Come nasce la Costituzione

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MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

VI.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 17 LUGLIO 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE SARAGAT

indi

DEL VICEPRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Presidente                                                                                                        

Bencivenga                                                                                                      

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Per l’anniversario della morte di Cesare Battisti:

Greppi                                                                                                               

Presidente                                                                                                        

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Lucifero                                                                                                           

Nomine di Sottosegretari di Stato (Annuncio):

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri          

Verifica di poteri:

Presidente                                                                                                        

Sostituzione di Deputati dimissionari:

Presidente                                                                                                        

Opzione e sostituzione dei Deputati eletti in più circoscrizioni:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio

dei Ministri:

Lussu                                                                                                                

Labriola                                                                                                          

Pecorari                                                                                                           

Interrogazioni e interpellanze (Annuncio):

Presidente                                                                                                        

Battisti, Segretario                                                                                           

La seduta comincia alle 16,30.

BATTISTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

BENCIVENGA Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all’onorevole Bencivenga, desidero trarre dagli incidenti di ieri – che non conviene drammatizzare, ma che non si debbono nemmeno trascurare – un insegnamento.

L’Assemblea Costituente non è un’accademia scientifica in cui le discussioni avvengono con la serenità propria degli uomini di scienza: un’assemblea politica è un microcosmo in cui si riflettono tutte le passioni che agitano l’anima nazionale. Vi si dibattono tutti i problemi che travagliano la vita del popolo, ed è possibile, ed anche inevitabile qualche volta, quando la situazione del Paese è drammatica, che drammatiche siano le sue discussioni.

Ma ciò che non è possibile in un’assemblea è che le discussioni avvengano in modo incoerente, assurdo.

Ora, ciò che è avvenuto ieri è assurdo.

Abbiamo veduto ieri un vecchio uomo di Stato pronunciare un discorso, interrotto proprio da coloro che per venti anni furono suoi compagni di esilio, che per venti anni divisero con lui i suoi dolori e le sue speranze.

Altra incoerenza. Abbiamo veduto ieri un valoroso soldato, il quale mosse un rimprovero ingiusto; contro chi? In fondo contro se stesso, perché anche l’onorevole Bencivenga, per venti anni è stato esule, e nella forma più dura: esule in patria!

Vorrei richiamare quindi tutti ad una maggiore coerenza e austerità nella discussione e ricordare che non sarà possibile compiere un lavoro utile, se non vi sarà un minimo di reciproca tolleranza. (Vivissimi applausi).

Ha facoltà di parlare l’onorevole Bencivenga.

BENCIVENGA. Non ho che da ripetere, in un’atmosfera che debbo ritenere più serena, quello che dissi per sera: che quella parte del discorso, che ha scatenato il tumulto, non conteneva offese per alcuno.

Nel muovere acerba critica ai Governi del C.L.N. io ravvisai in essi alcuni aspetti di rassomiglianza coi governi della Restaurazione che si costituirono in Francia dopo il crollo di Napoleone I.

Il riferimento agli emigrati era in relazione a questo argomento.

È semplicemente arbitrario, per non dire assurdo, pensare che io nel rilievo fatto abbia voluto comprendere senza discriminazione tutti gli emigrati, fra i quali conto numerosi amici che molto stimo e di taluni dei quali conosco l’opera patriottica, altamente meritoria, spiegata per l’Italia e per la libertà.

Mi si permetta rilevare che se, coi metodi che vanno usati nei Parlamenti, mi si fosse chiesto tal chiarimento non avrei mancato di darlo ier sera stessa.

Ciò detto, non posso fare a meno di rinnovare la protesta per le violenze usate, nell’aula della Costituente, ad un rappresentante del popolo che ha il diritto e il dovere di esprimere il pensiero dei suoi elettori. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Dopo le dichiarazioni dell’onorevole Bencivenga, considero l’incidente esaurito.

Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i Deputati Leone e Vigna.

(Sono concessi).

Per l’anniversario della morte di Cesare Battisti.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Greppi. Ne ha facoltà.

GREPPI. Onorevoli colleghi, cade in questi giorni il 30° anniversario dalla morte eroica di Cesare Battisti. (L’Assemblea e il pubblico delle tribune si levano in piedi). Egli è stato un Grande Italiano e un socialista ispirato, ed è con purissima e comprensibile commozione che noi lo evochiamo ed invochiamo oggi nel Parlamento che non lo ebbe partecipe, ma del quale fu, fra altra gente, in altra terra, con tanto pericolo e con estremo coraggio, uno dei messaggeri più ardenti e fedeli. Uomo politico e combattente, cospiratore e partigiano, non lo abbiamo mai sentito più nostro e più attuale. Lo catturarono fra i suoi monti, che erano un tempo la sua Patria e il suo esilio; lo giudicarono come un fuori legge; lo fecero salire alla gloria del patibolo. E nell’ucciderlo come sempre è accaduto e come sempre dovrà accadere per i giusti – lo hanno immortalato. Ora egli è qui con noi, con quella sua fronte mirabilmente eretta che la morte, invece di piegare, sembrò fissare in una più granitica fierezza; è qui restituito, rivendicato dopo il tentativo ingenuo e vano del fascismo di usurparlo, di farne il postumo assertore di una parte sola e della meno degna. Si è ribellato ancora una volta, ha combattuto con noi, ci ha ispirati, ci ha guidati. Era morto per l’Italia; voleva essere di tutti gli italiani.

Rivendicato, restituito; ma il suo spirito ancora non si dà pace. Se è vero che gli Eroi sopravvivono nei loro sogni e non disarmano fino a quando questi non siano realizzati (e tra noi c’è qualcuno, l’erede naturale, che meglio di tutti lo sa) Cesare Battisti chiede di essere un Capo anche qui, il più ascoltato. E certo le sue parole ci suoneranno più alte e incoraggianti che mai.

Esse ci dicono, col sigillo della verità testimoniata dal martirio, che la Patria è una cosa sola col nostro onore, con la nostra libertà, col nostro sacrificio; che non è somma di creature e nemmeno misura terrestre, ma la storia, la passione, la speranza di tutta una gente; che è meschino cercare la concordia fra i popoli nella geografia e nella strategia e che soltanto in un reciproco intransigente rispetto, in una profonda, vissuta confidenza morale potrà essere effettivamente raggiunta e conservata.

E nel suo accento aspro ed accorato sentiamo riecheggiare, con la voce di Trento e della Valle dell’Adige, quella di Trieste e dell’Istria e di tutte le terre minacciate. Ma non è soltanto una raccomandazione o una preghiera: è un monito, è un imperativo.

«Non lasciatevi umiliare, non abbandonate i vostri fratelli; resistete contro ogni ingiustizia che vi si voglia fare. Le ingiustizie ricadono solidalmente su chi le subisce e su chi le commette. Nel difendere l’integrità, l’unità della Patria, voi difendete la stessa solidarietà umana e la pace. E fatevi strenui banditori, ma con quella fede che non dovrebbe muovere soltanto le montagne allegoriche, di una intesa ragionevole e civile, che spezzi finalmente il sinistro incantesimo dell’egoismo nazionale, fonte illusoria di fortune per pochi e di effettive catastrofi per tutti».

Per ripeterci questo, dopo oltre venti anni di silenzio e di rinnovato esilio, Cesare Battisti è qui ancora con noi e le sue parole hanno la potenza irresistibile nella sua fede e nel suo esempio.

I grandi italiani tornano all’Italia. Possa l’Italia tornare con loro, per loro, al suo posto meritato e dignitoso tra gli Stati d’Europa e del mondo. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Sono certo di interpretare il pensiero dell’Assemblea associandomi alle nobili parole pronunziate dall’onorevole Greppi in memoria di Cesare Battisti.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Come Presidente del Consiglio e come Deputato trentino, testimone della gloriosa attività di Cesare Battisti e della sua tragedia, mi associo alle parole altissime pronunziate dal collega onorevole Greppi, e soprattutto mi associo all’augurio ed impegno della difesa della italianità e della unità della Patria, che nel ricordo e nella memoria di Cesare Battisti oggi sono state invocate. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Chiedo scusa se manco ad una tradizione parlamentare; ma ho chiesto la parola, perché vedo in questa giusta e santa commemorazione di Cesare Battisti un atto di unità nazionale, che è particolarmente prezioso in questa Assemblea.

Cesare Battisti è stato un repubblicano nobilissimo che è morto per l’Italia quando l’Italia era retta in Monarchia. Credo che non sia inopportuno che un monarchico, che è stato ed è monarchico, dichiari come omaggio di italiano alla memoria di Cesare Battisti, come dovere d’italiano verso la Patria, che, allo stesso modo dei repubblicani di ieri, i monarchici di oggi sono i servitori e i figli della Patria, in qualunque momento questa Patria, sotto qualunque forma, possa avere bisogno di loro e del loro sacrificio. (Applausi).

Annuncio di nomine di Sottosegretari di Stato.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente del Consiglio. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno e, ad interim, degli affari esteri. Mi onoro informare che il Capo provvisorio dello Stato, su mia proposta, sentito il Consiglio dei Ministri, ha nominato Sottosegretari di Stato:

Presidenza: Cappa avv. Paolo; Esteri: Giolitti dott. Antonio; Esteri (Italiani all’estero): Lupis avv. Giuseppe; Interno: Corsi dott. Angelo; Grazia e Giustizia: Marazza Achille; Finanze: Scoca prof. Salvatore; Tesoro: Petrilli prof. Raffaele Pio; Tesoro (Danni di guerra): Cavallari avv. Vincenzo; Guerra: Martino avv. Enrico; Chatrian gen. Luigi; Aeronautica: Fiorentino ing. Giosuè; Istruzione pubblica: Bellusci Giuseppe Salvatore; Lavori pubblici: Restagno Pier Carlo; Agricoltura: Spano Velio; Trasporti: Jervolino avv. Angelo Raffaele; Industria e commercio: Tremelloni dott. Roberto; Brusasca avv. Giuseppe; Lavoro: Cassiani avv. Gennaro; Assistenza postbellica Cacciatore ing. Luigi; Carignani avv. Giovanni; Commercio con l’estero: Chiostergi prof. Giuseppe; Marina mercantile: Montalbano prof. Giuseppe.

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella tornata odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni sotto elencate e concorrendo negli eletti le qualità richieste dalla legge elettorale, ha dichiarato valide le elezioni dei seguenti deputati:

per il collegio I (Torino, Novara, Vercelli): Calosso Umberto, Fornara Pierino, Carmagnola Luigi, Jacometti Alberto, Bonfantini Corrado, Luisetti Virgilio, Carpano Maglioli Ernesto, Giua Michelino, Togliatti Palmiro, Secchia Pietro, Roveda Giovanni, Moscatelli Vincenzo, Leone Francesco, Scarpa Sergio, Scalfaro Oscar, Pastore Giulio, Colonnetti Gustavo, Bertola Ermenegildo, Pella Giuseppe, Bovetti Giovanni, Stella Albino Ottavio, Geuna Silvio, Quarello Gioachino, Einaudi Luigi;

per il collegio II (Cuneo, Alessandria, Asti): Longo Luigi, Lozza Stellio, Giolitti Antonio, Romita Giuseppe, Calosso Umberto, De Michelis Paolo, Grilli Umberto, Scotti Alessandro Filippo, Brusasca Giuseppe, Bertone Giov. Battista, Baracco Leopoldo, Bubbio Teodoro, Raimondi Giuseppe, Bellato Angelo, Giacchero Enzo, Einaudi Luigi;

per il collegio V (Como, Sondrio, Varese): Buffoni Francesco, Bernardi Adriano, Basso Lelio, Momigliano Riccardo, Mariani Enrico, Pajetta Giuliano, Morelli Luigi, Vanoni Ezio, Del Curto Giovanni, Tosi Enrico, Martinelli Mario, Ferrario Celestino;

per il collegio VI (Brescia, Bergamo): Montagnana Mario, Caprani Carlo, Cavalli Antonio, Bulloni Pietro, Montini Lodovico, Cremaschi Carlo, Belotti Giuseppe, Vicentini Rodolfo, Roselli Enrico, Bazoli Stefano, Mentasti Pietro, Ghislandi Guglielmo, Bianchi Costantino, Vischioni Felice, Bonomelli Oreste.

per il collegio XIX (Perugia, Terni, Rieti): Farini Carlo, Fedeli Armando, Pollastrini Elettra, Cingolani Mario, Ermini Giuseppe, Federici Maria, Nobili-Oro Tito, Binni Walter;

per il collegio XX (Roma, Viterbo, Latina, Frosinone): De Gasperi Alcide, Corsanego Camillo, Giordani Igino, Campilli Pietro, Dominedò Francesco, Bonomi Paolo, Andreotti Giulio, Di Fausto Florestano, Angelucci Nicola, Guidi Angela, Caronia Giuseppe, Conti Giovanni, Della Seta Ugo, Azzi Arnaldo, Grisolia Girolamo, Perassi Tomaso, Romita Giuseppe, Saragat Giuseppe, Nenni Pietro, Giannini Guglielmo, Patrissi Emilio, Togliatti Palmiro, Nobile Umberto, D’Onofrio Edoardo, Minio Enrico, Selvaggi Vincenzo, Bencivenga Roberto, Orlando Vittorio Emanuele, Nitti Francesco;

per il collegio XXII (Benevento, Campobasso): Colitto Francesco, De Caro Raffaele, Cifaldi Antonio, Bosco Lucarelli Giambattista, Camposarcuno Michele, Ciampitti Giovanni, Perlingieri Giovanni;

per il collegio XXIII (Napoli, Caserta): De Gasperi Alcide, Jervolino Angelo Raffaele, Leone Giovanni, Chatrian Luigi, Notarianni Giuseppe, Riccio Stefano, Titomanlio Vittorio, Caso Giovanni, Rodinò Ugo, De Michele Luigi, Porzio Giovanni, Corbino Epicarmo, Nitti Francesco, Labriola Arturo, Croce Benedetto, Crispo Amerigo, Sereni Emilio, Amendola Giorgio, Giannini Guglielmo, Venditti Milziade, Rodinò Mario, Coppa Ezio, Selvaggi Vincenzo, Bencivenga Roberto, Pertini Alessandro, Salerno Nicola.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e salvi i casi d’incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Sostituzione di Deputati dimissionari.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dimissioni dei Deputati Piero Montagnani e Niccolò Carandini, accettate ieri dalla Camera, ed ha proceduto all’accertamento dei candidati che, a termini dell’articolo 64 del decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74, seguono immediatamente l’ultimo eletto nella rispettiva lista, proponendone la proclamazione.

Pertanto al seggio lasciato vacante dall’onorevole Montagnani nella circoscrizione IV Milano-Pavia subentra il candidato Mezzadra Domenico.

Al seggio lasciato vacante dall’onorevole Carandini nel collegio unico nazionale subentra il Deputato De Caro Raffaele, già eletto altresì nella circoscrizione XXII Benevento-Campobasso, ove gli subentra il candidato Morelli Renato.

Opzione e sostituzione di Deputati eletti in più circoscrizioni.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella seduta odierna, ha preso atto delle dichiarazioni di opzione fatte da Deputati convalidati eletti in più collegi e ha proceduto per le circoscrizioni cui essi hanno rinunziato, all’accertamento dei candidati subentrati, proponendone la proclamazione.

Al deputato Alcide De Gasperi, che ha optato per la circoscrizione di Trento, subentra per la circoscrizione di Roma il candidato De Palma Giacomo e per quella di Napoli il candidato Numeroso Raffaele.

ÀI deputato Giuseppe Bettiol, che ha optato per la circoscrizione di Verona, subentra per la circoscrizione di Udine il candidato Gortani Michele.

Al deputato Ruggero Grieco, che ha optato per la circoscrizione di Lecce, subentra per la circoscrizione di Ancona la candidata Bei Adele.

Al deputato Umberto Terracini, che ha optato per la circoscrizione di Genova, subentra per la circoscrizione dell’Aquila il candidato Corbi Bruno.

Al deputato Giancarlo Pajetta, che ha optato per la circoscrizione di Milano-Pavia, subentra per la circoscrizione di Mantova-Cremona il candidato Bianchi Bruno.

Al deputato Giuseppe Saragat, che ha optato per la circoscrizione di Roma, subentrano il candidato Grazi Enrico per la circoscrizione di Siena e il candidato Lupis Giuseppe per la circoscrizione di Catania.

Al deputato Giuseppe Romita, che ha optato per la circoscrizione di Cuneo, subentra il candidato Carboni Angelo per la circoscrizione di Roma.

Al deputato Umberto Calosso, che ha optato per la circoscrizione di Torino, subentra il candidato Chiaramello Domenico per la circoscrizione di Cuneo.

Pongo ai voti queste proposte.

(Sono approvate).

S’intende che da oggi decorre, nei riguardi dei nuovi proclamati, il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali proteste o reclami.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lussu. Ne ha facoltà.

LUSSU. Onorevoli Colleghi, chi ha vissuto questi ultimi vent’anni di lotta politica molto intensamente ha il dovere di esprimere le preoccupazioni e le ansie sulla presente situazione generale politica, sulla ancora nascente, debole democrazia italiana e sulla stessa vita del nostro Paese.

Mi sia consentito prima di tutto fare un rilievo breve su questa strana forma di provvisorietà che si è data al Capo dello Stato. Il Capo dello Stato si chiama Capo provvisorio dello Stato. Perché provvisorio? Sembrerebbe che non è provvisorio solo il Capo, ma persino lo Stato, cioè la Repubblica. (Commenti). Vero è che noi viviamo in un periodo eccezionale, che ha la durata di otto mesi, diciamo pure di un anno; ma entro quest’anno, prima della convocazione del futuro Parlamento, è chiaro che in realtà niente è provvisorio. Non è provvisorio questo Governo, che è il Governo legittimo della Nazione; non è provvisoria quest’Assemblea, che è l’Assemblea Costituente sovrana eletta a suffragio universale e liberamente; e non è provvisorio il Capo dello Stato. E tanto meno è provvisoria una carica, con questo carattere di provvisorietà che sembra suonare instabilità e interinato, ricoperta da un uomo verso il quale per le sue alte qualità convergono la fiducia e la speranza della Nazione. (Vive approvazioni).

Non è una questione di forma; è anche una questione di sostanza; e in politica la questione di forma, come spesso avviene in altre manifestazioni dell’attività umana, è anche questione di sostanza.

Per questa identità di forma e di sostanza, parecchi fra di noi avrebbero preferito vedere il Capo dello Stato, il primo Presidente della Repubblica Italiana, anziché vagare come un inquilino non fortunato fra Montecitorio, Palazzo Madama e Palazzo Giustiniani, entrare alla sua vera sede e casa: al Quirinale.

Il Paese e la Repubblica hanno bisogno non di provvisorietà, ma di stabilità. Io mi auguro che il Governo, d’accordo con questa Assemblea, trovi il sistema di riparare a questo inconveniente.

E poiché questo è il primo Governo che si costituisce nella Repubblica ed è questa la prima crisi che si risolve, mi sia consentito anche esprimere una critica alla forma con cui questa crisi è stata condotta, cioè al comportamento fra il designato a costituire il Ministero e quest’Assemblea.

Prima di questo Ministero, il designato a costituire il Governo interpellava i capi e le direzioni dei partiti politici, ed era naturale: non vi era il Parlamento, e solo i partiti politici allora militanti nella democrazia rappresentavano obbligatoriamente il Paese. Oggi c’è quest’Assemblea, la quale è anche Parlamento. Quando il Capo dello Stato quindi dà incarico al Primo Ministro designato a costituire il nuovo Governo, il Primo Ministro designato si deve rivolgere ai rappresentanti parlamentari di quest’Assemblea e non alle direzioni dei partiti politici. Anche questa è una questione di forma e di sostanza. Noi sappiamo perfettamente che i partiti politici sono rappresentati in seno ai gruppi parlamentari in quest’Aula, che le direzioni stesse vi sono in gran parte rappresentate e quindi le direzioni politiche sono in perfetto accordo con i gruppi parlamentari; tuttavia la direzione politica del partito è una cosa e questa Assemblea è un’altra. È su questo che io desidero richiamare l’attenzione del Governo e della stessa Assemblea. E cito l’Inghilterra come esempio, non già perché l’Inghilterra debba guidarci in questa materia, ma certamente in materia di abitudini parlamentari e di princìpî costituzionali l’Inghilterra può essere di guida per diversi paesi e il suo esempio può servire agli altri.

Voi ricorderete il grosso scandalo recentemente scoppiato alla vigilia delle elezioni in Inghilterra quando il Signor Laski, Presidente del Comitato nazionale esecutivo del Labour-Party, è intervenuto, poco prima della conferenza di Potsdam, sul comportamento di Attlee, chiamato da Churchill a partire con lui per la conferenza. Ebbene, una grande offensiva elettorale fu scatenata da Churchill nei giorni 2 e 3, alla vigilia delle elezioni politiche del 5 giugno, tanto che Attlee dovette intervenire contro il rappresentante del partito conservatore per dimostrare infondata la preoccupazione che influenze estranee al Parlamento toccassero la volontà del Parlamento stesso e la sua emanazione, il potere esecutivo. Attlee dichiarò testualmente: «In nessun tempo ed in nessuna circostanza la Direzione del partito ha avuto intenzione di dare istruzioni al gruppo parlamentare del Labour Party a cui il Presidente del Comitato esecutivo nazionale non ha diritto di dare istruzioni».

Ho fatto questo rilievo perché ritengo che all’inizio della ricostruzione della nostra vita costituzionale e parlamentare democratica, noi dobbiamo incominciare bene.

Ed entro subito in merito alle dichiarazioni del Governo, toccando il problema della politica estera che giustamente il Capo del Governo ha esposto per primo, in quanto fondamentale. Questa è infatti la questione essenziale in questo momento. In tempi normali è la politica interna che influisce sulla politica estera, ma vi sono alcuni momenti, come quello che attraversiamo, in cui è la politica estera che può influenzare enormemente tutta la politica interna del Paese. Noi corriamo il pericolo che si sviluppi una forma morbosa di nazionalismo, che può essere un enorme danno. Di tutte le pesti, il nazionalismo è certamente la peste politica più contagiosa e quella che può essere la più fatale; è una malattia che peraltro si sviluppa sia presso i popoli vincitori, come noi vediamo in questo momento, sia nei popoli vinti; con questa differenza: che mentre nei popoli vincitori essa si sviluppa in progressione aritmetica, nei popoli vinti si sviluppa quasi sempre in progressione geometrica. Guai al nostro Paese se conoscesse questa peste! Sarebbe il crollo di tutto: non pace, non democrazia, non ricostruzione, non Repubblica né vita del Paese.

Certo, ci troviamo in una situazione terribilmente difficile: il nostro rappresentante, il rappresentante dell’Italia, proprio oggi, è chiamato affrettatamente a Parigi, chiamato così come si chiama l’imputato per mezzo di usciere. L’episodio ci dimostra in quale considerazione noi siamo tenuti.

La situazione è veramente drammatica: nessuno può invidiare questo Governo per la responsabilità che esso deve assumere in questi giorni.

La situazione presente è grave perché è tutta viziata da un fatto fondamentale: le grandi Potenze, tutte, nessuna esclusa, sono entrate nella guerra trascinate dalla difesa necessaria dei propri interessi, anche se qualche volta legittimi; ma hanno dovuto fare appello, per avere la coscienza del mondo con loro – e soprattutto quella dei popoli oppressi – a princìpî e verità universali. Ed hanno certamente parlato in buona fede Roosevelt e Churchill dal piroscafo Potomac nell’Atlantico, quando è stato lanciato il grande messaggio dei quattro punti. Hanno certamente parlato in buona fede tutti, nel momento del pericolo. Essi, cioè, hanno saputo – così come facevano e fanno tutt’ora gli onesti integerrimi commercianti quacqueri e facevano i grandi banchieri di San Giorgio – conciliare i loro affari con la loro coscienza.

Quest’appello ha dimostrato come i grandi artefici della vittoria siano stati capaci di sconvolgere l’opinione e la coscienza del mondo.

Poi, passato il pericolo, che cosa è avvenuto? Una politica egoistica: ognuno si preoccupa dei propri interessi. La politica non è morale, e tanto meno la politica estera. Per questo, noi ci troviamo in una situazione che pare non presenti soluzioni possibili, che pare senza rimedio.

Ma sia consentito a noi che siamo chiamati a firmare questo trattato di pace e, con la firma, a dichiarare implicitamente che noi tutti, tutto il popolo italiano, siamo responsabili del fascismo e della guerra, sia consentito di esprimere le nostre idee. Vediamo un po’ rapidamente le responsabilità sul fascismo negli anni immediatamente precedenti alla guerra. Chi ha vissuto quel periodo non può dimenticare. I dirigenti responsabili della Francia signor Daladier e dell’Inghilterra signor Chamberlain, i rappresentanti di queste due grandi Nazioni che, per le loro alleanze e le loro amicizie, avevano la chiave della situazione europea, hanno fatto esclusivamente una politica di incoraggiamento al fascismo per trascinare le grandi potenze fasciste, per trascinare la Germania, anzitutto, alla guerra e all’aggressione contro la Russia Sovietica. Monaco è opera loro. La guerra è opera loro.

Lo storico fra cinquant’anni non vedrà niente di queste cosiddette nostre responsabilità, che diventeranno un piccolo granello di sabbia nel deserto, vedrà solo la manovra compiuta dalle grandi potenze contro la Russia sovietica.

È stata fatta una politica di incubazione del fascismo. Il signor Churchill, il signor Daladier, hanno fatto con Hitler esattamente quello che ha fatto in Italia Giolitti con Mussolini. Mussolini era incapace di covare, da sé, l’uovo fascista. Giolitti credeva di poter allevare Mussolini: lo riscaldò, lo accarezzò, lo portò persino con sé trionfalmente alle elezioni politiche, sicuro di servirsene per domare il partito socialista; ma l’uccello ha dimostrato quello che era, e noi sappiamo che cosa è successo. Lo stesso è stato fatto dai grandi per l’uovo nazista in Germania. Senza ciò, Hitler, non si sarebbe mai potuto affermare né in Germania, né in Europa, e tanto meno avrebbe potuto sconvolgere tutto il mondo. Il cuculo, che pare sia un uccello di rapina, non è capace di covare le sue uova. Le depone nei nidi altrui e sono le miti pernici, le dolci quaglie e le tortorelle tubanti che le covano; e poi l’uovo si schiude e l’uccello sviluppa il becco e gli artigli e spicca il volo.

Io pregherei gli onorevoli colleghi tutti di qualunque settore politico, e pregherei il Presidente del Consiglio e Ministro degli esteri, di leggere un libro apparso il 1943 in Inghilterra, il libro di un giornalista inglese, Cassius, col titolo di «Trial of Mussolini», che è apparso anche in edizione italiana, recentissimamente, con questo titolo: «Un inglese difende Mussolini». In questo libro sfilano tutti i grandi inglesi, Sir Austin Chamberlain, Lord Rothermore, Neville Chamberlain, Lord Simon, Sir Samuel Hoare, Lord Halifax, Amery, Duff-Cooper, lord Mottiston, Hore Belisha e lo stesso Churchill, che consideravano Mussolini come un caro figliolo e lo accarezzavano e gli stringevano la mano e lo abbracciavano, lo incoraggiavano, lo appoggiavano, lo sostenevano, mentre qui in Italia Matteotti veniva assassinato, a Roma, mentre poco dopo Amendola moriva a Cannes in seguito all’aggressione fascista (onorevole Bencivenga, ricordate, perché eravate suo compagno di gruppo e sedevate nel suo stesso settore) e poco dopo Gobetti moriva in esilio, e poi Turati e Treves andavano in esilio e vi morivano, Modigliani in esilio, Don Sturzo obbligato ad andare in esilio, Lucetti condannato all’ergastolo, e fucilati Sbardellotto e Schirru che avevano tentato di sopprimere Mussolini.

E poi tutto il resto: l’antifascismo contro la guerra d’Abissinia, le formazioni volontarie repubblicane contro Franco in Spagna, l’assassinio in Francia di Carlo e Nello Rosselli uccisi dai fascisti francesi e italiani… Tutto questo non è nulla di fronte all’innumerevole serie di martiri, qui e all’estero, in carcere o fuori, e di migliaia d’altri che hanno complottato, rischiato e sofferto, come la gran parte di voi onorevoli membri del Governo, come la gran parte di voi, onorevoli colleghi di questa Assemblea.

V’è il popolo spagnolo. Non esiste nessun popolo nel mondo che abbia combattuto per la libertà più del popolo spagnolo. Eppure esso da circa sette anni subisce il terrore di Franco e non può liberarsi. Chi potrebbe accusare il popolo spagnolo di essere responsabile del regime fascista di Franco? E si può rendere responsabile questo nostro popolo che ha subito il fascismo col colpo di stato, con le leggi eccezionali, con il terrore? Neppure gli Alleati hanno sempre pensato questo.

Nel messaggio di Heisenhower al popolo italiano del 29 luglio si dice: «Italiani, noi veniamo da liberatori». Cioè veniamo a liberarvi dal fascismo che vi opprime.

Il popolo italiano è vittima, non complice.

Il messaggio del Presidente degli Stati Uniti di America e del Primo Ministro della Gran Brettagna del 16 luglio 1943 agli italiani dice: «Italiani assoggettati da Mussolini e dal suo regime». Assoggettati! Il popolo ha accolto da liberatori gli Alleati in Sicilia, in Calabria, a Roma, dovunque. Come liberatori, non come giustizieri. E lo stesso messaggio che io ho citato pocanzi finisce in questi termini: «È giunta per voi l’ora di decidere se gli italiani devono morire per Mussolini o per Hitler, o vivere per l’Italia e per la civiltà».

In quel «vivere» c’è involontariamente del sarcasmo!

Ebbene il popolo italiano ha deciso non già di morire per Hitler o per Mussolini e tanto meno di vivere per sé, ma ha deciso di morire per l’Italia e per la civiltà. Ed è sorto il grande movimento partigiano, sorretto da tutto il popolo, nelle città e nella campagna, volontà di liberazione scaturita dalla coscienza nazionale. E non ha atteso Norimberga il popolo italiano per applicare l’estrema sanzione contro i massimi responsabili. Ed ha spodestato la dinastia, responsabile del fascismo e della guerra, che pure aveva. profonde radici nel popolo italiano e nella sua storia.

Certo, se la Corona avesse fatto il suo dovere e, vista la tragica situazione del Paese, avesse volontariamente abdicato nell’interesse della Nazione, un governo repubblicano non responsabile né del fascismo, né della guerra, avrebbe potuto rappresentare il Paese e non si sarebbe avuto quell’armistizio che è veramente un miserevole tentativo di salvataggio personale ai danni della nazione.

Tuttavia l’atto aggiuntivo dell’armistizio, il cosiddetto documento di Quebec, dice che le condizioni dell’armistizio sarebbero state modificate in favore dell’Italia, ma che questa modifica dipendeva dalla entità dell’apporto dato dal governo e dal popolo italiano.

Il Presidente del Consiglio, alla Consulta, ha citato il documento di Quebec.

Ebbene, gli Alleati debbono chiedersi: poteva il popolo italiano nelle condizioni in cui si trovava, fare di più? Poteva fare uno sforzo maggiore? E qui il Presidente del Consiglio francese, che è stato il Capo del movimento di resistenza in Francia, può fare il confronto fra la situazione italiana, in cui il fascismo esisteva da 23-24 anni, e quella francese, dove il fascismo di Laval e di Petain esisteva da soli tre anni, e dire se l’Italia poteva fare di più. Neppure la Francia, in quelle condizioni poteva fare di più. Anche la Francia è stata liberata dopo le grandi battaglie date dalle grandi armate alleate sul suo territorio. Un uomo politico della Conferenza dei Quattro, al Lussemburgo, secondo quanto scrive Il Popolo di Roma,e pare si tratti di Bidault – avrebbe detto che, in fondo, bisognava che l’Italia non avesse fatto la guerra. Ma lo stesso poteva dirsi per la Francia di Napoleone III, nel 1870. La Francia ha fatto la guerra che Napoleone III voleva non il popolo francese. Ha dovuto capitolare e firmare, ma di fronte a sé aveva Bismarck e l’imperialismo germanico, mentre noi abbiamo le grandi democrazie, che non possono dimenticare che la democrazia costituisce una costruzione universale che non consente compartimenti stagni.

Io credo che, se le conclusioni dei Quattro dovessero rimanere immutate, l’Italia si troverebbe in questa miserevole situazione: senza pace con nessuno, senza pace con la Francia ostile, senza pace con gli Stati Uniti d’America, non ostili ma quasi, senza pace con l’Inghilterra, senza pace con la Russia Sovietica, senza pace con la Jugoslavia. Ed allora che cosa sarebbe il nostro Paese? Una specie di campo di battaglia riservato alle altrui manovre e battaglie, così come è avvenuto dalla fine del secolo XV in poi: settore avanzato in cui gli eserciti dei blocchi in contrasto si disputerebbero il terreno palmo a palmo, lontani dalle proprie frontiere, a protezione dei loro territori nazionali: gli uni per arrivare alla Russia, questa per arrivare al Tirreno. In queste condizioni quale politica estera potrebbe fare l’Italia? Nessuna. Non ne potrebbe fare nessuna. Oppure, se dovesse fare una politica estera, dovrebbe fare quella di un blocco contro un altro ed armarsi fino ai denti per fare da satellite a questo blocco. In queste condizioni, mille volte, centomila volte meglio sarebbe sciogliere l’esercito, la marina, l’aviazione, i ministeri delle Forze armate e dichiarare l’Italia neutrale per dieci, cinquant’anni, cento anni, finché, migliorata la situazione, potesse riprendere la sua azione indipendente. Una Svizzera in grande. Io so che questo potrebbe sembrare un paradosso. Certo, appare un paradosso. Ma, in una situazione così difficile come la presente, in cui tutto è sconvolto, il paradosso è ancora l’unica forma di ragionamento che il buon senso può fare.

Presidenza del Vicepresidente TERRACINI

La Francia s’è posta come mediatrice, e abbiamo visto cosa ne è venuto.

Parecchi, in questa Assemblea, ed io tra essi, considerano la Francia più che una Nazione amica, una seconda Patria. Quindi, io parlo esattamente come parlerebbe un cittadino francese democratico. Mai, alcuno di noi ha sentito parlare di rivendicazioni; mai, durante i venti anni di regime fascista. All’inizio della guerra, siccome gran parte degli emigrati italiani volevano offrirsi in formazioni volontarie per essere impiegati sul fronte tedesco, il signor Daladier fece una dichiarazione ufficiale di cui è certamente traccia al Quai d’Orsay, nella quale affermava che mai la Francia, uscita vittoriosa dalla guerra d’aggressione fascista, avrebbe chiesto qualcosa al popolo italiano.

Ritengo che su questo il Conte Sforza potrebbe dire qualche cosa. Anche durante la guerra nei contatti che abbiamo avuto col movimento di resistenza francese, con «Libérer-Fédérer» e con «Franc-Tireur» con «Combat», con «Libération», ci è stato dichiarato sempre che mai la Francia avrebbe chiesto rivendicazioni all’Italia.

Poi, attraverso varie tappe ufficiali, si è arrivati a Briga, a Tenda e al Moncenisio. Queste sono piccolezze, sono quisquilie, di fronte al grande problema della Venezia Giulia. Tuttavia hanno importanza, perché non sono soltanto tre località con poca popolazione attorno; ma sono tre punti di alta montagna, sono punti strategici, che in mano nostra sono difensivi, poiché alle nostre spalle c’è la vallata italiana da Cuneo a Torino, mentre in mano francese sono punti offensivi. Dietro i francesi, vi è tuttora una serie di settori difensivi per arrivare a Tolone, città industriale e base navale, e, per arrivare a Lione, la grande città industriale, una serie di montagne e di vallate scoscese. Sono punti di importanza strategica, esclusivamente strategica. Si tratta della difesa del nostro territorio nazionale.

Si dice che Linceo da un porto della Sicilia occidentale contasse le barche e le navi, che uscivano dal porto di Cartagine. Un uomo messo in piedi su quei punti, con un cannocchiale, può contare e riconoscere i cittadini che escono a passeggio a Cuneo, a Pinerolo ed a Torino.

Il signor Bidault ha interposto i suoi buoni uffici per la Venezia Giulia.

Io mi permetto qui di citare l’articolo 46 della Costituente francese, la quale dice: «La Repubblica francese non ha da intraprendere alcuna guerra a scopo di conquista, e non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di nessun popolo».

Le libertà di un cittadino sappiamo quali siano: libertà di parlare, di credere, diritto di vivere da eguale, diritto alla protezione della legge, diritto all’integrità della sua persona e alla sua dignità umana. Ma per un popolo, per una nazione, la libertà è la sua indipendenza, la sua sovranità, l’integrità del suo territorio nazionale.

Toccherò, se la Camera mi consente un po’ d’attenzione, brevissimamente, la questione delle colonie. Di esse si parlerà fra un anno, e frattanto, nell’attesa, le Potenze occupanti penseranno alla loro amministrazione.

Ma ecco che cosa si prepara. Il Times, in una corrispondenza da Tripoli in data 5 di questo mese pubblica: «Azam pascià, segretario generale della Lega Araba non fa mistero del suo compito di armare la resistenza contro gli italiani. Se un mandato venisse concesso all’Italia, una esplosione araba scoppierebbe in tutto il Medio Oriente; presso Ibn Saud in Palestina, in Siria, nel Sudan».

Noi sappiamo che cosa questo significhi o possa significare.

Io sulle colonie personalmente credo di non aver proprio nulla da nascondere. Ho sempre considerato il problema coloniale come il problema del disastro. Ero ancora un giovanetto quando vi fu la guerra che portò alla conquista della Libia. Ma pensavo così fin d’allora. L’Italia era troppo giovane, nata da troppo poco tempo all’unità nazionale per affrontare avventure coloniali. Non così dovevamo investire tutti i frutti del nostro lavoro. Con le colonie, noi rischiavamo di perdere anche la Metropoli.

Con le colonie, comincia l’idea imperiale, l’idea delle grandi conquiste che s’impongono una dopo l’altra. Come Massaua ha portato Crispi alla guerra contro l’Abissinia, e alle leggi eccezionali in Italia, così la Libia ha portato Mussolini a una nuova guerra con l’Abissinia e poi alla guerra mondiale.

Io credo che, se il giorno in cui il bastimento della compagnia Rubattino doveva partire per Assab nel 1883, Rubattino lo avesse ancorato nel porto di Palermo ed avesse fatto una gita di piacere o di affari in Svizzera, le fortune del nostro Paese si troverebbero in migliore stato.

È dalla questione coloniale che è dipesa una serie di disastri per il nostro Paese, che hanno portato alla situazione odierna. Tuttavia, se questa è l’opinione di un democratico italiano, discutibile o accettabile a seconda dei diversi punti di vista, io mi chiedo chi, in Europa e nel mondo, può trovar giusta e accettabile la soluzione che si vuole dare al problema coloniale italiano. In mano di chi vanno a finire queste nostre colonie? Se il problema coloniale doveva essere affrontato e risolto, bisognava affrontarlo e risolverlo nell’interesse della pace durevole, della ricostruzione comune, nell’interesse generale, europeo e universale, nell’interesse dei popoli colonizzati, per la loro autonomia, per il loro auto-governo con la protezione degli europei e di alcuni loro diritti, e non già nell’interesse particolare di uno o più Stati. La soluzione del problema coloniale doveva toccare tutti, inglesi, olandesi, francesi, portoghesi, e non solo gli italiani. E tanto meno poteva giustificarsi questa lucrosa soluzione particolaristica, presentandola come una sanzione contro il popolo italiano, quale responsabile del fascismo e della guerra.

Certo, siamo stati liberati, e i più grandi sacrifici sono stati affrontati dagli Alleati; l’Inghilterra ha impegnato tutto il suo impero nella lotta. Ma, se io sono attaccato nella mia ricca casa da una banda di briganti e faccio appello agli altri, e li chiamo al soccorso, ed in mio aiuto viene un gruppo di generosi che mi salvano la vita, ma andando via mi svaligiano la casa, io sarò certamente riconoscente a questi miei salvatori, ma i miei eredi credo che saranno scarsamente grati per tanto valoroso salvamento.

Presidenza del Presidente SARAGAT

PATRICOLO. Questo è oltraggioso per l’onore del popolo italiano. (Commenti).

PRESIDENTE. Non interrompa!

LUSSU. Non capisco che cosa voglia dire l’onorevole interruttore. Io credo di fare un ragionamento abbastanza obiettivo, con assoluta serenità.

Una voce. Non ha capito niente!

PATRICOLO Avete capito bene voialtri!

LUSSU. Le nostre speranze erano puntate sui laburisti, sui socialisti inglesi. La loro vittoria elettorale sembrava anche nostra vittoria: il socialismo è libertà, è giustizia universale. Ma, mentre il partito laburista fa, nella libertà, un grande esperimento sociale verso cui è tesa l’anima di tutti i popoli e delle classi più sofferenti che attendono la liberazione dall’opprimente bisogno e dall’inedia, la politica estera britannica è fatta esattamente sulla falsariga dei predecessori. Il Sig. Attlee e il Sig. Bevin fanno la politica del Sig. Churchill, e del Sig. Eden: la politica del Foreign Office è rimasta la stessa.

Avevamo posto le nostre speranze nella repubblica dei Sovieti. Abbiamo avuto lo stesso risultato.

Sembra che per una legge di natura alle idee universali siano fedeli solo i filosofi e i piccoli popoli o i popoli vinti. Avevamo una grande speranza negli Stati Uniti: ci hanno aiutato enormemente in soccorsi, poi la bomba atomica li ha distratti. Ora, anch’essi sono ricaduti nella stessa complicata matassa diplomatica europea, press’a poco come gli Stati Uniti del Presidente Wilson, dopo l’ultima guerra.

In queste condizioni che cosa dobbiamo fare? Credo che il Governo non abbia ancora un’idea precisa; d’altronde la decisione va presa da quest’Assemblea: o firmare o non firmare. Bisogna cioè esaminare anche l’eventualità di non firmare. Io credo che noi dobbiamo serenamente, senza frastuono, senza retorica, senza gesti e senza dimostrazioni, esaminare freddamente il problema, anche in seduta segreta. Perché si tratta della nostra vita e del nostro avvenire; dell’avvenire di un Paese come il nostro, che fra qualche anno avrà cinquanta milioni di abitanti, e che per riprendere la sua vita, per riprendere i contatti con il mondo, per rivivere, ha anche bisogno del suo prestigio e del suo onore nazionale.

Credo che non si debba porre fin da oggi il problema così: siamo obbligati e dobbiamo firmare. È sbagliato. Noi dobbiamo esaminare il problema nelle sue due parti: firmare, se sarà necessario; vedere veramente se si può anche non firmare. Non serve tutto il baccano che si fa per le strade. Anzi sono convinto che per 50 anni noi non dovremmo mai più fare una dimostrazione di piazza per la politica estera. Questi bravi ragazzi che oggi strepitano per Trieste o per Trento, ci ricordano quegli altri bravi ragazzi che strepitarono per l’Abissinia, o per la Francia.

Io mi chiedo, per esempio, come faranno a firmare questi rappresentanti dei partiti di massa, i cui capi sono stati costretti dal fascismo a prendere le vie dell’esilio, o sono morti a causa del fascismo. Come fa la Democrazia Cristiana a firmare, quando Don Sturzo è stato obbligato a partire in esilio, in Francia, in Inghilterra e poi in America, mentre De Gasperi che gli è succeduto è stato arrestato, messo in carcere e poi obbligato a vivere durante 20 anni una vita modesta di traduttore di libri nella Biblioteca del Vaticano.

Come fa a firmare il Partito socialista, che dopo Matteotti ha avuto Turati e Treves morti in esilio, Buozzi assassinato dai tedeschi alle porte di Roma; Nenni in esilio, rappresentante della Seconda Internazionale (e quindi del Partito laburista inglese e del Partito socialista francese) combattente nelle brigate nazionali in Spagna contro il fascismo; un figlio – mi scuso di doverlo ricordare – fucilato dai tedeschi a Parigi, una figlia uccisa nei campi di concentramento in Germania. Come fa egli, che ha raccolto tanta luminosa eredità, a firmare così, semplicemente?

Come fa il Partito comunista, che ha avuto Gramsci, dopo tanti anni di tortura, morto in carcere, che ha avuto Togliatti e tanti altri ininterrottamente in esilio o in carcere?

Come fanno questi partiti di massa a firmare per il popolo italiano, per la parte del popolo italiano che essi rappresentano, cioè ad ammettere che sono effettivamente responsabili del fascismo e della guerra?

Come fa a firmare, e a dichiararsi colpevole il Partito repubblicano, che ha avuto per grande capo Eugenio Chiesa, milionario qui in Italia e morto misero in esilio, nella più modesta camera del più modesto albergo di Picardia? Come fa a firmare questo Partito la cui eredità, dopo la morte di Chiesa, è stato raccolta da Pacciardi, il quale ha comandato la Brigata Garibaldi in Spagna, alla difesa di Madrid contro i fascisti, e che è il simbolo dell’antifascismo?

E come fanno tutti gli altri partiti, come facciamo noi tutti, come fa quest’Assemblea a dire: «Firmiamo?» Come si fa a decidere una cosa simile in questa Assemblea, dove il suo Presidente ha trascorso la vita in esilio ed in carcere, e si è salvato, a Regina Coeli, insieme all’onorevole Pertini soltanto perché i compagni hanno preparato un’audace evasione? Come si fa a firmare in questa Assemblea in cui sono i figli di Matteotti, di Amendola, di Treves, i compagni di Carlo e Nello Rosselli, gli amici di Gobetti, in cui sono tante centinaia di valorosi rappresentanti dell’antifascismo militante e partigiano, senza offendere la vita e l’onore del nostro Paese?

La Francia dopo il 1870, ha dovuto firmare sotto la violenza di Bismarck; ma all’Assemblea di Bordeaux, se vi erano Thiers Jules Favre, Picard, Victor Hugo e parecchi altri che erano stati sempre avversi all’avventura di Napoleone e contrari alla guerra, vi erano anche gli orleanisti, i legittimisti, i bonapartisti, quelli che avevano servito da sgabello a Napoleone III°, vi erano anzi in maggioranza e fu precisamente questa maggioranza che pochi anni dopo, nel 1873, rovesciò Thiers per sostituirlo con MacMahon; in questa Assemblea non c’è nessuno, che io sappia, che abbia firmato o approvato le leggi fasciste o la guerra d’aggressione. Che io sappia, qui dentro nessuno è responsabile di questo. Occorre pertanto lungamente e freddamente esaminare l’una soluzione e l’altra.

A chiusura di queste considerazioni sulla politica estera io dirò brevemente all’onorevole De Gasperi che è giusto che egli sia rimasto ancora agli esteri. Egli ha fatto la politica estera ininterrottamente, col primo Governo Bonomi, col secondo Governo Bonomi, col Governo Parri e poi coll’ultimo Governo da lui presieduto. La nostra politica estera è la politica estera fatta dall’onorevole De Gasperi. Nessuno può dire che abbia fatto una politica personale, ma nemmeno una politica collegiale. Mai i grandi problemi di politica estera sono stati esaminati a fondo dal Consiglio dei Ministri: che io sappia, mai. Eppure è precisamente la politica estera che poneva l’obbligo del maggiore e più vasto controllo; non perché non si abbia perfettamente fiducia nella capacità, nella dedizione al lavoro e nella fede nei destini del popolo italiano dell’onorevole De Gasperi: tutti riconoscono queste sue grandi qualità morali e politiche; ma questo è un grave problema che due o dieci teste potrebbero vedere meglio. La differenza tra democrazia e dittatura è appunto questa: più teste,/una testa. Mai la politica estera è stata approfondita con un esame collegiale; bisognava farlo e bisogna farlo, da oggi in poi, ininterrottamente, fino a quando la nostra situazione non sarà chiarita.

Io credo che il Governo deve conoscere i problemi nella loro interezza e che i documenti segreti debbano essere portati anche a conoscenza di un collegio di Ministri. È necessario che più persone controllino questo problema, al quale è legata la vita del nostro Paese.

Mentre l’onorevole Nitti ieri ci raccontava la sua esperienza vissuta, io mi sono ricordato del suo libro «Democrazia» in cui rivela che, in Italia, la politica estera è stata fatta sempre dal Re, dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli Esteri: solo tre persone. E quando il Presidente del Consiglio era anche Ministro degli Esteri era fatta da due persone; e quando il Presidente del Consiglio era un uomo piuttosto debole, era fatta soltanto da una persona. Ora, la politica estera deve ritornare ad avere un controllo collegiale permanente. Io credo che debba essere controllata anche dalla Commissione dei trattati internazionali.

L’onorevole De Gasperi ha detto altre volte che non c’erano carte in tavola. Ebbene qualche carta in tavola io credo che ci fosse. Non c’erano armi da poter impugnare; ma c’erano carte da poter giocare. Credo che questo fosse veramente nelle nostre possibilità. C’erano carte da giocare sia per le Colonie, sia per la Venezia Giulia, sia per Briga e Tenda. Credo che si potevano fare parecchie cose sia presso l’opinione pubblica, sia presso i dirigenti in Russia, in Jugoslavia, in Francia, in America.

Io vi chiedo che cosa mai ha fatto il Governo per illuminare l’opinione pubblica e i dirigenti politici in Francia, in Russia, in Inghilterra e in America: si è avuta solo l’opera dei nostri ambasciatori, che è ben poca cosa. Solo in America si è avuta una attività straordinaria, ma lo si deve all’opera volontaria della nostra grande emigrazione.

V’è il problema del Ministero degli esteri. Io credo che l’onorevole De Gasperi non avrà molto tempo da dedicare alle riforme da introdurre in questo Ministero degli esteri, il quale è in mano ad un personale che non è cattivo ma è cresciuto nell’ambiente fascista ed è, anche senza rendersene conto, imbevuto di fascismo, di criteri nazionalistici, non democratici. A Palazzo Chigi, al centro, e nelle sue diramazioni diplomatiche e consolari, il personale del Ministero degli esteri è lo stesso che ha rappresentato l’Italia durante il regime fascista. Bisogna veramente riformare tutto. Bisogna adattare la nostra diplomazia alle esigenze della nuova Repubblica, che non fa una politica nazionalistica e imperialistica. I nostri diplomatici e i nostri agenti consolari, in fondo, sono lo specchio, attraverso il quale i popoli e i governi presso cui sono accreditati, vedono il volto del popolo italiano e del suo regime. È quindi necessario fare opera di trasformazione non per punire, sia ben chiaro. È un dovere che deve essere compiuto nell’interesse superiore dello Stato e del Paese.

Accennerò a qualche altro problema, brevissimamente, poiché mi accorgo d’aver impiegato troppo tempo per esporre quanto credevo poter dire più succintamente. Avevo dedicato una parte particolare a voi (Accenna all’estrema destra), ma sarà per una altra volta.

L’attuale Governo doveva essere composto dei tre partiti di massa. Nella presente situazione nessuna altra combinazione era possibile. Il Governo dei tre partiti di massa era indispensabile. Si è voluto aggiungere anche il partito repubblicano, ma sarebbe stato forse meglio se esso fosse rimasto da parte a controllare lo sviluppo della nascente Repubblica, in una posizione di critica. Chi attacca il Governo a tre vuol dire che non si rende conto della situazione che si è creata. Questo Governo, se indispensabile, non è però Governo di democrazia normale, perché in esso non vi è una maggioranza omogenea, né ha di fronte una minoranza omogenea. La minoranza attualmente è eterogenea, scompaginata. In fondo, si continua, in altra forma, un po’ più accentuata, la stessa politica del Governo dei sei partiti, che era in crisi permanente perché in esso si era tre contro tre. Anche qui, i contrasti interni sono evidenti. E questa minoranza non potrà mai essere maggioranza. Se dovesse continuare in Italia questo Governo, se si avesse una formazione di questo genere per anni ed anni, si arriverebbe alla dittatura o all’anarchia permanenti.

Questo invece deve considerarsi come uno sforzo necessario di avviamento alla democrazia normale. È chiaro che noi dobbiamo prepararci ad una formazione politica in cui vi sia una maggioranza da una parte ed una minoranza dall’altra; una minoranza che sia tuttavia capace di diventare maggioranza e prendere il potere quando con la sua forza avrà rovesciato la maggioranza. Questo si avrà solo il giorno in cui vi saranno, se non come in Inghilterra ed in America, per esempio, due grandi partiti, due grandi schieramenti di partiti: uno di destra ed uno di sinistra che, nell’ambito delle leggi e della Costituzione, si alternino al potere, rispettando sempre la libertà della minoranza. Queste sono le possibilità future d’una normale vita democratica. Io vedo questo schieramento di domani, attraverso due grandi formazioni, una di destra ed una di sinistra, quella di destra imperniata sul partito della Democrazia cristiana con i partiti minori e affini, (Commenti) e quella di sinistra imperniata sul Partito Socialista intorno al quale saranno i partiti minori e affini. (Commenti). E si andrà verso la scomparsa dei piccoli partiti a vitalità piuttosto artificiale. A Roma, per esempio, durante le ultime elezioni del 2 giugno, vi erano 27 partiti, e Roma ha battuto Napoli che ne aveva 23.

Con amarezza ho constatato il modo con cui il Partito Socialista ha condotto e risolto la crisi di Governo. Un Partito socialista che non ha il Ministero degli interni, che non ha il Ministero della pubblica istruzione è in fondo un partito che non riesce a dare a questo Governo la sua azione e con essa la sua impronta politica. Io spero, nell’interesse della democrazia, che il Partito Socialista si riprenda e si dia una più viva azione politica e un maggiore prestigio. L’avvenire della democrazia, con la considerazione dovuta ai partiti minori, è basato principalmente sulla forza del Partito Socialista.

Il Partito Comunista anch’esso evidentemente non è uscita soddisfatto dalla crisi, perché, alla fine, l’onorevole Togliatti ha deciso di non partecipare al Governo. La verità è che chi è uscito bene da questa crisi è un solo partito, è il partito della Democrazia Cristiana. Chi ha vinto in questa crisi è la Democrazia Cristiana: ha vinto nelle elezioni del 2 giugno, ha stravinto in questo Governo.

Però l’onorevole De Gasperi non si faccia molte illusioni. Questa vittoria è molto preoccupante, e a mio parere dovrebbe preoccuparlo come una sconfitta.

Non è a caso quello che è accaduto l’altra sera, ed io voglio rammentarvelo. Questi avvenimenti sono pubblici e bisogna quindi parlarne pubblicamente per trarne degli insegnamenti. Avant’ieri, quando il Presidente del Consiglio, onorevole De Gasperi, Capo della Democrazia Cristiana, è entrato in questa aula e quando ha fatto le dichiarazioni del Governo, è stato applaudito solo dal settore della Democrazia Cristiana, tanto più calorosamente quanto più glaciale era la riservatezza e la compostezza di tutti gli altri settori. Non hanno applaudito neppure i socialisti, neppure i comunisti ed i repubblicani, che pure appartengono alla coalizione governativa.

Queste cose devono preoccupare l’onorevole De Gasperi. Perché egli che ha tanta simpatia in ogni settore di questa aula, egli che annovera tanti amici che lo stimano, è stato così accolto? Perché il troppo storpia. Perché non è stato rispettato il senso della misura: quello che nella vita privata si chiama senso del pudore, e si è troppo esagerato. L’onorevole De Gasperi, che ha le antenne della sensibilità politica molte sviluppate, cercherà di ripararle man mano che vedrà le cause che hanno creato questo ambiente di freddezza. Se andrà a fondo si accorgerà che una delle cause è da ricercarsi nelle elezioni. Il modo con cui esse sono fatte ha creato una forma di irrequietezza e di preoccupazione nel Paese, un po’ da per tutto, ma specie nel Mezzogiorno e nelle Isole. Se l’onorevole De Gasperi controllerà, vedrà che nelle elezioni del Mezzogiorno e delle Isole è avvenuto un grande scandalo. Tutti i parroci in Sardegna, per esempio, tranne una ventina (si conoscono tutti), hanno fatto propaganda contrariamente alla legge, all’articolo contemplato nella legge elettorale politica che commina una grave sanzione penale per i sacerdoti che nell’esercizio del loro ministero fanno propaganda a favore d’una lista. (Interruzioni). Nelle chiese, nel confessionale, nella spiegazione del Vangelo, i parroci hanno obbligato esercitando un vero e proprio terrore spirituale, a votare per una lista: quella della Democrazia Cristiana. (Interruzioni – Commenti).

CREMASCHI. Non è vero!

LUSSU. Io ho il dovere in quest’Assemblea politica, che non ha funzioni giurisdizionali, di ricordarlo.

CREMASCHI. È falso. Non si possono tollerare tali insulti da nessuna parte.

LUSSU. Tutto quello che dico qui è documentato. (Interruzioni – Commenti).

I parroci hanno fatto propaganda elettorale e violato la legge, ma aggiungerò che anche tutti i vescovi hanno violato la stessa legge. (Approvazioni – Commenti – Interruzioni al Centro).

Una voce. Hanno fatto il loro dovere! (Commenti – Interruzioni).

LUSSU. Aggiungerò che parecchi vescovi hanno pubblicamente incitato il loro clero a violare la legge. (Commenti). Io credo, Onorevole De Gasperi, che in questa mia critica non vi sia nulla di personale. È una critica che ha la relativa documentazione precisa. Ma io credo che in queste cose bisogna vedere una di quelle cause della freddezza glaciale di cui ho prima parlato. (Interruzioni). Ecco perché parecchi qui dentro sono preoccupati e per il Ministero dell’interno reclamato dall’onorevole De Gasperi, e per il Ministero della pubblica istruzione anch’esso reclamato dalla Democrazia Cristiana.

Una voce. Dovevamo darlo a voi?

LUSSU. Questa preoccupazione è tanto più forte quanto più noi tutti sappiamo che la Chiesa Cattolica non è un’organizzazione anarcoide, ma ha le sue gerarchie responsabili.

Quindi, il Paese è giustamente preoccupato e saranno maggiormente preoccupati gli onorevoli rappresentanti in questa Assemblea, compresi quelli della Democrazia Cristiana specie gli onorevoli colleghi che, non vivendo a Roma, hanno difficoltà di controllare i giornali esteri, quando sapranno che in Francia il Capo del Governo, signor Bidault, (che è stato il capo della resistenza ed è il capo della Democrazia Cristiana in Francia, come l’onorevole De Gasperi, lo è in Italia) ha dato i dicasteri dell’interno e della pubblica istruzione ai socialisti. (Commenti al centro).

Vado verso la fine, per quanto su questo argomento vi sarebbero parecchie altre cose da dire. (Commenti).

Chiedo scusa di aver così a lungo intrattenuto l’Assemblea: mi riservo di risollevare la questione in un altro momento.

Mi sia intanto consentito di fare un accenno all’Uomo Qualunque, senza spirito polemico e con la massima serenità possibile.

Non vi può essere un democratico responsabile, il quale non desideri che l’Uomo Qualunque diventi un partito, anche un grande partito della democrazia. Ma oggi, il partito dell’Uomo Qualunque non è un partito della democrazia. Non è questione dei malcontenti e di quelli che non hanno fatto mai politica. Il partito del malcontento è sempre esistito in Italia, anche in Roma attorno a Pasquino e Marforio. Credo che in tutta Italia vi sia stato sempre questo grande movimento o partito senza tessera dei malcontenti e dei critici, che si sarebbe potuto chiamare movimento o partito «piove, governo ladro!».

In fondo, se ne sarebbe potuto fare non un piccolo, ma un grande partito.

Ma ho l’obbligo di dire (ed il Governo ha l’obbligo di provvedere) che si sta ricostruendo il fascismo. Vi sono fascisti che si riorganizzano: hanno vere e proprie sezioni che organizzano dimostrazioni capeggiate da ex podestà, da ex segretari politici, da fascisti della prima ora. Anche gli ex federali si sono messi in agitazione, specie dopo il 31 marzo, epoca in cui l’epurazione si è chiusa con sanzioni che non sono mai state applicate.

Io chiedo a voi, onorevole De Gasperi, se avrete mai il tempo e la volontà di andare a fondo su questa questione.

Il paese è preoccupato, negli strati popolari, più sensibili, specialmente dopo il decreto di amnistia che ha voluto essere generoso e che ha ridato vita al fascismo. I fascisti tornano già a casa ostentando l’orgoglio di essere stati e di essere fascisti. Finché vi saranno uomini in Italia che si dichiareranno orgogliosi di essere stati fascisti e di esserlo ancora, non vi può essere riconciliazione seria.

Il Governo ha il dovere di andare a fondo perché c’è una legge che stabilisce che il partito fascista non si può ricostituire. Finora, non si è fatto nulla per porre riparo contro questo ritorno fascista, mentre l’epurazione è in gran parte fallita e l’amnistia ha sconvolto e non unito. La pietà nasce solo dalla giustizia.

La situazione generale io la vedo grave; trascuro di toccare altri problemi, quello della disoccupazione, della moneta, della vita impossibile, del mezzogiorno e delle isole che la fanno apparire ancora più grave.

Non pertanto dobbiamo avere fiducia in noi stessi. L’onorevole Nitti ha ieri parlato a lungo. Verso di lui va la devozione di molti in quest’Aula, comunque la mia, anche per la comunanza ideale di vita che mi legava ai suoi due grandi figli, morti così giovani in esilio. Ma devo dire all’onorevole Nitti: Voi siete stato un uomo di Stato, un onesto uomo di Stato. Ma non avete mai avuto fiducia nella grande capacità del popolo italiano, nella sua capacità di ricostruzione e di rinascita. Non l’aveste dopo l’altra guerra e non l’avete nemmeno ora.

Dobbiamo invece credere nella vitalità del nostro popolo, nelle sue possibilità di ripresa, dobbiamo aver fiducia in noi e nel nostro Paese.

Io credo che il nostro popolo, col lavoro dei suoi operai, dei suoi contadini, con il gioioso lavoro dei suoi artigiani, il talento creatore dei suoi tecnici e dei suoi scienziati, col suo pensiero universale possa illuminare di sé, ancora una volta – come spesso gli è capitato nella storia – la civiltà del mondo. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Labriola.

LABRIOLA. Pellegrinando, come probabilmente avrete fatto anche voi, fra i corridoi e i settori della Camera, in mezzo ai quali io mi sono sentito un poco esule, ho avuto un’idea: ho pensato che questa discussione meritasse un proemio. In generale le prefazioni non si scrivono quasi mai prima di cominciare il libro, ma si scrivono dopo o quando il libro si sta componendo.

Ecco perché vorrei servirmi di questo breve discorso, delle poche parole che mi propongo d’indirizzarvi, per eccitare fra i colleghi il desiderio di scrivere questa prefazione alla discussione attuale, della quale ieri l’onorevole Nitti componeva uno dei più interessanti capitoli.

Non mai, dal 1860 fino ad oggi, un’Assemblea italiana si è ritrovata in peggiori condizioni di questa. Si dice che noi siamo un’Assemblea sovrana; ma di che cosa? Onorevoli colleghi, il nemico di prima, le potenze militari occupanti sono stabilite nel nostro Paese e hanno persino il diritto di dare il loro consenso a determinati atti di governo, ed alla scelta degli stessi governanti. Le nostre facoltà di orientamento e di amministrazione, di organizzazione e di controllo sono ridotte ai minimi termini. Noi parliamo da liberi cittadini e da rappresentanti di un grande Paese; la realtà purtroppo è assai diversa. Certo, nelle condizioni attuali non vale la pena di farsi illusioni; ma nelle condizioni attuali si può fare qualche cosa che in un certo senso è ancora la migliore: tentare di comprendere il caso proprio. S’è detto tante volte che comprendere è già un superare, un vincere, almeno astrattamente, le difficoltà in mezzo alle quali ci troviamo. Del resto non tutto poi è così cattivo intorno a noi; vi è qualche elemento di speranza nella nostra situazione. Il migliore di tutti è indiscutibilmente che noi ci siamo trovati concordi nel proclamare la Repubblica. La Repubblica (e gli avvenimenti lo mostreranno) sarà la grande forza di coesione dell’Italia attuale; essa ha dato a tutti noi un’anima sola ed almeno in un punto ci ha tutti uniti. Una volta c’erano comunisti, socialisti, democratici cristiani, radicali e così via; oggi ci sono sempre i loro partiti, ma vi è per essi un denominatore comune nel fatto di esser tutti repubblicani. La Repubblica è dunque il grande legame che stringe oggi gli italiani (Applausi).

Altre volte si parlava della Repubblica come di un tema di letteratura. Noi desideravamo essere cittadini che avessero il pieno possesso delle loro facoltà e perciò appunto esprimevamo un desiderio di vivere in Repubblica. Le dispute che si accendevano spesso fra di noi, il più delle volte fra gli stessi socialisti, erano dispute che vertevano sulla tecnica utilità delle istituzioni repubblicane.

La presenza fra noi del mio grande amico Ivanoe Bonomi m’incita a ricordare le polemiche che io ebbi a suo tempo con lui e con uomini che io ho grandemente amato di riverente affetto come Filippo Turati e Claudio Treves. Il discorso peraltro verteva sul punto se delle idealità repubblicane per noi socialisti si avesse a parlare come di fatto concreto e immediato. Alcuni opinavano in un senso, altri in un altro. Non eravamo concordi; ed il Turati si mostrava molto esitante su questo punto della convenienza per i socialisti di un franco atteggiamento repubblicano. Credo che soltanto dopo l’avvento del fascismo egli sposasse apertamente la tesi repubblicana.

E ciò mi conduce a ricordare che nella mia Storia dei dieci anni mi accadde appunto di formulare un aperto atto di accusa contro la monarchia italiana che ho poi ribadito nelle mie più recenti Spiegazioni a me stesso, edite da un paio di mesi, e nelle quali quel tema politico della mia prima giovinezza è stato pienamente confermato. Ma naturalmente i pigri e gli svogliati, i malevoli ad ogni modo, troveranno sempre l’occasione di cicalare della mia, dicono essi, attitudine a variare. E dire che io mi trovo cosi monotono nella mia uniformità di pensiero!

Il processò alla monarchia può oramai essere passato agli archivi. Uomini come Carlo Cattaneo e Gabriele Rosa, come Federico Campanella e Brusco-Onnis ed Alberto Mario e più tardi Edoardo Pantano stesero questo processo. Possiamo semplicemente prenderne atto.

La stima della Repubblica va fatta al di fuori delle manchevolezze della monarchia; il suo valore sta per sé, ed è proprio questo valore che si tratta di stabilire.

Per la sua virtù interna di suggestione e di creazione, essa si dona un popolo di aderenti, i quali pur debbono su se stessi fare uno sforzo per venire alla repubblica. E perciò son da lodare. I democratici cristiani hanno forse fatto il sacrificio più ampio. Essi potevano ricordare che la gloriosa repubblica romana del 1849 dovette pur essere antipapalina e anticlericale, che non meno anticlericale è stata quella di Francia. Questi ricordi non hanno gravato su di loro; e in un giudizio delle necessità son venuti alla nuova istituzione.

Per i socialisti il problema era insieme più semplice e più complicato. Il socialismo mira a una società senza Stato ed il suo repubblicanesimo è contingente ed occasionale, non una veduta definitiva dell’assetto politico. Ma essi non hanno esitato e si son fatti i più fieri banditori dell’idea repubblicana. E così la Repubblica ha celebrato il suo primo e più grande trionfo nella scelta che essa ha fatto di un Capo come Enrico De Nicola, l’integro cittadino, l’uomo santamente dedito al proprio dovere, l’essere probo e disinteressato che alla repubblica è venuto non per un astratto giudizio, ma per un’alta spinta del cuore amante del proprio paese. Abbiamo cominciato bene.

Da questo felice incontro di circostanze, sorge la possibilità di proporvi la tesi che il problema della repubblica non è di pura forma. Qui non si tratta del Capo eletto invece del Capo ereditario. Qui si tratta di una specie politica, la quale è essa stessa sostanza e spirito di cose nuove. È solo nella repubblica che il cittadino diviene un essere sociale, persona consapevole immediatamente della sua appartenenza ad una collettività, dei suoi doveri verso di essa, delle sue personali responsabilità nello svolgimento della cosa pubblica. Nella Repubblica sentiamo che la cosa pubblica è la nostra cosa; sentiamo che l’essere collettivo è un frammento dello èssere individuale. In Repubblica, anche senza volerlo, l’individuo si abitua a questa grande idea: che la responsabilità degli affari pubblici tocchi specificamente anche a lui stesso. Domani non potremo dire più che gli errori dello Stato sono gli errori di Vittorio Emanuele III, oppure del suo evanescente successore. Male o bene, i responsabili siamo noi, e così apprenderemo prudenza e discernimento. (Approvazioni).

Le esitazioni intorno al decidersi per la forma repubblicana, nascevano dal dubbio che noi non avessimo una classe dirigente repubblicana già formata, come invece era accaduto in Francia dopo il crollo del secondo Impero. La nostra Repubblica ha vinto vittoriosamente questa prova, e l’assunzione di Enrico De Nicola alla suprema carica della Repubblica, è già un indizio che la Repubblica può contare su se stessa ed a sé bastare.

Con la repubblica abbiamo dato all’Italia l’unità. Divisi fra loro, comunisti, socialisti, cristiano-sociali, semplici democratici son pure tutti uniti nel sentimento della Repubblica. E quello che abbiamo detto dei partiti, può e deve ripetersi delle regioni. Esse formano oggi un sol corpo unificato. Alla vita e alla morte, per l’Italia e per la Repubblica. (Applausi generali).

E vengo al tema dei nostri rapporti con le potenze alleate. Si capisce che, essendo io un indipendente, delle cose che io dirò, rispondo soltanto io. (Applausi).

Io agli elettori mi sono presentato come repubblicano e come socialista. Il primo giorno in cui ebbi l’onore di entrare in questa aula dopo diversi anni, e gli anni che sono passati del resto voi li vedete scritti nel colore dei miei capelli… mi sento in obbligo di ripetere la stessa dichiarazione di fede.

Al nostro paese è veramente accaduto un fatto singolare.

Le Potenze fra di loro alleate, cioè che occupano militarmente il nostro paese, sono entrate in questo conflitto col duplice programma della eversione e distruzione del nazifascismo e della riduzione della Germania ad una condizione d’incapacità a riprendere una politica militare aggressiva. Del nazismo poco so, oppure so soltanto che esso in qualche misura ha risposto e tuttavia risponde a certe generali direttive del popolo tedesco ed alle sue aspirazioni di predominio. Del fascismo questa Assemblea testimonia, attraverso i propri rappresentanti, che esso non fu mai, non è in nessuna misura, l’interprete di sentimenti popolari o delle tendenze effettive del popolo italiano. Esso è, e ci è stato completamente estraneo (Applausi).

Se, dunque, ci riferiamo alla prima parte del programma che gli alleati della guerra contro la Germania hanno avuto, non comprendiamo come essi possano prendere verso di noi un atteggiamento diverso da quello della simpatia e dell’amicizia. Parve, nei primi momenti, che appunto così essi si sarebbero comportati; e come le loro trasmissioni radiofoniche c’inducevano a ritenerlo! Propaganda? È chiaro, ma anche la menzogna deve avere un volto umano. E questo ci induca ad essere più circospetti nell’avvenire… Il colonnello Stevens e l’«amico» La Guardia sono stati per noi dei buoni maestri. Singolarissimo è stato che le potenze, nostre nemiche nella guerra ed oggi occupanti il nostro territorio, non abbiano compreso che in una guerra antigermanica noi eravamo i loro naturali alleati.

Dall’anno 103 prima della nostra èra, quando Mario battè Cimbri e Teutoni in terra di Provenza, da quel giorno tutta la storia italiana è una storia antigermanica. Coloro i quali pensano che domani noi potremmo diventare alleati o complici del popolo tedesco in una impresa di rivincita, sanno di non dire la verità, anzi di mentire spudoratamente. La storia d’Italia è tutta una storia antigermanica.

È accaduto che scrittorelli e letteratucoli di Gallia e di Britannia ci siano venuti a domandare quale sia, quale fosse, la nostra missione storica. I vinti hanno sempre torto; i vincitori hanno sempre ragione. La causa dei vincitori è facile a sostenere; la causa dei vinti non riesce mai a chiarire le proprie ragioni. E poiché noi siamo dei vinti, dobbiamo rassegnarci a subire tutti i torti, fra cui anche quello di essere chiamati a mostrare le nostre carte di legittimità, che tutta la storia dimostra.

Ci hanno domandato di spiegare quale fosse la nostra funzione storica. Il guaio è che non conoscono la nostra storia. Questa Italia che apprese al mondo il Diritto e fu iniziatrice della civiltà contemporanea, questa Italia dove nacque il capitalismo e sbocciò la scienza moderna, deve star qui a spiegare perché essa ci sta nel mondo. Ma siamo dei vinti e stoltezze ed iniquità debbono essere il nostro guiderdone. Un razzismo antitaliano dilaga nel mondo, per opera dei vincitori, specie inglesi. I nostri soldati non si sanno battere, e noi siamo un popolo d’ignavi e di pigri. Così, c’informa il signor Ivor Thomas che si giudica di noi in Inghilterra. (Commenti).

Domandate qual è la nostra funzione storica. Dal 410, cioè da quando Alarico invase e devastò l’Italia, la nostra funzione è stata sempre la medesima: contenere i popoli di razza germanica e impedire ad essi di scendere nel Mediterraneo; conservare al Mediterraneo la sua piena libertà e in questo modo renderlo accessibile a tutti i popoli.

Se non parlassi ad uomini come voi, esperti di discipline storiche e sociali insisterei nei richiami storici, e dimostrerei come persino le piccole repubbliche marinare di Amalfi, Salerno e di Napoli, più tardi quella grande di Venezia, le prime fin dal IX secolo, l’altra sino a tutto il XVII secolo, non ebbero che una sola preoccupazione ed una sola funzione: impedire al mondo germanico di dilagare verso il mondo meridionale, conservare al Mediterraneo la sua accessibilità a tutti i popoli, la sua piena ed assoluta indipendenza. Questa è stata la missione storica dell’Italia e noi la rivendichiamo. Questa missione storica dimostra che l’Italia non è esistita solamente per sé, ma che essa si è prodigata per tutti i popoli della terra, a cominciare dai duri nemici di oggi: le potenze occupanti. La loro ingratitudine sembra ripetere quasi un destino della storia d’Italia.

Volete sbarazzarvi di noi, disarmarci, metterci in condizione di non poter più fabbricare cannoni e di avere una flotta? Va bene: il risultato quale sarà mai? Che noi diverremo inetti al nostro compito storico di contenere l’avanzata germanica e di tener libere le vie del Mediterraneo a tutti i popoli della terra. Si vuole proprio questo?

E chi sarà il nostro erede? La Francia? Ma la Francia, che se è una nazione latina quanto a lingua, dal punto di vista etnico è un conglomerato ligure – celto – germanico, non può assumersi i compiti nostri, che sono essenzialmente di un paese latino, e perciò antigermanico. Essa, dopo dieci secoli di lotte veementi con l’Inghilterra, oggi è interamente con essa pacificata, con l’Inghilterra che è anch’essa un popolo di sangue prevalentemente germanico. Del resto Hitler prevedeva possibile un accordo con la Francia, appunto perché di stirpe in prevalenza germanica.

E poi la Francia inclina sempre più verso l’Atlantico, che il suo vero mare. Il suo avvenire è piuttosto americano che antigermanico, e non vedo come essa adempirebbe ad un ufficio di tamponamento della discesa germanica verso il Mediterraneo.

Ciò spiega forse il suo tratto inamicale verso di noi. Perché essa diviene antitaliana e pone il piede sul nostro territorio, con intenzioni evidentemente, dal punto di vista militare, offensive? Preoccupazioni per noi non dovrebbe averne, a parte la stessa impotenza militare nella quale ci troviamo. Oggi sono al potere e prevalgono in Italia quelle forze popolari che furono sempre francamente orientate verso la Francia, forze repubblicane e democratiche che, avversando con tanta risolutezza Germania e Triplice Alleanza, fecero propria una politica di simpatia e di aperta amicizia verso la Francia.

Ma essa si fa sempre più «atlantica» e sì allontana sempre più dai fini di intese mediterranee; quindi della nostra amicizia non fa più conto.

Verità dolorose tutte queste, le quali un sol suggerimento dettano: stringerci fra di noi, fare un corpo solo, tenere il nostro popolo tutto unito intorno ai suoi fini nazionali di ricostituzione politica ed economica. Alla fase degli Stati intercontinentali, gli Stati semplicemente nazionali o locali debbono combattere una dura battaglia per sussistere. E con tutte queste favole di unioni internazionali, le quali non riescono nemmeno a mascherare i fini egemonici dei vincitori, far fede senza esitazione, risolutamente, alla propria gente. Non disperdersi, oggi, è la suprema necessità. (Applausi).

L’intercontinentalità degli Stati ci menerebbe – almeno così si dice – ad ottenere da ciascun popolo quello in cui può avere la maggiore efficienza. Così trionferebbe il principio dei costi comparati e della specificazione della produzione.

Il principio dei costi comparati, che mena alla libertà di commercio, vuole che ciascun popolo sia libero della sua attività, nel suo lavoro e nei suoi capitali.

Si afferma che l’intercontinentalità delle future conglomerazioni territoriali permetterà a ciascun popolo non già di fabbricare tutto e produrre qualunque cosa, ma esclusivamente quelle cose in cui ha una capacità superiore, un’assoluta superiorità.

Signori, il principio della specificazione territoriale della produzione suppone l’indipendenza di ciascun popolo e la sua più assoluta libertà di scelta. Quando la scelta è imposta da un superiore politico, non vige più il principio dei costi comparati ed il principio del libero scambio. In realtà in quel mondo viene a prevalere il principio delle culture obbligatorie. Già! Alcuni popoli dovranno fabbricare piccoli meccanismi, altri come il nostro, dovranno produrre cetrioli, pomodori e zucche. Non so se le barbabietole ci saranno permesse, perché si dice che saranno riservate alla Polonia.

Si farà dell’Europa quello che gli olandesi hanno fatto di Giava. Il principio delle culture obbligatorie fu introdotto dagli olandesi per colonizzare Giava; essi costringevano gl’indigeni a non produrre se non determinate derrate, e poi le compravano a prezzi d’imperio, che non coprivano nemmeno i costi sopportati dagl’indigeni. Il risultato è stato la permanente insurrezione di Giava contro gli olandesi, l’intima rivolta dei malesi contro i propri colonizzatori, e siamo presso un popolo di colore!

Questo avvenire riserbano i vincitori di oggi ai popoli vinti dell’Europa. E pertanto essi annunziano che alla Germania sarà interdetta l’industria pesante e che all’Italia non sarà permesso di costruire navi di grossa portata. Siamo al principio delle colture obbligatorie, un dì riservato dai grandi profittatori coloniali ai popoli di colore, ed oggi offerto come ultima concessione ai vinti popoli dell’Europa. Ed è questa la pace che si annunzia al mondo? È questo l’avvenire del nostro continente? Se a tanto arriveremo, l’avvenire del nostro continente, avrà un sol nome: la schiavitù. E sarà la schiavitù di tutti perché chi toglie la libertà agli altri comincia col toglierla a sé medesimo. Se questo accadesse, schiavitù e miseria sarebbero il prossimo destino del nostro continente.

Noi ci dobbiamo premunire. Alla intercontinentalità dobbiamo opporre la nazionalità.

Ma l’Italia dalle cento vite, e dalle superbe rinascite, non accetta questa condanna. Ed essa si salverà, stringendosi in sé stessa e provvedendo a fare di sé medesima una sola, possente unità. Fra venti anni saremo da capo e in piedi e peggio per chi avrà voluto umiliarci ed abbassarci. (Applausi).

Il problema è soltanto quello della forma che daremo alla nostra unione.

Il mondo si orienta verso il socialismo, anzi si è già orientato verso di quello. La questione consiste soltanto nel trovare il tipo di socialismo adatto a noi, capace di dare alla nostra unità il consolidamento necessario. Il socialismo è in tutti noi, nolenti o volenti che siamo. Voi stessi colleghi di questa parte della Camera lo portate in voi stessi. Molto socialismo c’è nel cristianesimo.

Una voce. Nel nostro spirito cristiano, non nel cristianesimo.

LABRIOLA. Lasciamo andare queste distinzioni. Ci sarebbe molto da dire. Dicevo dunque che anche voi siete trascinati verso il socialismo, verso questa corrente d’idee, di sentimenti e di forme entro cui si va riadattando l’umanità. Il socialismo non sarà il paradiso terrestre; sarà una cosa umana, adatta alla nostra inferiore condizione di uomini.

Il detto latino è che fata volentem ducunt, nolentem trahunt. Perché farsi trascinare? Accettiamo le indicazioni del destino e seguiamole. Esso dice socialismo – che è poi cosa diversa dalla socializzazione – e non ribelliamoci. Aggiungo che un’Italia riorganizzata e rifatta nel senso del socialismo, può essere un’Italia possente di salute e di coscienza. (Applausi).

Lo Stuart Mill, insieme teorico della Libertà e del Socialismo, prevedeva che l’avvenire dell’economia non era un capitalista padrone della fabbrica, ma i dipendenti associati che la conducono. Egli pensava alla cooperazione, e nella cooperazione vi è tanto Socialismo. Noi accettiamo per l’Italia la sua previsione che l’avvenire dell’economia è il Socialismo.

Non pensiamo ad un socialismo di tipo unico; la mia idea è un socialismo plurimo: cooperatore, sindacale, talvolta statale. Questo socialismo potrà essere insieme un grande promotore dell’attività economica e un difensore della libertà di tutti, le due cose che essenzialmente c’interessano.

Si è molto parlato in questi giorni di problemi economici di una prominente gravità: aumenti dei salari, limiti al crescere delle imposte, riduzione della circolazione di carta moneta. Con quanta facilità non si risolverebbero questi problemi se dovessimo affrontarli da un punto di vista socialistico! Oggi tutto è difficile, perché il dipendente non vuol darla vinta al proprio padrone. Se la produzione fosse condotta secondo uno spirito socialistico, il dipendente dell’industria s’imporrebbe esso stesso il limite, che poi è dato dal ricavato della stessa produzione, detratti i capitali e le spese generali, e non ci sarebbero richieste capaci di compromettere il livello delle industrie.

In questo senso del trovare le specie che possono consolidare l’unità nazionale e far dell’Italia un sol corpo unito e compatto per la resistenza e la conquista credo debba concepirsi la questione meridionale. Il Mezzogiorno diffida e sospetta, e non crede più nelle promesse. Ebbene, non fatene più, ma mettete il Mezzogiorno in grado di provvedere da se stesso alle proprie esigenze.

Autonomie regionali, conferimento alle regioni viciniori di federarsi fra di loro, ecco la soluzione che vi propongo. Il Mezzogiorno sarà capace di guarirsi da sé stesso? Io lo credo. Ma se così non fosse, voi avreste fatto tutto quello che era in voi per esaudirlo/

La Repubblica è stato il primo consolidamento del nostro paese. Forme socialistiche dell’economia – che pur rispettassero imprenditori, risparmiatori e capitalizzatori – potrebbero fare il resto. L’avviata ad una soddisfacente soluzione del problema meridionale direbbe l’ultima parola. Lavoriamo indefessamente per il nostro paese. Auspico non lontana la grande resurrezione nazionale, contro tanti odi che ne circodono. L’Italia sarà da capo in piedi per se stessa e per gli altri.

La visione di questo avvenire deve riempire i nostri animi di una grande luce. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Pecorari. Ne ha facoltà.

PECORARI. Come triestino e come giuliano (Vivi applausi) prendo la parola ben cosciente della profonda eco che il nome di Trieste e della Venezia Giulia risveglia nel cuore di ogni italiano. Voglio parlare come italiano ad italiani preoccupato ed angosciato come tutti i giuliani della possibilità di perdere per sempre…

Una voce. Per sempre no!

PECORARI …senza nemmeno più poterla rivedere, la mia regione natale, i miei monti, il mio mare, la mia casa, la tomba dei miei cari.

Ci si accusa di nazionalismo: ma come non offendersi di questa accusa che suona insulto, specialmente a noi giuliani antifascisti che abbiamo offerto la nostra vita, che abbiamo lottato per la libertà, che abbiamo esposto le nostre famiglie per liberare noi e il mondo dal fascismo? Questa Italia che un po’ dappertutto va perdendo terreno, specialmente ad Oriente, come si può accusarla di nazionalismo? La Dalmazia non fu mai interamente italiana, ma nelle sue città notevoli e valorosi nuclei italiani di antica origine bene meritarono della Nazione italiana nelle scienze, nelle arti e nella santità.

Ora in Dalmazia non vi sono più italiani: l’ultima cittadella interamente italiana, Zara, non esiste più, è distrutta nelle sue case, nei suoi monumenti – oltre 70 insistentemente richiesti ma ingiustificati bombardamenti! – è un cumulo di rovine. Dei 25 mila abitanti ben 20 mila sono ora profughi in Italia. Ma questi non sono i soli profughi giuliani: ben altri 60 mila sono sparsi per la penisola; altri 25 mila si trovano a Trieste.

Pola, ora ridotta a 33 mila abitanti, ha chiesto per ben 28 mila suoi cittadini la possibilità di evacuare la città nella deprecata ipotesi che questa venisse ceduta alla Jugoslavia.

Lo Stato internazionale, appena proposto a Trieste, ha già dato i suoi primi tristi frutti: nessuno crede nella sua vitalità. I triestini lo chiamano «topolinia», alludendo alla grossa montagna quadricuspide che l’ha partorito; altri lo chiamano «melonia» con chiara allusione all’intelligenza che l’ha creato. Intanto, i moti in città aumentano e mentre nella zona B occupata dalla Jugoslavia regna ormai la pace del terrore, nella zona A occupata dagli Alleati si va creando uno stato d’allarme sempre più preoccupante.

Malgrado la flotta da guerra concentrata nel porto di Trieste, malgrado i cannoni, i carri armati pesanti e leggeri, gli italiani a Trieste non sono più tranquilli, non sono più sicuri, non hanno più libertà di lavoro e di circolazione e persino in qualche punto e per qualcuno non è neanche sicura la notte nelle proprie case. A chi la colpa? Si cerca un capro espiatorio vivente e si addita al nostro Ministro degli Esteri. Egli saprà difendersi da sé e non con le mie parole; ma, come giuliano, sento il dovere di dire come egli è stato accolto dai giuliani stessi. L’accoglienza fu, da parte nostra, quanto mai benevola: noi lo sapevamo trentino e, come i tale, lo abbiamo sempre considerato come un conterraneo. Il Trentino ha condiviso negli ultimi tempi con Trieste la sorte.

L’onorevole De Gasperi è stato da noi molto benevolmente accolto ed ha accettato la nostra collaborazione; anzi, con una spiccata benevolenza, ci volle con lui a Londra e a Parigi. Allora abbiamo potuto constatare le difficoltà dell’ambiente internazionale, difficoltà che non bisogna dimenticare e che io già personalmente e duramente avevo provato. Gli americani che mi avevano liberato in Germania, e che avevano anche sfruttato la mia posizione per la loro propaganda radiofonica, ripetutamente mi dissero che gli italiani erano considerati come i tedeschi. Questo ambiente si trattava di vincere ed è purtroppo un grande errore quello di aver fatto precedere il trattato di pace con l’Italia agli altri. Ma come non credere a coloro che ci dicevano che facevano ciò per darci un beneficio e per trattarci meglio? E invece è venuto questo progetto di trattato di pace; abbiamo dovuto quindi sopportare il primo urto dell’appetito dei vincitori, abbiamo dovuto senza possibilità di difesa combattere con la sola nostra ragione, ma abbiamo trovato un ambiente quanto mai malpreparato e infido.

La propaganda degli altri Stati ci aveva preceduti. Gli ambienti internazionali ci erano ostili. Il nostro lavorio, poco appariscente, ha cominciato a dare dei frutti, ma troppo presto siamo arrivati a questo trattato. Ed ora ci si dice di accettare questo trattato. Ma perché i quattro Ministri degli Esteri non consigliano altrettanto alla Jugoslavia? Perché non consigliano a Tito di accettare quella pace che egli dichiara di non volere accettare, pubblicamente, nei comizi e nella stampa? Come potremo noi accettare queste condizioni che il vincitore stesso non accetta? È ben più facile per il vincitore rinunciare a qualche parte del frutto della sua vittoria che a noi di rinunciare a terre che sono nostre.

Ora va pur ricordato anche in questa Aula che queste terre sono profondamente italiane. Già dal loro doppio nome di Venezia Giulia si sente il legame ininterrotto dai tempi romani ai tempi nostri, attraverso il Medio Evo, di queste terre italiche. Lo attestano i monumenti romani che da Pola ad Aquileia ornano la nostra costa. Le chiese bizantine di Parenzo, la basilica di Aquileia, confermano la tradizione italica del tardo impero romano. Ma ancor più si continua questa tradizione nell’epoca veneziana. Infatti tutti i campanili delle nostre città furono costruiti seguendo con fedeltà meravigliosa e costante l’esempio luminoso del campanile di S. Marco; Dovunque si vede nei monumenti e nello stile delle case questa continuità della storia e dell’origine italica delle nostre terre. Ma oltre a ciò, oltre alla tradizione artistica, oltre alle tradizioni culturali, è stato recentemente il lavoro italiano che ha rigenerato queste terre aride, arse ed abbandonate. L’Italia ha profuso in esse la ricchezza del suo lavoro; la povera e misera Italia ha saputo valorizzare il porto di Trieste che durante la guerra del 1915-18 fu gravemente danneggiato, in una fase delicata di ingrandimento. Il lavoro italiano ha rimesso in vigore le miniere dell’Istria, ha dato acquedotti all’Istria. E tutto ciò è un prodotto del sudore italiano, del lavoro italiano, è opera della civiltà italiana.

Perché si devono abbandonare queste terre? Perché dobbiamo rinunciare a queste terre italiane? Perché, ancora, soltanto questi italiani della Venezia Giulia devono sopportare il peso della sconfitta fascista? Perché devono essi, soprattutto, pagare lo scotto? Noi non domandiamo in fondo che quello che è prettamente nostro. Noi abbiamo rinunciato ai confini strategici, ai confini naturali, pur così ben disegnati su queste terre, abbiamo rinunciato a tutto questo, pur di difendere semplicemente la nostra gente e la nostra terra.

È una questionò di umanità. Non dimentichiamo che non si tratta di passare da uno stato ad un altro, ma si tratta di passare da una civiltà ad un’altra. Ecco perché tanti sono i profughi già venuti in Italia e tanti sono quelli che si preparano a passare la frontiera. Ma voi dite: con lo Stato internazionale si salva qualcosa dell’Istria.

Invece è bene evidente che non serve a salvare niente. Noi dobbiamo pensare che abbiamo di fronte non uno Stato democratico, ma uno Stato totalitario con le risorse quindi che queste condizioni possono permettere ad uno Stato organizzato in questa maniera. Da noi solamente l’iniziativa privata ed il debole contributo che può dare un governo democratico; dall’altra parte tutta una intera nazione che tende alla conquista, galvanizzata dall’ideale di poter racchiudere nei suoi confini questa grande città che loro sanno, che loro dichiarano, non jugoslava ma italiana e che dovrebbe diventare la metropoli, la più grande città della Jugoslavia.

Questo Stato internazionale, com’è stato concepito, ha una vitalità impossibile. Ridotto a confini ridicoli di estensioni territoriali, tagliato fuori dalle sue risorse prime, non può, non potrà mantenersi. È un emporio commerciale ed industriale e va ricordato che Trieste negli ultimi tempi si trasformò, per vincere la crisi dei traffici dell’Europa Centrale, in un centro industriale. Ora, questo emporio commerciale ed industriale ha bisogno dell’assistenza e dell’aiuto di una grande industria, di una grande organizzazione commerciale che non può essere dato da quell’infimo e misero territorio che circonda così strettamente la città.

Come potrà poi vivere e trafficare se la Jugoslavia, che non accetta questo Stato internazionale, ha già dichiarato che non vorrà aiutare i traffici verso questo porto?

Vi ricordo Fiume e Sussak. Quando Fiume passò all’Italia si volle dare, in segno di fattiva collaborazione, il porto alla Jugoslavia, affittandolo per 90 anni. Ebbene, la Jugoslavia chiuse quel porto e mai più nessuna nave si accostò a quelle banchine, e fece sorgere lì vicino un altro porto, un altro centro commerciale, creandolo pur fra estreme difficoltà nella stretta Baia di Sussak.

Come potete immaginare che tutto questo non avvenga nuovamente? Ecco anche la ragione per la quale la Jugoslavia, ricordando bene quello che ella già fece, domanda ben più del territorio di Trieste: domanda anche Monfalcone e Grado con le sue lagune, perché vuole garantire ogni possibilità di concorrenza all’eventuale suo nuovo grande emporio Adriatico. E come potrà l’industria nascere e vivere in questa città? Come potrà esportare oltre i suoi stretti confini doganali? Ma tutto questo non preoccupa i grandi uomini che hanno deciso questo staterello, questo vero e proprio aborto. Non li preoccupa perché essi hanno cercato di evitare un conflitto fra loro, ma non si sono preoccupati di questa povera gente che è esposta a questa lotta tragica e feroce di due civiltà che cozzano fra loro e che lottano aspramente. Mai come ora nella Venezia Giulia gli attriti sono stati così esasperanti; mai un odio così feroce si vide sorgere fra queste due nazioni che pur convivevano da tanti secoli assieme. È stata l’Austria la prima ad aizzare i popoli jugoslavi contro il popolo italiano. Allora il popolo slavo appoggiava l’Austria, anzi era un baluardo dell’Austria stessa. E così sorsero i primi attriti e le prime divergenze. Ma ancora continuavano ad incrociarsi gli italiani con gli jugoslavi e vi era ancora possibilità di vita. Oggi invece questa sta diventando sempre più difficile.

 

E a questa situazione non si può porre rimedio con l’internazionalizzare questa zona intermedia. Occorre fare quello che s’era dettò e già deciso alla conferenza di Londra. Occorre quindi che si dia all’Italia quello che è dell’Italia ed alla Jugoslavia quello che spetta alla Jugoslavia, cercare di dare la minor parte di minoranze alle due nazioni in contrasto ed evitare che un conflitto divida queste nazioni. Questo lo aveva visto possibile la Commissione Interalleata inviata sul posto nella Venezia Giulia, la quale fece un’inchiesta quanto mai equilibrata. Perché non accettare queste conclusioni e queste proposte linee etniche? Si è invece voluto calpestare ogni principio di giustizia e si è raggiunto un compromesso politico che non tiene conto affatto della situazione locale e neanche della situazione dell’Italia tutta. Come potrà l’Italia accettare queste mutilazioni? Trieste e la Venezia Giulia rappresentano un simbolo. Il Risorgimento italiano si è concluso con la redenzione di Trieste e Trento. Per questo ideale vi furono 600 mila morti nell’altra guerra. Essi ora non avrebbero più quasi uno spazio per la sepoltura nel minimo territorio friulano che viene assegnato all’Italia.

Trieste e l’Istria rappresentano le giuste e modeste richieste della nuova democrazia italiana. Mentre la monarchia si era impegnata a non firmare una pace senza Trieste e l’Istria, come potrà la Repubblica macchiare con un gesto infamante la sua nascita con l’accettazione di questo trattato? Io sono persuaso che questa Assemblea quando sarà chiamata a decidere di questo trattato non potrà che essere univoca, non potrà che fare questo gesto di dignità, questo gesto di alta moralità. Una madre non può vendere la propria figlia, anche se con questo gesto potesse riscattare qualche altra figlia. È una questione di moralità, è una questione di dignità, è una questione di onorabilità del Paese. Noi certo sfigureremo di fronte a tutto il mondo, se ci macchieremo di questo gesto infame, perché è infame abbandonare questa popolazione che grida, che vuole l’Italia, che vuole essere unita alla sua Madre, che grida disperatamente il suo aiuto, che vuole restare con noi, che vuole restare con la civiltà italiana (Vivissimi applausi).

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni c delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

BATTISTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per sapere se s’intende:

1°) prendere urgenti provvedimenti, onde impedire che il recente decreto di amnistia emanato il 22 giugno 1946, il quale per la sua assurda larghezza non ha precedenti nella storia né del nostro, né degli altri Paesi, sia dai competenti organi della Magistratura interpretato in modo così lato da rimettere in libertà e da reintegrare nei beni già confiscati anche i veri responsabili della presente tragica situazione, in cui versa il nostro Paese, offendendo in tal modo la sensibilità di quanti per la guerra e per il fascismo hanno tanto sofferto e suscitando, quindi, sdegni e risentimenti che non varranno a portare nel nostro popolo quella pacificazione, che dovrebbe essere lo scopo primo dell’amnistia in parola;

2°) provvedere perché venga veramente applicato il decreto 6 gennaio 1944, n. 9, affinché siano riassunti senza ritardo in servizio e reintegrati in tutti i loro diritti di carriera gli antifascisti, che sotto il fascismo e per motivi politici furono dispensati o licenziati dal servizio e che ancora oggi si trovano disoccupati, mentre si vedono fascisti resisi a suo tempo colpevoli di gravi infrazioni in danno della Nazione rioccupare i loro posti e riscuotere non solo gli arretrati per il servizio non prestato ma, cosa più assurda, anche il premio di liberazione;

3°) emanare provvedimenti legislativi atti a seriamente difendere la Repubblica contro tutti i suoi nemici.

«Pertini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per il funzionamento della Fondazione Banco di Napoli, recentemente eretta in ente morale.

«Buonocore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, sulla impressionante situazione finanziaria delle Opere pie di Napoli e sui provvedimenti di urgenza da adottare.

«Buonocore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, se non ritenga opportuno indire al più presto una sessione di esami speciale per l’abilitazione alla libera docenza di coloro i quali, essendo stati già dichiarati idonei alla prova orale dalle rispettive Commissioni, furono poi, per vicende belliche, impediti dal sostenerla. Si tratta, per alcuni, di vicende che risalgono agli anni dal 1941 al 1943, e sembra giusto che non si aggravino con ulteriori ritardi i gravi danni che essi hanno già subiti per avere onoratamente servito il loro Paese.

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, se non gli sembri giusto ed opportuno che il bando recentemente pubblicato, col quale si invitano i vicepretori onorari, i laureati in legge col voto 110 su 110, e i procuratori legali, i quali abbiano 3 anni di servizio, a presentare domanda per essere assunti nei ruoli della Magistratura senza concorso, venga esteso anche ai cancellieri laureati in legge, la cui preparazione all’esercizio della Magistratura è attestata dalle medesime funzioni inerenti al loro ufficio, sia per quanto concerne il diritto civile, sia per quanto ha riguardo al diritto penale.

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se non ritenga opportuno ed urgente precisare, coll’autorità che incontestabilmente possiede, dato il carattere politico della misura, la portata, prevista e perseguita, del provvedimento di amnistia, il quale, deformandosi nell’applicazione, da atto di ponderata seppure ampia clemenza, con indiscriminato oblio di colpe gravosissime, riesce, anziché a sopirli, a riaccendere passioni e risentimenti giustificati ove l’aspirazione popolare di giustizia resti od appaia troppo negletta;

2°) in qual modo intenda ottenere che venga, senza ulteriori dilazioni, realizzato l’impegno assunto da autorità competenti di fare fruire di analoga misura di clemenza i partigiani colpiti dalla giustizia dei Tribunali militari italiani o da Corti alleate;

3°) affinché precisi che la scarcerazione od il proscioglimento per amnistia o condono non comportano di diritto la riassunzione nell’impiego presso pubbliche o private amministrazioni, il che provocherebbe – come già sta avvenendo – il licenziamento di coloro che, assunti in sostituzione, dovrebbero – essi senza colpe verso la Nazione – pagare il prezzo doloroso del beneficio concesso ai colpevoli.

«Montagnana Mario».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura, per conoscere in virtù di quale legge, pur dopo la sentenza della Cassazione che dichiarava incostituzionale il decreto Gullo sul dimezzamento dei fitti in natura, si continua a corrispondere dai fittuari i due terzi soltanto dei fitti su istruzioni superiori, di incerta fonte, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cicerone».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per sapere se non credano equo ed opportuno estendere i benefici previsti dal decreto legislativo luogotenenziale 11 gennaio 1946, n. 18 (a favore del personale statale in servizio nei centri distrutti, semidistrutti o danneggiati), anche agli impiegati che in quei centri risiedono, pur prestando servizio in comuni viciniori, sempreché dimostrino la necessità della residenza nel centro distrutto, semidistrutto o danneggiato, oppure siano stati in precedenza autorizzati alla residenza dalle rispettive Amministrazioni, oppure già vi risiedessero dal periodo bellico; ciò al fine evidente di venire incontro – nello spirito del decreto in causa – ad una categoria che, oltre al disagio di risiedere al centro sinistrato, deve sopportare ulteriori spese di viaggio per compiere il proprio dovere ed anche allo scopo di evitare che circolari ministeriali di talune Amministrazioni diano una interpretazione varia al provvedimento, ora estensivamente, ora restrittivamente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sullo, Ciampitti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della giustizia, per conoscere il suo pensiero in ordine alla necessità di immediata modifica delle norme procedurali, riguardanti il giudizio civile di cognizione, ed alla loro sostituzione con le precedenti norme che regolavano il giudizio pretoriale, prima dell’applicazione dell’attuale codice di rito civile, da estendersi, debitamente coordinate, anche ai giudizi collegiali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Quintieri Adolfo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla urgente necessità di ottenere dal Magistrato alle acque di Venezia la approvazione di numerosi progetti già pronti e preparati dal Genio civile di Rovigo per opere idrauliche, ponti e strade, edilizia pubblica e privata, lavori che, oltre a compiere opere pubbliche necessarie e riparazioni urgenti di danni di guerra, servirebbero anche ad assorbire in buona parte la mano d’opera disoccupata della provincia di Rovigo; nonché sulla urgente necessità di dare le necessarie autorizzazioni per altri lavori pubblici da compiersi nella stessa provincia di Rovigo ad opera di Enti e Consorzi, e precisamente: l’Istituto autonomo case popolari, il Consorzio di bonifica polesana, il Consorzio di Santa Giustina, il Consorzio di bonifica Tartaro Osellin, il Consorzio di bonifica Valli d’Adria ed Amolara, il Consorzio Isola d’Ariano, il Consorzio di bonifica padana, il Consorzio dell’Isola della Donzella, la Società immobiliare Ca’ Venier, il Consorzio di bonifica Campagna Vecchia Inferiore, il Consorzio di bonifica Isole di Ariano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Umberto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non creda di disporre che tutti gli Uffici preposti alla ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati dalla guerra diano la precedenza assoluta alla ricostruzione delle chiese, che le popolazioni reclamano con ogni urgenza. Questa disposizione già fu data dopo la guerra del 1915-18 dal Ministero delle terre liberate. In particolare se non creda di dare ordini immediati per la ricostruzione della chiesa parrocchiale di Lubia (provincia di Rovigo) per la quale, ad oltre un anno dalla liberazione, il Genio civile di Rovigo non ha ancora preparato il progetto. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Merlin Umberto, Schiratti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e della pubblica istruzione, per conoscere che cosa si intenda concretamente fare per alleviare le tragiche condizioni degli impiegati della scuola, cui l’assoluta insufficienza degli stipendi causa continue e gravi preoccupazioni. Si fa notare che gli interessati non reclamano aumenti di stipendio, ma, come altre volte hanno chiesto, insistono perché si voglia distribuire a prezzi di costo i generi di prima necessità (alimentari e vestiario, ecc.) per gli impiegati stessi e per le loro famiglie; chiedono se non sia il caso di servirsi per questa distribuzione della istituzione della «Provvida», pensando che se ciò fosse possibile faciliterebbe molto l’attuazione del progetto e non inciderebbe sul bilancio con nuove istituzioni; ed insistono nel far presente che il provvedimento riveste carattere d’urgenza e si augurano perciò che esso sia adottato con la maggiore sollecitudine. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cremaschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere:

  1. a) se crede che il provvedimento legislativo, approvato dal Consiglio dei Ministri, relativo all’ordinamento della Corte di assise, sia da ritenersi testo definitivo di legge (la cui attuazione rimane subordinata all’approvazione di altro provvedimento concernente la «costituzione del rapporto processuale, i suoi soggetti ed il suo svolgimento») o invece possa e debba essere sottoposto ad ulteriore elaborazione;
  2. b) se, in caso di ulteriore elaborazione, ritiene opportuno sottoporne lo schema all’esame della Costituente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quale applicazione abbia avuto l’amnistia recentemente concessa, quali direttive abbia seguito la magistratura nella applicazione dell’amnistia agli ex fascisti e se vi sia stata uniformità di direttive, e per invitare infine il Governo a rassicurare l’opinione pubblica allarmata dalla frettolosa rimessa in libertà di elementi pericolosi per l’ordine pubblico e per le istituzioni repubblicane.

«Parri».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro dell’interno, per conoscere:

  1. a) i motivi che lo indussero a concedere e poi a revocare autorizzazioni all’esercizio di case da giuoco;
  2. b) le ragioni per le quali queste autorizzazioni sarebbero, secondo notizie di stampa, nuovamente concesse.

«Gli interpellanti chiedono altresì al Ministro dell’interno di voler comunicare con quali modalità e garanzie sono regolate queste concessioni, che si possono prestare a speculazioni losche.

«Benedetti, Covelli, Crispo, Reale Vito e Lombardi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno iscritte all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19,40.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 16,30:

  1. – Verifica di poteri.
  2. – Votazione per la nomina di un Vicepresidente e di due Segretari.
  3. – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio dei Ministri.

IL DIRETTORE DELL’UFFICIO DEI RESOCONTI

Dott. Alberto Giuganino

TIPOGRAFIA DELLA CAMERA DEI DEPUTATI