, più volte ferito, fu sanguinosamente malmenato da elementi fascisti residenti nel medesimo Centro.

«Il Comitato provinciale di Venezia dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia ha fatto presente che, ove non si provveda d’urgenza contro i responsabili, è fermamente deciso a por termine con qualsiasi mezzo a simili provocazioni.

«Ad evitare incresciosi disordini, che ridonderebbero a grave danno per il Paese, in genere, e per quella zona, in ispecie, soprattutto in questo delicato momento della vita nazionale, l’interrogante invoca esemplare punizione dei colpevoli e misure adeguate per tutelare i combattenti per la libertà.

«Tonetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere:

  1. a) se è vera la notizia, pubblicata dai giornali, che il Prefetto di Milano abbia disposto l’aumento a 300 grammi del pane per quella Provincia;
  2. b) se ritenga tale decisione tempestiva mentre il Governo sta studiando la possibilità di aumentare il pane a 250 grammi per tutta l’Italia;
  3. c) se non ritenga, altresì, tale provvedimento inopportuno, traducendosi in una sperequazione di trattamento specialmente grave verso il Mezzogiorno;
  4. d) se non siano, infine, anche per ragioni politiche, da regolare i poteri dei Prefetti in tale materia.

«Nasi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, sulla situazione a Trieste.

«Valiani».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere come e quando intendano portare su un piano iniziale di soluzione l’assillante problema del Mezzogiorno, che è sul momento un problema di lavori pubblici e quindi anche di ricostruzione delle industrie, andate in gran parte perdute a causa degli eventi bellici, e se non credano indispensabile di far deliberare dal Consiglio dei Ministri, in una delle sue prime riunioni, lo stanziamento straordinario di somme tali da permettere la risoluzione concreta, almeno in parte, dello stato di enorme miseria in cui si trovano le popolazioni meridionali che, avendo subito le maggiori distruzioni dalla guerra, reclamano effettiva assistenza da parte dello Stato.

«Preziosi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura, per sapere se è a conoscenza sua e del Governo che migliaia di quintali di grano, sottratti all’ammasso, sono imbarcati, clandestinamente, su velieri per la Jugoslavia – tanto che persino un piroscafo pieno di grano si è incendiato nel porto di Civitavecchia –; e per sapere altresì quali provvedimenti di urgenza si intendano adottare onde impedire che sia sottratto alle necessità della Nazione alimento tanto prezioso.

«Preziosi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti eccezionali intenda adottare al fine di combattere l’impressionante dilagare del banditismo in Sicilia.

«Martino Gaetano, Candela».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni che ritardano la ricostruzione dell’importantissimo ponte «Margherita» sul Volturno, in territorio del comune di Dragoni, lungo la provinciale Caserta-Piedimonte d’Alife. La distruzione di tale ponte, effettuata dai tedeschi nell’ottobre 1943, impedisce a migliaia di abitanti della ubertosa zona alifana di comunicare agevolmente con il capoluogo di provincia (Caserta) e con Napoli (capoluogo della regione), costringendoli a servirsi del traghetto con zattere di fortuna. Tale anormalità, aggravata dalla mancanza della ferrovia Napoli-Piedimonte d’Alife (anch’essa distrutta dai tedeschi nel tratto Capua-Piedimonte d’Alife, senza che sia in vista per ora la sua ricostruzione), esaspera la popolazione, la quale non riesce giustamente a rendersi conto come mai, a tre anni di distanza dalla guerra colà combattuta, non si sia ancora provveduto a quanto è di vitale importanza per le proprie necessità.

«L’interrogante chiede soprattutto l’assicurazione che, da parte delle autorità competenti, il lavoro sarà iniziato subito e portato a termine entro la fine del corrente anno, dato che, con le piene invernali, il traghetto del fiume diventa saltuario e pericoloso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Caso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Governo, per sapere se e quali provvedimenti intenda prendere e adottare per risarcire in tutta urgenza il danno patito per razzia o per ragioni di guerra, nel podere, nelle derrate, nel bestiame, da quegli agricoltori, specialmente proprietari di piccole aziende, che in seguito ai nuovi accordi sindacali (legati, anche, al cosiddetto lodo De Gasperi) hanno dovuto addossarsi, in parte, il danno subito, per le stesse ragioni, dai propri coloni mezzadri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non sia il caso di attuare una immediata revisione qualitativa delle vetture che formano i treni da e per la Sicilia e se non sia opportuna istituzione di una vettura di prima classe nei treni del Meridione – anche per il prestigio e la dignità dei componenti l’Assemblea Costituente che sono costretti ad affrontare spesso sì lungo e disastroso viaggio – così come già da tempo è stato fatto per i treni che dalla capitale vanno al Nord e viceversa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Terranova».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non creda opportuno semplificare ed abbreviare la procedura per la ricostruzione (magari d’ufficio) di tanti piccoli comuni che negli anni scorsi sono stati aggregati a comuni più grossi in spregio a tradizioni locali care alle popolazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, sulle ragioni per le quali – a differenza di come si è praticato per altre città italiane – non sono state accolte le reiterate e giustificate richieste delle Aziende autonome del gas di Palermo e di Trapani dirette ad ottenere l’indispensabile quantitativo di carbone necessario al normale funzionamento dei relativi gasometri, privando così le popolazioni di un pubblico servizio di prima necessità e contribuendo a mettere nell’attuale stato fallimentare le Aziende stesse, costrette alla chiusura dell’esercizio ed al licenziamento del personale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dèi trasporti, per conoscere se e quando intenda ricondurre a Lecce il capolinea del treno diretto tra Milano e le Puglie, così come sempre fu nel passato, senza costringere una metà della popolazione pugliese a raggiungere detto treno a Bari con grave ingiustificato disagio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per conoscere quando intenda far sgombrare le marine salentine di Nardò e di Leuca (Lecce) occupate da quattro anni da profughi slavi, i quali le hanno ridotte in uno stato di totale devastazione, e restituirle alle popolazioni desiderose di riavere il loro mare. L’interrogante fa presente che una situazione di grave fermento regna tra slavi e italiani nella zona, mentre i profughi potrebbero essere benissimo concentrati in uno dei tanti campi per prigionieri liberati dalle autorità nostre e alleate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per avere una interpretazione autentica del Regio decreto-legge 6 gennaio 1944, n. 9, riguardante «la riammissione in servizio degli appartenenti alle amministrazioni dello Stato, degli Enti locali e parastatali, e controllati dallo Stato, aziende che gestiscono servizi pubblici o d’interesse nazionale, già licenziati per motivi politici».

«L’interpellante chiede se, dopo l’amnistia accordata con tanta larghezza ai colpevoli di delitti fascisti, non si ritenga doveroso provvedere – previi, sia pure, gli accertamenti del caso – a riammettere in servizio tutti i licenziati politici anche se dispensati dal servizio prima del 28 ottobre 1922.

«Malagugini».

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritengano opportuno e necessario, in concordanza con le emanate disposizioni di clemenza, dirette a pacificare il Paese, far tornare la serenità anche in seno all’alta cultura, revocando, a tutti gli effetti, i decreti legislativi luogotenenziali 12 aprile 1945, n. 178 e 16 novembre 1945, n. 801, in forza dei quali sono stati radiati dall’Accademia Nazionale dei Lincei, senza neppure essere stati invitati a discolparsi, molti studiosi italiani, tra i quali alcuni di alta fama scientifica; e se non credano, con la revoca dei decreti legislativi indicati, di restituire alla Accademia Nazionale dei Lincei l’antica autonomia ed indipendenza dalle influenze politiche e burocratiche, garantendo in tal modo, anche per l’avvenire, i diritti del pensiero e l’attività degli intellettuali dalla politica contingente.

«Rivera».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 18.40.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.