ASSEMBLEA COSTITUENTE
XI.
SEDUTA DI MARTEDÌ 23 LUGLIO 1946
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT
indi
DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Commemorazione:
Badini Confalonieri
Presidente
Macrelli, Ministro senza portafoglio
Dimissioni di un Deputato:
Presidente
Proposta di aggiunta al Regolamento:
Perassi, Relatore
Presidente
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri:
De Martino
Lombardo Ivan Matteo
Perrone Capano
Vanoni
Nobile
Cingolani, Ministro dell’aeronautica
Interrogazioni (Annuncio):
Presidente
Chieffi, Segretario
La seduta comincia alle 16.
CHIEFFI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.
(È approvato).
Commemorazione.
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Badini Confalonieri. Ne ha facoltà.
BADINI CONFALONIERI. Il distacco degli anni, la differenza della posizione morale e culturale di Marcello Soleri, possono fare apparire un gesto di superbia le parole che io voglio dire di lui per ricordarlo, nel primo anniversario dalla sua dipartita. O peggio un gesto di vanità per rendere appariscente un legame di cordiali rapporti. Pure eletto coi voti delle popolazioni che gli furono fedeli, io avverto di dover superare qualunque disagio di posizione, qualunque preoccupata prudenza per commemorare insieme lo scomparso.
Scomparso quasi prima che potesse consolare la mestizia degli anni di servaggio col conforto delle nuove speranze del paese; scomparso tuttavia prima che potesse sentirsi raggelato il cuore dalla infinita mestizia di vedere la sua terra fatta a brandelli nel mercato dei popoli vittoriosi; fatta strumento di baratto fra le superbie degli stati maggiori, fra le avidità golose di quelli che frodolentemente annunciarono al mondo la volontà di una pace giusta che frantumasse le spade della guerra, che sopprimesse i germi dei contrasti cruenti.
E poiché commemorare vuol proprio solo dire ricordare insieme, di Lui vorrò innanzi tutto far presente la coerenza costante, la dirittura serena e per questo invincibile, la limpida onestà ingenua di una convinzione di fede che per avere la caratteristica politica non era meno travolgente di qualunque altra fede.
Per questo motivo, o almeno anche per questo, egli compì degli atti di supremo coraggio, oggi ancor più così valutabili, senza convincimento di fare cose eroiche. Con la sola consapevolezza di ottemperare all’imperativo della propria coscienza, di obbedire alla forza logica delle conseguenze dalle premesse spirituali. Sul terreno politico questo fatto mi pare simbolicamente dover rievocare di lui: nella tornata della Camera dei Deputati del 29 aprile 1926, fu tutto un sussulto di cortigiano entusiasmo per l’ingresso del duce scampato a un altro attentato alla propria vita. Il Presidente Casertano si levò con approvate parole per dire la riprovazione dello stolto fanatismo, la repugnanza sorgente dall’essere stata l’aggressione ordinata da mano femminea di pazza straniera. Fu tutto, nella Camera servile, un retorico richiamo al motto napoleonico contorto per l’occasione: «Dio ce l’ha dato, guai a chi lo tocca». E nessuno volle essere contumace; ma appena spenta era l’eco di questo clamore da suburra, appena si erano raccolti dagli stenografi gli appunti dei vivissimi prolungati applausi cui si associarono le tribune, che si levò, per avere avuta la parola, Marcello Soleri a commemorare Giovanni Amendola. Ma a commemorarlo sul serio, non facendo alla sua tomba il rimprovero avere Giovanni Amendola errato, come disse il Presidente: non avere compreso l’avverarsi dello Stato forte da lui auspicato, essersi ridotto così ad una isolata e macerata tortura morale; a commemorarlo sul serio, richiamando le austere virtù politiche e private dello scomparso, esaltando la fede animosamente agitata, rievocando l’alta coscienza ed il fiero carattere temprati alla virtù del sacrificio.
Il gesto era coraggioso, proprio anche perché veniva dopo le accomodanti parole del Presidente.
Ma Marcello Soleri evidentemente lo compì come un puro e semplice atto di obbedienza ai propri convincimenti, che dovevano manifestarsi anche nei momenti difficili o pericolosi.
Era nel suo carattere; era nel suo temperamento. Quello stesso carattere e quello stesso temperamento che – anti interventista all’epoca della grande guerra – lo aveva fatto volontario fra gli alpini, soldato combattente delle montagne, ferito al Vodice, medaglia di argento al Valor Militare.
Non si era dato alle propagande retoriche delle retrovie; ma con la gente della sua terra fedele, nella umiltà piemontese del sacrificio aveva creduto di ravvisare, nel richiamo della Patria, la voce dei morti, le speranze dei vivi, i segni dei confini posti da Dio e violati dagli uomini.
La gente della sua terra era con lui; quella che ancora giovinetto lo aveva acclamato sindaco di Cuneo. Deputato costantemente rieletto alla Camera, membro influente del Governo agli approvvigionamenti, alle finanze, alla guerra, al tesoro.
Gente dei monti dunque che apprezza le virtù concrete, che vuole le sincerità aperte, che non conosce i tentennamenti.
Di essa egli aveva tutte le virtù, di essa egli rispecchiava tutte le idealità.
Mirabile esempio di carattere, di fedeltà alle amicizie e alle idee, di semplicità umile per cui gli parve che la obbedienza agli intimi comandamenti, la obbedienza alle conseguenze ineluttabili delle proprie opinioni altro non fosse che il rispetto di quel comandamento, doversi vivere come si pensa per non correre il rischio di pensare come si è vissuti, che è il sigillo supremo della aristocrazia del carattere.
Marcello Soleri può dunque levarsi dalla sua tomba per indicare a noi quell’adamantina virtù di carattere, che più di ogni altra deve costituire il patrimonio spirituale degli uomini politici.
O meglio è che alla sua tomba noi idealmente ci portiamo per ritrarne questo insegnamento e questo comandamento: se dalla sua tomba egli si levasse, le ossa del vecchio alpino avrebbero un sussulto per le ferite che sui confini di ghiaccio e di neve i mercanti della guerra stanno segnando con la grave consapevolezza del bisturi, con la perduta coscienza di un comune traffico di affari.
Nella speranza del domani, nella convinta volontà che il nostro Paese si rialzi, che gli istituti democratici si impastino di queste coerenze e di queste virtù, il nome, il ricordo di Marcello Soleri hanno l’impeto di un simbolo, la forza di una grande ed alta seduzione.
Che essa sia raccolta (Applausi).
PRESIDENTE. A nome dell’Assemblea, mi associo alle parole pronunziate in onore e memoria dell’onorevole Soleri, che è stato veramente servitore probo ed appassionato del suo Paese. Sia reso onore alla sua memoria.
MAGRELLI, Ministro senza portafoglio, Il Governo si associa alle commosse parole pronunziate dall’onorevole Badini Confalonieri.
Dimissioni di un Deputato.
PRESIDENTE. Comunico alla Camera la seguente lettera dell’onorevole Giuseppe Alberti:
«All’onorevole Presidente dell’Assemblea Costituente.
«Avevo già manifestato il proposito ai miei amici politici che nel caso di mia elezione non avrei potuto assolvere pienamente, per ragioni di studi (dai quali sono molto assorbito attualmente) i miei compiti di Deputato alla Costituente.
«Ora, essendo nel procinto di dovermi recare all’estero per un numero imprecisato di mesi presso l’istituto Pasteur e l’Opera Grancher di Parigi, allo scopo di completare alcune ricerche sul problema sociale della cura della tubercolosi, urgente e drammatico problema del dopoguerra, dichiaro di rinunziare al mandato.
«Con ogni ossequio – Prof. Dott. Giuseppe Alberti, Deputato per la circoscrizione di Roma, Latina, Frosinone».
Nessuno chiedendo di parlare, pongo ai voti l’accettazione di queste dimissioni.
(È approvata).
Proposta di aggiunta al Regolamento.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Proposta di aggiunta al Regolamento.
Ha chiesto di parlare l’onorevole Perassi. Ne ha facoltà.
PERASSI, Relatore. Nella breve relazione distribuita sono spiegate le ragioni per le quali la Giunta del Regolamento propone di istituire una Commissione per l’esame delle domande di autorizzazione a procedere.
Si tratta di una Commissione necessaria, quantunque rispetto a questa Commissione, a differenza che per le altre, si possa e si debba augurare che abbia meno lavoro da fare.
La ragione per la quale è stata fatta questa proposta dipende dal fatto che fino al 1920, ossia secondo l’antico Regolamento della Camera, le domande di autorizzazione a procedere seguivano la consueta procedura degli uffici.
Quando nel 1920 la Camera istituì le Commissioni permanenti, le autorizzazioni a procedere furono comprese nella competenza della Commissione che si occupava degli affari politici in generale.
Nelle attuali condizioni si rende necessario creare una Commissione speciale avente specificamente l’oggetto di preparare le proposte da sottoporre all’Assemblea Costituente tutte le volte che ci sia una domanda di autorizzazione a procedere.
Si tratta di un lavoro particolarmente delicato, che attiene all’esercizio di una competenza dell’Assemblea Costituente, che tocca una prerogativa fondamentale per la tutela della libertà e dell’indipendenza dell’Assemblea stessa.
La Giunta del Regolamento si è posto il problema di proporre in che modo procedere alla composizione di questa Commissione.
A questo riguardo la Giunta ha ritenuto di ispirarsi al principio adottato nel Regolamento per le Commissioni permanenti, e cioè che i componenti di questa Commissione siano designati dai gruppi costituiti in Uffici.
In relazione al carattere particolare di questa Commissione, che evidentemente non ha bisogno di essere molto numerosa, ma ha bisogno di dare tutte le garanzie di un esame imparziale, obiettivo delle singole domande, la Commissione è venuta nella determinazione di proporre che la nomina dei componenti avvenga secondo questo criterio: ogni Ufficio – inteso questo nel senso attuale di Ufficio formato da un gruppo – avente un numero di iscritti non superiore a 50 deputati, designerà un delegato. Gli altri Uffici designeranno un delegato ogni 50 deputati, senza computare le frazioni.
La Commissione si limita a proporre questo articolo aggiuntivo. È inutile aggiungere che per quanto concerne le attribuzioni della Commissione medesima e le norme relative alla validità delle sue sedute, restano applicabili le norme del Regolamento vigente.
Credo che queste spiegazioni siano sufficienti per raccomandare all’Assemblea l’approvazione della proposta.
PRESIDENTE. Nessuno chiedendo di parlare, metto ai voti il seguente articolo aggiuntivo al Regolamento della Camera presentato dalla Giunta del Regolamento;
«È istituita una Commissione incaricata di riferire sulle domande di autorizzazione a procedere.
«Ogni Ufficio avente un numero di iscritti non superiore a 50 deputati designerà un delegato. Gli altri Uffici designeranno un delegato ogni 50 deputati, senza computare le frazioni.
«La Commissione si costituirà nominando il presidente, un vicepresidente e un segretario».
(È approvato).
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha facoltà di parlare l’onorevole De Martino.
DE MARTINO. Chi vi parla, onorevoli colleghi, può affermare con sicurezza di aver sempre ispirato la sua modesta attività ai principî della sociologia cristiana, ed è appunto il solo problema sociale che intende brevemente trattare, come quello che nel momento attuale è da considerarsi, dopo la politica estera, il problema cruciale della Nazione.
In linea di massima sono d’accordo sul programma di Governo annunziato dall’onorevole De Gasperi.
Non mi sembrano però trattati esaurientemente alcuni aspetti dell’accennato problema che, a mio avviso, rivestono carattere di eccezionale urgenza e di vitale importanza per il Paese. Mi riferisco alla disoccupazione, alla ricostruzione e alla produzione. Tali problemi sono connessi tra di loro al punto che, risolvendo il primo, si avviano alla risoluzione anche gli altri due.
Consentitemi, onorevoli colleghi, che io, parlando con la semplicità di un lavoratore quale sono, illustri il mio pensiero dal punto di vista pratico, con l’esperienza di un trentennio di lavoro trascorso in mezzo ad altri lavoratori che ho sempre considerato miei fratelli e collaboratori, e ai quali, da questa tribuna, desidero inviare il mio più fraterno e affettuoso saluto.
Onorevoli colleghi, devono essere ricostruiti o costruiti ponti, canali, acquedotti, strade, scuole e, più di ogni altro, case. Ancora in tempo si farebbe oggi, con opportuni e tempestivi provvedimenti a dare, per il prossimo inverno, il tetto a quegli italiani che ne sono privi; per fare ciò occorrono pietre, calce, cemento, ferro, legno, braccia e poco altro. Abbiamo quasi tutto; manca soltanto una saggia organizzazione, tanto più che, a mio avviso, questo sembra il momento migliore di varare provvedimenti atti a far sì che ogni cittadino abbia finalmente in proprietà la sua casa.
Nei provveditorati regionali delle opere pubbliche le pratiche si attardano, forse anche nel lodevole intento di far risparmiare qualche biglietto da mille allo Stato; ma, in definitiva, poi questi risparmi si risolvono in maggiori spese per sussidi, carteggi, viaggi ecc. Non basta. Gli uffici regionali, ancor meno quelli centrali, non sono adatti a disporre e dirigere i lavori nelle singole provincie come nei singoli comuni, e ciò perché essi:
1°) non sono a diretto contatto coi bisogni locali, specialmente dei disoccupati;
2°) non sanno quanto dà allo Stato in contributi e, specialmente, con la produzione la provincia o il comune che chiede di fare lavori;
3°) non possono perché non sanno né possono sapere né tener conto delle necessità e principalmente della utilità dei lavori che da ogni parte vengono proposti.
Le spese dovrebbero essere, naturalmente fino ad un certo punto, e salvo circostanze speciali, proporzionate alla effettiva e potenziale capacità produttiva e al gettito che la provincia dà o può essere capace di dare.
La breve esperienza di queste ultime settimane mi autorizza ad insistere su questo concetto: occorrono per i lavori pubblici organi a circoscrizione provinciale, non regionale, perché questi ultimi, agendo a largo raggio di azione, provocano ineluttabilmente sperequazioni e ingiustizie.
Del resto è evidente che ai fini della produzione e del benessere occorre decentrare. Col decentramento il lavoro e la produzione saranno maggiori, migliori e costeranno di meno.
La distanza, specie nei tempi in cui viviamo, è talvolta dannosa. Funzionari e pratiche vanno e tornano da un ufficio all’altro e le opere quindi sono molto più costose di come potrebbero èssere. È perciò che soltanto organi locali, opportunamente controllati, dovrebbero, a mio avviso, provvedere allo studio dei vari problemi che investono l’economia della zona, la quale naturalmente si risolve in economia nazionale.
E occorrerà mettersi su un piano di pratico controllo, per poter studiare e provvedere e anche determinare fenomeni economici che sfuggono talvolta con grave danno agli organi centrali. Determinante non ultimo di un tale provvedimento è l’esistenza della mano d’opera e il genere dei disoccupati, con speciale riguardo ai reduci, cui un Ministero è preposto quasi esclusivamente ad infliggere l’umiliazione di un periodico sussidio, mentre una saggia politica economica potrebbe, e potrà, in pochi giorni, dare un lavoro utile ad essi, alle loro famiglie e alla, nazione intera.
Un Comitato provinciale, che chiamerei della ricostruzione e della produzione, dovrebbe avere i più ampi mandati, contenuti soltanto entro limiti degli stanziamenti dei due Ministeri dei lavori pubblici e dell’assistenza post-bellica. Parlo di Comitato provinciale per utilizzare immediatamente l’attrezzatura attuale in attesa delle riforme che saranno deliberate nella nuova costituzione. Tale Comitato potrebbe essere composto di pochi elementi: il prefetto, il capo del genio civile, l’intendente di finanza, il preside della provincia, il questore e i deputati alla Costituente eletti nella provincia stessa.
Il Comitato provinciale dovrebbe:
1°) funzionare con pochissimo personale, attingendolo possibilmente da altri uffici pubblici;
2°) appaltare lavori contemperando l’urgenza, l’importanza e l’utilità degli stessi, sempre però raggiungendo la finalità di occupare tutti i cittadini che cercano lavoro, e sono di meno di quanto si possa pensare;
3°) agevolare lo svolgimento di ogni sana iniziativa, al fine di ridurre l’intervento dello Stato, ed avviare l’economia provinciale ad una vita normale in cui i singoli cittadini contribuenti dell’erario possano attuare i loro programmi di lavoro e di produzione nel campo industriale, ma molto di più nel campo agricolo, ove il prodotto di una saggia coltura intensiva può darci insperati risultati.
È necessario che il Comitato provinciale non metta in esecuzione lavori sproporzionati per eccesso o per difetto alla disponibilità della mano d’opera; ed anzi è qui che io ravviso una delle principali ragioni di questa forma di estrinsecazione delle autonomie economiche provinciali.
Solo un Comitato locale può e deve tener conto delle necessità delle private iniziative. Così non dovrà dare vita a lavori pubblici non indispensabili, se la privata iniziativa assorbirà personale per produzioni più utili all’economia generale, ripercuotendosi siffatto vantaggio anche sull’economia dello Stato. Solo un Comitato locale può e deve tener conto della importanza dei lavori rispetto ai singoli comuni, nonché dell’utilità pubblica che determinerà l’ordine dei lavori stessi, in modo che essi si risolvano in una maggiore produzione.
Nessun cittadino sia più costretto a rubare per vivere. Diamo lavoro a tutti, e vedremo risorgere la patria, se per patria si intende l’insieme di tutti i suoi figli. Quando tutti avranno lavoro finirà quel tanto di parassitismo che, come è stato già detto da illustri colleghi, è in ragione diretta della disoccupazione, e che deve preoccupare chi ha la responsabilità di governare, e principalmente chi anche da questi disoccupati ha avuto l’onore e l’onere di partecipare a questa Assemblea.
Spendere in case, strade, ponti, ecc., non è spendere inutilmente, signori del Governo; ciò facendo, noi impieghiamo materiali che possediamo: fratelli nostri che desiderano guadagnarsi la vita, sono accontentati in questo minimo delle loro richieste: ed il tutto si risolve in un aumento del patrimonio nazionale.
Non spaventatevi delle cifre, specialmente voi, onorevoli Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, fate ciò senza esitazione; il disborso di cassa sarà certamente fronteggiato dalle entrate di Tesoreria che, spontaneamente, affluiranno dai cittadini per la fiducia che sarà determinata dall’ordine pubblico e dalla concordia generale; e fatelo subito, perché sarete benedetti da Dio e da tutto il popolo.
Per la ripresa della produzione devo fare qualche considerazione.
È fuor di dubbio che molta gente nasconde i propri risparmi, perché ha paura di due cose: del fisco e dei movimenti che possano comunque determinare la perdita. Quanto all’ammontare dei capitali imboscati sono dell’avviso che sia molto, ma molto superiore, a quello che opina l’onorevole Ministro del tesoro.
Occorre quindi creare un ambiente di tranquillità, che se non è da solo sufficiente, è certamente indispensabile per la ripresa della vita economica della Nazione.
Le imposte devono essere pagate, ma devono applicarsi a tempo opportuno: se non finisce l’opprimente intervento del fisco ogni qualvolta un privato cittadino inizia un’impresa, o si accinge a ripristinare quella distrutta, noi saremo responsabili della completa rovina economica dell’Italia.
Così avvenne per la caduta dell’Impero Romano, quando l’esosità del fisco esaurì e distrusse le fonti della ricchezza, quando per pagare i balzelli si giungeva a vendere perfino i propri figli, quando si lasciò il deserto e la landa alle invasioni barbariche!
Sono convinto che un provvedimento che desse la possibilità di emettere da parte delle Società per azioni titoli azionari al portatore, darebbe il desiderato risultato di disboscare quei capitali, cui accennava ieri l’onorevole Ministro del tesoro. Egli ha dichiarato di non avere i mezzi per poterli disboscare, mentre desidererebbe di poterli fare affluire nelle casse dello Stato. Da queste dovrebbero, e ciò è indispensabile, passare alla utilizzazione nella produzione nazionale. Applicando questa proposta, già fatta invero da un illustre collega, eviterebbe partite di giro, e si arriverebbe molto meglio e più velocemente alla stessa conclusione con la massima semplicità.
Purché si ricostruisca, si produca, si elimini la disoccupazione, ogni provvedimento diventa santo. Che ci importa di un immediato bilancio attivo o passivo, quando tutti i cittadini possano avere il lavoro che li faccia vivere in discreta agiatezza, e quando nella Nazione fosse stabile un ambiente di tranquillità tale da non fare più maledire la vita, e quando nessuno potrebbe più avere attenuanti, se si dedicasse al furto e al delitto? Col lavoro non si è mai procurato la miseria, si è sempre creata la ricchezza, anche quella dello Stato.
I disoccupati – sembrerà un paradosso quello che dico – potranno essere non un danno ma un vantaggio, se essi saranno considerati come una riserva che conviene però subito utilizzare nel loro interesse e nell’interesse di tutti. Bisogna però avere la forza di saperla utilizzare e valorizzare questa massa di nostri fratelli: essi, ben guidati, adempiranno al patriottico compito di contribuire alla ricostruzione del Paese. Essi si guadagneranno la vita e creeranno ricchezze per le future nostre generazioni.
Uscite straordinarie, onorevole Ministro del tesoro: meglio qualche centinaio di miliardi di spese in più, e tetto, e lavoro per tutti, che qualche centinaio di miliardi di spese in meno e disoccupazione, e senzatetto, e disordine!
Esiste un lembo della provincia di Salerno, la mia provincia che fu chiamata «Divina Costiera». Milioni di stranieri verrebbero nel nostro Paese, se l’Italia offrisse ospitalità e sicurezza; e come un tempo i nostri emigrati mandavano parte dei loro risparmi in Patria, così oggi potremmo ottenere quelle stesse valute e forse di più, ospitando, con la cavalleria che ci è tradizionale, quelli che volessero, e che sono moltissimi, venire a godere il nostro sole e i nostri giardini.
Ma dove li metteremo questi ospiti, se pure esistendo migliaia e migliaia di disoccupati, pure abbondando di pietre, di cui la natura ci è stata prodiga fino all’inverosimile, nonché di ogni altro elemento necessario alle costruzioni, noi non abbiamo ancora affrontato il problema di organizzare tutti questi elementi che possono, che devono creare alberghi, centri turistici, stabilimenti balneari ecc.? E qui non posso non ricordare che le sole acque di Castellammare di Stabia potrebbero far vivere migliaia e migliaia di persone.
Perché non avviarsi subito alla pratica esecuzione? Costituite di urgenza, signori del Governo, i Comitati provinciali della ricostruzione e della produzione, anche, se volete, sotto un larga vigilanza del Comitato interministeriale della ricostruzione, e voi affronterete una volta per sempre, ma realmente, il problema e lo risolverete.
Tutto ciò rientra anche sotto il vigile esame del Ministero del tesoro, al quale di certo non sfuggirà però che l’aumento del patrimonio nazionale implica sicurezza di futuri vantaggi di bilancio.
Sul piano della ricostruzione va anche messo il problema che riguarda la bilancia commerciale: sono convito che il nostro popolo, incline e dedito al lavoro, per tradizione, per convinzione, per religione, saprà produrre quanto basta per dare, in cambio di ciò che ci manca, il prodotto delle sue quotidiane fatiche.
Come acquistare, in avvenire, milioni e milioni di quintali di grano all’estero, se non avremo la valuta e il controprodotto da offrire?
E come offrirlo se non lo potremo produrre?
E come produrlo se gli stabilimenti sono distrutti, le vie rovinate, i ponti abbattuti, e molti lavoratori non hanno neppure la più modesta casa che ospiti i loro cari e dia loro la tranquillità del lavoro?
Ecco allora che, ricostruendo, convoglieremo all’estero, in cambio, ad esempio, del grano, i prodotti che avremo potuto ottenere in esuberanza al nostro fabbisogno.
I Comitati cui ho accennato dovranno anche avere il compito di dare impulso alle produzioni di generi che potranno esportarsi e che potranno determinare una bilancia commerciale attiva.
Per le importazioni occorre andare guardinghi: non consentirei, ad esempio, importazioni di generi non indispensabili alla vita e alla ripresa. E qui non posso non rilevare come il tabacco, genere di monopolio, sia ancora oggi l’oggetto più esteso della «borsa nera» e della corruzione di minorenni!
Si sarebbe dovuto già fare; ma io ritengo assolutamente indispensabile e indilazionabile eliminare, con ogni energia, questa forma di illecite speculazioni. Lo Stato dovrebbe reprimere tale contrabbando. Sulla scorta dei risultati economici del bilancio del monopolio, si può presumere che si ricaverà da tale repressione una somma annua non minore di 20 miliardi e tale somma potrebbe essere parzialmente devoluta per educare questi ragazzi al culto del lavoro e della onestà, mediante apposite scuole ed asili. Né a me par del tutto trascurabile l’idea che questi ragazzi – che io calcolo in tutta l’Italia intorno agli 800 mila – debbano essere educati, perché alla loro generazione sarà affidata la definitiva ricostruzione della Patria!
Ancora sull’argomento della borsa nera io mi domando: è possibile far mangiare agli italiani il pane bianco? Ed allora fatelo fare il pane bianco. Non è possibile? Ed allora perché mai il pane bianco si può comperare in ogni angolo di strada, mentre poi si proibisce al panettiere, che paga le tasse, di offrirlo ai propri clienti?
Ed a proposito: il Governo lo scorso anno annunciò provvedimenti tendenti ad una parziale riduzione degli ammassi: la notizia fu accolta con entusiasmo in tutti gli ambienti, dal produttore al consumatore. Ma forse perché sembrò troppo bello un simile progetto, si cambiò rapidamente strada!
La ridda dei decreti e provvedimenti, talvolta contrastanti l’un l’altro, crea un senso di sfiducia! È di questi giorni il provvedimento che proroga a fine mese il premio di lire 300 a quintale per le consegne agli ammassi. E non si è pensato all’incongruenza che per consegnare sollecitamente e guadagnare il premio, molti conferiranno grano umido, destinato ad ammuffire ed a guastare anche il prodotto sano e genuino?
Un altro problema è stato solamente sfiorato nel programma di Governo con la promessa assicurazione di un miglioramento di stipendi e di salari. Questo problema si risolverà solo aumentando la produzione, e la produzione aumenterà man mano che lo Stato se ne disinteresserà, nel senso cioè di non intervenire in ogni fenomeno economico produttivo col volere per forza o fissare una imposta, o dare un premio!
Ha detto l’onorevole Ministro del tesoro che conseguenza della politica monetaria sarà il ribasso dei prezzi. E sta bene. A noi interessa principalmente, e vorrei dire quasi unicamente, che tutti i cittadini abbiano la possibilità di soddisfare le loro necessità, non avvicendarsi a stare digiuni. Quindi il ribasso dei prezzi determinato dalla rivalutazione della lira, determinato a sua volta dalla propria scarsezza, non risolve per niente il problema che ci assilla. Il ribasso che occorre auspicare non è quello dovuto alla mancanza di circolante, bensì quello derivante dall’aumento della produzione.
Comunque, in attesa che la produzione possa far ridurre il costo dei generi, non bisogna dimenticare e disinteressarsi degli impiegati dello Stato che hanno una funzione indispensabile nella vita della Nazione.
Bisognerà, in un secondo momento, eliminare, destinandoli ad altro più confacente lavoro, quelli che non rendono; ma a quelli che rendono occorre pur dare la possibilità di vivere con decoro ed onore, di non elemosinare!
Ho accennato solamente ad alcuni dei problemi che, se appaiono in un primo momento complessi, non lo sono e non lo saranno nella pratica attuazione. Sorpassiamo per un momento sul rigido sistema burocratico. Costituiamo i Comitati provinciali della ricostruzione e della produzione, immediatamente, senza pletora di personale, e vedremo che, col buon senso pratico degli italiani, e col senso di dovere che non manca, anche nei funzionari capi degli organi provinciali, coadiuvati da noi per ogni singola provincia, il problema sarà non solo affrontato, ma risolto in pieno e in breve ora.
Onorevoli colleghi, chi vi ha esposto questi concetti è un uomo che la sua vita vive del lavoro diuturno e costante: egli osa additarvi nel lavoro la soluzione dei problemi più assillanti: solo il lavoro salverà la nostra Patria, e in questo lavoro dobbiamo essere tutti concordi: per il salvataggio generale occorre che generale sia la concordia.
Il nostro popolo è buono, si contenta di vivere modestamente; ma vuole lavorare e vuole vivere col lavoro in un clima di tranquillità e sicurezza. Non lo si illuda con promesse che potranno pure non essere fallaci, ma che certamente provocheranno il più nero sconforto, in una snervante attesa di provvedimenti, che, per essere studiati ed attuati, dovranno subire una indefinibile gamma di giri burocratici.
Facciamo gli interessi di tutti, praticamente, dando corso alle proposte che sono di immediata attuazione. Solo così risponderemo alla fiducia del popolo che qui ci ha mandato; solo così potremo sperare giorni migliori per l’Italia.
Ho detto «sicurezza»: è nella mancanza di questa la causa prima di uno sbandamento quasi generale: non si sa se e fino a che punto certi moti siano leciti: non si sa se economizzare sia un bene per sé e per le proprie famiglie: ma è certo che è volontà comune di tutti gli italiani di voler vivere in un ambiente di tranquillità, ambiente indispensabile per la vita, la rinascita, il progresso della Patria.
Attuate ciò, signori del Governo, ed avrete la fiducia e la gratitudine non soltanto di questa Assemblea, ma quella ben più desiderabile del popolo italiano. (Applausi).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Lombardo Ivan Matteo.
LOMBARDO IVAN MATTEO. Onorevoli colleghi, quando più intensa ferveva la battaglia per la questione istituzionale, i più intelligenti fra i reazionari nostrani, ammonivano i pavidi ed i poveri di spirito a non fare il «salto nel buio».
Si servivano cioè dello stesso poderoso argomento pedagogico che le balie asciutte usano per tenere a freno i bambinelli intraprendenti, minacciandoli del «babau» che li aspetta nel buio…
L’onorevole De Gasperi ci ha presentato il primo Governo non più Regio, ma finalmente Repubblicano e non mi sembra che tanto il Governo quanto il programma concordato, abbiano l’aspetto del «babau».
È un Governo formato dai tre partiti di massa, ai quali si è aggiunta la rappresentanza dei repubblicani storici. Desidero sottolineare questo ultimo fatto; noi socialisti, in sede di trattative, quando sembrò che i repubblicani storici non avrebbero partecipato alla responsabilità di Governo, insistemmo perché essi vi entrassero con condizioni di prestigio.
Non volevamo che il carattere moderno della Repubblica rinnegasse la tradizione repubblicana del Risorgimento; volevamo legare strettamente la democrazia a tendenze sociali, con le tradizioni più nobili della storia nazionale.
La partecipazione di tutti e tre i partiti di massa era indispensabile. Vi è stato chi prima delle trattative, e poi nelle more di queste, si è fatto zelatore della formazione di un Governo che comprendesse solo due dei partiti, anzi persino uno solo dei partiti stessi. Ciò sarebbe stato stolto.
La formula della partecipazione dei tre partiti di massa al Governo, è una formula europea (vedasi quanto è avvenuto in Francia, Belgio, ecc.) dettata dalla situazione che si è venuta creando nell’Europa Occidentale per ragioni nazionali ed internazionali.
La ragione internazionale va ricercata nella necessità di dare alla struttura politica del nostro Paese un equilibrio che garantisca la sua autonomia interna nei confronti delle massime potenze mondiali.
La rottura di questo equilibrio interno rischierebbe di far cadere il nostro Paese nella sfera di influenza dell’uno o dell’altro dei grandi potentati che dominano la scena del mondo.
Non si vuol dire con questo che partiti al Governo possano in qualche modo subire l’influenza di potenze straniere.
Si vuol dire solamente che la rottura dell’equilibrio di cui il Partito socialista è l’elemento determinante, indebolirebbe le forze che hanno maggiore coscienza dell’esigenza assoluta di una politica, che si ponga esclusivamente dal punto di vista degli interessi solidali della classe lavoratrice italiana e della Nazione.
Delle ragioni interne, è fondamentale quella che esige la necessità di un equilibrio politico che garantisca, nell’atto in cui il Partito socialista non ha ancora la maggioranza assoluta, lo sviluppo della democrazia.
Nella situazione attuale la rottura di questo equilibrio determinerebbe polarizzazioni pericolose per il consolidamento e lo sviluppo della democrazia stessa, esigenza cui è legato il destino della classe lavoratrice e della Nazione.
Di tale equilibrio il Partito socialista è l’elemento essenziale.
Perciò la partecipazione del nostro Partito al Governo risponde alle seguenti necessità:
1°) possibilità di difendere più efficacemente gli interessi solidali delle classi lavoratrici e della Nazione;
2°) necessità di non indebolire la posizione dell’Italia al tavolo della pace, cosa che si sarebbe verificata ove noi fossimo stati assenti dal Governo:
3°) considerazione che l’assenza dal primo Governo Repubblicano del partito che si è battuto con coerenza e tenacia per la Repubblica, ravvisando in questo problema basilare importanza storica e politica, avrebbe indebolito la Repubblica stessa.
Queste supreme esigenze hanno fatto sì che il nostro partito partecipasse alla formazione del Governo anche se il programma dello stesso non dia in tutti i punti soddisfazione ai socialisti.
Perché infatti il partito ha posto, in primissimo luogo, una questione di programma.
Coloro che s’impazientivano perché si discuteva abbondantemente attorno ad un programma, non riflettevano al fatto che non siamo in un periodo di Governo d’ordinaria amministrazione. La partecipazione ad una compagine governativa non aveva alcun interesse per il Partito socialista italiano se non fosse stata solidamente ancorata ad un programma elaborato per la presumibile durata del Governo stesso, programma alla cui esecuzione integrale ed inflessibile abbiamo condizionato la nostra partecipazione.
Naturalmente un programma per essere realizzato, deve essere sorretto dalle forze di cui è l’espressione.
Di qui anche il problema dei posti, problema (con buona pace dei facili critici) non di prestigio e di vanità, bensì di lavoro e di efficienza.
Noi eravamo dell’opinione che i partiti dovessero distribuirsi i posti per settori, affidando a ciascun partito quel settore in cui è suscettibile di esercitare un’azione efficace, tenendo conto però della designazione del corpo elettorale.
Il settore propriamente politico doveva logicamente essere affidato al partito che ha avuto il maggior numero di voti: quello della Democrazia Cristiana.
Tuttavia, sarebbe stato opportuno riconoscere l’efficacia dell’azione socialista del Ministero dell’interno e ciò, del resto, a somiglianza di quanto avviene in altri Paesi dell’Europa Occidentale governati dalla formula dei tre partiti di massa.
Non si è voluto e la maggior parte dei nostri pensa sia stato un errore, tanto più che la suprema ragione addotta per non lasciarci continuare a svolgere l’azione iniziata ed avviata tanto efficacemente dal nostro compagno Romita, si basava su una tradizione, nella cui continuità vi sono tuttavia diverse eccezioni.
Ma noi socialisti non potevamo, né volevamo porre pregiudiziali che non vertessero sul programma.
Abbiamo quindi accettato gli Esteri con una formula sulla quale si è fatto dell’ironia, ma che – per chi sa guardare alle cose una spanna più in là del proprio naso – risponde all’interesse del Paese.
Abbiamo accettato gli Esteri a quella condizione perché ritenevamo che alla vigilia della conclusione di un periodo di negoziazione che dura da oltre due anni, sarebbe stato un errore sostituire chi di quelle negoziazioni è stato il coordinatore. Si dice in America che non si cambiano i cavalli durante il guado e ciò è tanto più vero se ciò debba avvenire là dove la corrente è più violenta. Si cambiano invece a guado attraversato, per le ragioni che dirò in tema di politica estera.
I socialisti avevano sostenuto la necessità della concentrazione di vari Dicasteri, ma non si è creduto di poter accogliere il nostro suggerimento per varie considerazioni, alcune delle quali di carattere obiettivo.
Ma veniamo agli altri Dicasteri. Noi socialisti, per la nostra natura di partito delle classi lavoratrici, abbiamo rivendicato i ministeri sociali, quelli cioè dai quali era possibile esercitare un’azione diretta a favore delle classi lavoratrici stesse.
Vi sono problemi essenziali della politica interna: 1°) problema della disoccupazione; 2°) problema dei proletari delle fabbriche; 3°) problema dei proletari della terra; 4°) problema degli impiegati. Purtroppo un’azione organica e risolutivamente efficace è resa difficile dai seguenti fattori:
- a) insufficienza di successo del Partito socialista italiano che non gli conferisce nella compagine governativa il peso che dovrebbe avere:
- b) deficienza, o addirittura sfasciamento dell’apparato burocratico dello Stato che, nelle attuali condizioni, metterebbe a rischio di insuccesso vaste riforme di struttura e comprometterebbe agli occhi del Paese un piano organico di socializzazione.
Tuttavia, nel quadro delle condizioni obiettive attuali, noi intendiamo sfruttare tutte le possibilità, per ricostruire il nostro Paese su basi che diano alle classi lavoratrici il mezzo della loro emancipazione.
Che fare? La politica generale deve essere orientata nel senso del rinnovamento totale delle basi economiche, sociali e morali del nostro Paese.
Prima e fondamentale condizione del rinnovamento è di impedire la disgregazione, la marcescenza di ciò che è ancora in piedi, anche se vogliamo sostituirlo con altro di più solido.
Vi sono varie politiche: quella del tanto peggio tanto meglio, quella della «tabula rasa» per poi ricostruire.
Noi non siamo per alcuna di tali politiche, perché abbiamo la nostra: quella di sostituire metodicamente ciò che esiste ma è condannato, senza disgregare tutta la struttura.
Sul piano generale, la politica del tanto peggio tanto meglio e della «tabula rasa» tende alla dittatura; la nostra invece serve a dar consistenza e forma alla democrazia sociale.
Sul piano sociale la politica della «tabula rasa» non vede la possibilità di rinnovare se non distruggendo tutto. È la politica di Mefistofele: «Tutto ciò che esiste, merita di essere distrutto».
La nostra, rinnova sistematicamente, senza rompere la continuità dell’organizzazione.
Citiamo un caso concreto e prendiamolo nella politica monetaria.
La politica del tanto peggio tanto meglio e della «tabula rasa» tende all’inflazione. Orbene di tutte le sciagure che possono colpire una nazione questa è senza dubbio la più mostruosa. Persino i disastri di una guerra, quale quella dalla quale emergiamo, impallidiscono al confronto.
Conseguenze dell’inflazione sono: il sempre più rapidamente decrescente potere di acquisto dei salari e dei redditi fissi sino ad annullarlo in un’orgia di carta-moneta; la concentrazione della ricchezza in un numero sempre più esiguo di mani; il cataclisma per gli ultimi anni di vita dei pensionati; il pauperismo – non la proletarizzazione – dei ceti medi i quali dopo aver tutto venduto, tutto barattato, inadatti e inesperti al lavoro manuale, senza risorse, senza speranze, sprofonderebbero nell’abisso.
È, questa, una politica anti-sociale e quindi anti-socialista.
Dalla putredine di questa situazione, non nasce un regime sociale sano: nasce il totalitarismo, come si è visto in tutti i Paesi che ne furono colpiti dopo la prima guerra mondiale.
La nostra politica tende alla stabilizzazione: non già per stabilizzare uno stato di cose iniquo, ma per evitare la putrefazione.
Il cadavere di una società in decadenza è più pernicioso del corpo vivo di quella società stessa.
La linea generale del nostro Partito è quindi di lotta contro l’inflazione.
Ma qui si pone il tremendo problema dei salari e degli stipendi, dei sussidi e delle pensioni. Come sbloccare le retribuzioni se il costo della vita aumenta?
È impossibile, è iniquo. Ma aumentando i salari non si contribuisce a favorire l’inflazione? È in apparenza un circolo vizioso, anzi una spirale infernale dalla quale non si può uscire.
Come tutti i problemi economici è un problema di misura e di equilibrio.
La linea giusta è questa: non mettere l’accento sulla corsa infernale dell’aumento ciclico dei salari e dei prezzi, ma fare una politica draconiana per ripartire meno iniquamente il reddito nazionale.
È per questo che insistiamo nel dire che il miglioramento dell’attuale basso tenore della vita dei lavoratori (in alcuni casi troppo basso anche dal punto di vista fisiologico) non può essere raggiunto – data l’attuale situazione economica e finanziaria del Paese – mediante un indiscriminato aumento delle mercedi, bensì comprimendo il costo della vita e ricorrendo all’uopo a tutti i provvedimenti – nessuno escluso – che consentano di conseguire tale risultato.
Nei capisaldi del programma pubblicato dal Partito socialista italiano vi era all’uopo la richiesta di aumento delle razioni del pane e della pasta subito: dei grassi e dello zucchero quanto prima possibile: l’importazione di prodotti alimentari disponibili all’infuori del «Food combined board»: la adozione di provvedimenti incisivi che consentano la possibilità di fornire a buon mercato generi d’abbigliamento al popolo italiano.
Sarebbe assai grave, infatti, che le forniture dell’UNRRA per 23 milioni di chilogrammi di cotone, 25 milioni di chilogrammi di lana-base lavata e di 10 milioni di chilogrammi di materiale per mista in cardato, non possano andare a ricostruire a buon prezzo il depauperato guardaroba degli italiani, solo perché non sia coordinata la possibilità di lavoro delle filature e tessiture in rapporto alle richieste internazionali ed alle inderogabili esigenze del mercato interno; oppure perché il costo della «façon» di filatura tessitura e finissaggio sia troppo esoso, oppure perché non sia burocraticamente stipulabile d’urgenza un accordo con il tesoro per il pagamento della «façon» relativa; oppure perché si abbiano difficoltà e dubbi circa la distribuzione, anche per tema di danneggiare i… benemeriti ceti commerciali.
Noi vogliamo che le mercedi abbiano un valore reale e non uno nominale. (Vivi applausi).
Ci si beffa delle classi lavoratrici, quando si procurano loro aumenti di salario che (a volte ancor prima di ricevere la busta-paga, lo stipendio o la pensione) non servono a comperare nulla di più di quanto esse potevano acquistare prima di aver ottenuto gli aumenti stessi.
Non si può pretendere che le classi lavoratrici sappiano di economia quanto gli economisti (benché spesso tra i lavoratori vi siano molti che hanno la percezione istintiva delle realtà economiche); ma noi che delle classi lavoratrici sappiamo le sofferenze e le miserie, noi le dobbiamo mettere in guardia, anzi salvaguardare, dall’essere vittime di una tragica beffarda vicenda.
Ne va di mezzo la salvezza delle classi lavoratrici e perciò del Paese.
Anzi, se tutti sapessero quanto diffusa sia la tendenza inflazionistica in numerosi ceti industriali tutti dovrebbero sentirsi subito in sospetto. Solo l’equa distribuzione di quanto è indispensabile ad assicurare un sia pur limitato tenore di vita può – tra l’altro – frenare prima, colpire a morte poi, quell’immondo cancro denominato «borsa nera» nel continente ed «intrallazzo» in Sicilia, cancro che ha contribuito ad intossicare il corpo sociale italiano.
Ancora una volta la guerra ha portato a galla gli elementi deteriori delle varie classi sociali: dal capitalista che incetta qualsiasi bene di consumo, al commerciante tradizionale od improvvisato che s’impingua sul bisogno altrui, al «rurale» che saccheggia il proprio compagno di lavoro fornendogli a prezzo esoso dieci chilogrammi di farina di polenta.
Questa guerra ha visto formarsi una vasta stratificazione di gente proveniente da tutti i ceti sociali che ha ripudiato il piacere e la dignità dell’onesto lavoro ed ha accumulato denaro, con i più immondi traffici: dalla «borsa nera» al «baito», alla ricettazione, alla prostituzione.
Una specie di borghesia di nuovo ed orribile conio che delle vecchie borghesie non ha né i meriti, né le capacità!
Ma un Governo ha il diritto di chiedere sacrifici, altri sacrifici, alle classi più povere solo quando abbia colpito gli sperperi delle classi più ricche.
L’esempio dell’Inghilterra insegni.
In quel Paese, ove la solidarietà nazionale ed una ferrea cosciente autodisciplina sono veramente sentiti, una incruenta rivoluzione egualitaria è in atto. Laggiù ricco e povero, capitalista ed operaio ricevono non solo di che vestirsi alla stessa guisa, ma anche di che mangiare allo stesso modo, in virtù della lapalissiana constatazione fisiologica che la capienza dello stomaco di un povero è uguale a quella di un ricco.
La «borsa nera» è una cosa quasi inesistente e comunque non riferibile ai generi di prima necessità.
Là dove manchi però la solidarietà sociale e l’autodisciplina, è necessaria l’azione di Governo.
So benissimo che questa è funzione quasi sovrumana per un Paese come il nostro, ove abbonda un diffuso individualismo che rende difficilissimi, inutili, e per giunta enormemente costosi, restrizioni e vincoli.
Ma a quelli occorre attenersi almeno per le cose di fondamentale necessità.
Né mi si dica che in Inghilterra si ha tutto, mentre qui manca tutto.
In Inghilterra il razionamento è veramente rigido ed inoltre mancano per buona parte i prodotti ortofrutticoli e, del resto, la dieta degli inglesi è sempre stata, anche per ragioni climateriche, superiore a quella caratteristica della sobrietà della nostra gente. Ma laggiù la politica fiscale ha veramente operato in profondità ed ha colpito in guisa sempre più fortemente progressiva la ricchezza, ed anzi, dei recenti sgravi fiscali annunciati dal Cancelliere dello Scacchiere, hanno beneficiato principalmente le categorie dal bilancio più modesto.
No! Non possiamo chiedere altri sacrifici alle classi povere se non operiamo una violenta riduzione del tenore di vita delle classi privilegiate, sì da non renderlo troppo vergognosamente dissimile da quello dei lavoratori: operai, contadini ed impiegati.
È tempo di farla finita con la smania godereccia e spendereccia di certo popolo grasso che non ha un solo pensiero – sia pure ipocrita – per le sofferenze del popolo magro. (Applausi a sinistra).
D’altra parte vi è un imperativo al quale non possiamo sfuggire: quello di contrarre drasticamente i consumi non indispensabili allo scopo di incrementare al massimo le nostre esportazioni.
In proposito sarà bene riflettere che se noi non provvediamo subito a potenziarle, siamo condannati.
Privi di valuta aurea, senza, afflusso di turisti per un lungo periodo a venire, con scarse rimesse da parte degli emigranti, senza prospettive immediate di ampli crediti esteri, come faremo ad assicurarci le materie prime indispensabili, i combustibili, tutto ciò che serve al processo produttivo del Paese, quando cesserà l’apporto dell’UNRRA, il cui programma di aiuto si concluderà a fine di anno?
Si sono fatti dei calcoli preventivi, in base ai quali è constatabile come dal 1946 al 1949 il nostro fabbisogno per importazioni si aggiri su una media di 1150 milioni di dollari annui e cioè circa 4 miliardi e mezzo di dollari per il quadriennio. Si tolgano pure le forniture UNRRA (diciamo in cifra tonda 500 milioni di dollari) e si vedrà come, per dare pane e lavoro al popolo italiano, sia necessario importare in quattro anni materie prime e materiali per 4 miliardi di dollari.
Si può sperare di ottenere a tempo debito un importo complessivo di prestiti esteri, a breve e lunga scadenza, di qualcosa attorno ai 1500 milioni di dollari od altre valute equivalenti, ma per poter colmare gli altri 2500 milioni di dollari per il quadriennio occorre provvedere mediante esportazioni in tutti i Paesi del mondo.
Orbene, se saremo saggi e fortunati, si preventiva che passeremo, in fatto di esportazione, dai 150 milioni di dollari per il 1946, ai 550 per il 1947, agli 800 per il 1948, ai 1.000 per il 1949.
Ciò vuol dire «grosso modo» raddoppiare per quell’anno la cifra di esportazioni del 1938.
Sono curioso di sapere come l’onorevole collega, che sosteneva la possibilità di ricostruire l’Italia col solo apporto degli italiani all’estero (per quanto generosi ed attaccati al Paese natio essi siano) pensi che la cosa sia fattibile, quando si rifletta che non è solo la ricostruzione, ma la vita quotidiana di 45 milioni di italiani che esigono le cifre astronomiche che ho citato.
Per questo occorre mettersi subito all’opera da oggi, non da domani, con una selvaggia volontà di riuscire nell’intento, perché la posta è troppo grossa per fallire: comprimere disperatamente i consumi, da quelli voluttuari giù sino a quelli non indispensabili: ridurre all’osso i costi ed i profitti, per affrontare la concorrenza, non più molto lontana, sui mercati internazionali; realizzare la nostra produzione e potenziare quella che – tenuto conto delle richieste dei mercati stranieri – implichi il massimo impiego di mano d’opera e quanto più ridotto impiego di materie prime.
Il potenziamento dell’apparato produttivo ed esportativo si impone anche per assorbire quanto più possibile la mano d’opera disoccupata.
Questo è un problema angoscioso, il problema che deve assillare continuamente gli uomini di Governo, i partiti, la gente che ha senso di responsabilità. Se non debelliamo la disoccupazione, noi avremo fatto fallimento.
La disoccupazione è infatti l’altro nostro terribile cancro roditore, anzi il più grave. Essa è acutissima ovunque, esasperata nel Mezzogiorno, a beneficio del quale bisogna dare, se non la esclusività (come sosteneva sabato un onorevole collega), certo la precedenza ed amplissima parte del programma di lavori pubblici.
A questo solo non può naturalmente limitarsi il contributo a beneficio delle masse affamate e disoccupate del Mezzogiorno. Occorre agire nel campo delle riforme agrarie, della ricostruzione edilizia, di quella industriale (là dove essa non sia antieconomica superfetazione), dello stimolo ad installare industrie connaturate e compatibili con l’economia locale: ma per far ciò non bisogna perdere tempo.
L’azione di Governo deve essere efficace e rapidissima; tagliando nel vivo delle complicazioni burocratiche, della legislazione relativa, impedendo che ogni decisione e provvedimento isterilisca a causa della lentezza con cui gli organi centrali e periferici affrontano e risolvono problemi così scottanti.
È tempo che gli organi competenti finiscano di considerare ogni problema contemplandolo «sub specie aeternitatis».
Ai disoccupati, e questi naturalmente includono i reduci, occorre dare subito modo di non disperare.
Mentre una parte potrà man mano essere assorbita nel ciclo produttivo, stimolato e potenziato, ed altra parte dovrà essere riassorbita in lavori pubblici, occorrerà provvedere a far sì che su un vasto piano nazionale venga impostato il problema della istituzione di corsi di qualificazione e di riqualificazione per mano d’opera non specializzata e manovalanza, nonché scuole di addestramento per personale destinato all’amministrazione.
Il diritto al lavoro, e quando non ve ne sia a sufficienza per tutti, almeno la garanzia contro la fame, è problema primordiale dello Stato. Esso deve provvedere ai bisogni minimi indispensabili di ogni cittadino.
Il Partito socialista italiano chiede al Governo, quanto prossimamente possibile, di rivedere gli attuali sussidi per avvicinarli alla dolorosa realtà del costo della vita. Naturalmente poiché lo sforzo dello Stato, cioè della collettività, non può essere consacrazione di una preferenza per l’ozio, il sussidio dovrà venire negato a coloro che – essendo in buone condizioni fisiche – rifiutassero il lavoro loro offerto.
L’enorme sforzo da fare in fatto di lavori pubblici ha un campo vastissimo. Noi sosteniamo anzitutto che essi non debbono essere antieconomici, ma debbono a loro volta costituire il presupposto di produrre altra ricchezza, creando cioè altre possibilità di lavoro.
I programmi relativi dovranno essere fondati sulla effettiva disponibilità dei materiali e dei trasporti.
Se verranno resi rapidamente efficienti gli organi tecnici statali che si debbono occupare dei problemi e se verrà avviata una più stretta cooperazione tra essi ed i comuni e le regioni, purché non vengano lesi però i diritti del lavoro, il beneficio degli stanziamenti opportuni di bilancio si renderà tosto palese.
Il Governo nel suo programma ne dà assicurazione e noi invochiamo solamente che si studi subito tutto quanto si può e si deve fare.
Vi sono progetti pronti in larghissima copia, alcuni anzi dormono da anni un ingiusto sonno tra le scartoffie innumerevoli.
Il campo è vastissimo: ricostruzioni e potenziamento di attrezzature portuali; completamento di opere idrauliche e di irrigazione già in corso: ricostruzione di case, scuole, ospedali; sminamento di campi minati; bonifica agraria là dove è già in corso la bonifica idraulica; sistemazioni montane; rimboschimento; rifacimento di ponti; riattamenti di strade, escavazione di canali e sistemazione di argini: un lavoro colossale.
Naturalmente esigenze così vaste esigono provvedimenti finanziari d’eccezione: il Governo si propone di emettere un gran prestito interno facendo appello alla solidarietà di tutti i cittadini. Tutti dovranno rispondere; non vi può essere nessun disertore. Dopo tutto, chi desse saggio della solita miope furberia, darebbe prova di scarsa intelligenza. Ciascuno dovrà seriamente riflettere che non si può sfuggire all’obbligo che ciascuno faccia il proprio dovere e che chiunque sfugge a tale imperativo è colpevole al cospetto di tutti, ma è soprattutto responsabile, per la parte che lo concerne, del disastro che può incombere sulla Nazione.
O ci si salva tutti, o si perisce tutti! Il prestito interno non è sufficiente da solo.
Occorrerà procedere alle misure fiscali d’eccezione, applicando l’imposta straordinaria sul patrimonio preannunziata dal Governo. Il gettito di questa, unitamente alla confisca dei profitti di regime dovrà costituire il nerbo del bilancio straordinario.
È una riparatrice opera di giustizia che impone tale provvedimento. Non si potrebbero chieder più alle classi lavoratrici i sacrifici necessari se non si desse loro la certezza assoluta che la ricchezza contribuisce in larghissima misura all’opera di ricostruzione.
Ancora una volta non si può far ricadere sulle classi operaie e medie gli oneri derivanti dalla guerra. Non esse si sono impinguate nella preparazione e nella congiuntura bellica.
Il bilancio ordinario dovrà essere pareggiato quanto prima possibile con le entrate ordinarie. Si dovranno sollecitamente potenziare i sistemi di accertamento e di imposizione; si dovrà ripristinare la moralità del contribuente caduta tanto in basso e colpire spietatamente la corruzione e l’inefficienza troppo spesso dilaganti in alcuni servizi.
Occorrerà guarnire con elementi scelti dalla guardia di finanza le frontiere e specialmente quelle terrestri e in particolar guisa quella svizzera, attraverso le quali si sta esercitando il più sfacciato contrabbando di prodotti, di valuta, di ricchezza nazionale.
In questo settore attendiamo dalla severità e dall’abilità organizzativa dell’onorevole Ministro delle finanze lo sforzo maggiore e senza dubbio più difficile.
Chi rileggesse oggi il grande discorso «Rifare l’Italia» pronunziato ventisei anni or sono dal grande apostolo Filippo Turati in questa stessa Camera, proverebbe, a lettura ultimata, un senso di sgomento. Lo stesso senso di tragedia immanente, le stesse tare, le identiche necessità e preoccupazioni di allora, affiorano oggi, ingigantite.
Quel fallimento che egli preconizzava allora, è oggi una pratica realtà, e ne incombono su tutti noi le conseguenze.
E sugli uomini di governo, nonché su quelli che hanno la responsabilità dei partiti, pesa la curatela della più dolosa delle bancarotte fraudolente che la storia ricordi. Ventitre anni di tirannia furono il prezzo pagato da tutti gli italiani, per aver voluto la classe dirigente di allora sfuggire all’obbligo morale e materiale di pagare essa lo scotto di quella situazione. Allora si volle riversarne sulle spalle dei poveri il peso.
Ma il gioco non è ripetibile: non lo permetteremo.
Ventisei anni or sono si trattava di «rifare l’Italia»: oggi si tratta di salvare e ricostruire l’Italia.
Nel suo programma il Governo, accogliendo un postulato accennato nel programma del Partito socialista italiano, si impegna a dare «ad alcune industrie particolarmente connesse con la ricostruzione e la ripresa costruttiva, un regime che meglio risponda agli interessi dell’economia nazionale».
Permettetemi, onorevoli colleghi, di dilungarmi un tantino se non altro per chiarire perché richiediamo dallo Stato che vigili ed intervenga.
Abbiamo presenti le industrie elettriche: ci sembra sia di capitale importanza che, almeno come passo iniziale, si provveda ad una razionale distribuzione dell’energia e ad una parificazione delle tariffe su base nazionale.
L’elettricità è, come il carbone e l’olio combustibile, la terza fonte di energia: la cui importanza diventa preponderante quando sussista una estrema scarsità delle altre.
Ora per quanto riguarda il carbone (il cui consumo prebellico era di circa un milione di tonnellate al mese) si prevede un fabbisogno di 800 mila tonnellate, ma si dubita di poterne ottenere molto più di 500 mila, e, per giunta, per buona parte, non di eccellente qualità (condizione questa assai importante per il fossile destinato alla distillazione).
Per quanto concerne gli olî combustibili, difficilmente si potranno ottenere i quantitativi previsti in base alle capacità massime: un milione e mezzo di tonnellate annue.
In queste condizioni è necessario prevedere il regime delle priorità nelle assegnazioni di fonti di energia, in rapporto all’importanza ed alla particolarità della produzione.
Non sembra possibile, se ci si basi sulla non lieta esperienza fatta l’anno scorso, di riuscire ad ottenere dalle industrie elettriche, nel regime attuale, il massimo rispetto delle priorità indispensabili e la rinuncia ad avvalersi degli utenti più redditizi, se non intervenga lo Stato con un ente tecnico che regoli la distribuzione secondo lo impongano le necessità contingenti.
Si aggiunga poi che, in linea di massima, va subito affrontata la questione delle tariffe che debbono essere adottate con una visione di assieme, rispetto alle esigenze dei vari settori industriali, in rapporto alle superiori necessità; occorre poi che cessi il controsenso, sia pure economicamente giustificato oggi, ma ingiustificabile da un punto di vista unitario e razionale, della differenziazione di tariffa, per identico settore, tra Italia settentrionale, centrale e meridionale.
Tutto il problema della nostra produzione di energia idroelettrica e termoelettrica dovrà essere affrontato. Se tutti gli impianti fossero ultimati ed efficienti dovremmo oggi produrre attorno ai 20 miliardi di chilovattora annui; ma lo stato di guerra e le distruzioni hanno ridotto questa produzione, sicché la nostra disponibilità è priva di qualsiasi riserva. E pensare che noi avremmo dovuto a quest’ora aver portato da 20 a 39 miliardi annui i chilovattora producibili.
Se le industrie andassero a pieno regime la nostra situazione sarebbe grave; gravissima è già, se si tenga conto quanto incidano nel periodo invernale le utenze elettrodomestiche specialmente in alta Italia, a causa della scarsezza di gas e di combustibili per riscaldamento.
Altro settore industriale al quale, agli effetti della ricostruzione, occorre por mano, è quello degli agglomeranti idraulici; il carbone che può venire destinato a tale settore non deve essere assegnato a un prezzo vincolato per servire a fare del cemento, ad esempio, che viene venduto a prezzi di affezione.
Di contro, a «tot» di carbone occorre poter contare su «tot» di agglomeranti aventi le caratteristiche prescritte, a prezzo giustificabile, senza di che vanno in fumo tutte le speranze della ricostruzione e buona parte dei programmi di lavori pubblici.
Anzi, noi riteniamo che si dovrebbe favorire, anziché scoraggiare, l’importazione di cemento in cambio, per esempio, di prodotti ortofrutticoli.
Altro settore ove occorre razionalizzare e guardare un po’ a fondo, è quello siderurgico. Il fabbisogno nazionale si calcola intorno ad annui milioni due e mezzo di tonnellate di acciaio per soddisfare la necessità di una forte ripresa nelle costruzioni finali, strade ferrate, carri ferroviari, installazioni portuali, ecc. A ciò si può provvedere in gran parte o con una produzione spinta alla piena utilizzazione degli impianti, oppure con una maggiore importazione di prodotti finiti, chiudendo gli stabilimenti meno efficienti. Ma la situazione internazionale rende attualmente difficili i rifornimenti, tanto che le previsioni di arrivi sul piano UNR.RA (cui avevamo richiesto centoseimila tonnellate di semifinito e circa 28.000 tonnellate di finito) sono sfavorevoli.
Pertanto il grave problema della razionalizzazione della industria siderurgica non può avere soluzioni immediate ed il fabbisogno dovrà essere coperto quanto più possibile dalla produzione nazionale; ma il problema si sposta ancora verso il rifornimento delle disponibilità delle tre fonti di energia.
L’industria siderurgica è sempre stata refrattaria a sottostare ad un controllo della produzione, controllo atto ad assicurare il massimo dei prodotti finiti richiesti.
Orbene non è ammissibile che si fornisca carbone, olio combustibile ed energia elettrica a prezzi vincolati, quando, per esempio, il lamierino per l’inscatolamento di prodotti alimentari è fornito in misura assai inferiore al fabbisogno; quando le lamiere, godendo di larga richiesta sul mercato libero, vi si dirigono a prezzi di affezione eludendo il blocco esistente perché ci si «arrangia» a trasferire in lingotti (non vincolati) alla laminazione marginale.
Si rifletta che senza lamierino magnetico non si fanno trasformatori elettrici, senza lamierino sottile non si inscatolano prodotti alimentari, senza lamiere di spessore adeguato non si costruiscono navi, carri ferroviari, carri cisterna per olii minerali, ecc., ecc.
Altro settore che meriterebbe attenzione è quello dei grassi industriali già assai scarsi, ma che divengono ancora più scarsi per effetto di quanto viene sottratto per la vendita clandestina.
Converrebbe forse controllare e regolare le assegnazioni di solfuro per ottenere, in base a quelle, la disponibilità dei grassi industriali, materia prima per la produzione saponiera, delle vernici, ecc.
Lo stesso dicasi per i concimi chimici fosfatici e azotati, la cui produzione dovrebbe corrispondere a norme di priorità e la cui disponibilità a prezzi giustificabili dovrebbe essere rapportata alla quantità di materia prima e di fonte di energia messa a disposizione.
Altrettanto dicasi, per esempio, dell’industria zuccheriera, la cui produzione dovrebbe essere severamente vincolata per la alimentazione, l’industria conserviera, ecc., in rapporto al carbone fornito per la produzione relativa.
Oltre a questi esempi di situazioni che impongono urgenti soluzioni vi sono parecchi altri settori industriali ove l’iniziativa privata può essere, deve essere, sostenuta dal Governo, ma ove si richiede vigilanza e controllo per ridare moralità al processo produttivo e distributivo e per evitare che si abbiano ripercussioni dannose allo sforzo di compressione del costo della vita.
A questo proposito vi è tutto il problema della razionalizzazione del nostro apparato industriale – spessissimo sfasato, antiquato, antieconomico – cresciuto ed ingigantito alla bell’e meglio.
Tanti anni di privilegio, monopoli di ogni genere, hanno dato sviluppo più alla tendenza a realizzare profitti molto spesso esosi ai danni dei consumatori, che non ad impostare industrie economicamente sane ed equilibrate, veramente al servizio della collettività.
Non è sempre un paradosso l’affermare che troppo spesso certa nostra industria non si è resa conto che esisteva un mercato interno, se non per produrre ai prezzi massimi, limitati quantitativi di merci di scadente qualità.
Ora il problema della potatura dei rami secchi, dello svecchiamento, delle razionalizzazioni del nostro apparato produttivo si impone in maniera ferrea.
Considerevole apporto anche in questo campo, soprattutto agli effetti del miglior rendimento, potrà dare il contributo delle classi operaie, attraverso l’intervento dei Consigli di gestione, che il Partito socialista italiano nel suo programma ha richiesto vengano istituiti per legge, richiesta accolta nel programma governativo.
Noi non crediamo che si possa risolvere alcuno dei problemi assillanti dell’apparato industriale se non si provveda ad un coordinamento basato su una programmazione studiata, sia pur per grandi linee. Noi esortiamo il Governo a far elaborare sollecitamente dal Comitato industriale della ricostruzione tale materia.
Tuttavia non riteniamo che, dopo il tracciamento di ampie linee direttive, sia possibile impostare una più dettagliata azione di coordinamento del ciclo importazione – produzione – distribuzione – esportazione, se non si proceda ad un inventario sistematico e generale dei beni strumentali, scorte e beni di consumo esistenti nel Paese.
Se sapremo operare seriamente nel campò industriale, avremo risolto alcuni dei problemi più gravi che ci attendono al varco.
Ed ora, per finire, qualche commento alle dichiarazioni di Governo sulla politica estera.
Qual è la posizione del Partito Socialista in politica estera?
La posizione fondamentale del nostro partito, simile del resto a quella dei partiti socialisti degli altri paesi, è questa: difesa intelligente dell’autonomia della Nazione di fronte alle immani forze mondiali in presenza. Questa difesa si fa in un modo solo: non abdicando di fronte a nessuno e stringendo accordi con tutti.
Guai, guai all’Italia, se essa dovesse cadere nella sfera di influenza di questa o di quella delle grandi Potenze mondiali! Sarebbe la fine della sua autonomia e vi sarebbe il pericolo di contribuire a rompere il delicato equilibrio sul quale si può edificare la pace.
Se l’Italia vuole risolvere i propri problemi secondo il genio delle proprie classi lavoratrici, deve fare questa politica.
È interesse dell’Italia mantenere i migliori rapporti con tutti, ma per la sua stessa esistenza è di vitale importanza che essa mantenga rapporti particolarmente cordiali con la potenza terrestre più forte sul continente europeo e con le più forti potenze marittime.
L’Italia confina direttamente con il mondo slavo, questo giovane mondo profondamente compreso, in maniera direi mistica, della propria missione: dietro quel mondo vi è la Russia.
L’Italia, poi, in virtù del lunghissimo sviluppo delle sue coste e della sua posizione mediterranea, sopra tutto nella recente aggressione geo-politica derivata da questa ultima guerra, confina direttamente con il mondo anglo-americano.
Questa posizione, e non occorre altro, definisce la politica estera dell’Italia.
Qualsiasi altra politica si risolverebbe in un’avventura pericolosa e l’ultima avventura che ha ignorato questo postulato fondamentale e che venne realizzata dal fascismo, ha lasciato le sue tragiche tracce in tutta la Penisola.
Ma vi sono poi ragioni economiche che ci impongono amicizia con la Russia, l’Inghilterra e l’America. Il mondo slavo, ritengo, ha bisogno anche di noi e noi abbiamo bisogno del mondo slavo.
La Russia è tutta protesa in uno sforzo formidabile di ricostruzione e di potenziamento del suo apparato industriale: avrà necessità di alcune produzioni industriali, caratteristiche nostre e specialmente dell’attività dei nostri cantieri navali.
Questo Paese potrà acquistare nostri prodotti industriali contro rifornimento di materie prime, non appena le condizioni politiche ed economiche obiettive lo consentiranno.
Ma ancor maggior copia di lavoro dovrebbe esserci possibile nei più svariati campi manifatturieri con il resto del mondo slavo ed in generale con tutta la zona della sfera di influenza russa.
Mercati già un tempo da noi largamente serviti, poi quasi perduti a beneficio della Germania, potrebbero venire nuovamente serviti da noi in sempre maggiore misura, con i nostri prodotti dell’industria tessile, metalmeccanica, chimica, di precisione, ecc. almeno per tutto quel tempo durante il quale la Germania sarà assente o diminuita.
Potrebbe perfino esservi la possibilità di vedere, un giorno, correnti migratorie temporanee di operai specializzati, inquadrati da tecnici nostri, magari scortanti macchinario di nostra produzione, recarsi nei paesi della sfera di influenza russa per installarvi industrie leggere.
Con l’America del Nord e con l’America latina (per la massima parte nella sfera di influenza degli Stati Uniti) i legami tradizionali non si possono allentare. Vie marittime ed aeree congiungeranno l’America con la nostra penisola, buona parte dei capitali tanto necessari per la nostra ricostruzione potranno venirci da laggiù; le correnti turistiche di quantità, sulle quali potremo contare in futuro, ci giungeranno specialmente dal continente americano; i legami che stringono i nostri emigrati con la Patria, le future possibilità di emigrazione, sono elementi che non possiamo ignorare: materie prime fondamentali per la nostra economia verranno dal continente americano; l’esportazione di manufatti di qualità e della massima parte della nostra produzione serica, sono ovviamente destinati agli Stati Uniti, mentre altre esportazioni nostre di prodotti, sia di massa che di qualità, sono destinati ad essere assorbiti da nazioni centro e sudamericane.
Vi è infine il Commonwealth Britannico verso il quale potremo riprendere nostre esportazioni, dal quale riceveremo materie prime, ove potremo trovare forse anche possibilità di prestiti e verso alcuni territori del quale non è improbabile che si avvii un giorno una nostra corrente migratoria.
Questa è dunque la nostra posizione obbiettiva, dal che si deduce che la politica del passato Governo era giusta sostanzialmente, anche se poteva e può essere criticata nel dettaglio. Era sostanzialmente giusta perché onestamente non si è legata a nessuno.
Si osserva da parte di qualcuno: il passato Governo avrebbe dovuto giocare decisamente la carta anglo-americana o quella russa.
Noi socialisti rispondiamo: la carta antirussa, no! Perché non avremmo potuto avallare una politica insana che sarebbe stata né più né meno che la riproduzione, che fu così funesta per noi, di quella del fascismo.
La carta russa allora? Alcuni sono tentati di considerare questa, ma è ovvio che anche tale politica avrebbe avuto risultati funesti a lunga scadenza e non avrebbe migliorato quelli immediati.
Non senza dimenticare che una carta del genere non avrebbe potuto venir giocata distrattamente.
Il risultato tangibile sarebbe forse stato quello di inaridire le fonti degli aiuti che la benemerita UNRRA e governi stranieri hanno fornito, permettendo al popolo italiano di affrontare le conseguenze della terribile bufera, col mettersi pian piano, ma sicuramente al lavoro.
In fine dei conti, non si dimentichi che tra forniture del periodo di occupazione, piani FEA, UNRRA, ecc. le forniture che ci sono state fatte (per la massima parte gratuitamente) ammontano a qualche cosa come mille milioni di dollari.
E poi io non credo che si possa seriamente pensare che, anche se l’Italia si fosse legata alla Russia, questa avrebbe fatto mancare il suo appoggio al Governo di Tito che è slavo, e che ha affinità ideologiche con quello russo.
Vi sono necessità geografiche e storiche che si impongono attraverso i secoli e che non è facile mutare; vi sono necessità di carattere nazionale che dettano il corso dei rapporti con altre Nazioni.
Per essere convinti di quanto dico, mi basta osservare il caso della Francia. La Francia, pur non venendo meno alla propria autonomia, si è legata alla Russia con uri trattato di alleanza, e le ragioni che hanno spinto la Francia ad agire in tal senso mi sembrano ovvie: si trattava di una precisa assicurazione nei riguardi della Germania.
Orbene, quando si è trattato di un problema, per essa Francia vitale, quello della Ruhr, cosa è avvenuto? Semplicemente questo: che tra la Francia alleata e la Germania ex nemica la Russia non ha esitato, e noi crediamo abbia agito giustamente nel proprio interesse, a prendere una posizione favorevole all’unità germanica.
Da un punto di vista internazionale e di vantaggi nazionali la Russia non avrebbe potuto comportarsi altrimenti.
Per me è chiaro che, anche se avessimo avuto un trattato di alleanza con la Russia (né potevamo averlo perché vincolati da clausole di armistizio) la sorte di Trieste non sarebbe stata diversa da quella deprecabile che è stata decisa a Parigi.
Lasciamo pertanto in disparte l’esame di questi motivi, ormai sorpassati, di polemica elettorale; per venire alle linee di una politica estera di difesa degli interessi nazionali, così come la vede un socialista.
1°) Per Trieste: se fosse impossibile modificare le decisioni del Lussemburgo, cercare di includere nella zona internazionale i territori italiani situati ad oriente ed a sud della cosiddetta linea Bidault e ciò allo scopo di dare una più chiara consistenza etnica linguistica ed economica a questo lembo che viene lacerato dal nostro corpo. Che allo Stato libero così costituito si riconosca il diritto di decidere per plebiscito, entro 10 anni dalla sua appartenenza all’Italia.
Rinnovare il tentativo già ripetutamente fatto di accordi diretti politici con la Jugoslavia, accordi che purtroppo sino ad ora sono stati respinti.
Rinnovare tali tentativi nel quadro di uno statuto internazionale, che dia serie garanzie che dall’accordo risulti un effettivo miglioramento dei nostri rapporti e non un tragico inganno ai danni dell’italianità di quelle popolazioni.
È vero, sono stati fatti torti alle popolazioni di origine e lingua slava da parte del regime fascista, ma non sono stati solo gli slavi a subire le persecuzioni degli scherani fascisti; anche gli italiani che non la pensavano in modo ortodosso per il regime hanno subito le persecuzioni!
Tanto è vero che nelle ore di lotta disperate della resistenza i nostri uomini si sono trovati a combattere a fianco a fianco ed a cadere, affratellati per sempre dalla morte, con i patrioti slavi.
E spesso i nostri e i loro partigiani che assieme combatterono, ciascuno per la liberazione del proprio paese, si sono dovuti difendere contro fascisti ed ustascia alleati al servizio dei tedeschi.
Ora non sembra che si possa correggere i torti commessi contro genti slave, consentendo che altri torti siano commessi contro genti italiane.
Noi chiediamo uno Statuto internazionale che sia nel quadro dell’O.N.U., di quell’organizzazione delle Nazioni Unite la cui forza e la cui legge possono basarsi solo sui princìpi della sicurezza collettiva.
Questo è il grande principio della politica estera socialista.
Fin tanto che il diritto di veto arresterà l’esecuzione della giustizia internazionale, l’Italia dovrà essere di una estrema prudenza nella ricerca di accordi politici che, senza le dovute garanzie, potrebbero concludersi con una grave delusione.
Non si tratta di sapere se questa o quella Potenza vuole la guerra; tutti sono d’accordo nel ritenere che la guerra sarebbe una tragica follia, forse veramente la follia definitiva che questa nostra presuntuosa e disumana umanità potrebbe tentare.
Ma il problema è di sapere se, indipendentemente dalla volontà dei governi e dei timori dei popoli, non si vengano creando situazioni che contengono virtualmente i germi di un conflitto.
È compito, anzi è suprema missione del socialismo, il lottare con tutte le sue forze perché questi germi vengano distrutti.
Nel settore italiano la prima condizione del successo è lo sviluppo di una decisa autonomia e di sostanziosi accordi commerciali con i russi, gli inglesi e gli americani.
L’Italia – ripeto – non dovrà stringere accordi politici con nessuno se non nel quadro dell’O.N.U. e ciò solo quando avrà trionfato il principio della sicurezza collettiva.
2°) Frontiera occidentale. È un problema doloroso. La Francia ha lasciato cadere un’occasione unica, forse, per gettare le basi di una vera intesa fraterna tra i nostri due popoli.
La Francia, ossessionata dal pericolo tedesco, ha sacrificato l’Italia ed all’ultimo si è visto come questo sacrificio non le abbia giovato affatto.
Ma anche qui rifulge di vivida luce la chiaroveggenza della politica socialista.
L’unico partito in Francia che abbia visto con chiarezza il problema dei rapporti tra i nostri due popoli è stato quel Partito socialista (Approvazioni); esso non si è lasciato trascinare alla politica nazionalistica, non si è lasciato ipnotizzare (in tempi di dominio della bomba atomica) dalle ipotesi (sempre aggiornate) sull’ultima guerra passata, quale è la consuetudine degli Stati Maggiori di tutti i tempi e paesi; non ha ritenuto di dover pretendere amputazioni territoriali per sistemare una situatone idroelettrica che capitali, tecnici ed operai avrebbero potuto impostare e risolvere felicemente.
Noi dobbiamo invocare dai francesi che abbiano coscienza dell’errore che commettono.
3°) Problema delle colonie. Per l’Italia repubblicana e democratica, il problema delle colonie prefasciste è un problema di coloni italiani, di valorizzazione di territorio con duro lavoro dei nostri, di possibilità, di mantenere rapporti di scambio con quella nostra gente.
Il Partito socialista italiano ritiene che non sia equa né necessaria la richiesta del «surrender of right», la rinuncia cioè ai nostri diritti.
Il problema delle colonie può benissimo essere accantonato per un anno, senza che da parte nostra si sia tenuti a pronunciare questa rinuncia.
4°) Riparazioni. Il pagamento di eventuali riparazioni non può non tener conto, per quanto riguarda la Jugoslavia e Grecia, delle opere compiute dall’Italia nella Venezia Giulia e nel Dodecanneso e, per quanto riguarda l’Unione sovietica, dell’impossibilità in cui l’Italia si trova di pagare riparazioni in altra forma che non sia il lavoro dei suoi cantieri e delle sue industrie contro forniture di materie prime.
Vi è il problema poi delle riparazioni nei riguardi della Germania per gli incalcolabili danni causati al nostro Paese.
Il Partito socialista italiano ritiene che debbano essere restituiti all’Italia i beni, le installazioni, le proprietà asportate; per quanto concerne gli altri danni causati, il Partito socialista italiano ritiene che, anziché stremare ulteriormente il popolo tedesco con le richieste di risarcimento, un compenso potrebbe essere accordato all’Italia, concedendo, per un periodo da stabilirsi, il diritto di escavazione di carbone da miniere tedesche, escavazione cui potrebbe provvedere con propria mano d’opera e tecnici.
La ripresa di relazioni normali e fiduciose dell’Italia con i Paesi già ex nemici e che hanno tratto motivo dalla guerra per chiedere ed imporre revisioni di frontiere, riparazioni od altre sanzioni, è legata:
- a) per quanto riguarda la Jugoslavia, al rispetto ed alla protezione della minoranza italiana compresa nello stato federativo jugoslavo;
- b) per quanto riguarda la Francia, al ritorno di Briga e Tenda;
- c) per quanto riguarda la Gran Bretagna, ad una organizzazione delle colonie che non escluda l’Italia dall’Africa, ove essa ha da compiere una funzione di lavoro e di progresso per cui sarebbe somma ingiustizia il sostituirla.
Il Partito socialista italiano pensa che non si serve la causa del Paese con le manifestazioni incomposte di dolore o, peggio ancora, con manifestazioni isteriche che possono aggravare il sospetto, in chi è naturalmente sospettoso verso di noi, di frenesie nazionalistiche risorgenti.
Fatti quali quelli di Padova, di Venezia, e di altre città d’Italia sono deprecabili soprattutto perché inutili.
Servono essi a qualche cosa di concreto?
Purtroppo no e questo «no» è la loro chiara condanna.
Grande è la missione del Partito socialista italiano come fattore di autonomia, di aspirazione e di opere volte allo scopo di mobilitare a nostro favore la giustizia internazionale.
Quella stessa putrefazione che noi vogliamo evitare nell’interno del nostro Paese, noi vogliamo assolutamente evitarla nei rapporti internazionali.
E se anche la situazione che ci verrà fatta dal Trattato di pace fosse iniqua, noi non ci irrigidiremmo in un isolamento mortale che favorirebbe il processo di disgregazione e disorganizzazione dell’Europa.
Noi tenteremo di stabilire buoni rapporti con la Francia, così come con tutte le altre Nazioni, anzitutto per la considerazione che l’inimicizia – che solo le forme interessate alla disgregazione possono desiderare – debba essere sostituita da una reciproca comprensione.
Il Partito socialista italiano vuol difendere la pace con tutte le sue forze, con una volontà dettata dalla disperata necessità di riuscirvi. Il nostro Partito si è imposto il compito di salvaguardare le classi lavoratrici dal mostruoso pericolo di un’altra guerra.
Ho udito, nei giorni scorsi, un onorevole collega dei banchi di destra pronunciare una bestemmia, con l’asseverare che se i partigiani e gli uomini della resistenza avessero potuto prevedere le ingiustizie commesse contro il nostro Paese non avrebbero voluto morire invano.
Uomini della resistenza, dei volontari del Corpo della libertà, delle Forze armate della liberazione, hanno combattuto, e molti sono caduti, per alti ideali e non per ragioni mercenarie.
Solo per queste ultime ragioni si può pesare se convenga o meno il rischio ed il sacrificio, ed in tal caso nessuno affronta quello supremo.
Chi combatte e cade per un ideale lo fa anche se nel cuore tremi il timore dell’inutilità immediata dell’olocausto. È proprio allora, anzi, che il cavaliere dell’ideale combatte con animo puro.
Chi sopravvive, anche se sconfitto, ha nel cuore, nell’anima, nel cervello un solo assillo: quello di continuare la lotta perché o prima o poi l’ideale trionfi.
Se l’inanità di uno sforzo o di una battaglia potessero avere un qualsiasi peso, l’umanità si sarebbe fermata alle prime sconfitte.
Ma noi la fede trasformiamo in certezza, la certezza di essere alle soglie di un mondo migliore. Al popolo italiano che cerca la via della rinascita noi additiamo con buona coscienza quell’unica che può portarlo verso libere altezze: la via del socialismo. (Vivissimi applausi).
Presidenza del Vicepresidente TERRACINI
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Perrone Capano.
PERRONE CAPANO. Nel solco del discorso dell’onorevole Nitti, farò delle rapide e sintetiche osservazioni di opposizione al governo: di critica forse, meglio che di vera e propria opposizione.
Io non sono d’accordo con l’onorevole Lussu il quale diceva che la Democrazia Cristiana avrebbe consacrato con un successo in sede di formazione di governo la sua vittoria del 2 giugno.
Sembra al contrario a me che la Democrazia Cristiana abbia diminuito in sede di formazione del governo la prevalenza assicuratasi in sede elettorale.
Era inevitabile, indubbiamente – atteso il risultato delle elezioni – il compromesso. Ma il compromesso doveva essere chiaro.
È stato invece oscuro ed equivoco. La triarchia rappresenta indubbiamente, di fronte all’esarchia, un potenziamento del potere direttivo dei partiti di massa in seno al Governo. Esigeva quindi questa triarchia una assunzione precisa ed inequivocabile di responsabilità da parte di tutti i componenti di essa.
Questa assunzione precisa ed inequivocabile non si è realizzata, se è vero che l’onorevole Togliatti ha preferito di prendere il suo posto di deputato forse per manovrare con maggiore libertà le leve di comando della Confederazione generale del lavoro (Commenti) e se l’onorevole Nenni ha accettato, come nelle società commerciali, una responsabilità limitata e, contro il divieto sancito dal Codice civile, una successione non ancora aperta.
Quello dunque che apparirebbe un potenziamento del potere presidenziale risulta, in sede consuntiva, un autentico indebolimento.
La Democrazia Cristiana non annovera nel suo programma la pianificazione e la collettivizzazione. Viceversa, in sede di formazione del governo e di delineamento del programma di esso, ha accordato l’avallo con programma che, mentre sembra avere di mira soltanto la finalità di arrecare un notevole aiuto alle classi più bisognose e di fare centro sull’iniziativa, al contrario tende, in realtà, alla collettivizzazione e alla pianificazione.
Infine, esaminando sempre la formazione del Governo, bisogna riconoscere che sono stati abbandonati dei sistemi tradizionali che si erano dimostrati felicissimi al vaglio della esperienza e che non si è avuta sempre mano felice e rispetto verso il Paese nell’assegnazione degli incarichi. Vengo subito a spiegarmi: sta di fatto che si è abbandonata la tradizione in virtù della quale il Presidente soleva, nell’ambito s’intende di determinati criteri qualitativi e quantitativi, scegliersi lui i suoi collaboratori. Il Presidente del Governo attuale, anche dopo che il Paese aveva eletto una Assemblea sovrana, e quindi era stata rimessa la finzione esarchica, ha preferito lasciarsi imporre i suoi collaboratori. E a questo proposito vien fatto di osservare – sia detto senza volere con ciò mancare di riguardo all’onorevole Gullo, verso il quale indubbiamente io non ho alcun che di personale e tanto meno il proposito di menomarne il prestigio – che si è verificato il fatto che, mentre una sentenza della Corte di Cassazione ha detto che l’onorevole Gullo, quale Ministro dell’agricoltura (non entro nel merito del provvedimento e mi limito ad esaminare i fatti) aveva compiuto un vero e proprio eccesso di potere, eccesso di potere concretantesi nell’esercizio in sede amministrativa di un potere legislativo che non gli spettava, il Ministro Gullo è stato posto a capo del dicastero della giustizia, cioè esattamente al di sopra di quella stessa autorità giudiziaria che gli aveva rimproverato un eccesso di potere. (Applausi al centro).
Non vi pare, signori, che questo sia qualche cosa che offenda il prestigio del diritto? Quel prestigio (Interruzioni – Commenti), del diritto che noi tutti qui dentro, estrema sinistra ed altri partiti, abbiamo il dovere al contrario di rialzare, di risollevare se intendiamo costituire sul serio una società basata sulla collaborazione di uomini liberi.
E mi sembra di poter muovere a questo riguardo anche un rimprovero al partito comunista, nel senso cioè che mi pare che esso, dato il prestigio e l’efficienza di cui gode nel Paese, non aveva bisogno di ricorrere ad una affermazione del genere per dimostrare l’aumentato suo potere, l’efficienza sua in sede di formazione del Governo.
Politica estera. Indubbiamente il programma tracciato dal Presidente De Gasperi per l’avvenire è un programma accettabile da tutti. Tutti lo sottoscriviamo, augurando sinceramente che esso possa essere realizzato. Ma il quesito che noi ci poniamo è questo: vi sono, attesi i precedenti dello stesso Ministro degli esteri, attesa la situazione odierna che il Ministro degli esteri ha determinata, le garanzie perché questo programma possa essere realizzato?
Anche qui debbo dire che il rilievo non è diretto contro la persona, ma anche qui vien fatto di osservare spontaneamente che dobbiamo essere tutti d’accordo che non solo l’onorevole De Gasperi non passerà alla storia come un Talleyrand redivivo, o sia pure come un conte Witte, ma che egli non ha neanche tentato il ruolo che nel corso della storia recente di Europa svolsero tanto felicemente Talleyrand a Vienna e il conte Witte dopo la disfatta della Russia di fronte al Giappone a Porst Mouth. Non lo ha neanche tentato, signori, perché sta di fatto che egli ha accettato il portafoglio degli esteri in un’ora irta di estreme difficoltà, senza aver mai praticato quella diabolica arte che si chiamala diplomazia. (Si ride).
Capisco, quando si fanno delle critiche e si toccano degli idoli, se non si interrompe, si sorride; ma penso che oggi sia trascorso il periodo degli idoli.
CINGOLANI, Ministro dell’aeronautica. Non esistono idoli; esistono dei colleghi.
PERRONE CAPANO. Allora ascoltate in silenzio, o interrompete dicendo delle cose esatte, e rispondete come va risposto. Ma questo nervosismo, appena si presenta a parlare un oratore il quale non fa coro con quelli che hanno detto bene di De Gasperi e del Governo, non è del caso. L’onorevole De Gasperi ha avuto 300 mila voti di preferenza; non per questo non si ha il diritto di muovergli delle critiche. (Commenti).
Io rilevo, signori, che il portafoglio degli esteri è stato mantenuto anche quando si doveva assumere contemporaneamente in mezzo a colossali difficoltà interne oltre che internazionali, la Presidenza del Consiglio, ed oggi è ancora conservato mentre si assume la Presidenza del Consiglio ed il Ministero dell’interno. Il che dimostra che si vuole continuare come prima, peggio di prima, in quanto questo Dicastero si tiene a mezzadria con Nenni, in condizioni di non poter dedicare alla politica estera, che dev’essere il centro vitale di ogni pensiero e di ogni attività del Governo italiano, altro che dei ritagli di tempo. (Interruzioni – Commenti).
Ora, mi sembra evidente che non sia oggi la politica estera in Italia qualche cosa a cui si possa dedicare soltanto un ritaglio di tempo, in mezzo a tutti gli oneri e alle preoccupazioni che vi sono.
Ha detto l’onorevole De Gasperi che tutti gli elementi utilizzabili sono stati utilizzati e che si è fatto tutto quello che si poteva fare. L’espressione è agevole, l’affermazione vorrebbe essere tranquillante, ma non risponde, per chi voglia approfondire il contenuto di essa, alla verità. Al contrario, si può assumere che fino ad oggi non si è fatto tutto quello che era possibile fare e non sono stati utilizzati tutti gli elementi che si potevano utilizzare. Difatti il nostro Ministro degli esteri delle carte le aveva, perché non si può negare che 45 milioni di uomini, anche se sconfitti, anche se presidiati oggi da un esercito straniero, siano una grande forza, siano un imponente elemento nella vita dell’Europa. Qui non si vuole perorare una politica di blocco nel senso di muovere dei rimproveri, perché non si sia aderito ad un blocco piuttosto che ad un altro. Ma si vuol rilevare che quando si profilano degli antagonismi profondi tra gruppi di potenze, fra quelle potenze che dovranno decidere, non si può disconoscere che 45 milioni di uomini rappresentano qualche cosa che si può far giocare e passare nel calcolo internazionale. Non è stato nemmeno tentato questo. Viene fatto inoltre di ricordare che noi abbiamo 2 milioni di fratelli in America, e questi fratelli proprio questa mattina ci hanno dimostrato in una maniera toccante come vibrino nel loro spirito, nel loro cuore all’unisono col nostro, come desiderino che la nostra Italia risorga!
Ebbene, signori, nessuna valorizzazione e mobilitazione di questa forza è stata compiuta. In modo assoluto, non la si è nemmeno lontanamente messa in valore. E così si potrebbe dire della nostra cobelligeranza e degli altri fattori che indubbiamente esistevano nel giuoco politico internazionale.
Al contrario, onorevoli colleghi, noi abbiamo avuto, in seno alla Consulta, da parte dell’onorevole Ministro degli esteri nell’inverno scorso, un discorso nel quale non si seppe fare altro che mettere a nudo quelli che erano stati i torti del nostro Paese, quella che era la condizione disgraziata in cui il nostro Paese si trovava; non si seppe fare altro che porre in evidenza tutte le cause di debolezza, tutti i motivi che potevano rendere ostica la causa degli italiani.
CINGÓLANI, Ministro dell’aeronautica. Non è esatto! Rilegga i verbali della Consulta.
PERRONE CAPANO. Io allora non facevo parte della Consulta. Ascoltai attentamente quel discorso alla radio ed ebbi precisa questa sensazione, e pensai: queste cose un Ministro degli esteri le lasci dire ad un Deputato; egli deve proclamare in faccia al mondo il buon diritto dell’Italia e l’assenza assoluta di colpa degli italiani. (Commenti).
CINGÓLANI, Ministro dell’aeronautica. Lo ha fatto, e tutta la Consulta ha applaudito. Legga i verbali!
Una voce. Allora, avrebbe dovuto solidarizzare con Mussolini!
PERRONE CAPANO. Non consento simile espressione. Non doveva solidarizzare affatto, ma valorizzare le ragioni italiane. Noi diciamo, signori, che non è stata spesa nemmeno una cartuccia a difesa del nostro buon diritto. (Interruzioni – Commenti – Rumori).
Lo so che dispiace sentir dire queste cose; ma il Paese le sente e le dice ogni giorno.
PRESIDENTE. Non raccolga le interruzioni.
PERRONE CAPANO. Vi dirò un’altra cosa, onorevoli colleghi: che noi abbiamo vista la Jugoslavia, appoggiatissima dalla Russia, inviare a Parigi una delegazione di cento membri, affinché nessun settore fosse rimasto inesplorato e nessuna via fosse rimasta imbattuta dei settori e delle vie che dovevano essere esplorati e battuti, perché si raggiungesse lo scopo. Noi abbiamo mandato invece una delegazione ridottissima, e screditata, perché fanno parte di essa elementi che già avevano fatto parte della Commissione di armistizio con la Francia.
E non solo, Signori, noi non abbiamo un regolare ambasciatore a Parigi. Quando il nostro ambasciatore ha creduto di ritornare in Italia non lo abbiamo sostituito! E mi rincresce dover rilevare a questo proposito che una parte del torto va al partito socialista, e dico mi rincresce, perché verso il partito socialista ho sempre sentito vivissima simpatia. (Commenti).
In questa occasione noi dobbiamo rilevare che l’Ambasciata di Parigi è rimasta senza titolare evidentemente perché il Partito socialista ritiene che spetti ad esso designare l’ambasciatore a Parigi e fino ad oggi non ha trovato l’uomo, e quindi l’Ambasciata è rimasta deserta. Ora, l’Ambasciata non doveva rimanere deserta.
L’onorevole Pellizzari faceva rilevare che l’onorevole Nitti, quando a Parigi aveva dovuto mandare qualcuno in occasione di altre trattative di pace, mandò il Ministro degli esteri ed egli prese per sé l’interim di quel portafoglio. Mi pare che la dimostrazione tentata dall’onorevole Pellizzari sia controproducente, perché quello che fece allora l’onorevole Nitti è esattamente l’opposto di quello che si è fatto ora. L’onorevole Nitti mandò a Parigi il suo Ministro degli esteri, che si chiamava Tommaso Tittoni, e, siccome in quel momento si ritenne che non un Ministro degli esteri bastasse, ma che ne occorrevano due, egli assunse l’interim degli esteri a Roma, per dirigere la politica estera da Roma, mentre il titolare del portafoglio andava a riunire tutti i suoi sforzi, ad esercitare tutta la sua opera a Parigi, dove era chiamato dal dovere e dall’interesse nazionale.
Un ultimo rilievo, onorevoli colleghi, in merito alla politica estera. Il Presidente del Consiglio ci ha fatto sapere, al termine della sua esposizione, che il Governo, prima di prendere una decisione inerente alla firma o meno di un «diktat» che segnasse per noi una così grave condanna come quella che ci è stata annunciata, si appellerebbe all’Assemblea e chiederebbe alla Costituente di assumere le sue responsabilità. Ebbene, signori, noi diciamo che il Governo ci dovrebbe dire sin da ora come la pensano i tre partiti che lo formano, perché qui è inutile starci ad illudere reciprocamente: i tre partiti che dominano l’Assemblea sono rappresentati nel Governo e lo costituiscono essenzialmente. Dunque essi possono avere ed hanno una volontà in ordine a questo punto; anziché trincerarsi dietro un rinvio puramente simbolico, incomincino da ora a farci sapere quale è il loro punto di vista a questo riguardo.
Politica interna. Il Presidente del Consiglio ne ha taciuto, ed il silenzio deve ritenersi significativo. Sembra a me, onorevoli colleghi, che viceversa il problema dell’ordine pubblico e gli altri problemi della politica interna che sono all’ordine del giorno (contrabbando di armi, contrabbando di grano in Jugoslavia, elezioni amministrative) meritassero una parola da parte del Presidente del Consiglio.
Per quanto riguarda il problema dell’ordine pubblico noi diciamo che è un problema principalmente, anzi essenzialmente di prevenzione. È rimasto dimostrato che violenze non ne accadono dove vi è presidio di forza al servizio dello Stato, perché, come è stato più volte affermato dai rappresentanti delle estreme sinistre e dalla stampa di estrema sinistra, in generale le violenze sono opera di facinorosi che si infiltrano in mezzo ai disoccupati, in mezzo ai cittadini che si agitano per delle ragionevoli considerazioni. Ebbene, questi facinorosi si sbizzarriscono quando operano in zone dove il presidio della forza pubblica non sussiste, o è puramente simbolico; quando questo presidio vi è, questi facinorosi si astengono dalle violenze. E oggi, dunque, se siamo tutti d’accordo che la violenza va bandita, che i dibattiti, che i contrasti devono aver luogo democraticamente – e democraticamente significa perfino attraverso l’arma dello sciopero – noi dobbiamo essere tutti ugualmente d’accordo nel predisporre i mezzi perché le violenze non si ripetano, e questi mezzi sono, come dicevo, essenzialmente preventivi e rispondono alla necessità di mantenere, nei punti particolarmente pericolosi, quei presidi che costituiscono la remora di cui parlavo poco prima.
Bisogna stroncare il contrabbando delle armi cominciando con l’operare in quel settore seriamente e non facendo seguire, immediatamente dopo l’emanazione di norme che dovrebbero punire severamente i detentori di armi, le provvide amnistie che rimettono in libertà i rei. A questo riguardo io debbo spezzare una lancia nello stesso senso spezzata dall’amico Persico, debbo cioè reclamare che l’Italia democratica limiti le sue amnistie al settore politico bandendole dal campo dei delitti comuni, perché nel campo dei delitti comuni l’amnistia è incitamento a commettere nuovi reati.
E bisogna sul serio aprire gli occhi ed impedire l’esodo del grano verso la Jugoslavia. Gli episodi di questo genere si sono purtroppo ripetuti ed hanno assunto talvolta delle proporzioni pericolose. Il Governo deve mobilitare tutti i suoi mezzi perché questo ignobile mercimonio ai danni di tutte le categorie sociali cessi una volta per sempre.
Affrettare le elezioni amministrative, sorreggere le amministrazioni nei Comuni dove le elezioni sono intervenute; quando per deprecabili motivi le amministrazioni sono sciolte, nominare commissari o dei funzionari o degli esponenti dei Partiti che abbiano dimostrato in quel Comune di avere la prevalenza.
Politica finanziaria.
Ottimistica ed incoraggiante indiscutibilmente è stata l’esposizione di ieri del Ministro Corbino, il quale ha voluto dire una parola rassicurante al Paese ed esprimere, con l’ansia del suo animo, un augurio che tutti quanti raccogliamo e facciamo nostro. Ma non pare che l’esposizione del Ministro Corbino contenga un programma che collimi con quello enunciato dal Presidente del Consiglio. Ad ogni modo quello che è certo è che l’enunciazione del programma finanziario da parte del Presidente del Consiglio si fonda su criteri vaghi e contradittori i quali non possono tranquillizzare il contribuente, e quindi non facilitano quella ripresa della produzione che noi dobbiamo auspicare.
Si dice che dobbiamo incrementare l’iniziativa privata; si dice che dobbiamo aumentare la produzione e l’esportazione; si dice che dobbiamo accelerare l’intervento del credito estero, ma tutto questo, che indubbiamente costituisce il presupposto fondamentale della ricostruzione, va d’accordo solamente con una parte del programma governativo, perché si intona indubbiamente con l’adeguamento delle imposte al periodo prebellico, con l’istituzione di una imposta progressiva sul reddito, con l’emissione di un prestito, ma non con lo spargimento del terrore finanziario che seguirebbe ad un eccessivo fiscalismo ed alla attuazione dell’imposta patrimoniale oggi. Insisto sulla parola oggi perché, a mio sommesso avviso, l’imposta patrimoniale progressiva indubbiamente deve intervenire, ma non fuori tempo, ed oggi essa sarebbe nociva anziché vantaggiosa. Realizzerebbe la leggenda di quel tale che, proprietario di una gallina dalle uova d’oro, aprì il ventre alla gallina per vedere come faceva le uova d’oro, e conseguentemente la gallina morì e le uova d’oro cessarono. Così morirebbe il popolo italiano. (Commenti). Morirebbero cioè le risorse economiche che debbono servire a potenziare l’iniziativa privata e la produzione per giungere allo sviluppo di quelle imprese che possono soltanto realizzare la resurrezione economica e commerciale del nostro Paese.
Noi siamo pienamente d’accordo per quanto riguarda l’adeguazione delle imposte al periodo prebellico, perché questa adeguazione, in effetti, non si è ancora avverata ed effettuandosi darà allo Stato introiti notevolissimi. Siamo ugualmente d’accordo per la istituzione di un’imposta progressiva sul reddito, perché l’imposta progressiva sul reddito colpirebbe il superfluo, quella parte del reddito che può e deve essere devoluta a beneficio della comunità. Siamo d’accordo per l’emissione di un prestito interno e raccogliamo l’augurio e la raccomandazione, venuta dall’onorevole Ivan Lombardo, che esso possa trovare rispondenza immediata in tutti i settori e larghissima eco nel popolo italiano.
Ma quando si viene a dire che in 8 mesi bisogna attuare una vera e propria palingenesi in tutti i campi, si viene a determinare una condizione che paralizza la possibilità delle realizzazioni finali che il Governo si propone.
Bisogna colpire i nuovi ricchi, come diceva bene l’onorevole Condorelli, i quali, viceversa, riescono comodamente a sfuggire. Bisogna eliminare parzialmente il prezzo politico del pane. Se vi sono categorie le quali si possono permettere di pagare a prezzo di contrabbando il pane nella parte che acquistano oltre la razione, queste stesse categorie possono pagare anche la razione a prezzo elevato. Non è giusto che un vantaggio che spetta indubbiamente alle categorie bisognose, sia esteso anche alle categorie che non hanno egualmente bisogno. Bisogna rinviare l’imposta sul patrimonio ad un secondo momento, quando, potendola abbinare con quei provvedimenti che assicurino anche l’incisione sui redditi liquidi, cioè sulla moneta fluttuante, sui depositi, sui titoli di Stato, sui titoli nominativi o industriali, l’imposta patrimoniale avrà quel carattere di generalità, di universalità e di giustizia che, se le venissero a mancare – ed in questo momento le verrebbero indubbiamente a mancare – le toglierebbero la sua vera finalità, la sua autentica fisionomia.
Quanto al programma economico-sociale concordiamo pienamente, e non potrebbe essere diversamente, nel propugnare (e ne discorreremo subito, rapidissimamente) la eliminazione della disoccupazione, la necessità di assicurare agli impiegati, salariati e ceti medi miglioramenti economici, con la i necessità di risarcire a preferenza i danni di guerra ai bisognosi, la necessità di rivedere il sistema di assicurazione degli impiegati e degli operai, snellendo gli istituti e la procedura, la necessità di venire incontro ai pensionati.
Per quanto attiene a queste due ultime cose – rivedere il sistema di assicurazione e venire incontro ai pensionati – non vi può essere dubbio che si tratti di cose rapide e facili che vanno attuate senza indugio e che quindi bisogna attuare con la massima possibile rapidità. Ma per quanto riguarda il resto la divergenza nostra non sta sulla sostanza, ma sul metodo. Si tratta di un punto di vista differente in ordine al modo come dobbiamo raggiungere quelle finalità. Non si tratta di divergenze relative alle finalità stesse, perché non vi può essere in Italia oggi alcuno il quale non riconosca, come diceva l’onorevole Lombardo, che il problema della disoccupazione è il primo problema di politica interna del nostro Paese. Non vi può essere alcuno il quale non riconosca che i salariati, gli impiegati ed i ceti medi in genere, devono essere soccorsi in modo che la vita per loro si renda più facile. Ma quando si dice, signori, che si vogliono sviluppare le industrie e poi viceversa si vogliono attuare consigli di gestione, che in Russia sono stati attuati e poi messi da parte, e in Cecoslovacchia hanno paralizzato prima, distrutto poi l’intero apparato industriale, noi diciamo che in questa maniera non si arriva a porre le condizioni per le quali si potrà, stabilmente, definitivamente abbassare il livello medio della vita ed eliminare la piaga della disoccupazione. Si vogliono, signori, sviluppare le trasformazioni agricole ed è necessario farlo, perché in un Paese che ha 31 milioni di ettari di terra e 46 milioni di abitanti, indubbiamente, soltanto portando tutto il piano produttivo agricolo su una piattaforma più elevata, attuando la superproduzione, si può effettuare una diffusione di agiatezza, che prescinde dallo spezzettamento, il quale non diffonderebbe agiatezza, ma povertà.
Ma questo sviluppo delle trasformazioni agricole non si può favorire in soli otto mesi, perché non dobbiamo dimenticare che il Governo ha dinanzi a sé un periodo di vita di otto mesi, procrastinabili al massimo di pochi altri.
Si promette la palingenesi integrale della industria e dell’agricoltura, attraverso la nazionalizzazione da una parte e l’espropriazione dall’altra, espropriazione di terre, espropriazione di godimenti. Siamo ben convinti che le espropriazioni saranno necessarie; siamo ben convinti che bisognerà arrivare anche a forme di godimento collettivo, che possano, nel nuovo clima creatosi in questo secolo, fare partecipi del godimento della terra sempre più vasti strati della società rurale. Ma riteniamo che allo stato delle cose, oggi, dire che bisogna incrementare la produzione, che bisogna portare tutto l’ingranaggio industriale ed agricolo italiano su una piattaforma più alta e minacciare al tempo stesso a breve scadenza queste cose, significa scuotere la fiducia di coloro i quali dovrebbero principalmente agire; significa mobilitare lo Stato perché faccia esso in otto mesi o in un anno quello che i privati cittadini non potrebbero fare. Non ci facciamo illusioni. Uno Stato che ha sulle spalle 350 miliardi di deficit, come diceva ieri il Ministro Corbino, che ha sulle spalle un’immensa quantità di oneri eccezionali, da fronteggiare con sistemi eccezionali, e che deve a sua volta fronteggiare le riparazioni, non si può assumere rapidamente una somma così vasta di nuovi oneri, quali sarebbero quelli che graverebbero sulle sue spalle, se, paralizzata l’iniziativa privata, dovesse operare esso soltanto.
Il problema italiano è problema di pace, è problema di tranquillità, di collaborazione; è problema di intesa tra le categorie e la produzione. E questa collaborazione e questa intesa si possono attuare e si devono attuare sol che si eviti la continua distillazione dell’odio e si adotti e si pratichi sul serio non il sistema dell’interventismo burocratico, che tante volte è controproducente, ma, invece, il sistema di favorire le intese.
Noi abbiamo visto, onorevole Di Vittorio, che, quando le categorie agricole, si sono tesa la mano, hanno finito per incontrarsi. E se gli accordi tra esse categorie conclusi – alludo per esempio al tema della disoccupazione agricola – non sempre sono stati messi in esecuzione, questo non è dipeso da cattiva volontà degli uni o degli altri, ma dalla inefficienza dell’azione dello Stato. Abbiamo concluso accordi in tema di disoccupazione diretti a fare in maniera che gli agricoltori subissero la mano d’opera nella quantità massima di cui erano capaci le loro aziende. Gli agricoltori, i contadini, si sono impegnati ad accettare questo criterio e a non gravare le singole aziende oltre quella capacità massima. Questo accordo presupponeva che lo Stato fosse stato il terzo elemento di esso, e fosse intervenuto con i suoi organi a prendere su di sé la mano d’opera eccedente.
Ma lo Stato non ha fatto ciò ed allora la mano d’opera si è riversata sulle aziende agricole ed industriali provocandone la paralisi e in definitiva il danno degli stessi disoccupati.
Il problema della disoccupazione va risolto rapidamente e compiutamente; ma per risolverlo non dobbiamo ricorrere ad espedienti, bensì a programmi organici e veramente illuminati dall’idea di porre come base ferma i presupposti necessari alla sua risoluzione.
Finora si sono attuati, per quanto riguarda l’industria, dei rimedi peggiori del male. Leggevo che a Torre Annunziata uno stabilimento capace di 800 operai doveva subirne duemila. Ciò significa il fallimento dell’industria e il danno degli stessi operai che per ora hanno la mercede, ma che non l’avranno più quando lo stabilimento non sarà più in condizioni di reggersi.
Gli stessi gravi inconvenienti si verificano nell’agricoltura, anzi per gli agricoltori la condizione è peggiore perché l’eccedenza della mano d’opera che batte alle loro porte chiedendo lavoro è anche fomite di contrasti e di confusione tra le diverse categorie agricole, che si dispongono l’una contro l’altra, sicché nascono agitazioni e ne deriva la paralisi dell’agricoltura e della produzione.
Bisogna porre rimedio, e il rimedio non può essere che uno solo: innanzi tutto restituire alle industrie ed all’agricoltura la tranquillità di poter assorbire tanta mano d’opera quanta ne possono assorbire.
E a questo punto, onorevoli Deputati dell’estrema sinistra, nessun allarme: perché io non vengo a dire che gli altri lavoratori bisogna cacciarli via, o che gli agricoltori possano fare i loro comodi senza preoccuparsi degli interessi generali. No, io sono con voi nell’invocare un programma di produzione. Ma si deve restituire all’industria e alla agricoltura la libertà nel senso che, per quanto riguarda l’agricoltore, esso sappia che se s’impegna in una trasformazione potrà assumere tanta mano d’opera quanta gliene occorra e non gli accada quello che è accaduto a molti, che cioè chi ha bisogno di cento operai se ne veda presentare mille e li debba assumere.
DI VITTORIO. Ma non fanno le trasformazioni.
PERRONE CAPANO. Vengo precisamente a questo punto. Io dico: cominciamo col porre questo punto fermo, cioè restituiamo all’industria e all’agricoltura la libertà di assunzione della mano d’opera e poi sottoponiamole ai necessari controlli. Allora gli agricoltori non si potranno rifiutare di fare le trasformazioni: ci sarà la vigilanza dello Stato e delle organizzazioni. Ma gli agricoltori si sentiranno mobilitati in un’opera d’interesse nazionale. Le coltivazioni dovranno esser fatte a tempo debito, e le trasformazioni potranno essere rese obbligatorie. Ma quando si potranno fare?
Quando l’agricoltore saprà che il domani, per chi sarà in regola con la sua funzione sociale, sarà un domani di pace e di tranquillità, per modo che i frutti del suo lavoro e del suo sacrificio, l’opera sua svolta in collaborazione e in armonia coi figli del popolo, suoi collaboratori, sarà un’opera benedetta e riconosciuta dalla società. In quel giorno le trasformazioni si faranno e si moltiplicheranno spontaneamente, perché non è una frase fatta, o amici, è una verità che in questo momento in Italia ferve dovunque un’ansia viva di resurrezione, una volontà fervente di ripresa. Il nostro popolo è un grande popolo e la sua storia – che certamente non starò qui a ricordarvi – dimostra che in pochi decenni ha fatto miracoli, ha trasformato il Tavoliere, ha trasformato le terre abbandonate e i pascoli in ridenti oliveti e giardini. Ora questo popolo ha ancora viva l’ansia di ripigliare questo fervore di opere, ma ha bisogno di sapere che tutto ciò avvenga in una atmosfera di collaborazione, di armonia, e di fiducia,
I lavori pubblici debbono costituire l’integrazione dell’iniziativa privata. Debbono essere attuati non come sono stati attuati fino ad ora, sporadicamente, frammentariamente, saltuariamente, in una maniera vorrei dire irresponsabile e caotica, ma in virtù di un piano organico il quale ne preveda il compimento razionale in tutte le zone ove siano necessarie opere di miglioramento e di ricostruzione e preveda le necessarie migrazioni all’interno ed all’estero. Oggi, signori, avviene che alcuni lavori pubblici sono disposti in una maniera che, invece di eliminare la disoccupazione, la inflazionano. Onorevole Di Vittorio, voi ne sapete qualche cosa, perché anche voi negli incontri che a questo riguardo avete avuto in Prefettura e nelle assemblee con me avete ammesso che l’inflazione della disoccupazione è un fatto vero. E perché si effettua?
Io non starò qui a gridare il crucifige addosso ai lavoratori, ma dico che quando avviene, come è avvenuto, per esempio, a Gravina che un bel giorno piovono 24 milioni per riattare una strada e dopo 15 giorni i 24 milioni sono scomparsi e della strada non è stato riattato che un miserabile chilometro, indiscutibilmente allora dei milioni si è fatto sperpero e quando si fa sperpero del danaro accade che anche chi non è disoccupato si va ad iscrivere fra i disoccupati e anche chi ha da guadagnare un pezzo di pane preferisce andarselo a guadagnare in una maniera più semplice e meno fastidiosa. E così si sono potuti verificare episodi come quelli constatati in diversi comuni delle Puglie di bandi pubblici, che sono stati fatti per le strade, chiamando a raccolta i cittadini che si volevano iscrivere nei ruoli della disoccupazione.
Noi tutto questo lo dobbiamo eliminare nell’interesse della società, del nostro paese, soprattutto delle categorie dei lavoratori. Noi dobbiamo fornire alla intera Nazione la tranquillità di una vita di lavoro che si svolga in armonia e in pace fra le diverse categorie sociali. Se i nostri agricoltori avranno questa tranquillità, essi dimostreranno di essere valorosi e ferventi come i migliori soldati di Italia; se i nostri contadini sentiranno e constateranno che questo fervore di opere è veramente il frutto di un’ansia patriottica di risurrezione, saranno prontamente e spontaneamente a fianco degli agricoltori, come gli operai a fianco degli industriali. Diamo agli uni e agli altri la tranquillità di un domani sicuro, e noi avvieremo tutti i nostri problemi alla risoluzione; anche il famigerato problema meridionale che è soprattutto un problema di riequilibrio economico e di collaborazione tra lo Stato e il Mezzogiorno.
Il Mezzogiorno non è più quello di ieri e non è quello che tante volte piace a taluni di raffigurare. Molto è stato fatto, molto deve esser fatto e sarà fatto; ma non lo sarà, se alla base della vita italiana continuerà ad essere posta la distillazione continua dell’odio e sull’orizzonte non un programma concreto, fattivo, agile, quale si può attuare nelle condizioni del momento in cui l’iniziativa privata, tanto conclamata da tutte le parti, veramente può essere il centro propulsore e fecondatore, ma al contrario il miraggio di una rivoluzione dell’economia agricola e industriale. Arriveremo allora al peggio, cioè al disordine e alla confusione, mentre abbiamo bisogno di lavoro e di armonia. (Applausi).
Presidenza del Presidente SARAGAT
PRESIDENTE, Ha facoltà di parlare l’onorevole Vanoni.
VANONI. Onorevoli colleghi, il programma economico e finanziario del Governo è stato criticato da due opposti punti di vista: alcuni ritengono che questo programma sia eccessivo per la durata del Governo stesso, prevista in otto o dieci mesi; altri invece, come il collega Bruni, hanno lamentato che in questo programma non fossero incluse decisive prese di posizione su questioni di struttura economica e sociale.
Ora, io ritengo che entrambe queste critiche non hanno un fondamento accettabile: non quella che ritiene troppo scarsi i programmi del Governo, perché è troppo evidente che le questioni di modificazione di struttura non sono ormai di competenza del Governo ma di questa Assemblea: non quella che lamenta un eccessivo impegno del programma, perché è evidente che di fronte alle esigenze della nostra economia e di fronte alla gravità della nostra situazione, non si poteva accettare che un Governo impostasse soltanto soluzioni valide per pochi giorni o per pochi mesi, ma si doveva richiedere la impostazione di un vero e proprio piano di ricostruzione economica, se questa ricostruzione si vuole effettivamente realizzare.
I problemi dell’economia moderna sono così complessi e si legano così strettamente l’uno all’altro che non è più concepibile intendere l’opera del Governo come un’opera del giorno per giorno.
Bisogna avere delle idee chiare e lungimiranti; bisogna pensare all’avvenire, bisogna impostare i problemi per periodi di anni se effettivamente si vuole arrivare a risolverli ed a fare qualche cosa di costruttivo, qualche cosa di rispondente alle necessità che tutti sentono.
Il programma del Governo è, a mio modo di vedere, nel complesso soddisfacente e bene articolato, anche se nella sua esposizione è potuto ad alcuno sembrare che faccia centro più sull’aspetto monetario che sul problema economico, e lasci nell’ombra l’aspetto sostanziale della ricostruzione produttiva del Paese.
Il pregio del programma sta nel fatto di avere esattamente indicato quelli che sono i punti centrali della manovra economica, di avere rilevato che oggi in Italia lo Stato ha la possibilità di entrare a fondo nella vita economica attraverso molteplici strumenti che fanno capo ad esso e nell’aver segnato come proprio scopo di azione quello di coordinare tutti i mezzi di cui lo Stato stesso dispone.
Voi tutti sapete che, per esempio, lo Stato ha la possibilità di dirigere direttamente o indirettamente tutto il credito. Dalla relazione della Banca d’Italia abbiamo appreso che circa il 68 per cento dei depositi bancari è affidato agli Istituti, la cui gestione direttamente o indirettamente è sotto il controllo dello Stato; che un altro 11 per cento è amministrato dalle Banche popolari e soltanto il 20 per cento è presso le banche private; ma la nostra esperienza ci dice che anche fra queste bandelle, alcune portano delle partecipazioni statali importanti nel loro pacchetto azionario. Il credito a lungo terminò si può dire interamente controllato dallo Stato. Infatti vi sono tutta una serie di Istituti, dall’I.M.I. al Consorzio sovvenzioni valori, all’Istituto per le opere di pubblica utilità, ai diversi Istituti di credito fondiario ed industriale, nei quali l’azione dello Stato può essere immediatamente fatta valere. Lo Stato agisce direttamente e indirettamente nel mercato delle assicurazioni attraverso l’istituto nazionale e le norme di controllo sulle assicurazioni.
Mediante l’I.R.I. lo Stato entra nel vivo della vita industriale.
L’I.R.I. è un perfetto punto di osservazione dei problemi della produzione; è un punto di osservazione davanti al quale passano tutti i più alti problemi dell’industria italiana, come i problemi dell’industria siderurgica – che condiziona l’industria meccanica e metallurgica – quelli dei trasporti marittimi, dell’elettricità e della relativa distribuzione e così via.
Attraverso il controllo delle importazioni e la distribuzione delle materie prime, lo Stato opera su ogni settore dell’attività produttiva. L’intervento, che qui non occorre indagare se voluto od imposto dalle circostanze, non può che essere coordinato secondo un piano: e l’impostazione dei piani di attività produttiva sta diventando sempre più efficace con l’entrata in azione della Commissione centrale dell’industria, che si sta articolando in quattro sottocommissioni, una avente sede a Roma, l’altra a Milano, un’altra a Napoli, ed una, infine, a Palermo, a testimonianza queste ultime del vivo, decisivo interesse che il Governo intende di prendere alla ricostruzione industriale della Sicilia ed alle provincie meridionali.
Con la politica delle spese pubbliche e col controllo delle spese private, realizzato attraverso l’intervento, non sempre voluto ma spesso reso necessario dalla situazione, nella politica salariale, lo Stato riesce ad entrare ancora una volta fino in fondo nei gangli vitali della vita economica. Infine, la politica tributaria e quella monetaria condizionano tutta l’attività economica del Paese.
Ora, per la prima volta, forse, in Italia noi sentiamo in un programma di Governo affermare che tutti gli strumenti della politica economica e finanziaria devono essere tra di i loro collegati e debbono operare in armonia; per la prima volta sentiamo affermare che ognuno degli Istituti che sono venuto ricordando e dei molti altri dello stesso ordine, che ometto per ragione di brevità, non è il piccolo regno di un tecnico che opera secondo il proprio sentimento o il proprio intelletto, ma è un ganglio vitale della vita economica del Paese che deve agire secondo un piano concertato tra tutti gli organi responsabili, avendo per mèta uno scopo solo: favorire ed accelerare la ripresa dell’economia del Paese.
Il Paese, noi tutti lo sappiamo, esce da un cataclisma, cataclisma politico, ma anche e soprattutto un cataclisma economico. Il patrimonio ed il reddito nazionali sono decurtati di circa del 40 per cento rispetto alla situazione del 1939. Il Paese e la sua economia non possono ulteriormente sopportare i costi delle frizioni, degli attriti, delle fasi di inerzia provocati dall’indipendenza dell’azione dei diversi organi e dei diversi mezzi di politica economica.
Il programma del Governo intende, dunque, di coordinare l’azione pubblica non per soffocare l’attività individuale, ma per condizionarla ed indirizzarla verso quegli scopi di bene comune, che stanno a cuore a noi, soprattutto, che facciamo di questo bene comune lo scopo della nostra azione politica.
Io mi permetterò, onorevoli colleghi, di toccare alcuni punti soltanto di questo programma, per sottolineare consensi e dissensi di carattere tecnico sugli elementi essenziali di esso.
La politica finanziaria proposta dal Governo, secondo me, ha il grande merito di far centro sulla riorganizzazione della finanza ordinaria, dei tributi ordinari. I provvedimenti di finanza straordinaria sono considerati necessari, ma posti quasi – temporaneamente – in secondo piano, perché è sembrato indispensabile che prima di tutto si cercasse di ottenere tutto quello che era possibile di ottenere attraverso le normali fonti di entrata.
L’onorevole Corbino, nella sua esposizione di ieri, ha previsto il pareggio della parte ordinaria del bilancio per l’esercizio 1947-48 o tutto al più per l’esercizio 1948-49. Egli ha detto di essere molto ottimista; io sono, per temperamento e per abitudine di studi, piuttosto freddo e pessimista e trovo che un’indicazione come quella che ci ha dato ieri l’onorevole Corbino dice molto o forse non dice niente, perché la ripartizione del bilancio in ordinario e straordinario è una ripartizione assolutamente esteriore, che non ci può dare un criterio di giudizio definitivo su quello che è il risultato della politica finanziaria di un Governo. Quello che interessa di sottolineare e che mi pare estremamente importante tener presente è che, nell’attuale nostra situazione finanziaria, in mezzo a molti elementi di preoccupazione, vi sono pur anche degli elementi di tranquillità e di speranza. Soprattutto vi sono questi elementi: che il volume di alcune spese tenderà inevitabilmente a deprimersi. Pensate, per esempio, alle spese militari: Io non vi voglio tediare ricordandovi analiticamente l’ammontare delle spese militari nei bilanci prebellici dell’Italia, ma vi posso dire che nell’ultimo decennio antecedente alla guerra queste spese ammontavano a circa il 40 per cento delle entrate. È evidente che tali spese, come sottolineava del resto l’onorevole Corbino, andranno gradatamente comprimendosi fino a portarsi ad un livello di gran lunga inferiore a quello prebellico, lasciando così un margine per altre spese ben più utili al benessere del popolo.
Il carico per il debito pubblico, per effetto della stessa svalutazione monetaria, è, in senso relativo, diminuito. Noi avevamo, nel 1939, circa 175 miliardi di debito pubblico e di oneri patrimoniali che pesavano nel bilancio dello Stato circa 7 miliardi per i relativi servizi, il che significava da un quinto ad un quarto del bilancio stesso, mentre oggi noi abbiamo 938 miliardi ed il relativo servizio si aggira intorno ai 50 miliardi, cioè un decimo del bilancio previsto per l’anno in corso.
È evidente che l’esposizione dell’onorevole Corbino è stata l’esposizione del cassiere dello Stato, l’esposizione cioè di colui il quale ha la preoccupazione di reggere e governare la cassa dello Stato, preoccupazione nobilissima che in questi tempi ha il diritto di andare avanti a tutte le altre preoccupazioni, ma preoccupazione evidentemente che non può esaurire tutto il programma economico e finanziario del Governo. Su alcuni punti tecnici si può del resto dissentire dal suo modo di vedere. Per esempio, l’onorevole Corbino ci ha detto che egli pensa che il prestito del consolidamento finanziario della ricostruzione, sarà certamente un grande successo nella forma del consolidato che egli intende di proporre al Governo. Io mi permetto, dal punto di vista tecnico, di fare qualche riserva su questo programma e di suggerire al Governo di considerare se non sia preferibile, di fronte alla diversità dei desideri, delle opportunità, delle aspirazioni dei risparmiatori, di offrire contemporaneamente, secondo il consiglio che più volte ci ha dato l’onorevole Einaudi, due diversi tipi di prestito, in modo che il risparmiatore possa scegliere quello che più si adatta alle proprie esigenze ed alle proprie necessità; mentre concordo pienamente con l’onorevole Corbino quando sottolinea che questo prestito difficilmente darà del denaro nuovo, del denaro fresco che possa essere impiegato in opere di ricostruzione.
Sarà un prestito la cui funzione essenziale è quella di dare un primo assestamento alla posizione di tesoreria mediante il consolidamento di una parte di quegli impegni fluttuanti che oggi rendono incerta e difficile la posizione di cassa. Ma intorno al suo gettito, nonostante il doveroso impegno di tutti noi e di tutto il Paese a garantirne la riuscita, vorrei raccomandare una certa prudenza di previsioni. Anche qui si può rinviare all’insegnamento che il Senatore Einaudi ha posto implicitamente quando, nella relazione della Banca d’Italia, offrendoci lo specchio dei prestiti pubblici fatti in Italia dal 1940 in poi, e raffrontandoli con l’ammontare dei depositi e della circolazione, ha reso evidente l’esistenza di una certa regolarità statistica nel rapporto tra il flusso dei prestiti e l’ammontare della circolazione e dei depositi. Il dato che risulta tenendo conto degli elementi noti appare, a parità di altre condizioni, lontano dalle previsioni eccessive che si son lette in questi giorni nei giornali.
Il programma del Governo non si esaurisce nel prestito, ma parla da un lato di rivalutazioni delle imposte ordinarie, e dall’altro di imposizione straordinaria. Non parlerò della imposta straordinaria, di cui mi sono già occupato in altra occasione ed in altra sede. Ma vorrei raccomandare al Governo di insistere prima in particolare sulla riorganizzazione delle imposte ordinarie perché io ritengo che è da questa parte che noi riusciremo più rapidamente ad avere il denaro fresco, di cui le casse dello Stato hanno bisogno.
Io ho qui dinanzi a me i dati del bilancio italiano del 1940-41, quelli del 1941-42 e i dati del gettito delle imposte del mese di aprile di quest’anno, che è l’ultimo mese di cui mi è stato possibile conoscere i dati.
Ora, nel 1940-41 il totale delle entrate del nostro bilancio era di poco più di 33 miliardi, da cui deducendo 867 milioni di entrate patrimoniali, abbiamo entrate tributarie per circa 32 miliardi e 200 milioni.
Nel 1941-42 abbiamo entrate per il totale di 37 miliardi e 796 milioni. Con la deduzione di 991 milioni di entrate patrimoniali, ci restano entrate tributarie per 36 miliardi e 800 milioni circa.
Nel mese di aprile del 1946 abbiamo avuto entrate tributarie per 15 miliardi e 338 milioni.
Ora, se l’aumento della circolazione si può calcolare essere stato 20-25 volte rispettò ai due periodi considerati, anche facendo il debito conto della riduzione del reddito nazionale, della diminuita velocità della circolazione delle merci e degli affari a cui si commisurano molte imposte, non vi è dubbio che il gettito delle imposte ordinarie è di gran lunga inferiore a quello che dovrebbe essere.
Partendo dai 15 miliardi del mese di aprile, immaginando che il gettito fosse uniforme per tutto l’anno, abbiamo 180 miliardi di gettito d’imposta all’anno, laddove io ritengo che si potrebbe, che si dovrebbe arrivare, senza aumentare la pressione tributaria rispetto a quella che era nel 1940, intorno ai 300-350 miliardi.
Dove sono i punti, nei quali, secondo la mia valutazione personale, la manovra della finanza ordinaria potrebbe essere più efficace?
Dal punto di vista della giustizia distributiva, non c’è dubbio che bisogna insistere nella strada degli accertamenti delle imposte dirette ed accelerare questa revisione anche come elemento preparatorio dell’applicazione dell’imposta straordinaria. Ma richiamo l’attenzione dei tecnici su un rilievo che emerge dall’andamento del gettito dell’imposta di ricchezza mobile.
Nel 1940-41 e nel 1941-42 il gettito dell’imposta di ricchezza mobile riscossa per ruoli era tre volte tanto l’imposta di ricchezza mobile riscossa per ritenuta diretta, cioè in buona sostanza l’imposta di ricchezza mobile sui salari e sugli stipendi. Ora osserviamo invece la situazione attuale nella quale, nell’aprile 1946, l’imposta di ricchezza mobile riscossa per ruoli è di 1400 milioni, mentre quella riscossa per ritenute dirette è di 808 milioni, cioè quattro settimi del totale. L’imposta riscossa per ritenuta è di più facile ed immediato accertamento e segue immediatamente la variazione dell’espressione monetaria dell’oggetto imponibile. Dico allora che balza chiaro questo insegnamento: che bisogna insistere soprattutto sulle imposte che risentono immediatamente della variazione del potere di acquisto della moneta, che bisogna insistere soprattutto su quelle imposte le quali seguono direttamente la variazione dei prezzi e la espressione monetaria dei beni e dei servizi. Bisogna che, facendo violenza parziale alle nostre convinzioni politiche, diamo pieno riconoscimento ad una esigenza tecnica.
Nei momenti di svalutazione monetaria le imposte che colpiscono i trasferimenti delle merci e dei servizi, sono le imposte che più di tutte sono idonee a far fronte alle necessità della finanza ordinaria. Per esempio, l’imposta sulla entrata, per discutibile che ne sia il fondamento politico nel suo ordinamento attuale, presso molti dovrebbe essere al centro della manovra della finanza ordinaria. L’imposta sull’entrata, introdotta nel 1940 in sostituzione della tassa scambi, già nel primo anno di introduzione, dava 4 miliardi e 800 milioni e nell’anno immediatamente successivo 5 miliardi e 964 milioni, mentre oggi ha dato, nell’aprile 1946, 4 miliardi e 901 milioni. Questa imposta credo che non abbia esaurito tutta la sua funzione e la sua capacità di espansione. Quindi bisogna avere il coraggio, secondo me, di innovare ad alcuni indirizzi che recentemente si sono affermati. Essa dà a ragion d’anno circa dieci volte il gettito del 1941-42: ancora troppo poco se si tien conto dell’aumento dei prezzi. Prima di tutto bisogna badare molto alle aliquote. L’aliquota dell’attuale imposta sulla entrata è il doppio dell’aliquota introdotta nel 1940 e per alcuni prodotti è diventata due o tre volte l’aliquota fondamentale del 1940.
Richiamo l’attenzione degli esperti soprattutto su quello che si verifica nel campo del commercio tessile, dove la esistenza di una sovrimposizione straordinaria in favore degli enti locali ha fatto sì che la evasione raggiunga, io credo, non meno del 70-80 per cento. Anche le aziende più serie oggi vendono senza fattura o con fattura con prezzi truccati, in modo che la evasione raggiunge limiti che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Una voce. La smetteranno presto.
VANONI. Io penso che in questo campo una coraggiosa revisione delle aliquote, accompagnata dalla ripresa della sorveglianza, da inserirsi eventualmente anche nell’opera di sorveglianza sulle speculazioni commerciali, possa dare dei frutti veramente importanti e preziosi per la nostra finanza. Bisogna, secondo me, anche eliminare o ridurre, in questa fase di prezzi instabili, il sistema degli abbonamenti. Nell’autunno del 1944 si era rinunziato all’abbonamento ai fini dell’imposta di entrata per le vendite al minuto: ciò indubbiamente costituiva un grave aggravio per l’Amministrazione finanziaria che avrebbe dovuto fare molti controlli e verifiche. Ma in tempi di rapida variazione nei prezzi e nel volume degli affari, ritengo che l’abbonamento mal si presti a percepire tutta l’imposta dovuta; mentre il sistema della tassazione sulle fatture al momento del ricevimento poteva, sia pure in via transitoria, dare buoni risultati e nuovi gettiti per la nostra bilancia.
E qui viene anche il grosso problema della sorveglianza che accomuna l’imposta sull’entrata con l’altro grande tributo di questo momento, i monopoli, e soprattutto il monopolio dei tabacchi. Anche questo, per due terzi, è problema di sorveglianza e di controllo, e per l’altro terzo problema di politica più coraggiosa in tema di prezzi nell’acquisto della materia prima. C’è stata e c’è tuttora un’eccessiva evasione all’obbligo di consegna del tabacco al monopolio, evasione spiegata ma non giustificata dalla eccessiva differenza tra il prezzo pagato ufficialmente ed il prezzo che si realizza sul mercato nero.
Bisogna controllare i costi di produzione per dare agli agricoltori il giusto prezzo, bisogna ristabilire la sorveglianza tradizionale, bisogna che il monopolio dei tabacchi ci dia quel reddito proporzionale a quello dell’anteguerra, che tutti abbiamo il diritto di aspettarci, sovrattutto… i fumatori accaniti, quale io sono.
SCOCCIMARRO, Ministro delle finanze. Sono 50 miliardi.
VANONI. È troppo poco: eravamo a 5 miliardi e 421 milioni nel 1941-42, quando le Serraglio costavano 5 lire; oggi le Serraglio costano 150 lire; abbiamo diritto di aspettarci di più.
Ma giustamente, al di sopra di queste osservazioni di carattere tecnico, deve essere sottolineato che la politica finanziaria è intesa nel programma del Governo, soprattutto come risultante e come incidente sulla politica della produzione, e la politica della produzione viene meritatamente posta nel suo giusto piano.
Ora, se consideriamo la situazione dell’economia produttiva italiana, noi abbiamo la sensazione che esiste una situazione di atonia e di sfasatura in molti dei suoi elementi. Vi è una sfasatura nel sistema dei prezzi, perché molti prezzi sono aumentati di gran lunga al di sopra dei limiti che sarebbero stati portati dal solo fattore monetario, mentre altri prezzi, compressi da norme legali o contrattuali, sono rimasti di gran lunga al di sotto. Vi è sfasatura nella distribuzione dei redditi, la quale provoca, a sua volta, un arresto nella circolazione dei beni. Vi è il fatto grave che molti bilanci familiari, soprattutto i bilanci delle classi lavoratrici, non riescono neppure a colmare il fabbisogno alimentare. Vi è il fenomeno preoccupante della disoccupazione.
Ora giustamente, io ritengo, è stato indicato che non esiste un’unica ricetta per tutti questi mali. La guarigione di questi mali non può essere che il risultato di una complessa e continua opera del Governo e degli operatori economici. Occorre soprattutto osservare che noi siamo in questo momento ad una svolta decisiva della nostra politica economica.
Le polemiche, svoltesi in sede di formulazione del programma di Governo, che hanno avuto il loro strascico nelle discussioni così vive ed interessanti presso la Confederazione generale del lavoro, hanno posto a fuoco il punto centrale della manovra economica in questi momenti. Si ritiene da un lato che possa essere conveniente procedere ad un aumento dei salari, perché, attraverso l’aumento dei salari nominali, si pensa di potere provocare la circolazione di una maggiore quantità di beni e dare un’ulteriore spinta all’economia ed alla occupazione. Si oppone dall’altro che l’aumento dei salari provocherebbe un aumento dei prezzi, che le condizioni di vita dei lavoratori occupati resterebbero uguali, mentre peggiorerebbero le condizioni dei lavoratori disoccupati e di tutti quelli che hanno redditi fissi, soprattutto del ceto medio.
Qui non si tratta di fare poesie, ma di constatazioni molto precise ed esatte.
Noi siamo convinti, in base ad indagini fatte ed alla esperienza anche recente, che un aumento nominale dei salari verrebbe assorbito da una ulteriore richiesta di prodotti alimentari, perché il bilancio alimentare della media del popolo italiano non ha ancora trovato un equilibrio sostenibile.
L’aumento della domanda di generi alimentari in un mercato in cui i generi domandati non sono sufficienti non può che tradursi in un aumento dei prezzi, destinato a bruciare il vantaggio del nuovo salario nel momento stesso in cui è concesso.
La esperienza che stiamo facendo in questi giorni di un aumento dei prezzi provocato dall’annunzio del premio della Repubblica, conferma l’esattezza della nostra valutazione.
Ma fare questo rilievo non significa ritenere che la situazione attuale dei lavoratori, occupati o disoccupati, possa essere considerata come cristallizzata e che l’attuale compressione possa ritenersi sostenibile a lungo ed in modo definitivo.
Noi diciamo realisticamente che non è attraverso provvedimenti nominali che si migliora la situazione dei lavoratori, ma è attraverso l’organizzazione ed il potenziamento del sistema produttivo, attraverso l’aumento della produzione dei beni, che può solo creare una massa di mezzi da distribuire fra tutti coloro che ne hanno bisogno e che meritano questi beni per il loro sacrificio e per il loro lavoro. (Applausi).
Giustamente allora si considera come essenziale al programma economico del Governo l’avvio a soluzione del problema della ricostruzione della attività produttiva italiana, cioè il problema della cosiddetta riconversione, della conversione dell’industria che è stata fuorviata non soltanto dalle necessità belliche, ma anche dalla lunga politica autarchica, in una industria moderna, che risponda alle necessità ed alle opportunità del mercato internazionale e nazionale, così come oggi si presentano.
Il problema della riconversione non è e non può essere un problema dell’industriale privato, almeno nelle grandi linee. Questo problema della riconversione, già di per se stesso tanto difficile, è complicato nei suoi termini economici da una necessità politica alla quale finora nessun Governo è riuscito a sottrarsi per un doveroso senso di solidarietà: la necessità del blocco dei licenziamenti. Ci troviamo quindi di fronte a questa situazione: che le industrie devono modificare il loro orientamento tecnico per adattarsi alle nuove opportunità di mercato. Ma l’industria manca della possibilità di valutare interamente la propria situazione, perché la visione esatta è oscurata dalla presenza di un vincolo di natura politica, dovuto a preoccupazioni legittime, ma che complicano il puro calcolo tecnico ed economico intorno alla convenienza di una determinata organizzazione.
Ho notato che questa situazione non dispiace interamente alla classe industriale, perché l’abilita a portare i propri bilanci dinanzi al Governo e a dire: io ho il bilancio in perdita perché voi mi obbligate a tenere della mano d’opera inefficiente; aiutatemi quindi a provvedere al pagamento dei salari e concorrete a sanare il deficit del mio bilancio.
Ho avuto occasione di esaminare in questi giorni la situazione di due aziende che richiedono l’intervento dello Stato e che l’ottengono, anche perché appartengono a un complesso controllato dallo Stato; e questa situazione è particolarmente interessante.
Uno stabilimento di produzione di materiale ferroviario ha 84 milioni di deficit al mese per ragioni tecniche ed economiche e 60 milioni di deficit al mese per mano d’opera inefficiente. Se questo stabilimento, invece di essere un’azienda dipendente dallo Stato nella quale è stato possibile fare questa analisi, fosse una impresa privata, io sono sicuro che porterebbe al Ministro del tesoro il suo bilancio con 144 milioni al mese di deficit e chiederebbe l’integrazione da parte dello Stato per questo ammontare.
Un altro stabilimento di produzione di materiale elettrotecnico ha 90 milioni al mese di deficit per ragioni tecniche e 44 milioni al mese di deficit per mano d’opera esuberante. Anche questa azienda, secondo sistemi che mi si dicono oramai invalsi, potrebbe chiedere al Tesoro i 134 milioni della totale perdita. In questo modo e seguendo questa strada è lecito pensare che l’industriale si adagi, rinunci a mettersi in grado di rimediare con le proprie forze alle deficienze tecniche della propria organizzazione.
Chiedo al Governo di considerare se in questo ordine di casi non sarebbe più conveniente per lo Stato e per l’economia che lo Stato si assuma direttamente il carico della mano d’opera, che transitoriamente non può essere occupata, e metta gli industriali di fronte alla responsabilità di organizzare la loro industria secondo le nuove necessità, con le loro forze. Se nonostante ciò chiedessero l’intervento dello Stato, allora lo Stato avrebbe il diritto di chiedere garanzie, sotto forma di cessioni di partecipazioni o di organizzazione di controlli, perché lo Stato potrebbe dire all’industriale: «Tu non sei capace di gestire la tua impresa da solo; il mio aiuto non può essere dato alla cieca ed a fondo perduto». Soprattutto ritengo che sarebbe un buon affare per il Tesoro perché, doverosa opera di solidarietà verso gli operai che restano disoccupati, andrebbe direttamente in favore di questi lavoratori e non porterebbe a caricare sulla comunità le perdite dell’imprenditore privato.
Per far fronte alla necessità di rianimare la nostra economia, il programma prevede un largo piano di lavori pubblici. Credo che quando si parla di lavori pubblici in un momento così drammatico della nostra economia, non se ne può parlare nel senso tradizionale dei lavori pubblici a sfondo elettoralistico, così come mi è sembrato affiorasse in qualche affermazione di alcuno degli oratori che mi hanno preceduto. Qui occorre un piano organico da parte dello Stato, un piano di cui i termini essenziali sono questi: l’economia ha a disposizione una quantità limitata di beni che possono essere trasformati in beni capitali; questi beni debbono essere investiti in modo da diventare il più possibile riproduttivi di nuove utilità, produttivi di richiesta di lavoro secondario, come dicono gli economisti. È chiaro che i lavori pubblici non si debbono esaurire in inutili spalature di terre o in demolizioni di bastioni che stavano da secoli, per esempio, nella mia Milano, e non c’era proprio bisogno di demolirli in questi giorni, quando tante altre opere necessarie e produttive sorgono davanti a noi.
Quando parliamo di un piano di lavori pubblici intendiamo riferirci anzitutto ad un piano di ricostruzioni ferroviarie, di ricostruzione della rete stradale, di ricostruzione dei porti, di ricostruzione della marina mercantile, di costruzione o di ricostruzione degli impianti elettrici, di costruzione di case nei centri dove esse scarseggiano; noi intendiamo cioè che ogni unità di bene economico, che viene sottratta all’economia per essere investita in questi lavori, o produca un incremento di benessere per la collettività, o produca un incremento nella produzione di domani; e quindi determini un permanente riassorbimento di mano d’opera. Solo intesa così l’opera del Governo può essere ritenuta come indirizzata a stabilire un nuovo e più felice equilibrio di tutto il Paese.
Questo piano, che presenta già di per sé delle enormi difficoltà di realizzazione, perché mai come in questo momento si sente il difetto fondamentale dell’economia italiana che è rappresentato da un eccessivo squilibrio tra beni capitali e lavoro disponibile, questo piano può essere ulteriormente reso difficile nella sua attuazione dalla situazione internazionale.
Voglio parlare in particolare della situazione internazionale che ci tocca in modo prossimo, soprattutto attraverso le richieste delle riparazioni economiche che sono state avanzate e che sembra stiano per essere comminate all’Italia nel trattato di pace.
Occorre spendere qualche parola sui due aspetti delle riparazioni e sugli inconvenienti che esse possono provocare nella nostra economia, nella nostra situazione. Ci chiedono anzitutto il pagamento diretto di riparazioni sotto forma di trasferimento all’estero di prodotti della nostra industria. Ci chiedono queste riparazioni, dopo che l’esperienza storica e la critica scientifica hanno dimostrato che riparazioni non nel senso di asportazione di ricchezze eccedenti e disponibili nel paese vinto, ma nel proprio e vero senso di trasferimento protratto nel tempo di beni economici da una economia nazionale all’altra, non possono essere che fonte di disordine economico per entrambe le nazioni. Sembra che l’esperienza fatta con le riparazioni tedesche nell’altro dopo-guerra non abbia insegnato nulla e non serva a nulla.
Ma deve essere detto che nella situazione in cui si trova l’Italia, di essere un paese che non possiede materie prime, che può quindi esportare soltanto il proprio lavoro, il pagamento delle riparazioni sotto forma di prodotti industriali non si può che risolvere in una riduzione del tenore di vita del popolo che lavora. Perché, che cosa significa pagare le riparazioni, quando non abbiamo materie prime da esportare per il pagamento? Significa ritirare dall’estero le materie prime, aumentarne il valore col nostro lavoro, ed esportarle. Significa caricare il costo della sussistenza dei lavoratori impiegati in questa produzione sui lavoratori impiegati in tutte le altre attività; significa dunque incidere permanentemente sul tenore di vita del popolo italiano, su quel tenore di vita che già in tempi normali era notoriamente inferiore a quello delle altre nazioni civili.
Mi chiedo se da un lato le nazioni che hanno più interesse all’ordinato svolgimento della vita economica internazionale, e dall’altro le nazioni che hanno fatto della elevazione della classe lavoratrice la propria bandiera, vorranno veramente insistere fino in fondo, per un puntiglio prevalentemente politico, su una misura la cui ripercussione è così grave per la nostra debole economia, mentre i vantaggi per l’economia altrui sono quanto meno incerti e comunque di scarsissima rilevanza. (Applausi al centro).
Il secondo tipo di riparazioni che ci chiedono è la espropriazione dei beni degli italiani siti nei Paesi che si trovano verso oriente.
Sembra una richiesta di scarsa importanza; ma in realtà questa misura significa l’annullamento dell’azione svolta attraverso diverse generazioni per attivare dei rapporti economici tra il nostro Paese e la penisola balcanica; significa privarci di quei modesti mezzi sui quali faceva perno la nostra azione economica in quei paesi, che non era un’azione di sfruttamento, che non era un’azione a fondamento imperialistico, ma era un’azione che continuava la tradizione della Repubblica Veneta, che si moveva secondo correnti economiche naturali affermate nei secoli.
Oggi la possibilità di riallacciare i tradizionali rapporti viene troncata ad un tratto. Domando se giova al mondo, se giova ai paesi balcanici, se giova alla Russia, che ha assunto in quei paesi i maggiori interessi, di escludere l’economia italiana dal riprendere la sua azione moderatrice e mediatrice, sia pure modesta, nell’economia balcanica. Confido che questo errore possa essere risparmiato alla economia italiana ed all’economia dei paesi balcanici.
L’onorevole Lombardo, che mi ha preceduto, vi ha parlato di un problema che a me sta profondamente a cuore ed è il problema della inflazione e delle conseguenze economiche e politiche di una inflazione. Egli ne ha parlato con termini così efficaci che mi dispensano dal dilungarmi su questo argomento, se non per darvi una testimonianza personale di quello che significa dal punto di vista sociale e politico un fenomeno di inflazione. Io ho vissuto in Germania, dove mi trovavo per i miei studi, durante il periodo successivo all’inflazione. Ho assistito alla decadenza della classe media tedesca ed ho visto di quali involuzioni ed evoluzioni è stata causa la rovina morale ed economica di quel ceto. Il nazismo in Germania probabilmente non sarebbe diventato un partito di Governo, un partito forte, un partito che ha vinto le elezioni del 1930, se la classe media tedesca avesse mantenuto la fede nei propri ideali e avesse conservato una base economica per ricostruire la propria vita dopo le difficoltà della guerra. Fu l’annientamento di questa base economica, fu il tracollo di ogni vincolo morale, che ha disancorato il ceto medio e lo ha gettato verso l’estremismo. E non verso l’estremismo di sinistra – come qualche ingenuo teorizzatore può pensare – ma verso l’estremismo di destra.
Mi permetto di ricordare una espressione che ho letto alcuni giorni or sono in una pubblicazione sui problemi economici internazionali, che mi ha particolarmente colpito. Lo scrittore, un economista, osserva che lo Stato moderno possiede tali e tanti mezzi di azione nell’economia, che egli è sempre in condizione – quando sia sovrano ed indipendente – di evitare l’inflazione. Ed aggiunge: «Ma per elaborare e mettere in applicazione un piano di resistenza all’inflazione è necessario avere un Governo stabile ed energico ed è ugualmente necessario un minimo di armonia tra le diverse sezioni politiche del Paese».
Noi abbiamo un Governo che ha tutta la possibilità di essere un Governo stabile, perché si fonda sui tre maggiori ripartiti di questa Assemblea, sui tre maggiori partiti del Paese. Noi abbiamo un Governo che ha la possibilità di impegnare tutte le forze vive del Paese. Noi dobbiamo fare in modo che questo Governo abbia veramente dietro di sé tutte le forze efficienti del Paese. Le abbia dietro di sé, non soltanto per quelle ragioni internazionali, che molti valorosi oratori hanno illustrato prima di me, ma anche per questa necessità improrogabile di fare una politica economica che assicuri al popolo tutto una rapida ricostruzione delle sue condizioni di vita.
Noi dobbiamo sentire questo impegno, non tanto verso questo o quel partito, dobbiamo sentirlo verso la democrazia e verso il Paese. Quando si sente parlare di fermenti neofascisti che pullulano nel Paese – e noi vediamo che questi fermenti allignano soprattutto presso coloro che dimenticano come le nostre difficoltà del momento non sono dovute agli errori della democrazia, ma agli errori ed ai delitti del fascismo – noi sentiamo che la democrazia è impegnata fino in fondo a dimostrare che questo è il solo sistema di Governo, che può fare un popolo libero e sicuro, che questo è il solo modo per dare a tutte le nostre famiglie la tranquillità politica ed economica di oggi e di domani.
Di fronte a questo compito della nuova Repubblica e della nuova democrazia, ritengo che tutte le piccole o grandi manovre tattiche che si dice serpeggino nell’Assemblea e nel Paese, dovrebbero essere abbandonate, perché penso che se noi falliremo nell’opera di ricostruire condizioni di vita accettabili, non sarà in pericolo la democrazia con l’aggettivo cui appartengo, o il socialismo o il comunismo; ma sarà in pericolo la democrazia senza qualificazione, sarà in pericolo quella Repubblica che abbiamo voluto e conquistato con la nostra volontà. (Vivi applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Nobile.
NOBILE. Onorevoli colleghi, nella esposizione del Capo del Governo si è completamente taciuto sul grave e complesso problema delle forze armate, che, ora, con le prime notizie che ci giungono sulle clausole del trattato di pace, diventa un problema di attualità.
Soltanto il Ministro del tesoro, nel suo discorso di ieri, vi ha fatto, di sfuggita, un accenno.
Certo, non si potrà discutere esaurientemente di tale problema se non a pace conclusa; ma frattanto vi sono taluni aspetti di esso e taluni fatti concreti sui quali ritengo mio dovere richiamare l’attenzione del Governo.
Il mio esposto sarà breve, ma chiedo di ascoltarmi con pazienza, perché ritengo che le cose che vi dirò non siano prive di importanza.
Anzitutto considerate la notevole entità delle somme stanziate per i tre Ministeri militari nello stato di previsione della spesa per il corrente esercizio finanziario. Ecco le cifre: guerra, 56 miliardi e 267 milioni; marina, 23 miliardi e 626 milioni; aeronautica, 9 miliardi e 981 milioni; cioè una somma totale di circa 90 miliardi rappresentante il 25,6 per cento di tutta la spesa dello Stato prevista in 350 miliardi e 876 milioni. Se riferissimo le spese militari all’entrata statale troveremmo niente di meno che il 69 per cento.
Ci troviamo così davanti alla situazione assurda che, mentre la guerra è già terminata da oltre un anno, le spese militari gravano sullo stremato bilancio statale in proporzione più forte che nell’anteguerra. Infatti, nel decennio 1925-35 la spesa complessiva dei tre Ministeri militari rappresentava solo il 21 per cento della spesa totale, pur essendo l’Italia stata cacciata, per nostra disgrazia, in due imprese militari. Nel 1938-39, alla vigilia della seconda guerra mondiale, la percentuale era del 21,9 per cento.
Quando si consideri che nello stato di previsione la spesa stanziata per il Ministero dei lavori pubblici rappresenta appena una percentuale del 7,1 per cento, di poco superiore a quella anteguerra, in un momento in cui da tutti i lati si invoca un vasto programma di lavori pubblici per riparare le devastazioni della guerra e fronteggiare la disoccupazione, non possiamo non concludere che il problema di ridurre le spese militari in proporzione delle necessità attuali e delle disponibilità del bilancio assume una importanza vitale.
Occorre mettere termine alla situazione paradossale che, a guerra terminata, quando il nostro esercito è ridotto ad una piccolissima frazione di quello che era durante la guerra, quando la nostra flotta conta poche unità e la nostra aviazione appena qualche centinaio di aeroplani efficienti, le spese per le forze armate rappresentino una percentuale più forte di quella che si aveva nell’immediato anteguerra.
Certamente non si può tacere che il ridurre le spese militari in proporzione alle disponibilità del nostro bilancio ed alle necessità attuali presenta difficoltà assai gravi. Così, considerando ad esempio il Ministero della guerra, non è cosa facile ridurre di colpo un organismo che fu creato per un esercito di milioni di uomini alle modeste proporzioni corrispondenti alle forze che attualmente si hanno sotto le armi, di appena 142 mila uomini. I tre Ministeri militari si trovano nella condizione di organismi costituiti di un’enorme testa (rappresentata dai quadri degli ufficiali e da una grande congerie di uffici burocratici) che sovrasta un corpo piccolissimo. Ora ridurre quell’enorme testa alle giuste proporzioni significa mandare a casa un gran numero di ufficiali e funzionari che hanno servito onorevolmente il paese per molti anni.
Ma non si può far questo alla ventura; molti ufficiali si batterono da eroi. Vi sono perciò distinzioni da fare e soprattutto bisogna tener conto di quelli che presero parte alla guerra contro i tedeschi e di quelli che, con rischio, si rifiutarono di mettersi al servizio della repubblica fascista. Si può, dunque, ben comprendere che si vada adagio in questa indispensabile opera di sfollamento. Tuttavia bisogna pur una volta cominciare a fare sul serio, se si vuole uscire dalla penosa situazione in cui ci troviamo. Il problema va affrontato energicamente. Occorre decidersi a smobilitare i tre dicasteri. La pletora di ufficiali, di cui la maggior parte non può trovare alcun utile impiego, costituisce un fenomeno, oltre tutto, anche demoralizzante.
Si considerino, ad esempio, queste cifre:
Al 1° giugno erano in servizio nell’esercito 298 generali,1036 colonnelli, 1877 tenenti colonnelli; 1879 maggiori; un totale di 5090 ufficiali, cui devono aggiungersi 3617 capitani e 6558 subalterni. Si ha così una cifra di 15.265 ufficiali, di cui ben 4302 richiamati dal congedo, che non si sa per quale ragione vengono ancora trattenuti in servizio. Per i 142.000 uomini, tra graduati e soldati, attualmente sotto le armi, basterebbe soltanto una terza parte di quegli ufficiali.
Presso a poco la medesima situazione si ha anche nell’aeronautica: circa 3000 ufficiali per 30.000 uomini di truppa. Con tale stragrande numero di ufficiali – anche se una gran parte di essi, pur godendo dei pieni assegni, è lasciata a casa – avviene che gli uffici in ambedue i suddetti Ministeri siano congestionati di personale che spesso ha poco o nulla da fare. Inevitabile conseguenza è il disordine, la confusione, il disperdimento di responsabilità. La cosa più grave è che la necessità di eliminare questa pletora di ufficiali e di funzionari non apparve chiara ai dirigenti di quei due dicasteri, dal momento che si tollerò che negli ultimi due anni al Ministero della guerra venissero assunte in servizio 150 dattilografe, le cui mansioni, io penso, avrebbero potuto, senza alcuna difficoltà, essere affidate ad impiegati di ruolo, che sono in numero di gran lunga esuberante ai bisogni del servizio, ed eventualmente anche a sottufficiali.
Un errore anche più grave di questo è stato commesso in Aeronautica, che purtroppo risente ancora del suo difetto di origine, perché, come tutti sanno, durante il ventennio fascista, i Ministri ed i Sottosegretari dell’aeronautica, salvo qualche onorevole eccezione, si preoccuparono, non tanto di costruire aeroplani, quanto di accrescere i quadri degli ufficiali superiori e generali, onde permettere una rapida carriera ai protetti delle alte gerarchie fasciste.
Questa non è affermazione mia, ma di ufficiali stessi del ruolo navigante dell’arma aerea.
Del resto due cifre bastano a comprovarla: nel 1927 vi erano in organico 15 generali; nel 1940 il loro numero era sestuplicato, cioè 90!
Il generale Pricolo, in un documento da lui firmato, asserisce che quando alla vigilia della guerra assunse la carica di Sottosegretario per l’aeronautica, trovò che erano in servizio, nel ruolo naviganti, 60 generali con appena 1300 apparecchi efficienti, ed osserva, per fare un confronto, che nella guerra 1915-18, con poco meno di mille aeroplani, vi erano un solo generale ed un solo colonnello!
Oggi gli apparecchi in servizio, efficienti, sono in numero di molto inferiore alla cifra di 1300, di cui parla il generale Pricolo. Si tratta solo di 228 velivoli. Per questo esiguo numero di aeroplani efficienti l’anno scorso erano in servizio una diecina di generali; eppure, in questi ultimi mesi, si è sentito il bisogno di quadruplicarne il numero, senza contare naturalmente tutti quelli che, pur percependo gli assegni, sono tenuti a casa senza avere nulla da fare. Fra questi ultimi, mi affretto a dirlo, sono anch’io.
Vi è di peggio. Nel dicembre scorso furono creati 22 nuovi generali, mentre 15 generali di brigata vennero promossi generali di divisione, e 3 generali di divisione, generali di squadra. Queste promozioni non sono ancora tutte apparse nel Bollettino Ufficiale, ma gli interessati ne hanno avuto comunicazione per lettera. Notate che fra i promossi vi sono perfino 2 generali che negli annuari aeronautici sono contrassegnati col distintivo di squadrista.
I piloti dell’aeronautica italiana hanno compiuto alte gesta di valore in tutti i cieli in cui hanno combattuto ed anche nella guerra di liberazione. Al loro valore rendo omaggio, con ammirazione tanto più grande, in quanto so che spesso i mezzi messi a loro disposizione erano inadeguati. I miei rilievi non si riferiscono ad essi, ma agli organi dirigenti dell’aeronautica, i quali, a mio parere, effettuando quelle promozioni, hanno commesso un errore anche politico.
Con un suo recente comunicato, il Ministero dell’aeronautica dichiarava che le promozioni fatte non potevano venire oltre ritardate per non privare ingiustamente di un trattamento più favorevole gli ufficiali che devono lasciare l’aeronautica in seguito a riduzione di quadri. Se così fosse, se cioè alla promozione seguisse il collocamento nella riserva, non vi sarebbe nulla da osservare, ma questo finora non è avvenuto, mentre sta il fatto che durante gli ultimi mesi il numero di generali in servizio è venuto man mano aumentando fino a quasi quadruplicarsi, come ho già detto. D’altra parte nel foglio d’ordini del 2 giugno 1946 è apparsa una disposizione con cui vengono istituite otto direzioni generali e due ispettorati, con lo scopo evidente di creare posti per una parte almeno dei generali promossi in precedenza. Secondo tale disposizione, quelle che prima erano chiamate semplicemente divisioni hanno assunto la denominazione di Direzioni generali e conseguentemente le sezioni e gli uffici di una volta hanno assunto la denominazione di Divisioni e Sezioni. Il pretesto probabilmente addotto è che tali direzioni esistono anche negli altri Ministeri, ma si dimentica che i Ministeri militari debbono ridurre e non già ampliare i loro uffici.
Ma, mentre nel modo che ho detto, sono stati accresciuti i quadri dei generali ed istituiti otto direzioni generali e due ispettorati, nulla si è fatto per cominciare a risolvere il problema di dare lavoro ed impiego ad una parte del personale civile e militare ed alle maestranze attualmente disoccupate, od occupate in modo inadeguato.
Vi sono oggi in aeronautica centinaia di tecnici, disegnatori, operai specializzati di grandissima esperienza che non sono affatto utilizzati. Molti eccellenti meccanici sono tenuti a fare da inservienti negli uffici. Qualche cosa si potrebbe cominciare a fare per risolvere il problema di un adeguato impiego di questi tecnici e di queste maestranze.
Non abbiamo visto stanziato nello stato di previsione di spese per l’esercizio in corso la somma occorrente per ripristinare le officine di Guidonia. A Guidonia furono fatte trasferire, negli anni in cui fu creato quell’importante centro aeronautico, centinaia di famiglie, che ormai non è possibile fare trasferire altrove.
Bisogna trovar loro lavoro sul posto. Ora, con una spesa non eccessiva, si potrebbero riattare le officine, attrezzandole per i lavori occorrenti ad altre amministrazioni statali, ad esempio, le ferrovie, in attesa che venga il giorno in cui possano adibirsi all’aeronautica, a quella civile se non a quella militare. Queste officine potrebbero avere gestione autonoma, e, se ben dirette, potrebbero non gravare affatto sul bilancio dell’aeronautica, mentre sgraverebbero questa di una parte del personale, specialmente tecnico. Comunque, sarebbe assai utile, se facendo economia su altri capitoli, come, ad esempio, quelli per l’acquisto e la riparazione di autoveicoli e per la provvista di carburante (per i quali si prevede una spesa di circa tre quarti di miliardo), si cominciasse a fare qualcosa. Credo pure che non bisognerebbe tardare a riattivare e mettere in funzione una parte almeno degli impianti aeronautici di Guidonia, dove, proseguendo una nobile tradizione, iniziata ben prima del fascismo, sono stati nel passato eseguiti studi ed esperienze di importanza notevolissima.
Certo, lo ripeto ancora una volta, il problema di smobilitare i tre dicasteri militari è un problema complesso, che richiede tra l’altro provvedimenti di carattere generale. Si potrà collocare a riposo il personale che sta per raggiungere il limite di età; un’altra parte, profittando delle agevolazioni previste nella legge di sfollamento, potrà abbandonare spontaneamente il servizio; una parte potrebbe venire assorbita dalla marina mercantile e dall’aviazione civile, man mano che queste branche si svilupperanno. Ma, dopo ciò, rimarrà pur sempre una grande quantità di ufficiali, sottufficiali, ragionieri, tecnici, applicati, ed anche operai, che non si potranno con disinvoltura mandare a casa con pensioni o buonuscite irrisorie. Il problema si dovrà risolvere, secondo me, facendo assorbire questo personale dalle altre amministrazioni statali e parastatali, che possono averne bisogno, come Ferrovie, Lavori pubblici, Pubblica istruzione, Monopoli, Poligrafico dello Stato, Istituto nazionale di assicurazione, ecc.
Si rende perciò necessaria, a mio avviso, ed anche urgente, una legge che blocchi l’assunzione di nuovo personale in queste varie amministrazioni statali, per lasciare liberi i posti che si faranno vacanti al personale esuberante dei tre Ministeri militari.
Quando questa smobilitazione sarà stata compiuta e quando saranno conosciute le condizioni del trattato di pace, si potrà parlare di fusione dei tre Ministeri in unico Ministero delle forze armate. Evidenti ragioni di economia consigliano questa unificazione, tanto più facile, in quanto la marina e l’aviazione saranno ridotte. Ma questa unificazione va studiata e preparata fin d’ora, perché, come ha detto bene l’onorevole Persico, non è durante una crisi ministeriale che tali problemi possano essere risolti. A questo proposito mi sia permesso esprimere modestamente l’opinione che la costituzione ed il numero dei Ministeri dovrebbe venire stabilita per legge e non dovrebbe essere lecito variarla senza apposita legge. Solo così si potrebbe porre termine alla cattiva abitudine di mutare il numero dei Ministeri a seconda delle esigenze politiche di una crisi ministeriale.
Un’osservazione mi sia permesso fare a proposito della critica mossa dall’onorevole Nitti alla istituzione, recentemente deliberata, del Ministero della marina mercantile.
La marina mercantile, oggi più che mai, ha importanza vitale per un Paese come il nostro. Basta riflettere che oltre due milioni di persone vivono dei traffici marittimi e delle varie industrie ad esse connesse. E non bisogna dimenticare che questi traffici hanno importanza fondamentale per l’indipendenza economica ed anche politica dell’Italia.
Se vi è un Ministero delle poste, non vedo perché dovremmo meravigliarci che vi sia anche un ministero della marina mercantile, come del resto è attualmente in Inghilterra e in Francia. Finora i vari servizi della marina mercantile, delle vie d’acqua interne e della pesca sono stati divisi tra cinque Ministeri: Marina da guerra, Trasporti, Industria, Agricoltura e commercio, e siffatta dispersione di servizi, per la loro natura intimamente fra loro collegati, ha creato difficoltà enormi. La necessità di unificare queste varie attività marinare, dando loro un’amministrazione autonoma, con la formazione di un dicastero indipendente, a me sembra evidente.
Far ritornare, come taluno ha suggerito, la Marina mercantile al Ministero dei trasporti sarebbe stato un errore. I trasporti ferroviari, marittimi ed aerei sono così sostanzialmente differenti fra loro, che a riunirli in una sola amministrazione sarebbe ben difficile trovare qualche cosa di comune che permetta, unificando, fare delle economie. Mettere insieme queste tre grandi branche di trasporti così diverse l’una dall’altra non servirebbe a nulla. Bisogna che ognuna di esse abbia la sua piena autonomia, soprattutto la Marina mercantile, non fosse altro che per ragioni di prestigio e per rispetto alle nostre grandi tradizioni marinare, specialmente nel momento in cui viene ridotta la flotta da guerra.
La stessa cosa dovrà farsi, come ho detto, per l’aviazione civile. Se il trattato di pace limiterà la nostra aviazione da guerra non sarà grave danno, anche perché le nostre condizioni economiche non ci consentiranno mai di competere con i grandi paesi che oggi controllano il mondo nell’apprestamento di un’arma che, grazie ai sorprendenti progressi realizzati ultimamente, sta per subire profonde trasformazioni. Ma nessuno potrà impedirci di sviluppare, almeno sul nostro territorio, l’aviazione civile, la cui importanza andrà sempre più crescendo. Prossimamente, quando da Roma a New York si andrà in una dozzina di ore, nessun uomo d’affari vorrà più rassegnarsi ad impiegare quasi altrettanto tempo per andare da Roma a Milano. Il tempo in cui si andrà a prendere all’aeroporto, senza preavviso, un aeroplano per recarsi da una città all’altra d’Italia è assai più vicino che non si pensi. Vi saranno taxi aerei come vi sono taxi terrestri. L’importanza che l’aviazione va assumendo nella vita economica, civile e sociale, sarà sempre maggiore, al punto che l’organizzazione di un apposito dicastero per controllare lo sviluppo di questo nuovo mezzo di trasporto e di tutti gli impianti e servizi relativi diverrà una necessità imprescindibile, come già è oggi per la marina mercantile.
Una raccomandazione, però, mi permetto di fare, e cioè che questi due nuovi Ministeri tecnici, quello della Marina mercantile già istituito e quello dell’Aviazione civile che dovrà istituirsi domani, vengano organizzati in maniera semplice ed efficiente, senza prendere come modello gli altri Ministeri esistenti, senza creare farraginosi organismi burocratici ed anche senza Sottosegretariati di Stato, i quali secondo me, per dei Ministeri tecnici, sono cosa assolutamente superflua.
Ed avrei finito se non sentissi il dovere di fare, da ultimo, qualche osservazione su un argomento di vitale importanza, e cioè sugli accordi intervenuti con società americane ed inglesi per l’esercizio delle nostre linee aeree interne.
In data 11 febbraio il Ministro dell’aeronautica firmò un accordo con la Trascontinental & Western Air Inc., con cui il Governo italiano assumeva impegni gravi, giacché dava facoltà alla costituenda società italo-americana di acquistare, costruire, gestire e prendere in concessione aerodromi, aviorimesse, officine, istituendo e gestendo tutti quei servizi che, direttamente o indirettamente, potessero interessare la società stessa. Con tale impegno veniamo a legare, nel modo più completo, l’aviazione civile italiana ad una società straniera. Nell’articolo 11 è previsto implicitamente di effettuare all’estero l’acquisto di aeromobili, di parti di ricambio, di attrezzature, ecc., sacrificando così l’industria nazionale con doppio, grave danno: da un lato verrebbero dispersi, per mancanza di utilizzazione, tecnici e maestranze espertissime, e dall’altro si danneggerebbe l’economia del Paese comprando all’estero anche ciò che possiamo costruire in Italia.
Il danno economico è poi accresciuto dal fatto che si consente alla TWA di esportare in America le somme che le spetteranno come dividendi, obbligandoci quindi a procurare la valuta corrispondente. Tutte le garanzie vengono infine date a favore dei capitalisti stranieri, i quali, in base all’articolo 3 dell’accordo hanno facoltà, dopo solo due anni dalla costituzione della società, di ritirarsi da essa, vendendo le loro azioni allo Stato italiano, in cambio, s’intende, di valuta americana. Sicché, in definitiva, se la gestione delle linee aeree non desse agli azionisti americani quel profitto che se ne aspettano, essi se ne uscirebbero senza alcuna perdita sostanziale, e la perdita sarebbe tutta a carico dello Stato italiano. Come si vede, l’intero affare si risolve a beneficio della TWA, la quale nel peggiore dei casi avrebbe, direttamente o indirettamente, venduto allo Stato italiano del materiale aeronautico.
Né ci si venga a dire che è stata prevista la partecipazione del capitale italiano in una misura preponderante del 60 per cento del capitale sottoscritto, con che sarebbe assicurata la prevalenza italiana nelle decisioni, perché l’articolo 10 dell’accordo stabilisce che per la validità delle deliberazioni del Consiglio di amministrazione costituito di 6 italiani e 4 americani, occorre il voto favorevole di due terzi dei membri del Consiglio, il che vuol dire che niente potrà deliberarsi senza il consenso degli azionisti americani.
Questo accordo italo-americano, come è noto, sollevò proteste in Inghilterra e la conseguenza ne è stata che si è dovuto stipulare un altro accordo con società inglesi, accordo che, non si sa per quali ragioni, è tenuto segreto. Io chiedo che ambedue gli accordi siano resi di pubblica ragione.
Per l’impianto e la gestione perfino delle nostre linee interne il passato Governo, con gli accordi stipulati, ha messo l’aeronautica italiana completamente in balìa di società straniere. Ciò è stato fatto a mio avviso senza alcuna necessità, perché non vi era alcuna necessità di stipulare frettolosamente quegli accordi, proprio alla vigilia della Costituente. In fatto di trasporti, anche i più entusiasti assertori dell’aviazione civile, e fra essi sono certamente anche io, devono riconoscere che nelle circostanze attuali quello che più preme ripristinare sono i trasporti terrestri e marittimi. Sono questi che oggi interessano da vicino l’economia generale del Paese. I trasporti aerei non possono, oggi, considerarsi di importanza talmente vitale per la rinascita dell’Italia che convenga, costi quel che costi, precipitarsi a legarci a stranieri pur di vederli subito attuati. (Applausi a sinistra).
Per essi si può ancora attendere. Gli attuali servizi aerei, fatti con velivoli militar costruiti in Italia, possono ritenersi sufficienti ai bisogni attuali, ma, volendo, potrebbero anche venire estesi. Molto meglio fare dei servizi modesti adoperando mezzi completamente nostri, anziché legarci nel modo che si tenta di fare a delle società straniere, con grave e forse irreparabile danno dell’economia nazionale e specialmente della nostra industria aeronautica. La nostra industria aeronautica dovrà essere alimentata soprattutto dall’aviazione civile, e noi abbiamo il dovere di sorreggerla, specie in questo periodo di crisi. Dobbiamo dar lavoro ai nostri ingegneri e ai nostri operai. Non possiamo rinunciare a beneficio degli stranieri perfino a progettare e costruire i velivoli che dovranno servire alle nostre linee aeree. Da trenta anni abbiamo esportato le nostre costruzioni aeronautiche nei paesi più lontani del mondo, anche in America e in Inghilterra. Non possiamo ora dichiararci incapaci di costruire gli aeroplani che alla nostra aviazione occorrono. È una immeritata umiliazione che si tenta di infliggere ai nostri tecnici, alle nostre maestranze, delle quali oso dire che non vi è chi per bravura le uguagli nel mondo.
Io sono sicuro di interpretare il pensiero di molti colleghi chiedendo che si soprassieda a qualunque costituzione di società per trasporti aerei nelle quali intervenga capitale straniero alle condizioni onerose che ho dianzi ricordato. Comunque, nessun impegno si prenda senza introdurvi una clausola che riservi a questa Assemblea l’approvazione dell’impegno. Né sarebbe inopportuno che il Governo deferisca fin da ora tutta la questione all’esame dell’Assemblea stessa, ed in proposito presenterò un ordine del giorno.
Ho terminato, onorevoli colleghi. Alle poche osservazioni che mi sono permesso di fare sono stato mosso solo dall’amore che porto al mio Paese ed alle cose dell’aeronautica. Avrei creduto di mancare ad un preciso dovere se ciò non avessi fatto. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Cingolani, Ministro dell’aeronautica. Ne ha facoltà.
CINGOLANI, Ministro dell’aeronautica. Per una semplice precisazione, onorevoli colleghi, ho chiesto di parlare dopo il discorso dell’onorevole Nobile. Mi riserbo di ritornare ampiamente sull’argomento.
Siccome le questioni qui sollevate dall’onorevole Nobile nell’ultima parte del suo discorso, possono aver lasciato nell’Assemblea una impressione non molto simpatica, tengo a fare alcune precisazioni. Ecco dei dati di fatto.
L’11 febbraio 1946 fu firmato un accordo dal Ministro dell’aeronautica e dal rappresentante della Compagnia americana T.W.A. L’8 giugno fu firmato un analogo accordo col rappresentante della B.O.A.C. inglese. Ambedue gli accordi prevedono l’ulteriore costituzione di due società italiane, a capitale misto, rispettivamente italo-americana con la sigla L.A.I. (Linee Aeree Italiane), e italo-inglese, cori la sigla A.I.I. (Aviolinee Italiane Internazionali) per la gestione di aviolinee indicate in alcuni allegati che al momento opportuno metterò a disposizione dell’Assemblea.
Varie altre iniziative sono sorte in Italia per l’esercizio di linee aeree, e da parte di società già costituite o di gruppi promotori sono state avanzate domande di concessione. Numerosissime sono le interferenze fra i vari progetti. Per tale fatto solo ad alcuni richiedenti è stato dato un affidamento, con le formule «si concede autorizzazione di massima» ovvero «si esprime parere favorevole in linea di massima», seguendo in genere il concetto di dare affidamento solo per quelle linee per le quali non vi fossero interferenze.
Il prospetto che comunicherò all’Assemblea ci dà lo spettacolo consolante di un tentativo di ripresa veramente organico ed energico della futura attività aviatoria civile italiana.
Io ho trovato, nel prendere possesso del mio Ministero, preparati ed approvati due progetti di costituzione delle due società italo-americana e italo-inglese; come anche ho trovato maturata e studiata la proposta di acquistare immediatamente 22 apparecchi «Douglas» come surplus americano da mettere poi a disposizione delle società. Naturalmente io ho inteso il dovere di prendere visione di tutto il problema, perché intendo rispondere con conoscenza di causa dei miei atti.
Prima di emettere un giudizio su quanto è stato fatto finora, io ho il dovere, e oso dire anche il diritto, di approfondire lo studio delle due convenzioni e di esaminare il modo come sarebbero esercitate le attività delle due società.
Intanto posso dire di avere indirizzato diversamente l’acquisto dei 22 «Douglas» che dovevano servire soltanto per queste due società, con questa decisione fatta all’A.R.A.R.: «A modifica dei precedenti indirizzi, questo Ministero non ritiene di procedere all’acquisto degli apparecchi «Douglas» per la successiva assegnazione alle due società di navigazione, nella considerazione che tali operazioni esorbitano dai limiti della competenza ministeriale. Questo Ministero potrà segnalare a codesta azienda le società di navigazione aerea che intendono procedere all’acquisto di materiale surplus americano per ogni possibile facilitazione. Potrà anche assicurare agli interessati l’assistenza dei propri organi tecnici per le trattative da svolgere circa la scelta del materiale e la determinazione del prezzo relativo».
Stia sicuro, onorevole Nobile, che è cura nostra precipua, e di coloro che mi coadiuvano, la tutela degli interessi italiani, del personale navigante italiano e delle valorose maestranze italiane. (Applausi al centro e a destra).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
CHIEFFI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla necessità di una pronta decisione per la nomina, da parte del Governo, della Delegazione incaricata di trattare con il Governo svizzero per l’idrovia Locarno-Venezia e concludere rapidamente le trattative sulla base dei punti seguenti:
1°) a carico della Svizzera: la progettazione definitiva del canale e concorso nelle spese dei lavori con anticipo e in misura non inferiore al 50 per cento della spesa totale;
2°) costruzione del canale per natanti da 600 tonnellate, secondo la formula internazionale, con navigabilità in ogni giorno e ora dell’anno;
3°) libertà di navigazione assicurata alla Svizzera, secondo il diritto internazionale;
4°) sistemazione e tutela, in linea di massima e di principio e di fatto, delle necessità e risorse idriche delle zone agricole adiacenti al canale;
5°) celere inizio dei lavori, anche per ovviare ai danni della disoccupazione.
Gli interessati chiedono come mai il Governo abbia tanto ritardato nell’appoggiare questa iniziativa, e perché non si affretti a nominare la Delegazione d’intesa con gli enti interessati.
L’interrogante sottolinea l’estrema urgenza economica e sociale di una soluzione, tanto più che al Governo non si chiedono né denari, né compromissioni in partenza.
«Roselli».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se e quando il Ministero intenda dare adeguato corso ed impulso al pagamento degli indennizzi per danni di guerra verso persone e ditte private onde facilitare sia la indispensabile sistemazione delle più elementari necessità di vita delle famiglie lese, sia la ripresa efficace, particolarmente di attività artigiane o di piccolo commercio od industria, che non hanno altro mezzo per farlo e che avrebbero modo di ridare lavoro e sussistenza, oltreché ai diretti interessati, anche ad una vasta categoria di lavoratori.
«Pressinotti, Ghislandi».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del tesoro, se non crede di trasformare in obbligo di legge la semplice «facoltà» riconosciuta agli Enti locali di concedere o meno la estensione delle provvidenze previste dei decreti luogotenenziali numeri 41, 85, 116, 722 in favore dei pensionati degli enti stessi; o se, quanto meno, ritenga di dover disporre l’intervento finanziario dello Stato nei casi di comprovata impossibilità economica di tali enti a far fronte al maggior aggravio che ne deriverebbe ai loro bilanci; aggravio, però, che non può essere ragione sufficiente, specialmente dal punto di vista umano e sociale, per negare il minimo pane necessario a lavoratori, che hanno dato per decenni l’opera loro all’ente da cui dipendevano, versando per di più in moneta valida il loro contributo per quella modestissima pensione che oggi è loro corrisposta in moneta svalutata.
«Ghislandi, Pressinotti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle foreste e di grazia e giustizia, sulla predisposizione dell’Ispettorato agrario per la provincia di Siracusa ad ostacolare le aspirazioni delle cooperative agricole di lavoro nella concessione delle terre incolte o mal coltivate, sia per la determinazione delle indennità a favore dei proprietari quasi sempre eccessive, sia per l’imposizione di lavori di bonifica a carico delle cooperative, non compatibili con la brevità delle concessioni.
«Né le cooperative trovano la necessaria tutela nelle speciali Commissioni, per quanto presiedute da magistrati, anch’esse piuttosto inclini a sostenere le pretese dei proprietari, tanto nella determinazione delle indennità e nella convalida di procedure assicurative e coattive, spesso astiose, che espongono le cooperative a costosi litigi, quanto nella negata proroga annuale delle concessioni, in conseguenza di una erronea e troppo letterale applicazione del decreto di proroga.
«Tutto ciò tradisce lo spirito informatore dei provvedimenti sulla concessione delle terre incolte o mal coltivate, provoca il malcontento giustificato dei lavoratori e li costringe alla disoccupazione, con il conseguente pericolo per l’ordine pubblico.
«Di Giovanni».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se, nell’interesse dell’economia generale del Paese, e nello stesso tempo per richiamare all’attività del lavoro una massa non indifferente di mano d’opera disoccupata, non si debba favorire in ogni modo la possibilità di ripresa dell’industria turistica e specialmente l’afflusso in Italia di correnti turistiche dall’estero; se tale ripresa non sarebbe favorita dall’abolizione di inutili impacci burocratici che allontanano i forestieri dai nostri confini anziché attirarli, incominciando in primo luogo coll’abolire il visto consolare ai passaporti dei forestieri che dalla Svizzera desiderano entrare in Italia.
«Zappelli, Fornara, Bordon, Momigliano, Jacometti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non credano sia urgente emanare una nuova legge di pubblica sicurezza, la quale sostituisca quella ora in vigore, che indubbiamente costituisce negazione di ogni principio di libertà, lasciando il cittadino in balìa dell’autorità politica e d’altro canto non garantisce sufficientemente la società contro i delinquenti abituali ed i pregiudicati pericolosi.
«Stampacchia».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:
1°) se non pensi essere necessario ed urgente, conformemente al voto espresso in più occasioni dal Foro italiano nella sua grande maggioranza, di provvedere con sollecitudine alla preparazione dei nuovi codici, i quali sostituiscano quelli ora in vigore, impregnati, permeati e sostanziati nella disciplina di molteplici istituti da spirito e criteri non rispondenti al nuovo clima storico di libertà e di democrazia;
2°) se non pensi che, richiedendo la predetta preparazione studi e tempo non brevi, debbasi abrogare subito il codice di rito civile dimostratosi perturbatore di ogni sano principio che deve garantire le ragioni e i diritti delle partì litiganti, il prestigio della difesa, la celerità dei giudizi; e sostituirlo intanto col Codice del 1865 e successivo e relativa legge sul rito sommario, con opportuni ritocchi specialmente in rapporto ai termini, da abbreviare, ed alla materia incidentale.
«Stampacchia».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non creda di doversi procedere, senza più indugiare, a nuova formazione degli albi di curatori di fallimenti, poiché quelli attualmente in vigore furono formati con criterio partigiano escludendosi tutti i professionisti non muniti di tessera fascista; e se non creda di dover dare immediate disposizioni perché il magistrato – sino alla compilazione dei nuovi albi – prescinda, nell’assegnazione degl’incarichi, dagli albi formati durante il fascismo.
«Stampacchia».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali ostacoli ancora si frappongano perché la pretura di Cassino ritorni nella sua sede naturale e lasci quella provvisoria di Cervaro, anche come prova di adesione da parte del Governo alla volontà di rinascita della martoriata città.
«Persico».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se – considerato che la monda del riso è in corso quest’anno con la retribuzione giornaliera di lire 285, che lo stesso Ministero dell’agricoltura riconosceva al termine delle trattative come inferiore di lire 15 al minimo necessario per un lavoro fra i più faticosi tuttora condotto in condizioni di alimentazione, di alloggio e di igiene indegne di una società civile ed organizzata – non ritenga equo ed opportuno estendere il premio della Repubblica a questa categoria di lavoratrici nella misura di lire 500 per ogni mondariso locale o forestiero.
«Lombardi Carlo, Farina, Leone, Scarpa».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali siano i criteri fondamentali ai quali si ispirerebbe il progetto di autonomia in favore della «Regione Tridentina», che la stampa ha annunciato recentemente come di prossima emanazione, e per richiamare l’attenzione del Governo sulla inopportunità che provvedimenti di questo genere, di natura tipicamente costituzionale, vengano emessi per mezzo di decreti governativi, mentre la Costituente è chiamata ad elaborare la nuova costituzione dello Stato italiano: segnalando particolarmente il pericolo che l’intera riforma in senso autonomistico della struttura statale, auspicata da larghi settori della Costituente, possa essere compromessa da provvedimenti legislativi ispirati piuttosto ad esigenze particolaristiche, che non ad una visione complessiva del problema, nel generale interesse del Paese.
«Codignola».
«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dei trasporti, per conoscere le ragioni che si oppongono alla pronta ricostruzione dei ponti ed opere della strada nazionale tiberina 3-bis nel tratto Pieve Santo Stefano (Arezzo)-Bagno di Romagna (Forlì), strada che rappresenta la comunicazione più diretta della Romagna e della Valle Padana con la Toscana e la Capitale, e che è l’unica grande strada appenninica ancora interrotta. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Braschi, Fanfani».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e delle foreste e del tesoro, per conoscere quali immediate provvidenze intendano emanare per rimborsare integralmente e subito agli agricoltori, specialmente proprietari di piccole aziende, le somme che hanno anticipato e sono per anticipare (anche in relazione al cosiddetto lodo De Gasperi) ai coloni mezzadri, sostituendosi allo Stato nel risarcimento dei danni dai medesimi subiti nel bestiame o nei prodotti per razzie o per azioni di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Braschi».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per conoscere se non possa dare istruzione ai Prefetti perché consiglino le amministrazioni comunali non elettive a dimettersi e le sostituiscano con altre più rispondenti ai sentimenti espressi dalle popolazioni nelle elezioni politiche.
«La situazione di contrasto tra amministrazioni del defunto CLN e popolazioni, che hanno espresso voti assolutamente contrari a questo, sta avvelenando l’esistenza di intere provincie, e aggravando la frattura tra Nord e Sud; l’interrogante segnala per il suo collegio specialmente i comuni di Taranto, Lecce, Francavilla Fontana e Squinzano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Cicerone».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno per conoscere se non ritenga opportuno di indire un concorso per l’ammissione a segretari comunali di quei funzionari municipali che, pur non avendo il prescritto titolo di studio, furono incaricati di tale funzione in virtù della legge 1° settembre 1940, n. 1488, ed hanno dato prova di capacità e di solerzia.
«Tale provvedimento non costituirebbe fatto nuovo perché fu già preso dopo la guerra 1915-18. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Lucifero».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se non creda opportuno comprendere gli ospedali fra le aziende di pubblica utilità alle quali è concesso di avere il carbone fossile di importazione a lire 3362,40 invece che a lire 4364 la tonnellata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Braschi».
«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non creda utile e bello, dopo l’esposizione di Londra, organizzata dall’Istituto nazionale per le relazioni culturali, ad opera del prof. Lionello Venturi, dove solo 22 artisti italiani furono accolti e tutti d’una tendenza artistica, a soddisfazione dei molti artisti italiani di altre tendenze, misconosciuti dal fascismo e costretti a vivere in accorata solitudine, organizzare una seconda mostra, che, preparata da una Commissione eletta liberamente da tutti gli artisti, indichi che l’Italia non è povera di personalità artistiche, ma ha ricchezza di pittori, e che non una è la tendenza dell’arte pittorica, ma molte e tutte alte e nobili. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Longhena, Taddia».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, se non creda doveroso di proporre un decreto uguale a quello emanato alla fine della guerra europea, per cui il Governo si addossò l’onere dei debiti che i comuni avevano verso gli ospedali per rette di degenze accumulatesi.
«Se i bilanci economici degli Enti ospitalieri non presentano che modesti disavanzi, le difficoltà di cassa sono tali che fanno temere possa cessare ad un tratto l’assistenza loro ai malati.
Ora basterebbe che lo Stato si accollasse il pagamento delle somme arretrate dovute dai comuni fino a tutto il 1945.
«Tale aiuto rimetterebbe in sesto tutti i bilanci e sarebbe un avviamento verso la soluzione del problema ospitaliero, soluzione che sarà, credo, demandata agli studi di apposite Commissioni in seno alla Costituente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Longhena».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, sulla urgenza di esaminare – di fronte al ripetersi di atti aggressivi sulla strada del Bracco – la necessità di predisporre un servizio continuo di sorveglianza a mezzo di camionette lungo la strada stessa, arteria di estrema importanza nelle comunicazioni fra Torino, Genova e il Centro Meridione italiano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Faralli».
«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della guerra, sull’azione che ha in corso o che intende di svolgere onde ottenere notizie precise sulla sorte delle tante decine di migliaia di combattenti della eroica divisione Julia e delle altre valorose unità dell’ARMIR, fatti prigionieri nella sciagurata campagna di Russia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Gortani».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla urgente necessità di ripristinare il ponte a chiatte sul Po tra Stellata (Ferrara) e Ficarolo (Rovigo). Questo ponte creato da un Consorzio di comuni nel 1906 venne distrutto da bombardamento aereo. Esso è necessario come mezzo di collegamento tra zone agricole fertilissime, nell’interesse locale e generale.
«Si tratta da parte dello Stato di risarcire un danno di guerra, ma soprattutto di ripristinare un servizio utile all’economia generale.
«L’interrogante chiede inoltre se il Governo consentirebbe – in subordine – l’applicazione di una tassa di pedaggio a favore di quegli enti locali che si assumessero il costo della ricostruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Merlin Umberto».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, per sapere se non ritenga ormai necessario procedere allo scioglimento delle deputazioni provinciali costituite a suo tempo in regime di Comitato di Liberazione e non ancora volontariamente dimessesi, per ricostituirle con sano criterio democratico in base agli ultimi risultati delle elezioni politiche, dalle quali si può considerare stabilita la effettiva consistenza dei partiti. In attesa che sia approvata la nuova Costituzione e fino all’effettivo assetto degli enti locali, appare necessario che le attuali loro amministrazioni siano, per quanto possibile, diretta espressione delle correnti politiche definite e in proporzione alla loro reale consistenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Mannironi».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del lavoro e della marina mercantile, per conoscere se il Governo intenda prendere in considerazione la categoria dei pensionati marittimi, le cui pensioni sono tuttora spesso al disotto delle 1000 lire mensili. Recentemente è stato emanato un decreto che stabilisce l’aumento del 70 per cento di tali pensioni.
«Si chiede innanzitutto che venga dato corso nel più breve tempo possibile a questo decreto, anziché lesinare gli acconti corrispondenti in piccola parte ai pur piccoli aumenti previsti dal decreto stesso; in secondo luogo che venga esaminata la possibilità di concedere almeno una indennità di caroviveri anche a questa categoria di pensionati, che comprende circa 17.000 individui in tutta Italia e che è stata più delle altre dimenticata e negletta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Taviani».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Governo, per sapere se non sia opportuno intervenire per opporsi a che un Senatore decaduto ed epurato sia nominato presidente onorario di un grande istituto bancario, con manifesta violazione di quanto disposto dalla volontà rappresentante la coscienza popolare. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Jacometti, Fornara, Scarpa, Zappelli».
«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere:
- a) se i provvedimenti del Ministero dell’assistenza post-bellica a favore dei reduci (decreto 26 aprile 1946, Capitolo IV: istruzione e rieducazione professionale) potranno essere estesi ai disoccupati bisognosi di una specifica preparazione al lavoro;
- b) se le somme occorrenti, per l’applicazione di tali provvedimenti, dovranno essere stanziate, nello stato di previsione, dal Ministero dei lavori pubblici (il quale attualmente dispone del fondo per i lavori di disoccupazione) o, eventualmente, dal Ministero dell’istruzione pubblica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Titomanlio Vittoria».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 20,15
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 16:
- – Verifica di poteri.
- – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.