Come nasce la Costituzione

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MERCOLEDÌ 24 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

XII.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 24 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                              

Verifica di poteri:

Presidenti                                                                                               

Sostituzione di Deputati dimissionari:

Presidente                                                                                              

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni:

Presidente                                                                                              

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:

Togliatti                                                                                                

Selvaggi                                                                                                 

Caso                                                                                                        

Gronchi                                                                                                  

Pacciardi                                                                                                

Interrogazioni e interpellanza (Annuncio):

Presidente                                                                                              

Chieffi, Segretario                                                                                   

La seduta comincia alle 16.

CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che la onorevole Signora Ottavia Penna e l’onorevole Giovanni Ponti hanno rassegnato le dimissioni da componenti della Commissione per la Costituzione.

A sostituirli ho chiamato, rispettivamente, l’onorevole Gennaro Patricolo e l’onorevole Giovanni Uberti.

Comunico anche che la Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha proceduto alla elezione di un Vicepresidente, nominando l’onorevole Grieco Ruggero in sostituzione dell’onorevole Velio Spano, decaduto per la nomina a Sottosegretario di Stato.

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha verificato non essere contestabile l’elezione del Deputato Uberto Bonino per la circoscrizione di Catania, Messina, Siracusa, Enna (XXIX) e, concorrendo nell’eletto le qualità richieste dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.

Analogamente la Giunta ha verificato non essere contestabili e ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti Deputati per la circoscrizione di Bologna, Ferrara, Ravenna, Forlì (XIII): Montagnana Rita, Colombi Arturo, Dozza Giuseppe, Bosi Ilio, Cavallari Vincenzo, Boldrini Arrigo, Bucci Quinto, Landi Romolo, Ricci Giuseppe, Pacciardi Randolfo, Macrelli Cino, Zanardi Francesco, Preti Luigi, Taddia Gherardo, Villani Ezio, Longhena Mario, Tega Renato, Grazia Verenin, Gronchi Giovanni, Manzini Pierraimondo, Braschi Giovanni, Zaccagnini Benigno.

Do atto alla Giunta di queste sue comunicazioni e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Sostituzione di Deputati dimissionari.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dimissioni del Deputato Giuseppe Alberti, accettate ieri dalla Camera e, a termini dell’articolo 64 del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, ha accertato che nella stessa lista gli segue immediatamente il candidato Zagari Mario, del quale propone la proclamazione.

Pongo ai voti questa proposta.

(È approvata).

S’intende che da oggi decorre il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali reclami.

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dichiarazioni di opzione fatte da Deputati convalidati eletti in più collegi e, per le Circoscrizioni cui essi hanno rinunziato, ha proceduto all’accertamento dei candidati subentranti, proponendone la proclamazione.

Al Deputato Lelio Basso, che ha optato per la circoscrizione di Como, subentra per la circoscrizione di Milano (IV) il candidato Pistoia Umberto.

Al Deputato Piero Mentasti, che ha optato per la circoscrizione di Venezia, subentra per la circoscrizione di Brescia-Bergamo (VI) la candidata Bianchini Laura.

Al Deputato Randolfo Pacciardi, che ha optato per la circoscrizione di Pisa, subentra per la circoscrizione di Bologna (XIII) il candidato Spallicci Aldo.

Al Deputato Giovanni Gronchi che ha optato per la circoscrizione di Pisa, subentra per la circoscrizione di Bologna (XIII) il candidato Salizzoni Angelo.

Al Deputato Andrea Finocchiaro Aprile, che ha optato per la circoscrizione di Palermo, subentra per la circoscrizione di Catania (XXIX) il candidato Castrogiovanni Attilio.

Pongo ai voti queste proposte.

(Sono approvate).

S’intende che da oggi decorre, nei riguardi dei nuovi proclamati, il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

È inscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Signor Presidente, signore, onorevoli colleghi. Ho seguito con attenzione la discussione che si è svolta in questa assemblea sulle dichiarazioni fatte a nome del Governo dall’onorevole Presidente del Consiglio, discussione la quale, se non erro, dura ormai da più di otto giorni e nel corso della quale molte cose interessanti ed utili c’è accaduto di udire, alcune di carattere autobiografico, come quelle che ci ha dette l’onorevole Nitti, altre che hanno rappresentato una specie di contributo a nuove elaborazioni dottrinarie da parte di uomini, a cui in verità non si può negare, di aver sempre posseduto in questo campo una fecondità e versatilità che sono potute sembrare persino eccessive, altre che hanno affrontato questioni tecniche non direttamente legate al programma che si tratta di esaminare.

Debbo dire che nel complesso e soprattutto per rispetto ad alcune manifestazioni oratorie che si sono avute nel corso della discussione, non escludo che alcuni di noi possano aver sentito la nostalgia del metodo a cui accennava il vecchio parlamentare, il quale diceva che nelle discussioni al Parlamento si alzava quando aveva qualche cosa da dire sull’argomento, la diceva e poi si sedeva. Se tutti avessero fatto così molto tempo avremmo risparmiato.

Ma questo è un difetto forse di forma più che di sostanza. Nella sostanza, mi permettano gli onorevoli colleghi di osservare che non si può sfuggire all’impressione che vi sia pur stato un difetto in questa nostra discussione, difetto tale per cui non so se il Paese potrà essere effettivamente soddisfatto del modo come si è svolto questo primo grande dibattito nell’Assemblea Costituente eletta di 2 giugno dai cittadini italiani.

Perché il fatto è, signori, che noi siamo la prima Assemblea rappresentativa liberamente eletta in Italia a suffragio universale, dopo più di venti anni di un regime di tirannide e di soppressione di ogni libertà.

Questa tribuna dalla quale noi parliamo è la più alta tribuna dalla quale si possa parlare al popolo italiano, ed in nome del popolo italiano anche agli altri popoli. Abbiamo riconquistata questa tribuna con una lotta che abbiamo combattuta tutti o quasi tutti assieme, alla quale abbiamo chiamato a partecipare tutto in popolo italiano; ed è quindi naturale che oggi il popolo, riconquistatasi la libertà, guardi a questa tribuna con particolare passione e attenda che da essa si dicano parole le quali abbiano un peso per lo sviluppo della vita politica della Nazione.

Ma il popolo guarda a noi anche per altri due motivi che immediatamente soccorrono alla mente di ciascuno di noi: perché siamo la prima Assemblea repubblicana nazionale italiana e perché siamo l’Assemblea Costituente. A questi nomi di Repubblica e di Costituente – e voi amici repubblicani per ragioni storiche particolari lo sentite forse meglio e più di tutti noi – è legata una grande tradizione, è legata una grande attesa, una grande speranza di tutto il popolo italiano: la speranza di avere finalmente un’Assemblea la quale si accinga, in relazione coi bisogni e con le aspirazioni espresse dal popolo intiero, ad un’opera di profondo rinnovamento della vita politica, economica, sociale della Nazione.

A questa attesa dobbiamo corrispondere dimostrando, per lo meno, che la nostra attenzione aderisce alle esigenze fondamentali di vita dei lavoratori italiani nel momento presente, che essa si china sui problemi che oggi non solo preoccupano, ma angustiano tutti gli italiani, tutta la Nazione che noi qui rappresentiamo.

D’altra parte comprendo che lo scopo di questa discussione è limitato. L’onorevole Presidente del Consiglio ci ha letto, a nome del Governo, le sue dichiarazioni e il programma del Governo; egli ci chiede o ci chiederà un voto di fiducia, anche se la legge costitutiva di questa Assemblea formalmente non lo impegna a chiederlo, e noi a questa richiesta di voto di fiducia, quando essa sarà fatta, risponderemo affermativamente. Daremo la nostra fiducia a questo Governo prima di tutto perché vi partecipiamo, e vi partecipiamo in gran parte per i motivi stessi che sono stati esposti ieri qui dal collega Lombardo a nome del Partito socialista, motivi che condividiamo per convinzione, e condividiamo anche per il patto di unità di azione che ci unisce al Partito socialista. Ma daremo la nostra fiducia al Governo, oltre che per queste ragioni generali, perché abbiamo attivamente lavorato all’elaborazione del suo programma e perché vogliamo dare tutto il contributo che sta in noi e che dipende dalle nostre forze alla realizzazione di esso. Pensiamo infatti che alla realizzazione di questo programma, nelle sue linee fondamentali e nei suoi particolari, sono legate non soltanto le sorti di questo Governo, non soltanto di questa o quella maggioranza nell’Assemblea, ma sono legate la stabilità del regime democratico e il consolidamento del regime repubblicano: stabilità democratica e consolidamento della Repubblica che sono obiettivi fondamentali dell’azione politica del nostro Partito nel momento presente.

Ricevere la fiducia dell’Assemblea mi pare, del resto, che non sia un compito molto difficile per questo Governo. Forse, anzi è questo il più facile dei compiti che stanno davanti all’onorevole Presidente del Consiglio, e ciò deriva dal fatto che il Governo riflette, in sostanza, la composizione dell’Assemblea, e non poteva non rifletterla; è un organismo tessuto sopra le posizioni che i partiti si sono conquistate nel Paese, attraverso la consultazione elettorale, e che costituiscono, e nell’Assemblea e nel Paese, il canovaccio sul quale bisogna e bisognerà tessere per costituire un Governo, capace di vivere, capace di lavorare, capace di dirigere tutta la attività di ricostruzione del Paese. Ed è vano protestare perché la costituzione del Governo aderisca troppo strettamente e rigidamente allo schieramento dei partiti, e in particolare di quattro partiti, di cui tre di massa, che siedono con i loro rappresentanti in questa Assemblea. Questa è la realtà della nostra vita politica di oggi e ad essa non si può sfuggire.

Ho sentito l’onorevole Nitti ricordare con rammarico i tempi nei quali la vita politica d’Italia e l’Assemblea parlamentare stessa erano costituite in un altro modo, e organizzate sulla base di personalità marcate e di gruppi – allora i maligni dicevano di clientele – che si raccoglievano attorno a loro. Ho la impressione che quei tempi non torneranno mai più, che sempre più ci si staccherà da quel tipo di organizzazione politica, avviandoci a un tipo di organizzazione nel quale i grandi partiti, sulla base di idee, di programmi e di disciplina, saranno la forza fondamentale del Paese. Questa, del resto, è una necessità della democrazia, quando si esce dall’ambito della piccola, diciamo pure, oligarchica cerchia delle poche centinaia di migliaia di elettori scelti secondo il censo, e si fanno scendere in campo con la scheda del voto 25 milioni di uomini e donne, di tutte le età e di tutte le professioni sociali. È indispensabile che i partiti intervengano per organizzare, disciplinare, dirigere anche, queste forze.

I partiti sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma, che conquista posizioni decisive, le quali non saranno perdute mai più. Tanto è vero che quando qualcuno è sorto per maledire i partiti, egli ha finito per organizzare il partito dei senza partito.

D’altra parte mi si permetta di osservare che questi grandi partiti non sono soltanto una necessità della vita nazionale e della democrazia; che la loro esistenza è una fortuna per il nostro Paese. Queste grandi formazioni unitarie, infatti, che raccolgono masse di lavoratori di tutte le regioni, i cui dirigenti possono indifferentemente raccogliere le votazioni che hanno ottenuto a Napoli o a Trento, a Palermo o a Torino, a Roma o a Milano, sono una garanzia che l’unità del nostro Paese non andrà perduta, che fra i tanti beni che possiamo aver perduto e che forse potremo perdere ancora, questo non lo perderemo mai.

Ho sentito l’onorevole Nitti affermare essere egli l’ultimo credente fanatico della unità. Mi permetto di fargli osservare che vi sono anche dei credenti nuovi, e fanatici pure, dell’unità del nostro Paese. Tali siamo noi. L’unità materiale e morale della Nazione italiana, conquistata attraverso lotte di secoli, è un bene che vogliamo e sapremo difendere, al di sopra di ogni altra cosa.

Ma non solo sono necessari i partiti. È necessaria la loro collaborazione; è necessaria la loro unità; è necessaria – se scendiamo sul terreno parlamentare e governativo – la coalizione dei partiti per formare il Governo. Perché nessun partito, oggi, qualunque esso sia, può affermare di possedere le qualità e le capacità di reggere da solo le sorti del Paese.

Per questo, lascio da parte le considerazioni che si potrebbero ancora fare sul modo come si è venuti alla composizione di questo Governo, e sulla differente ripartizione dei posti di maggiore o minore importanza in seno ad esso. Fra tutte le considerazioni che si potrebbero fare a questo proposito desidero ritenerne solo una.

Vi sono in questa Assemblea due blocchi di forze: un blocco democristiano e un blocco socialista e comunista. Relativamente, il blocco socialista e comunista è prevalente per numero di suffragi raccolti nelle elezioni e per rappresentanti al Parlamento. Però, pur essendo il blocco democristiano un blocco politicamente e socialmente eterogeneo e pur essendo il blocco socialista e comunista un blocco più omogeneo, sia politicamente che socialmente, del blocco democristiano, è avvenuto che il secondo blocco si è presentato, in questa occasione come in altre occasioni, meno unito, meno compatto dell’altro. Di qui la conseguenza della sua debolezza nella compagine governativa. Il Governo rimane però, nonostante questa debolezza, un Governo di coalizione.

Richiamandomi a quanto ho detto sulla necessità della collaborazione dei partiti e sulla impossibilità per un solo partito di rivendicare da solo la direzione della vita politica nazionale, desidero fare in relazione a ciò un semplice avvertimento al nostro collega Presidente del Consiglio. Il suo Governo sarà tanto più vitale e riuscirà a lavorare tanto meglio, quanto più esso si presenterà e funzionerà non come un Governo del partito democristiano con appendici più o meno considerevoli provenienti da altri gruppi politici, ma quanto più saprà presentarsi e lavorare come Governo di coalizione. È questa una necessità non soltanto parlamentare, ma di politica generale.

Siamo quindi portati a parlare del programma del Governo, base inevitabile, necessaria, di ogni coalizione politica, la quale voglia presentarsi come una formazione seria e mettersi in grado di svolgere un serio lavoro.

E prima di tutto alcune parole sulle questioni di politica estera; cioè sui problemi che si riferiscono alla posizione internazionale che il nostro Paese occupa oggi in Europa e nel mondo.

Sono state elevate qui voci di protesta. Sono risuonati accenti di sdegno e di dolore per le condizioni in cui ancora si trova l’Italia e per le condizioni che noi possiamo prevedere che per un certo periodo di tempo ci saranno fatte. 

Addolorati, lo siamo tutti. Chi potrebbe non sentir dolore al vedere il proprio paese, che fu già una delle grandi potenze europee, e che dovrà tornare ad esserlo, ridotto alle condizioni in cui l’Italia è stata ridotta dal fascismo, dalla politica reazionaria, nazionalistica, imperialistica delle classi dirigenti che per più di venti anni tennero il potere e fecero quello che vollero, escludendo il popolo da ogni partecipazione alla vita politica?

Addolorati, lo ripeto, lo siamo tutti. Non c’impedisca però questo dolore di essere uomini politici e non c’impedisca di essere uomini di ragione, altrimenti potrebbero, dalle manifestazioni stesse del nostro dolore, sorgere pericoli politici gravi, sia per il presente che per il futuro.

La realtà è che stiamo liquidando una dura eredità, l’eredità del nazionalismo e dei fascismo. È giusto che ci sforziamo di liquidare questa eredità nelle condizioni più favorevoli per il popolo italiano. Ma d’altra parte, permettetemi, come uomo politico e come uomo di ragione, di ricordare a tutti voi che non si rompe mai la continuità della vita di un Paese.

Quando a Napoli, nel 1944, abbiamo detto: – Sì, siamo disposti ad assumerci la responsabilità della direzione della vita nazionale e di partecipare, noi, partito tradizionale dell’opposizione, al Governo stesso – quando abbiamo detto questo sapevamo che questa eredità esisteva. Lo sapevamo, e pur sapendolo ci siano addossati la responsabilità di entrare nel Governo del Paese. Ancora oggi crediamo di aver fatto bene, di aver servito non soltanto la causa del nostro partito, ma la causa della Nazione.

La. continuità della vita nazionale non si rompe mai. La Restaurazione pagò i danni, in maggiore o minor misura, dell’espansionismo napoleonico; i bolscevichi pagarono per lo zarismo firmando le paci di Brest Litovski e di Riga.

Non dico questo per giustificare anticipatamente questo o quell’atteggiamento di politica estera, questa o quella posizione che possano prendere i nostri rappresentanti nelle prossime consultazioni internazionali. Lo dico unicamente per ricordare a tutti e soprattutto ai democratici, che sono in maggioranza in questa assemblea, quale è la direzione nella quale dobbiamo indirizzare il colpo della nostra critica, e dirigere l’espressione del nostro dolore, della nostra angoscia, del nostro rancore, per le condizioni cui è stata ridotta l’Italia, allo scopo di evitare che dalle espressioni di un legittimo e giustificato dolore si passi al disfattismo nazionale, si passi ad agitare nel popolo passioni e ad assumere posizioni le quali corrispondono più o meno esattamente a quelle che vedemmo assumere dalle correnti nazionalistiche venti anni fa e dalle quali sappiamo che doveva nascere e che nacque il fascismo.

Ecco, per fare un esempio concreto, un giornale che mi è testé arrivato e che si pubblica in Italia legalmente, col nome della tipografia, la firma del responsabile. Il titolo di prima pagina di questo giornale, su sei colonne, dice: «Quattro criminali di guerra». Chi sono questi «quattro criminali di guerra»? Sono i quattro uomini che dirigono le più grandi nazioni democratiche del mondo, con le quali noi dobbiamo collaborare, alle quali dobbiamo la nostra liberazione, e alle quali dobbiamo rivolgerci per la soluzione di tutti i nostri problemi. Leggiamo ora l’editoriale. Esso incomincia naturalmente con lo stesso tono e con le parole seguenti: «La sanguinosa umiliazione che i quattro gangster di Parigi…» e in questo tono continua, e termina, voi lo potete facilmente immaginare, onorevoli colleghi, come termina, con l’esaltazione delle «camicie nere», le quali sarebbero state le sole che hanno fatto l’interesse d’Italia negli anni passati. (Commenti).

Ho voluto citare questo esempio perché qui in una pagina, in una sola pagina, anzi, in una sola colonna, ho trovato le premesse e le conclusioni. Si tratta di un giornaluccio, è vero, ma si tratta di espressioni che vediamo diffondere e diffondersi nel Paese e che non possono essere altro che esiziali per esso, preparando le condizioni di una catastrofe della nostra democrazia.

Si è detto che i nostri morti, i morti gloriosi che voi, compagni partigiani, avete lasciato là, sulle Alpi, nelle campagne, sulle piazze e nelle strade delle città che avete riconquistato con la vostra lotta, si è detto che questi morti sarebbero morti invano. No, colleghi, no, non sono morti invano. E non sono morti invano non soltanto per il motivo ideale per cui chiunque muore per una idea non muore mai invano, perché afferma morendo l’idea per cui è vissuto, ma per motivi di politica concreta, perché essi hanno conquistato all’Italia qualche cosa, ci hanno conquistato la libertà, ci hanno conquistato questa Assemblea repubblicana, questa tribuna dalla quale ora parliamo (Vivi applausi a sinistra ed al centro); ci hanno conquistato fra l’altro – e bisogna pure dirlo e riconoscerlo – hanno conquistato all’Italia una condizione che è profondamente diversa da quella in cui si trova la Germania e in cui noi pure ci saremmo trovati se non ci fosse stata la lotta liberatrice del nostro popolo e il sacrificio dei nostri morti. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Vero è che l’iniziativa della lotta di liberazione, soprattutto in quelle regioni che più a lungo hanno sofferto sotto il giogo dell’invasione tedesca e del tradimento fascista, l’iniziativa della lotta di liberazione fu di popolo e non di Stato. Essa ebbe inoltre una impronta particolare, politica, che le venne da un programma di rinnovamento del Paese, non solo nazionale, ma anche sociale. Da quella iniziativa e da quella lotta doveva sorgere il movimento dei Comitati di liberazione, movimento il quale aveva il suo programma e lottò per realizzarlo, ma noi sappiamo attraverso quali difficoltà, superando quali resistenze.

È vero, colleghi, sono venuti in questa Assemblea in stragrande maggioranza rappresentanti di quei partiti i quali dall’inizio alla fine sinceramente vollero i Comitati di liberazione, militarono in essi, riconobbero che quella era la via maestra per la riorganizzazione della vita nazionale. Coloro invece i quali condussero le campagne che voi ricordate, di denigrazione e di disgregazione del movimento dei Comitati di liberazione, non li vedo in misura notevole in quest’aula. Non vedo l’avvocato Cattani che condusse contro i Comitati di liberazione quelle lotte memorabili! Mi hanno detto che avrebbe raccolto duemila voti in un solo Collegio d’Italia: pochi di fronte a una massa di 25 milioni di elettori; il che vuol dire che il popolo italiano ha riconosciuto quale era la via giusta: e in ciò è la risposta implicita alle critiche che qui ancora abbiamo sentito risonare contro la formazione politica che fu alla testa del Governo e della Nazione sino al 2 giugno, sino alla convocazione dell’Assemblea Costituente.

Ho aperto questa parentesi partendo dalla constatazione che l’iniziativa del movimento di liberazione è stata più di popolo che di Stato, per arrivare alla constatazione che non sempre le idee rinnovatrici che animarono la lotta di liberazione e soprattutto animarono i lavoratori, riuscirono a ispirare la nostra politica, ivi compresa la politica estera. Forse anche in questo è da ricercare uno dei motivi per cui le carte mancarono a un certo momento nelle mani di chi doveva giocarle.

Ma qui si apre un altro capitolo: quello delle possibili critiche alla nostra politica estera. Voi sapete che determinate critiche le abbiamo formulate ed espresse, con le cautele, con le riserve che la nostra responsabilità ci imponeva. Ritengo non sia ancora questo il momento, né la sede opportuna per sviluppare a fondo le nostre critiche, perché lo stesso senso di responsabilità ancora ci trattiene. Desidero però sottolineare e sviluppare davanti a voi, se mi permettete, alcuni punti, e prima di tutto desidero ripetere ancora una volta – e chiamo a testimoni i colleghi che furono con me, nei precedenti Ministeri – che noi non abbiamo mai manifestato dissensi sugli obiettivi della nostra politica estera; non abbiamo nemmeno mai avanzato subordinate a questi obiettivi. Ho sentito, ho letto che oggi si incominciano ad avanzare determinate subordinate: vuol dire che si incomincia a fare una politica, In fondo il pregio di una politica estera sta proprio nel sapere in un momento determinato, ma giusto – non quando le questioni sono già risolte – avanzare quelle determinate subordinate che possono servire a migliorare tutto lo schieramento degli altri a nostro favore e soprattutto a spostare a nostro favore le forze decisive. Non desidero oggi però discutere di queste possibili subordinate: abbiamo una Commissione degli Affari esteri, ed in essa, se sarà necessario, discuteremo più a fondo.

Desidero soltanto ricordare che se c’è stato da parte nostra un dissenso, questo è stato prima di tutto nella graduazione dell’importanza relativa degli obiettivi della nostra politica estera. Al di sopra di tutto, al di sopra di qualsiasi rivendicazione particolare, noi poniamo oggi due beni fondamentali che debbono essere rivendicati, riconquistati e difesi ad ogni costo: essi sono la indipendenza del Paese e la pace per il popolo italiano. (Applausi a sinistra).

Siamo d’accordo con l’onorevole Lombardo, quando afferma che per difendere l’indipendenza italiana, il metodo da seguire è quello di non far aderire, di non legare l’Italia a nessuno dei blocchi che sembrano opporsi nel mondo e di cui tanto si parla.

Senza alcun fondamento è la critica che ci si fa, che noi avremmo proposto che il nostro Paese aderisse ad un così detto e non so in quale misura esistente blocco orientale. Non abbiamo mai fatto proposte simili, bensì abbiamo chiesto che verso l’Unione Sovietica – il più grande degli Stati continentali europei, la più grande potenza industriale e agricola d’Europa, lo Stato che noi sappiamo aver dato il contributo più grande nella lotta terrestre, per la nostra salvezza e che è inoltre, uno Stato socialista – venisse usata la stessa cordialità, e venissero prese nei suoi confronti le stesse iniziative politiche che venivano prese nei confronti di tutte le altre grandi Potenze. Nessun servilismo verso gli uni; la stessa condotta sia verso gli uni che verso gli altri. Questo è ciò che abbiamo sempre richiesto, questa è la politica estera che abbiamo rivendicato.

Ma invece abbiamo visto dilagare nella stampa italiana una campagna sfrenata di ingiurie, di calunnie e di provocazioni contro l’Unione sovietica. La nostra stampa qui a Roma è diventata in un certo momento la stampa che sta all’avanguardia, credo, in tutto il mondo, nelle campagne di calunnie, di discredito, di provocazioni contro l’Unione dei Soviet. (Commenti).

Voi sapete a quali giornali mi riferisco, a quali campagne mi riferisco. Queste campagne non potevano non compromettere il nostro Paese. Penso vi fosse effettivamente qualcuno che faceva apposta a orientare e dirigere in questo modo la stampa italiana, perché in questo modo non solo si avvelenava la nostra opinione pubblica, ma si danneggiavano, anzi si rendevano impossibili tutte le nostre iniziative di politica estera.

È ridicolo e vergognoso vedere ancora oggi sui nostri giornali scatenarsi le campagne contro il cosiddetto imperialismo sovietico, come se fosse l’Unione Sovietica che rivendica il dominio di un mare, che giace tra territori lontani migliaia di chilometri da una metropoli, unicamente perché attraverso questo mare, il Mediterraneo, passano certe vie di comunicazioni imperiali; come se fosse l’Unione Sovietica che possiede basi militari a 12 o 14 mila chilometri dal territorio nazionale. (Commenti).

È ridicolo vedere un giornale italiano, – di scarsa importanza, è vero, come tiratura, ma la cui importanza deriva dal suo collegamento con uomini autorevolissimi della nostra politica estera – è ridicolo vedere questo giornale mettere in discussione le frontiere nazionali e militari dell’Unione Sovietica.

Queste sono le cose che noi abbiamo detto, le cose che diciamo e ripetiamo. Tutte queste campagne, tutte queste manifestazioni non potevano non compromettere, e seriamente hanno compromesso la causa della difesa dei nostri interessi nazionali e prima di tutto della nostra indipendenza.

Noi siamo apparsi, a un certo momento, e in parte appariamo ancora, come un Paese il quale abbia già perduto per lo meno la sua indipendenza di giudizio, la sua indipendenza ideologica. Per il nostro popolo questo non era vero e non è vero. Forse era ed è vero per qualche gruppo dei suoi dirigenti.

Vogliamo, dunque, una lotta seria per la difesa e la riconquista della nostra indipendenza. La vogliamo in tutti i campi. Perciò, quando abbiamo avuto notizia dalla stampa che certi Stati tendevano, persino dopo conclusa la pace, a lasciare accampate sul nostro suolo, e per un tempo indefinito, le loro truppe, eserciti stranieri, autorizzati persino ad avere nelle loro file uomini di altre nazionalità, autorizzati a mettere un’ipoteca su tutto quello che può avere in Italia un valore militare, abbiamo levato una energica voce di protesta.

Piani simili devono essere respinti e dal nostro Governo e da questa Assemblea e da tutta l’Italia nel modo più energico, se vogliamo presentarci al mondo col viso di un Paese che è indipendente e che vuole rimanere tale. (Applausi a sinistra).

Noi non vogliamo che l’Italia diventi naviglio portaerei per conto di nessuna potenza imperialistica. Non vogliamo che l’Italia diventi un deposito di bombe atomiche, qualunque sia l’efficienza maggiore o minore di questi ordigni di bellica criminalità. Vogliamo che l’Italia sia un paese libero, autonomo politicamente ed economicamente; sappiamo che abbiamo bisogno dell’aiuto altrui, che dovremo chiederlo e che dovremo anche pagarlo, ma non vogliamo pagarlo con una rinunzia di nessun genere alla nostra indipendenza nazionale.

E dobbiamo difendere la nostra indipendenza anche nelle piccole cose, denunciando e respingendo il sopruso quotidiano nelle regioni, per esempio, dove ancora sono accampate le truppe di nazionalità polacca. (Commenti). Non esagero. È in mie mani un memoriale da me presentato a suo tempo alla Presidenza del Consiglio, il quale contiene un elenco dì atti di violenza e fatti di sangue sino ai più gravi, compiuti da militari appartenenti a queste truppe, contro libere organizzazioni democratiche italiane, contro i nostri partiti. Sia reso onore agli ufficiali e ai soldati polacchi che sono caduti combattendo insieme con noi per la libertà. Non crediamo però che questo sacrificio dia a nessuno il diritto di intervenire nella nostra politica interna con atti di violenza di tipo fascista e crediamo sia compito di un Governo che voglia difendere l’indipendenza d’Italia e condurre una politica estera nazionale chiedere che al più presto queste truppe vengano allontanate dall’Italia e non vi rimangano sotto nessun travestimento. (Commenti – Applausi a sinistra).

Secondo obiettivo fondamentale della nostra politica estera deve essere la difesa della pace; di una pace giusta e permanente. Il popolo italiano ha perduto la maggior parte dei suoi beni, delle sue ricchezze attraverso una politica di guerre imperialistiche, ingiuste, che lo hanno portato alla catastrofe. Ha bisogno di pace e la nostra politica estera gliela deve garantire. Ma, se vogliamo garantire al popolo italiano una pace permanente, dobbiamo prima di tutto soffocare nel germe ogni rinascita di nazionalismo che domani verrebbe sfruttato dagli stessi circoli imperialistici di ieri, dagli stessi reazionari, dagli stessi fascisti, per spingerci ancora una volta per la strada della guerra e della rovina; in secondo luogo non dobbiamo esasperare nessuna delle questioni concrete che ci si presentano, in modo che essa alla fine si presenti come una questione non più solubile se non con mezzi di guerra.

Ad ogni modo, per una politica la quale non garantisca l’indipendenza e la pace del nostro popolo, voi non avrete il nostro appoggio; ve lo dico apertamente, sinceramente.

Il nostro dissenso circa la politica estera dei precedenti Governi riguarda inoltre problemi importanti di metodo, sui quali dirò soltanto poche parole, limitandomi a osservare che quello che ci ha nociuto è il fatto che la nostra politica estera, in determinati momenti, sia potuta apparire come dominata da motivi ideologici o da speculazioni di carattere politico interno antidemocratico. Allo stesso modo ci ha nociuto il fatto di fondare una politica estera soltanto su delle promesse e non su una azione diplomatica concreta, seria; soprattutto poi su promesse sollecitate o date con motivi particolari del tipo che prima ho indicato e che annullavano ogni loro efficacia. In questo modo a noi esiziale si conteneva, per esempio, il nostro Ambasciatore a Washington, Tarchiani, quando lasciava pubblicare, senza smentita, una sua, spero, sedicente intervista nella quale chiedeva l’appoggio a determinate rivendicazioni italiane da parte del Governo e dell’opinione pubblica degli Stati Uniti, dicendo che questo appoggio doveva esser dato per impedire in Italia la marcia in avanti del comunismo o l’estendersi dell’influenza sovietica. (Commenti). Questo tipo di politica estera, questo tipo di raccattare promesse e di sollecitare assicurazioni con motivi di faziosità antidemocratica, è ciò che deve essere abbandonato completamente. Ciò che deve essere abbandonato, e che sopra ogni cosa può nuocerci e ci ha nociuto, è che tra le idee direttive della nostra politica estera, se mai vi sia stata – e se non vi è stata che sia apparsa – una ispirazione anticomunista. Una ispirazione anticomunista è fatale oggi ad una politica estera italiana la quale si proponga gli obiettivi essenziali della difesa dell’indipendenza e della pace.

TIERI. Trieste!

TOGLIATTI. Verrò anche a Trieste.

Una voce. Zona B.

TOGLIATTI. L’ispirazione anticomunista è stata fatale alle grandi democrazie occidentali nel periodo immediatamente precedente questa seconda guerra mondiale da cui siamo appena usciti. È stata fatale alla Francia, è stata fatale al Belgio, è stata fatale alla Cecoslovacchia, è stata fatale alla stessa Inghilterra, è stata fatale a tutto il mondo capitalistico occidentale. L’ispirazione anticomunista è stata uno degli elementi che hanno contribuito allo scatenamento della guerra mondiale, perché ha impedito che si costituisse a tempo un fronte di forze democratiche, nazionali ed internazionali, che potesse impedirla. L’ispirazione anticomunista, oggi, per il nostro Paese, può generare soltanto due cose: la perdita oggi parziale e forse domani totale della nostra indipendenza, trasformandosi il nostro Paese in terra di occupazione e in semicolonia, oppure il nostro isolamento completo.

Evitiamo, evitate voi che fate la politica estera di questo Governo, le ispirazioni anticomunistiche se volete fare una politica estera nazionale corrispondente alle aspirazioni, ai desideri, alle necessità del popolo italiano.

Sulle singole questioni concrete del trattato di pace non voglio ora entrare. So quali sono le più ardenti. So quali sono le più difficili a risolversi. So che fra queste vi è la questione di Trieste.

Continuo a ritenere – e il mio Partito ritiene – che il metodo più appropriato per la soluzione della questione di Trieste, fosse dal primo momento quello delle trattative e dell’accordo diretto con la Jugoslavia. Ritengo che nonostante in questo momento si sia arrivati a un tal punto di esasperazione dalle due parti, ancora oggi la soluzione più favorevole non la troveremo che quando riusciremo a trovare la strada di queste trattative, di questi accordi.

Quando ieri, onorevoli colleghi, ho letto sui giornali che sui cantieri dì Monfalcone, in seguito ad un conflitto ivi svoltosi tra operai e industriali, erano state issate le bandiere anglo-sassoni, questa cosa non mi ha per nulla rallegrato, perché so che i cantieri di Monfalcone sono una creazione dell’ingegno e del lavoro italiano (Commenti) e non è per nulla una consolazione per me il sapere che su di essi sia issata una bandiera inglese o americana. (Rumori – Commenti).

E lo stesso per Trieste. Il giorno che ci trovassimo di fronte al risultato di avere, come conseguenza della politica da noi seguita, installato a Trieste, come dominatori o arbitri, i rappresentanti delle potenze anglosassoni, per quanto questo possa essere una cosa conveniente, commercialmente o militarmente, per queste potenze, ritengo che non avremmo raggiunto un risultato nazionale degno di nota. Al contrario. Un risultato nazionale degno di nota lo avremo raggiunto solo il giorno in cui fossimo riusciti a Trieste a trovare una soluzione che garantisca l’accordo e la collaborazione permanente coi popoli jugoslavi.

Una voce. La trovi lei.

TOGLIATTI. Non sono il Ministro degli esteri (Commenti).

Una voce. È comodo (Rumori – Commenti).

TOGLIATTI. Ciò che dico è del resto nella tradizione di una politica nazionale italiana; di una tradizione che parte da Cavour, che continua con Visconti Venosta e con tutti i Ministri degli esteri italiani, che seppero fare una intelligente politica nazionale, infine con quella sinistra democratica, antidalmatina, antizaratina, antifiumana, la quale ebbe una parte abbastanza importante nelle lotte dell’altro dopo-guerra. Quando quella corrente scomparve, non essendo riuscita a influenzare in modo decisivo l’opinione pubblica; quando essa fu sommersa dall’ondata nazionalistica, noi sappiamo quali furono le conseguenze. Di lì nacque il fascismo.

Io mi auguro che nelle prossime conversazioni e consultazioni internazionali riesca al nostro Governo di garantire all’Italia una pace giusta, una pace che ci assicuri le migliori condizioni possibili, data la nostra situazione e il punto cui già si è arrivati, ed una pace, soprattutto, la quale soffochi, estingua i motivi di contrasto fra noi ed i popoli d’Europa e soprattutto fra noi e i popoli che confinano col nostro Paese.

E vengo alle questioni di politica interna, fra cui quelle economiche hanno preso, e non potevano non prendere, il sopravvento.

Abbiamo presentato all’inizio delle conversazioni fra i diversi partiti un programma di cui non sto a ricordare tutti i punti; perché voi li conoscete. Uno dei punti era la richiesta di un adeguamento dei salari, degli stipendi, delle pensioni, un aumento dei sussidi di disoccupazione e un’azione organica, vasta, energica per alleviare il flagello della disoccupazione. Abbiamo discusso, confrontando questo nostro programma con quelli presentati dagli altri partiti, e voi tutti conoscete le fasi della discussione. Alla fine abbiamo accolto, come misura di compromesso, la concessione del premio della Repubblica, cioè un limitato aumento salariale per un limitato periodo di tempo, in attesa che si realizzi la speranza, che noi condividiamo e a realizzare la quale vogliamo collaborare, che si riesca a ridurre il costo della vita con altri provvedimenti.

Ci si è detto: voi volete l’inflazione, dunque volete la rovina del ceto medio e di tutto il Paese. No, signori, non vogliamo l’inflazione, e respingiamo sdegnosamente questa accusa. Mi riferisco qui ancora una volta a coloro che furono colleghi con me nei passati Ministeri, perché essi attestino che noi sempre demmo, senza alcuna riserva, la nostra approvazione a tutte le misure le quali erano dirette ad evitare una inflazione. Alcune di queste misure, anzi, come per esempio il prestito lanciato dal povero collega Soleri, poco prima della liberazione del Nord, fu una misura che noi avevamo reclamato insistentemente per sei mesi, prima ancora che Soleri si decidesse a far sua la nostra proposta, perché vedevamo in essa un mezzo efficace di lotta antiinflazionistica. Sappiamo che cosa la inflazione potrebbe significare in un Paese così profondamente disorganizzato come il nostro. La inflazione non la vogliamo. Desidero aggiungere infine che se l’altro ieri il Ministro del tesoro ha potuto, in una Assemblea come questa, fare risuonare per la prima volta il termine di pareggio del bilancio ordinario, questo è il risultato di un’azione che è stata svolta da un Ministro comunista.

Le misure da noi presentate rimangono un programma concreto antiinflazionistico, un programma che tiene conto però del punto cui è arrivata la situazione economica generale, e soprattutto del punto cui è arrivato il popolo, del punto cui sono arrivate le classi lavoratrici, cioè della urgenza con cui sono sentite dai lavoratori determinate necessità, urgenza tale, per cui qualunque cosa si decida o si faccia, ad un certo momento queste necessità dovranno essere soddisfatte.

Meglio è dunque partire con una previsione larga, con una prospettiva avanzata, con un piano di misure bene organizzate, e realizzarlo, attraverso una forte direzione governativa, che non attendere passivamente che gli eventi maturino.

Il fatto è che si è arrivati a un punto, oltre il quale determinate categorie di cittadini, le più numerose, quelle degli uomini che vivono del loro lavoro, nelle fabbriche, nei campi, negli uffici, non possono più andare avanti. Siamo arrivati all’osso: con 2 milioni di disoccupati, che prendono 35 lire al giorno, e non tutti; con salari, per comune riconoscimento, inferiori, e di molto inferiori, per la maggioranza delle categorie, alla metà di ciò che è necessario per vivere; con stipendi, che nei gradi più alti vengono in certo modo integrati col sistema dei premi, ma che nei gradi medi e inferiori sono inadeguati alle necessità primordiali dell’esistenza, con pensioni che non è retorico dire che bastano solo a non morire di fame, perché vi è in Italia gente che già muore di fame.

Siamo arrivati a un punto tale, che un Governo, il quale sia un Governo nazionale, che si preoccupi degli interessi permanenti della Nazione e non degli interessi di una sola categoria di cittadini privilegiati, deve porsi il problema della integrità fisica del popolo e della salvaguardia di essa.

Ho visto che parecchi di voi hanno prestato attenzione alle cifre sull’aumento della mortalità infantile, fornitemi da un insigne scienziato italiano e da me pubblicate sulla Rinascita. Sono cifre di tragedia, ma un quadro analogo e forse anche più tragico voi avreste, se prendeste a esaminare – e dovete prenderle – le cifre della tubercolosi, delle malattie veneree, della diffusione di altre malattie negli strati popolari, le cifre della diminuzione di rendimento del lavoro nelle fabbriche, direttamente legata, questa, alla permanente insufficienza della razione del pane, di quello che i lavoratori mangiano e di quello che sanno di poter mangiare domani.

Di qui anche la disgregazione morale, il dilagare dei vizi, della corruzione, della prostituzione nelle città.

Perché avviene questo? Perché abbiamo chiesto ai lavoratori italiani uno sforzo enorme, superiore alle loro possibilità fisiche. Lo abbiamo chiesto noi e lo hanno chiesto i regimi che ci hanno preceduto. I lavoratori sono stati mandati prima a fare la guerra, una guerra in cui la maggior parte di loro non credeva, ed hanno perduto non so quanti anni della loro esistenza in campi di prigionia, da cui sono ritornati sfiniti, esauriti, esasperati, incapaci alle volte di riprendere a lavorare. Poi abbiamo chiesto ai lavoratori di combattere la guerra di liberazione; e l’hanno combattuta; e hanno lasciato nuove vittime. Abbiamo chiesto loto di sacrificarsi per salvare il macchinario, il capitale tecnico della Nazione: lo hanno fatto. Abbiamo chiesto loro di ridurre il tenore della propria esistenza; e questo è stato ridotto. Cosa vogliamo chiedere, cosa possiamo chiedere di più ai lavoratori, i quali dicono di non potere più andare avanti?

Ci è stato detto che bisogna tranquillizzare le classi possidenti. Ma io vi chiedo: che cosa abbiamo fatto fino ad oggi, che possa far perder loro la tranquillità? Che cosa abbiamo fatto di così minaccioso, di così terribile? Quali misure sono state prese per incidere sui privilegi delle classi possidenti?

Nessuna, o quasi nessuna! Non abbiamo fatto il cambio della moneta, perché è stato levato contro di noi uno spauracchio, per non lasciarcelo fare. Non ci siamo messi d’accordo per applicare una imposta sul patrimonio. Paghiamo un tasso d’interesse superiore a quelli che si pagano in tutti gli altri paesi e il nostro Ministro del tesoro, – che si dice deflazionista! – ci annuncia che il tasso di sconto dovrà crescere. Non sono stati ancora riveduti i contratti di lavoro delle principali categorie industriali e quindi non sono state riconquistate quelle posizioni che i nostri operai avevano conquistato prima del fascismo, e alcune delle quali erano riusciti a mantenere anche dopo, mediante la loro resistenza. Non abbiamo ancora rifatto i contratti per i lavoratori agricoli, e quindi, per lo stesso motivo, alcune delle conquiste che voi, democratici cristiani, negli anni dal 1920 al 1922, eravate riusciti a realizzare, si presentano ancora come un sogno, che sta troppo al di là delle condizioni odierne dei lavoratori della campagna.

Che cosa abbiamo fatto dunque per destare così serie preoccupazioni nelle classi possidenti?

Io riconosco che se i ceti possidenti, quando ci chiedono la tranquillità, la intendono nel senso che vogliono conoscere un programma preciso di Governo, in modo da sapere esattamente che si farà questa o quest’altra cosa a un certo momento, hanno ragione: ciò è necessario perché l’iniziativa privata possa svilupparsi e dare il contributo che deve dare alla ricostruzione.

Ma se, quando ci parlano della loro tranquillità, questi signori possidenti intendono che non si debbano far ricadere su di loro e sui responsabili le spese della catastrofe nazionale, allora non possiamo consentire.

Se quando ci parlano della loro tranquillità intendono che dovremmo impegnarci a rinunciare alle misure di rinnovamento della economia e della struttura del Paese, di cui tutti i grandi partiti riconoscono e hanno affermato la necessità, perché sentono che solo attraverso queste misure riusciremo a rendere impossibile la rinascita del fascismo e dare ai lavoratori la possibilità di portare tutto il contributo che devono alla ricostruzione del Paese; se questo ci chiedono, anche a questo dobbiamo rispondere di no: che non siamo d’accordo.

Ma qui il problema non è più economico, diventa politico: diventa il Problema – scusate, non voglio spaventarvi, ma è necessario guardare in faccia questo problema – della ricostituzione e della rinascita di un movimento reazionario e fascista che scateni la stessa offensiva che scatenò allora contro le classi lavoratrici e contro il ceto medio per riversare su questo e su quelle le conseguenze della guerra e della catastrofe.

Io non credo che il pericolo di una rinascita fascista stia nei giovani che credettero in passato nel fascismo, che ora sono profondamente delusi, dispersi, e cercano una nuova strada. A questi giovani abbiamo voluto perdonare; abbiamo voluto fare verso di loro un atto di clemenza affinché, rinunciato al fascismo, si ricongiungano ai gruppi sociali ai quali appartengono, e come lavoratori, come produttori, riprendano a lavorare e combattere insieme a tutti noi per la ricostruzione d’Italia.

Non è qui il pericolo, come non credo che stia in quelle masse o gruppi di lavoratori, di reduci, di disoccupati che in alcune regioni specialmente meridionali hanno votato per il partito dell’Uomo Qualunque. Questi gruppi hanno pure delle necessità a cui dobbiamo dare una soddisfazione e se la loro manifestazione politica è stata fatta per richiamare l’attenzione sul fatto che questa soddisfazione deve essere data, ebbene noi dobbiamo comprenderla e adeguarci a questa esigenza.

Il pericolo della rinascita fascista sta invece nel fatto che vediamo organizzarsi e muoversi, con lo stesso metodo di allora, le stesse forze sociali di allora, gli uomini che hanno nelle mani la Confederazione degli industriali e la Confederazione degli agricoltori; questi uomini, che nemmeno accettano il lodo per la mezzadria, il quale non corrisponde ad altro che ad un premio di liberazione dato a una categoria dei lavoratori della terra; questi uomini che nemmeno il premio della Repubblica, questo limitato e temporaneo aumento di salario, non vogliono che sia dato, se non dopo che si sia scatenata una lotta attraverso la quale i lavoratori se lo conquistino.

Ecco dove sta il pericolo. In questi gruppi sociali, in questi uomini e nei loro portavoce, che noi vediamo spuntare di nuovo da tutte le parti, che si stanno insediando di nuovo alla testa delle società anonime, delle grandi associazioni industriali, dei grandi consorzi di agricoltori, mentre i loro portavoce ricompaiono sulla stampa, tutti, fino ai più abietti di essi, fino a Delcroix, uomo che fu bollato, come tutti ricordate, dal nostro povero Gobetti, ed ora riprende a scrivere come se dovesse lui dare una lezione alla Nazione italiana che egli ha contribuito a portare alla rovina. (Vivi applausi a sinistra e al centro).

Stiamo attenti al pericolo, cerchiamo di comprendere come a questo pericolo si deve far fronte tutti insieme e sin dall’inizio. Domani, quando esso si fosse già manifestato nel modo più aperto sul terreno politico, forse troveremmo più facilmente la via della unità per fronteggiarlo; ma credo sia saggia politica trovare oggi la via dell’unità sul terreno dell’azione economica rinnovatrice del Paese, di un’azione la quale deve riuscire a impedire che i gruppi e gli uomini che una volta ci dettero il fascismo e ci portarono alla rovina riescano o tentino un’altra volta di prendere nelle mani le sorti dell’Italia, oppure fermino la mano del Governo quando cercherà di fare opera di rinnovamento politico, economico e sociale della Nazione.

Debbo dire a questo punto che siamo rimasti alquanto perplessi – almeno noi del gruppo comunista – a sentire le dichiarazioni dell’onorevole Corbino, perché è sorto in noi il dubbio prima di tutto che queste dichiarazioni, apparentemente descrittive, non celassero un contrasto con la politica economica, esposta dal Governo. Questa politica contiene infatti parecchi elementi nuovi che sono la sua sostanza e di cui attendiamo la realizzazione. L’onorevole Corbino invece si è presentato e ci ha detto: «La mia politica ha avuto successo. Continuiamola».

Ha avuto successo? Mi permetto di dubitarne. L’onorevole Corbino ha svolto una determinata azione, la quale, mi pare, sia consistita essenzialmente nel far fronte ai bisogni di cassa con l’emissione di buoni del tesoro, il che non è – soprattutto quando queste emissioni raggiungono le cifre che egli ci ha qui indicate – il mezzo normale di indebitamento dello Stato. È un mezzo anormale, pericoloso, molto pericoloso. Pericoloso prima di tutto sotto l’aspetto economico, perché quando lo stesso Corbino ci parla di quei 150 miliardi di beni produttivi, di materie prime, che non vengono impiegati perché il capitale che ad essi corrisponde non viene messo in circolazione, io desidererei chiedergli se questo non avviene perché egli ha immobilizzato questo capitale con la sua politica di rastrellamento dei risparmi a mezzo dei buoni del tesoro.

Il pericolo appare ancora più chiaro quando si pensi che questa enorme massa di debito fluttuante, che non serve più soltanto per colmare difficoltà o squilibri mensili di cassa, ma serve a finanziare tutta l’attività straordinaria ricostruttiva del Governo, essendo una massa, come dice la parola stessa, fluttuante, rappresenta un rischio: il rischio che essa possa a un certo momento e all’improvviso defluire dal luogo ove essa è affluita. Rischio economico, e rischio politico, perché nulla è peggiore per un Governo, il quale si propone di adottare e applicare determinate misure di rinnovamento economico, nulla è peggiore che l’avere un Ministro del tesoro il quale da un momento all’altro può presentarsi e dire: «Alt! questo non lo potete fare, se no incomincia il deflusso». Ricordo – e forse la ricorderanno anche i colleghi che erano allora con me – una seduta del Consiglio del Ministri, dove, a partire dall’onorevole Scoccimarro fino a Brosio e Cattani, eravamo tutti d’accordo che si dovesse fare il cambio della moneta; ma non se ne fece nulla perché un uomo disse di no, e disse di no proprio per quell’argomento. Stia attento, onorevole Presidente del Consiglio, che questo «no» non le venga ripetuto, e con lo stesso argomento, quando si tratterà di mettere mano al programma di rinnovamento economico, all’organizzazione dell’industria elettrica, o a un programma serio di lavori pubblici, o a misure serie di miglioramento delle condizioni di determinate categorie di dipendenti dello Stato, cioè quando sarà necessario fare cose che sono indispensabili e che sono scritte nel programma stesso del Governo.

È vero che l’onorevole Corbino ha terminato parlando di fede. Riconosco che a questo proposito l’onorevole Presidente del Consiglio è più competente di me. (Ilarità). Dicevamo, però, che «fede è sostanza di cose sperate». Non vedo nulla di male nel fatto che l’onorevole Corbino speri, come anche noi speriamo, come tutti sperano, che le cose vadano meglio; o, che è lo stesso, che il Signore ce la mandi buona – come ha detto nel corso della discussione un deputato democratico cristiano. Fede, però, è anche «argomento di cose non parventi», e temo che il nostro Ministro del tesoro tendesse più a questa seconda definizione che alla prima. «Argomento di cose non parventi», appunto perché non siamo convinti che se il programma del Ministro del tesoro, come si manifestò nel passato, dovesse continuare ad essere il programma del Governo, si riuscirebbe a realizzare il programma vero del nuovo Governo, quello al quale noi diamo la nostra approvazione.

Temiamo che se quella dovesse essere la direttiva della politica economico-finanziaria governativa, il Governo sarebbe costretto a fare la peggiore delle cose. La peggiore delle cose è che sul frontone del palazzo dove siedono e lavorano i nostri Ministri si scriva: «Qui si vive alla giornata». La peggiore delle cose è quando tale scritta sta sul frontone del palazzo dove siede e lavora il Ministro del tesoro. Oggi non si può vivere alla giornata. Bisogna saper prevedere; e lo sforzo che facemmo nel presentare il nostro programma e nel dare un contributo all’elaborazione del programma governativo, era precisamente uno sforzo di previsione e di adeguamento di una determinata attività governativa a questa previsione. Occorre prevedere, e prevedere soprattutto che, dato che per determinate categorie di lavoratori le condizioni di esistenza sono diventate insopportabili, in un breve periodo di tempo sarà necessario di far fronte alla situazione, altrimenti ci si troverà di fronte a movimenti disordinati, incomposti: il prefetto portato sulla piazza e costretto a firmare non so quali impegni; gli industriali obbligati da un determinato movimento a concedere 50 milioni per opere pubbliche, e così via. Io mi chiedo: è questa la prospettiva di un Governo ordinato? No, questa non è una prospettiva accettabile, perché se le cose si dovessero sviluppare così, non avremmo più un vero Governo e non si farebbe nemmeno fronte alle vere esigenze delle classi lavoratrici. Né si tratta di far fronte alla situazione come fece Noske, che sparò sugli operai, e di cui mi par che qualcuno qui abbia fatto il nome.

Nessuno può sparare, oggi, sui lavoratori, sui reduci, sui disoccupati! Non si spara sui lavoratori dopo che questi hanno salvato l’Italia col loro sacrificio nella guerra di liberazione. (Applausi a sinistra). Non crediate di poter aver mai la nostra collaborazione o anche solo la nostra tolleranza per una politica simile.

Una politica simile incontrerebbe, del resto, prima di tutto la resistenza e la ripugnanza dei lavoratori democristiani, iscritti alla Confederazione del lavoro e alle stesse associazioni cristiane dei lavoratori. Non sarebbe una politica cristiana.

Occorre quindi prevedere, avere un piano economico e finanziario preciso e lavorare alla realizzazione di esso. Abbiamo espresso il dubbio che la politica esposta dal Ministro Corbino non sia in coincidenza con questo piano.

Chiediamo che per la realizzazione del piano economico-finanziario del Governo si lavori sul serio. È necessario che il nostre Paese cessi di essere quello di cui l’onorevole Corbino, credo, si compiaccia soprattutto: il Paese della assoluta libertà economica. Noi siamo, sotto questo aspetto, una eccezione in tutta l’Europa e in tutto il mondo; siamo il solo Paese dove si lascia fare tutto, dove si lascia libertà alla speculazione, dove si approvano da parte del Governo misure legislative contro gli speculatori che poi nessun prefetto si degna di applicare. Siamo il solo Paese dove non si fa una lotta sistematica contro il mercato nero. Quando si parla di inflazione e dei rapporti fra inflazione e prezzi, perché non si tiene conto di questo semplice fatto che da 15 giorni in qua la massaia ha pagato le pesche circa 30 lire di più al chilogrammo sul mercato di Roma, senza che l’onorevole Einaudi abbia emesso nessun biglietto, ma unicamente perché è intervenuto un elemento di speculazione che non siamo in grado né di controllare, né di ostacolare? Dobbiamo cessare di essere il Paese dell’assoluta libertà economica. Appunto perché siamo il Paese più rovinato e disgregato, appunto per questo dobbiamo dividere più giustamente i nostri scarsi beni di quanto non sia necessario a coloro che vivono in Paesi più ricchi.

Il Governo si propone di svolgere un’attività direttiva economica attraverso il Comitato di ricostruzione: attraverso 1’I.R.I. Sta bene. Salutiamo queste proposte per quanto hanno di efficace, ma vorremmo che questa attività direttiva scendesse dalla sommità fino alla periferia, che il Comitato per la ricostruzione non si limitasse a essere un’assemblea di Ministri che espongono i loro punti di vista e poi ritornano all’ufficio loro e ognuno fa quello che gli pare e piace, mentre i funzionari continuano a lavorare come prima. Occorre che, come voi Governo avete un programma di emergenza, simili programmi di emergenza siano elaborati nelle provincie, con il contributo dei rappresentanti di tutte le categorie dei lavoratori e dei produttori, in modo che tutto il popolo veda che noi lavoriamo sul serio nel suo interesse, per soddisfare le sue necessità, elementari. Allora, quando il popolo vedrà questo, noi potremo chiedergli lavoro, e anche sacrifici, e ce li darà. Altrimenti non so quale potrebbe essere il successo di un Governo.

Ma il quadro a questo punto si allarga, sino a comprendere quelle misure di rinnovamento economico che nel programma governativo sono pure comprese e che dovranno essere realizzate, e non nel corso di alcuni anni, come si è detto, ma subito. Ritengo, infatti, che anche queste siano misure di emergenza. L’istituzione dei consigli di gestione nell’industria è indispensabile per riuscire a controllare e dirigere l’attività industriale e quindi riorganizzare l’industria, indispensabile per dare uno slancio alla massa operaia, per interessarla alla soluzione dei problemi della produzione. Né può mancare quell’inizio di riforma agraria, che nel programma governativo è enunciata e che in realtà è modesta cosa: centomila ettari, mi pare, non so in quanto tempo. Ricordiamo che coi semplici decreti Gullo – riproduzione di una vecchia legge che fece l’onorevole Micheli nel tempo in cui non aveva ancora deciso. di consacrare la sua perizia nei problemi agricoli alla Marina da guerra (Ilarità) – coi semplici decreti Gullo sono stati distribuiti più di 60 mila ettari di terre ai contadini. È vero che da queste terre una parte dei contadini tende ora a ritirarsi perché non ha i mezzi per renderle feconde. Occorre darli questi mezzi e occorre chiedere che, nelle regioni del Mezzogiorno, dove il latifondo ancora pesa su tutta la vita economica e sociale, quote adeguate di terra siano date da ogni grande proprietario per la ripartizione immediata ai contadini, garantendo lo Stato ai contadini i mezzi che permettano la coltivazione.

Tutte queste misure sono comprese nel programma governativo: noi le approviamo e chiediamo che vengano realizzate, e realizzate presto. Questa, vorrei dire, è la base dell’unità di questo Governo: quindi è la base della sua efficienza.

Il Partito democratico cristiano approvava nel mese di ottobre dell’anno scorso una risoluzione nella quale si parla dei problemi economici e sociali del Paese e nella quale si afferma la necessità di una profonda opera di rinnovamento. Si parla, in questa risoluzione, tra l’altro, di una politica di solidarietà vasta e comprensiva di tutto il popolo, di una democrazia economica e sociale, di una riforma agraria che elimini i tipi di proprietà parassitaria e antisociale, di una riforma industriale che sottoponga al controllo la grande industria ed elimini le posizioni monopolistiche, di un intervento nella direzione della impresa dei lavoratori, dei tecnici, dei consumatori, di una riforma finanziaria di carattere democratico e così via.

Onorevole De Gasperi, noi non le chiediamo altro se non di applicare questo programma. Applichi questo programma e avrà dato il più grande contributo alla creazione di una permanente unità delle grandi masse lavoratrici, qualunque sia il partito di massa al quale esse appartengono, perché ella avrà dato un contributo al rinnovamento politico e sociale d’Italia. Noi l’attendiamo a questa prova. Ma stia attento, onorevole De Gasperi, che, nel momento in cui ella si accingerà a realizzare questo programma, stia attento che non sorga un braccio, una mano che la trattenga, e che questo braccio non sorga dal seno stesso dal suo Governo. Stia attento che una mano che la trattenga su questa strada non sorga dal seno del suo stesso partito (Commenti – Applausi a sinistra).

Una voce. No.

LEONE. Siete solo in tre a dire no! (Commenti).

TOGLIATTI. Ed io dico questo perché so, e mi permettano gli onorevoli colleghi democristiani di ricordarlo, contenendo per qualche istante la loro suscettibilità, che la loro campagna elettorale è stata fatta su una duplice rotaia: da un lato questo programma, e le affermazioni, secondo le quali, in sostanza, non vi sarebbe differenza tra il programma sociale dei socialisti e dei comunisti e quello democristiano, e dall’altro lato una campagna sfrenata anticomunistica. Le due cose sono in contraddizione, le due cose non si possono conciliare…

Una voce. No.

PALLASTRELLI. Si tratta di differenza di metodo.

TOGLIATTI. L’una elimina l’altra (Commenti – Interruzioni) se non immediatamente, a una certa scadenza.

L’ispirazione anticomunistica rovina l’Italia se diventa l’ispirazione della nostra politica estera; ma rovina l’Italia o la rovinerà anche se diventerà l’ispirazione della nostra politica interna.

Desidererei attirare la vostra attenzione su un semplice fatto molto significativo. Di tutti i partiti che hanno affrontato la lotta elettorale e siedono in questa Assemblea, il partito che ha riportato, in confronto degli ultimi risultati elettorali del 1924, la maggiore affermazione, è il nostro.

I socialisti hanno conservato su per giù le loro posizioni; voi (Rivolgendosi al centro) avete raddoppiato le vostre; i liberali… le hanno viste sensibilmente ridotte (Si ride); noi, che avevamo avuto allora appena 300.000 voti, ne abbiamo ottenuti ora 4.300.000. Siamo il partito che ha riportato – non vi rincresca l’affermazione – il più grande dei successi elettorali; siamo una forza con la quale non si possono non fare i conti; siamo una forza con la quale non si può non collaborare se si ha con essa un accordo programmatico e se si vuole fare opera utile per la nazione italiana e di ricostruzione della vita economica e sociale. (Applausi all’estrema sinistra).

Diceva l’onorevole Nitti che la Repubblica deve essere conservatrice. No, onorevole Nitti, la Repubblica non può essere conservatrice. Se questo è il suo punto di vista, noi non siamo soltanto delle parallele, che non si incontrano mai, ma siamo delle linee rette che non si incontreranno mai perché giacciono su piani che non hanno nessun possibile punto di contatto.

Che cosa conservare? L’eredità del fascismo? La dobbiamo liquidare invece, e il più presto possibile, nel campo internazionale, nel campo interno, nel campo economico e sociale e in quello morale. Che cosa conservare? Due milioni di disoccupati? I salari di oggi, le condizioni di oggi della nostra industria, della nostra agricoltura, la struttura attuale economica del Paese da cui una volta è uscito il fascismo ed il fascismo è pronto a risorgere, e affermarsi ancora una volta? Che cosa dobbiamo conservare? Questa distinzione, questo abisso tra Nord e Sud che grava come una palla di piombo su tutta la nostra vita nazionale? No, dobbiamo andare incontro a tutti questi problemi, risolverli, liquidare tutte queste eredità del passato. Il problema stesso del Mezzogiorno non lo risolveremo soltanto con piccole riforme, con piccole concessioni a questo o a quel comune, o provincia, o regione. Dobbiamo affrontarlo in pieno, attraverso la riorganizzazione della nostra industria e attraverso la realizzazione di una profonda riforma agraria. Qui non vi è niente da conservare; tutto è da rinnovare. Ma dobbiamo andare incontro al Mezzogiorno anche con misure politiche.

Onorevole Finocchiaro Aprile, noi abbiamo combattuto tenacemente contro il separatismo siciliano. Non rinneghiamo nulla di questa lotta, perché abbiamo considerato che i lavoratori della Sicilia non avevano il diritto, avanzando una questione di separatismo, di porre in discussione un problema che non era e non è soltanto siciliano, ma è di tutta l’Italia: il problema della nostra unità.

Per questo vi abbiamo combattuto, ma riconosciamo che i torti fatti al popolo siciliano e ad altre regioni meridionali dallo Stato accentratore e burocratico devono essere riparati anche sul terreno politico con larghissime concessioni autonomistiche. In questo ambito dovremo e potremo collaborare.

Non conservare, dunque, ma rinnovare l’Italia. Questo deve fare la Repubblica. Ho sentito parlare da molti oratori, in tema di politica estera, della missione che incomberebbe all’Italia nel mondo. Credo che oggi incomba a noi una missione di civiltà la quale consiste in questo: che dobbiamo diventare noi stessi un Paese civile.

Abbiamo perduto molto tempo. Sulla base della formula dei Comitati di liberazione nazionale avremmo potuto ottenere molto di più e non è stata colpa forse di nessuno di noi in modo particolare, ma della situazione a cui l’Italia era stata portata, e anche della politica di certi funzionari del controllo alleato, politica molte volte gretta nelle singole misure politiche, economiche, amministrative, politica che troppo tardi si è accorta che il popolo italiano era ed è maturo per governarsi da sé, politica che troppe volte ha cercato di seminare fra gli italiani la discordia, come quando piovevano sul tavolo del Presidente del Consiglio, del Ministro degli interni, del Capo della polizia i rapporti denunzianti il nostro Partito perché ogni 15 giorni avrebbe organizzato insurrezioni e colpi di mano, e i compagni Longo e Moscatelli ogni 15 giorni erano denunciati di partire e di raccogliere truppe per fare non so quale marcia comunista su Roma. Tutto questo veniva fatto per seminare la discordia fra di noi. Noi comunisti invece andavamo dai partigiani e dicevamo loro: «Disarmate, lavorate». Andavamo dove c’era il malcontento e dicevamo che del malcontento si doveva fare una volontà di rinnovamento che si traducesse in azione politica coordinata, che fosse di aiuto a tutto il Paese. (Applausi a sinistra).

Non si tratta quindi oggi, onorevoli colleghi, di andare fantasticando quali possano essere i reconditi motivi per cui io non sono nel Governo e quale recondita azione starebbe preparando il nostro Partito. Non si tratta di chiedersi se e quando noi lanceremo l’appello agli operai e ai contadini perché scendano nelle piazze. Lasciate stare queste sciocchezze. Le rivoluzioni non le fanno i partiti. I partiti, se sono capaci, le dirigono e niente di più. Le rivoluzioni scoppiano quando le grandi masse lavoratrici sono ridotte a un punto tale che non possono più andare avanti, e le classi dirigenti si dimostrano incapaci di governare nell’interesse della Nazione.

Ma io voglio citarvi le parole non di un rivoluzionario, bensì di un uomo politico e uomo di Governo italiano, Giovanni Giolitti, che già nel 1900 osservava come «le classi ricche scambiassero le agitazioni economiche addirittura con una rivoluzione sociale», e affermava di sapere che le masse dei lavoratori non si adattavano ad andare avanti perché i salari erano insufficienti non solo a vivere decentemente, ma anche a sfamarsi. Oggi siamo in una situazione per certi aspetti analoga, ma profondamente diversa per altri aspetti. Òggi non si tratta solo di dare libertà alla azione sindacale delle singole categorie, di concedere la libertà di sciopero, oggi si tratta di svolgere un’azione di rinnovamento che modifichi profondamente la struttura, l’organizzazione economica e sociale del Paese. Oggi voi non potete risolvere, non potete nemmeno impostare la soluzione di nessuna questione singola, senza trovarvi davanti. a questioni profonde, di sostanza, che richiedono con urgenza una soluzione.

Occorre rinnovare l’Italia ed occorre rinnovarla nel senso di una. maggiore giustizia sociale, nel senso di una maggiore solidarietà sociale. Occorre rinnovarla nel senso del socialismo. Invano si è dichiarata morta questa idea, invano avete cercato di mettere in soffitta gli uomini che hanno dato a questa idea la forma scientifica; invano, Oggi questa è la realtà che avanza in tutto il mondo, è la realtà che appare nei vostri stessi programmi, quando qualcuno di voi ha il coraggio di affrontare con serietà e sincerità i problemi della riorganizzazione della nostra vita nazionale e di dare una risposta adeguata alle questioni che trovate dinanzi a voi. (Applausi).

La Repubblica deve rinnovare il Paese; deve dare soddisfazione alla volontà di rinnovamento del popolo, volontà di rinnovamento che – siatene convinti – vincerà, trionferà, supererà tutte le resistenze.

Concludo, anzi, ho terminato.

Possa questo Governo realizzare rapidamente e in concordia il suo programma.

Possano rapidamente dissiparsi le nubi cariche di tempesta che ancora gravano sul cielo della nostra Patria.

Possa il popolo italiano marciare, essere guidato con mano sicura, e più rapidamente che sino ad ora, verso la sua rinascita, verso il progresso economico, politico, sociale. (Vivissimi prolungati applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Selvaggi.

SELVAGGI. Onorevoli colleghi; prima di prendere la parola in questa Assemblea, mi è tornato insistente alla memoria un episodio della storia parlamentare russa e della grande rivoluzione di quel Paese. Nel 1917 si discuteva alla Duma non so più quale questione particolare. Un deputato della frazione bolscevica si rivolse a Lenin chiedendogli quale fosse il punto di vista del partito da sostenere nella discussione. Al che si dice che il capo dei bolscevichi rispondesse: «Voi non siete stati mandati lì dentro per discutere. Voi dovrete prendere la parola per imprecare contro la borghesia».

Prendendo la parola in questa Assemblea, creata da una consultazione popolare che rappresentò l’acme di una profonda crisi politica del popolo italiano, che minaccia di squarciare l’unità morale e politica della Nazione, io che in quella lotta assunsi precise posizioni e responsabilità, sento il dovere di dichiarare lealmente, per coloro che mi hanno inviato qui dentro, e per norma degli avversari, che non intendo considerare la mia funzione in questa Assemblea in modo analogo a quello del deputato bolscevico nella Duma. Ed io non imprecherò contro nulla né nessuno. Io non intendo cioè sollevare drammatiche contestazioni sulla situazione uscita dal 2 giugno, che non ammetterebbero sbocchi.

Io ed i miei amici abbiamo inteso combattere una battaglia politica su di una precisa piattaforma politica: la piattaforma della democrazia e della libertà. Abbiamo sempre respinto con angoscia ed orrore la prospettiva di un piano diverso, di un metodo diverso. Abbiamo sempre sentito che sul piano delle soluzioni di forza nessuno in realtà sarebbe stato vincitore. Vinta sarebbe stata invece la libertà, distrutta l’indipendenza, vinta sarebbe stata insomma l’Italia che non può vivere senza libertà ed indipendenza. Per questa ragione, consapevoli delle nostre responsabilità e dei nostri doveri verso la Nazione in questa grave ora della Patria, noi abbiamo preso atto della situazione determinata dalla proclamazione fatta dalla Suprema Corte di Cassazione dei risultati del referendum sulla questione istituzionale. Tale nostro riconoscimento non può tuttavia cancellare il ricordo dei modi, dei tempi, delle condizioni e delle circostanze in cui la consultazione popolare fu indetta, promossa ed attuata. Tali modi e condizioni hanno fatto gravare sui suoi risultati un’ombra che soltanto gli sviluppi della situazione potranno dissolvere.

In ogni caso io ritengo mio dovere ricordare al Governo ed ai partiti della maggioranza che l’unità morale della Nazione, la sua pace e la sua ripresa dipendono essenzialmente dalla loro condotta politica e dal rispetto e dalla comprensione che essi sapranno dimostrare verso i pensieri, i sentimenti, le esigenze e gli ideali di coloro che hanno votato per la monarchia e che costituiscono comunque quasi la metà del popolo italiano.

Per queste ragioni, non rinunciando a quegli ideali morali e politici che in noi si legano ad una considerazione storica complessiva della realtà e dei problemi italiani, io ritengo che coloro che sono stati e sono monarchici e come me vedono la soluzione dei loro problemi sul pieno politico, non intendono rinunciare a vivere la vita della Patria e continueranno pertanto ad operare per la realizzazione di un ordinamento statale libero ed articolato, per un regime di effettive garanzie di libertà, poiché soltanto nella libertà ogni problema può trovare la sua soluzione. I regimi passano, si trasformano, ritornano; mutano le forme di Governo, ma resta l’Italia; resta il popolo italiano con tutti i suoi problemi aperti, i suoi dolori, le sue ferite, con le sue ansie, le sue speranze, le sue delusioni. Per questo popolo italiano, per le sue libertà, per la sua indipendenza, per la sua vita, noi intendiamo lavorare lealmente nei nuovi liberi ordinamenti che esso ci darà.

Si è parlato già spesso in quest’Assemblea di consolidare la repubblica, di difendere la repubblica. A parte quanto di fazioso o di equivoco vi possa essere in simili espressioni, riconosco francamente che il problema obiettivamente esiste. Lasciate che vi dica, senza eccessiva ironia, che anch’io, credo che abbiate ragione. Un regime fondato sul consenso del 51 per cento dei cittadini votanti, un regime sorto in uno dei momenti più tragici e sinistri della nostra storia nazionale, è un regime che legittima ogni riserva ed ogni apprensione circa il suo consolidamento. Ma sarebbe folle pensare di risolvere questo problema estremamente delicato e complesso con stile e metodi di polizia, o, peggio, autoritario. La nostra presenza e la nostra azione qui dentro hanno, tra l’altro, la funzione di ricordare al Governo ed ai partiti della maggioranza la virtù cardinale della prudenza e la virtù cristiana dell’umiltà.

Chiarita in questo modo, per debito di lealtà verso amici ed avversari, la nostra posizione per quanto riguarda i problemi del troppo recente passato, intendo toccare qualche punto caratteristico della situazione politica presente.

Il nuovo Governo si è presentato a questa Assemblea. Non intendo discutere la sua struttura tecnica (cosa che del resto è stata già fatta da altri e da qualcuno anche con una certa voluttà parlando della competenza o della incompetenza dei vari Ministri, del cumulo delle cariche e della conseguente pratica impossibilità ad operare). Intendo osservare invece la sua struttura politica e prima di tutto il processo di formazione della sua struttura politica. Esso è nato non tanto dall’Assemblea, dagli accordi e dalle designazioni dei suoi membri e dei suoi gruppi, quanto invece dagli accordi diretti di carattere e di stile diplomatico intercorsi tra le direzioni di alcuni partiti. Nulla di nuovo rispetto alla tradizione inaugurata due anni or sono dai governi del Comitato di liberazione nazionale. Ma se allora la mancanza di una Assemblea eletta giustificava in qualche modo tale procedura, il suo perdurare ora denota un concetto particolare dei rapporti fra Assemblea, gruppi, partiti e Governo che dovrebbe essere attentamente studiato; poiché è qui uno dei modi più gravi del funzionamento tecnico di un regime democratico parlamentare. Con ciò io non intendo ora criticare od esprimere un giudizio su tale sistema. Intendo soltanto avvertire e porre il problema, poiché è evidente che se questa consuetudine dovesse sviluppare tutte le conseguenze che essa comporta, ci si avvierebbe verso forme politiche sempre più lontane dalla tradizione della democrazia parlamentare. Non dico che ciò non possa avvenire, né che ciò non sia in una certa misura nel solco della evoluzione della politica moderna. Dico solo che bisogna sapere su che strada si cammina e dove essa conduce.

Ma a parte questo aspetto particolare della sua formazione, la composizione politica di questo Governo dà luogo a dubbi e perplessità di vario genere. È un Governo uno o trino? Non è un problema teologico che io pongo. Voglio dire: è un Governo De Gasperi, un Governo democratico-cristiano con la collaborazione limitata, quindi la solidarietà limitata degli altri partiti? O è invece un Governo a tre dei tre partiti solidali? Ed anche in questo, caso, qual è il grado di solidarietà dei tre partiti? È una solidarietà comune e totale o è in rapporto al numero dei portafogli di ciascuno e contiene quindi una riserva?

Qui non giova illudersi né illudere. È un problema di onestà e di moralità politica. E, sia detto per inciso, uno dei problemi più gravi che noi dobbiamo affrontare, è quello della moralizzazione della vita politica italiana. Una adesione con riserva non solo minaccia dall’esterno la compagine ministeriale, ma la paralizza nel suo interno, nella sua efficienza, nella sua funzionalità. E se non è un gioco leale quello di concedere una collaborazione così condizionata, è debolezza colpevole faccettarla. Dei chiarimenti al riguardo sarebbero quanto mai opportuni per non giudicare equivoca la situazione politica espressa dalla compagine ministeriale.

La presentazione del programma di governo a questa Assemblea ha fatto sorgere delle questioni pregiudiziali di estrema gravità, per cui sarà necessario giungere ad un esplicito chiarimento. Vi è innanzi tutto la questione dei rapporti tra questa Assemblea Costituente ed il Governo per quanto riguarda la normale attività legislativa; questione che è legata a quella più vasta del carattere vincolante di tutta la legislazione precedente di fronte ai poteri di questa Assemblea Costituente. Ma poiché tale complesso di questioni è stato rinviato ad una speciale seduta dell’Assemblea, mi asterrò dal parlarne.

Ma il contenuto del programma laboriosamente espostoci dall’onorevole De Gasperi pone in realtà un’altra questione pregiudiziale più politica che giuridica, concernente i rapporti tra l’attività governativa e quella dell’Assemblea Costituente come tale, cioè nella sua funzione costituente.

Per quanto riguarda i problemi economici, l’onorevole De Gasperi ci ha esposto un «programma di lunga portata»; troppo lungo in verità, poiché supera evidentemente i preventivi temporali della vita del suo Governo, che contemplano meno di un anno di vita, salvo imprevisti.

Il programma, secondo la sua lettera, è ambizioso. «Occorre organizzare semplici e vasti settori controllati dallo Stato e dare infine ad alcune industrie particolarmente connesse con lo sviluppo della Nazione, come quelle elettriche e della ricostruzione (cioè praticamente tutte), un regime che meglio risponda agli interessi economici nazionali ed alle direttive economiche del Governo che verranno elaborate, formulate e vigilate nella loro applicazione dal C.I.R.». Praticamente un programma di nazionalizzazione e di pianificazione.

Altrettanto ambizioso è il capitolo delle riforme agrarie, dove, si parla di «riforma fondiaria che porta una più equa distribuzione della proprietà», di «espropriazione di terre», di «piano di trasformazione obbligatoria», ecc. Al centro di questo programma pianificatore fa bella mostra di sé l’aperto omaggio all’iniziativa privata che il Governo promette di suscitare e di incoraggiare. È un tentativo di conciliare, come scriveva un giornale del mattino giorni or sono, il diavolo con l’acqua santa.

Una sorpresa è poi il ripristino del prezzo politico del pane. Era stato un atto di coraggio il sopprimerlo; non sappiamo se sia oggi un atto di saggezza caricare il nostro barcollante bilancio di altri 36 miliardi annui per dare l’illusione alla massaia che va dal fornaio che il prezzo del pane non subisce la sorte di tutti gli altri prezzi. Se si tratta di politica illusionistica, essa è condannata facilmente a dare risultati negativi. Infatti nessun serio accenno è fatto ai mezzi pratici progettati per soddisfare il bisogno improrogabile e riconosciuto di assicurare agli impiegati, ai salariati ed ai ceti medi sufficienti mezzi di vita e per sopperire alla disoccupazione dilagante soprattutto fra i reduci della prigionia, ai quali vengono ammannite delle belle parole, ma pochissimi fatti concreti.

Grande perplessità desta infine il programma di risanamento finanziario per il quale il contribuente dovrebbe essere sottoposto ad un adeguamento della imposizione ai valori dell’anteguerra, dovrebbe essere assoggettato all’imposta straordinaria e invitato, il tutto simultaneamente, a sottoscrivere un prestito di insolite proporzioni, nonché costretto, se agricoltore, a costose opere di trasformazione fondiaria, fermo restando il suo reddito per il noto sistema del blocco sui prezzi. Finanza contro economia che finirebbe col colpire fatalmente gli stessi salari, mentre i trafficanti improvvisati, non avendo né un nome né un credito da salvaguardare, passeranno indenni attraverso la fiamma purificatrice del fisco.

L’isolato Ministro Corbino ci ha ieri esposto il suo programma finanziario; è forse più che altro un’esposizione di volontà, cioè un tentativo di imporre ad ogni costo, lavorando sul fattore psicologico, la fiducia, quella fiducia della quale abbiamo tanto bisogno all’interno ed all’esterno e che è la base prima del valore di ogni moneta. Difendere la lira ed escludere l’inflazione è lo «slogan» del Ministro Corbino, sul quale tutti possiamo essere d’accordo. Ma io ho detto, l’isolato Ministro Corbino, perché non so se tutti i suoi compagni di équipe governativa siano della sua idea o non cercheranno piuttosto, direttamente o indirettamente, di mettere il bastone fra le ruote al suo programma che pur desta qualche preoccupazione, ad esempio per il perdurare di una politica che ha fatto del Tesoro la banca delle banche. E il mio timore si riferisce alla azione che può essere svolta sul terreno politico dai sindacati che fanno capo alla C.G.I.L., la quale ogni giorno di più, anziché essere un sindacato di difesa degli interessi economici dei lavoratori, va assumendo l’aspetto di un sindacato politico di parte.

Una voce. Non è vero!

SELVAGGI. Ora io mi domando: tali riforme toccano o non toccano la struttura ed il carattere fondamentale della nostra organizzazione economica? E con quale autorità il Governo dispone tali riforme di struttura? Pensa di poter varare tali riforme con un decreto-legge, poiché non è tenuto a sottoporre alla Assemblea la legislazione ordinaria?

Il Capo provvisorio dello Stato nel suo messaggio ha detto che: «La Costituzione… consacrerà per i rapporti economico-sociali i principii fondamentali che la legislazione ordinaria dovrà in seguito svolgere e disciplinare». Io ritengo che questa Assemblea Costituente non abbia, per la sua natura, la facoltà di discutere in concreto l’organizzazione economico-sociale del Paese e che debba attenersi al criterio esposto dal Capo provvisorio dello Stato. Soltanto la nuova Assemblea legislativa, eletta dopo la Costituente, avrà la facoltà ed il compito di fissare le forme e le strutture economico-sociali del Paese. A parte ciò, c’è un problema tecnico ed è che noi non sappiamo ancora quali controlli e quali garanzie vi saranno nella nuova Costituzione, né se quei controlli e quelle garanzie e in quali misure saranno affidati a una o due Camere.

Ora il Governo enuncia un piano di riforme strutturali per l’economia italiana. È un tentativo di creare dei fatti compiuti; in quanto tale piano implica dei principî direttivi fondamentali, esso costituisce un fatto compiuto proprio per l’Assemblea Costituente, la quale è appunto chiamata a stabilire i principî fondamentali dell’ordinamento economico italiano. E nel merito, è un fatto compiuto vincolante per la futura Assemblea legislativa. Questa iniziativa governativa è pertanto inammissibile; approfittando di circostanze contingenti e transitorie, colpisce ed offende la libertà legislativa del Parlamento, sa di pieni poteri; è in aperto conflitto con le direttive enunciate dal Capo provvisorio dello Stato.

Ascoltando l’esposizione dell’onorevole De Gasperi non potevo non pensare amaramente quanto sia comodo, allettante e corruttore il sistema di un Governo senza controlli e limiti, che con un nome vecchio ed odioso si chiama autocrazia e con un nome moderno ma egualmente odioso si chiama totalitarismo, e quanto sia difficile riacquistare, anche per chi ne sia intellettualmente convinto, il gusto, il senso e l’effettivo esercizio della democrazia.

Per me è evidente quanto siano stati negativi, per questa rieducazione democratica, i due anni di esperienza di Governo del Comitato di liberazione nazionale, in quanto esso ha perpetuato in Italia il sistema della partitocrazia, anzi, del dominio delle direzioni sui partiti e quindi di alcuni uomini soltanto sui partiti stessi. Quel sistema che i francesi hanno respinto nel loro recente referendum.

Ma a questa esperienza non è estranea la colpevolezza di quegli uomini e di quei partiti non di massa che, per timore di dirsi e di agire da quel che sono realmente, hanno consentito a tale sistema di prendere piede. Eppure, io ritengo che oggi sia molto più sentita nel Paese, per l’equilibrio politico del Paese stesso, l’esigenza di una unione di queste forze sparse, talune delle quali qui dentro sono abbarbicate fra banchi che non sono i loro. Queste forze debbono prima saper vincere l’eccessivo individualismo, individualismo pernicioso non solo in questo campo.

Ma quell’ebrezza legislativa innovatrice da parte del Governo che tende a precostituirsi al lavoro della stessa Costituente, esiste anche nel campo dell’ordinamento amministrativo. Il programma dell’onorevole De Gasperi infatti ritiene «indispensabile in genere… che il Governo emani direttive per una maggiore autonomia dei Comuni e crei ogni possibile autonomia regionale». D’accordo sulla necessità del decentramento e sullo smantellamento della pesantissima burocrazia statale che con questo Governo, dato il numero enorme dei Ministeri, deve aver raggiunto un peso soffocante.

Ma a parte il fatto che per quante ricerche abbia svolte non mi è riuscito di trovare l’ente amministrativo regione ed ho trovato invece l’ente provincia, della quale non si è parlato, il problema investe un’organica riforma costituzionale.

Questo nostro atteggiamento riguardo ad alcuni aspetti essenziali del programma governativo, non va considerato come un espediente dilatorio. Il nostro atteggiamento riguardo al problema della struttura economico-sociale è ben chiaro. Noi non ci spaventiamo di nessuna riforma, ma la vogliamo tecnicamente studiata e democraticamente discussa. Poiché vi sono due maniere di considerare e di volere le riforme. Si possono volere le riforme per conservare una certa struttura fondamentale della società a cui sono legati non solo certi interessi, ma anche certi valori e certi ideali che sono insiti e connaturati alla nostra civiltà cristiana. E si possono volere le riforme per aggravare la crisi di questa struttura, per accelerarne il disfacicimento. Noi non nascondiamo di volere le riforme per conservare, ma intendiamoci bene: per conservare quegli istituti, quelle forze e quelle strutture che, prima di tutto sul piano morale, sapranno rendersi conto del problema sociale, sapranno risolverlo, ed oserei dire, prevenirne le necessità; e sapranno comprendere che la ricchezza deve contribuire alla ricostruzione e che si tratta di redistribuirne equamente i redditi.

Ma nelle forme e nei modi in cui molte riforme sono oggi avanzate e proposte, noi ravvisiamo invece una precisa e calcolata volontà rivoluzionaria. Una riforma intempestiva è inefficace, aggrava la crisi ed alimenta il disordine. Una riforma strappata al di fuori della normale prassi democratica, incrina e svuota il principio stesso della necessità del metodo democratico. Si dirà allora: ma che cosa volete dal Governo? Rispondiamo: ordinaria amministrazione per tutto ciò che è riducibile sul piano ordinario; amministrazione straordinaria con qualsiasi mezzo straordinario efficiente che non costituisca un fatto compiuto per questa Assemblea Costituente e per la futura Assemblea legislativa per tutti i problemi straordinari che la contingenza pone.

Il nostro non è un rimprovero al Governo per la sua volontà di fare, è un rimprovero per l’equivoco delle sue intenzioni e delle sue soluzioni.

E fin qui quello che il Governo ha detto. Ma c’è quello che il Governo ha taciuto. C’è il problema della pacificazione degli animi, al quale pure ha accennato, ed in maniera esplicita, il messaggio del Capo provvisorio dello Stato. C’è il problema della frattura fra il Nord e Sud che qualcuno ha definito psichica e che è molto più complessa di quanto non appaia e che in ogni caso non può essere risolto soltanto con lo stanziamento di un certo numero di miliardi o, meglio ancora, con la promessa dello stanziamento. C’è il problema del superamento del fascismo e dell’antifascismo nella democrazia, unica antitesi ad ogni totalitarismo. Problema che si è cercato di risolvere con una pace senza pace indiscriminatamente e che importa invece una vera, solida e costruttiva pacificazione discriminando tra onesti e disonesti, capaci ed incapaci, e tenendo conto del processo di autocritica cui si sono sottoposti gli onesti e i capaci. C’è il problema, infine, dei monarchici e dei repubblicani, a cui ho accennato in principio.

In sostanza lo stesso problema che si pone a noi che siamo mandati qui per lavorare, per costruire, per non perderci in chiacchiere, si pone per il Governo, poiché il Paese è assetato di fatti, e di fatti concreti per riacquistare fiducia in se stesso e in coloro che si assumono la responsabilità di governarlo. In una sana amministrazione ordinaria e straordinaria c’è abbastanza lavoro, se veramente c’è la volontà di costruire, da tenere i Ministri al loro tavolo di lavoro da mane a sera, e c’è anche modo per un piano di sana amministrazione senza correre il rischio di perdere il senso della realtà presente.

E vengo alla politica estera.

Le reazioni sentimentali sono qui più forti, tali da turbare quella fredda considerazione politica che pur è necessaria per chi voglia concretamente operare. Tali reazioni, che hanno spesso agitato l’opinione del Paese, sono state giudicate spesso da stranieri, e purtroppo anche da alcuni italiani, come ritorni di fiamma nazionalistici. Ma nella misura in cui tale giudizio è dato in buona fede e non è cioè pretesto per manovre non confessabili, esso è un evidente errore. Non si può parlare di nazionalismo, almeno nel preciso significato politico di questa parola, in un Paese di cui è in discussione la stessa indipendenza, la stessa sovranità. Se di un nostro nazionalismo si può parlare, è di quello che si identifica con il nostro sentimento di nazionalità offeso, mortificato, mutilato, deluso con il nostro trepidante attaccamento alla collettività del popolo italiano ed alla terra in cui ha vissuto; vive ed opera, con il senso istintivo del nostro diritto alla vita e ad una vita libera e dignitosa. Non si può parlare di un nostro nazionalismo se non come indipendenza, in contrasto con i dilaganti imperialismi altrui, che formano il maggiore ostacolo ad ogni intesa e possibilità di vita internazionale.

Tra poco ci sarà presentato il trattato di pace e dalle indiscrezioni possiamo già valutarne la gravità. Noi lo esamineremo, lo discuteremo, decideremo in concreto quale atteggiamento ci converrà assumere, ma da quelle indiscrezioni io ritengo che non sarà possibile accettarlo e quindi firmarlo. Mi domando però se questa Assemblea, se il Governo e il Paese tutto sono nelle condizioni di effettiva libertà morale e politica per discutere, accettare o respingere quel trattato di pace che ci sarà presentato. O se piuttosto esso non assumerà il carattere di un diktat che ponga noi di fronte ad una irresistibile pressione, ad una coazione morale e politica, di fatto e di diritto. In questo caso, la nostra volontà, di fronte ad un atto iniquo e vergognoso, potrà essere piegata, ma non accordata.

Il Governo, in queste ore tragiche e decisive per il destino della Nazione, potrà contare sulla solidarietà morale di tutto il popolo italiano, ma non ci si faccia illusioni sul significato politico di tale solidarietà. Non ci si illuda cioè che essa contenga un giudizio positivo, una approvazione della sua linea di condotta politica.

Su questo preciso punto, le riserve che noi abbiamo da fare all’impostazione dell’azione diplomatica in vista del trattato di pace, sono precise. Riguardo ai problemi della pace, sia nostra che generale, esistevano due piani distinti. Un piano ideologico moralistico ed un piano realistico empiristico.

Obiettivamente, questi due piani, al principio confusi o ravvicinati, si sono andati sempre più distinguendo o separando fino quasi ad opporsi apertamente. Obiettivamente è un fatto che il piano ideologico moralistico sia stato abbandonato per quello realistico della tradizionale politica di potenza. Chi oggi ricorda, se non noi, gli otto punti del Potomac e le Quattro Libertà rooseveltiane? Qualcuno, che si piccava di conoscere molto bene gli alleati, dichiarò un giorno pubblicamente che essi non ci avrebbero tolto nemmeno un pollice del nostro territorio. Costui, come tanti altri, non aveva considerato il fatto che non esiste Governo al mondo che mandi i suoi uomini a morire per un semplice ideale. In guerra i Governi vanno per vincere e quindi per conquistare e la pace si risolve fra chi conquista di più e chi di meno. Gli uomini soltanto, e non tutti purtroppo, combattono e muoiono per un ideale, senza calcolare se ne valga o meno la pena. E gli italiani hanno dimostrato di saper morire per l’ideale della libertà.

Ora, l’errore fondamentale della nostra politica estera è consistito nel non aver avvertito questo distacco dei due piani, questo lento ma irresistibile cambiamento del punto di vista internazionale, questo tramontare delle ragioni ideologiche della guerra e questo prevalere degli interessi statali, imperiali, continentali. Basta confrontare le dichiarazioni di Londra dopo l’attacco tedesco al generoso popolo di Polonia con quelle di Byrnes dopo le decisioni di Trieste per rendersi il conto di ciò e comprendere come il civismo dei vincitori non poteva capire il peso ed il valore morale della lotta italiana accanto agli alleati.

Mentre tutto ciò virtualmente avveniva, siamo rimasti fermi al piano ideologico moralistico.

Abbiamo sperato nella solidarietà antifascista che avrebbe distinto, in definitiva, secondo le iniziali promesse e speranze, il fascismo dall’Italia. Abbiamo sperato nella solidarietà e comprensione democratica per una Italia democraticamente rinnovata. Si è persino portato un argomento che in ogni caso poneva di fronte ad un dilemma angoscioso: quello che un’Italia repubblicana avrebbe avuto un posto dignitoso ed onorevole al tavolo della pace.

Abbiamo ammesso il principio di una riparazione morale, di una espiazione, e non ci siamo accorti che quel piano era praticamente sterile, che su quel piano non avevamo nulla da tentare e da sperare, che su quel piano, ma solo su quello, non avevamo alcuna carta. Non ci siamo accorti che partendo dalla colpevolezza dell’Italia, l’unica conseguenza logica era quella di una pace punitiva, e che l’unica speranza che ci rimaneva era la pietà dei vincitori.

Abbiamo così abbandonato l’altro piano, quello che ho chiamato realistico ed empiristico, nel quale era invece possibile almeno tentare di trattare con i vincitori nel loro complesso, o più facilmente con ognuno singolarmente, tenendo presente la particolare posizione geografica dell’Italia ed il concetto che domina e dominerà ancora i problemi internazionali: quello dell’equilibrio fra le potenze.

Ma quello che più stupisce e sgomenta nella condotta della nostra politica estera è la mancanza di ogni negoziato, di ogni tentativo di negoziato, di ogni abbozzo di negoziato per inserire i nostri interessi ed i nostri diritti, o una parte di essi, nel fronte tutt’altro che unitario dei vincitori sulla base del franco riconoscimento della nostra sconfitta. Ma se è mancato ciò, vuol dire puramente e semplicemente che è mancata una politica estera italiana. E ciò è dimostrato dalla questione di Rodi, che è stata restituita a chi non l’aveva mai posseduta; dalla questione di Briga e di Tenda che oggi riporta sul piano storico il problema della Tunisia, una pistola spianata nel fianco italiano, per interessi che non sono tutti francesi e che per quanto riguarda la Francia sono dominati dall’incubo della sicurezza. Mentre forse oggi solo l’Italia ama veramente la pace ed aspira alla pace, perché sa che soltanto nella pace potrà ricostruire.

Ed in ogni caso ci si è dimenticati di una formula fondamentale, ma semplice, delle trattative internazionali, e si è offerta una mano per far prendere all’avversario tutto il braccio. Eppure questo piano realistico dei negoziati, delle trattative, questo piano della tradizionale diplomazia, è l’unico su cui potremo poggiare domani la nostra politica internazionale. Nella misura in cui accentuassimo una qualsiasi posizione ideologica, noi fatalmente saremmo condotti a legarci strettamente ad uno dei due blocchi in formazione; e già è stato annunciato questo concetto, ma aggiungo che tra questi due blocchi noi potremo compiere la funzione di ponte di collegamento. E sarebbe quello di entrare nei negoziati di uno dei due blocchi l’errore più funesto che potremmo commettere, perché ci toglierebbe ogni mobilità e ci esporrebbe in ogni caso a pericoli mortali per la nostra indipendenza.

La nostra politica estera deve avere uno scopo essenziale: riacquistare, difendere e tutelare la nostra indipendenza, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, tentando il negoziato, negoziando fino al parossismo. Per questo occorrevano, e malgrado tutto occorrono ancora oggi, contatti personali, occorreva ed occorre parlare, non basta presentare soltanto delle note diplomatiche, occorreva ed occorre cercare questi «grandi» o i loro sostituti ad ogni costo, a costo di esser messi alla porta per più volte, ricercandoli dovunque, e riempir loro il cranio dei nostri diritti e delle nostre esigenze in senso assoluto e in senso relativo ai loro interessi ed alle loro esigenze, come del resto essi hanno riempito il nostro cranio di una propaganda di promesse che si sono risolte nel nulla. E per quanto riguarda in particolare le colonie io ritengo che questa volta ci sia ancora molto da fare. Ma in particolare nelle trattative si tenga presente la necessità che noi abbiamo di una emigrazione stagionale e permanente, di una emigrazione che sia dignitosa per coloro che si dovessero decidere a lasciare il suolo della Patria. Si tenga anche presente la situazione degli italiani all’estero e dei loro averi. Essi rappresentano per noi una fonte non indifferente di forza morale e di ricchezza materiale.

Mentre nel mondo si va velando e quasi spegnendo quella luce di speranza che, unica, aveva illuminato e quasi redenta tanta tragedia, noi abbiamo un solo dovere: difendere questa piccola e povera, ma anche grande ed eterna nostra Italia; difenderla per noi e per il mondo come una grande riserva morale e civile per un mondo migliore, se e quando questo potrà sorgere. Per questo occorre amare, amare tanto l’Italia. E chi l’ama e agisce così potrà contare sull’appoggio di tutti. Dobbiamo cioè far sì che il destino dell’Italia non sia oggetto dell’arbitrio altrui, ma diventi lei, l’Italia, l’arbitra del suo destino. (Applausi a destra e al centro).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Caso.

CASO. Onorevoli colleghi, desidero fare qualche osservazione in tema di assistenza ai lavoratori, nella mia qualità di studioso dei problemi medici del lavoro.

Il Presidente del Consiglio, nella seduta del 15 luglio, ci ha detto che «lo Stato si propone anche di intensificare, con provvedimenti che verranno fra poco formulati, le misure di lotta contro la tubercolosi, la malaria ed in genere le malattie infettive». Bisogna subito plaudire a tali intenzioni, ma nello stesso tempo esigere che siano tradotte in pratica in forma completa e con tempestività, onde siano veramente efficaci le norme da emanare, per le quali sarebbe consigliabile sentire il parere dei medici Deputati che sono abbastanza numerosi in questa Assemblea.

Ognuno di noi sa a quale via crucis molte volte siano sottoposti, ad esempio, i poveri infermi di tubercolosi, sia per la lontananza dai centri diagnostici, che per le personali difficoltà economiche, pure essendo la legge contro la tubercolosi una delle più perfette in Italia. Gli stessi inconvenienti sono da segnalare per le malattie infettive e per la malaria, sia per le deficienze del Testo unico delle leggi sanitarie, che per le interferenze fra questo ed il Regolamento di Igiene del Lavoro, sicché la duplicità delle disposizioni regolamentari annulla spesso la tempestività dell’intervento, che, invece, deve essere una delle caratteristiche essenziali nella lotta contro le malattie infettive, specie in mezzo alle comunità dei lavoratori. Oltre a ciò v’è da segnalare la mancanza di alcune malattie sociali, cioè di facile diffusibilità, nell’elenco delle malattie per le quali si applicano le norme di prevenzione contemplate dal Testo unico delle leggi sanitarie. Alcune di queste malattie sono: la brucellosi (così diffusa in molti centri rurali in seguito agli aborti delle vacche), la leptospidosi delle risaie, l’echinococcosi e l’anchilostomiasi. Per quest’ultima malattia parassitaria si verifica l’incongruenza che è soggetta all’intervento medico statale se colpisce gli operai dei cantieri e degli opifici (che per lo più ne sono esenti), mentre che viene lasciata a tutte le sue possibilità d’insorgenza e diffusione se riguarda gli ortolani ed, in genere, i lavoratori agricoli (che facilmente ed a cagione del loro lavoro, se ne contagiano).

Per la malaria, altra malattia di grande interesse sociale, soprattutto perché riduce, a causa dell’anemia post-malarica e di altre complicanze, notevolmente la capacità lavorativa, la sezione VII del Testo Unico (articolo 311 e seguenti) persegue fini di riduzione della mortalità specifica, finalità assistenziali e profilattiche, la distruzione dell’agente morboso. Gran parte di tali compiti, di ampiezza sconfinata, sono affidati ai Comitati Provinciali per la lotta antimalarica e ai Consorzi di Bonifica con risultati, invero, molto scarsi, soprattutto in applicazione dei mezzi preventivi che invece debbono essere quelli preminenti nella lotta contro la malattia.

Un’altra deficienza attuale è quella di non contemplare, per lo meno in certi particolari, la malaria come infortunio sul lavoro, mentre che tutto concorre a definirla tale: la provenienza del lavoratore da zona sicuramente immune, la puntura della zanzara (microtrauma) equivalente ad una percossa e l’occasione di lavoro, cioè l’ineluttabile necessità, per quel lavoratore compromesso nella sua salute, dì aver dovuto prestare il suo lavoro in zona malarica.

Ritengo che, fra le misure di lotta da formulare prossimamente, si debba anche dare un più largo posto alle malattie del lavoro, giacché quelle attualmente soggette all’assicurazione sono più una lustra teorica che una realtà assicurativa. Basta, fra le altre, tener presente la legge sulla silicosi, del 12 aprile 1943, n. 455, per convincersi che tutto è da rifare non solo per una reale e fattiva ragione di assistenza, ma per un atto doveroso di fratellanza e di moralità verso i nostri operai che compiono un duro lavoro negli ambienti polverosi ad alto contenuto di silice, che è la polvere più dannosa per l’apparato respiratorio.

Immaginarsi che l’indennizzo e l’assistenza sono limitati solo agli operai che abbiano perduto per lo meno il 33 % della loro capacità al lavoro, mentre che sono del tutto trascurati i casi iniziali, cioè proprio quelli effettivamente riparabili. In tal maniera viene contraffatto in pieno il concetto fondamentale della medicina del lavoro, che mira a prevenire, per quanto possibile, le malattie professionali piuttosto che curare l’irreparabile. Nella modifica che s’impone di una tale legge è bene tener presente altre malattie professionali come l’actinomicosi, l’intossicazione da arsenico e da manganese (studiate recentemente dal Prof. Aiello di Siena), l’estensione dell’assistenza per l’anchilostomiasi anche ai contadini, le malattie respiratorie da polveri (pneumo-coniosi) non solo industriali ma anche per gli addetti all’agricoltura (pastori, vaccari, stallieri), in attesa, ben s’intende, di più vaste ed organiche provvidenze da sancire a favore della salute e del benessere dei lavoratori nelle leggi costituzionali del nuovo Stato Italiano.

Per rimediare alle deficienze attuali della legge e secondare il programma del Governo, così chiaramente rinnovatore, in tempi come i nostri nei quali il primato del lavoro si affaccia impetuoso ad equilibrare più cristianamente i rapporti sociali, credo che si debbano prendere due ordini di provvedimenti:

1°) diffondere l’insegnamento della medicina del lavoro nelle Università, onde ottenere che le Cattedre stesse della specialità diventino i naturali organi di consulenza e di coordinamento scientifico e clinico della mutualità e dell’assicurazione contro le malattie che, pur rivestendo un rischio generico per tutti, diventano professionali per l’intervento delle più svariate cause da lavoro, anche se questo assuma, a volte, soltanto la figura di un agente concausale di malattia.

In Italia si verifica questa contraddizione nei termini: la metà circa degli Statuti delle Università escludono la medicina del lavoro dalle materie d’insegnamento, mentre che il titolo della specializzazione è professionale per gli Ispettori medici del lavoro e per i medici di fabbrica. E questo avviene nella patria di Bernardino Ramazzini, di Luigi Devoto e di Luigi Ferranini, fondatore il primo (circa tre secoli or sono) e rinnovatore gli altri due (quaranta anni fa a Milano ed a Napoli) di una tale gloriosa branca della medicina, che è tutta un’anticipazione della assistenza sociale così come oggi si vuol concepire ed attuare.

Per ora la medicina del lavoro, anche nella Università dove è costituita in cattedra ordinaria (Milano, Torino, Padova, Siena e Napoli) è ritenuta materia complementare, mentre che ortopedia, otorinolaringoiatria, odontoiatria sono materie obbligatorie di esame. Stando così le cose è ovvio che, salvo qualche rara eccezione di studenti che abbiano innata la vocazione per i problemi sociali della medicina, la grandissima maggioranza dei giovani medici esce dalle Università senza conoscere i rudimenti di una scienza che, si può dire, sia nata col lavoro umano, tanto intimi sono i rapporti fra la fatica che ogni lavoro comporta e le reazioni che ogni organismo vi oppone. Per ovviare basterà rendere obbligatorio l’esame/anche se l’insegnamento dovesse, per ora, ridursi a venticinque lezioni, cioè ad un solo semestre.

Una volta diffuso l’insegnamento della medicina del lavoro bisognerà poi occuparsi dell’impiego pratico dei medici del lavoro che non solo devono trovar posto adeguato negli opifici, ma anche nelle campagne, per lo studio importantissimo della patologia rurale, possibilmente accanto al medico condotto, all’Ufficiale sanitario, all’agronomo condotto, del quale ultimo pur s’invoca da più parti l’istituzione come una necessità della riforma agraria.

E così, nel campo di riforma delle leggi di tutela del lavoro, forse si potrà utilmente arrivare all’istituzione dell’Ispettorato Medico del lavoro a sede circondariale, tanto più che, se deficienze vi sono state finora nel servizio d’igiene nel lavoro, queste non sonò attribuibili al personale che è competente e selezionato, ma alla difficoltà e precarietà delle visite mediche e alla scarsezza numerica dei funzionari medici.

Un Ispettore medico, decentrato, potrà meglio compiere visite di controllo alle aziende industriali, commerciali, agrarie, artigianali (in queste comprese le aziende a tipo familiare), sorvegliare il lavoro delle donne e dei fanciulli, visitare spesso gli addetti alla produzione e smercio delle sostanze alimentari, vigilare la legge sulla risicoltura, assistere i mietitori, gli operai delle fabbriche di tabacco, essere accorti nell’ammissione delle donne minorenni e dei fanciulli al lavoro (scartando i mestieri pericolosi allo sviluppo delicatissimo della pubertà), compiere, insomma, quella funzione d’igiene integrale del lavoro, che veramente darebbe ai lavoratori il senso dell’assistenza paterna e fraterna insieme, da parte di una società più civile e più giusta.

2°) Diffondere e coordinare meglio i servizi sanitari del Ministero del lavoro e della Previdenza sociale, aumentando il numero dei funzionari medici e l’attrezzatura tecnica dei servizi periferici e stabilendo rapporti, ben precisi e diretti, con l’Alto Commissariato della Sanità pubblica, in attesa che si discuta ed eventualmente si decida la creazione di un unico Dicastero Sanitario o della Difesa Sociale (come ha proposto l’onorevole Persico), da cui far dipendere tutti i servizi medici e igienici della Nazione.

Per ora, è bene evitare, come spesso accade, proprio per quella tale deficienza di personale sanitario, che gli Ispettori dei Circoli del Lavoro, per lo più ingegneri, si occupino, attraverso gli ufficiali sanitari, di problemi interessanti la medicina. Essi non possono concorrere con efficacia alla difesa della salute dei lavoratori, in quanto questa è legata, non tanto a prescrizioni regolamentari formali, quanto ad una serie di acquisizioni scientifiche e cliniche che soltanto i medici, e non tutti i medici, possono conoscere e prontamente applicare.

Di una schiera di medici del lavoro si sente appunto oggi il bisogno in mezzo agli operai per completare quell’opera costante, sagace e coraggiosa di difesa integrale del lavoro che compiono i nostri valorosi colleghi che si sono dedicati all’organizzazione sindacale.

Accogliete, dunque, con fraterna e serena comprensione, i medici del lavoro nel campo stesso del sindacato, in ogni ambiento lavorativo, e voi avrete riempita una grande lacuna, a tutto beneficio dei lavoratori che saranno più sani, e, quindi, più produttivi, non in nome soltanto di un’arida per quanto legittima esigenza economica, ma di un superiore bene spirituale che tutti ci può cristianamente affratellare sotto il simbolo nobiliare del nostro comune lavoro. (Applausi).

Presidenza del Presidente SARAGAT

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Gronchi.

GRONCHI. Onorevoli colleghi, le discussioni sulle dichiarazioni del Governo – salvo quanto ha detto l’onorevole Togliatti – sono state di natura e di carattere prevalentemente particolare. Hanno cioè preso di mira i vari aspetti del programma del Governo, ne hanno esaminato l’attuabilità e la consistenza, hanno aggiunto raccomandazioni o suggerimenti, manifestando in generale consenso e fiducia.

Evidentemente questo esame concreto della politica governativa ha la sua importanza. Guai alle classi politiche, guai ai governi che sollevino problemi senza disegnarne nelle forme più concrete le attuazioni.

Vi è oggi nell’azione pratica di ogni Ministero la necessità, direi, di un tecnicismo, di una aderenza alla realtà, senza la quale si cade troppo spesso in astrattismi verso cui si rivolge il gusto delle larghe assemblee politiche, mentre oggi non è più il tempo né delle reazioni né delle rivoluzioni ideologiche. La stessa mansuetudine dei programmi dei partiti più estremi dimostra come in questo momento si renda omaggio alla necessità di ancorarsi alla realtà il più saldamente possibile, di scegliere fra le soluzioni dei problemi quelle più concrete, più attuali, più attuabili.

Ma si possono tutti questi problemi di Governo risolvere in sede puramente tecnica? E può il complesso delle misure che un Governo propone all’attenzione del paese determinare, per il solo suo contenuto «tecnico», la fisionomia e la funzione politica di questo Governo in un determinato momento?

Evidentemente quello che maggiormente interessa per orientare il Paese e l’Assemblea è piuttosto l’indirizzo generale politico nel quale questi problemi s’inquadrano.

È forse utile perciò, senza cadere in astrattismi, parlare innanzi tutto di questo indirizzo, sia pur brevemente.

Esso è stato la nostra preoccupazione maggiore. Per noi, usciti dalla lotta elettorale con una manifestazione di fiducia più grande di quella riscossa da qualsiasi altro partito, il problema della formazione del Governo non si è presentato come una preoccupazione di conquista di posti e di accaparramento di influenze, ma come una necessità di imprimere alla politica del Governo quell’orientamento che meglio rispondeva ai problemi e alle responsabilità che di fronte al paese abbiamo assunte. E, se dovessimo esprimere il nostro pensiero di gruppo sul modo come la crisi si è risolta, non avremmo ragione di esserne eccessivamente contenti.

Siamo spesso stati accusati, con espressioni più o meno argute, di avere una certa avidità di posti e di potenza. Basta che voi diate un’occhiata alla distribuzione dei portafogli in questo Governo e, più che al numero, all’importanza effettiva che ciascuno di questi posti ha nella politica del Governo, per vedere che la moderazione del nostro amico Gasperi è stata tale da suscitare anche tra noi una certa perplessità. (Applausi al centro – Commenti). Perché poco interessa, come forza politica, di occupare i portafogli militari quando posizioni di reale influenza sono state lasciate ad altre correnti politiche, con le quali è pure una necessità ed è nostra volontà di collaborare. (Commenti).

La resistenza fatta in alcuni momenti della crisi e che ne ha resa delicata la soluzione, riguardava problemi di carattere programmatico o questioni di principio poste innanzi a vietarci di occupare, come un qualsiasi altro partito, il Ministero dell’istruzione, o ad impedire che alcune delle leve della vita economica e sociale del nostro Paese subissero il nostro diretto controllo.

L’onorevole Togliatti, in alcune sue manifestazioni giornalistiche, più che nel discorso che egli ha fatto qui, mostrò del tripartitismo una concezione nella quale noi non conveniamo interamente. Egli accusò allora l’onorevole De Gasperi di voler fare non un governo tripartito, ma un governo suo, volendo con ciò indicare quello che, in termini banali, si ripete sulle gazzette e anche dentro questa aula, che la Democrazia Cristiana volesse ancora una volta farsi, in questa situazione politica, la parte del leone. Non era qui la questione di fare un governo proprio; la questione era di rispondere all’aspettativa del Paese e accettare in pieno la responsabilità; e per accettarne in pieno tale responsabilità, tenere sì conto della utilità, ai fini nazionali, della collaborazione delle maggiori forze politiche, ma stabilire, primi inter pares, che un’influenza del nostro pensiero e del nostro orientamento prima che un diritto, era soprattutto un dovere. (Applausi al centro).

Era soprattutto un dovere e noi siamo disposti ad accettare uguale criterio quando una diversa situazione politica spostasse l’asse delle maggiori responsabilità verso altre parti di questa Camera.

Quale sia, dunque, l’indirizzo che noi abbiamo cercato e cerchiamo di imprimere alla politica generale di questo Governo non è forse inutile riassumere, perché dal complesso dei problemi concretamente prospettati nelle dichiarazioni del Governo si deve desumere soprattutto, come dicevo, l’orientamento generale che intendiamo dare alla politica del Paese. Innanzi tutto la rivalutazione dei fattori morali. Noi la abbiamo espressa anche in quella rivendicazione relativa al Ministero dell’istruzione, non perché intendiamo di creare un qualsiasi monopolio o farne campo di qualsiasi attività di parte, ma per affermare quale è l’importanza che, secondo noi, hanno la formazione della coscienza e il rinnovamento della scuola, posti a base di quel rinnovamento che dovrebbe essere il fondamento della nuova vita politica e della nuova democrazia.

Per noi il problema si pone o nei termini della educazione delle coscienze, cioè di quello che si chiama, e si riconosce da ogni parte come necessario, lo sviluppo della personalità umana, oppure in termini di compressione e di violenza. Le trasformazioni profonde nei regimi politici e nei regimi economici si realizzano attraverso la lenta permeazione delle menti e dei cuori, la quale crea nelle singole coscienze la persuasione che tali trasformazioni rispondono ad una maggiore giustizia e all’interesse superiore oggettivamente interpretato. Oppure questa abolizione dei privilegi, questa migliore distribuzione della ricchezza, questa più integrale partecipazione del popolo alla vita dello Stato, non possono essere ottenute che attraverso la compressione, o con la forza della legge.

Ma poiché per un popolo, il quale non intenda la necessità e la legittimità di queste rivendicazioni, non vi è sanzione che valga e non vi è legge che sia sufficiente ad imporre radicali rinnovamenti del costume, oltre che degli ordinamenti, è evidente che questo appello che noi facciamo ad una rinnovazione, ad una elevazione delle coscienze, è certo la via più sicura, più concreta e durevole per quel rinnovamento profondo che noi tutti ci auguriamo. Donde quel nostro feticismo per la libertà, che fa sorridere qualcuno; donde l’accento che noi poniamo su questo fondamento della vita democratica, senza il quale – secondo noi – non vi può essere nessuna vera e reale civiltà. Noi temiamo la violenza, non tanto perché la violenza ferisce i corpi, quanto perché opprime gli animi, quanto perché offende la dignità dello spirito, quanto perché impedisce alle idee di liberamente espandersi ed affermarsi nella vita dei popoli, di conquistare le coscienze con la sola forza che deve essere legittimamente espressa, e che è quella della rispondenza di queste idee ai concetti superiori di fraternità, di solidarietà, di giustizia, verso i quali l’umanità dopo ogni guerra, e soprattutto dopo questa guerra, corre irrefrenabilmente. (Applausi).

Noi abbiamo bisogno della libertà, perché senza libertà la nostra propaganda perde qualsiasi possibilità. Noi non esitiamo a ripetere come un principio, che aborriamo la violenza. Non perché questa sia un fenomeno di viltà morale, quanto perché nella virtù costruttrice della violenza non crediamo. Noi crediamo invece nella riconquista lenta e nella graduale liberazione delle coscienze, alla quale rivolgiamo ogni nostra opera, ogni nostro sforzo, ogni nostro intendimento.

Per quanto riguarda l’esigenza della giustizia, è necessario che noi diciamo ancora una volta, dopo le accuse di eterogeneità che vengono troppo spesso rivolte a questa parte della Camera, come sia bensì vero che talvolta in talune enunciazioni affrettate la nostra posizione di fronte al problema economico possa essere parsa ben poco dissimile dalle posizioni tradizionali del pensiero liberale, ma la nostra impostazione, che è stata espressa anche nelle enunciazioni particolari delle dichiarazioni del Governo, è profondamente diversa. Secondo noi, non i principî di giustizia debbono essere sottoposti alle esigenze tecniche o alle «leggi» economiche della produzione; ma queste devono subire il primato di quelli. Non è possibile che noi vediamo nei fenomeni della vita collettiva di un popolo soltanto le esigenze della produzione, intese nella bruta forma di un termine insuperabile. Non è possibile che noi applichiamo all’economia sociale di un popolo i criteri che possono essere applicati alla vita individuale di una azienda, per la quale il maggior reddito – il guadagno massimale, come dicono taluni economisti – è la sola legge alla quale essa deve obbedire. Vi è una esigenza sociale superiore, alla quale anche questa legge del profitto deve piegarsi e obbedire. Vi è questa esigenza di giustizia sociale, per la quale noi non accettiamo la libertà dell’iniziativa privata, se non fino a quando essa coincide con gl’interessi generali, e crediamo che lo Stato non possa assistere impassibile allo svolgersi della vita economica di un Paese, perché ha il dovere di tutelare, al di sopra degli interessi particolari, gli interessi della collettività. (Applausi).

Quando nel passato, ad esempio, si sono subordinate ad esigenze di bilancio certe riforme sociali, come la lotta contro le malattie sociali, contro la malaria, contro la tubercolosi, contro la stessa miseria e il pauperismo, si è obbedito ad un concetto che non è nostro, poiché di fronte a certe supreme leggi dell’interesse collettivo, non vi possono essere esigenze finanziarie che abbiano maggiore peso, o influenza predominante.

Occorre che la collettività faccia qualunque sforzo perché questi problemi, che hanno importanza suprema, possano essere risolti. Occorre cioè che siano poste in primo piano queste esigenze sociali ed umane, al di sopra delle necessità economiche e tecniche e al di sopra di ogni altra esigenza. Per noi la vera civiltà non è il progresso meccanico; a noi interessa fino ad un certo punto che la macchina, sostitutrice dell’uomo, abbia perfezionato ogni tecnicismo della produzione e ne abbia aumentato il volume o abbassato il costo, e posto a disposizione una più larga massa di merci e di generi di prima necessità, se, al di sotto di questo progresso della macchina, l’umanità rimane profondamente refrattaria e negata ad ogni senso di solidarietà, sia nel campo interno, come nella più vasta vita internazionale. Se cioè nell’uomo si risveglia periodicamente la brutalità dell’egoismo e della violenza, per noi la civiltà è ancora ben lungi dal raggiungere il suo ideale. Ed ecco perché noi poniamo queste esigenze dello spirito al di sopra e al di là di ogni esigenza economica ed ecco perché le esigenze dello spirito condizionano tutta la nostra politica. Come è possibile che noi lasciamo incontrollata l’iniziativa privata, che pure valutiamo come una delle leve motrici più effettive ed efficienti del progresso attuale, e come può lo Stato non sentire il dovere di interessarsi di questa attività economica, quando è così preminente oggi e universalmente sentito l’interesse della vita collettiva?

Gli interessi particolari richiedono invero di essere rigorosamente subordinati all’interesse collettivo. Questo è il nostro pensiero intorno all’intervento dello Stato, dovunque tale subordinazione non sia spontaneamente sentita come un dovere sociale.

È non è poi che l’idea dello Stato debba essere necessariamente connaturata con un intervento limitatore e compressore di ogni attività.

Oggi si ragiona ancora con dinanzi la figura dello Stato totalitario, la visione di uno Stato accentratore di ogni attività; ma lo Stato democratico quale noi vogliamo creare sarà certamente non il surrogato dell’iniziativa privata, dove questa manterrà la sua spinta e la sua forza di progresso, nonché il suo rispetto degli interessi collettivi, ma ne sarà il correttivo ed il controllore; sarà, in sostanza, quello che ragionevolmente regolerà e disciplinerà l’attività privata ai fini generali.

Questa è la concezione nella quale noi insistiamo e che indubbiamente – insieme a certi tratti caratteristici del nostro programma, dà la nostra posizione attuale rispetto ai problemi del Governo. Ogni problema, anche il più piccolo, anche il più particolare, contiene in se stesso problemi che involgono tutta la organizzazione nazionale e persino tutta l’organizzazione del mondo. Ogni problema rispecchia in sé una piccola faccia di quel poliedro che è l’attività degli Stati moderni ed ogni problema deve essere pervaso da questo spirito ed indirizzo. Ecco la concezione dello Stato che noi abbiamo e che ci sembra che il Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni abbia espresso in rapporto alla soluzione dei problemi concreti.

Si potrebbero discutere, si potrebbero esaminare in questi problemi concreti le soluzioni proposte, ma io vorrei porre di fronte a voi il problema politico della possibilità di queste soluzioni, la quale possibilità dipende dall’appoggio che i tre partiti maggiori daranno al Governo e dalla misura di questo appoggio. Ci ha detto l’onorevole Togliatti che il programma del Governo è praticamente il più accettabile anche per loro. Ha citato una nostra mozione dell’ottobre, nella quale sono disegnate rapidamente alcune riforme politiche ed ha invitato il Presidente del Consiglio a dar loro attuazione, perché su quelle può convergere il consenso di ognuno dei nostri tre partiti.

Non so se egli abbia distinto la posizione attuale del Governo da quella del partito di allora. Noi la troviamo pressoché identica e crediamo che quanto il Presidente ha detto nei rispetti dei problemi industriale e agrario non sia che un avviamento a quelle più radicali riforme che nella nostra mozione erano più largamente disegnate, in quanto proiettate in un tempo indeterminato; mentre il Presidente del Consiglio dei Ministri bene ha fatto a dirci soltanto quanto egli crede che sia attuabile nel periodo in cui è prevedibile duri e si svolga la vita di questo. Ministero.

Ma non posso non osservare che l’atteggiamento serbato dai socialisti e dai comunisti di fronte al programma del Governo non è identico. Vi è stata, da parte dell’amico e collega Lombardo una esposizione concreta di problema pratici verso i quali egli ha concentrato l’attenzione dell’Assemblea, ed egli lo ha fatto in pieno accordo, direi quasi in armonia, con quelle che erano le dichiarazioni del Governo.

Il collega Togliatti ha assunto invece una posizione, se egli me lo consente, di un certo distacco. Egli ha esaminato dal suo banco, più da osservatore che da collaboratore, la esposizione del pensiero del Governo, ne ha messo in rilievo talune deficienze, e, in sostanza, più che dichiararsene soddisfatto, ha espresso un certo moderato pessimismo. In questo sta il problema politico del Governo attuale. O esso veramente riesce a raggiungere quella unità nazionale che deve cominciare dalla convergenza sincera e leale dei tre maggiori partiti e del partito repubblicano che lo fiancheggia, e per far ciò deve guadagnare quella fiducia generale attraverso una sua politica di aperta ma ferma pacificazione; o se, nella stessa compagine che lo sostiene, delle venature e delle incertezze si determinano, lasciate che vi dica che la politica di unità nazionale riesce gravemente compromessa. Ed è stata, malgrado le parole, assai spesso compromessa anche in passato, quando troppi degli uomini appartenenti agli altri partiti della esarchia, che facevano parte del Governo, si sono assicurati insieme i vantaggi del Governo ed i benefici dell’opposizione. (Applausi vivissimi al centro e a destra).

Questa dovrebbe oggi essere una via risolutamente abbandonata. Voglio essere indulgente e osservare che in un Governo così poliedrico e complesso come era quello della esarchia, dove necessariamente si doveva sempre trovare un punto di convergenza – e il punto di convergenza era spesso assai più vicino al compromesso artificioso che non al giusto mezzo e alla visione realistica delle cose – una certa libertà di atteggiamento poteva rispondere ad un senso di responsabilità e, diciamolo pure francamente, anche ad una necessità psicologica interna di partito.

Ma questo Governo, che per la prima volta ha posto il problema della sua composizione sulla formulazione di un programma, e che per la prima volta ha discusso tale programma, prima di addivenire alla distribuzione dei posti, dovrebbe avere la più larga e la più sicura convergenza dei partiti che lo compongono, senza distinzioni troppo sottili o troppo comode; per cui si dovrebbe giungere alla constatazione che se le soluzioni che il Governo indica non sono inevitabilmente di quell’ampiezza che ciascuno di noi desidera, questo è non perché si sia voluto accentuare un punto di vista politico particolare, ma perché si sono volute limitare realisticamente le possibilità di attuazione. Infatti questo solo deve fare un programma di Governo e non cominciare da Adamo ed Eva ad esaminare il problema del mondo sub specie aeternitatis; cioè limitarsi alle possibilità pratiche di attuazione, prescindendo dal suscitare aspettative per un desiderio di. popolarità.

Anche su questo terreno le limitazioni, le insufficienze che da qualche parte si sono lamentate non si debbono certo ad una diversità di indirizzo e ad una incertezza di applicazione.

Vi è però uno stato di disagio al quale dobbiamo guardare con franchezza, e lo stato di disagio deriva proprio dai vostri amici, onorevole Togliatti, dei quali noi non sappiamo se e fino a quando l’adesione ad una azione di Governo possa essere lealmente e sicuramente da considerare. Le stesse contraddizioni che voi avete poste a base delle vostre dichiarazioni e che si riflettono soprattutto sulla politica estera, fanno sorgere e rafforzare in noi il dubbio che per molti di voi, forse per la vostra politica di partito, la politica interna sia considerata e valutata soprattutto in rapporto alla politica estera. E questo significa non già che noi diamo credito alle voci di vostra dipendenza dall’estero, di vostre relazioni con l’estero, che potrebbero menomare la vostra funzione, fisionomia, vita di partito; ma vi pone certo in una sfera di influenza spirituale, la quale gravita verso un altro Paese che con la sua massiccia e magnifica efficienza ha creato dentro il vostro spirito un mito e può, per avventura, limitare la vostra libertà di giudizio ed il vostro pensiero in rapporto alla politica interna. (Applausi al centro e a destra – Interruzioni – Commenti a sinistra).

PAJETTA. Il territorio di un altro Stato è più piccolo, onorevole Gronchi, ma l’influenza è più vasta (Commenti).

GRONCHI. Lasciate che noi esprimiamo in libertà il nostro pensiero, perché la stessa estrema moderatezza di cui date prova di fronte alla possibilità di realizzare certi problemi, la stessa estrema moderatezza della forma con la quale vi esprimete ha un singolare contrasto con quella che è la temperatura delle masse alla periferia, temperatura delle masse alla quale voi non potete dichiararvi estranei, perché non potete dire che in essa voi non esercitate un’influenza preponderante, altrimenti dovreste arrivare alla conclusione che queste masse si sottraggono perfino al vostro controllo, e per un partito di massa una considerazione di questo genere sarebbe una dichiarazione d’impotenza. (Applausi al centro e a destra).

Una voce. E le vostre? (Rumori).

PAJETTA. Voi le avete fatte votare per la monarchia. (Rumori – Commenti).

Una voce. È il peccato di origine! (Commenti).

GRONCHI. Colleghi comunisti, queste osservazioni vi vengono da uno il quale nel seno del suo partito ha sempre combattuto la politica dell’«anti». Sono qui i colleghi che mi hanno sentito parlare al congresso, nei consigli nazionali, e sanno questa mia posizione.

Una voce. Ma non erano d’accordo con lei.

GRONCHI. Non importa. Io dico qual è la mia posizione in questo momento. (Interruzioni – Commenti).

La politica dell’«anti» che qualche volta a praticata in certi ristretti strati anche del mio partito, ma che soprattutto è largamente praticata da altre forze e correnti politiche, convengo che è una delle più sterili e delle più pericolose: è sterile perché non porta se non ad una posizione negativa e non costruttiva; è pericolosa perché potrebbe riprodurre, involontariamente, quella situazione dalla quale siamo usciti per virtù nostra e, dev’essere anche detto, per virtù del movimento socialista, che ha esaminato così a fondo anche nell’ultimo congresso i propri problemi, e di tutte le forze sinceramente democratiche, che possono dirsi forze di equilibrio. (Applausi).

Quando si crea e si segue feticisticamente la politica dell’«anti» non vi è che l’estremo opposto a cui ci si possa raccomandare e quando si realizzano cosi fattamente le due posizioni, si rischia di riprodurre la situazione del 1920-1921, quando per riconquistare la libertà che si diceva minacciata dal cosiddetto bolscevismo imperante, anche il ceto medio non vide altra salvezza che correre nelle braccia del fascismo sorgente; quando cioè le forze anche nostre, di tutti i partiti, di centro o di centro sinistra, se non vi dispiace questa geografia politica inconcludente, furono frantumate, perché si sentì che esse non possedevano alcuna reale efficienza, non possedevano alcuna reale possibilità di garantire quella libertà che soltanto per paradosso una dittatura sembrava di poter tutelane e sviluppare.

È evidente che se io rivolgo a voi talune osservazioni lo faccio non per spirito puramente Negativo. Io sento quanto voi la necessità dell’unità nazionale. Io so che noi dobbiamo percorrere molto cammino insieme, perché la configurazione politica del nostro Paese, se non ne avessimo la convinzione oggettiva, ce lo imporrebbe come una pratica necessità. Ma è evidente, che per creare l’assetto di una repubblica democratica, occorre che le forze che vi cooperano non diano la sensazione di servirsi della democrazia come di un mezzo strumentale o di una fase transitoria, ma diano invece la sensazione di credere alla realtà ed alla stabilità, nel suo sviluppo e nella sua evoluzione, di un metodo democratico che escluda il metodo di ricorso alla dittatura ed alla violenza. (Applausi al centro).

Voi che andate inevitabilmente rivendicando l’attualità permanente del marxismo e siete voi soli, perché i vostri cugini socialisti sono alquanto più guardinghi (non vi è che il Vangelo che affermando principî morali riflette e domina perennemente la vita dei secoli e dei millenni, ma tutte le dottrine che legano la loro sorte a quella dei fenomeni economici inevitabilmente mostrano delle rughe dopo qualche decennio di vita, anche se sono frutto di ingegni poderosi come Marx, Engels e altri della loro scuola), voi che rivendicate questo metodo, non potete non negare che vi sia al fondo di esso l’ineluttabilità di un ricorso alla violenza. Adopro questo termine nel significato più largo e più lato della parola. Vi è un momento nel quale la evoluzione non serve a vincere le resistenze, non serve a distruggere le distinzioni di classe. Non vi è possibilità se non in un mondo mitico o mitologico che ciascun uomo o ciascuna classe sappia sacrificare il proprio egoismo all’interesse degli altri individui e classi, ma all’infuori di questo mondo metafisico non c’è che la compressione e la sanzione della legge che possano realizzare un regime così organizzato. Ed allora il dilemma in cui praticamente si svolge per voi la storia, se voi lo confessate apertamente, è: rivoluzione borghese o rivoluzione proletaria, dove la democrazia appare molto spesso una specie di elemento di transizione.

Può darsi che questo d’ora innanzi non sia. Può darsi che anche fra voi un processo di revisione si vada approfondendo. E se noi leggessimo certe vostre recenti affermazioni, dovremmo convenirne, perché non c’è neanche bisogno di essere marxisti per prendere la vostra tessera, in quanto basta rispettare il vostro programma politico. Ora il vostro programma è il nostro; è quello d’ogni partito democratico. Ed io stesso vi dico che non farei alcuno sforzo a chiedere la vostra tessera, se si trattasse solamente di accettare il vostro programma.

Una voce. È questione di tempo!

GRONCHI. Ma perché volete privare la vostra azione di quello che è il solo fermento da cui essa trae tutto il suo valore e tutta la sua forza rivoluzionaria? Voi avete un principio ed una base ideologica che sta in fondo alle vostre rivendicazioni, alla base delle impostazioni dei vostri problemi concreti e non dovete irritarvi se trovate in mezzo a noi dei perplessi e dei dubbiosi. Non dovete meravigliarvi se nel Paese c’è questo senso di disagio che dice: fino a quando e fino a qual punto? Ed è questo disagio che assume una portata politica ed è lo stesso problema politico che si pone per la stabilità di questo Governo.

Certamente vi è anche nei riflessi della politica estera una riprova di quanto sto dicendo. Noi ci troviamo di fronte a problemi nei quali l’atteggiamento dei nostri partiti è stato uguale. È vero che le proposte cosi infelici e dolorose della frontiera occidentale si devono ad un capo di governo che ha con noi stretti motivi di parentela, ma è altrettanto vero che se i socialisti hanno assunto atteggiamenti diversi e differenti, i vostri uomini hanno caldamente sostenuto questo stesso punto di vista. E vorrei dire che se Bidault ha commesso l’errore di pensare che il cedere sulla posizione del nostro confine orientale gli avrebbe guadagnato l’appoggio per la soluzione della Renania, sulla quale egli puntava, non si deve dimenticare che egli aveva una situazione interna di governo e di equilibrio di partiti per cui non poteva sembrare meno nazionalista dei comunisti.

La stessa situazione oggi si crea e si è creata di fronte a Trieste, per cui ha ragione Togliatti quando dice: guardiamoci dal risvegliare questa mentalità nazionalistica, guardiamoci dal fare appello a questi sentimenti che troppo spesso sconfinano nello sciovinismo. Pienamente d’accordo. Ma siete voi completamente sicuri che questo spirito e questo stato d’animo non scaturiscano dall’atteggiamento eccessivamente scettico e freddo e negatore di una gran parte dei partiti politici italiani e non si affermi, come si affermò, col tempo, come il mito della vittoria mutilata, che fu uno dei moventi ideologici del sorgere del fascismo? Siete ben sicuri che stia nelle nostre mani impedire questa colorazione nazionalistica del nostro dolore e del nostro rimpianto o se questo non possa produrre il crearsi e il rafforzarsi di molti stati d’animo e di reazioni, che investirebbero le basi stesse della nostra vita democratica? (Applausi).

Di tutti questi fattori spirituali bisogna tener conto, anche se dobbiamo contenerli entro le forme che le nostre considerazioni politiche e, direi, fredde della realtà, ci consigliano. Di questi interessi e di questi moventi ideali bisogna tener conto perché sono vivi nella vita di un popolo. Un popolo non è soltanto entità economica, non è soltanto entità sociale; è qualche cosa di più. Quando parliamo di tradizioni, di lingua, di comunanza di vita e di pensiero, noi non suscitiamo fantasmi retorici e letterari, ma constatiamo la realtà viva, al di fuori di tutte le farneticazioni dell’imperialismo, di tutte le esasperazioni dello spazio vitale; constatiamo il germe più vero, più naturale di tutte le collettività nazionali. (Applausi).

Ecco perché bisogna avvicinarsi a questi problemi con rispetto.

Questa guerra riproduce stranamente le situazioni che l’altra guerra sembrava avere avviate a soluzione. Tutte le guerre creano nuove aspettative nei popoli, un po’ perché, dopo ogni diluvio, si spera che il sereno ritorni, un po’ perché gli stessi governanti e le stesse classi dirigenti eccitano queste aspettative per indurre i popoli al contributo supremo che essi possono dare: il meglio di loro, la loro vita, i loro affetti. Dopo ogni guerra si crea l’aspettazione di una umanità che sia alquanto diversa di quella che nella guerra è precipitata. Così allora, così oggi.

Ed oggi, l’equilibrio internazionale che si va creando rassomiglia stranamente a quello di allora. Se rileggessimo con pacatezza la Carta atlantica, parrebbe preistorica perché molto diverso è lo spirito e l’atmosfera spirituale, nella quale viviamo in questo momento.

Non v’è più senso di solidarietà o di fraternità, ma si è tornati alla politica degli antagonismi, che sono tali da aver condotto il mondo slavo a dilagare in Europa, come mai era avvenuto nella storia; mai stabilmente, poiché il 1876 vide la Russia in Albania, il 1877 la vide ritornare, attraverso il trattato di Berlino, nei suoi naturali confini (Interruzioni – Commenti).

Ora questo espansionismo io non l’ho sopravvaluto come forza di espansione ideologica, per cui taluni, che sono i più inclini alla formulazione teorica o metafisica degli avvenimenti politici, pensano che la Russia tenda a bolscevizzare l’Europa o il mondo; ma la valuto per quello che esso è: ossia, massiccio blocco di popoli; i quali, con interessi convergenti, pongono il loro problema, oltreché economico, politico, proprio sulla linea di displuvio nella quale si trova l’Italia.

Ed ecco la delicatezza della nostra posizione; delicatezza che ci trae naturalmente al di fuori di quella adesione all’uno o all’altro blocco, che l’onorevole Togliatti paventava, perché noi da una alternativa di questo genere non avremmo che da ricavare tremende conseguenze, essendo evidentemente il pacifico vaso di coccio manzoniano tra due vasi di ferro.

Ma una posizione di questo genere ci dà anche la linea che dovremmo seguire in questo momento. Noi ci appelliamo a questi motivi sentimentali che hanno il loro valore; ma dovremmo soprattutto appellarci nella nostra politica estera a due concetti realistici. Il primo è la nostra adesione a quei principî che vengono ad essere oggi negati e che eliminano una politica di clientele, di blocchi contrapposti; cioè la nostra adesione ad un principio di solidarietà più vasta che crei la federazione di popoli, sola base di una pace più sicura. Il secondo è una specie d’interrogativo che possiamo porre agli Alleati o ai «Quattro» che hanno deciso – sembra ormai per trattato stampato – dei destini del nostro Paese.

Il problema dell’Italia non è soltanto problema italiano: è problema europeo e mondiale. Europeo, perché siamo 45 milioni di abitanti che non hanno nel loro Paese, per scarsezza di risorse naturali, la possibilità, nonché di sviluppare alto il tono di vita sociale, di alimentare i propri figli.

Si tratta di un Paese che ha teso verso le colonie per la necessità di espansione, che era una necessità sociale nel suo complesso nazionale, che ha posto nell’emigrazione uno dei mezzi di risolvere l’angoscioso problema che si addensa anche oggi al di là e al di sopra della paralisi delle industrie e della disoccupazione.

Se all’Italia toglierete le colonie, centellinerete le materie prime, se ne minaccerete l’indipendenza, voi potrete avere la pace in Europa, ma con un popolo inquieto al quale avrete negato le sue ragioni di vita. Ed è questa l’impostazione del problema che dobbiamo raccomandare a coloro che hanno difficilissimo incarico di riorganizzare il mondo. Non si riorganizza l’Europa senza l’Italia al suo giusto posto, quale le deriva non da smanie d’imperialismo, ma dalla sua capacità, dalla sua volontà costruttiva di lavoro: ed è questo soltanto che chiediamo in questo momento. (Vivi applausi).

Sta in ciò, probabilmente, la maggiore ragione di ottimismo con la quale ci stringiamo attorno al Governo, senza fare, e consigliando anche agli altri di non fare, eccessive analisi su questioni di impostazione e di metodo. Ci sarà tempo di esaminare tutto questo: o attraverso quella Commissione dei trattati internazionali che è stata insediata, o attraverso altre discussioni che si faranno quando potranno esser fatte liberamente, perché ciascuno di noi saprà che questa libertà di esame non nuocerà in nulla alle nostre posizioni nazionali.

Ma non sarà inopportuno dire come, in fondo, si siano fatte da qualche parte non critiche di metodo, ma impostazioni generali, convenendo che su questa unica linea si poteva battere.

Ho sentito l’onorevole Togliatti ripetere un suo concetto, che il metodo migliore per risolvere la questione dei nostri confini orientali è l’accordo diretto. Ne siamo persuasi anche noi. Soltanto l’accordo è come il matrimonio: bisogna essere in due. Ed è chiaro che ogni nostra buona volontà non ha trovato, per usare una frase eufemistica, uguale corrispondenza dall’altra parte. È a conoscenza di tutti come i nostri tentativi, diretti o indiretti, di metterci in contatto con quelli che si contrapponevano e si contrappongono ancora come nostri antagonisti, siano tutti caduti. Altra forma non c’era se non di accettare quel lavoro paziente ed estenuante di giuochi e dì influenze attraverso i «Quattro» che hanno nelle loro mani i destini di Europa.

Oggi l’interesse nazionale ci impone dì dire al Governo che prosegua nel suo sforzo di difendere la integrità delle nostre terre meglio che gli sia possibile; che consideri come sia necessario assumere e mantenere quella posizione di fermezza alla quale non potrà mai essere imputato un carattere di ostilità, che possa crearci difficoltà nell’avvenire. L’onorevole De Gasperi, che capeggerà questa ultima fase delle trattative, tornerà poi a riferire quali sono stati i risultati degli sforzi e questa Assemblea dovrà decidere. Io non voglio oggi dire come debba decidere. So che non abbiamo alcun interesse ad estraniarci dalla vita internazionale, ad isolarci dalla vita europea; so che abbiamo una coincidenza delle nostre idealità e delle nostre stesse esigenze ed è reinserirci al più presto possibile, non soltanto per ragioni, direi, economiche, perché dipendiamo ancora per qualche tempo troppo strettamente dalle potenze anglosassoni, quanto perché si sia possibile sviluppare al massimo questa nostra forza di espansione che si manifesta oggi pur attraverso tante difficoltà e tanta lentezza di scambi.

Io dico, né suggerisco all’Assemblea oggi quale potrà essere il nostro pensiero; dico che oggi il nostro dovere è di essere dietro al Governo come una vera unità nazionale, perché si senta ovunque che, al di fuori e al di sopra delle divisioni di partiti, c’è una concezione di giustizia alla quale noi aderiamo; concezione che risponde alla difesa sin qui fatta della nostra integrità, dei nostri interessi e dei nostri diritti.

Credo di avere così detto con brevità quale, secondo me e secondo noi, è la nostra posizione della vita politica del Paese in questo momento. Noi non deluderemo le aspettative. Vi sono molti dentro questa Camera e fuori che aspettano con una certa curiosità il cimento coi problemi concreti. Qualcuno ha detto che noi siamo l’ultima Thule della borghesia italiana; che noi abbiamo raccolto così gran numero di voti perché la borghesia ha veduto in noi il suo ultimo baluardo di difesa. Seppure questo fosse accaduto, seppure esistesse questo detrito di classe dirigente che sembrerebbe scomparso dalla vita politica italiana – poiché non si delinea nella nostra geografia politica neanche il debole segno di un partito conservatore – esso non avrebbe potuto domandarci più ingenuamente una difesa che contrasta col nostro pensiero, col nostro programma e col nostro atteggiamento.

Io credo che la eterogeneità tante volte rimproverata al nostro gruppo voi la vedrete scomparire quando si tratterà di applicare alla soluzione dei problemi concreti un criterio di giustizia sociale, perché non potremmo essere degni del nome che ci siamo scelti se non volessimo questa esigenza di giustizia sociale al di sopra di ogni considerazione politica, o peggio, elettorale (Applausi al centro).

Questo nome che noi abbiamo assunto ha una tradizione e noi l’abbiamo scelto dopo quello di «Partito popolare» non a caso. È una tradizione che ci riconduce al 1902 e al 1908 e che aveva avuto i suoi segni precursori perfino nel 1900, quando le carceri di Milano videro, accanto a Filippo Turati e ad Andrea Costa, Don Davide Àlbertario. (Applausi).

Noi possiamo risalire un po’ lontano nel tempo, anche prima della partecipazione che molti nostri amici hanno preso alla lotta per la libertà, per dire come questa esigenza della libertà sia qualche cosa che non risponde ad un interesse contingente, ma che è la sostanza stessa del nostro pensiero. Ecco perché sentiamo di costituire il fondamento di una vita democratica vera; ecco perché abbiamo voluto e vorremmo assumere anche maggiormente su di noi la responsabilità di condurre questi primi passi della Repubblica, perché noi siamo sicuri che attraverso la nostra influenza la libertà e la democrazia saranno sostanziate in ordinamenti che ne formeranno le più solide basi per il futuro. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Pacciardi.

PACCIARDI. Onorevoli colleghi, mi rendo conto della stanchezza di questa Assemblea dopo così lunga e, sotto molti aspetti, veramente interessante discussione. Io sono sfortunato, perché parlo all’ultima ora, in questa sede conclusiva, e d’altra parte, guai a questa Assemblea, se dopo cinquanta discorsi, ci fosse ancora qualche cosa di originale da dire.

Ormai i problemi, io credo, sono stati tutti sviscerati e le posizioni sono state tutte chiarite. Vi domando scusa, se debbo fare alcuni rilievi sulla posizione del Partito repubblicano.

È la prima volta, dalla conquista dell’unità in poi, tranne le eccezioni commissariali di Chiesa e di Comandini pel periodo eccezionale della prima guerra mondiale, che il Partito Repubblicano partecipa ad un Governo nazionale. C’è stata qualche critica a questo nostro atteggiamento; c’è stato anche gualche dileggio. L’onorevole Nitti, per esempio, ha parlato di Governo di tre partiti e mezzo. Io ho un grato ricordo dell’onorevole Nitti. Ricordo che nella sua casa di Parigi pendeva, dalle pareti modeste e onorate del suo esilio, un solo ritratto – e Nitti si vantava che ci fosse questo solo ritratto – il ritratto di Mazzini che, secondo lui, aveva inspirato sempre, nella vita, la sua condotta ed era anche fiero di vantarci le memorie garibaldine della sua famiglia. Se scandagliate nell’animo di ogni italiano, troverete sempre questo orgoglio, perché è la migliore linfa a cui ha sempre attinto il migliore sentimento nazionale.

Un partito che ha raccolto nella votazione più di un milione di voti, e ne avrebbe potuto raccogliere due milioni, se i movimenti neo-repubblicani, che sono nati nella lotta clandestina e nella inevitabile confusione della disfatta, avessero trovato (come stanno per trovare in gran parte) la loro strada, non si può dire «mezzo partito».

Comunque, ci permettano l’onorevole Nitti e gli altri onorevoli colleghi di essere fieri di questo mezzo partito. Per settant’anni siamo stati i soli, o quasi, che hanno tenuta viva la protesta storica del Risorgimento nazionale italiano contro la monarchia.

Questa repubblica è nata un po’ in pantofole e con un berretto frigio che somiglia troppo a un berretto da notte, quasi scusandosi di essere venuta al mondo. Per fortuna ci sono queste memorie, queste tradizioni repubblicane, saldamente radicate nell’animo nazionale. Chiusa questa tragica parentesi monarchica, il Paese può riprendere il suo corso, il corso della sua storia più bella, dimenticandosi – se n’è già quasi dimenticato – della monarchia di Savoia.

Per fortuna la repubblica non nasce soltanto dalla disperazione, dal dolore, dal dispetto, dai tormenti, dagli sgomenti della disfatta, ma è anche lo svolgimento, il coronamento delle stesse premesse storiche della nostra unità nazionale, e questo si deve alla presenza secolare sulla scena politica italiana di un partito come il partito repubblicano italiano.

È per questo, onorevoli colleghi, che, quando i tre grandi partiti di questa Assemblea hanno voluto costituire un Governo, hanno creduto di non poter fare a meno dell’apporto del partito repubblicano italiano, perché sentivano che questo apporto significava qualche cosa di più della mera forza numerica del partito; era una specie di anello storico che congiunge il passato al presente e all’avvenire; ed è per questo che noi non abbiamo rifiutato, e non potevamo rifiutare il nostro consenso a così affettuoso richiamo. Ne è venuto fuori un Governo non di tre partiti e mezzo, ma di quattro partiti; non lo dico per gonfiarmi di piccolo orgoglio, ma perché il nostro partito intende assumere la sua parte di direttiva e di responsabilità. (Applausi a sinistra).

Naturalmente è un Governo transitorio, che ha la durata strettamente limitata dalla stessa legge, ed è un Governo di coalizione. Ha tutti i pregi e tutti i difetti del Governo di coalizione. Infatti questi Governi hanno anche dei pregi, tanto è vero che i Governi di coalizione sorgono nei momenti di emergenza nazionale, nei momenti più gravi della vita di una nazione. Noi tutti abbiamo assistito con una certa pena e preoccupazione al contrasto ideologico che si è manifestato testé in questa Assemblea e che aveva certamente un sottinteso politico che non è certo sfuggito, e dinanzi al quale ci troviamo nella condizione di voler restare indipendenti in mezzo a un conflitto di blocchi contrapposti. Io credo che il Paese guardi a questa collaborazione di partiti diversi in momenti in cui gli interessi nazionali sovrastano decisamente sull’interesse di partito, con molto. favore.

Io credo che questa Assemblea, lo stesso onorevole Gronchi, e il Paese si sentano molto più tranquilli nell’avere al Governo i comunisti, in questa tremenda crisi, nella quale lo sfruttamento di tutte le miserie e di tutti gli scontenti sarebbe possibile, piuttosto di averli all’opposizione. Questi sono i vantaggi dei Governi di coalizione.

Ma hanno anche difetti. Noi crediamo che, pure impegnati come siamo, senza riserve e senza doppi giuochi, a sostenere l’azione del Governo, noi possiamo tranquillamente sottoscrivere a molte delle critiche che sono state fatte al Governo stesso.

Nessuno più di noi è partigiano di una semplificazione dello Stato, di una smobilitazione dell’apparato monarchico fascista, rimasto in piedi in questo periodo, nel quale la monarchia è scoronata, ma la repubblica non ha ancora i suoi istituti. Nessuno più di noi è favorevole a sfrondare nella farraginosa macchina dell’amministrazione statale. Abbiamo domandato anche noi, per cominciare, una unificazione di ministeri. Per esempio, ci pare un assurdo che, nelle condizioni in cui siamo, non si siano potuti unificare i tre Ministeri delle forze armate che ne hanno, addirittura, partorito un quarto all’ultimo momento. E questo è uno dei difetti dei Governi di coalizione, che cominciano sempre col programma di ridurre i Ministeri e poi finiscono regolarmente per aumentarli.

Non è senza significato che noi abbiamo fatto iscrivere nel programma del Governo l’impegno a ricostituire, o tentare di ricostituire, quella cellula prima di ogni libera organizzazione statale che è il Comune; e vedremmo volentieri, anche in questo periodo transitorio, che si cominciasse a tentare di dare corpo all’altro ente che dovremo creare nella costituzione e che è la Regione, magari con una giunta provvisoria nominata dai Comuni.

È ovvio che quanto più si dà iniziativa, autonomia, responsabilità agli enti locali, tanto più si toglie alla pesante macchina dello Stato; cosi come quanto più si dà libertà, autonomia, responsabilità, iniziativa al popolo, agli individui, tanto più si alleggerisce la soffocazione dello Stato centrale.

E non credo che ci sia alcuno in questa Assemblea che più di noi senta l’esigenza di moralizzare la nostra amministrazione, di renderla più parsimoniosa. Se c’è una dignità storica, in mezzo a tante virtù e a tanti errori delle repubbliche italiane in tutto il corso della storia italiana, è proprio quella di aver trasportato nell’amministrazione e nei costumi un’austera, rigorosa moralità. Se la corruzione si infiltra negli organi dello Stato, ogni tentativo, anche il meglio intenzionato del migliore dei Governi, si può infrangere.

Prima ancora dell’esistenza di questa Assemblea, noi abbiamo vivacemente domandato di rivedere i quadri della nostra burocrazia, delle nostre forze armate e di polizia e del nostro personale diplomatico. Abbiamo fatto molte esperienze, abbiamo visto sorgere e tramontare le repubbliche dopo la prima guerra mondiale, e le abbiamo viste tramontare quasi sempre per un’unica via. Noi richiediamo alla burocrazia statale non soltanto un’adesione di tessera, ma una adesione di anime in questo difficile momento della vita nazionale di trapasso da un regime all’altro; noi chiediamo alle forze armate molto di più di un’adesione formale. Io non ho voluto imbarazzare il mio amico Facchinetti al Ministero della guerra, domandandogli quanti generali ha a sua disposizione; ma sono sicuro che se si volessero impiegare tutti nelle forze armate di oggi, un generale comanderebbe una squadra, quella unità che normalmente comanda un caporale. Invece voglio imbarazzare l’amico Micheli del Ministero della marina per dirgli che ci sono, fra ammiragli in servizio e ammiragli a disposizione, più di 80 ammiragli. Per doverli impiegare tutti bisognerebbe mettere un ammiraglio a comandare un motopeschereccio. (Commenti).

Ho vissuto la tragedia di Spagna; ho visto anche il tramonto della repubblica di Weimar, che aveva conservato tutta la casta imperiale dei Lüdendorff e degli Hindenburg. Sapete come s’è accorto il Presidente Azaña che la Repubblica spagnola correva serio pericolo? Perché un giorno gli addetti militari alla Presidenza e la stessa guardia non s’erano presentati in servizio; tutti i generali, da Franco a Queipo de Llano, avevano fatto adesione formale alla Repubblica.

Per fortuna nel nostro Paese non ci sono tradizioni di pronunciamenti, ma indubbiamente vi è ancora una casta militare che è stata legata tradizionalmente alla monarchia e che durante il cosiddetto periodo della tregua istituzionale ha costituito cellule militari e para-militari che sono potenzialmente delle cellule di cospirazione. Io dico al Governo di fare estrema attenzione. Per la Repubblica spagnola sarebbe stato molto meglio schiacciare per tempo la testa a qualche generale, piuttosto che correre il rischio di due anni di guerra civile con un milione di morti e con l’istaurazione di un regime che costituisce anche oggi un insulto alla civiltà europea (Vivissimi applausi a sinistra) e soprattutto piuttosto che rischiare l’inizio di una guerra universale, che è nata appunto nei campi di Spagna e che è costata all’umanità 30 milioni di morti ed un ammasso apocalittico di rovine.

La diplomazia. È notorio che Palazzo Chigi non è proprio una fucina ardente di repubblicanesimo. Nelle ambasciate sono stati cambiati alcuni titolari; ma quando gli stranieri si avvicinano ai servizi delle nostre ambasciate, trovano sempre le stesse facce e quando vanno nei convegni internazionali trovano gli stessi giornalisti che erano intorno a Mussolini. (Applausi a sinistra).

Ciò è molto compromettente per il nostro interesse nazionale. Ma io non giudico per il momento questo problema dal punto di vista della politica estera. Lo giudico dal punto di vista della difesa nazionale e della difesa della Repubblica.

È notorio che il primo Ambasciatore della Repubblica Spagnola a Parigi, in tutti gli ambienti politici di Washington, si vantava apertamente di avere ingannato Léon Blum sulla reale situazione della Spagna creata dall’improvviso colpo di Stato, mentre il Governo della Repubblica spagnola lanciava alla Repubblica amica invocazioni disperate di soccorso.

Per la difesa della Repubblica occorre fare molta attenzione ai suoi ordinamenti di sicurezza all’interno, ma anche ai suoi rappresentanti all’estero: in un momento di crisi si deve essere non dubbiosi del loro comportamento. I Consolati sono sempre gli stessi.

Sono tentato a raccontarvi un episodio del Consolato di una grande città degli Stati Uniti. Voleva inviare un plico (e non so perché non si è servito delle normali vie dell’Ambasciata) direttamente al Ministero degli esteri e si è servito di una personalità americana, del resto estremamente seria e onorevole. Gli ha dapprima inviato il plico con lo stemma di Casa Savoia. Poi quando ha saputo dalle agenzie che i dati del Ministero degli interni segnalavano una netta prevalenza repubblicana, ha ritirato il plico ed ha mandato al suo messaggero un altro plico senza lo stemma dei Savoia. Poi è venuta la funerea cerimonia della sala della Lupa, che tutti ricordiamo e la resistenza del Re ed allora ha ritirato il plico repubblicano ed ha rilasciato un nuovo plico monarchico. Poi è venuta la notizia che il Re era partito ed allora ha mandato a questo messaggero due plichi: uno… monarchico ed uno repubblicano ed ha detto: si arrangi lei. Quando va a Roma veda se c’è la repubblica o la monarchia e consegni uno dei due plichi! (Ilarità).

Voi ridete, ma una diplomazia che fa ridere non è una diplomazia che possa salvaguardare i supremi interessi della Nazione (Applausi a sinistra). Del resto, come negare che c’è un certo «laisser aller?» Questa è la repubblica dei buoni figliuoli!

L’altro giorno, il nostro amico Lombardi ha sbalordito questa Assemblea leggendo un tipico esempio di prosa fascista. Oggi Togliatti ce ne ha dato un altro esempio. Ma si vede che gli esempi sono copiosi. Volete sentire poche parole di questo giornale che si pubblica, come quello citato da Togliatti, col consenso assai liberale del nostro bravo Arpesani, che dà permessi a tutti?

Sentite come conclude questo articolo. Parla dell’uccisione di Mussolini e delle pagine che l’ex duce riempì all’ultimo, e che – dice il giornale – «andarono disperse come le foglie, disperse le valigie e i documenti raccolti, quando il capo della Repubblica sociale abbandonò Villa Feltrinelli, e disparve anche il diario di cui pubblicammo tempo addietro le profetiche pagine: l’appello ai giovani che intona il carme dei secoli a un decennio di gloria. Ma qualche memore fiamma riscalderà la cenere e qualche memore seme la renderà feconda. La nemesi vendicherà un popolo che non si rinnega, spegnendo quelle ceneri e distruggendo quel seme chè il sole dei morti non tramonta». Ebbene, non c’è nessuno che si accorga di questo linguaggio fascista? E allora io dico che qui non si tratta della tradizionale gentilezza repubblicana e italiana, non si tratta più di repubblica di buoni figlioli; si tratta di vera dabbenaggine, se permettiamo nostalgie e apologie del regime di crimine che ci ha fatto tanto soffrire. (Applausi a sinistra).

Una voce. Ce ne siamo accorti.

Altra voce. Ben altre apologie ci sono in giro!

PACCIARDI. Noi non siamo sospetti di ondeggiamenti nella difesa della libertà. Mi rivolgo a quella parte dell’Assemblea che lo sa. Consideriamo la libertà come sacra e fra le sacre libertà noi consideriamo come più sacra la libertà del pensiero e quindi la libertà della stampa. Noi pensiamo ed abbiamo sempre pensato che senza la libertà la vita non vale la pena di essere vissuta, che l’umanità degraderebbe verso l’animalità. Ma è appunto per questo che noi non vogliamo la libertà di distruggere la libertà. (Applausi a sinistra – Commenti).

Una voce. La libertà è libertà.

BENCIVÉNGA. La libertà è una sola!

PACCIARDI. Non pensiamo in che cosa possano offendervi queste affermazioni. Noi siamo anche stati sostenitori, e non ce ne vergogniamo, e ce ne assumiamo tutta la responsabilità, di un’ampia amnistia. Noi sentivamo che il primo governo veramente nazionale italiano, il Governo della Repubblica, avrebbe assolto ad una grande missione italiana, se avesse spento per sempre questo gusto, questo urto delle fazioni, che è stato sempre il tormento della nostra storia. Noi ci siamo fatti fautori dell’iniziativa di un’ampia amnistia, perché pensavamo che il regime del popolo, che noi abbiamo voluto, fosse il solo regime capace di ricreare l’unità nazionale della Nazione. Evidentemente ci siamo riferiti alla grande massa degli illusi e dei traviati che la Repubblica doveva accogliere nel suo seno con chiaroveggente indulgenza; ma quando noi domandavamo questa amnistia, quando io personalmente l’ho domandata in un’occasione solenne al Campidoglio (mentre si innalzava sulla Torre Capitolina tra la commozione generale, la bandiera del 1849), ho esplicitamente detto che i veri responsabili, che i veri criminali dovevano restare al bando della Nazione. Ed invece ritornano per la erronea, pare, applicazione dell’amnistia, in circolazione. Ebbene sia. Ma il Governo ha il dovere di una maggiore vigilanza; non può continuare con questo «laisser aller»; il Governo ha il dovere, se non li ha, di darsi i mezzi perché questi pericolosi individui, immessi nel nostro corpo sociale, non diventino altra sorgente d’infezione. (Applausi).

Tralascerò altre considerazioni, perché con me deve finire la vostra fatica.

Vorrei dire due parole sul programma economico e finanziario del Governo.

Forse si aspetta dal Partito Repubblicano, che è accusato di vivere fra le nuvole, di non interessarsi di questi problemi. Io non sono, disgraziatamente, un tecnico e deploro che la necessaria decurtazione della lista degli oratori abbia impedito ad alcuni tecnici del mio gruppo di parlare di questo argomento; del resto mi consolo, perché mi pare che Wilfredo Pareto dicesse: «La La tecnica serve qualche volta a rendere inintelligibili le cose di senso comune più semplici», o qualche cosa di simile.

Io mi voglio appellare, nell’esame di questa materia, infatti, al semplice senso comune.

Voglio fare un’osservazione, che non è peregrina, che è già stata fatta in quest’Assemblea, e non è neanche consolante; ma forse è bene ritornarvi sopra, perché sia ascoltata fuori di qui.

La crisi nella quale diguazziamo, non è crisi italiana; è una crisi universale, che riguarda non solo i vinti, ma anche i vincitori. Questa è una delle tante prove che la guerra non paga, che la guerra, oltre ad essere un grande crimine, è una grande imbecillità. Vincitori e vinti si trovano in questo campo press’a poco nelle identiche condizioni. C’è un severo razionamento in Inghilterra ed anche in Francia; e si incominciano a razionare i generi di prima necessità anche in America. E chi è stato in America sa quello che significa: con quello che normalmente gli americani buttavano via, non soltanto in cibi, ma in suppellettili e vesti, ci poteva vivere largamente tutto il popolo italiano. Del resto, con quello che hanno buttato via o venduto i soldati del corpo di spedizione americano, è vissuta una larga aliquota del popolo italiano. Ebbene, anche in America comincia il razionamento. E gli stranieri che vengono nel nostro Paese sono meravigliati e qualche volta scandalizzati delle nostre condizioni di vita, che sono più apparenti che reali. È esatto quello che diceva testé l’onorevole Togliatti: ci sono degli indici che bastano da soli a considerare quanta terribile povertà c’è nel popolo italiano. C’è l’indice della mortalità infantile, il 430 per mille, un indice vergognoso, per stabilire il vero stato delle nostre condizioni economiche. Però, è anche vero che un popolo vissuto come il nostro, sempre più o meno in miseria, si adatti meglio a queste condizioni di un popolo che, vissuto nell’agiatezza, è piombato nella indigenza, come i popoli vinti o vincitori di questa guerra.

È un miracolo che in questo disastro, fra tante macerie e con gli obblighi internazionali che abbiamo, è un miracolo che ce la siamo in qualche modo cavata, che siamo riusciti non dico a vivere, ma a vivacchiare.

È un miracolo dell’energia, della capacità, dell’intelligenza, dello spirito di adattamento del popolo italiano, senza trascurare naturalmente la riconoscenza che dobbiamo all’UNRRA ed al suo Presidente, che oggi è ospite gradito, tra i più graditi ospiti del nostro Paese.

C’è un punto nel quale, ormai che siamo all’ora della conclusione, mi pare che siamo tutti d’accordo, ed è la lotta alla inflazione. L’inflazione significa la fame, la miseria, il suicidio. È inutile che l’operaio guadagni 10 milioni al giorno, se deve spendere un milione per una scatola di cerini. Questo l’operaio oggi lo sa. Alla fine dell’altra guerra sembrava non se ne rendesse conto. L’inflazione è la morte, e poco importa se il lenzuolo funebre è intessuto di biglietti da mille.

Però si muore lo stesso anche salvando la lira, salvando tutta la capacità d’acquisto della lira, quando la lira non è più in circolazione, ma è come una dea inaccessibile o sentinella lucente sul cimitero economico della Nazione. Anche Mussolini volle salvare la lira, e la difese sulla quota 90. Ma la conseguenza fu il corteo di 1200 fallimenti al mese, fu la vera ecatombe della vita economica della nazione. La difesa della lira, per parlare in linguaggio militare, che più mi è usuale, deve essere elastica, non può essere rigida.

Tra queste due croci devono destreggiarsi i Ministri del tesoro e delle finanze.

Si fa presto a dire che bisogna fermare rigidamente i salari ed aspettare che il costo della vita diminuisca. Questo mi ricorda un po’ la favola del capraio alla corte dei faraoni. Il capraio si era impegnato, contro un vistoso premio, a far parlare una capra. Ma aveva preso tempo dieci anni nella speranza che nei dieci anni morisse o il re, o la capra o, Dio ne scampi, lui stesso (Applausi).

Ebbene, la fame non può aspettare. Il problema ha un carattere sociale evidente. È chiaro che i nostri impiegati, i nostri operai di certe categorie, le «cagne magre studiose e conte» della piccola borghesia, questa miseria che si nasconde, questa miseria col colletto duro che è la miseria più tragica, non sono più in condizioni di vivere. E sono ormai parecchi mesi che attendono i provvedimenti del Governo, e hanno dato prova della loro disciplina durante le elezioni, evitando scioperi e disordini. Ebbene, tutta questa gente non può più aspettare.

C’è un problema della disoccupazione, è vero, e credo che i due milioni di disoccupati, cifra che mi pare sia stata data dall’amico Lombardi, non siano indicati in numero sufficiente. La cifra è ottimistica. Comunque non sono ancora rientrati tutti i nostri profughi. Bisogna dunque calcolare ad una cifra più vasta il numero dei disoccupati.

Ed è terribile che in un paese come questo, dove tutto è da rifare e dove, anche tenuto conto della mancanza di materie prime, le occasioni di lavoro non mancano, dove l’iniziativa è sempre stata sveglia, e dove c’è pace sociale, in questo paese non si è ricominciato ancora l’assorbimento dei disoccupati.

Quando abbiamo trattato il programma di Governo ci siamo naturalmente preoccupati di questo problema.

È stato criticato il premio della repubblica. A parte che è un provvedimento simpatico, sapete che cosa significava economicamente? Significava dare – i calcoli sono stati fatti dai tecnici – il 5 o 6 per cento di aumento di salari per quattro mesi. Era qualcosa perché la capra non crepasse subito; era una necessità impellente che l’onorevole Corbino ha dovuto accettare.

Che cosa manca allora per assorbire la disoccupazione? Per lo Stato, è chiaro, mancano i capitali. Si sono fatti molti prestiti. Non so se dico cosa azzardata, ma comunque riguarda soltanto la mia responsabilità. Non so se non sarebbe convenuto ai primi Governi di liberazione nazionale di prendere atto della bancarotta dello Stato monarchico fascista. È curioso che noi dobbiamo impiegare gran parte del nostro reddito nazionale nel pagare gli interessi del debito pubblico. Se l’onorevole Corbino emetterà adesso un prestito e arriverà a cento miliardi, cinquanta miliardi andranno per pagare gli interessi del debito pubblico. Se si fossero ridotti gli interessi, per esempio, all’1 per cento, molto probabilmente non ci troveremmo in questa situazione (Commenti).

Comunque qualche provvidenza radicale bisogna prenderla ed è scritta nel programma del Governo e noi l’abbiamo consapevolmente accettata.

Fino ad oggi era impossibile, io penso, fare una politica economico-finanziaria. C’erano tre Stati nel nostro Stato nazionale, ognuno dei quali batteva moneta per conto proprio: gli alleati, i repubblichini del Nord e il nostro Governo. Io non so e forse nessuno sa ancora esattamente a quanto ammonti la moneta in circolazione emessa dal Governo repubblichino, ma si conosce quella emessa dagli alleati. Fino al 15 giugno di quest’anno gli alleati hanno stampato moneta o l’abbiamo stampata noi per loro, per un valore di 115 miliardi di lire. Bisogna poi aggiungere altri 15 miliardi di moneta italiana che gli alleati hanno sequestrato agli eserciti e agli Stati nemici, senza contare i sessanta miliardi, o presso a poco, che noi abbiamo speso per le truppe che coadiuvavano gli alleati o che erano nelle retrovie a disposizione degli alleati stessi, o per gli operai a disposizione degli alleati o per i sussidi alle loro famiglie. Ebbene il governo della Repubblica ha ereditato questa enorme mole cartacea. Non era possibile fino ad ora non solo fare una politica economico-finanziaria, ma nemmeno fare un bilancio; un bilancio presuppone un inventario della nostra ricchezza, della nostra cosiddetta ricchezza. Soltanto ora possiamo cominciare ad orientarci. L’inventario della nostra ricchezza immobile lo conosciamo; non conosciamo invece, e lo dico in senso proprio, i sacchi di migliaia di lire di moneta nascosta. Si è proposto un cambio della moneta e non lo si è accettato. Ho sentito parlare di stampigliatura della moneta che costituirebbe un cambio alla pari. Comunque bisogna trovare i mezzi per conoscere questa nostra ricchezza nazionale e per stabilire una imposizione straordinaria progressiva sul patrimonio come il Governo ha accettato di fare.

Bisogna poi che gli italiani si comincino a convincere che essi debbono pagare le tasse e le imposte. Questo è un paese in cui le tassazioni sono complicate, ma è anche un paese nel quale le evasioni sono facili… Ho letto in questi giorni in un giornale americano che il padrone di uno dei più grandi trusts di ristoranti di New York, Longchamp, famoso in tutto il mondo, è stato condannato a quattro anni di carcere e alla confisca dei beni che aveva sottratto al fisco, nonché a due milioni e ottocento mila dollari di multa. In America ogni cittadino fa la sua denuncia, riempie i moduli delle imposte e giura che quella è la verità. I rapporti dello Stato americano coi cittadini e dei cittadini fra loro, sono basati sempre su questa presunzione di verità. Il cittadino giura e lo Stato crede.

Washington non è grande per gli americani, perché è stato il fondatore della patria, perché ha rifiutato, dopo due termini, di essere nominato un’altra volta presidente della Repubblica, perché durante la guerra civile ha rifiutato la corona di Re: sono tutti titoli ognuno dei quali lo innalzerebbe nella storia di tutti i paesi. È grande, soprattutto perché, così si insegna nelle scuole degli Stati Uniti, non ha mai detto una bugia!

Su questi rapporti di verità sono fondate anche le finanze dello Stato. Ieri La Guardia diceva che è difficile «collettarle» in America; se è difficile «collettarle» in America, figuriamoci in Italia, dove rubare allo Stato non sembra un delitto! E bisogna che Scoccimarro faccia meno paura e ci dia più fatti; questi sopraprofitti di regime non sono entrati ancora nelle casse dello Stato. Avrete sempre il consenso del Partito Repubblicano in queste misure, come lo avrete nelle riforme di struttura sociale, ad incominciare dalla riforma agraria.

SCOCCIMARRO, Ministro delle finanze. Onorevole Pacciardi, l’assicuro che entreranno nelle casse dello Stato. (Applausi).

PACCIARDI. Due sole parole sulla politica estera.

Innanzi tutto noi siamo stati favorevoli – l’onorevole De Gasperi lo sa – a mantenere l’onorevole De Gasperi come titolare del dicastero degli esteri; e quando la proposta veniva da noi, che non eravamo in competizione per altri portafogli, il Presidente del Consiglio poteva credere che non nascondeva il proposito di rapirgli il portafoglio degli interni: era per ragioni obbiettive, era per ragioni nazionali, perché in questo momento un nuovo Ministro degli esteri avrebbe impiegato almeno tre mesi per orientarsi sui complicati problemi di politica estera, e poi avremmo dato l’impressione alle nazioni che ci circondano che la politica estera avesse subito un cambiamento; e noi siamo interessati invece a mantenere, non dico il cartello delle nostre rivendicazioni, perché non abbiamo rivendicazioni da fare ad alcuno, ma a mantenere la trincea della nostra resistenza.

Nessuno ha sollevato obiezioni sul programma, sulle finalità della nostra politica estera, per quello che riguarda i nostri confini occidentali, per quello che riguarda i nostri confini orientali, per le colonie, per le navi e per le riparazioni; ma è facile costruire il muro delle nostre lamentazioni, il muro del nostro pianto nazionale. È più difficile darsi un programma per raggiungere gli obbiettivi. Secondo me, onorevole De Gasperi, è un errore – non credo che lei l’abbia mai fatto, ma è venuto da vari settori di questa Assemblea – è un errore minacciare velatamente o apertamente gli alleati del risorgere di un altro fascismo. Così facendo raggiungeremmo l’effetto di una più grande antipatia verso di noi. In qualsiasi condizione bisogna che il fascismo non rinasca più: questo deve essere un impegno nazionale.

Certe esperienze non si ripetono due volte nel giro di una stessa generazione.

Credo che sia anche errore insistere troppo sulla nostra linea di resistenza, presentandola soltanto come espressione dei nostri bisogni e dei nostri interessi nazionali: quella linea di resistenza va presentata, come infatti è, la linea di congiunzione fra i nostri interessi e gli interessi degli altri.

Quando la Francia crea questo artificioso problema territoriale fra i suoi confini e i nostri, questa «niaiserie» come Léon Blum ha avuto il coraggio di chiamarla, ferisce, i nostri interessi, ma ferisce anche i propri. C’è troppo confluenza di rapporti tra le due repubbliche latine e c’è troppa comunità di missione europea, perché rompendo questa rete di interessi comuni non si produca un danno vicendevole.

Il punto più sensibile e dolente del nostro piano di resistenza è Trieste, e qui siamo veramente su una grande linea di giustizia dalla quale non è possibile distaccarsi.

Io credo che sia stato male che abbiamo discusso di ipotesi subordinate ed ho apprezzato molto la riservatezza di Togliatti a questo riguardo, perché, fino a quando i nostri negoziatori sono in funzione, sinché il nostro Governo tratta coi Governi alleati, non bisogna scendere a ipotesi subordinate. Bisogna dire che Trieste e l’Istria sono italiane e questo è un dato che non si discute. (Applausi).

Nel 1914 Pasic, il premier serbo, non negò mai l’italianità di Trieste e dell’Istria ed il primo Ministro russo Sazonov nel 1915, mentre si facevano le trattative per il trattato di Londra, contestò bensì – ed aveva ragione – la rivendicazione italiana sull’intera Dalmazia, ma non disse mai una parola per contestare l’italianità di Trieste e dell’Istria. Wilson fu una specie di Dio per gli jugoslavi. Quando i russi hanno trattato con la Polonia per definire i confini con quella Nazione, si sono appellati ad una alta autorità internazionale neutra, ed hanno domandato la linea Curzon, e così il nostro Governo ha fatto bene ad appellarsi a questa alta autorità neutrale che è stato Wilson, idolatrato dagli jugoslavi del tempo alla conferenza della pace, così come fu bestemmiato dai nazionalisti italiani. È vero, onorevole Togliatti, che una parte della democrazia italiana, capeggiata da Bissolati, da Salvemini, da Borgese, da Arcangelo Ghisleri e da tutti noi repubblicani, ebbe il coraggio in quel momento – quando il nazionalismo italiano era vittorioso e irrompente – di sfidare la impopolarità nazionale mettendosi al di sopra dei contrasti del momento, su un piano di giustizia per noi e per la Jugoslavia; ma è deplorevole che nel campo jugoslavo non ci sia stato oggi né un Salvemini né un Bissolati. Nessuno si è levato in Jugoslavia per schierarsi su un piano di giustizia. (Approvazioni).

Ma siamo uomini politici e uomini di ragione, e vedremo dopo, non oggi – oggi il Governo deve essere fermo nella sua linea – vedremo dopo se e come potremo discutere di ipotesi subordinate.

L’onorevole Nitti ha detto l’altro giorno che i repubblicani avevano fatto intendere, o addirittura promesso, che la repubblica ci avrebbe dato condizioni di pace migliori, e che quindi votare per la repubblica era un dovere nazionale.

Infatti sono stato proprio io che ho lanciato nel mio giornale, non questo «slogan», come si dice, ma questa verità: nella quale ardentissimamente credevo e credo: votare per la repubblica era, fra le altre cose, un grande dovere nazionale (Applausi). Perché? Perché noi volevamo che al tavolo della pace sedessero non i responsabili della guerra e della disfatta, che al tavolo della pace in cospetto alle Nazioni alleate, a rappresentare questo Paese che è dilaniato all’interno e che è circondato da gente implacabile, fossero uomini che hanno sempre combattuto il fascismo, anche quando qualche maestro di democrazia dell’ultima ora dichiarava che sarebbe stato fascista, se fosse stato italiano. Noi volevamo che l’Italia fosse rappresentata dagli uomini della resistenza, dai democratici senza macchia. Può darsi benissimo che gli Alleati impongano a questa Italia del popolo – non facendo nessuna distinzione tra il regime monarchico-fascista e il popolo italiano, cioè tra i carnefici e le vittime – può darsi che impongano la stessa pace che avevano pensato d’imporre alla monarchia; ma mi meraviglio che l’acume dell’onorevole Nitti e il suo istinto nazionale non lo abbiano avvertito di questa grande differenza: che una imposizione fatta alla monarchia fascista aveva almeno un’apparenza di giustizia, fatta al popolo italiano è un atto di violenza e di ingiustizia. (Vivissimi generali applausi).

Ed è per il nostro Paese, che non ha carte oggi, onorevole De Gasperi, una grande carta nell’avvenire, perché il nostro Paese non muore oggi, non vuole morire: è un grande Paese, che ha avuto glorie e trionfi, rovesci e anche abiezioni, come tutti i Paesi di lunga storia; e non è stato grande il giorno in cui si è inorgoglito nei suoi trionfi, ma sarà grande il giorno in cui riuscirà a superare virilmente le proprie afflizioni.

Noi ci siamo messi – lo sa il Governo, lo sa l’Assemblea – su questa via. Noi abbiamo liquidato i responsabili del fascismo e della guerra; abbiamo liquidato la monarchia; abbiamo lottato e stiamo lottando per conquistarci il diritto di rientrare rinnovati nel circuito delle nazioni libere. Stiamo per riprendere la nostra indipendenza, cioè abbiamo già tratto qualche lezione dal nostro martirio e ci avviamo a grandi passi verso la nostra resurrezione. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

Voci. Chiusura! Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura. Domanda se è appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

 

Dichiaro chiusa la discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, riservando la parola ai Deputati che hanno presentato ordini del giorno.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

CHIEFFI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere le ragioni che hanno determinato il sindaco di Rignano Flaminio ad ordinare, con foglio di via obbligatorio, al cittadino italiano Gardin Alberico Antonio di abbandonare quel paese, senza che ricorresse alcuno dei motivi previsti dalla legge di pubblica sicurezza; e per conoscere, inoltre, perché il sindaco predetto, nonostante l’intervento della Prefettura di Roma, cui il Gardin Alberico si rivolse per protestare contro l’ingiusto provvedimento, non abbia fino ad oggi revocato l’arbitrario ordine.

«Mastrojanni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro ad interim degli affari esteri, per sapere quale azione egli ha esercitata per affrettare il ritorno dei prigionieri di guerra che, con singolare sperequazione, sono ancora nei campi di prigionia, e quanto tempo – a suo avviso e secondo le sue informazioni – vi sarà ancora da attendere per ridonare questi figli alle madri che sono in attesa.

«Sullo, Stella».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri degli affari esteri e della guerra, per sapere se abbiano intenzione e possano pubblicare le cifre relative ai nostri prigionieri in Russia; fino a che punto si sono interessati della sorte di quei circa ottantamila italiani dell’Armir, dichiarati scomparsi, di fronte all’esiguo numero dei rientrati; se ritengono utile interessare altre Potenze per far luce su questo mistero o se alla Conferenza della pace il Governo italiano abbia intenzione di porre pubblicamente la questione dei nostri prigionieri in Russia.

«Bertola, Genua, Giacchero».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno, dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere:

«Dal Ministro dell’interno i provvedimenti presi in relazione ai gravi fatti avvenuti a Rovigo il 23 luglio.

«A seguito della dolorosa situazione in cui versa la popolazione per causa della disoccupazione, la Camera del lavoro aveva dichiarato lo sciopero generale. Una folla, guidata da elementi irresponsabili, assaltò la prefettura e, non incontrando resistenza nella forza pubblica assente, usò violenza alla persona del Prefetto.

«Chiede altresì di conoscere le disposizioni adottate per punire i colpevoli di così grave reato, che costituisce offesa alla autorità dello Stato.

«Chiede inoltre al Ministro dei lavori pubblici se intenda immediatamente di far eseguire nel Polesine tutti i lavori pubblici già disposti, che sono indispensabili per alleviare il triste fenomeno della disoccupazione.

«Interroga in fine il Ministro del lavoro e della previdenza sociale sulla necessità di intervenire perché nel Polesine sia sollecitamente concluso il patto colonico per l’anno agricolo in corso, patto tuttora non firmato, il che è causa di grave turbamento dell’ordine pubblico.

«Merlin Umberto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se intende, aderendo ai ripetuti e legittimi voti della popolazione di una importante frazione della città di Caserta, quella di Casola (Caserta-Vecchia), che trovasi isolata e assai lontana dal centro, istituire colà un ufficio postale, di cui si sente urgente il bisogno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se, nei riguardi della direzione della R.A.I., non reputi necessaria ed urgente l’adozione di severi provvedimenti diretti ad evitare che un servizio tanto importante e delicato di diffusione dei principî democratici e repubblicani continui ad essere affidato a funzionari infidi o – quanto meno – impreparati; e se – in ispecie – non ravvisi una ennesima prova di tale necessità ed urgenza nel fatto occorso ad un Deputato alla Costituente, e manifestamente lesivo della sua dignità e libertà di parola, di «censurare» il testo di un radio-discorso, sopprimendovi espressioni contrarie al fascismo, al nazionalismo, ed al combattentismo professionale, e di imporre all’ultimo momento, e come condizione per la trasmissione, la lettura di un testo rifatto dai funzionari della R.A.I. a loro esclusivo arbitrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carpano Maglioli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per conoscere quali provvedimenti abbia disposti al fine di rendere più efficaci in provincia di Latina – com’è richiesto dalle condizioni locali – la lotta anti-malarica e la bonifica dei campi minati, per eliminare, o almeno contenere, le dolorose conseguenze dei due fenomeni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quali provvedimenti d’urgenza intenda, ormai, adottare per la ricostruzione ed attivazione delle linee ferroviarie Velletri-Terracina e Gaeta-Formia-Sparanise, distrutte dalla guerra, sicché ventisette tra comuni e centri minori nelle provincie di Latina e Caserta si son trovati, e tuttavia si trovano, dopo oltre due anni dalla liberazione, senza comunicazioni ferroviarie tra loro, con i porti di Formia, Gaeta e Terracina e con le provincie di Frosinone e Caserta, linee imprescindibili non soltanto per la ricostruzione, ma anche per la ripresa industriale ed agricola, già in atto per coraggiosa, spontanea, iniziativa privata, ma i cui sviluppi – specie nel campo della produzione e dell’esportazione – sono, per ciò stesso, seriamente compromessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se, dopo il pronto intervento personale del Sottosegretario di Stato a Formia – ove, a quanto si apprende dai giornali, avrebbe disposto che sia stimolata l’attività delle imprese appaltatrici – non intenda intensificare ed accelerare:

1°) la ricostruzione edilizia dei numerosi centri della provincia di Latina devastati dalla guerra, ovunque aspramente combattuta dal Garigliano a Cisterna; e ciò prima che un altro duro inverno trovi quelle popolazioni ancora senza tetto;

2°) i lavori alle tante condutture idriche ed elettriche gravemente danneggiate dalla guerra e tuttavia abbandonate;

3°) la ricostruzione della rete stradale ed il riassetto, sia pure nei limiti dell’indispensabile, dei porti di Terracina, Gaeta e Formia disponendo – per una concreta realizzazione di tali improrogabili problemi e per alleviare la preoccupante disoccupazione – adeguati stanziamenti che consentano di attuare, finalmente e sia pure con graduale ritmo, programmi da troppo tempo invocati ed in corso di esame, ma, sin qui, non affrontati con urgenza, con metodo e con sani principî di giustizia distributiva. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo»

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri della guerra, della marina e dell’aeronautica, per conoscere quale è il trattamento giuridico, disciplinare, economico verso quegli ufficiali che, deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, ebbero nei primi mesi ad aderire alla pseudo repubblica italiana impegnandosi di combattere a fianco del Terzo Reich, firmando apposita dichiarazione, venendo così meno al proprio dovere, alla propria dirittura morale, alla dignità e fierezza dell’ufficiale italiano.

«Il trattamento usato suonò e suona offesa, insulto a coloro che preferirono la permanenza nei campi di prigionia, rischiando fame, sevizie, lavori forzati e anche la morte, piuttosto che cedere alle minacce e lusinghe del secolare nemico d’Italia. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Cappelletti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, se non ritenga opportuno estendere sollecitamente la facoltà di trattenere un determinato quantitativo di grano per uso familiare anche ai proprietari, i cui contratti di affitto prevedano il versamento del canone in natura.

«Gl’interroganti vedono la opportunità del provvedimento nel fatto che l’allargamento del beneficio eviterebbe le moltissime evasioni, che naturalmente si sono verificate e si verificano e darebbe un certo senso di sollievo – naturale dopo l’aumento della razione del pane – ad una categoria che da tempo subisce un blocco indiscriminato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sullo, Stella».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, se non creda urgente intervenire per accelerare e semplificare la procedura per facilitare agli operai emigranti il passaggio all’estero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se non creda conveniente accelerare la ricostituzione dei comuni soppressi dal regime fascista, specialmente quando si tratta di comuni che hanno possibilità di bilancio attivo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se, dopo il discorso pronunciato alla Camera dall’onorevole Finocchiaro Aprile, e prescindendo non solo dal merito delle sue idee, ma dagli stessi lamenti che riguardano dolorosi cruenti incidenti di zuffe civili difficilmente accertabili nella loro oggettiva verità, non ritenga però necessario ordinare una severa e tranquillante inchiesta su particolari e circostanziate denunzie di sevizie che, se fossero accertate, reclamerebbero gravi ed esemplari provvedimenti nell’interesse del principio di autorità che il Governo deve tutelare e difendere.

«Mazzoni».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 20,35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.