Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Lussu

Presidente

Bellavista

Mozioni (Seguito della discussione):

Einaudi, Ministro del bilancio

Scelba, Ministro dell’interno

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

LUSSU. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ieri l’onorevole Piccioni, nel suo discorso, ha fatto riferimento, equivocando e comunque interpretandola male, ad una mia espressione del discorso precedente. Egli ha parlato, infatti, del Partito d’azione.

Nel mio discorso – del quale ho qui il resoconto stenografico – io non ho parlato del Partito d’azione, ho parlato di corrente politica e di venti anni di lotta.

Comunque, io non saprei come esprimere la mia gratitudine per il modo commosso, per il profondo senso di simpatia espresso dall’onorevole Piccioni per il Partito d’azione.

Per quella parte di rappresentanza che mi tocca nel Partito d’azione, io posso dire questo: che mai nessuno del Partito d’azione, dovunque egli sia, dimenticherà i sentimenti di profonda simpatia e di spirito di sacrificio con cui la Democrazia cristiana si comportò verso il Partito d’azione; e meno di tutti – io credo – lo dimenticherà il collega onorevole Parri.

Per concludere, mai come durante il discorso dell’onorevole Piccioni è sembrato vero l’apoftegma dell’onorevole Nitti, che la politica non fa santi.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Nel suo intervento di ieri l’onorevole Giancarlo Pajetta fece allusione a chi parla a proposito di una proposta, che in realtà non c’è stata, di escludere dal diritto di voto i littori, con riferimento a Mario Alicata e Pietro Ingrao.

Intendo chiarire che sono personalmente lieto e contentissimo della catarsi e della purificazione antifascista dell’Alicata e dell’Ingrao, e quando intervenni a proposito dell’articolo 47 avevo presenti le nobili ragioni esposte dall’onorevole Pajetta, cioè la necessità di distinguere, non già per categorie da colpire indiscriminatamente, ma caso per caso, opponendomi a quella illiberale ed indiscriminata esclusione dall’elettorato attivo di una categoria di cittadini italiani.

PRESIDENTE. Onorevole Bellavista, ormai ella ha la parola, e concluda. Ma le faccio osservare che queste sue dichiarazioni erano da farsi nella ceduta pomeridiana, perché l’onorevole Pajetta ha parlato ieri nel pomeriggio, e il verbale di stamane è quello della seduta antimeridiana di ieri, ed in esso, perciò, non si fa cenno del discorso dell’onorevole Pajetta.

BELLAVISTA. Chiedo scusa: è un’anticipazione di credito.

L’onorevole Pajetta ha chiesto dove si trovava il sottoscritto quando l’Alicata era a Regina Coeli. Il sottoscritto era prigioniero di guerra in America e faceva parte di una unità di cooperatori. E in quel Paese democratico ha avuto confermata una massima d’onore che non sarà contraddetta certamente dall’onorevole Pajetta: «right or wrong, my Country».

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intenda approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro del bilancio.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Onorevoli colleghi, consentitemi che prima di scorrere degli argomenti specificamente propri al mio assunto, e delle osservazioni che in questa assemblea sono state fatte sulla politica economico-finanziaria generale del governo, io dica che non intendo prolungarmi troppo sulle premesse generali delle critiche, fondate sul contrapposto fra liberismo e vincolismo, fra pianificazione e concorrenza. Le discussioni in proposito hanno un carattere molto generico e sono l’eco di altre dispute consimili più antiche, alle quali oggi sarebbe difficile attribuire un contenuto effettivo.

Spesso nella stampa e anche in questa assemblea sono designato come il prototipo dei liberisti, e le accuse, le critiche appaiono dedotte dalla qualificazione o classificazione in cui sono collocato, come se da questa qualificazione, e non dagli atti compiuti, dovesse dedursi la bontà e la malvagità delle disposizioni medesime.

Ogni qualvolta io qui a Roma passo dinanzi alla Chiesa di San Luigi de’ Francesi e ricordo che in quella chiesa è sepolto – essendo morto a Roma nel 1850 – colui che fu considerato nel secolo scorso come il massimo esponente del liberismo mondiale, l’economista francese Federico Bastiat, mi vien fatto di pensare che, se egli vivesse oggi, stupirebbe delle accuse che si fanno a quelli che si chiamano liberisti e di cui egli fu il massimo rappresentante nel secolo scorso.

Si meraviglierebbe che ai liberisti si attribuiscano idee che non hanno mai avuto, come se essi per definizione negassero qualunque azione dello stato, negassero qualunque vincolo, qualunque norma legislativa che venisse a regolare in un senso o in un altro l’economia privata. Stupirebbe maggiormente, come autore di scritti che rimangono immortali intorno ai danni dell’intervento mal compiuto da parte dello stato, come autore della celebre petizione dei fabbricanti di candele, di sego e di cera, di candelieri e lampade, di bugie e di tutto ciò che serve all’illuminazione pubblica, contro il nemico più acerrimo mai sorto a distruggerli, contro un tale nemico che lavorava sotto costo, anzi senza costo, e batteva senza fatica un’industria così vantaggiosa all’umanità. La famosa petizione contro la concorrenza sleale del sole, petizione che rimarrà negli annali dell’economia e che anche oggi potrebbe essere ristampata, non era diretta contro tutti gli interventi dello stato. Bastiat, campione del liberismo del secolo XIX, combatteva gli interventi dannosi dello Stato. Mai si sarebbe sognato di combattere quegli interventi necessari che sono l’essenza medesima dello stato. Lo stato deve intervenire tutte le volte che esso solo può compiere certe cose; deve intervenire tutte le volte che la sua azione è migliore di quella dei privati; non deve intervenire quando la sua azione è inutile o dannosa. La disputa non si svolge sulle parole, ma si svolge su quella che è la sostanza di ogni singolo problema, di quel problema che volta a volta è posto dinanzi all’opinione pubblica. Quando si parla di piani (che è un’altra parola che si usa invece di quella di vincoli o limiti che si usava un tempo) si dimentica che tutti facciamo dei piani. Si tratta di discutere se questo o quel piano sia buono o cattivo. Ogni massaia, ogni padre di famiglia fa dei piani.

E che cosa facciamo noi qui ogni anno se non discutere il piano per antonomasia, e cioè il bilancio dello stato?

Ed a questo proposito, vorrei ringraziare l’onorevole Nitti per l’accenno che ieri ha fatto intorno all’opportunità di migliorare quel tipico piano che è il nostro bilancio, aggiungendo alla classificazione in capitoli, la classificazione in articoli. Concordo con lui nel desiderio e me ne ero fatto eco nel discorso del 18 giugno quando avevo promesso all’assemblea di occuparmi del problema della divisione del bilancio, oltreché in capitoli, in articoli, poiché la divisione in articoli è necessaria per impedire il mal uso del pubblico denaro, è necessaria per far sì che le spese siano contenute entro i limiti prestabiliti. Non mi sono dimenticato la promessa, e fin dal 27 agosto scorso la ragioneria generale dello stato indirizzava una circolare a tutti i direttori capi delle ragionerie centrali dei ministeri per invitarli a preparare fin d’ora, entro e non oltre il 15 ottobre, gli elementi per il bilancio preventivo 1948-49, così che esso sia pronto per l’esame del legislatore entro il gennaio del 1948. In quella occasione si diceva che, ai fini di rendere meno gravosa l’applicazione della riforma in corso, che prevede la ripartizione in articoli, sarà opportuno che i capitoli sui quali gravano attualmente spese di natura diversa vengano quanto più è possibile suddivisi onde renderne omogenea la materia e ciò anche in omaggio al principio della specializzazione dei bilanci. Contemporaneamente un disegno di provvedimento legislativo veniva apprestato, allo scopo di modificare la legge generale per l’amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello stato, coll’aggiunta di un articolo 38-bis il quale dice: «Prima dell’inizio di ogni esercizio ciascun ministro, d’intesa con quello del tesoro, provvede a ripartire in articoli la somma stanziata sui singoli capitoli in relazione alla natura delle spese e all’ordinamento dei servizi». I trasporti di fondi, da un articolo all’altro del medesimo capitolo devono essere disposti con decreti dei ministri competenti, di concerto con il ministro per il tesoro, decreti da registrarsi alla Corte dei conti. Analogamente, l’articolo 144 del regolamento verrebbe modificato nel senso che, in seguito alla divisione in articoli dei capitoli di spesa, dovranno essere ripartite in articoli anche le nuove e maggiori somme che si stanziassero nel corso dell’esercizio, nonché dovranno distribuirsi fra i vari articoli le riduzioni disposte, durante l’esercizio medesimo, negli stanziamenti di bilancio. Questo schema di provvedimento legislativo fu inviato, come ne fa obbligo la legge sulla contabilità generale dello stato, alla Corte dei conti perché desse il suo parere; e la Corte dei conti già l’11 agosto in seduta plenaria discusse ampiamente la materia, dando parere favorevole ad esso.

Il 23 settembre lo stesso schema di provvedimento legislativo era sottoposto al Consiglio di stato per il suo parere. Non appena il Consiglio di stato avrà dato il parere, il disegno di legge verrà presentato al Consiglio dei ministri e poi inviato alla Commissione di finanza e tesoro affinché anch’essa dia il suo giudizio su una materia che io reputo importantissima per il perfezionamento di quello che è un vero piano della nostra amministrazione pubblica.

Il principio regolatore della nostra azione non è dunque un piano a priori, non è un liberismo assoluto, ma è la considerazione di ogni singolo provvedimento sulla base di ciò che il ragionamento e l’esperienza del passato ci dicono. È ovviò che i singoli provvedimenti debbano essere coordinati; ma il coordinamento deve necessariamente aver luogo in ubbidienza alle esigenze del momento. Le quali oggi – e la discussione avvenuta in questa assemblea lo dimostra – toccano sovratutto due problemi: bilancio dello Stato e restrizione del credito.

Per avere un’idea di quella che è l’importanza correlata di questi due aspetti del problema, bilancio dello stato e restrizione del credito, occorre dare qualche indicazione intorno al modo con cui è variata la circolazione dei biglietti negli ultimi mesi. Vi è un certo contrapposto fra i mesi dal febbraio al maggio e quelli dal maggio al settembre.

La circolazione è aumentata in tutti e due i periodi; ma nel primo periodo la responsabilità dell’aumento si poteva dire che fosse principalmente data dalle esigenze del tesoro. Su un aumento di 61,8 miliardi di lire lo stato poteva considerarsi responsabile per 54 miliardi di lire; e gli ammassi dei cereali, che sono un altro aspetto dell’azione dello stato, per 6 miliardi e 200 milioni di lire. In totale 60,2 miliardi di lire su 61,8 erano dovuti all’azione dello stato.

L’economia, ossia le esigenze dell’industria, del commercio e dell’agricoltura avevano chiesto agli istituti di emissione un aumento di circolazione di un miliardo e 600 milioni.

Nel quadrimestre dal giugno al settembre, invece, l’aumento totale di circa 110 miliardi si distribuisce così: esigenze del tesoro dello stato 26 miliardi e 600 milioni invece di 54; ammassi: 26 miliardi e 200 milioni invece di sei (ma questa è l’epoca in cui cadono gli ammassi del grano del nuovo raccolto); e l’economia, che aveva chiesto soltanto miliardi 1,6, ha chiesto all’Istituto di emissione un contributo di miliardi 55,9. All’incirca si potrebbe dire che in questo secondo periodo le richieste dell’economia del paese avrebbero avuto la prevalenza sulle richieste del tesoro.

Forse è del resto superfluo andare alla ricerca di chi abbia in questo caso diritto alla precedenza: certi problemi sono simili a quello della precedenza dell’uovo o della gallina. Congiuntamente il tesoro e l’economia, prima forse più il tesoro che l’economia e poi forse più l’economia che il tesoro, hanno avuto la responsabilità dell’aumento della circolazione.

Per potere avere un’idea precisa del fenomeno, sarebbe necessario guardarlo nel suo complesso. Ma qui non siamo in sede scientifica. Siamo qui per recitare ognuno di noi, uomo pubblico e uomo privato, il mea culpa. Riconosciamo senza troppo discutere sulle proporzioni, che amendue, stato ed economia, hanno una responsabilità nell’aumento dalla circolazione.

Cominciamo dalla responsabilità del tesoro. In che cosa consiste questa responsabilità? Essa non consiste, per quel che si riferisce al nuovo esercizio, in un mancamento o in una diminuzione di entrate. Il collega ministro delle finanze Pella ha esposto ampiamente quali siano i risultati favorevoli e più che ottimistici i quali sono stati dati dal gettito delle entrate effettive dello stato.

L’incremento delle imposte ordinarie e straordinarie è stato tale da poterci far fondatamente asserire che se le previsioni all’inizio si aggiravano sui 529 miliardi di lire, oggi si possono ritenere aggirantisi sugli 800 miliardi di lire. Io vorrei aggiungere una piccola integrazione alle cifre che sono state così bene esposte dal ministro delle finanze. Per amore dell’arte, e per un po’ di quella predilezione per le cifre finanziarie derivante dal mio antico compito di insegnante della materia, ho manipolato le stesse cifre in un’altra maniera, mettendo insieme da una parte tutte le imposte che colpiscono i redditi ed i capitali, comprese in questa categoria anche certe imposte che amministrativamente sono messe in un’altra categoria, e cioè le imposte sugli affari, le imposte sulle eredità e sul registro e bollo, le quali possono essere considerate veramente come imposte che colpiscono in qualcuna delle loro fasi e mutazioni il reddito e il patrimonio; dall’altra parte ho collocato tutte le imposte che colpiscono invece i consumi. Il risultato complessivo – dirò soltanto poche cifre per non elencarne troppe – è questo: che, a seconda delle risultanze consuntive dell’esercizio scorso 19461947, il primo gruppo di imposte (quelle su redditi e sui capitali) contribuiva per il 28,6 per cento del totale gettito delle entrate effettive, laddove le imposte sui consumi contribuivano per il 63,4 per cento. Nel mese di agosto 1947 le proporzioni sono ben diverse. Le imposte sul reddito e sui capitali, ordinarie e straordinarie, compresa l’imposta sulle eredità, contribuivano per il 46,7 e le imposte sui consumi contribuivano per il 49,3. Il resto è dato da entrate minori, patrimoniali e diverse, che non sono di carattere tributario. Siamo arrivati nel mese di agosto, su per giù, a quella che non è una regola di ragione ma una regola empirica di esperienza, cioè che all’incirca le due grosse fonti di entrate si equivalgono: 50 e 50. Questa dicevano i vecchi trattatisti essere la proporzione che deve essere serbata tra imposte sul reddito e sui capitali da una parte ed imposte sui consumi dall’altra.

Noi, per necessità di cose, per l’arrugginimento della macchina tributaria, ce ne eravamo distaccati. Oggi, grazie all’opera indefessa del ministro delle finanze e dell’amministrazione, siamo tornati a quella che è la proporzione classica tradizionale, metà e metà dei due gruppi.

Voglio aggiungere ancora che il peso delle imposte che grava sul contribuente italiano non è un peso piccolo. Qualche volta gli stranieri, che oggi vengono abbastanza frequentemente a fare interrogatori, indagini, a curiosare nelle cose nostre, ci domandano: «Ma quanto pagate voi di imposta?». E se sono americani, siccome hanno in testa una certa proporzione delle imposte effettivamente pagate al reddito nazionale, proporzione che è su per giù del 25 per cento, quando noi diciamo che al 25 per cento forse stiamo soltanto per arrivare, dicono: «È bene che voi ci arriviate». Fa d’uopo replicare, ed abbiamo ripetutamente replicato e fatto osservare, che una proporzione in Italia del 20 o del 25 per cento sul reddito nazionale è una proporzione la quale è di gran lunga superiore alla stessa proporzione del 25 per cento sul reddito nazionale nord-americano o di altri paesi meglio provveduti del nostro.

Non bisogna mai dimenticare che i redditi nazionali per testa, che sono quelli che contano, variano moltissimo da paese a paese; e se negli Stati Uniti il reddito nazionale potrà essere considerato di circa 1200 dollari all’anno a testa, in Italia il reddito medio non potrà essere certamente considerato (per quel poco che se ne sa attraverso indizi) superiore ad una cifra posta fra 160 e 200 dollari. Ora, portare via il 25 per cento su 1200 dollari vuol dire lasciarne ancora 900 a disposizione del contribuente, mentre invece il portar via, come noi facciamo, dal 20 al 25 per cento di un reddito che è soltanto da 160 a 200 dollari, vuol dire lasciarci qualcosa che può andare da 130 a 160 dollari, ossia una somma la quale sarebbe oltre oceano considerata tale da essere senz’ altro esentata da tutte le imposte.

Il nostro sacrificio comparativo nel pagamento delle imposte è dunque un sacrificio che è di gran lunga superiore a quello dei paesi con i quali tante volte si fa un ingiusto confronto.

E passo alle spese. Espongo le cose quali sono e non quali vorrei sperare che fossero. Le spese, purtroppo, sono aumentate, per provvedimenti già definiti, su per giù nella stessa misura delle entrate: le entrate cresciute probabilmente di 280 miliardi e le spese, per provvedimenti già definiti o in essere, di 264 miliardi; sicché debbo confessare – e non so se qui prevalga più la lode od il biasimo – che la sola meta alla quale siamo riusciti è quella di mantenere per ora invariato il disavanzo che preesisteva. Io vi dirò qualche cifra per spiegare in che cosa consiste l’aumento nella spesa. Ve ne sono alcune sulle quali non può darsi alcun dubbio sulla loro necessità. I servizi finanziari del tesoro hanno richiesto, ad esempio, variazioni già definite per 9 miliardi e 750 milioni; ma l’aumento è dovuto per 550 milioni di lire alla assegnazione che si è dovuta fare per le quote dovute per legge ai comuni sul provento dei pubblici spettacoli, e per 8.000 milioni per il rimborso ai comuni dei diritti erariali sugli spettacoli cinematografici. Certo, lo stato avrebbe potuto tenersi per sé queste imposte invece di riversarle a favore dei comuni; ma non solo ciò è accaduto in virtù di legge, una delle quali a lungo dibattuta in quest’aula; ma dai comuni giungono lagnanze vive perché il rimborso, per le esigenze della contabilità, non sia ancora stato effettuato, sicché ci chiedono anticipi per sopperire alle loro urgenze di cassa.

I comuni non hanno ancora toccato i beneficî di queste assegnazioni di cui affermano (e non ho dubbio sulla fondatezza della loro affermazione) avere estrema necessità non per colmare in tutto, ma in parte, il disavanzo necessario dei loro bilanci. Per questa partita, ad esempio, nulla si può obiettare all’incremento della spesa.

Beneficenza ed assistenza sociale: 24 miliardi 270 milioni. Egregia somma; ma per 7 miliardi 260 milioni dovuta al contributo dello stato per la costituzione del fondo di solidarietà sociale a carattere previdenziale in favore dei lavoratori. Trattasi di domande da lungo tempo presentate, le quali sono state soddisfatte non so se con completa soddisfazione di coloro, invalidi e vecchi, che chiedevano l’aumento di pensione, ma che sono parse necessarie in relazione all’aumento del costo della vita; 2 miliardi: soccorsi ai militari alle armi; un miliardo: contributo all’Opera maternità ed infanzia; 8 miliardi: contributo alle integrazioni salariali, anche questa resa necessaria dalla speranza di potere in questo modo riorganizzare le industrie in guisa da evitare che un troppo grande peso di salari a operai in eccedenza debba essere pagato; 3 miliardi e 10 milioni: assegno straordinario contingente ai pensionati delle assicurazioni obbligatorie a carico dello stato; 2 miliardi: assegno integrativo indennità disoccupazione; 1 miliardo: acquisto materiale sanitario dell’A.R.A.R. Sono tutti aumenti di spese le quali sono dovute alla necessità di sovvenire alle esigenze di malati, di vecchi, di poveri in conseguenza del rincaro della vita.

Non vi tedierò più’ a lungo su questi aumenti; farò soltanto rilevare come il grosso dell’aumento totale di 264 miliardi di lire si deve riferire a due capitoli. A favore del fondo speciale a copertura di maggiori oneri del personale dello stato erano già impostati in bilancio 89 miliardi, in previsione degli aumenti degli stipendi e del caro-viveri al personale; si sono dovuti impostare altri 49 miliardi e 380 milioni di lire, per corrispondere alle esigenze degli impiegati e di tutti gli altri dipendenti dello stato che avevano diritto, in conseguenza del metodo della scala mobile, ad ottenere l’aumento di caro-viveri e chiesero di ottenere, come ottennero, anche un aumento di stipendio. Vuole l’Assemblea costituente ritornare indietro su questi aumenti di stipendio e di caro-viveri? Sarà un miracolo se potremo fermarci su questa strada. L’altra cifra, la più grossa fra quelle che contribuiscono all’incremento delle spese, è il mantenimento del prezzo politico del pane, il quale costa nuovamente 100 miliardi di lire all’anno. Dopo che lo avevamo soppresso, il prezzo politico del pane e la conseguente perdita di 100 miliardi di lire è risorto in conseguenza dell’aumento dei prezzi internazionali e dei prezzi interni del frumento. Non è questo il momento di discutere il problema, basti ricordare che il prezzo politico del pane è davvero il fattore principale, il più importante di quell’aumento delle spese pubbliche che ha controbilanciato l’aumento delle entrate.

In sostanza abbiamo ubbidito se non alla speranza di diminuire il disavanzo, all’impegno preso di far sì che nessuna nuova spesa fosse deliberata senza che a questa nuova spesa corrispondesse un incremento di imposte, un incremento di gravami sui contribuenti. Naturalmente, le spese, come accade sempre, sono desiderate da tutti, mentre le imposte sono oppugnate con uguale unanimità. Almeno si riconosca la necessità di far sì che quando le une aumentano, aumentino anche le altre.

Poiché mi sono state chieste notizie sull’ammontare dei residui – ancora ieri l’onorevole Nitti ha detto che questa doveva essere una delle fonti di preoccupazione maggiore del governo – dirò le cifre riassuntive dei residui passivi ed attivi, quest’ultimi molto inferiori ai primi.

I residui passivi, ereditati dagli esercizi finanziari 1945-46 e precedenti, al 1° luglio 1946 ammontavano, nella parte effettiva (dirò solo di questa e non del movimento di capitali, che ha altra natura), ammontavano a 220 miliardi di lire. Durante l’esercizio 1946-1947 furono pagati 145 miliardi a valere su questi residui, cosicché l’eredità degli esercizi 1946-47 e precedenti al 30 giugno 1947, ammontava ancora a 75 miliardi di lire. Se ai residui antichi si aggiungono i residui presunti del 1946-47 in 374 miliardi di lire, il totale dei residui passivi, tra antichi e nuovi, ammonta a 449 miliardi di lire, da cui, deducendo pochi 18 miliardi di residui attivi, risulta l’ammontare netto dei residui passivi in 431 miliardi di lire.

Al disavanzo dell’esercizio corrente noi dobbiamo quindi aggiungere anche il debito del disavanzo nei residui, il quale però non avrà effetto, o non avrà effetto totale sulla cassa, inquantoché tutti gli anni, ad una eredità di residui del passato, corrisponde una eredità di residui nuovi che si lasciano all’esercizio avvenire, cosicché si può ritenere che le partite, alla fine dell’anno, possano per lo più contrapporsi ed uguagliarsi.

I      disavanzi degli esercizi hanno un brutto effetto, che è conosciuto sotto il nome di «incremento del debito pubblico». Devo dire che l’incremento del debito pubblico continua. Dirò solo le cifre estreme; osservando che esse comprendono tutto il debito pubblico: consolidato, redimibile, fluttuante, per residui netti passivi, per valore attuale delle annualità differite.

Al 30 giugno 1939 il debito pubblico italiano ammontava a 178 miliardi e mezzo; al 30 giugno 1947 esso ammontava a 2.098 miliardi, con un incremento di 11,75 volte. Il debito pubblico è dunque cresciuto quasi 12 volte in confronto all’anteguerra.

Il significato di questa variazione è socialmente più grave di quello che non appaia dalle cifre, contabilmente ed economicamente assai meno gravi. E ciò perché là dove prima della guerra, alla data del 30 giugno 1939, il debito totale – di 178,5 miliardi – si ripartiva in 7,1 miliardi di debito per i biglietti di stato e per le anticipazioni della Banca d’Italia per somministrazione di biglietti e 171,3 miliardi di altri debiti – cosicché i primi erano solo il 4 per cento del totale – oggi invece, sui 2.098 miliardi di debito pubblico, 486 sono dovute alle amlire, alle anticipazioni della Banca d’Italia ed ai biglietti di stato; il resto – 1.611,7 miliardi – è costituito da tutte le altre partite.

Il 23 per cento, dunque, del debito pubblico consiste in debito per creazione di biglietti. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che contabilmente il totale del debito vale oggi probabilmente meno del debito antico. Noi abbiamo un debito di 2.098 miliardi; ma questo debito, come potenza d’acquisto, come carico sui contribuenti, poiché la moneta si è svalutata ad una quarantesima, o cinquantesima che dir si voglia, parte del suo valore antebellico, vale soltanto una quarantesima parte del valore antico; cioè sebbene sia aumentata di quasi dodici volte il suo ammontare, il suo peso a carico del contribuente è soltanto una quarantesima parte di 2.098 miliardi. Contro 178 miliardi del 1939 noi abbiamo un debito che vale, espresso nelle stesse lire del 1939, solo 52 miliardi circa; il peso economico è minore; esso costa in termini di sforzo molto meno, meno di un terzo, ai contribuenti di quanto non costasse nel 1939.

Ma se questo è il significato contabile economico, ben altro invece è il significato sociale. Qual è il significato sociale? Il significato sociale è che, in misura differente, i creditori dello stato sono stati privati di una parte di quello che avevano dato allo Stato. Ciò vuol dire che, di mano in mano che procede la svalutazione monetaria, i creditori dello stato sono danneggiati, sono privati di una parte del valore del patrimonio che possedevano; essi sono rimborsati – in capitale ed interessi – con una moneta che vale una quarantesima parte di quello che valeva nel 1947.

Tanto più, quindi, è necessario, allo scopo di por termine a questa mala redistribuzione della ricchezza fra le diverse classi sociali che scoraggia i risparmiatori, tanto più, dicevo, è necessario tener bene in mente che quella del bilancio dello stato non è una parte secondaria del problema della ricostruzione del paese e del ristabilimento della nostra unità monetaria; ne è anzi la parte fondamentale, il punto di partenza.

Se si vuol fare qualche cosa, bisogna certamente incominciare dal bilancio dello stato. Non vale dire: Incominciamo da qualche cosa d’altro e poi il bilancio dello stato si aggiusterà; promoviamo la produzione ed il bilancio dello stato rifiorirà. Non vale dir ciò, perché, finché il bilancio dello stato non sia tornato ad un relativo equilibrio, sarà vano sperare che si possa avere un risanamento dell’economia del paese. Il risanamento del bilancio è la premessa indispensabile per il ristabilimento della moneta; tutto il resto potrà essere sì, un coronamento, potrà essere un aiuto alla stabilizzazione: ma la premessa indispensabile è l’equilibrio del bilancio.

Vorrei ricordare, a conferma di questa che potrebbe essere considerata una mia opinione personale, un’opinione ben più autorevole della mia: quella del presidente del fondo internazionale monetario, la massima autorità che in fatto di moneta oggi esista al mondo. Nella relazione alla recente riunione dei governatori del Fondo monetario internazionale a Londra, il signor Gutt, il belga che ha avuto il merito della riforma monetaria e finanziaria nel Belgio, disse queste parole:

«In taluni paesi l’inflazione, e ciò significa una spesa eccessiva in consumi ed investimenti (questa è la definizione ch’egli dà dell’inflazione, definizione suggestiva, perché mette in chiaro che al disotto delle cifre monetarie, vi è una realtà di cose sostanziali), ha trovato origine in larghi disavanzi statali. Il punto di partenza per una riforma finanziaria ed economica interna sta, quindi, nel pareggio del bilancio statale. Questo deve essere un reale pareggio del bilancio, in cui le entrate effettive provenienti dal reddito corrente del pubblico coprano i pagamenti effettivi in favore del pubblico (stipendi, spese pubbliche, interessi del debito, ecc.). Deve essere un compiuto pareggio dell’intero bilancio, incluso tanto il bilancio ordinario che quello straordinario, come le operazioni delle aziende di stato. (Anche le aziende di stato devono dunque essere in pareggio). Le spese pubbliche per qualsiasi fine devono essere ridotte ad un ammontare che possa essere ricoperto con le imposte e le altre entrate correnti. In particolare né l’istituto di emissione né le banche private devono fornire fondi per le spese pubbliche».

Lo stato non deve ricorrere, cioè, nell’opinione del presidente del Fondo internazionale, né ad anticipazioni dell’Istituto di emissione, né a prelevamenti sulle banche private, allo scopo di poter colmare il disavanzo del suo bilancio.

Forse questo che il signor Gutt esponeva nella seduta di Londra può essere considerato da noi quello che gli inglesi usano chiamare un consiglio di perfezione, il massimo di perfezione che può essere ottenuto. Forse noi ci possiamo contentare di qualche cosa di meno; noi potremmo anche considerarci contenti se il bilancio dello stato potesse essere equilibrato, oltrecché con le entrate effettive derivanti dalle imposte, con altre entrate derivanti da prestiti, ma che siano prestiti effettivi sottoscritti dal pubblico, con emissione di titoli di debito pubblico e di buoni del tesoro, a cui corrispondano biglietti versati dal pubblico al tesoro, così da non aumentare la circolazione. Noi potremmo contentarci anche di questo grado minore di perfezione e ritenere di avere già raggiunto il nostro scopo.

MARINA. Ma per arrivare a questo, bisogna stabilizzare le paghe e i prezzi; altrimenti il bilancio dello Stato continua a non quadrare.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Ne parleremo.

Il signor Gutt aggiungeva un altro consiglio, che mi serve come ponte di passaggio alla seconda parte delle mie argomentazioni, quella che non si riferisce più al bilancio dello stato, ma invece all’economia del paese e alla questione controversa delle restrizioni del credito. Egli aggiungeva:

«Stabilizzare la moneta, significa soprattutto che le spese, a qualsiasi titolo esse siano fatte, devono essere limitate all’ammontare di quei beni che possono essere acquistati a prezzi stabili».

E cioè, secondo il signor Gutt, è inutile aumentare la circolazione ed aumentare paghe perché ciò non serve a niente; serve soltanto a far aumentare i prezzi e ad impedire la stabilizzazione della moneta.

«In particolare – egli prosegue – le spese per ricostruzione ed impianto» (e quando egli parla di «spesa di ricostruzione ed impianto» si riferisce non soltanto alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dallo Stato, ma anche alle spese di ricostruzione ed impianto compiute dai privati) «non devono essere aumentate attraverso la creazione di credito bancario».

La creazione di credito bancario per fare opera di ricostruzione e di impianto è opera vana, la quale non raggiunge il suo risultato di creare qualcosa e di creare lavoro, ma raggiunge soltanto il risultato unico di aumentare la svalutazione monetaria ed aumentare ancora il disordine sociale che già esiste.

E vengo – attaccandomi a quest’ultima dichiarazione del presidente del Fondo monetario internazionale – all’argomento dell’economia del paese, la quale si concentra nella disputa relativa alla restrizione del credito.

A questo riguardo io vorrei essere il più chiaro possibile e i colleghi mi perdoneranno se forse mi dilungherò alquanto nella delucidazione dell’argomento.

Il problema, quale base – diremo così – di fatto ha? La base di fatto si può riassumere in queste cifre: durante il 1946 l’intero sistema bancario italiano (banche di ogni specie e casse di risparmio) ricevette dai depositanti, in più di quelli che c’erano già prima, 273 miliardi di lire di depositi. Ne impiegò 252. Un margine piccolissimo fra depositi e investimenti è la caratteristica del 1946. Praticamente tutto ciò che era stato ricevuto dalle banche fu impiegato.

Nei primi sette mesi di quest’anno 1947 l’intero sistema bancario italiano ricevette 188 miliardi di depositi di più di quelli che già aveva, 188 miliardi di nuovi depositi fatti in sette mesi dai risparmiatori, e ne impiegò 219. Il sistema bancario italiano impiegò, cioè, a favore dell’industria e del commercio, in sconti e anticipazioni e sovvenzioni di ogni specie, 219 miliardi di lire; quando i depositi, in quello stesso periodo di tempo, aumentavano soltanto di 188 miliardi.

È questa una situazione la quale possa essere considerata normale?

Io vorrei a questo riguardo fare qualche esempio quasi elementare. Se un banchiere ha 100 di depositi e impiega 100, che giudizio daremo di lui? Il giudizio unanime e spontaneo è: costui è un pazzo e un delinquente! Perché, se egli impiega tutti i suoi depositi, è certo che domani non potrà rimborsare il primo depositante che si presenterà ai suoi sportelli per riavere il suo denaro; è certo che dovrà depositare i suoi libri in tribunale ed è certo che egli ha truffato i suoi depositanti.

Quindi costui è un pazzo e un delinquente! (Applausi di centro).

Se egli, che ha ricevuto 100, impiega 99, modificheremo il nostro giudizio? Lo attenueremo lievissimamente, ma il giudizio rimane tale e quale.

E, discendendo grado a grado, mantenendo a 100 i depositi e diminuendo gli impieghi, fino a che punto dovremo discendere? Non c’è qui nessuna regola, non c’è nessun libro teorico il quale ci dica quale percentuale i banchieri possano onestamente impiegare. Essi maneggiano il denaro dei depositanti, essi sono fiduciari dei depositanti e devono mantener fede alla promessa fatta di restituire o a vista o a termine il denaro ricevuto in deposito. Questo è il primo ed il massimo dovere, dinanzi a cui tutti gli altri doveri scompaiono.

L’esperienza del passato, che è l’unica maestra in materia, dice che il punto al di là del quale il banchiere diventa imprudente sta fra il 60 e il 70 per cento. Occorre che il banchiere mantenga una riserva, o in denaro contanti o in depositi ritirabili a vista attraverso l’istituto di emissione nello stesso giorno, o in titoli facilmente realizzabili o che abbiano il diritto di essere presentati al risconto presso l’istituto di emissione. Egli deve cioè mantenere una certa riserva, in piccola parte in denaro contante, e per il resto in depositi, o in titoli, tale sempre che possa essere convertita rapidamente in denaro.

Se si supera questa percentuale dovremo dire che il limite di prudenza non è stato osservato.

Ora che cosa è accaduto? È accaduto che la percentuale impiegata nei depositi è andata via via crescendo: era del 42 per cento al 31 maggio 1946, ed era così bassa, perché giustamente le banche durante il periodo della guerra e nel dopoguerra sì erano mantenute entro limiti di grande prudenza, avevano cercato di conservare al massimo le loro liquidità, per evitare perdite.

A poco a poco la percentuale cresce: al 31 dicembre 1946 siamo arrivati al 61 per cento: al 31 luglio 1947 essa è aumentata al 72 percento, cioè le banche hanno dato all’industria e al commercio, crediti nella misura massima che la prudenza consente. Andare al di là sarebbe stato opera imprudente, sarebbe stato contravvenire, non dico alle norme della scienza, che deve conformarsi all’esperienza, ma alle norme insegnate dalla universale esperienza straniera e italiana.

LA MALFA. C’era già un coefficiente inflazionistico.

EINAUDI, Ministro del bilancio. C’era un coefficiente inflazionistico e si era infatti corso ai ripari fin da prima. Fin dal gennaio di quest’anno, l’istituto di emissione vedeva che la percentuale d’impiego dei depositi andava crescendo e ha cercato di venire ai ripari d’accordo con il tesoro per evitare che la percentuale seguitasse a crescere.

Purtroppo in passato, per non aver seguito i consigli della prudenza, abbiamo fatto ben tristi esperienze: dalla caduta della Banca italiana di sconto e di altre banche dell’Alta Italia nel 1921 e 1922, alle immobilizzazioni che si verificarono nel 1931-32, di cui tutti conoscono le conseguenze, come il passaggio delle tre grandi banche, Commerciale italiana, Credito italiano e Banco di Roma, all’I.R.I. e quindi allo stato e così pure il trapasso della partite immobilizzate all’I.R.I.

Vogliamo ripetere questa esperienza oggi? Il nostro dovere è di fare tutto il necessario perché essa non si ripeta.

Tutti i paesi, tutti indistintamente, hanno una politica a questo riguardo, una politica che per lo più è assai più restrittiva di quella blandissima che fu inaugurata nel 1936, modificata in seguito, e ripresa quest’anno.

In Inghilterra non c’è una regola precisa, perché tutti sappiamo che la Banca d’Inghilterra non usa mettere per iscritto le sue norme. Le norme si concretano durante conversazioni con i direttori delle grandi banche ordinarie; ma queste conversazioni conducono a risultati che per essere apparentemente volontari, non sono meno coattivi.

Si può ritenere che nel 1929 il 30 per cento dei depositi delle banche inglesi venisse investito in titoli di stato. Nell’agosto del 1939 la percentuale era del 46 per cento. Alla fine del 1946 la percentuale dei depositi bancari, la quale era investita in titoli di credito verso lo Stato, si aggirava sul 70 per cento, percentuale quindi di gran lunga superiore a quella esistente nel nostro paese.

In Olanda le cinque grandi banche commerciali avevano investito al 28 febbraio 1947, 1’85 per cento dei propri depositi in buoni del tesoro e titoli pubblici.

Negli Stati Uniti, dove esiste una legislazione precisa in proposito, per i depositi a vista le banche della città di riserva centrale sono obbligate a versare alla Banca federale di riserva il 20 per cento dei depositi. Le banche delle città di riserva pure il 20 per cento, le banche di provincia il 14 per cento; per i depositi a termine l’obbligo di riserva è del 6 per cento.

In Francia, le banche, al 31 dicembre 1946 avevano investito circa il 45 percento dei loro depositi in titoli pubblici.

Nel Belgio il rapporto di copertura, ossia il rapporto fra la cassa, più le somme disponibili a vista, più gli effetti pubblici ed il totale dei depositi deve essere del 50 per cento per le banche regionali, del 60 per cento per le banche di media circolazione e del 65 per cento per le banche di grande circolazione. Inoltre è obbligatorio che gli investimenti in titoli pubblici costituiscano almeno i quattro quinti della copertura.

Caratteristico è l’esempio svedese, dove, come sapete, l’istituto di emissione è posto alla diretta dipendenza del parlamento. Per quanto riguarda il rapporto fra depositi e patrimonio è stabilito che per le banche con patrimonio non superiore a cinque milioni di corone, l’ammontare dei depositi non deve essere superiore a cinque volte il patrimonio più il saldo creditore dei depositi a vista presso le altre banche; per le banche con patrimonio oltre i cinque milioni di corone, venticinque milioni di corone più nove volte l’eccedenza del patrimonio sui cinque milioni, purché l’ammontare complessivo non sia superiore a otto volte il patrimonio. Oltre a questi vincoli, concepibili in un paese, come la Svezia, a moneta stabile, è fatto obbligo alle banche di tenere una riserva liquida costituita da contanti o da valori facilmente realizzabili, non inferiore al 25 per cento dei totale e degli impieghi a vista.

Potrei continuare, ma questi esempi dimostrano già che le legislazioni straniere non han mancato di intervenire in questa materia poiché l’esperienza dimostra che ci sono banchieri prudenti, ma ci sono anche banchieri imprudenti, ed il sistema bancario è costituito in maniera tale che se ci sono banchieri imprudenti i quali cadono, la loro mala fine non si limita ad essi ma, per il panico di cui il pubblico è preso, si ripercuote su tutte le altre banche. È necessario quindi che vi sia qualche norma la quale induca tutti i banchieri, quelli prudenti e quelli non prudenti, ad osservare talune regole fondamentali.

Quali erano queste regole fondamentali in Italia fino a ieri? La legislazione del 1933-1936 stabiliva che le banche potessero tenere per sé ed investire liberamente 20 volte tanto (prima, e poi il multiplo fu aumentato a 30 volte) il loro patrimonio netto. Quindi, se una banca aveva un patrimonio netto di 100 milioni, poteva tenere per sé i propri depositi fino ad un ammontare di 30 volte i 100 milioni, cioè tre miliardi. Essa avrebbe dovuto depositare presso il tesoro o presso l’istituto di emissione od investire in titoli pubblici tutto l’eccesso oltre le 30 volte del patrimonio netto. La norma era stata adottata in un momento in cui esisteva veramente una correlazione fra patrimonio e depositi. Patrimonio e depositi erano espressi nella medesima moneta. Quando una banca aveva un patrimonio proprio di 100 milioni poteva essere ragionevole si dicesse: il supero, il di più, dovrai depositarlo presso l’istituto di emissione a garanzia del depositante. La norma funzionò discretamente bene per un certo periodo di tempo. Ma, venuta la guerra e cominciata la svalutazione monetaria, essa non funzionò più bene, poiché il patrimonio era espresso in una moneta ed i depositi in un’altra. Il patrimonio delle banche non crebbe o crebbe in misura così lenta che si poté dire che quasi non avesse importanza.

Quella banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni continuò ad avere lo stesso patrimonio. Ma i depositi crebbero, ed è naturale, perché i depositi sono espressi in una moneta che vale 40 volte meno di quello che valeva la moneta originaria; e toccano limiti più alti.

Col crescere dei depositi accadde che una banca la quale aveva un patrimonio di 100 milioni avrebbe dovuto depositare presso l’istituto di emissione tutto l’eccesso dei depositi oltre i 3 miliardi; e se ne aveva 10 o 20, come accadde frequentemente dopo la guerra, avrebbe dovuto depositare tutto l’eccesso oltre i 3 miliardi presso l’Istituto di emissione.

Ciò voleva dire che la banca avrebbe dovuto fallire; ed invero la banca deve fare le spese per tutto il suo apparato; e soprattutto deve far fronte agli stipendi agli impiegati, stipendi che via via si sono moltiplicati, prima per 10-20 ed ora, credo, per 25-30. Se si fosse osservata la regola del 1936, i depositi rimasti a libera disposizione della banca sarebbero stati invariati. Le banche, a cui il denaro costa dal 5 al 6 per cento, specie per l’onere degli stipendi, avrebbero ricavato un buon frutto solo per una parte dei loro depositi, laddove per il sovrappiù, anzi per la più parte, avrebbero dovuto contentarsi del 3,50 per cento, meno del costo. Quindi le banche violavano la legge. Il 29 gennaio di questo anno l’istituto di emissione con una sua circolare ricordò alle banche l’obbligo che avevano secondo la legge. Nel ricordare l’obbligo, lo attenuò dicendo che nei depositi fatti presso l’istituto di emissione si potevano anche includere certe partite che prima non vi erano incluse, con notabile attenuazione del rigore della legge. Ricordò però che la legge esisteva. Ma poiché questa era riconosciuta da tutti inapplicabile, in quanto avrebbe costretto le banche a depositare presso l’istituto quasi tutti i loro depositi, tutto l’eccesso dei loro depositi oltre una cifra molto piccola, subito cominciarono le discussioni: cominciarono in febbraio e proseguirono fino ad agosto. Discussioni, che cominciano in febbraio e durano fino all’agosto, non si può dire che abbiano portato, – come è stato detto in questa Camera – ad un provvedimento brusco. Non è improvviso né brusco ciò di cui si discusse per tanti mesi. Tutti ne erano a conoscenza; furono pubblicate in proposito memorie; le associazioni interessate, i competenti presero la parola e furono formulati voti.

La questione fu dunque ampiamente dibattuta.

Quando il decreto che istituiva il «Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio» (e anche questo decreto fu oggetto di discussione presso la Commissione di finanza e tesoro dell’assemblea) entrò in attuazione, il Comitato, lo stesso giorno in cui il decreto veniva pubblicato il 2 agosto sulla Gazzetta Ufficiale, si radunò e discusse per primo questo che era il problema più urgente della nostra situazione monetaria; e la conclusione fu quella che fu poi comunicata in una seduta del 20 agosto in una adunanza di banchieri in cui erano rappresentati tutti i principali banchieri italiani e le associazioni bancarie.

Il risultato delle deliberazioni del Comitato interministeriale fu: dare maggiore elasticità, non restringere la legge antica, ma dare invece maggiore elasticità alla legge antica così che essa potesse adattarsi alle mutate circostanze. Si concluse, cioè concluse il Comitato interministeriale presieduto dal ministro del tesoro e composto dai ministri dei lavori pubblici, dell’agricoltura, dell’industria e commercio e del commercio estero, che le nuove norme dovessero essere le seguenti: libere le banche di investire, a favore dell’industria e del commercio, sino a 10 volte il patrimonio netto. Si ridusse il multiplo da 30 a 10; ma in compenso della riduzione si disse: dell’eccesso dei depositi oltre il decuplo, voi banche potete tenere per voi ed investire l’80 per cento.

Sarete obbligate a depositare, a garanzia dei depositi, soltanto il 20 per cento dell’eccesso dei depositi oltre 10 volte il capitale sociale. Per maggiore larghezza si disse che in ogni caso però, tenuto conto del multiplo e della percentuale, le banche non fossero obbligate a depositare presso il tesoro o l’istituto di emissione o ad investire in titoli pubblici più del 15 per cento dei depositi esistenti alla data del 30 settembre 1947. Quando in tutti gli altri paesi le percentuali sono maggiori e la prudenza consiglia alle banche di conservare un margine del 30 per cento, più che meno, meno del 15 per cento non poteva esser chiesto. E poiché l’inflazione si dà per l’incremento degli impieghi oltre il livello presente, fu disposto che se in avvenire, a partire dal 30 settembre i depositi fossero aumentati oltre la cifra che avevano raggiunta alla stessa data, sull’aumento, ma solo sull’aumento, dovesse essere versata presso il tesoro o l’istituto di emissione una percentuale del 40 per cento. Ciò perché, come dissi or ora, l’inflazione creditizia può esser considerata già scontata per il passato, ma ciò a cui si deve rimediare è la nuova inflazione, quella ulteriore. Tuttavia fu attenuata la regola con la clausola che in ogni caso la riserva obbligatoria non potrà (tenuto conto del vecchio e del nuovo) superare un 25 per cento dei depositi.

Questa è ciò che fu chiamata in questa assemblea la brusca, la improvvisa e la draconiana restrizione del credito. Dopo l’esposizione che gli onorevoli colleghi hanno ora ascoltata, è evidente che la restrizione non è stata né brusca, né improvvisa, né draconiana; è stata lenta, preavvertita e lungamente discussa. Può essere considerata, più che una restrizione del resto tenue, un avvertimento ed uno strumento del quale si possono servire le autorità di controllo allo scopo di controllare l’azione delle banche. Di per se stessa la nuova norma non è affatto feroce.

Sbarazzato, mi pare, il terreno dai rimproveri di eccesso, di brusco, di draconiano, resta l’altra obiezione fondamentale, e cioè che la restrizione del credito sarebbe soltanto quantitativa e non qualitativa. La osservazione è stata ripetuta da molti ed insigni membri di questa assemblea e merita la più attenta considerazione. Sono ben lieto che, dopo che questa obiezione era stata sollevata, si sia già riconosciuto da qualche oratore che in ogni caso il controllo qualitativo del credito non aveva un certo significato, cioè non aveva e non può avere il significato che l’istituto di emissione, l’ente di controllo, debba controllare ad una ad una le operazioni di credito che sono fatte dalle singole banche. L’idea appena affacciata è subito apparsa non desiderata da nessuno

E che non sia da desiderarsi da nessuno lo provano le osservazioni che l’amico e collega Merzagora ha fatto l’altro giorno intorno alle difficoltà in cui egli si trova per rispondere a 10 mila domande al mese che gli pervengono per autorizzazione di esportazione ed importazione, che mettono in subbuglio e in imbarazzo tutti gli impiegati del suo ministero, che fanno nascere problemi veramente angosciosi per una persona la quale abbia intendimento di fare tutto il suo dovere e di fare le cose come la coscienza gli detta. Egli ci ha parlato di centinaia di automobili le quali si trovano nel giardino prospiciente al suo ministero, di gente che arriva da tutte le parti d’Italia per ottenere autorizzazioni e permessi. Ma se egli si trova imbarazzato di fronte a 10 mila domande al mese, quanto più dovrebbe essere imbarazzato l’istituto di vigilanza se dovesse controllare tutte le operazioni di credito, per impedire che sia fatto questo o quel credito? Non 10 mila, ma centinaia di migliaia di domande arriverebbero ogni mese. Non poche centinaia di automobili sarebbero ferme, come dinanzi al Ministero del commercio estero, dinanzi al palazzo della Banca d’Italia in via Nazionale! Non basterebbe l’intera via Nazionale, da piazza Termini a Magnanapoli, per contenere tutte le automobili che arriverebbero per piatire la concessione di un credito, ottenere lo sconto di una cambiale!

Siamo tutti d’accordo – e sono lieto di averlo sentito qui – che questo non sia il controllo qualitativo che si desidera. Il controllo qualitativo che si desidera è qualcosa altro. Non l’ho sentito esporre con regole e norme molto precise. All’incirca, si è detto che si dovrebbe controllare la natura dell’operazione, almeno per categorie di operazioni, per categorie di industrie, o per localizzazione di quelle industrie, o per i fini a cui l’industria si rivolge.

Orbene, io devo dire che su questa via l’Italia ha già fatto dei grandi passi, e non so se vi sia un altro paese al mondo in cui esista già un controllo qualitativo quale esiste nel nostro paese. In Italia, in virtù delle leggi vigenti, gli istituti ordinari di credito, le banche, non possono fare crediti se non per operazioni di esercizio, non possono cioè concedere crediti se non per operazioni a breve termine, non per operazioni a medio o a lungo termine. Per le operazioni a medio e a lungo termine e per le operazioni di carattere speciale, sono istituiti, ed istituiti da tempo, qualche volta da tempo immemorabile, istituti specializzati: istituti di credito fondiario, istituti di credito agrario, istituti di credito edilizio, ognuno dei quali si occupa di branche particolari di credito ed è attrezzato in modo particolare per queste funzioni che esercita. Hanno uffici di periti e di legali esperti in materia che vegliano che le operazioni siano compiute secondo le regole più sicure. Vi sono istituti di credito peschereccio, di credito alberghiero, di credito cinematografico. Ognuno di questi istituti è sottoposto alla vigilanza di organi governativi i quali esaminano le operazioni che devono essere fatte.

Le operazioni a medio termine sono compiute dall’Istituto mobiliare italiano, dall’I.M.I., il cui primo presidente è stato il senatore Mayer, il quale ha creato una tradizione, osservata anche oggi dall’attuale presidente onorevole Siglienti, tradizione la quale consiste nella severità dell’esame delle operazioni presentate; severità la quale ha consentito all’Istituto mobiliare italiano di ottenere credito, ossia di poter collocare al pubblico le obbligazioni che sono la sola fonte da cui esso ricava i mezzi per poter fare credito. Un istituto di banca non può dare i denari che non ha; i denari che ha sono quelli che riceve dal pubblico; ma per ricevere questi danari dal pubblico a medio e a lungo termine, occorre avere fiducia da parte dei risparmiatori e la fiducia si ottiene soltanto (come hanno fatto Mayer, Beneduce e Siglienti) dimostrando e persuadendo il pubblico che si fanno operazioni serie alla fine delle quali c’è il rimborso da parte dei debitori. Cosicché le obbligazioni dell’Istituto mobiliare italiano hanno credito e sono ben collocate. Accanto all’Istituto mobiliare italiano vi è il Consorzio sovvenzioni su valori industriali; vi è l’Istituto di credito per le opere pubbliche, tutti specializzati in certi determinati tipi di operazioni a medio e a lungo termine.

Alle banche ordinarie è riservato il credito a breve termine: il credito di esercizio, il credito commerciale, il credito cioè che non serve per impiantare una fabbrica, che non serve per comprare una macchina che si ammortizzi in 10-15 anni; ma serve per comprare materie prime, per pagare salari, operazioni che consentono di ricuperare i denari forniti a breve scadenza, a 2-3 mesi quando la merce fabbricata sia venduta.

Possono commettersi degli abusi, ma contro questi abusi esistono già opportuni freni. Uno di questi freni, reso assai più efficace dalla svalutazione monetaria, è quello che dice che nessuna banca può investire a favore di un solo cliente (ricordiamoci come talune banche piemontesi siano fallite perché avevano dato tutto ad un solo cliente) più di un quinto del suo patrimonio. C’era in origine una certa larghezza in questo quinto; poteva la banca investire un quinto del suo patrimonio netto, che era una cifra grossa, a favore di un solo cliente. La svalutazione monetaria che effetto ha prodotto? Ha prodotto l’effetto che i patrimoni delle banche sono rimasti, come osservai dianzi, tali e quali; sicché il quinto è diventato spesso una cifra assai piccola. Perciò per tutte le operazioni che si riferiscono ad un solo cliente e il cui ammontare superi il quinto del patrimonio sociale, la banca non può fare l’operazione se non ottiene l’autorizzazione esplicita, apposita dell’istituto di vigilanza. E queste operazioni, per cui è necessaria volta per volta l’autorizzazione della Banca d’Italia, dato il piccolo ammontare dei patrimoni netti delle banche, sono divenuti assai numerose. Sotto questo rispetto il controllo qualitativo su ogni singola operazione è oggi assai più efficace di quello che non fosse una volta. Sono decine e decine di autorizzazioni al giorno che l’ufficio di vigilanza deve dare, e dà o nega a seconda della natura dell’operazione per cui viene chiesta l’autorizzazione.

Vi è poi l’arma del risconto. Il risconto si fa dalle banche presso l’istituto di emissione. Ora non è detto che l’istituto di emissione debba accettare tutta la carta che gli è presentata senza un esame preventivo, e l’esame preventivo è accuratamente fatto non dalla sede centrale, ma in primo luogo, salvo revisione del centro, dai direttori delle singole filiali della Banca d’Italia, i quali devono esaminare la carta che le banche presentano al risconto. Sotto che profilo le istruzioni date dal centro dicono di esaminare questa carta? Di non riscontare le cambiali per le quali si vede che c’è dietro una immobilizzazione; di non riscontare le cambiali dietro le quali c’è una semplice operazione di conservazione di utili sovrabbondanti sotto forma di scorte eccessive. Non si può dire che non si debbano riscontare tutte le cambiali che servono per comperare scorte, perché ci sono scorte che sono necessarie giorno per giorno per la vita dell’azienda. È ovviamente affidato alla prudenza dei dirigenti di discriminare fra quelle che sono scorte necessarie per la vita dell’azienda e quelle che sono scorte eccessive. Le istruzioni, applicate, sono di non concedere risconto tutte le volte che la cambiale debba servire per operazioni di mera conservazione di scorte. E le norme puramente quantitative, di cui ho parlato prima, eserciteranno, sotto questo rispetto del risconto, una efficacia notevole, anche per ottenere un controllo qualitativo.

Faccio un esempio. Se una banca ha 100 milioni di depositi, deve, per le norme che ho ricordato, depositare presso l’istituto di emissione 15 milioni di lire. Supponiamo ora che, per qualunque circostanza, i depositanti chiedano un rimborso di dieci milioni: la banca deve rimborsare i dieci milioni. Per rimborsarli può chiedere il rimborso di un decimo dei quindici milioni versati. Come dovrebbe trarre dagli 85 milioni rimasti a sua disposizione i mezzi per rimborsare 8,5 milioni, così trae anche dai 15 milioni che ha dato all’istituto di emissione i mezzi per rimborsare 1,5 milioni; in totale i 10 milioni dei depositi da rimborsare ai depositanti. Evidentemente il milione e mezzo che essa ha in restituzione dal tesoro o dall’istituto di emissione non basta da solo per rimborsare dieci milioni; per rimborsare dieci milioni ne mancano otto e mezzo. Se li ha in contanti presso di sé in un’ulteriore riserva prudenzialmente disponibile (dissi sopra che la riserva dovrebbe essere almeno del 30 per cento), sta bene; altrimenti cosa dovrà fare? Portare una parte della sua carta o dei suoi titoli e chiedere risconto o anticipazione all’istituto di emissione. E in quell’occasione l’istituto di emissione farà lo scrutinio della carta presentata al risconto o dirà: «Questa sì, perché corrisponde ad una operazione sana di credito; questa no perché serve soltanto per conservare scorte eccessive che il tuo cliente farebbe molto bene a vendere per procurarsi denaro».

Quindi, anche la forma istituita per il controllo quantitativo è un mezzo per rendere efficace il controllo qualitativo che già preesisteva. Un metodo automatico, che non implica obbligo di chiedere il consenso a Roma per ogni singola operazione, un metodo che agisce secondo le norme classiche e provate della pratica bancaria.

A che cosa, perciò, si riduce il clamore inusitato che è stato fatto intorno ad una restrizione del credito che è inesistente, ad una restrizione del credito che è quantitativa e qualitativa nel tempo stesso, che non è stata né improvvisa né ingiusta e neppure draconiana, anzi, assai tenue paragonata a quello che si fa altrove e paragonata a quello che è dovere ed usanza della maggior parte dei banchieri prudenti di fare spontaneamente?

Si riduce a qualcosa che è bene spiegare chiaramente. Il credito si fa e si può fare soltanto col mezzo dei risparmi, i quali sono formati dai risparmiatori e affluiscono alle banche. Se il risparmio non si forma, se le banche non ricevono i depositi, esse non possono fare credito, non possono dare denaro che non hanno a industriali o commercianti. Se questi chiedono denaro alle banche in aggiunta a quello che le banche non hanno e che, non avendo, non possono fornire, che cosa chiedono? Chiedono puramente e semplicemente che si fabbrichi carta moneta, che si dia credito fabbricando carta moneta, nell’illusione che in tal modo si possa sul serio dare lavoro e fare qualche cosa che sia utile per la collettività. Ora, è bene che io dica apertamente di non essere per nulla d’accordo con coloro i quali chiedono credito non sui risparmi che di giorno in giorno si vanno costituendo, ma chiedono credito attraverso la fabbricazione di carta moneta. (Vivi applausi al centro e a destra).

Si dice: oggi la quantità di circolazione è troppo bassa in confronto ai prezzi; la quantità della circolazione è aumentata trenta volte, mentre i prezzi sono aumentati cinquanta volte. Ne deriva che gli industriali e i commercianti hanno bisogno per pagare gli operai, per pagare le scorte, di una somma di denaro che sia cinquanta volte, e non soltanto trenta, quella che era nell’anteguerra. Da ciò conseguirebbe, secondo costoro, che si potrebbe emettere un po’ di carta moneta, così da provvedere ai bisogni dell’industria. Se 650 miliardi non bastano perché sono soltanto 30 volte l’anteguerra, portiamoli a 1000, e così andranno alle 50 volte e saranno in equilibrio con i prezzi.

È un ragionamento questo che e stato ripetuto infinite volte e che non ha condotto ad alcun risultato. Nessuno può affermare infatti che quando la circolazione fosse ulteriormente aumentata da trenta a cinquanta volte, i prezzi permarrebbero al livello delle cinquanta volte: è probabilissimo invece che i prezzi da cinquanta volte salirebbero a cento. (Approvazioni al centro).

È questa un’esperienza universale; è un fatto sicuro, perché la fame di denaro dell’industria deriva dall’aumento dei prezzi e, quando è cominciata la spirale, quando è incominciata ad insinuarsi la sfiducia, il secondo aumento è molto più veloce di quanto non sia quello della circolazione. Vana speranza dunque! Noi non faremmo così se non incancrenire il male, se non renderlo più grave.

E bisogna dire ancora un’altra cosa molto chiara a coloro i quali chiedono denaro attraverso l’aumento della circolazione. Certamente, il perdere il risparmio accumulato è sempre qualche cosa di spiacevole e di dannoso: dannoso al singolo e dannoso alla collettività. Io sono quindi ben lungi dal proclamare, così alla leggera, che si debbano distruggere i capitali esistenti. Il mio concetto è un altro. Io dico che se vi sono industriali, se vi sono società le quali, in passato, hanno messo insieme utili notevoli – se hanno pagato le imposte, gli utili restanti sono di loro proprietà e non ci sono obiezioni da fare; – se dunque costoro hanno realizzato utili notevoli ed hanno investito questi utili in case, in terreni, nell’acquisto di pacchetti d’azioni di altre società, se li hanno investiti in aree fabbricabili o se, supponiamo, li hanno impiegati nell’acquisto di dollari tenuti da parte come riserva, allora io non dico che li debbano buttar via, ma dico che non devono ricorrere all’aumento della circolazione per conservare l’azienda bisognosa di credito. (Vivi applausi al centro e a destra).

È questo un gioco che deve finire. È troppo comodo conservare in beni reali il frutto dei propri utili e poi chiedere allo stato direttamente o indirettamente sovvenzioni in lire per l’esercizio della propria azienda principale. Il meccanismo è chiaro: chiedendo sovvenzioni, quando si sa che le sovvenzioni non possono essere date se non col mezzo dell’aumento della circolazione, si è praticamente certi che quella sovvenzione, quando sarà restituita, se era di un miliardo come potenza di acquisto, sarà restituita in un miliardo nominale, ma quel miliardo nominale varrà soltanto un mezzo o magari un terzo di miliardo come potenza d’acquisto. Si sarà verificata una trasposizione di fortune, da chi a chi? Dalla povera gente che ha risparmiato, che ha depositato i denari (Applausi al centro e a destra), che ha comperato i titoli del debito pubblico (e abbiamo visto poco fa il loro crescere in cifre assolute ed il loro diminuire in potenza d’acquisto), a favore di coloro i quali hanno trovata la elegante maniera sovradescritta di sovvenire ai bisogni delle proprie aziende senza proprio sacrificio. A coloro che chiedono denari allo stato attraverso l’aumento della circolazione bisogna chiedere: Avete prima venduto le case che avete comprato? Avete venduto i terreni? Avete venduto i pacchetti di azioni di altre società? Avete venduto i dollari che avete comprato? (Applausi al centro). Questo è il discorso che deve essere fatto a coloro i quali si lamentano della restrizione del credito.

E non è esatto – è contrario al vero – affermare che vi sia stata una restrizione del credito. Le banche hanno dato tutto ciò che hanno ricevuto, e nei primi sette mesi dell’anno corrente hanno dato anche di più di quello che hanno ricevuto, attingendo ai depositi disponibili che avevano ricevuto prima. Non esiste in realtà alcuna restrizione di credito. Lo stato attraverso i suoi organi non è intervenuto se non per dire: Qui c’è una regola alla quale tutti si devono uniformare; alla quale non solo noi dobbiamo supporre ma siamo certi che i banchieri prudenti si uniformavano già molto tempo prima. È un avvertimento per coloro che sono imprudenti, per evitare che, avendo alcuni commesso qualche atto imprudente, essi trascinino nella loro rovina, che non deve avvenire, anche gli innocenti, con danni universali. Le crisi creditizie rassomigliano alle crisi degli edifici di carte da gioco costruiti dai bambini. Se una carta cade tutto l’edificio rovina.

Non si deve creare credito fabbricando carta; con dei pezzi di carta, con delle cifre, con degli armeggi non si creano risparmi, merci, macchine. I pezzi di carta non sono macchine, non sono fabbricati, non sono scorte.

Il che non vuol dire che il governo si sia rifiutato di intervenire sempre. È di nozione comune l’esistenza di un decreto, dell’8 settembre di quest’anno intitolato: «Fondo per il finanziamento delle industrie naval-meccaniche». Che cos’è questo fondo? Le industrie naval-meccaniche costituiscono un qualche cosa a sé nel mondo industriale italiano. Lo costituiscono anche in quel grande complesso che si chiama I.R.I., Istituto di ricostruzione industriale. Se ne è parlato molto di questo I.R.I., se ne discuterà ancora in avvenire. Io vorrei soltanto far osservare che nella grande massa questo istituto abbraccia aziende sane, solide, le quali non hanno niente da temere. Su un patrimonio che può essere valutato oggi in 99 miliardi di lire, le partecipazioni bancarie figurano per 15, le siderurgiche per 5, le industrie marittime per 12, le telefoniche per 3,5, le elettriche per 11, la Montecatini per 6.5 (è il pacchetto di proprietà dell’I.R.I.), le immobiliari, agricole, alberghiero per 5, le diverse aziende italiane per 6, le diverse aziende estere per 12.

Tutti questi investimenti sono in sostanza investimenti i quali possono essere considerati buoni. L’unico punto nero è quello delle partecipazioni che l’I.R.I. ha nell’industria naval-meccanica, le quali partecipazioni hanno già dato luogo – secondo i criteri del commissario ingegnere Longo – ad una svalutazione di 20 miliardi su un attivo totale di 33,5 miliardi.

Perché esiste una situazione difficile nell’industria cantieristica meccanica? In fondo la difficoltà deriva dal fatto che questa è veramente la sola grande industria italiana la quale ha dovuto e deve procedere ad un processo costoso di riconversione dall’industria bellica all’industria di pace. Un’industria alberghiera, una banca, un’industria telefonica, un’industria elettrica, sono industrie le quali avranno bisogno di ricostruire le cose distrutte, ma non di riconvertirsi. Esse continuano su per giù ad adempiere i medesimi fini a cui adempivano prima. Invece, le industrie naval-meccaniche, che prima costruivano cannoni e navi da guerra, si trovano a dover attuare una profonda trasformazione; trasformazione che ebbe ed ha luogo in mezzo a difficoltà gravi in parte determinate dal fatto che il personale è divenuto esuberante. Già prima della liberazione esso era esuberante; esso crebbe anche dopo. L’aumento del personale oltre il necessario fa sì che non solo si debbono pagare salari a vuoto (si calcola che le industrie dell’I.R.I. subiscano, ogni anno, una perdita in salari pagati a vuoto da 15 a 18 miliardi di lire); non solo – dicevo – vi sono salari pagati a vuoto, ma vi sono le difficoltà di trovar ordinazioni. Spesso l’ansia di trovar nuovo lavoro conduce all’assunzione di commesse a perdita o alla creazione di reparti i quali, non essendo altro che doppioni di altre aziende già esistenti, non trovano se non difficilmente da poter collocare i propri prodotti. Tutto ciò rende necessario un lavoro complesso per risanare l’azienda.

Il male non è proprio delle aziende navalmeccaniche che appartengono all’I.R.I., ma anche di quelle analoghe che non appartengono all’I.R.I. Tutte sono sottoposte alla difficoltà di riconversione dell’industria di guerra in industria di pace. È naturale che in questo clima di difficoltà parecchi dirigenti si siano disgustati; in parecchie di queste aziende si è quindi verificata una fuga di tecnici, che sono passati ad altre aziende o sono emigrati all’estero per trovare altre vie più proficue e meno agitate di attività.

È certo dunque che l’industria naval-meccanica si trova in condizioni di difficoltà; ma non è una soluzione del problema far dare del denaro indiscriminatamente dallo stato soltanto perché talune imprese si trovano nella necessità di dovere aver denari di giorno in giorno, da un giorno all’altro, per poter fare la paga degli operai, o per pagare il carbone, o l’acciaio e il ferro di cui hanno bisogno. La soluzione deve essere ragionata.

Di qui la creazione del fondo per le industrie naval-meccaniche. In apparenza il fondo segue le tracce di due altre provvidenze che sono conosciute nel mondo degli industriali, coi numeri 367 e 449, i due decreti con cui furono concessi 38 miliardi di sovvenzioni.

Ma questa è solo l’apparenza. La realtà è diversa. La realtà si vede esaminando quali sono le caratteristiche con cui il fondo, secondo il decreto istitutivo, deve essere amministrato. Innanzitutto non è amministrato direttamente dal governo. I due decreti 367 e 449 presentavano lo svantaggio che coloro che avevano bisogno di denaro dovevano andare a tirar la giacca ai ministri del tesoro e dell’industria del tempo per cercare di strappar loro denaro.

Ma le persone di governo, i ministri non sono banchieri. Pur essendo ed essendo stati tutti persone degnissime, fa d’uopo riconoscere che essi non posseggono l’attrezzatura necessaria per poter giudicare se una domanda di credito sia legittima o no. Si è voluto perciò questa volta che, pur venendo in aiuto alle industrie naval-meccaniche, l’aiuto fosse concesso con gli stessi rigidi criteri che sono seguiti dalle banche. L’amministrazione del fondo, trattandosi di denaro dello stato, non poteva non essere pubblica. Ma in questa amministrazione non ci sono più ministri: c’è un Comitato composto di 7 persone, di cui 4 funzionari che, per la loro natura, hanno un grado notevole d’indipendenza dalla politica – di questo io posso esser garante – e di altri tre esperti. Uno di essi è l’onorevole Tremelloni, che tutti conosciamo per la diligenza che mette hello studio dei problemi che gli sono affidati. Apprezzandolo ormai da un quarto di secolo, perché ho avuto l’onore di essere suo professore all’Università commerciale Bocconi di Milano, valuto grandemente lo scrupolo e la diligenza che egli pone nell’esame dei problemi che dovrà esaminare.

Un secondo membro del Comitato è il professor Ernesto Rossi, oggi presidente dell’A.R.A.R., e che, in questa qualità, si è procacciato molti odi che, a mio parere, gli fanno molto onore. L’A.R.A.R. è infatti la sola istituzione di quel tipo esistente in Europa la quale sia riuscita a dare decine di miliardi al tesoro vendendo le merci che le erano state affidate. In altri paesi istituzioni congeneri, sempre nell’ansia di sapere se si sarebbero regolate bene o male, se questo o quel residuato avrebbe dovuto essere venduto al più alto offerente o distribuito secondo criteri pubblici, hanno lasciato disperdere o guastare il materiale che era stato loro consegnato dagli alleati.

Invece l’A.R.A.R. ha dato decine di miliardi allo stato e ha permesso che corressero sulle strade d’Italia circa 200 mila automezzi, che sarebbero altrimenti rimasti ad arrugginire nei campi. Taluno avrebbe voluto distruggere o inutilizzare gli automezzi, per paura della concorrenza alle fabbriche italiane. Rossi non ha avuto questa paura, procacciando in definitiva, grande vantaggio a consumatori ed a produttori. Quanto più numerosi sono infatti i veicoli che corrono per le strade d’Italia, tanto più aumenta la necessità di produrre pezzi di ricambio, ed alla fine, quando il veicolo straniero è logoro, si vede la convenienza di seguitare a servirsi di automezzi. Sicché coloro che hanno avuto la possibilità di acquistare dall’A.R.A.R. automezzi americani saranno poi costretti a ricorrere alla Fiat e alle alti e fabbriche italiane per rinnovare il loro materiale.

Il professore Rossi è dunque il secondo degli uomini a cui è affidata la gestione del fondo.

Il terzo è il professore Ferrari Agradi, che molti conoscono nella qualità di segretario generale del C.I.R. e relatore preciso sui problemi presentati all’esame di questo comitato interministeriale. Informatissimo dei problemi dell’industria italiana, è uno di coloro che hanno preparato i piani presentati nei consessi internazionali per i prestiti all’Italia.

lo confido che queste tre persone, insieme con i quattro alti funzionari ex-ufficio, eserciteranno il loro compito come la legge lo dichiara. La legge che cosa dice? La legge, all’articolo 5, dice che per l’attuazione del fondo si potranno in primo luogo effettuare operazioni di finanziamento a favore delle imprese per i loro programmi di esportazioni mediante corresponsione di anticipi in moneta nazionale al cambio corrente e contro cessione totale o parziale dei crediti derivanti dalle forniture relative, con l’osservanza delle norme valutarie. Ciò vuol dire che se c’è un industriale che ha ricevuto commesse dall’estero, che perciò ha titolo per ricevere dollari, li potrà vendere al fondo al cambio corrente, anche se i dollari non sono ancora esigibili. Così la partita è chiusa. Se il dollaro, per esempio, aumentasse di prezzo, godrà il fondo del vantaggio dell’aumento dei prezzi. Quindi coloro che chiedono un credito non potranno speculare sulla svalutazione della lira e sull’aumento di prezzo del dollaro.

In secondo luogo il fondo potrà garantire l’aumento di capitale delle imprese e sottoscrivere ed acquistare nuove azioni. Il fondo può così rendersi acquirente di azioni, che la società emittente ha diritto di riacquistare contro un termine da fissarsi di comune accordo, ma non al prezzo di sottoscrizione. Se il fondo ha pagato le azioni cento, la società, che le voglia acquistare, le dovrà pagare quanto varranno al momento del riscatto. Se varranno 120 o 150 lire dovrà pagarle 120 o 150. Correrà esso il rischio che, se varranno di meno, verranno pagate di meno. Ad ogni modo il congegno è fatto in maniera che non sia possibile ottenere prestiti in lire che oggi valgono tot, e rimborsare i prestiti in lire che valgano meno. Le azioni sottoscritte dal fondo potranno essere riscattate, ma al prezzo che le azioni varranno quando saranno riacquistate dagli azionisti.

In terzo luogo il fondo potrà facilitare le imprese nella smobilitazione delle loro partecipazioni in altre imprese di diversi settori, sia acquistando direttamente tali partecipazioni per alienarle successivamente, sia assumendo il mandato di alienarle a determinate condizioni. Se qualcuno perciò andrà al fondo e dirà: sì, io avrei intenzione di vendere tale o tal’altro pacchetto di azioni che sta all’infuori della mia società, ma non mi è comodo o non mi è possibile venderle oggi; il fondo dirà: ti aiuto io a venderle. Le assumo io, per venderle poi; o mi incarico io di venderle per tuo conto alle condizioni da stabilirsi. Gli industriali non potranno più ottenere prestiti dallo stato a spese della circolazione, e al tempo stesso, tenere per sé i buoni investimenti fatti in passato. Se vogliono ottenere un prestito dal fondo dovranno anche essi contribuire al proprio salvamento.

Finalmente il Comitato ha il diritto (art. 6) di stabilire che le operazioni che esso farà siano subordinate alla prestazione di determinate garanzie ed alla attuazione di provvedimenti di riassetto economico industriale delle singole intraprese. Ciò vuol dire che non si darà la sovvenzione all’intrapresa che la chiede, soltanto perché promette di rimborsare – e magari rimborserà, ma si dirà: «noi diamo la sovvenzione; ma tu hai cinque reparti di cui tre vanno bene ed hanno un avvenire, mentre due vanno male; chiudi quei due reparti a poco a poco, in modo da non perdere troppo, ma metti la tua industria in ordine».

L’aiuto che si dà all’industria meccanica è un aiuto condizionato al risanamento dell’industria stessa, ed è condizionato all’apporto che i proprietari delle intraprese dànno al risanamento medesimo.

Quest’industria meritava di non morire. È una industria che presenta alcuni aspetti importantissimi; richiede molta mano d’opera specializzata, abile, per cui gli italiani hanno un genio particolare. È una industria la quale in passato ha ottenuto risultati notevoli. Vale la pena di fare un tentativo per risanarla e metterla in condizioni di vivere da sé. Non valeva la pena però di dare denari indiscriminatamente perché fossero consumati di giorno in giorno senza lasciare traccia.

Onorevoli colleghi! Riassumiamo ora, concludendo, i fatti susseguitisi in questi quattro ultimi mesi. Il bilancio ha sopportato, col gettito maggiore delle nuove imposte, l’aumento delle spese cagionate da provvedimenti imposti dalla necessità o da leggi vigenti. I prezzi sono aumentati, sì, ma in proporzione minore dell’aumento della circolazione. Nel periodo dal maggio all’agosto la circolazione è aumentata del 5,05 per cento. I prezzi sono aumentati solo del 4,60 per cento; ed i salari dell’8,96 per cento; cosicché la potenza di acquisto dei salari – secondo le statistiche dell’Istituto centrale – nel mese di agosto può essere calcolata al 93 per cento di quello che era la potenza di acquisto dei salari del 1938.

Vi sono differenze enormi fra categoria e categoria di lavoratori su cui qui sarebbe fuor di luogo dilungarsi. In media, il salario non è ancora arrivato ad avere la stessa potenza di acquisto del 1938; ma ricordiamo che la produzione, ossia la torta comune che deve essere divisa fra tutti i cittadini, non è arrivata al 93, sta bene al disotto. La torta comune sarà – poniamolo ottimisticamente – l’80 per cento di quella che era nel 1938, sicché si può concludere che oggi la quota, che nella torta comune spetta ai lavoratori, è una quota proporzionalmente più alta di quella che era nel 1938. La speranza, si potrebbe quasi dire la certezza, di poter tornare di nuovo al tenore di vita del 1938 e di sorpassarlo è dunque una speranza ed una certezza che riposano esclusivamente sull’aumento della produzione. Se la produzione aumenterà dall’80 per cento al 90 per cento, possiamo esser certi che la quota che spetterà alla parte lavoratrice non sarà soltanto una quota proporzionalmente superiore a quella che le spettava in confronto alle altre classi sociali nel 1938, ma anche tale, da consentire ai lavoratori di condurre una vita migliore di quella che conducevano nel 1938.

Un altro indice, che non dobbiamo dimenticare è quello del corso dei cambi. So bene che esso è imperfetto ed è determinato anche dall’opera delle autorità governative. È un indice che tuttavia qualcosa ci dice: il dollaro di esportazione, che tra il gennaio ed il febbraio di quest’anno era di 538, e nella prima metà di maggio era salito a 900 ed il 13 maggio raggiunse 950, e questa fu la punta massima, nel giugno comincia a discendere: 830-850; il 7 luglio cade a 745; il 15 luglio a 700, il 1° settembre a 600, il 10 settembre a 650 ed ancora oggi il corso dei cambi è su 650. Ed il corso della cosiddetta borsa nera segna le stesse variazioni, dimostrando che l’apprezzamento del pubblico in genere è più favorevole di prima alla lira. Dipende da noi fare in modo che il corso dei cambi si stabilizzi, in guisa tale che la moneta non abbia più da subire né inflazioni né deflazioni. Sono questi due mali opposti che, per le conseguenze che producono, sono ugualmente gravi. L’inflazione produce, con l’arricchimento di pochi, la distruzione delle classi medie ed il disordine sociale; la deflazione produce le crisi economiche e la disoccupazione operaia. Quindi noi dobbiamo fare tutti gli sforzi possibili per evitare sia l’uno che l’altro dei due mali. I mezzi per raggiungere il risultato dipendono in parte dall’azione del Governo; ma fortunatamente dipendono anche dagli italiani.

Io voglio qui tributare al risparmiatore italiano una parola di riconoscimento simile a quella che il collega Pella ha tributato l’altro giorno al contribuente italiano. Il ministro Pella ha detto che doveva ringraziare il contribuente italiano per la pazienza ed il sacrificio con cui si sottopone al duro aumento d’imposte che si va verificando oggi, e che è un aumento – come ho detto al principio del mio discorso – il quale non trova paragone in paesi in cui sembra si paghino imposte maggiori. In un paese povero pagare il 25 per cento d’imposta è un sacrificio di gran lunga maggiore del pagare lo stesso 25 per cento in un paese ricco. Accanto alla lode del contribuente italiano, debbo tributare una parola di elogio al risparmiatore italiano. Nonostante tutte le svalutazioni e nonostante lo scoraggiamento, che il vedersi diminuire fra le mani il valore reale dei risparmi compiuti produce in ogni persona, il risparmiatore italiano ha seguitato a risparmiare.

Intendo qui per risparmio soltanto una parte di esso, quella parte cioè che risulta da dati noti: aumento di depositi nelle banche o casse di risparmio, ordinarie e postali, aumento delle sottoscrizioni in buoni del tesoro, aumento netto delle sottoscrizioni in titoli di debito pubblico e in cartelle ed obbligazioni, aumento netto del capitale delle società per azioni. Tengo conto solo di questi dati visibili, trascurando perciò quella parte di risparmio che i risparmiatori italiani fanno direttamente. Ed i risparmiatori italiani fanno molti risparmi diretti. Quando un contadino nella sua stalla ricostituisce i capi di bestiame che aveva prima e che la guerra gli aveva portato via, costui fa un risparmio, che non risulta da nessuna statistica. Quando uno ha avuto una casa incendiata da qualche bomba e se la ricostruisce con i propri mezzi, questo è risparmio, anche se non figura in nessuna statistica.

Tenendo conto solo delle parti visibili, nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 11 miliardi e 582 milioni, nel 1939, 13 miliardi e 983 milioni; nel 1945, 354 miliardi; nel 1946, 521 e nel primo semestre del 1947, 241. Le cifre del risparmio nuovo degli ultimi anni in lire italiane sono però troppo grosse e procacciano illusioni, derivanti dal nominalismo monetario. Il confronto non si può fare in lire italiane, ché si tratta di lire non paragonabili. Ho perciò tradotto le cifre in dollari attuali 1947. Il risultato è il seguente: nel 1938 i risparmiatori italiani avevano risparmiato 938 milioni di dollari; nel 1939 1086; ma nel 1945, 1405; nel 1946, 1478, e nel primo semestre del 1947, 449 milioni di dollari. Il ritmo del risparmio sembra diminuire nel primo semestre del 1947, sia nominalmente in lire, sia in moneta stabile. È una diminuzione reale od è uno spostamento dal risparmio visibile a quello che non risulta dalle statistiche? Si può dire, ad ogni modo, che il risparmiatore italiano oggi, dopo tante distruzioni, non ha risparmiato meno di quello che risparmiava nell’ante-guerra. Il risparmiatore italiano, con i suoi mezzi, ha provveduto a che si ricostruissero le ferrovie, si rifacessero le strade; ha compiuto un’opera che, domani, quando sarà considerata nel suo complesso, dovrà essere definita grandiosa. Esso, bisogna riconoscerlo, non avrebbe potuto ricostruire – risparmiare vuol dire ricostruire, è la premessa e la sostanza medesima della ricostruzione – se non fosse stato aiutato nel frattempo a vivere, a mangiare e vestire, dai soccorsi americani. Ma gli italiani non si sono adagiati passivamente ai soccorsi altrui. Se ne sono dimostrati degni, faticando a ricostruire, risparmiando, per potere in avvenire fare da sé. Se noi togliamo al risparmiatore italiano la paura di perdere il valore reale dei suoi risparmi, io ho fiducia che il risparmiatore italiano risparmierà ancor oggi e domani più di quello che abbia risparmiato in questi anni così difficili. E risparmiando ancora di più, dopo aver provveduto alla prima e più dura opera della ricostruzione, sarà in grado di ottenere due risultati: quello di permettere che si compiano con i nostri sforzi altre opere grandiose, le quali faranno sì che l’Italia possa da qui a qualche anno vivere meglio di oggi, e di fornire agli stranieri la prova che noi, risparmiando, meritiamo di avere nel frattempo tutto quel credito che noi chiediamo e che ci è necessario per poter sormontare le difficoltà presenti. (Applausi a destra e al centro – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, a tranquillizzare l’Assemblea dichiaro che sarò brevissimo nella mia esposizione.

Aveva ragione l’onorevole Pajetta ieri sera, quando affermava che, allorché si tratta di attentati alle libertà democratiche, l’importanza non è nel numero, ma è nella qualità. Aveva ragione, perché anche un solo attentato, volontario, alle libertà democratiche è un fatto estremamente grave e di cui l’Assemblea Costituente che è custode geloso di queste libertà, ha il dovere di occuparsi. Ed il Ministro dell’interno è stato accusato di avere violato ripetute volte le libertà democratiche.

L’onorevole Togliatti ha parlato lungamente nel suo discorso, al quale io non potetti assistere, non per mancanza di riguardo verso l’oratore, ma perché i suoi amici non hanno molto riguardo verso il Ministro dell’interno, il quale è obbligato il più delle volte ad assentarsi dall’Assemblea per provvedere alla sicurezza dei cittadini. (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra). Tuttavia ho letto attentamente, come meritava il discorso dell’onorevole Togliatti. E le accuse ch’egli ha formulato contro il Ministro dell’interno si riassumono in tre capi.

Primo capo d’accusa: attentato alle libertà di stampa. Il Ministro dell’interno è intervenuto per vietare l’affissione di manifesti con i quali si criticava l’azione del Governo. L’attentato sarebbe nella pretesa del Ministro dell’interno di negare all’opposizione la facoltà di critica del Governo, anche a mezzo di manifesti murali.

Veramente, il Partito comunista è il meno adatto ad assumere la posizione di vittima nella vita politica italiana, perché, se c’è un partito in Italia che gode di tutte le libertà democratiche e si consente la libertà di violare quelle altrui, è precisamente il Partito comunista. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra).

Una voce a sinistra. Vogliamo le prove!

Una voce al centro. Fate un giro per i comizi di Roma! (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio!

SCOTTI FRANCESCO. E l’onorevole Scelba faccia il Ministro!

PRESIDENTE. Scusi onorevole Scotti, mi pare che l’onorevole Scelba stia facendo il Ministro, rispondendo alle accuse. (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. È a tutti noto, anche ai rappresentanti del Partito comunista, che mai in Italia nessuna manifestazione comunista è stata disturbata.

Una voce a sinistra. E in Sicilia?! (Commenti all’estrema sinistra).

GIACCHERO. Neanche il figlio di Matteotti può più parlare! (Commenti all’estrema sinistra – Scambio di apostrofi fra il centro è l’estrema sinistra – Interruzioni del deputato Li Causi).

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi! Onorevoli colleghi! Io desidero sapere se c’è o no l’intenzione che il Ministro dell’interno parli. (Interruzione del deputato Amendola). Onorevole Amendola, non interrompa, non sta lei a dire come il Ministro debba rispettare l’Assemblea.

Onorevoli colleghi, non mi mettano nella condizione di dovere applicare il Regolamento. Il Ministro dell’interno ha atteso a parlare sino a questo momento ed ha diritto di parlare. (Interruzione del deputato Farina). Onorevole Farina, lei ha un precedente in proposito: se ne rammenti. Onorevole Scelba, continui a parlare. Faccio appello al senso di comprensione dell’Assemblea. (Commenti). Onorevoli colleghi, l’onorevole Scelba fa parte dell’Assemblea. (Approvazioni).

SCELBA, Ministro dell’interno. Soltanto nella giornata di ieri, tre oratori del Partito socialista dei lavoratori italiani non hanno potuto parlare in Roma e un comizio della Democrazia cristiana è stato impedito, ed erano stati organizzati persino dei bambini per fischiare. (Commenti a sinistra).

Una voce al centro. La verità brucia. (Commenti a sinistra – Interruzione del deputato Li Causi).

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi, la parola è al Ministro dell’interno: non credo che sia lei il Ministro dell’interno.

SCELBA, Ministro dell’interno. E vengo alla prima accusa sollevata dall’onorevole Togliatti contro il Ministro dell’interno, cioè il divieto dei manifesti. L’onorevole Togliatti si è lamentato di questo divieto: io potrei rispondere che l’autorizzazione o meno per l’affissione dei manifesti è di competenza dei questori e non del Ministro dell’interno: ma il Ministro dell’interno assume la sua responsabilità politica…

PAJETTA GIULIANO. Avete mandato i telegrammi.

SCELBA, Ministro dell’interno. …assume la sua responsabilità politica nei confronti degli organi esecutivi provinciali ed è in grado di poter difendere per suo conto quello che è stato l’operato in questo campo. La facoltà dei questori di autorizzare o di non autorizzare l’affissione di un manifesto deriva dall’articolo 113 della legge di pubblica sicurezza.

Voce a sinistra. Fascista!

ANDREOTTI, Sottosegretario per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. C’era anche prima.

SCELBA, Ministro dell’interno. Se loro avessero, onorevoli colleghi, una più approfondita conoscenza della legislazione italiana, saprebbero che un’analoga disposizione si trova nel testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1889 approvata dalla Camera dei deputati. (Applausi al centro – Commenti).

Questa legge, onorevoli colleghi, ha governato l’Italia fino all’avvento del regime fascista; perché è stato il regime fascista a modificare questo testo unico, apportando anche in questo campo delle limitazioni più confacenti al regime dittatoriale che si andava affermando in Italia fin dal 1926, con le prime disposizioni limitative della libertà. Ma il diritto dell’autorità di concedere la licenza per l’affissione dei manifesti – ripeto – è stato un diritto riconosciuto da Assemblee democratiche, o che non è stato mai contestato.

Dice l’articolo 65 del testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1889, al quale testo unico io mi riferisco tutte le volte che la mia coscienza democratica… (Interruzioni a sinistra).

Una voce al centro. Avete forse soltanto voi la coscienza democratica?

SCELBA, Ministro dell’interno. …trova dei dubbi di interpretazione.

«Salvo quanto dispone la legge sulla stampa dei giornali periodici, nessuno stampato o manoscritto può essere affisso o distribuito in luogo pubblico od aperto al pubblico, senza la licenza dell’autorità locale di pubblica sicurezza.

Sono esclusi da questa prescrizione gli stampati e manoscritti dell’autorità e pubbliche amministrazioni e quelli relativi a materie elettorali, ad affari commerciali ed a vendite o locazioni.

Le affissioni devono farsi nei luoghi designati dall’autorità competente».

(Interruzioni all’estrema sinistra).

Si tratta di vedere se l’esercizio di questo potere, che deriva dalla legge, è stato un esercizio abusivo, è stato un esercizio in contrasto col clima democratico che vige in Italia.

Ora, il manifesto principale che ha dato luogo alle proteste del Partito comunista è il manifesto intitolato «Il doppio gioco». Questo manifesto fu affisso senza licenza dell’autorità; anzi, la licenza non fu chiesta, perché, evidentemente, se ne riconosceva il carattere inammissibile. (Interruzioni a sinistra)

PAJETTA GIULIANO. Perché anche la Democrazia cristiana non l’ha chiesta.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’ha chiesta, la Democrazia cristiana! Se ne riconosceva – dicevo – il carattere inammissibile; perché in tutte le provincie d’Italia fu affisso clandestinamente, senza licenza dell’autorità.

Basterebbe questo solo fatto, perché l’autorità di pubblica sicurezza avesse il diritto di intervenire per far rimuovere il manifesto. Dico che in Italia 88 questori su 90, senza particolari istruzioni, rifiutarono l’autorizzazione, quando questa autorizzazione fu richiesta.

E l’autorizzazione fu negata… (Interruzioni del deputato Togliatti).

PRESIDENTE. Onorevole Togliatti, la prego, non interrompa.

SCELBA, Ministro dell’interno. …persino dalle autorità alleate di Udine e di Gorizia (Interruzioni e commenti a sinistra).

Una voce al centro. Pur essendo imparziali!

SCELBA, Ministro dell’interno. Le autorità alleate di Udine e di Gorizia erano le autorità di Paesi che si chiamano Inghilterra, che si chiamano America, in cui la democrazia politica non è un’espressione vana, ma una realtà che ha la sua base in conquiste popolari secolari. (Interruzioni all’estrema sinistra).

E se le autorità, se rappresentanti di queste democrazie negavano l’autorizzazione a quel manifesto, avevano le loro ragioni così come le avevano le autorità italiane.

Si è ricorso perfino all’inganno: si disse alle autorità alleate (ed anche ad altre autorità, ai questori italiani che rifiutavano il visto) che il Governo italiano aveva autorizzato a Roma il manifesto.

Di fronte a quest’affermazione, le autorità alleate concessero il visto, che fu revocato allorché fu chiarito che nessuna autorizzazione era stata data in Italia.

Quindi è chiaro che il Partito comunista era talmente convinto del valore intrinseco di questo documento (Interruzioni all’estrema sinistra), che la sua prima azione è stata quella di affiggerlo clandestinamente, in violazione delle leggi.

E perché l’autorità di pubblica sicurezza ha negato il visto al manifesto? Nonostante le continue accuse che vengono indirizzate al Ministro dell’interno dall’estrema sinistra, il Ministro dell’interno, in questo settore (e lo dimostrerò a mano a mano che esaminerò le altre accuse) ha agito col massimo scrupolo, si è premunito e si è preoccupato di domandare perfino il parere dell’ufficio legale del Ministero di grazia e giustizia sul contenuto del documento. E all’ufficio legale vi sono altissimi magistrati, i quali hanno l’abitudine critica ed il senso dell’autonomia di giudizio e del rispetto di se stessi (Applausi al centro e a destra), magistrati che già furono collaboratori dell’onorevole Togliatti come dei successivi Guardasigilli.

E l’ufficio legislativo (ho qui il testo del suo parere) opinò che nel manifesto in questione potevano ravvisarsi il vilipendio del Governo e la diffamazione dei singoli Ministri. (Interruzione all’estrema sinistra).

LACONI. Non vi siete mai accorti che erano Ministri Togliatti e Sereni quando diffamavate i nostri Ministri!

PRESIDENTE. Onorevole Laconi, per favore non interrompa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Se questo, onorevoli colleghi, era il contenuto del manifesto, se dei giuristi di valore indiscutibile affermavano che in questo manifesto c’erano dei reati di diffamazione e di vilipendio…

Una voce a sinistra. Potevate dare querela!

SCELBA, Ministro dell’interno. …nessuna autorità politica poteva consentire la pubblicazione di un manifesto, che in sé conteneva determinati e specifici reati, senza rendersi complice di questi reati!

Questo, onorevoli colleghi, mi pare troppo chiaro.

Io ho letto le argomentazioni dell’onorevole Togliatti a proposito dell’articolo 290. L’articolo 290 parla di «vilipendio del Governo del re»; ma questo, dice l’onorevole Togliatti, non è il Governo del re. (Si ride); quasi che il vilipendio fosse ammesso a seconda che il Governo sia del re o della Repubblica; quasi che fosse legittimo vilipendere le istituzioni repubblicane. (Vivi applausi al centro – Proteste a sinistra).

BELLAVISTA. C’è più sincerità in noi nell’accettare la Repubblica che in voi a dichiararvi democratici. (Commenti all’estrema sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. Ora, la repressione del vilipendio del Governo come tale non deriva da una legge di oggi. Anche il vecchio codice Zanardelli – un uomo di parte democratica – aveva una precisa disposizione in materia, e puniva lo stesso fatto con pene abbastanza rilevanti, dato il clima e il tempo in cui quelle sanzioni venivano sancite.

L’articolo 126 del codice penale del 1889 dice: «chiunque pubblicamente vilipende le istituzioni costituzionali dello Stato è punito con la detenzione fino ad un anno». (Interruzioni all’estrema sinistra).

Ora, onorevoli colleghi, tutto può pretendersi da Governo, tutto può pretendersi da un’autorità, ma non si può pretendere che si vilipendi e si insulti quell’autorità col visto dell’autorità medesima. (Si ride).

Questo non è interesse di nessuno, né interesse della democrazia (Interruzioni a sinistra).

L’onorevole Togliatti mi ha domandato: «che fine ha fatto il progetto Romita di riforma della legge di pubblica sicurezza, e perché ci serviamo ancora di una legge fascista».

Io potrei osservare che anche l’articolo 290 del Codice penale esisteva quando l’onorevole Togliatti era Guardasigilli; e domandare a lui perché non ha provveduto a sopprimerlo. Ma posso assicurare l’onorevole Togliatti che non è per colpa del Ministro dell’interno se il progetto Romita non è andato avanti. È stato il Consiglio di Stato che, con un motivato parere, ha dichiarato che sembrava intempestiva la riforma della legge di pubblica sicurezza prima che la Costituente avesse fissato i cardini fondamentali ed i diritti dei cittadini, i quali nella legge di pubblica sicurezza trovano la garanzia concreta di esercizio. Io, quindi, non ho potuto far altro che proseguire gli studi che, sotto la presidenza degli onorevoli Corsi e Spataro, erano stati iniziati nel passato e preparare tutto il materiale, seguendo passo passo l’attività della Costituente, da sottoporre al futuro Parlamento per la riforma.

E veniamo alla seconda accusa: il divieto dei comizi nelle fabbriche. Ieri l’onorevole Matteotti, mi pare, non ha potuto parlare alla Snia Viscosa, in un comizio politico in preparazione delle elezioni.

Di questo argomento se ne parlò alla Camera allorché fu nota la disposizione limitativa; ed in quel momento furono precisati anche i limiti del divieto, divieto che non riguardava, come si disse, e come è pacifico, il diritto sindacale. Nessuno aveva mai pensato di negare ai lavoratori di potersi riunire nell’interno degli stabilimenti per trattare di tutti i loro problemi sindacali e, in questa sede, di criticare (l’onorevole Di Vittorio ha affermato una cosa inesatta in un suo articolo) anche il Governo, per quanto abbia nesso alla politica sindacale.

Io non nego, infatti, che anche in sede sindacale si possa criticare l’azione del Governo. Ma che cosa noi abbiamo voluto disciplinare più che impedire totalmente? Abbiamo voluto affermare con quella disciplina una esigenza di libertà che sorgeva dall’esperienza concreta; e l’esperienza concreta era questa, che nelle fabbriche avevano diritto di parlare soltanto determinati uomini; che nelle fabbriche esisteva ed esiste una coazione morale nei confronti delle minoranze che non la pensano come le maggioranze… (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra – Commenti).

I lavoratori cristiani – e ammettete, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, che un ministro democristiano si preoccupi anche di tutelare la libertà dei lavoratori cristiani – i lavoratori cristiani di Milano, esaminando le disposizioni che erano state impartite in materia, hanno affermato la loro solidarietà piena con il Ministro dell’interno, con espressioni assolutamente inequivocabili: «Approviamo incondizionatamente ritenendo d’interpretare con certezza la volontà di tutti lavoratori cristiani le disposizioni Ministro Scelba in ordine ai comizi politici che l’esperienza ha già dimostrato essere antitetici alla serenità dello sforzo produttivo ed alla tranquillità sociale delle categorie lavoratrici». (Interruzione del deputato Laconi).

L’onorevole Togliatti ha affermato che i lavoratori si sono conquistato questo diritto; dalle fabbriche sono sorti i movimenti popolari e che non si possono negare a una parte di cittadini le libertà politiche.

Ora, onorevole Togliatti, penso che quando i lavoratori nell’interno delle fabbriche operavano politicamente erano i lavoratori di tutte le tendenze, e ciò avveniva nel momento politico in cui non era dato di poter svolgere liberamente i diritti politici, compreso quello di riunione o di associazione. E tutti facevamo della politica dove si poteva: nelle aule dei tribunali come nelle fabbriche.

Ma oggi i lavoratori italiani, come tutti i cittadini italiani, hanno diritto di adunarsi pacificamente nelle piazze, nei teatri, nei cinematografi. Impedire o regolare o disciplinare, per garantire a una minoranza la libertà politica, il diritto di tener comizi interni nelle fabbriche, significa limitare, negare, a una parte del popolo la libertà di riunione e di associazione? Voi avete lo stesso diritto di tutti i cittadini: ne reclamate uno particolare. E questo diritto può essere anche riconosciuto, ma va disciplinato nel senso che non si tramuti in tirannia e in terrorismo psicologico presso le masse. (Interruzioni – Commenti).

LUSSU. Quale disposizione avete dato per quella parte del clero che fa comizi in Chiesa?

CIMENTI. I sacerdoti hanno fatto contradittori in piazza, non in Chiesa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Abbia la pazienza di ascoltarmi, onorevole Lussu. Se l’onorevole Lussu segnalerà la violazione di leggi in materia…

LUSSU. I questori sono al corrente di tutto.

Una voce al centro. Non è vero.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo, come fa osservare o si sforza di far osservare altre leggi, farà osservare la legge anche in questo campo.

Ma, onorevoli colleghi, il Governo ha così poca voglia di servirsi del suo potere ed io, che in questo momento esprimo il potere esecutivo nella sua branca più sensibile, ho tale avversione al potere che è concesso al Ministro dell’interno, che ho fatto approvare nell’ultimo Consiglio dei Ministri un decreto con cui il potere esecutivo rinuncia all’esercizio del suo potere in materia. Io ho compreso, attraverso l’esperienza, che il potere esecutivo può abusare del suo potere e limitare la libertà dei cittadini, anche se nei casi concreti questo abuso – lo affermo in piena coscienza – non c’è stato; io ho compreso il valore potenziale che presenta questa disposizione della legge di pubblica sicurezza.

Sensibile alle esigenze profonde di libertà ho voluto che, contro l’esercizio del potere esecutivo in materia di affissioni, fosse data ai cittadini ed ai partiti la possibilità di ricorrere ad un altro potere; perché se oggi un questore nega un permesso, contro chi si può ricorrere? Al prefetto ed al Ministro, che è corresponsabile o l’ispiratore della politica dei questori e dei prefetti, e non c’è evidentemente che una sola garanzia; la garanzia democratica del controllo parlamentare, spesso tardivo. Ma tuttavia ho riconosciuto il valore fondamentale della libertà di manifestazioni murali ed ho voluto che contro la possibilità di abusi fosse data a tutti la facoltà di ricorrere ad un altro potere; e con la legge approvata nell’ultimo Consiglio dei Ministri è stato stabilito che contro il divieto del questore di concedere l’autorizzazione per i manifesti politici, si può ricorrere al Procuratore della Repubblica. L’articolo 1 del decreto che abbiamo approvato dice testualmente: «I provvedimenti dei questori che importino diniego dell’autorizzazione prevista…».

PAJETTA GIAN CARLO. Perché non abolite l’articolo 290?

SCELBA, Ministro dell’interno. Lo faremo poi, ma oggi dobbiamo prendere qualche garanzia contro la legge di pubblica sicurezza; «…sono impugnabili con il ricorso al Procuratore della Repubblica competente per territorio, che decide immediatamente e, comunque, non oltre 48 ore dalla presentazione, senza l’osservanza di formalità». (Commenti). Ho voluto che contro la possibilità di abusi da parte dei questori a tutti fosse data la facoltà di ricorrere ad un’autorità estranea al potere esecutivo, ed affinché la legge non diventasse un trucchetto per portare le cose alle lunghe, ho detto che i Procuratori della Repubblica debbono decidere immediatamente ed entro 48 ore e senza formalità di sorta. Perché la libertà ha diritto di essere tutelata immediatamente.

Ed allora, onorevoli colleghi, dire che il Ministro voglia abusare non è vero perché non c’è stato il fatto, e neppure esiste la volontà di farlo perché un Ministro che, innovando in tutta la legislazione passata, fascista e prefascista, rimette ad un altro potere, giudiziario, che noi vorremmo sempre forte e vigile custode delle libertà democratiche, la garanzia e la guarentigia di queste libertà non può essere un Ministro che intenda esercitare un abuso contro qualsiasi partito. (Approvazioni al centro).

Ho dato questa garanzia, per cui in avvenire nessuno potrà lamentarsi se un questore abusa del suo potere e nega l’autorizzazione. Infatti si potrà sempre ricorrere al Procuratore della Repubblica, il quale ha il dovere di provvedere immediatamente.

E veniamo al terzo capo di accusa.

PAJETTA GIAN CARLO, E perché non ci dice qualcosa sul manifesto del Papa?

SCELBA, Ministro dell’interno. Lei vuol sapere qualche cosa sul manifesto del Papa. Io mi trovavo a Milano. Appena arrivato a Milano trovo su Milano Sera un articolo contro il Ministro dell’interno, violatore delle libertà. Insomma, il solito manifesto. Tutti i questori della Lombardia senza avere interpellato il Ministro del l’interno…

PAJETTA GIAN CARLO. Non è vero!

SCELBA, Ministro dell’interno. Aspetti, onorevole Pajetta. Lei ha letto sul Popolo di Milano una mia intervista con la quale approvavo pienamente l’operato dei questori. E quindi, non c’è contraddizione. Se l’avessero chiesta, l’avrei data. Milano Sera viene fuori con un grande manifesto murale, ed in questo campeggia la figura del Pontefice Pio XII. Perché è stato negato il permesso? Ma, onorevoli colleghi, esiste un diritto del cittadino di non vedere utilizzata la propria immagine per nessuna speculazione, e tanto meno per una speculazione commerciale. Ora, se questo diritto esiste per i cittadini, a maggior ragione deve essere tutelato nei confronti del Capo della religione cattolica. (Vivi applausi al centro). Dev’essere tutelato perché io penso che se il partito della Democrazia cristiana, per esempio, o il partito socialista, o il partito repubblicano prendessero altre immagini, probabilmente le persone interessate o i partiti protesterebbero ugualmente. Comunque, io ritengo che l’autorità di pubblica sicurezza non potesse dare il visto ad una siffatta pubblicazione, perché poteva rappresentare, per lo meno, una mancanza di riguardo verso il Capo della religione cattolica, verso il Capo di uno Stato col quale l’Italia è in rapporti diplomatici.

PAJETTA GIAN CARLO. È stato interpellato, lei?

SCELBA, Ministro dell’interno. Rispondo subito dicendo che il questore ha negato l’autorizzazione. È stato presentato questo manifesto e data l’importanza ed il chiasso che può fare una cosa di questo genere, egli chiede al Ministro dell’interno di esprimere il suo parere. Si vuole che il questore non interpelli il Ministro dell’interno?

E veniamo al terzo capo di accusa.

TOGLIATTI. Perché non sopprime tutti i giornali politici?!

SCELBA, Ministro dell’interno. Ella sa, onorevole Togliatti, che la materia della stampa e delle affissioni murali ha una disciplina diversa, che c’è stata sempre, che non ho inventato io, e neppure il fascismo. E se c’è una differenziazione di trattamento fra i giornali e gli affissi murali, la ragione c’è. Lei può trovarne molte, io ne trovo per conto mio una, che non ha un valore decisivo, per me; comunque i deputati eletti liberamente che discutevano della legge di pubblica sicurezza e che hanno stabilito questa diversità di regolamentazione hanno avuto un qualche motivo particolare. Questo motivo è: (Interruzione del deputato Togliatti – Proteste al centro) il cittadino che tutte le mattine si alza e vuole trovare degli improperi contro il Ministro dell’interno non ha che prendere l’Unità e l’Avanti. Spende dieci lire ed è sicuro di trovare quotidianamente qualche cosa nei riguardi del Ministro dell’interno. Nessuno si scandalizza, né si scandalizza il Ministro dell’interno, né si scandalizza il lettore, perché sa perfettamente che l’Unità ha questo compito specifico, almeno si è assunto questo compito specifico e non c’è nessuno scandalo. Ma quando, onorevole Togliatti, voi mettete per i muri della città un manifesto con la fotografia del Ministro dell’interno, può passare mia moglie, mia figlia, i miei parenti, possono passare degli amici e vedono una fotografia, con una serie di insulti come commento! Ma perché debbo essere insultato nei miei sentimenti, nella mia credenza, nella mia fede politica gratuitamente nelle vie di Roma col permesso delle autorità? Ma perché, tutto questo, onorevole Togliatti? (Interruzioni – Proteste a sinistra).

Sarà questa la ragione o sarà un’altra? Io dico: ho trovato questa ragione che mi sembra più plausibile col mio sentimento. Ragioni ve he saranno molte. Si possono prendere i precedenti parlamentari e trovare la ragione che ha ispirato il legislatore a dettare questa norma.

Ma dal momento che una differenziazione c’è, ci dovrà essere una ragione e non possiamo non tenerne conto.

LACONI. Per quale ragione non si stracciano i manifesti che insultano noi?

TOGLIATTI. Anch’io ho una famiglia e pure mi s’impicca sui manifesti.

SCELBA, Ministro dell’interno. Non è una autorità in carica, si potrebbe dire. (Rumori a sinistra).

Per concludere su questo punto io mi permetterei di leggere un ordine del giorno della Federazione comunista di Arezzo e credo che potrebbe costituire un punto di conciliazione politica in questo campo.

L’ordine del giorno della Federazione comunista di Arezzo, di fronte alla propaganda murale che altri partiti hanno iniziato, seguendo lo stesso sistema che per diverso tempo usava il partilo comunista, ha protestato contro questa presa di posizione, contro questo nuovo sistema.

Fin quando questo sistema era monopolio di un partito, nessuno protestava; quando altri partiti hanno scelto la stessa linea polemica, sono cominciate le proteste!

Comunque è apprezzabile lo sforzo che fa la Federazione comunista di Arezzo.

Do lettura dell’ordine del giorno:

«La segreteria della Federazione comunista di Arezzo si è riunita per esaminare la particolare situazione creatasi nella popolazione a seguito della continua affissione di manifesti murali anonimi contenenti ogni sorta di calunnie ed ingiurie verso il partito comunista e i suoi dirigenti;

constatato che tali manifesti sono una offesa al buon costume politico e una deroga alle leggi vigenti in materia di affissioni murali;

richiama le autorità di polizia perché obbiettivamente vigilino e prendano provvedimenti a carico dei responsabili trasgressori, ogni qual volta queste cose si verifichino;

ricorda in proposito che, mentre taluni agenti di polizia nella provincia si preoccuparono di strappare o di far togliere regolari manifesti stampati a cura dell’Unità, nessun provvedimento del genere è stato preso nei rispetti degli anonimi manifesti anticomunisti;

fa presente che se persistesse questa azione anonima di discredito del Partito comunista in forme vietate dalla legge essa si vedrebbe costretta a declinare ogni responsabilità per quanto potrebbe accadere, a seguito dello stato d’animo dei comunisti, degli amici e dei simpatizzanti;

rinnova la sua ammirazione nei confronti di uomini come Togliatti, che hanno combattuto, ecc…

e invita i partiti democratici ad esprimersi contro questo particolare tipo di pseudo democrazia, che è soltanto licenza di determinati ambienti politici;

invita tutti i democratici a far sì che la politica non si svolga sul terreno della calunnia, della maldicenza o del pettegolezzo (Applausi al centro – Commenti all’estrema sinistra) ma che sia invece una discussione onesta, leale e concreta sui problemi che travagliano la vita del Paese».

Io concordo, onorevoli colleghi, con questo appello e, se tutti i partiti abbandoneranno questo sistema di lotta di manifesti e di ingiurie anonime, sarà tanto di guadagnato. (Proteste all’estrema sinistra).

E veniamo all’altro attentato, contro le libertà comunali. Questa accusa mi offende in modo particolare, perché io delle libertà comunali sono un assertore convinto ed ho nella mia memoria direi quasi l’odio contro la politica giolittiana nei confronti delle amministrazioni comunali. Io dico, ed ho sempre pensato, che il fascismo in Italia non ci sarebbe stato se la violazione delle libertà comunali non fosse stata tollerata. Perché, quando si incomincia a violare una libertà e quando questa libertà sta alla radice della libertà politica stessa – perché è nella libertà comunale che si forma la coscienza libera del cittadino – quando si offende questa libertà alla radice, tutto il resto è possibile. Quando voi, con l’arbitrio del potere esecutivo, sciogliete un’amministrazione comunale liberamente eletta, nulla vieta che un qualsiasi Mussolini venga, domani, a sciogliere il Parlamento nazionale.

Questo è stato sempre il mio profondo convincimento ed io ho quasi orrore del potere esecutivo che interviene in ordine alle amministrazioni comunali.

Quindi, questa accusa dell’onorevole Togliatti mi offende in modo particolare; direi offende la mia sensibilità politica di democristiano in quanto è nota la posizione da noi presa a favore della libertà dei comuni. Ora, in materia di libertà comunale, il mio scrupolo è arrivato a tal punto, che sono quattro mesi che non firmo alcun decreto di scioglimento di Consigli comunali, urtando persino miei amici di partito. (Commenti a sinistra – Ilarità). Un Ministro democristiano può anche permettersi il lusso di richiamare qualche suo amico il quale creda onestamente che, di fronte alla condotta di un sindaco che offenda ogni senso amministrativo, il potere esecutivo possa intervenire con lo scioglimento del Consiglio comunale.

Io ho mandato una circolare a tutti i prefetti, invitandoli a non spedirmi più proposte di scioglimento di Consigli comunali per motivi di ordine pubblico. E ho fatto anche qualche altra cosa: ho ristabilito la garanzia democratica – cosa che nessun mio predecessore, evidentemente preoccupato di altre gravi e pressanti cure, aveva pensato di fare – la garanzia democratica, dicevo, per cui sulla proposta di scioglimento dei Consigli comunali debba essere sentito il parere del Consiglio di Stato.

Così, per effetto di tale disposizione, ove il Ministro dell’interno fosse di parere contrario a quello espresso dal Consiglio di Stato, avrebbe il dovere di motivare tale suo avviso, anche se il parere del Consiglio di Stato non è vincolante.

Ho disposto, dicevo, che non vengano sciolti Consigli comunali sotto il pretesto dell’ordine pubblico, perché, molto spesso, l’ordine pubblico rappresenta il mezzo più rapido per compiere arbitrî.

L’ordine pubblico non è spesso che il pretesto con cui una fazione cerca di sopraffare l’altra liberamente eletta. E a noi corre l’obbligo di esercitare una funzione di tutela; noi dobbiamo resistere alla piazza che cerca di distruggere con la violenza ciò che la volontà popolare ha voluto.

Se dunque questo è ciò che ha fatto il Ministro dell’interno, se dunque il Ministro dell’interno ha dato disposizione di non servirsi di questo arnese dell’ordine pubblico che tutti i Governi cercano invece di utilizzare a profitto della propria parte; se dunque il Ministro dell’interno ha disposto che venga sentito il parere del Consiglio di Stato sulle proposte di scioglimento di Consigli comunali, come si può, francamente, dire che il Ministro dell’interno sia fazioso? È questa una accusa, onorevole Togliatti, che io non posso assolutamente accettare.

Ma l’onorevole Togliatti ha detto anche che alcuni sindaci dell’Emilia – si tratta di cinque o sei in tutto – sono stati sospesi perché avevano violata la legge sugli ammassi. E – ha detto – non mi offende tanto la sostanza, perché nella sostanza può darsi che fossero colpevoli, anche se politicamente non lo sono; mi lamento della forma, perché non si può procedere contro un sindaco senza che il Ministero dell’interno abbia provocato lo scioglimento della garanzia amministrativa.

Ora, onorevole Togliatti, mi dispiace, ma la disposizione di legge cui lei si riferisce non esiste. Cioè, non è il Ministero dell’interno che dà l’autorizzazione. Lei si è riferito evidentemente alla legge comunale e provinciale del 1915; ma non ha tenuto conto del Codice di procedura penale, il quale all’articolo 15 regola le modalità dell’autorizzazione. Il compito di chiedere lo scioglimento della garanzia amministrativa spetta al Procuratore della Repubblica, il quale inoltra la domanda al Ministro di giustizia. – E lei, come Guardasigilli, avrà firmato tante volte richieste e documenti del genere. – Il Ministro Guardasigilli chiede al Ministro dell’interno il suo parere. È un semplice parere a cui non è tenuto il Ministro di giustizia a sottostare. Il Ministro Guardasigilli, chiesto il parere, promuove il decreto del Capo dello Stato che scioglie o sospende la garanzia amministrativa.

È questa la procedura che riguarda la garanzia dell’amministrazione comunale. Quindi, se una violazione c’è stata, questa non è dipesa, non è imputabile al Ministro dell’interno. Ma, onorevole Togliatti, anche se questa violazione ci fosse stata in concreto, se l’autorizzazione non ci fosse stata, spetterebbe al magistrato, allorché dovrà giudicare del sindaco imputato, sospendere il giudizio per mancanza, per difetto di autorizzazione.

Ma il prefetto ha sospeso i sindaci. Vi è una norma di legge la quale stabilisce che, quando il sindaco è rinviato a giudizio o è citato a comparire, egli è sospeso di pieno diritto; tanto che vi sono scrittori i quali sostengono che non accorre neppure un provvedimento del prefetto, dell’autorità amministrativa, ma automaticamente opera la sospensione dall’esercizio delle funzioni.

Che cosa vi è in questa procedura di attentato alle libertà democratiche? Come si può imputare al Ministro dell’interno un attentato alle libertà comunali, alle libertà municipali, quando nessuna ombra, nessun esercizio di potere esecutivo vi è stato in questi casi?

Dice l’onorevole Togliatti che basta un telegramma del Ministro dell’interno per sospendere un sindaco. Io potrei dire all’onorevole Togliatti di indicarmi un telegramma del Ministro dell’interno che abbia chiesto la rimozione di un sindaco. E mi dica quale disposizione di legge stabilisce e ammette e permette che con un telegramma del Ministro dell’interno possa sospendersi un sindaco.

Vi sono certamente molti sindaci che sono stati sospesi; io potrei leggere una lunga, numerosa, infinita serie di sindaci che sono stati denunziati all’autorità giudiziaria per violazione di leggi penali comuni, e per i quali l’autorità amministrativa, il prefetto, ha sospeso il sindaco fino all’esito del giudizio. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con l’esercizio arbitrario del potere esecutivo, con l’intervento del Ministro dell’interno.

Ecco le tre accuse che sono state sostanzialmente rivolte al Ministro dell’interno. D’altronde, giustamente, ieri ha detto l’onorevole Piccioni: queste accuse, anche nel tono nel quale erano state originariamente formulate le mozioni, non erano tali, nel pensiero stesso dell’onorevole Togliatti, da giustificare un voto di sfiducia; tanto è vero che l’onorevole Togliatti, nel suo discorso, ha finito col dire che in fondo la sua mozione investe la politica generale del Governo.

Ma una quarta accusa è stata ancora rivolta: il Governo non fa nulla per la difesa della Repubblica, il Governo non perseguita le organizzazioni neofasciste, non fa nulla contro il fascismo. (Le due cose sono intimamente connesse perché, evidentemente, il fascismo opera contro la Repubblica e più si rafforza la Repubblica più si combatte il fascismo).

Ed ho sentito accenti patetici – per esempio dall’onorevole Gian Carlo Pajetta – per il fango che dalla stampa neofascista viene lanciato contro gli uomini dell’antifascismo.

Ed io, che non posso evidentemente leggere tutta la stampa ma che ho occasione spesso di vedere i giornali citati dall’onorevole Pajetta, ho sentito talvolta il dispetto, lo sdegno contro queste manifestazioni; e sono intervenuto in due casi, quando potevo e come potevo, deferendo alle Commissioni per il confino due direttori di giornali per attacchi contro l’antifascismo che erano veramente una vergogna. L’ho fatto, ma non è compito del Ministro dell’interno di sovrintendere alla stampa; non è compito specifico mio di sovrintendere a questo settore.

L’onorevole Pajetta si lamenta di questo fango che viene lanciato contro gli uomini dell’antifascismo e ne imputa la colpa alla Democrazia cristiana che avrebbe spezzato l’unità delle forze antifasciste. Onorevole Pajetta, perché si meraviglia? Quando dal suo partito, dalla sua stampa, e ancora ieri sera da lei stessa viene ripetuto l’atroce insulto contro Alcide De Gasperi di austriacante, contro Alcide De Gasperi che a venti anni conosceva il rigore delle prigioni austriache, contro quest’uomo che nel 1926 conosceva il rigore delle prigioni fasciste; quando voi, in tutta la vostra stampa, nei vostri discorsi, nei vostri manifesti indicate come traditore, austriacante, anti-italiano, nemico del Paese il Capo del Governo e di un grande partito politico e lo gettate al ludibrio dei vostri aderenti? Che meraviglia se poi vengono ex fascisti a gettare fango contro di voi e contro di noi?

Siete voi che avete spezzato il fronte dell’antifascismo! (Vivi applausi al centro e a destra – Scambio di apostrofi fra il centro e l’estrema sinistra).

Onorevoli colleghi, quando non si può accusare un Ministro di essere monarchico, ma si deve riconoscere che ha lottato per la Repubblica, allora si dice che egli chiude gli occhi, è sordo e cieco di fronte all’attività fascista.

Ora io devo dire chiaramente, lealmente, onestamente – e lo dico per mio intimo compiacimento – che la Repubblica italiana ogni giorno più si afferma nella coscienza degli italiani, la Repubblica italiana ogni giorno più si rafforza; e noi la Repubblica la rafforziamo e vogliamo rafforzarla, non presentandola col viso grifagno del persecutore, ma con volto umano pacificatore. Noi vogliamo portare alla Repubblica tutte le forze, presentando loro la Repubblica non come l’espressione di una fazione, di una parte, ma come il volto stesso della Patria. (Applausi al centro). È questa, onorevoli colleghi, la politica che noi facciamo per rafforzare la Repubblica.

È la politica, d’altronde, che voi avete iniziato, ma non voi soltanto, né per vostro merito soltanto, ma per merito di tutto l’antifascismo, con la pacificazione rappresentata dall’amnistia. Sappiamo benissimo che molti fascisti hanno inteso l’amnistia non come un attrazione pacificatrice, non come l’espressione umana dell’antifascismo, ma quasi come un atto riparatore di pretese ingiustizie commesse a loro danno. Questo è un errore di molti elementi fascisti che accusano la democrazia ingenerosamente, ingiustamente.

Non è merito e demerito dell’onorevole Togliatti l’amnistia con cui la Repubblica ha iniziato il suo Governo, ma merito dell’antifascismo che voleva mostrare agli italiani un volto nuovo dopo tante persecuzioni, dopo tante sevizie. L’amnistia si presentava così come un gesto pacificatore che non possiamo sciupare considerandolo fatto soltanto ed obbligatoriamente in una sola direzione. Quando si pretende che la pacificazione avvenga attraverso l’iscrizione a un determinato partito, essa manca al suo scopo e non è più ammissibile. Non possiamo accettare che per, riconciliarsi con la Repubblica, si debba iscriversi soltanto a un determinato partito, non possiamo accettare questa tesi di un battesimo civile (Vivi applausi al centro – Rumori a sinistra), battesimo che verrebbe al fascista allorché, accettando una determinata fede politica classificata in antitesi con la sua precedente, si vuol stabilire che con ciò stesso egli si purga totalmente.

Quando noi vediamo che l’onorevole Togliatti rivolge le sue cure, non soltanto a coloro a cui è stata concessa l’amnistia, ma anche ai repubblichini, perché il Governo dovrebbe da parte sua fare una politica di persecuzione? (Applausi al centro – Rumori all’estrema sinistra).

Onorevoli colleghi, io concludo dicendo che non si può accusare di faziosità una politica che tende a correggere la violenza, che tende a correggere la prepotenza, la quale sembrava diventata lecita e legittima, soltanto perché rimaneva impunita. Il nostro sforzo è quello di ridare fiducia al popolo italiano, fiducia nell’autorità dello Stato, perché esiste un problema in Italia: liberare il popolo italiano dal timore. Lo sforzo che noi coscientemente facciamo è questo: di dare a tutti i cittadini la libertà di sentirsi pari di fronte a chicchessia e quella di sentirsi figli di un’unica famiglia. Il popolo italiano non aspira altro che alla sua prosperità, non aspira altro che alla pace, non aspira altro che a vivere nella libertà dopo l’esperienza tragica del fascismo. Noi, onorevoli colleghi, siamo qui garanzia di questa libertà (Applausi al centro – Proteste a sinistra), garanzia di voler favorire il popolo italiano nello sforzo della ricostruzione materiale e nel lenire le sue piaghe e le sue ferite materiali; ma siamo qui anche per ridare una dignità ed un volto libero al popolo italiano. (Vivissimi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 13.35.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Giacchero

Tonello

Simonini

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Calosso

Bruni

Nitti

Presidente

Pajetta Giancarlo

Macrelli

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

GIACCHERO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIACCHERO. Ho chiesto la parola per precisare un punto toccato ieri dall’onorevole Giannini e che si riferisce al Convegno parlamentare europeo di Gstaad.

Questa precisazione non è fatta per controbattere l’accusa di ostilità che la Democrazia cristiana avrebbe dimostrato nei di lui riguardi anche in quella occasione.

Per rispondere a questo, come agli altri rilievi del genere, la Democrazia cristiana può contare su elementi molto più qualificati di me.

Ma siccome si è parlato di diminuzione di prestigio, che sarebbe derivata all’Italia da uno scambio di oratori nell’elenco ufficiale della giornata inaugurale di quel Convegno, e siccome io ero il capo di quella Delegazione italiana, che contava 34 deputati e che ne rappresentava oltre 200, ho il dovere di dimostrare che questo non è esatto. E non è esatto prima di tutto perché l’elenco preparato dalla Segreteria generale era stato compilato con criteri che nulla avevano a che vedere né con l’importanza della Nazione (sarebbe stata ridicola una gerarchia di valori fra le Nazioni, quando queste si riunivano su di un terreno di assoluta parità) né con l’abilità o la rinomanza dell’oratore (e questo lo dimostrerebbe il fatto che il più brillante oratore, capo del Gruppo parlamentare socialista belga e che fu poi eletto presidente dell’Assemblea, Georges Bohy, figurava agli ultimi posti sull’elenco), ma semplicemente seguendo un criterio direi così coreografico, che nelle cerimonie ufficiali non può venire trascurato.

Non è esatto il rilievo dell’onorevole Giannini perché, se la Delegazione Italiana chiese alla Segreteria generale di far parlare il rappresentante ufficiale della Delegazione prima dello stesso onorevole Giannini, lo fece dopo aver discusso la questione in una seduta preliminare, dove l’opportunità di questo scambio venne sostenuta non solo dai democristiani, ma anche dai rappresentanti di altri partiti presenti a Gstaad, per evidenti ragioni di correttezza.

Ed infine, se si vuol proprio parlare di prestigio dell’Italia, anche in quest’occasione, dove io ritengo sia fuori posto, tenuto conto dello spirito che doveva animare e che ha animato il Convegno, mi corre l’obbligo di precisare che questo prestigio fu tenuto molto in alto non tanto dal discorso di questo o di quel Presidente, quanto dalla sobrietà, serietà e consistenza degli interventi dei delegati italiani di tutti i partiti e dalla circostanza cui Giannini, che tanto si preoccupa del prestigio dell’Italia quando gli si cambia posto, non ha accennato, e cioè che all’Italia fu riservata una delle quattro Vicepresidenze nel Consiglio e nell’Assemblea.

Ma questo, che senza dubbio può rappresentare un segno di prestigio, fu ottenuto dall’Italia non per il merito di questo o di quell’inviato, di questo o di quel partito, di questo o di quell’oratore, ma semplicemente perché l’Italia, negli ambienti dove non vi sono cieche e meschine ostilità, o preconcetti ideologici, è ancora e sempre considerata un grande Paese a cui, quando si vuol costruire una civile convivenza di popoli europei, non si può negare un posto di primo piano. (Applausi al centro).

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Il mio amico onorevole Simonini nel suo discorso di ieri ha accennato ad una mia antica carica quale membro della fabbriceria della basilica di San Petronio in Bologna. Fra le altre cariche ebbi pure quella di fabbriciero della basilica di San Petronio in Bologna; e fu perché, essendo io allora consigliere provinciale, la maggioranza clericomoderata del Consiglio, dovendo nominare un rappresentante della provincia in grembo a questa organizzazione, nominò me.

Nel fare una risata, io mi alzai e dissi: «Ringrazio i colleghi dell’onore che mi fanno»; ed accettai la carica. Fu in quel tempo che contrassi rapporti cordiali con lo stesso Cardinale Della Chiesa che poi fu Pontefice, un uomo intelligentissimo e spiritosissimo, ve lo dico subito. Dunque, in tutto questo non c’è niente di male. In altri tempi ho coperto altre cariche che potevano, anche politicamente, apparire all’infuori del mio partito, ma non c’è niente di strano; e nemmeno credo che il collega onorevole Simonini abbia voluto attribuire a celia questa mia appartenenza, diremo così, alla fabbriceria di San Petronio. (Ilarità – Commenti).

SIMONINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Desidero precisare che il mio riferimento a quel determinato particolare della storia politica italiana aveva soltanto, nel mio intento, lo scopo di dimostrare come allora la serenità era tale nell’ambiente politico, che l’onorevole Tonello poteva collaborare con un futuro Papa; ed auguro che quei tempi abbiano a ritornare. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato onorevole Spano per il reato di cui all’articolo 595, secondo capoverso, del Codice penale.

Sarà inviata alla Commissione competente.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione delle mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Calosso. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Signor Presidente! Il Governo di centro-destra, a bandiera liberale, che ha nel suo seno uomini egregi come l’onorevole Einaudi (del quale non posso parlare senza un sentimento di venerazione e del quale fui alunno, sia pure di quelli dell’ultimo banco), a mio parere è basato su di una contradizione economica e su di uno scetticismo morale liberista, quello del lasciar fare. Il liberismo, che alle origini era un atto di fiducia per le imprese individuali, mi pare che con l’andar del tempo, specialmente oggi, con l’attuale stanchezza, sia essenzialmente un atto di sfiducia nelle forze dell’impresa associata, in quella che oggi, con linguaggio moderno, con un linguaggio di moda (che ci impegna, perché la moda noi dobbiamo seguire; infatti è una cosa cristiana, come diceva il Manzoni) si chiama pianificazione.

È stato, a mio parere, molto chiarificatore in proposito il discorso dell’onorevole Giannini, uno dei più notevoli discorsi di parte governativa, dirò così, perché egli ed il qualunquismo in genere mi pare che rispecchino uno scetticismo assoluto, e se non credessi di urtare le orecchie dell’onorevole Giannini e dei suoi amici, direi quasi un menefreghismo assoluto. Rappresenta una realtà il qualunquismo; in questo momento di stanchezza, il qualunquismo non poteva non sorgere come uno scetticismo il quale, con la sua sincerità, si dà per quel che è. Perciò egli ha parlato molto chiaramente e sinceramente ed ha posto quasi la candidatura di qualche suo amico al seggio di sindaco di Roma, in nome di quello sblocco dei fitti che getterebbe sulla strada 500 mila romani; che forse, se saranno veri qualunquisti, gli daranno il voto ugualmente.

Egli ha fatto l’elogio del lusso, un elogio che non ricordavo se non in un opuscolo del 1700. Che cosa vuol dire l’elogio del lusso fatto dall’onorevole Giannini? Vuol dire che quando chiederemo il denaro americano e quando esso arriverà, noi lo impiegheremo a comprarci non del pane, ma dei pasticcini e fabbricheremo in Italia non occhiali – questa industria è già prosperosa da noi – ma caramelle da occhio. (Si ride). Questo è l’elogio del lusso: rendiamo atto alla sua sincerità, perché nessuno aveva osato dirlo. Notate, il vero liberismo suo non vive interamente se non in Egitto, dove vivono i pascià opulenti e preziosi su tappeti persiani, accanto ai quali vigila il fellah, che lotta ogni giorno per vedere se il suo padrone ha mangiato o no. La sua politica non è sostanzialmente differente dalla teoria governativa, a mio parere. Noi ricordiamo che dal 1919 al 1922 la bandiera dello squadrismo fu quella del liberismo assoluto: via le bardature di guerra! E gli industriali lo seguivano, perché volevano fuori le bardature di guerra. Io non voglio dire con questo che Giannini è stato, nel passato, fascista. Non l’ho mai detto, anzi mi opposi al provvedimento con il quale gli tolsero, a suo tempo, il giornale.

Egli, stia a destra o a sinistra, è uno degli uomini meno fascisti che ci siano stati. Ma io, ricordando che la sua opera è identica in parole e temperamento a quella che era la bandiera del fascismo prima della marcia su Roma, temo che sia un fascismo futuro, vale a dire che noi sappiamo che cos’è il liberismo fascista, che sotto sotto ha i monopoli industriali ed agrari. E questo è lo statalismo assoluto. La parola liberismo non mi suona se non come statalismo, dittatura. È quello che sento automaticamente, come un uomo di 52 anni che ricorda, come ieri, il periodo della lotta antifascista.

E trovo che ha ragione di chiedere due Ministeri, di cui uno per l’Unione europea (credo che voglia dire il Ministero degli esteri). È giusto, egli farà l’unione dei Paesi; credo che voglia unire le tre penisole meridionali: la Spagna, l’Italia e la Grecia. Le vorrà unificare e poi farà anche l’unione degli altri Paesi. Del resto, già adesso, un Governo di destra in Europa c’è solo in queste tre penisole meridionali. È un grave fatto, notate bene, perché, come ha detto Lussu, ed ha ricordato anche Piccioni, tutti i paesi dell’Europa occidentale sono in mano ai regimi socialisti, o in essi i socialisti hanno importanza notevole. Man mano, anche queste tre penisole che fanno eccezione, finiranno con l’avere un Governo socialista.

Ora, non bisogna illudersi. È un fatto pericoloso. Noi siamo dei poveracci che con vestiti unti e bisunti ci presentiamo in mezzo a gente elegante, quando andiamo alla riunione di Parigi.

TOGLIATTI. Anche l’Austria.

CALOSSO. Anche l’Austria.

Non crediate che i conservatori stranieri vi vogliano bene. Vi disprezzano fin dal primo momento e quando c’è una piccola questione ve lo ricordano. Franco stesso non ha poi fatto un grande affare. È pericoloso un Governo di destra, anche se ha dei sorrisi.

Ora, ha detto l’onorevole Giannini, ed anche un po’ l’onorevole Piccioni che ha consentito in questo punto, di temere la pianificazione, che è il soggetto della nostra politica al Governo, della nostra opposizione, e con la quale, in un certo senso, ci identifichiamo. Questa necessità della pianificazione – dicono – porterà ad uno statalismo gravissimo.

Ora, è molto importante, fin dal principio, stabilire che il concetto di Stato e di piano sono diversissimi e antitetici nella sostanza. Lo statalismo noi, come socialisti, almeno nella più pura ortodossia marxista, lo respingiamo, perché pensiamo che in un lontano futuro questo Stato debba essere addirittura abolito, quando non vi siano più le classi dirigenti. E questo è uno degli elementi della nostra amicizia con la Democrazia cristiana che, se ha letto i testi sacri, come noi abbiamo letto Marx, o se non li ha letti come noi quasi tutti non abbiamo letto Marx (Si ride), saprà che lo Stato è un male necessario secondo la tesi sacra di San Paolo, per cui la parola «legge», la parola «Stato» è una parola di suono cattivo, come per il socialista; perché la parola «statalista» è brutta per il socialista, come la parola «legale» è brutta per il democratico cristiano.

Piano è il contrario. Senza fare tante teorie, il popolo italiano, dopo tutte queste prove di dittature, è un popolo molto statalista e poco pianificatore. Per la strada molto facile è arrestare un italiano. Il primo poliziotto gli mette una mano sulla spalla, senza mandato di cattura, e di solito non trova reazioni e l’individuo viene arrestato. Lo vediamo tutti i giorni. Siamo un popolo molle di fronte allo Stato, siamo statalisti; invece nel senso del piano, no. L’espressione elementare del piano è la coda che facciamo all’autobus. Lottiamo mezz’ora, ma non facciamo la coda. La coda è il piano. E l’arresto di un povero disgraziato per la strada è lo Stato. Sono due concetti difficili. E noi ci libereremo dallo statalismo nella misura in cui pianificheremo.

Onorevole Einaudi, anche l’isola di Robinson Crosuè, che è nel sogno di tutti, perché tutti abbiamo sognato un’isola ed aspiriamo ad averla, è possibile averla soltanto in base ad un piano, come è possibile che il bambino circoli col suo cerchio per le nostre strade soltanto perché c’è un piano regolatore del traffico. Il colpo tremendo inferto dagli inglesi degli ultimi due anni al patrimonio forestale italiano, tagliando per cento miliardi di lire italiane, è uno dei delitti più grandi che abbia fatto l’incapacità o la stanchezza della vecchia classe politica inglese; provatevi a ricostituire i nostri boschi col liberismo. o gli stambecchi del Gran Paradiso, che stanno scomparendo. Fateli vivere senza un piano. Tutto, perfino l’albero, è comandato dalla pianificazione oggigiorno.

Qualche mese fa c’era un piccolo emendamento dove entrava la parola «piano». Non era il concetto. Non so se fosse dell’onorevole Foa o di qualche altro.

Notammo, vi ricordate, che tutti i membri del Governo e i loro seguaci votarono contro questa parola «piano» ed i giornali (come devo chiamarli? – Non saprei. I giornale indipendenti, lo stesso Corriere della Sera) alzarono alte grida perché la rivoluzione era arrivata in Italia. Tanto è provinciale la nostra grande stampa moderna, che non aveva mai sentito parlare di piano; era una rivoluzione. Non capiva che è quello il sistema per prendere delle precauzioni contro la rivoluzione.

Poche settimane dopo venne un generale americano, Marshall; badate che non era uno stinco di socialista; venne fuori il piano Marshall ed allora la parola la trangugiarono tutti. Ed adesso non ci sono giornali che scrivono articoli tremendi contro il piano.

Questo è importante non per la nostra intelligenza superiore, ma perché abbiamo inserito in una realtà moderna anche questo problema; orientare l’Assemblea col nostro voto.

Persino nel modo di discutere, il Governo è un Governo anti-piano. Vedete un po’: quando diciamo «piano», diciamo unità, convergenza di molte cose che ne fanno una. Ed il Governo risponde in ordine sparso, problema per problema, Ministro per Ministro. È difficile prenderlo per la coda. (Si ride). Mi pare che questo metodo di discussione sia di per sé rivelatore di una mentalità. D’altra parte, l’onorevole De Gasperi, mi rincresce che non sia presente, è a ragione l’esponente dell’attuale situazione. Non per nulla è stato alla testa di quattro Ministeri, ma egli è anche l’esponente di una situazione storica in cui dopo 20 anni di sconfitta, dopo due grandi cambiamenti avvenuti a distanza di 23 anni, uno scetticismo naturale è nelle ossa di tutti: abbiamo visto troppi doppi giuochi per credere facilmente nell’uomo, ed allora viene uno stato di scetticismo.

L’onorevole De Gasperi, onestamente, cosa dice? Quale è l’essenza della sua teoria di Governo? È questa: non muovere troppo le cose; lasciar fare. Io capirei, molto bene questo modo di pensare, se fossimo veramente in una situazione di senilità o di stanchezza assoluta, come poteva essere per l’Austria, nel qual caso, noi saremmo stati grati ad un uomo di questo genere. È un atteggiamento politico che potrebbe essere valido, ed è effettivamente il precetto austriaco di Governo. E l’onorevole De Gasperi, sia nel bene che nel male, risente del suo tirocinio austriaco, prima di tutto nel suo vivo senso di italianità, che tutti gli dobbiamo riconoscere e che è proprio degli irredenti, di coloro cioè che hanno a lungo combattuto contro lo straniero.

In secondo luogo, credo che abbia quel panorama internazionale per cui sente con facilità cosa c’è al di là delle Alpi, il che sfugge a certi settori della nostra vita politica, a cui pare che Rocca Cannuccia sia il limite del mondo.

Queste sono le qualità che gli derivano in parte dal suo tirocinio di italiano irredento; ma ha preso, da questo tirocinio, anche qualche altro carattere, per esempio il senso del contratto. Tutto è contratto, tutto diventa contratto. È sotto questa forma di contratto che egli vede le cose, quando gli si sottopone un problema, anche facilmente risolubile. Del resto, anche Giolitti, fra due cose, una buona e una cattiva, che non costassero troppa fatica, sceglieva sempre quella buona. Effettivamente egli ha seguito un programma in tutta la sua vita.

Poi, quella furberia, che è ammirevole, senza, dubbio, e che può essere anche una virtù, io non m’intendo.

La diplomazia austriaca, per esempio, era la più famosa del mondo per eleganza e furberia. Sapete che cosa ha fatto la diplomazia austriaca? Ha liquidato l’Austria. Qualcuno dirà che, forse, non è troppo difficile questo per la diplomazia…

Io vedo questa linea anche nell’onorevole De Gasperi. Guardate che sotto il temperamento austriaco e sotto il decoro statale e religioso – mi appello all’onorevole Sforza – era il segreto dell’Austria. Qualche cosa di scettico e di frivolo, questo era il segreto dell’Austria.

Ora, mi pare che l’onorevole De Gasperi, con tutte queste sue qualità, rispecchi la situazione italiana e non per caso si trovi ad essere il Presidente del nostro Consiglio. È da questa attitudine che nasce nel Governo una fondamentale contradizione, segno che il Paese è più vivo di quanto si pensi, segno che questo scetticismo non deve essere udito, perché ci sono delle forme vitali più profonde.

C’è una contradizione evidente tra la politica industriale e quella del tesoro, che balza agli occhi di tutti. La Confederazione dell’industria e tutti i parassiti hanno una mano abbastanza pesante sul Ministero, specialmente i parassiti antichi, che gravano sull’Italia da tanti decenni. La siderurgia, per esempio, che ha sempre rappresentato una tassa, che ha sempre alzato i costi della produzione industriale, persino nel seno dell’I.R.I., la siderurgia rappresenta una tassa all’interno. Così dicasi per gli zuccherieri; e ancora per il monopolio dell’industria elettrica.

Sotto questo riguardo, la legge Bonomi del 1919 aveva cercato di garantire i diritti del Paese sui nuovi impianti, ma il fascismo più tardi li abolì. Ora, a me non risulta che i Governi abbiano, in questi ultimi due anni, migliorato la situazione, ritornando almeno allo stato di cose che vigeva all’epoca di Bonomi.

E sono cancri vecchi questi, della vecchia Italia umbertina, della vecchia Italia giolittiana. Ma bisogna che abbiamo coraggio, bisogna che abbiamo quel coraggio che è stato scarso in noi da una trentina di anni a questa parte.

La Confindustria conta poco in questo Ministero, se in una fabbrica come la F.I.A.T., per l’opera illuminata degli uomini responsabili, sono stati attuati in un anno i consigli di gestione. Questo è un esempio che sta indubbiamente a dimostrare come i consigli di gestione siano un fatto socialmente e politicamente, dirò così, conservatore ed anche repubblicano, perché la Repubblica sarebbe un errore se noi volessimo ritrovarla soltanto qui a Roma; la Repubblica è anche e soprattutto nelle cellule del Paese.

Nonostante, dunque, questo precedente che ho chiamato conservatore, voi vedete che la Confindustria non vuole i consigli di gestione e questo è un fatto di sovversivismo.

Dopo questo fatto, non si può certo dire che la politica del tesoro e del credito sia in coerenza con ciò. Io so benissimo, intendiamoci, che l’onorevole Einaudi personalmente non è in rapporto con le macchie che prima ho elencate.

È però la politica del liberismo che dà luogo ad una contradizione insita. Il Governo attuale è il Governo dell’anti-piano e deve quindi pagarne lo scotto, perché una politica siffatta è una politica senza previdenza; certo non si possono far morire gli operai per un errore del Governo ed il Governo è colpevole se gli operai oggi a Milano non sanno se avranno il loro salario.

Ma ci sono poi delle cose strane che accadono sotto questo Governo. I fratelli Perrone, ad esempio, i quali hanno un giornale che credo sia uno dei giornali più rivoluzionari d’Italia, hanno denunziato, sulle colonne di tale giornale, che alcuni settori capitalistici sono entrati, direi quasi, in connivenza con le agitazioni della piazza, con le agitazioni operaie: questo è stato denunziato giorni fa, dicevo, dal Messaggero, dall’organo cioè dei fratelli Perrone.

Ed anche questa non è certo una cosa nuova e le agitazioni dei gruppi capitalistici corrotti, e le agitazioni di piazza, da lunghi decenni sono lì a dimostrarlo. Io non credo che la Confindustria se ne sia accorta; neanche l’onorevole Nenni, di cui leggo il giornale, se ne è accorto; ma questo è avvenuto: una collusione tra gli industriali, i quali vogliono tenersi le loro scorte, vogliono l’inflazione, e corrono dal Governo a farsi pagare i salari all’ultimo momento. E le agitazioni! Io non so se quelli che erano riuniti a Piazza del Popolo qualche domenica fa sapevano – anche se deputati al Parlamento – questo fatto: che gli industriali sono contenti, perlomeno, di queste agitazioni. Sono dei fatti che sono molto interessanti, perché non sono affatto nuovi: badate che fin dall’epoca di Mussolini e prima, queste cose avvenivano; e sono fatti gravi su cui un’inchiesta dovrebbe essere fatta.

Gli industriali, di cui abbiamo alcuni rappresentanti nel Governo, possono essere persone della più grande capacità, come possono essere persone di scarsissima capacità. Non conosco molti industriali italiani, ma direi che la maggioranza non sono degli imprenditori; molti di essi, direi che piuttosto che imprenditori, sono bottegai dalla vista corta: per uno geniale ve ne sono dieci mediocri.

Rimasero sorpresi quando qualche mese fa il Vicecapo dell’U.N.R.R.A. – non ricordo più come si chiamava – un americano, lasciando l’Italia, diede una lavata di capo ai nostri industriali, dicendo che essi non hanno alcun piano – era l’epoca in cui si strillava contro la parola «piano» – che fabbricano quello che capita per far denaro; ma non avranno denaro finché non si imposteranno su un sistema di precedenze, ossia finché non faranno un piano. La nostra classe industriale avrebbe dovuto arrossire effettivamente. Però, individualmente, ci sono degli industriali che hanno dei larghi interessi anche fuori del loro campo. Ieri c’era uno che parlando con me citava Orazio; ma è raro trovare l’uomo dai larghi interessi: un Ford, il quale ha la mania religiosa, che non voglio discutere, è rarissimo in questo ambiente. Mi ricordo quando andai in Inghilterra; lo stesso giorno trovai un telegramma a casa mia di un lord, che non conoscevo, il quale mi invitava a cena, e poi seguitò ad invitarmi quasi ogni settimana. Non sapevo chi era: era uno che aveva un «tic», quello della pace perpetua, un vero «tic»; faceva dei libri, dei pagamenti in denaro, una vera organizzazione. Poi seppi anche che era uno dei più ricchi industriali inglesi, padrone di parecchie industrie e anche consigliere delegato, o presidente che fosse, di una delle principali di queste grandi industrie. E allora compresi che queste due cose in questi uomini rappresentavano certo una genialità; questo uomo si riposava dalle sue industrie, che non credo fossero…

Una voce a destra. …pianificate!

CALOSSO. Non era certamente pianificata l’industria del carbone, allora; ma si riposava invece che al golf, con questa piccola mania della pace perpetua, che a noi serviva molto, perché ci mise a contatto con i fuorusciti di tutte le Nazioni.

Ora, è raro trovare in Italia di questi industriali.

Il Governo è sotto il dominio di queste classi – è stato dimostrato da parecchi oratori – vive di queste contradizioni la politica del Governo, perché certamente poi il credito bisogna darlo, bisogna dare i denari, ma non bisogna esagerare nel credere a tutti gli strilli degli industriali. Gli industriali hanno degli enti di finanziamento proprî, che dovrebbero entrare in funzione proprio nel momento della crisi industriale; non hanno paura di essere abbandonati, hanno delle riserve.

E ugualmente questo Governo vive sulla contradizione estera, perché la sua politica estera – l’ho già detto – è tutta una contradizione. Un Governo di destra, solo in Europa insieme con la Grecia e con la Spagna, falangista, le tre penisole meridionali che sono le sole rette da governi di destra…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio. E chi le ha detto che siamo di destra?

CALOSSO. Anche Franco non è di destra. Non dico che lei sia per niente paragonabile a Franco o alla Grecia, ma nell’opinione pubblica internazionale le tre penisole meridionali sono le sole rette da Governi conservatori o perlomeno di destra. E già, perché in politica estera bisogna fare i conti con lo straniero, il che – come ho già detto prima – è pericoloso, in quanto i conservatori stranieri sono ben pronti a sorriderci quando andiamo loro incontro, ed è una cosa umana di avere sempre per lo meno un volto rivoluzionario. Ma è molto male. Per i conservatori stranieri è molto bello, perché alla prima crisi ci fanno pagare la nostra conservazione! Se ne ricordino! Questa è una cautela di linea generale che noi conosciamo molto bene. Perciò a me pare che il piano, la pianificazione, sia effettivamente il centro, il problema su cui noi basiamo la nostra posizione. Non il piano come una parola magica, come ha detto l’onorevole Piccioni; tutt’altro. Il piano è una parola usuale, che si usa, come tutta l’Europa usa la giacca e i calzoni, che non si possono cambiare senza apparire eccentrici. Che cosa è il piano? È l’arte di fare tutto il possibile, tutto quello che si può. Non ha altro senso la parola piano. E badate, è notevole che in tutta Europa vi sia un tentativo di pianificazione, e in qualche Paese vi siano tentativi cospicui, tentativi democratici di pianificazione. Noi siamo isolati nella nostra idea di pianificazione.

Come vecchio membro della Società Fabiana, io ho seguito la preparazione teorica e schematica di quella che è stata la pianificazione dei socialisti inglesi. E non crediate che tutto fosse pronto. Avevano fatto i loro preparativi, i loro piccoli schemi. Mi ricordo che dicevano: abbiamo di fronte a noi delle oscurità, abbiamo qualcosa di oscuro, ma noi ci gettiamo con quello che abbiamo fatto. Nessuno nuoterà mai, prima di essersi buttato in acqua. In una certa misura bisogna avere coraggio: bisogna buttarsi in acqua e poi si nuoterà.

Gli inglesi, che sono più pigri di noi, che sono notevolmente più pigri di noi, hanno però forse una rotellina che è quella che li fa muovere: ritengo che nel campo politico abbiano più coraggio. Il partito socialista inglese ha osato. Non aveva osato nell’altro Ministero, nel Ministero MacDonald, ma adesso, durante la guerra, dopo che visto come il controllo sull’industria agisse come uno stimolo, ha preso questo coraggio nella politica interna ed ha tentato. È vero che adesso sono in difficoltà.

Da radio Londra un noto scrittore li ha rimproverati di non avere agito abbastanza sul terreno politico, psicologico e morale, perché questo è il segreto di un piano.

Ritengo che il motivo fondamentale per cui con l’attuale Governo siamo poco pianificatori è la nostra timidità, la nostra semplicità, di cui ho rimproverato l’onorevole De Gasperi prima che arrivasse, uno scetticismo non in Dio ma sulla terra, una scarsa fede.

Non c’è pianificazione se non come fatto pubblico, che metta in moto tutta la Nazione e sia propagato e chiami tutte le classi operaie. I consigli di gestione sarebbero già una cosa da farsi se vogliamo una pianificazione, perché essi creano una forza da cui nasce un campo magnetico, invisibile ma forte. Senza di essi non c’è pianificazione. Se volessi dare una definizione simpatica all’onorevole Piccioni, direi che un piano è un atto di fede, soprattutto un atto di fede.

Questa impossibilità che hanno sentito alcuni Ministri, come l’onorevole Einaudi, non era una difficoltà tecnica, ma mancava al Governo questa forza autoritaria, questo atto di fede. Quando questo si sia ben compreso, allora il piano implica un congegno, che non c’è, perché ci siamo trovati sprovvisti. Quelli che tornano da Parigi dicono che semplicemente per dire agli europei che cosa ci bisogna, è difficile raccogliere dati, perché non abbiamo un apposito congegno. Ora, questo congegno di cui abbiamo bisogno per il piano Marshall, ci occorre anche per il nostro piano. Il congegno va fatto. E non è da credersi che la nostra burocrazia sia poi disprezzabile: è stanca perché è passata attraverso prove straordinarie: il fascismo, la guerra e l’epurazione fatta male.

Un giorno il primo segretario della Camera dei Comuni, quello che porta la parrucca, mi diceva: «La nostra burocrazia in genere è buona, e adesso lavora; ma è stanca dopo la guerra». Ora la burocrazia dovrebbe essere la classe socialista per eccellenza, se conoscesse i suoi interessi. Io credo che questo congegno pianificatore sia possibile farlo. In che cosa consiste il piano? Darò qualche linea.

Prima di tutto in una coordinazione del piano interno e di quello estero. Su questo siamo tutti d’accordo; anche l’estrema destra è d’accordo che non si può andare a fare gli Stati Uniti di Europa senza un piano. Lo esigono gli stranieri. E necessario un piano, per usare utilmente i soccorsi americani. Questo non si può fare senza un piano: ce l’hanno detto in modo molto chiaro.

Poi, un programma industriale di precedenze, di specializzazioni, di produzione. Usare il ferro per fare vagoni e non «vespe» (vero, Quarello? tu te ne intendi più di me), usare cemento per fare case popolari e non case di lusso, le quali rendono di più al privato; usare vetri per fare occhiali e non «caramelle», anche se queste sono più eleganti.

Oggi nella produzione c’è tutto questo caos. Tutti producono «vespe», motociclette, telai per tessili: ecco, manca un piano. Io non credo che in queste linee generali ci sia qualcosa di misterioso. Anche noi laici possiamo vedere queste cose ed un piano non si fa soltanto con quattro tecnici chiusi in una stanza attorno a un tavolino: essi non l’hanno mai fatto.

Il credito. Ho sentito parlare da parecchi oratori della restrizione del credito. Il credito deve essere distribuito con criteri qualitativi, se no finisce automaticamente per aiutare la speculazione di quelli che fanno ad esempio il cinematografo, il quale rende immediatamente, e non per aiutare le industrie che rendono a lungo andare. Ci sono problemi che fin d’ora dovremmo affrontare con coraggio, perché essi rappresentano la bandiera attorno alla quale l’Italia può guardarsi dai moti inconsulti ed incomposti.

La riforma agraria, per esempio. Noi non l’abbiamo ancora impostata, oppure aspettiamo che i contadini occupino le terre per mandare la polizia; ma nulla si risolve soltanto con la polizia. Per attuare la riforma agraria ci sono delle misure semplici, moderate da prendere, misure che non devono far paura a nessuno, quelle stesse misure che l’amico Corsi ha descritto in un suo discorso. C’è un piano lungo e decennale, al quale io penso, ed è un piano tutt’altro che rivoluzionario, ma quasi conservatore: è il piano agrario danese, attuato nel secolo scorso e durato dieci o dodici anni. Esso fece meraviglie, trasformando un suolo arido e povero in un suolo che è stato chiamato «terra stillante latte e burro». È un piano che non può spaventare nessuno; infatti conserva la piccola e la media proprietà, ed è un sistema di convergenze, perché non si tratta di mandare dei contadini a grattare un po’ di terra che l’anno dopo non produce più nulla, né di dare le terre a barbieri o a proprietari i quali poi affittano le terre, ma si tratta di misure tecniche. Se noi fin da adesso facessimo il primo passo – si può sempre farlo – e se impostassimo la riforma agraria non ci sarebbe nulla di male. Sarebbe un’azione alla quale tutto il Paese starebbe attento, e tutta la propaganda si muoverebbe per essa. Il nostro Paese ha un buon numero di contadini e di rurali: vi è un milione e mezzo di braccianti ed un milione e mezzo di piccoli proprietari, il cui numero è destinato ad aumentare ancora. Sono sicuro che una grande attenzione si concentrerebbe su questo problema ed allora il pericolo dei moti inconsulti ed incomposti sarebbe facilmente eliminato.

Io sono meravigliato che il popolo italiano si sia mantenuto calmo in questi ultimi anni. Esso è così calmo da poter essere giudicato senz’altro il più calmo popolo del mondo. Altri popoli hanno dato luogo ad agitazioni ben più gravi. La nostra classe lavoratrice costituisce un esempio meraviglioso di calma. Impostate, dunque, la riforma agraria ed allora tutti lavoreranno.

Anche la scuola, per esempio, manca di pianificazione. Io sono poco sensibile, lo confesso, al pericolo delle scuole dei preti. Se sono buone scuole, io personalmente non avrei nulla in contrario a dare denaro ad una buona scuola di preti, o se diamo una laurea ad un prete che non ce l’ha, io non credo che caschi il mondo se questi insegna in una scuola ecclesiastica. Non sono tanto contrario a tutto questo, ma vi sono delle cose che lo Stato deve fare. Prima di tutto, il problema della scuola professionale, problema che è urgente ed importante. Se chiudiamo qualche ginnasio, poco male, perché ce ne sono moltissimi in Italia. Se del latino ne facciamo una lingua, rispettiamo il carattere liberale e aristocratico del latino, e quindi rendiamolo facoltativo per quelli che lo vogliono. Io appartengo a quelli che amano il latino, per esempio. Mi sono accorto che sono uno dei pochi che ricorda ancora a memoria Orazio. L’insegnamento del latino impedisce oggi a determinati giovani, di potere accedere alle scuole di primo grado. Per esempio, i periti industriali, dopo otto anni di studi, non possono fare gli ingegneri, perché non conoscono il latino, quel famoso latino che nessun italiano conosce. Io potrei citare un avvocato che mi elogiava la romanità delle poesie di Orazio Coclite! (Si ride). Non è una storia.

A Parigi ci hanno chiesto quanti disoccupati avevamo. Due milioni, è stato risposto. E quanti di questi operai sono qualificati? Centosessantamila, hanno risposto i nostri inviati a Parigi. Centosessantamila operai qualificati su due milioni di disoccupati!

Si deve impostare questo problema della scuola professionale. È un problema educativo che non costa niente, o quasi, ed è il momento di farlo, appunto perché non costa niente. Se non lo faremo adesso che non costa niente, non lo faremo mai. Vi è la mancanza di un piano, che è mancanza di fede. Abbiamo cambiato il nome del Ministero. Prima si chiamava Ministero dell’educazione nazionale (ottimo titolo, ma lo aveva messo il fascismo!) ed adesso si chiama Ministero della pubblica istruzione, cioè abbiamo preso di nuovo l’idea che il nostro corpo insegnante debba inculcare sapienza e dottrine nelle teste: l’algebra, la geometria, la trigonometria, la consecutio temporum, ecc. Il nostro studente è oberato da un eccesso di sapienza! Noi dovremmo dimezzare i programmi, e abolire gli esami di Stato. Anche se ciò dovesse aver dei difetti, la cosa più importante è di non trovarci davanti ad un disgraziato di 18 anni che deve sapere tutto lo scibile umano.

MARCHESI. Il piano dell’ignoranza!

CALOSSO. Non ho detto questo, onorevole Marchesi. Ho detto: metà programma, e fatto bene. E affidare l’esame a chi? Al più competente. Chi è il più competente? Il suo professore. Ma l’errore sta nell’avere, dopo un disastro ventennale, un Governo che non pone il problema educativo dinanzi alla Nazione. Questo mi pare qualche cosa di grave.

Prendiamo il problema militare: abbiamo avuto una tremenda sconfitta. L’Italia è diventata un piccolo Paese di fronte a Nazioni che sono continenti, come la Russia, come è l’America, che ha 48 Stati. Noi siamo grandi come uno Stato d’America. Ora questi problemi il Governo non li ha portati dinanzi a noi. Non ne sappiamo nulla. Non c’è un piano. Ne ho parlato con i generali e ho visto che avevano un’idea soltanto: «Il soldato italiano si batte sempre».

Quale rapporto c’è fra uomini ed armi? Con quali armi sarà difeso il petto di ogni figlio di madre italiana? Questi sono problemi di pianificazione e che devono essere portati dinanzi alla Nazione. Il Governo spende 50 miliardi divisi in 10 dicasteri che vanno del tutto dispersi in spese di ufficio, spese burocratiche.

C’è un ente assistenziale che spende il 90 per cento in spese di ufficio. Si potrebbe in Italia fare un piano Beveridge adatto all’Italia, più piccola. Basterebbe unificare l’assistenza e la previdenza e ciò sarebbe l’inizio di un piano Beveridge, che è un piano fatto da un liberale, ma è sostanzialmente socialista. Ecco per i liberali, caro Lucifero, un esempio di specializzazione. Potrei parlarvi anche di altri problemi. Perfino della radio, per dirne uno. La radio è anche essa una cosa da pianificare. Il Governo si è trovato in difficoltà. La benedetta politica, i partiti. Ora la radio è proprio una di quelle cose che fa pensare. Non si ha il diritto di fare politica dalla radio. Ora si è trovata in difficoltà la Democrazia cristiana, ed ha risolto il problema in un modo tipico: distruggendo la propaganda. Questa è stata la soluzione e mi pare che non sia la più felice.

Ora, ho cercato brevemente di dimostrare, così per accenni, come con l’anti-piano governativo non è che si risolvono i problemi; si crea una contradizione fondamentale. Ed allora la discussione politica, oltre ad essere fatta in ordine sparso, si riduce a che cosa? Non più ad un programma o ad un piano, ma ad una contemplazione della forza della propria maggioranza. Ma notate che la maggioranza non ha diritto di fare quello che vuole. Se noi proponiamo una legge buona, teoricamente dovrebbe essere votata; si ha l’obbligo morale di farlo e nei Parlamenti che funzionano questo è ammesso, almeno a parole; invece noi continuamente parliamo di questione di forza. Non ho mai sentito parlare tanto di rapporti di forza come in questa Assemblea, che mi pare assai debole, oppure squisitamente politica. Quante volte l’ho sentito dire: la politica è un male necessario, dice anche il Vangelo.

Anche stamattina, nel notevole discorso dell’onorevole Piccioni, ho sentito che egli ha enunciato, nei confronti del suo partito, la Democrazia cristiana, un concetto monastico, come di un ente che sta a sé; mi faceva pensare all’aquila del Paradiso di Dante, grande uccello formato di anime di santi, che cantano con una sola voce, con la voce di questo animale. Questo senso monastico di partito è in contradizione col soggetto, rappresentato, invece, dal programma. Anche se ci fosse una maggioranza assoluta da parte della democrazia cristiana, è chiaro che non si deve parlare semplicemente di questa forza, ma del piano a cui questa forza serve. Lo stesso difetto di eccesso di politica è proprio di tutti i settori. Anche l’onorevole Giannini, cosa ha detto? Non ha criticato il Governo, avrebbe dovuto lodarlo. Invece ha detto: voglio due posti. E non una parola di elogio al Governo.

Anche nei discorsi di Nenni e Togliatti, salvo qualche sfumatura, non si è sentito un programma. Più o meno, hanno detto che vorrebbero il tripartito di nuovo. Io, in questo momento, espongo invece un programma, espongo delle necessità (Commenti), espongo la sovranità del piano…

Una voce al centro. Ma non è un programma!

CALOSSO. Io ho semplicemente esposto la sovranità del piano e ho disegnato le linee direttive di questo piano…

Ora, da questa situazione, che a me pare non troppo savia, da questa impostazione dei problemi anziché su di un piano e su di un programma, su di un semplice rapporto di forze o di debolezze, cosa viene fuori? Una cosa molto tragica: il diciannovismo. Noi stiamo vedendo risorgere il diciannovismo, con facce non so se allegre o tristi. (Interruzione del deputato Togliatti).

Effettivamente, c’era allora un comunismo, il quale aveva un avvenire dinanzi a sé, non aveva ancora determinato certe evoluzioni rivoluzionarie che vennero dopo e quindi io, marxisticamente, ho seguito la traccia di allora. Ma mi riservo di rispondere dopo, su questo.

Quale è il diciannovismo in questo momento? Quali ne sono le prove? La paura del comunismo è un elemento importante, senza dubbio: il fascismo è nato dalla paura del comunismo. Sentimento gravissimo e deleterio, perché porta al fascismo.

Lo squadrismo c’è già, lo vediamo già qua e là. Io sono stato in Alta Italia, in qualche paese e ho sentito – con la sensibilità dei nervi – che lo squadrismo è là. I fenomeni avvenuti a Gorizia sono fenomeni di squadrismo e di nazionalismo di tipo post-fiumano, che hanno proprio i tratti del nazionalismo; perché che cosa hanno fatto? al massimo, possono dire di aver copiato il nazionalismo di Tito; è insieme questa una altra prova grandissima di nazionalismo; è il nazionalismo della sinistra che sempre più cresce: uno è rosso, l’altro più rosso ancora, questo è più socialista di quello. Questa è una malattia tremenda del socialismo.

Pensate un po’ infatti se nel 1919 ci fosse stato uno che fosse sorto a dire la verità, come un profeta. Ora, io sento che ciò vive ancora oggi. L’opposizione che ho sentito nei discorsi, dell’onorevole Nenni e dell’onorevole Togliatti non mi pare si possa chiamare opposizione, salvo forse qualche aspetto marginale. Mi pare infatti che quello che essi hanno detto sia, più o meno, sullo stesso piano di argomentazione dell’onorevole De Gasperi; i loro discorsi non sono molto diversi.

Io ho qualificato l’onorevole De Gasperi come l’esponente di un fondamentale scetticismo: ora, stando ai limiti che ci siamo imposti, siete anche voi degli scettici. Voi avete detto: vogliamo questo; siamo innamorati di questo; vogliamo il tripartitismo. Ma questo è scetticismo, questa è mancanza di fede in un programma vostro. (Commenti a sinistra).

È da notarsi infatti che un piano oggi è tutt’altro che una burocratizzazione: un piano oggi è l’avventura del mondo moderno il quale, dopo le dittature, è andato in cantiere per costruire il socialismo con il metodo della democrazia.

È un metodo pieno di difficoltà, perché non ha la facilità degli stati di assedio di cui si servono le dittature; ma, se riuscirà, ci condurrà in porto senza spargimenti di sangue ed infatti meno sangue si sparge e più e meglio la pianificazione si farà. Questa è l’avventura del mondo moderno.

Ma se noi non riusciremo ad interessare il Paese per questo piano di cui ho parlato, che cosa avremo allora? Inevitabilmente avremo un ritorno al 1919. Dal governo al potere: non siamo noi forse sullo stesso piano?

È in atto una guerriglia che non riesce ad essere guerra, perché la guerra richiede oggi gli eserciti. È un massimalismo come lo era allora; e non dimentichiamo che il massimalismo, il vero massimalismo, è quello di Mussolini.

Ha detto molto bene ieri l’onorevole Giannini che Mussolini era socialista, ed infatti i traditori si trovano soltanto dove è la verità.

Ma, a parte il fatto che noi non siamo più mussoliniani, quando uno mi dice: ma prima era un grande, era un vero socialista, quando usava le belle frasi, quando parlava di marxismo ogni tre minuti e di lotta di classe ogni cinque, allora io rispondo che è proprio lui l’inventore del massimalismo; è lui che abbiamo ancora nel sangue, purtroppo, e in quel senso che ho detto…

VERNOCCHI. Non è questo il massimalismo!

CALOSSO. Caro Vernocchi, tu hai inventato la parola «duce»; l’ho letto su un giornale (Ilarità), non è per te.

A Ludwig Mussolini diceva: «Io sono stato socialista, e lo sono ancora» – bel senso che egli intendeva, appunto… (Commenti a sinistra).

Una voce al centro. Mettetevi d’accordo.

CALOSSO. Noi dobbiamo rinnegarlo totalmente, e quello del 1914 e quello del 1919, perché è il temperamento massimalista di Mussolini che è sbagliato e che ci ha portato alla rovina. Anche le folle. Chi non ha visto le folle attorno a Mussolini: massimaliste e sinistre. La folla in sé non trova niente; anzi, come folla, è sempre sinistra, è la naturale complice del tiranno: bisogna che essa diventi popolo attraverso l’organizzazione. Io trovo in alcune folle segni di un’eredità fascista. E lo dico, quando mi è permesso, e lo riconosco. Questo è vero, naturalmente, che noi vogliamo rendere migliore la classe lavoratrice, e la folla stessa, da cui essa profondamente si diversifica. Perciò vogliamo appoggiarci alla classe lavoratrice (Commenti a sinistra), che ha subito tante sconfitte, fin dall’epoca dei Ciompi. Abbiamo visto nel 1919 cos’era. Noi vogliamo salvare la classe lavoratrice, e credo che finiremo per farlo. E in primo luogo, certamente, noi vorremmo garantire che non si rompa quel patto tra le classi lavoratrici, in cui è la saldezza stessa della classe operaia. Noi vogliamo che falce e martello e libro collaborino insieme senza demagogia; e crediamo che in questo modo anche la paura comunista, che è una paura diciannovista in questo momento, possiamo tenerla lontana: e questo è il servizio di amici, di compagni che noi possiamo fare.

Il discorso di Togliatti, sempre fino – come è sua abitudine – era in complesso vero; e non ho esitato ad accettarlo tutto. Tutta la base di eroismo che è dietro di lui, dietro il suo partito, nessuno può negarla, perché se noi abbiamo avuto tanti martiri come Matteotti, innegabilmente i comunisti ne hanno avuti molti di più, e nella guerra di liberazione e nella guerra di Spagna, che ne è stata l’antefatto, e nella quale si sono formati i quadri della guerra di liberazione. Essi nella guerra di liberazione sono stati di gran lunga i primi.

Questo è il grande fatto, per cui, anche quando Togliatti dice qualche bugia – e io ne citerò qualcuna fra poco – noi non dimentichiamo mai questo grande primato di eroismo che hanno i comunisti, e che nessuno può dimenticare. Ora, che cosa ha detto Togliatti? Cose molto interessanti, come è sua abitudine.

Egli ha parlato di quello che è il programma comunista da parecchi anni, ha parlato dell’unità, dell’unità che essi hanno contribuito a dirigere, ha parlato dell’autonomia nazionale, accettata addirittura dall’epoca dello scioglimento del Comintern durante la guerra; ha parlato di patriottismo, che personalmente Togliatti sente profondamente, e lo posso testimoniare io, suo antico compagno di scuola: è un patriottismo che non è una finzione. Non c’è dubbio. E poi ha parlato della democrazia, di quella democrazia nelle fabbriche, per cui è giusto tenere dei comizi politici perché le fabbriche sono i luoghi di nascita della democrazia moderna; ed ha parlato dei giornali murali, che sono anch’essi nati nel luogo di nascita della democrazia. Sono parole meravigliose.

Dov’è dunque il rilievo che noi gli facciamo? A noi pare che dalla liberazione ad oggi i comunisti – siano stati coscienti o no – si siano allontanati da questo concetto di unità patriottica, di partito nuovo (perché tutti i partiti hanno visto che sui vecchi schemi prefascisti, prebellici, non si vive). Ora, non so se se ne siano accorti, sono arrivati al punto che la loro politica è capovolta, in contrasto, perché la politica attuale è fatta di blocchi. (Commenti a sinistra). Prima di tutto, verso le sinistre autonome, che essi volevano che fossero identiche a loro. Infatti erano così. Qualcosa di diverso dal comunismo, e lo vedremo…

Una voce all’estrema sinistra. Nei Comitati di liberazione noi abbiamo sempre mantenuta la nostra caratteristica e la nostra autonomia!

CALOSSO. Vedremo anche questo, e tu mi applaudirai, te ne do il permesso. Voi avete sempre insidiato la sinistra.

TOGLIATTI. Lo dimostri.

CALOSSO. In secondo luogo, anche adesso voi lasciate tranquilli i qualunquisti e disturbate i comizi nostri. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Il concetto di democrazia è stato finemente e delicatamente esposto da Togliatti, dal quale non avevo mai sentito accennare al rispetto delle minoranze ed egli, come ha detto un interruttore, ha parlato con la delicatezza di una vergine.

Ma sarebbe difficile credergli; anche se lui lo giurasse, sarebbe difficile.

Non vi è democrazia in un regime dove non sia possibile una minoranza. Ci può essere una dittatura… ma allora si chiama dittatura, non democrazia. Voi avete il diritto di lottare per la verità, ma non potete parlare di democrazia.

TOGLIATTI. Perché?

CALOSSO. Perché non è nei vostri metodi.

TOGLIATTI. Lo dimostri.

CALOSSO. Ma io l’ho già dimostrato, o almeno ritengo di averlo dimostrato. Ma se proprio mi vuol tirare per i piedi io sostengo che secondo il marxismo…

TOGLIATTI. Secondo il marxismo non c’è dittatura.

CALOSSO. Vedete in Russia, per esempio. Perché non esiste in Russia un partito come quello socialista dei lavoratori italiani? (Si ride). O anche un partito socialista? Non so perché in Russia non abbiano fondato un partito socialista.

Eppure gli appartenenti al nostro Partito socialista italiano credono che il loro sia il partito migliore. E perché non sono andati mai a portare la loro fede in Russia? (Si ride).

Sta di fatto che in Russia, nonostante che le classi siano sparite, c’è una forte polizia che taglierebbe loro la testa. (Interruzioni – Commenti). Questa è la verità, nuda e cruda.

Anche nel problema religioso il Partito comunista è arrivato lontano da dove era partito. Pochi giorni fa aveva scelto la data del 20 settembre…

TOGLIATTI. Non l’abbiamo scelta noi.

CALOSSO. Già, l’avete accettata. Voi non fate nulla: sono i socialisti che fanno tutto. (Ilarità).

TOGLIATTI. È Scelba che ce l’ha indicata. (Si ride).

CALOSSO. Effettivamente io credo che il 20 settembre dovrebbe essere una festa ecclesiastica, una festa dell’Azione cattolica. (Si ride).

SCOCCIMARRO. L’ha consigliata Scelba, perché attendeva la rivoluzione.

PRESIDENTE. Non interrompano, facciano silenzio!

CALOSSO. Il patriottismo non è stato nel Partito comunista uno degli accenti più originali, contrapposto alla vecchia tradizione. Ma a un certo punto il comunismo si è imbattuto in alcuni problemi nazionali in cui la sua mancanza di autonomia ha fatto sì che non potesse dire nemmeno una parola.

TOGLIATTI. Ma faccia il piacere!

CALOSSO. Provi a dire una parola contro la dittatura di Tito! (Applausi al centro – Proteste all’estrema sinistra).

Onorevole Togliatti, lei è intimamente un patriota e ritengo abbia dei dolori segreti.

Se una provincia italiana viene strappata al nostro Paese voi siete in piena corsa di patriottismo. Dovete ammettere, però, che in quell’impeto meraviglioso di patriottismo, persino esagerato, dinanzi al popolo istriano siete diventati talpe.

TOGLIATTI. Non è vero!

CALOSSO. Ritengo che questo sia stato un cattivo servizio reso alla Russia. Io ho già parlato dell’Inghilterra…

TOGLIATTI. Non mi interessa l’Inghilterra.

CALOSSO. Lo credo. Io mi sono sempre battuto in Inghilterra e in Italia.

PAJETTA GIULIANO. Non faccia l’eroe, onorevole Calosso. (Commenti).

PRESIDENTE. Vorrei ricordare a tutti qual è il tema di questa discussione. Ogni interruzione porta lontano dall’argomento. Facciano silenzio e permettano che si prosegua.

CALOSSO. Tanto, questa posizione mi pare poco sincera, falsa e demoralizzatrice per il popolo italiano, per la classe operaia, ed è persino un cattivo servizio reso alla Russia. Io ammetto – basta vedere la carta geografica – che la Russia ed i Paesi posti al di qua del mondo germanico siano occidentali; ma non è un fatto importante. Le ideologie non debbono influenzarci. Il mondo latino e slavo non si toccano in nessuna parte se non nella Venezia Giulia; quindi, è interesse nostro di cercare di smussare ogni attrito fra loro.

Penso che sia un errore della Russia andare incontro al nazionalismo o meglio al provincialismo iugoslavo. Non so se l’onorevole Togliatti si sia detto in segreto queste parole. È per un fatto di provincialismo che questo popolo slavo staccato dagli altri slavi ha creato fra noi e gli slavi questo punto di attrito mentre bastava a risolverlo una linea etnica, un plebiscito, e questo, mi pare socialismo al cento per cento, una decisione nazionale. Non essendosi fatto, io avrei creduto che sarebbe stato nostro dovere batterci per questo. Togliatti, che è stato in Russia ed ha amici laggiù, poteva battersi per questo. L’avrà fatto in segreto, ma non averlo fatto in pubblico ha demoralizzatogli italiani ed ha creato un abisso. Per queste ragioni noi cerchiamo di criticare questo sciocco imperialismo provinciale slavo. Il nostro imperialismo ha creato la sconfitta; quello slavo invece ha creato una linea di divisione ed una testa di sbarco anglo-americana: ecco quello che Tito ha determinato. Se noi avessimo protestato – non so se saremmo riusciti – per lo meno non avremmo demoralizzato il Paese inducendolo a farci indicare come traditori. Perciò la classe lavoratrice è oggi circondata: lo si deve a questa politica slava. Se nel campo internazionale siamo di fronte a questi due blocchi e dobbiamo toglierci il cappello e prendere ciò che gli altri ci danno – e se la Russia ci desse del grano lo prenderemmo – questo è frutto della politica di Tito. Voi avete dato la sensazione di chiamare imperialista soltanto un blocco, mentre lo sono tutti e due. (Interruzioni a sinistra). Sapete che i russi hanno deportato dai loro paesi 13 milioni di lavoratori tedeschi con le donne e i bambini: non lo volete chiamare imperialismo? Chiamatelo babilonismo, chiamatelo come volete! (Approvazioni al centro e a destra).

Una voce all’estrema sinistra. Se fosse andato a Mauthausen, non la penserebbe così.

TOGLIATTI. Vada a visitare Auschwitz!

CALOSSO. Si sono deportati 13 milioni di lavoratori tedeschi, con mogli e bambini perché i tedeschi hanno commesso delle crudeltà ed hanno fatto altrettanto in Russia.

TOGLIATTI. Come, «altrettanto»?

CALOSSO. Perché i tedeschi hanno fatto infinite crudeltà ed assassini in Russia; ma noi abbiamo sempre sentito dire, tra socialisti, che la guerra è un atto che non compie il popolo e del quale non è certamente responsabile la classe lavoratrice, e quindi non si può opprimere un popolo per il fatto che esso ha oppresso. Si deve liberarlo: questo è chiaro, altrimenti siamo nel campo dell’imperialismo puro. Questo era il motivo del «diciannovismo» ed è il pericolo che corriamo adesso. Lo vediamo in quest’Aula dove non riusciamo a mandare un saluto ai lavoratori tedeschi deportati dalle loro case. (Interruzione del deputato Moscatelli). Il martirio russo non può trovare vendetta contro il popolo ed i lavoratori tedeschi.

TOGLIATTI. Non è vendetta, è precauzione! (Commenti al centro e a destra).

CALOSSO. Comunque, io concludo. Mi avete tirato per i capelli ed ho dovuto rispondere. Questo è il nostro socialismo, questa è la nostra bandiera. (Interruzioni all’estrema sinistra). V’è nel mondo la sventura dell’Italia e la sventura del mondo, e noi speravamo in una rivoluzione proletaria, nell’internazionalismo. (Interruzioni all’estrema sinistra). Disgraziatamente abbiamo visto invece che, ad un certo punto c’è stata un’involuzione, come l’ha avuta la rivoluzione francese. Perciò, sentiamo qual cosa di invecchiato, e vediamo una massa di organizzati costretta sempre più a basarsi sull’organizzazione.

La rivoluzione, che non è necessariamente violenza e sangue, ma un cambiamento, è essenzialmente verità. «Ciò che è sussurrato all’orecchio, andatelo a gridare sui tetti», ha detto un grande rivoluzionario, noto anche ai nostri amici democristiani. Quando c’è una reticenza, quando c’è un eccesso di ipocrisia, quando si tace qualcosa volontariamente, non è mala fede; è qualcosa di più, è, in fondo, inizio reazionario. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Il mio discorso ha voluto dire semplicemente che nel piano del Governo e dell’opposizione io ho l’impressione che l’opposizione l’abbiamo rappresentata noi. (Ilarità a sinistra). Noi abbiamo opposto all’antipiano del Governo la sovranità di un piano, perché noi crediamo che questo debba essere il soggetto di una discussione armonica e perché noi crediamo, come ho già detto, che il piano sia una grande opera moderna e sia la possibilità di costruire il socialismo, o almeno una migliore società, col metodo della democrazia. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, non del tutto d’accordo con l’opinione espressa questa mattina dall’onorevole Piccioni, ma d’accordo molto più con tanti di voi, sono del parere che l’esperimento democristiano sia durato abbastanza perché il Paese e l’Assemblea si possano già sentire autorizzati ad emettere su di esso un giudizio sufficientemente oggettivo, al di sopra delle preoccupazioni ed ire di parte. Avversandolo al suo sorgere fui, purtroppo, facile profeta nel prevederne tutti gli inconvenienti, ai quali sarebbe andato incontro. Oratori che mi hanno preceduto hanno toccato in vario modo, e spesso con dovizia di dettagli, tutti i motivi di opposizione; cosicché a me, anche perché isolato, non conviene davvero tediare l’Assemblea con un lungo discorso.

Questo mio intervento sarà, perciò, brevissimo; e poiché la risposta del Governo ai suoi oppositori, non potrà mutare sostanzialmente, anche in seguito, i termini fondamentali della opposizione, come non li ha mutati sinora, questo mio intervento, oltre alla brevità di una dichiarazione di voto intende averne anche il valore.

Posto di fronte a tre mozioni (amerei trovarmi di fronte ad una mozione unificata) che tutte tendono a rovesciare il Governo ed a sostituirlo con un altro più rappresentativo delle esigenze popolari, dichiaro che le voterò, eventualmente, tutte e tre successivamente (caso mai tutte e tre fossero messe ai voti) pur dovendo riconoscere che, per essere più comprensiva, la mozione Canevari-Saragat ha le mie preferenze. Ma ciò dichiarando sono ben lontano dall’approvare, in tutte le sue parti, la illustrazione che della sua mozione ha fatto l’onorevole Saragat.

Sono d’accordo con l’onorevole Saragat nel riconoscere che anche l’Italia avrebbe urgente bisogno di un suo piano economico, piano – desidererei precisare – che contemplasse la realizzazione di profonde riforme di struttura. Senonché, in questo momento, non insisterei tanto sopra i grandi piani quanto sopra un chiaro programma di emergenza che possa raccogliere l’adesione di più gruppi di questa Assemblea, il che permetterebbe il rapido sbloccamento del monopolio democristiano e la formazione di un Governo di concentrazione e di pacificazione, che ci possa portare sino alle elezioni.

Non posso, invece, condividere le responsabilità dell’onorevole Saragat per l’attacco contro il Partito comunista italiano che egli ha creduto opportuno di includere nella illustrazione della sua mozione di sfiducia.

Il meno che si può dire a tale riguardo è che questo è un lusso che qualsiasi partito socialista non dovrebbe prendersi in questi momenti nei quali è in pieno svolgimento, da parte del mondo capitalistico, la più grandiosa offensiva contro il socialismo, che ricordi la storia della lotta di classe dell’Ottocento e del Novecento.

Con tutta franchezza dirò che non mi piacciono affatto le querele contro i comunisti che raccolgono gli applausi delle destre e del centro.

Sono del parere che coloro che si mettono nella condizione di raccoglierli, anche loro malgrado, corrano gravemente il rischio di liquidarsi come costruttori di socialismo.

Dio perciò non voglia che al suo appuntamento dato alle masse lavoratrici, l’onorevole Saragat veda un giorno accorrere soltanto l’esercito umiliato e vinto del proletariato arresosi senza condizione di fronte ai detentori dell’oro.

A questo punto non vorrei essere frainteso; ma mi creda l’onorevole Saragat e mi credano tutti i compagni del suo partito. Non è questo il tempo di diatribe tra le varie correnti socialiste, quando è in corso la più grande provocazione contro tutto il socialismo che la storia ricordi.

È meglio, assai meglio, oggi come oggi, meritare la persecuzione ed anche perire assieme ai comunisti che tenere atteggiamenti che possano aiutare a ricalcare il dominio capitalistico.

Chiariti questi preliminari, farò un semplice, affrettato elenco dei fondamentali punti di dissenso che mi portano a negare il voto di fiducia all’attuale Governo.

Sul piano nazionale questo Governo monocolore, che nacque in polemica contro la inefficacia dei precedenti governi multicolori, come ce l’ha riconfermato questa mattina l’onorevole Piccioni, nonostante la sua vantatissima coesione di pensiero e di struttura, non mi pare sia riuscito, non dico a risolvere, ma ad avviare verso la soluzione uno solo dei più urgenti problemi che tormentano il Paese.

La situazione del Paese, anzi, è notevolmente peggiorata. Il Governo, per difendersi da questa accusa, tenterà probabilmente di manovrare alcune cifre statistiche; ma si troverà, senz’altro, imbarazzato a toccare quelle relative al costo dei generi di prima necessità, come mi pare abbia confermato da pure accurata e dotta relazione dell’Alto Commissario per l’alimentazione.

Forse al professor Ronchi non potranno essere mossi addebiti se un maggior numero di tonnellate di grano non venne scaricato nei nostri porti. Ciò che noi rimproveriamo soprattutto al Governo è che esso non sia ancora riuscito a combattere efficacemente il mercato nero che in altre nazioni, non più rifornite della nostra, è stato definitivamente, o quasi, stroncato.

Purtroppo il Governo non è riuscito, ripeto, con tutti i poteri a sua disposizione e nonostante la sua struttura unitaria, ad imprimere una qualsiasi disciplina alla produzione, alla circolazione, e al consumo dei beni di prima necessità. In questo terreno le cose sono andate peggiorando.

È andata aumentando la corruzione ovunque; è aumentata la speculazione e il disordine. La fuga di capitali all’estero è aumentata e costituisce una delle cause maggiori del nostro disordine finanziario.

Il disagio popolare è da tempo che va esplodendo ovunque, in agitazioni e scioperi di cui a mio parere troppo a cuor leggero si cerca far ricadere la colpa sopra artificiose inframettenze politiche. Gli indici della vita parlano purtroppo chiaro a questo riguardo; e, comunque, il Governo democristiano ha avuto il torto – che non è davvero piccolo –, con l’assumersi tutto il potere, di mettersi in posizione polemica contro le convinzioni politiche di una grande parte delle masse popolari, tra le più evolute ed attive, che sono quelle socialiste e comuniste.

Non è il Partito democristiano, con il suo interclassismo, con il suo centrismo, con tutte le sue incertezze, che può pretendere di riassorbire, per così dire, le esigenze, politiche e sociali, delle masse socialiste e comuniste.

Prigioniero, nonostante le pie intenzioni di autonomia dell’onorevole Piccioni, delle destre, in seno al Gabinetto ed in seno all’Assemblea; costretto a sopravvivere giovandosi dei voti di chi anche cordialmente e pubblicamente lo disprezza, questo Governo, come a suo tempo riconobbe lo stesso onorevole Presidente del Consiglio, si è condannato, fin sul nascere, all’isolamento. E non si può ascrivere a suo merito questo isolamento, che non è davvero una splendid isolation, di cui possa comunque menar vanto, ma una semplice ed ingenua pretesa, morale e politica, di poter governare proficuamente da solo un Paese come il nostro.

È mio parere che l’onorevole De Gasperi si sia rassegnato troppo facilmente a prescindere dalla collaborazione delle varie correnti socialiste, che sono, nel momento attuale, una delle più sicure garanzie di giustizia sociale anche per moltissimi lavoratori cattolici, che non dànno la loro fiducia né al suo Governo né al suo partito.

Tale esclusione – e conviene insistere su questo punto che è cruciale nell’attuale momento politico – costituisce un fatto grave, che ha provocato nel paese – e non poteva non provocare – una estrema tensione di spiriti, particolarmente giustificata quando si rifletta che il Governo detiene quasi integralmente nelle sue mani anche il potere legislativo in forza del famoso decreto luogotenenziale del febbraio 1946.

Nella delicata situazione costituzionale creata da questo decreto, un Governo monocolore al potere diviene, ipso facto, pressoché totalitario. Il solo controllo di una qualche efficacia, ma tuttavia insufficiente e facilmente eliminabile, è quello che può esercitare su di esso l’apparato burocratico.

Vecchio critico dell’esarchia e del tripartito, devo però riconoscere che ben altre garanzie di democrazia, in questo periodo di passaggio delle nostre istituzioni, ci venivano sino a qualche tempo fa assicurate dai Governi tripartitici o quadripartitici che fossero, i quali certamente erano rappresentativi di una massa ben altrimenti notevole di elettori e di tendenze.

Il Governo monocolore, inserendosi – e qui è il punctum saliens e il punctum dolens della mia critica – in questa situazione di grave carenza costituzionale, non può raccogliere la fiducia, onorevoli colleghi, di veri democratici.

Anche i democristiani, onorevole Piccioni, non sono dei santi, e neanche essi possono pretendere ad una patente di perfetto spirito democratico: e a fare le elezioni con loro soli al potere nessuno se la sente.

E perciò non vedo come potrebbe meritare una qualsiasi sanzione morale ogni forma di agitazione che si manifestasse anche fuori di quest’Aula, diretta a rovesciare l’attuale monopolio democristiano.

Tanto più che questo monopolio è particolarmente pericoloso nell’attuale situazione di tensione internazionale e potrebbe trascinare il Paese ad assumere atteggiamenti e decisioni di carattere irreparabile.

Questo Governo, sul piano internazionale, nacque con un’esigenza blocchista – venne concepito oltre oceano dall’onorevole De Gasperi – e sin qui ha operato in funzione di questa sua nativa esigenza, mettendo così in pericolo, a mio parere, i veri interessi del Paese, che sono quelli della più assoluta neutralità tra i due blocchi, e quelli di mediazione tra Occidente e Oriente.

In questo Governo monocolore non ho potuto sorprendere nessun gesto che potesse dinotare una politica di indipendenza, e che potesse scoraggiare chi si sia ad averci al suo fianco in caso di conflitto armato.

Quando l’onorevole Nenni toccò questo problema della nostra indipendenza politica, egli fu insolitamente prudente.

Egli ammise che il Governo potesse fare una politica verso ed anche con l’America, ed escluse in modo assoluto che l’America pretenda da noi una politica dell’America. La realtà, che nessuno ignora qua dentro e che nessuno ignora in America, è che l’America subordina i suoi aiuti in viveri e materie prime al nostro Paese, ad alcune determinate prestazioni politiche, nonché – naturalmente – alle maggiori possibili garanzie di carattere economico-finanziario. Se non sapessi di sfondare una porta aperta, vorrei pregare l’onorevole Nenni di leggere le dichiarazioni del senatore Taft proprio di questi giorni.

Mi vorrei tuttavia convincere, per il bene del mio Paese, di quanto l’onorevole Nenni ha affermato; e, con tutta franchezza, dirò che l’ingerenza americana nella nostra politica potrebbe avere un indice di sopportabilità qualora vedessi, all’attuale Governo, succedere un altro di concentrazione repubblicana e socialista che, bene inteso, non escludesse i comunisti.

Concludendo dirò che il Partito democratico cristiano, per gli interessi di ordine materiale ai quali si trova legato ed anche per una falsa impostazione pratica (e forse anche teorica) della crociata ideologica per cui intende combattere, è impotente, senza il freno ed il controllo attivo di altre correnti, a riportare il Paese sulla giusta strada, ed impari, se non sorretto e spronato e controllato direttamente da altri gruppi, ad adoperarsi per i veri interessi della Nazione e della pace, e per l’avvento di un vero ordine umano e cristiano, per il quale pur afferma di combattere.

Legato a massicci interessi di varia natura il Partito democratico cristiano è nel suo assieme impari, nonostante la presenza nel suo seno di autentiche anime evangeliche, ai compiti cristiani dell’ora che reclamano virtù eroiche di rinuncia e di coraggio.

Per tutte queste considerazioni voterò contro l’attuale sua posizione di monopolio al potere, come voterei contro ogni altro monopolio. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Poiché tutti gli argomenti in lungo e in largo sono stati trattati, io cercherò, senza divagare, di limitarmi alle comunicazioni del Governo. Sui motivi peraltro, che sono lo scopo dei proponenti la mozione lascio tutte le tesi che all’infuori di questo argomento sono state trattate.

Lascio anche da parte le discussioni se un popolo può morire o no, se la nostra civiltà sia socialista. Si è discusso seriamente se in questi periodi di grandi difficoltà e di grandi ansie sia meglio che economizzare, consumare di più e non risparmiare. Sono questi argomenti di indole generale in cui non mi sento il coraggio di entrare.

Noi siamo stati finora sotto il Governo del tripartito, e si è andati avanti per molto tempo fra uomini che erano di partiti opposti e che dovevano avere o mostrare di avere idee comuni. Si è prodotta qualche volta come una fusione di idee contrarie: ma più spesso un’azione disordinata in cui le due correnti nella realtà si paralizzavano, combattendosi, dopo pubbliche dichiarazioni di solidarietà.

Ho sentito sostenere perfino la tesi che il comunismo e il cristianesimo hanno la stessa morale e la stessa funzione, ed ho cercato invano di protestare contro questo errore storico e filosofico.

C’è stato anche l’equivoco di una specie di comunismo cattolico, per l’occasione, in cui si sono sostenute le tesi del cattolicesimo da scrittori e da oratori di natura contraria, soprattutto democristiani. Il Governo a base di unione di partiti in contrasto fu chiamato dai comunisti, non so bene perché, democrazia progressiva.

Dopo il viaggio dell’onorevole De Gasperi in America è avvenuta una mutazione di idee. Fra l’onorevole De Gasperi e i suoi avversari di oggi vi era stata molta cordialità. Avevano governato insieme, partecipato agli stessi errori e non pareva che il distacco dovesse essere così profondo e completo, e anche avvenire improvvisamente.

Pure il distacco era inevitabile, e siamo arrivati ad una crisi (non parlo di crisi ministeriale), siamo arrivati ad una crisi della situazione la quale deve essere chiarita.

Sinora si è andati avanti come si poteva: democristiani e comunisti, che hanno governato insieme, si sono abituati a vivere insieme – ciò che pare un paradosso – e ora il distacco pesa.

Nella mozione dell’onorevole Nenni come nella mozione dei comunisti non c’è l’attacco violento: c’è qualcosa come un dolce rimpianto di compagni che si distaccano. Si è troppo governato insieme. Non poteva durare questa comunanza, ma quando si è stati a lungo insieme non ci si distacca volentieri.

L’onorevole De Gasperi ha chiarito forse molte idee sulla situazione internazionale. Egli ha voluto dare alla nuova situazione un carattere che era evidentemente dato dal corso degli avvenimenti, di necessità.

Ora vi sono due punti fissi che regolano la situazione attuale. Non si può fare un grande Governo, un Governo solido, senza i democristiani. Non si può fare a meno, per la vita internazionale, dell’aiuto dell’America: sono due punti di fatto in cui bisogna orientare la situazione per riconoscerla com’è.

In fondo non è vero che i democristiani, come diceva l’onorevole Piccioni, sono la grande maggioranza del Paese. Noi non sappiamo ora quali sono le idee e i sentimenti del Paese. Nelle ultime elezioni generali politiche, vi sono stati 207 deputati del partito democristiano e 219 socialisti e comunisti. Quindi si può riconoscere che il partito democristiano è numericamente il più forte e il più saldo. Ma non si può dire che abbia la maggioranza nel Paese. Questo è un dato di fatto su cui è impossibile avere opinione diversa.

115 socialisti, 104 comunisti: erano il nucleo più numeroso; i democristiani rappresentavano un gruppo compatto di 207 voti che era però, sia pure di poco, meno numeroso del blocco rosso.

Il blocco rosso si è rotto. Di là è venuta tutta questa confusa situazione. Il blocco rosso si è diviso in due parti: una più moderata, l’altra aderente ai comunisti. Che cosa sarà ora la situazione? Noi non sappiamo. Le prossime elezioni amministrative in grandi città possono bensì darci una qualche impressione della realtà, ma non possono forse dirci tutto, perché nelle prossime elezioni amministrative entreranno molti elementi che sono anche spesso un poco distanti dalla realtà politica.

Quindi siamo sempre nella solita situazione: due blocchi, uno rosso e uno bianco. Ma il blocco rosso si è scisso, e la parte che poteva essere di moderazione e che poteva essere, per i comunisti e i socialisti più avanzati, un freno, si è allontanata.

Come ciò sia avvenuto voi conoscete assai meglio di me, dalla cronaca. Dunque vi sono adesso socialisti e comunisti separati fra loro. Ma i socialisti, divisi in due pezzi, rappresentano tendenze diverse e, vorrei dire, opposte. Vi sono i socialisti di Nenni, che si uniscono nel loro voto e nelle loro aspirazioni, se non in tutto, in una certa parte ai comunisti; e vi è un gruppo che fa capo all’onorevole Saragat che agisce in diversa direzione. L’onorevole Saragat ha dichiarato il suo pensiero in un ordine del giorno con un linguaggio aspro contro il Governo e ancora più duro degli ordini del giorno degli onorevoli Nenni e Togliatti. L’onorevole Saragat ha negato esplicitamente la fiducia e ha, non già formulato, ma lasciato intravedere un programma senza nulla precisare. Quale è questo programma? Egli l’ha formulato in aspirazioni non in idee, in affermazioni non in proposte concrete. Quale è la sua tesi che noi dovremmo accettare? Un Governo a direzione socialista. Un Governo dunque a direzione socialista che rappresenti l’elemento di moderazione, che possa unire il mondo dei lavoratori senza avere un carattere rivoluzionario.

Che cosa significa un Governo a direzione socialista? La direzione implica che i componenti siano della stessa natura di chi vuole dirigerli. Ora, se il partito dell’onorevole Saragat aspira a un Governo, deve avere un gruppo compatto, ma soprattutto, data la situazione attuale, uomini di altri partiti che siano disposti ad accettarne le idee e il programma. Ora, ciò è possibile? Che significa un Governo a direzione socialista? Parliamo con sincerità e non creiamo altri equivoci. «Socialismo» è una parola spesso indeterminata e imprecisa. È un sostantivo cui bisogna aggiungere quasi sempre un aggettivo. Comunismo è parola antica e ha avuto sempre lo stesso significato, sia pure con diverse interpretazioni. Socialismo è parola nuova inventata da Owen. Socialismo, voi lo sapete, è parola diffusa press’a poco un secolo e mezzo fa in Europa. Anche i grandi dizionari, due secoli fa non contenevano la parola «socialismo». Che cosa significa socialismo? È difficile dire.

Vuol dire non già una idea economica definita, ma una idea di solidarietà, una aspirazione di ordine morale: ciò almeno voleva dire quando nacque. E ora che cosa vuol dire? La sua indeterminatezza lascia posto a tutte le migliori aspirazioni, ma spesso anche a tutti gli equivoci. Si può arrivare al comunismo, ma anche spesso, come ora, all’anticomunismo.

A Vienna, nel mese di agosto del 1914 doveva essere fatto un grande congresso internazionale socialista. Si voleva dare all’avvenimento la più grande importanza. Doveva essere la più grande consacrazione delle tante vittorie socialiste in Europa. Si prepararono grandi pubblicazioni sulla storia del socialismo, sulla sua situazione in tutti i paesi civili, sulle sue opere, sulla sua organizzazione economica. Si fece un album dei grandi capi del socialismo: era composto di 50 fotografie. Ora quell’album è introvabile: è una pubblicazione che non ho avuto il piacere di ritrovare fra i miei libri sperduti. In questo album dei grandi socialisti, vi era Pilsudski e vi era perfino Mussolini. Il socialismo ha avuto molte mutazioni in questo periodo, ma è rimasto sempre una tendenza generale e rappresenta un orientamento dello spirito piuttosto che una precisa dottrina economica. In ciò è la sua forza, ma è anche spesso la sua debolezza. Basti pensare a quello che era la prima internazionale socialista con Marx e con tanti poveri emigrati e perseguitati, tutti uomini che vagavano nel mondo in cerca di sicurezza, se non di fortuna. E basti poi pensare che cosa è stata la seconda internazionale socialista, presieduta dal mio ottimo amico Vandervelde. Nella seconda internazionale era gran numero di Ministri in carica, sopra tutto del Nord di Europa, di ex Ministri, di futuri Ministri, e ben pochi di essi ricordavano nella loro azione e nelle loro manifestazioni i socialisti di Marx. Anche in Italia ora socialista è Nenni e socialista è Saragat. Come dovrebbe essere la direzione socialista?

Si parla ora di piani come di una novità, e questo è equivoco se non ignoranza. Il piano è non già cosa nuova, ma cosa vecchissima, di cui l’antichità ha avuto non solo conoscenza, ma di cui ha anche riso.

E ne han riso anche i più grandi pensatori, e perfino tra essi Aristotele.

Il socialismo da parecchio tempo ha perduto il suo carattere veramente rivoluzionario, ed allora ricerca tante cose, tante forme che paiono nuove e sono antiche, per trovare una ragione di esistenza: ora la forma nuova è diventata il piano. Si vuole o un piano generale o una serie di piani.

Io non so che cosa sia genericamente oggi il piano, e attendo che me lo spieghino coloro che tendono così fortemente ad essere pianisti o pianeggiatori. (Si ride). Non so come si possa dire seriamente «vogliamo dei piani», cioè cosa indeterminata, e non dire più semplicemente: vogliamo programmi chiari e precisi. Piano suppone sempre qualche cosa di misterioso, o almeno gli autori di piani lascian supporre che vi siano rimedi misteriosi. È una specie di mistica della speranza e dell’equivoco, e Aristotele aveva ben ragione di riderne.

Aristotele è stato princeps nella fisica e nella metafisica, maestro della umana ragione, degnissimo di fede e di obbedienza, come dice Dante.

La Chiesa ha in tanta parte l’opera di San Tommaso nella sua concezione filosofica, e San Tommaso e la scolastica sono Aristotele.

A differenza di Platone e del grandissimo Socrate, Aristotele non faceva volentieri tratti di spirito. Ma ne fece per gli autori dei piani. È da lui che abbiamo appreso che il primo autore di piani fu l’architetto Archidamo da Mileto. Archidamo fece dunque il suo piano che regolava tutta la vita della città. La parola piano è, dice Platone, del linguaggio architettonico. Archidamo da Mileto, il quale aveva tutto previsto nel suo piano: le leggi della città, l’ordinamento economico, la struttura dell’agricoltura e dell’artigianato, Archidamo, dice Aristotele, era l’uomo più vanitoso del mondo, teneva molto alla sua persona e coltivava con cura la propria chioma e la propria barba. Ebbene, questo Archidamo da Mileto è stato il precursore degli attuali pianisti o pianeggiatori (Si ride) ed ha fatto un piano su tutto: infatti la parola «piano» viene dall’architettura: Archidamo era un architetto. Aristotele ridendo dei piani ne comprendeva la vanità. Egli era veramente un princeps della fisica e della metafisica, uomo che sapeva tutta la scienza e tutte le filosofie del suo tempo, che aveva uno spirito profondo sempre vivo e sempre nuovo in tutte le sue manifestazioni. Che cosa è un piano? Archidamo da Mileto, architetto, lo usò perché appunto, come architetto, aveva le idee pianiste e pianeggianti (non so come si deve dire). Qual è la differenza fra piano e programma? Ogni uomo che ragiona ha il suo piano, che non è altro che il programma o un insieme di programmi: programma della giornata, programma del mese, programma dell’anno, ecc. Ogni negoziante fa il suo programma per i suoi affari. Ma ora in politica e in economia si dà l’idea del piano per indicare non soltanto ciò che si vuol fare, ma la trasformazione cui attraverso l’azione si vuole giungere. Così, si parla di piano a scopo socialista, di piano a scopo religioso, e vi è sempre nel piano un’idea che è diversa da quella del programma. Quindi vi sono migliaia di piani.

In Germania furono calcolati, prima che venisse Hitler, oltre diecimila piani. Quanti altri ne sono stati fatti? In ogni paese, in Belgio, in Francia (la Francia prima della guerra fu fertile in produzione di piani), in Inghilterra. Non se ne fece nulla ma i piani si seguirono ininterrottamente.

Il Belgio ebbe la fissazione dei piani, e trovò il pubblico socialista ben disposto ad accogliere seriamente l’idea dei piani. E vi fu uno studioso serio, de Man, che si entusiasmò per i suoi piani. Era uno scrittore di economia. Aveva viaggiato per gran parte di Europa e di America, aveva fatto l’operaio e lo scrittore, era serio economista, aveva conosciuto le fasi della vita economica e dovunque aveva grande reputazione. Ora, il popolo belga si entusiasmò talmente che 563.461 socialisti belgi dettero adesione al movimento Vandervelde, che fu eletto vicepresidente del Consiglio. E, naturalmente, del piano non si fece nulla, come per gran parte dei piani. Poi venne la guerra e seguì l’invasione del Belgio. De Man non si comportò molto bene. Era fiduciario della Regina Madre e divenne poi suo amministratore. Ebbe cura dei suoi interessi ed esaurì la sua azione politica.

Dovunque vi sono stati dei piani, dovunque se ne è voluto adottare qualcuno, dovunque non si è riusciti che ad aumentare confusione e disordine.

Che cosa vuol dire fare un piano? Vuol dire adattare all’idea di una forma sociale, di una forma economica non esistenti la situazione esistente per trasformarla. Ora, queste cose assai difficilmente riescono e spesso cadono appena nate.

L’onorevole Saragat si riferisce senza dubbio al piano che noi non abbiamo conosciuto sotto il nome di piano russo. Il piano russo, su cui esiste molta confusione, è stato soprattutto un piano di guerra, un piano di necessità, che la Commissione bolscevica costituì nel 1921 e che ha funzionato solo nel 1926-27 e più ancora nel 1929.

Vi sono dunque programmi e piani, e in Russia vi è stato soltanto il tentativo di un vero piano, cioè il tentativo di dirigere tutta la produzione.

In tutto il resto di Europa si è parlato spesso di piani, ma senza mai seriamente prepararli e organizzarli.

Il piano russo si basa sulla necessità di riparare alle distruzioni della rivoluzione e della guerra, in un Paese che aveva tutte le materie prime e tutte le condizioni più favorevoli. La Russia è il solo paese che può concedersi il lusso di avere un piano con probabilità di avere buoni risultati, anche perché non può avere facilmente forme libere di produzione che permettano di sviluppare utilmente tutte le risorse della Nazione. La Russia possiede terre in tale quantità, che in alcune zone il contadino potrebbe avere tanta terra quanto un grande proprietario. Vi sono tali ricchezze minerarie ancora sotto terra sepolte, da utilizzare, che basteranno per molti secoli a popolazione assai più grande.

Vi è infine una popolazione abituata all’obbedienza, passiva da secoli. Un piano suppone una disciplina forte, una forza di esecuzione che non ammette deviazione. La Russia aveva tutte le condizioni per avere un piano che rappresentasse un successo e la Russia difatti, pur producendo a costi così elevati, ha tentato ciò che altrove sarebbe stato impossibile. Il bolscevismo ha avuto il merito di realizzare, in forma autoritaria, progressi che non si sarebbero realizzati con la libertà, o si sarebbero realizzati assai più lentamente. In Russia, dove si parlano 83 lingue e innumerevoli dialetti, vi sono popolazioni cui Mosca ha dato perfino l’alfabeto e la grammatica. Quando si pensa allo sforzo che la Russia ha compiuto, bisogna rimanere ammirati della sua opera, anche se è stata spesso antieconomica e se il risultato non è stato pari allo sforzo.

Gli autori o i propugnatori del pianismo parlano di grandi opere da compiere con l’economia del piano. Che significano queste parole? Programmi per la produzione sono sempre esistiti e vi saranno sempre. Si tratta solo di vedere se è utile che siano coordinati per scopi politici, come quando si dice che devono servire a un Governo a direzione socialista, o se viceversa non possono costituire in questo caso materia di sperperi e di perdita.

Io non conosco grandi piani economici che non si siano risoluti in perdita.

L’economia del piano è essa stessa basata sul presupposto di un potere autoritario, perché richiede che non vi siano, per effetto della disobbedienza e dell’indisciplina, troppi sperperi. Mussolini e Hitler potevano concepire l’idea del piano, com’essa è naturale ed è stata anche in una certa fase necessaria in Russia ove ha anche ora fondamento nella realtà.

In paesi come la Francia e l’Italia è errore ed è destinata a fallire.

Un piano a direzione socialista, dove i socialisti non sono la massa della popolazione e non hanno anche essi la facile obbedienza passiva, è errore ed è soprattutto illusione.

Ciò non esclude che vi siano e vi possano essere programmi sociali anche utili.

Quando per effetto della scarsità della produzione e della mancanza di scambi e in conseguenza alla caduta della libertà, la vita economica è regolata per necessità in molta parte dallo Stato, si spiega l’illusione dei piani e la confusione che si fa tra piani economici, in vista di scopi sociali, e programmi economici, sia pure di lunga durata. Gli uomini competenti che fanno programmi economici sono ben lontani dal pretendere di trasformare le basi della società mediante i loro piani. Ogni vero piano sarebbe in Italia sicuro fallimento dopo disordini e sperpero.

Noi dobbiamo utilizzare le nostre modeste risorse nel modo più serio e migliore, senza fantasia e senza illusione.

L’onorevole Saragat ha dato consigli sul piano, ma non ha detto il piano. Ora non è utile dire di volere un piano da affidare a un Governo a direzione socialista. Ma chi vuole un piano non può chiedere un bill d’indennità preventivo. Deve dare non solo le linee del piano, ma indicare i mezzi di attuazione e le disponibilità da utilizzare e i sacrifizi da imporre al Paese. Lo stesso piano russo nelle condizioni più agevoli si potette attuare solo col sacrifizio di milioni di uomini. Tutto fu sacrificato ai grandi armamenti che i capi bolscevichi credevano necessari per dare alla Russia autonomia e libertà di fronte agli stranieri. Se l’onorevole De Gasperi vuole avere fiducia, io gli consiglio di non farsi tentare dall’idea di un grande piano: non avrebbe che disinganni.

Deve andare verso programmi che possano essere realizzati. Noi dobbiamo procedere con le nostre forze, con i nostri mezzi, e dobbiamo procedere in base a programmi sicuri che possano essere realizzati senza perdite. Da noi non vi è possibilità di un lusso qualsiasi. Ogni errore per noi è grave colpa, perché ci può mettere domani in una situazione insostenibile e dare sempre illusioni al popolo.

In ogni modo chi ha un piano di trasformazione sociale lo esponga subito. Per annunziare un piano e non limitarsi all’applicazione di programmi concreti e realizzabili, bisogna che il piano esista. E se già non esiste è male presentarlo come se esistesse.

E passiamo a ciò che più importa: la gravissima situazione finanziaria, che se non muta è ridicolo parlare di piani e di programmi che richiedono nuove grandi spese.

Io mi auguro che l’amico Einaudi faccia tutti i miracoli possibili per trarci dalle difficoltà della difficilissima situazione in cui siamo.

Egli ha assunto due funzioni le quali non rispondono alla nostra situazione: egli è vicepresidente del Consiglio dei Ministri ed è capo di un Ministero finanziario. Anche qui noi abbiamo una malattia costituzionale: la tendenza ad aumentare e a mutare ciò che esiste.

Noi avevamo fino a qualche mese fa due Ministeri, uno del tesoro e uno delle finanze.

Non era forse una divisione molto logica; ma esisteva da molti anni. Poi si trovò che non andava bene e si pensò che era meglio un solo Ministro del tesoro e delle finanze e si nominò l’onorevole Campilli, che era senza dubbio uomo intelligente. Egli rese, arrivando al Governo, un segnalato servizio. I Governi succeduti ad fascismo non avevano mai pubblicato un quadro della situazione finanziaria reale. L’onorevole Campilli fece questo quadro con onestà e io gliene fui grato. Disse tutto ciò che non si era detto prima e anche gli spiriti più amanti delle illusioni cominciarono a rendersi conto di quella dura realtà che non doveva essere dissimulata.

Poi Campilli dovette andar via e si nominarono tre Ministri, dove erano stati due e uno. Il pubblico non comprese: non due ma tre, e vide solo che le difficoltà andavano crescendo e crescevano sempre i corsi dei cambi all’estero e delle derrate all’interno. Il pubblico aveva torto di aspettarsi miracoli.

Ma la finanza è forse la sola cosa dove non vi sono miracoli. Vi è sempre la nuda realtà. L’onorevole Einaudi aveva assunto il titolo nuovo e non felice di Ministro del bilancio, ma non poteva mutare la situazione e tanto meno promettere di mutarla.

Ora il pubblico attende ancora il miracolo: ma il pubblico non può avere il miracolo. Dovremo avere ancora una penosa finanza e per molto tempo. Si tratta di vedere se ciò che si fa risponda col minor sacrificio possibile al massimo risultato, perché errori non ci sono consentiti.

Ora, senza fare una critica all’onorevole Einaudi (egli sa che io sono suo amico e che in me non vi può essere nessuna idea meno che amichevole) devo ricordare che quando assunse il Governo mi limitai ad alcune raccomandazioni.

L’onorevole Einaudi non ha potuto fare molte cose che io desideravo; e che gli dissi con sincerità. Io soprattutto desideravo che esistesse un vero bilancio e che si uscisse dal malcostume di disporre senza alcun controllo di fondi enormi.

Volevo che si giungesse presto a una relativa sincerità del bilancio e si arrivasse almeno al punto di sapere quali sono veramente le entrate e quali le spese, e che ci fosse un maggiore controllo. Ora, nessuna cosa è più necessaria di fare in guisa che il bilancio sia chiaro e basato sulla specialità delle spese e quindi in forma debita, diviso in capitoli, in tal modo che non sia possibile alcun abuso nella destinazione delle somme dello Stato.

Speravo, come dissi, che l’amministrazione finanziaria potesse rientrare nella legalità voluta dalla legge di contabilità e fossero rimesse in onore le norme classiche per una reale gestione che consentisse il minimo controllo.

Nessuna modificazione è stata apportata ai capitoli, mentre si deve a ogni costo tornare alla specializzazione. Si fanno ancora adesso spese ingenti autorizzando il Ministro proponente a inscriverle nel bilancio quando crede e vuole.

Non ci sarà mai da noi una restaurazione del bilancio se non se ne incomincerà a stabilire la chiarezza, soprattutto la divisione in capitoli che rappresentino la normalità.

Noi dobbiamo evitare che vi siano spese enormi non controllate e dobbiamo volere che non si trasformino i bilanci di competenza in bilanci di cassa, come si fa ora per i bilanci dei lavori pubblici: dobbiamo volere che non si faccia alcuna spesa che non sia autorizzata.

Ora la materia dei residui passivi diventa preoccupante, e si fanno leggi di pagamenti e finanziamenti differiti, è quindi a carico della cassa. Si fanno leggi di finanziamenti a pagamenti differiti, ma con la facoltà (in realtà necessità) di scontare le annualità o semestralità, e quindi a carico della cassa e dei mercati finanziari già iscritti.

A molte di queste cose che riguardano la chiarezza e il controllo del bilancio l’onorevole Einaudi può provvedere senza difficoltà. Egli ha assunto una carica che io non trovo troppo felice: quella di Ministro del bilancio. Non so perché gli sia stato conferito questo titolo, che non trovo in nessun altro paese. Una sola volta in Francia questo titolo esistette, ma durò pochissimo tempo.

Ma l’onorevole Einaudi e il Ministero troveranno ben altre difficoltà quando dovranno affrontare i grossi problemi che sopraggiungono.

La nostra Assemblea finirà con la data del 31 dicembre e questa volta è necessario che assolutamente si finisca. (Applausi). Io in quest’Aula assunsi la responsabilità di dire che la proposta di limitare, come il Governo voleva, a settembre i nostri lavori non era accettabile, perché non avremmo avuto la possibilità materiale di tenervi fede. Ma a dicembre dobbiamo assolutamente finire. Io vedo invece in una sia pure piccola parte di questa Assemblea un proposito indeterminato: la necessità di un nuovo termine. Tutte le assemblee desiderano la longevità e se possono la stessa stabilità. Ho udito perfino questa strana ipotesi: perché, se è necessario, questa nuova Assemblea Costituente non si trasforma in Assemblea legislativa e dura fino quando non vi saranno tempi più calmi?

Cose impossibili e non serie: noi dobbiamo finire il 31 dicembre. E dobbiamo fino allora avere esaurito il nostro compito essenziale: aver fatto la Costituzione, buona o cattiva che essa sia.

E dobbiamo, per quanto è possibile, non impegnare coloro che seguiranno, con atti e articoli della Costituzione, che riguardano le nostre idee e la nostra azione più che le necessità dello Stato. Noi non abbiamo altro diritto se non quello di fare la Costituzione. Ora, se nella Costituzione vogliamo mettere ciò che attiene veramente alla Costituzione e non cose che rappresentano interessi, idee e tendenze dei partiti dovremo terminare i nostri lavori senza incidenti spiacevoli che compromettano anche l’avvenire.

Io vedo la necessità che l’Assemblea Costituente prepari prima di tutto due serie Assemblee legislative, che avranno compiti molto gravi: e noi stiamo facendo di tutto per aumentare gli errori della proporzionale. Noi stessi esageriamo nel far male. La prima proposta del Governo era che vi fosse un deputato per ogni 80.000 abitanti. Troppi deputati. L’onorevole Conti propose giustamente la cifra di 150.000 abitanti per ogni deputato. Io, vedendo che la cosa riusciva ostica (molti colleghi pensavano di quanti posti si riduceva il nostro numero) proposi 100.000 abitanti. Mi aspettavo che a questa formula intermedia l’Assemblea aderisse; invece fu respinta la proposta dei 150.000, nonché quella dei 100.000, e si adottò quella degli 80.000. E sono sicuro che se si fosse proposto di avere un deputato ogni quarantamila abitanti, il numero di voti sarebbe stato ancora più grande, sopra tutto a scrutinio segreto. (Commenti). Tutto ciò è pericoloso e dannoso.

Io vi prego di riflettere che le più potenti assemblee del mondo, la Camera dei rappresentanti americana e il Senato americano, hanno fra l’uno e l’altra un numero di rappresentanti assai minore di quello che attualmente sono i rappresentanti di questa nostra Assemblea Costituente.

Dunque noi dobbiamo, se vogliamo dare esempio di serietà, finire per il 31 dicembre: se noi non ci prendiamo sul serio non ci prenderanno sul serio né all’estero, né in Italia i nostri stessi concittadini.

Finisce la Costituzione. Nel pensiero di tutti è: chi farà le elezioni? Vogliamo essere sinceri? Nella penosa discussione attuale domina il pensiero: chi farà le elezioni? Con quale Ministro? Con quali metodi?

Io ho avuto una strana idea: non solo credere nella libertà, ma praticarla. Sono stato Ministro dell’interno oltre che Presidente del Consiglio ed ho fatto nel 1919 elezioni generali. Ho voluto fare elezioni oneste senza intervento di Governo. È una idea che può parere anche ora paradossale. Delle elezioni volevo solo occuparmi per quanto riguardasse l’ordine pubblico e poi lasciare a tutti i partiti e a tutti i cittadini piena libertà di fare ciò che volevano. Diedi ordini a tutti i prefetti nello stesso tempo di non occuparsi di elezioni. Ma poiché si poteva credere che ciò che era detto pubblicamente fosse una finzione, chiamai a Roma i prefetti delle più grandi città e poi mandai a tutti telegrammi segreti in cifra. Ma voi sapete che i prefetti pensano che i telegrammi sono fatti per il pubblico, per rappresentare una difesa per l’avvenire. Feci perciò ad ognuno riservatamente un telegramma in cifra; in cui davo delle disposizioni dicendo che esse dovessero essere interpretate alla lettera e soggiungendo che avrei punito ogni prefetto che si fosse occupato di elezioni. Volevo soltanto che l’ordine pubblico fosse garantito e non altro.

Perché diedi queste disposizioni? Io sono convinto che sopra tutto dopo grandi movimenti umani come la guerra noi non dobbiamo restare attaccati alle vecchie formule nelle grandi manifestazioni della vita pubblica. Non è possibile che mentre muta sostanzialmente tutto, l’azione del Governo sia come prima dominata da interessi privati. Era allora mio Sottosegretario all’interno l’onorevole Grassi. Allora era un giovane Sottosegretario: ora non dirò che sia un vecchio Ministro, ma un Ministro solenne ed anziano, come conviene ad un Ministro guardasigilli. L’onorevole Grassi sa che io ordinai ai prefetti di fare lo stesso trattamento agli avversari come ai sostenitori, avendo un’arma potente nelle mani, la censura (che durava in pieno allora dopo la guerra), io diedi ordine alla censura che tutto quello che si stampava contro il Governo doveva essere lasciato libero, che gli insulti personali anche più oltraggiosi contro di me non dovessero essere mai in nessuna forma censurati. Al punto che Mussolini, a Milano, sapendo di questa disposizione, si divertiva a pubblicare articoli ove figurava: «il porco Nitti». Ebbene il «porco Nitti» dispose che anche quelle pubblicazioni dovessero passare senza censura! Ho sempre creduto che il Governo debba garantire il rispetto delle libertà fondamentali. Io disposi sempre il rispetto delle libertà fondamentali, anche a mio danno personale. Quindi non consentii mai alcuna cosa a danno degli avversari.

Le elezioni che io feci nel 1919 furono le sole, o fino ad ora le sole, contro cui nessuno presentò alcun reclamo contro il Governo! Tanto l’azione del Governo fu onesta e seria!

Quello che io feci consideravo come un dovere e come garanzia di giustizia e di onestà.

Ma i miei procedimenti parvero ai vecchi uomini pericolosi e inquietanti. Voler parlare di serietà, di onestà, di semplicità in materia elettorale parve ingenuità. Giolitti non era persuaso. Si dice che con quelle elezioni erano entrati alla Camera dei deputati troppi socialisti e, per la prima volta, più di cento democristiani, che allora si chiamavano popolari. E allora Giolitti che mi succedette (era stato mio grande amico e divenne mio grande nemico e ci separammo non senza grande dolore da parte mia) pensò di fare le elezioni con diverso metodo, e impose il solito metodo dell’intervento dei prefetti. Io avevo fatto le elezioni nell’autunno del 1919, Giolitti, senza necessità e mancando a un impegno presso la Commissione del bilancio, volle fare nuove elezioni a brevissima distanza nella primavera del 1921. Voleva una sua maggioranza ed escludere me e i miei dal Parlamento. Quale fu il risultato? Si diceva che io ero stato allora inabile facendo votare liberamente e non creando alcun ostacolo agli avversari. Io feci le elezioni nel 1919, egli nel 1921. Fu eletto press’a poco lo stesso numero di socialisti e di democristiani. E l’onorevole Giolitti, che aveva concentrato la lotta contro di me (dalla grande amicizia si passa spesso alla grande inimicizia) non raggiunse il suo scopo. Io ebbi elezioni trionfali non ostante tutte le violenze.

Quindi, prima cosa che dobbiamo evitare è questa.

L’onorevole Giolitti arrivò allora a tollerare che uno dei Ministri desse le armi ai fascisti, e non solo camion militari e materiale di trasporto, ma anche fucili. Lo stesso Ministro fu in lista con Farinacci e prese parte con lui a una festa fascista in cui si bruciavano le bandiere delle cooperative socialiste, che egli stesso aveva contribuito a fondare. Il Ministro della giustizia diede istruzione ai procuratori generali che non si dovessero istruire processi contro coloro che avevano commesso reati a scopo nazionale, cioè i fascisti. Era l’impunità del delitto voluta dal Governo. Il sottosegretario di Stato all’interno fece tutti gli inganni, mentì sempre a tutti ed elevò la falsità pubblica a un livello cui non si era mai giunti.

Ebbene, la sola differenza fra le elezioni del 1921 e quelle del 1919 fu che, essendo io Ministro dell’interno, non venne nessun fascista alla Camera.

Io avevo dato ordine al prefetto Flores, uno dei più intelligenti, che avevo mandalo a Milano apposta, di non fare alcuna persecuzione agli avversari in occasione delle elezioni. Quale fu il risultato? La lista di Mussolini a Milano fu miserabilmente battuta: appena quattromila voti (e fu oggetto di ilarità generale) nella città di Milano.

Tanto sono convinto che solo con la libertà, col rispetto dei cittadini, nel considerare l’avversario come uguale e non metterlo mai in condizione di veramente odiarti, si può arrivare alla pacificazione.

Del risultato che ebbe allora Giolitti io non gliene faccio colpa: fu un’aberrazione di un uomo inasprito da passati dolori e contro cui tutte le ingiustizie erano state commesse. Ma colpa di Giolitti fu, per inconsiderata esaltazione, aver introdotto il fascismo in Parlamento cioè di averne assicurata la vittoria.

Assai poco serve l’esperienza. Ma io spero che il Governo farà le elezioni prossime e le farà in modo che tutti gli avversari abbiano sempre e sopra tutto la libertà. I democristiani al Governo con i socialisti e comunisti avevano gli stessi vantaggi, ed erano sicuri di fare tutta la via insieme, o almeno pareva che dovessero farla. Ora una frattura si è prodotta. Voi dovete fare le elezioni da avversari. Io spero che voi vi regolerete con gli avversari come con gli amici, con gli stessi sentimenti di onestà e serenità che sono condizioni di vita civile.

Ma mi spiego l’inquietudine.

Un’altra ragione di inquietudine: voi del Governo avete un immenso potere; il bilancio dello Stato è nelle vostre mani e per lungo tempo, e cioè fin dopo le elezioni sia nelle forme attuali, sia nelle tradizionali per cui di molti fondi si dispone largamente e quasi si può disporre ad arbitrio. Voi potete così rendere favori o produrre danni. Io mi spiego che molti che si dicono oggi vostri avversari e che ieri erano vostri amici, abbiano motivi di preoccupazione. Conosco troppo i metodi per non esserne inquieto. Ma io confido che voi sentirete (e non vedo perché non lo sentireste) che è nel vostro stesso interesse di limitare la lotta e di difendere la vostra azione, se non con simpatia, con lealtà verso i vostri avversari.

Noi dobbiamo arrivare alla nuova Camera, e ci dovremo andare con un duro compito. Ci rimangono per la fine dell’anno meno di tre mesi e non abbiamo predisposto nulla ancora di quella che deve essere la vera parte importante, costituzionale nella nuova Costituzione. Il lavoro per questa parte è appena incominciato. Dobbiamo ancora fare tutte le leggi e tutti i preparativi necessari per arrivare alle elezioni. Sinora abbiamo fatto assai poco e abbiamo solo perduto tempo in discorsi.

L’onorevole Piccioni ha pronunziato stamane un discorso impressionante e ha fatto anche l’apologia dei proprio partito: è arrivato a dire che il Partito democristiano rappresenta la grande maggioranza nel Paese.

PICCIONI. No, la maggioranza relativa.

NITTI. E sia! Ma nel discorso dell’onorevole Piccioni vi è un po’ di esagerazione: c’è il tono del vincitore. Quello che mi ha colpito nel discorso dell’onorevole Piccioni, fino a ieri così semplice e cordiale, e anche moderato, è il tono di sicurezza e anche di fierezza. Permettete allora che io vi domandi: vi sentite voi democristiani veramente sicuri? Sapete voi quello che avverrà sino al mese di dicembre? Non vedete i pericoli cui andate incontro? Prevedete voi quali rivolgimenti ci potranno essere nell’economia nazionale, quali nella vita italiana e nelle condizioni dell’Italia? Avete questo sicuro sentimento di voi? Voi dovete volere la nostra collaborazione, almeno spirituale, e quella degli avversari.

Io non sono un avversario personale, sono soltanto un critico disinteressato. Ho il mio passato e la mia esperienza. Senza la collaborazione almeno spirituale da parte nostra voi non riuscirete. I vostri avversari possono con il loro contegno farvi riuscire o non farvi riuscire. Senza la nostra collaborazione voi non potrete risolvere molti problemi. Si tratta di cordialità sostanziale non formale.

Siate cauti nel vostro stesso interesse. Siamo in un momento in cui il bilancio dello Stato sarà nelle vostre mani e voi avrete mezzi potenti che vi verranno dai vostri amici. I partiti e i Governi sono una cosa terribile, perché richiedono fondi ingenti: decine, centinaia di milioni, forse domani data la svalutazione della moneta, miliardi. Chi deve dare i miliardi? Si trovano dove si trovano, e la lotta spingerà a cercarli. Voi avrete mezzi di lotta che gli altri non hanno. Anche i comunisti hanno finora trovato fra i loro simpatizzanti, e anche e sopra tutto fra i loro avversari, entrate rilevanti. Tutti hanno bisogno di fondi, e non si può fare nulla senza di essi: e il Partito democristiano, appunto perché più numeroso, deve averli in maggiore misura.

Avere fondi, vuol dire contrarre obblighi. L’onorevole Saragat ha fatto una cosa semplice: è andato in America. È evidente che gli americani di origine italiana non gli avrebbero dato nulla se avessero creduto che la sua politica potesse essere contraria a quella dell’America.

Doveva essere così: era necessario che fosse così. L’onorevole Saragat, dunque, ha dovuto ricorrere a quei mondi che non sono i più favorevoli alle tesi delle sinistre. L’onorevole Saragat ha in realtà una natura conservatrice; e non so spiegarmi perché si ostini ad essere ad ogni costo, se non rivoluzionario, amico dei rivoluzionari. (Si ride).

L’Italia e la Francia sono i due soli Paesi che hanno la follia dei partiti avanzati. Vogliono sopra tutto i conservatori sembrare estremisti. Io facevo notare spesso al mio amico Briand ed anche a Herriot che in Francia non vi è da molti anni un partito che si chiami conservatore, mentre perfino i radicali socialisti sono tutti conservatori.

In Inghilterra i conservatori, anche se hanno spirito liberale, si onorano di chiamarsi conservatori.

Ciò succede assai meno in Italia, dove nessuno osa lealmente dire di essere conservatore, e molti lo sono.

L’onorevole Saragat ha fatto bene a rivolgersi ai suoi amici di America: ma è chiaro che se le sue idee fossero state credute contrarie al programma americano, non avrebbe trovato aiuto, soprattutto dagli italiani di America.

Poche persone appartengono in America al movimento socialista. Ma non vi sono comunisti. Nessun comunista è nei Parlamenti, o deve dissimulare le sue idee.

È bene, è male? È inutile discutere, ma il fatto esiste. Forse muterà fra non molto tempo, forse anche non muterà. Ma è chiaro che un Governo che comprenda rappresentanti comunisti non troverà simpatia nel Governo americano e tanto meno aiuto.

Siamo noi perciò schiavi, come si dice, dell’America? Ciò è falso, e l’accusa che si muove all’onorevole De Gasperi e ai democratici cristiani di essere all’obbedienza dell’America, che pretenderebbe agire sulla nostra politica è falsa e ingiusta: l’America non tiene a nulla. L’America tiene ad agire nel suo interesse. (Approvazioni). L’America pensa a se stessa. Questa vecchia idea italiana che affinità politiche diano diritto ad aiuti politici ed anche economici è un’assurdità. Questa idea ha inquinato la nostra politica; ci ha rovinato subito dopo la guerra e dopo la fine del fascismo, quando abbiamo detto e ripetuto che diventati gli italiani repubblicani e democratici, tutte le repubbliche democratiche e tutti i democratici del mondo sarebbero stati per noi. Diventati noi repubblicani non furono per noi più di quello che non fossero stati prima, e qualche volta, come si è potuto vedere, furono anche meno cordiali di quello che erano stati quando ci reggevamo a monarchia. Non è vero che l’America, che ci ha dato vero aiuto economico, di cui le siamo grati, ci imponga condizioni di politica estera. È falso che ci avesse imposto rapidamente la ratifica del Trattato. È falso che voglia regolare le nostre condizioni di vita. Solamente non è disposta a darci aiuti economici se metteremo nel Governo rappresentanti di partiti che essi credono facciano parte del grande movimento che reputano a loro contrario o con cui almeno finora non hanno trovato alcuna possibilità di intesa.

Questa intesa può avvenire. Ma può anche non avvenire, e non è escluso che venga ancora la grande guerra sterminatrice e inutile, e perciò più scellerata.

I rapporti umani non sono mossi soltanto da idee, ma da passioni, da sentimenti e da interessi. Noi dobbiamo pensare solo a noi stessi ed aver fiducia in noi stessi e trovare in noi stessi le forze per la ricostruzione della nostra vita politica ed economica. E non debbo dire altro se non rivolgere un appello ai miei amici. Io ho notato le parole sdegnose dell’onorevole Piccioni: sdegnose e giuste. Chi vince ha ragione. Il suo partito è al Governo e si mostra compatto: egli ha quindi ragione quando dice con fierezza che il Governo democratico cristiano non ha bisogno dei programmi di nessuno. Ma può dirlo con sicurezza? Il suo concetto è che, in una situazione come l’attuale, il suo partito è così forte da non chiedere i programmi degli altri, perché ha un proprio programma e chiede soltanto l’adesione degli altri al proprio programma. Ora, io mi permetto di domandare all’onorevole Piccioni ed ai miei amici democratici cristiani: hanno essi una grande sicurezza in questo loro programma? Hanno la sicurezza che anche alla fine dell’anno l’Italia non sarà in tali condizioni che molte idee e molte situazioni non saranno sconvolte? Abbiamo noi la sicurezza che avremo un avvenire calmo? (Commenti). Io non ho questa sicurezza. Bisogna trovare il modo di vivere insieme e di evitare ogni grande conflitto. Io ho fiducia nella prudenza dell’onorevole De Gasperi, ma so anche che chi vince può essere sempre spinto ad abusare della propria vittoria.

PICCIONI. Non c’è questo pericolo.

NITTI. Spero di no. Altri uomini, altri partiti però, amici dei democristiani, credono a questo pericolo. A parte tutto ciò interessa noi tutti mantenere il più possibile la concordia. Voi avete detto sempre che io sono pessimista. Vi siete ingannati. Io sono stato fra voi il più grande ottimista. Ho detto sempre tutte le cose che si sono verificate e a cui non si voleva credere, e le ho dette piuttosto attenuando che esagerando i pericoli. Infatti tutte le cose che ho dette si sono verificate in forma assai più grave di come le avevo dette. Avete visto quindi che il mio pessimismo era tanto dubitabile quanto la vostra sicurezza.

L’onorevole Piccioni ha detto nell’orgoglio della vittoria democristiana che il suo partito non aveva nulla a temere e nulla doveva concedere del suo programma e della sua azione.

La vittoria non dà sicurezza durevole invece perché nessuna vittoria è qui dentro più sicura di tre mesi, e noi andiamo verso una situazione che fra tre o quattro mesi potrà darci le più grandi sorprese.

Noi non sappiamo. L’onorevole Piccioni, facendo le giuste lodi del suo partito, ha detto che attendeva, in fondo, l’adesione degli altri, che non va sollecitata. Sta bene. Ed allora, diciamo noi: nelle elezioni eravate lo stesso numero da quella parte e da questa; da quella parte ve ne aveva qualcuno di più: voi siete rimasti compatti; l’altra parte invece si è divisa, e si doveva dividere perché non era possibile che persone che concepivano così diversamente coabitassero a lungo insieme. Ma ci sono, al di fuori di qua e di là, ancora più di cento deputati, i quali non sono né da una parte né dall’altra. Questi deputati rappresentano spesso lo spettacolo più triste, di dividersi continuamente in partiti, partitoni, partitucci. Ogni indeciso ha trovato la sua via, suppongo sempre per scopo nobile, ma spesso le secessioni sono finite in qualche Sottosegretariato o in qualche concessione della stessa natura.

Ora, noi siamo la classe più colta, moderata, non reazionaria, non confessionale, non rivoluzionaria. Noi siamo il Paese nella parte più colta. Noi siamo i rappresentanti di quei ceti che contrariamente a ciò che si dice, ripetendo errori vecchi, e nuovi, aumenteranno non perderanno in importanza. Noi siamo il Paese. Signori, voi vi ingannate quando credete che le classi medie sono verso la fine. Io spero pubblicare presto, se i lavori di questa Assemblea me ne lasceranno il tempo, uno studio da lungo tempo preparato sulle classi medie e sulla loro importanza e sul loro avvenire. Vi sono momenti in cui sembra che le classi medie vengano sopraffatte: ma esse si rinnovano, aumentano e aumenteranno ogni giorno, perché le stesse classi operaie, che voi cercate di sollevare, entreranno nelle classi medie. Ed è da questo movimento che sorgerà quella nuova borghesia operosa, viva e intelligente, la quale renderà grandi servizi.

Accettando l’invito dell’onorevole Piccioni (perché io considero la sua critica come un incoraggiamento), io mi rivolgo a tutti gli uomini del mio ceto, della mia classe, delle mie idee per domandare loro se alla vigilia di fatti nuovi, come saranno le prossime elezioni politiche, non credano utile rompere questa massa di piccole paure, di piccoli partiti, e se non credano di trovare nella unione qualcosa che sia la vita e la forza. Questo non è né contro i democristiani, né contro i socialisti, ma è per la nostra esistenza, e confido che questo mio appello sincero sarà accolto.

L’Italia non può unirsi che in un grande programma nazionale contro l’antinazione e l’antilibertà che ora ancora avvelenano gli spiriti.

Solo un rinnovato e grande amore di patria contro l’oppressione della libertà mentale, contro il particolarismo, contro il grossolano materialismo di questo periodo, una unione nazionale a scopo di ricostruzione possono rinnovarci. Non si può ingannare a lungo il popolo. Grandi e dure sofferenze ci attendono ancora.

Entriamo nell’ora terribile in cui andranno in vigore in materia politica tutte le cattive leggi che abbiamo mantenuto o abbiamo preparato. Si verificheranno tutti gli inconvenienti che abbiamo preveduti. Dobbiamo essere preparati a lottare per la ricostruzione.

Questo appello che io rivolgo ai miei amici vicini e lontani, è diretto con purità di cuore, perché personalmente dopo tante lotte non aspiro più a nulla. E vi ringrazio di questa vostra cortesia e della sincerità con cui avete voluto ascoltarmi. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ieri sera abbiamo sospeso la seduta per riprenderla però dopo due ore e portarla avanti ad un’ora assai tarda. Si potrebbe fare lo stesso questa sera; o forse potremmo scegliere un’altra soluzione.

Penso, però, che questa sera potremmo continuare senza interruzione sino alle 21 e poi rinviare a domani, anziché sospendere la seduta per poi riprenderla. Comunque questa sera dobbiamo fare ancora una parte del cammino, se corrisponde a verità, come non ne dubito, il desiderio espresso da tanti colleghi di vedere terminata domani sera questa discussione. E lo sarà se lavoriamo fino alle 21. (Approvazioni).

È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Giancarlo. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi.

Ancora ieri uno degli oratori che si è levato a difesa di questo Governo ha accusato l’opposizione di valersi come ratio sistematica della piazza nella lotta politica e, prima di lui, un oratore sindacalista di parte democratica cristiana ci ha detto cose molto strane a proposito di una non meno sistematica azione che gruppi di operai di avanguardia condurrebbero nelle nostre officine per sabotare la produzione nazionale. Io stupisco che l’onorevole Crispo ci abbia parlato con tanto orrore della piazza; stupisco soprattutto che lo abbia fatto dopo il 20 settembre, perché si vede che non soltanto presta fede ai giornali quando immaginano e raccontano cose inverosimili su avvenimenti che non succederanno, ma ci crede anche dopo che le cose non sono successe. Ma forse l’hanno confermato nella sua opinione i manifestini che i democratici cristiani hanno fatto affiggere sui muri di Roma, nei quali si dice che, se il 20 settembre non c’è stata la rivoluzione, lo si deve al pugno di ferro dell’onorevole Scelba.

Noi vorremmo che si capisse però che non sempre piazza significa rivoluzione. È certo che i partiti di massa hanno dei metodi particolari di organizzazione, hanno degli obblighi verso i loro elettori che altri partiti non hanno. Noi, quando vogliamo prendere contatto con i nostri elettori, abbiamo bisogno di chiamarli, per esempio, a Piazza del Popolo; la stessa cosa sarebbe forse inutile al Partito liberale se volesse raccogliere i propri aderenti.

Noi crediamo che sia un metodo democratico quello di interrogare il Paese e permettergli di esprimersi, e non vorremmo che a queste domande che noi facciamo e alle risposte che ne vengono non prestassero orecchio gli uomini del Governo, che non possono attendere soltanto il responso elettorale, che non possono credere di sentirsi responsabili soltanto in quella occasione, ma che dovrebbero invece saper prevenire e capire come le situazioni vanno svolgendosi.

Secondo qualcuno dunque, la situazione sarebbe quasi normale nel nostro Paese, se non ci fossero dei sabotatori, se non ci fossero dei sobillatori che turbano le acque.

Ma è possibile che voi non intendiate che prima che discussione qui, c’è lotta nel Paese? È possibile che non intendiate la crisi, il dramma, che non ne vediate i personaggi? Qualche volta penso che forse il frastuono della polemica che si accende qui vivace, ma poi va placandosi nel Transatlantico, impedisce di sentire la voce del Paese, impedisce di sentire la voce stessa delle cose. Onorevole Scelba, lei che dovrebbe essere responsabile del mantenimento dell’ordine nel Paese e dell’azione contro i sobillatori e i sabotatori, mi permetta di ricordare qui qualche cosa di quello che sta accadendo a Milano e che forse interessa anche il Ministro del tesoro.

All’Isotta Fraschini non sono state fatte le paghe il giorno 24 né sono stati pagati gli stipendi il 30: 230 milioni di arretrati nei confronti dei lavoratori: si tratta di 7 mila dipendenti. Alla Cemsa di Saronno, anticipo il 9 per la quindicina del 24 agosto: si tratta di duemila dipendenti. Alla Caproni, un solo acconto il 24: sono quattromila dipendenti, e la Breda nelle stesse condizioni: ne dipendono 12 mila lavoratori. Sono questi soltanto, 25 mila lavoratori! E non sono avvenuti disordini, e non sono avvenuti incidenti. E davvero se non è avvenuta la rivoluzione, non credo che il merito sia esclusivamente suo o delle direttive che ella dà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. …ma hanno avuto un miliardo e duecentomilioni a Milano!

PAJETTA GIANCARLO. Questa mattina soltanto! Forse, per la strana teoria che ha annunciato questa mattina l’onorevole Piccioni, che il Governo deve intervenire sempre dopo. È una teoria che possiamo accettare (Commenti al centro). Questa teoria noi l’accettiamo, tanto che facciamo le agitazioni proprio per farvi intervenire. Se voi interveniste a tempo, se voi non imponeste ai lavoratori lo sciopero, le agitazioni sarebbero tante di meno. (Applausi all’estrema sinistra – Proteste al centro).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Gli industriali hanno fatto la richiesta l’altro ieri e stamane hanno avuto soddisfazione.

PAJETTA GIANCARLO. E del resto non si tratta soltanto di una teoria.

Quando l’onorevole Presidente del Consiglio ci ha parlato l’altro giorno, ci ha detto: «Gli agrari hanno ceduto al mio appello». Noi non abbiamo potuto fare a meno di domandarci se gli agrari avessero ceduto all’appello dell’onorevole Presidente del Consiglio soltanto dopo che questi aveva dovuto cedere a quel milione di braccianti che stavano già scioperando da dieci giorni, quando il Governo è intervenuto.

Ora noi troviamo in queste confessioni, nelle vostre teorie, la giustificazione delle agitazioni che sono in corso. Vuol dire che esse sono nella necessità delle cose, che sono le agitazioni che vi fanno sentire, quando la sentite, una voce alla quale altrimenti sareste sordi.

Stamane abbiamo sentito domandarci che cosa mai avverrebbe se non intervenisse il Governo; ebbene è semplice: le masse farebbero sentire più forte la loro voce. Ed è perché non intervenite se non a ritardo e sospinti, che queste voci di protesta si levano sempre più forte.

Quali possano essere i provvedimenti economici per far fronte alla situazione milanese, altri ha detto e forse altri ne dirà ancora.

Quello che mi interessa oggi qui è di fare alcune constatazioni politiche che derivano dall’esame di questa situazione. E la prima è l’azione condotta in comune dai lavoratori e dagli industriali milanesi. Voi, che cercate nella omogeneità di un Governo di partito e di classe l’unica possibilità di un efficace intervento, dovreste riflettere a quanto è avvenuto.

I rappresentanti dei lavoratori si sono raccolti intorno ai rappresentanti del Governo e sono venuti ad un accordo: unanimemente sono state accettate delle direttive. E non saremo certo noi a lamentarci che questa unanimità si sia raggiunta nella più decisa condanna della politica finanziaria dell’onorevole Einaudi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. A carico dello Stato, onorevole Pajetta, vanno sempre d’accordo.

PAJETTA GIANCARLO. Ma io vorrei ricordarle, onorevole De Gasperi, che, quando lei ha fatto questo, quando lei ha voluto realizzare questa sua grande operazione, il suo intento proclamato era proprio quello di far sì che certi Ministri politici non mettessero più i bastoni fra le ruote alle sue buone intenzioni. (Commenti). E lei sa che prima c’era la garanzia che il Governo avrebbe sentito la voce dei lavoratori anche senza che questa dovesse ogni volta risonare nelle piazze.

E la seconda constatazione è che, fino a quando è possibile, i lavoratori non promuovono inutili agitazioni perché essi, fino a che hanno potuto, hanno lavorato.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Hanno fatto quindici giorni di vacanza in agosto.

PAJETTA GIANCARLO. Ingegner Corbellini, l’onorevole Piccioni ci ha detto questa mattina che il Governo non soltanto ha fatto poco perché ha avuto a sua disposizione soltanto 79 giorni, ma è stato anche impedito dal fatto di essere stato una specie di Governo balneare e quindi ha dovuto prendersi un po’ di riposo. Non vedo proprio che vi sia un gran male che si siano riposati i lavoratori milanesi che il loro diritto alle ferie retribuite se lo sono conquistato.

Dicevo dunque che quando possono, gli operai, gli impiegati, i tecnici italiani lavorano: essi non sono dei sabotatori. Onorevole Scelba: se lei dovesse per avventura incaricare il prefetto di Milano di inquisire, di ricercare presunti sabotatori, di andare alle radici dei turbamenti economici e delle agitazioni dei lavoratori, noi dovremmo, io credo, esaminare qui la richiesta di autorizzazione a procedere contro l’onorevole Einaudi che è il vero sobillatore di questa situazione. (Proteste al centro ed a destra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano, per favore.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghi, quando si tratta di esaminare un problema concreto spesso preferite gridare tutti insieme: non sarebbe invece meglio cercare di provvedere, cercare di fare onestamente quello che dovete almeno quando la piazza vi prende per il braccio e vi dice: qui c’è da fare questo e quest’altro?

Il Governo ha voluto dimostrare di credere che si tratti soltanto di problemi economici e finanziari; ma i problemi dell’economia, della produzione del nostro Paese si pongono oggi come problemi politici. E non possono non porsi come problemi politici, come problemi dei rapporti tra cittadini e Governo. Oggi siamo di fronte soprattutto a problemi politici, problemi dell’ordine democratico, problemi della difesa della Repubblica. Sono davanti a noi problemi di libertà a cui dovreste essere sensibili. Problemi di libertà e, quando li poniamo, non dovreste così facilmente irridere, perché così irridete a tutta la tragica situazione del nostro Paese. Perché, se i nostri lavoratori non avranno libertà, allora non avranno nemmeno il pane e nemmeno il nostro Paese potrà aspirare a risorgere.

Dico la verità, ho provato una meraviglia forse ingenua: forse, la meraviglia di un uomo, che non ha ancora avuto tempo di diventare un parlamentare consumato o logoro addirittura. Qui si è detto: è soltanto un manifesto strappato, è soltanto un comizio interdetto, è soltanto un arresto arbitrario.

Ma è la questione di principio! Cos’è questo manifesto? È giusto o non è giusto che sia strappato? È giusto o non è giusto che l’onorevole Scelba abbia preso questo o quel provvedimento? Se non è giusto che sia stato strappato un manifesto, è come se ne fossero strappati mille. Lei, onorevole Scelba, per esempio, andrà all’inferno lo stesso, anche se commette un solo peccato mortale senza voler pentirsene. Qui è una questione di giustizia, di diritto, è una questione di qualità della vostra politica.

Voi avete voluto oggi fare una questione di quantità in queste cose e noi abbiamo dovuto dolerci che non si sia dimostrata la sensibilità politica e morale necessaria. (Interruzioni al centro).

Io capisco, la nostra sensibilità, a proposito di questi problemi, vi par forse eccessiva. È evidente che il pensiero di un regime che impedisce la libertà – senza voler fare offesa a chicchessia – per il nostro compagno Scoccimarro, che è stato tanto tempo in carcere, sia considerato diversamente da come lo considera, con una esperienza tanto diversa, l’ingegnere Corbellini. Per noi queste cose hanno un diverso significato che per molti di voi. (Si ride – Interruzioni al centro). Sono disposto a credere che a qualcuno pesi oggi di più l’umiliazione di aver portato la camicia nera che non possa pesare a noi di aver sofferto in carcere per la causa della libertà. (Proteste al centro).

Comunque, se non vi pesa, me ne rammarico… (Rumori a destra e al centro – Approvazioni all’estrema sinistra – Interruzioni).

Ripeto che ce ne meravigliamo e ce ne doliamo. Vorremmo che quelli di voi che hanno occhi per vedere, vedessero; vorremmo che quelli che possono intendere la tragedia che ci può sovrastare, facessero in modo che questioni di prestigio di partito od una beccata parlamentare, o una interruzione non bastassero a nascondere i pericoli della situazione. Perché, vedete, quando parliamo di fascismo, quando ne parliamo e riusciamo a farci ascoltare, ci sentiamo dire: «fantasmi, spettri del passato!».

Ma c’è stato già un tempo in cui è stato detto questo. C’erano già allora di questi fantasmi e voi nel 1919, nel 1920, nel 1921, nel 1922 non avete saputo esorcizzarli. Nessuna delle vostre formule è bastata per esorcizzare questi fantasmi, ed un giorno essi vi sono stati vicini, diventati uomini in carne ed ossa, e allora avete creduto che l’unico metodo fosse quello di sedervi con loro allo stesso tavolo, allo stesso Ministero. E certo non è sembrato quello il metodo migliore. (Commenti).

Quegli uomini che credevate forse di rendere più mansueti, hanno portato alla rovina il nostro Paese, e anche, non dimenticatelo, il vostro partito e le vostre organizzazioni.

Oggi, l’onorevole Nitti ci ha ricordato quanto pochi fossero i voti di Mussolini nel 1919. Eccoli in dettaglio: 4.657 voti di lista, 2.420 voti preferenziali, 1987 voti racimolati in altre liste, secondo quanto permetteva il sistema elettorale di allora. Io non so: può darsi che l’onorevole Patrissi, nelle elezioni del 12 ottobre, ne raccolga di più. (Commenti).

FRESA. Certamente!

PAJETTA GIANCARLO. Ebbene, nel 1919 non si dovevano chiudere gli occhi, si doveva capire. Li avete chiusi; volete chiuderli ancora? (Accenna al centro).

Quello che ci preoccupa, quando parliamo di fascismo e di pericolo fascista, siete soprattutto voi. È il vostro atteggiamento che ci preoccupa. Se foste consapevoli, se dimostraste senso di responsabilità, se intendeste il pericolo non per un partito soltanto, ma per tutto il Paese; se comprendeste che bisogna far argine; se non rideste e diceste semplicemente «spettri», allora noi saremmo sicuri che il nostro Paese non ricadrà in questa tragedia.

Ma quello che ci preoccupa è che voi rifate troppo della strada antica; che non volete vedere; che non volete prevedere. Siete davvero peggio di quei dannati che vedevano soltanto quanto era ancora lontano; voi non volete vedere né vicino né lontano.

Che cosa si fece allora? Si ignorò il pericolo fascista; poi lo si minimizzò. Infine, le cose precipitarono, e furono veramente le lacrime delle cose: erano le nostre cooperative, erano le nostre camere del lavoro, erano i nostri morti che parlavano; allora si capì; ma non si ebbe il coraggio di trovare i mezzi. Quando una voce autorevole si levava, diceva: «Il fascismo colpisce più la democrazia che non il socialismo, e lo Stato borghese è impotente. Giolitti usò il suo metodo: quello di avvicinare ed accarezzare prima di intossicare, ma ne rimase prigioniero, dopo aver dato una parte dell’organismo statale in mano al fascismo.

«E così liberali e democratici, che avevano sperato di trovare una balda schiera di avanguardisti al fascismo…».

Chi diceva queste cose era Luigi Sturzo ed era il 18 gennaio 1922; quando non si poteva non vedere; ma si poteva ancora impedire che quello che si intravedeva diventasse veramente la tragedia di tutto il popolo italiano.

Ebbene, questo discorso è del 18 gennaio; due mesi dopo, a marzo, si riuniva la direzione del Partito popolare italiano, e che cosa deliberava? Votava una deplorazione per il patto di intesa che socialisti e popolari avevano concluso a Cremona. Votava una deplorazione per quello che poteva essere il germoglio di un albero, che forse avrebbe potuto far fronte alla tempesta. Dobbiamo riconoscere che qualche giorno dopo o prima anche la segreteria del Partito socialista deplorava lo stesso avvenimento.

Ma noi comunisti, che ricordiamo soprattutto l’insegnamento unitario del nostro capo, del nostro compagno Gramsci, che già allora operò sempre per l’unità; noi comunisti vogliamo avere l’umiltà di imparare dalla storia, vogliamo imparare dalla esperienza e anche dagli errori della classe operaia.

Se voi voleste imparare, se voi voleste almeno guardare se avete qualche cosa da imparare! E questo non pare, pare che sempre più siate spinti su una china antica, che già una volta ci ha portati, noi e voi, alla catastrofe.

Il fatto è che oggi questo Governo della Repubblica rappresenta un pericolo per la Repubblica. Questo Governo: il Governo di De Gasperi, il Governo di Scelba, il Governo di Grassi. Rappresenta un pericolo per quello che di illiberale ha fatto, questo Governo. Io non voglio insistere sull’argomento, perché altri oratori già lo hanno trattato. Ma questa mattina, vede, onorevole Scelba, l’onorevole Piccioni ci diceva che una delle funzioni del Governo è quella di impedire che ci sia il vilipendio, di impedirò che il prestigio di coloro, che rappresentano l’autorità della Repubblica, venga menomato. Ora, io credo che per impedire il vilipendio, per tenere alto il prestigio, la prima cosa sia quella di rifuggire dal ridicolo. E, mi permetta, lei c’è sfuggito molto raramente. Quando lei è venuto a Milano per dare il via ad una corsa automobilistica o motociclistica (cosa rispettabilissima), lei ha concesso ai giornali un’intervista per spiegare perché impediva che un giornale milanese pubblicasse un avviso pubblicitario. Ed ha svolto questo suo pensiero persino in termini filosofici: acquistare un giornale sarebbe un atto di volontà, leggere un manifesto è una… costrizione morale. E per un manifesto che porta l’effigie del Sommo Pontefice, secondo lei, non sarebbe sufficiente l’autorizzazione dalla questura di Milano, ma occorrerebbe quella della Santa Sede.

Quello che è certo è che lei ha ottenuto il risultato di coprirsi di ridicolo e di far vendere parecchie migliaia di copie di giornale in più. Eppure questi comunisti, che secondo lei disprezzerebbero la religione, avevano portato la copia ad autorevoli dirigenti del vostro partito dicendo: secondo voi offende questo il vostro sentimento religioso di cattolici? Quasi quasi abbiamo cercato l’imprimatur, e lei invece ha creduto di dovere intervenire con la sua insensibilità per ridicolizzare il prestigio del Governo. Io le domando sinceramente se questo è il mezzo migliore di seguire i consigli del segretario del suo partito.

Ma noi dobbiamo giudicare questo Governo per ciò che ha fatto, per quello che ha lasciato fare e per quello che ha suscitato d’insane speranze. La composizione di questo Governo ha suscitato un grido di gioia, non solo degli speculatori, ma dei fascisti!

Guardate: quando si leggono i giornali, e particolarmente quelli fascisti, ad un certo momento ci viene di domandarci: ma chi ci ha messo fuori dal Governo?

L’onorevole Giannini ha sostenuto che è stato l’Uomo Qualunque. Gli americani sostengono di avervi contribuito potentemente. I fascisti sostengono sui loro giornali che sono loro che hanno avuto la più grande vittoria, perché finalmente hanno trovato un Governo che mette da parte quelli che sono i loro nemici più pericolosi!

Ora, è certo che questo Governo è stato salutato con tripudio dai fascisti, e non solo con tripudio, ma anche con scariche di mitra e con esplosioni di bombe e con l’intensificarsi della loro azione, col moltiplicare la loro stampa.

Ora, noi vi domandiamo: credete di essere sulla via giusta, se i passi che fate permettono ai nemici comuni di fare altri passi?

Noi vorremmo che quando denunciamo le violenze, gli incendi, gli attentati alla libertà, non si osasse mai dire: troppo pochi! Noi vorremmo che ognuno intendesse che già una volta si è cominciato così!

Ma quello che è certo è che a Milano (dopo la liberazione!) sono stati uccisi dei partigiani, è stata uccisa una vecchia donna nella Camera del lavoro di Milano, un bambino è stato dilaniato da una bomba in una sede del Partito comunista! Quello che è certo è che gli spari contro le Federazioni comuniste e socialiste sono avvenimenti frequenti, se ancora per fortuna non sono divenuti consuetudine! E gli atti di provocazione si sono ripetuti: gagliardetti esposti, fiori a piazzale Loreto, e perfino le scritte luminose, i giornali luminosi, sono stati utilizzati dai fascisti! E credo che la bomba di cinque chili di tritolo messa contro la nostra casa a Milano possa aver fatto un rumore sufficiente perché almeno l’eco giungesse fino al Viminale!

L’altro giorno, quando il nostro compagno Togliatti stava parlando di tante violenze avvenute nei tenitori italiani di confine, qualcuno di voi ha creduto di assicurare tutti (mi pare fosse l’onorevole Bettiol), per la sua conoscenza geografica, che là non ci sono monti, il che distruggerebbe ogni nostra testimonianza. Ebbene, io ho una documentazione fotografica a sua disposizione per dimostrargli che l’edificio della Federazione comunista di Milano esiste realmente e che una bomba fascista vi è scoppiata.

Vorremmo noi che non avvenisse mai in un Parlamento italiano che si levasse una voce o vi fossero applausi che potessero essere considerati non dico come solidarietà, ma come una tolleranza, che potrebbe essere considerata come complicità.

È un fatto che questi delitti, queste provocazioni, hanno trovato l’impunità più assoluta. Quando parliamo con le autorità che rappresentano il Governo, quando parliamo col questore, col prefetto, essi ci dicono: non abbiamo leggi. E quando arrestano i fascisti, è soltanto se proprio li hanno sorpresi a mettere le bombe, e se non siamo noi a denunciarli, i fascisti, che sono inquadrati in organizzazioni clandestine, essi non vengono neppure arrestati; voi non riuscite a saper nulla di loro. E quando per caso li arrestate, dopo qualche giorno essi vengono messi fuori perché dimostrino che in Italia si può fare tutto, e che basta allontanarsi 100 metri dopo aver ucciso qualcuno per ritrovare l’incolumità.

Quando sentiamo i tutori dell’ordine rispondere: «siamo impotenti», noi ci vediamo costretti a chiedere ancora con insistenza la legge per la difesa della Repubblica. Badate, non per la difesa della nostra Federazione di Milano, per la nostra difesa, ma per la difesa della Repubblica di tutti gli italiani.

Ma non si tratta soltanto dell’impunità che viene dalla mancanza della legge. Si tratta anche delle direttive che provengono da voi. Lei, onorevole Scelba, ha provveduto a cambiare il prefetto di Brescia e il questore di Cremona: forse perché uno sciopero si era svolto nell’ordine più assoluto e la cosa era dispiaciuta agli industriali, e non si era neppure tirato sui dimostranti, il che era dispiaciuto ai fascisti. Queste sono le direttive di Roma che trasformano l’impotenza in complicità, l’impossibilità di agire in delittuosa tolleranza. Queste sono le vostre direttive, onorevole Scelba.

E se ella non può fare di più, certo non ne è impedito dalla presenza continua ai lavori parlamentari, perché ella non risponde alle interpellanze, non partecipa alle discussioni: e le dovrebbe restar dunque la possibilità di svolgere il suo lavoro.

Lei evidentemente non capisce quale sia in Italia il pericolo fascista, non capisce che la sua politica e il suo Governo rappresentano un pericolo per la Repubblica. (Commenti).

Noi siamo chiari; che cosa vogliamo noi? Che cosa vogliono i lavoratori? Noi vogliamo l’ordine. Noi vi domandiamo: che cosa volete? Perché non mettete fuori circolazione questi sovversivi che impediscono l’ordine nel Paese? Perché non vi rendete conto che il sovversivo più pericoloso è proprio il Ministro dell’interno! (Ilarità – Proteste al centro). È lui che, come è avvenuto nella lotta con gli agrari, ha fatto proteggere coloro che lottano contro i lavoratori.

Noi vogliamo l’ordine. Credo che i colleghi qualunquisti potrebbero darci atto che quando hanno creduto di poter fare a Cremona una grande parata, noi siamo intervenuti, e abbiamo fatto sentire al Governo la nostra voce, era la voce non dei comunisti soltanto, ma di tutti quelli che avrebbero decisamente agito per impedire qualsiasi parata militare. Ma quando poi è stato fatto il congresso dell’Uomo Qualunque, con delegati delle provincie è forse successo un solo disordine?

Una voce a destra. Allora avevate già flirtato.

PAJETTA GIANCARLO. Allora il congresso di Bologna, che è avvenuto prima?

D’altra parte voi avete tenuto congressi provinciali e adunate e vi abbiamo forse turbato con la violenza? (Interruzioni – Commenti).

Una voce. Erano centinaia di migliaia.

PAJETTA GIANCARLO. Lei crede davvero che se non ci sono dei disordini è perché abbiamo paura? (Applausi all’estrema sinistra). Ma vediamo quali sono le organizzazioni fasciste che sono fiorite sotto la vostra tutela. Noi abbiamo una certa documentazione, noi vi chiediamo di tener conto di quello che riusciamo a trovare noi se non siete capaci d’altro. Ecco qui sul mio banco giornali clandestini del partito democratico fascista, manifestini dove si dice: «Viva il fascismo! Torneremo»; altri dove si parla di bombe; ecco lo statuto del comitato centrale dei fasci di azione rivoluzionaria; ecco il rapporto, per esempio, di un partecipante alle squadre che hanno preparato attentati nelle ultime settimane. Ed ecco altre cose: persino i bracciali dell’organizzazione militare, di una organizzazione che avete legalizzato con il nome di Armata italiana di liberazione, come se di Armata italiana non ce ne dovesse essere una sola, quella della Repubblica. Ma dobbiamo indagare noi; e lo facciamo perché noi vogliamo proteggerci, dobbiamo pur difendere la vita, le nostre case. Noi non possiamo oggi fidarci del vostro Governo e della vostra polizia; e questo è grave, questo dimostra che state perdendo autorità nel Paese.

A Milano, per esempio, il sedicente partito democratico fascista che pubblica questo giornale, che trafuga la salma del duce, che organizza attentati contro la Federazione, che ha organizzato la faccenda del Giornale luminoso, è stato scompaginato dagli arresti che abbiamo provocato, documentando la sua azione, ma oggi potrebbe ricostituirsi perché tutti gli arrestati sono ormai fuori. Operano poi i fasci di azione rivoluzionaria, di cui potete, se vi interessa, leggere qui lo statuto; le SAM (squadre d’azione mussoliniana): queste sono alcune delle organizzazioni clandestine che pullulano a Milano e che voi non solo non trovate, ma finite per legalizzare, liberando quelli che sono arrestati.

Ma quante sono le organizzazioni che operano apertamente? Il Movimento sociale italiano, per esempio: e si tratta di fascisti repubblichini che sono rimasti fascisti.

Non lo diciamo noi, ma ci sono riviste di altri fascisti che dicono queste cose e le documentano e non è difficile capirlo se si esamina la loro stampa.

E al Movimento sociale italiano voi avete fatto l’onore di avere le sue liste per le elezioni di Roma; avete fatto l’onore a questi repubblichini, di oggi e non solo di ieri, di presentarsi sotto questa mascheratura molto trasparente. Quelli dell’«Armata italiana della liberazione» sono invece stati i liberali che li hanno presi nelle loro liste.

Sono essi che mandano in giro le squadre armate, che sporcano il nome della nostra Armata! Ebbene, gli arrestati di Milano per aver lanciato la bomba contro la Federazione sono tutti iscritti a questa specie di armata e con le bombe lanciano i manifesti che voi considerate legali.

Il movimento di Patrissi: noi diciamo che sono fascisti; l’abbiamo detto già, ma c’è anche Giannini, che li conosce più da vicino e li ha denunciati come fascisti: e anche loro hanno la loro lista a Roma.

Ora ci troviamo di fronte non soltanto al pullulare di organizzazioni clandestine, di gente che fa manifestazioni criminose, ma ci troviamo di fronte a qualcosa di peggio, al quale voi volete dare un paravento legale, e voi non ne tenete conto. Si è parlato dei canti provocatori a Roma. Ci compiacciamo che il Fronte dell’Uomo qualunque abbia dichiarato – per bocca dell’onorevole Giannini – che esso non farà coro a questi canti, pur volendo farsi alfiere di pacificazione.

Noi vogliamo essere molto espliciti a questo proposito. Noi condanniamo il fascismo: l’abbiamo combattuto e l’abbiamo vinto. Non permetteremo che esso risorga; ma questo non vuol dire che noi vogliamo la vendetta. Siamo noi il partito della riconciliazione. Siamo stati noi che abbiamo strappato al fascismo i suoi giovani anche quando questo voleva dire rischiare la libertà. Noi li abbiamo cercati, li abbiamo convinti ed abbiamo parlato loro. Allora non c’era voce di libertà, di insofferenza, di ribellione che si sollevasse nel nostro Paese, che non ci ha trovato attenti. Siamo stati noi che li abbiamo cercati nella «milizia», nei G.U.F., dovunque. Siamo andati a cercarli affinché la voce della libertà diventasse la voce di tutti gli italiani ed affinché tutti gli italiani ingannati potessero redimersi. Noi siamo il partito della riconciliazione e voi vi illudete di metterci in imbarazzo quando ventilate un ridicolo articolo che esclude dal diritto di voto gli ex littori o quando ci gridate i nomi di Alicata e di Ingrao. Uomini come Scoccimarro, come Longo, come Terracini si onorano di essere nello stesso partito accanto a questi uomini di cui voi ci gridate il nome credendo di metterci in imbarazzo. Io credo che i deputati che gridano il nome di Alicata, quando Mussolini è caduto non si trovavano ad ascoltare la notizia a «Regina Coeli», come questo nostro compagno. Io credo che questi uomini non hanno fatto come questi nostri compagni uno sforzo eroico per liberarsi e per battersi poi per liberare gli altri.

Noi siamo il partito della conciliazione nazionale. Per questo noi abbiamo chiamato alla democrazia questi giovani e durante la resistenza abbiamo conquistato alla guerra partigiana anche gli ufficiali della milizia (Commenti al centro e a destra) e ne abbiamo fatto gli eroi ed i martiri della indipendenza e della libertà italiana. Grave è invece la vostra responsabilità, la responsabilità di un partito che prende, invece, dei democratici sinceri, che hanno fatto onestamente il loro dovere, e li porta sulla strada della reazione. Noi abbiamo voluto l’amnistia pensando che questo fosse uno strumento per dare prestigio e forza alla democrazia. Anche i giovani illusi e sbandati, anche quelli che hanno avuto delle colpe e potrebbero redimersi. Anche i repubblichini lo potrebbero, soltanto se non pensassero a nostalgie ed a rancori. Ma sta a noi per questo di difendere ed aumentare il prestigio della Repubblica, di fare dell’Italia una Patria materna e anche severa verso i suoi figli.

Per questo che non facciamo nostre le divagazioni filologiche dell’onorevole Giannini: per noi amnistia non viene da amnesia. Abbiamo sofferto abbastanza per poter dire una parola di perdono; ma se noi dimenticassimo, avremmo sofferto invano; e non per questo abbiamo aspettato la caduta del fascismo in una cella del carcere di Civitavecchia piuttosto che in una biblioteca o in un ufficio di gestore delle ferrovie dello Stato! Abbiamo sofferto anche per voi, ma vogliamo che di questo gli italiani non si dimentichino. Se noi dimenticassimo dovremmo credere che i nostri morti sono caduti invano e che i nostri martiri si sono immolati inutilmente se non stabiliamo la giustizia, se non costituiamo una società basata sulla giustizia. (Vivi applausi a sinistra).

Per questo noi rifiutiamo le dichiarazioni per cui fascismo e antifascismo sono tutta una cosa. No, la tradizione dell’antifascismo è un patrimonio italiano; la tradizione della azione antifascista di sempre è un patrimonio non soltanto di un partito, ma dell’Italia, e se l’Italia conterà qualcosa, se sarà ancora una Patria per tutti i suoi figli, è perché questa tradizione si incorpora nella nostra storia.

Noi abbiamo una tradizione nazionale di conciliazione, abbiamo una tradizione nazionale di umanità.

Vi ricordate come Abba ci racconta di quei soldati borbonici di Calatafimi, che gridavano con quella voce lugubre: «Viva il re»? Ricordate come ne parlava?

Abbiamo tradizioni di tolleranza, di magnanimità. Nessuna persecuzione nel nostro Risorgimento, e adesso avete visto quanta larghezza. Del resto, sappiamo che un popolo non può essere fatto tutto di eroi. Abbiamo rifatto il nostro esercito, dopo il Risorgimento, con ufficiali, con generali che venivano dall’esercito borbonico, perfino con ufficiali che venivano dall’esercito austriaco. Pensate a Baldissera che ancora nel 1866 comandava un reggimento austriaco, cioè combatteva perché l’Italia non raggiungesse la sua unità. Poi divenne generale italiano e ricoprì cariche importanti.

Tradizioni di magnanimità. Non possono tutti i Baldissera essere dei fratelli Bandiera, non possono tutti quelli che sono stati in Austria essere dei Cesare Battisti; ma anche se non tutti sono dei Cesare Battisti, e se Baldissera non è la stessa cosa, nei nostri manuali del Risorgimento, dei fratelli Bandiera, quello che è importante è che per essere in Italia bisogna sentirsi italiani, per vivere nella Repubblica e riconciliarsi bisogna essere repubblicani. E vedete un po’, Baldissera non sfilava certo nell’anniversario di Custoza, ma il venti settembre. Non pretenderebbe un ex deputato austriaco che noi commemorassimo il centenario della Dieta di Vienna. Commemorerà la costituzione del nostro Parlamento qualunque sia la sua origine geografica. (Applausi a sinistra).

Voi non ci convincerete mai. Vedete, onorevoli colleghi dell’Uomo qualunque, non ci convincerete mai che il 25 aprile ed il 28 ottobre sono la stessa cosa e che quelli che sono repubblichini sfileranno il 28 ottobre e gli altri il 25 aprile. No. Non venite a dirci: «Non rompeteci più le scatole col fascismo e con l’antifascismo». Quelli che sono stati fascisti devono comprendere di aver peccato, comprendere che noi li abbiamo redenti col nostro sacrificio, e che noi perdoniamo loro perché siamo abbastanza forti per farlo. Questo è quello che il Governo d’Italia dovrebbe fare intendere, e noi vogliamo che l’Italia abbia un Governo.

Una voce al centro. Possono anche non essere comunisti.

PAJETTA GIANCARLO. Certo.

Perché ci preoccupa il pericolo fascista? Ci preoccupa non soltanto la vostra cecità, ma ci preoccupano le radici sociali del fascismo.

L’onorevole Calosso, che non so se si consideri ancora un marxista, ma non credo, perché è piuttosto un idealista, ci chiede che cosa sia il partito comunista, e non ha mai provato di fare l’analisi di quelle che sono le nostre radici sociali. Noi siamo invece abituati ad un altro metodo e per questo facciamo la domanda: ci sono radici sociali? Lo stesso pericolo si ripresenta perché ci sono gli stessi elementi. Purtroppo ci sono. È questa una questione dottrinale? Capisco che l’onorevole Corbellini che sta ridendo è ben lontano da queste cose, dalla politica e dalla analisi storica. Non è una questione dottrinale, si tratta dell’attività pratica.

TOGLIATTI. Ingegner Corbellini, rispetti l’Assemblea.

PAJETTA GIANCARLO. Elementi dottrinali, dicevo; cose che vi sono estranee e cose che l’onorevole Calosso, se è stato marxista, si è dimenticato? No, attività pratica. Quando gli agrari di Vercelli dicono: noi passeremo col nostro trattore sui nostri campi ma stroncheremo le organizzazioni operaie, ci sono ragioni di preoccupazione seria. Del resto tutte queste organizzazioni clandestine non sono fatte soltanto per distribuire manifestini o per buttare qualche bomba davanti alla porta di qualche ufficio. Ma sono fatte per lottare contro i lavoratori come si è visto durante lo sciopero dei braccianti. Ecco una lezione di materialismo storico, onorevole Calosso. L’Associazione della Armata della liberazione ha organizzato il crumiraggio: mille trecento lire al giorno, pranzo pagato e autocarri per andare a fare i crumiri. Questa è una cosa che faceva una volta il fascismo.

M.R.P.: un’altra organizzazione di sedicente sinistra e molto bene controllata dalle forze agrarie della provincia di Milano, ha organizzato autocarri di armati, altoparlanti, e reclutato crumiri (mi pare 300 lire in meno al giorno), durante lo sciopero ed il Movimento sociale italiano ha fatto la stessa cosa. Quando noi vediamo il delitto, quando noi vediamo le canaglie fasciste, quando noi vediamo l’attacco contro la Repubblica, unirsi a certi determinati interessi di ceti privilegiati, di ceti che hanno già una volta finanziato il fascismo, noi abbiamo il diritto di pensare che c’è un pericolo fascista in Italia che non è soltanto fantasma. Noi abbiamo imparato molte cose e chiediamo a voi se non d’imparare le cose che abbiamo imparato noi, di imparare magari alla vostra maniera, ma di non dimenticare la realtà. Noi abbiamo imparato come si conduce uno sciopero meglio di una volta. Non abbiamo permesso agli agrari di prendere i contadini e farne dei crumiri.

Io credo che i comunisti siano tutti dei militanti delle organizzazioni sindacali, non credo d’altra parte che tutti i liberali siano degli organizzatori di sindacati padronali. Noi abbiamo imparato anche un’altra cosa: che non permetteremo queste organizzazioni.

Vede, onorevole Scelba, quando i crumiri;. l’M.R.P., l’M.S. I. andavano in una cascina, noi li prendevamo e li facevamo tornare indietro togliendo la voglia di commettere un reato contro la classe operaia, evitando di fare delle violenze. E si sono accorti presto che la cosa non andava. Questo è quello che abbiamo fatto. Abbiamo imparato queste cose perché abbiamo un’esperienza di quando le abbiamo prese e di quando le abbiamo date. Abbiamo la volontà ferma di chi non vuole che il fascismo ritorni nel nostro Paese. Noi non soffriamo di amnesia; lei soffre, onorevole Scelba, invece, di cecità e questo è grave, perché un Ministro dell’interno dovrebbe vederci o almeno dovrebbe avere nei suoi uffici qualcuno che vedesse per lui.

Busto Arsizio è una piccola città e il giornale che vi si stampa, «Avanguardia sociale» è un giornale fascista. Non credo che ricavi introiti sufficienti dai suoi pochi lettori. Lei dovrebbe indagare su chi paga.

Ecco in un giornale una vignetta: un campo di concentramento (è gente che se ne intende, perché ha fatto la guardia ai campi dove i nostri son morti) e sotto c’è «Pronto per gli Agit-prop». È lei che li invita a sognare, li invita a credere che quel sogno potrà diventare realtà.

E vi è un altro giornale che esce in una grande città d’Italia. Sa cosa vi si dice fra l’altro? «Togliatti, Nenni, Calosso, Treves – ce n’è anche per voi, non dubitate – (Accenna al centrosinistra). Ma è possibile che non ci si decida finalmente a cacciare queste immonde carogne che ammorbano l’Italia»… E poi dice di Togliatti, di Longo, di Secchia: «Gente che ha avuto l a medaglia al valore lazzarone»!

Questo per i dirigenti. Per gli altri, per i partigiani, per quelli che fino a prova contraria il Governo riconosce come partecipanti alla liberazione del Paese: «Forse credono le Brigate Garibaldi di poter ripetere le eroiche gesta dell’aprile del 1945, quando dopo essersi specializzati in agguati…».

Già, noi ammazzavamo i tedeschi alle spalle, non affrontavamo i loro carri armati nelle Piazze di Milano!

«Quasi tutte quelle eroiche divisioni si sono poi distinte nei massacri, ecc., ecc.».

Questo è un giudizio che lei non condivide, ma lo lascia pubblicare perché vilipende gli eroi, e lei non se ne sente personalmente toccato, naturalmente. (Applausi a sinistra).

Ad un certo punto si scrive: «Il valore della Monterosa non ha nulla da invidiare a quello della Cremona…». Io vorrei che ci fosse qui il Ministro Cingolani che ha il dovere di difendere l’onore del nostro esercito. I nostri soldati eroici paragonati ai banditi, ai mercenari della Monterosa. E si continua: «Il valore della Legnano (un’altra divisione nostra) non ha nulla da invidiare alla San Marco…».

Onorevole Scelba, vuole che le mandi le fotografie degli impiccati dalla X Mas? Vuole che le mandi le fotografie di quello che hanno fatto queste divisioni?

SCELBA, Ministro dell’interno. Ha visto per le vie di Roma i manifesti contro l’esercito italiano?

PAJETTA GIANCARLO. Io non li ho visti, ma sono certo che nessun comunista ha affisso un manifesto contro l’esercito italiano. Credo che le cose che avevamo da dire all’esercito italiano le abbiamo dette combattendo, le abbiamo dette mandando i nostri volontari, le abbiamo dette cercando di fare la guerra quando a quell’esercito italiano, complici o tolleranti certi Ministri italiani, gli alleati hanno impedito di combattere come avrebbero voluto, come avrebbero saputo per la liberazione del nostro Paese. (Applausi a sinistra).

Qui è questione che interessa il Ministero dell’interno, la polizia. Vi danno la lista di quelli che dovrebbero essere arrestati, fanno una sottoscrizione, danno dei soldi per i gloriosi mutilati della repubblica sociale italiana. Sono cifre che si possono facilmente tradurre. Per il tal dei tali, «caduto per l’onore», cioè un repubblichino che sarebbe caduto per l’onore, ed infine, come se non bastasse, per questi sporchi rinnegati, per questi tedeschi, c’è uno che dà dei soldi. Capite? Un italiano che dà dei soldi, che si vanta di essere stato un volontario dell’esercito tedesco.

Lei ignora dunque che i nazisti italiani scrivono in tedesco sui giornali permessi da lei?

Vorrei sapere perché mai l’onorevole Del Vecchio contribuisce a pagare coi soldi dello Stato questo giornale.

Se non isbaglio, l’Alfa Romeo è dell’I.R.I.; e, se non isbaglio, come tutte le aziende dell’I.R.I., chiede spesso del denaro, dato lo stato di disorganizzazione in cui voi permanentemente le tenete. Ebbene, questo giornale pubblica la pubblicità pagata dall’Alfa Romeo.

Questo dunque è ciò che voi fate a favore del fascismo! E ci chiedete di non protestare, e ci chiedete di non intervenire, e ci chiedete di dimenticare tutto! No, noi non possiamo dimenticare; bisognerebbe piuttosto che voi imparaste a fare quello che ancora non avete imparato a fare. E si parla di conciliazione!

Sapete qual è la funzione di questa stampa fascista? Quella di denunziare uno per uno coloro che entrano nelle organizzazioni democratiche; di denunziarli come rinnegati e traditori. Ingegner Corbellini, si aspetti di trovare presto il suo nome su uno di questi giornali. (Si ride).

Ma di là dei doverosi provvedimenti che il Governo deve prendere, di là dei provvedimenti che non possiamo attendere più a lungo, c’è un’altra cosa che può vincere il fascismo: è lo spirito di unità degli italiani. Di là dei doverosi provvedimenti di un Governo che non può essere questo – voi lo avete dimostrato – c’è lo spirito di unità.

Ma, amici della Democrazia cristiana: noi non crediamo, no, che tutti quelli che non sono del nostro partito siano dei fascisti; amici della Democrazia cristiana, se voi volete che lo spirito di unità nazionale riviva, bisogna che questo Governo cada, bisogna che cada questo Governo della discordia, che è il Governo che ha permesso all’onorevole De Gasperi di spalancare quelle porte che insieme avremmo potuto far sì che restassero sprangate alla speculazione e al privilegio.

L’unità antifascista, no, non è morta; essa è una realtà dappertutto dove si sente questo pericolo. È una realtà che noi forse sentiamo di più perché l’abbiamo più sofferta, perché l’abbiamo conquistata in tanti anni di resistenza al fascismo; ma questa unità deve essere viva anche nel cuore di voi.

Io sento dire qualche volta dall’amico Merzagora: «Come erano belli quei tempi brutti! Si stava insieme; eravamo tutti uniti». Ma veramente cosa pensa l’onorevole Merzagora? Pensa egli proprio che debbano tornare quei tempi brutti perché si ritorni poi insieme nei Comitati di liberazione?

L’amico Malvestiti, quando una volta bussammo al muro di una cella di Regina Coeli e domandammo: «Che cosa fate? Chi siete?», rispose: «Siamo cattolici, siamo neoguelfi: aspettiamo, preghiamo». Ma, onorevole Malvestiti, pensa davvero veramente che si debba tornare in una cella di Regina Coeli a pregare? Ma dobbiamo veramente attendere che ritorni il fascismo? Non sarebbe meglio che lei potesse pregare in Chiesa e che tutti potessimo restare liberi?

No, noi. non pensiamo che tutti coloro i quali non sono comunisti siano fascisti, che tutti coloro i quali non sono comunisti non siano lavoratori; questo potrà servire per una boutade dell’onorevole Saragat: noi, per nostro conto, cerchiamo dovunque i lavoratori; anche dove ce ne siano pochi li cerchiamo, persino nel partito di Saragat.

Ma se voi non comprendete questo, potremmo avviarci verso una catastrofe.

E quando l’onorevole Piccioni dichiara che gli 8 milioni di voti che avrebbe preso non sono tutti di industriali e di agrari, gli rispondiamo che sappiamo abbastanza di statistiche, per non immaginare questo. Ci sono questi democratici in ogni partito, l’errore vostro di impedire che essi si intendano. Se le basi sociali del vostro partito ci spingessero senz’altro gli uni contro gli altri, non vi chiameremmo il Governo della discordia, non vi renderemmo responsabili di avere interrotto una intesa, che bisognava invece rafforzare, che può essere rinnovata.

Volevo dire alcune cose dei qualunquisti, e mi spiace che non sia presente l’onorevole Giannini. Ieri l’onorevole Giannini ha accusato i nostri compagni Spano e Grieco di aver fondato l’Uomo qualunque. Ma s’è accorto l’onorevole Giannini che noi non accusavamo a torto di fascismo il suo movimento? Quante cose ha cambiato l’onorevole Giannini, e si è accorto che abbiamo cambiato anche noi? Se fosse stato un nostro slogan, se fosse stato un capriccio di Spano, noi continueremmo a dargli del fascista. Non pensa, l’onorevole Giannini, che lo abbiamo anche aiutato a capire che aveva dei fascisti con sé? Non pensa di avere imparato qualche cosa dai comunisti, da qualche articolo del nostro compagno Togliatti? Non ha trovato forse nel suo partito qualche Giuda, dei Giuda che in parte ha scoperto col nostro aiuto?

Noi non diamo del fascista a chiunque non è con noi. Agli appartenenti al movimento dell’Uomo qualunque noi non abbiamo dato del fascista, quando abbiamo pensato che non do fossero.

Noi possiamo chiedervi di crederci, voi dovreste intendere la nostra onestà, provata col sacrificio, dovreste serbare nei nostri confronti quel tanto di onestà, che vi impedisca di attribuirci opinioni che non abbiamo mai espresse, intenzioni che non sono le nostre. È per questo che il Governo si deve togliere di mezzo; esso è come una trincea che ci divide.

Vogliamo dire a questo Governo che siamo forti abbastanza per non avere nessuna velleità di rompere la legalità democratica, che siamo forti abbastanza per svegliarvi, per farvi sentire quale è il vostro dovere, e che siamo forti abbastanza per difenderci, se qualcuno volesse rompere, contro di noi, questa legalità democratica! (Applausi a sinistra).

Ma non è certo con una minaccia che i comunisti vogliono concludere la loro partecipazione a questa discussione.

Noi vogliamo concludere con l’appello che si rinnova, che si rinnoverà sempre, finché avremo fede nella democrazia italiana, con l’appello agli italiani, ai lavoratori, agli antifascisti consapevolmente democratici: unità per lavorare insieme, unità per vivere liberi, unità perché sia salva l’Italia! (Vivissimi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni):

PRESIDENTE. È iscritto a parlare lo onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi! Una recrudescenza nei postumi della ferita riportata sul campo dell’onore nella prima guerra mondiale ha obbligato il carissimo amico Cipriano Facchinetti a rinunziare al mandato affidatogli dal nostro Gruppo, di portare in questo appassionato dibattito la parola e il pensiero dei repubblicani. Tocca a me il compito di sostituirlo; e io lo adempirò, con frase meno alata e suggestiva, ma, io penso e spero, con la stessa serenità e obiettività.

Del resto, la mozione votata proprio in questi ultimi giorni dalla Direzione del partito repubblicano e dal Gruppo è così chiara, così lineare, che non ha bisogno di molte parole a commento, per spiegare la nostra condotta, il nostro atteggiamento di fronte al Governo.

Come sempre, anche oggi gli uomini del nostro partito, che traggono dalla dottrina morale di Giuseppe Mazzini l’imperativo categorico per la loro coscienza di repubblicani e di italiani, si pongono, o almeno cercano di porsi, al di sopra della mischia e, nel contrasto delle passioni e delle fazioni, intendono richiamare tutti, uomini e partiti, al senso del dovere e della responsabilità, individuale e collettiva, nell’interesse superiore del Paese e della Repubblica.

Anche noi potremmo attardarci in una disamina profonda e circostanziata di quella che è stata l’azione del Governo monocolore dell’onorevole De Gasperi; anche noi potremmo con la nostra critica investire in pieno quella che è stata la politica di questo Governo in ogni settore della sua attività.

Io mi fermerò invece a qualche breve, rapida osservazione che dirà in modo chiaro e preciso (almeno io credo e penso) quello che è il nostro intendimento nell’ora storica che stiamo attraversando e quella che è soprattutto la meta verso la quale noi tutti dobbiamo tendere, italiani e repubblicani.

Noi abbiamo già fatto conoscere in altro momento quella che doveva essere la linea del Governo, di ogni Governo, non solo di questo, ma anche degli altri, dopo le troppe crisi che hanno travagliato la vita politica nazionale.

Noi avevamo fissato dei termini precisi, avevamo anche segnato delle condizioni obiettive e dal punto di vista politico e dal punto di vista sociale e morale; ma la nostra – purtroppo! – è stata voce clamante in deserto! Come molto spesso accade per chi ha una idea, per chi ha una luce davanti a sé che indica la strada da battere, che indica la meta da raggiungere, siamo rimasti inascoltati!

Quando si presentò il governo De Gasperi nell’attuale formazione, noi facemmo conoscere soprattutto i pericoli della situazione, di una situazione che portava – come ha portato purtroppo! – la frattura fra noi, fra i partiti della democrazia!

E abbiamo compreso fin da quel momento che forse saremmo ancora ricaduti negli errori del passato e non avremmo potuto risparmiare alla vita tormentata della nostra povera Patria le sofferenze e le amarezze di oggi.

Io non ripeterò quello che hanno detto già altri; non richiamerò la vostra attenzione, onorevoli colleghi, sulla gravità dei fatti denunciati dall’ultimo oratore che ha parlato, fatti di una gravità eccezionale, fatti che vogliono da parte di un Governo, di qualsiasi Governo, provvedimenti per la difesa della Repubblica, per la difesa della democrazia, che vuol dire difesa del popolo italiano, difesa dell’Italia! (Applausi a sinistra).

Episodi dolorosi, anche recenti, stanno ad indicare che l’opera del Governo è stata negativa o, peggio, in certi casi (mi si consenta di dirlo apertamente) anche faziosa.

Si ritorna alle spedizioni punitive, si vilipendono pubblicamente le istituzioni e, anche, le più alte autorità dello Stato; si pubblicano libelli diffamatori, giornali che costituiscono un incitamento all’odio ed alla vendetta. E gli articoli portano le firme di uomini che dopo la mal congegnata e peggio applicata amnistia avrebbero dovuto almeno ritirarsi nell’ombra per far dimenticare il loro passato di vergogna e di responsabilità. (Applausi a sinistra).

E – prendendo le parole dalla mozione che è l’espressione della realtà e soprattutto della serenità e della obiettività del nostro giudizio nel confronto di tutti i partiti – aggiungo che la rottura dell’intesa repubblicana, dovuta alla politica del tripartito, ha aperto un periodo di agitazioni incomposte durante le quali gli obiettivi meramente politici hanno spesso superato le legittime esigenze economiche delle classi diseredate. Dolorosa realtà, ma realtà che abbiamo constatato anche recentemente. (Applausi).

Per quel che riguarda la situazione economica e finanziaria, le idee del Partito repubblicano sono note. Il Partito repubblicano ha voluto, ha preteso dai Governi una politica attiva di lotta contro l’inflazione. Esso l’ha richiesta nell’interesse supremo del Paese. Ora, questa politica, che già durante i Governi del tripartito era stata tracciata, ha avuto due importanti realizzazioni, due applicazioni: l’imposta straordinaria patrimoniale ed il controllo del credito.

Naturalmente, né l’imposta patrimoniale né il controllo del credito valgono di per sé soli ad assicurare il successo della lotta contro l’inflazione. Altri provvedimenti dovevano essere studiati e soprattutto occorreva non dare incentivo, attraverso l’azione diretta degli organi statali, all’aumento dei prezzi.

Questa è stata la base più debole dell’azione governativa.

Mentre l’imposta straordinaria ed il controllo del credito esercitavano una pressione anti-inflazionistica sul mercato, il Governo con l’aumento dei prezzi dei pubblici servizi, dei prodotti siderurgici, ecc. distruggeva da una parte quello che aveva edificato dall’altra.

Non solo, ma tutta la politica del commercio estero – come è già stato rilevato qui ampiamente da altri – nonostante l’intelligenza spiegata dal Ministro Merzagora, si orientava in senso diametralmente opposto alla politica del Ministro del Bilancio e del Ministro del tesoro.

L’aumento dei premi all’esportazione, rincarando il costo dei prodotti importati, contribuiva a frustrare i risultati raggiunti in altri campi.

La politica del commercio estero è apparsa una politica a sé stante, nel quadro della politica di compressione impersonata dall’onorevole Einaudi.

Le critiche, rivolte al sistema troppo automatico di controllo del credito, trovano la piena adesione del Partito repubblicano. Il controllo doveva assumere aspetto qualitativo e colpire quei rami che più specificamente hanno praticato il tesoreggiamento delle merci e la speculazione.

Ma, intendiamoci, qualunque critica si faccia al Governo, il Partito repubblicano resta fermo nella sua idea che questo ed altri strumenti di politica antinflazionistica debbono essere perfezionati e migliorati, ma non debbono essere accantonati.

Se critica all’azione del Governo significa condanna alla politica antinflazionistica, il Partito repubblicano non è d’accordo e combatte questa posizione.

La lira deve essere difesa con qualsiasi mezzo ed anche, con la lira, il potere di acquisto dei piccoli risparmiatori, dei piccoli ceti che costituiscono poi la massa del popolo italiano.

Il Governo va criticato per quello che non ha fatto e che non fa.

Certo, noi comprendiamo: dal punto di vista politico il Governo non si trova in una delle migliori posizioni.

Anche prima della nuova soluzione data dall’onorevole De Gasperi alla crisi del giugno scorso, avevamo segnalato i pericoli della situazione ed indicato i mezzi per affrontarla. Ho già detto: non fummo ascoltati ed allora, di fronte al Governo monocolore o quasi del capo della Democrazia cristiana, potemmo fissare chiaramente le responsabilità di uomini e di partiti che, preoccupati soltanto delle piccole contese di fazione, dimenticavano l’interesse superiore del Paese.

Oggi, ancora e sempre idealisti e sentimentali, noi pensiamo che una parola libera e serena da questi banchi, in cui siedono uomini che non hanno ambizioni né riserve mentali, possa giovare, richiamando tutti al senso del dovere.

Il Partito repubblicano risponde così implicitamente agli inviti che ci sono venuti da tante parti.

Vorrei aprire una parentesi. Attraverso i tempi questo partito «di orgogliosa minoranza», come è stato definito proprio in questi giorni, ha affrontato battaglie aspre e dure, dimenticando perfino quella che era la sua passione, la sua fede, pur di dare all’Italia, a questa nostra adorata Patria, che è la terra nostra e dei nostri avi, l’indipendenza e la libertà. Ad inviti ed appelli recenti e lontani non abbiamo risposto od abbiamo risposto negativamente: non potevamo dare il nostro consenso ai governi finché in Italia rimanevano l’onta e l’umiliazione di una monarchia e di una dinastia. Siamo rimasti fermi al nostro posto. Abbiamo accettato di assumere responsabilità durante la prima guerra mondiale, ma soltanto dopo il 2 giugno, proclamata la Repubblica, sorta dalla libera coscienza del popolo italiano, abbiamo partecipato per la prima volta al Governo: era un nostro diritto, era un nostro dovere. Poi, ad un certo momento, ci siamo allontanati. Voi conoscete le ragioni, conoscete i motivi, li abbiamo esposti chiaramente; l’onorevole De Gasperi soprattutto li conosce, perché a lui io andai a portare la parola ed il pensiero del Partito repubblicano alla vigilia della crisi di gennaio. Non potevamo rimanere nella compagine governativa. Ne uscimmo a fronte alta, con la coscienza tranquilla e serena per il dovere compiuto, e riprendemmo il nostro posto di opposizione nell’Assemblea, nel Paese. Opposizione però attiva e costruttiva, perché noi non pensiamo soltanto al partito che ci ha mandato qui, ma pensiamo soprattutto al Paese e alla Repubblica.

Orbene, se siamo stati avversari dei Governi che si sono succeduti da gennaio ad oggi, se abbiamo sentito da vari banchi altri appelli ed altri richiami, noi vi diciamo apertamente, sinceramente oggi, come è nostra abitudine: crediamo che sia possibile, anche nelle attuali circostanze, la creazione di un Governo a maggioranza stabile e sicura, con l’appoggio e la collaborazione di tutti i partiti repubblicani.

Questo è il nostro concetto sul quale richiamo la vostra attenzione, onorevoli colleghi. E se volete che specifichi di più vi dirò: noi pensiamo alla data del 2 giugno: è la data che resta ormai ferma, segnata nella storia dei destini d’Italia; orbene i partiti che in quel giorno vollero e fecero la Repubblica devono essere rappresentati al Governo con tutte le loro forze e con tutte le loro energie morali e materiali. (Applausi).

Ma occorre fissare le linee di un programma. Abbiamo sentito alte e profonde discussioni. In ogni campo, competenti di tutti i partiti hanno portato il segno della loro intelligenza, della loro passione, del loro animo. Troppe cose si sono chieste però a questo Governo, troppe cose si erano domandate agli altri Governi.

Ad ogni modo, vi sono due problemi che si impongono alla nostra attenzione; due problemi sui quali tutti dovremo portare il nostro sforzo comune: difesa della lira (e quando dico difesa della lira voglio dire difesa del lavoro, della fatica, del sudore dei nostri operai; quando parlo di operai intendo alludere a tutti i lavoratori, del braccio e del pensiero); difesa, o, meglio, consolidamento delle istituzioni repubblicane. Il Governo, comunque formato, deve partire da questa premessa logica e storica: che la Repubblica oggi è una realtà di fatto e di diritto che rimane nella vita del popolo italiano; che non si cancella perché non si torna più indietro.

È bene dirlo apertamente. (Commenti a destra – Interruzione del deputato De Mercurio).

Onorevoli colleghi, mosso dall’unica preoccupazione di creare stabili basi alla giovane Repubblica, non soltanto attraverso una decisa smobilitazione dell’apparato monarchico fascista, ma altresì attraverso una concorde e concreta politica tendente a risolvere, al di sopra delle ideologie e dello spirito di parte, i gravi problemi che affannano il popolo italiano, il Partito repubblicano, riprendendo del resto quello che già aveva precisato alla vigilia della crisi del gennaio scorso, afferma che il Governo, da lui auspicato, espresso dalla coscienza repubblicana dell’Assemblea, possa assolvere il suo compito in questo grave, difficile, delicato periodo della vita nazionale, soltanto a queste condizioni: 1°) che dal punto di vista personale e tecnico costituisca un meccanismo capace di azione unitaria; ) che l’attività ministeriale non sia un terreno su cui ciascun partito delimiti la sua zona di influenza senza nessun coordinamento e nessun adeguamento allo necessità generali. I partiti devono impegnarsi di sviluppare al Governo, una volta stabilito un programma comune, un’azione concorde al di sopra dei propri schemi ideologici, né devono sopraffare il Governo con le loro esigenze particolaristiche, ma devono tutelarne, proteggerne l’azione politica ed amministrativa; 3°) l’azione politica dei partiti al Governo deve svolgersi in seno al Consiglio dei Ministri e la loro eventuale critica deve essere compiuta nel Parlamento, evitandosi in modo assoluto che l’eventuale disaccordo tra partiti ed uomini della coalizione governativa scenda alla contesa polemica nella stampa o nei comizi e si arresti poi sulla soglia della Assemblea politica, unico organo idoneo a giudicare.

Perché indichiamo noi queste vie da battere? Perché, onorevoli colleghi, noi ci permettiamo, noi partito di minoranza, di fissare questi punti?

Per una esperienza personale. Ne abbiamo parlato in altre occasioni. Chiunque assuma la grave responsabilità del potere deve ad un certo momento dimenticare l’antico se stesso, le proprie idee e starei per dire le pregiudiziali ideologiche dalle quali è mossa la sua azione. Io ricordo alle volte le parole pronunziate un giorno da un grande italiano, triumviro della gloriosa Repubblica romana, Aurelio Saffi. Quando nel 1891 il Partito repubblicano vinse per la prima volta le elezioni amministrative a Forlì e salì da solo alla Casa del comune, Aurelio Saffi, che aveva tratto tutta la passione della sua vita dalla dottrina e dall’insegnamento di Giuseppe Mazzini, pronunciò un discorso che dovrebbe essere letto e meditato sempre e dovunque. Egli disse: «Noi non siamo venuti qui a rappresentare un partito. Noi abbiamo dimenticato alla porta della Casa comunale la nostra tessera. Qui noi rappresentiamo soltanto gli interessi dei cittadini, di tutti i cittadini».

Altrettanto devono fare i Ministri che assumono il peso del potere. Uomini di diversa fede, di diversi partiti, che vengono da origini diverse, che hanno principî e programmi in contrasto ed in antitesi, al Governo però devono ricordare di essere soltanto italiani, e noi aggiungeremo, perché complemento necessario, repubblicani.

Ecco l’appello che noi rivolgiamo a tutti i partiti della democrazia e della democrazia repubblicana in quest’ora solenne e decisiva per il nostro Paese. È una parola serena quella che noi rivolgiamo ai repubblicani che sono nell’Assemblea e nel Paese.

Noi crediamo di avere indicato la via da seguire e le mete da raggiungere, e vorremmo che tutti, superando un po’ quello che è il proprio intimo egoismo, quelle che sono le proprie aspirazioni ideologiche, vicine o lontane, si ricordassero che al di sopra di noi, e delle nostre passioni, è l’Italia, è la Repubblica. (Applausi – Congratulazioni).

Voci. Chiusura!

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione. Domando se questa proposta è appoggiata.

(È appoggiata).

La pongo ai voti.

(È approvata).

Dichiaro pertanto chiusa la discussione generale.

Domani, nelle due sedute che si inizieranno alle 10 e alle 16, avranno la parola i presentatori delle mozioni e il Governo. Poi si passerà alle votazioni.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Governo, per sapere:

se non ritenga necessario provvedere affinché la maggior parte delle somme stanziate per la pubblica assistenza (circa 50 miliardi, ripartiti nei bilanci di dieci diversi Ministeri o Alti Commissariati) più non si disperda in spese generali e di organizzazione, in questioni di competenza, in duplicazioni di uffici e interventi, a profitto degli speculatori e a detrimento dei veri bisognosi;

se, per l’esercizio in corso, non intenda rivedere le riduzioni previste e adeguare al valore della moneta gli stanziamenti disposti, così da evitare la più iniqua delle economie sui bisogni delle categorie più umili e provate;

se, infine, non consideri urgente predisporre e attuare un piano di sicurezza sociale che – unificando al centro e semplificando e coordinando gli Enti e Istituti periferici – possa assicurare ai non abbienti senza maggiori aggravi di bilancio, il diritto alla vita.

«Vigorelli, Cairo, Fietta, Calosso, Tremelloni, Ghidini, Filippini, Paris, Cartia, Gullo Rocco, Chiaramello, Zagari, Bianchi Bianca».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente a rispondere a questa interrogazione è il Ministro dell’interno, il quale farà sapere lunedì prossimo se sarà in grado di farlo subito o quando potrà rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e delle finanze, per sapere quali provvidenze e quali agevolazioni intendano applicare e adottare in favore degli agricoltori di quei comuni di Forlì (Predappio, Castrocaro, Bertinoro, Portico, Rocca, ecc.), che per le recenti alluvioni perdevano quasi interamente i raccolti dell’uva e subivano danni ingenti nel foraggio e negli impianti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare di urgenza per assicurare il regolare funzionamento della più parte degli uffici giudiziari della Corte di appello di Aquila, e cioè delle preture di Campli, Capestrano, Caramanico, Casoli, Castelvecchio Subequo, Catignano, Celenza sul Trigno, Civitella del Tronto, Guardiagrele, Gioia dei Marsi, Gissi, Lama dei Peligni, Loreto Aprutino, Montorio al Vomano, Notaresco, Orsogna, Pescina, Pizzoli, Pratola Peligna, San Demetrio ne’ Vestini, Tagliacozzo, Torricella Peligna e Trasacco.

«Tutte codeste preture sono da lungo tempo mancanti dell’unico magistrato prepostovi e talune di esse – come quelle di Campli, Celenza sul Trigno, Civitella del Tronto, Gioia dei Marsi, Lama dei Peligni, Nereto, ecc., sono altresì prive dell’unico funzionario di cancelleria.

«Tali vacanze per molte preture si protraggono da lungo tempo, come – ad esempio – in quella di Trasacco, che non ha più titolare da oltre cinque anni.

«Data l’accresciuta competenza delle preture – che si preannuncia debba essere ulteriormente ampliata – tale stato di cose perturba gravemente il funzionamento della giustizia in popolosi centri rurali, nei quali la funzione del pretore ha una particolare e saliente importanza, oltreché giudiziaria, anche sociale.

«L’interrogante chiede, altresì, di conoscere quali provvedimenti intenda adottare per assicurare il regolare funzionamento della Corte di appello degli Abruzzi che, degli undici magistrati ad essa assegnati per le due sezioni civile e penale – a prescindere dalla mancanza di uno dei due presidenti di sezione – attualmente ne conta soltanto tre in pianta, con applicazione temporanea di ben cinque magistrati, taluno dei quali sta per essere collocato a riposo per raggiunti limiti di età, mentre altri sono in procinto di raggiungere le proprie sedi ordinarie, per scadenza del termine di applicazione.

«Siffatto stato di cose è tanto più preoccupante in quanto dal novero dei consiglieri sono tratti e designati i presidenti dei Circoli di Corte di assise funzionanti nelle sedi di Aquila, Chieti, Pescara, Teramo e Lanciano, ed esige urgenti provvedimenti perché sia senz’altro rimosso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, sull’opportunità che, nel determinare l’imposta straordinaria per profitti di guerra sopra gli alberi di olivo, si proceda con criteri di gradualità e di equanimità.

«Mi riferisco specialmente a ciò che accade nella zona di Taggia (Imperia), nella quale ogni albero di olivo viene tassato, per la ragione suddetta, con la somma di circa lire 1000, in modo che agli olivicoltori sono stati richiesti contributi varianti da lire 100 mila a un milione.

«Un’imposta così gravosa appare specialmente iniqua e dannosa all’economia nazionale per le seguenti ragioni:

1°) che l’olivo è l’unica risorsa per gran parte delle famiglie di Taggia e della zona retrostante;

2°) che, come è noto, l’olivo ha un ciclo di produzione biennale, ossia produce un raccolto adeguato solo una volta ogni due anni. Raccolti di speciale imponenza dà soltanto ogni dieci anni;

3°) la manutenzione e la concimazione assorbono, in terreno collinoso (ove solamente si trovano, per ora, coltivazioni d’olivo) notevole parte del ricavato in denaro;

4°) che i maggiori profitti dell’elevazione dei prezzi dell’olio sono andati, non già agli olivicoltori, bensì agli esercenti della borsa nera, non colpiti da nessuna imposta;

5°) che la gravezza di questa taglia costringe e costringerà ancor più i contadini della zona ad abbandonare la coltura degli olivi, e a vendere le piante come legna da ardere. Si tenga presente che durante la guerra mondiale, e immediatamente dopo, furono tagliati ben due milioni di piante.

«L’interrogante ritiene perciò necessario e urgente che l’onorevole Ministro dia istruzioni agli Uffici finanziari della provincia di Imperia, affinché diminuiscano sostanziosamente gli aggravi fiscali, che vanno, con improvvida durezza, applicando agli olivicoltori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pellizzari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno di provvedere ad un equo aggiornamento delle pensioni di guerra (dirette e indirette), troppo inadeguate al fabbisogno dei destinatari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda opportuno disporre la statizzazione della scuola di ceramica di Santo Stefano di Camastra (Messina) e se non creda di innovare, con criteri di modernità, l’indirizzo della pubblica istruzione che, mentre seguita a moltiplicare le scuole classiche – le quali divengono sempre più una fabbrica preoccupante di spostati e di disoccupati, condannando a una esistenza angosciosa ceti intellettuali che dopo tanti anni di studio non trovano possibilità di lavoro e di vita – trascura, poi, lo sviluppo di scuole tecnico-professionali che elevino le condizioni dell’artigianato popolare, che ha tradizioni così gloriose e onora l’arte e il genio italiano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per sapere se, di fronte al disagio nel quale versano reduci, partigiani, mutilati e invalidi di guerra, e alla constatata lentezza nel disbrigo delle pratiche, sia di pensione che di liquidazione delle loro spettanze, non credano necessario ed urgente di unificare i diversi servizi ed uffici e dare ad essi un assetto organico, che valga ad esaudire gli interessi e diritti delle categorie interessate. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Gasparotto, Vigorelli, Clerici, Scotti Francesco».

PRESIDENTE. Queste interrogazioni saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.55.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 3 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Mariani Enrico

Presidente

Crispo

Mozioni (Seguito della discussione):

Sereni

Piccioni

La seduta comincia alle 10.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

MARIANI ENRICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARIANI ENRICO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sento il dovere, come deputato e come cittadino, di protestare contro il linguaggio basso e volgare…

PRESIDENTE. Onorevole Mariani, non posso consentirle di continuare nel suo discorso. Ella sa benissimo che sul processo verbale si può parlare solo per proporvi una rettifica o per chiarire o correggere il proprio pensiero.

CRISPO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, ho chiesto di parlare sul processo verbale di ieri mattina per chiarire una espressione da me usata e che ha dato luogo ad una interpretazione del tutto erronea.

A proposito della mancata legge per la difesa della Repubblica, che contemplava fra l’altro l’azione violenta, armata, diretta alla eventuale restaurazione della monarchia, dissi che il regime repubblicano non avrebbe avuto evidentemente a temere e non correva alcun pericolo ad opera dei monarchici.

Dissi – e questa fu l’espressione che ha dato luogo all’interpretazione da me riferita – che i monarchici non avrebbero avuto il fegato di ricorrere ad un’azione violenta. Il mio pensiero era chiaro. Volevo dire che i monarchici hanno troppo vivo il senso civico per non agire unicamente nell’ambito delle libertà democratiche e del diritto di propaganda per svolgere il loro pensiero e la loro azione, e in questo senso rettifico – se una rettifica occorre – la mia espressione che ha potuto sembrare offensiva.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni. È iscritto a parlare l’onorevole Sereni. Ne ha facoltà.

SERENI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io mi sforzerò di portare in questo dibattito, più ancora che la voce della mia parte politica, la voce e il punto di vista di tutta una importante parte d’Italia nei confronti dei problemi che sono in discussione.

Sono profondamente convinto che, al di sopra delle divisioni di partito, esiste una solidarietà di interessi del Mezzogiorno; e poiché sono altrettanto profondamente convinto che questi interessi del Mezzogiorno coincidono storicamente con gli interessi generali della democrazia e della Nazione italiana, è da questo particolare punto di vista che io cercherò di intervenire nel dibattito.

A questo punto della discussione, d’altra parte, mentre già i più autorevoli rappresentanti dei Partiti hanno impostato il problema della fiducia o della sfiducia nel Governo, credo che un intervento come il mio può esser giustificato soltanto se io riuscirò a portare un contributo specifico nella discussione politica generale. Mi limiterò perciò, senza diffondermi su problemi più generali, a toccare, dal punto di vista del Mezzogiorno, tre punti fondamentali che concernono le origini di questo Governo, la sua composizione, la sua struttura, e la sua opera.

È stato già sottolineato da varie parti il carattere ed il significato di classe del Governo che siede su quei banchi. Io vorrei ricordare, a questo proposito, qualche cosa che è stata accennata dall’amico e compagno Morandi, sia nella precedente discussione che nell’attuale, ma che forse non è chiara e non è nota neanche a tutta l’Assemblea. Vorrei ricordare quella seduta del 30 aprile, nella quale, dopo il suo discorso radio, per la prima volta l’onorevole De Gasperi manifestò in Consiglio dei Ministri la sua intenzione di aprire la crisi. Il collega Morandi ha ricordato a questo proposito la storia del «quarto Partito», ma credo non sia inopportuno precisare qui il senso di questa espressione. Nella seduta del 30 aprile, l’onorevole De Gasperi ci disse in sostanza: «Il Paese si distacca da noi. Noi abbiamo i Ministeri, abbiamo il Governo, ma il Paese gradatamente si allontana dal Governo».

Fu facile, allora, all’amico e compagno Cacciatore ed a chi vi parla, rispondere all’onorevole De Gasperi: «Guardiamo i fatti».

Erano recenti le elezioni all’Assemblea regionale siciliana, e potemmo facilmente dimostrare che l’adesione del Paese alla maggioranza governativa di allora, presa nel suo complesso, lungi dal restringersi, si era allargata.

Dicemmo allora all’onorevole De Gasperi: questa maggioranza è aumentata nel complesso, ma sono diminuiti i voti della Democrazia cristiana. Questo fatto esprime un malcontento che esiste effettivamente nel Paese contro il Governo, non perché il Paese non approvi il suo programma, ma perché constata una indecisione, una lentezza nell’applicazione di questo programma. E non è un caso che in tutte le consultazioni elettorali avvenute in quel periodo, i voti si spostassero dalla democrazia cristiana verso il Partito socialista e verso il Partito comunista. Questo non significa che in Sicilia, ad esempio, molte persone fossero diventate socialiste o comuniste, ma significa – dicemmo allora all’onorevole De Gasperi – che nella direzione democristiana del Governo e della maggioranza, le masse del popolo italiano riconoscono la causa prima delle insufficienze nella realizzazione del programma del Governo.

Bisogna dire che né in quella, né nelle successive sedute, in nessuna occasione, l’onorevole De Gasperi mise in dubbio la validità di queste nostre affermazioni. Ma l’onorevole De Gasperi rispose allora: «Sì; avete ragione; se andiamo a vedere i risultati elettorali, non notiamo un allontanamento delle masse dal Governo; noi abbiamo una larghissima maggioranza di voti – comunisti, socialisti, democristiani – come Governo; abbiamo i Ministeri, la posizione chiave della politica governativa italiana; ma non disponiamo della stampa così detta indipendente, la quale presenta sotto una luce scandalistica qualunque provvedimento che il Governo prenda. Noi – disse l’onorevole De Gasperi – siamo tre grandi partiti che raccolgono la grande maggioranza dei suffragi, ma non abbiamo nelle nostre file un quarto partito, il partito di coloro che hanno denaro e possono prestarne allo Stato che ne ha bisogno».

Non potemmo nascondere, ministri comunisti e socialisti del Governo di allora, la nostra stupefazione di fronte a queste argomentazioni. Ci trovavamo evidentemente di fronte ad una nuova concezione della democrazia, che non era quella alla quale eravamo abituati: nella quale il popolo tutto esprime la sua volontà attraverso consultazioni popolari, dalle quali sorge una direzione dell’«Esecutivo Nazionale» corrispondente a questa espressione popolare:

Ci trovavamo di fronte ad una nuova concezione secondo la quale il voto di «Pirelli» e di qualche altro magnate dei gruppi monopolistici conta più di 15 milioni di voti di elettori (lavoratori e borghesi, democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani).

Io non voglio qui entrare nella discussione su questa nuova concezione della democrazia, né voglio discutere se il Presidente De Gasperi è un democratico o no. Se devo esprimere la mia opinione personale, direi che, per essere un uomo di Stato democratico, all’onorevole De Gasperi manca un elemento essenziale: la fiducia nel popolo. (Interruzioni al centro – Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se lei avesse avuto dal popolo i voti che ho avuto io, potrebbe essere sodisfatto.

SERENI. Questo tipo di «democratico» è un tipo che abbiamo incontrato studiando la storia del Risorgimento italiano e operando nella realtà politica del periodo della guerra di liberazione e in questo dopo-guerra così agitato. È un tipo che è frutto dell’insufficienza della classe dirigente italiana, manifestatasi già nel corso del Risorgimento. Ne parlava Goffredo Mameli quando scriveva «quei che contano gli eserciti – disser: l’Austria è troppo forte – ed aprirono le porte».

In Consiglio dei Ministri, l’onorevole De Gasperi pose il problema appunto così: «Il nemico è troppo forte; ha in mano la stampa indipendente ed il denaro. Ebbene, questo nemico non dobbiamo combatterlo come nemico, dobbiamo spalancargli le porte del Governo». Goffredo Mameli ammoniva, a proposito di questi «democratici», che «questa vil genio non sa – che se il popolo si desta – Dio si mette alla sua testa – la sua folgore gli dà».

Questa folgore, l’onorevole De Gasperi l’aveva nel suo arsenale, ma non ha voluto mai maneggiarla contro i nemici del popolo; ai nemici del popolo, l’onorevole De Gasperi – seguendo una tradizione che non è certo quella repubblicana, bensì quella dei repubblichini e degli austriacanti d’Italia – ha preferito spalancare le porte del Governo.

Alla folgore che Dio dà a chi cammina col popolo, l’onorevole De Gasperi ha preferito le circolari dell’onorevole Scelba e dell’onorevole Grassi. Ha creduto di aver inventato il parafulmine creando questo nuovo Governo. E certo, le circolari dell’onorevole Scelba e dell’onorevole Grassi, non rischiano di scalfire il muro d’argento, come alcune volte potrebbe fare la folgore che Dio dà al popolo.

Per aprire le porte al nemico bisognava però, questa volta, cacciar via dal Governo i rappresentanti di un’altra democrazia, di una democrazia che non è disposta ad inchinarsi, a prosternarsi di fronte al muro d’argento di una democrazia che si difende e che combatte i nemici del popolo. L’onorevole De Gasperi aveva sul terreno parlamentare la forza di farlo, e l’ha fatto: buon pro’ gli faccia. Ecco il Governo che abbiamo di fronte e che è uscito da questa impostazione dei problemi della lotta democratica del nostro Paese.

È stato sottolineato in vari interventi, in special modo dagli onorevoli Nenni, Morandi e Togliatti, il carattere di classe e di parte che il nuovo Governo ha assunto. Sono state denunciate in quest’Aula delle ingiustizie e delle illegalità compiute da questo Governo ai danni della democrazia. Debbo dire che non ho assistito senza meraviglia ai sorrisi con i quali, da varie parti in quest’Aula, si è ironizzato a proposito di manifesti e di attacchini.

Si dice: cosa è poi mai se si proibisce un manifesto? È strano che dopo la triste esperienza del fascismo vi sia ancora una così scarsa esperienza democratica per cui nel nostro Paese non si avverte il significato che assume la violazione delle libertà elementari del cittadino, che sono la base della democrazia. Io non voglio ripetere quel che è stato detto da altri, ma vorrei che l’onorevole Togliatti mi consentisse di ricordare che, a proposito di ingiustizia e di illegalità, vi è appunto tutta una parte d’Italia, che è stata da decenni sottoposta ad ingiustizie, che non si sono sempre espresse solo nella forma dell’illegalità, ma si sono anche espresse sotto la forma della legalità di un determinato tipo di Governo, che è esistito nel nostro Paese; questa parte è il Mezzogiorno.

Quando noi analizziamo il carattere di questo Governo, dobbiamo sforzarci di valutare sotto tutti i suoi aspetti il significato dell’operazione politica che l’onorevole De Gasperi ha condotto a termine. Non basta constatare, come è già stato fatto, che essa ha portato all’esclusione dei rappresentanti dei partiti che più direttamente si richiamano alle classi lavoratrici. Occorre sottolineare che, come conseguenza, d’altronde inevitabile, di questa esclusione, l’onorevole De Gasperi ha risolutamente indirizzato la sua politica nel senso della ricostituzione di un blocco industriale-agrario, la cui punta è rivolta contro il Mezzogiorno.

Illustri rappresentanti della democrazia cristiana, come Luigi Sturzo, accanto ad altri illustri esponenti di differenti correnti politiche, come Guido Dorso ed Antonio Gramsci, hanno illustrato nella nostra letteratura politica questa caratteristica del dominio storico della borghesia italiana. È noto come, già prima del fascismo, il dominio di classe della borghesia italiana abbia assunto la forma del blocco industriale-agrario; di una stretta alleanza, cioè, tra i grandi industriali e finanzieri del Nord ed i grandi latifondisti del Sud. Questa alleanza è caratterizzata da ciò, che i grandi proprietari terrieri del Mezzogiorno, per la loro arretratezza sociale, economica e politica, si sono trovati costantemente in una posizione di inferiorità di fronte ai grandi finanzieri e industriali del Nord, sicché non giunsero mai ad ottenere, con questa impostazione governativa, altro che la mano libera contro i loro contadini. In cambio della soddisfazione data a questi miopi interessi di classe, queste forze degli agrari del Mezzogiorno hanno sempre lasciato mano libera ai grandi finanzieri del Nord, ai grandi industriali del Nord, per tutto quanto riguarda le questioni fondamentali della politica nazionale. E così abbiamo visto il Mezzogiorno deliziato dall’ultraprotezionismo industriale, dalle guerre in cui i grandi capitalisti del Nord l’hanno trascinato; lo abbiamo visto deliziato da quella politica dei prezzi industriali e dei prezzi agrari, che è la causa più profonda della inferiorità economica del Mezzogiorno.

Tutto questo è avvenuto con la complicità necessaria di un ristretto gruppo delle classi dominanti del Mezzogiorno, ma il mestolo era tenuto in mano dai grandi industriali e dai grandi agrari del Nord.

Questo sistema, voi tutti lo conoscete, è stato portato al parossismo durante la dittatura fascista. È un sistema che comportava una tecnica parlamentale, quando c’era il Parlamento, ed una tecnica governativa. Questa tecnica e questo blocco governativo erano stati spezzati da quel grande fatto storico che è stata la liberazione del popolo italiano dal fascismo. Ora incomincia un nuovo sistema politico e proprio la partecipazione dei partiti di popolo, fra i quali riconosco senz’altro la Democrazia cristiana, al Governo, aveva spezzato questo sistema tradizionale.

Si dice male del tripartito e dei governi di coalizione democratica. È diventata una moda alla quale anche l’onorevole Presidente del Consiglio, che ha presieduto questi governi, troppo spesso si conforma. Io voglio, per una volta, dire bene del tripartito. Voglio anzi dirvi che in quelli che i giornali indipendenti, qualche volta anche Il Popolo, sogliono chiamare «gli ambienti degli agit-prop», è corsa, in questi ultimi tempi, una voce: secondo la quale il compagno Togliatti, nelle prossime elezioni di Roma, avrebbe voluto lanciare una parola d’ordine: «Torniamo ai prezzi del tripartito»; ma poi si è saputo che l’idea è stata abbandonata, perché una parola d’ordine di questo genere avrebbe trovato consensi troppo larghi tra le masse popolari, e avrebbe potuto eccitarle tanto da spingerle sulla via dell’insurrezione contro l’attuale Governo. E noi, che siamo un partito d’ordine, ci siamo perciò ben guardati dal lanciare una parola d’ordine così esplosiva. (Ilarità – Commenti al centro).

Si dice male del tripartito. Ebbene, io vorrei, esaminare qui quello che non solo il tripartito, ma in genere i governi di coalizione democratica, hanno fatto in questo senso dei rapporti fra Nord e Sud.

Non vi tedierò con troppe cifre. In un articolo dell’onorevole Einaudi sul Risorgimento liberale del 1° settembre 1946, l’onorevole Einaudi analizzava la distribuzione dei redditi e degli impieghi fiscali in Italia. Le conclusioni erano queste: che il supero dei versamenti sugli incassi del Tesoro nell’Italia meridionale ed insulare era di 24 miliardi, mentre nel triangolo industriale del Nord il supero degli incassi era di 48 miliardi. Era questa una inversione completa di un processo caratteristico che si era avuto e sotto il fascismo e nei periodi precedenti.

L’onorevole Lussu su L’Italia Libera del 4 dicembre 1946 faceva delle obiezioni all’elaborazione di Einaudi, obiezioni in parte giuste sul terreno tecnico.

Ma il 13 aprile 1947, un giornale democristiano di Napoli, Il Domani d’Italia, presentava una più precisa elaborazione di questi dati, secondo i criteri, appunto, che Lussu aveva consigliato. Anche da questa nuova e più precisa elaborazione l’inversione del processo tradizionale restava confermata.

Politica dei prezzi. Qualche volta si è esagerato, nel Mezzogiorno, nel credere che le ingiustizie di cui esso soffriva e soffre derivassero essenzialmente da una sperequazione fiscale ai suoi danni.

La realtà è che la divergenza nel livello dei prezzi dei prodotti industriali nel confronto con quelli agricoli ha avuto storicamente sull’economia del Mezzogiorno una influenza molto più grave che la politica fiscale. Ritroviamo qui gli effetti della politica protezionistica tradizionale. Cosa hanno fatto i governi di coalizione democratica in questo senso?

Prendo anche qui una fonte semiufficiale, lo studio interessantissimo del professore Albertario sulla situazione economica dell’agricoltura, in cui vengono analizzati i prezzi dal periodo anteguerra ad oggi. La base degli indici che io citerò è quella del 1938. Il rapporto fra l’indice dei prezzi dei prodotti venduti e rispettivamente acquistati dagli agricoltori a fine ’46 è 131. Non vi sto a citare tutte le cifre. Ma assistiamo anche in questo campo, ad opera dei governi del tripartito, ad una inversione del processo tradizionale. E vi è di più: mentre l’indice dei prodotti agricoli del Mezzogiorno sale a 191 rispetto al 1938, quello dei prodotti agricoli del Nord sale solo a 137. Molti fattori diversi intervengono, beninteso, a determinare questa divergenza. Quel che ci interessa, è valutare il risultato complessivo. Anche nel campo della politica dei prezzi c’è stata, nel periodo dei governi del tripartito, una inversione del processo tradizionale, che si svolgeva ai danni del Mezzogiorno.

Risparmio ed impieghi. Ognuno di voi sa che l’altra tradizionale inferiorità del Mezzogiorno deriva dal fatto che una parte notevole del risparmio veniva pompato dall’industria verso il Nord. Anche in questo campo gli ultimi dati disponibili indicano che l’indice dei depositi era salito nel Mezzogiorno a 1036 contro 647 soltanto nel triangolo industriale. Mentre la percentuale dei depositi nel Mezzogiorno sul totale è del 17 per cento, la corrispondente percentuale degli impieghi nel Mezzogiorno è del 19 per cento.

Anche in questo campo, così, assistiamo ad un processo di arresto del processo di pompamento del risparmio meridionale verso il Nord.

Ho voluto citare soltanto queste pochissime cifre, per mostrare come, sui tre punti che rappresentano le ragioni fondamentali dell’inferiorità economica del Mezzogiorno in conseguenza della politica tradizionale del blocco industriale agrario, i governi di coalizione democratica con la loro azione avessero cominciato a risalire la china.

Io concordo pienamente con quanto l’onorevole Lussu scriveva nell’articolo già citato, quando egli affermava che permanevano e permangono ancora delle gravissime cause di inferiorità del Mezzogiorno. Ma è fuori di dubbio che per la prima volta nella storia d’Italia, nel periodo dei governi di coalizione democratica, le classi lavoratrici venute con le loro rappresentanze al potere, avevano cominciato a far risalire al Mezzogiorno la china dell’inferiorità economica.

Non ci può stupire il fatto che, malgrado questo, proprio nel Mezzogiorno si manifestasse del malcontento verso il governo. Un giusto malcontento, perché i miglioramenti relativi si esprimevano in cifre assolute che pur sempre segnavano il generale deperimento dell’economia italiana. Noi sappiamo che nel Mezzogiorno anche una leggera flessione dell’attività economica provoca delle conseguenze malto più gravi che nel resto d’Italia, perché incide direttamente sulle possibilità più elementari di vita. Il malcontento del Mezzogiorno era rivolto ancora, d’altronde e giustamente, contro qualche altra cosa; era rivolto contro la insufficienza della direzione Democratico-cristiana dei Governi di coalizione. Al di sopra delle espressioni di partito, vanno considerati alla stessa stregua, in questo senso, fenomeni diversi, come il malcontento che si esprime nell’Uomo qualunque ed il malcontento che si esprime nei Blocchi del Popolo.

Non è un caso che entrambi i fenomeni siano nati nel Mezzogiorno; tutti e due esprimevano infatti un malcontento che si era manifestato e che perdurava nel Mezzogiorno. Se, infatti, si era incominciato a risalire la china, nessuna riforma strutturale era stata affrontata; e ciò perché si era cozzato con la resistenza pertinace della Democrazia cristiana nel Governo.

In questo senso, già nell’ultimo periodo dei governi di coalizione democratica, il Mezzogiorno si poteva dire che fosse all’opposizione; era all’opposizione con l’Uomo qualunque, era all’opposizione coi Blocchi del Popolo. Ebbene, che cosa ha fatto il nuovo Governo? Quale è stata la sua politica?

Io non considererò, onorevoli colleghi, il problema da un punto di vista di partito, ma dal punto di vista, appunto, degli interessi del Mezzogiorno, presi nel loro complesso.

È facile rilevare, in primo luogo, un grave mutamento nella composizione regionale, diciamo così, dell’attuale Governo. L’ultima crisi ha portato, infatti, all’esclusione di numerosi Ministri meridionali. E non parlo, badate, dei soli Ministri comunisti e socialisti.

C’è, per esempio, il caso dell’onorevole Aldisio. Basta vivere e ascoltare quel che si dice negli ambienti marittimi per sapere – non è vero onorevole Porzio? – che il fatto della sostituzione dell’onorevole Aldisio al Ministero della marina mercantile con l’onorevole Cappa non è senza significato e non resta senza conseguenze. Gli armatori hanno sentito che c’è una certa differenza col passaggio del Ministero della marina mercantile sotto la direzione di un uomo che senza dubbio è legato – non parlo di legami inconfessabili – ma senza dubbio è legato agli armatori genovesi: se ne sono accorti tutti. Se ne sono accorti soprattutto – non è vero onorevole Porzio? – gli armatori e i portuali napoletani, i piccoli armatori siciliani, che han visto i loro interessi sacrificati a quelli dei grandi armatori genovesi.

L’onorevole Segni è l’unico rappresentante dell’Italia Meridionale che sia rimasto in seno al Consiglio dei Ministri. Ora, io non voglio fargli dei complimenti, ma debbo riconoscere che egli è un uomo che indubbiamente ha una sensibilità democratica. Non è sempre colpa sua – o forse lo è anche in parte – se questa sua sensibilità democratica non si può esplicare sempre in un’azione democratica. Il guaio si è che l’onorevole Segni è stato mantenuto al Governo come solo Ministro meridionale in funzione – direi – preservativa. Egli è infatti il rappresentante di un’isola ove il movimento contadino non è ancora largamente sviluppato. Non è perciò sottoposto ad una pressione diretta troppo temibile, e non rischia di far scatti troppo pericolosi.

Ma, relativamente a questa questione dell’esclusione di alcuni Ministri meridionali, vi sono fatti ancor più caratteristici. V’è, ad esempio, l’esclusione dell’onorevole Gullo. Al momento della crisi, era in discussione il problema relativo alla liberazione dei contadini arrestati per le agitazioni agrarie del Mezzogiorno. Bisognava allora che al posto di un rappresentante dei lavoratori dell’agricoltura, dei contadini, fosse messo un rappresentante degli agrari. E l’uomo che è oggi al dicastero della giustizia dà in effetti la garanzia che non vi sarà giustizia per i contadini del Mezzogiorno.

Ancora, notate che nel Gabinetto gli unici Ministri meridionali sono l’onorevole Grassi e l’onorevole Scelba. Anche qui siamo ritornati alla politica classica del blocco industriale agrario. In questa politica i Ministri meridionali devono essere accuratamente esclusi dalle posizioni chiave economiche; devono essere messi nel Governo per fare i poliziotti, per cercare di impiantare in tutta Italia, se ci riescono, i metodi dei «mazzieri» pugliesi e dei «mafiosi» siciliani. Gli onorevoli Scelba e Grassi hanno fatto tutto il possibile per assolvere questo compito. (Applausi a sinistra).

L’onorevole Scelba ha risposto alle agitazioni dei contadini meridionali con delle manovre intimidatorie; con olimpica indifferenza egli ha ascoltato le interrogazioni e le interpellanze che gli sono state rivolte. Egli mi ha ricordato sempre (mi dispiace che non ci sia l’onorevole Giannini che vi potrebbe illuminare in proposito) una vecchia caratteristica figura napoletana: l’amico del marchese di Caccavone, il duca di Maddaloni, che parlando di un Ministro di allora diceva che «il Ministro dell’interno – ha di Dio le qualità. – Egli è provvido, egli è eterno – e sa solo quel che fa».

Ma c’era ancora qualche cosa di più: per stabilire e consolidare al Governo il blocco industriale agrario, non era necessario soltanto mettere nelle posizioni-chiave uomini – non voglio fare dello scandalismo, ma farò un’analisi politica – come l’onorevole Pella e l’onorevole Cappa ed altri, i quali rappresentano determinate sfere di interessi, che non sono certo quelli del Mezzogiorno e non sono certo nemmeno quelli delle masse popolari del Nord.

Non bastava questo. L’amico Merzagora si è lamentato con me, perché una volta un manifesto, un giornale comunista, aveva scritto che la sua signora era figlia dell’armatore Cosulich…

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Mi avete dato due mogli! (Ilarità – Commenti al centro).

SERENI. Voglio dare pubblicamente atto al dottor Merzagora che questo è stato dovuto ad un errore. Del resto, gli armatori sono già sufficientemente rappresentati al Governo dall’onorevole Cappa, e non vi sarebbe stato nessun bisogno di ulteriori rappresentanze; non abbiamo perciò nessuna intenzione di costringerti a sposare la figlia di Cosulich.

Però, sebbene io sia un tipo portato per temperamento a credere sempre alla buona fede degli avversari, un tipo piuttosto ingenuo (Commenti al centro), non arrivo nella mia ingenuità a pensare che il dottor Merzagora sia stato chiamato a far parte di questo Governo proprio nella sua qualità di nostro vecchio collaboratore nel Comitato di liberazione alta Italia. Nel Governo vi era già il Presidente di quel Comitato, l’onorevole Morandi, e non vi era quindi nessun bisogno del dottor Merzagora. Io credo, piuttosto – me lo suggerisce la mia ingenuità – che egli sia stato chiamato al di fuori di ogni considerazione personale, perché era dirigente di una delle maggiori industrie, di uno dei maggiori gruppi monopolistici italiani. È questo, a parte ogni valutazione personale, risponde ad un determinato piano che l’onorevole De Gasperi, per la prima volta, bisogna dire, aveva sviluppato in un senso veramente conseguente; forse perché questa volta la composizione del Governo poteva realizzarsi su linee che rispondevano più ai suoi sentimenti.

L’entusiasmo col quale il nuovo Governo è stato accolto nel Mezzogiorno da tutti i borsaneristi, dagli speculatori e, in particolar modo, da tutti gli agrari, ha dato luogo a scene di vero tripudio. La libertà che questi egregi signori erano così fieri di aver riconquistato col nuovo Governo è la libertà alla quale inneggia, nella «Tempesta» di Shakespeare, Calibano ubriaco. Ricordate? Sciolto ormai da ogni vincolismo, direbbe un liberale, in quella famosa scena Calibano si scatena in una danza frenetica, balbettando nell’ebbrezza:

‘Ban,’Ban! – Ca – Caliban!

Get a new master – Get a new man!

«Un nuovo padrone! Un uomo nuovo!» Quello che faceva la parte del nuovo padrone di Calibano, la parte del marinaio Stefano, in questo caso sarebbe stato l’onorevole De Gasperi.

Era una scena veramente commovente, ma bisogna dire che adesso questi entusiasmi si sono un po’ calmati, perché persino quei signori si sono accorti che il nuovo padrone crea grossi rischi.

Questa composizione di un Governo, caratteristica del blocco industriale-agrario, in cui tutte le posizioni chiave sono affidate ai rappresentanti degli industriali del Nord, mentre i rappresentanti del Mezzogiorno sono confinati nella posizione di poliziotti, non sarebbe stata completa se l’onorevole De Gasperi non avesse trovato un’altra maniera di offendere il Mezzogiorno e di offendere la democrazia.

Badate, io non voglio giudicare il Ministro Corbellini, che non conosco personalmente. Non ho niente contro di lui e voglio ammettere senz’altro che sia uno dei migliori competenti tecnici. Voglio dire: che cosa significa questa operazione politica che l’onorevole De Gasperi ha fatto servendosi dell’onorevole Corbellini? Ognuno di noi, nel Ministero che ha diretto, ha utilizzato uomini con precedenti…

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Ma non avevo nessuna carica politica, nessuna! È tutto falso! Dimostrate che io ero sempre della milizia! È tutto falso! Dimostrate! Altrimenti potrei darvi querela per diffamazione! Avanti, dimostrate! (Commenti – Scambio di apostrofi fra il centro e la sinistra).

SERENI. Se l’ingegnere Corbellini smentisce questo, glie ne do atto; ma, l’onorevole De Gasperi – quando l’onorevole Togliatti parlò dei precedenti dell’ingegnere Corbellini – l’onorevole De Gasperi non fece nessuna smentita di questo genere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Ma nessuno aveva detto che ero ufficiale della milizia. (Interruzioni – Scambio di apostrofi fra il centro e la sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi di tutti i settori, permettano che continui la discussione.

SERENI. Onorevoli colleghi, mi pare di avere premesso e lo ripeto anche adesso, che in quello che io dico c’è lo scopo (non ho nessuna intenzione di insultare alcuno), c’è semplicemente lo scopo di fare un’analisi politica. Se quanto ha detto l’ingegnere Corbellini risponde a verità, io avrei voluto che l’onorevole Presidente del Consiglio l’altra volta lo avesse smentito, ma a dire il vero non venne nessuna smentita, il che può dunque far credere ad una conferma. Ma si tratta di tutt’altro. Quel che qui m’interessa è rilevare obiettivamente il senso dell’operazione condotta a termine dall’onorevole De Gasperi. Da molti mesi al Ministero lavorava in qualità di Sottosegretario una persona evidentemente idonea, l’onorevole Jervolino; ma l’onorevole Jervolino era soltanto napoletano, mentre qui si trattava di compiere un’altra operazione politica attraverso una nomina che doveva rappresentare un legame di questo Governo del blocco industriale agrario con quell’apparato dell’alta burocrazia fascista, la quale ha una lunga esperienza nel maneggio degli interessi del blocco stesso.

Certo, qualche volta questo maneggio si poteva svolgere sotto il fascismo in forme più drastiche; gli operai non avevano allora conquistato la cattiva abitudine di scioperare per difendere i propri diritti. La realtà è che noi assistiamo, ad opera di questo Governo, ad un rapido processo di rifascistizzazione negli alti gradi. Dobbiamo constatare che l’onorevole De Gasperi preferisce vedere, alla testa di importanti amministrazioni, uomini che hanno l’esperienza fascista, piuttosto che altri, che abbiano l’esperienza caratteristica degli uomini politici democratici.

Guardiamo agli effetti di questa politica. Non farò che una rapida scorsa. Anche qui io non parlo di intenzioni o di cattive intenzioni. Si tratta di risultati che derivano dalla struttura stessa del Governo. Ricordano l’amico Cacciatore, l’amico Gullo, l’amico Segni che quando in Consiglio dei Ministri si parlò di regime per il burro e di regime per l’olio, i Ministri meridionali dicevano: Si fa questo per il burro, ma che cosa accade per l’olio del Mezzogiorno? Non abbiamo mai trovato, bisogna riconoscerlo, una ostilità preconcetta nei colleghi settentrionali; e vi era allora, in Consiglio dei Ministri, qualcuno che portava la voce del Sud. Non è d’altronde per un caso, e non è nemmeno per merito personale che il compagno Cacciatore, il compagno Gullo, che chi vi parla eravamo stati messi dai nostri partiti nel Governo; bensì perché i partiti dei lavoratori, in questo periodo storico, hanno compreso che la soluzione della questione meridionale, della rappresentanza degli interessi meridionali è un elemento essenziale della ricostruzione…

Una voce al centro. Perché non se ne è ricordato lei quando era ai lavori pubblici?

SERENI. Ne parlerò subito. L’onorevole Morandi è stato l’organizzatore della Società per lo sviluppo del Mezzogiorno. (Interruzione al centro).

Uno degli atti più importanti del terzo Gabinetto De Gasperi, era stata la costituzione di una sezione meridionale del Comitato italiano della ricostruzione. Questa sezione meridionale aveva portato a conclusione nel breve periodo della sua attività, tre importanti decreti: il decreto per l’irrigazione delle Puglie, il decreto per l’Ente della Sila e quello per l’Ente elettrico siciliano. Ma ahimè! Col nuovo Governo, nella sua atmosfera nordista, il C.I.R. meridionale pare sia morto di inedia, perché nessuno se ne è più occupato.

Aumento del prezzo del pane. Anche qui ci troviamo di fronte ad un provvedimento che colpisce in modo particolare differenziato masse lavoratrici e disoccupati del Mezzogiorno che non hanno possibilità di rifarsi attraverso quelle forme che qualche volta, sia pure in parte, servono per i lavoratori industriali del Nord.

E vengo ai lavori pubblici. Nella mia attività di Governo – e l’ho detto pubblicamente e qui – mi sono trovato di fronte a questa situazione: che tutta la legislazione italiana del dopo-guerra era necessariamente impostata sulle riparazioni ai danni di guerra.

La grande maggioranza dei fondi stanziati per il Ministero dei lavori pubblici era attribuita ai danni di guerra. Ora, io ho rilevato – in pubblici Congressi e in riunioni al Consiglio superiore dei lavori pubblici ed al Consiglio dei Ministri – che era necessario un nuovo orientamento, e che quella inferiorità storica in cui il Mezzogiorno era stato mantenuto doveva essere alleviata, sia pure tenendo conto delle necessità dovute ai danni di guerra.

C’era una unica fonte, attraverso la quale potevano darsi stanziamenti per i lavori pubblici del Mezzogiorno: i fondi per la disoccupazione. Con la migliore volontà, qualsiasi Ministro era nell’impossibilità di assegnare stanziamenti a quelle città che non avessero il 40 per cento di danni. Il problema avrebbe dovuto essere discusso in Consiglio dei Ministri in sede di discussione del nuovo bilancio.

Non voglio prendere la difesa dei lavori della disoccupazione come tali. Credo di essere riuscito, dopo l’amico Romita, a liquidare quei famosi lavori a regìa di Roma; credo di avere fatto uno sforzo non piccolo, perché c’erano 60 mila disoccupati a Roma. Siamo riusciti a eliminare questo grave danno per la vita politica romana e per la vita finanziaria dello Stato. Ma, col nuovo governo, gli stanziamenti per la disoccupazione sono stati addirittura aboliti. Non so come il collega onorevole Tupini se la caverà per venire incontro ai bisogni del Mezzogiorno. Occorre sanare questa situazione: dobbiamo avere delle leggi che permettano di dare nel nuovo bilancio stanziamenti per la ricostruzione meridionale. A questo proposito non posso non rilevare che mentre in questo campo si è provveduto con un rigore veramente drastico all’arresto del torchio, non si è provveduto nello stesso modo a proposito del fatto scandaloso della revisione dei prezzi.

L’onorevole Campilli, che avrà i suoi difetti come ciascuno di noi, da buon romanaccio aveva tuttavia una certa sensibilità per i problemi del Mezzogiorno. D’accordo con lui mi rifiutai – e lo dissi pubblicamente e in Consiglio dei Ministri – di firmare certe proposte preparate dal Ministero nei confronti della revisione dei prezzi. Come ha fatto l’onorevole Romita, io ero intervenuto con numerose circolari a dichiarare che nessuna revisione dei prezzi dovesse essere pagata agli imprenditori finché non si fosse constatato che erano effettivamente pagati gli aumenti di salari. Non si tratta, onorevole Tupini, di quel che ella ha fatto scrivere sul Popolo. Nessuno ha mai negato che la revisione dei prezzi è necessaria; ma si tratta di stabilire che la revisione dei prezzi viene operata soltanto se vengono pagati gli aumenti di salari. Quando ebbi l’onore di accompagnare il Presidente della Repubblica a Cassino, potemmo constatare – ed io l’ho constatato anche in molti altri luoghi – che gli operai non ricevevano che un salario di misere 150 lire, mentre si pagava la revisione dei prezzi agli appaltatori sulla base di un salario di 400 lire giornaliere. Questo scandalo, al quale Romita prima, e poi io, credo con maggior decisione, abbiamo cercato di porre un termine, è stato ristabilito con un sol tratto di penna dall’onorevole Tupini. Noi denunciamo questo Governo come un governo che sa bene stringere i freni e fermare il torchio, quando si tratta di andare contro gli interessi dei lavoratori e contro quelli del Mezzogiorno in modo particolare, ma che li apre e li mette in moto a gran velocità quando si tratta di andare a favore di gruppi di grandi speculatori ed appaltatori.

Non parlo poi dell’imposta patrimoniale e degli effetti che essa ha sul Mezzogiorno, così come è stata approvata, vale a dire rifiutando la proposta dell’abolizione del segreto bancario. Questo significa che l’imposta patrimoniale verrà pagata soprattutto dalla proprietà terriera ed in particolar modo dal Mezzogiorno in cui essa è la forma dominante di proprietà. (Interruzioni al centro).

Una voce al centro. Perché, nelle altre parti d’Italia non c’è proprietà terriera?

SERENI. Se voi conosceste almeno elementarmente la struttura economica dell’Italia, sapreste che la percentuale della ricchezza terriera sulla ricchezza complessiva è nel Mezzogiorno assai più alta che nel Nord. Fareste bene ad andare a scuola. (Proteste al centro).

Voglio accennare poi al problema della valuta libera. Anche questi provvedimenti colpiscono in modo gravissimo non solo i lavoratori, ma il Mezzogiorno preso nel suo complesso. Ognuno di voi sa che la bilancia commerciale del Mezzogiorno con l’estero è una bilancia passiva. Questo vuol dire che quando i setaioli e i lanieri di Milano, di Biella e del Veneto esportano i propri prodotti, nella misura in cui almeno una parte del ricavato valutario va ad un fondo comune, le esigenze valutarie del Mezzogiorno possono essere sodisfatte; se invece, come ora, si lascia in misura molto maggiore la libera disponibilità della valuta agli esportatori industriali del Nord, il Mezzogiorno non avrà la valuta necessaria per sodisfare le più elementari esigenze valutarie delle sue importazioni industriali e agricole.

Non parlo poi di altre misure che colpiscono soprattutto il Mezzogiorno. Vedi, ad esempio, il fatto dei ridotti stanziamenti per le bonifiche. Faccio rilevare che come Ministro dei lavori pubblici, pur avendo interesse a tutelare le disponibilità del Dicastero che dirigevo, non esitai, in Consiglio dei Ministri ed in pubbliche riunioni, a dichiarare che ero pienamente d’accordo nell’aumentare il bilancio del Ministero dell’agricoltura a spese del bilancio dei lavori pubblici, perché si tratta di un’opera altamente produttiva che va a particolare profitto delle regioni meridionali. Anche qui si sono fatti decisi passi indietro anziché avanti. Non parlo poi di quello che avviene nelle aziende meridionali dell’I.R.I., a proposito della cui tragica situazione abbiamo chiesto un colloquio al Ministro del tesoro.

Questo è il frutto della politica di questo governo nel Mezzogiorno; frutto non di errori tecnici ma di una determinata struttura del governo dal punto di vista sociale e di classe e dal punto di vista regionale. Frutto di un governo che cerca di ristabilire al potere il blocco industriale-agrario che il popolo italiano ha cacciato via dal potere con la fine del fascismo. È un governo che, obiettivamente considerato, al di fuori di ogni buona o cattiva intenzione di chi lo compone, ha la sua punta rivolta soprattutto contro il Mezzogiorno. E questa caratteristica antimeridionale dei governi del blocco industriale agrario la rilevava non solo il comunista Gramsci, o l’azionista Guido Dorso, la rilevava anche Don Sturzo.

Per questo, onorevoli colleghi, noi pensiamo che il voto dei deputati meridionali, a qualunque partito essi appartengono, debba essere un voto di opposizione al Governo. Sappiamo che non da parte di tutti i deputati meridionali lo sarà, ma sappiamo che l’opposizione è per il Mezzogiorno oggi una necessità di vita che va al di sopra delle ideologie dei partiti.

Il Mezzogiorno è stato sempre, da quando esiste l’unità italiana, all’opposizione. Era all’opposizione quando votava per la sinistra storica; era all’opposizione anche quando la sinistra storica andò al potere; era all’opposizione quando gli «ascari» votavano in un determinato senso nel Parlamento italiano, ma quando già in forma primitiva i contadini del Mezzogiorno, gli abitanti dei centri popolosi, i braccianti, assaltavano i casotti del dazio. Una forma primitiva, spontanea, elementare, distruttiva di opposizione, allora. Era all’opposizione, il Mezzogiorno, sotto i governi di coalizione democratica perché l’opposizione del Mezzogiorno, anche con un Governo di coalizione democratica, è una necessità di vita. Era all’opposizione con l’uomo qualunque, era all’opposizione con i blocchi del popolo…

Ma, storicamente questa opposizione del Mezzogiorno è stata spesso sterile perché era un’opposizione che non si inquadrava su un piano nazionale. Oggi l’opposizione del Mezzogiorno non è più isolata ma si inserisce in un quadro assai più largo e nazionale. È l’opposizione che si inserisce nel quadro della lotta che le masse democratiche del Nord e del centro Italia, gli operai, gli intellettuali, la piccola borghesia, conducono oggi contro questo Governo. È una lotta che potrà avere qui, immediatamente, sul terreno parlamentare, questo o quell’esito. Noi guardiamo con grande interesse a questa lotta del Parlamento, ma sappiamo che questa non sarà ancora l’ultima parola; vi saranno altre lotte in Parlamento e nel Paese, alle prossime elezioni.

Il nostro sforzo sarà diretto a portare, al di sopra delle posizioni di partito, per gli interessi del Mezzogiorno, in una forma sempre più coerente, più chiara, più organizzata, sul piano democratico, il Mezzogiorno all’opposizione. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Piccioni. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Onorevoli colleghi, io vorrei provarmi a ricondurre la discussione, così grave e così impegnativa, ai suoi termini essenziali. Dopo alcuni giorni di larga, diffusa discussione, che ha spaziato un po’ in tutti i campi della politica, dell’economia, della finanza, della storia, della sociologia, direi perfino della filosofia, dopo questo largo, abbondante discettare, mi pare che sia doveroso da parte nostra rintracciare i termini sostanziali del dibattito. Non già che io non sia sensibile a questo sforzo che viene fatto dalle tempre politiche più preparate di allargare i dibattiti secondo visioni e prospettive storicamente più elevate e più vaste. Ma io ritengo che quando il Paese è impegnato, come è impegnato oggi, in una dura lotta per la difesa della sua esistenza, i problemi vanno visti e ricondotti alla loro nuda e cruda essenza. In altra sede si può dare sfogo con diletto reciproco alle varie elucubrazioni storiche, filosofiche o sociologiche, ma in questa sede prettamente politica, dove ciascuno di noi ha una sua specifica, personale responsabilità, bisogna delineare nella maniera più netta, più semplice e comprensibile, i problemi politici nazionali.

Detto ciò io vorrei ricordare l’origine di questo Governo e delle critiche che si muovono alla sua azione, perché mi pare che sia stato un punto non sufficientemente messo in evidenza. È vero che costituì l’oggetto della larga discussione di tre mesi or sono, ma bisogna per un giudizio complessivo sull’attività varia del Governo, non perdere di vista questo determinato punto di partenza per dedurne le rispettive responsabilità.

Ora, onorevoli colleghi, questa formula di Governo è nata dal fallimento di un anno di esperienza di Governo tripartito. Fallimento dovuto a che cosa? Dovuto probabilmente alla incapacità funzionale ed organica di quella determinata formula tripartitica. È comodo dire oggi, come già fu detto allora, che il fallimento fu dovuto all’insufficienza della direzione di Governo, quando la direzione di Governo, in una combinazione di quel determinato genere, era necessariamente, direi fisiologicamente, condizionata alla stessa costituzione tripartitica del Governo. Il risultato maggiore dell’esperimento tripartitico fu, nella più benevola delle conclusioni, una forma di paralisi dell’attività di Governo che andava via via crescendo. Fu la ripercussione nell’ambiente del Paese, nella valutazione generale dell’opinione pubblica di questa paralisi, di questa insufficienza ed inefficienza del principio di unità e di forza di un Governo così fatto. Ed allora, poiché non si deve credere, onorevoli colleghi, che la Democrazia cristiana sia veramente un partito così famelico di potere come da alcuni si è inteso, la Democrazia cristiana stessa propose di adottare una formula di Governo diversa, fino al punto da rinunciare preventivamente alla direzione di un Governo diversamente costituito.

E si affacciò, come voi sapete, la formula di un Governo a larga base, di concentrazione nazionale. Ma questa formula raccolse l’ironia, se non il dileggio, di un esponente di una parte politica del Parlamento, dell’onorevole Nenni. Ricordo un suo primo discorso a Venezia all’indomani di una tale formale proposta; discorso nel quale egli ironizzava e dileggiava un tentativo di questo genere, dicendo che il tipo preferibile nell’interesse del Paese era quello della forma tripartitica o qualche cosa di simile.

E se il tentativo, quel tentativo non riuscì, nessuno ha potuto seriamente addebitare ciò a manovre, a insidie, a opposizioni diverse della Democrazia cristiana. Fallito quello, che cosa rimaneva? Tornare al tripartito, no. La Democrazia cristiana, su questo punto, fu esplicita e impegnativa: no, per il modo come il tripartito aveva funzionato, per gli effetti negativi che ne erano derivati, per impedire che, attraverso il tripartito, si consolidasse in Italia il predominio di una determinata corrente politica di minoranza.

E allora si ripiegò su una formula diversa, su una concentrazione diversa, la quale fallì non per difetto, al solito, della Democrazia cristiana, ma per una certa strana, insistente discordia di quella che allora fu detta spiritosamente la piccola intesa delle forze democratiche del centro sinistra. Questi sono elementi di fatto storicamente oggettivi e precisi, ai quali non si può, a mio avviso, opporre contestazione.

E allora la Democrazia cristiana – piaccia o non piaccia, dolenti o nolenti – siccome rappresenta qui, rappresenta nel Paese, il blocco più forte di energie politiche, rappresentative di larghissime zone dell’opinione pubblica, sentì, al di sopra e contro quella vaga debolezza costituzionale che da più parti veniva abbondantemente rimproverata alla Democrazia cristiana e sulla quale si speculava anche notevolmente nella funzionalità e nello sviluppo del tripartitismo, sentì che era venuto il momento di affrontare in pieno questo suo impegno, il quale derivava da un mandato esplicito e preciso che larghe correnti dell’opinione pubblica avevano ad essa affidato. (Interruzione dell’onorevole Lussu).

Non si tratta di orgoglio smodato dell’onorevole De Gasperi, a cui si rimproverano non so quali propositi reconditi di ambizioni sfrenate, personali, in contrasto anche con quello che sarebbe il sentimento unanime, generale del suo partito, che riconosce sempre in lui il massimo esponente, che del partito ha assunto, nelle ore più decisive di questa nuova storia democratica, le maggiori responsabilità (Applausi al centro), in perfetta consonanza con lo spirito, il sentimento e la volontà delle masse democristiane. Si è pensato a non so quale smodato orgoglio o ambizione della Democrazia cristiana.

Ma voi, onorevoli colleghi, potete stimarci così poco, giudicarci così infantili, o ciechi, da ritenere che in una situazione politica, economica, sociale, alimentare, come quella in cui si dibatte l’Italia, sia nostra brama quella di assumere, di assommare in noi soli le massime responsabilità della azione del Governo?

E pure noi avemmo il coraggio di assumerle, e di assumerle attraverso una formula i cui termini devono essere ribaditi oggi, per evitare che si equivochi su di essa e presso qualsiasi settore della Camera. La formula fu questa: la Democrazia cristiana, per la sua forza parlamentare e nel Paese, assume essa in pieno la direzione di tutta la politica del Governo. Chiede che cosa? Il contributo, l’apporto di elementi tecnici, anche appartenenti ad altri partiti. Implicando con ciò che cosa? La solidarietà politica dei partiti, ai quali gli elementi tecnici eventualmente collaboranti con la Democrazia cristiana appartenessero? No! Questo è stato detto e ridetto nelle prime comunicazioni e nelle ultime dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Era un apporto di elementi tecnici dal punto di vista della collaborazione attiva, effettiva all’assieme del Governo. La responsabilità politica, la fiducia dei Gruppi eventuali a cui essi appartenevano sarebbe stata o un segno di preventiva fiducia, di preventiva stima nell’azione di un Governo siffatto, o il risultato di quello che sarebbe stato il giudizio sull’azione del Governo medesimo. E non ci furono trattative di programmi di nessun genere, con nessun Gruppo, neanche con quelli dei quali qualche membro partecipa al Governo. Non ci fu un impegno di concedere, di voler concedere, o di dare qualche cosa, nel programma o nell’azione, ad una formazione o ad un’altra che fosse disposta ad appoggiare il Governo; ci fu l’assunzione piena, aperta della responsabilità politica del Governo da parte della Democrazia cristiana. Questa responsabilità politica, oggi che ci avete chiamati a rendere conto, la manteniamo e l’assumiamo in pieno, senza condividerla con nessun altro Gruppo politico, di nessun colore o tendenza. (Applausi al centro).

Onorevoli colleghi, per il giudizio che vi accingete a dare sull’azione del Governo, io ricorderò che vi sono stati 79 giorni di azione di Governo effettiva. Il voto di fiducia a questo Governo fu dato il 21 giugno; il 9 settembre è stata presentata la mozione di sfiducia, con la richiesta di immediata discussione. Facendo i conti, si riduce – l’azione di Governo – a 78-79 giorni, intervallati da che cosa? Almeno dal Ferragosto, se mi consentite; intervallati da un’altra situazione politica particolare, dalla discussione cioè sulla politica estera e sulla ratifica del Trattato, la quale discussione tenne il Governo per 10-12 giorni in condizioni di non sapere se era al di qua o al di là, cioè tra la vita e la morte, come volgarmente si dice. E in quella discussione, se voi ben ricordate, la caratteristica bene individuata della responsabilità della Democrazia cristiana apparve in tutta la sua luce ed in tutta la sua pienezza. Ci fu un Gruppo, il Gruppo liberale, che ha dato al Governo apporti di alto valore tecnico – il quale Gruppo liberale si è orientato, indipendentemente da qualsiasi accordo preventivo, cioè in modo libero e autonomo anche nella impostazione della discussione odierna – che fu di parer contrario a quello del Governo.

Ci fu il Gruppo qualunquista che fu anch’esso di parere contrario. Ci furono Gruppi di opposizione che si comportarono ben diversamente. Questa è la riprova evidente che nessun impegno di solidarietà politica formale esisteva ed esiste alla base della costituzione del Governo. Ora – è un’osservazione banale; ma forse fra tante osservazioni di alta elucubrazione scientifica o pseudoscientifìca qualche osservazione banale pure ci vuole – consentitemi questo rilievo: volere formulare un giudizio definitivo attraverso tali vicende, attraverso questo periodo di tempo di 70-80 giorni di attività svolta nel modo che tutti sanno, onorevoli colleghi, permettete che io dica, mi sembra un po’ eccessivo e un po’ presuntuoso, tanto più in quanto l’attacco sostanziale viene mosso sul terreno economico finanziario.

Anche quelli che non sono ben addentro a questi intricati e difficili problemi, sentono che il problema economico finanziario ha bisogno di un certo periodo di tempo perché la direttiva si precisi, perché la manovra funzioni e dia risultati. Mi pare indispensabile da parte specialmente di chi prevede, come direttiva da imprimere alla situazione economica finanziaria, un impulso addirittura a largo respiro, uno sforzo programmatico in senso prospettico e a lunga portata, addirittura un piano. Ed infatti l’onorevole Nenni stesso, che ha presentato la mozione di sfiducia incentrandola essenzialmente su questo terreno, per non distaccarsi troppo da quello che deve essere il contatto con la realtà di qualsiasi uomo politico, specialmente se responsabile verso partiti di masse, premette a tutta la sua critica un’osservazione di carattere generale che è addirittura svalutatrice della sua impostazione. Riconosce che sussiste «una situazione di fatto allarmante la quale non dipende dal colore di Governo. Questa situazione ereditata dal fascismo, difficilmente modificabile da qualsiasi Governo, deve essere sottolineata», ecc. (Commenti a sinistra).

Questa la constatazione di fatto, questo il rilievo di una situazione che trascende qualsiasi possibilità e qualsiasi impegno decisamente risolutivo di un Governo monocolore o multicolore. L’esperimento lo avete fatto voi stessi stando per così lungo tempo al Governo senza aver contribuito a modificare sostanzialmente quell’allarmante situazione di fatto. E poiché pensate che se dovesse verificarsi un vostro ritorno di qualsiasi genere al Governo, la situazione di fatto si imporrebbe anche a voi, o a chi per voi, giustamente mettete le mani avanti per dire che quella situazione è qualche cosa che supera le capacità e le buone intenzioni di chicchessia. Ora, di questo elemento voi dovete dar atto anche all’azione di un Governo che si è mosso come si è mosso, ed in questo breve periodo di tempo in cui ha potuto lavorare. Non dovete rimproverare, come avete fatto, onorevole Nenni, che gli impegni assunti dal Presidente del Consiglio nelle sue comunicazioni non siano stati tutti mantenuti. Gli impegni sono stati mantenuti nella misura che le condizioni di una determinata situazione hanno consentito, così come quando eravate voi al Ministero, ciascuno nel proprio dicastero si poneva dei compiti e suggeriva delle soluzioni a questo o quel problema a ciascun dicastero pertinente, senza riuscire in definitiva a fare quello che ciascuno di voi avrebbe voluto fare. Io non voglio discutere partitamente i vari problemi di carattere economico-finanziario, anche perché abuserei in un certo modo della mia particolare situazione politica. Ne hanno parlato alcuni membri del Governo, altri ne parleranno. Io ripeterei male quello che essi hanno detto e non aggiungerei nulla di maggior peso politico a quello che i Ministri stessi hanno detto o diranno.

Dirò soltanto all’onorevole Togliatti che la sua impostazione di sfiducia è stata più specificatamente politica, condotta secondo una determinata valutazione della politica interna di questo Governo, ma anche a lui ricorderò, se me lo consente, cosa che d’altronde ha fatto da sé, che i fatti da lui lamentati erano in fondo la sostanza di una interpellanza presentata prima che l’Assemblea Costituente si mettesse in vacanza. Erano quindi fatti di un determinato momento politico ed avevano una particolare rilevanza tale, da suggerire la formulazione di una interpellanza, non di più. Egli ha detto: Siccome ora c’è la mozione di sfiducia di Nenni, perché non si elevi una suspicione contro di me, io ho trasformato l’interpellanza stessa in una mozione di sfiducia. Questo stesso fatto riduce l’importanza delle cose denunciate. E difatti io non vorrei far torto all’intelligenza politica dell’onorevole Togliatti, supponendo che egli ritenga veramente che i provvedimenti sui manifesti, i provvedimenti sui comizi di fabbrica, i provvedimenti su alcune amministrazioni comunali deroganti dalla legge, siano nel loro complesso indice di una politica interna limitatrice delle libertà democratiche e tale quindi da richiedere addirittura il rovesciamento di un Governo che si permette delle cose di questo genere.

L’onorevole Togliatti, che ha anche lui il senso dello Stato, ha ricordato che il Governo è fatto per governare e deve governare; e governare non significa soltanto favorire quelli della propria parte. Noi veramente non ci stiamo accorgendo di cosa di questo genere. Non so se esponenti di altri partiti abbiano in precedenza seguito un metodo e risultati di tale natura. (Approvazioni al centro – Commenti).

Ora, governare significa in termini usuali, evidentemente, niente altro che imporre il rispetto della legge e mantenere alto il prestigio del Governo. Io non so quale pratica di Governo possa essere quella che richieda in chi deve governare una salda autorità di Governo ed esponga nel medesimo momento chi governa per diritto democratico al dileggio o al vilipendio propagandato e organizzato. (Applausi al centro).

Io non so se il governare, in regime democratico, debba significare altro che non questo: mantenere il prestigio della legge, l’autorità del Governo, la garanzia delle libertà di tutti, il rispetto delle minoranze soprattutto. Ora, nei provvedimenti che si rimproverano all’onorevole Scelba, questo significato politico è presente in ciascuno di essi, cioè vi si salvaguarda il prestigio del Governo, si garantiscono le libertà di tutti e non si limitano o si comprimono a favore di una parte qualsiasi. (Applausi al centro – Proteste a sinistra).

PASTORE GIULIO. I sindaci comunisti cosa fanno dei nostri manifesti?

PICCIONI. Voi che vivete la vita politica quotidiana del nostro Paese in tutte le latitudini d’Italia, vi siete veramente accorti, avete veramente sentito ed osservato che per l’intervento del Governo ci sia una così profonda limitazione delle libertà elementari democratiche di propaganda e di agitazione, fino al punto…

PAJETTA GIULIANO. Sono le masse che ve lo hanno impedito e ve lo impediscono. (Vivi commenti al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, non interrompa!

PICCIONI. …fino al punto da richiedere, per la salvezza del Paese, il rovesciamento di un Governo?

Ma se le agitazioni sono innumerevoli e si manifestano e ripetono quotidianamente e dappertutto, le agitazioni di ogni tipo, di tipo sindacale, di tipo misto sindacale-politico, e di tipo unicolore politico vero e proprio, con un’abbondanza veramente unica e con una illimitata libertà di movimento e di circolazione di tutte le forze organizzate in tutti i settori e in tutti i sensi tale da far veramente dire a chiunque che in Italia una così larga ed illimitata libertà, sotto tutte le sue forme, non c’è mai stata neppure nel periodo precedente al fascismo!

A proposito di queste agitazioni, poiché si è voluto anche bollare questo Governo come un Governo reazionario, come un Governo di destra capitalista, all’ombra del quale non so quali loschi interessi si nascondono per sopraffare gli altri legittimi interessi della collettività (Rumori a sinistra), vi dirò quel che ha già detto il mio partito ufficialmente, cioè che certamente il contributo dato con il moltiplicarsi delle agitazioni e degli scioperi al superamento di quelle che sono le profonde necessità economiche e finanziarie del nostro Paese, è stato un contributo assolutamente negativo. Basti ricordare un solo elementare episodio al quale accennava ieri il Ministro delle finanze: l’azione penosa, l’azione di critica eccessiva, per non dir peggio, verso l’imposta straordinaria sul patrimonio, e più specificamente verso la proporzionale 4 per cento, fino al punto da consigliare e suggerire in qualche modo un’evasione forzata a quelli che sono gli obblighi che l’imposta comporta, fino al punto da porre insieme in qualche plaga – seguendo uno schema, una tecnica organizzativa, di cui mi occuperò più tardi rispondendo all’onorevole Lussu – non so quali comitati di difesa della piccola e media proprietà, come se la piccola e la media proprietà in una situazione come l’attuale (vedete come cerco di essere il meno possibile intriso di spirito demagogico od animato da fini elettoralistici) dovesse essere esonerata da quello che è il contributo che da tutte le fonti di reddito deve venire per dare la solidità e la salute finanziaria allo Stato. Questo, per quanto si riferisce alle agitazioni.

Ma vi è la taccia di Governo di destra, di Governo reazionario, di Governo nero, ed altre denominazioni che si adoperano secondo il momento e l’opportunità. Orbene io dirò che tutte le agitazioni di carattere genuinamente sindacale, concreto, positivo, di rivendicazione ragionevole di diritti legittimi delle classi lavoratrici, hanno trovato consenziente non solo la democrazia cristiana, la corrente sindacale cristiana, ma l’azione del Governo; io dirò che le vicende agitatorie di maggior rilievo hanno trovato la loro soluzione, il loro sbocco attraverso l’intervento deciso, attivo e fattivo del Governo reazionario. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

E aggiungerò che se ad un certo momento non ci fosse stato l’intervento autorevole del Governo…

Una voce a sinistra. Ad un certo momento!

PICCIONI. Naturalmente, non ci poteva essere prima dell’inizio delle agitazioni! (Ilarità al centro).

Se non ci fosse stato l’intervento autorevole del Governo, io non so, onorevoli colleghi, quale sarebbe stata la conclusione effettiva di queste agitazioni e di questi scioperi; io non so, se un Governo veramente reazionario non avesse avuto interesse a non intromettersi in cose di questo genere, e lasciare che il conflitto economico e sociale diventasse conflitto vero e proprio politico nell’interno del Paese. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Questo il Governo l’ha fatto perché non è un Governo reazionario, perché è un Governo democristiano. E lasciate che vi dica una volta per tutte: la Democrazia cristiana (state tranquilli tutti, colleghi) non rinuncerà, in nessun modo, in nessuna forma, in nessuna misura, in nessuna occasione a quella che è la sua profonda caratteristica democratico-sociale. (Applausi al centro).

Noi sentiamo come vitale, per il partito nostro e per la nostra patria, questa ispirazione cristiana, che anima le nostre fatiche e la nostra attività. E in questa ispirazione cristiana (Interruzioni a sinistra. Proteste al centro) noi democratici cristiani sentiamo di avere questo caratteristico compito: di mettere in rilievo la profonda, intensa socialità dello spirito del Cristianesimo, operante nella vita collettiva. Noi tradiremmo la nostra fisionomia sociale e politica, tradiremmo la nostra coscienza di democratici cristiani che si è venuta formando ed elaborando non così improvvisamente, repentinamente come qualcuno mostra di credere, ma attraverso lunga meditazione, lunghi studi, lunghe riflessioni e lotte, noi tradiremmo questa nostra missione, questo nostro compito specifico se, per qualsiasi sfruttamento politico particolare, non tenessimo sempre presente questa profonda esigenza di giustizia sociale. (Applausi al centro). Ma poi siamo anche comprensivi dello spirito animatore della evoluzione storica fino al punto da avvertire bene nei movimenti profondi della storia anche questa corrente inarrestabile di rinnovamento sociale. Noi non siamo agganciati a posizioni economiche o di privilegio di nessun genere, noi sentiamo che la marcia dell’umanità si deve svolgere, non può non svolgersi, se non verso un avvenire migliore di giustizia sociale nel senso pieno, nel senso integrale. (Approvazioni). E noi poi, se consentite, sappiamo anche un’altra cosa che è stata ricordata anche l’altro ieri: non vogliamo inorgoglirci anche perché non lo sapremmo proprio. Vedete, ci credono sempre superbi ed invece dobbiamo fare sempre delle esercitazioni di modestia; noi ricordiamo gli otto milioni di voti riportati il 2 giugno soltanto a questo titolo: per dire che in quegli otto milioni di voti quelli che voi pensate o qualificate come espressione di forze della reazione o della plutocrazia o del capitalismo di qualsiasi genere, non so se ce ne fossero, ma se ce ne fossero rappresenterebbero una frazione trascurabile dinanzi alla immensità dei lavoratori, di ogni ceto e categoria, che ci seguono. (Applausi al centro – Interruzioni a sinistra).

LEONE GIOVANNI. Avete il monopolio voi?

PASTORE GIULIO. A Milano c’erano 50 mila lavoratori e a Roma 100 mila lavoratori autentici.

PRESIDENTE. Non abbiamo nessun interesse di sentire polemiche di tale natura in questa Assemblea. Prego tutti, ed anche lei, onorevole Pastore, di fare silenzio.

PICCIONI. Ora, superata, a mio avviso, questa particolare questione di un Governo così qualificato, ne rimane un’altra che è stata ripetutamente sottolineata negli interventi degli scorsi giorni, che cioè si tratta anche di un Governo della discordia.

Non so di quale discordia si tratti; in ogni modo vorrei dire, non già per artificio polemico, ma perché è la verità, che la discordia per ora è vivissima nel campo di Agramante. (Si ride). Che le opposizioni, così come si sono schierate e si vanno schierando nell’Assemblea, sono in perpetua discordia fra di loro, è pur necessario che io lo rilevo.

L’opposizione comunista è quella che è, con le sue peculiari caratteristiche. E, di fronte all’opposizione comunista la quale pone a noi un cosiddetto problema di unità nazionale, noi rispondiamo, dobbiamo rispondere: ma di quale unità si tratta? Che cosa vuol dire la formula dell’unità nazionale proposta e sottolineata dal Partito comunista?

Guardate: io non sono di quelli che considerano il Partito comunista con più o meno leggera superficialità. Se posso dirvi qualche cosa al riguardo, debbo dire, per iscarico di coscienza, che una riflessione continua io porto sul senso storico, sul significato rappresentativo, sulle possibilità di sviluppo nella vita nazionale ed internazionale che possono derivare dall’una o dall’altra affermazione del Partito comunista.

Ma io vi dico che la formula dell’unità nazionale avanzata dal partito comunista riproduce un po’ stranamente la formula dei pur gloriosi Comitati di liberazione nazionale, ai quali non si può non ripensare, da chi ne ha vissuta la vita intima e fraterna, se non con ispirito di vera e sentita commozione. Ma se, onorevoli colleghi, lo sviluppo dei Comitati di liberazione nazionale, quella specie di linea, di prassi politica che si determinò in funzione dei Comitati stessi, si è ad un certo momento troncata, si è spezzata, a che cosa dobbiamo noi imputarlo? Dobbiamo imputarlo a un predominio prevalente e progressivo del Partito comunista in seno ad essi. Sta bene, questo è nella vostra prospettiva, sta bene, questo è nella linea tecnica della vostra politica: ma sta bene per voi, non sta bene per noi. (Vivi applausi a centro).

Questa strana formula di unità nazionale nella concezione comunista non può avere altro fondamento, specie per quello spirito messianico che il Partito comunista porta sempre nella sua azione e nella sua propaganda, non può avere, dicevo, altro fondamento se non quello di un predominio del partito stesso sui vari raggruppamenti di forze eterogenee, non può avere altro fondamento se non quello di determinare e collaudare gli strumenti che abbisognano al comunismo per la sua politica interna ed internazionale. (Approvazione al centro).

Ora è chiaro, onorevoli colleghi, che ad una soluzione di questo genere noi non possiamo aderire, come non possiamo aderire ad un’altra strana impostazione dell’onorevole Togliatti che io mi sono appuntato. Egli ha detto: ma guardate che si porrà, si pone ad un certo momento il problema del Partito comunista, che ha – egli ha detto – il 60 per cento della classe operaia (non delle classi lavoratrici); che insieme con i socialisti ha l’80% della classe operaia (non delle classi lavoratrici). Cosa volete fare di questo partito?

Se ho bene inteso, questa è stata l’impostazione dell’onorevole Togliatti.

Io risponderò che viviamo in sistema democratico, in una ripresa di vita democratica, che noi vogliamo salvaguardare con tutte le nostre forze: mancheremmo a tutta la nostra azione passata, a tutte le promesse e garanzie del periodo di liberazione, al nostro stesso dovere, se non fossimo i custodi rigidi e inflessibili dei principii e delle forme di un’autentica democrazia. Io vi dico, onorevole Togliatti, non esiste un problema del Partito comunista in sede democratica, così come non esiste un problema della Democrazia cristiana o del Partito liberale o di qualsiasi altro partito: sarà la funzionalità interna del sistema democratico, nel rispetto della sua legalità, che determinerà quello che è il posto e la funzione di ciascun partito. (Applausi al centro e a destra).

E ai socialisti cosiddetti fusionisti io mi permetto di rivolgere un’altra domanda, in cambio della loro impostazione, domanda che io rivolsi ingenuamente anche un paio di anni fa, ma che mi permetto di rinfrescare dopo le esperienze trascorse. Si lamenta la insufficiente articolazione nel quadro delle forze politiche italiane di una forza come il partito socialista, il movimento socialista. Lussu ha detto ieri: «Ma guardate che in tutti gli Stati democratici, in tutte le Nazioni democratiche dell’occidente Europeo, i socialisti sono al potere». E sta bene; ma non ci sono i comunisti al potere, ci sono i socialisti. E se il socialismo delle altre Nazioni occidentali europee ha superata quella fase nella quale ancora è invischiato il socialismo dell’onorevole Nenni, fino al punto da costituire una forza politica autonoma, che ad un certo momento può assumere anche la direzione politica del paese, non è colpa di noi democristiani, se in Italia ciò non è. È un fatto interno dell’evoluzione della crisi socialista, che è tuttora viva e permanente, e che deve trovare una sua soluzione definitiva e concreta, se vuole operare seriamente, profondamente per il risanamento della vita politica nazionale.

Ora, qual è la crisi? Onorevole Nenni, permettete che io esprima il mio pensiero in questo modo conversativo. Qual è la crisi? Che cosa significa il partito socialista fusionista? (Commenti a sinistra – Interruzioni).

VERNOCCHI. Deve smetterla, onorevole Piccioni, con questa faccenda e con questa frase!

PICCIONI. Sta bene: dirò il Partito socialista italiano. Che significato ha politicamente la posizione del Partito socialista italiano? Noi non vediamo nell’azione pratica divergenze apprezzabili, sostanziali, con l’azione pratica del partito comunista. Voi direte che è nell’interesse delle classi lavoratrici. Noi non vediamo una qualsiasi differenziazione nella impostazione dei problemi, nel significato dei problemi politici fra voi ed il Partito comunista. (Commenti a sinistra).

VERNOCCHI. Ma la classe operaia è la classe operaia, socialista o comunista!

PICCIONI. Ma allora, permettete, perché non arrivate alla fusione? Per ragioni di tattica elettorale o di manovre politiche di vario genere, non lo so. In ogni modo se così non è, dovrebbe apparire chiaro a tutti – poiché si chiede conto a tutti gli altri partiti in regime democratico di dichiarare e chiarificare le proprie posizioni – quali sono i motivi differenziatori fra voi partito socialista italiano e partito comunista. Se voi siete distinti e volete mantenervi distinti, vuol dire che c’è qualcosa che vi distingue, qualcosa che non vi accomuna. In che cosa consiste questo qualche cosa? Questo vogliamo sapere, per sapere se la critica nostra al partito comunista è una critica che abbia anche un certo riscontro in posizioni e atteggiamenti di altri partiti, di altre forme politiche che si ritengono più strettamente legate alle classi lavoratrici ed alle classi operaie. Credete voi che il partito comunista non sia autenticamente democratico, cioè non persegua la democrazia come sistema ma soltanto come tattica, come metodo, e voi invece aderite alla concezione della democrazia che si debba sviluppare come sistema permanente d’una determinata società politica nazionale, oppure vi trattengono altre valutazioni di carattere esterno, di carattere internazionale? Ma quali sono i motivi, se i motivi sul terreno sociale non si distinguono, se i motivi sul terreno politico non si vedono, per cui voi volete mantenervi distinti dal partito comunista?

È questa una richiesta che mi pare legittima e che mi pare non possa offendere nessuno. (Commenti a sinistra).

PERTINI. Abbiamo risposto tante volte!

PICCIONI. Lo richiedo tanto più in quanto accanto a voi c’è un altro partito socialista che questa critica svolge in termini risoluti e decisi. Su quali basi svolge la critica il partito che vi sta accanto e che si denomina anch’esso socialista? Su per giù sulle stesse basi sulle quali si svolge la critica nostra, sulla esigenza della custodia della libertà, di tutte le libertà democratiche, sulla esigenza dell’autonomia di qualsiasi movimento politico nazionale e da qualsiasi intervento di qualsiasi genere.

PERTINI. Noi le sentiamo molto profonde queste esigenze, e lei lo sa, onorevole Piccioni! Le sentiamo in modo profondo!

PICCIONI. Mi dovrete dare atto di questa nostra incomprensione dei motivi distintivi fra le esigenze vostre (se intese in questo senso) e l’esigenza del Partito comunista…

PERTINI. Possiamo essere distinti, ma uniti nell’azione. Noi difendiamo la nostra fede ed abbiamo ragione di difenderla! (Commenti).

PICCIONI. Ora vedete che in tutto questo ci sono delle posizioni concordemente discordanti o, viceversa, anche nelle zone più estreme dello schieramento oppositorio, vi sono problemi, o spunti di problemi, più profondi che non sono stati completamente chiariti. La impostazione chiarificatrice del Partito socialista dei lavoratori italiani non mi pare che abbia trovato sufficienti suffragi negli altri schieramenti politici almeno intesa come visione integrale che dovrebbe dominare e disciplinare la ripresa economico-sociale e finanziaria del nostro Paese. È anche questo un punto di distinzione, non voglio dire di contrasto, fra le varie posizioni, ma è un punto fondamentale, un punto sostanziale, se fu quello che in un certo senso determinò, almeno apparentemente nel maggio scorso, il naufragio di una formazione centro-sinistra.

Ora, nei confronti del mio partito debbo sottolineare quanto esso abbia superato le formule dell’empirismo liberistico di cui si sentì ieri sera favoleggiare. Noi sentiamo invece l’esigenza di una disciplina, di un controllo perché si riconnette con quell’esigenza dell’intervento del potere sociale che è lo Stato, per disciplinare, per regolamentare, per convogliare gli sforzi produttivi della collettività, a vantaggio della collettività nazionale. E poiché noi siamo anche fra l’altro pregni di realismo cattolico, se mi consentite una espressione di questo genere, dobbiamo dire agli amici del Partito socialista dei lavoratori italiani, che un problema, come quello a loro particolarmente caro va posto nella sua contemperanza con le possibilità materiali oggettive della situazione economico-sociale interna ed internazionale del Paese. La pianificazione dunque non va bandita come una formula magica che possa risolvere così gravi e pesanti problemi: ma se non va affacciata come una formula magica che può avere questo grande potere, non può, non deve costituire un motivo sostanziale di dissenso politico contingente fino al punto da dare uno o un altro indirizzo ad una determinata formazione di governo. Non bisogna dimenticare quello che tutti sanno: che se «piano» vuol dire programma – evidentemente più modesto o largo, più realistico o più illusorio – di un programma sono tutti armati; e quanti governi passati non hanno fatto programmi più o meno concreti, particolaristici o diffusi, con l’approvazione di tutti e quei programmi poi non hanno potuto attuare?

CALOSSO. Oggi l’Europa usa la parola in senso nuovo.

PICCIONI. In senso nuovo. Rifrazione o complemento del più vasto piano della ricostruzione europea, lo si chiami col nome che si vuole, ebbene quello è in corso di effettuazione. Se vuol dire interventismo statale fino al punto di operare risolutamente, direttamente, sulla ripresa economica e produttiva del nostro Paese nella fase più delicata di ricostruzione dei tessuti elementari, vi dico che degli interventi eccessivamente drastici non vi farebbero ottenere quello che voi vorreste. È questione di misura, di equilibrio. In ogni modo l’indirizzo sostanziale, fondamentale della civiltà moderna non può non essere un indirizzo come quello auspicato. Mi pare che lo stesso onorevole Corbino l’altra sera salutava nostalgicamente le vecchie luci del liberalismo economico ormai tramontante. Volete proprio che noi democratici cristiani ci si soffermi in nostalgie di questo genere; non si abbia gli occhi aperti di fronte a quelle che sono le necessità sociali; non si intenda la funzione altamente sociale del potere di uno Stato moderno, di uno Stato veramente e sanamente democratico? Quindi, non un punto di dissenso nella sua realtà e concretezza può essere un tema di questo genere.

Ieri ho sentito con una certa commozione gli accenti con cui l’onorevole Lussu salutava la dipartita del Partito d’Azione dalla scena politica italiana. L’ho sentito con una certa commozione; perché credo che nessuno possa essersi dimenticato l’apporto degli amici del Partito d’Azione, apporto di intelletto e di fede nelle forze democratiche, durante le vicende e i travagli degli ultimi anni, apporto fortissimo da essi dato specialmente al movimento di liberazione. (Applausi). Quindi parlerò col senso della più fraterna comprensione anche per gli amici del Partito d’Azione. (Interruzione del deputato Lussu).

Ma se devo constatare che gli esponenti del Partito d’azione si sono quasi quadripartiti o tripartiti, mettendo in difficoltà anche la materiale attuazione di una divisione di questo genere in rapporto al loro numero, lo dico per notare il contrasto ideologico e politico che c’è tra gli stessi esponenti di un partito che finora ha contribuito non poco all’insieme degli scambi intellettuali e alla valutazione di tutti i nostri problemi, per dire cioè che il contrasto delle varie opposizioni si riflette anche nell’interno di un piccolo partito. Lo dico per concludere sulla difficoltà della diagnosi e della terapia dei problemi in sviluppo e sulla insondabilità di alcune posizioni e di alcuni aspetti della crisi economica, sociale e politica del nostro Paese.

Sugli amici demo-laburisti – se mi consentite – sorvolerei (Si ride) perché…

MOLÈ. Accomodatevi pure!

PICCIONI. …effettivamente una caratterizzazione della loro dottrina politica e della loro prassi politica tale da poter essere esaminata e discussa, forse per mia ignoranza, non sono riuscito ancora a coglierla. (Ilarità – Commenti).

MOLÈ. Non è colpa nostra se quando non vi fa comodo non volete capire.

PICCIONI. Si è profilata ieri sera, durante la discussione, l’impostazione di un’altra opposizione al Governo. Non ho capito se si tratti di una opposizione incipiente o di una opposizione condizionale o condizionata.

Certo è che ciascun Gruppo, come ho detto da principio, senza rompere nessun patto e venir meno a nessun accordo, perché tali patti e tali accordi non sono mai esistiti, gode della piena libertà e possibilità dei suoi movimenti; e quindi nessun appunto, sotto tale riguardo, a questa impostazione, che poteva sembrare, nella superficiale valutazione di qualcuno, come scandalistica, verificatasi nella seduta di ieri sera. Debbo fare soltanto alcune brevi precisazioni. Io non voglio tediare ulteriormente l’Assemblea, ma debbo dire che gli appunti mossi alla Democrazia cristiana come partito, per i rapporti avuti con altri partiti, non debbono qui affliggere la Costituente e non mi perderò in discussioni di questo genere che non riguardano minimamente né la Costituente né la questione della fiducia e della sfiducia verso il Governo.

Sono questioni di carattere particolare, non del tutto esatte, anche nei termini concreti, così come sono state riferite, e che, se mai, possono concludersi con una sola affermazione ed una sola proposizione, cosa che del resto penso i colleghi dell’Assemblea avranno già fatto per conto loro: cioè che il Partito democratico cristiano si muove autonomamente, da solo, sotto la sua esclusiva spinta organizzativa e sotto la sua esclusiva responsabilità di partito. (Applausi al centro). Noi non cerchiamo il dirigismo o l’impulso al dirigismo di chicchessia. Noi ci qualifichiamo e vogliamo essere nella pratica politica quotidiana un organismo politico autonomo, individuato, forte di vita propria, non orgoglioso, non prepotente, non sopraffattore, non violento, ma vogliamo essere e rimanere democratici cristiani, e basta. (Applausi al centro).

Ed un’altra cosa mi occorre dire: che noi abbiamo altissimo il rispetto per le nostre convinzioni cattoliche e per le convinzioni cattoliche di qualsiasi altro cittadino italiano. Noi abbiamo detto, io ho ridetto anche l’altra sera ed ho voluto riaffermarlo pubblicamente, che non aspiriamo a nessun monopolio di rappresentanza politica dei cattolici italiani. Ma se i cattolici italiani, o colleghi, preferiscono essere rappresentati in questa Camera dai democratici cristiani anziché dai liberali o dai comunisti, evidentemente questo è un loro diritto sacro ed elementare che non può essere messo in discussione. (Applausi al centro). Ed io devo dirvi ancora che per noi il rispetto della fede cattolica, della fede religiosa, è qualcosa di intimo, di profondo, di connaturato con la nostra coscienza e con la nostra vita, e non si riduce soltanto alla constatazione di un sentimento vago o indeterminato, ma è la profonda sorgente vitale di tutta la nostra vita, in tutte le sue espressioni. (Applausi al centro).

Detto questo, o amici, sulla valutazione politica del Governo, dalla quale può essere venuta fuori una presa di posizione oppositoria come quella di ieri sera, io debbo osservare che la Democrazia cristiana ha e mantiene il suo buon diritto di interloquire al riguardo, perché essa non si riduce ad una espressione personale, quale che sia, positiva o negativa, ma ha un suo peso politico particolare, individuato, che non può cedere a lusinghe, a promesse, a minacce di vario genere.

Quale sarà la conclusione di questo contrasto? Quale sarà lo schieramento di altri gruppi politici di questa Assemblea, che si residuano, se se ne toglie quello liberale, a quello repubblicano così detto storico? Nei confronti dei repubblicani, le osservazioni di carattere politico fatte per quanto si riferiva al Partito socialista dei lavoratori italiani hanno la stessa incidenza e la stessa rilevanza, salvo forse una certa divergenza fra essi per quanto si riferisce al programma economico; ma le esigenze di libertà, le esigenze di democrazia, le esigenze di autonomia anche di carattere nazionale sono vivissime anche nel Partito repubblicano e trovano rispondenza in quella che è la sua rappresentanza parlamentare.

Bisogna però non incantarsi o rimanere incantati a delle formulazioni astratte o a delle posizioni politiche contingenti, determinate da un certo complesso o di superiorità o di inferiorità, ma bisogna decidersi ed assumere in pieno le proprie responsabilità politiche coraggiosamente, liberamente, con la consapevolezza e con la coscienza di rendere un servizio al Paese, prima che alle proprie ideologie o alle proprie posizioni di partito, nel senso più ristretto della parola.

Quale può essere la conclusione di questo dibattito? Onorevoli colleghi, c’è, di fronte alla concordia discorde delle varie formazioni oppositorie, questo blocco, qui al centro, di deputati democristiani che non hanno intenzione di sopraffare chicchessia, ma che costituiscono veramente un blocco di forze che sono inserite nel centro dello schieramento politico, non soltanto nell’Assemblea, ma nel Paese. Bisogna che si decidano i colleghi più responsabili degli altri partiti a credere e a ritenere che la Democrazia cristiana non è già una forza manovrabile secondo le varie e differenti opinioni di chicchessia, non è già, come è stato detto, una piattaforma girevole che possa con estrema disinvoltura ruotare nei sensi più diversi ed opposti, che non è la destra dello schieramento sinistro o la sinistra dello schieramento destro, ma bisogna che si convincano che è una forza per sé stante, autonoma, con un programma proprio, con una propria visione dei problemi politici economici, nazionali, che cerca di risolvere sia pure con l’apporto di altre forze politiche, secondo questa sua direttiva di sintesi, finché avrà una preponderanza nello schieramento politico del Paese (Benissimo – Applausi al centro).

Ma io vorrei sapere, permettete un altro sfogo che può apparire banale, quando si rimprovera a noi una certa strafottenza o degnazione o strapotenza che non esiste in nessun modo, io vorrei sapere: che cosa avverrebbe in pratica, in concreto, se altri esponenti di altre correnti politiche avessero dietro di sé non i trenta, quaranta o cinquanta deputati, ma avessero i 207 deputati che abbiamo noi? (Vivi applausi al centro).

Ora, la conclusione, ed ho finito, è chiara, è netta, è onesta: il Governo costituito come fu costituito, con quella formula che bisogna tenere presente, in quella determinata situazione, senza vincoli di accordi e di impegni di nessun genere, questo Governo che si vuol dire di destra, mentre la destra insorge per non avere ricevuto nessun beneficio e nessun favore di nessun genere (Commenti a sinistra), questo Governo si ripresenta oggi democraticamente dinanzi all’Assemblea per dire: ho assunto questo grave dovere, questo grande impegno; ho fatto tutto quello che ho potuto fare in questi 78 giorni (sono apprezzabili e confortanti, sotto questo riguardo, ad esempio, le dichiarazioni dell’amico Pella di ieri sera): con l’animo fermo e la volontà di procedere al risanamento economico e finanziario del Paese, sono fedele agli impegni presi nei limiti delle possibilità concrete che sono a mia disposizione. Che cosa vuole l’Assemblea? Che cosa vogliono i Gruppi dell’Assemblea? Vogliono rinnovarmi la fiducia che mi dettero il 21 giugno, o vogliono togliermela? È affar vostro, di voi Gruppi parlamentari, di assumere questa grave responsabilità in quest’ora storica del nostro Paese, di rinnovare o di togliere la fiducia concessa al Governo per precipitare il Paese in non so quale nuova grave crisi. (Rumori a sinistra – Vivi applausi al centro).

Concludo dicendo una cosa sola: dal senso di responsabilità che manifesteranno i vari Gruppi di questa Assemblea e dal loro atteggiamento concreto, la Democrazia cristiana, in qualsiasi posizione potrà trovarsi a seguito di tale voto, trarrà argomento per rivendicare pienamente – contro qualsiasi illusione più o meno interessata – la propria libertà di atteggiamento e di azione. (Vivissimi, prolungati, reiterati applausi al centro – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 12.30.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLII.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Mozioni (Seguito della discussione):

Scoccimarro

Pella, Ministro delle finanze

Giannini

Presidente

Rodinò Mario

Perrone Capano

Simonini

Quintieri Quinto

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Svolgimento):

PRESIDENTE

De Gasperi

Gasparotto

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Dugoni

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.

È iscritto ha parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, è la prima volta che questa Assemblea è. chiamata a discutere non di quello che il Governo si propone di fare, ma di quello che ha fatto; non dei suoi propositi e delle sue intenzioni, ma della sua azione e dei risultati conseguiti. Ed è pure la prima volta che questa Assemblea è chiamata a decidere se la politica del Governo, e quindi anche il Governo, devono cambiare oppure no.

È bene, ed è necessario che sia così, poiché la situazione del Paese è tale per cui l’Assemblea deve assumere le sue responsabilità e risponderne dinanzi al popolo.

E l’Assemblea, che è l’organo di collegamento fra Governo e popolo, deve pure dire se condivide il giudizio che della situazione politica ed economica del Paese dà il Governo, così come appare dai discorsi dei Ministri intervenuti nella discussione, ma specialmente dall’ultimo radio-discorso del Presidente del Consiglio. Nel quale discorso l’onorevole De Gasperi, con un certo tono fra il compiaciuto e il sodisfatto, ci fa la cronaca di una serie di atti governativi, ma non dice una sola parola sul fatto grave che balza evidente agli occhi di tutti, cioè che invece della difesa della lira e, per lo meno, di un freno all’inflazione – come era nel programma del Governo – in questi ultimi 4 mesi abbiamo avuto un acceleramento del processo inflazionistico, tanto che siamo ormai ridotti all’ultima trincea nella quale rischiano di crollare le ultime fragili difese della nostra moneta.

Ed è veramente strano che l’onorevole De Gasperi, mentre nel maggio scorso diceva di vedere gli abissi dell’inflazione (e questo era eccesso di pessimismo), oggi, in una situazione ben più grave, egli è quasi ottimista, non vede il reale pericolo che ci sovrasta, e si consola dicendo che in definitiva i prezzi aumentano anche in altri paesi.

La qual cosa può anche avere il suo valore, ma non è pertinente al problema che qui si discute, che è la politica del Governo italiano in Italia, il cui aspetto economico-finanziario giustamente è stato posto in primo piano poiché esso è al centro della situazione politica ed economica del Paese. Di questo problema io essenzialmente mi occuperò.

E me ne occuperò mettendo da parte ogni apriorismo di dottrina, ogni divergenza ideologica, ogni preconcetto schematico, per guardare alla realtà, quale essa è, nei suoi aspetti positivi e negativi, e trarre da essa norma per un’azione diretta alla realizzazione dell’obiettivo che ci proponiamo: stabilizzazione dei prezzi, fine dell’inflazione.

Questo era pure il problema centrale del dibattito svoltosi in questa Assemblea quattro mesi or sono discutendo il programma del Governo. Anche allora si poneva il quesito: esiste nella situazione economica del nostro Paese la possibilità obiettiva di porre termine all’inflazione ed al continuo aumento dei prezzi? E con quale politica e quali provvedimenti si può eventualmente realizzare tale obiettivo?

A tale quesito, noi rispondemmo affermativamente ed indicammo quali, secondo noi, dovevano essere la politica da seguire ed i provvedimenti da prendere. Il Governo concordava sulle possibilità di arrestare l’inflazione (proprio per questo si era costituito), ma fu d’avviso diverso dal nostro sulle misure e sui provvedimenti a ciò necessari.

Oggi si ripresenta lo stesso problema, perciò questo dibattito si ricollega a quello di quattro mesi or sono, ed io lo riprendo al punto in cui si concluse col discorso dell’onorevole Einaudi.

Il Ministro del bilancio, commentando il mio giudizio sul bilancio di previsione per l’esercizio 1947-48, si esprimeva in questi termini: «Le argomentazioni dell’onorevole Scoccimarro sono esatte ad una condizione: che le previsioni di entrate e spese che si fanno oggi siano quelle stesse che si potranno fare domani. In realtà, se così fosse, il problema del bilancio italiano non sussisterebbe».

E più avanti: «Fra i pericoli ai quali si va incontro nello sforzo di far sì che sia mantenuto l’equilibrio parziale che oggi si è ottenuto, ne ricordo uno che sta nella inevitabilità di impostazioni di nuove spese in conseguenza di spese già deliberate. Per i pubblici appalti è stabilita la regola della revisione dei prezzi». Perciò l’onorevole Einaudi diceva espressamente di dover fare una riserva e pertanto il problema del nostro bilancio non era ancora risolto.

Giudizio esatto: di nessun bilancio di previsione si può dire che il problema del bilancio è risoluto, se si prevede che i dati previsti possono non realizzarsi. Ma, proprio qui si ritrova il principio del nostro dissenso dalla politica finanziario-economica del Governo.

Un bilancio di previsione non è solo l’indicazione di qualcosa che si realizza automaticamente, ed alla cui realizzazione noi assistiamo passivamente: esso afferma una possibilità, pone un obiettivo ed indica una linea d’azione diretta a creare le condizioni perché quella previsione divenga realtà. Quelle condizioni si concretano oggi per noi nella stabilizzazione dei prezzi: se questi continuano ad aumentare quella previsione viene a mancare di ogni fondamento. Infatti, la riserva dell’onorevole Einaudi sorgeva dal fatto che, continuando l’aumento dei prezzi, sarebbero necessariamente aumentate le spese in conseguenza di impegni precedentemente assunti, come avviene per la revisione dei contratti di appalto a cui si è tenuti per legge. Ma questo significa che il Governo non si poneva come obiettivo immediato la stabilizzazione dei prezzi: questo è il significato della riserva dell’onorevole Einaudi. Quell’obiettivo si poneva invece la politica che proponevo, ed è in relazione a quella politica che doveva considerarsi il mio giudizio sul bilancio. Qui appare chiaro il punto di divergenza: per me il problema del bilancio era strettamente connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi, ritenuta possibile ed attuabile con i provvedimenti proposti. Per il Ministro del bilancio invece questo problema dei prezzi non si poneva come una esigenza immediata, ed il problema del bilancio non era connesso ad una politica di stabilizzazione dei prezzi. In sostanza, si doveva o non si doveva fare una politica di stabilizzazione? Per la difesa della lira e la lotta contro l’inflazione a me pareva questo un punto essenziale; all’onorevole Einaudi evidentemente no? Ora, io mi domando: è giusta l’impostazione che il Governo ha dato alla politica antinflazionista? A me pare di no, e l’esperienza di questi quattro mesi mi conferma in questo giudizio.

Invero, qual è il concetto informatore della politica economico-finanziaria del Ministro del bilancio? Esso può riassumersi nei seguenti termini.

Realizzare il pareggio del bilancio; conseguentemente si arresta l’aumento della circolazione monetaria per conto dello Stato; quindi cessa l’aumento dei prezzi e l’inflazione. In questo concetto la politica del Governo trova la sua spiegazione e giustificazione logica.

E quella è, in fondo, l’impostazione classica, tradizionale di una politica contro l’inflazione. Ma è l’impostazione giusta per situazioni in cui l’inflazione è essenzialmente un fenomeno di origine finanziaria e monetaria, nel quale i fattori extra monetari hanno valore ed influenza accidentali e secondarie che possono essere trascurati.

Ma l’inflazione di cui soffre oggi l’Italia non è soltanto la risultante di un fenomeno monetario e finanziario: essa è pure il riflesso degli squilibri profondi che esistono nella nostra economia, e i fattori extra monetari operanti in senso inflazionistico sono tutt’altro che accidentali e secondari, ed hanno valore e influenza essenziale nel processo inflazionistico. Quello schema logico lascia fuori di sé una parte troppo importante della realtà che non può essere trascurata: esso coglie l’aspetto finanziario-monetario e trascura quello economico.

La lotta contro l’inflazione deve perciò impostarsi su di un piano più vasto, comprensivo di tutti i fattori che concorrono a determinare l’inflazione e deve attuarsi con un’azione coordinata che operi simultaneamente in punti diversi dell’organismo economico, e capace di suscitare una molteplicità d’impulsi e di spinte che per vie diverse confluiscano allo stesso fine: stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta.

Ora, è chiaro che per risolvere un problema di questo genere non basta guardare solo al bilancio ed alla circolazione monetaria: bisogna pure tener conto della produzione e dei suoi costi, del consumo e quindi della distribuzione dei redditi, insomma di tutti i fattori determinanti dei prezzi sui quali bisogna agire con criteri e fine unitari. Quest’azione, secondo me, è assolutamente mancata nella politica economico-finanziaria del Governo. Ed è mancata perché la stabilizzazione dei prezzi e della moneta è stata sistematicamente concepita come la conseguenza del risanamento finanziario, mentre essa deve considerarsi anche come condizione del risanamento stesso. Questo potrà sembrare contradittorio dal punto di vista della logica formale; non è così nella realtà. La stabilizzazione dei prezzi e del valore della moneta in fase di avviamento al risanamento finanziario deve essere sostenuta da una politica di emergenza, direi quasi da puntelli che la sostengono fino a quando il risanamento è compiuto ed in esso troverà la base e le condizioni per la sua stabilità e durevolezza. Qui è il punto debole nella politica del Governo, e deriva dal fatto che questa ha considerato la stabilità dei prezzi e del valore della moneta solo come conseguenza del risanamento finanziario, e non pure come condizione del risanamento stesso. Lo stesso concetto ha espresso ieri l’onorevole Corbino, affermando che la stabilizzazione dei prezzi e della moneta devono considerarsi come un mezzo, uno strumento e non soltanto come un fine.

Si comprende facilmente che ogni provvedimento diretto al risanamento finanziario, che dia nuovo impulso alla spirale ascendente dei prezzi, mina e distrugge le basi stesse del risanamento, ed in definitiva il risanamento diviene un miraggio che ci sfugge sempre dinanzi, ogni qualvolta ci sembra di averlo avvicinato o raggiunto. A mio giudizio la politica del Governo si svolge in un circolo vizioso nel quale, se non ne usciamo, rischia di essere travolta la nostra moneta. Bisogna spezzare quel circolo ed avviarci per alta via. In qual modo e per quale via?

Il punto di attacco decisivo è quello dei prezzi: qui si può veramente spezzare il circolo vizioso in cui si dibatte l’azione del Governo. A tal fine occorre che per un certo periodo di tempo, si ponga la stabilizzazione dei prezzi come obiettivo centrale immediato al quale tutti i provvedimenti economico-finanziari dovrebbero essere rivolti e subordinati. Quale è la situazione del nostro Paese in questo campo? Tutti sanno che i prezzi dipendono da molti fattori: circolazione, produzione, consumo ecc. Se guardiamo alla realtà si constata che, sulla base dei dati attuali della produzione, della circolazione e del consumo, i prezzi si trovano ad un livello infinitamente superiore a quella che dovrebbe essere la giusta posizione di equilibrio in rapporto alla effettiva produzione, circolazione e consumo nel nostro Paese. E questo giudizio è vero anche tenendo conto di quel margine di scarto all’insù che c’è sempre nei prezzi in periodi di inflazione per effetto del loro più celere ritmo di aumento. Ma anche tenendo conto di questo margine, lo scarto che oggi esiste è troppo forte e rivela altre cause operanti in quel senso, per cui si pone un problema che la politica del Governo deve affrontare, cioè individuare quelle cause e cercare di eliminarle per riportare i prezzi a quel punto di equilibrio con la circolazione che la dichiarazione programmatica del Governo affermava di voler realizzare.

Ora, si calcola che quello scarto vada dal 30 al 50 per cento, il che vuol dire che tutti i prezzi comprendono un sovrapprezzo speculativo che in media si può ritenere al di sopra del 30 per cento.

Quali sono i fattori che determinano questa situazione? Io ho già altre volte accennato ad alcuni fattori speculativi operanti della nostra situazione economica e desidero ora completare quelle mie indicazioni.

Devo dire subito che non intendo riferirmi alla speculazione spicciola, quella che nasce necessariamente in periodi inflazionistici dal fatto che ogni cittadino che ne ha la possibilità fa qualche provvista, cioè fa acquisti che in altra situazione non avrebbe fatti; tali operazioni compiute da milioni di uomini esercitano una pressione sui prezzi. Questo fenomeno si elimina smobilitando la psicologia inflazionista diffusa nel Paese.

Mi riferisco invece a fattori speculativi di altra natura, che direi di speculazione all’ingrosso, organizzata, che si inserisce organicamente nel sistema di circolazione e di distribuzione delle merci, alterandone e deformandone il meccanismo funzionale.

Vediamo qualche esempio di fatto. Ho accennato altra volta ad alcune associazioni di produttori, per esempio dei cotonieri e dei lanieri, che hanno per legge la facoltà di imporre tributi. Per esempio, l’associazione dei cotonieri impone un contributo di quattro lire per ogni chilogrammo di cotone importato, e quella dei lanieri impone un contributo di dieci lire per ogni chilogrammo di lana importata.

Questi tributi si incorporano nel prezzo delle materie prime, e perciò sono un contributo obbligatorio a cui non ci si può sottrarre, perché quando si acquista la materia prima lo si paga necessariamente nel suo prezzo. E quel prezzo si ripercuote sui costi di produzione e quindi sui prezzi dei prodotti finiti.

Ma c’è di più. L’associazione dei cotonieri impone lire 1,80 per ogni fuso di filatura, lire 0,90 per ogni fuso di ritorcitura, lire 60 per ogni telaio installato, lire 100 o lire 60, secondo i casi, per ogni dipendente. Tutti questi tributi incidono sui costi di produzione e quindi sui prezzi.

Tutto ciò indipendentemente dalla quota di adesione dei soci che è di lire 3000 per ogni socio.

A quale scopo servono questi tributi? Alla ricostruzione della sede sociale, la quale poi è proprietà di una società immobiliare che ha recentemente aumentato il proprio capitale a 90 milioni. Ora io mi domando: se quelle Associazioni vogliono costruirsi un edificio perché non se lo pagano con i loro mezzi? Perché devono riversarne la spesa sui consumatori? Perché si deve consentire di aggravare i costi di produzione e quindi i prezzi? Si dice che si tratta solo di un metodo di riscossione di un contributo volontario: ma questo non è vero perché il produttore che acquista la materia prima non può sottrarsi al tributo. Senza dire poi che se vi fossero dei piccoli e medi industriali che osassero sottrarsi all’imposizione, sarebbero boicottati dai gruppi più forti dominanti nell’Associazione, e quindi si guardano bene dal farlo. Devono subire la legge del più forte. Si pensi che, con i soli tributi sulle importazioni, l’Associazione dei cotonieri e quella dei lanieri prendono un miliardo, che pagano i consumatori, e questo per la costruzione di un edificio che serve ad esse, ma che non sarà nemmeno di loro proprietà, bensì di una società immobiliare.

L’episodio è significativo: è uno di quei tanti residui di corporativismo fascista che sarebbe tempo venissero liquidati dalla nostra vita economica.

Passiamo ad altro campo: andiamo a vedere come è il mercato di alcune merci fondamentali: ferro, cemento, concimi ecc., come si distribuiscono fra i consumatori. Ebbene qui troviamo che fra produttori e consumatori si inseriscono degli intermediari speculatori, che talvolta sono Enti, gruppi monopolistici ecc., i quali bloccano la produzione, dominano monopolisticamente il mercato ed impongono prezzi che sono due, tre, quattro volte superiori a quelli che dovrebbero essere.

Ora il Ministro dell’industria ha deciso di bloccare il 60 per cento della produzione siderurgica. Ma che cosa avviene con questo provvedimento? Si danno dei buoni di assegnazione ma questi riescono ad averli coloro i quali non impiegano la merce e ne fanno mercato nero; così si crea un mercato dei «buoni» e la speculazione continua la sua opera di moltiplicare i prezzi per due, tre, quattro volte. Si veda quello che avviene per i cementi.

Poco tempo fa un giornale denunciava, come uno scandalo: «la forte ascesa dei prezzi dei cementi, dovuta ad una specie di mercato libero creatosi vicino al mercato ufficiale ed un forte commercio di buoni d’assegnazione».

Non parliamo dei concimi chimici, per cui i contadini che hanno bisogno di concime, se vogliono averlo, devono pagarlo con sovraprezzi speculativi sbalorditivi.

Se poi andiamo a guardare i generi alimentari, troviamo delle cose veramente inspiegabili. Io mi domando come è possibile, ad esempio, consentire una speculazione come quella che è denunciata da questi documenti: vi sono trafficanti i quali, ad esempio, sfruttano in Italia la diversa scadenza della saldatura nelle regioni, e mentre nelle prime settimane di maggio incettano grano nell’Italia centrale per i mercati meridionali, verso gli ultimi dello stesso mese corrono nelle campagne delle Puglie ad incettare grano per i mercati centrali ove la stagione è più tarda.

E poi, che dire di un nucleo di trafficanti del Nord che scendono sui mercati agricoli dell’Italia centrale e bloccano col rialzo dei prezzi tutti i capi di bestiame in vendita, li macellano e, si dice, esportano clandestinamente quella carne all’estero, in Francia e Svizzera, provocando un enorme rialzo dei prezzi delle carni all’interno?

Per le uova avviene questo fenomeno: nel mese di maggio, che è il mese di maggiore produzione, i prezzi in Italia sono passati dalle 15 mila lire per ogni migliaio nel maggio dello scorso anno a 31 mila lire nel maggio dell’anno corrente. Dove arriveranno in ottobre-novembre, quando la produzione scenderà alla metà? Anche qui speculazione, accaparramento.

E poi, se il Ministro dell’industria vorrà informarsi presso qualche Ente di consumo troverà che vi sono dei capitalisti, degli intermediari speculatori che bloccano la produzione olearia di intere regioni e non è possibile a quegli Enti comprare neanche un chilo di olio da vendere ai loro soci.

Vi faccio grazia di altri molti fatti del genere.

Ora, se mettiamo insieme l’azione di questa speculazione (che non è la piccola speculazione di chi i provvede di qualche riserva in casa) e facciamo i calcoli di quanto essa incide sull’aumento dei prezzi, noi troviamo, se non tutta, in gran parte, la spiegazione del fenomeno che ho denunciato.Qui si tratta del sistema di circolazione di distribuzione delle merci che viene alterato e deformato; si tratta di vere e proprie incrostazioni parassitarie e monopolistiche che fanno sentire il loro peso sui prezzi; si tratta delle speculazioni d’alto bordo, la cui attività è veramente nefasta. Orbene, quando il Governo si è costituito, noi abbiamo denunciato questi fenomeni e la necessità di un intervento contro di essi come un aspetto della lotta contro le speculazioni: che cosa si è fatto? Nulla, assolutamente nulla.

Ora, quando si pone il problema della lotta contro la speculazione, il primo compito è di riorganizzare il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando – piccola o forte che sia – qualsiasi influenza di fattori speculativi. Il Ministro dell’industria non si è nemmeno posto tale problema. Ed ecco che, dopo quattro mesi, un bel giorno il Governo si è svegliato ed è venuto fuori un provvedimento del settembre nel quale si comminano fino a tre o sei anni di reclusione e fino a 10 e 20 milioni di multa per accaparramento di merci.

Ora, non sembri strano che proprio da questi banchi si dica al Governo che non bisogna aver troppa fiducia in queste misure; sono misure amministrative che non risolvono il problema e possono avere solo funzione ausiliaria di altri provvedimenti di carattere economico. Se questi mancano, anche quelle misure si risolvono in nulla. L’opera più efficace sarebbe che il Ministero dell’industria intervenisse allo scopo di riorganizzare tutto il sistema di circolazione e distribuzione delle merci, eliminando tutte le posizioni monopolistiche acquisite in questo campo, appoggiandosi ad organi cooperativi e ad Enti pubblici, per loro natura antispeculativi.

Se questo si facesse, sarebbe indubbiamente il primo grosso colpo contro la speculazione in Italia. Quali risultati si otterrebbero? Non certo una immediata ed automatica diminuzione dei prezzi; questi fanno presto a salire, ma sono poi sempre riluttanti a discendere. Ma, eliminando il margine speculativo, noi creiamo la premessa e la condizione obiettiva della stabilizzazione che potrebbe anche implicare una più o meno sensibile riduzione dei prezzi. Il punto di stabilizzazione potrebbe muoversi fra un massimo, che è il limite attuale, ed un minimo che sarebbe il limite di equilibrio, oggi superato dal sovraprezzo speculativo. E sarebbe politica di stabilizzazione, e non di deflazione, anche determinando una compressione dei prezzi, perché quelli che si eliminerebbero non sarebbero i profitti normali, ma solo quelli speculativi. Entro quei due limiti si potrebbe creare anche un maggior respiro alla circolazione monetaria, pur senza influenza inflazionista.

Perché non si è fatto nulla in questo campo?

Ce lo ha detto ieri lo stesso onorevole Ministro Togni, quando ha affermato che la speculazione sparirà quando avremo raggiunto il risanamento finanziario del Paese. Ma per raggiungere il risanamento finanziario del Paese, bisogna incominciare fin da ora a liquidare la speculazione organizzata. Ed è così vero che il Governo non si è nemmeno posto tale problema, che lo stesso Ministro dell’industria ci diceva che per impedire l’ulteriore aumento dei prezzi, quel che bisognerebbe fare è di abolire la scala mobile.

Ora, qui basta fare una semplice considerazione. Se il Governo si ponesse il problema di arrivare seriamente alla stabilizzazione dei prezzi, la scala mobile non dovrebbe preoccupare perché non avrebbe più nessuna influenza. Quando invece si pone come condizione essenziale del risanamento l’abolizione della scala mobile, vuol dire che si pensa ad ulteriori aumenti di prezzi e quindi ad un ulteriore sviluppo dell’inflazione. Proprio per questo noi non possiamo condividere la politica economica del Governo.

Onorevoli colleghi, la eliminazione della speculazione è solo la premessa per una efficace politica di stabilizzazione. L’azione concreta da svolgere riguarda la circolazione e il credito, i costi di produzione e il commercio estero.

Ora, non solo non si è realizzata la premessa necessaria di una politica di stabilizzazione, ma anche i provvedimenti concreti da prendere in quei diversi campi o sono mancati o sono stati delle mezze misure che non hanno risolto nulla, ed hanno invece aggravato il male di cui tutti oggi si lamentano: l’inflazione si è aggravata, la sana attività produttiva è stata posta in difficoltà, e la speculazione è divenuta sempre più virulenta e perniciosa. Infatti i calcoli rivelano che quel margine speculativo dei prezzi, di cui dianzi ho parlato, ha la tendenza a dilatarsi sempre più.

Quando questo Governo si è costituito si prevedeva che un certo aumento della circolazione era inevitabile, non però nella misura in cui è avvenuto.

A maggior ragione si imponeva di creare le condizioni perché quell’aumento di circolazione avesse la minore ripercussione inflazionista possibile nel paese. La prima condizione era quella di decurtare i sovraprezzi speculativi; la seconda condizione consisteva nel far sì che all’aumento di circolazione monetaria corrispondesse la eliminazione della circolazione creditizia per fini speculativi.

Anche qui – mi si consenta di dirlo – non si è fatto nulla. La circolazione monetaria è aumentata di un centinaio di miliardi, ma nello stesso tempo anche la circolazione creditizia si è dilatata oltre il giusto limite ed è divenuta inflazionista. Dal dicembre 1946 al luglio 1947 i depositi sono cresciuti di 258 miliardi e gli impieghi di 193 miliardi. Che cosa significano queste cifre? Significano che, pur tenendo conto dell’aumento nella produzione e nei prezzi, nella «creazione di depositi» da parte delle banche si è andati oltre il giusto limite, si è fatta dell’inflazione, si è imposto un «risparmio forzoso». Tanto che il Governo, ad un certo momento, ha dato l’allarme riconoscendo ed affermando che il risparmio forzoso in Italia è arrivato a un punto che pesa già in modo eccessivo sulle classi povere della popolazione.

Per chi non lo capisce, risparmio forzoso vuol dire inflazione; in questi mesi dunque, nello stesso tempo in cui la circolazione monetaria si dilatava, si consentiva che anche nel campo del credito si operasse in modo da dare un impulso all’inflazione.

Se poi andiamo a guardare come sono stati impiegati quei 193 miliardi di nuovi impieghi, cioè quanti sono stati impiegati produttivamente e quanti per scopi speculativi, dobbiamo riconoscere che non ne sappiamo nulla di preciso. Sappiamo però che impieghi speculativi si sono attuati in larga misura. Il popolo lavoratore si è trovato preso in un meccanismo infernale: da una parte l’inflazione gli ha imposto un abbassamento del tenore di vita, dall’altra, la speculazione si è servita di parte dei beni che gli sono stati sottratti per infliggergli un nuovo danno. Per combattere e porre termine a tale situazione, quattro mesi or sono, quando si è posto il problema della lotta contro l’inflazione, noi chiedemmo che non si perdesse tempo a porre un limite alla crescente espansione creditizia, tanto più che la circolazione monetaria si dilatava. E chiedemmo anche che si controllasse l’impiego del credito. A tal fine proponemmo che il controllo del credito non fosse solo quantitativo, ma anche qualitativo. Quando il progetto del Governo venne alla Commissione di finanze e tesoro di questa Assemblea, io dissi subito che quel provvedimento non era adeguato alle esigenze della situazione.

Ora, l’onorevole Einaudi, rispondendo a tale richiesta, dichiarò che non accettava la proposta di controllo qualitativo, perché questa è impresa molto delicata, in quanto l’istituto controllante dovrebbe ingiungere alle Banche di dare o non dare credito a questo o a quello, e se l’istituto controllante indica quali sono le persone alle quali si deve o non si deve far credito, la responsabilità si deve togliere a coloro che l’hanno e si deve darla a coloro che esplicano questa azione.

Onorevole Einaudi, non è questo il problema. Nessuno si è mai sognato di chiedere che l’Istituto di emissione si sostituisca alle Banche per valutare se il cliente che chiede il credito lo meriti o non lo meriti, dia o non dia garanzie. Il controllo qualitativo del credito vuol dire controllo della natura dell’impiego economico del risparmio nazionale, indipendentemente dalle valutazioni personali dei singoli clienti, che rimane sempre compito delle singole banche. Il Governo ha oggi il dovere di controllare in quale modo si impiega il risparmio nazionale. Questo non si è fatto e le conseguenze sono molto gravi, perché così si è lasciato via libera alla speculazione con tutte le conseguenze inflazioniste che ne derivano.

Con la richiesta del controllo qualitativo del credito, su cui insistiamo, noi in sostanza difendiamo l’attività produttiva contro l’attività speculativa; difendiamo le piccole e medie industrie contro la sopraffazione dei gruppi monopolistici; difendiamo l’industria sana, che risponde agli interessi generali del Paese, contro l’industria che punta sull’inflazione, sulla speculazione e simili espedienti; difendiamo il credito produttivo contro il credito speculativo. In sostanza noi vogliamo che il credito concorra alla stabilizzazione dei prezzi e della moneta.

Che cosa è avvenuto in pratica con il puro controllo quantitativo? È avvenuto che si danneggiano alcune attività produttive a beneficio di quelle speculative, poiché le banche – come denunciava ieri l’onorevole Corbino – per compensare il minor volume di affari, inclinano a impieghi speculativi perché più redditizi. Io so di interessi che vanno dal 14 al 35 per cento; qualche istituto è arrivato persino al 76 per cento, operando attraverso interposte persone. Quale è il produttore che può pagare questi saggi di interesse? E allora avviene che gli incettatori di merci, gli accaparratori, gli speculatori che possono pagarli, monopolizzano a loro beneficio il credito.

Onorevole Einaudi, ella ha dato particolari disposizioni alle banche in materia di riporti. Ora, sa quale scherzo le hanno fatto le banche? Invece dei riporti fanno operazioni staccate: invece del riporto tradizionale, si vende a fine mese corrente e si ricompra a fine mese successivo. Lo scarto del prezzo è il compenso della banca. Le posso dare qualche cifra. Solo su di un titolo, per la Fiat, si è determinato in queste operazioni uno scarto di 50 punti in un mese, e la banca ha avuto un reddito del 30 per cento. Si tratta di un finanziamento speculativo che sfugge ai divieti da lei posti per i riporti speculativi. Ma come si fa ad evitare questi fenomeni se non si instaura un controllo qualitativo del credito? Questo è un episodio, ma ve ne sono altri: i banchieri hanno più fantasia degli uomini di governo.

L’onorevole Einaudi pensava che con il controllo quantitativo del credito e il limite posto alla sua espansione quanti si sono serviti del credito per riempire i loro magazzini a fine speculativo, ora devono vendere e quindi l’aumento di offerta delle merci, farebbe ribassare i prezzi. Ma la reazione è stata ben diversa: si sono mantenuti pieni i magazzini e si tende invece a ridurre o ad arrestare la produzione con tutte le prevedibili conseguenze: così si continua sul binario inflazionistico.

Oltre a tutto ciò, noi dobbiamo constatare che si sono posti in gravi difficoltà piccoli e medi industriali e commercianti: i primi sacrificati, perché i meno influenti e meno provveduti di appoggi. E poi anche talune grandi industrie sane sono state poste in difficoltà, mentre la speculazione continua a infierire. Queste sono le conseguenze di una insufficiente realizzazione del controllo del credito. Le misure che dovevano servire a combattere l’inflazione servono invece a potenziarla e a svilupparla.

Ma io vorrei far presente al Ministro del bilancio una questione particolare, che mi pare abbastanza seria e meritevole di considerazione. La Banca d’Italia ha ripetutamente affermato che il nuovo sistema di disciplina del credito non comporta per i depositi in atto obblighi e limiti maggiori di quelli imposti dal sistema precedente che imponeva il versamento totale dei depositi che superavano il limite di 30 volte il patrimonio della Banca. Ma, se questo è vero per le grandi banche, non è vero per le piccole banche, per le cooperative locali. Cosa è avvenuto in questo campo? Le piccole banche, le cooperative che finanziano artigiani, piccoli bottegai e piccoli produttori, con una zona di attività limitata, in questi ultimi tempi hanno fatto questo: quando hanno visto che i loro depositi superavano il livello di 30 volte il loro patrimonio, hanno chiesto ai loro soci un sacrificio, cioè di versare nuove quote per portare il loro patrimonio al giusto livello. Dopo aver imposto tale sacrificio, ai suoi soci, è venuto il mutamento di sistema che impone anche alle piccole banche di versare alla Banca d’Italia una parte dei loro depositi che superano il decuplo del patrimonio. Ora avverrà che quelle attività artigiane, di piccoli e medi industriali, finanziate da quelle banche, si troveranno in grande difficoltà perché non hanno altri mezzi di finanziamento: la piccola e la media industria non emette azioni né obbligazioni, e tanto meno può ricorrere all’I.M.I. o al Consorzio imprese di pubblica utilità, perché notoriamente questi istituti servono solo alle grandi industrie. Molti piccoli e medi produttori si troveranno in una situazione disgraziata.

Io credo che i provvedimenti presi dalla Banca d’Italia in rapporto alla situazione delle banche cooperative locali debbano essere riveduti ed attenuati. Il problema del credito sta assumendo un aspetto drammatico nel Paese.

Oggi si leva gran clamore attorno al Ministro del bilancio: a molte di quelle voci che lo criticano noi non ci associamo. Però, constatiamo che vi sono dei produttori, che svolgono un’attività sana ed utile al Paese, ai quali è venuto a mancare il credito e le cui proteste sono giustificate; d’altra parte vi sono le banche che dicono che col nuovo sistema non possono far credito. La Banca d’Italia risponde che le misure imposte con la nuova disciplina non possono portare ad una restrizione del credito alla sana attività produttiva.

Chi ha ragione? Se le cose stanno così vuol dire che bisogna andare a vedere il modo in cui le banche impiegano il credito, oppure bisogna pensare ad un sabotaggio delle banche per far cadere i suoi provvedimenti, o ad una subdola manovra inflazionistica che cerca di prendere la mano al Governo. È possibile che queste ipotesi siano tutte vere. Ma come fa lei, onorevole Einaudi, a risolvere questo problema se non passa dal controllo quantitativo a quello qualitativo?

Bisogna controllare dove va a finire il risparmio nazionale, che è destinato ad incrementare la vita economica del Paese e non a sostenere attività speculative. Per fare questo occorre mutare sistema.

Occorre adottare il sistema che noi suggerimmo quattro mesi or sono e che il Governo non ha voluto applicare. Oggi è la realtà che lo impone. Oggi siamo arrivati a questo; che gli industriali più intelligenti, gli industriali che non puntano sulla speculazione, gli industriali che sono veramente gli organizzatori della produzione, vi chiedono di controllare qualitativamente il credito, perché non è giusto che lo si neghi a loro che operano nell’interesse del Paese, mentre si concede ad altri la cui attività rovina l’economia del Paese.

Questo è il problema. La critica che noi facciamo al Governo è che in questi quattro mesi ha lasciato andare le cose per questa via. Perché? Perché, onorevole Einaudi (e risalgo a dove sono partito), il problema del risanamento finanziario si è posto esclusivamente, prevalentemente, sul piano finanziario, perché si è considerata la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come una conseguenza futura del risanamento finanziario e non pure come una premessa ed una condizione di una politica efficiente di risanamento economico e finanziario.

Bisogna mutare sistema ed adottare il sistema da noi suggerito. Di fronte alle richieste di allargare il credito, di annullare le decisioni già prese, noi chiediamo che si risponda in modo da sodisfare quanto vi può essere di giusto in quelle richieste senza però annullare i limiti posti, il che si ottiene mutando sistema, non togliendo il controllo, ma allargandolo e integrandolo, passando cioè dal puro controllo quantitativo anche a quello qualitativo. Il Governo ha il dovere di assicurare ai produttori l’utile impiego del risparmio nazionale: questo il Governo non lo ha fatto. Quali sono state le conseguenze? Speculazione, inflazione, aumento di prezzi, moneta svalutata: l’inflazione ha fatto un balzo avanti. Bisogna cambiar sistema.

E vengo ad altro problema essenziale: i costi di produzione.

Se il Governo si fosse posto seriamente l’obiettivo di stabilizzare i prezzi nel più breve tempo possibile, non avrebbe potuto ignorare che si poneva altresì il problema di stabilizzare i costi di produzione, evitando per un certo periodo tutti quei provvedimenti che potevano determinare l’aumento.

Qui si pone il problema dei prezzi politici. Ora, in tutti i grandi Paesi, specialmente nei Paesi occidentali, nel periodo della lotta contro l’inflazione si è ritenuto conveniente non sopprimere i prezzi politici, ma farne anzi uno strumento di manovra. L’esperienza fatta in altri Paesi poteva insegnare qualcosa anche a noi. Viceversa, in Italia si è ritenuto, in un momento culminante di svalutazione monetaria, di abolire o di avvicinarsi alla progressiva abolizione dei prezzi politici, pensando che questo provvedimento fosse una misura utile, necessaria e favorevole al riassetto generale dell’economia e non invece un nuovo impulso dato all’inflazione. Non si è tenuto presente che l’abolizione dei prezzi politici, specialmente di quei prezzi che concorrono a formare la razione alimentare delle masse, hanno un’influenza diversa se sono presi in una fase di inflazione, oppure di stabilizzazione dei prezzi.

Non si è pensato che per taluni prezzi politici il risparmio che il Tesoro fa con la loro abolizione può essere inferiore alla maggiore spesa che indirettamente deve sostenere per effetto dell’aumento dei prezzi,: che porta ad aumenti di stipendi e salari, a rivedere i contratti di appalto e via di seguito.

L’onorevole Del Vecchio, Ministro del tesoro, in un certo momento ha fatto alcune dichiarazioni che suonano testualmente così: «dopo due anni di guerra occorre ristabilire l’equilibrio tra i vari prezzi. I consumatori credono di trarre vantaggio pagando i prezzi politici. In realtà non si accorgono che questo vantaggio è scontato ad usura col pagamento, di ben più alti prezzi economici dei generi che sono costretti ad acquistare».

A questo ragionamento se ne può opporre un altro: lo Stato crede di trovare vantaggio abolendo i prezzi politici e non si accorge che tale vantaggio è scontato ad usura con l’aumento delle spese per stipendi, salari, lavori pubblici, conseguente ad un aumento di costi e di prezzi proporzionalmente superiore all’aumento dal prezzo politico al prezzo economico. E la conseguenza quale può essere? Che la circolazione aumenterà, i prezzi subiranno un nuovo aumento ed i consumatori pagheranno di più quel determinato bene e tutti gli altri beni; l’inflazione avrà fatto un altro passo avanti. È perciò che la politica di aumento del prezzo del pane, delle tariffe dei trasporti, delle comunicazioni ecc. è stata obiettivamente una politica inflazionista. Vorrei a questo punto esaminare un problema concreto, quello del pane. Quando si sono riunite le quattro Commissioni per discutere la relazione dell’ex Ministro Campilli, qualcuno ricorderà che in quella riunione io fui il solo ad esprimere parere contrario all’abolizione del prezzo politico del pane in quel momento. E questo perché mi pareva che i risultati potessero essere negativi.

Ora, se calcoliamo gli oneri finanziari dell’abolizione del prezzo politico del pane dobbiamo tenere presente questo: 1°) ciò che lo Stato paga come indennità caro-pane, ad impiegati, salariati di Enti pubblici e semi-pubblici ecc.; 2°) quello che pagherà successivamente per l’aumento di stipendi e salari, conseguente all’aumento di tutti i prezzi; 3°) quello che pagherà per revisione di contratti di appalto ecc. Tutto sommato, tenuto conto degli elementi positivi e negativi, l’onere finanziario è probabilmente superiore, anche se non figura più come prezzo politico. Accanto agli oneri finanziari bisogna considerare pure quelli economici:

1°) l’aumento del prezzo del pane, bene a domanda rigida ed universale, porta necessariamente all’aumento di tutti i costi di produzione in proporzioni moltiplicate: dal ciclo produttivo iniziale a quello finale di un bene, con le interferenze degli aumenti salariali, l’aumento si moltiplica con un crescendo continuo;

2°) che aumenti generali di costi e prezzi rendono i prezzi dei cereali all’ammasso insoddisfacenti, con una influenza negativa sulle future semine;

3°) che lo stesso costo di produzione del pane aumenta per l’aumento dei salari;

4°) il costo economico di scioperi ed agitazioni perché l’indennità di caro-pane non indennizza l’aumento di prezzo di tutte le altre merci;

5°) che si creano ostacoli ad iniziative ed attività produttive.

Ora, cosa hanno dimostrato i fatti? Quando il Governo ha aumentato il prezzo del pane, immediatamente vi è stato un rapido e forte aumento di tutti i prezzi, ed è stato tale da non far dubitare della sua connessione con l’aumento del prezzo del pane. Perché non si è voluto tener conto di questo insegnamento dei fatti? Si pensava forse che nonostante l’aumento dei prezzi si sarebbe impedito l’aumento di stipendi e salari? Questo rivelerebbe lo spirito e il contenuto reazionario di quella decisione.

Ora, a questo proposito vorrei dire una parola sulla speculazione di doppio giuoco che si è fatta contro di noi su tale questione. L’onorevole De Gasperi dovrebbe ricordare che noi fummo contrari all’abolizione del prezzo politico per le ragioni che ho esposto. Ci si assicurò che quella misura non avrebbe fatto aumentare gli altri prezzi, caso mai li avrebbe fatti diminuire, perché la maggiore spesa per il pane avrebbe provocato una contrazione nell’acquisto di altri generi. Non si è avvertito l’errore che si commetteva ragionando a quel modo, perché, semmai, si sarebbe avuto un aumento minore in talune merci rispetto ad altre. Tuttavia, finimmo per consentire, rimettendoci al verdetto dei fatti. Si fece un primo aumento del prezzo del pane: i fatti ci diedero ragione. Tutti i prezzi aumentarono: si verificarono le conseguenze da noi previste. Veniva così a mancare la condizione essenziale dell’impegno per ulteriori aumenti. Perciò all’atto del secondo aumento, giudicando che il provvedimento era dannoso, non ci sentimmo più di approvarlo. Dov’è il doppio giuoco? E se qualcuno è mancato all’impegno siete voi, che avete proceduto al secondo aumento nonostante che le condizioni previste non si fossero realizzate.

Una volta constatati gli effetti del primo aumento era opportuno fermarsi: non lo avete fatto e avete commesso un errore. Vi illudevate forse di evitare i conseguenti aumenti di stipendi e salari? Questa è in sostanza la tendenza della vostra politica, altrimenti non avrebbe senso. Ma è una politica irrealizzabile e perciò sbagliata.

Io potrei fare un’analisi analoga per l’aumento del prezzo dei trasporti; non la farò per brevità. Ma tutti questi provvedimenti che tendono ad aumentare i costi di produzione in un momento in cui, per la lotta contro l’inflazione, ci si doveva porre per obiettivo la stabilizzazione dei prezzi, o sono una contradizione, oppure sono la conseguenza del fatto che non si è posta la stabilizzazione dei prezzi e della moneta come una condizione del risanamento finanziario. Se questo si fosse fatto, questi provvedimenti non si dovevano adottare in quel momento: bisognava rinviarli.

E vengo all’ultimo problema: il commercio estero. Il Ministro Merzagora l’altro giorno ci ha detto che fa tutto il possibile per aumentare le esportazioni e provvedere il Paese di quanto ha bisogno e che, se non tutto si può realizzare, non è colpa della politica del Governo, poiché le difficoltà e le impossibilità sono nelle cose.

Ora, qui non si tratta della buona volontà e della diligenza del Ministro del commercio estero, né delle difficoltà o impossibilità che indubbiamente esistono; né si pretendono miracoli da nessuno: qui si discute la politica che si attua in questo campo in relazione alla politica economico-finanziaria del Governo ed all’obiettivo della lotta contro l’inflazione. È su questi problemi che il Ministro avrebbe dovuto parlare.

Il primo problema che si pone è quello del regime valutario. È noto che, fin dal gennaio, vi sono stati dei partiti, fra i quali il nostro, i quali hanno posto il problema se, nella nuova situazione che si andava determinando, non fosse opportuno ritornare al sistema del controllo totale dei cambi. Il Governo non ha mai creduto di rispondere a tale quesito. Perché all’inizio del 1947 noi abbiamo posto tale questione? Perché un sistema di scambi nel quale l’industria nazionale riceve, per ciò che vende, una moneta – il dollaro – che vale meno di quella che usa per ciò che compera, poteva mantenersi in piedi finché esisteva una situazione come quella del 1946, quando abbiamo esportato, in regime di valuta 50 per cento, per il 74,2 per cento ed abbiamo importato con lo stesso regime solo per il 5 per cento. Ma, quando la situazione si rovescia, e le importazioni superano le esportazioni, allora è lecito nutrire il dubbio che quel sistema non convenga più. Perché il principio assurdo che il dollaro di chi vende debba valere meno del dollaro di chi compera, fa balzar fuori tutte le contradizioni del sistema. E infatti, a quali conseguenze porta quel sistema?

Anzitutto, gli esportatori tendono a non esportare nei Paesi coi quali i pagamenti avvengono a cambio ufficiale e preferiscono esportare invece nei Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero, anche vendendo a prezzo minore.

Viceversa gli importatori trovano convenienza ad importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio ufficiale ed evitano di importare dai Paesi in cui i pagamenti avvengono a cambio libero. Quali sono dunque le conseguenze di tale situazione? La prima è che noi vendiamo a basso prezzo i nostri prodotti e quindi il nostro lavoro e comperiamo ad alto prezzo quelli degli altri; la seconda è che la riduzione delle esportazioni verso un determinato Paese comporta di necessità una riduzione delle importazioni da quello stesso Paese e viceversa una riduzione di importazioni da un dato Paese riduce anche le possibilità di esportazione in quel Paese: questo è tanto più vero in regime di scambi compensati, come largamente avviene oggi. Quando noi, ad esempio, esportiamo poco in Polonia per le ragioni dette sopra, si riducono in pari tempo anche le possibilità di importare dalla Polonia: ecco perché non si è importato la metà del carbone che la Polonia ha messo a nostra disposizione, nonostante il bisogno che ne abbiamo.

La conseguenza di tale stato di cose è abbastanza grave, perché i Paesi con i quali noi abbiamo scambi compensati e con pagamento al cambio ufficiale si trovano quasi tutti nell’Europa orientale, cioè proprio nella zona che costituisce il mercato naturale per l’economia italiana, ed è proprio con quei Paesi che i nostri scambi stentano ad avviarsi e tendono a divenire sempre più difficili. Quando il Ministro Merzagora ci dice che con quei Paesi abbiamo fatto una quantità di accordi e ne faremo ancora degli altri, e, se poi in pratica non si ottengono risultati, non sappiamo cosa farci, noi rispondiamo che è compito del Ministro ricercare le cause per le quali quegli accordi non danno i risultati che dovrebbero dare, ed eliminarle. Se si fa tale esame si vedrà che una delle cause è nella nostra politica valutaria; e se quella politica si cambiasse anche le condizioni delle nostre esportazioni ed importazioni cambierebbero.

Una seconda conseguenza è che, lasciando anche soltanto il 50 per cento di valuta libera ed accentrando solo su di essa lo squilibrio fra cambio ufficiale e cambio di equilibrio, ne viene raddoppiata l’incidenza con una duplice conseguenza:

1°) i più alti corsi di mercato della valuta di esportazione fanno apparire un indice di svalutazione della moneta superiore alla realtà, influenzando il giudizio sulla svalutazione della moneta in contrasto con la politica di difesa della lira;

2°) rincarano in misura anormale tutte le importazioni finanziate con valute di esportazione, da cui aumento di costi di produzione, di prezzi e quindi spinta all’inflazione;

3°) talune industrie pagano la materia prima con un dollaro che vale, ad esempio, 900 e la rivendono nel prodotto finito ricavando un dollaro che vale 500: questo porta ad aggravare i costi di produzione, i prezzi e quindi ad aumentare l’inflazione.

Altre conseguenze si potrebbero rilevare e tutte di carattere inflazionista, il che è in aperto contrasto con la politica di lotta contro l’inflazione che il Governo dichiara di voler seguire. Se il sistema del 50 per cento di valuta libera è in contrasto con le esigenze di una politica anti-inflazionista, perché non si cambia?

Il Ministro dice: per talune categorie io l’ho già mutato, ho concesso ad alcune categorie non il 50 per cento, ma il 75 per cento ed anche il 90 per cento. Ma non è quella la via da seguire, onorevole Ministro, bisogna andare per la via contraria. A quel modo si aggrava il male, non lo si guarisce. Perché, quando lei concede il 75 per cento di valuta libera, lei crea e moltiplica la diversità dei cambi invece di tendere ad eliminarla. Bisogna arrivare al cambio unico.

E bisogna ristabilire il controllo integrale delle valute, perché non si controllano le importazioni ed esportazioni senza il controllo totale delle valute, come non si controllano le valute senza il controllo totale delle importazioni ed esportazioni. Questa è l’esigenza che impone oggi una efficace politica antiinflazionista.

Ma io desidero porre una questione specifica per le concessioni che sono state fatte. I tessili, ad esempio, sono, fra le categorie degli industriali, quelli che hanno guadagnato di più durante la guerra fascista, che hanno avuto minori danni di guerra e maggiori sopraprofitti, che l’anno scorso hanno fatto notevoli utili. Come mai proprio ai tessili si è fatta tale concessione?

So che le esportazioni dei prodotti tessili quest’anno hanno incontrato difficoltà e, là dove è necessario, io sono d’accordo che bisogna sostenere le nostre esportazioni, ma in questo caso mi vengono dei gravi dubbi. Quando lei, onorevole Ministro, afferma che i prezzi di esportazione sarebbero stati troppo bassi rispetto ai costi, una delle due: o le hanno dato dei dati inesatti, oppure lei ha fatto un favore che non doveva fare. Perché, dai dati che io ho, non risulta affatto che gli industriali tessili italiani non potessero esportare. È vero che gli utili diminuivano, ma guadagnar meno non vuol dire perdere. A me risulta infatti che all’esportatore rimaneva sempre un utile netto di almeno lire 185,50 per ogni chilo di filato. Certo, tale utile è inferiore a quello ricavato sul mercato interno che è di lire 308, ma esso dimostra non esser vera l’asserita impossibilità di poter vendere all’estero allo stesso prezzo degli americani. E tanto più spiacevole è la concessione che si è fatta, per le conseguenze che ha avuto negli accordi già realizzati dalla missione Lombardo, secondo i quali si riducevano alla metà i tributi doganali di tutti i nostri esportatori negli Stati Uniti, e dopo la concessione fatta ai tessili, in conseguenza di questa differenziazione di cambi, quell’accordo è caduto e i nostri esportatori pagano oggi come tributo doganale il doppio di quello che avrebbero pagato. Ora, è giusto che per l’interesse particolare di una categoria si debba sacrificare l’interesse generale di tutti gli esportatori verso gli Stati Uniti d’America? Che politica è mai questa?

Un secondo problema a cui desidero accennare è quello dell’aumento del cambio del dollaro da 225 a 350.

Io mi domando: in una situazione in cui le importazioni superano le esportazioni ed il Governo si propone di fare una politica anti-inflazionista, è stato opportuno un provvedimento di quel genere? Si è voluto facilitare le esportazioni e sta bene, ma non si poteva provvedere a ciò altrimenti, con misure che non fossero in contrasto con la politica che il Governo dice di voler perseguire? Che non si riflettessero a danno delle importazioni e quindi dei consumatori? Si sono esaminate le ripercussioni di quel provvedimento nei rapporti della lira, non solo con il dollaro, ma con tutte le altre monete? Non avviene forse oggi che, per avere la stessa quantità di beni, per esempio, dalla Francia o da altri Paesi, dobbiamo dare una quantità maggiore di beni italiani, oppure per la stessa quantità di beni italiani noi riceviamo in cambio oggi una minore quantità di beni dagli altri Paesi? Se così è, è chiaro che quel provvedimento ha determinato un aumento dei costi di produzione e quindi ha esercitato una influenza inflazionistica nel Paese. Bisogna proprio riconoscere che l’esigenza di non far salire i costi di produzione era assente dalla politica del Governo. Ciò è confermato da un altro provvedimento assai significativo: l’aumento improvviso del diritto di licenza al 10 per cento sul valore delle merci ammesse all’importazione. Ora questo porta all’aumento dei costi di produzione, e quindi dei prezzi e dell’inflazione.

Era proprio questo il momento opportuno per un tale provvedimento, quando bisognava fare una politica di stabilizzazione di costi e di prezzi? In verità tutto conferma che questa esigenza non si poneva nella politica del Governo, e questo in conseguenza della impostazione generale che guarda essenzialmente al bilancio, all’aspetto finanziario e monetario della situazione e trascura quello economico.

Ad un ultimo problema voglio rapidamente accennare: si tratta dei molti miliardi evasi all’estero.

I giornali parlano di 60 milioni di dollari che corrisponderebbero a 30 miliardi di lire. Il Ministro Merzagora dice che sono anche di più. Noi dobbiamo ad ogni costo far rientrare questi capitali in Italia. Certo, coloro che hanno compiuto quest’opera sono estremamente biasimevoli. Ma con i biasimi e le invettive non si risolve nulla. Ed il Paese è con l’acqua alla gola ed ha bisogno di rastrellare tutto quello che è possibile. Orbene, noi abbiamo concesso l’amnistia a tanti criminali, potremmo anche concedere una sanatoria a quei capitali emigrati clandestinamente e sollecitarli a rientrare. Un mezzo potrebbe essere di consentire le importazioni «franco valuta»: io non vi sarei contrario.

In definitiva, anche per il commercio estero, risorge il quesito: con quali criteri si attua la politica antinflazionista? Anche qui vediamo che la politica in atto porta a conseguenze inflazioniste: un suo mutamento si impone.

Ora, il problema generale che si pone è questo: si vuol fare una politica contro l’inflazione? Ed allora la via seguita finora non è quella giusta. Bisogna cambiare strada. Dall’esame di alcuni aspetti della nostra politica economica e finanziaria risulta che il Governo considera la stabilizzazione dei prezzi e della moneta solo come conseguenza e non pure come condizione del risanamento finanziario. Accettare questo principio significa mutare tutta la politica finora seguita, come mi pare di avere dimostrato. Ma con ciò si pone anche il problema della stabilizzazione come un obiettivo immediato. A tal fine potrebbe essere utile attuare qualche provvedimento di tecnica monetaria diretto a facilitare il processo di stabilizzazione: si tratta di inserire nella situazione economica e finanziaria un primo elemento di stabilizzazione. L’anno scorso si era pensato per altri fini ad un progetto di «Buoni di imposta» collegato al problema della rivalutazione degli impianti industriali. Io credo che se in gennaio si fosse realizzato quel progetto, esso avrebbe avuto successo. Oggi avrei dei dubbi, perché non esistono più le condizioni di gennaio. Penso però che quell’idea potrebbe essere integrata da un elemento nuovo che potrebbe renderla attuabile. Lo Stato dovrebbe assicurare a quel titolo stabilità di valore, non già nel senso che ci imponga di risolvere oggi definitivamente il problema del valore della nostra moneta, ma nel senso che lo Stato ne garantisce il valore che ha al momento dell’emissione, in modo da essere messo al riparo dalle eventuali successive svalutazioni monetarie.

Si tratta in sostanza di creare uno strumento di stabilizzazione capace di anticipare ed accelerare le ripercussioni benefiche di una politica quale è quella che vi ho delineato, indebolendo i movimenti speculativi e determinando una smobilitazione psicologica degli operatori al rialzo di merci e valori, ed offrendo un punto di sicuro approdo ai risparmiatori che oggi, come diceva l’onorevole Corbino, non portano nemmeno più i loro risparmi in banca. Non è questa la sede per sviluppare tecnicamente una simile proposta. Io conosco tutte le obiezioni che si potrebbero muovere, ma mi pare che tali obiezioni non sono insuperabili. Se ci si pone seriamente il problema della stabilizzazione dei prezzi e della moneta e si opera secondo un piano organico nel senso, indicato, io credo che tale politica può avere successo.

Onorevoli colleghi, di fronte all’inflazione vi sono due politiche possibili.

Quella seguita dal Governo fino ad oggi è, obiettivamente, una politica inflazionistica. Essa si basa sull’attesa di una soluzione automatica della corsa alla svalutazione ed all’aumento dei prezzi per effetto del pareggio del bilancio, di prestiti esteri ed altri eventi favorevoli. È una politica che direi di «attesismo finanziario»: come quella di coloro che pensano che il miglior modo di combattere l’inflazione è quello di attenderne la fine. Ma l’esperienza storica dimostra che una volta avviati sul piano inclinato dell’inflazione non si è mai ristabilito automaticamente un nuovo equilibrio senza passare attraverso un collasso economico-finanziario.

L’altra politica che vi proponiamo rifugge da ogni forma di attesismo e propugna un intervento attivo nella vita economica, con l’obiettivo immediato della più rapida stabilizzazione dei prezzi e della moneta come condizione del risanamento finanziario. È la sola politica che, a mio giudizio, può trarci dalla attuale situazione evitando il collasso economico-finanziario, che è la minaccia più grave che pesa oggi su di noi. Cosa significa un tale evento? Basti pensare alla Germania del 1923: significa immiserimento delle grandi masse lavoratrici, espropriazione in massa dei ceti medi, rovina dei piccoli produttori, miseria crescente da una parte, accumulazione e concentramento di ricchezze dall’altra, violente convulsioni politiche e sociali. È come una sferzata violenta sul corpo della Nazione, e le conseguenze per noi sarebbero ben più gravi di quelle che furono per la Germania nel 1923, perché più grave è il disastro che ha colpito noi e diverse sono le condizioni politiche e sociali del tempo. Vero che taluni pensano di sfuggire a tali conseguenze diluendole nel tempo, pur che si riesca ad evitare che alla progressiva svalutazione si accompagni un adeguamento di salari e stipendi, cioè dei redditi di consumo. Questo è in fondo il senso vero della politica attuale.

Le classi padronali d’Italia hanno ben compreso il senso di quella politica; hanno infatti tentato e tentano di opporre una assoluta intransigenza alle richieste dei lavoratori, come si è visto nello sciopero dei braccianti, ed il Governo le ha aiutate come ha potuto. Si è persino tentato di mobilitare l’opinione pubblica contro di noi, qualificandoci come «sobillatori» dello sciopero: ma l’unico e vero sobillatore è stato il Governo con la sua politica. (Applausi a sinistra).

E la Confederazione dell’industria riflette ancora più chiaramente il senso di quella politica quando prospetta la necessità dell’abolizione della «scala mobile» e ieri il Ministro dell’industria e commercio ha riecheggiato l’identico pensiero quando ha detto che in Italia il problema da risolvere è quello della scala mobile. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che i prezzi possono salire ma i salari e gli stipendi devono restare fermi. Questo è il pensiero della Confederazione dell’industria, questo è il pensiero del suo rappresentante onorevole Togni. E se non ci fossero altri motivi, solo per questo io voterei contro il Governo.

Una voce al. centro. Può dire anche l’inverso.

SCOCCIMARRO. Ma, a parte che anche questa misura sarebbe insufficiente per le ripercussioni indirette che essa determinerebbe, sta di fatto che essa è inattuabile. Non fatevi illusioni, signori, di strappare alle classi lavoratrici una tale misura di garanzia delle loro più elementari condizioni di esistenza: non vi riuscirete. Bisogna convincersi che salari e stipendi non sono più oltre comprimibili. Stando così le cose la politica attuale minaccia di portarci al collasso. Per questa via si preparano giorni tristi per il nostro Paese.

Ora, fra queste due politiche che ho delineato la divergenza non è o per lo meno non è solo tecnica, ma politica. Ciascuna ha un suo proprio contenuto e significato economico e sociale. L’onorevole Corbino ci diceva che siamo arrivati al momento della liquidazione dei conti della guerra e del disastro economico: ora si pone il problema di chi deve pagare. Non v’è dubbio che con la politica attuale si tende a rovesciare il maggior costo del risanamento sulle classi lavoratrici. Per tale scopo si sono create le condizioni politiche necessarie con la formazione di questo Governo. Però badate: dopo la guerra 1914-18, per realizzare un tale obiettivo, ci volle il fascismo. Le classi padronali si sentono di ritentare la prova? Questa volta mi pare che l’operazione difficilmente può riuscire. Tuttavia le velleità non mancano. Intanto, per ora, devono accontentarsi di questo Governo.

UBERTI. Non c’è paragone!

SCOCCIMARRO. La politica che noi vi proponiamo fa ricadere i sacrifici della ricostruzione su tutte le classi sociali secondo un principio di equità e, a nostro avviso, con più sicura possibilità di evitare il crollo della moneta con tutte le nefaste conseguenze che ne derivano. Lo condizioni politiche necessarie per realizzare questa politica esigono un nuovo Governo.

Ieri l’onorevole Corbino si è dichiarato ottimista. Ci ha detto che i popoli non muoiono mai ed essendo noi in fase di convalescenza, anche noi non moriremo e tutto andrà per il meglio.

L’onorevole Corbino è veramente troppo ottimista. Se è vero che nella storia non vi sono situazioni senza vie di uscita, il problema però, è di sapere quale sarà la via di uscita: se sarà una via che ci consenta di fare un passo avanti oppure se sarà una via di uscita che ci obbligherà a fare un passo indietro: anche quella è una via di uscita. Ma è proprio nella scelta della via d’uscita che sta il senso di questo dibattito. A mio giudizio, dopo la liberazione non ci siamo mai trovati in una situazione così difficile, così pericolosa come quella in cui ci troviamo oggi. Lo spettro dell’inflazione distende la sua ombra nel paese e diviene sempre più minaccioso: siamo ormai ridotti a dare l’ultima battaglia per la salvezza della nostra moneta. In passato si sono perdute buone occasioni in cui si sarebbe potuto operare efficacemente al risanamento finanziario: è perciò che oggi la situazione è particolarmente grave. Pesano sulla situazione attuale le conseguenze di quello che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Oggi si presenta forse l’ultima occasione per tentare di salvare la nostra moneta: fate che anche questa non vada perduta. Bisogna cambiare politica e bisogna cambiare Governo.

In un momento così grave della vita nazionale le classi lavoratrici, a nostro mezzo, offrono la loro collaborazione con tutte le forze sane del Paese: sappiate valutarne tutto il valore e l’importanza. Non respingetela a cuor leggero. Il voto che ognuno di noi darà in questo dibattito implica una grave responsabilità dinanzi al Paese.

L’Italia è dinanzi ad un bivio: noi vi abbiamo indicato la via giusta. Sta a voi il decidere se seguirla o no. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze.

PELLA, Ministro delle finanze. Onorevoli colleghi, ai fini dell’ampio dibattito che si sta svolgendo da alcuni giorni e che investe tutti gli aspetti della vita economica e finanziaria della Nazione, il Governo ritiene doveroso, quale contributo alla discussione, procedere ad una rapida illustrazione del settore fiscale, anche perché l’Assemblea soltanto di scorcio – in occasione della chiusura della discussione generale sopra l’imposta sul patrimonio – ha avuto occasione di avere una rapida visione della situazione del Dicastero che mi onoro di presiedere.

Desidererei attraverso questa rapida esposizione portare una nota di virile e cosciente ottimismo e, soprattutto, portare in primo piano la figura di un tipo d’italiano, che forse troppo dimentichiamo nelle nostre discussioni: la figura del contribuente, a cui io ritengo (e questa sarà la conclusione della mia rapida esposizione) si debba oggi rivolgere un sentimento di viva riconoscenza.

Voi conoscete gli estremi del problema. Ancora l’esercizio 1946-47, chiuso da poco, cominciato con una previsione di tributi ordinari di 148 miliardi, concludeva con un consuntivo di entrate di poco superiore a 300 miliardi, confermando così quel disavanzo di oltre 600 miliardi che, mesi fa, aveva veramente impressionato l’opinione pubblica italiana. Però la situazione, attraverso gli sforzi di quanti ebbero l’onore di reggere le finanze italiane in questi ultimi mesi, può dirsi veramente mutata in modo radicale in quanto, già al mese di giugno, si potevano contabilizzare circa 40 miliardi di tributi ordinari, passati a 47 miliardi nel mese di luglio ed all’incirca mantenutisi in tale cifra per il mese di agosto, nonostante la consueta flessione del periodo di ferragosto.

Potevamo inoltre contabilizzare nel mese di giugno 6 miliardi e 600 milioni di imposta proporzionale 4 per cento, 7 miliardi nel mese di luglio, circa 12 in quello di agosto. Cosicché il gettito tributario totale passava rapidamente da 44 a 56 miliardi.

Desidero, ancora, premettere che, ai fini del risanamento finanziario, dobbiamo essenzialmente polarizzare la nostra attenzione sui risultati della finanza ordinaria, perché deve essere ancora una volta affermato che lo scopo prevalente della finanza straordinaria non è, oggi, quello del gettito tributario, ma è uno scopo duplice di ordine anti inflazionistico e di ordine sociale.

Il problema delle entrate deve fondamentalmente risolversi nel quadro della finanza ordinaria.

Appunto su questo quadro noi possiamo oggi scorgere delle luci che, ancora qualche mese addietro forse, non speravamo di vedere: luci le quali ci permettono di affermare che certamente noi, nel corso di questo esercizio, arriveremo a un gettito complessivo di tributi ordinari non inferiore ai 650 miliardi. (Applausi al centro).

La finanza straordinaria potrà mettere a disposizione del Paese 100-150 miliardi e, poiché la valutazione dei 650 miliardi di tributi ordinari, a mio avviso, può considerarsi prudenziale, io credo che si possa contare su un gettito totale di 800 miliardi per l’esercizio 1947-48. (Approvazioni al centro). Sono 800 miliardi nei confronti dei 300 con cui si concludeva l’esercizio testé decorso; sono dunque 500 miliardi di maggiori entrate su cui l’esercizio in corso può fare assegnamento.

È bene, onorevoli colleghi, che noi ci poniamo ad analizzare questi dati, poiché ancora troppo facilmente si ripete fra noi – e non soltanto fra noi – lo slogan secondo cui il contribuente italiano ha perso l’abitudine di pagare le imposte. Se noi vogliamo considerare il totale dell’incidenza tributaria degli 800 miliardi sull’economia nazionale, rispetto alla pressione prebellica, ci troveremo a dover paragonare gli 800 miliardi attuali con i 23 miliardi e mezzo circa incassati nell’esercizio 1938-39.

Il rapporto sarebbe ancora più favorevole se prendessimo come base la media del quinquennio ante-bellico che contabilizzò 19 miliardi. Ma anche partendo dai 23 miliardi e 400 milioni, oggi ci troveremmo davanti ad una pressione fiscale che è 34 volte quella dell’anteguerra: e poiché la situazione in termini di reddito, di capitale, di volume di scambi, probabilmente non è superiore al 70 per cento dell’anteguerra (naturalmente sono cifre molto approssimative soprattutto richiamate per dare il senso della dimensione del fenomeno) noi arriveremmo alla conclusione che la pressione è 48 volte l’anteguerra rendendo omogenei i dati. Se volessimo fare il confronto soltanto rispetto ai tributi ordinari, potremmo concludere che la pressione attuale è 40 volte quella prebellica; un rapporto di moltiplicazione superiore allo stesso rapporto di aumento della circolazione cartacea e che sfiora all’incirca l’indice dell’aumento del prezzo all’ingrosso. E allora, onorevoli colleghi, io credo veramente venuto il momento di proclamare dinanzi alla Nazione e dinanzi al mondo che il contribuente italiano sta facendo tutto il suo dovere.

Tutto ciò premesso rispetto alle dimensioni globali del fenomeno, vale la pena di procedere ad un ulteriore esame di natura qualitativa del fenomeno fiscale. Si dice che la pressione fiscale gravi essenzialmente sul settore dei consumi, che il gettito è determinato essenzialmente dalle imposte indirette, mentre invece una finanza democratica dovrebbe prevalentemente mirare alle imposte dirette sui redditi.

Non è esatto. Io non voglio qui indugiarmi a ricordare la distinzione fra imposte non trasferibili ed imposte trasferibili sul consumatore (distinzione che porta ad affermare una superiorità delle imposte dirette sui redditi, principalmente se a carattere personale, in quanto non si trasferiscono sul consumo, mentre tutte le altre imposte finiscono per trasferirsi sul consumatore) – non voglio indugiarmi a ricordare che questa distinzione presuppone un’offerta di merci sul mercato che equilibri la normale domanda.

In una situazione come l’attuale mi chiedo se oggi abbia significato concreto la distinzione fra tributi che si trasferiscono e tributi che non si trasferiscono, in quanto, purtroppo, tutto il carico tributario, diretto ed indiretto, tende a trasferirsi sul consumatore, in sede di prezzo di vendita. Perciò il problema dell’analisi del gettito totale non ha tanto importanza per oggi, quanto per domani, cioè per il momento in cui la normalità degli scambi raggiunga tutto il suo significato.

Ma è già confortante constatare che, contrariamente a quanto si ritiene dall’opinione pubblica non completamente informata, noi abbiamo raggiunto oggi, come incidenza di imposte dirette sui redditi, il grado di incidenza dell’esercizio 1938-39.

Infatti nell’esercizio 1938-39 le imposte dirette sui redditi rappresentavano il 27 per cento del carico totale; l’analisi del gettito del mese di agosto 1947, ultimo mese, presenta lo stesso preciso rapporto del 27 per cento, con un progresso notevole rispetto all’esercizio 1946-47 in cui il rapporto era disceso al 16 per cento.

Quindi non sarebbe esatto affermare che non ci sia lo sforzo costante dell’Amministrazione finanziaria di arrivare all’attuazione di quei postulati di finanza democratica i quali suggeriscono di portare all’estremo il gettito delle imposte dirette e di moderare, per quanto possibile, compatibilmente con le necessità di bilancio, il settore dell’imposizione dei tributi indiretti che gravano immediatamente sul consumo. E badate che questo ripristino dell’incidenza rispetto all’anteguerra è stato ottenuto nonostante che l’imposta fabbricati praticamente non esista nel quadro fiscale. Prima della guerra essa dava 350 milioni all’anno, oggi dà 330 milioni, per il combinato concorso e del blocco dei fitti e delle distruzioni belliche. Si è raggiunto questo risultato nonostante che dal 1° luglio 1947 (e quindi per il mese di agosto preso in considerazione) sia stata completamente soppressa la categoria C-2, gravata sopra gli stipendi degli impiegati di Stato. Cosicché, se rendessimo omogenei i dati di comparazione, noi potremmo veramente concludere che attualmente l’incidenza delle imposte dirette è superiore a quella dell’anteguerra. Oggi ogni italiano paga 18 mila lire a testa all’anno di tributi, contro 520 lire d’anteguerra. Questi sono gli estremi del problema. Onorevoli colleghi, dobbiamo cominciare a pensare veramente al contribuente e metterlo in primo piano, all’ordine del giorno della Nazione.

Sarei ora tentato (ma ho firmato una cambiale in ordine alla durata della mia esposizione), sarei tentato di passare in rassegna con una certa profondità i diversi settori del dicastero che ho l’onore di rappresentare, ma mi limiterò ad alcuni cenni, soprattutto per venire incontro ad osservazioni che la bontà degli onorevoli colleghi non ha ancora portato nell’Aula, ma che hanno avuto occasione di manifestarsi nel Paese attraverso a comunicati di associazioni, attraverso ad articoli di stampa, attraverso ad altri mezzi.

Nel settore delle imposte dirette in cui speriamo di raggiungere e superare i 120 miliardi e forse di avviarci verso i 140 miliardi, esiste oggi il problema dell’adeguamento degli imponibili di ricchezza mobile per industriali e commercianti.

Si è provveduto a pubblicare un decreto che porta ad una rivalutazione automatica con aumento del 200 per cento o del 50 per cento a seconda della data di nascita dell’imponibile. Era un decreto necessario in quanto la revisione dei redditi fatalmente va a rilento per un complesso di ragioni. Tutto questo però non deve preoccupare affatto il mondo dei contribuenti interessati poiché dichiaro nel modo più formale che non si intende, attraverso a questa forma automatica di revisione, impedire che il singolo (soprattutto il piccolo ed il medio contribuente) abbia la possibilità di ottenere quella giustizia individuale che deve essere un caposaldo di una corretta politica valutaria.

Sul settore della ricchezza mobile occorre sottolineare il coraggioso provvedimento preso allo scopo di andare incontro alle istanze delle categorie interessate, non soltanto colla soppressione della ricchezza mobile categoria C-2 per i funzionari dello Stato, ma bensì anche colla elevazione del minimo di esenzione a lire 240.000 annue per tutti i prestatori d’opera, impiegati e operai, alle dipendenze di aziende private, provvedimento al quale con recente disposizione è stata data la decorrenza del 1° luglio 1947. Abbiate la bontà, onorevoli colleghi, di tener presente che questa disposizione di sgravio costa per il bilancio dello Stato da 22 a 23 miliardi; ed era questa una delle ragioni per cui si rimase per lungo tempo perplessi sulla possibilità o meno di arrivare ad uno sgravio così ingente e la conclusione affermativa fu dettata soprattutto dai risultati che, in genere, accusava il gettito tributario degli ultimi mesi.

È all’ordine del giorno il problema dell’imposta complementare. L’imposta complementare sul reddito oggi non assolve al suo compito: è praticamente ferma a posizioni molto arretrate. Occorre avere il coraggio di una revisione di tabelle che forse oggi non sono applicabili a seguito della intervenuta svalutazione, ed occorre affrontare il problema degli accertamenti con criteri forse più svelti, più rapidi di quelli seguiti finora.

Ritengo che il problema di un accertamento del reddito globale e personale di ogni cittadino abbia una importanza che va molto al di là di quello che è il gettito tributario che può derivare dall’imposta. È di supremo interesse sul piano politico e sociale di avere finalmente un censimento degli italiani in termini di reddito globale personale: ed è in questo senso che la Commissione finanziaria intende rivolgere i suoi sforzi nel prossimo futuro.

Il settore della tasse e delle imposte indirette può assicurare contro i 142 miliardi incassati nel decorso esercizio un gettito complessivo di almeno 240 miliardi. Caposaldo di questo settore è l’imposta sull’entrata la quale va procedendo da qualche mese con un gettito che non esito a definire superbo.

La riduzione dell’aliquota dal 4 al 3 per cento ha dato ancora una volta la riprova che il problema di un copioso gettito è anche – e starei per dire, soprattutto – in funzione della sopportabilità delle aliquote. È un tributo che potrà ancora andare molto oltre. Desidero però affermare, come ho avuto occasione di sottolineare in questa Assemblea alcune settimane fa, che il rendimento dell’imposta sull’entrata, ridotti i termini ad omogeneità, è oggi superiore a quello dell’imposta sugli scambi di anteguerra. Quindi il problema dell’evasione all’imposta entrata è un problema che oggi presenta dimensioni non maggiori di quelle dell’anteguerra. Probabilmente tali dimensioni sono ancora cospicue. L’amministrazione finanziaria farà di tutto per colpirle. La Guardia di finanza, che sta in questi mesi perfezionando i suoi ordinamenti e la sua organizzazione, ha veramente apportato un contributo notevole contro l’evasione; e vorrei avere qui il tempo per potervi riportare le cifre che dimostrano i risultati conseguiti.

Sempre in ordine al gettito dell’imposta, in prima linea, non soltanto in cifra assoluta, ma anche in linea relativa, credo che si debba annoverare il compartimento di Milano, il quale da solo fornirà forse un terzo del gettito dell’intera imposta.

L’esame del settore delle imposte indirette e delle tasse sugli affari mi permette di dichiarare che non è esatto che il Ministero delle finanze abbia intenzione di rivedere il problema della sovraimposta di negoziazione 4 per cento, che colpisce le contrattazioni di borsa. È questa un’imposta che dà oggi un gettito mensile superiore al mezzo miliardo e che potrebbe anche sfiorare il miliardo.

Non penso che essa arrechi un grave turbamento all’economia generale della Nazione. Non sembra vi sia oggi ragione sufficiente per prendere in esame il problema ai fini di una eventuale abolizione.

Voi sapete che il sistema della imposta di negoziazione presentava l’inconveniente di alcune deficienze di valutazione che sono state corrette con un provvedimento in data 5 settembre 1947 in corso di pubblicazione. Con tale provvedimento abbiamo inteso portare sullo stesso piano, come criteri di valutazione ai fini dell’imposta ordinaria di negoziazione e dell’imposta straordinaria sul patrimonio, le società quotate in borsa e le società non quotate in borsa. Nessun’altra intenzione ci ha guidato e tanto meno una minore fiducia negli organi preposti alla valutazione, che vengono, tuttavia, integrati con rappresentanti della finanza, i quali già prima partecipavano in veste consultiva.

Il settore dazi ed imposte di fabbricazione ha pure camminato con ritmo sodisfacente. Molte tariffe sono state ritoccate e tributi nuovi sono stati istituiti tra cui l’imposta di fabbricazione sui filati che, configurata inizialmente per un gettito di dieci miliardi ed impostata per quindici miliardi, sta oggi dando un gettito mensile di circa un miliardo ed ottocento milioni. Con un largo margine rispetto alle previsioni iniziali.

Abbiamo ritoccato il diritto di licenza sulle importazioni e so di sfiorare un punto delicato. Quando si sono concessi agli statali i noti aumenti si è chiesto al Ministro delle finanze di compiere qualche sforzo di fantasia per finanziare il nuovo onere di spesa. Gli sforzi hanno portato a due inasprimenti: uno sul settore delle importazioni; l’altro sul settore dei monopoli di cui parlerò più oltre.

Per quanto riguarda le importazioni, voi conoscete la coesistenza di dazi specifici con l’imposta di licenza, che è un vero dazio «ad valorem». Il dazio specifico è regolato dalla vecchia tariffa doganale del 1921, che oggi praticamente è inefficace agli effetti fiscali perché, – inizialmente stabilita in lire oro – è stata allineata soltanto con la moltiplicazione per 3,66, a seguito della legge monetaria del 1927: nulla più si è fatto, poi, neanche a seguito del nuovo allineamento monetario del 1936, e tanto meno si è proceduto ad ulteriori allineamenti nel dopoguerra.

Sicché, se noi oggi volessimo portare, in termini di lire attuali, le lire espresse da quella tabella, dovremmo moltiplicare forse per cinquanta la generalità dei dazi specifici contemplati nella tariffa doganale. Ciò, naturalmente, sarebbe molto seducente per il Ministro delle finanze il quale vedrebbe automaticamente moltiplicato per cinquanta l’attuale gettito di circa 600 milioni mensili dei dazi doganali.

Senonché, un problema di questo genere avrebbe significato ricostruire una barriera doganale che la svalutazione monetaria aveva abbattuto: ricostruirla in funzione fiscale, ma anche in funzione economica e cioè protezionista. E dato e non concesso che il grado di protezione adottato nel 1921 nei confronti dei diversi settori economici, effettivamente corrispondesse ad una esigenza di giustizia per i singoli settori, resterebbe pur sempre da dimostrare che dal 1921 ad oggi il grado di necessità di protezione dei diversi settori si sia mantenuto nello stesso rapporto.

Cosicché, si è rimasti perplessi dinanzi alla possibilità di un provvedimento di questo genere e si è ritenuto più opportuno, nel senso di errare di meno, procedere ad una revisione del diritto di licenza di importazione, che praticamente è stato moltiplicato per quattro, con un incremento di gettito di 30 miliardi.

So che il provvedimento ha gettato lo allarme in molti settori interessati e non escludo che con l’andar del tempo esso possa essere ripreso in esame in funzione di un primo adeguamento della tariffa doganale, quando abbiano avuto luogo tutte le più ampie discussioni, necessarie al riguardo. Affermo, però, che in tale attesa, è precisa intenzione dell’amministrazione finanziaria di attenuare gli inconvenienti che possono essere derivati dalla moltiplicazione per quattro del diritto di licenza. Si è portato dal cinque al dieci per cento l’aliquota, ma anziché applicarla sul dollaro a corso legale, si applicherà sul corso medio. Non escludo che nel frattempo si possa arrivare a temperamenti attraverso una migliore disciplina dell’istituto della temporanea importazione e del cosiddetto Draw-back, soprattutto per le categorie che esportano prodotti in cui debba entrare in larga misura la materia prima importata e sulla quale incida in misura insopportabile la quadruplicazione di questo diritto di licenza di importazione.

Onorevoli colleghi, so che non debbo abusare della vostra cortesia, so che la materia non è delle più divertenti, so che vi sono quindi molte ragioni perché il mio esame debba essere rapido, volendo conchiudere in settimana le nostre discussioni. Perciò rinuncio a molti argomenti. Ho accennato al problema dei monopoli e debbo qui rispondere ad alcune osservazioni che si fanno intorno alla loro gestione.

Si è protestato, in primo luogo, contro lo aumento dei prezzi andato in vigore, se non erro, col 27 luglio 1947. Ricordate come si presentava il problema, quale lo abbiamo visto in quest’Aula un mese fa, quasi preannunciando il provvedimento che sarebbe venuto? Noi ci trovavamo ad avere dei prezzi di vendita dei tabacchi che erano 24 volte quelli anteguerra, mentre pagavamo il tabacco (materia prima) 50 volte l’anteguerra; la mano d’opera era 35-36 volte superiore al livello prebellico: coi recenti aumenti siamo arrivati a 55 volte. Non era possibile continuare a vendere effettivamente sotto-costo il prodotto di monopolio ed è per questo che ci sembrò veramente necessario arrivare a un adeguamento che ha significato portare a 32, rispetto all’anteguerra, il livello dei prezzi. E può darsi che non sia neanche l’ultimo limite a cui si arriverà. (Commenti).

I      fumatori forse hanno questa disgrazia che da qualche tempo si avvicendano ai Ministeri finanziari Ministri che non fumano. (Si ride).

Quando si spingono al massimo tutti i tributi, ed in una determinata circostanza occorre incrementare il gettito per una determinata cifra, come è successo allo scopo di finanziare l’aumento degli impiegati dello Stato, penso che un ritocco al prezzo a carico dei fumatori, che pagano notevolmente meno rispetto all’anteguerra, non sia davvero un delitto.

RUBILLI. Questo per concorrere alla discesa dei prezzi!

PELLA, Ministro delle finanze. No, il problema, onorevole collega, è molto più vasto. Il problema è questo: premesso che ai prezzi a cui si vendeva allora i monopoli erano industrialmente passivi, sorge l’interrogativo se convenga lasciare una azienda di Stato in condizioni di disavanzo, con le conseguenze rispetto al volume della circolazione che non sta a me illustrare, o se non convenga invece arrivare ad una ulteriore pressione per sanare il deficit. Questo è il problema in termini generali.

Il disavanzo di un’azienda statale quasi sempre è padre di un incremento di circolazione per conto dello Stato. La pressione fiscale non sempre costituisce causa di incremento di circolazione e se la costituisce quasi sempre è un incremento di circolazione per conto del commercio. Tale concetto è applicabile a tutte le aziende statali, compresa quella dei monopoli, la quale continuava a sanare il conto economico a spese dell’imposta erariale gravante sui generi di sua produzione.

Il settore dei monopoli ha avuto altre critiche: perché si vendono le sigarette a borsa nera? Perché non le vende lo Stato? Perché bisogna comprare le sigarette estere lungo le strade di Roma e di altre città italiane e non si possono comprare dal tabaccaio?

Domande molto ovvie, a cui però si possono dare risposte altrettanto ovvie. In primo luogo (e non si consideri spregiudicata la mia affermazione) il problema della borsa nera del tabacco è un problema di grande importanza sul piano morale, ma non ha altrettanta importanza sul punto di vista economico immediato.

Infatti, per un fenomeno che è consueto in tutti i periodi di guerra e del dopoguerra e che viene aiutato dal sistema delle tessere, l’aumento di consumo di tabacchi è stato del 30 per cento rispetto all’anteguerra. Oggi i monopoli (produzione di luglio 1947) producono e vendono il 10 per cento più dell’anteguerra nonostante le distruzioni di stabilimenti e di magazzini e delle scorte relative.

Vi è un venti per cento di squilibrio tra la domanda e l’offerta in cui si inserisce la borsa nera. Il problema non è grave oggi, dal punto di vista economico, ma lo diventerà domani quando, o per diminuito consumo, o per incremento certo della produzione, il monopolio sarà in grado di portare sul mercato un’offerta uguale alla domanda. Ed allora per un prodotto che almeno per due terzi (anzi, dovrebbe esserlo per i quattro quinti), che per quattro quinti è imposta e per un quinto (oggi è un terzo) è costo industriale, voi vedete quale largo margine vi sarà di concorrenza in quel giorno ai danni dello Stato, in funzione di vero e proprio contrabbando.

Per allora la borsa nera dovrà essere definitivamente stroncata ed è per questo che da alcune settimane, col concorso di altri Dicasteri, soprattutto quelli della Giustizia e dell’interno, sono allo studio provvedimenti per cominciare un’azione di repressione veramente efficace. (Commenti).

GIANNINI. Adesso sì che aumenta il prezzo!

PELLA, Ministro delle finanze. Se la lettura del verbale di così autorevole Assemblea potrà, fra le righe, far capire al Ministro delle finanze che vi può essere una sfumatura di desiderio in qualche altra direzione, se questo dovesse succedere, può darsi che il grado di diligenza nell’attuazione del provvedimento possa anche essere in funzione di tale desiderio.

Ma, onorevoli colleghi, il problema della borsa nera è soltanto del nostro settore? Siamo proprio sicuri che vi siano dei settori economici in Italia in cui il problema della borsa nera si presenti con un ordine di grandezza inferiore al 20 per cento? Questa è la domanda che vi faccio. Per quanto riguarda il problema delle sigarette estere, il collega Merzagora sa che da un anno i Monopoli bussano alla porta del suo Dicastero. È un desiderio comune dei fumatori e del Monopolio di poter adottare formule di importazione e di vendita di sigarette estere. Il problema è di ordine valutario, direttamente o indirettamente, e non può che essere risolto in funzione delle possibilità valutarie. Potrei ancora attardarmi su altri settori della finanza ordinaria. Non lo faccio perché non posso esimermi, in questo scorcio di tempo che mi resta a disposizione, di fare alcuni accenni alla finanza straordinaria: settore in cui troviamo vecchi tributi, tipo l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di speculazione e di regime, accanto a nuovi tributi, come quelli contemplati dal decreto 29 marzo 1947 – da voi esaminato e da voi perfezionato – cioè l’imposta progressiva straordinaria sul patrimonio, l’imposta proporzionale 4 per cento, l’imposta sugli enti collettivi.

Per quanto riguarda l’avocazione dei profitti di guerra, l’avocazione dei profitti di regime e di speculazione, io devo ancora una volta ripetere che è grande peccato che l’amministrazione finanziaria non abbia potuto nel passato, con la necessaria tempestività, arrivare alla loro applicazione sollecita. Oggi ci troviamo in enorme ritardo; oggi dobbiamo risolvere questi problemi soprattutto in funzione del tempo, in quanto ogni mese che passa rende più difficile il raggiungimento di concreti risultati. Abbiamo adottato in sede legislativa dei perfezionamenti; forse altri ne adotteremo in prosieguo di tempo. Nessuna intenzione ci guida di vessare determinate categorie di contribuenti, ma solo l’intenzione precisa di compiere serenamente giustizia con spirito di benevolenza nei confronti dei minori interessati. Ma soprattutto non si ritenga che l’involontario ritardo nell’applicazione possa significare archiviazione di questi tributi.

Per quanto riguarda l’imposta progressiva sul patrimonio, gli uffici si stanno attrezzando per la sua applicazione. Il termine per la presentazione delle dichiarazioni è stato portato al 31 ottobre e ritengo che veramente non debba parlarsi di altre proroghe.

Per questo tributo, veramente straordinario, io voglio soltanto formulare un augurio ed è che il Ministro delle finanze del tempo in cui il tributo sarà riscosso possa veramente iniziare la riscossione in un quadro di stabilità monetaria: perché, se così non fosse, noi avremmo finito per compromettere inutilmente uno degli strumenti più efficaci della finanza straordinaria.

Per quanto riguarda la proporzionale 4 per cento, onorevoli colleghi, quante discussioni sono state fatte! Io avrei sperato, veramente, in una maggiore solidarietà ed onestà, in termini politici, attorno a tale imposta, la quale era nata nella notte dal 28 al 29 marzo 1947, col consenso unanime e colla firma dei Ministri del tripartito allora al potere. Posso dire che la riscossione procede felicemente, senza inconvenienti; ma quello cui io volevo accennare e che forse costituirà una rivelazione per l’Assemblea, sono gli effetti che la riscossione ha avuto in senso favorevole sulla circolazione per conto dello Stato.

Il Ministro del bilancio e il Ministro del tesoro forniranno certamente degli ampi dati sul problema della circolazione; io voglio limitarmi a ricordare che nei mesi di marzo, di aprile, di maggio, vi era stato un incremento di circolazione per conto dello Stato di un ordine di grandezza che andava dai 12 ai 15 miliardi: nel mese di giugno invece – primo mese di riscossione di questa imposta 4 per cento – la circolazione non è aumentata, per conto dello Stato, se non nella misura della cifra insignificante di 500 milioni. Nel mese di agosto – mese in cui ha avuto luogo la riscossione della seconda rata – non soltanto la circolazione per conto della Stato non è aumentata, ma è diminuita di ben 4 miliardi.

Questa, onorevoli colleghi, è l’importanza che ha assunto questo tributo, il quale ha dato un efficacissimo contributo, come abbiamo visto dalle cifre, a frenare l’aumento della circolazione per conto dello Stato, che costituisce una delle maggiori preoccupazioni.

L’Amministrazione dello Stato si fa carico di andare incontro a tutte le esigenze dei piccoli e dei medi contribuenti; ma non vorrei che si esagerasse nel prospettare le dimensioni del fenomeno. Ricordiamoci – sono cifre che già si conoscono, ma ripetiamole – che su 10 milioni di articoli di ruolo dell’imposta terreni, 8 milioni 600 mila non hanno niente a che vedere coll’imposta 4 per cento, in quanto essi si trovano tutti al di sotto di quel limite delle 100 mila lire che, per essere espresso in termini di lire anteguerra, moltiplicate soltanto per dieci, significa oggi certamente molto di più di 100 mila lire. Quindi, soltanto un 15 per cento degli articoli di ruolo si trova ad essere interessato a questa imposta.

Inoltre, fino a 750 mila lire di imponibile vi è quella rateazione triennale, che praticamente, intesi i patrimoni in termini di valore attuale, può significare rateazione fino a due milioni-due milioni 500 mila di valore attuale.

Se vi sono state delle revisioni intermedie in aumento, per cui la moltiplicazione per dieci o la moltiplicazione per cinque abbiano significato una palese sperequazione, voi lo sapete che sono già state date disposizioni al riguardo per i terreni e per i fabbricati allo scopo di eliminare le sperequazioni stesse. Prossimamente sarà presentato un provvedimento che concederà a tutti i titolari di redditi di categoria B) di chiedere la loro revisione in diminuzione, ai fini del 4 per cento, entro il 31 dicembre di quest’anno, allo scopo di eliminare gli effetti delle accennate revisioni intermedie e sempre quando esse non siano state determinate da aumentate dimensioni dell’azienda.

Per quanto riguarda l’imposta sugli enti collettivi, ormai non ho più bisogno di ripetervi che davanti al problema di applicare un tributo addizionale sul settore delle società azionarie, io avrei considerato più equo e più corretto, da un punto di vista di giustizia tributaria, tassare quella parte dei saldi di rivalutazione dell’attivo che rappresentano un vero incremento patrimoniale; ad esclusione, cioè, dei saldi che sono semplice contropartita della rivalutazione del capitale e delle riserve.

L’Assemblea, nella sua sovranità, ha adottato la formula del tributo globale sul patrimonio dell’ente, e con questo – ed è la dichiarazione che desidero fare a nome del Governo – è certamente sepolto il problema della tassazione delle rivalutazioni dal punto di vista fiscale: poiché costituirebbe una evidente duplicazione riproporre il problema in termini fiscali.

Dinanzi al suggerimento dell’onorevole Valiani di arrivare ad una rivalutazione degli impianti, egli parlava addirittura di un coefficiente 25, io vorrei, fra i due estremi, della formale ampia proposta dell’onorevole Valiani e del diniego assoluto – così mi sembra avere inteso – dell’eminente collega Merzagora, affermare che esiste ancora un problema delle rivalutazioni sotto un profilo di politica del tesoro e sotto un profilo di maggiore sincerità dei bilanci. Di tale problema il Governo deve farsi carico, e non è escluso che esso possa essere esaminato in funzione di una opportuna mobilitazione anticipata dell’imposta sugli enti collettivi, con criterio facoltativo, allo scopo di accogliere, se possibile, le istanze dei colleghi dei lavori pubblici e dell’agricoltura, che stanno bussando per un complesso di loro opere che, alla vigilia dell’inverno, desiderano mettere in cantiere.

Qualsiasi maggiore dettaglio, voi comprendete, su questo argomento non sarebbe oggi possibile.

Arrivati a questo punto, debbo ancora ricordare che esiste un problema della finanza locale, il quale sta diventando nuovamente scottante.

Esisteva un fondo di integrazione, e questa è materia del Tesoro, che col 31 dicembre di quest’anno deve avere termine.

I bilanci dei comuni e delle provincie devono trovare il loro assestamento con mezzi propri: concetto che non può essere rifiutato, perché non c’è ragione che un comune delle Alpi debba pagare per un comune della Sicilia, o viceversa un comune della Sicilia per quello delle Alpi.

È compito dei singoli amministratori preposti alla amministrazione di un comune o di una provincia di assumersi la responsabilità del punto limite di equilibrio fra programma di spese e programma di pressione fiscale, rispondendone direttamente agli amministrati.

Voci dall’estrema sinistra. E i mezzi?

PELEA, Ministro delle finanze. Proprio in questi giorni il Ministro delle finanze ha tenuto – con i sindaci delle maggiori città – riunioni che si concluderanno tra breve per fornire gli strumenti idonei ai comuni perché possano – qualora lo ritengano – applicare i tributi necessari per raggiungere il pareggio del proprio bilancio. (Commenti).

Cioè, il potere centrale deve dare gli strumenti: spetta agli amministratori locali decidere se applicarli o meno. (Commenti).

Ora io ritengo che debba la finanza locale avocare a sé determinate categorie di tributi, che malamente possono essere applicate dall’Amministrazione centrale.

Tutta la tassazione dei consumi voluttuari, a mio modesto avviso, potrebbe essere, molto più opportunamente, demandata agli enti locali, sia per la relatività di consumo voluttuario da regione a regione anche in termini di limiti di spese, sia per il più efficace controllo che l’ente locale può esercitare.

So però – e questo hanno detto a chiare note principalmente gli amministratori dei grandi comuni – che non v’è molta fiducia nell’esito di questi tributi.

Io non condivido questo pessimismo. L’imposta sulle spese non necessarie è uno strumento che non è detto non possa essere applicato con revisioni magari radicali.

Io vorrei fosse qui presente il sindaco della mia città, l’onorevole Luisetti, per dargli atto che in una piccola città di 42 mila abitanti si sono notificati circa 200 accertamenti, mentre in grandi città se ne sono fatti da 10 a 15.

Non nego che sia più facile l’accertamento in piccoli centri piuttosto che in grandi centri. Però la difficoltà non esime dall’obbligo di cercare i mezzi per superarla.

O il sistema – e questo è il problema che sarà dibattuto nella prossima riunione – è di possibile applicazione attraverso determinati perfezionamenti, ed allora perfezioniamolo ed applichiamolo, oppure aboliamo la legge.

Una voce a sinistra. È un inutile duplicato dell’imposta di famiglia. Un inutile e dannoso duplicato.

PELLA, Ministro delle finanze. Dovremmo dimenticare allora quel concetto di progressività che non si esprime soltanto nella forma elementare di una tabella di imposte con aliquote progressive, ma che si può esprimere anche con la coesistenza di due tributi, uno principale e l’altro collaterale.

E d’altra parte, l’imposta sulle spese non necessarie è un’imposta tipica che non vuole colpire tutto il reddito, come l’imposta di famiglia, ma che vuole colpire quella parte di reddito consumato (mentre l’imposta di famiglia colpisce consumato e risparmiato) che eccede il limite normale di consumo. Questo è il concetto.

Per quanto riguarda l’incidenza della finanza locale, ricordo che nel 1946 l’ammontare dei tributi comunali è stato di 29 miliardi, contro 4 miliardi e mezzo del 1939. Quindi si ha la sensazione che la pressione della finanza locale si esprima in termini notevolmente minori di quelli della finanza erariale.

Per quanto riguarda le provincie, da un miliardo del 1939 siamo passati a 3 miliardi e 700 milioni.

Vi è un tarlo roditore (in termini fiscali) della finanza locale ed è l’impossibilità di far rendere la sovrimposta fabbricati a seguito del blocco dei fitti. Questo è veramente uno degli aspetti fondamentali del problema, problema di natura eminentemente transitoria e che suggerirà quindi di dare carattere transitorio ad alcune delle provvidenze che saranno studiate in questi giorni per arrivare ad una sistemazione del bilancio delle entrate locali.

Onorevoli colleghi, dall’ulteriore corso della discussione io potrei attendermi da voi un’osservazione d’ordine generale: «ma tutto questo significa camminare sui vecchi solchi della finanza, tutto questo ha significato non affrontare quel problema generale della riforma del sistema tributario che pure è richiesto da anni e da studiosi e da tecnici».

L’osservazione sarebbe esatta principalmente se dovesse rivolgersi al futuro, nell’ipotesi che il Governo non si facesse carico di un problema di questo genere. Per il passato ritengo che sarebbe stato un errore arrivare ad una riforma strutturale del sistema che incidesse troppo profondamente. Qualsiasi riforma del sistema tributario significa un rischio in ordine al gettito totale. Tali riforme si fanno o quando il gettito è quasi nullo (quindi, in ipotesi, nel 1944-45, ma evidentemente non le si poteva affrontare), oppure occorre attendere che i vecchi sistemi diano, in termini di gettito, quel limite massimo a cui si può arrivare; cosicché, adottando le cautele necessarie, perché nel frattempo il gestito non si affievolisca, impostare il problema della riforma generale. Ed è proprio questo che il Ministro delle finanze sta facendo attraverso la nomina di una apposita Commissione, la quale dovrà studiare il problema della riforma, sia in funzione di quel principio di progressività proclamato dalla Costituzione, sia in funzione del nuovo ordinamento regionale che naturalmente avrà delle incidenze profonde su tutto il sistema.

MICHELI. E allora il collega Merzagora cosa dice?

PELLA, Ministro delle finanze. Nel frattempo, onorevoli colleghi, l’amministrazione finanziaria si propone di affinare i suoi strumenti, di migliorare i mezzi di cui dispone, perché il gettito di 650 miliardi di tributi ordinari progressivamente migliori. Ho, però, la sensazione che l’incremento dipenderà soprattutto dal naturale incremento della ripresa economica, cioè dal passaggio dall’accennato indice 70 per cento ad un indice prossimo al 100 per cento: cosicché il gettito dei tributi ordinari potrà avviarsi verso il traguardo dei mille miliardi. La finanza farà tutti gli sforzi necessari: credo che i risultati conseguiti finora possano dare sufficiente affidamento per il futuro.

Onorevoli colleghi, se nelle notizie che vi ho comunicato vi può essere motivo di compiacimento, la nostra gratitudine deve essere rivolta in due direzioni: verso il contribuente e verso i funzionari dell’Amministrazione. L’Amministrazione finanziaria ha saputo resistere ai diversi cicloni che si sono abbattuti; ha saputo, attraverso privazioni di ogni genere dei funzionari dai gradi più alti ai minori, dare una collaborazione di cui oggi vediamo i frutti concreti.

A questi funzionari io sono in dovere di rivolgere – e penso anche a nome vostro – il mio riconoscente ringraziamento. (Applausi al centro ed a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giannini. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questo dibattito presenta un equivoco iniziale, perché è fondato su alcune mozioni di sfiducia che sono state presentate da chi non aveva precedentemente fiducia, e anzi aveva precedentemente dichiarato la sua sfiducia al Governo.

Molto più interessante sarebbe stato forse, se si fosse chiesto a chi aveva avuto fiducia se questa fiducia ha ancora, se ce l’ha piena o condizionata, se per caso l’avesse perduta del tutto.

Un altro elemento disorientante è che fino adesso noi non abbiamo ancora avuto un vero e proprio discorso d’opposizione.

Il solo vero discorso di opposizione fino a oggi ci è sembrato quello del ministro Merzagora.(Si ride), al quale facciamo le nostre congratulazioni per il suo felice debutto oratorio in questa Assemblea.

Gli altri si sono lagnati di cose varie. L’onorevole Nenni vorrebbe il monopolio dei cambi, e colpire i redditi al di sopra di un livello alimentare. Ha detto, tra l’altro, una frase qualunquista (Si ride). Per respingere l’accusa di voler andare al governo a scopo elettorale, ha detto che il Governo non può influire sulle elezioni, oggi, con il suffragio universale e con il voto alle donne. Questa è un’idea nostra, espressa dentro e fuori l’Aula, e ringraziamo l’onorevole Nenni per il prezioso riconoscimento d’una situazione di fatto su cui anche noi fondiamo le nostre migliori fortune.

Egli ha proposto anche un’altra cosa importantissima, fondamentale, di cui però mi occuperò in seguito. Comunque la conclusione del suo discorso, in sostanza, è stata questa: Alcide, riprendimi con te! (Viva ilarità).

L’onorevole Togliatti non ci ha meno sorpresi. Egli si è indispettito perché gli disturbano l’affissione dei manifesti. Si potrebbe dire, con una freddura molto elementare, che non è giustificato un attacco per degli attacchini. (Si ride). Ci sembra poco. L’onorevole Togliatti se l’è presa anche con un certo articolo 290, ed ha sciolto un inno alla libertà. Siamo veramente lieti di aver convertito alla libertà un così eminente collega e, se egli è realmente convinto di ciò che dice, la libertà, tra lui, noi e l’onorevole Corbino, non correrà più nessun pericolo. (Si ride). È inutile rilevare, tra l’altro, che il suo felicissimo dire è ordinaria amministrazione. La disavventura dell’onorevole Pratolongo è la disavventura del nostro onorevole Mastrojanni. «Il bene – si dice al mio paese – spesso al male si assomiglia, e chi va per questi mari, questi pesci piglia».

Il Ministro degli interni – s’è lagnato l’onorevole Togliatti – mi dà del fascista. Beh, capita a tutti! Egli si lagna poi dei disordini di Gorizia. Deploro che il Ministro degli interni non gli abbia detto, a proposito di questi disordini, che molti di coloro che sono andati, diciamo così, a disordinare contro gli slavi, erano buoni comunisti: ci sono andati con bandiere rosse, con le mani che prudevano, perché erano sì, comunisti, ma prima d’essere comunisti erano goriziani. (Approvazioni). Non capisco perché il Ministro Scelba non abbia fornito all’onorevole Togliatti questa preziosa informazione.

Egli vuole – Santo Cielo, anche lei onorevole Togliatti! – una legge in difesa della Repubblica ma, subito dopo averla chiesta, riconosce che il Governo finisce sempre per fare quello che vuole. Ed allora che bisogno c’è di fare questa legge? Comunque, anche il ruggibondo parlare dell’onorevole Togliatti, si conclude con la richiesta d’un posticino. «Anch’io son figlio di Dio». (Si ride).

Saragat. Anche lui non ha fiducia, e almeno formalmente anche lui non l’ha mai avuta. Vuole un governo a direzione socialista, però è contro i comunisti, dimenticando che il comunismo è la quintessenza del socialismo. Ora, noi respingiamo il socialismo che secondo noi è errore, ma crediamo che più grave errore sia quello di voler fare del socialismo senza i socialisti. La realizzazione del socialismo senza la disciplina sociale prevista dal comunismo è impossibile. Si può realizzare quel socialismo americano di cui parlava l’onorevole Labriola: ma quello non è socialismo, è il nostro liberalismo progredito, ossia è la borghesia che s’è messa a ridisperdere il suo danaro fra le masse. È tutt’altra cosa. Comunque, anche Saragat vuole andare al Governo, e quando l’onorevole Togliatti gli oppone che egli non ha seguito, Saragat risponde: il seguito verrà. Il meno che gli si possa dire è di aspettare che venga (Si ride), perché non è mica detto che debba venire.

Il giovane e valente collega Valiani ci ha dato qualche vocabolo qualunquista, che ci ha abbastanza entusiasmati, ma non ha fatto però il discorso che ci aspettavamo, dopo la premessa di quei vocaboli. A un certo punto ha detto: «Credo che basti una dichiarazione di neutralità per evitarci i guai in un prossimo conflitto». Ha soggiunto che vuol tenere le porte aperte (ho inteso precisamente «porte aperte») verso gli Stati Uniti e verso la Russia. Mio caro Valiani, oggi porte non ce ne sono più. È inutile pensare a tenerle aperte o chiuse quando c’è l’aeroplano senza pilota che parte da un ufficio postale americano o russo e arriva come un pacco postale direttamente davanti al portone di casa sua (Si ride). Ha voglia di chiuderlo, il suo portone!

In ogni modo, nemmeno Valiani sembra volere la morte del Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi. Il suo è stato un discorso di consigli e non di opposizione vera e propria.

Corbino. Corbino ha incominciato col dichiarare che i liberali voteranno a favore del Governo, con che l’opposizione è bella e finita e non se ne parla più. Ho avuto l’impressione, ieri, che avessero cambiato il mio vecchio Corbino e che lo avessero sostituito, lui a cui voglio tanto bene, con un Corbino un po’ falso, un po’ demagogo, nemico del lusso e delle spese voluttuarie, sostenitore di quell’austerità di cui per tanti anni abbiamo avuto stufa la cicoria da un regime che non era affatto austero, come tanti predicatori, d’austerità. Francamente, ci stupisce un Corbino che biasima il lusso, il quale dà vita alle industrie di lusso, e pane a milioni di lavoratori.

Una voce a sinistra. Vecchia storia!

GIANNINI. Mi dispiace di vedere Corbino contrario ai 350 mila romani, sia pure proletari, che sono andati a tuffare la loro arroventata anatomia nel Tirreno durante questa estate. Quei proletari, caro Corbino, hanno dato vita alla ferrovia Roma-Ostia, hanno dato pane a Ostia, hanno permesso che funzionassero le trattorie di Ostia, i bagnini ed i bagni di Ostia, e fatto vivere tutti coloro che guadagnano con Ostia. Per qual ragione non vuoi che questi 350 mila proletari o gran signori che siano, vadano ad Ostia? Lasciamo che si bagnino, lasciamo che si divertano, lasciamo che vivano, perché la vita è movimento. La vita vera non può essere austerità, né conventuale, né militare; quelle sono altre vite, a parte; sono oasi nella vita ordinaria.

Lussu. Devo innanzi tutto ringraziare questo leale avversario e prendere atto con commozione del suo elegante e generoso senso di cavalleria. Egli ha toccato l’argomento pacificazione sul quale non siamo d’accordo, e spiegherò perché non siamo d’accordo.

L’ottimo collega Scoccimarro ha fatto un discorso tecnico, uno di quei bellissimi discorsi tecnici che si stanno a sentire volentieri, che forse non si capiscono interamente perché non tutti siamo tecnici, ma si ascoltano e si meditano: e si rileggono per capirli meglio.

A questo punto del dibattito ci troviamo nella curiosa situazione che, se un discorso di opposizione non è fatto almeno da noi, il dibattito non avrà discorsi d’opposizione, e l’onorevole Presidente del Consiglio vincerà per capitolazione incondizionata degli oppositori.

Su che cosa si fonda questa nostra opposizione? Sul Governo? Sì, ma fino a un certo punto.

Potremmo lagnarci del Ministro dell’interno? Certamente no. Appunto perché se ne lagnano Nenni e Togliatti.

Dobbiamo anzi lodarci di questo Ministro, al quale non possiamo rimproverare altro che la gola nella quale la sua voce qualche volta si sperde e gorgoglia come un vortice.

Possiamo lagnarci dei tecnici Merzagora, Corbellini, uomini qualunque? Fanno quello che possono.

Se potessi ardire una citazione volterriana in questo ambiente democristiano, senza offendere la suscettibilità, direi che sono i migliori tecnici nel miglior Ministero democristiano possibile.

Ugualmente potremmo dire degli altri Ministri singolarmente considerati, dall’onorevole De Gasperi che fa il suo mestiere di tirare avanti, all’onorevole Grassi che cerca di uscire dal rotto della cuffia dei suoi imbarazzi, tra una Magistratura che vuol essere Magistratura e altri che vorrebbero trasformarla in Tribunale di parte. (Applausi a destra). Senonché è nello spirito che anima questo Governo che il Governo non ci piace. Esso ci appare incerto, esitante, brancola fra destra e sinistra; e non come l’equilibrista che bene o male brancolando avanza, ma come il giocoliere che s’è fermato al centro della catenaria. L’ingegnere Corbellini mi corregga. La catenaria è quella che forma la corda sospesa a due poli: la curva che il suo peso istesso traccia: l’acrobata arriva facilmente al centro discendendo, poi deve risalire, e lì incomincia la difficoltà. Mi sembra che questo Governo si sia proprio fermato al centro della catenaria.

Da dove promana questo spirito che rende imbarazzata e imbarazzante l’azione di Governo? Dal suo Partito, onorevole Presidente dei Consiglio, dal suo Partito, il quale ripete il mito dell’asino di Buridano, con questa sola differenza: che quell’asino morì di fame fra due fasci di fieno non sapendo su quale dei due avventarsi per primo, mentre l’asino moderno sembra aver tutta l’intenzione di mangiarli tutti e due, a destra e a sinistra (Si ride). È da ciò che nascono l’imbarazzo e la preoccupazione.

Noi non siamo contro la Democrazia cristiana; noi l’abbiamo aiutata sempre e non ne abbiamo avuto, in cambio, che colpi, ingiurie e, il più delle volte, qualche cosa di peggio: della degnazione.

Mi limito a ricordare un discorso, del resto confermato da un recente articolo, dell’onorevole Cappi, che, in occasione del nostro incidente di Cremona – risoltosi poi con quel Congresso tenuto nel massimo ordine e senza nessun disturbo da parte di nessun Partito – ebbe l’aria di raccoglierci con il fazzoletto, come un oggetto che fosse necessario raccattare, ma che era sporco, maculato.

Questa curiosa maniera di considerarci della Democrazia cristiana ha segnato una punta veramente drammatica in quella che si può chiamare la polemica per le elezioni amministrative di Roma, capitale, d’Italia, ma anche sede del Papato.

Non credo che sia utile né necessario diffondermi sul significato delle elezioni amministrative di Roma. Esse hanno sempre un profondo significato politico e, in questa occasione, lo hanno ancora di più. Noi abbiamo fatto le elezioni di Roma, nelle quali abbiamo avuto la disgrazia di battere, di qualche corta testa, la Democrazia cristiana. Sono cose che capitano; si può vincere con cento punti come con novanta: non bisogna irritarsene. Il certo è che noi, per quel peccato, non abbiamo potuto costituire, come sarebbe stato possibile, l’amministrazione comunale di Roma. La Democrazia cristiana, pur di non compromettersi, pur d’evitare fastidi, pur di non aver guai, pur di non sporcarsi con il sozzo qualunquismo, ha preferito mandare all’aria l’amministrazione regolare di Roma e far venire un Commissario prefettizio.

Abbiamo invitato in seguito, e pubblicamente, visti vani tutti gli altri tentativi, la Democrazia cristiana, a voler prendere in considerazione una nostra proposta o a farcene una sulle elezioni amministrative di Roma, che noi vogliamo siano vinte da un partito cattolico, dai cattolici, per ragioni che non starò qui a spiegare di più, non essendo il caso di fare della demagogia sul cattolicesimo.

Non è stato possibile, non dico fare accettare una proposta, ma avviare una discussione.

Leggemmo un articolo dell’onorevole Piccioni nel quale ci si parlava di liste bloccate e si insisteva sul pericolo che le liste bloccate possono presentare per i partiti che si fondono. Noi rispondemmo con un altro articolo nel quale affermavamo che non era il caso di parlare di liste bloccate; che non avevamo inteso parlare di liste bloccate; che intendevamo soltanto prendere contatto con la Democrazia cristiana per tentare di dare a Roma un’amministrazione come noi la vogliamo, cioè cattolica.

Nella tema che questo articolo avesse potuto per avventura sfuggire alla Direzione della Democrazia cristiana, pregammo l’onorevole Tieri, segretario generale del nostro partito, di scrivere una lettera ufficiale alla Democrazia cristiana, ripetendo l’invito a trattare: ciò che il nostro amico Tieri subito fece. Ma la Democrazia cristiana non credette d’onorarlo d’una risposta; e questo, consentitemi, onorevoli colleghi, ch’io lo dica francamente, è oltretutto una mancanza di riguardo. (Commenti al centro).

Ci si è detto: ma voi potete fare anche un accordo dopo le elezioni. Perché dopo? A elezioni fatte, a risultati raggiunti, non è detto che l’accordo si debba farlo obbligatoriamente con i democristiani. Aspettiamo di conoscere come andranno le elezioni, e «dopo» ci regoleremo in conseguenza: non c’è più ormai alcuna ragione per impegnarci in anticipo; come non c’è alcuna ragione d’impegnarci sempre a dare e non mai a ricevere.

C’è una leggenda intorno alla mia stampa ed è quella delle mie famose parolacce, le quali parolacce hanno urtato tante suscettibilità, ma hanno avuto pure qualche risultato concreto. Ma la stampa della Democrazia cristiana – che non dice parolacce – ci accusa però – e faccio il preciso nome del giornale: il Gazzettino di Venezia – ci accusa, dicevo, di aver votato nelle commissioni a favore del divorzio.

Questa accusa mossa dal Gazzettino di Venezia ha dato poi la stura alla sua ripetizione pedissequa da parte di tutti i bollettini parrocchiali del Veneto. Si è sparsa questa calunnia come un grande Papa diceva che si sparge il contenuto d’un cuscino di piume: per riparare al male che fa bisognerebbe recuperare tutte le piume a una a una. Ho dovuto allora pregare l’onorevole Russo Perez, l’onorevole Mastrojanni di riprendere i verbali delle commissioni e scrivere una smentita formale in base a quei documenti.

Ma ho dovuto poi incomodare un onesto sacerdote, padre Martegani, il quale cortesemente m’ha accontentato dopo aver preso visione dei miei documenti, e ha pubblicato sulla sua autorevole rivista Civiltà Cattolica, una smentita.

Io so che mi si dirà che il Gazzettino di Venezia non è della Democrazia cristiana.

Una voce a sinistra. Sì, sì, lo è, lo è!

GIANNINI. Spero che non si insista su questo, perché sono troppo buon giornalista per non sentire a fiuto di chi sono i giornali. Onorevoli colleghi, ci sono poi cose che veramente m’infastidiscono a dire, ma che pure bisogna ch’io dica, perché io ho un Partito dietro di me, e ho quindi degli obblighi. Sono stato accusato, in ambienti democristiani della Calabria nientemeno che di questo: se sarò sindaco a Roma – il che non sarò mai – istituirò molte case di tolleranza perché i turisti che vengono a Roma in pellegrinaggio possano trovare il sollazzo che desiderano nella Capitale. (Si ride – Commenti).

Una voce al centro. Chi ha detto questo?

GIANNINI. Chi l’ha detto? Caro collega, se lei dubita di me, e suppone sia una mia spiritosa invenzione, la prego di rivolgersi a un nobilissimo e illustre sacerdote, dal quale molti presenti in questa Assemblea hanno avuto ospitalità, mangiato la minestra e condiviso i pericoli, e gli domandi se è vero ch’egli ha dovuto smentire questa diceria, e smentirla autorevolmente, perché conoscendomi bene sa che non sono queste le industrie che preferisco. (Commenti).

C’è un esclusivismo della Democrazia cristiana. Non si deve fare nulla di buono in Italia che non promani da questo Partito. Vi darò un esempio. Abbiamo fatto una Commissione parlamentare napoletana presieduta dall’onorevole Porzio. Fui incaricato di studiare il problema della Mostra d’Oltremare, la quale fu fatta dal fascismo, ma era una gran bella cosa; ed è un peccato che sia stata distrutta. Si è parlato della utilizzazione di quella Mostra, utilizzazione alla quale mancava innanzi tutto un’idea – perché il danaro si trova sulle idee: almeno io lo so trovare sull’idea.

Ebbi questa idea: esaltiamo il 1848 napoletano, esaltiamo il 15 maggio napoletano, giornata in cui fu combattuta la più bella battaglia per la libertà italiana; creiamo, in questa Mostra d’Oltremare del fascismo, la Mostra internazionale della libertà; facciamo convergere in essa tutto quanto riguarda e illustra la libertà di tutti i Paesi e a consacrazione dell’eroismo napoletano del 15 maggio 1848, celebriamone il centenario. M’impegno io a scrivere e a montare tutto quello che ci vuole – e voi sapete che se voglio fare l’agente di pubblicità, lo so fare – per interessare tutto il mondo a questa Mostra. Riusciremo a risuscitarla.

Ma di questo non s’è potuto parlare pubblicamente, perché nella nostra Commissione di deputati napoletani, i deputati democristiani hanno preteso che non se ne parlasse. Perché non se ne dovesse parlare, non si sa. Mi sono impegnato a non parlarne sui giornali e non ne ho parlato: ma poiché non mi sono impegnato a non parlarne in Assemblea ne parlo in Assemblea, senza mancare alla mia parola.

Ci sono state e ci sono continuamente nella Democrazia cristiana queste preoccupazioni d’umiliarci in tutti i modi.

Si è tenuto un Convegno internazionale a Gstaad, dove, in seguito alla mia campagna per gli Stati Uniti d’Europa, ero stato elencato come quinto oratore, immediatamente dopo Paul Reynaud. Praticamente ero il secondo, perché il primo oratore era il Presidente dell’Assemblea, Léon Maccas, il secondo il Segretario generale, Coudenhove Kalergi, il terzo un membro del Consiglio federale svizzero che dava il benvenuto ai congressisti. Praticamente Paul Reynaud parlava per primo: io seguivo Paul Reynaud. Nossignori! Ciò non è stato possibile. Ho dovuto diventare undicesimo, perché si è dovuto distinguere, si è dovuto fare una questione di partito anche là. Conclusione: il nostro Paese, che indegnamente e per la mia modesta figura, aveva il quinto posto ha finito per avere il decimo. Ha parlato l’onorevole democristiano Giacchero, e poi io: e prima di noi, in seguito a quel pettegolezzo, altri sei oratori europei.

Oggi sulla cattolicità, che per noi è un sentimento e non un affare, nasce un’altra polemica, condotta dal Quotidiano, e alla quale deve rispondere, brillantemente ma anche con infinita pazienza, il collega onorevole Tieri. Io, che sono un polemista, non gli invidio questa polemica, appunto per le prove di pazienza ch’egli deve dare, per le tortuosità nelle quali egli si deve infilare, perché in sostanza si tratta dell’ennesimo tentativo d’identificarci come quinta colonna del Partito comunista e così danneggiarci elettoralmente. (Si ride – Commenti).

Ora io ho detto, e confermo, che quando il Partito comunista pretende una più equa giustizia sociale, un più diffuso e più giustamente distribuito benessere, quando pretende l’elevazione degli umili, nessuno di noi è contrario al Partito comunista.

Ciò non vuol dire che non ci siano differenze. È chiaro che se, oltre a queste identità, il Partito comunista si dichiarasse cattolico, si permeasse di spiritualità cattolica, diventasse un partito nazionale, si liberasse da certe appendici che a noi non piacciono, non ci sarebbe bisogno di fare due partiti, e a me non resterebbe che offrire la presidenza del comun-qualunquismo all’onorevole Togliatti e liberarmi dalla scocciatura di dirigere un partito.

È logico che se fra due partiti vi sono tre addentellati, su questi tre addentellati si cerchi di collaborare.

Poiché ho già avuto una polemica su questo argomento, con un avversario più aspro, ma certamente più sincero, non invidio all’onorevole Tieri la sua ingrata fatica.

Si direbbe insomma che questo grande Partito sia talmente preoccupato di noi da volerci sbarrare il cammino in ogni modo. Per esempio, è venuta fuori, a proposito di questa che non è ancora una crisi, onorevole signor Presidente del Consiglio, è venuta fuori una pregiudiziale, non so da chi messa in giro (ma le pregiudiziali più o meno si sa bene a quali sorgenti attingano) che bisogna fare un Governo dichiaratamente repubblicano, un Governo dichiaratamente democratico.

Onorevoli colleghi, la nostra corrente è agnostica. Credo che nessuno mi possa dare del monarchico. Ma non mi dichiaro repubblicano, perché il mio partito è un partito agnostico. Come tale s’è impegnato coi suoi elettori, come tale ha vinto la sua battaglia elettorale: non può mutare bandiera, non può cambiare. Dobbiamo forse pensare che per questo nostro agnosticismo siamo sospetti alla Repubblica molto di più di quanto non possano essere le compagini valenti della Democrazia cristiana, nella quale non c’è nemmeno un monarchico? O dobbiamo cercare i monarchici della Democrazia cristiana e denunciarli sulla colonna infame?

In materia di democraticità. Abbiamo tenuto un Congresso, onorato da visitatori che ringraziamo ancora, e ai quali speriamo ci sarà concesso di ricambiare la visita (Commenti), un Congresso nel quale è stata eletta non una direzione del Partito soltanto, onorevoli colleghi, ma un Parlamento del Partito, un parlamentino, con facoltà di discutere e di rovesciare il Governo del partito ogni tre mesi, cioè ogni volta che si aduna. Non c’è nessun partito politico europeo che si trovi in queste condizioni. Quindi, a chi ci parla di democraticità, noi oggi siamo in grado di dire: noi vi abbiamo mostrato le nostre carte, mostrateci le vostre e vediamo chi è più democratico.

Tutto ciò mi fa pensare che la Democrazia cristiana è scontenta che noi siamo cattolici. Forse se fossimo scintoisti ci amerebbe di più. C’è la storia della questione sociale cristiana. Essi «differiscono». Differiscono da noi in che cosa? C’è un mezzo cristiano per risolvere la questione sociale? Io non ne conosco che uno: il Vangelo, e nel Vangelo, Cristo ha detto ai suoi: «Dona tutto ai poveri e vieni meco».

Sarei lieto d’aver l’elenco di quei democristiani che hanno donato tutto ai poveri! (Applausi a sinistra).

Devo dunque pensare che si tratti d’una lotta sul mercato della religione? Ma appunto per non fare questa lotta sul mercato della religione, io, personalmente, avevo proposto al signor Mosconi, rappresentante della Democrazia cristiana in Roma, di fare le elezioni insieme con la Democrazia cristiana, mettendoci, insieme, sotto l’egida della civiltà italica. Dissi chiaramente: voi non avete nessuna fiducia in noi e non volete fare la lista bloccata; vi assicuro che noi non abbiamo nessuna fiducia in voi e non vogliamo fare la lista bloccata. Però siamo due partiti cattolici, mettiamo le nostre due liste, se volete vi cediamo la destra, mettiamo queste due liste una a fianco dell’altra sotto l’egida della civiltà italica, la quale raccomanderà entrambe le liste perché entrambe cattoliche. In questo modo noi saremo divisi solo da questioni politiche, amministrative, sociali, ma non dovremo colluttare sul sacro terreno della religione. Questa proposta è stata fatta da me al signor Mosconi, e non mi costringete a dire in quale sede, perché se no ve lo dico. (Ilarità). Non ho avuta nessuna risposta, né un sì né un no: la proposta è stata ignorata. (Ilarità a sinistra – Commenti).

Il nostro appoggio sia al Governo che al Partito democristiano è considerato coatto. «Voi dovete votare per noi» – ci si dice – «voi non potete votare per altri. Non votando per noi voi votate per Togliatti, per il comunismo, per le forche, per la Siberia»! (Si ride).

Su questo punto, onorevoli colleghi, è bene dire una volta di più che se noi siamo stati contro l’antifascismo di maniera siamo anche contro l’anticomunismo di maniera. Oggi è facile fare dell’anticomunismo; bisognava farlo prima, cioè nel momento in cui erano scagliati tuoni e fulmini da quei due veri ed autentici fondatori del qualunquismo che sono stati gli onorevoli Spano e Grieco. (Si ride).

Allora bisognava fare dell’anticomunismo. Oggi è troppo facile e troppo semplice, ed è fors’anche ridicolo, come sono ridicoli coloro che vanno cantando inni provocatori per le strade di Roma, e non solo di Roma: cantanti ai quali, caro Lussu, noi non facciamo coro, anzi!

D’altra parte, non è possibile vivere eternamente sotto l’assillo d’un ricatto politico.

A un certo punto ci si ribella. Se mi permettete tenterò di esprimervi questo concetto con una brevissima storiella. (Si ride).

Voce al centro. Un altro somaro!

GIANNINI. Non si tratta d’un somaro (Si ride), si tratta d’un pappagallo, il quale viveva in una famiglia di monarchici spagnoli, una famiglia hidalga, fierissima del suo sentimento monarchico. Sapete come vanno le cose nella Spagna: ogni tanto i repubblicani si avventano sui monarchici e viceversa. Questa famiglia subì assalti da parte dei repubblicani di fresco tornati al potere.

Spaventata dalle conseguenze che avrebbe potuto avere l’eccessiva loquacità del pappagallo, la famiglia hidalga aveva preso l’abitudine di nasconderlo ogni volta che avvenivano le perquisizioni, e lo metteva sotto la gonna della nonna perché stesse più tranquillo. Per una volta, per due, il povero pappagallo ha resistito al mefitico ambiente (Si ride) di quella gonna così come il Gruppo parlamentare qualunquista resiste eroicamente sotto la tonaca democristiana. (Si ride). Ma alla terza volta non ne ha potuto più, e con un colpo di becco ha spaccato la gonna della nonna ed è uscito gridando: prefiero la muerte, viva el rey! (Vivissima ilarità). Ora se un pappagallo ha avuto tanto coraggio, noi qualunquisti riteniamo di non poter essere da meno dell’ardimentosa bestiola che a un certo momento, come noi, non ne ha potuto più.

Quale situazione si pone in questo nostro discorso? Il Governo deve decidere, deve assumere una linea di chiarezza, deve tenere una condotta o liberale o socialista: tutte e due non può tenerle. Noi vogliamo la prima, che non è quella dell’onorevole Corbino, ma è l’idea liberale, progredita.

Sgombriamo il terreno da un primo ostacolo: la pacificazione. L’onorevole Lussu si è lagnato delle manifestazioni inconsulte che si sono fatte a Roma ed in altre parti d’Italia. Nessuno lo comprende più di noi; nessuno ne soffre forse più di me, che so quanto false e bugiarde siano la gran parte di quelle manifestazioni, fatte unicamente in funzione elettorale e con la speranza di raccattare voti che forse non ci saranno. Ma a quelle manifestazioni, caro amico Lussu, dànno pretesto precisamente le remore alla pacificazione. L’onorevole Togliatti ha firmato l’amnistia: bisogna dargliene atto; è stato un grande atto politico. Ma dopo quell’amnistia continua e pesa ancora una mentalità, un errore, cause di qualche reazione giusta intorno alle quale s’innestano le speculazioni.

Abbiamo ancora delle leggi eccezionali, abbiamo ancora veri e propri Tribunali speciali, ancora una sedicente folla che urla nelle aule dei giudizi, abbiamo ancora il confino. Si venga alla pacificazione, si abolisca perfino il nome di «confino» e gli si dia il suo vero nome di domicilio coatto.

Si proclami che non c’è più né fascismo né antifascismo, si perdoni, si dimentichi: amnistia viene da amnesia. Dimentichiamo: e si diano venti e trent’anni di reclusione a chi infrange questa tregua, questa pace, sia esso comunista, sia esso socialista, azionista, qualunquista! Nessuno deve avere più il diritto di tormentare il suo fratello italiano perché durante la guerra ha assunto un atteggiamento o un altro durante la guerra civile. Soltanto Dio può giudicare.

LUSSU. Ma non deve essere più repubblichino dichiarato e non più fascista, altrimenti… (Proteste al centro e a destra).

GIANNINI. Ho detto questo, onorevole Lussu: aboliamo la legislazione speciale e diamo trent’anni di reclusione a chi ci rompe ancora le scatole con queste cose che non vogliamo più ascoltare e sopportare. (Applausi). Dico quello che dice lei. Basta applicare il Codice penale per ottenere tutto questo. E mi fermo su questo argomento: non vorrei che il mio discorso diventasse provocatorio, perché in materia di pacificazione bisogna tenersi nei suoi ristretti limiti senza oltrepassarli.

I piani. Noi non vogliamo piani. Anche qui una divisione è più sulle parole che sui fatti. Piano significa programma, e niente altro. Come si può non volere un programma? Certamente c’è un programma: ma non si può volere che uomini di destra applichino un programma di sinistra. È un’assurdità nell’assurdo. Il Governo sta applicando un programma di sinistra: Einaudi toglie danaro dalla circolazione; Merzagora limita le esportazioni e le importazioni.

Si tratta – essi dicono – d’impedire una speculazione; ma, onorevoli colleghi, quando una speculazione dura da 10 o 15 anni, non è più una speculazione: è un mezzo ed è un sistema. Sarebbe come se l’ottimo, amico Pella volesse abolire da un giorno all’altro il contrabbando delle sigarette americane: farebbe morire di fame migliaia di persone che vivono su quel contrabbando.

Ora, tutto quello che accade in questa materia (e per cui si esigono piani e si esigono programmi d’una vastità tale che non credo possano essere affrontati da cervelli ordinari ed in circostanze straordinarie), tutto ciò dipende dalla situazione internazionale in cui si trovano il nostro Paese e tutti gli altri Paesi. A questo proposito mi domando: si parla e ripete spesso in questa Aula d’indipendenza. Di quale indipendenza si tratta? C’è una discussione appassionata in questo momento in tutta Europa sulla Unione europea, sugli Stati Uniti d’Europa, discussione alla quale partecipano i più grandi politici non in attività di servizio, ma non per questo completamente decaduti dal firmamento politico europeo. Perché non se ne parla anche da noi? Perché il nostro Governo non prende posizione, in un senso o nell’altro, su questo grandissimo problema? È vero che nessun Governo ha preso posizione ufficiale sul problema degli Stati Uniti d’Europa; ma perché non potremmo essere noi i primi?

Una politica estera dignitosa, protagonista non di storia – come si diceva un tempo – ma di azione, perché non si può farla? Questo sì che sarebbe un piano. Invece, noi facciamo del timido socialismo e non contentiamo le sinistre e scontentiamo le destre. Noi vorremmo che il Governo parlasse chiaro e dicesse (come è sua ferma intenzione e suo fermo proposito): un piano, quale voi lo intendete, no! Controllismo, permessismo sono aberrazioni che portano unicamente al commercio dei permessi e dei controlli.

Io spero che l’onorevole De Gasperi non mi chieda delle prove materiali per quanto starò per dirgli: ma per avere un vagone, per avere un permesso, per avere un’autorizzazione, onorevole signor Presidente del Consiglio, bisogna pagarli. Merzagora ha detto che ha diecimila domande di importazione al mese nel suo Ministero, alle quali non riesce nemmeno a rispondere. Sorge spontanea la domanda: e perché non abolisce il suo Ministero se è così d’inciampo? In questo, e in altri Ministeri, ci sono impiegati, a poche migliaia di lire al mese, che non riescono a vivere: e noi pretendiamo, con un sistema di controlli e di piani che questi disgraziati amministrino miliardi. Non è nemmeno cristiana questa pretesa, perché uno dei doveri del buon cristiano è quello di non indurre il prossimo in tentazione. (Si ride).

Ci vogliono misure generali e libertà. Si ha paura di concederla questa libertà, ed allora si gira, si cincischia, si ciurla nel manico.

Ho sentito parlare di risparmio. Come si fa a risparmiare un biglietto da mille che perde valore ogni giorno? Come si fa a mettere da parte del danaro che oggi vale cinque, domani varrà quattro e mezzo, dopo domani quattro? È assurdo il solo enunciarlo, e coloro che, incauti, o ignoranti, fanno tesaurizzazione della moneta in questo momento, sono degli inconsapevoli collaboratori del nostro Ministro del tesoro: perché in sostanza fanno una deflazione automatica tenendo chiuso tutto quel danaro che per fortuna non circola e che forse è fortuna se perde di valore.

Si parla di ridurre i consumi e non si capisce che questa è una crisi di consumo, non di produzione. Si dovrebbe consumare di più, e benedetti quei 350 mila proletari che sono andati a Ostia!

Udiamo parlare con leggerezza spaventevole di toccare i meccanismi economici, di fare piani da uomini ai quali sinceramente io vorrei pigliarmi il gusto di affidare l’amministrazione dei miei giornali per vedere come ne caverebbero le mani.

Si tuona contro l’edilizia di lusso. Ma chi lavora a fare quelle case di lusso? Dei marchesi? Dei conti? Il mio amico Lucifero? Il mio ancora più nobile amico Negarville? Lavorano dei muratori. Saranno case di lusso, ma lavorano dei muratori. Si tratta di togliere danaro dalle tasche di gente che l’ha guadagnato per contingenze di guerra, in un modo o nell’altro. Onorevoli colleghi, non c’è nessun mezzo per levar loro dalle tasche quel danaro, se non facendoglielo spendere. Le avocazioni, le tassazioni, le pressioni, tutte le illusioni di tutti i Ministri delle finanze e del tesoro non servono a niente. Fate spendere liberamente quel danaro Quando quel danaro sarà speso sarà restituito in modo fruttifero alla circolazione, ed è questo che importa.

Si teme l’inflazione. Io credo che ce ne sia una sola di inflazione: l’inflazione dei professori d’economia. (Si ride). Ce ne sono troppi in questa materia che nessuno conosce. Finirò col porre la mia candidatura al Ministero del bilancio col solo titolo di non capirne niente e credo che forse me la caverò bene. (Si ride).

La verità è (è questa un’osservazione che dedico particolarmente ai colleghi comunisti) che la vita fiorisce per intima forza. Il regime capitalistico, dopo il suo glorioso ciclo dell’800 che ha cominciato col creare voi, perché ha creato il proletariato e ha creato il socialismo, trova la sua moderazione e limitazione nel consumo, nel maggior consumo che si stabilisce appunto per la maggiore produzione, e per l’industrializzazione creata unicamente dal regime capitalistico.

È il proletariato che consuma oggi, non più la ristretta classe aristocratica. E consumando esso diventa capitalista e spezzetta il capitale. (Si ride).

È proprio così. Avete riso spesso di quello ch’io vi dicevo; poi siete venuti a ripetere, dopo un anno o due, le mie parole qui dentro.

In confronto a questo naturale fenomeno di spezzettamento di capitale e di elevazione del proletariato attraverso il consumo e il maggior guadagno, il capitalismo di Stato sovietico è un’amplificazione della regola conventuale, di quel convento in cui può star bene solo chi per vocazione c’entra, e volontariamente ci rimane. Ciò è tanto vero che per risolvere il problema sociale in senso pianificativo e socialista, Nenni chiede un Ministero di salute pubblica, ossia una dittatura.

Ha ragione, ha ragione Nenni, perché solo quel Ministero può pianificare. Ma noi vi ci opporremmo con tutti i mezzi, perché siamo stanchi di dittature.

Non si stupisca l’onorevole Lussu se dopo avere minacciato trent’anni di reclusione a chi parla di fascismo, ne riparlo ancora io.

Si tratta di fascismo come fenomeno economico. È fenomeno squisitamente socialista, perché Mussolini venne di là, dalle vostre file! (Indica la sinistra).

CALOSSO: Come Giuda!

GIANNINI. Sono affari che a noi non riguardano, ma è dalla vostra parte che venne. (Interruzioni a sinistra).

CALOSSO. Giuda è la prova di Cristo.

GIANNINI. A noi non interessano questi argomenti polemici, sono vostri affari interni, nei quali noi siamo troppo bene educati per ficcare il naso. (Interruzione a sinistra). Onorevole Calosso, lei ha detto la sua freddura, non insista. Mussolini venne dai vostri ranghi. O Giuda o non Giuda a me che me ne importa? È da voi che venne; Giuda o non Giuda che ci posso fare? Peggio per lei che aveva Giuda in casa e non se ne è accorto. (Si ride).

Che cosa ha detto Nenni reclamando la pianificazione e chiedendo che si mettesse sotto disciplina la borghesia produttrice, tutta la classe industriale, tutte le classi? A un certo momento Nenni (mi corregga se sbaglio) ha detto all’incirca queste parole: (me le sono appuntate) «Siamo disposti a disciplinare (dunque obbligare) anche il lavoro, come il capitale, come esige la civiltà attuale».

Questo ha detto Nenni.

NENNI. Lo stanno facendo in Inghilterra che è un Paese abbastanza avanzato.

GIANNINI. Comunque lei lo ha detto. Ne prendo atto. Però questo è corporativismo.

Anche Valiani vuole un controllo della economia, vuole un controllo del lavoro, vuole di più – e me lo sono appuntato – vuole «lo sviluppo delle gerarchie». Di che cosa si tratta? Si tratta della Confederazione dell’industria, della Confida, della Confederazione del lavoro e della Federterra chiuse in un solo campo di concentramento. Ma questo lo aveva già fatto il fascismo e noi, borghesia, non lo permetteremo più, perché lo abbiamo già conosciuto questo regime e non lo rivogliamo. (Interruzione dell’onorevole Di Vittorio). Che vuole onorevole Di Vittorio?

CALOSSO. Mussolini era liberista nel 1919! (Commenti a sinistra).

GIANNINI. Non m’inganna con i suoi giochi d’artificio, Mussolini, noi lo conosciamo…

CALOSSO. Ma nel 1919!… (Commenti).

GIANNINI. Lasci andare il 1919! Quello che volete oggi voi, l’ha fatto Mussolini, prima di voi.

PRESIDENTE. Onorevole Calosso, lei è iscritto a parlare; parlerà dopo, la prego.

GIANNINI. Certo è che esiste – e noi ne abbiamo avuto una prova col fascismo – una materiale impossibilità del controllo. Lo afferma anche Merzagora; e dunque perché controllate e, peggio ancora, perché fingete di controllare? Il vincolismo non produce che speculazione. Ne abbiamo un esempio con le pigioni. Fra le mie molte fortune ho quella di non essere proprietario che di tre stanze, a Napoli, che comprai per i miei genitori, quando si potevano comprare stanze, e la sorte me li ha fatti morire, così ho fatto anche una spesa inutile. Queste sono tutte le mie proprietà…

Una voce al centro. Oltre la casa editrice!

GIANNINI. Sì, oltre la casa editrice, va bene. Ma c’è gente che paga poche centinaia di lire per grandi appartamenti. Io, per esempio: io non pago il valore del mio appartamento. Ora su questa vincolazione, su questo schiacciamento degli affitti s’innesta, oltre alla violazione del diritto del singolo proprietario, s’innesta la speculazione del subaffittuario. Il padrone della casa non guadagna e paga le tasse, l’inquilino si subaffitta le camere. C’è, in sostanza, godimento di bene altrui, in omaggio a quella legge, umana ma infame, che si può riassumere così: fatta la legge, trovato l’inganno.

Ogni trasformazione violenta dà risultati imprevedibili.

Prendo per un attimo in esame, con la mia incompetenza di semplice scrittore di fantasie, un fatto finanziario. Animato dalle più nobili intenzioni, l’onorevole Einaudi ha fatto quello che ha fatto con la restrizione del credito. Cos’è accaduto praticamente? È accaduto che il credito è stato negato alle persone che facevano operazioni normali, ma lo speculatore, il giocatore, colui che è abituato a considerare e ad immaginare affari sui quali si guadagna il mille per cento, ha il credito lo stesso, perché lo paga il venti o il trenta per cento di più.

E allora, cosa ha prodotto questa nobilissima fatica dell’onorevole Einaudi? Semplicemente questo: il mercato nero del credito e della moneta.

L’onorevole Einaudi potrebbe dirmi: «Perché non me l’ha detto prima, questo»? Non l’ho detto prima perché non lo potevo dire prima; perché – a parte la mia incompetenza specifica – nessuno può prevedere che cosa accade quando si prendono questi provvedimenti speciali, drastici, draconiani, fascisti. (Commenti).

Mi viene segnalato – perché, onorevoli colleghi, voi sapete benissimo che quando si parla qui si ripetono gli echi di milioni di voci che giungono dal Paese – mi viene segnalata una reazione suscitata da una frase pronunciata dall’onorevole Merzagora a proposito delle Regioni. C’è chi gli dà ragione e chi gli dà torto, ma indubbiamente questo provvedimento delle Regioni, attesissimo nella Sicilia, respinto altrove, che cosa ha portato? Ha portato, nella stessa Sicilia, a questo: che il ricavato delle tasse, che la Sicilia s’è rifiutata di consegnare al Governo centrale assumendo che servivano per lei, pare – dico pare –: poi l’onorevole Pella mi dirà se ho sbagliato o no – che siano molto inferiori al fabbisogno della Sicilia.

Abbiamo un’altra voce dall’esterno: le famose cooperative agricole. Onorevoli colleghi, entrare in una cooperativa agricola significa assicurarsi 240 chili di grano a testa all’anno per sé e per i propri familiari. Avviene così che ogni barbiere, ogni sartore, ogni farmacista, ogni segretario comunale che entri in una cooperativa si assicura, per sé e per i suoi 240 chilogrammi di farina all’anno. Ecco come s’inflaziona la categoria degli agricoltori: ed ecco come noi facciamo sì che tutta la farina nostra, a poco per volta, non arriverà neppure a sodisfare le esigenze di tutti gli agricoltori che la producono, veri o falsi che siano.

È facile fare i piani a tavolino: è quando si debbono applicare che succedono i guai. Noi ci lagniamo di questo Governo perché è troppo pianificatore, è troppo socialista. (Viva ilarità). Noi guardiamo freddamente ai fenomeni economici e sociali, e non c’impressiona chi ride.

SCOCA. A Dio spiacenti ed a’ nimici sui.

GIANNINI. Non ho ancora finito. Si parla della Jugoslavia che ha comperato, o avrebbe comperato, il nostro grano a un prezzo anche forte. Da che cosa dipende questo fenomeno? È innegabile, onorevoli colleghi, che se la Jugoslavia non ha abbastanza grano deve comprarlo dove ne trova. Ed è evidente che se la Jugoslavia possedesse grano in quantità sufficiente, non avrebbe nessun bisogno di comperarne fuori dei suoi confini. (Commenti).

Ecco perché la crisi è internazionale e non è risolvibile da un singolo Governo il quale, appunto per ciò, non si deve arbitrare a far piani che non potrebbero inserirsi in quella che è la pianificazione generale del mondo, e sarebbero destinati a fallimento completo e forse nemmeno clamoroso; perché moriremmo d’inedia e d’inazione in questo fallimento.

Gli Stati Uniti d’Europa sono la chiave di questa soluzione e dovrebbero essere anche la chiave della nostra politica estera. Io non so perché non ne facciamo davvero il perno della nostra politica estera, facendo una politica estera originale italiana, con dignità e con fierezza.

Con dignità ho detto, onorevoli colleghi, e con fierezza. Si può essere fieri senza iattanza; si può essere contegnosamente, gelosamente italiani senza isterismo.

C’è in questo momento una angosciosa tragedia che volge verso il suo ultimo atto: la tragedia della marina italiana. È necessario che il Governo, che l’Assemblea col Governo, dicano ai nostri marinai, due volte traditi, che la Patria apprezza il loro senso del dovere, così come ha apprezzato il loro senso d’eroismo. La Patria non ha bisogno d’altre gesta da parte dei suoi marinai che, inferiori per mezzi e per numero, hanno tenuto in iscacco per tre anni le più potenti flotte del mondo. Molto più preoccupati e sconcertati dei nostri si troveranno quegli equipaggi stranieri che presidieranno navi ormai troppo cariche di gloria, non conquistate o catturate, ma guadagnate su una carta del gioco politico, in cui ha vinto il più dovizioso, non il più eroico.

S’è parlato di trattative fra il mio Partito e la Democrazia cristiana, fra il mio Partito e il Governo. Non crediamo che il Governo possa far trattative sotto l’assillo del voto; non sarebbe morale. Noi ci sentiremmo davvero imbarazzati a dire all’onorevole De Gasperi: vogliamo questo in cambio dei nostri 33 voti. Non sappiamo che cosa De Gasperi ci risponderebbe; sappiamo, però, quali parolacce diremmo noi al suo posto a chi ci venisse a fare simili offerte.

Per questo, e in regime democratico, noi facciamo pubblicamente le nostre richieste, in modo che non abbiano né carattere di trattativa né aspetto di ricatto o, comunque, d’intimidazione.

Noi vogliamo la pacificazione fra gli italiani. (Approvazioni a destra). La condanna o l’invio al domicilio coatto di chiunque la turbi con atti o anche soltanto con parole o scritti, quale che sia il partito cui appartenga, a cominciare dal nostro.

Noi vogliamo una condotta liberale progredita del Governo. Empirismo, onorevole Presidente del Consiglio, perché oggi si vive «a ora» nel mondo; non si possono fare previsioni che oltrepassino il tempo limite di una settimana o di due. Tutto cambia da un momento all’altro, in tutto il pianeta.

Noi vogliamo l’applicazione di questo empirismo politico, finanziario, industriale, monetario, monetario specialmente, caso per caso, circostanza per circostanza.

Noi esigiamo la smobilitazione, graduale e rapida, dell’economia di guerra; il ritorno alla maggiore libertà possibile, nel più breve tempo possibile.

Noi vogliamo l’europeismo a fatti e non a parole; e constatiamo che mancano gli uni e le altre.

Noi vogliamo vigilare dentro il Governo, per impedirne le deviazioni. Quello che chiediamo, è una partecipazione adeguata all’amministrazione del Paese. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Anche voi!

GIANNINI. Devo adesso chiedere una cosa molto seria: noi chiediamo che uno di questi Ministeri sia quello dell’Unione europea, Unione europea che noi dobbiamo dirigere, perché abbiamo il diritto almeno di tentare di riportare il nostro Paese, spiritualmente, alla testa di questo continente la cui civiltà si è formata al lume della fiaccola che splendeva nel nostro Paese!

Noi abbiamo il diritto almeno di tentare di riconquistare questo primato spirituale che non è nazionalismo, che non è fascismo, che è semplicemente quel sano europeismo che noi avevamo mille anni fa, e che abbiamo fatto male a lasciar sperdere.

Questo è il nostro discorso d’opposizione, queste le nostre critiche e le nostre richieste.

Giustamente l’onorevole Lussu ha detto oggi che la sorte del Governo non è nelle mani dell’Uomo qualunque, ma in quelle della Democrazia cristiana. Da quanto ci risponderà l’onorevole Presidente del Consiglio (il solo col quale desideriamo avere a che fare) dipenderà il nostro voto su questa discussione. (Applausi a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Sospendiamo ora la seduta, che sarà ripresa alle 22. Faccio presente che sono iscritti a parlare nell’ordine: gli onorevoli Simonini, Varvaro, Quintieri Quinto e Rodinò Mario.

RODINÒ MARIO. Rinuncio.

PRESIDENTE. Segue allora l’onorevole Perrone Capano.

PERRONE CAPANO. Rinuncio.

PRESIDENTE. E allora segue l’onorevole Sereni.

(La seduta, sospesa alle 20.25, è ripresa alle 22).

Presidenza del Vicepresidente CONTI

PRESIDENTE. Si riprende la discussione sulle mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Simonini. Ne ha facoltà.

SIMONINI. Io assicuro l’onorevole Presidente che non prenderò parte alla gara di resistenza che è stata inaugurata in questa Assemblea in occasione di questo dibattito. E senza fare l’elogio del discorso breve, spero di riuscire a dimostrare, facendo un discorso breve, che la brevità è il più grande pregio di un discorso. Si potrebbe dire che questo dibattito, al quale io partecipo avendo ancora una grande fiducia nel Parlamento nonostante le enormità che ho udite qui dentro due ore fa, si è svolto un po’ contro di noi. Se la son presi tutti con noi, da destra e da sinistra. Critiche e consigli: Lussu, Corbino, Morandi. Anche l’onorevole Crispo ha voluto partecipare alla gara. L’onorevole Lussu, di cui abbiamo apprezzato il discorso, non ha voluto essere da meno e ci ha consigliato un viaggio a Mosca per non lasciare non si sa quali ombre su quel viaggio in America che nostri rappresentanti hanno recentemente fatto. Possiamo assicurare l’onorevole Lussu, i nostri amici e i nostri avversari che noi siamo andati in America puliti e liberi e siamo ritornati liberi e puliti. Potremmo anche andare a Mosca e tornare puliti… (salvo l’esito di eventuali polmoniti che possono capitare in occasione di viaggi così lunghi!).

Una voce a sinistra. Che arguto!

SIMONINI. Ma io voglio, se è possibile, sorvolare sopra queste note polemiche e inserirmi nella discussione modestamente, come può fare un uomo come me che non ha nessun altro titolo se non la fedeltà e la coerenza alla sua idea, per dire qualche cosa non di nuovo, ma che si ricolleghi a ciò che già è stato detto e che suppongo potrà essere detto, se la discussione non sarà prima chiusa, da altri miei compagni ed amici. Ho detto prima che non è il caso di polemizzare. Evidentemente non voglio lasciar passare senza una osservazione l’affermazione dell’onorevole Crispo (mi dispiace che non sia presente) circa il fatto che l’onorevole Saragat, – in questo caso il nostro Partito avendo Saragat parlato per il Partito, – non ha inventato la terza via. Noi non apparteniamo alla categoria degli inventori né dei fondatori: c’inseriamo modestamente in un processo politico che è tanto più grande di noi; cerchiamo di comprendere e di metterci nella posizione che ci consente, difendendo le nostre idee, di difendere, con la modestia che è dovuta al modesto valore del nostro Partito, gli interessi che presumiamo di rappresentare in questa Assemblea e nel Paese. L’onorevole Scoccimarro, oggi, iniziando il suo lungo discorso prevalentemente tecnico, sul quale io non l’ho potuto seguire per confessata, confessabile e, credo, non disonorante incompetenza, ha detto che questo dibattito si ricollega al precedente dibattito che in questa stessa Assemblea fu fatto quando questo Ministero si presentò al nostro giudizio.

Io ritengo, onorevoli colleghi, che si possa andare più in là. Io ritengo che si possa affermare che questo dibattito si ricollega a tutti quelli che noi abbiamo sovente sostenuti in questa Assemblea durante la vita dell’Assemblea Costituente; ma anche oltre, perché tale fu sempre il tono di questi dibattiti; anche a quelli che si svolsero dal 25 settembre 1945 in poi nella Consulta prima e nell’Assemblea Costituente dopo, perché – e qui mi trovo a concordare pienamente con l’amico Lussu – evidentemente di natura politica è la crisi che travaglia il nostro Paese. E politica non può che essere la soluzione, come politico non può che essere lo strumento che porrà rimedio a questa crisi che il Paese attraversa.

Mancherebbero al loro scopo i dibattiti nostri, egregi colleghi, se noi perdessimo di vista la necessità di individuare e ricercare, attraverso le nostre discussioni, questo strumento politico con il quale affrontare e tentare di risolvere la crisi stessa.

Io ho detto prima che non so se riuscirò a portare un contributo efficace a questa discussione. Arrivo quasi alla fine del dibattito, quando tante cose interessanti sono state dette da uomini rappresentanti i partiti; uomini e partiti più qualificati di quel che io non possa essere e forse di quel che non possa essere il mio stesso Partito il quale trae le sue origini da un avvenimento politico, quale la scissione del Partito Socialista di Unità Proletaria, e che parlamentarmente è rappresentato da un pugno di uomini che non si sa ancora in quale misura rappresentino un tantum della popolazione italiana, come evidentemente non si sa in quale misura gli altri – rimasti al di là – rappresentino un tantum della popolazione italiana.

PRIOLO. Solo Dio vi può perdonare! (Commenti).

SIMONINI. Ad ogni modo, prima del giudizio di Dio noi aspettiamo il giudizio del corpo elettorale per vedere se abbiamo avuto ragione o torto quando siamo arrivati a quella decisione. Dopo tanti luminari che hanno parlato in questo dibattito politico è ammesso anche per i questori avere passioni, specialmente quando l’Assemblea è calma come è calma in questo momento. (Si ride).

PRIOLO. Non si può non avere passione quando si è socialisti dall’età di sedici anni. (Commenti).

SIMONINI. I discorsi che hanno aperto questo dibattito sono stati fatti a porte chiuse: non so se le porte siano state chiuse al solo scopo che fuori non si sentisse quel che si diceva qua dentro. Di questo speciale riguardo ha beneficiato l’amico Nenni, arrivato poco prima di Togliatti, mentre a porte aperte è stato tenuto il discorso di Saragat, il quale ha avuto per lo meno il pregio di essere breve. Spero che almeno questo pregio – se non altri – gli vorrete riconoscere. Del resto, è stato questo l’unico discorso di opposizione che qualcuno ha fatto qua dentro. È stato detto che si è trattato di un «discorso di opposizione alle opposizioni», ma è stato anche un discorso di opposizione ad una determinata politica od all’assenza di una determinata politica del Governo.

È certo che, non avendo nessun’altra preoccupazione che quella di dire che considera la verità, facendo un discorso che doveva porre in luce la situazione in cui vive il popolo italiano, quindi di opposizione, non poteva non investire coloro che poco più di tre mesi fa assumevano, in solidarietà con coloro che sono oggi al banco del Governo, la responsabilità dell’amministrazione del Paese. Se poi si pensa che sia possibile – come mi pare sia difficile dimostrare e nessuno abbia dimostrato – che sia cominciata esattamente una vita nuova tre mesi fa, che non abbia nessuna relazione con la precedente, il problema si pone in modo diverso; ma se io non ho mal capito mi sembra che tanto Nenni quanto Togliatti questo non abbiano esattamente sostenuto.

Noi abbiamo prospettato una soluzione che è stata indicata come una terza via. Abbiamo la presunzione di credere di essere nel vero, ed in fondo lo stesso vostro discorso amici di sinistra, o che supponete di essere comunque alla nostra sinistra (Si ride), ha dimostrato che anche voi nel fondo siete alla ricerca della terza via. Nessuno di voi avendo sostenuto che alla crisi politica che travaglia il Paese si possa opporre un rimedio con la ricostituzione del tripartito, avendo semplicemente sostenuto, come sosteniamo noi, che si debba andare alla ricerca di un’altra formula, che non sia l’attuale, ma non sia la precedente, voi, così facendo, vi siete messi alla ricerca evidentemente della terza via, come tutto il mondo. La quale via esiste per coloro che non accettano la visione apocalittica della situazione italiana prospettata dall’amico Nenni, il quale ha detto che vede un baratro aprirsi dinanzi a noi, e non vede che cosa potrà accadere se i partiti che egli considera i legittimi rappresentanti della classe lavoratrice non saranno domani al Governo.

Ora, io non dico una cosa nuova se affermo che sono d’accordo con coloro che sostengono che un’adeguata rappresentanza della classe lavoratrice debba essere investita delle responsabilità e dei problemi del Governo. Forse qualche sciocco può pensare che potessimo essere su un terreno diverso. Non credo che vi siano qui molti legittimi rappresentanti, per le loro origini, della classe lavoratrice, quale per esempio è colui che vi parla, che ha conosciuto veramente il lavoro, non su i libri di testo, ma nelle officine, ed ha conservato l’animo di un lavoratore.

Una voce a sinistra. Questo è esagerato!

SIMONINI. Lo so che per conservare l’animo di un lavoratore, secondo voi, oggi bisogna obbedire, credere e combattere, ed io non ho mai ubbidito, creduto e combattuto (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra). Perfettamente indifferente ai commenti ed agli applausi, non sono dell’opinione di Enrico Ferri, che affermava che quando gli applausi-venivano dagli avversari voleva dire che aveva sbagliato.

Vi sono delle verità che appartengono agli uomini di tutti i partiti. Solo voi credete di essere in possesso della verità assoluta e credete di poter trinciare giudizi, come quelli che voi trinciate. (Indica la sinistra).

Io ho affermato che non ho perso nulla di ciò che avevo nell’animo mio quando sui 16, 17, 18 anni, lavorando nelle officine, ai più umili mestieri ai quali ero stato indotto dalle condizioni di famiglia, io ho cominciato a credere in questa idea nella quale credo ancora avendo varcato il mezzo secolo di età, e alla quale ho conservato fedeltà quando era difficile conservare fedeltà alla propria idea, senza contare su una fortuna personale e a costo di miserie e mortificazioni che molti fra voi conoscono.

Comunque non è delle nostre persone che si discute qui oggi.

Io dico che non credo a questa visione apocalittica prospettata da Nenni e condivido in parte, per temperamento forse, non per affinità di idee, l’ottimismo di Corbino.

Io credo che noi dovremo puntare alla conclusione del dibattito avendo presente ciò che è stato detto dall’amico Lussu, e penso che in questo Lussu abbia colpito nel segno quando ha detto che la natura di questa crisi è eminentemente politica e che politici devono essere i rimedi ai quali dovremo guardare. Noi dovremo puntare su alcuni obiettivi che non dovrebbero essere difficili da raggiungere. E questi sono, a mio modesto avviso, il ritorno del popolo italiano, della nostra vita politica, a quel senso di equilibrio, a quell’aderenza alla realtà che è sempre stata una caratteristica particolare della vita nostra in altri tempi, prima che ad alterarla venisse l’esperimento fascista che ha tradotto tutti i rapporti sociali e politici in termini esasperati ed esasperanti, termini esasperati ed esasperanti dei quali noi tutti siamo forse ancora le vittime inconsapevoli. Ritornare a ciò vuol dire riaprire possibilità di ripresa della nostra vita politica e sociale. Il prevalere di un certo senso di equilibrio e di una adeguata aderenza alla realtà permetterà di evitare in avvenire errori che si sono commessi e che forse non sono irreparabili se il rimedio arriverà in tempo.

Noi abbiamo provato infinite delusioni. È stato ricordato qui da qualcuno, da molti anzi, come si guardava, e con quanta fiducia, alla possibilità di rinascita del nostro Paese sotto l’ispirazione e l’orientamento di dottrine e di idee che avrebbero potuto dare al popolo italiano ciò che purtroppo non ha mai avuto: libertà sicura, democrazia effettiva, e non soltanto formale, non soltanto sulla carta, giustizia sociale.

Noi abbiamo provato una infinità di delusioni che un po’ forse sono la conseguenza, è vero, di una situazione che è più forte di noi. Ma un po’ ce le siamo fabbricate anche noi con le nostre mani. Io non so se ciò che ho provato io in quest’Aula possa essere condiviso da voi.

Io ricordo di avere visto un giorno, quando qui sedeva quella Consulta che si inaugurò, quale prima Assemblea libera dopo 25 anni di oscurantismo, col discorso di quel vecchio, ma saldo cuore di Gregorio Agnini, che per il primo da quella tribuna lanciò il grido della Repubblica al popolo italiano, ed è stato forse l’unico grido di vero, sano, genuino, italico entusiasmo che si sia sentito in quest’Aula in tre anni; ricordo, dicevo di aver visto allora entrare in quest’Aula un uomo nel quale avevo creduto per venti anni, come tanti altri italiani, perché rappresentava una bandiera della lotta antifascista ai tempi della nostra giovinezza. Attendevamo quest’uomo all’opera, noi uomini non più giovani, ma non esperti della lotta politica, attendevamo quest’uomo all’opera di collaborazione e di ricostruzione di questa vita civile del popolo italiano. Quest’uomo ascoltava, con quel sorriso sprezzante, irritante ed ironico, che gli è proprio, tutti i discorsi che provenivano dai più opposti campi. Quella Consulta è stata trattata tanto male. E pure rappresenta qualche cosa nella storia moderna del nostro Paese: (è stata trattata tanto male, onorevoli colleghi, che si è creduto perfino di parificare i consultori ai deputati fascisti nell’escluderli dal permesso di entrare a Montecitorio) (Commenti). Rappresentavano qualche cosa quei Consultori: erano nominati dai partiti, erano designati dai partiti, non erano degli eletti come qualcuno presume di essere fra noi; ma rappresentavano la lotta che il popolo italiano aveva condotto nella sua enorme maggioranza, i sacrifici che gli operai italiani specialmente avevano fatto per la lotta di liberazione.

Quest’uomo, Francesco Saverio Nitti, abbandonò l’Aula nel giorno stesso in cui il dibattito si concludeva per andare al Teatro San Carlo a fare il primo discorso qualunquista nel nostro Paese.

Forse, ciò che si può dire di Nitti si può dire di qualcun altro fra i vecchi alfieri della democrazia e dell’antifascismo italiano, che sono mancati alla nostra aspettativa. E certo una somma di delusione doveva aggiungersi dopo, per un’infinità di errori commessi anche da noi, per cui oggi siamo qui a dover accettare per buona – non possiamo fare diversamente – l’affermazione di Nenni che sostiene essere «liquidata ormai la lotta fra fascismo e antifascismo». Ma liquidata come? Col fallimento dell’epurazione, con l’amnistia, col caso Basile. Liquidata, ma liquidata in passivo per le forze della democrazia, perché non è vero (anche se è lungi da me l’idea di lanciare il grido di guerra contro le generazioni fasciste), che si sia inteso, da parte di coloro che avrebbero dovuto pagare, il gesto di generosità compiuto dal regime repubblicano e democratico nei confronti di chi aveva assunto tremende responsabilità durante il fascismo, e particolarmente durante l’occupazione tedesca. Ripeto, non è mia intenzione qui chiedere che si riapra la lotta e accetto quanto il Nenni ci propone: consideriamo liquidata la lotta tra fascismo e antifascismo. Non credo invece risolta la polemica fra democrazia e totalitarismo. Anche per quanto riguarda la democrazia, bisognerebbe intendersi molto sul valore delle parole. L’altro giorno, assistendo ad una discussione fra il nostro vecchio D’Aragona e un nostro giovane compagno…

Una voce a destra. Perché vecchio?

SIMONINI. Vecchio d’età, ma giovane di spirito: forse anzi il più giovane di noi sotto questo punto di vista. Si andava dunque in cerca del significato della parola «reazionario» e gli dicevo che bisognerebbe rifare il vocabolario. Ed infatti, quando noi eravamo giovani, le parole avevano un significato stabile. L’onorevole Calosso reputa che siano reazionari i comunisti: io confesserò che non so fare i paradossi e non posso quindi seguirlo in questa sua affermazione; ma è certo che per qualcuno è reazionario chiunque non la pensi come lui.

Ritorniamo dunque ad un costume democratico in cui imperi il rispetto, la tolleranza. E, soprattutto, la lotta sia civile, la competizione si svolga in modo civile, così come erano possibili le competizioni ai tempi della giovinezza del nostro Tonello, il quale, nonostante sia qui considerato un mangiapreti, è stato anche – voi forse non lo sapete – il bravo Fabbriciere dell’insigne Basilica di San Petronio (Si ride), ed è riuscito in quell’epoca a filare in perfetto accordo con il futuro papa Benedetto XV quando era ancora Cardinale arcivescovo di Bologna.

Nessuno di noi ha evidentemente il diritto di mettere in dubbio la buona fede di chicchessia; e, circa la libertà di parola e di politica nelle fabbriche, rivendicata dall’onorevole Togliatti, l’onorevole Saragat ha detto già qualche cosa ed io spero sia consentito anche a me di dire qualcosa in argomento.

La libertà è un bene indivisibile: se si vuole che essa resista, deve essere un bene per tutti come la giustizia, ancora più della giustizia, se è possibile. E allora il rispetto e la tolleranza non dovrebbero essere più soltanto parole; si dovrebbe poter ragionare, parlare liberamente.

Onorevoli colleghi, io non starò a ricordarvi ora quello che è capitato a me in qualche parte d’Italia, e che puzzava più assai di organizzazione che non di manifestazione spontanea. Ma vi citerò semplicemente quello che è accaduto alla mia modesta compagna Bianca Bianchi, due giorni or sono in Roma, quando tre ondate successive di disturbatori, cicliste, motociclista e camioniste, le hanno impedito di parlare.

Qui, signori, sta la base della democrazia; ma qui sta anche un grande pericolo per la democrazia (Approvazioni). Specialmente durante le lotte elettorali. Si può comprendere che nel pubblico si manifesti, specialmente in tempi di assenza di educazione e di preparazione politica, in tempi arroventati come quelli che noi viviamo, si determini – e io arrivo persino a comprendere e a spiegarmelo data l’incapacità in cui si può trovare una parte della massa operaia di comprendere il significato dell’atteggiamento politico che noi abbiamo assunto – se può essere comprensibile che una parte, una minoranza o, se volete, una maggioranza in un determinato momento si scateni e urli e fischi; quando noi assistiamo all’evidente organizzazione di questa masturbazione, di questa violazione delle libertà altrui, noi diciamo che così non si può continuare senza far correre gravi rischi alla democrazia.

Ma io dico anche al Governo, e voglio dire al Ministro Scelba, che il suo primo dovere non dovrebbe essere quello di impugnare il regolamento di polizia, di scatenare i suoi carabinieri o i suoi poliziotti e mettere le mani addosso a chi eventualmente fa un discorso senza avere il regolare permesso, come aveva minacciato di fare con me all’epoca del discorso di Guastalla.

Guai se di fronte a questi problemi il Governo si dovesse lasciar trascinare soltanto considerando i problemi stessi come problemi di polizia. Vi è qualche cosa al fondo che deve essere compreso. Vi è una funzione che dovrebbe essere, più che del Governo, soprattutto dei partiti politici, di tutti i partiti politici (che io considero siano mancati a questa loro funzione). È loro dovere quello di illuminare la classe lavoratrice, di parlare un linguaggio franco, onesto, di dire la verità. La verità che non è mai stata detta in vent’anni; che non è mai stata scritta e detta né sui giornali né sui libri in vent’anni; illuminare la classe operaia, non pretendere di guidarla, ma illuminarla, perché essa impari, essa stessa, a camminare, e sia domani la politica che i partiti della classe operaia faranno, l’espressione della volontà che sale dalla base, dal basso, il risultato della maturazione, della convinzione, della preparazione della massa operaia stessa.

Ciò che avevamo fatto un tempo, e che non è ora stato fatto, bisogna riprenderlo, e far sì che queste masse intendano che questa vita nuova che noi vogliamo instaurare nel nostro Paese, potrà essere domani, soprattutto se esse masse ne saranno la base e lo strumento costruttivo. Tutti i partiti sono mancati a questa loro funzione. È mancato a questa funzione, anche e soprattutto, il partito che oggi sta al Governo.

DOSSETTI. Perché?

SIMONINI. L’onorevole Dossetti mi attendeva ad un altro traguardo. Sulla sua orgogliosa sicurezza ha contato l’onorevole De Gasperi: otto milioni di voti, 207 deputati, buttati sulla bilancia in un certo momento, hanno portato il partito ad assumere delle responsabilità, delle responsabilità che sono sproporzionate a quella che è la sua reale efficienza nel paese, a quello che è il suo peso politico effettivo, e che l’hanno costretto ad accettare dei compagni di viaggio molto pericolosi che Io potranno portare ad affrontare e a fare affrontare al Paese (se questa situazione perdurerà) delle pericolose avventure, pericolose non soltanto per il partito, ma purtroppo per il paese stesso!

Noi abbiamo sostenuto già nelle precedenti discussioni, e particolarmente nell’ultima discussione sulle dichiarazioni del Governo, che una certa azione del Governo dovesse rispondere ad un determinato piano. Ma hanno paura del piano tutti!

Adesso hanno paura del piano anche da questa parte, se devo giudicare da quanto ha detto Morandi ieri. Ha paura del piano Corbino, il quale ha scoperto nientemeno che la carestia minaccia il mondo da quando i Governi si sono assunti il compito di pianificare la vita dei popoli. Ma l’onorevole Corbino si è dimenticato di una cosa: che i Governi sono stati costretti ad occuparsi dell’amministrazione di ciò che serve alla vita dei popoli in conseguenza del maggiore consumo e della diminuzione della produzione che è conseguenza della guerra, e non era possibile evidentemente far pervenire ad una parte delle popolazioni ciò che serve alla vita delle famiglie, particolarmente alla parte economicamente più debole delle popolazioni stesse, se non attraverso un regime vincolistico, una disciplina, o – se volete – un piano.

Noi lamentiamo non che il piano non ci sia stato. Volete forse sostenere che un piano ci sia stato nel nostro Paese, specialmente in materia alimentare?

Non c’è stato un piano. Non solo: ma non c’è stata mai, neanche in questa Assemblea, una discussione sulla politica alimentare del Governo, discussione che servisse a far sentire al popolo italiano che qualcuno pensava a questi problemi.

Benché la terza Commissione permanente dell’Assemblea Costituente – che io ho l’onore di presiedere – abbia chiesto più volte che la politica alimentare del Paese fosse portata qui in discussione, il Governo ha fatto sempre orecchio da mercante. Perché? Perché io ebbi il torto forse di chiedere che questa discussione fosse qui portata in occasione di una certa legge, di una certa leggina della Presidenza del Consiglio che dava valore di legge a certe disposizioni dell’Alto Commissariato per l’alimentazione su quello che fu lo scandalo del formaggio grana, sul quale per carità di patria sarà forse bene non tornare.

La politica alimentare non si è potuta discutere qui e credo che sia stato un gravissimo errore non dare la sensazione al popolo italiano delle difficoltà verso le quali marciava e dell’interessamento che chi aveva il dovere di farlo portava al problema del suo pane quotidiano. Si parla di mercato nero. Ma mercato nero in questa materia non esiste! Si può dire che è mercato bianco! Voi andate fuori di questo palazzo ed imboccate il primo vicolo a sinistra o a destra, e trovate che si vende pane bianco, mentre leggete sui giornali che ci sono città senza grano e senza farina!

La disciplina manca perché manca il senso del civico dovere (è vero) che è preminente presso altre Nazioni di Europa; ma alla disciplina bisognava sostituire l’intervento dell’autorità che doveva agire come non ha mai agito. E voglio ricordare un piccolo episodio. Per un modesto pacchetto di sigarette venduto alla borsa nera, noi abbiamo visto nella nostra città, una donna vedersi sottratta la licenza di privativa e nello stesso giorno abbiamo visto scatenata per la città la polizia tributaria, la guardia di finanza a mettere in contravvenzione, a requisire tutto ciò che incontrava e che puzzava di tabacco. Sono tornato a Roma col cuore aperto alla speranza ed ho detto: finalmente cominciamo a fare sul serio in questa materia!

Ma arrivato a Roma ho visto che le sigarette si continuano a vendere liberamente dappertutto. E lo Stato è assente ed ignora questa truffa che si esercita, ai danni di chi? Ai danni dello Stato stesso.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non ne possiamo produrre abbastanza.

SIMONINI. In questa materia io non sono molto profondo, perché non sono un fumatore. La legge però, onorevole De Gasperi, è uguale per tutti. Perché volete imprigionare in una città e lasciare libero il commercio nelle altre? È questa una disuguaglianza nell’applicazione della legge che determina il dispregio per la legge stessa, perché nulla è più dannoso del fare una legge per non applicarla, come nulla è più dannoso che applicare una legge con misure diverse.

Una voce a sinistra. La legge è uguale per tutti; la giustizia non è uguale per tutti.!

SIMONINI. Grazie, avvocato!

E qui entriamo su quel terreno della pianificazione. Per esempio, a Milano ed anche a Roma e dappertutto è stato detto che si costruiscono case, palazzi e poi vengono venduti gli appartamenti a vani che vengono a costare 2 milioni, due milioni e mezzo ciascuno. Ha detto Giannini che dobbiamo lasciar fare perché in questo modo si dà da lavorare agli operai. È vero che sono gli operai che costruiscono i palazzi, ma si usano mattoni, cemento, calce che mancano per fare le case popolari e la gente continua a vivere nei tuguri. Provate, onorevoli deputati, a fare un giro a cinque o sei chilometri dal centro di questa grande città, andate fuori, nei piccoli quartieri a vedere come vive certa povera gente. E del resto, perché dovrei insistere su questo argomento se siamo su ciò tutti d’accordo? Ma intanto il piano continua a fare paura. Come i consigli di gestione. È una magnifica legge elaborata dai Ministri Morandi e D’Aragona, con una bellissima relazione introduttiva. Ma non se ne parla più. Quando se ne parlerà? Se ne ha paura. Ma a torto.

Immediatamente dopo la liberazione un industriale mio amico, della mia città, venne da me perché gli era stato presentato un progetto di consiglio di gestione di sette articoli. Il settimo era quello aggiunto dalla commissione interna della sua fabbrica dove la massa operaia si sentiva più portata a questa ardita conquista. I primi sei elaborati dalla Camera del lavoro erano, dirò così, giudiziosi, accettabilissimi anche da parte dell’industriale. Diceva però il 7°): «Qualora si determini un contrasto fra il consiglio di gestione e il proprietario privato, il consiglio di gestione estrometterà il proprietario e continuerà la gestione per conto suo». Era spaventato. Io gli dissi: «abbia fiducia del senso di equilibrio che è innato nel popolo italiano. Porti questa gente a vedere veramente come l’industria si conduce, e vedrà che non la metteranno mai fuori». Infatti è ancora oggi padrone della sua azienda.

Ma, dice giustamente l’amico Morandi (l’autore di quei 14 punti che sono pure un piano, anche se cucito con filo bianco, ma pure sempre un piano che il Governo ha accettato e non so in che misura veramente applicato), se noi attendiamo quell’avvio che dovrebbe venire dal Consiglio economico nazionale, attenderemo per venti anni. Penso ce ne vorranno molti di più, a giudicare da quello che ho avuto occasione di sentire durante i primi due giorni di discussione e da quello che ho avuto occasione di vedere nelle relazioni introduttive che sono state preparate dal Governo. Vi sono dei problemi che non possono attendere le elaborazioni e le inchieste del Consiglio economico nazionale. C’è un problema pesante nel nostro Paese: quello della disoccupazione. Qui occorre un intervento deciso. Noi abbiamo approvato l’altro giorno un provvedimento di legge che parla d’imposizione di mano d’opera in agricoltura. Bisogna camminare in questa direzione se si vuole assorbire in gran parte quella mano d’opera disoccupata che oggi costituisce preoccupazioni per l’onorevole Scelba, ma anche una grande preoccupazione per coloro che hanno a cuore gli interessi della classe operaia, perché è tutta gente che non ha da mangiare a casa propria.

Bisogna guardare soprattutto alla possibilità di sviluppo della nostra agricoltura. Quando noi pensiamo e sentiamo parlare di riforma agraria, vediamo molta gente allargare e aprire occhi ed orecchie e spaventarsi. Si fa una gran confusione fra riforma agraria e riforma fondiaria. Effettivamente bisogna riconoscere che in questa materia una grande chiarezza non c’è mai stata; ma non dimentichiamo quello che ci hanno detto coloro che in essa sono profondi. Mi appello ad uno che non è certamente dei nostri, Arrigo Serpieri, che ci consiglia di avvicinarci con cautela e rispetto all’agricoltura; di parlare con cautela di riforma agraria. Ma ci indica anche la possibilità di trasformazioni, di miglioramenti della condizione agraria nel nostro Paese, tanto da poter offrire una maggiore possibilità di collocamento di mano d’opera, di assorbimento di bracciantato, e permetterci di affrontare e risolvere – se non in tutto, in parte – in attesa che si aprano le grandi correnti d’emigrazione, il problema del collocamento di quel bracciantato agricolo che tante preoccupazioni ha dato in questi giorni al Paese, e specialmente al Ministro Scelba. Bisogna aumentare le possibilità di immissione delle grandi masse alle compartecipazioni agricole. Ciò potrà essere il risultato della realizzazione di un ardito piano di sviluppo delle bonifiche che sin’ora si sono svolte con piani non sempre ben ordinati, ma che dovranno essere oggetto di cura d– parte di questo Governo o del Governo più rispondente agli interessi della classe lavoratrice e dei nostri tempi, che all’attuale dovrà succedere.

Pensate soprattutto, signori del Governo, alla immensa miseria che imperversa nel nostro Paese in certe zone. L’onorevole Corbino ci parla dei 350.000 bagnanti di Ostia, e io sono ben lieto che ad Ostia siano potuti andare, in ragione di un terzo, i romani e sarò più lieto quando saprò che tutti potranno andare a Ostia, perché vuol dire che almeno a casa essi hanno da mangiare se hanno soldi da spendere per recarsi ad Ostia. Ma guardiamoci intorno; non dirò di Milano; ma specialmente di Roma e di Napoli: siamo circondati continuamente da bambini i cui volti tradiscono patimenti e miseria. Non mi si venga a dire che esiste una organizzazione dell’accattonaggio. Può anche esser vero, ma la miseria si vede lo stesso in quelle povere ossa, che spuntano spesso da camicie stracciate e lacere: peggio ancora se c’è anche l’ignominia dell’organizzazione dell’accattonaggio che fa leva su tutta questa miseria. Sono questi problemi grossi: bisogna pensare ad essi e guardare a questi problemi, ai quali guarda soprattutto – ed è suo dovere – la Confederazione generale del lavoro. La Confederazione generale del lavoro, che è oggi una grande forza politica nel nostro Paese, e che deve essere preservata da possibili scissioni. Io colgo l’occasione volentieri, io che sono tra coloro che per diverse ragioni (che qui non ho da ripetere, perché non è questa la tribuna da cui possano essere esposte determinate idee) si sono trovati e si troveranno ancora lungo la strada in polemica con gli attuali dirigenti della Confederazione, colgo l’occasione per dire che l’unità sindacale è oggi una forza basilare della nostra Nazione e penso altresì che se la classe operaia fosse disunita e l’unità sindacale spezzata, ciò porterebbe ad un enorme aumento delle difficoltà del nostro Paese.

Quindi noi siamo per l’unità, ma vorremmo che la Confederazione generale del lavoro diventasse uno strumento veramente capace di inserirsi nella lotta, attrezzato per contare e pesare nella risoluzione dei problemi della vita del nostro Paese e fare una sua politica. Chiediamo che essa sia apartitica e domandiamo che nella sua azione non senta l’influenza ed il peso delle decisioni e della volontà dei partiti, ma vorremmo che la Confederazione facesse una sua politica e prospettasse le soluzioni dei problemi della categoria e della classe nel quadro dell’interesse nazionale, sì da far coincidere gli interessi di quella determinata categoria e della classe con gli interessi nazionali, così come si è sempre fatto e sempre si fa dovunque esiste un movimento sindacale veramente forte, che sa dire il suo pensiero sui gravi problemi politici dell’ora. Vorremmo che la Confederazione ci prospettasse il suo pensiero sul problema delle grandi riforme di struttura di cui si parla alle masse operaie da tre anni a questa parte, senza mai riuscire a indicare nulla di concreto.

Molto spesso la Confederazione del lavoro ha appoggiato la soluzione di determinati problemi prospettati dai partiti politici, mentre è verso essa e verso le sue soluzioni che dovrebbe convergere l’appoggio dei partiti politici. Ma, compagni (l’abitudine di parlare nelle assemblee socialiste mi ha portato a chiamarvi compagni, una parola che mi è cara, anche se da qualche parte è respinta), onorevoli colleghi, al partito politico può essere possibile prospettare la soluzione di un problema che si proietta nell’avvenire, ed il partito politico può anche essere sconfitto e trovare nella sconfitta una ragione di più per rafforzarsi nella sua convinzione e resistere alla battaglia.

Ma alla classe lavoratrice, che ha determinati diritti da difendere e precisi interessi che sono quelli rappresentati dal pane delle famiglie dei lavoratori, alla classe lavoratrice non è consentito prospettare una soluzione, un’impostazione, una battaglia che sia fuori dalla possibilità della realizzazione. Non è consentito cioè associare la sua sorte alla sorte del partito politico.

Qualcuno ha affermato che la classe operaia è stata battuta. Io affermo che la classe operaia non è stata ancora battuta, anche se la situazione che si è creata nel Paese può far credere che determinati partiti politici possano trovarsi in condizioni diverse o di minor prestigio di quelle di ieri.

Ma la classe operaia potrebbe essere battuta se questa situazione non avesse un rimedio. Ed è a questo rimedio che noi dobbiamo guardare. Questo rimedio noi lo possiamo trovare se riusciremo a individuare lo strumento che ci permetta la soluzione che dovrebbe correggere l’attuale crisi.

E mi riallaccio a quanto ho detto inizialmente facendo mia l’affermazione di Lussu. Come? Ecco il punto. Ne parliamo nei corridoi tutti i giorni. Ma prima di addentrarmi all’esame rapido, che vi porterà via pochi minuti, di questo problema eminentemente politico, io voglio dire ancora una parola su quello che è il problema del giorno: l’occupazione delle terre incolte. Ho letto stamane sul giornale che non vi sono terre incolte nel Lazio. Io non lo so. Può darsi, ma non conosco questa regione. Certo, terre incolte in Italia ve ne sono, ma vi sono soprattutto molte terre mal coltivate, ed è in quella direzione che dovrebbe puntare la riforma agraria, una riforma agraria intelligente che offra prospettive e possibilità di lavoro e, attraverso l’utilizzazione del suolo nazionale, anche la possibilità di dare al popolo italiano quel pane che gli manca. Ecco il grande problema. Confederazione del lavoro e Governo potrebbero fare molto in questo campo. Dare lavoro agli italiani e aumentare la produzione agraria si può, pensando in tempo, predisponendo un piano, creando grandi cooperative, disciplinando l’occupazione delle terre mal condotte, immettendovi, attrezzate debitamente, queste cooperative. Vi sono nel nostro Paese migliaia di tecnici agrari che non attendono che di essere utilizzati, come vi sono migliaia di braccia che non attendono che essere avviate al lavoro. Dare sementi, dare concimi, dare macchine, dare credito a questa gente organizzata in forma cooperativa. Questa è la riforma agraria. Una riforma modesta alla quale il Governo e la Confederazione dovrebbero chiamare a collaborare, se non vengono al richiamo della convinzione, con quello della legge, le classi proprietarie. Ed allora molte cose nel nostro Paese che oggi sembrano difficili diventeranno più facili. Ma occorrerebbe soprattutto che si intendesse una grande verità: che nel nostro Paese vi sono delle forze sociali retrive, arretrate, che noi dobbiamo battere in breccia se vogliamo affrontare uno qualsiasi di questi grandi problemi e soprattutto se vogliamo affrontare il problema grave, centrale, basilare della crisi politica del nostro Paese. Queste forze sociali sono il latifondismo, i monopoli industriali, la dittatura del capitale finanziario che sono una pesante ipoteca, come è stato dimostrato da tanti oratori, sull’azione del Governo, o di una parte del Governo. Non dirò su quella dell’onorevole Gonella, sul quale pesa invece l’accusa di una specie di ipoteca clericale. (Proteste al centro).

Lo dimostreranno, caso mai, i tecnici che interverranno in questa discussione. Contro queste forze noi dobbiamo lottare, queste forze dobbiamo battere in breccia, se vogliamo aprire la strada ad una democrazia nel nostro Paese che non sia solo formale. Non sono larve del passato, onorevole Dossetti. Sono realtà presenti nel nostro Paese. Ma, come ho detto: noi dovremmo andare alla ricerca di questo strumento politico. Io non farò, come l’onorevole Giannini, un tentativo di mercato in pubblica seduta. (Si ride a sinistra). È abitudine, è consuetudine nel nostro Paese di risolvere questi problemi nei corridoi, fuori da quello che è l’ambiente nel quale dovrebbero essere risolti, e l’ambiente dovrebbe essere questa Aula.

È un peso che porteremo ancora, io spero, per poco tempo, perché credo, spero, mi auguro che il popolo italiano possa arrivare a correggere la formazione di questa Assemblea. Non credo però alla possibilità del trionfo di un solo partito. Evidentemente non è nelle prospettive dell’immediato domani e vorrei quasi dire: è augurabile che non sia nelle prospettive dell’immediato domani questa soluzione. Dove troveremo la base per la creazione di questo strumento politico, di questo Governo nuovo, diremo così, per intenderci meglio? Ma vediamo di non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ammazzato, perché sembra che il Governo non abbia nessuna intenzione di andarsene e nessuno deve credere sul serio che sia compromessa per sempre la solidarietà dei qualunquisti. Ma è certo che se il Governo vuole porsi nella condizione di assumere una determinata maggiore autorità nei confronti delle classi del lavoro, deve allargare la sua base in questa parte dell’Assemblea. (Commenti al centro).

Una voce al centro. Fin dove?

SIMONINI. È una domanda che ci è stata posta da qualcun altro: «fin dove?». Non dirò cosa ho risposto: il problema è di sapere quello che si vuole fare e di incontrarci fra uomini che vogliono giovare veramente, realmente al Paese! Il mio partito in questa materia non ha pregiudiziali di sorta, non prende l’iniziativa di nessuna esclusione, non intende precludersi nessuna possibilità: ciò che urge oggi è trovare la formula che dia lo strumento politico che ci permetta di superare l’inverno e di arrivare alla primavera, perché in primavera il popolo italiano ci giudicherà e, se avrà giudizio, forse ci manderà a spasso tutti. Ma l’importante è che il Governo e il Paese non ignorino che vi sono dei problemi oggi, e sono propri di quella enorme massa di italiani che noi presupponiamo di rappresentare, chi più, chi meno. Perché, colleghi comunisti, ha ragione Saragat quando vi dice che voi non dovete arrogarvi il diritto di essere gli unici e soli rappresentanti della classe operaia. E io voglio correggere anche ciò che egli ha detto concludendo il suo discorso e riferendosi ad una certa frase di Rosa Luxemburg: noi riteniamo non di essere sulla strada che ci permetterà di incontrarci con la classe lavoratrice, ma riteniamo di essere oggi sul terreno, sulla piattaforma di un’azione politica e sociale che ci permette di difendere gli interessi della classe lavoratrice! In quell’azione, che il vostro Togliatti ha definito di «unità nella ricostruzione», noi non poniamo, come ho detto, il problema della esclusione di alcuno, ma pensiamo che la classe lavoratrice oggi potrebbe bene essere efficacemente difesa anche da un Governo al quale non partecipasse il Partito comunista. (Commenti).

E quanto ha affermato l’onorevole Presidente di questa Assemblea domenica, in una grande adunata a Bologna, vi dà la riprova e la conferma di ciò che io affermo. Egli ha detto, parlando alle masse organizzate che erano affluite alla festa della stampa democratica, che «in uno Stato moderno i lavoratori così compattamente organizzati possono sorvegliare lo sviluppo della vita nazionale anche se, per intanto, gli uomini che esprimono più direttamente il loro pensiero (in questo caso sareste voi) non seggono al centro dello Stato».

La vostra funzione è la funzione di un grande partito, diremo così di estrema sinistra, che non si deve esaurire, non si può esaurire nella ricerca affannosa di posti al Governo è può pesare lo stesso nella politica del Paese, se realmente ha il consenso di grandi masse consapevoli.

Una voce a sinistra. Allora volete andare voi al Governo…

SIMONINI. Noi non ci siamo ancora andati.

So che voi volete dare alla classe lavoratrice ciò che noi pure le vogliamo dare e che non può essere il risultato di una improvvisazione (Commenti – Interruzioni all’estrema sinistra) né il frutto di un colpo di bacchetta magica: tutte le grandi conquiste sono faticose a realizzarsi ed io voglio fissare qui un pensiero espresso sempre dal Presidente di questa Assemblea in quella adunanza di Bologna, pensiero altamente nobile, istruttivo, indicativo, che ci permette di perdonargli d’aver rotto la tradizione secolare di questo Parlamento che vedeva il Presidente estraniarsi dalla vita politica attiva. (Approvazioni al centro).

Egli parlava, in quell’adunanza, del travaglio di un secolo, riferendosi al tempo in cui a Torino era stato promulgato lo Statuto. E concludeva: «Quei lontani nostri progenitori di un secolo fa, anch’essi lottando, erano nelle loro lotte impazienti e credevano che nel giro di pochi anni avrebbero raggiunto le loro mete e consolidato le nuove istituzioni degli italiani». Egli sottolineava appunto quale complesso di destini, di gioie, di dolori abbia rappresentato quest’era che l’anno prossimo troverà la sua conclusione.

Queste cose, onorevoli colleghi, diciamo noi oggi, convinti, profondamente convinti, di rappresentare collegialmente gli interessi della classe lavoratrice italiana: e sono cose che nel nostro Paese si dicono da molti anni. C’è stata una bufera, c’è stata un’interruzione che è durata un quarto di secolo, durante il quale non abbiamo più potuto parlare questo linguaggio alle classi operaie: ma è pur sempre questo il linguaggio che noi dobbiamo rivolgere alle masse lavoratrici.

Concludendo, vi prego permettermi di leggere alcune parole che ha qui pronunziato, in questa stessa Aula, mentre si discuteva intorno ad un Governo Zanardelli, colui che io considero come mio maestro per aver vissuto a lui accanto e per aver appreso da lui quel poco che so, Camillo Prampolini…

Una voce all’estrema sinistra. Ma che adesso hai dimenticato.

SIMONINI. …e voi vedrete, colleghi comunisti, quanto siano di attualità in questo momento le parole di quell’uomo: «Confrontate l’alba del movimento operaio inglese con quest’alba di redenzione del nostro proletariato. Quella inglese fu un’agitazione che si iniziò e si svolse specialmente presso il proletariato industriale, e la nostra invece comprende già molta parte del proletariato agricolo, meno preparato, più rozzo, più misero dell’altro. Eppure, ciò nonostante, la lotta fra i padroni ed i lavoratori in questi ultimi tempi ha proceduto in Italia quasi senza scosse, quasi senza incidenti gravi; cioè in modo veramente mirabile e di cui abbiamo tutti il diritto di essere orgogliosi se lo paragoniamo a ciò che durante lo stesso periodo dell’organizzazione della resistenza avvenne in quell’Inghilterra, della quale tutti siamo soliti a menar vanto per la sua civiltà».

Non vi sembra che queste parole possano inquadrarsi nella nostra situazione attuale? Non è un’alba questa che sorge? Non è vero che in questi due anni la classe operaia italiana ha dato dimostrazione di alto senso di civismo per il modo con cui ha affrontato le dure battaglie del momento?

Ma concludeva Camillo Prampolini affermando che «i lavoratori sono maturi alla libertà». Non insultateli (onorevole Scelba, queste parole andrebbero bene anche per lei) dicendoli immaturi alla libertà; i fatti vi hanno smentito; ma non ostinatevi nel proposito folle di togliere loro la libertà; essi potranno abusarne qualche volta, anzi, ne abuseranno certamente, cioè commetteranno inevitabilmente qualche errore – chi di noi non ha errato e non erra? – Ma voi stessi li spingereste fatalmente al massimo errore, o meglio, al massimo danno, nostro, vostro, di tutti, perché li costringereste alla violenza sistematica, voluta, premeditata, organizzata, se, dimentichi del passato della vostra stessa classe e dei principi di diritto pubblico da voi stessi proclamati, precludeste loro le vie dell’azione nell’ambito della libertà».

Sono parole queste che noi possiamo ancora ripetere e ricordare a monito dei governanti di oggi e ad insegnamento per noi.

Noi guardiamo all’avvenire come all’armonica visione di una società civile, di una nuova società civile italiana che risorge, nella quale si affermano i diritti del lavoro, mentre cadono privilegi e pregiudizi, e nasce il nuovo ordine socialista. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Quintieri Quinto ha presentato il seguente ordine del giorno, firmato anche dagli onorevoli Lucifero, Condorelli, Fabbri, Cifaldi, Bellavista, Villabruna, Cortese e Perrone Capano:

«L’Assemblea Costituente, preso atto delle comunicazioni del Governo, ne approva le attuali direttive politiche ed economiche, raccomandando che i provvedimenti necessari per riportare alla normalità la produzione e la vita del Paese siano accompagnati da tutte le cautele atte ad attenuare gli inevitabili contraccolpi di un cambiamento di congiuntura, e passa all’ordine del giorno».

L’onorevole Quintieri ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

QUINTIERI QUINTO. Non premetto la promessa consuetudinaria di brevità, fatta anche dal nostro collega che abbiamo ascoltato con interesse, ma che abbiamo ascoltato per un’ora e mezzo; non mi sento quindi di dare agli amici una sensazione di freddo con una promessa che i fatti hanno mostrato fallace.

Cercherò, poiché al nostro Governo sono state date delle idee in ogni campo, sono stati forniti argomenti di meditazione in ogni direzione, di limitarmi soltanto a poche e precise cose, per vedere su quali punti si possa imperniare e precisare il dissenso e su quali punti invece noi possiamo essere d’accordo.

Tutti hanno detto che la crisi attuale è una crisi politica. Esattissimo! In questo momento si tratta di una crisi esclusivamente politica.

Ma le basi, ma gli argomenti, ma gli spunti sono economici.

E poiché il mio mestiere è quello di occuparmi di qualche questione economica, mi limiterò esclusivamente al mio campo.

Confesso che questa Assemblea non mi sembra, per come è sorta, per le sue tradizioni, per i suoi sentimenti, l’ambiente più adatto per trattare delle questioni economiche. Questo era uno strumento forgiato per altri compiti. Qualche ricordo scolastico mi suggerirebbe, forse, una funzione completamente diversa, perché ricordo che, quando Giovanni Senza Terra dovette subire dai suoi baroni l’imposizione della Magna Charta, fu per tutelate i mercanti, i commercianti, diremo i capitalisti, della City, dalle imposizioni che il fisco faceva gravare sulle loro spalle.

Ora, il nostro Parlamento ha una funzione del tutto diversa. C’è qualche cosa che rende difficile l’uso di questo prezioso e delicato strumento per affinare e discutere le questioni economiche. E questo qualche cosa (perdonate!) è la mancanza di moderazione, è la mancanza di obiettività, è soprattutto la mancanza d’una facoltà che io risento: la facoltà di poter dire agli avversari, tutte le volte che vorrei, che hanno ragione, e naturalmente di sentire dall’altra parte le stesse ammissioni.

Ci sono molti punti nelle questioni finanziarie sui quali non vedo come non ci possano essere divergenze, penso dunque che queste divergenze siano dovute talora solo alle posizioni reciproche dei contendenti, in questa Aula, perché vedo che quando i colleghi che stanno nell’emiciclo passano al banco del Governo difendono qualche volta opinioni opposte a quelle che sostenevano quando stavano nell’emiciclo, e viceversa.

Ho promesso che avrei trattato problemi precisi; vengo, quindi, al più attuale di essi.

Restrizione del credito. C’è stata in questi ultimi tempi, specialmente da poche settimane, una certa apprensione nel paese per delle pretese restrizioni del credito. Vorrei cominciare col dire che si è evidentemente fraintesa qualche frase, forse non felicissima, da parte dei preposti al regolamento del credito e soprattutto alla situazione bancaria.

Siccome altra volta ho definito delicata la condizione delle banche, mi sembra che, anche adesso (sebbene siano le undici e mezzo di sera) valga la pena di dirne qualche parola.

La svalutazione monetaria ha profondamente alterato il funzionamento del meccanismo creditizio. Le ragioni sono profonde. È svanito il capitale liquido, quello che le aziende non avevano investito in beni reali. Non c’è la possibilità di smobilitare quella parte di capitali ancora esistente nelle aziende, investita in beni reali, sia per le difficoltà delle vendite e i rischi che ancora sono collegati con la moneta, sia perché una parte di questi beni è necessaria al funzionamento della banca.

Quindi vi sono, in pratica, gli istituti che hanno salvato parte del loro capitale ma lo hanno immobilizzato, e quelli che non hanno salvato nulla. Le banche hanno visto accrescersi fortemente i loro depositi; con questi siamo a circa 17-18 volte le cifre dell’anteguerra perché a fine luglio si è arrivati a quasi 1000 miliardi di fondi di terzi. Ma questo accrescimento di depositi ha anche portato con sé uno spostamento fra le varie specie di essi. Sono aumentate soprattutto quelle che erano somme a vista, somme da tenere a disposizione della clientela bancaria.

Ora, è avvenuto questo fenomeno: siccome non si dànno più interessi sui depositi, la gente non ha nessun interesse di depositare le somme di cui dispone. Sono invece gli assegni circolari ed i vaglia che si sono accresciuti per delle somme enormi, perché mentre i depositi non sono aumentati che 17-18 volte, gli assegni ed i vaglia sono aumentati di 200-250 volte l’ammontare dell’anteguerra. Notate che l’assegno circolare permette di costituire una forma di conto corrente completamente anonimo. Può andare qualsiasi sconosciuto a fare un vaglia. Si può anche fare un vaglia ad un nome inesistente e poi si conserva nel cassetto questo titolo di credito che si potrà esigere in ogni momento. E non c’è modo di rintracciarne il beneficiario; non è possibile raggiungerlo in nessuna maniera, specialmente se il titolo di credito è stato emesso con un nome falso. In questa situazione, con questa mole di depositi non garantiti da capitali propri degli istituti, con questa massa di assegni circolari pagabili a vista, le banche evidentemente devono usare la massima prudenza. Ora, in un anno, dal luglio dell’anno scorso, abbiamo avuto un incremento di circa 460 miliardi di depositi, 460 miliardi che sono stati assorbiti interamente dalla richiesta della clientela delle banche. C’è stata in tale senso una pressione fortissima. Evidentemente abbiamo avuto nel nostro Paese, negli ultimi 18 mesi, un forte sviluppo in tutti i rami dell’attività economica – dirò poi per quali ragioni – e quindi le banche hanno risentito al massimo di questa pressione. C’è qualche cosa di più; le banche non riescono a fare il loro bilancio economico perché le spese sono salite in proporzioni maggiori di quella in cui si siano accresciute le risorse. Si è andati così avanti per cercare di incrementare gli utili di gestione che le banche non funzionano più neppure nel regime di monopolio che è quello attuale, perché hanno a mano a mano, ridotti zero i tassi dei depositi che venivano loro portati (e quindi non c’è più nessun tornaconto da parte del pubblico a portare il denaro agli istituti di credito). D’altro canto si sono elevati al massimo gli interessi sulle cambiali e sui fidi.

In questa situazione le banche hanno investito tutto quello che potevano investire. Ora, di recente, la Banca d’Italia ha detto ai direttori degli altri Istituti: Signori, voi conoscete il mestiere; vi renderete conto di che cosa significa investire più del 70-75 per cento delle vostre disponibilità, disponibilità di cui dovete tenere una parte pronta in ogni circostanza ed in ogni momento perché, data la delicatezza della situazione, possono esservi prelievi imprevisti ai quali dover far fronte; qualunque incrinatura al credito delle banche, che fortunatamente oggi è alto, potrebbe avere ripercussioni serie. Quindi, con il fido alla clientela, voi più in là di quanto abbiate fatto non potete andare. Su questo ragionamento convengo in pieno con l’istituto di emissione.

Nella stessa riunione si è anche detto alle Banche: voi dovete aiutare lo Stato. Qui debbo osservare che non vi è organismo finanziario il quale abbia i mezzi, in questo momento, di aiutare lo Stato, perché effettivamente i bisogni del commercio e dell’industria sono così elevati, che le possibilità bancarie di aiutare lo Stato si riducono a ben poca cosa. Ma c’è anche un’altra questione: in questi ultimi mesi la congiuntura finanziaria ha avuto una variazione nella sua andatura. Infatti, fino a qualche mese fa, fino a luglio, c’è stato un incremento dei depositi, incremento che con il mese di luglio è finito. Io vorrei richiamare l’attenzione, soprattutto dei Ministri finanziari, sul fatto che l’accrescersi del gettito fiscale è senza dubbio benefico, però dobbiamo tener presente che rappresenterà altrettanti mezzi sottratti all’economia privata. Quindi nell’ordine del giorno di fiducia al Governo raccomando di fare la maggiore attenzione, per mitigare i contraccolpi inevitabili, od almeno possibili, data la massa ingente di circolante che non affluisce più all’industria ed al commercio.

Se il commercio e l’industria si troveranno messi alle strette, ricorreranno, per sottrarsi alle difficoltà, ad ogni pressione sullo Stato. Occorre essere preparati per resistere in una forma ragionevole e ridurre i danni che anche soltanto un inizio di deflazione può provocare. C’è poi un altro punto importante in discussione ed è questo: la selezione delle operazioni delle banche. Richiamo l’attenzione su di un fatto: 1’80 per cento e più, forse, dei depositi bancari è sotto il controllo dello Stato, perché è lo Stato che esercisce oggi l’industria bancaria; pensate, a tale proposito, alle banche di diritto pubblico, o a quelle di interesse nazionale ed alle loro collegate, alle Casse di risparmio, alle Casse postali. Oltre 1’80 per cento, dunque, come ho detto, delle riserve bancarie italiane sono in mano dello Stato. E allora in che cosa può consistere questo controllo? Questo controllo dovrebbe essere affidato alla Banca d’Italia che ha, per esercitarlo, a sua disposizione un mezzo efficace classico: quello del risconto. Senza contare il diritto che le dà la legge per la tutela del risparmio e per l’esercizio del credito di seguire le operazioni di fido. Quando una banca ha bisogno dell’appoggio della Banca d’Italia, questa ha modo di controllare gli investimenti. Le ordinarie disposizioni per la tutela del risparmio dànno, come ho detto, alla Banca d’Italia la possibilità di esaminare le operazioni in cui cambiali sono presentate al risconto dai diversi Istituti che le hanno fatte. Aumentare ed integrare questa specie di sorveglianza, in questo momento, può essere una cosa utile sia per mitigare le operazioni speculative, sia per poter rispondere alle lamentele ed alle proteste che, più o meno in buona fede, verranno fatte a questo proposito.

Venendo poi alla parola «speculazione», alla quale parola ed alla quale tendenza l’onorevole Scoccimarro mi pare abbia dato una importanza eccessiva, dirò questo: è evidente che in un momento di svalutazione monetaria vi sia della speculazione. Ma che cosa intendete per speculazione? Non credo si possa considerare strettamente colpevole e speculatore l’industriale o il commerciante che vede ridursi il suo capitale giorno per giorno, se cerca di difendere i suoi mezzi di lavoro, perché per l’industriale e per il commerciante il capitale rappresenta un mezzo di lavoro come la biblioteca per il professionista, e gli attrezzi per l’artigiano.

Ammetto però che insieme con questi ce ne sono altri che allargano gli impianti, che migliorano le scorte facendo debiti e confidando, per pagarli, solo sulla svalutazione del denaro. Lì è opportuno intervenire, con moderazione e con criterio, ma bisogna intervenire; un’azione governativa si può perfettamente approvare, su per giù con le direttive seguite fin’ora. Questo è l’argomento principale sul quale volevo intrattenervi. Mi pare di non essermi troppo dilungato.

Dirò poche parole sulla deflazione. Bisogna amarissimamente piangere sulla inflazione e sulla ingiustizia profonda e la nequizia della inflazione. Badate però che la deflazione sarà qualche cosa di peggio. Io ricordo il sogno del Faraone delle sette vacche grasse e delle sette magre. Le magre le metterei a simboleggiare la deflazione. Bisogna cercare di evitare contraccolpi psicologici, perché questi potrebbero portare un arresto notevole in tutta la produzione; tanto più che si specula non solo al rialzo, ma anche al ribasso dei prezzi, perché infine, i primi ad essere colpiti da tutte queste ripercussioni economiche sarebbero i ceti più modesti. La differenza di opinioni non può vertere che sui mezzi come attutirli. Ora, nella deflazione, tutti immaginano che i prezzi scenderanno e che si potrà comprare; che si potrà comprare più di quanto non lo si possa oggi perché ognuno potrà disporre del denaro che possiede ora, con prezzi più bassi.

Purtroppo, se i prezzi scendono di una certa aliquota, il denaro che affluisce nelle tasche di ciascuno diminuisce molto di più: quindi, nuove, enormi difficoltà. Alla deflazione non ha retto nemmeno l’economia americana, che è stata duramente scossa nella grande crisi del 1929-1931, che ha visto diverse migliaia di istituti bancari fallire, ed ha sentito scricchiolare tutta la compagine finanziaria e sociale di quell’immenso Paese. Anche gli americani si son dovuti adattare a svalutare il dollaro ed a fare tutta una gamma di operazioni inflazionistiche perché la moneta non voleva scendere sufficientemente nei confronti dell’oro; tutto al contrario, per questo punto, di quanto accade da noi. Quindi, come vedete, la deflazione è molto pericolosa. Il rallentamento della congiuntura favorevole dei mercati internazionali – a cui accennava l’onorevole Corbino e che è in effetti da attendersi più o meno presto, perché da due anni a questa parte non si distrugge più, ma si è invece cominciato a costruire – è stato iniziato per il soddisfacimento almeno parziale dei bisogni più impellenti del pubblico di tutto il mondo. Anche questo fenomeno per noi avrà le sue luci e le sue ombre, giacché è bene tener presente che la nostra economia è, almeno parzialmente, basata sulle punte dell’economia altrui. Quando gli altri lavorano per il 110 per cento della loro potenzialità, per l’ultimo 10 per cento chiedono la nostra mano d’opera e le nostre merci. A mano a mano che la loro produzione sodisfa in più larga misura i loro bisogni, avremo dall’estero richieste diminuite e le nostre difficoltà economiche si accentueranno; dovremo prepararci quindi ad una aspra concorrenza sui mercati esterni.

Vorrei precisare per ultimo due o tre questioni di cui ho sentito parlare. La prima di queste è il mercato nero. Ci si è scagliati contro di esso, senza tener presente che il mercato nero ha una sua precisa funzione economica, cioè quella di portare i prezzi ad un livello tale che risponda alle necessità del momento, ed al reale valore della moneta. Ci dicono: vedete, c’è il mercato nero, nel quale si possono trovare pasta, pane, dolci e tutto. Ma non è esatto: il mercato nero c’è soltanto per una piccola aliquota di acquirenti ai quali è consentito raggiungere quei determinati prezzi. Si dice: ma il mercato nero ha l’odiosa caratteristica di sodisfare soltanto alcuni consumatori, lasciandone molti altri nell’indigenza. Vorrei far presente all’onorevole Scoccimarro, a questo proposito, che il danno del prezzo politico del pane non è costituito dai miliardi che costa al Governo il prezzo basso di vendita; il danno principale del prezzo politico del pane è costituito dal cattivo uso, dallo sciupio, che si fa del pane. Se si potesse dare il pane di grano, realmente, a tutti al 20 per cento o al 30 per cento del suo valore, esso finirebbe all’alimentazione del bestiame o sciupato in cento altri modi, perché è soltanto il prezzo che può, evidentemente, ridurne in modo efficace il consumo.

Quindi il mercato nero ha una sua funzione economica precisa: quella di portare i beni al loro prezzo effettivo, al loro corso di mercato libero. Perciò esso si è diffuso in tutto il mondo e si riproduce dovunque con gli stessi aspetti.

Ho qualcosa da dire in difesa di un’altra nostra concezione economica: della concezione economica fondamentale del Partito liberale. Ha detto l’onorevole Morandi – e sono perfettamente certo dell’esattezza della sua affermazione – che gli industriali tessili non hanno dato nemmeno un centesimo ai loro lavoratori dei miliardi che hanno guadagnato.

Io dico però che bisognava essere altrettanti San Francesco d’Assisi per dare qualcosa ai lavoratori. Era evidente che nessun tessile – fatta naturalmente qualche rara eccezione – avrebbe dato qualcosa ai propri operai. Ma su che linea deve essere indirizzato il nostro sforzo? Esso deve essere rivolto a ridurre questi margini eccessivi di utile dell’industria attraverso la concorrenza; è solo la libera concorrenza delle forze produttive che può fare da argine all’egoismo degli imprenditori. Ecco l’esigenza della nostra economia; ecco perché noi diciamo: non alterate i prezzi; non fate violenza al naturale equilibrio di essi. Se li alterate, accadrà questo, che quando le cose vanno male per loro gli esponenti dell’industria vi chiederanno aiuti e sussidi a spese della collettività; quando invece andranno bene, allora guadagneranno molto ma non vi daranno un soldo. Io non voglio così, a precipizio, addentrarmi in discussioni sul sistema liberale; ma mi sembra che l’unico mezzo per ridurre gli utili esagerati dei produttori risieda nella possibilità di far funzionare liberamente il giuoco delle forze economiche. A questo proposito cito un ultimo fenomeno. Specialmente nel Nord abbiamo tassi di interesse per operazioni di prestito elevatissimi: si parla del 15, 20, 30 per cento.

Questo è uno di quei tali elementi che possono frenare la speculazione e possono far ritornare in Italia i capitali emigrati fuori e naturalmente attirare anche il capitale estero. Io ho più fiducia in questo fenomeno che in tutto quello che può essere pressione, coercizione e controllo sui cambi. Il danaro è avido e pavido. Bruttissimi difetti, ma è così. Noi dobbiamo, finché vogliamo lasciare agire, nell’attuale struttura del paese, il gioco delle forze economiche, tener conto di queste attitudini.

Ora davvero un’ultima osservazione ed ho finito. Noi abbiamo tutti un grande interesse a che le condizioni economiche del nostro Paese non vadano peggiorando, perché è da queste condizioni economiche che dipende l’indipendenza di esso. Devo dire che ho sentito qui con una certa preoccupazione il Ministro Merzagora descrivere in una forma pittoresca la nostra situazione nei riguardi degli scambi con l’estero, e principalmente con l’America. È verissimo, ma io non credo che il nostro Paese, che è un grande Paese, che ha mostrato qualità eccezionali di lavoro, di tenacia, di resistenza, voglia adattarsi a vivere con questo cordone ombelicale. Anche fisiologicamente è una cosa che va fin quando l’organismo può stare nel grembo materno, ma poi il cordone si deve tagliare. Ora, su questo punto avremmo voluto sentire qualche cosa di più sui programmi del Ministro Merzagora per il futuro. Egli ci ha descritto la situazione e ci ha spiegato i diversi rimedi adottati per fronteggiarla e per riparare ai guai più imminenti. Io mi rendo conto della necessità dell’adozione dei cambi multipli fatta per cercare di incrementare le nostre esportazioni. Ma un programma a lunga scadenza non c’è. Su questo punto richiamo l’attenzione del Governo data la gravità della situazione, che poi non è soltanto una difficile situazione italiana, ma è comune a diversi altri Paesi europei che, come il nostro, sono legati agli scambi con l’estero. L’Inghilterra è nella stessa situazione. I mercati che ci fornivano le materie prime li abbiamo in parte perduti, perché sono i mercati dell’Europa orientale con i quali ancora non abbiamo potuto riprendere i contatti. E sono giustissimi tutti gli sforzi fatti per riattivare gli scambi con la Jugoslavia, con l’Ungheria e con tutti i paesi dell’Europa centrale, orientale e sud-orientale, che sono poi i nostri naturali mercati di sbocco, perché purtroppo gli scambi con l’America, mettendo da parte la forma del tutto particolare della beneficenza, della quale dobbiamo essere grati, gratissimi anzi, gli scambi con l’America in forma reciproca, credo, non saranno facilissimi. L’America è un venditore per eccellenza; è tanto un ricco, un generoso venditore, che regala perfino i beni, ma sarà per noi un cattivo compratore. Quindi, occorre esser cauti nel nutrire grandi speranze di stabilire un duplice scambio di prodotti con l’America.

Ho detto che avrei finito e mantengo la promessa. C’è soltanto una cosa che mi lascia un po’ perplesso e che vorrei chiedere agli amici della sinistra: noi abbiamo una situazione difficile economicamente e tale che può compromettere la difesa della indipendenza del nostro Paese alla quale sono sicuro teniamo tutti. Tale indipendenza politica ed economica evidentemente non è favorita e non è agevolata dagli scioperi, dalle interruzioni dell’attività lavorativa, che portano tra le masse operaie ed i dirigenti, che sono tutti e due elementi egualmente importanti per la produzione, strascichi di rancori e di cattivi rapporti dolorosi e dannosi. Ho saputo che domani noi avremo, per esempio, uno sciopero generale a Roma. Mi permetto di interrogare a questo proposito il Presidente del Consiglio per avere una parola di assicurazione. Se avremo, come spero, una risposta favorevole, credo di aver chiuso bene il mio discorso. (Applausi – Congratulazioni).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Vorrei dire all’Assemblea una parola tranquillante. La tenace opera di mediazione dei colleghi Segni e Marazza è riuscita stasera a fare rinviare la decisione e l’attuazione dello sciopero generale in Roma, la cui minaccia era incombente. Credo che domani si potrà avere una risposta definitiva da parte degli agricoltori e confido che essa sarà tale da dare soddisfazione alle più essenziali richieste dei contadini. Spero che questa decisione possa essere presa domani, in modo da evitare uno sciopero generale che sarebbe senza dubbio molto funesto per la nostra città. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Svolgimento di interrogazione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Gasparotto, Pajetta Gian Carlo, Malagugini e Vigorelli hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Governo, per sapere quali provvedimenti abbia preso in questi giorni o intenda prendere, perché siano dati alle industrie milanesi, che si trovano nella condizione di non poter far fronte al pagamento degli stipendi e dei salari al personale, i mezzi di credito necessari per fronteggiare la situazione e assicurare la normale attività produttiva»,

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Credo che domani, nel corso della discussione delle mozioni, il Vicepresidente Einaudi sarà in grado di esporre i termini generali della questione, anche per ciò che si riferisce alle industrie milanesi. Per quello che particolarmente riguarda la Breda, posso dire che lo Stato, essendo interessato alla puntuale esecuzione delle proprie forniture, che concernono specialmente il materiale ferroviario, ha potuto già rendere agevole e liquida la situazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Gasparotto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GASPAROTTO. Prendo atto di questa dichiarazione e parzialmente sono sodisfatto, nel senso che essa segnala un avviamento alla soluzione. Il problema è vasto, e interessa solidalmente i datori ed i prestatori di lavoro. Noi non ci siamo preoccupati degli interessi personali degli industriali; ci preoccupiamo degli interessi della produzione e soprattutto del lavoro, perché si minaccia niente meno che la mancata corresponsione dei salari e degli stipendi. Ora, sta bene che si siano già presi provvedimenti. Ieri ho preso atto della risposta scritta ad una interrogazione mia e dei colleghi bergamaschi al Ministro Corbellini, nella quale ci si assicura che sono in via di attuazione elettrificazioni delle linee ferroviarie che da Milano irradiano verso Bergamo, per un miliardo e trecento mila lire.

Parimenti, ho preso atto di una dichiarazione verbale fattami stamane dal Ministro della difesa, il quale intende obbligare o quanto meno sollecitare le ditte concessionarie delle linee aeree civili a dare commesse di aeroplani alle società costruttrici italiane, che minacciano di licenziare interamente le loro maestranze, con che si verrebbe alla dispersione, anzi alla distruzione, di una attrezzatura industriale che domani richiederebbe non un anno ma forse un decennio per essere rimessa in assetto. Quindi il problema si presenta complesso, grave e soprattutto urgente e riguarda una volta tanto gli interessi solidali degli industriali e dei lavoratori.

Io non domando al Governo che arrivi a sovvenire gli industriali perché possano pagare gli operai. Potrei dire, anzi, che i grandi industriali, detentori di cospicui pacchi azionari, i quali hanno realizzato larghi profitti in passato, dovrebbero incominciare essi ad anticipare alle loro aziende le somme occorrenti.

Vista così, la questione riguarda tutta la Lombardia e forse anche tutta l’Italia, perché ove mancasse alle imprese il fido cambiario, tutta la produzione industriale di ditte specializzate in grandi opere verrebbe a subire irreparabili paralisi.

Annunzio di interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere in base a quale criterio o in base a quale ordine superiore ha agito il prefetto di Campobasso nel disporre un imponente servizio di ordine pubblico, con quasi occupazione militare del centro della città, in occasione di un pacifico comizio popolare colà svoltosi il 28 settembre, creando così uno stato di intimorimento e di panico in quella pacifica e laboriosa popolazione.

«Per conoscere, altresì, perché mai lo stesso signor prefetto in occasione della giornata popolare del 20 settembre (nella quale in Campobasso non vi fu comizio) ebbe a far installare su un balcone della Prefettura una mitragliatrice pesante, senza che vi fosse alcun motivo di ordine pubblico, perseguendo così una politica di intimorimento ai danni della popolazione.

«Sansone, Assennato, Azzi».

«Al Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali, contrariamente alle assicurazioni date alle organizzazioni sindacali dei dipendenti dello Stato ed agli interroganti, di estendere il trattamento dell’indennità di caroviveri concesso al personale residente nei centri capoluoghi di provincia a tutto il personale residente nella provincia, si sia disposto, col decreto legislativo n. 778 del 5 agosto 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21 agosto 1947, n. 190, all’articolo 14, di estendere tale indennità solo ai dipendenti aventi sede di servizio nei comuni della provincia che non siano distanti più di 30 chilometri dal capoluogo misurati su via ordinaria fra le rispettive sedi comunali.

«Dato lo stato di agitazione esistente fra questi dipendenti, chiedesi risposta urgente.

«Morelli Luigi, Arcaini».

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere:

1°) se sia a loro conoscenza che da quattro anni la popolazione di Montelepre è posta in blocco fuori legge dalle autorità di polizia preposte alla lotta contro il banditismo, le quali si comportano – e talvolta lo dichiarano senza infingimenti – come se tutti i seimila abitanti di quella cittadina fossero dei banditi o dei loro complici; senza tener conto del fatto che la stragrande maggioranza è costituita da galantuomini e onesti agricoltori e che di essa fanno parte uomini che onorano i pubblici impieghi, la Magistratura e la scienza. Che nel corso delle indagini e dei rastrellamenti indiscriminati vengono commessi soprusi di ogni genere, senza alcun rispetto per la libertà, per il domicilio, per la proprietà e per la vita stessa dei cittadini;

2°) che questo avvenga per ordini del Ministero dell’interno e in quale misura è voluto, permesso o tollerato dalla Magistratura;

3°) se e quali provvedimenti intendano adottare perché a Montelepre si ripristinino la legalità e il rispetto della legge;

4°) se non intendano provvedere all’accertamento imparziale e severo dello stato di cose denunziato, dandone mandato a funzionari non suscettibili di influenze di ufficio, solleciti soltanto della ricerca della verità e ispirati dal sentimento del dovere.

«Varvaro».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella seduta di lunedì farò sapere quando il Governo intende rispondere.

DUGONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DUGONI. Sollecito dal Presidente del Consiglio la risposta ad una interrogazione riguardante la delegazione italiana presso l’U.N.R.R.A. Questa delegazione costa circa 500 mila lire al giorno. Siccome i soccorsi U.N.R.R.A. sono cessati, avevo chiesto di spiegare le ragioni per cui viene conservata questa delegazione.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Anche per questa interrogazione farò sapere lunedì quando il Governo intenda rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali il concorso per la copertura dei posti vacanti nel ruolo degli agenti di cambio delle Borse valori italiane, bandito il 16 ottobre 1946, non è stato ancora concluso. Il ritardo inspiegabile, e che ha dato luogo a congetture non favorevoli nei confronti dell’Amministrazione, congetture raccolte anche dalla stampa tecnica (Il commercio – 24 ore di Milano in data 14 settembre 1947 e Agenzia economica finanziaria di Roma in data 13 settembre 1947); oltre a ledere interessi privati, lede anche gravemente l’interesse pubblico, poiché gli organi ministeriali preposti alla vigilanza sulle Borse valori ritennero già nel 1946 che per normalizzare i mercati finanziari italiani dal punto di vista professionale occorressero un maggior numero di agenti di cambio, pubblici ufficiali. Si riconobbe, cioè, un’esigenza pubblica che era urgente sodisfare. Invece, ad oltre un anno di distanza dal bando, ciò non è stato fatto.

«L’interrogante chiede, inoltre, di conoscere quali provvedimenti si intenda prendere per arrivare ad una sollecita e definitiva risoluzione della questione.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se non sia equo disporre l’aumento delle retribuzioni dei sanitari delle carceri mandamentali (attualmente disciplinate dalla tabella C allegata alla legge 29 novembre 1941, n. 1405). (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Caccuri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se abbia preso visione della lettera indirizzata, in data 15 settembre scorso, dal sindaco di Cassino al provveditore delle opere pubbliche del Lazio, nella quale si denunciano le condizioni intollerabili in cui si trova ancora quella città, dopo tre anni e mezzo dalla sua completa distruzione, e quali provvedimenti intenda prendere urgentemente al riguardo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere perché si sia dato un così breve termine di tempo per il concorso di appalto per l’assunzione dei servizi della navigazione sul Lago Maggiore, e linee automobilistiche che convergono e partono da diversi centri di detto lago. La data di appalto è del 19 settembre 1947 e la scadenza è del 10 ottobre 1947.

«Se si calcola il tempo necessario perché arrivi in provincia la comunicazione, sono meno di venti giorni per un appalto che ammonta a molte centinaia di milioni, e che impone la costruzione di un battello che serva da traghetto e il trasporto del cantiere da Arona al centro lago, in cui le ditte dovranno prendere intese anche coi Comuni interessati.

«Vi è poi una lacuna negli appalti ed è il trasporto merci da Verbania stazione a Verbania città, Pallanza ed Intra, in cui hanno contribuito fortemente or sono 20 anni a costruire detta linea per servire le industrie e che la Società Verbano ha lasciato andare e sta liquidando con il consentimento colpevole dei funzionari addetti al controllo. Veda l’onorevole Ministro se non è più opportuno di rinviare l’asta e nominare un commissario per la navigazione per sei mesi, affinché d’intesa coi Comuni interessati possano disciplinare ed organizzare maggiormente questi importanti servizi soprattutto, che peserebbero sull’economia della Regione per 20 anni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Zappelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere:

  1. a) se siano fondate le voci secondo le quali ancora una volta si penserebbe di sospendere i concorsi per posti vacanti di medico, veterinario ed ostetrico condotti, come tante volte senza ragione si è praticato in passato;
  2. b) se non ritenga opportuno disporre che ai concorsi per le condotte vacanti del 1938 e del 1939 possano partecipare anche i laureati prima di detta epoca e non quelli che hanno conseguito la laurea in seguito e perfino non hanno sostenuto l’esame di Stato;
  3. c) se non ritenga opportuno riservare ai sanitari, che sono stati richiamati nel 1939 e trattenuti fra servizio militare e campi di prigionia fino al 1946, almeno il 50 per cento dei posti, come, del resto, era stato promesso al tempo del richiamo, od almeno che il servizio militare obbligatorio sia considerato, ai fini del concorso, con un punteggio di molto superiore a quello che possa toccare ai concorrenti, che, mentre gli altri erano alle armi, prestavano servizio con grande tranquillità nell’interno del paese;
  4. d) se non ritenga opportuno, per i posti vacanti al 1939, bandire il concorso solo per titoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere le ragioni per le quali l’Amministrazione delle ferrovie dello Stato ha preso la deprecabile abitudine di avviare nel Molise, per il servizio viaggiatori, quasi esclusivamente carri bestiame, tutti sforniti di sedili e insufficienti, per cui giorni fa – alla stazione di Campobasso – il Vescovo della diocesi dovette essere invitato da un cortese funzionario a prendere posto nel bagagliaio, donde peraltro fu poi fatto discendere, tra lo stupore dei presenti, da altro troppo zelante funzionario, e costretto a salire e a rimanere in piedi in un carro bestiame. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere le ragioni per le quali pare che non si intenda, nei confronti dei veterinari interinali, applicare la circolare del Ministero dell’interno – Direzione generale amministrazione civile – n. 15700/15/49607 del 7 giugno 1942, richiamante il decreto 8 luglio 1941, n. 863, che riguarda la sistemazione degli avventizi combattenti dell’ultima guerra, e non si intenda, quindi, nominarli in pianta stabile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, perché consideri se non sia opportuno accertare presso gli Uffici provinciali del lavoro il grado di istruzione delle pratiche riguardanti gli italiani, che desiderino emigrare, ed altresì disporre che tali pratiche siano distribuite per categorie e per Comuni, procedendosi anche ad una graduatoria sulla base di criteri, che da esso Ministero potranno essere fissati, tenendosi conto, ad esempio, del numero di persone a carico, degli anni di appartenenza del lavoratore, che desidera emigrare, alla categoria, dello stato di bisogno, evitandosi che la scelta degli operai, che possono emigrare, abbia luogo mediante estrazione a sorte, perché ciò potrebbe, a parte ogni altro rilievo, portare anche turbamenti nell’ordine pubblico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, perché consideri se non sia opportuno promuovere il provvedimento legislativo, per il quale il trattamento assicurativo, che, giusta l’articolo 11 del regio decreto-legge 12 aprile 1946, n. 320, si applica al personale specializzato infortunato durante i lavori di bonifica, venga esteso a coloro che, ammessi alla frequenza dei corsi per la formazione del personale specializzato, restino infortunati per lo scoppio di ordigni esplosivi durante lo svolgimento dei corsi, e ciò con effetto dal giorno in cui entrò in applicazione il decreto n. 320 del 1946, innanzi ricordato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, sulla deficiente assegnazione di fondi per la esecuzione di opere, pur indispensabili ed urgenti, nel Molise. Si dovrebbero ivi costruire case per i senzatetto, case popolari, edifici scolastici, ricostruire ponti ed edifici pubblici, sistemare acquedotti e cimiteri. Ogni tanto, si preparano piani più o meno grandiosi che riportano tutte le prescritte approvazioni, ma è molto difficile, purtroppo, che si passi poi alla fase della esecuzione, mentre a tale fase si passa molto agevolmente in altre regioni d’Italia, profittandosi che il Molise – laborioso e tranquillo – non conosce la accesa protesta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro, del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, per conoscere le ragioni che hanno determinato il Governo ad escludere l’organizzazione sindacale dalla Commissione che dovrà presiedere all’assegnazione dei cinquantaquattro miliardi stanziati dal Governo a favore della ripresa dell’industria metallurgica.

«L’interrogante fa notare che i lavoratori non possono essere sufficientemente garantiti nell’erogazione del pubblico denaro da una Commissione quasi esclusivamente composta di funzionari e chiede che la FIOM – quale organizzazione dei lavoratori – sia invitata a nominare uno o più rappresentanti nella predetta Commissione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga opportuno che il provvedimento del collocamento a riposo dei vecchi maestri che hanno superato al 1° ottobre 1947 il 70° anno di età venga effettuato con decorrenza dal 30 settembre dell’anno prossimo e ciò per un senso di umanità, perché, nonostante i recenti miglioramenti, le pensioni rappresentano ancora nel loro complesso circa un terzo del già insufficiente trattamento corrisposto a chi è in servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Spallicci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere quanto dovrà ancora indugiare l’annunciato provvedimento che aumenterebbe le diarie di missione dei magistrati, essendo addirittura insostenibile la loro esiguità (lire 1100 giornaliere ai magistrati di terzo grado e lire 1200 a quelli di quarto grado), in relazione alle spese correnti di trasferta e di mantenimento, tanto da rappresentare, un tale trattamento, una perdita evidente per gli interessati e il disdoro per l’Amministrazione della giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze, per sapere quali provvedimenti intenda adottare a favore dei pensionati assegnati, per effetto della legge Majorana, alla Cassa depositi e prestiti ed aventi un trattamento di grave inferiorità rispetto a tutte le altre categorie. La pensione più alta sorpassa appena le 5000 mensili, mentre le altre non superano le 3000. Si chiede un intervento sollecito da parte dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bianchi Bianca, Sapienza».

«La sottoscritta chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere quali solleciti provvedimenti intenda prendere per l’allacciamento del telefono a tutti i paesi del Mugello e dell’alta Romagna.

«È oltremodo doloroso per una popolazione, che ha subito tante distruzioni, constatare come a due anni dalla guerra gli organi governativi non siano riusciti a comporre inspiegabili dissidi sorti con la Società telefonica TETI per il ripristino della linea. Si tratta di una vasta zona montana progredita e feconda, avente importanti miniere di lignite e numerose industrie ed aziende agricole, ma scomoda e lontana dai maggiori centri cittadini, per cui non è più possibile dilazionare il ripristino del detto servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bianchi Bianca».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e dei lavori pubblici, per conoscere se e quando la Commissione sedente presso l’Istituto nazionale per le case degli impiegati statali (I.N.C.I.S.) e preposta alla assegnazione delle case ai funzionari dello Stato, intenda applicare il disposto dell’ultima parte dell’articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 9 giugno 1945, n. 387, nei confronti di quegli impiegati che, per ragioni di servizio, sono stati segnalati dalle proprie Amministrazioni per l’assegnazione dell’alloggio con ogni precedenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 24.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXLI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 2 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Mozioni (Seguito della discussione):

Crispo

Scoccimarro

Presidente

Lussu

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi! Parlerò brevemente sulla mozione del partito comunista per esporre le ragioni per le quali ritengo che le censure e le accuse mosse alla politica interna del Governo non siano tali da giustificare un voto di sfiducia, e, quindi, la condanna del Governo stesso.

Considero questa mozione come un atto di lealtà politica, non solo opportuno, ma soprattutto utile per il Paese, perché si è con essa trasferito il dibattito sulla politica interna del Governo dal tumulto delle vie e delle piazze e dall’asprezza della polemica di stampa nella sede sua propria, secondo il metodo democratico.

Pareva nei giorni scorsi che addirittura dovesse incombere sul Paese la minaccia di una insurrezione di piazza. Né, per verità, il discorso pronunciato dall’onorevole Togliatti il 7 settembre a Modena fu ritenuto come il più adatto a diradare questa atmosfera e ad eliminare quel senso di ansia, di sgomento, di inquietudine, un po’ diffuso in tutto il Paese. L’indomani, anzi, veniva proclamato lo sciopero generale dei braccianti, e l’onorevole Pastore, nella sua qualità di Segretario generale democristiano della Confederazione generale italiana del lavoro, ne denunziava i motivi esclusivamente politici. Sopraggiungeva poi il comunicato della Direzione della democrazia cristiana, la quale denunziava al Paese che le manifestazioni, gli scioperi, i movimenti, le agitazioni si inquadravano in un movimento a carattere politico, inteso ad indebolire il Governo e ad abbatterlo, contro ogni metodo democratico.

Ed è evidente che questa presa di posizione democristiana dovesse suscitare la necessaria reazione dei partiti estremi, onde il conflitto derivatone, nel quale gli uni venivano denunziati come volgari Cleoni, mestatori, sobillatori e peggio, e gli altri venivano designati come gli esponenti di un governo di parte, reazionario, sollecito soltanto degli interessi egoistici di categorie privilegiate a danno della classe dei lavoratori.

La mozione giunge, adunque, veramente opportuna ed utile a diradare questa atmosfera greve addensatasi sul Paese. Occorre dire subito che, a base dell’attuale tensione, sta la formazione particolare del Governo.

Non è il caso di riandare le ragioni che determinarono tale formazione, essendo noto che non può addebitarsi all’onorevole De Gasperi la impossibilità della formazione di un Governo di centrosinistra. Ma, checché sia di ciò, quando gli onorevoli Nenni e Togliatti condannano il Governo e lo condannano per la sua formazione, in quanto esso, cioè, non comprende i comunisti e i socialisti, arrancano nel vuoto di una questione inesistente.

Mi spiego. Io penso che, se un partito non può identificarsi col Governo nel fine del bene comune, proprio di un Governo, è, d’altra parte, innegabile che esiste per qualunque partito un patrimonio comune di pensieri, di sentimenti, di azioni, in un superiore spirito di comprensione dei bisogni della collettività; onde la nota differenziale, l’interesse particolare, la peculiarità sociale propria di un partito cedono alla coscienza di un superiore compito statale, che prescinde dagli interessi particolari di un gruppo o di un partito.

L’espressione, difatti, «partito di governo» vuole esprimere precisamente i concetti della specie e del genere che s’integrano e si fondono, ed indicano quella maturità politica, per la quale una parte può rappresentare le ragioni ideali della totalità. Se non è, dunque, un’associazione di avventurieri politici, un partito giunto al potere non governa per sé ma per tutti.

Questa attitudine alla concezione della universalità della funzione del governare è stata espressa dal liberalismo in due forme fondamentali, l’una giuridica, lo Stato di diritto, cioè, che significa eguale, uniforme legalità per tutti; l’altra politica, il sistema parlamentare, cioè, che garantisce a tutti i partiti la possibilità di assumere il governo dello Stato, e per mezzo della opposizione, offre il modo di vigilare che il governo che detiene il potere governi nell’interesse di tutti i cittadini. Le democrazie anglosassoni hanno riconosciuta questa verità, assegnando egualmente uno stipendio e al capo del Governo e al capo dell’opposizione.

Quando, adunque, si dice che il Governo non può sodisfare le esigenze fondamentali del paese, perché non comprende anche socialisti e comunisti, che, pertanto, è necessariamente antidemocratico e reazionario, non si dice nulla, perché il Governo non può concepirsi e non si concepisce in una funzione unilaterale, particolare, privatistica.

Ed è per questo che, nella vita politica, la forma che ha rappresentato la più alta volontà di una ben ordinata convivenza è la democrazia liberale. Il liberalismo è il principio di diritto pubblico secondo il quale il potere pubblico, non ostante la sua onnipotenza, si autolimita, perché possano coesistere con esso tutti coloro che non pensano come pensano le maggioranze: convivenza di maggioranze e di minoranze, ossia dei più forti coi più deboli.

È questo forse il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo. Era inverosimile che il genere umano avesse attinto un principio così alto e così nobile! Ed è forse per questo che i nuovi difensori della libertà si sforzano oggi di indurlo ad abbandonarlo, ed è forse per questo che diminuiscono sempre più i Paesi, nei quali esista la opposizione, e dove i Petkov non siano assassinati.

Ecco la verità che bisogna avere il coraggio di proclamare.

Occorre aggiungere che diverso dal concetto di partito è il concetto di classe. Il concetto classista, quando informa la struttura di un partito, non soltanto è concetto unilaterale, ma crea – badate bene – necessariamente una mentalità partigiana la quale non può sboccare se non nella dittatura di una classe, negazione di ogni coscienza politica perché nel conflitto che determina costringe a quella difesa legittima, per la quale nelle altre classi si degrada la coscienza generale della funzione di governo in una coscienza a sua volta particolaristica di interessi contrapposti ad interessi.

Ecco perché vi dicevo che per me la questione è mal posta. D’altra parte, non si riuscirebbe ad intendere perché questo governo possa avere, comunque, interesse, nel momento attuale, gravido di fermenti rivoluzionari, di dividere il Paese in due settori, quasi che la tragedia che noi oggi viviamo sia soltanto la tragedia dei lavoratori, nel senso che i nostri amici dell’estrema sinistra danno a questa parola, e non sia, invece, la tragedia di tutti i lavoratori, e, soprattutto, dei ceti medi, che non stanno fra borghesia e proletariato, ma sono più vicini al proletariato, e spesso vivono una vita inferiore a quella che vive il proletariato.

Esiste, adunque, un problema soltanto: quello dei rapporti fra Governo e opposizione. È evidente, difatti, che la minoranza, per fare una opposizione seria e feconda, ha bisogno di un sistema saldamente costituito di libertà politiche, di stampa, di parola, di associazione, e, soprattutto, delle garanzie della libertà del suffragio. Ed è evidente, d’altra parte, che queste libertà devono conciliarsi col diritto della maggioranza di comandare. Occorre, dunque, che vi sia equilibrio tra governo e opposizione, tra autorità e libertà. Senza tale equilibrio, il dualismo tra governo e opposizione è destinato ad accentuarsi per sboccare nella calunnia, nella diffamazione, nella denigrazione, fino al conflitto più aspro, alla impossibilità d’intendersi, alla necessità della distruzione.

Epperò, più civili sono quei popoli che, obbedendo alla legge, rendono inutile l’applicazione della forza. Quando, pertanto, l’onorevole Togliatti sostiene che tutte le correnti politiche debbono essere espresse nel governo per la necessità d’una formula unitaria, egli confonde evidentemente la formula unitaria che suppone la universalità dei consensi, alla quale pensava Rousseau, nel presupposto che le maggioranze possono sbagliare; confonde quella formula con la formula coalizionistica i cui risultati sono sempre la transazione e il compromesso, e che, come coabitazione forzosa e sediziosa, ha fatto la sua nefasta esperienza, tanto nefasta che nessuno dovrebbe auspicarne la reincarnazione in una trinità governativa.

La questione è, dunque, tutta qui: nei rapporti fra Governo e opposizione, e, in sostanza, così la poneva, infine, anche l’onorevole Togliatti.

Voi siete – egli diceva – un Governo di parte, che ha manomesso le libertà, che ha soppresso le garanzie di esse, che ha violato le leggi; un governo antidemocratico, reazionario che non rispetta il diritto della opposizione, e rinnega le origini comuni dalle quali è sorto il regime repubblicano.

Queste sono, adunque, le accuse specifiche che l’onorevole Togliatti muove al Governo?

Basterà esaminarle per intenderne tutta la inconsistenza.

Io non nego che le agitazioni e gli scioperi, organizzati nel quadro della lotta contro il caro-vita, pur nella loro funzione negativa e controproducente, possono spiegarsi come mezzi diretti a tendere l’attenzione sul problema alimentare che incombe sulla vita del Paese.

Ma essi assumono ben altro significato quando si svolgono come si svolsero recentemente a Terni, dove la massa dei lavoratori procedeva in corteo, con grandi cartelli, le cui diciture erano: «Abbasso il Papa», «Il Papa è un affamatore», «Il Papa è alleato della reazione», «La forca a De Gasperi».

LUSSU. Ma Pasquino le ha sempre dette!

CRISPO. D’accordo, ma Pasquino può anche essere la voce di un partito, onorevole Lussu, e qualcuno può nascondersi dietro la figura di Pasquino.

In casi simili, siamo di fronte a manifestazioni che hanno un evidente contenuto politico, che si esprimono con grida e scritti sediziosi, e costituiscono un evidente pericolo per l’ordine pubblico, per l’unità degli stessi lavoratori, e per la pacifica convivenza dei cittadini.

Del pari, è di pochi giorni or sono l’affissione di manifesti nei quali l’onorevole Einaudi, l’onorevole Pella, l’onorevole Grassi e l’onorevole De Gasperi venivano additati in effige come gli affamatori, gli sfruttatori, i nemici del popolo.

Per tal modo, la propaganda diviene libello, intesa non solo ad esporre al disprezzo pubblico, ma, soprattutto, ad eccitare l’odio pubblico per l’effetto che può produrre e che produce in tutti coloro – e sono i più – che, mancando degli elementi di un giudizio, fanno proprio il giudizio insidioso espresso dalla passione di parte.

Non si tratta, adunque, soltanto di vilipendio e l’articolo 290 sarebbe evidentemente applicabile, anche se in esso si contempli il vilipendio al governo del Re, in mancanza di altra norma, ma si tratta di qualche cosa di più grave, dell’eccitamento degli animi e di quella dissensio civium che già Cicerone additava essere la conseguenza inevitabile di manifestazioni sediziose.

Le lagnanze dell’onorevole Togliatti sono, adunque, infondate, e mi sembra, d’altra parte, inconcepibile che si possa chiedere la condanna del Governo perché, per esempio, un funzionario di polizia compiendo il proprio dovere, ha preteso di controllare il contenuto d’un manifesto, prima di autorizzarne la pubblicazione e l’affissione.

Nel suo discorso di Modena, l’onorevole Togliatti disse: «Siamo arrivati al punto che delle donne in una città italiana, per affiggere un manifesto nel quale denunziano le condizioni in cui vivono le loro famiglie, debbono passare per l’ufficio del commissario di polizia o del questore. Ecco la montagna, che partorisce il topo, il ridicolo topo!

LUSSU. In Francia è caduta la dinastia per questo.

CRISPO. Vorrei dire all’onorevole Lussu che egli è di quelli che si ricongiungono a quel movimento massimalista francese che intorno al 1900 creò la parola e la pratica dell’azione diretta.

Tornando al manifesto ricordato dall’onorevole Togliatti, pur non conoscendosene il contenuto, appare subito la stranezza del caso di povere donne che, per protestare contro la miseria, ricorrono ad una così costosa forma pubblicitaria. E questa stranezza non poteva non preoccupare un qualunque commissario di polizia. Comunque, vi è o no una legge di pubblica sicurezza? E perché non si deve applicare? Perché – dice l’onorevole Togliatti – si tratta di una legge di pubblica sicurezza fascista! Che cosa rispondere ad una simile osservazione? Ma tutta la legislazione italiana è in gran parte tuttora legislazione fascista, e non per questo la Repubblica italiana dovrebbe reggersi sulla… carenza della legge. Mentre è evidente, d’altra parte, che una legge, non più corrispondente al clima nel quale fu emessa, ove non sia abrogata, continuerà a vigere in tutte le parti che non sono in contrasto con le esigenze del mutato clima storico e politico.

L’onorevole Togliatti si è anche aspramente doluto della violazione della libertà del comizio di fabbrica.

Siamo, innanzi tutto, dinnanzi ad una concezione democratica del tutto soggettiva, unilaterale, tale, per verità, che un partito non può pretendere d’imporla alla maggioranza.

L’operaio, quando va a lavorare, sa di andare alla fabbrica, non già all’arengo. E basta che ad uno solo repugni che la fabbrica si trasformi in comizio, perché non si abbia il diritto di imporgli di tollerare la propaganda politica nella fabbrica. (Commenti a sinistra).

D’altra parte, se si riconosce la libertà del comizio nelle fabbriche, perché non la si dovrebbe riconoscere, per esempio, nelle udienze dei tribunali, nei ministeri, nelle chiese, nelle carceri e così via?

TOGLIATTI. Quanti ne ha fatti lei di comizi nelle aule?

CRISPO. Nessuno, onorevole Togliatti.

Comunque, il Governo non ha vietato il comizio nemmeno nelle fabbriche, ma ha preteso soltanto il preventivo avviso, per concedere o non, secondo i casi, la necessaria autorizzazione.

Occupiamoci ora dei sindaci comunisti che sarebbero stati giudizialmente perseguiti, senza il rispetto delle garanzie di legge. Leggo il testo del discorso dell’onorevole Togliatti:

«Io non discuto – sono queste le sue parole – se quei determinati sindaci della provincia di Bologna che vennero accusati di aver trasgredito a determinate norme della legge sugli ammassi fossero colpevoli: in realtà non erano colpevoli».

Noi non abbiamo gli elementi per giudicare di ciò e non è su questa piattaforma che si può accusare il Governo. Per altro, quanto all’affermazione dell’onorevole Togliatti che il reato di quei sindaci non cagionò danno, ma, bensì, un vantaggio, penso che un legislatore comunista possa tenerne conto per il futuro codice penale. (Ilarità).

L’onorevole Togliatti si lamenta, infine, della procedura che fu adottata. Egli dice: «Prima di iniziare un procedimento contro un sindaco, occorre la sospensione della garanzia amministrativa che deve essere chiesta dal Ministro dell’interno al Ministro Guardasigilli, il quale a sua volta sollecita il parere del Consiglio di Stato. Se il Ministro Guardasigilli può negare o concedere la sospensione contro il parare del Consiglio di Stato, allora la cosa va al Consiglio dei Ministri. Nulla di tutto questo viene fatto quando si tratti di sindaci comunisti o socialisti; basta un telegramma del Ministro dell’interno ed il sindaco è sospeso, o minacciato d’arresto, o arrestato per atti della sua amministrazione che egli ha compiuto in qualità di sindaco».

Comincio col rilevare che il sindaco come capo dell’amministrazione comunale, non è protetto da alcuna garanzia amministrativa.

La legge non ha una disposizione propria per il sindaco, diciamo meglio per il podestà, perché nella legge comunale e provinciale vigente si parla ancora del podestà. La legge ha una disposizione per i prefetti e i sottoprefetti. Credo inutile ricordarvi che il prefetto e il sottoprefetto sono definiti dalla legge come i rappresentanti del potere esecutivo.

Di conseguenza, quando l’articolo 22 copre della garanzia il prefetto o il sottoprefetto per gli atti che egli compie nella sua funzione di rappresentante del potere esecutivo, ha riguardo esclusivamente a questa funzione di ufficiale del Governo. (Interruzioni a sinistra).

Stabilisce l’articolo 22: «Il Prefetto o chi ne fa le veci non possono essere chiamati a rendere conto dell’esercizio delle loro funzioni fuorché dalla superiore autorità governativa, né sottoposti a procedimento per alcun atto del loro ufficio senza l’autorizzazione del Re previo parare del Consiglio di Stato, tranne il caso di imputazione di reati elettorali».

Sicché per l’articolo 22 mi sembra evidente che la garanzia amministrativa copre l’esercizio delle mansioni del prefetto e del sottoprefetto come ufficiali del Governo.

TOGLIATTI. Questa è la sua interpretazione.

CRISPO. No, non ce n’è altra, perché qui l’articolo 22 ha riferimento esclusivamente al prefetto, e il prefetto, onorevole Togliatti, è il più alto ufficiale del Governo nella Provincia.

PASTORE RAFFAELE. Ma quando applica l’articolo 19 contro gli agrari, allora non lo è più.

PRESIDENTE. Non interrompa, lasci parlare.

CRISPO. Ora, l’articolo 51 della legge comunale e provinciale stabilisce che la disposizione di cui all’articolo 22 è applicabile al podestà e a chi ne fa le veci.

Pertanto, poiché il sindaco ha funzioni come sindaco, come capo, cioè, dell’amministrazione comunale, ed ha funzioni come rappresentante del Governo, è evidente che, quando l’articolo 22 copre di garanzia amministrativa gli atti del prefetto e l’articolo 51 estende la garanzia di cui all’articolo 22 al sindaco, gliela estende nella qualità di ufficiale del Governo, e non gliela estende nella qualità di sindaco. È chiaro?

Una voce a sinistra. Il sindaco è anche ufficiale di polizia.

CRISPO. L’interruttore dimostra di non conoscere la legge, perché, se la conoscesse, saprebbe che la legge stabilisce e determina le funzioni del sindaco come tale e stabilisce e determina le funzioni del sindaco come ufficiale del Governo. È evidente, per le ragioni che ho già dette e che non occorre ripetere, che la garanzia amministrativa si riferisce alle funzioni del sindaco come ufficiale del Governo, ma non si riferisce alle funzioni del sindaco come capo della pubblica amministrazione. Ed è evidente che il sindaco che provvede alle esigenze alimentari del proprio paese agisce come capo della pubblica amministrazione e non come ufficiale del Governo. Quindi, nei casi ricordati dall’onorevole Togliatti, l’autorizzazione non occorreva. (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

CRISPO. Vorrei, peraltro, ricordare agli amici dell’estrema sinistra che la sospensione di un sindaco non deve essere necessariamente determinala da un procedimento penale, perché la sospensione può aver luogo ad insindacabile discrezione del prefetto, per motivi d’ordine pubblico. E se un prefetto volesse abusare della propria autorità, gli sarebbe facile, senza bisogno di alcun procedimento, ottenere lo stesso effetto che voi denunciate.

Non intendo occuparmi dei fatti di Gorizia. Essi furono oggetto di un ampio dibattito in sede d’interrogazione.

Dirò il mio pensiero sulla mancata legge della difesa della Repubblica. Vi furono due disegni di legge: uno dovuto (ed è titolo di merito del quale gli do atto) all’amico Gullo, nella sua qualità di Ministro della giustizia: «Modificazioni al Codice penale per la difesa delle istituzioni repubblicane», in cui veniva modificata la struttura delle disposizioni del Codice penale fascista in rapporto al regime repubblicano. Evidentemente l’onorevole Togliatti non ha inteso riferirsi al progetto Gullo, ma ha inteso riferirsi al progetto che va sotto il titolo: «Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico».

Questo disegno di legge è dovuto esclusivamente alla iniziativa dell’onorevole De Gasperi, e fu presentato il 17 marzo ultimo scorso. Ora, non mi pare che debba cadere il mondo se nei tre mesi dal giugno ad oggi questo progetto non sia venuto all’esame della Costituente, dato che dal marzo 1947 fino alla formazione del Governo attuale comunisti e socialisti – che pur partecipavano al Governo – non sollecitarono che questo disegno divenisse legge.

Se una colpa si rimprovera all’attuale Governo, la stessa colpa si potrebbe fare al Governo precedente o all’Assemblea Costituente.

Comunque, questa accusa a De Gasperi di mancata difesa della Repubblica, a De Gasperi, badate, che ha sempre rivendicato la qualità di socio fondatore della Repubblica, questa accusa è tanto assurda che davvero non mette conto occuparsene.

Ma crede davvero l’onorevole Togliatti che vi siano in Italia monarchici che pensano alla restaurazione violenta della monarchia? La legge reprime, difatti, una simile violenza, e i monarchici italiani hanno troppo vivo amore per il Paese, per pensare a rivendicazioni diverse da quelle che possono avvenire nell’ambito d’una lotta democratica.

TOGLIATTI. Avellino!

CRISPO. Mi perdoni se osservo che, continuandosi a ripetere che la Repubblica è in pericolo, si induce qualcuno ad offenderla veramente. Non si preoccupi, onorevole Togliatti, la Repubblica sarà quale i repubblicani la faranno.

La Repubblica sarà forte, se sarà sana e aperta a tutti i cittadini.

Io sono monarchico, ma obbedisco e sento il dovere di obbedire alle leggi della Repubblica, dopo che la volontà popolare la volle nella elezione del 2 giugno.

COVELLI. Il che non è vero: l’onorevole Romita insegna.

CRISPO. Intendo, infine, ricordarvi che gli uomini amano adattarsi al fatto compiuto.

All’avvento della monarchia, tutti i più accesi repubblicani divennero monarchici. Giovanni Nicotera divenne Ministro del re; Benedetto Cairoli divenne Presidente del Consiglio ed accompagnò il re nel viaggio di riconoscimento ufficiale. Agostino Depretis e Francesco Crispi sostennero la monarchia, ed il filosofo Giuseppe Ferrari tramontò nel Senato regio. (Commenti). Giosuè Carducci, dopo aver cantato le glorie giacobine della Rivoluzione, finì con l’appendere dei serti poetici sulla fronte della prima regina d’Italia. Non si preoccupi, adunque, l’onorevole Togliatti. Una Repubblica ben ordinata, pacifica, tranquilla, in cui siano garantiti i diritti di tutti i cittadini, sarebbe destinata a durare quanto le piramidi di Egitto. Non è su questo terreno che si può chiedere un voto di sfiducia per l’attuale Governo.

Credo di aver esaminato uno per uno i punti fondamentali del discorso dell’onorevole Togliatti. Vorrei ora permettermi di chiedergli se egli annoveri tra le libertà democratiche anche l’appello alla piazza, l’appello al popolo.

TOGLIATTI. E perché no?

CRISPO. Io intendo che l’azione diretta, talvolta, può esprimere anche un’istanza di giustizia, ma, in tal caso, l’azione diretta deve essere l’ultima ratio contro la contraria volontà dispotica d’un governo incapace di governare, e stagnante nella morta gora di egoismi e privilegi di parti. Deve essere la «ratio ultima», non la «ratio sistematica» perché se diventa sistematica, allora è chiaro che non si tratta più di un dualismo tra governo ed opposizione, e non si tratta più delle rivendicazioni delle libertà democratiche, ma si tratta di un conflitto, di una rivolta, e, in tal caso, il Governo ha il diritto e il dovere di reprimerla. (Applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

Voglio dire un’ultima cosa, con grande sincerità.

L’onorevole Togliatti ha detto che il Partito comunista è un partito italiano. Prendo atto con grande soddisfazione di tale dichiarazione, perché evidentemente l’onorevole Togliatti non ha voluto dire che il Partito comunista è formato di cittadini italiani, ma ha voluto dire che esso si distingue da tutti gli altri Partiti comunisti europei. Orbene, tutti questi partiti hanno dato la loro collaborazione, e l’hanno realizzata attraverso i fronti, i comitati, i blocchi, le unioni. Il risultato, però, è stato sempre lo stesso: isolamento e liquidazione delle opposizioni. Kovacs ed Arany, Nagy e Tildy in Ungheria, Maniu in Romania, Mihailovic in Jugoslavia, Petkof in Bulgaria, sono non solo le vittime del processo di bolscevizzazione russa, ma stanno a dimostrare che la rivoluzione comunista ha dovunque soppresso ogni forma di libertà.

Il caso più recente è quello di Petkov. E Petkov non è Mussolini. Petkov ha combattuto contro tutti i Mussolini; Petkov è lo spirito dell’opposizione; Petkov era un patriota; Petkov è il Matteotti bulgaro, ed io invio un pensiero reverente alla sua memoria. (Approvazioni – Commenti a sinistra).

Ed allora, io ho compreso questo, che il Partito comunista italiano in tanto, è italiano in quanto non si può confondere con gli altri partiti comunisti, perché il Partito comunista italiano difende le libertà democratiche e, nello spirito di esse, offre la sua collaborazione.

Non nego al Partito comunista le benemerenze che esso conquistò nella lotta contro l’invasore e contro il fascismo, per il consolidamento del regime repubblicano. Ma un partito non si esaurisce in un programma contingente, imposto da determinate condizioni.

Ed io chiedo di sapere che cosa vuole per l’avvenire il Partito comunista, e fino a qual punto la democrazia politica ed economica di esso possa conciliarsi con le esigenze di una democrazia liberale, e fino a qual punto la struttura politica economica sociale che esso vagheggia possa conciliarsi con la struttura economica e sociale dello Stato liberale. (Commenti). Altrimenti la collaborazione che ci si offre non è che una vana parola. Nessuno di noi liberali insiste più sulle posizioni del liberalismo del ’700 e dell’800: posizioni ormai superate da tempo, e sarebbero state superate anche senza l’anticapitalismo.

Noi siamo ad una svolta tragica della storia, e mai come in questo momento è necessario che l’idea liberale si rafforzi, ed abbia i suoi apostoli ed anche, se occorre, i suoi martiri. (Interruzione dell’onorevole Russo Perez).

Come superare, adunque, la crisi? La crisi non d’un governo, e nemmeno di un paese; la crisi del mondo. Alcuni hanno risposto: la crisi si supera nell’idea cristiana. Altri hanno risposto: la crisi si supera nell’idea socialista.

Io non ripeterò la bestemmia di Federico Nietzsche per il quale l’umanità sconta la colpa di essere stata per duemila anni cristiana. Ed era una bestemmia perché attribuiva al Cristianesimo la colpa di non aver avvinto l’uomo per i millenni.

Ma, d’altra parte, non è possibile, come avvertiva Jacob Burckhardt, «un nuovo impianto artificiale di Cristianesimo per fini rappresentativi».

Né la crisi può essere risoluta dal socialismo, come lo intendono i partiti estremi. Non vi è che una sola soluzione: l’idea dinamica del liberalismo evolventesi fino al socialismo, ma al socialismo liberale che è liberalismo sociale, inteso, soprattutto, come vero umanesimo. (Interruzione del deputato Pastore Raffaele). Ma che ne sa lei, onorevole Pastore, di queste cose? Occorre fondere le esigenze della libertà con le esigenze della giustizia sociale. È questa la terza via sulla quale uomini di grande intelletto e di buona volontà si piegano per dire al mondo una parola nuova: la parola della resurrezione e della pace. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Prima di iniziare il mio discorso, vorrei permettermi di fare una proposta. Data la natura degli argomenti che mi propongo di trattare, ho l’impressione che non avrò il tempo sufficiente, dato che sono già le undici e mezza.

Se l’Assemblea non avesse nulla in contrario, pregherei che mi si consentisse di iniziare la mia esposizione nel pomeriggio.

PRESIDENTE. L’onorevole Scoccimarro pregherebbe di rimandare la seduta al pomeriggio. (Commenti). Se l’Assemblea non è favorevole, potremmo pregare un collega di sostituire l’onorevole Scoccimarro. Onorevole Lussu, sarebbe disposto a parlare ora, cedendo il suo turno all’onorevole Scoccimarro?

LUSSU. Mi rimetto a lei, onorevole Presidente.

PRESIDENTE. Rivolgo allora la preghiera personale all’onorevole Lussu di parlare adesso.

LUSSU. Onorevoli colleghi, non essendo io mai stato di carattere pessimistico, anche se non ho il temperamento gioioso e ottimistico dell’onorevole Corbino, credo di appartenere a quel numero di colleghi che in quest’Aula sono assai preoccupati e che non vedono solo questa crisi come crisi di Governo, ma come crisi di democrazia. Questa è, in realtà, crisi di democrazia. Non solo. Ma, a parere di molti, e io sono fra questi, la democrazia, oltre ad essere in crisi, è in pericolo. La democrazia corre pericolo.

Certo i problemi attuali sono essenzialmente economici, finanziari e sociali: disordine economico, disordine finanziario, disoccupazione, inflazione, fame delle classi popolari. Ma la natura di questa crisi è puramente politica.

In ciò concordo con l’onorevole Corbino; concordo con lui cioè nel ritenere che è politico il problema e che politica deve esserne l’impostazione. Manca lo strumento politico necessario per risolvere queste difficoltà che sono crescenti; manca un piano di intesa politica, un piano organico omogeneo politico per risolvere queste difficoltà con volontà e capacità; manca cioè un Governo alla democrazia: quindi crisi politica.

La democrazia è in pericolo, non già perché il partito su cui pesa la principale responsabilità di questo Governo voglia distruggere la democrazia: sarebbe un insulto gratuito l’affermarlo; ma perché, per ragioni complesse, esso è incapace di difenderla, di arrestarne il regresso già iniziato, di consolidare infine quei deboli, ma notevoli risultati che si sono finora ottenuti.

Quando l’onorevole Giannini, nel recente Congresso dell’Uomo Qualunque, ha offerto alla democrazia cristiana la continuazione dell’alleanza o la guerra, nessuno di noi ha creduto che si trattasse veramente di una sfida.

Contro la guerra sta innanzitutto il buonsenso dell’Uomo Qualunque. (Commenti). Ma che guerra! A che scopo, e con quale vantaggio? E contro la guerra e a favore del perdurare della alleanza sta anche il buonsenso della Democrazia cristiana, che vuole rimanere al potere e che quindi ha bisogno del perdurare dell’alleanza coll’Uomo Qualunque. Sono leggi di natura politica, che non consentono eccezioni di sorta. La destra ha il diritto di chiedere, di chiedere sempre e sempre di più; e il Governo ha l’obbligo di concedere, di concedere sempre, di concedere sempre di più. Pena la vita.

I fatti denunciati in questa Assemblea sono i risultati tangibili di queste concessioni. Sicché la preoccupazione di quanti seguono da vicino l’azione politica di questo Governo è tutt’altro che accademica. E fra quelli che hanno assistito nell’altro dopoguerra al verificarsi di questi scherzi, credo vi sono molti che hanno ragione di essere preoccupati; e si ha il diritto di chiedere dove si vada a finire. Marcia su Roma? Ad avventure di questo genere, con belle legioni quadrate – peraltro mai esistite – credono solo gli imbecilli fascisti, marcia, antemarcia, sciarpelittorio, repubblichini professionisti; ma non ci credono che costoro. La verità è che a Roma le forze da cui trae vita materiale e morale il fascismo, a Roma quelle forze ci sono già: sono dentro allo Stato.

Come contenerle, e come metterle lentamente ma sicuramente fuori? Ecco il problema della democrazia in questo momento.

Questo è un Governo non già di centrodestra, come con autorevole e amabile eufemismo ha detto l’onorevole Saragat, ma un Governo di destra, un Governo di destra così come la situazione presente oggi lo consente; Governo di destra relativamente alla capacità e alla forza della destra. La situazione non consente un Governo più a destra di questo. Insomma oggi, più a destra di così, nella situazione attuale, con lo schieramento attuale delle forze, è impossibile andare. Neppure l’onorevole Benedetti e l’onorevole Benedettini possono sperare logicamente una cosa di questo genere.

I portafogli richiesti durante il Congresso dell’Uomo Qualunque, l’uno o i due portafogli richiesti al Governo…

MAZZA. Chi li ha chiesti?

LUSSU. I giornali ne hanno parlato, compresi i vostri: io li leggo tutti. …Sono una battuta teatrale, polemica; a meno che non sia un espediente interno dell’Uomo Qualunque per tacitare o frenare gli istinti turbolenti dell’onorevole Russo Perez, al quale, mi pare, sarebbe stato offerto il portafoglio…

MAZZA. Ma lei sogna ad occhi aperti.

LUSSU. La verità è che i portafogli dell’Uomo Qualunque, per delega e rappresentanza, esplicita o tacita – chiedo scusa –, sono a quei banchi (Indica i banchi del Governo).

Come si esce da questa situazione? E se ne può uscire? (Interruzione dell’onorevole Mazza).

Due grandi difficoltà si oppongono.

Innanzi tutto la composizione organica della Democrazia cristiana. Io non voglio qui discutere (cosa che farà domani lo storico) se la costituzione della democrazia cristiana dopo l’altra guerra, sotto la veste di partito popolare, sia stata un bene o un male. Personalmente io ritengo che sia stata un male. La società italiana è in conflitto da secoli con la Chiesa e, quando un partito politico, direttamente o indirettamente, si riallaccia ad essa, si è in crisi politica.

Se durante il Risorgimento italiano i cattolici si fossero costituiti in partito politico, noi non avremmo avuto l’unità nazionale, (Proteste a destra e al centro) che più tardi e in altra forma.

Una voce al centro. Noi siamo italiani più di ogni altra cosa, soprattutto e prima di tutto!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

LUSSU. E se l’Italia, da Cavour all’altra guerra, ha potuto seguire il suo difficile ma sicuro sviluppo – nei termini in cui lo consentivano lo Stato monarchico e la società nazionale – lo si deve al fatto che non si è avuta la costituzione dei cattolici in partito politico.

Che avverrebbe oggi in Inghilterra, dove i cattolici sono tutt’altro che in forze irrilevanti, se essi si costituissero in partito politico? (Commenti al centro e a destra).

Ciascuno di voi vede che è una questione politica e non religiosa.

Comunque, poiché la Democrazia cristiana esiste ed è il più grande partito nel Paese e per giunta è al Governo, non c’è niente da dire e meno ancora niente da fare. Tutt’al più io potrei dire che, se la Democrazia cristiana non esistesse, certamente un centinaio o 150 di quei deputati (accennando al centro) siederebbero oggi in questi banchi e l’onorevole Jacini ed i suoi amici, che tengono – del resto tanto lealmente – alta la bandiera conservatrice, siederebbero soddisfatti in quei banchi, in mezzo ai colleghi dell’estrema destra, egualmente soddisfatti di essere con loro.

Voce al centro. Da qui la nostra funzione di centro.

LUSSU. Ed io aggiungo, secondo il calcolo delle probabilità, con l’onorevole Jacini, anche l’onorevole De Gasperi. (Commenti al centro).

La Democrazia cristiana si definisce costituzionalmente partito di centro. Se dobbiamo rispettare il significato delle parole – come mi pare doveroso – partito di centro dovrebbe significare un partito, che ha in sé la maggioranza parlamentare che lo renda capace, con le sue sole forze, di stare al Governo, senza l’estrema destra e senza l’estrema sinistra, equidistante dall’una e dall’altra, garanzia a questa e a quella.

È questa la Democrazia cristiana? No, certamente.

Non è dunque partito di centro in senso assoluto.

Ma io aggiungo che non lo è neppure in senso relativo… (Interruzioni al centro) …poiché la democrazia cristiana ha una avversione costituzionale per un raggruppamento politico di estrema che non è precisamente di estrema destra, e una simpatia per un altro raggruppamento che non è precisamente di estrema sinistra. La democrazia cristiana ha in orrore i partiti marxisti in genere, tranne qualche speranzosa riserva verso il marxismo di Saragat (Commenti a sinistra), per cui l’onorevole De Gasperi ha una fiducia – per adoperare l’espressione cara ai teorici della democrazia cristiana – prevalentemente ispirata alla cultura francese-pluralista.

L’onorevole Nitti ci ha spiegato qui, dottrinariamente, questa permanente e assoluta incompatibilità tra cattolicismo e comunismo. A torto, a mio parere, poiché prima dei soviet sono esistite, certamente non marxiste, ma certamente comuniste, due società collettiviste: una ideale e l’altra reale. L’ideale è la nota «Città del sole» di Tommaso Campanella, cattolico, per quanto non iscritto alla democrazia cristiana di quell’epoca (Ilarità); e la società reale è stata la non meno nota Repubblica dei gesuiti nel Paraguay.

Comunque, il grave è che il teorico di questa incompatibilità fra cattolicismo e comunismo, l’onorevole Nitti, è disposto ad andare al Governo e con la Democrazia cristiana e con i comunisti, ma la Democrazia cristiana non accetta più che del Governo faccia parte il partito comunista. La Democrazia cristiana è portata violentemente a sbarazzarsi (Commenti), ma con sistemi dolcissimi (Ilarità), del partito comunista e del partito socialista, che all’uopo è chiamato fusionista: partiti che sono di estrema. Il che fa sì che la democrazia cristiana sia automaticamente non già un partito di centro, ma di centro-destra, anzi di destra. Partito tendenzialmente di destra, poiché la ripugnanza che la democrazia cristiana ha per l’estrema sinistra non l’ha per l’estrema destra, per la quale ha invece trasporti d’amorosi sensi.

Ebbene, questo, a mio parere, non è secondo la natura della democrazia cristiana, partito politico moderno. Direi anzi che appare o può apparire il contrario.

Perché, se vi è nella Democrazia cristiana una base clericale, quindi conservatrice, attorno alle esclusive organizzazioni della Chiesa, questa non è politicamente militante: politicamente è irrilevante. E se vi è nella Democrazia cristiana un’altra forza, di base sociale, quella che rappresenta l’onorevole Jacini, questa non è la gran parte della Democrazia cristiana, anzi è minoranza.

Ma vi è nella Democrazia cristiana una base, che è la principale sua base sociale e politica, quella verso la quale abbiamo espresso sempre la nostra fiducia; è la base fatta di intellettuali, di uomini di cultura, di tecnici, di professionisti, di contadini, di operai, di mezzadri, di artigiani, di piccoli proprietari e di tanti strati di gente minuta del lavoro, che, inquadrati nella Confederazione generale del lavoro, combattono contro quegli stessi interessi che nella Democrazia cristiana sostiene e rappresenta l’onorevole Jacini. (Commenti al centro e a destra).

È questa la base politica che per noi ha rappresentato, nel periodo eroico della lotta oscura e tragica clandestina, una speranza per noi. C’è nella Democrazia cristiana una base che ha partecipato degnamente, quanto tutti noi, alla lotta della resistenza, ed ha dato il suo contributo alla guerra eroica partigiana, e compatta militava agli ordini dei Comitati di liberazione nazionale, di questi gloriosi e capaci organismi nazionali rivoluzionari di lotta e di Governo. Chi, come me, dopo la liberazione del Nord ha partecipato alle prime riunioni, in Milano, del Comitato di liberazione nazionale in cui figuravano i vostri massimi esponenti partigiani, ed ha partecipato, come me, alle prime riunioni del Comitato di liberazione nazionale in Roma, non può dimenticare che noi tutti abbiamo guardato a questi nostri compagni democratici cristiani come ai più sicuri ed intransigenti assertori e costruttori della nuova democrazia repubblicana.

È questa base politica che, al primo Congresso nazionale del partito democratico cristiano a Roma, ha votato, nella sua grande maggioranza, per la Repubblica. Ed è questa base politica che ha votato il 2 giugno per la Repubblica: è questa base politica – noi ne siamo tutti certi – che oggi costituisce un sostegno sicuro della Repubblica.

Il problema è tutto qui: è in grado la Democrazia cristiana di dare valore politico alla sua vera e sola forza politica? Vano è adattare formule fatte a situazioni nuove: la democrazia italiana non consente un partito generico di centro il quale, nei momenti decisivi, si rivela di destra. L’antidemocrazia e la monarchia erano a destra; la democrazia e la Repubblica sono a sinistra e non a destra, perché sono le sinistre e non le destre che le hanno create.

La crisi, che investe la società e lo Stato, è sempre di natura sociale, ma l’azione che può affrontarla e risolverla è politica. Sono lo schieramento delle forze politiche e la condotta politica che determinano una situazione nuova, non la tecnica; la tecnica che non sia subordinata ad una condotta politica va a naufragio. Anche la pianificazione, concepita solo tecnicamente, caro Saragat, non approda ad un bel niente, neppure se in Italia vi fossero non uno, ma quaranta o quarantamila Tremelloni. (Si ride).

CALOSSO. Non abbiamo mai detto questo!

LUSSU. Tecnica e pianificazione, se non sono concepite e realizzate in funzione di democrazia, cioè se non sono capite e sostenute dalle masse dei lavoratori, animati ed avvinti da un superiore ideale di democrazia, non risolvono la crisi, ma l’esasperano. Anche Mussolini e Hitler (chiedo scusa se faccio i nomi di questi due avventurieri dopo quelli di tanti galantuomini) hanno avuto la loro tecnica e la loro pianificazione, a modo loro. Ma Roosevelt, con il New Deal, sostenuto dai sindacati, ha saputo non solo risolvere la crisi paurosa di quell’epoca ma, da quelle realizzazioni, sicuramente esprimere tale forza popolare consapevole di democrazia per cui l’America volle la partecipazione alla guerra e fu fra i sommi artefici della vittoria.

Tutta la chiave della situazione è, pertanto, nella Democrazia cristiana, non nel l’Uomo Qualunque. Mi dispiace per le pretese dell’Uomo Qualunque! Io dicevo al mio collega ed amico Scoccimarro che mi doleva parlare stamani, perché avrei preferito, come il turno d’altronde indicava, parlare dopo il leader dell’Uomo Qualunque. La chiave della situazione non è nell’Uomo Qualunque o nel Partito liberale; la chiave della situazione è esclusivamente nella Democrazia cristiana.

In tutti quei paesi in cui i partiti della Democrazia cristiana, o i partiti cattolici organizzati, si sono allontanati dalle sinistre in tutti i paesi, nessuno escluso – e mi dispenso dall’elencarli perché più volte da varie parti sono stati, ed anche da me, ricordati qui – in tutti quei paesi, nessuno escluso, si è avuto non la democrazia, ma la catastrofe della democrazia. E quale democrazia sarebbe oggi possibile nei paesi d’Europa senza la partecipazione delle sinistre al governo? Ieri l’onorevole Corbino ci ha fatto l’elenco di tutte le Nazioni che hanno un governo socialista. Egli, da liberale, naturalmente, diceva «dramma del problema»; noi diciamo «razionalità del problema». Egli ci ha elencato tutti i paesi: la Finlandia, i due Paesi scandinavi, la Danimarca, l’Olanda, il Belgio, la Francia, l’Inghilterra, che hanno un governo socialista. Hanno un governo socialista perché la democrazia moderna, uscita da questa catastrofe, non consente altre forme di democrazia.

Paesi che fanno eccezione, la Spagna e il Portogallo. Tutta l’Europa civile, democratica, in senso occidentale, è retta da governi socialisti.

E sarebbe mai possibile una democrazia in Italia senza le sinistre? In Italia, non solo le forze proletarie (sarebbero rilevanti ma non sufficienti), ma le forze popolari hanno vinto. Non perduto ma vinto. Vinto nella guerra partigiana e vinto nella sovrana espressione popolare del 2 giugno. Esse, queste forze popolari, ci hanno dato la liberazione e la Repubblica. La nostra democrazia è basata su questa vittoria delle classi popolari, nelle quali si è avuta l’esplosione della profonda coscienza nazionale. Senza questa vittoria, onorevole De Gasperi, senza questa vittoria tu non saresti Presidente del Consiglio per la quarta volta, senza questa vittoria tu saresti certamente in galera o peggio morto e non di morte naturale. (Ilarità).

Io ho il dovere di dire che questa crisi nostra della democrazia è, non in modo trascurabile, dovuta al temperamento personale, psicologico e politico, dell’onorevole De Gasperi. L’onorevole De Gasperi ha una sua bussola politica, che è regolata da un ago magnetico a due frecce estremamente semplici. In una c’è scritto: «la Democrazia cristiana sempre al Governo». Spiegabile, perché la Democrazia cristiana è il più grande partito del Paese. Si può discutere, ma è spiegabile. E nell’altra freccia c’è scritto: «Presidente del Consiglio, sempre l’onorevole De Gasperi». (Ilarità).

Se l’onorevole De Gasperi scrivesse le sue memorie – e sarebbero certamente infinitamente interessanti perché egli è stato partecipe attivo della distruzione di due imperi – io credo che egli ci confesserebbe che, quando era bambino, cioè nell’età in cui tutti sogniamo di essere ammiragli, generali, poeti, vescovi, premio Nobel, io credo che egli ci confesserebbe che in quell’età sognava di essere Presidente del Consiglio. (Ilarità).

Noi, per quanto amici suoi – e questo è un nostro onore – siamo molto lontani, ma voi colleghi della Democrazia cristiana siete amici vicini e lo conoscete più di noi. Personalmente non credo che l’onorevole De Gasperi abbia dell’ambizione, ma, se dovessimo dare retta a parecchi fra di voi, non sarebbe da escludere che l’ambizione possieda una parte notevole, e non la migliore, dell’onorevole De Gasperi. La psicologia dell’onorevole De Gasperi è tutta in quel discorso fatto alla radio, mi pare nell’aprile scorso, in cui disse: «quando si è in cordata non si litiga, altrimenti si precipita tutti».

Quando si è in cordata, onorevole De Gasperi, non si litiga mai e, se si litiga, è sempre colpa del capo cordata. Noi siamo in molti in quest’Aula che abbiamo una buona esperienza dell’alta montagna e sappiamo che, quando si è in cordata, se si litiga, se le cose vanno male, è sempre per colpa del capo cordata.

In quei casi, un capo cordata, cui stia a cuore la sorte di tutti, un capo cordata responsabile, cede la direzione della cordata ad un altro più forte o più capace o più fiducioso di lui.

Che cosa ha fatto, invece, l’onorevole De Gasperi? Si è afferrato alla roccia, col capo della corda e con la picozza, ha tirato di tasca il suo coltello da montagna ed ha tagliato la corda; e sono precipitati giù tutti… (Commenti al centro).

E sono precipitati giù tutti: per primo Togliatti.

Togliatti ha troppo spirito perché non mi consenta di fare il suo nome a fianco di un re, di un re di Francia per giunta. Enrico IV è andato a messa, ma ha avuto Parigi e tutta la Francia. Togliatti è andato a messa, ma ha avuto solo la messa! (Ilarità).

La seconda difficoltà è costituita dal differente modo di valutare il fascismo, o neofascismo che dir si voglia.

Dalla liberazione di Roma, mai come con questo Governo i fascisti si sono sentiti a casa loro. È tutto un pullulare di giornali, di riviste, di organizzazioni, di manifestazioni petulanti e provocatorie di fascisti fanatici e di repubblichini prezzolati. Riconciliazione? Essi non sanno che farsene. Essi vogliono la rivincita.

Che cosa sono questi neofascisti? Sono anche un pericolo, o semplicemente un insulto per la democrazia repubblicana?

Credo, in primo luogo, che parecchi di noi debbano fare ammenda pubblica – ed io la faccio – di un giudizio molto affrettato espresso sull’onorevole Giannini, leader dell’Uomo Qualunque.

L’onorevole Giannini, dopo aver scolpito il suo nome nella storia del teatro e del film, rischia (ed io glielo auguro) di scolpirlo anche nella storia politica, nella storia della democrazia.

Egli ha indubbiamente il merito di aver detto ai suoi seguaci, in massima parte ex fascisti: non parliamo più di fascismo.

A me pare doveroso parlare con rispetto di un uomo che, avendo sofferto molto personalmente – e chi di noi non lo sapeva se n’è accorto in quest’Aula, quando egli parlò qui, nella discussione sul Trattato – che avendo molto sofferto personalmente, ha individuato nella sua tragedia personale e familiare tutta la tragedia nazionale, e ha dichiarato: non più fascismo e non più guerra. Io penso perciò che se egli subisse – privilegio degli uomini illustri – un attentato, l’autore non andrebbe cercato in queste file, ma in quelle dei nemici-amici, come si chiamano nel campo dell’Uomo Qualunque. Io credo che anche la partecipazione dell’onorevole Togliatti al Congresso dell’Uomo Qualunque, seguita dalla visita del nostro Presidente dell’Assemblea, pure comunista, abbia avuto questo significato di affermazione di benevolenza.

Ma non è detto tuttavia che l’onorevole Giannini sia tutto l’Uomo Qualunque. Potrebbe accadere all’onorevole Giannini, per ipotesi, in avvenire, ciò che accadde ai mistici predicatori della quarta crociata, i quali predicarono la conquista della Terra Santa, di Gerusalemme, mentre poi i loro eserciti, nonostante le bolle di scomunica di Innocenzo III, occuparono e misero a sacco prima Zara, città cristiana, e poi attaccarono e presero Costantinopoli, città cristianissima. E ai mistici predicatori non rimase altro che accettare il fatto compiuto e installarsi nelle città conquistate.

Ogni democratico si augurerebbe, io credo, che tutto l’Uomo Qualunque seguisse l’esempio dell’onorevole Giannini, il quale, fra l’altro, ha l’onore persino di una figlia partigiana. Ma si ha l’impressione che ci sia ancora molta strada da fare.

E poi, oltre l’Uomo Qualunque, noi sappiamo che cosa c’è fuori.

Si ha l’impressione che l’Uomo Qualunque e gli stessi altri gruppi liberali e monarchici pecchino di eccessivo zelo nel difendere una tesi cara ai fascisti, ai fascisti autentici: quella della discriminazione assoluta e della cosiddetta riconciliazione.

Quando si grida alla faziosità nostra di antifascisti radicali, non sarebbe tempo perduto, io penso, andare a controllare quanto è avvenuto ed avviene in Francia, nazione meno numerosa della nostra, in cui il fascismo c’è stato per minor tempo e in forma meno canagliesca. In Francia, dove il «Mouvement Républicain Populaire» – i vostri colleghi della democrazia cristiana (Accenna ai banchi democristiani) – sono stati al potere dalla liberazione ad oggi. Qui si strilla perché mille fascisti repubblichini sono stati deportati: ma in Francia, senza contare tutti quelli che sono stati passati per le armi, senza contare quelli condannati all’ergastolo, a trent’anni o ad altre lunghe pene detentive, e quelli che sono stati condannati a meno di dieci anni raggiungono la cifra di 8.000 e sono nei campi di concentramento. Dopo le evasioni scandalose dai campi di Noé e di Carré, si stanno per mettere tutti in carceri chiuse, e il provvedimento è reclamato innanzitutto dal «Mouvement Républicain Populaire», dai vostri colleghi di Francia. (Accenna ai banchi democristiani).

E in Francia continuano implacabili i processi e non si assiste allo scandalo di revisioni, di sentenze di Corte di cassazione, che sono un affronto ingiurioso alla giustizia, e una sfida alla nostra coscienza democratica. (Vivi applausi a sinistra).

Noi non abbiamo avuto né un’epurazione seria né sanzioni. Riconciliazione? Ma certamente. Saremmo dei cani idrofobi se non la volessimo, saremmo dei macellai di professione se la rifiutassimo. Chi non vorrebbe la riconciliazione, riconciliazione piena e pacificatrice, sicché la nuova vita democratica italiana cominciasse dal 2 giugno?

Ogni generazione ha i suoi dei falsi e bugiardi; e la società che ne espia le colpe è portata all’indulgenza; si aprano le porte al figliuol prodigo, che ritorna alla casa paterna. Ma la riconciliazione esige un cambiamento di condotta e di vita; la riconciliazione esige innanzitutto, da parte di quelli che la invocano, una coscienza profondamente modificata; senza di che la riconciliazione sarebbe un turpe mercato nero, morale e politico. Non ci si riconcilia, innanzitutto, coi grandi responsabili, con i ladri, i furfanti e i criminali. La pietà – diceva giustamente uno dei vostri (Accenna ai banchi democristiani) dei più eroici nella lotta clandestina contro i fascisti ed i nazisti tedeschi – nasce dalla giustizia. Non ci si riconcilia con chi afferma che se Mussolini avesse avuto collaboratori più capaci, il fascismo avrebbe trionfato. Non ci si riconcilia con chi trae vanto dall’essere stato fascista militante e repubblichino professionista, pronti tutti a ricominciare da capo. Con costoro nessuna riconciliazione, né morale né politica, è possibile. (Approvazioni a sinistra). Per costoro non ci sono due vie o tre vie: c’è una via sola. In tempi di legalità democratica, come la nostra, la legge penale e civile (Approvazioni a sinistra); e in tempi eccezionali, l’arma con cui i nostri partigiani li hanno affrontati e messi a terra. (Applausi a sinistra).

Ebbene, questo Governo pare sia il Governo di questa riconciliazione intollerabile. Quando nelle piazze di Roma, Roma capitale d’Italia, sede del Governo, mentre l’Assemblea Costituente siede, scorrazzano, cantando gli inni macabri della pazzia, fascisti e repubblichini…

Una voce a sinistra. Lo consente Scelba!

LUSSU. …quando a Roma, nelle manifestazioni pubbliche, si arrestano quelli che gridano «Viva la Repubblica» e si difendono e si proteggono quelli che cantano inni fascisti, c’è una seria ragione per preoccuparci in tutti i settori. (Approvazioni a sinistra). In Inghilterra, paese classico della libertà, e per tutti, collettiva e individuale, quando i ridicoli fascisti di sir Oswald Mosley escono a manifestare, le masse di Londra, la gente pacifica e rispettosa di Londra, li piglia a sassate e a bastonate. In Inghilterra, paese libero. E noi, che nel nostro Paese abbiamo avuto un fascismo che ha tutto distrutto, moralmente e materialmente, noi, per i quali il fascismo è stata la più immane tragedia della nostra storia, noi dobbiamo assistere, tranquilli e pacifici, indifferenti, liberalmente indifferenti?

I fatti che sono stati denunciati qui sono gravi: ogni provincia ha i suoi fatti gravi. Noi usciamo da venticinque anni di fascismo, e l’abbiamo ancora tutti nel nostro ricordo. Chi ha assistito al disordine delle vicende di 25 anni fa, ed è spettatore di nuovo di queste disordinate vicende, credo abbia il dovere di dire e di fare qualche cosa per tentare di rompere l’incantesimo di questi corsi e ricorsi storici. È un nostro dovere! De Gasperi, è un dovere di tutti! È una cosa troppo seria! Ciascuno comprende che queste mie parole non sono espedienti di manovre elettorali. È una cosa seria!

L’altro giorno Saragat ha svolto la sua mozione di sfiducia in mezzo alla nostra più grande attenzione. Ascoltando il suo discorso di opposizione, in cui tutto questo problema non appariva, di cui non ha fatto il minimo accenno, come se fosse arcaicità del periodo degli etruschi o della civiltà greco-sicula o della preistoria, io mi sono spaventato. Ho il dovere di dirlo ad un vecchio grande amico socialista, la cui grande formazione ed esperienza politica si è fatta a Vienna coi socialisti, in mezzo agli operai di Vienna proletaria e socialista, guidata da Otto Bauer, che ha scritto nella gloriosa resistenza una delle pagine più grandi della storia della democrazia europea. Io sono rimasto spaventato. L’espressione – molti di noi lo ricordano – è la stessa adoperata da Léon Blum, in un celebre congresso socialista, rivolto a Renaudel, capo del gruppo dell’Ariete, animato da magnifiche intenzioni non meno che l’onorevole Saragat; Renaudel, al quale una morte precoce, pia e benigna, ha tolto la possibilità di vedere la catastrofe del suo movimento.

Egli è stato tutto assorbito dalla questione dei comunisti e della terza via.

Dei comunisti non ho niente da dire, se non rievocare le esperienze personali e culturali comuni: che cioè la democrazia, oggi, nel nostro tempo, senza il proletariato, è contro il proletariato. La democrazia, senza il proletariato, non è democrazia, oggi! Questo in Italia e in ogni Paese del mondo, in cui il proletariato è organizzato!

Certo, ci sono difficoltà notevoli, grandi, ma sarebbe contro natura che non ci fossero. Personalmente, io non nascondo che preferirei in Italia un grande, unico Partito socialista, con tutte le correnti socialiste, che avesse qui in Assemblea tre o quattrocento deputati, quanti ne ha il partito laburista in Inghilterra.

Personalmente io preferirei che il Partito comunista fosse un piccolo partito. (Commenti a sinistra). Ma, così non è. Non è un piccolo partito, e nessuno può fare che non sia quello che è, neppure l’onorevole Scelba, Ministro dell’interno, che credeva di possedere gli strumenti per ridurlo a suo piacere.

E allora bisogna risolvere le difficoltà nei modi in cui è possibile risolverle: solo nei limiti in cui è possibile risolverle.

All’onorevole Saragat, che è uomo di cultura, consiglierei di leggere o rileggere il discorso di Ibreo a Entedemo che non è il caso di rievocare qui.

Una terza via! Si può essere tutti d’accordo, ma ci sono parecchie cose da dire. Io all’onorevole Saragat mi permetterei anzitutto di dire questo: che dopo la sua prima visita in America, non ne faccia – come egli promette o minaccia – una seconda nella stessa America. Gli consiglierei di fare la seconda a Mosca, altrimenti noi sostenitori della terza via saremmo preoccupati che egli coltivi e percorra una via che non è precisamente la terza. (Applausi a sinistra).

L’Italia, nell’eventualità che lo schieramento dei due blocchi perduri, non deve accodarsi né all’uno né all’altro blocco. Se così non fosse, noi perderemmo la nostra indipendenza nazionale. Il che significa la nostra libertà collettiva di popolo sovrano, e non avremmo più democrazia.

La nostra democrazia presuppone la nostra indipendenza nazionale. La nostra indipendenza è nella terza via. Una terza via significa volerla sin da ora, senza equivoci, sempre pronti a difenderla, a difenderla anche con le nostre armi infinitamente modeste e con il sacrificio del nostro sangue. Pronti e decisi a difendere la nostra indipendenza. Il che vuol dire che, nella catastrofica eventualità di una guerra, noi non saremmo mai gli ausiliari e i vassalli di nessuno, peraltro risoluti a schierarci a fianco di uno di quei blocchi la cui potenza nemica violasse per prima la integrità del nostro territorio nazionale.

Questa è la terza via. All’infuori di questa, c’è truffa e commedia. Questa è la terza via, e credo che dovremmo volerla tutti, perché i destini del nostro Paese sono legati esclusivamente ad essa. Dovremmo volerla anche se costasse sacrifici penosi a noi individualmente ed al popolo che rappresentiamo e che abbiamo il dovere di guidare nelle ore del pericolo.

Anche su questo problema il Governo non ci dà nessuna garanzia.

Non già che esso lavori per una sola via che non sia la terza. Il dirlo sarebbe un affronto ed un’offesa all’onore dei nostri rappresentanti ed alla verità. Il Governo non lavora per questa, e tanto meno il Ministro degli Esteri la cui indipendenza personale e politica è nota ed arcinota. Ma le forze politiche e sociali che questo Governo protegge, rappresenta e incrementa, sono per una sola via, che non è la terza.

Grave dunque è la vostra responsabilità, o colleghi della democrazia cristiana. È grave la decisione che vi ha portato a formare questo Governo. Noi lo notiamo ogni giorno, nelle conversazioni personali che abbiamo con voi, poiché amicizie profonde legano molti di noi a molti di voi. Sentiamo questa posizione vostra d’imbarazzo. Voi dite: «ma è provvisorio», «passerà», «non può durare così fino alle prossime elezioni», «ci accomoderemo, naturalmente». Si sente che neppure voi siete contenti. Lo si sente persino attraverso i vostri stessi oratori deboli e incerti. Io voglio sentirlo, starò qui ad ascoltarlo il vostro «leader» politico, l’onorevole Piccioni, la cui formazione politica si è fatta intorno a «Rivoluzione Liberale» di Gobetti. Io starò ad ascoltarlo, ma ho l’impressione che anche egli sarà debole, come è stato debole l’altra volta, quando parlò qui uno dei massimi vostri oratori, il nostro magnifico compagno Cappi; Cappi, l’umano e l’eroico, che a Cremona, fossa dei leoni, dei serpenti e delle vipere, ha vissuto i vent’anni fascisti; Cappi, che quando parla esprime la stessa democrazia nella sua essenza. Ebbene, il discorso di Cappi fu il più infelice di quanti un parlamentare possa fare: non già perché, a difesa di questo Governo, gli manchi l’intelligenza o la preparazione politica (egli è maestro a molti di noi), ma è la fede che gli manca. Egli ci ha citato qui, e l’ha rievocato con fine volo letterario, lo scudo pesante di Uguccione della Fagiola. Ebbene, cari compagni della Democrazia cristiana, non è con quello scudo che sarete in grado di difendere la formazione politica di questo Governo e la vostra posizione per la responsabilità che su di voi cade. Non è con quello scudo – ne potreste avere cento o mille di simili – che vi difenderete. A voi manca un altro scudo, quello che non è necessario sia temprato di acciaio o cesellato d’arabeschi. A voi manca lo scudo infinitamente più semplice, che può con nulla costruire persino un modesto artigiano; è quello che conta e che solo vale per voi uomini dalla vita a fondamento morale: a voi manca a difesa di questo Governo – mi sia permesso senza offesa – a voi manca l’usbergo del sentirvi puri. (Rumori al centro).

Né vale il fatto che costituzionalmente voi avete le carte in regola. Certo, costituzionalmente voi avete le carte in regola: l’hanno ricordato anche i colleghi liberali che hanno parlato: Cortese, Corbino ed anche, poc’anzi, l’onorevole Crispo. Le vostre carte costituzionali sono in regola, ma non avete a posto le vostre carte politiche: quelle non sono in regola.

Da voi, dal Presidente De Gasperi, dall’onorevole Scelba principalmente e da altri, si è sentito ripetere: noi non abbiamo paura. Molti tra di noi rispondono: neppure noi abbiamo paura.

Io dichiaro, francamente, di avere paura di questo Governo. Paura, non tanto per me, personalmente, ché la mia persona è una cosa irrilevante in un Paese che a momenti ha 50 milioni di cittadini. Non ho paura neppure per la mia corrente politica, assai modesta e che forse ha compiuto il suo ciclo storico, rispondendo degnamente per vent’anni all’appello della democrazia italiana e battendosi per essa. (Applausi). Io ho paura per qualcosa di più: per la vita del nostro Paese, il quale, io credo, avrà molte cose da dire nei millenni che verranno. Io lo confesso: questo Governo mi fa paura per il nostro Paese. (Vivissimi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

Presidenza del presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, il seguito della discussione è rinviato al pomeriggio. Desidero far presente che, aderendo all’invito rivolto ieri sera, numerosi iscritti hanno rinunciato a parlare. Io auspico che ancora qualche collega venga nel pomeriggio a notificarmi la sua rinuncia. Siccome restano comunque sempre ancora una ventina di oratori, e poi dovranno parlare i presentatori delle mozioni e alcuni membri del Governo, questa riduzione del numero degli iscritti non è sufficiente ad esonerarci dalla seduta serale prolungata. Prego pertanto i colleghi di tenerne conto nel regolare l’impiego delle loro ore.

La seduta termina alle 12.40.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXL.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Cappa, Ministro della marina mercantile

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Morandi

Togni, Ministro dell’industria e commercio

Corbino

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Angelucci

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Macrelli

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Ministro della marina mercantile. Nella seduta di ieri sera, avendo il Ministro Merzagora affermato che il Governo ha ridato la libertà agli armatori, l’onorevole Aldisio ha interrotto affermando, secondo quanto reca il resoconto stenografico: «Ora gliela avete levata, però. Il provvedimento fondamentale che ha dato questi risultati lo avete abolito».

Desidero chiarire rapidamente come stiano realmente le cose, perché credo che l’onorevole Aldisio sia caduto in un equivoco. In realtà, penso che egli accenni alla soppressione dell’articolo 3 del decreto ministeriale 20 agosto 1946. Con questo decreto ministeriale si concedevano agevolazioni valutarie ad armatori e noleggiatori italiani di navi mercantili, sulla cessione di valuta proveniente da noli ricavati dall’esercizio della navigazione. Questo decreto, all’articolo 3, recava una disposizione in favore degli armatori italiani che acquistavano navi con valuta libera, cioè affermava e disponeva che «l’ufficio italiano dei cambi metterà a disposizione degli armatori italiani che acquistino o abbiano acquistato navi mercantili, battenti bandiera estera, mediante finanziamenti esteri in valuta libera, l’intero ammontare dei noli netti di valuta libera ricavato dall’esercizio della navigazione delle navi come sopra acquistate». Aggiungeva l’articolo 3 che «le disponibilità in valuta di detti conti potranno essere utilizzate dai rispettivi titolari, unicamente per il regolamento dei finanziamenti ottenuti per l’acquisto delle navi».

All’articolo 1, invece, questo decreto lasciava un accreditamento del 50 per cento nei conti a disposizione degli armatori italiani e dei noleggiatori italiani di navi mercantili. Questo 50 per cento doveva essere utilizzato in pagamenti all’estero per acquisto di navi mercantili, in trasferimento di un conto analogo intestato ad altri armatori e noleggiatori italiani, purché si utilizzasse per gli scopi di cui sopra. Insomma, con questo decreto, mentre si lasciava il 50 per cento della valuta estera acquistata coi noli, a disposizione degli armatori di navi mercantili, si concedeva la totalità della valuta proveniente dai noli agli armatori e ai privati, i quali acquistassero navi battenti bandiera estera e le trasferissero sotto bandiera italiana, fino al pagamento totale della somma che in valuta libera era stata destinata all’acquisto di queste navi. Ad un anno di distanza e cioè il 6 agosto scorso, visti i risultati di questa operazione, e tenuto conto delle necessità da parte del Ministero del commercio estero di trattenere il maggior numero possibile di valuta derivante dal commercio con l’estero, per gli acquisti del nostro Paese, si è provveduto con tale decreto del Ministero del commercio estero, d’accordo col Ministero della marina mercantile, alla soppressione dell’articolo 3, cioè si è ridotta la disponibilità di valuta acquisita con i noli delle nostre navi mercantili al 50 per cento.

Questo è stato il provvedimento che si è preso, date le necessità assolute del nostro Ministero del commercio estero. Però in compenso si è consentito agli armatori di disporre di questo 50 per cento di valuta non solamente per l’acquisto di navi all’estero, ma per l’acquisto di merce che ritenessero di importare dall’estero. Non penso, onorevoli colleghi, che con questo si possa dire di avere limitato la libertà di acquisto da parte di armatori italiani di navi estere; non credo che questo provvedimento potrà portare ad una restrizione di questi acquisti. Ritengo che il provvedimento sia stato preso dopo di aver valutato la situazione di fatto, tenendo ben conto dell’opportunità di favorire in tutti i modi, come il Governo sta favorendo, l’acquisto di navi all’estero anche da parte di privati e di liberi armatori, contemperando però questa utilità e questa necessità da parte del nostro Paese di acquistare navi, con quelle che sono le esigenze di valuta da parte del commercio estero.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico di aver chiamato a far parte:

della Commissione pei Trattati internazionali l’onorevole Eugenio Reale, in sostituzione dell’onorevole Mario Montagnana, dimissionario;

della terza Commissione permanente l’onorevole Agostino Novella, in sostituzione della onorevole Adele Bei, dimissionaria.

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso sei domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

contro i deputati Spano, Bonfantini, Villani e Zanardi, per il reato di cui all’articolo 595, secondo capoverso, in relazione all’articolo 57 n. 1 del Codice penale;

contro il deputato Tega, per il reato di cui all’articolo 18 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773;

contro il deputato Gullo Rocco, per i reati previsti dell’articolo 1 del regio decreto-legge 17 giugno 1937, n. 1084, dall’articolo 3 della legge 6 agosto 1940, n. 1278 e dai decreti luogotenenziali 31 agosto 1945, n. 579, 9 novembre 1945, n. 776 e 1° marzo 1945, n. 177.

Saranno inviate alla Commissione competente.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Morandi. Ne ha facoltà.

MORANDI. Onorevoli colleghi, mi occuperò della situazione economico-finanziaria, o per meglio dire di alcuni degli aspetti più preoccupanti che essa presenta. Io non intendo riproporre su questo piano i motivi generali della nostra opposizione, che vi sono ben noti, e non mi attarderò – dopo che altri oratori dell’opposizione l’hanno fatto, e molto efficacemente stamane l’onorevole Lizzadri – a sviluppare le contradizioni massicce che hanno divorato le enunciazioni programmatiche, sulla base delle quali questo Governo ottenne già un voto di fiducia dall’Assemblea.

Ritengo del resto che in questi quattro mesi, l’indirizzo effettivo che questo Governo segue, le idee che ha e la volontà che lo anima si siano schiariti a sufficienza al Paese, perché sia di qualche utilità ancora aprire un processo ai programmi che non sono venuti ad attuazione. Noi tutti sapevamo in fondo che il quarto Gabinetto De Gasperi si presentava con un programma che non aveva alcuna seria intenzione di realizzare.

Andiamo, dunque, direttamente ai fatti e risaliamo da questi alle responsabilità che si possono stabilire nei confronti dell’azione di Governo.

Alcuni di essi, che sono pure di una portata oggettiva estremamente grave, trascendono in parte le responsabilità di questo Governo, o per lo meno possono lasciare esitanti nello stabilirle a pieno.

Così è del fatto che la circolazione di Stato è andata incessantemente aumentando; non vogliamo contestare che si siano presentate delle necessità alle quali il Ministro del Tesoro ha dovuto piegarsi. Così è del fatto che l’incremento delle entrate è stato completamente assorbito da maggiori, ovvero nuove spese, compromettendo in questo modo le buone intenzioni di portare a pareggio il bilancio. Così è di altre spiacevoli cose che non sto qui ad enumerare, per quanto io debba dire che potevamo attenderci dal Ministro del bilancio una cura ed una energia più grandi nel tentativo di mettere ordine ai bilanci dello Stato, giacché veramente il disordine non è mai stato più grande.

Ma vi sono, onorevoli colleghi, altri fatti che scoprono invece delle deviazioni e degli errori specifici dell’azione di Governo, fatti che segnalano pericoli tali da esigere, a parer nostro, un radicale ed immediato mutamento di rotta.

Tali sono:

l’ascesa continua, con progressione accelerata, dei prezzi;

una politica valutaria radicalmente errata, che qualcuno definisce addirittura suicida, che ci induce a dover troncare da un momento all’altro le nostre importazioni essenziali, e costituisce la causa prima dello svilimento continuo della nostra moneta;

il ritorcersi di una pratica malsana di favoritismi e di protezioni, che è alla radice del regresso impressionante della nostra esportazione;

il collasso in atto dell’I.R.I., dopo tanti moniti rivolti al Governo;

le conseguenze di un tentativo inutile di deflazione che si ripercuotono su tutto il nostro sistema produttivo, in particolare sulle industrie;

e l’abbandono sempre più accentuato degli organi dell’Amministrazione all’influenza e alle pressioni interessate di gruppi affaristici.

Tutti questi fatti – e i miei riferimenti non pretendono ad alcuna completezza – sommano in un solo termine: l’inflazione.

L’inflazione ha fatto passi giganteschi nel corso di questi quattro mesi, ed essa potrebbe passare, da un momento all’altro, dalla fase dello «slittamento», alla fase fatale dello «avvitamento», come i tecnici usano dire, della nostra moneta. Io non dirò di certo che il Governo consapevolmente tenda all’inflazione, non sosterrò che la vogliano gli uomini che seggono a quel banco. Ma altri – e questo è il punto – la vogliono per essi; ed è sotto l’influsso di questa volontà tenebrosa che non si scopre, che il Governo opera.

L’inflazione, onorevoli colleghi, è un termine pauroso, come la guerra; nessuno arriverà mai al cinismo di ammettere e di dichiarare che la desidera e la vuole: eppure all’inflazione non si arriverebbe, coi mezzi di intervento di cui oggi dispone lo Stato, come non si arriverebbe mai alle guerre, se non vi fossero delle forze e degli interessi che vi sospingono.

Aperti e dichiarati avversari della concezione economica e dei principî politici dell’onorevole Einaudi, noi non vogliamo farne il capro espiatorio di questa politica; noi non vogliamo giudicarlo alla stregua delle responsabilità schiaccianti che egli porta dinanzi al Paese come Ministro del bilancio, come coordinatore supremo dei dicasteri economici, come Governatore della Banca d’Italia. Noi arriviamo sino al punto di voler distinguere fra la sua posizione di Governatore dell’Istituto di emissione e la sua funzione di Governo.

Se, infatti, così non fosse, dovremmo attribuire all’onorevole Einaudi un piano veramente diabolico: quello di condurci all’inflazione, non risparmiando al Paese le torture della deflazione e così, esasperando fino all’estremo il conflitto degli interessi, flagellare le varie categorie una dopo l’altra per coalizzarle tutte alla fine contro gli interventi dello Stato, quasi ad assicurare il trionfo delle tesi liberiste.

Io non gli imputo ciò, perché conosco quale sia la caratteristica condotta politica del nostro Presidente del Consiglio, il quale ama un poco il gioco dell’altalena e, in questo modo, a parer nostro, ha anche sprecato la miglior carta che aveva in mano: la carta Einaudi. Egli non è riuscito a rovesciare quella situazione psicologica, cui pure si fece riferimento per giustificare il cambiamento di Governo. Non si crede dal Paese, non si crede dai finanzieri, dagli industriali, che l’onorevole Einaudi possa durare e riuscire nel suo tentativo di contrastare all’inflazione.

Penso, più semplicemente, che l’onorevole Einaudi da un pezzo abbia dovuto rinunziare alle funzioni che gli sono state attribuite in seno al Governo, per accontentarsi di quelle di Governatore della Banca d’Italia. Questo io ho voluto anticipare sulle accuse che noi muoviamo al Governo, perché, se è vero che noi abbiamo forti riserve da fare sulle direttive che segue l’Istituto di emissione, non per questo noi ammettiamo che queste riserve siano confuse con le critiche di ben altra origine che investono oggi aspramente il Ministro del bilancio. Per nessun motivo – anche se oggi ce ne potesse derivare un vantaggio politico – noi vogliamo essere confusi con chi da tempo ha puntato sull’inflazione, la vuole ed è deciso ad averla. Ma l’onorevole Einaudi avrebbe pur dovuto accorgersi a quest’ora che siede in un Gabinetto inflazionista! Egli inoltre porta delle responsabilità abbastanza definite per quel che è la politica valutaria e la politica dei prezzi, su cui dovrò poi intrattenermi.

Onorevoli colleghi, perché e da chi si vuole l’inflazione?

Sono state citate delle cifre che valgano a misurare approssimativamente il costo economico della guerra. Effettivamente la guerra, oggi, dopo aver seminato di lutti il Paese, presenta il suo conto economico, e il costo della ricostruzione risulta enorme. Esso è tanto più grave, in quanto il nostro reddito nazionale, alla fine della guerra, si era ridotto a circa la metà del livello prebellico, ed è poi risalito molto lentamente. Si ritiene così che l’onere della ricostruzione, se fosse ripartito in un periodo di quindici anni, assorbirebbe non meno del 22 per cento del reddito nazionale. Come dividere questo peso, che è costituito dallo squilibrio tra potenziale di consumo e possibilità di investimento, dallo squilibrio tra investimenti di carattere privato e investimenti di carattere pubblico? L’inflazione è il mezzo più idoneo, più efficace e più rapido per far ricadere tale peso sulle spalle delle categorie lavoratrici. Essa ne decurta i redditi reali e ne contrae la capacità di consumo fino all’estremo limite; e consente di rinviare la stabilizzazione del bilancio fino al punto in cui queste categorie della popolazione saranno state depauperate di tutte le loro risorse, e sarà stato depresso al massimo il loro tenore di vita.

Onorevoli colleghi, come tutti i Governi pretendono di essere tutori della pace fino al momento in cui non dichiarano la guerra, così tutti i Governi asseriranno sempre di sentirsi impegnati alla più strenua difesa della moneta, finché non saranno stati abbandonati gli ultimi spalti.

Ma che cosa fa questo Governo per difendere la moneta? Tiene dei discorsi, ispira degli articoli, si preoccupa di procurarsi un alibi morale; ma i fatti parlano ben altrimenti.

Una sola eccezione pare presentare questa linea di condotta ed è rappresentata dalle restrizioni del credito, che sono state già oggetto di varia considerazione in questo dibattito. In piena inflazione noi abbiamo visto il Governatore della Banca d’Italia sferrare un violento attacco al settore creditizio, determinando dure restrizioni del credito da parte delle Banche. È un tentativo di deflazionare drasticamente un settore della nostra economia, che manca disgraziatamente di ogni connessione con la politica economica che si svolge, ed anzi è, per molti aspetti, contraddetta da essa. Così può, alla fine, anche ritorcersi in effetti inflazionistici. Prendendo motivo e spunto da queste restrizioni, dagli ampi commenti di stampa cui essi danno luogo, il Presidente del Consiglio ha creduto ad un certo momento di poter candidamente annunziare prossima una crisi di deflazione e la gente, che vede salire i prezzi ogni giorno, si domanda in che mondo campa.

Di deflazione veramente io non vedo come si possa parlare, dal momento che la circolazione monetaria si è accresciuta solo fra aprile e agosto di un centinaio di miliardi, ossia di quasi una quinta parte, mentre è nelle previsioni del Tesoro che essa debba ulteriormente espandersi nei prossimi mesi in proporzione molto più grande. A meno che per politica deflazionista non si intenda semplicemente il fatto di causare – per soprammercato ai nostri guai – una serie di fallimenti.

L’onorevole Einaudi ha affermato di essersi trovato dinanzi ad una cruda alternativa: o accrescere l’emissione o creare il caos economico. È una condizione di cose, questa, è uno stato di necessità che egli – a parer nostro – poteva prevedere. Ed è cosa che dovrebbe capacitarlo ad ogni modo della inanità e della pericolosità di contendere il terreno all’inflazione con mezzi puramente finanziarì. Le misure adottate nel settore creditizio potrebbero avere la loro efficacia se connesse ad un complesso sistematico di interventi rivolti a diminuire il fondamentale divario fra consumo, produzione e importazione, fra investimenti e risparmi, fra le diverse categorie di consumo e di investimenti; prese a sé stanti, non fanno che aggravare – come noi riscontriamo – la situazione.

Sorge legittimo allora in noi il dubbio che ci si voglia servire di esse per un’opera di disintegrazione liberistica e capitalistica della nostra economia, la quale è caratterizzata da una sempre accentuata estensione del settore pubblico nella sua recente evoluzione.

La deflazione del credito costituisce in ogni modo un mezzo di emergenza per accrescere il gettito del mercato monetario a favore del Tesoro, ma essa viene anche ad accentrare nelle mani del Tesoro e dell’Istituto di emissione il finanziamento dell’economia, limitando l’opera di finanziamento autonomo degli istituti privati (il che comporta qualche contradizione con l’ideologia liberista). È da chiedersi allora a qual fine questo accentramento delle possibilità e della capacità di finanziamento sarà indirizzato, mancando un analogo accentramento e controllo delle forze produttive, mancando un programma.

Prima di conseguire degli effetti deflazionistici (effetti deflazionistici che dovrebbero consistere nella riduzione delle scorte, nelle vendite forzate), queste restrizioni, applicate come misure isolate e indiscriminate, potrebbero convertirsi – come ho già detto – in cause concorrenti di inflazione. Infatti, esse accentuano l’attività speculativa, accorciando il ciclo produttivo colpiscono i settori più vitali della nostra ricostruzione, aumentano enormemente i costi del credito rialzando i costi di produzione ed i prezzi.

Ciò parrebbe provato dalla crescente tensione al rialzo che è registrata da tutti gli indici, contrariamente a quel che ha sostenuto stamane l’onorevole Quarello. In ogni caso questa ascesa dei prezzi dimostra un accentuato dinamismo delle forze inflazioniste che sfuggono alla manovra finanziaria.

Onorevoli colleghi, da quando si è costituito un Gabinetto omogeneo, da quando si è istituito l’ufficio di coordinatore dei vari Dicasteri economici, noi non sappiamo più capire chi sia veramente che conduce la nostra finanza: se il Tesoro, se la Banca d’Italia o il Commercio estero.

Dall’onorevole Einaudi noi vorremmo sapere a quale indirizzo obbedisce la nostra politica valutaria. Noi non abbiamo avuto delle spiegazioni a questo riguardo ieri dal Ministro Merzagora. Quello che noi vediamo è che il Ministro Merzagora, da quel valente uomo di affari che è, considerandosi un tecnico applicato alle esportazioni, si dà a tutt’uomo a favorire gli esportatori, incurante degli strattoni che dà in questo modo alla nostra vacillante moneta.

Io mi soffermerò un po’ sulla nostra politica valutaria, perché considero che essa sia veramente al centro di tutti i nostri mali attuali.

Il Ministro Merzagora si è dimostrato uno dei Ministri più dinamici di questo Gabinetto ed a lui dobbiamo tutta una serie di innovazioni: la modifica del tasso ufficiale del cambio, le varianti introdotte nel sistema del cinquanta per cento di valuta, la reintroduzione ufficiale, direi, del franco-valuta e delle lavorazioni per conto, sistemi che erano già stati accantonati per i disastrosi risultati che avevano dato. A lui, disgraziatamente, non a lui in quanto persona, ma alla politica che è stata svolta in questi mesi dal Commercio estero, dobbiamo anche il depauperamento totale delle nostre scorte valutarie in dollari.

Abbiamo appreso dai giornali, onorevoli colleghi, che si sono dovute disdire le importazioni di carbone, così che noi avremo per i prossimi mesi soltanto un anticipo sui rifornimenti post-U.N.R.R.A. gratuiti, e pare addirittura che ci si trovi in serie difficoltà per assicurare semplicemente il pagamento dei noli nell’effettuare il trasporto di questo carbone.

Il Ministro Merzagora ha pronunciato ieri un discorso politico fortemente polemico, nonostante tutto il garbo e certa levità delle sue espressioni. Noi ci attendavamo qualcos’altro, che ci desse, come piuttosto gli competeva di fare, la spiegazione su un piano tecnico del perché si insiste in un sistema carico di vizi.

È comodo, signor Ministro, addurre le responsabilità del tripartito. Il tripartito certo ha le spalle grosse. Ma che forse non è sempre stato questo, nei Governi precedenti, il punto di massima divergenza nostra col Partito democristiano e con il Governatore della Banca d’Italia?

Ministro Merzagora, noi avremmo voluto capire perché si è portato il dollaro, per esempio, a 350. Per quello che io so, il Ministro del Commercio estero aveva chiesto di portarlo a 450. Poi si è contrattato: «è troppo, allora potrebbe essere 400, via, fissiamolo a 350»! Questo vuol dire che nessun criterio è stato preso a base della determinazione del nuovo tasso.

Accorciare le distanze, si dice. Ma che cosa significa? Accorciare delle distanze che sono andate continuamente aumentando proprio per effetto di questo sistema, che è venuto spostando incessantemente la quotazione libera del dollaro! Ridate corso alle importazioni di lana e di cotone, e voi vedrete dove può avanzare la valuta libera. Col sistema vigente, questa modifica del tasso di cambio, che non aveva nessuna ragione di farsi come misura isolata, non rappresenta affatto un adeguamento della quota effettiva. Essa si è tradotta puramente in un premio contingente agli esportatori.

Il Ministro Merzagora non ha saputo spiegare la ragione di una serie di circolari, che il suo Ministero ha emanato, sulla base delle quali è stata variata la quota di disponibilità che gli esportatori hanno sulla valuta ricavata dalle esportazioni; perché si sia differenziata nei confronti dei lanieri e di altre categorie; così che oggi egli si trova investito da tutte le parti, dagli alimentaristi, dai setaioli, da ogni categoria che comincia invariabilmente in partenza col chiedere il cento per cento, per poi transare, chi sul 75, chi sull’80, chi sul 90 per cento. Così si creano i cosiddetti cambi multipli. A questo modo – già è stato detto, ma è il caso che lo ripeta e vi insista – è stata compromessa una delle convenzioni più interessanti e più giovevoli alla nostra economia, che la nostra missione in America aveva potuto concordare. La così detta «certificazione dei cambi» da parte degli Stati Uniti è andata a monte. Che cosa è questa certificazione dei cambi?

È cosa molto semplice. Si trattava di ottenere che gli americani applicassero i dazi doganali ad valorem sulla base non del cambio ufficiale, ma del cambio medio. Avviene che quando i nostri esportatori introducono in America una merce del valore di 450 o 500 lire, per essi quel 450-500 rappresenta un dollaro, poiché tale è il cambio medio del dollaro in Italia; per gli americani rappresenta invece, alla stregua del cambio ufficiale, due dollari, i diritti doganali sono, quindi applicati su due dollari. È stato valutato da esperti americani, i quali hanno un certo occhio in queste valutazioni, che con la mancata certificazione di cambio noi possiamo scapitare di un centinaio di milioni di dollari per maggiori esportazioni che potremo fare.

Questi cambi multipli cullano nell’inerzia i nostri industriali, i quali si guardano bene dal limare i costi, o ridurre i propri profitti; sotto questo aspetto, quindi, possono ritorcersi alla lunga in un danno alla nostra esportazione. Con questa moltiplicazione dei cambi non è più possibile seguire la effettiva, reale ragione di scambio nel commercio con l’estero.

Si vuol dar nome di conti valutari a questi trattamenti privilegiati, ma ciò è assolutamente improprio. I conti valutari dovrebbero assicurare all’esportatore italiano il reintegro della valuta necessaria per coprire esattamente quel tanto che costa la materia prima, che egli deve importare.

Per applicare correttamente questo sistema, occorrerebbe avere dei controlli, occorrerebbe sapere, per esempio, quanto di lana un fabbricante mette nel tessuto che produce: se ne mette il 50, il 20 o il 5 per cento. Quindi, nel caso dei provvedimenti adottati non si può proprio parlare di conti valutari, poiché si tratta piuttosto di «forfetizzazioni» grossolane, e quindi semplicemente di ritocchi, per chiamarli con questo eufemismo, del sistema del cinquanta per cento di valuta libera.

Anche per quanto concerne il franco-valuta e la lavorazione per conto, il Ministro Merzagora avrebbe dovuto darci delle giustificazioni. Perché, ad un certo punto, nel gennaio scorso, questi sistemi furono abbandonati? Perché si ristabiliscono oggi? Non vale addurre delle ragioni generali, ossia la opportunità di rastrellare la valuta trafugata. Il fatto è che il franco-valuta, quando mancano mezzi di controllo efficaci, si risolve in un nuovo incentivo alla fuga di valuta, in un incentivo a quella tale sotto fatturazione, che è il grande male del nostro commercio estero: i nostri esportatori fatturano per dieci il valore della merce che essi esportano e che è 50 o 100, per accantonare valuta all’estero.

Si favorisce e si incrementa il commercio delle valute e tutti sappiamo come e dove si fa il commercio dei falsi attestati di credito che vengono a testificare che, per esempio, un tizio, prima del marzo 1946, aveva presso una banca svizzera un certo credito. Gli effetti di questo sistema vengono scontati dal consumatore, che paga prezzi più elevati per i prodotti che vengono importati, perché si cerca di sfruttare al massimo quella valuta, e di attingere quei cambi stellari che si sono già toccati in passato: 5000 o 8000 lire sul dollaro, introducendo magari delle penne stilografiche o altri beni voluttuari.

Il Ministro Merzagora ci ha piuttosto confermato quale sia l’empirismo e l’arbitrio che impera sul nostro commercio con l’estero. Egli ha citato delle cifre che dovrebbero farci rabbrividire: domande di licenza per decine e decine di migliaia. Sappiamo benissimo che soltanto una piccolissima parte di queste domande può essere evasa, e solo una parte delle domande accolte va poi a buon fine, ossia è utilizzata. Sappiamo quale commercio si faccia di queste licenze.

Quello che noi avremmo potuto domandare all’onorevole Presidente del Consiglio nel momento in cui si è costituito questo Governo, lo potremmo domandare ancora in questo momento: perché cessata la ragione di bilanciare la posizione dei socialisti all’industria, si è tenuto ancora in piedi il Ministero del commercio estero. Tutti voi sapete, onorevoli colleghi, come questo Ministero sia nato; fu per cavarsi da un imbarazzo nella distribuzione dei portafogli tra tanti partiti che partecipavano al Governo, che si pensò a un certo momento di dar vita ad un Ministero staccato. Naturalmente, istituito il Ministero, esso poi ha cercato di giustificare la sua funzione moltiplicandosi nei propri organi. In che modo? Tagliando sempre più nettamente quei rapporti che dovrebbero avere l’Amministrazione del commercio estero col Tesoro e soprattutto con l’Amministrazione dell’industria e del commercio interno. Ne è derivata questa informe struttura che ogni giorno di più aggrava i suoi difetti e aumenta i danni che si ripercuotono nella nostra economia.

Su una questione, già propostagli dall’onorevole Nenni, il Ministro Merzagora, mi permetta di farglielo amichevolmente osservare, se l’è cavata troppo alla spiccia. Egli ha detto che per i setaioli non si è fatto nulla di straordinario, ma quello che si è sempre usato fare in questi casi. No, egregio Ministro, qui si tratta di una misura di vero e proprio protezionismo, sulla quale io richiamo l’attenzione dell’onorevole Einaudi, patrono già, ai bei tempi, dell’industria della seta, che combatteva allora una strenua lotta contro i protezionisti. Vi faccio osservare che i setaioli non sono i contadini che coltivano il filugello… (Interruzioni al centro), ma sono gli industriali della seta, i filandieri, che hanno accumulato guadagni, dirò per lo meno ingenti, in questi ultimi tempi e costituiscono una delle categorie più arretrate della nostra industria. Essi hanno dichiarato, uno di questi giorni, che non erano più disposti a cedere, a condizione di favore, una parte di valuta allo Stato. Vedete quale inversione si verifichi nella logica di questo sistema del 50 per cento che, come è stato già ricordato, era stato adottato per ragioni eccezionali e contingenti. Gli industriali considerano che questo 50 per cento non sia già una facilitazione concessa loro, ma invece una condizione di favore che essi fanno allo Stato e non ne vogliono più sapere.

Con gli accordi stipulati dal Ministro Merzagora, i setaioli potranno intraprendere delle operazioni di compensazione, ma noi vorremmo sapere a quali prezzi saranno venduti sul mercato interno i prodotti che essi importeranno, perché evidentemente essi intendono di coprirsi di quel margine che dicono mancare loro nella produzione.

Insomma, ci si è solo preoccupati di favorire l’esportazione, anzi di favorire gli esportatori, quando invece la preoccupazione maggiore avrebbe dovuto essere quella di servire le importazioni essenziali, come il carbone ed il grano, per le quali oggi ci troviamo repentinamente in disperate difficoltà. Certo, in questo entra per la sua parte l’inconvertibilità del fondo sterline che noi avevamo a disposizione, ma questo non diminuisce le responsabilità nei confronti di un uso così poco oculato delle risorse ih dollari.

Veramente, ci si deve chiedere se a questo modo non si vuole deliberatamente mettere il Paese alla mercé di chi lo deve aiutare a campare.

La prima misura che noi consideriamo essere necessario e urgente a prendere è il controllo integrale della valuta, e questo anche se si avesse in vista di passare domani a forme libere di scambio.

Io vorrei invitare l’onorevole Presidente del Consiglio a sentire il parere dei migliori funzionari ed esperti del Commercio estero e dell’Ufficio dei cambi. Essi sono tutti concordi nel ritenere che non sia più possibile procedere con i sistemi in uso, e che non è per queste vie tortuose che noi possiamo tendere all’allineamento dei prezzi interni a quelli dei mercati internazionali.

Così, la politica valutaria che si è fatta e la prassi che si è seguita al Commercio estero sono, a parer mio, la ragione prima dell’inflazione, perché per questa via si caricano sui prezzi interni i premi accordati indirettamente agli esportatori, che pesano come vere e proprie tasse sull’importazione; si favorisce l’accumulazione di scorte a prezzi elevati (che domani naturalmente resisteranno ad ogni inversione di congiuntura); si favorisce la introduzione di beni superflui sui quali è possibile spuntare i cambi più alti; si incita, infine, come ho detto, alla fuga della valuta.

Onorevoli colleghi, questa è la grande operosa centrale inflazionistica in seno al Gabinetto. Ma un’altra centrale di inflazione è rappresentata dalla regolamentazione ufficiale dei prezzi, sia dei servizi che dei prodotti bloccati. Ci si è dati ad una corsa sfrenata negli aumenti dei servizi (ferrovie, imposte), mentre avrebbero dovuto essere più ragionevolmente contenuti, non considerando che in questo modo si dava una spinta materiale e psicologica all’ascesa di tutti i prezzi. Si sono inforcati i trampoli, onorevole Einaudi, del protezionismo più acceso a favore dei siderurgici e degli zuccherieri, quelli che una volta ella chiamava i trivellatori della nostra economia. Io sfido qualsiasi tecnico a dimostrare la necessità dei recenti aumenti accordati alla siderurgia, dopo che molto rilevanti erano stati quelli deliberati soltanto pochi mesi prima.

Che meraviglia dunque, onorevoli colleghi, se con questo andazzo, e col formarsi, per giunta, di una borsa nera del denaro, per effetto delle restrizioni creditizie, gli indici dei prezzi alla produzione segnino impressionanti aumenti i quali si moltiplicano attraverso ogni sorta di mediatorati e di bagarinaggi ripercotendosi sui prezzi al minuto? Gli indici segnano un aumento a progressione accelerata, poiché, se riscontriamo nel primo trimestre, da gennaio a marzo, un aumentò di 152 punti, noi vediamo che nel trimestre successivo si ha un nuovo scarto di 864 punti ed un nuovo balzo all’insù si riscontra all’inizio di questo mese. Cosicché dalla fine di marzo ai primi di settembre sono (stando ai calcoli del professor Livi) 1886 punti che incrementano l’indice dei prezzi all’ingrosso.

Ogni azione è mancata da parte del Governo per infrenare questa ascesa dei prezzi. Che cosa si può fare? Siamo sempre daccapo. È una questione che è stata trattata infinite volte già davanti a questa Assemblea e al Consiglio dei Ministri. Ad un dato momento ci si era trovati però d’accordo su qualche punto: la necessità di provvedere ad importazione in massa di derrate alimentari da gettare sul mercato. Ma non proponendosi di farlo, così come si espresse il collega Quarello stamane, «nei limiti del possibile». No, questo deve essere un obiettivo preciso dell’azione del Governo. E mentre oggi il Ministro Merzagora non ha più un dollaro da spendere, e affida le importazioni di grassi alle onerose compensazioni dei setaioli, io dico che si sarebbero dovuti coprire a tutti i costi i contingenti assegnatici, assicurandone la importazione in vista di agire sul mercato interno. Ci si era trovati d’accordo anche su un altro punto.

La necessità di intensificare l’azione per l’approvvigionamento diretto dei grandi centri urbani, che agiscono da pompa aspirante sulla campagna; assicurare un rifornimento il più largo possibile dei centri cittadini, vuol dire poter dominare in un primo tempo e poi poter comprimere l’andamento generale dei prezzi. Noi dobbiamo bene da qualche parte agganciare questa situazione che è caratterizzata da una fondamentale carenza di beni, la quale viene esasperata dalla grande facilità che ha la speculazione ad innestarsi nel processo distributivo.

Degli enti comunali di consumo non ho il coraggio di parlare, perché non so da quanto tempo si dice che questi enti stanno per essere messi in grado di agire, e pure da tutti si riconosce che essi potrebbero essere un mezzo efficace di calmierazione. Ma nulla di serio finora è stato fatto per questo. Ci si era trovati anche d’accordo su una certa disciplina dei mercati e dei magazzini generali, e qui non vi può essere questione di divario ideologico; si tratta semplicemente di volontà di fare.

Noi ci troviamo, onorevoli colleghi, nel viluppo di una politica vincolista a rovescio, intesa a rincorrere gli interessi delle diverse categorie, le quali trovano il patrocinio da parte dei singoli Dicasteri e si determinano, in questo modo, le sfasature più gravi per il nostro sistema produttivo.

Attendiamo di ascoltare l’esposizione del Ministro dell’agricoltura. Ma io non vedo che fino ad oggi si sia fatto qualche cosa di utile e di serio per dare un orientamento ai produttori; all’opposto, si sono aumentate le incognite.

Nell’industria la situazione è anche più grave. Vi sono situazioni pericolosamente stagnanti. Un intero vitale settore, quello dell’industria meccanica e cantieristica, è andato in questi mesi sprofondando nel marasma per l’inazione governativa.

È stato di recente approvato dal Consiglio dei Ministri in gran furia, con la formula della massima urgenza – per quanto da molto tempo esso fosse allo studio e in preparazione – un provvedimento a favore dell’industria meccanica. Riconosco che esso potrebbe giovare ad equilibrare certi effetti più nocivi della deflazione creditizia: tutto dipenderà, però, da come sarà applicato, da come questo strumento sarà usato, se si preleverà su questi stanziamenti la congrua parte per l’industria di Stato, se si sarà più o meno rigorosi nell’assumere le garanzie, che dovrebbero essere rappresentate soprattutto da programmi ragionevoli di produzione, non soltanto da titoli che possono anche ridursi a pezzi di carta.

Se non ci si varrà di questo mezzo per assicurare a determinate aziende troppa comodità nel coprire aumenti di capitale, che esse forse non sarebbero in grado di collocare sul mercato. Non c’è bisogno che io faccia dei riferimenti circostanziati: tutti sanno in quali difficoltà oggi si dibattano alcune delle nostre più grosse aziende meccaniche private.

E, per quello che riguarda il merito di questo provvedimento, osservo che esso si origina da un progetto di portata più vasta e generale che era stato studiato allorché si pensò di mettere il fermo a un certo sistema seguito in passato nell’erogare questi prestiti. Ma il provvedimento in discorso limita di molto le garanzie che lo Stato può esigere. Fra l’altro, abbiamo visto che possono essere assunte azioni senza diritto di voto, ciò che rappresenta un titolo di garanzia che può in pratica svanire molto facilmente.

Questo provvedimento taglia fuori, nel suo congegno di applicazione, l’I.R.I.; mentre quello che era stato messo allo studio nel passato Governo, che si riferiva all’industria tutta nel suo insieme, prevedeva, proprio per il settore meccanico, il funzionamento di una commissione mista di rappresentanti dell’I.R.I. e dell’I.M.I., ad evitare che si potesse comunque svolgere – in presente o in avvenire – un’azione rivolta allo svuotamento dell’I.R.I. attraverso le garanzie assunte dall’I.M.I.

È singolare anche un altro aspetto di questo provvedimento: il fatto che siano investiti di facoltà deliberativa dei funzionari e degli esperti, mentre risultano completamente tagliati fuori i Ministri responsabili. Si tratta di un comitato composto di tre esperti estranei all’amministrazione e di quattro direttori generali di diversi Ministeri i quali decidono, mentre ai signori Ministri non resterà che da apporre la firma sotto la decisione presa da costoro.

EINAUDI, Ministro del bilancio. Perché la firma?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. No, neanche la firma.

MORANDI. Tanto meglio, se ne avete per lo meno nella forma salvaguardata la dignità.

In connessione a questa situazione dell’industria meccanico-cantieristica, anzi al centro di essa, sta la situazione pazzesca dell’I.R.I.

Onorevoli colleghi, da quanto tempo noi, in ogni occasione che si presenta di discutere di questioni economiche, ricadiamo a parlare dell’I.R.I.! È venuta però l’ora per il Governo di provvedere ed esso deve assumere tutte le responsabilità che gli competono di fronte alla situazione che si è venuta a creare.

L’I.R.I. è un istituto che ha un patrimonio valutato ad oltre cento miliardi – la valutazione più recente si aggira sui 120-130 miliardi – e che non ha fondi di cassa, che non riesce più ad assicurare le paghe ai suoi dipendenti. Esso ha già dovuto richiedere all’I.M.I., prima ancora che il decreto fosse pubblicato, anticipazioni su questo fondo di 55 miliardi, allo scopo di pagare i salari; ed è ridotto a campare su un giro interno di cambiali e di sconti fra le diverse aziende e le aziende e le Banche, con degli aggravi spaventosi nelle spese di gestione. E in queste condizioni l’I.R.I. continua ad essere ostinatamente ignorato dal Governo.

Noi abbiamo sentito come si è espresso di recente il Ministro del tesoro: l’I.R.I., a parer suo, è un problema risolto, dopo che si è provveduto a nominarvi un Commissario. Infatti nel mese di giugno, mentre nel precedente Governo si era arrivati a fissare un certo orientamento per la riorganizzazione dell’istituto e si trattava semplicemente di passare alla realizzazione di quel programma; a giugno, dico, tutte queste cose sono state lasciate cadere, e si è addivenuto alla nomina di un Commissario. Il Commissario non ha tardato a presentare la sua relazione al Governo fin dai primi di luglio. Ma il Governo, per quello che mi consta, fino ad oggi non v’ha dato risposta.

Intanto si presentano delle situazioni aziendali che arrivano veramente allo spasimo, come è la situazione dell’«Ansaldo». Così si possono pregiudicare, definitivamente forse, le sorti del settore più interessante e promettente della nostra economia industriale, anche se si tratta di quello dove più gravi sono gli oneri della riconversione. È sullo sviluppo della nostra industria meccanica che si fonda l’avvenire del nostro sistema industriale, e questa trascuranza da parte del Governo è cosa che veramente non si sa in che termini deplorare.

Io direi che il Governo – qualunque sia la composizione, il suo colore – è sempre in dovere di tutelare gli interessi dello Stato; e qui non è questione di seguire una ideologia liberalista o collettivista. Non si può chiudere gli occhi alla realtà delle cose, che è rappresentata – come prima dicevo – dall’estensione che ha avuto il settore pubblico della nostra economia. Non è lecito dilapidare in questo modo un patrimonio di ricchezza e di lavoro che è dello Stato, che è della collettività.

Ed è veramente inconcepibile, onorevole Einaudi, onorevole Togni, il disordine che è cresciuto nell’amministrazione di questi beni dello Stato: i conflitti che si sviluppano in seno all’I.R.I., tra le banche e le industrie dell’I.R.I., tra la Finsider, raggruppamento siderurgico dell’I.R.I., e le aziende meccaniche dell’I.R.I.

È scandaloso il mancato coordinamento e le collisioni che si verificano oggi fra 1’I.R.I, 1’I.M.I. e la Banca d’Italia. Un tale assurdo stato di conflitto, che si è acutizzato sempre più in questi mesi, dobbiamo ben domandarci dove ci porterà.

È in ogni modo uno stato di cose che dimostra – a parer mio – una cosa molto semplice: che questo Governo amministra male!

Onorevoli colleghi, voglio rilevare che una tale situazione è tanto più pericolosa in quanto mai, come dalla costituzione di questo Governo, è stata così grande la possibilità di influenza e di comando dei gruppi e degli aggregati capitalistici. Essi hanno trovato la via libera in tutti gli organismi dell’amministrazione, anche in quelli che sono più vicini alla Presidenza del Consiglio, e vi hanno annidato i loro uomini. Sono essi che tirano i fili dei molti Comitati e delle troppe Commissioni, sono essi che spadroneggiano negli uffici come non mai! Lo Stato abdica alla condotta della siderurgia e cede ai ricatti di questi gruppi: ha uno strumento possente per dominare, e sono le aziende siderurgiche dell’I.R.I.; ma i consorzi di approvvigionamento che si chiamano Campsider, Camfond… questi, onorevoli colleghi, sono nelle mani di agenti dell’industria privata!

E avrei voluto citare a questo punto la tracotanza dei nostri armatori, ma sono rimasto sconcertato dalle spiegazioni che il Ministro Cappa è stato un momento fa così sollecito a dare all’onorevole Aldisio.

Già, lo sappiamo come sono messi a profitto i dollari ricavati dai noli, che questi armatori dicono dovrebbero servire al pagamento delle navi che sono state loro assegnate! Quando invece, le navi Liberty sono state cedute dall’America, con pagamento ventennale a un tasso molto basso (il 2% per cento mi pare) e tutti sanno che i nostri armatori, dopo un anno e mezzo o due anni di corsa sono in grado pagarle per intero, o di comprarsi un’altra nave che possa magari viaggiare sotto bandiera straniera.

È uno scandalo questo, e non lo diciamo noi per fare della demagogia, ma lo dicono i vostri consiglieri aulici, gli addetti americani. Voi lo sapete benissimo, voi che siete al Governo, che avete contatti continui con queste persone, voi sapete che se un rimprovero ci si fa da parte del Dipartimento di Stato americano è lo sperpero della valuta ed il protezionismo folle che noi accordiamo agli armatori. Non meravigliamoci, poi, che questa gente possa foraggiare così abbondantemente i giornali, in vista di influire sull’opinione pubblica. (Applausi a sinistra).

In verità, mai come in questo Governo omogeneo e tecnico si è riscontrato una mancanza di coordinamento ed una contraddittorietà più grande nell’azione di Governo. A chi si connette, onorevole Presidente del Consiglio, la nostra Delegazione a Parigi? Noi sappiamo di un conflitto con la burocrazia del Ministero degli esteri. Noi sappiamo che la burocrazia del Ministero degli esteri si affatica a mettere su un suo piccolo C.I.R. in contrapposto al grande C.I.R. Intanto i Dicasteri vanno ognuno per conto suo e la Banca d’Italia tende ad obiettivi suoi propri, trapassando di forza tutti i diaframmi ministeriali.

Questo è un quadro a tinte molto attenuate della nostra situazione, dei risultati che ha dato in pochissimi mesi la politica di questo Governo. Io voglio tacere delle prospettive che ci si aprono… Ma un’analisi come questa, l’analisi dei fatti, non scopre tutta la portata del male. È qualche cosa che si avvicina ad una vera e propria disintegrazione dello Stato. È una società che minaccia di essere smagliata attraverso l’esasperazione di tutti i contrasti e conflitti di interessi, attraverso la cieca politica di parte che si fa.

È una situazione dalla quale bisogna al più presto uscire, perché essa potrebbe originare un grave processo degenerativo tale da compromettere l’attività vitale del nostro Paese.

Onorevoli colleghi, tiriamo le somme ed io arrivo alla conclusione.

Che cosa imputiamo noi a questo Governo?

Gli imputiamo:

di avere in questi quattro mesi enormemente aggravato la nostra situazione economica e finanziaria, rinunziando ad ogni azione sistematica per fronteggiare l’inflazione;

di avere svolto azione contradittoria e incoerente nei settori della politica creditizia, valutaria e dei prezzi, causando così sofferenze inutili, esasperando i vizi di un sistema che è da abbandonare, inserendo spinte dirette all’ascesa dei prezzi;

di non aver sentito l’imperativo di tutelare il patrimonio economico del Paese, rinunciando ad esigere anche un minimo di disciplina, dalla popolazione; mettendo in crisi una struttura nostra peculiare come è l’I.R.I.; riducendosi, come oggi avviene, a mendicare il carbone dall’America; accettando uno stato di minorità e di sudditanza col fatalismo con cui si esprimeva ieri il Ministro del commercio;

di essere sordo ai patimenti e all’accresciute sofferenze delle categorie lavoratrici, e proni invece alla prepotenza del capitale (Applausi a sinistra); di favorire l’invadenza dei gruppi affaristici; di respingere la volontà manifestata dai lavoratori di collaborare alla soluzione dei problemi più ardui della produzione (ricordo all’onorevole Togni certe promesse per i Consigli di gestione…); di avere accettato delle condizioni – se non si vogliono chiamare ricatti – dalle associazioni padronali (ancora intendo riferirmi ai Consigli di gestione); di praticare il liberismo dove si richiederebbe un controllo, e il vincolismo dove la libertà dei rapporti potrebbe giovare ai consumatori.

Onorevoli colleghi, in questo rovinio noi pensiamo che sia urgente raggiungere delle posizioni di sicurezza: semplicemente questo. Intendiamoci, noi restiamo convinti che non è con mezzi di ripiego, né con espedienti che si risolvono i grandi problemi della ricostruzione. Soltanto una impostazione di larghe vedute, una impostazione di essi che corrisponda alle esigenze dei tempi mutati ed affronti arditamente l’esigenza di profonde riforme e profonde innovazioni strutturali, ci può schiudere nuovamente la via del progresso.

E qui dirò, a questo proposito, che noi dobbiamo fieramente protestare contro il modo che si usa oggi dai sostenitori del Governo e perfino dalla stessa Democrazia cristiana, di scaricare sul tripartito la responsabilità di non avere affrontato questi problemi, di non avere recato in atto mai una politica organica, quando invece questo fu lo sforzo costante e tenace dei partiti di minoranza al Governo, tagliati fuori come erano da certi posti di comando o tallonati in modo da elidere le loro forze. Del resto, quale ragione ebbe la crisi di aprile, se non la deliberata volontà della Democrazia cristiana di sottrarsi a questa pressione?

Ormai noi consideriamo che sul conto di questi problemi si debba pronunciare il popolo nelle prossime elezioni; e non è nelle condizioni in cui versiamo, in questo scorcio di vita dell’Assemblea Costituente, in un’ora conturbata da così accesi contrasti, che questo tema delle grandi riforme strutturali si pone per noi.

L’onorevole Saragat ha espresso al riguardo un suo punto di vista diverso dal nostro. Prendendo le distanze dall’estrema sinistra – da socialisti e comunisti – egli ha offerto alla Democrazia cristiana i buoni uffici di qualche provetto pianificatore. Anche questa è un’idea, che presumo troverà però degli intoppi per realizzarsi negli interessi e nella volontà della Democrazia cristiana. Passare di punto in bianco alla pianificazione, è una bella idea, bellissima anzi per noi socialisti, ma l’onorevole Saragat dovrebbe sapere, che disgraziatamente con lo schieramento attuale delle forze politiche, dopo la rottura causata dall’impennata della Democrazia cristiana ad aprile, questo è possibile solo nella esatta misura, in cui il compito di pianificare è stato proposto a quella specie di accademia bizantina, la quale vi può lavorare attorno vent’anni prima di concludere qualcosa.

Da qui alle elezioni, dalle quali faremo tutto il possibile perché ci vengano suffragi bastevoli a darci la forza necessaria a recare in atto un’economia programmata; da qui a primavera noi ci appaghiamo di mettere il Paese al riparo dall’inflazione, di salvare i lavoratori dalle miserie e dalla desolazione che essa seminerebbe.

Gli obiettivi del momento tutti si concentrano in questo programma fondamentale: consolidare i salari reali, per spezzare la spirale dei prezzi e salari. Ed io penso che, dopo tanto discutere, e con tanto scetticismo che si è radicato nella popolazione, la questione sia di cercare un valido punto di attacco. Questo può essere rappresentato da un mutamento radicale della nostra politica valutaria.

È questa, io ritengo, la via più diretta che oggi noi si possa tenere, e l’azione più pronta che si possa svolgere, per la difesa dei salari e della moneta.

Il controllo integrale della valuta e una opportuna manovra degli scambi è il mezzo più efficace per spezzare le reni alla speculazione, ed influire beneficamente sui prezzi. Questa azione deve essere rincalzata da uno sforzo serio di regolamentazione dei settori più facilmente manovrabili della produzione e del consumo, attraverso soprattutto un indirizzo, che deve essere segnato agli investimenti ed al credito.

Bisogna poi applicarsi con energia estrema e con il massimo impegno nell’azione fiscale. Noi, onorevole Pella, la vorremmo più dura.

È necessario, poi, intraprendere un’azione diretta sull’andamento dei prezzi delle derrate alimentari e dei generi di più largo consumo.

Non si può differire più la riorganizzazione dell’I.R.I., che è uno strumento di importanza capitale per un Governo che voglia sviluppare una politica economica.

Si deve assicurare allo Stato la partecipazione fattiva dei lavoratori, perché lo sforzo che ci si impone non può essere superato con i mezzi comuni dell’amministrazione.

Ma – se a questo si possono ridurre le esigenze imperiose del momento – io mi domando: sono queste, cose che possa fare l’attuale Governo?

La nostra risposta la conoscete già: no, nettamente no! Questo Governo ha già fallito – e non poteva non fallire – nel compito di difendere la moneta, perché si è estraniato dal popolo e dalle categorie lavoratrici per operare sotto la suggestione di quelle esigue minoranze che il Presidente del Consiglio, non io, ha battezzato efficacemente come il «quarto governo».

Non è questo un Governo che possa più raddrizzare il corso pericoloso della politica svolta fin qui. Lo potrà fare solo un nuovo Governo che riscuota la fiducia dei ceti popolari e che sia in grado di determinare, prima di ogni altra cosa, una benefica distensione politica come premessa all’azione di difesa e di consolidamento della nostra economia;

la fiducia di chi dovrà sempre, in definitiva, sopportare i sacrifici maggiori e gli oneri più gravi;

la fiducia di chi conserva l’orgoglio della sua terra e del proprio lavoro, e non di chi ha spirito rinunciatario. (Vivi applausi a sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’industria e commercio. Ne ha facoltà.

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Molto si è parlato e molto si è criticato circa l’andamento dei prezzi, troppo spesso in funzione polemica, esaminando il fenomeno nei suoi aspetti puramente apparenti e superficiali, omettendo di valutarlo con quel senso di doveroso realismo che, al disopra e al difuori di ogni concezione o posizione politica, deve essere tenuto presente nell’apprezzamento di così rilevanti e vasti fenomeni economici.

Infatti, l’aumento dei prezzi in Italia non è che un aspetto particolare di un fenomeno generale che in questo dopoguerra si è manifestato, può dirsi, nel mondo intero.

Negli stessi Stati Uniti d’America, dove la produzione industriale ha raggiunto nel 1946-1947 livelli assai prossimi a quelli massimi del periodo .bellico, l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 144 pel luglio 1946 a 163 nel dicembre dello stesso anno, e a 170 nel maggio del 1947.

In Francia l’indice dei prezzi all’ingrosso è passato da 648, media annuale del 1946, a 946 nel maggio 1947, e continua a salire, fatto cento il 1939.

Negli altri paesi il fenomeno è meno accentuato, ma la tendenza all’aumento è comune.

In Italia, su uno sfondo determinato dalla situazione mondiale, si sono inseriti fattori locali che hanno esasperato il fenomeno. È principio universalmente accettato che vige una ferrea interdipendenza fra i prezzi della massa dei prodotti disponibili sul mercato ed il volume della circolazione, con cui i primi si devono scambiare. Se la circolazione aumenta e a tale aumento, come nel nostro caso, non corrisponde un’adeguata maggiore produzione, i prezzi fatalmente si elevano.

Fra i fattori che in concomitanza con l’aumento della circolazione hanno contribuito all’aumento dei livelli dei prezzi, sono da annoverare essenzialmente: l’insufficiente incremento della produzione, collegato anche ad una scarsa produttività del lavoro; la speculazione, la cui esistenza sarebbe assurdo negare; l’inasprimento di un livello dei cambi nella scorsa primavera e di cui si risentono gli effetti con qualche mese di ritardo in relazione al periodo di tempo richiesto dal ciclo produttivo; l’adozione della scala mobile che opera in una sola direzione e consolida aumenti, che in condizioni normali potrebbero essere riassorbiti dalla dinamica del mercato.

L’aumento dei prezzi non ha certo inizio dal giugno 1947. A partire dall’estate del 1946, infatti, dopo un periodo di stasi, i prezzi riprendevano il movimento di ascesa, con ritmo dapprima moderato, poi, via via, più veloce, come dimostra l’indice dei prezzi all’ingrosso calcolato dall’istituto centrale di statistica, che ha avuto il seguente andamento: settembre 1946, 3.011; ottobre 3.176; novembre 3.376; dicembre 3.677; gennaio 1947, 3.754; febbraio 3.891; marzo 4.139. Onorevole Morandi, ascolti anche l’indice di aprile e quello di maggio che lei ha dimenticato di ricordare nel suo discorso: aprile 4.533; maggio 5.203; giugno 5.329; luglio 5.779. (Interruzione del deputato Morandi); agosto 5876. Dal settembre 1946, quindi, l’indice ha subito un aumento di quasi il 95 per cento. Ma è da rilevare che il 78 per cento di questo aumento si era già verificato fin dal giugno del 1947. (Approvazioni al centro).

Per l’indice del costo della vita per la sola voce alimentazione, l’aumento dell’agosto 1947 rispetto al settembre 1946 è dell’82 per cento, ma nel giugno si era già al 70 per cento.

MORANDI. Perché non prende gli altri mesi del 1947?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Non si sono ancora calcolati gli indici per tutto il mese di settembre, ma gli indici decadali dei principali generi alimentari, calcolati dall’Istituto centrale di statistica, mostrano per le ultime decadi calcolate una stazionarietà per i prezzi legali di mercato libero, ed una lieve diminuzione dei prezzi del mercato nero dovuta essenzialmente al ribasso dei prezzi dell’olio e dello zucchero. (Commenti a sinistra).

Inoltre un esame degli indici dei prezzi all’ingrosso ufficiali ed effettivi dei mesi di luglio e agosto (qui bisogna distinguere i tre prezzi calcolati dall’Istituto di statistica, il quale calcola il primo indice sui prezzi bloccati, il secondo indice così detto dei prezzi effettivi in base agli altri prezzi liberi perché non bloccati, il terzo indice è quello del cosiddetto mercato nero, vale a dire dei prezzi bloccati e che sono soggetti alla regolamentazione) mostra una tendenza che non si può essere autorizzati ad interpretare come un miglioramento, ma che potrebbe costituire il presupposto di una posizione più riflessiva che può preludere anche ad inversione del fenomeno.

Difatti il rallentamento dei movimenti di ascesa degli indici dei prezzi ufficiali all’ingrosso palesatosi nel mese di giugno ha avuto il seguente andamento:

Incremento di giugno rispetto al maggio + 2,90

di luglio rispetto a giugno 43,80;

di agosto rispetto a luglio + 0,9.

L’aumento del mese di luglio rispetto al precedente è dovuto specialmente all’aumento del prezzo ufficiale del grano deciso dal Governo in relazione al voto espresso dal Governo precedente per l’abolizione dei prezzi politici.

Le variazioni percentuali dell’indice dei prezzi ufficiali di categoria nei mesi di luglio ed agosto rispetto ai mesi precedenti sono le seguenti:

materie grezze: luglio, aumento percentuale rispetto a giugno + 19,5; agosto, aumento percentuale rispetto a luglio + 1,2;

materie semi lavorate, luglio + 0,90; agosto + 2;

prodotti lavorati, luglio + 14,5; agosto + 0,1.

Gli incrementi sono quindi decrescenti, fatta eccezione per i semi lavorati per i quali si è verificato un lieve aumento a causa della variazione dei prezzi dei materiali siderurgici.

È difficile affermare – dato anche il breve periodo di tempo esaminato, in quanto non bisogna dimenticare che tre mesi e mezzo di Governo sono pochi, troppo pochi, perché si possa, non dico giudicare i risultati raggiunti sul piano economico, ma anche e semplicemente impostare una critica obiettiva e serena sugli stessi – se questi sintomi possono essere considerati come effetto dell’azione del Governo, anche perché interferiscono in questo periodo cause di carattere stagionale. Tuttavia se si volesse polemizzare si potrebbe affermare che l’impazienza dei critici è veramente eccessiva, perché, indipendentemente da questi sintomi favorevoli, è chiaro che qualsiasi provvedimento, specialmente quando deve operare in un periodo così delicato e in un momento come quello che attraversa il popolo italiano, ha bisogno di un minimo di tempo per divenire operante. L’attuale Governo si è trovato difatti, come del resto tutti i precedenti, nella necessità di dover contemperare le esigenze di carattere economico con quelle di carattere sociale, esigenze che – come è noto – sono il più delle volte contrastanti, ed alle quali non ha inteso, ovviamente, sottrarsi.

Peraltro, quando il Governo ha cercato di porre in qualche modo rimedio al deficit del bilancio aumentando le tariffe ferroviarie e postali e il prezzo dei generi di monopolio e adeguando parzialmente il prezzo del pane – in relazione anche al deliberato del precedente Governo – la stampa di opposizione ha messo il campo a rumore ed ha presentato questi aumenti come causa di ulteriori aumenti.

Se ciò può esser vero, in linea assoluta, non bisogna trascurare in questi problemi il senso della proporzione. È sufficiente, invero, considerare l’incidenza di queste tre voci sui bilanci familiari per convincersi che esse non possono avere influito in misura apprezzabile sull’indice del costo della vita, né possono, quindi, essere state causa di grandi squilibri nel sistema dei prezzi, come si vorrebbe far credere.

Vi è da considerare, inoltre, il fenomeno della speculazione. Non si può negare che il fenomeno della speculazione esiste; ma non si può nemmeno dimenticare che la speculazione – che in condizioni normali è un fenomeno marginale – è in sostanza, ora, la conseguenza e non la causa prima dell’aumento dei prezzi. La speculazione tende a sparire o a restringersi entro certi limiti quando la moneta è stabilizzata e quando la produzione sodisfa le esigenze del mercato. Fino a che il bilancio dello Stato non sarà risanato, sarà difficile parlare in Italia di stabilizzazione; ma condizione prima perché il bilancio possa risanarsi è di avere un periodo di normalizzazione e di stabilità sociale.

Nella situazione attuale è naturale riconoscere che le critiche sono facili e a queste non intendiamo sottrarci, quando, soprattutto, diano un apporto costruttivo. Ma è deplorevole quella critica che sotto l’apparenza tecnica tramuta ì problemi e, inconsciamente o consciamente, confonde in un gioco intricato la causa e l’effetto, come è estremamente facile nel campo economico, disorientando l’opinione pubblica.

È sulle cause prime che bisogna agire e non sui sintomi: e il fenomeno dei prezzi è un sintomo e non una causa e quando si agisce sui sintomi di una malattia la guarigione non è mai immediata, anzi una guarigione che avesse come risultato la scomparsa dei sintomi non sarebbe tale. Facendo questo, ammettendo cioè che un’azione sulla causa prima produce effetto a scadenza relativamente lunga, si ammette implicitamente che l’azione del Governo deve agire anche direttamente sul fenomeno dei prezzi, escogitando rimedi che agiscano il più possibile prontamente su di esso.

Infatti, il Governo ha deciso alcune misure miranti ad istituire un severo controllo dei prezzi. Il Comitato interministeriale ha dovuto affrontare, subito dopo il suo insediamento nella nuova composizione governativa, problemi che o erano rimasti in sospeso, o erano conseguenze di provvedimenti adottati in precedenza o, comunque, erano stati lasciati in eredità a rima obbligata dal precedente Governo. E le questioni da risolvere sono state esaminate con spirito restrittivo, ma obiettivo, non potendosi prolungare oltre uno stato di disagio e un marasma che rendevano inoperante una disciplina ed un controllo dei prezzi.

Abbiamo ritenuto doveroso affrontare alcuni problemi da tempo sospesi che ben sapevamo si sarebbero prestati a facile e superficiale critica, ma che il nostro senso di responsabilità, al di sopra di ogni interesse elettoralistico, ci imponeva di affrontare decisamente e di risolvere decisamente, nell’interesse obiettivo di una sana economia.

Sono ben noti i provvedimenti adottati nel settore agricolo, ed in particolare il parziale adeguamento al prezzo di costo del prezzo del grano, in ottemperanza – come abbiamo già detto – ad una precedente decisione del Governo in materia di prezzi politici. È bene qui ricordare che i prezzi attuali del pane non sono stati ancora allineati con l’effettivo costo del grano del nuovo raccolto e di importazione e che è rimasto a carico del bilancio dello Stato un onere ancora notevolmente elevato, il quale costituisce la preoccupazione del Ministero del tesoro.

In relazione al prezzo delle barbabietole, stabilito nel mese di marzo del corrente anno e degli aumentati costi di lavorazione, è stato fissato il prezzo provvisorio dello zucchero della corrente campagna in lire 155 al chilogrammo. Allo scopo poi di rendere meno gravoso l’aumento per il consumo diretto, il Comitato ha deciso di fissare in lire 120 al chilogrammo il prezzo dello zucchero destinato all’alimentazione mediante tessera, facendo gravare la differenza rispetto al prezzo medio dello zucchero destinato agli usi non soggetti alla disciplina del tesseramento. L’aumento per l’alimentazione mediante tessera è stato perciò di lire 45 al chilogrammo, anziché di lire 80 come sarebbe risultato applicando il prezzo medio generale.

Nel settore dei prodotti industriali, si è dovuto riconoscere, alla metà di giugno del corrente anno, un aumento di lire 1.000 a tonnellata per il carbone di importazione, in relazione alle mutate condizioni di acquisto; aumento che è stato contenuto in lire 500 a tonnellata per il carbone destinato alle officine da gas. In conseguenza di ciò, è stato aggiornato il prezzo del coke, il che ha evitato un aumento del prezzo del gas.

L’aumento del carbone era già maturato fino dal maggio del corrente anno, in relazione al costo dei noli e al nuovo sistema di approvvigionamento del carbone attraverso l’Ente approvvigionamento carboni, sistema questo che richiede un’esposizione di capitali maggiore di quella che si aveva con il sistema delle vendite effettuate dall’Ufficio centrale carboni.

È opportuno ricordare che la valutazione del prezzo dei carboni è stata fatta con il dollaro a 400 lire e che, in una prima fase, i prezzi stabiliti risultavano alquanto inferiori agli effettivi costi. Il favorevole andamento del mercato dei noli ha portato una riduzione nei costi del carbone, tanto da tranquillizzare su una stabilità dei prezzi interni per l’immediato avvenire.

Nello stesso mese di giugno, si è dovuto apportare un modesto aumento al prezzo dei carburanti e precisamente in ragione di lire quattro al litro per la benzina e di lire 2,50 al litro per il gasolio, sempre in relazione alle mutate condizioni di acquisto. Del resto anche questo aumento era già maturato nel mese di maggio, in relazione ai maggiori costi all’origine.

La valutazione dei prezzi dei carburanti è stata mantenuta in lire 400 per dollaro, nonostante che la media dei prezzi risultasse allora superiore a detta cifra. Un sensibile ribasso nel corso del dollaro libero ha neutralizzato l’aumento del corso ufficiale del dollaro, tanto che oggi la media tra il corso libero e quello ufficiale è all’incirca di lire 500 per dollaro ed è quindi da ritenersi che non vi saranno ulteriori aumenti in questi prodotti.

La revisione dei prezzi dei concimi chimici si è resa necessaria in relazione all’aumento dei costi delle materie prime, del materiale di consumo e della mano d’opera. Sarà anzi opportuno tener presente che la fissazione del prezzo dei concimi vale per il periodo della campagna primaverile ed autunnale.

Sullo stesso piano va considerato il prezzo del carburo di calcio, prodotto che serve alla produzione dei concimi chimici, per la quale, peraltro, si è ottenuta la parificazione del prezzo per tutte le stazioni franco destino a lire 65 al chilogrammo, in confronto ai prezzi di lire 41, 46, 51 al chilogrammo, che erano stati stabiliti nelle varie zone nell’aprile del corrente anno.

Altro settore che ha richiesto una particolare sistemazione è stato quello dei prodotti siderurgici, nel quale settore si era ormai affermata una completa indisciplina sia nei riguardi dei prezzi, sia nei riguardi dell’obbligo della consegna del 60 per cento della produzione agli usi preferenziali per le amministrazioni di Stato. E proprio le aziende che in prevalenza sono dell’I.R.I., sono state quelle che hanno fatto maggiori pressioni, in quanto le loro situazioni economiche richiedevano effettivamente un intervento in questo senso.

Per accelerare le consegne necessarie alla ricostruzione del Paese è stato deciso, a titolo di esperimento, di creare due listini di prezzi: un listino ufficiale, per i prodotti siderurgici, circa il 60 per cento, destinati alle quote preferenziali; un listino dei prezzi liberi autocontrollati dall’associazione di categoria, per i prodotti siderurgici destinati ad altri consumi.

Con tale provvedimento si è inteso assicurare il regolare rifornimento per le quote preferenziali e nel contempo, attraverso gli impegni assunti dai produttori, di ottenere una riduzione nei prezzi della cosiddetta «borsa nera». L’aumento dei prezzi, attuato il 27 agosto, per la quota preferenziale è di circa il 25 per cento su quelli del maggio del corrente anno; mentre i prezzi della quota libera non dovrebbero superare del 20 per cento quelli ufficiali.

Naturalmente, oltre le ragioni su esposte, hanno contribuito alla revisione dei prezzi l’aggiornamento del costo dei rottami, dei combustibili e della mano d’opera. Come già detto, la soluzione adottata ha carattere sperimentale. Il Comitato interministeriale dei prezzi è deciso di adottare dei provvedimenti di controllo generale, nel caso che i risultati non corrispondessero alle aspettative.

In relazione alla nuova valutazione del cambio del dollaro, applicata alle materie prime impiegate nella fabbricazione dei pneumatici, si è dovuto procedere all’aggiornamento dei prezzi di vendita per questi prodotti, tenendo conto delle pure variazioni intervenute nei vari elementi di costo. L’aumento in media è stato del 30 per cento rispetto al febbraio 1947. In occasione di tale aumento è stato disposto un recupero a favore dello Stato sulle giacenze fabbricate a costi inferiori, che ha fruttato alcune centinaia di milioni.

Il settore dei pubblici servizi era stato in passato particolarmente compresso in relazione ai principî generali che ne informavano la revisione, senza tener conto delle adeguate quote per il rinnovamento degli impianti. Ciò ha causato perdite ingenti da parte di numerose pubbliche amministrazioni, e in particolare di aziende comunali, le cui amministrazioni, appunto, all’infuori di ogni colorazione politica, hanno costantemente fatto pressioni per un sollecito adeguamento.

Se criteri restrittivi potevano essere giustificati in un periodo di modesti aumenti dei materiali, essi potevano diventare deleteri in una fase di sensibili spostamenti e specialmente per la durata della loro applicazione. Già il Governo in varie riprese s’era espresso in senso favorevole alla abolizione dei prezzi politici, e tale principio ha trovato applicazione nell’aggiornamento delle tariffe delle Ferrovie dello Stato, dei telegrafi e delle poste. Con tali nuovi criteri dovevano perciò essere rivedute le tariffe dei servizi pubblici.

Prima del giugno del corrente anno sono stati aggiornati i prezzi del gas, in relazione agli aumenti intervenuti nei costi. E a tale proposito si ricorda che il Comitato decise di non concedere la retroattività per l’aumento del gas a Roma, consentito a fine luglio.

Con i nuovi criteri è stata esaminata la situazione delle tariffe degli acquedotti ed è stato concesso un aumento di circa il 50 per cento sulle tariffe del gennaio del corrente anno.

Con tale autorizzazione le tariffe degli acquedotti (nella quasi totalità di gestione comunale) presentano, secondo i casi, aumenti da dieci a quindici volte rispetto alla base 1942.

Per le tariffe dell’energia elettrica la questione si presentava più complessa, in quanto la precedente autorizzazione di aumenti era scaduta al 30 aprile corrente anno, senza che il Comitato avesse provveduto per una nuova decisione. I successivi rinvii avevano portato notevole perturbamento nelle aziende elettriche, che anche per assicurare l’esecuzione di nuovi impianti, avevano bisogno di stabilire l’equilibrio dei loro conti economici. Dopo numerose riunioni nelle quali il problema venne esaminato sotto tutti gli aspetti, è stato deciso di raddoppiare le tariffe precedentemente consentite, autorizzando una maggiorazione fino a 1300 per le imprese elettriche dell’Italia settentrionale e fino a 1500 per le altre imprese del Continente. Gli aumenti di cui sopra sono sempre riferiti ai prezzi bloccati del 1942, che praticamente risalgono al 1936, e in definitiva i nuovi prezzi sono pari a quattordici volte e, rispettivamente, a sedici volte il prezzo base del 1936. È opportuno far presente che per gli utenti di energia ad usi industriali, i suddetti coefficienti sono di molto inferiori a quelli risultanti per altre fonti di energia, come carbone e carburanti in genere.

Il Comitato si è preoccupato di salvaguardare le necessità degli utenti privati, per cui nello stesso provvedimento è stato deciso l’esonero dal nuovo aumento delle prime 30 Kwh annue per energia destinata all’illuminazione privata.

Si è fatto su questo dell’ironia, ma ci stiamo avvedendo in questi giorni, dalle richieste e dalle pressioni che vengono da ogni parte d’Italia, quanta importanza e quanto rilievo abbia questa esclusione che riguarda esercizi interi di alcune compagnie della nostra penisola. Il miglioramento concernente le tariffe dell’energia elettrica è stato collegato al formale impegno che le stesse aziende hanno assunto di portare a compimento i programmi dei nuovi importanti impianti per assicurare al Paese la necessaria disponibilità di energia elettrica e, insieme, un forte assorbimento diretto e indiretto di mano d’opera. Non si esclude perciò un riesame della decisione, nel caso che l’esecuzione di tali impegni fosse di molto ritardata.

Per le stesse considerazioni è stato apportato l’aumento del 40 per cento sulle tariffe telefoniche urbane ed extraurbane, obbligando le società concessionarie ad adeguare gli impianti per il soddisfacimento delle richieste dei nuovi utenti.

Nel settore dei trasporti ferrotramviari in concessione, il Comitato ha affermato il principio che le tariffe per persone e cose non potranno superare quelle decise per le ferrovie dello Stato.

Dall’esame di quanto sopra risulta che, nel settore dei prezzi controllati, gli aumenti autorizzati sono contenuti al minimo indispensabile e sono dipendenti da valutazioni intervenute nella valutazione dei cambi e degli aumenti della mano d’opera e delle materie prime, in gran parte di importazione.

La prima fase dell’azione del Comitato, rivolta ad armonizzare i prezzi delle merci e dei servizi, che si trovavano sfasati rispetto alle nuove condizioni dell’economia generale, può considerarsi chiusa.

La nuova azione del Comitato si dovrà indirizzare in avvenire a comprimere le punte dei prezzi di quelle merci, non ancora controllate, che hanno raggiunto dei limiti eccessivamente elevati.

Inoltre, compatibilmente con l’andamento generale dei mercati, anche mondiali, e delle principali fonti di rifornimento, quest’azione dovrebbe essere diretta verso una generale compressione.

Difatti non si è voluto finora turbare eccessivamente l’economia del Paese, in fase di delicato consolidamento, ma la constatazione di alcune anomalie intervenute in determinati settori, induce a un riesame della situazione, tanto più che in altri Paesi sorgono voci autorevolissime per un ripristino del controllo dei prezzi, forse prematuramente abolito. Su tale piano devono essere considerate le disposizioni impartite ai Comitati provinciali dei prezzi, con invito a provvedere alla regolamentazione dei prezzi di vendita nelle rispettive provincie, e a esercitare il massimo controllo per il rispetto dei prezzi stabiliti.

Ancora un provvedimento che viene incontro anche ad una osservazione fatta testé dall’onorevole Morandi, è quello relativo alla istituzione del Corpo dei periti accertatori, i quali dovranno appunto appurare nelle aziende i prezzi di costo e la situazione economica delle varie industrie. È fermo proposito del Governo di dare ampia applicazione alle norme contenute nel decreto ed è bene che gli speculatori sappiano tale intendimento, per regolare la loro azione con le direttive generali che saranno applicate in tutti i settori.

Non voglio poi dilungarmi sul tema speculazione, perché l’onorevole Nenni ha dato atto al Governo delle ferme intenzioni con cui la lotta è stata intrapresa e dei risultati conseguiti, che, aggiungo, non sono disprezzabili, dato il limitato periodo di tempo avuto a disposizione e considerate tutte le difficoltà.

Da quanto esposto ritengo possa dedursi che il Governo non ha scientemente trascurato alcun possibile mezzo per agire sulla causa dell’ascesa dei prezzi. È chiaro tuttavia che un ulteriore miglioramento della situazione è essenzialmente connesso all’intensificazione dell’azione intrapresa, che ha di mira l’obiettivo fondamentale dell’aumento della produzione. Nei confronti dello scorso anno tale aumento si è indubbiamente realizzato, ma in misura inferiore alle aspettative per l’ancora insufficiente disponibilità di materie prime, di valuta pregiata, di capitale e di energia elettrica e termica.

Orbene, noi dovremo continuare a spingere la produzione verso quote sempre più alte mediante l’importazione di maggiori quantitativi di materie prime, mediante la riduzione dei costi, il perfezionamento e il rimodernamento dell’attrezzatura industriale, ed infine, oserei dire, con una maggiore e più ordinata produttività delle maestranze. Quale cammino abbia percorso l’attuale Governo per un raggiungimento dello scopo fondamentale dell’aumento della produzione, è illustrato dai seguenti dati di fatto.

Nel gennaio e nel febbraio del 1947 l’attività dell’industria italiana ha raggiunto il livello più basso dell’anno, avendo toccato il livello minimo il numero indice 43-42, fatto 100 quello del 1938, dopo la diminuzione che ebbe inizio nell’ottobre dello scorso anno. In quei mesi la produzione industriale fu quasi eguale nel suo complesso a quella dell’aprile del 1946. Ma bisogna considerare che nella primavera dello scorso anno si risentivano ancora gli effetti della grave situazione che dominò per quasi tutto l’anno 1945 l’industria italiana, come conseguenza diretta del conflitto. Sono note le cause fondamentali che dettero luogo ad una diminuzione del ritmo produttivo dello scorso autunno e dell’inverno: diminuita disponibilità dell’energia elettrica e di combustibile, materie prime fondamentali insufficienti ai fabbisogni, diminuzione delle esportazioni, originata dall’aumento dei costi e dal riapparire sui mercati mondiali della produzione di alcuni Paesi concorrenti.

La diminuita esportazione fu origine a sua volta di un ulteriore aumento dei costi, e si manifestò come causa concomitante dell’aumento dei salari e del prezzo delle materie prime fondamentali importate. Cominciava anche a risentirsi nei primi mesi dell’anno in corso la diminuzione degli arrivi del rifornimento U.N.R.R.A., che a partire dal secondo trimestre 1946 aveva dato un considerevole contributo all’economia italiana ed all’industria in particolare. A partire dal marzo 1947, la maggiore disponibilità di energia elettrica e più abbondanti arrivi di carbone dall’America, e in minor misura da altre fonti, dettero un forte impulso all’aumento della produzione industriale, cosicché il numero indice passò da 47 nel marzo a 52 nell’aprile ed a 61 nel maggio, raggiungendo così in tal mese il livello più elevato dopo la fine del conflitto.

Parametro fondamentale che regola la produzione industriale italiana è, come è noto, il carbone: talché si è potuto constatare in questi ultimi tempi, quando si sono verificate notevoli discontinuità nei rifornimenti e quando il fenomeno era macroscopicamente rilevabile, una quasi proporzionalità fra disponibilità di carbone, indice della produzione e occupazione operaia. Ecco perché nel mese di giugno, quando il Governo portò in causa il problema del necessario rifornimento di carbone, fu da noi considerato come uno degli obiettivi fondamentali nonostante che in quel periodo si manifestassero serie difficoltà non solo di carattere valutario ma anche di trasporto dall’America in Italia e da porti italiani ai luoghi di consumo. Tali difficoltà si sono volute superare e si sono superate.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto, infatti le importazioni di carbone si sono aggirate, poco più poco meno, intorno al milione di tonnellate. Nel mese di giugno la cifra del milione di tonnellate mensili, che da tempo costituiva una specie di limite alle più ardite aspirazioni, è stata superata di cento mila tonnellate circa. Complessivamente, nel trimestre giugno, luglio, agosto, si sono importati 2.940.000 tonnellate contro 1.545.000 tonnellate del corrispondente periodo del 1946.

L’aumento è stato quindi del cento per cento, circa. Contemporaneamente nulla si è trascurato per aumentare al massimo possibile la produzione dei combustibili nazionali: carbone sardo e ligniti; per quanto è noto che, specie per il primo, difficoltà di ordine tecnico non consentono di spingere la produzione al di là di certi limiti. Nello stesso periodo considerato, la produzione di carbone sardo è stata di 318 mila tonnellate contro 276 mila nello stesso periodo del 1946, con un aumento del 20 per cento. Non è molto, ma le miniere sarde non possono dare per il momento molto di più, almeno fino a quando non sarà possibile attivare altre miniere secondo un programma elaborato in tutti i suoi particolari e che prevede di triplicare nei prossimi tre anni la produzione. La situazione del carbone è da considerare ora con una certa tranquillità e – a meno che non intervengano perturbamenti estranei alle nostre possibilità come gli scioperi nei luoghi di origine – ci consente di prevedere per il prossimo mese di ottobre una distribuzione di oltre un milione di tonnellate fra carbone d’importazione e nazionale; e per i prossimi mesi invernali, l’assegnazione, per la prima volta dopo il conflitto, di combustibile per il riscaldamento domestico. Provvedimenti atti a far pervenire ai consumatori un idoneo tipo di combustibile sono ora allo studio, mentre è stato deciso un aumento del potere calorifico del gas da 3200 a 3500 calorie e di sbloccare l’orario di erogazione. Una nota difficoltà, particolarmente sentita al presente e che ci lascia molto perplessi, è portata dalla ricerca dei mezzi valutari occorrenti per l’acquisto e per il trasporto di quasi 9 decimi dell’intero quantitativo dall’America, trasporto che richiede 9 dollari per tonnellata. Ma ciò costituisce una difficoltà di carattere generale che incide nel complesso dei rifornimenti dei materiali basilari per l’economia del Paese, compresi i prodotti alimentari. D’altra parte i rifornimenti che ci pervengono dagli Stati Uniti, a titolo gratuito, sotto forma di aiuti post-U.N.R.R.A., alleviano sensibilmente questa condizione di disagio.

Incidentalmente, aggiungo che il problema di un conveniente rifornimento di carbone è problema non soltanto italiano, ma europeo: a Parigi, durante le discussioni che si sono avute per il Piano Marshall, questo problema, la cui soluzione è per la nostra economia di capitale importanza, perché consentirebbe di ridurre notevolmente la spesa in valuta pregiata per il rifornimento di combustibile che ci è necessario, è stato ampiamente esaminato. Una maggiore produzione di carbone europeo ed un auspicabile spirito di collaborazione tra i paesi europei potranno risolvere, a non troppo breve scadenza però, questo importantissimo problema che domina la nostra produzione e la nostra economia.

Altra fonte di energia alla quale è strettamente legata la nostra produzione è l’energia elettrica. La stagione è da alcuni anni ormai eccezionalmente avversa, ma la produzione, confrontando periodi annuali corrispondenti, è in aumento. La produzione del trimestre giugno-agosto è stata di 5 miliardi e 283 milioni di Kwh, contro 4 miliardi 159 milioni prodotti nello stesso periodo dello scorso anno. L’aumento è stato quindi del 27 per cento. Purtroppo, alle deficienze idrologiche, si devono aggiungere quelle dovute alla mancata costruzione di impianti elettrici nel periodo bellico ed in quello immediatamente post-bellico, aggravate dal fatto che i consumi di energia elettrica sono notevolmente aumentati e non sono oramai più soddisfatti da una produzione che ha già raggiunto il livello prebellico.

Il problema di disporre di adeguati quantitativi di energia per far fronte alle richieste in continuo aumento non può essere risolto che in una sola direzione: intensificare la costruzione di nuove centrali e di nuovi serbatoi. I programmi esistono e le buone intenzioni anche; così, negli scorsi mesi, superando notevoli difficoltà collegate in gran parte alla scarsa disponibilità di materie prime, si è dato inizio ad importanti lavori idroelettrici, che gli industriali elettrici si sono formalmente impegnati di proseguire. Gli aumenti delle tariffe sono stati concessi anche, come già rilevato, per questo impegno, e noi non esiteremmo a rivedere la situazione delle tariffe accordate se questo impegno non dovesse essere mantenuto.

Naturalmente i finanziamenti esteri, necessari in tutti i settori, ma soprattutto in questo, potrebbero, se concessi tempestivamente, contribuire potentemente alla soluzione di questo altro problema, che costituisce un altro assillo ad ogni ritorno della stagione invernale.

Basti rilevare che, per il raggiungimento del potenziale di 40 miliardi di Kwh, che costituisce la unità prefissaci, occorrono oltre mille miliardi di lire.

I prodotti petroliferi costituiscono una altra fonte di risorse energetiche di grande importanza. L’approvvigionamento e la distribuzione dei quali, nonostante le difficoltà che si devono quotidianamente superare, hanno avuto, in questi ultimi mesi, un andamento soddisfacente, soprattutto quando si consideri che la richiesta di essi non solo ha superato notevolmente quella dello scorso anno, ma per il gasolio e gli olii combustibili è maggiore financo di quella prebellica. I consumi medi mensili di benzina, petrolio, gasolio ed olii combustibili sono stati, rispettivamente, nel primo semestre del 1947 di 29.801 tonnellate, 12.457 tonnellate, 32.718 tonnellate e 134.252 tonnellate e, percentualmente, rispetto a quelle del 1938: 83,2 per cento, 83,8 per cento, 148,5 per cento e 161,50 per cento. Sono notevolmente aumentati, come si vede, i consumi di gasolio e di olì combustibili a causa delle maggiori richieste dei mezzi di trasporto su strada azionati con motori a gasolio, dell’agricoltura e degli impianti industriali. Questi ultimi hanno trasformato molti impianti di combustione dall’alimentazione a carbone a quella ad olio combustibile.

Nei recenti mesi i prodotti petroliferi distribuiti hanno raggiunto livelli ancora più alti di quelli del primo semestre in relazione alle aumentate esigenze ed all’incremento della produzione industriale, per cui oggi si distribuisce per la benzina 1’83 per cento, per il petrolio il 133 per cento, per il gasolio il 215 per cento e per l’olio combustibile oltre il 200 per cento di quanto si distribuiva nel 1938.

Nel soddisfacimento del fabbisogno di codesti prodotti si rileva quindi un progressivo miglioramento e si comprende quale sforzo organizzativo e tecnico si deve compiere in questo settore per superare le difficoltà di carattere valutario e quelle collegate ai trasporti ed allo stesso reperimento dei prodotti petroliferi sui mercati mondiali. La produzione delle raffinerie italiane ha portato, dalla fine dello scorso anno, un contributo apprezzabile per ogni fabbisogno di prodotti finiti petroliferi, contributo che è in continuo miglioramento e consente di risparmiare valuta pregiata.

La produzione delle nostre raffinerie, che nel trimestre giugno-agosto è stata di 336.310 tonnellate di prodotti lavorati, ha raggiunto così il 75 per cento del livello della produzione del 1938. Nel complesso si può affermare che la situazione energetica del Paese nel secondo trimestre dell’anno e, più ancora nel terzo trimestre, è andata progressivamente migliorando ed ha contribuito fortemente allo sviluppo del ritmo della produzione industriale. L’inverno, non molto lontano, porterà inevitabilmente minori disponibilità di energia elettrica, ma le restrizioni che si prospettano fino ad ora saranno attenuate da disponibilità più adeguate al fabbisogno di carbone e di combustibili liquidi e da una più oculata distribuzione. Il miglioramento della situazione energetica ha avuto – come è stato detto – immediati riflessi sul livello della produzione industriale il cui indice generale, riferito alla media del 1939 fatta uguale a 100, che era disceso a 42 nel mese di febbraio, si è elevato a 61 nel mese di maggio ed a 68 in quello di giugno. Non sono stati ancora calcolati gli indici per i mesi di luglio e di agosto, ma valutazioni approssimative indicano che in questo periodo l’indice è salito a 72-75 per cento rispetto alla media dello stesso periodo dello scorso anno: si ha quindi un miglioramento di oltre 20 punti, e ciò costituisce un risultato veramente apprezzabile, quando si considerino le difficoltà di tutti i generi che l’industria italiana e gli organi di Governo hanno dovuto affrontare.

A questa migliorata situazione ha contribuito la produzione dell’acciaio che è stata, nel bimestre giugno-luglio, di 329.516 tonnellate contro 215.381 tonnellate nel corrispondente periodo del 1946 (aumento 53 per cento); della ghisa: tonnellate 80.337 contro 48.251 (aumento 67 per cento); del cemento: tonnellate 592.000 conto 337.000 (aumento 79 per cento); dei tessili artificiali (aumento del cento per cento); della soda; dei prodotti chimici; dei fertilizzanti.

Le autovetture prodotte nello stesso periodo sono state 4.516 contro 1.697 (aumento 165 per cento); gli autocarri 3.418 contro 2.980 (aumento 15 per cento); i pneumatici 165.557 contro 120.620 (aumento 38 percento).

L’industria tessile ha conservato, nel trimestre maggio-luglio, un’attività produttiva all’incirca uguale a quella del corrispondente periodo del 1946, durante il quale questo settore industriale lavorò a pieno ritmo. Precisamente, durante i mesi di maggio, giugno, luglio, il cotone entrato in mischia nella filatura ammontò a 43.665.338 chilogrammi, col quale si produssero 38.678.109 chilogrammi di filati. 13.000.000 di chilogrammi di filati furono consumati come tali all’interno o destinati all’esportazione; i rimanenti furono impiegati nella tessitura che ha prodotto, nello stesso periodo, 22.000.000 di chilogrammi circa di tessuti, cioè una produzione corrispondente all’incirca alla capacità di trasformazione dei normali anni pre-bellici,

E qui ritengo necessario accennare alla produzione dei tessili U.N.R.R.A., che per il suo considerevole volume non potrà non esercitare, quando sarà immessa al consumo nella sua totalità, un benefico influsso. È da notare che di recente vi sono state alcune polemiche della stampa, molto precipitose nella forma e nella sostanza, che volevano criticare dei provvedimenti presi da noi, nel senso di migliorare l’amministrazione dell’U.N.R.R.A. tessile e di completare la sua attrezzatura interna. Il programma prevede, come è noto, l’allestimento di tessuti di cotone, lana, matasse per maglierie, ecc. ed un limitato quantitativo di scarpe. Senza dilungarci in questa descrizione, preciso che, nel complesso, dal programma del cotone dovranno essere ricavati 150 milioni di metri di tessuti. Il programma del cotone è già a buon punto: oltre una metà è stato distribuito ed attualmente è in corso la distribuzione proprio nella provincia di Roma. Il programma della lana è in ritardo, in quanto è stato più difficile fare la cernita della produzione e la distribuzione alle industrie, le quali hanno assunto l’impegno di mettere a disposizione per queste lavorazioni il 30 per cento del loro potenziale.

Ma nel complesso, data la nuova organizzazione, che è stata completata più snella, più agile, più efficace nei suoi controlli e nel suo funzionamento, noi riteniamo di poter affrettare, accelerare il programma U.N.R.R.A., sicché anche la distribuzione di tutto il quantitativo della lana, che ammonta a circa 38 milioni di metri, possa essere distribuito ancora nella prossima primavera.

Dai dati in precedenza esposti si è rilevato come un notevole aumento della produzione si è quindi avuto ed in alcuni settori esso è stato di entità considerevole. Purtroppo però alle migliorate condizioni di produzione e alla diminuzione dei costi unitari conseguente all’aumento del volume della produzione non ha fatto finora riscontro una generale e decisa diminuzione dei prezzi. E ciò, a mio parere, perché il benefico risultato è stato più che neutralizzato, assorbito da quel complesso di cause agenti in senso contrario, già citate.

Vi è infine un’ultima causa a cui voglio accennare, ed è quella dell’aumento di taluni consumi. Questi difatti, se nel loro complesso sono notevolmente inferiori a quelli prebellici, in alcuni settori, in ispecie quelli voluttuari, e per alcuni strati della popolazione, sono aumentati, come si rileva da una recente pregevole pubblicazione del professore Albertani.

Quando affermo ciò non vorrei essere frainteso, perché è noto che il tenore di vita del popolo italiano si è nel suo complesso fortemente abbassato, ma intendo dire che la corsa ai consumi in determinati settori ed in casi ben definiti ha sottratto beni e capitali che avrebbero dovuti essere destinati a scopi ben più produttivi. Questo ha influito, e non poco, sulla formazione del risparmio che non aumentando come sarebbe stato logico, è stato causa non ultima dell’attuale critica situazione creditizia.

Da alcuni è stato fatto osservare che non vi è ora uomo politico in Italia in grado di convincere alcune categorie di italiani a ridurre certi determinati consumi. È una affermazione che ha il suo sfondo di verità, specialmente quando si tenga conto di quella ben nota atmosfera psicologica che si determina in tutti i Paesi del mondo e in tutti i dopoguerra; ma non voglio essere così pessimista; affermo che è solo una questione di tempo e di convinzione. Che nella attuale condizione non vi sia Governo o uomo politico o partito che sia in grado di modificare radicalmente la situazione nel volgere di poche settimane o di due o tre mesi, questo credo fermamente; ma il problema che si prospetta è quello di agire gradualmente col metodo, di convincere i riottosi con la ragione, con la forza della legge se è necessario. Occorre che quei ben individuati strati della popolazione che mostrano preferire ad un oculato risparmio un incremento di consumi voluttuari, comincino a considerare che finanche nei Paesi vincitori, sia ad economia liberistica che vincolistica, esiste tuttora una notevole contrazione dei consumi rispetto ai livelli prebellici.

Per raggiungere l’obiettivo di una maggiore, migliore e più economica produzione, occorre infine essenzialmente che continui l’afflusso dall’estero di capitali e di beni strumentali senza cui nessun progresso potrebbe essere realistico.

Cessati o quasi i generosi aiuti finora erogatici, tale afflusso è subordinato all’ottenimento del credito.

Abbiamo e continueremo ad avere per lungo tempo assoluto bisogno di credito ed il credito si concede quando si ha fiducia nella solvibilità di chi lo riceve.

Il Governo si è sforzato in questi ultimi tempi di rinforzare all’estero la fiducia sulla capacità del popolo italiano e sulla buona volontà di lavoro dello stesso, si è avvalso senza preconcetti ideologici di uomini che, bisogna riconoscerlo, hanno saputo assolvere il compito loro affidato con dignità ed alta capacità tecnica; ma non si può costruire faticosamente da una parte e scalzare il terreno dall’altra.

Qui è bene affermare che le agitazioni permanenti non sono certo i mezzi più idonei per ottenere beni dall’estero…

Una voce a sinistra. Ma dove sono?

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …beni che possono venire dall’Occidente come dall’Oriente.

La partecipazione italiana alla compitazione del piano Marshall a Parigi, dove l’Italia è stata accolta per la prima volta in un consesso internazionale a parità di condizioni, le trattative condotte a buon fine con l’Export Import Bank, il lavoro con la Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, il prestito canadese e quello argentino, costituiscono la trama di un lavoro che non deve essere interrotto da agitazioni inconsulte e da critiche che troppo sovente… (Interruzione del deputato Di Vittorio – Applausi al centro) …sfruttano il motivo dell’indipendenza economica e politica del nostro Paese e quello della dignità nazionale perché possano credersi del tutto disinteressate o obiettive.

Quasi tutti i paesi d’Europa, la Francia, la stessa Inghilterra hanno immediato bisogno dell’aiuto esterno: l’Italia ha bisogni ancora più urgenti ed ha bisogno di aumentare la sua produzione industriale ed agricola per dare un tenore di vita più degno ai suoi figli e per risanare le ferite di una guerra eccezionalmente rovinosa.

Solo a questa condizione potremo ritrovare la nostra salvezza ed un relativo benessere; ma tutto è subordinato ad un maggiore sforzo produttivo, ad una situazione di maggiore stabilità politica e sociale e ad un concorso dello spirito di sacrificio, che mostrino un’Italia conscia delle difficoltà che deve ancora superare, ma decisa a ritrovare la sua via ed a riconquistare quella posizione che la storia e la civiltà le hanno assegnato. (Commenti a sinistra).

L’onorevole Saragat, fra gli altri oratori, ha parlato della necessità di una pianificazione, con riferimento in modo particolare al cosiddetto piano Marshall.

Ora, questo rilievo necessita di maggiore chiarezza, perché noi siamo perfettamente d’accordo sulla necessità di orientare la politica economica del nostro Paese e, in particolare, la politica industriale che ne è l’elemento prevalente, in relazione ad un ordine di priorità, di necessità, di possibilità e di interesse generale. Ma ritengo molto difficile nella sua realizzazione e dubbia nella sua utilità una pianificazione nel senso stretto della parola, la quale presuppone un’organizzazione amministrativa nelle varie fasi di controllo, di distribuzione, di repressione, di interventi in genere, che il nostro Paese non ha e per la quale esiste, direi, una naturale intolleranza del nostro popolo, come dimostrano tutti gli esperimenti…

PASTORE RAFFAELE. Sono gli industriali che non vogliono il controllo! (Commenti).

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …che sono stati fatti nel periodo fascista e in quello post-bellico. Ma, soprattutto, una pianificazione intesa in tale stretto senso presuppone una sicurezza ed una regolarità di rifornimenti di materie prime e di capitali che noi siamo ben lungi dall’avere.

D’altra parte, ogni popolo deve tener conto delle caratteristiche particolari delle proprie attitudini: attitudine fondamentale del popolo italiano è quella dell’iniziativa, intimamente connessa ad un deciso senso di individualità.

E qui mi sia consentito ricordare come i produttori in genere del nostro Paese hanno, in più di un caso e indipendentemente da qualsiasi pur lodevole tentativo dirigistico dei Governi, fatto risorgere industrie, negozi ed attività in genere con mezzi di fortuna, spesso con risorse e possibilità minime, sempre con una gran fede e una grande sicurezza nei risultati dei loro sforzi. (Interruzioni a sinistra).

I Ministri che mi hanno preceduto, l’onorevole Gronchi che ha dovuto creare ex novo il Ministero dell’industria e commercio, e l’onorevole Morandi, che, con tanta passione, ne ha consolidato la rinascente struttura, possono per primi testimoniare come al di sopra e al di fuori di ogni intervento e, molto spesso, di ogni aiuto, l’industria e il commercio italiani hanno trovato nella propria capacità e nella propria fede quelle risorse che hanno consentito una così rilevante rinascita che, è doveroso affermare, ha meravigliato gli stessi ambienti europei. (Vivi applausi al centro).

Né vuole significare questo una condanna di principio verso la pianificazione integrale o, tanto meno, un inno al liberismo economico; ma soltanto un doveroso riconoscimento di quel sano interventismo economico, là, dove e quando, nella diversità dei settori e nella successione dei tempi, esso si manifesti necessario.

Le condizioni attuali non consentono infatti di scegliere decisamente fra una forma di economia puramente liberista o una forma di economia puramente controllata; ma richiedono invece una estrema oculatezza che consenta di adeguare la nostra condotta alle mutevoli vicende dell’economia mondiale, traendo profitto dalle congiunture favorevoli.

La nostra politica economica deve essere quindi soprattutto vigilante e, se mi fosse concesso un paragone che mi sembra calzante, vorrei dire che, nel campo economico, ci si dovrebbe orientare verso qualche cosa di analogo a quanto dai più si ritiene necessario nel campo politico, nel quale le libertà non debbono essere lasciate abbandonate a se stesse, bensì vigilate e difese. (Rumori a sinistra).

L’intervento dello Stato quale organo regolatore della economia di un Paese deve manifestarsi tutte quelle volte che è richiesto per difendere l’economia da quei fenomeni patologici come monopoli, oligopoli, superdimensioni industriali, tutte le volte che essi si manifestano. In questo è la differenza tra l’indirizzo che ritengo più opportuno e quell’altro indirizzo, ormai sorpassato per ammissione dei più, del liberismo dottrinario antico.

Abbiamo detto – e ci piace ripetere – che la nostra politica economica vuole essere una politica produttivistica, vale a dire orientata nel senso di facilitare la produzione e gli scambi in ogni loro forma e possibilità, sia col rimuovere gli ostacoli di ogni genere che, soprattutto in questi difficili tempi, si frappongono alle iniziative e alle attività in genere, sia intervenendo, nei limiti del possibile, e soprattutto con la maggiore celerità, per i rifornimenti delle indispensabili materie prime, e ancora preoccupandoci in modo concreto ed efficace delle difficoltà di ordine finanziario che colpiscono le imprese produttrici, anche economicamente sane.

In merito è anzi di particolare attualità il problema del credito alle industrie, che il Governo ha parzialmente affrontato e che non dubito il Governo ulteriormente dovrà esaminare, preoccupato com’è di mantenere intatto e anzi, di nulla trascurare per integrare il potenziale produttivo del nostro Paese.

Il mio Ministero che segue, com’è suo stretto dovere, le possibilità industriali della nostra economia, non mancherà di porre ogni sua iniziativa e interessamento anche alla soluzione di questo problema.

E in questa preoccupazione non può non trovare una parte che direi prevalente il gruppo I.R.I., che non è, egregio onorevole Morandi, un frutto di stagione, perché la situazione dell’I.R.I. si va maturando da molto tempo. (Interruzione a sinistra). E, seppure oggi siamo arrivati al momento critico, noi possiamo assicurare che il Governo è seriamente intenzionato a risolvere il problema dell’I.R.I., del quale noi siamo i primi ad essere preoccupati. (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Ci pensa l’associazione degli industriali a risolverlo!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. Ma su questo il Governo farà, nel corso della discussione, ulteriori e più complete dichiarazioni. L’importanza di questo gruppo, anche agli effetti di quel sano e opportuno intervento dello Stato in determinati settori della produzione, non ha bisogno di essere sottolineata in modo particolare. Unanime il riconoscimento e unanime, posso affermare, l’intenzione del Governo di fare ogni possibile sforzo per realizzare il risanamento e il potenziamento del gruppo stesso e delle sue aziende che, non va dimenticato, rappresentano una risorsa vitale per un numero notevole di tecnici e operai. Lungi il concetto ormai di un’economia intesa in senso stretto, l’azione di tutela dello Stato e dei suoi organi deve svilupparsi appunto anche nel senso che potremmo definire sociale, e cioè di salvezza delle iniziative ancora economicamente sane. (Approvazioni).

L’economia del nostro Paese può dirsi ora passata da una fase transitoria ad una fase di consolidamento, e forse le critiche, i dubbi e le preoccupazioni che si stanno sviluppando sono proprio una dimostrazione di questa fase di crescenza dell’industria italiana e, diremmo, di consolidamento. Molto è stato fatto; molto, però, resta ancora da fare. Doverosamente riconosciamo il merito, dai capi ai gregari, che sempre più compresi dell’importanza della loro funzione, aumentano e armonizzano i loro sforzi, per aumentare e migliorare la produzione dei prodotti italiani, di questi prodotti, che oggi già si vanno affermando in tutto il mondo, che vengono apprezzati e che certamente un giorno potranno in gran copia affermarsi nei mercati del mondo. Diamo atto di questa volontà, di questa fede: elementi sicuri di successo, che tendono al potenziamento della nostra economia in funzione sociale.

Noi seguiamo questo sforzo, lo fiancheggiamo, senza frasi o discorsi altisonanti, senza provvedimenti ad effetto, ma cercando realisticamente di facilitare lo sforzo e di spianare la strada. Contro ogni difficoltà noi proseguiremo in questo compito finché la vostra fiducia non ci verrà meno. Sentiamo in questo di essere affiancati, direi di essere all’unisono, con tutte le categorie, dagli industriali ai dirigenti, agli operai, alle maestranze, le quali sentono, effettivamente sentono (Interruzioni a sinistra) come hanno già in altri momenti sentito col loro sacrificio…

Una voce a sinistra. Ci parli dei consigli di gestione!

TOGNI, Ministro dell’industria e commercio. …sacrificio diretto, l’importanza delle aziende, l’importanza del loro lavoro, l’importanza del sacrificio ch’essi compiono. Essi soprattutto, uniti in un grande sforzo, si sono resi conto che la salvezza delle industrie e dell’economia nazionale è la salvezza del loro lavoro e del loro pane ed è effettivamente l’unico elemento per l’indipendenza del nostro Paese! (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. La discussione che si svolge in questa Assemblea fin dalla settimana scorsa ha, a mio giudizio, una importanza che supera quella che potrebbe collegarsi con la sorte di un Ministero.

L’iniziativa dei colleghi di parte socialista, di parte comunista, del Gruppo del Partito socialista dei lavoratori italiani, di porre il problema della fiducia o della sfiducia nel Governo presso l’Assemblea, è servita infatti a spalancare un po’ le finestre della nostra Aula e farvi entrare l’eco di tutto ciò che, nel settore politico e nel settore economico, accade un po’ fuori dell’Aula, nel Paese, fuori del Paese in Europa, fuori dell’Europa in tutti gli altri continenti.

Il mio temperamento, notoriamente ottimista, mi accompagna anche in questa occasione, perché là dove gli altri vedono segni di turbamento, segni di perplessità per chissà quali tempeste dovranno ancora venire, io vedo segni di guarigione.

Sì, segni di guarigione, colleghi (Interruzione del deputato Scoccimarro), perché l’economia del mondo è un po’ nelle condizioni degli organismi che prima della scoperta dei sulfamidici e della penicillina erano attaccati da polmonite. Chi ha avuto la disgrazia di avere dei cari parenti affetti da quella malattia, sa che al quinto, al settimo giorno avveniva quella che si chiamava la crisi, crisi che poteva portare o alla morte dell’ammalato, o alla fine del male, all’inizio della convalescenza. Ora, nelle malattie dei popoli non è ammissibile l’ipotesi della morte: i popoli non muoiono mai. Possono coloro che appartengono ad una popolazione, in uno degli anni del suo svolgimento, stare più o meno bene, più o meno male, ma i popoli sopravvivono, ed allora è evidente che dall’inizio della crisi, del quale noi ora cominciamo a soffrire, noi usciremo, e siccome come popoli non possiamo morire, evidentemente ne dovremo uscir bene. Questo è il punto di partenza dal quale noi dobbiamo esaminare la situazione. (Applausi a destra).

Oggi il mondo è malato soprattutto in due cose: vi è una deficienza di generi alimentari che crea dappertutto lo spettro della carestia; le statistiche sono diventate la fonte della nostra preoccupazione: un giorno ci fanno allargare il cuore alla speranza che non moriremo di fame; il secondo giorno ci ripiombano nel più nero pessimismo. Io vorrei far rilevare ai critici, che possono avere talvolta ragione dell’economia liberale, che nel secolo di economia liberale pericolo di carestia non ce ne fu mai. Il pericolo di carestia l’abbiamo da quando i Governi nei vari Paesi del mondo si sono assunti il compito, insopportabile per le loro modeste spalle, di dar da mangiare alla gente.

Ma nella sostanza accade questo, che noi in Europa abbiamo in gran parte esaurite le scorte, per cause che tutti conosciamo, e nel resto del mondo, per una serie di vicende climatiche non sempre favorevoli, non vi è stato quell’eccesso di produzione che sarebbe occorso per farci vivere con maggior larghezza e per farci ricostituire le scorte. Il problema più angoscioso che da questo lato si pone ai vari paesi europei è quello della ricostituzione delle scorte. Non si potrà fare nessuna politica alimentare seria, se ciascun paese non potrà disporre di scorte sufficienti per almeno tre mesi di consumo della propria popolazione. È questo un elemento indispensabile della stabilità alimentare. Ma intanto si profila all’orizzonte una crisi opposta nel settore agricolo; tanto ciò è vero, che alcuni dei paesi notoriamente produttori di cereali cominciano a sentire il timore di un’inversione della congiuntura, e già il Canada quest’anno ha ridotto di oltre il 10 per cento la superficie destinata alla produzione cerealicola.

Il secondo problema che, in collegamento con il primo, affligge l’economia mondiale è quello della produzione dell’energia. Noi siamo divoratori di carbone, e non ne produciamo tanto quanto ne occorrerebbe per rimettere in sesto tutta la macchina produttiva del mondo, e specialmente quella dell’Europa. Eppure prima della prima guerra mondiale l’Europa era il solo Paese del mondo che esportasse carbone dappertutto: oggi l’Europa è il Paese del mondo che riceve carbone da tutti i continenti. Vi sono ragioni di carattere economico che spiegano questo capovolgimento, ma vi sono anche ragioni di carattere politico nel senso più alto della parola. La produzione tedesca, per il mancato raggiungimento di un accordo tra i Quattro Grandi, non ha potuto ancora svilupparsi fino ai quantitativi che sarebbero necessari per soddisfare il fabbisogno di carbone dell’Europa. Che cosa è accaduto nel frattempo? Che la deficienza di carbone ha spinto all’elettrificazione di tutti gli impianti industriali o per uso domestico; e allora in tutta Europa avvertiamo una deficienza di energia idroelettrica, resa più grave dal diverso gioco dei prezzi del carbone rimasti liberi in alcuni settori, e dell’energia elettrica vincolata in altri settori o in altri paesi.

Vi è poi un problema di inutilizzazione della mano d’opera, quello che gli inglesi chiamano il «man power», che durante la guerra era stato oggetto degli studi più accurati da parte degli Uffici di mobilitazione britannici e nord-americani al fine di utilizzare al massimo le risorse produttive di quei paesi nell’immenso sforzo richiesto dalle necessità belliche. Noi usciamo dalla guerra con una popolazione europea globale presso a poco nelle stesse cifre del 1939; ma con una Francia che deve ancora adoperare oltre 400 mila prigionieri tedeschi, ripetendo nel 1948 una forma schiavistica di lavoro che noi ci stupiamo di leggere nei nostri libri di storia, per quello che accadeva all’epoca delle guerre fra i popoli civili della Grecia o di Roma ed i popoli barbari da esse conquistati. L’Inghilterra ha ancora prigionieri tedeschi sul suo suolo. Vi sono prigionieri giapponesi e tedeschi in Russia. Vi sono, in altri termini, deficienze di «man power» in alcuni dei più grandi paesi industriali del mondo; mentre vi sono alcuni paesi che hanno una relativa abbondanza di mano d’opera, e, non potendo assorbirla integralmente con attività produttive all’interno, vedono i loro costi elevati dalla necessità di aggiungere a quello che è il costo economico, collegato con lo sforzo produttivo in senso stretto, il costo politico dipendente dal mantenimento dei disoccupati.

Quando parlo di disoccupati, non intendo riferirmi a coloro i quali vorrebbero lavorare e non trovano lavoro, ma anche a quella massa enorme, che non potendo fare nulla, è allocata o presso le industrie o presso lo Stato o presso gli enti locali, per risolvere in questo modo il proprio problema riversando così sulla collettività, attraverso le imposte, l’onere del mantenimento di chi non può, per ragioni di disfunzionamento del sistema economico, provvedervi diretta mente.

DI VITTORIO. Conseguenza del sistema capitalistico.

CORBINO. Potrebbe darsi che sia conseguenza del sistema capitalista, onorevole Di Vittorio. Faccio osservare però, che, quando il sistema capitalistico era in pieno vigore, non vi è stata mai disoccupazione così vasta e duratura come quella avuta dal 1919 in poi. L’Inghilterra non ebbe mai 2.000.000 di disoccupati per 10 anni fino al 1914. Ma io non voglio fare la difesa del sistema capitalistico; non è questa la sede più opportuna. Non parlo qui per cercare quello che nelle nostre ideologie potrebbe contribuire ad invelenire una situazione, che è già abbastanza avvelenata. Noi dobbiamo cercare in uno sforzo concorde di conciliare le ideologie contrapposte, perché oggi non si discute della sopravvivenza di una ideologia o di un’altra, ma della sorte di tutti i popoli civili, e come uomini abbiamo il dovere di preoccuparcene.

Vi è infine il problema più grave, che oggi complica la vita economica e che è il sintomo più importante della crisi in atto: ed è la deficienza di capitali, che si manifesta non soltanto in Italia o in Francia ma dappertutto, anche nei Paesi più ricchi, compresi gli Stati Uniti d’America, dove la trasformazione del debito fluttuante in debito a più lontana scadenza si sta effettuando gradualmente, ma con un rialzo notevole del costo dell’interesse: siamo passati da uno e sette ottavi per cento a due e tre ottavi; e certamente non ci fermeremo lì. Del resto, non ci voleva un grande spirito profetico, per credere che, prima o dopo, a questa deficienza di capitale il mondo dovesse essere esposto. Dal 1939 al 1945, in uno sforzo che era il risultato di una specie di follia collettiva, e andava dal polo nord al polo sud, facendo il giro del mondo, l’umanità non ha fatto che distruggere ricchezza, distruggere capitali accumulati. Oggi, passata l’euforia del periodo immediatamente post-bellico, noi cominciamo a sentire gli effetti di questa distruzione, finora velati agli occhi dei più dal fenomeno inflazionistico.

Noi non ci siamo accorti della distruzione dei capitali perché l’inflazione ci dava l’illusione dell’arricchimento. Ma se l’inflazione fosse una fonte di capitali noi potremmo veramente dire di essere fortunati, perché voi sapete che per fare l’inflazione basta la rotativa di un giornale. Noi avremmo così risolto il più grave, il più duro ed il più angoscioso dei problemi che oggi affliggono l’universo.

L’Italia si collega al resto del mondo attraverso questi quattro punti nevralgici del sistema economico mondiale. Vi si collega con la sua deficienza di materie prime e di generi alimentari; vi si collega con la necessità della ricostruzione; vi si collega con l’eccesso di mano d’opera e vi si collega, infine, con la deficienza dei capitali. Ma quello che sembra soltanto un problema italiano, è anche un problema francese e britannico ed è anche un problema dei piccoli Paesi come il Belgio, l’Olanda, la Svizzera, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca, paesi ricchissimi che oggi sono intenti a guardare quello che accade tra i grandi colossi dell’economia mondiale, per sapere come regolarsi e per conoscere da quale lato debbono aspettarsi sorprese ed in quale direzione dovranno tendere i loro sforzi produttivi. Oggi nel mondo è incominciata o sta per cominciare la deflazione. Questa è l’inizio della crisi, o signori, e ne volete una prova? Noi qui discutiamo della capacità di un Ministero a governare, ed è la terza volta, nel giro di un anno, che ne discutiamo. In Francia il Governo socialista di Ramadier ha dovuto chiedere, nel giro di pochi mesi, ben cinque voti di fiducia al Parlamento ed il Governo laburista – pur avendo alle sue spalle una maggioranza omogenea e formidabile quale mai nessun partito al potere ha avuto nella Gran Bretagna – ha anch’esso la sua crisi. È di ieri l’annuncio dei primi mutamenti della compagine governativa ed essi non saranno gli ultimi. Il Governo laburista deve fronteggiare come noi – che abbiamo un Governo monocolore, e se avessimo un Governo pluricolore sarebbe lo stesso – gli stessi problemi che dobbiamo fronteggiare noi, che sono, poi, i problemi della convalescenza ed i problemi della guarigione.

Ora, in questa situazione che cosa accade? Sì, il liberismo è finito; possiamo anche essere d’accordo che il liberismo, come sistema politico, sia finito. Io vi posso dire che, a mio giudizio, il liberismo è finito quando, durante la prima guerra mondiale, la borghesia accettò di mettersi al servizio dei militari e della burocrazia per cercare di vincere la guerra. Si disabituò allora all’azione direttrice della vita economica e politica del mondo, e quando la guerra finì tutti i grandi borghesi – intendendo sotto questo nome i veri capitani dell’industria – si trovarono imbarazzati, non sapendo più camminare da soli, perché per sei anni avevano camminato sostenuti dalle dande della politica governativa: allora è finito probabilmente, dal punto di vista storico, il regime capitalistico e il regime liberista. (Interruzioni a sinistra).

Il resto, che si impone anche oggi alla politica di tutti i Governi del mondo, non è liberismo o vincolismo o protezionismo. Il resto – abbiate pazienza, o colleghi dell’estrema sinistra – è buon senso; il resto è riconoscimento dell’istinto degli uomini, i quali possono talvolta essere capaci dei più grandi sacrifici per le più grandi idealità, ma sono poi incapaci di piccoli sacrifici per idealità forse ugualmente grandi. La natura umana è lenta ad evolversi, la natura umana non cammina come cammina la tecnica. Ed è questo il guaio dell’umanità contemporanea, perché con scoperte nuove diamo ad un solo uomo il mezzo di fare tanto male all’umanità, mentre per poter fare del bene gli uomini devono essere in molti, e devono essere strettamente collegati gli uni con gli altri. (Applausi a destra).

Ora, qual è la realtà? Voi osservate in Inghilterra un Governo laburista; in Francia un Governo socialista, in Italia abbiamo avuto fino a tre mesi fa un Governo in cui i socialisti erano magna pars (Commenti a sinistra)Non voglio ricercare responsabilità. Credete pure che non c’è nell’animo mio nessun desiderio di acredine verso chicchessia, perché parto dal presupposto che tutti possiamo aver sbagliato, ma, se abbiamo sbagliato, abbiamo sbagliato in buona fede.

Qual è la realtà? La realtà è che per un effetto psicologico della guerra noi vogliamo imprimere alla società un movimento di trasformazione molto più celere di quello che la situazione consenta. Il socialismo è una gran bella teoria e l’umanità deve molto alla diffusione delle teorie socialiste e all’influenza che queste teorie hanno esercitato nei rapporti fra gli uomini appartenenti a diverse classi sociali. Ma, secondo me, Marx, che era un critico formidabile, era un uomo che non aveva una fantasia molto fervida, era un uomo il quale prevedeva una società statica, mentre la società è dinamica, era un uomo il quale prevedeva il concentramento del capitale in poche mani, mentre lo sviluppo dell’anonima ha polverizzato il capitale nelle mani dei più, era un uomo il quale, per quanto considerasse la guerra come uno degli elementi essenziali per la definitiva devoluzione del potere dalle classi capitaliste alle classi proletarie, non poteva prevedere che questa devoluzione dovesse aver luogo dopo una guerra che ha distrutto quasi un terzo del patrimonio produttivo dell’umanità. In maniera che voi, se voleste raccogliere l’eredità del mondo borghese, ai termini delle previsioni di Carlo Marx, a mio giudizio fareste un cattivo affare. Per lo meno vi converrebbe sempre di accettare col beneficio d’inventario. (Applausi a destra – Commenti a sinistra).

In questa situazione si innesta il rapporto di collegamento stretto fra l’economia, e la società europea, l’economia e la società orientale, l’economia e la società occidentale.

Qual è questo rapporto? Non mi riferisco ai rapporti politici. I rapporti politici, che possono dare luogo a contrasti, e che non si possono sistemare sul piano della collaborazione economica, si sistemano sul piano del contrasto bellico.

Ora, io sono convinto che al contrasto bellico non si arriverà. Potremo forse rasentare la minaccia, la paura di una guerra, ma ne usciremo come se avessimo toccato la coda della cometa di Harley che apparve nel 1913. Il ruolo dell’America è un altro: è il solo Paese del mondo il quale possa in questo momento consentire agli Stati dell’Europa, tutti gli Stati dell’Europa, di superare questa crisi transitoria che all’economia deriva dagli avvenimenti e dalle cause che io vi ho dianzi accennato.

Una voce a sinistra. Siamo in via di guarigione!

CORBINO. Il presupposto degli aiuti non è politico, non può essere politico, non può essere che economico. E vi dico che non può essere che economico anche per un’altra ragione: quando si parla di aiuti americani ci si dimentica del modo con cui questi aiuti potranno venire. La via è questa: l’America deve produrre certe merci; ci vorrà il Governo americano che stabilirà dei crediti a spese dei contribuenti americani perché queste merci siano comperate e siano cedute a credito o a fondo perduto ai vari Paesi di Europa. Ma in sostanza saranno sempre gli americani quelli che pagheranno, e non gli abitanti di un altro pianeta. Ora, 5 miliardi di dollari all’anno, per esempio, costituiscono il 2 e mezzo per cento del reddito americano. Il che significa che, a prescindere da quelli che possono essere i fenomeni di traslazione dei tributi, ogni cittadino americano, sia mister Vanderbilt o sia lo scaricatore del porto di New York, su cento dollari che riceve ogni anno ne dovrà sborsare due per aiutare la economia europea. Questa è la realtà concreta. Quale il corrispettivo? Si dice comunemente: gli americani hanno bisogno di esportare perché altrimenti chissà che cosa succederebbe. Ma se essi dovessero produrre per forza, non avrebbero nessun obbligo di dare a noi europei l’eccesso di quello che producono: basterebbe che lo caricassero sui piroscafi per buttarlo in alto mare. L’obiettivo della produzione e della esportazione sarebbe stato raggiunto egualmente. Per darlo a noi da che cosa devono essere spinti? Essi devono sentire che c’è una solidarietà fra i continenti che va al di sopra delle ideologie, che va al di sopra degli interessi di carattere materiale e che lega l’Europa considerata come un continente produttore all’America considerata come un altro continente produttore. (Applausi al centro e a destra).

Ora vediamo un po’ di passare dal grande al piccolo e di trovare nei nostri riguardi i riflessi di questa situazione.

Di che cosa abbiamo bisogno noi? E quando dico «noi» non intendo parlare dell’Italia, ma intendo parlare di tutti i paesi che domandano aiuti all’America.

Evidentemente, abbiamo bisogno di ordine. Ma ordine – intendiamoci sul significato di questa parola – non significa sparare; ordine significa capacità, attitudine e possibilità di produrre al massimo, secondo le disponibilità dei mezzi tecnici dei quali ogni paese gode in un determinato istante; significa stabilizzazione monetaria.

Taluno considera la stabilizzazione monetaria come un fine. Ma no! La stabilizzazione monetaria è uno strumento, è un mezzo, è il mezzo pregiudiziale per costruire, perché voi non potrete avere mai una chiara visione del mondo economico, delle sue necessità, delle sue possibilità, se prima non avrete provveduto alla stabilizzazione monetaria.

Ed abbiamo infine bisogno di un’altra cosa: dell’incremento del risparmio, per ricostituire capitali che ci mancano.

Avete notato che risparmiamo poco? Non intendo riferirmi soltanto alle classi più ricche, che sono veramente deplorevoli nella loro condotta in questo periodo, perché mostrano di non avere nessuna sensibilità per i problemi più immediati dell’ora. (Vivi applausi). Noi abbiamo troppi locali di lusso aperti, troppi; molti di più di quanti non ce ne fossero nel 1939, locali nei quali della gente che ha guadagnato del denaro senza sapere come lo ha guadagnato, lo sperpera in una maniera indegna, che io qui – anche se voi credete che da questi banchi non si possa parlare in favore delle classi più misere – deploro nella forma più dura che possa uscire dall’animo di uomo. (Applausi).

Ma, credete pure che non sono soltanto i ricchi coloro che hanno perduto l’attitudine al risparmio. Gli è che ciascuno di noi, nel suo piccolo, non intende rinunziare alla soddisfazione dei bisogni che fino a qualche tempo fa potevano costituire un lusso. E questo accade anche in larghissimi strati di quei ceti che più sentono le difficoltà del momento attuale.

Mi è stato detto – non so fino a qual punto la cifra sia esatta – che la ferrovia Roma-Ostia ha avuto un traffico giornaliero di bagnanti che, in alcune giornate, ha toccato la cifra di 250 mila persone, a cui si aggiungevano circa 100 mila persone trasportate dalle camionette. Ora, sentite, Roma ha un milione e 200 mila abitanti: che ce ne siano 300 mila che giornalmente si possano permettere il lusso di andare ad Ostia per il bagno io lo ammetto, ma dovete anche ammettere con me che è impossibile che a Roma ci siano 300 mila ricchi signori e tutti gli altri siano dei pezzenti.

Evidentemente, questa abitudine di spendere esiste anche in altri strati della popolazione. Ora, io dico che noi ci dovremmo proporre tutti, come meta fondamentale da raggiungere, quella di dare al popolo italiano il volto di una vita più austera, il volto di una vita molto più morigerata.

GIANNINI. Il fascismo ci ha annoiato con questa vita austera: finiamola! Non si salva l’Italia con queste sciocchezze. (Commenti).

CORBINO. No, onorevole Giannini, non sono sciocchezze.

E qualunque Governo, qualunque sistema economico, che voglia veramente ripristinare le abitudini al risparmio, deve incominciare proprio da lì, deve incominciare a tagliare sui consumi voluttuari. Non dovrà evidentemente colpire tutto ciò che è necessario, non dovrà colpire tutto ciò che è indispensabile all’esistenza. Ma, che io mi sappia, fino al 1914, non credo ci fossero 350.000 persone che da Roma andavano a fare il bagno ad Ostia; eppure gli italiani erano così robusti che sono stati capaci di andare a Vittorio Veneto. (Commenti).

Innestata con il problema dei risparmio è la politica del credito, perché è evidente che, se voi non avete il risparmio, su che cosa basate la politica del credito? Tutti i tecnici che conoscono la struttura delle nostre organizzazioni bancarie vi dicono che oggi le banche si trovano in una situazione economica veramente preoccupante. Perché questo? Perché, mentre i depositi sono cresciuti nei rapporti di uno a dodici o quindici, le spese sono cresciute invece secondo l’indice del costo della vita; c’è quindi uno squilibrio fra il costo della organizzazione bancaria e il rendimento dei depositi bancari.

Noi siamo arrivati all’assurdo che i depositi bancari sono trattati come all’epoca del banco di Amsterdam o del banco di San Giorgio, quando i depositanti pagavano qualche cosa all’istituto bancario. Oggi i depositanti ricevono formalmente l’uno e mezzo per cento; però vi sono tanti elementi di spesa che si sottraggono all’interesse, per cui, alla fine del semestre, quando si esamina la situazione del proprio conto corrente, si vede che si è perduto qualche cosa.

E allora ognuno comincia a domandarsi se non sia preferibile trasformarsi da depositante presso una banca in depositante presso sé medesimo, o – peggio ancora – se non sia il caso di fare quel tale mercato nero del credito cui hanno già fatto allusione alcuni colleghi nell’Aula, e l’onorevole Morandi nel suo discorso di oggi.

Che cosa, in sostanza, sta accadendo? Sta accadendo che la banca, la quale finora era indubbiamente lo strumento più efficace della distribuzione dei capitali dal risparmiatore a chi ne avesse bisogno, sta diventando uno strumento più costoso, e noi corriamo alle operazioni di credito diretto. Questo non è progresso né sul settore economico né sul settore tecnico, né nel settore liberista né nel settore socialista: è regresso nel senso più assoluto della parola.

Una voce al centro. Faremo tutti gli usurai.

CORBINO. Onorevole collega, veda, il problema della lotta all’usura affligge il mondo fin dall’epoca di San Tomaso d’Aquino. Noi avevamo nell’Italia meridionale i famosi «monti frumentali», sorti appunto per combattere l’usura, che davano il grano a misura rasa, per averlo poi a misura colma. A poco per volta, con l’aumento del risparmio, l’usura era stata debellata (Interruzioni), ma posso assicurare il collega che mi interrompe che oggi in alcuni settori noi siamo ritornati a tassi veramente usurai. Per esempio in qualcuna delle borse-valori si pagano oggi anche 4.500 lire al giorno per un milione di capitale dato in prestito, il che significa un tasso annuo del 180 per cento.

Ora, onorevoli colleghi, guardate che questo problema è collegato al precedente, della stabilità monetaria. La gente che non ha fiducia nella stabilità monetaria vuole tenere merci, e molti di coloro che strillano contro recenti restrizioni del credito gridano perché non vogliono essere costretti a vendere le loro riserve di merci (Applausi al centro e a destra). Credo che il Governo debba tener duro su questo punto. Mentre ammetto che le restrizioni non debbano incidere sulle forme di attività economica a carattere veramente produttivo, in tutte le forme nelle quali, dietro la parvenza di una attività produttiva, si nasconda un’attività speculativa, fondata sul presupposto della svalutazione monetaria, il Governo deve agire con la massima energia. Non si preoccupi delle conseguenze: ci saranno dei fallimenti. Ma, benedetto Iddio, che i fallimenti siano nell’ordine naturale delle cose è provato dal fatto che la legge sui fallimenti risale al di là del 1882, il che vuol dire che i fallimenti c’erano anche allora; e c’è un libro del Codice civile che contempla i fallimenti, ciò che vuol dire che i fallimenti sono nell’ordine naturale della vita economica.

La questione oggi ha un altro aspetto, perché nelle nostre classi industriali e commerciali si sono infiltrati molti elementi che si sono abituati a lavorare nel periodo dell’inflazione, quando tutto si volgeva in guadagno, e che quindi ignorano che c’era un tempo in cui gli industriali ed i commercianti qualche volta guadagnavano, ma qualche volta anche perdevano. È bene che coloro che si sono infiltrati con questa mentalità siano eliminati, con le buone o con le cattive; e gli altri, che la stessa mentalità hanno acquisito per cattiva abitudine, ritornino alle buone abitudini che avevano anteriormente al 1939. Il Ministro Guardasigilli provveda ad organizzare opportunamente le Sezioni di fallimento dei Tribunali. (Commenti).

E allora, mi avvio alla parte conclusiva: perché ad una conclusione ci si deve arrivare, e la conclusione non può essere soltanto tecnica.

Io ho sentito vari discorsi di carattere tecnico in questa Assemblea; ho sentito le risposte che già sono state date da alcuni membri del Governo. Vi confesso che nel dettaglio tecnico della critica o della difesa non intendo entrare. Non mi pare che sia opportuno entrarvi. Noi siamo qui Assemblea politica, è il problema politico che dobbiamo affrontare! Qual è questo problema?

C’è un Governo. Dicono alcuni che questo Governo non va e che bisogna rovesciarlo.

Bene: tutte le opinioni sono rispettabili; e quando queste opinioni si trasformeranno in cifre, in dati, allora ne verrà fuori una statistica: X voti favorevoli, X voti contrari, e il risultato della statistica dirà se il Governo se ne dovrà andare, se il Governo potrà restare, o se il Governo debba considerare l’opportunità di restare con qualche modificazione. (Commenti).

Per il momento non voglio entrare in questo. Ma quando un Governo cade e cade sotto un voto di sfiducia del Parlamento, o quando, anche senza arrivare al voto di sfiducia, il Governo sente che sarebbe opportuno, per esempio, che se ne andasse (io non dico con questo che se ne debba andare, perché dichiaro senz’altro che voterò a favore del Governo), noi dobbiamo tener conto di un fatto, e cioè della situazione difficile dalla quale sono partito e che dovrebbe essere considerata come il punto di partenza per il riesame della situazione.

Le necessità fondamentali del Paese sono due: la prima è di rimanere collegati col mondo esterno, perché vi è ormai un avviamento in tal senso. La stessa ripresa dei traffici tende a riequilibrare i prezzi, tende a sovvertire i sistemi monetari, tende a ridistribuire le forze produttive nel mondo. Ciò esige che l’Italia abbia un Governo che possa conservare questi rapporti. Vi è poi l’altra necessità fondamentale: cioè a dire un Governo che riesca a conservare all’interno quel minimo di ordine (non dirò di disciplina perché l’amico Giannini mi potrebbe ricordare che anche i fascisti parlavano di disciplina), quel minimo di ordine, di disciplina spontanea, di autodisciplina (chiamiamola così) che corrisponde alle esigenze generali del Paese in questo momento.

Come si può formare questo Governo?

La situazione non è agevole, perché, per quelle tali virtù o per quei tali vizi atavici dell’uomo – che tende sempre a seguire il principio edonistico, e cioè di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo – la mia impressione è che uno degli elementi più notevoli dell’attuale crisi in Europa, soprattutto nelle grandi democrazie europee (Inghilterra, Francia, Italia) è questo: che la realtà economica imporrebbe quelli che si potrebbero chiamare governi di destra – ma badate bene, non Governi di destra nel senso «pelluniano» della parola, ma nel senso «minghettiano», cioè a dire Governi che mantengono un’atmosfera di serenità. Senonché i parlamenti sono fatti in maniera che non possono sprigionare che governi di sinistra, donde deriva il contrasto tragico nel quale si dibatte il complesso delle democrazie occidentali. Noi vediamo il laburismo in Inghilterra obbligato a fermare le sue riforme: ha nazionalizzato le miniere, ha nazionalizzato l’acqua, la luce, il gas, ha nazionalizzato i trasporti ed ora è lì fermo, tentennante, perché se dovesse continuare con il suo sistema, dovrebbe estendere il controllo ad altri settori della vita economica, e l’estensione del controllo esige l’impiego di strumenti tecnici e di personale tecnico che in Inghilterra mancano.

Qualcuno di voi, che forse vive più a contatto di quello che non abbia potuto farlo io col mondo inglese, sa che oggi l’Inghilterra ha deficienza di burocratici.

Per amor di Dio, non offriamo i nostri (Commenti), perché i risultati che abbiamo avuto da noi non sono eccessivamente brillanti e in Inghilterra vogliono burocratici di quelli che fanno sul serio!

In Francia avviene la stessa cosa, ed il Governo Ramadier è obbligato ad agire tortuosamente perché sente che per salvare il franco, per salvare la situazione, dovrebbe fare una politica di destra. Ma non la può fare per il suo colore politico, sicché nei suoi movimenti è continuamente impacciato.

Ed anche in Italia abbiamo avuto il caso del Governo De Gasperi, che si è presentato annunciando nel suo programma i 14 punti di un programma preesistente del precedente Ministero pluricolore. Ed allora come si può fare un Governo, che debba operare, sia pure transitoriamente, con direttive di destra, quando invece le maggioranze sono formate da partiti di sinistra? Noi abbiamo sentito il discorso di Saragat, il quale in certi punti in materia di politica economica è andato anche al di là dell’onorevole Togliatti, pur essendo al di qua in materia di politica generale, e probabilmente Morandi è più vicino a noi di quello che teoricamente potrebbe esserlo Tremelloni. I contrasti della situazione sono gravi perché ciascuno di noi ha una divisa e vuole agire secondo quella divisa; ma poi ha una logica e vuole agire secondo la logica, e quindi stiamo facendo quello che Pirandello avrebbe potuto chiamare il gioco delle parti. Ciascuno non fa la parte sua. Ora, ci vogliamo mettere d’accordo per vedere di tirar fuori questo Paese dalla situazione attuale?

Io una volta, per conto mio, e per conto dei colleghi del mio partito, feci una esclusione. Era una esclusione che rispondeva per una piccola parte (e di questo ne chiedo perdono a tutti) ad un sentimento di carattere personale.

Ero stato estromesso, ed allora era umano che io rispondessi con lo stesso sistema. E di questo, per quel che concerne il sentimento di carattere personale, dico che ho fatto male; perché in politica gli uomini dovrebbero sempre guardare al Paese e mai a risentimenti di carattere personale. Ma c’era una parte sostanziale che ci divideva e che potrebbe darsi che, su un terreno di collaborazione completa, ci continuerebbe a dividere. La parte sostanziale è questa: che chi ha una mentalità orientata nel senso di una politica liberista non può evidentemente agire bene nell’interesse generale se deve continuamente transigere con coloro che hanno una mentalità orientata in senso differente. È questa la ragione per la quale la formazione generale di un Governo come quello vaticinato dall’onorevole Nenni o come quello vaticinato dall’onorevole Togliatti credo non sia possibile. E mi duole che non sia possibile, perché ammetto e riconosco che diminuire la tensione, come diceva testé l’onorevole Morandi, creare un’atmosfera di concordia, sarebbe un gran risultato, potrebbe avere per il Paese benefici immensi. Ma, giunto a questo punto, io mi domando: se la mia diagnosi sulle direttive indispensabili di politica è esatta, vi conviene proprio di partecipare a questo Governo di coalizione?

SCOCCIMARRO. A noi no! Al Paese sì!

CORBINO. Scusate se una volta tanto entro nei fatti vostri. Vi sono infinite maniere di collaborare. Non è assolutamente necessario stare gomito a gomito nel Consiglio dei Ministri. La collaborazione deve avere per presupposto la garanzia delle pubbliche libertà. E credo che qui non ci sia nessuno che possa accettare lontanamente l’ipotesi di entrare in una qualsiasi combinazione nella quale il presupposto del rispetto delle pubbliche libertà per tutti su un piano di perfetta uguaglianza non sia da tutti riconosciuto. (Approvazioni). Dunque, il terreno della collaborazione, a mio giudizio, va trovato nell’atmosfera generale che deve regolare i nostri rapporti; va trovato in uno sforzo di reciproca comprensione, in una specie di tregua delle battaglie ideologiche fino al giorno in cui il corpo elettorale non si sarà pronunciato e avrà dato al partito, che a giudizio del popolo lo merita, la maggioranza necessaria per governare il Paese per i cinque anni di vita del prossimo Parlamento.

In sostanza, se siamo tutti d’accordo che l’ordine è necessario, che la produzione debba essere intensificata, che il risparmio debba essere stimolato colpendo quei consumi – a cominciare soprattutto dai consumi di lusso che sono quelli che più oggi colpiscono la fantasia dei più poveri – se siamo d’accordo su questo, non dovrebbe essere impossibile trovare una formula che consenta a tutti di collaborare in perfetta armonia di intenti per questo scorcio di 6-8 mesi che ci separa dal giorno delle elezioni. Voglio aggiungere qualche cosa di più: noi – e credo di interpretare in questo il pensiero anche degli amici del Partito liberale – non porremo condizioni di sorta. Siamo disposti ad escluderci automaticamente, se questa esclusione fosse necessaria per dare al Paese un Governo, che governi fino al giorno delle elezioni. E con questa esclusione, credetelo pure, onorevoli colleghi, noi avremmo la coscienza di interpretare il liberalismo, nel senso più alto della parola; perché oggi in Italia non è in giuoco la sorte di una classe o di un’altra, ma la libertà. E se il Partito liberale dovesse sparire per salvare la libertà in Italia, esso non avrebbe fatto che la più piccola parte del suo dovere. (Vivi applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione sulle mozioni è rinviato a domani.

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza due interrogazioni con richiesta di risposta urgente. La prima è quella degli onorevoli Volpe e Aldisio, al Ministro dell’interno, «sui fatti di Mussomeli, Villalba e comuni viciniori».

Questa interrogazione sarà abbinata all’altra, sullo stesso argomento, degli onorevoli Musotto e Fiorentino, annunziata nella seduta pomeridiana di ieri.

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà nella seduta di lunedì.

PRESIDENTE. La seconda interrogazione è la seguente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quale fondamento abbia la notizia data dalla stampa, circa la costituzione di Commissioni di conciliazione per superare il grave turbamento sociale, sorto in seguito alla occupazione delle terre in alcune regioni d’Italia e, se la notizia è vera, per sapere quali siano le funzioni delle suddette Commissioni, le quali, secondo l’avviso dell’interrogante, dovrebbero tendere non solo a stabilire rapporti legali fra proprietari ed occupanti, ma altresì a tenere presenti le esigenze di quelle organizzazioni cooperative e di quei contadini che, pur bisognosi di terra, si sono astenuti da azioni illegali per non turbare la tranquillità sociale, fondamento della ricostruzione del Paese.

«Angelucci».

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Questa interrogazione potrebbe essere rivolta piuttosto al Ministro dell’agricoltura che a quello dell’interno.

ANGELUCCI. La estendo anche al Ministro dell’agricoltura.

PRESIDENTE. Interpellerò i Ministri competenti perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Comunico che è stata presentata anche la seguente interpellanza, con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere le ragioni che hanno spinto il primo a disporre che il prefetto di Caltanissetta sciogliesse arbitrariamente le Commissioni per l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate alle cooperative di contadini, provocando anche la protesta del presidente di quel Tribunale; e il secondo a consentire che il procuratore della Repubblica di detta città facesse rinviare – con aperta violazione del principio della indipendenza della Magistratura – ogni decisione sull’ex feudo Polizzello, richiesto regolarmente dalla cooperativa di Mussomeli; comunque, se intendano revocare le disposizioni anzidette, aventi lo scopo di coartare la volontà delle Commissioni giudicanti in danno dei contadini e di impedire che abbiano pratica attuazione le decisioni già prese da dette Commissioni, specie quelle riguardanti l’ex feudo Polizzello, che una regolare ispezione della Commissione competente e una relazione tecnica del perito hanno dichiarato parzialmente incolto e parzialmente mal coltivato.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiore».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Farò sapere lunedì quando il Governo potrà rispondere.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Presentai tempo fa al Ministro dell’interno un’interrogazione con carattere di urgenza. Egli mi aveva promesso che avrebbe risposto in una successiva seduta. Ma finora ciò non è stato fatto. Continuano ad accadere incidenti dolorosi e gravi, nelle Marche ed in Romagna, per l’occupazione delle case del partito fascista. Di ciò tratta la mia interrogazione. Sarebbe opportuno che il Governo rispondesse di urgenza anche prima di lunedì perché sono in corso operazioni di polizia e giudiziarie. A questo proposito c’è un progetto di legge da me presentato che è passato per tutti i Ministeri ma non è ancora arrivato all’esame dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Se io fossi al posto suo pregherei il Governo di rispondermi rapidamente per iscritto.

Poiché nella sua interrogazione è richiamato il progetto di legge da lei elaborato, il Governo potrebbe dirle così a che punto se ne trova l’esame.

MACRELLI. Io chiederei frattanto che il Governo emettesse, in via di urgenza, i provvedimenti necessari onde evitare dolorosi incidenti. Si fa una sospensione di dieci o quindici giorni e non si ottiene nulla, e frattanto accadono incidenti dolorosi e gravi.

PRESIDENTE. Ma le ho già detto che secondo me l’importante sta nel fatto che il Governo esprima il suo avviso sull’argomento e che ciò può essere fatto dal Ministro al quale l’interrogazione è diretta anche per iscritto.

MACRELLI. Trasformerei allora l’interrogazione in interrogazione con richiesta di risposta scritta, diretta al Ministro dell’interno, e vorrei estenderla anche al Ministro di grazia e giustizia, dato l’intervento dell’autorità giudiziaria nei lamentati incidenti.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. D’accordo.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Vorrei richiamare l’argomento di cui abbiamo brevemente trattato stamattina e ieri sera. Poiché abbiamo constatato che col ritmo attuale possono essere ascoltati due oratori per ogni seduta ed in più l’esposizione di un Ministro, penso che da domani dovremo cominciare a tenere sedute serali. (Approvazioni – Commenti). È una necessità, onorevoli colleghi. Così abbiamo fatto alcune volte nel passato. Due sedute formalmente, una mattutina e una pomeridiana, ma quest’ultima verrà sospesa ad una certa ora, per essere poi ripresa dopo un certo tempo e protrarsi nella tarda serata.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Se i Gruppi fossero disposti a ridurre il numero degli oratori iscritti, anche gli interventi dei Ministri potrebbero essere limitati, ed io mi impegnerei al riassumere nel mio discorso – salvo l’intervento del Ministro del bilancio – gli argomenti che dovrebbero essere trattati ancora da altri Ministri.

PRESIDENTE. Questo non dipende da me. Dipende dai Gruppi limitare il numero degli oratori. Gli iscritti a parlare sono ancora 42. (Commenti). È evidente che se il numero degli oratori si riduce, così come si ridurrebbe il numero dei Ministri attraverso il metodo che il Presidente del Consiglio sarebbe disposto a adottare, potremmo anche rinunciare alle sedute serali. Comunque, anche se questo avvenisse, domani sera prolungheremo la seduta.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano opportuno emanare provvedimenti perché le città di Agrigento, Canicattì, Licata e Porto Empedocle, gravemente danneggiate dagli eventi bellici, abbiano il loro giusto riconoscimento di centri danneggiati; e quali i motivi che fino ad oggi hanno determinato il detto mancato riconoscimento, causa del diffuso malcontento tra la popolazione, ben considerato che tale riconoscimento è stato già fatto per centri meno danneggiati.

«D’Amico, Li Causi, Montalbano, Fiore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga indispensabile procedere ai lavori di bonifica del secondo lotto del comprensorio dell’Urana-Saima (provincia di Udine) e al relativo finanziamento, se non si vuole che il dispendio fatto per completare i lavori del primo lotto corra il rischio di andare completamente perduto in seguito alle alluvioni, molto probabili, sia nel corrente autunno sia nella prossima primavera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei trasporti e della marina mercantile, per conoscere come intendano fronteggiare la grave situazione denunciata dalla Compagnia lavoratori portuali e dal Consiglio di amministrazione del Provveditorato al porto di Venezia.

«In seguito alla confortante ripresa di arrivi di vapori, carichi specialmente di carbone, necessita che l’insufficienza, ora aggravata, di carri ferroviari, anche per la prolungata sosta di ingenti quantitativi di carbone in depositi a terra, non comprometta l’attività del porto di Venezia; necessita che i due Ministeri, dei trasporti e della marina mercantile, oltre ad adoperarsi perché con ogni urgenza venga assicurata giornalmente una adeguata assegnazione di carri ferroviari, che consenta continuità nel lavoro di scarico e rapido sgombro dei depositi, pongano contemporaneamente ogni attenzione al problema della migliore e più razionale utilizzazione dei trasporti per le vie acquee interne. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ghidetti, Ravagnan».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se è a conoscenza, e come intenda rimediarvi, dell’ingiusta disparità di trattamento che l’applicazione del regio decreto 7 dicembre 1923, articolo 5, ultimo comma, determina tra il personale attualmente in quiescenza, già dipendente dal Ministero delle comunicazioni.

«Scomposto quest’ultimo, con la fine del fascismo, e restituiti i post-telegrafonici all’apposito Ministero, per il criterio adottato dal Ministero dei trasporti, si ha questa assurda situazione: i dipendenti ferrovieri licenziati durante la guerra e contemporaneamente riutilizzati, e con la fine della guerra nuovamente licenziati, si trovano ad avere un trattamento di pensione che esclude l’ultimo periodo di servizio come riutilizzati; periodo che invece è stato riconosciuto ai post-telegrafonici, e ciò per evidenti ragioni di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se non ritengano equo ed opportuno ammettere i militari, membri delle disciolte bande musicali, al godimento della pensione riservata ai militari di carriera, tenuto presente:

che i membri delle bande musicali disciolte nel 1923 erano militari di carriera (come dimostra la loro assunzione per concorso e ad esempio, l’autorizzazione a prender moglie), anche se il regolamento disponeva che non potessero superare il grado di caporal maggiore, qualunque fosse la loro anzianità; che essi sono stati collocati in pensione con gli assegni «tabellari» che competono ai militari di leva e non di carriera, poiché alla data del provvedimento ciò non li danneggiava, non esistendo il «caro-viveri» di recente istituzione;

che le altre categorie di militari di truppa, di carriera”(carabinieri, finanzieri, ecc.), godono di pensione non tabellare;

che l’aggravio che ne deriverebbe al Tesoro sarebbe minimo, considerato l’esiguo numero di questi ex-militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scarpa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro ad interim dell’Africa italiana, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per rendere più sollecite e più semplici l’istruttoria e la liquidazione delle domande di risarcimento di danni di guerra subiti dai nostri connazionali in Africa Orientale Italiana ed in Libia.

«Migliaia di profughi, rientrati in Patria completamente spogliati di ogni loro avere, vivono in estrema indigenza ed attendono, con l’ansia resa sempre più acuta dal crescente bisogno, la predetta liquidazione.

«L’espletamento delle pratiche, nonostante il lodevole spirito di sacrificio dei preposti, la loro abnegazione e la loro competenza, procede con ritmo veramente esasperante, in dipendenza, soprattutto, dell’insufficienza e della angustia dei locali, della mancanza di materiali per una razionale attrezzatura degli uffici (scaffali, raccoglitori, cartelle, ecc.) e della lenta e complessa procedura burocratica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pat».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se sia vero che è stato disposto il trasferimento del 46° fanteria da Messina a Palermo e quale sia in tal caso l’utilità di un provvedimento che importerebbe un notevole dispendio, dato che a Messina dovrebbe trasferirsi un reggimento, che ha l’attuale sede a Palermo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 1° OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Quarello

Lizzadri

Presidente

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pignatari.

(È concesso).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Quarello. Ne ha facoltà.

QUARELLO. La discussione su un argomento così importante come quello del caro-vita e dei prezzi, da tempo desideravo che l’Assemblea Costituente avesse potuto affrontarla, non tanto sotto la pressione di muovere delle critiche, quanto per l’esame dell’argomento in se stesso, allo scopo di portare un contributo, sia pure relativo, alla risoluzione di così gravi problemi, senza per questo illudersi di poterli dominare, né di poterli risolvere, in quanto si tratta di argomento di tale importanza e potenza da sconvolgere non solo l’economia in Italia, ma anche negli altri Paesi.

Ma è evidente che un contributo su questo argomento merita di essere dato, anche perché noi constatiamo che questo processo di aumento di costi, che continua quasi in modo perenne, è dovuto sostanzialmente al problema dell’insufficienza dei mezzi che si possono avere, e quindi è un esame dedicato a quello che è il processo produttivo. Ma nel caso nostro, nel momento in cui si pone questa discussione, e cioè sotto la pressione di avvenimenti specifici e di una mozione di sfiducia al Governo, è pure il caso di esaminare se eventualmente l’argomento del caro-vita in sé non sia un pretesto e non possa essere soltanto il mezzo di inscenare un’opposizione politica senza che ci siano giustificazioni sostanziali e precise.

Non che con questo io dica che non ci sia il problema del caro-vita, ma, nel modo e nel tempo in cui le agitazioni sul caro-vita si vengono a svolgere, c’è da credere che vi sia una preoccupazione: che il caro-vita non abbia avuto ancora quelle accentuazioni che si vorrebbero avere.

Vorrei far presente agli onorevoli colleghi che, tutte le volte che noi assistiamo a dei grandi movimenti e a grandi agitazioni nazionali contro il caro-vita, è proprio quando gli indici del caro-vita tendono a rallentarsi e, direi quasi, a normalizzarsi.

Noi abbiamo avuto l’anno scorso, per esempio, nel 1946, un grande movimento contro il caro-vita, che si è sviluppato nei mesi di agosto e settembre. Noi ci ricordiamo le manifestazioni nazionali e il Presidente del Consiglio si ricorderà anche delle commissioni che egli dovette ricevere a Milano in occasione di una grande manifestazione.

Ebbene, sarà il caso di esaminare quale era stato l’andamento dei prezzi in quel tale periodo e vedere se eventualmente, in quel tale periodo, avrebbero dovuto essere minori le preoccupazioni e se in quelle agitazioni non c’era invece la volontà precisa di creare condizioni artificiose, quasi per impedire che un principio di ristabilimento si venisse a consolidare.

Abbiamo dunque nel precedente anno queste variazioni di prezzi: nell’aprile 1946 il franco svizzero era disceso a 94 lire, mentre nel luglio precedente era a 170; il prezzo dell’oro nel marzo 1946 era disceso a 510-520 lire al grammo, mentre nell’anno prima era a 1000-1030.

Questo annunciava evidentemente una diminuzione dei prezzi all’ingrosso, tanto che noi abbiamo avuto nei mesi di aprile, maggio e giugno queste variazioni: il prezzo del ferro, per esempio, che era al febbraio 40-42, era disceso in giugno a 30 al chilogrammo vagone; e il prezzo del legno compensato di pioppo, da 70-80 mila lire, era disceso a 50 mila al metro cubo. Questo nel mese di giugno.

Ma c’era un altro fatto, e cioè che gli indici del caro-vita avevano segnato un rallentamento notevolissimo, tanto che, prendendo i dati che ho avuto dal comune di Torino e che sono stati pubblicati, abbiamo avuto questa situazione: l’indice del caro-vita, paragonato a 100 nel 1938, nell’aprile del 1946 era a 2668, discendendo in maggio a 2508; in giugno a 2470; in luglio a 2327. Quindi, era da due o tre mesi che si verificava una relativa normalizzazione nei prezzi, tanto che l’indennità di caro-vita, al 1° luglio, con l’applicazione della scala mobile, aveva portato ad un aumento solo di 3 lire al giorno.

Quindi era evidente che in quel particolare momento c’era un ribasso e una tendenza alla normalizzazione, sia pure relativa, in quanto che i prezzi di mercato non si stabilizzano così facilmente, ma sono soggetti ad altre condizioni. Evidentemente bisogna considerare, e risulta dai dati esposti, che gli scopi dell’agitazione erano ben diversi; c’è da domandarsi se quelle agitazioni non fossero state provocate apposta per impedire che la situazione si normalizzasse, per determinare uno stato d’animo nel Paese, tale da poter consentire la continuazione della ascesa dei prezzi, da poter impedire quella stabilizzazione che, a quanto pare, molti temono.

Vediamo quest’anno. Anche nel 1947 abbiamo avuto una ascesa dei prezzi, perché dopo le agitazioni dell’anno scorso – dell’agosto, settembre, ottobre – i prezzi hanno ripreso a salire e quando i prezzi cominciano di nuovo a salire, le agitazioni pare che si fermino. Quest’anno abbiamo avuto un principio di rallentamento nell’ascesa dei prezzi, preceduto dal ribasso dei titoli, appena costituito l’attuale Governo. In aprile c’è stata una piccola revisione nella scala mobile, si è avuto un secondo aumento e siamo arrivati al luglio di quest’anno. Nel mese di luglio di quest’anno il costo della vita rispetto al giugno accenna una leggera diminuzione, tanto che al giugno era – sempre con 100 al 1938 – a 4716, a luglio a 4503.

Di colpo noi apprendiamo che la Confederazione del lavoro inizia tutta una serie di agitazioni e tutti si domandano cosa sta per accadere. Vi sono, indubbiamente, notevoli riflessi di carattere psicologico, ma malgrado tutti i movimenti avvenuti, malgrado tutte le inscenature, il mese di agosto ha dato come percentuale del costo della vita 4408, cioè ha segnato ancora una leggerissima diminuzione rispetto al mese precedente.

Davanti a questi dati noi ci domandiamo francamente se queste agitazioni sono rivolte a combattere il rialzo o se sono rivolte a provocare viceversa continui rialzi, cioè se in sostanza questa azione tende a combattere la speculazione o a creare condizioni di fatto perché la speculazione si sviluppi e continui, creando condizioni di impossibilità per la stabilizzazione.

L’inscenatura avvenuta perciò è completamente artificiosa e tende sostanzialmente non ad eliminare quegli inconvenienti, ma a crearne viceversa degli altri sempre maggiori.

Ma ci sono altre considerazioni da fare. Ci sono è vero gli indici del costo della vita, ma ci sono le condizioni di chi lavora, che sono gravissime. Ebbene, sarà il caso che noi li esaminiamo e siccome qui, in questa sede, il 20 di giugno è stato dichiarato che, per la prima volta nella storia, con la tregua sindacale si è verificato che gli operai hanno rinunciato ad ogni aumento, mentre tutto rincarava, sarà bene il caso che io esponga qualche cifra per far presente agli onorevoli colleghi che cosa ha voluto dire la tregua sindacale e che cosa ha voluto dire l’accordo che è stato concluso.

Noi abbiamo presenti le condizioni salariali nel mese di agosto del 1946 e qui vi porto quale base di categorie, le paghe di Torino perché i dati nazionali non ci sono. Noi avevamo un salario giornaliero composto in questo modo: paga oraria di 20 lire che per otto ore fanno 160; contingenza lire 159 più 3, 162; lire 8 di indennità di mensa. Salario giornaliero 330 lire. In quel momento l’indice del costo della vita del mese di agosto, sempre secondo l’ufficio statistica ed inchieste del comune di Torino, segnava 2426 rispetto al 100 del 1938. Gli onorevoli colleghi ricorderanno che durante le trattative per la tregua salariale fu concesso un acconto di lire 40 applicato con data 16 settembre e venne dato un aumento in seguito di altre 56 lire, per cui il primo acconto sulla tregua salariale ha portato un aumento di 96 lire giornaliere, che vennero suddivise, in parte, nella paga oraria con l’aumento del 35 per cento. L’aumento sulle paghe del 35 per cento, a partire dal primo ottobre, è stato comunicato alle ditte il 26 novembre (la retroattività è oramai regola generale).

Si è avuto un successivo aumento nel mese di novembre e così nel mese di dicembre, per modo che, sempre a norma dei contratti, al primo dicembre le paghe erano di lire 523.90, al primo febbraio di lire 599.85, al primo aprile di lire 707.85, al 16 aprile si sono aggiunte 4 lire giornaliere per aumento caro-pane, al 1° giugno si hanno lire 817.40. Al primo agosto si ha l’ultimo aumento: paga oraria di lire 46.80, per otto ore lire 374.40; contingenza 598.40; caro-pane 8 lire; mensa 8 lire. In totale 988.80.

Gli assegni familiari nell’agosto 1946 erano di 28 lire; attualmente sono di 59 lire a cui va aggiunto il caro-pane. Quindi in un anno dall’agosto 1946 all’agosto 1947 il costo della vita ha variato da 2.426 per toccare al massimo in giugno 4.716, cioè raddoppiando. Il salario dei lavoratori è andato da 330 a 988. Cioè triplicando.

Quindi, dal punto di vista dei salari, la tregua ha concesso miglioramenti nella capacità di acquisto dei lavoratori; e le agitazioni inscenate in questo mese di agosto e settembre non erano giustificate affatto dall’indice del costo della vita che tendeva a normalizzarsi, ed erano meno giustificabili dalle condizioni salariali che avevano aumentato del 50 per cento (rapporto da 2 a 3) la capacità di acquisto nei confronti dell’anno scorso. (Interruzioni a sinistra – Commenti).

GIUA. Perché non va a dirlo agli operai di Torino?

QUARELLO. Questi sono dati tratti dal libro paga.

Sarà bene che faccia rilevare agli onorevoli colleghi, caso mai non lo tenessero presente, che l’accordo per la tregua salariale è stato una iniziativa particolare del Presidente del Consiglio dei Ministri, quando, risolta la crisi del settembre 1946, sentì la necessità e il bisogno di lavorare un po’ in pace e chiese alle rispettive Confederazioni del lavoro e dell’industria che compissero uno sforzo per creare una condizione di relativa tranquillità che consentisse il regolare svolgimento dell’attività sindacale, e desse a chi lavorava condizioni di vita possibili, almeno compatibilmente con la situazione.

La cosa è avvenuta. Tengo a dichiarare che la discussione, attraverso le rispettive Confederazioni, ha avuto la partecipazione attiva, da parte del Governo, dell’onorevole Campilli; tanto che, quando il 27 ottobre dello scorso anno, in sede conclusiva, fu firmato il patto di tregua salariale, l’onorevole Lizzadri, a nome della Confederazione generale italiana del lavoro, ed il rappresentante industriale, hanno sentito il dovere di ringraziare in modo particolare l’onorevole Campilli dichiarando che era la prima volta che il Governo partecipava con così buona volontà alla discussione e portava un contributo così sostanziale, rendendosi conto delle condizioni dei lavoratori.

Ho voluto ricordare questo piccolo particolare, per far sentire che in questa questione il Governo era presente, come è stato presente ed è presente in tutte le questioni che riguardano il lavoro, portando sempre in esse un contributo non solo di pacificazione ma soprattutto di comprensione, facendo quanto è umanamente possibile fare in questo momento per elevare il tenore di vita dei lavoratori.

Qualcuno potrebbe osservare: allora non c’è più niente da fare; ormai le condizioni salariali sono migliorate; adesso possiamo stare tranquilli.

Nessuno di noi si illude né crede di illudere gli altri che la situazione possa essere a posto. Anzi, devo dire che l’aumento avvenuto nel potere di acquisto rispetto al 1946 è cosa non solo transitoria, ma apparente, perché noi giochiamo su di una economia, che non ha ancora raggiunto la sua posizione precisa di prezzi. Troppi valori oggi non sono valutabili a prezzo economico: abbiamo dei servizi generali al disotto del loro costo, e lo stesso può dirsi per i fitti. Quando l’economia dovrà basarsi sulla stabilizzazione effettiva del costo, in quel momento vedremo che le condizioni salariali, quali oggi sono, verrebbero ad essere di molto insufficienti.

Perché noi marciamo su di una economia, fondamentalmente basata su di una struttura industriale che si regge soltanto per il fatto che 10 altre economie sono in condizioni peggiori della nostra.

Mi sia permesso, prima di addentrarmi nel problema industriale, di trattenermi sulla questione annonaria.

Tutte le volte che si parla di caro-vita, tra le diverse rivendicazioni che si pongono vi è sempre la proposta di aumentare gli ammassi, di portare una maggiore disciplina nel regime annonario. Sovente nei comizi si sentono minacce, per il fatto che il Governo non provvede: che occorrerebbe perciò essere più energici ed impiccare anche qualcuno. Si dice che c’è una teoria di regolamentazione, la quale trova anche una certa rispondenza nell’animo popolare, in quanto che tutto quello che è semplicistico trova maggior presa.

Altra cosa da prendere in esame è la situazione dei prezzi dei generi alimentari. È una questione che non può prescindere da quella che è la quantità di circolante che abbiamo e dalla quantità dei mezzi, di cui ciascuno dispone; perché la insufficienza dei mezzi e delle merci porta come conseguenza che tutte le volte che aumentiamo il potere di acquisto, facciamo salire evidentemente il prezzo, per la ragione, molto semplice, che la merce è sempre quella e quindi il prezzo è soggetto a salire sino al punto, nel quale qualcuno deve rimanere senza quella merce. È tragico dire queste cose, ma è inevitabile. Fin quando noi aumentiamo il guadagno dei lavoratori, non faremo che spingere in alto i prezzi dei generi alimentari, sino al punto della massima offerta. Perché tutti noi, dal primo all’ultimo, qualora non li trovassimo sul mercato, andremmo a cercarli sui luoghi di produzione.

Questo è bene dirlo con franchezza, perché si dice, nei comizi ed altrove, che il governo non prende i provvedimenti necessari. Ma nessuno ha il coraggio di dire che siamo noi a ridercene di questi provvedimenti e che il popolo italiano non sa cosa farsene di questi provvedimenti che non rispetta. La verità è che noi non protestiamo quando la borsa nera aumenta, ma quando la borsa nera non funziona o funziona meno, si va magari in bicicletta a cercare quello che occorre sui luoghi di produzione. In Italia ci sono quattro milioni di produttori: su quattro milioni di produttori se ne trova sempre qualcuno dal quale si può trovar merce e dal quale si può acquistarla.

La realtà, signori, è che siamo tutti animati da un senso egoistico ed individuale che è veramente impressionante. Nessuno di noi è disposto ad accettare sacrifici. Quando parliamo di sacrifici, parliamo sempre dei sacrifici degli altri; quando si parla di qualcuno che deve pagare, parliamo sempre di altri che debbono pagare. Non c’è classe, non c’è categoria, direi quasi che non c’è individuo in Italia oggi che non senta di essere, lui personalmente, la sua categoria e la sua classe, quella che ha la maggiore importanza in Italia, mentre le altre classi e le altre categorie debbono pagare e sacrificarsi. Questa è la mentalità profondamente egoistica ed individualista che si è affermata in Italia ed è la mentalità sulla quale tutti giuocano per speculare sui singoli interessi di categoria e per accentuare i contrasti che ci sono tra classe e classe.

Per quella parte che si riferisce agli aumenti di prezzo dei generi alimentari, l’unica possibilità di rimediare consiste nell’importare dall’estero quanto è possibile e nell’aumentare la nostra produzione interna per sopperire alle attuali esigenze.

Si verifica un fatto importante: vediamo che sono aumentate, in questi ultimi tempi, le spese voluttuarie. Io credo che tutti quanti hanno potuto constatare che tutto ciò che è divertimento e genere voluttuario – dal cocomero al gelato, al cinema – ha un consumo semplicemente spaventoso. Quando penso che a Torino dei posti affittati per la vendita al pubblico sono stati pagati 600 mila lire per soli 15 giorni per vendere quella roba, evidentemente è il caso di dire che si spende molto e chi vende, guadagna molto. Ma il fatto impressionante è questo: che la grandissima parte di quello che dovrebbe andare al risparmio va a tutto quello che è genere voluttuario. Questo perché? Innanzi tutto perché non si può fare risparmio per timore della svalutazione, che annulla il valore del risparmio; inoltre, per l’impossibilità di rivolgere quei risparmi all’acquisto di beni reali. Perché, mentre abbiamo constatato nel guadagno complessivo un miglioramento rispetto al 1946, è altrettanto vero che rispetto ai prodotti industriali abbiamo avuto un peggioramento. Infatti, le industrie – la maggior parte delle industrie – lavorano unicamente per un mercato di eccezione, in quanto la loro produzione non può rivolgersi al mercato medio e povero, e la produzione così come si svolge oggi, non è possibile che sia portata ad un prezzo di acquisto accessibile alle classi medie e più povere, perché la struttura industriale è oggi così pesante ed antieconomica che ogni aumento di salario porta ad un costo di molto superiore a quello che comporta l’aumento stesso.

Esempio tipico: quindici anni fa gli operai guadagnavano 24 lire al giorno. Io posso dire, in base all’esperienza di allora, che era molto facile per l’operaio riuscire a comperarsi la camera da letto ed a sistemarsi la cucina; qualcuno aveva la possibilità di comperarsi perfino la camera da pranzo. Ciò era possibile perché si pagavano delle cifre proporzionate a quello che era il guadagno. Oggi, con mille lire al giorno, gli operai non riescono a comperarsi nemmeno una sedia per la cucina perché il costo dei prodotti industriali, il costo delle materie prime, il costo del processo di lavorazione sono saliti ad un tal prezzo che la produzione è destinata ad altri mercati.

Ne ho avuto l’esempio, nei primi giorni della Fiera di Torino. Ho visto, in uno stand, una camera da pranzo di un gusto così pacchiano, così volgare, ma di altissimo prezzo che ho chiesto chi avesse permesso la presentazione di un mobile così disgustoso. «È l’unico che abbiamo venduto», mi hanno risposto.

Ora, questo esempio merita evidentemente un esame, perché dobbiamo constatare oggi questa insufficienza di potere di acquisto da parte dei lavoratori dei prodotti industriali. Se possiamo dire che le altre nazioni non hanno ancora risolto il loro problema industriale, se l’economia ancora non è collegata internazionalmente, tutto ciò però rappresenta un fatto preoccupante perché queste cose ad un dato momento devono avvenire, perché la speculazione rallenterà e si ritornerà al mercato normale.

Oggi, possiamo fare manifestazioni anche contro il caro-vita, ma il giorno in cui le industrie non lavorassero più, potremmo fare sì dimostrazioni, ed anche con maggiore ragione, ma non concluderemmo più niente. Potremo protestare e con più ragione, ma senza alcun esito.

Ora, qual è la nostra situazione? Se permettete, onorevoli colleghi, farò un breve esame della situazione e mi riporterò allo sviluppo precedente, farò cioè un esame retrospettivo per poter giudicare, con una certa sicurezza, anche quello attuale.

Lo sviluppo industriale in Italia è veramente notevole, ed anche dal punto di vista tecnico è veramente ammirevole. In questi ultimi quindici anni esso si è sviluppato per dei prodotti particolari, rivolti all’economia italiana ed in clima di possibilità economiche dovute all’autarchia, cioè non sul campo della concorrenza internazionale.

Quindi con altra mentalità, con altra struttura.

È venuta la guerra e l’economia si è adattata ai bisogni della guerra. È venuta poi l’occupazione e allora si è verificato questo caso particolare: che l’industria – parlo del Settentrione – nel tempo dell’occupazione nazi-fascista era rivolta ancora apparentemente a produrre, ma sostanzialmente a non produrre, sia perché la non produzione era un fatto di dovere nazionale, sia perché il non produrre è sempre una cosa più comoda di quella di lavorare, sia anche perché la possibilità di scambi di merci era ristretta. Ma si era verificato anche in queste aziende un aumento di personale, dovuto all’assunzione di elementi da parte delle diverse aziende per farli partecipare alla lotta di liberazione e per toglierli al controllo nazi-fascista. E possiamo dire che nel Settentrione, da parte di molti industriali, è stato dato un esempio veramente di solidarietà, assumendo, senza averne bisogno, senza possibilità di lavoro, personale che veniva tenuto in forza nello stabilimento stesso. Si era verificata anche un’altra cosa: si era verificato uno stato d’animo curioso: la speranza della liberazione aveva illuso anche molta gente nel senso che tutto sarebbe cambiato. Se noi ricordiamo tutti i vincoli che esistevano nell’economia in quegli anni della guerra, tutte le attrezzature legali e commerciali che le aziende industriali avevano dovuto impiantare per via delle assegnazioni o non assegnazioni, ricordiamo anche quale era stata la conseguenza di questo fatto, cioè, che, non potendo più lavorare senza assegnazioni (e si lavorava lo stesso) si era cominciato ad attrezzarsi in modo da eliminare il peso fiscale perché non potendosi procedere ad acquisti regolari, non si poteva produrre regolarmente e vendere regolarmente. Si era creata in tutte le aziende una struttura fiscale ed amministrativa diversa, più complessa, quasi doppia, perché bisognava trovare il modo di regolarsi di fronte alla legge.

Si aveva così a fine guerra una struttura rivolta a produzioni autarchiche e di guerra, una prevalenza enorme di mano d’opera non adatta ai lavori, una organizzazione commerciale e fiscale sproporzionata ed impiegati in un numero maggiore. Si sperava che la liberazione avrebbe liberato da tutti i vincoli, consentendo di potersi mettere a lavorare tranquillamente.

Si era verificato anche un fatto di importanza morale che noi, in seguito, abbiamo fatto il possibile per annullare tutti insieme. Si era verificato in quel momento una certa solidarietà, la comprensione della utilità degli sforzi del lavoratore e del datore di lavoro, che aveva raggiunto, in certi posti, una completa unione. C’era la sensibilità, quasi la certezza che a guerra finita si sarebbe realizzato qualche cosa di più profondo, di duraturo nei rapporti fra capitale e lavoro, fra lavoratori e datori di lavoro.

Questa comunanza di interessi nella stessa lotta per difendere gli impianti industriali che, anche se è stata un po’ artificiosamente aumentata, in parte c’è stata; questo legame che esisteva tra chi lavora e fa lavorare, aveva generato la convinzione che questa volta si sarebbe potuto ottenere una realizzazione concreta.

E siamo venuti alla liberazione. Bisognava tener conto di una cosa; che l’economia si doveva adeguare ai bisogni del Paese.

C’è un fatto innegabile; l’economia industriale italiana era in piedi mentre quella degli altri paesi europei era distrutta; quindi una condizione di privilegio assoluto su tutta l’Europa, in un mondo che di tutto aveva bisogno, e quindi possibilità da parte nostra di conquistare i mercati che finora non avevamo potuto conquistare, nella condizione di essere gli unici a poter lavorare e quindi a poter ottenere quelle materie per lavorare che noi non avevamo.

Bisognava perciò affrontare la necessità di introdurre, con adeguazione alle esigenze produttive, quei cambiamenti nella struttura delle aziende resi necessari dalle nuove esigenze, cioè tutta una revisione dei rapporti di lavoro.

Fra tutte queste aspirazioni subentra la liberazione. Avviene l’epurazione, sulla quale però non parlo perché, evidentemente, è legge e su quello che è applicazione di legge non dico nulla, anche se non ne condivido i principî.

Ma, in proposito, vorrei dire per la parte che mi riguarda, come democratico cristiano, di essere lieto che ad imporre quelle leggi e quelle disposizioni non ci siano stati i nostri uomini, ma rappresentanti di altri partiti, anche se – quasi per somma ironia – oggi vediamo che le masse si agitano contro quelle tali disposizioni di legge e sono incitate contro gli uomini che le hanno subite, mentre le masse avrebbero dovuto e dovrebbero rivoltarsi contro i loro dirigenti che le hanno emanate. (Applausi a destra).

Ma veniamo ai provvedimenti interni. Non so se molti di voi hanno seguito lo sviluppo industriale del Settentrione: i provvedimenti interni (cioè la espulsione dallo stabilimento) sono stati presi per quelli che avevano un certo valore tecnico ed una certa capacità, quelli che avevano una funzione disciplinare, cioè verso gli elementi essenziali, veri competenti per la gran parte, che potevano avere influenza sia per autorità, sia per capacità fondamentale nel funzionamento aziendale.

Un provvedimento generale, un’unica scusa e via!

Ora, c’è un fattore morale: questa gente, specialmente parlo della mia provincia, era nell’età dai 45 ai 60 anni, gente si può dire della mia generazione. Ed io posso dire che la gran parte dei dirigenti industriali torinesi erano da ragazzi con me in fabbrica. Centinaia, molte centinaia ci siamo conosciuti alle scuole serali professionali dopo dieci ore di lavoro; e questa gente che si è fatta attraverso tanti sacrifici ha portato una competenza tecnica di primissimo ordine nell’industria torinese e sono questi che abbiamo visto mettere fuori, perché non erano piaciuti all’elemento interno. Posso testimoniare fra voi che per molti non c’era nessuna ragione di carattere politico (e d’altronde per questo c’era la epurazione). Quello era il primo colpo che si veniva ad inferire al sistema industriale italiano per impedire che, comunque, si potesse riprendere e diventare quello che doveva essere. (Applausi).

Questa azione fu compiuta con molta intelligenza, sfruttando lo stato d’animo degli operai, e con vera passionalità, sfogando risentimenti e forse delle antipatie. Noi, durante e dopo la liberazione, ci siamo sentiti tutti leoni e lo siamo effettivamente diventati: ma, abbiamo forse dimenticato quello che eravamo qualche anno prima. Io vedo che in fabbrica di fronte a certe situazioni vi sono pecoroni, oggi, più di quanti non ve ne fossero dieci o quindici anni fa.

Ad ogni modo, quest’opera smantellatrice delle industrie è stata concomitante in tutta l’alta Italia, il che evidentemente esclude la pretesa spontaneità. E si incomincia così a verificare che, nella fabbrica, chi era rimasto a dirigere aveva capito di essere rimasto soltanto per il fatto del gradimento o della sopportabilità della massa e che dipendeva evidentemente da queste circostanze se in quel dato posto poteva ancora rimanere.

Come andasse la cosa in quel tempo non è il caso di spiegare, perché voi stessi potete rendervene conto. C’era stato un caso speciale a Torino, che cioè un grande stabilimento di prodotti metallurgici era l’unico che producesse delle lamierine che servivano ad altre industrie. Siccome il gruppo di tecnici, in questo stabilimento, di quella data lavorazione, avevano subito provvedimenti di indesiderabilità, si è dovuto conservare un ufficiale tedesco, perché era l’unico che fosse un tecnico. Malgrado questo, quella lavorazione è rimasta ferma.

Il che ha voluto dire che i possessori di quei tipi di lamiera hanno compiuto affari d’oro. E quindi anche questo per combattere la speculazione è indubbiamente servito.

E veniamo ad esaminare le condizioni di carattere salariale. I costi della vita erano aumentati in ragione di 24 volte rispetto al 1938, mentre le paghe erano aumentate solo da 10 a 17 o 18 volte, perché c’era un certo disordine dal punto di vista salariale. Anche se, infatti, c’erano stati dei provvedimenti notevoli, come quello della socializzazione, che esamineremo in sede particolare, la situazione era indubbiamente, sotto questo riguardo, da sistemarsi. C’erano degli industriali più generosi, altri più avari…

C’era insomma da compiere una regolamentazione della questione salariale. Era sperabile, almeno da noi, che, avvenuta la liberazione, in precedenza nel centro e meridione d’Italia si era costituita la Confederazione del lavoro implicante un fatto di importanza storica, da non dimenticarsi mai, l’unità sindacale, alla quale anche noi avevamo contribuito, sia pure per la parte che ciascuno di noi poteva dare, che si trovasse un organismo che fosse pronto ad agire e che ci fosse almeno un piano già preparato. Noi sentivamo che si parlava allora di piani economici e desideravamo sapere se nell’Italia già liberata questo piano fosse stato fatto. Ora, noi non sapevamo se il Governo fosse stato in grado di farlo, perché al di là del fronte noi che seguivamo questi problemi sapevamo che il Governo affrontava questioni importantissime quale quella istituzionale, ma pensavamo che la Confederazione del lavoro, almeno essa, avrebbe avuto un piano. Siccome è la pianificatrice per eccellenza, pensavamo che dovesse avere un piano.

E si è atteso… ma inutilmente. Delle azioni slegate ci sono state nei primi tre mesi, caotiche, con una infinità di interferenze. Ad ogni modo, questo non va attribuito a colpa dei singoli dirigenti sindacali locali, poiché la situazione era quella che era. Il che dimostra che in certi momenti quello che conta è la situazione di fatto.

Poi si ebbero i primi accordi di un certo valore (per i salari) nell’agosto 1945. Ma quello che attendevamo noi da parte confederale era che ci fosse un elemento nuovo, una parola nuova, un qualche cosa che fosse diverso dalla questione strettamente salariale che si veniva ad impostare. Noi aspettavamo qualche cosa che utilizzasse quello spirito maturatosi in quel periodo; auspicavano la concretizzazione delle aspirazioni della classe lavoratrice che tendesse a portare la questione non più sul piano puramente della lotta per gli aumenti salariali fatti a casaccio, ma nel senso responsabile della possibilità produttiva, entrare in quello che è il processo produttivo stesso assumendo delle responsabilità, ed abbandonare quelle posizioni apparentemente comode, dei miglioramenti o delle lotte salariali. La responsabilità sarebbe stata questa: incominciare a portare nel sistema industriale, nelle industrie, una sistemazione produttiva logica, eliminare tutto quello che era in più; perché gli errori portano a conseguenze che si pagano in modo inesorabile, né vi possono essere provvedimenti di legge che valgano ad eliminarli.

Occorreva affrontare il processo industriale e la disciplina delle aziende, per poter assumere gli oneri e le responsabilità della nuova struttura, nonché il diritto di assumere il comando delle aziende stesse, mettere su un piano di eguaglianza il lavoro con il capitale, con gli stessi diritti. Ma, signori, per questo occorreva senso di responsabilità, nonché chiarezza di vedute. La Confederazione del lavoro si vede non aveva pianificato, né, evidentemente, era possibile attendere norme al riguardo.

Potrei parlarvi di quello che è avvenuto nel campo dei consigli di gestione. Vorrei che si discutesse un giorno dei consigli di gestione, per poter effettivamente valutare le diverse esperienze acquisite, avendo avuto la fortuna di seguirli sin dai primissimi giorni della loro nascita nonché in tutto lo sviluppo, parziale e generale, a Torino. Ho visto lo sforzo compiuto, ho visto che hanno servito, malgrado, diciamo così, le origini non perfettamente sane; cioè si è partiti da un presupposto politico, non da uno economico; eppure hanno servito in un’infinità di casi.

Gli uomini di qualunque partito messi di fronte alla responsabilità, ad un certo punto cambiavano la posizione morale. Questo fatto è di un insegnamento profondo, e forse è per questo che il consiglio di gestione è rimasto come uno strumento che fino ad un certo punto ha avuto una utile funzione, ma il più delle volte vi era qualche elemento nello stesso che impediva che si andasse oltre un certo limite, ed allora la funzione diventava padronale.

Ora, questa posizione morale da affermare, questa realizzazione economica che si poteva fare, non si è fatta. E allora anche questo si è verificato: una enorme riduzione dal punto di vista della potenzialità tecnica dell’azienda.

Nel campo economico si svolgeva la lotta salariale nel modo più volgare che si potesse fare.

Voglio far rilevare, specialmente a quelli dei colleghi che conoscono l’attività sindacale, questo: tutte le volte che c’è un provvedimento di carattere sindacale, almeno nove volte su dieci esso viene a premiare l’industriale avaro e viene a colpire l’industriale generoso. Per esempio, il caso di quanto è avvenuto alla liberazione: industriali che avevano assunto diecine di persone senza averne assoluto bisogno, avevano aumentato in modo inverosimile le loro aziende per poter difendere dei lavoratori fino a liberazione avvenuta. Quindi, essi pagavano del proprio e hanno pagato del proprio. Ho visto anche altri industriali, quelli avari, che non avevano assunto nessuno; ora, a fine guerra, quando era tempo di lavorare sul serio, quei tali industriali generosi che avevano voluto quelle assunzioni, hanno avuto un pugno nella schiena, e viceversa gli altri, quelli avari, si son trovati in condizioni migliori. Quando sono arrivate le rivendicazioni salariali, gli aumenti sono avvenuti per percentuali sulle paghe che esistevano, non su un minimo logico stabilito; e quindi, chi aveva dato quindici doveva aumentare in proporzione e chi aveva dato sette aumentava in misura minore. Quindi i provvedimenti sindacali non premiano l’industriale generoso ma l’industriale avaro. Fate pure i generosi, ché a pagare ci penserete voi!

Ma il fatto essenziale era questo: che l’operaio poteva andarsene via. E abbiamo visto così che molto personale veramente capace di lavorare e veramente sano e stanco di vedere certe situazioni di fabbrica, si allontanava.

PAJETTA GIANCARLO. Dove sono andati? A fare i capitalisti?

QUARELLO. Sono andati a percepire condizioni di paga superiori. Vi sono degli operai che vanno a lavorare senza libretto in una infinità di aziende, con stipendi superiori al 50 per cento rispetto a quelli che prendono gli altri! Questo perché lei lo sappia.

Ma il curioso era questo: e cioè, che la misura in sé era incomprensibile. Se avessero detto agli industriali di liberarsi del personale in più che economicamente non serviva, mi pare che sarebbe stato anche logico, facendo anche assumere l’impegno della riassunzione entro cinque o sei mesi di altri elementi che potessero servire.

C’era da tenere conto di un fatto importante. Nell’adeguare le industrie alla loro potenzialità effettiva, bisognava che la collettività provvedesse al sostentamento dei disoccupati e, quindi, occorreva allo stesso tempo un’azione governativa che avesse dato ai disoccupati possibilità di vita sia pure limitata. Non si è fatto né l’uno, né l’altro. Vi sono state riunioni a Milano nel luglio, poi nel settembre, poi nel gennaio del 1946; poi c’è stata la commissione che ha esaminato la condizione dell’industria e concluso che il personale in più era di circa 180 mila persone. Nel frattempo si era verificato che certe aziende, blocco o non blocco, si erano liberate di parte ed anche di tutto il personale e quindi una certa eliminazione avveniva ugualmente, non portando però quei benefici che potrebbe dare anche oggi, se affrontata compiutamente. Ma se noi vogliamo esaminare questo provvedimento in sé e comprendere la portata politica di questo blocco, noi dobbiamo collegarlo con quell’altro dell’eliminazione del personale tecnico, amministrativo.

Perché in un’azienda esiste non soltanto il peso di pagare uno che non lavori, ma di pagare uno che non lascia lavorare gli altri. Perché pagare la gente che non lavora è il meno. Quando si dice ad una azienda: tu devi pagare il dieci, il venti o il trenta per cento in più di quello che paghi, questo è niente; ma è disastroso tenere delle persone che son lì apposta per non far lavorare gli altri. Si tiene il blocco dei licenziamenti nelle fabbriche e specie nelle grandi fabbriche appunto per impedire qualsiasi disciplina. Questo lo si giustifica apparentemente con la difesa degli interessi delle classi lavoratrici. È una delle tante parole generiche che non servono a niente. La realtà è che si vuole impedire ad ogni costo che l’azienda italiana si difenda e si metta sul piano produttivo. (Applausi al centro).

GORRERI. Venga a vedere il numero dei disoccupati; sono migliaia e migliaia.

QUARELLO. Per i quali occorrono provvedimenti in proposito.

Il Ministro Fanfani, da poco tempo al Ministero del lavoro, ha già provveduto ad elevare per i disoccupati il sussidio da cinquanta a duecento lire al giorno. È un primo passo. Questa necessità non era stata sentita finora.

Ho saputo che l’onorevole Fanfani ha fatto fare un’inchiesta sui disoccupati e su quella cifra di un milione e mezzo che si gonfia quando fa comodo. Quello che è interessante rilevare è il numero dei disoccupati dall’aprile del 1946, cioè da quando si è parlato del premio della Repubblica che andava anche ai disoccupati.

Si vedrà che l’ascesa è stata del 50 per cento ed anche in certi casi del 100 per cento.

I disoccupati di occasione esistono apposta per prendere quei tali premi o quelle date concessioni.

Si capisce che la disoccupazione in Italia è grave. Pensate a tutta la gioventù che va dai 18 ai 25 anni: che mestiere ha? Ha fatto ginnastica, la guerra d’Africa, etc. Ma anche la generazione dell’ultimo ventennio non ha un mestiere, perché si era restii a fare imparare il mestiere. Si voleva l’impiego.

Sono ritornati tutti i prigionieri e gli internati, minorati fisicamente e diminuiti nella capacità di lavoro. Così pure gli ex-reduci. Questa è la generazione sulla quale si dovrebbe basare la forza di un Paese. La grandissima parte di essa è senza mestiere, mentre l’altra parte non può lavorare. Quindi una condizione quanto mai dolorosa per l’Italia. Occorrerebbe almeno impiegare questa gente come commessi, guardiani, magazzinieri. Questa tragedia, in Italia, è una delle cose più gravi, uno degli elementi che dovranno essere tenuti presente quando si dovrà pensare all’industria italiana futura, la quale dovrà essere messa in condizione di assumere personale non specializzato, e quindi con delle attrezzature fondamentalmente tecniche che consentano l’utilizzazione di elementi non preparati.

Esaminiamo un altro fatto. Ho detto che durante la guerra vi era in tutte le aziende un ufficio a parte (assegnazione, contratti), cioè tutta quella organizzazione supplementare dell’azienda che dal punto di vista economico non è la meno importante (era anzi la più importante). Ora, si sperava che almeno questa struttura fosse abolita: viceversa le condizioni del Paese non l’hanno consentito. Anzi, si sono ricreati degli organi già sciolti e, a quanto mi risulta, si sono continuati gli stessi sistemi. Devo dichiarare che dopo due anni dalla liberazione, da parte di molta gente – troppa gente – si conclude molto melanconicamente che il detto pirandelliano «Come prima, peggio di prima» non è un detto puramente letterario; e c’è in molta gente non solo disillusione ma un senso di amarezza.

La convinzione che la distribuzione di assegnazioni od acquisti possa avvenire non in seguito a criteri determinati ma secondo una valutazione personale, è la cosa più dolorosa. Ma di questo parlerò in altro momento. Esiste un altro elemento di enorme importanza che io voglio sottoporvi: è il sistema assicurativo italiano. Spero che, quando la Commissione per le assicurazioni avrà compiuto gli studi, ci darà gli elementi di giudizio a proposito. Ho l’impressione che il bilancio delle assicurazioni raggiunga il livello di quello dello Stato o, per lo meno, se ne discosti poco. Sarà interessante conoscere quello che viene a costare il servizio e quello che va come beneficio agli assicurati.

Permettetemi, onorevoli colleghi, che io abusi della vostra attenzione per farvi conoscere l’ammontare d’oggi e quali sono state le variazioni verificatesi.

Oggi abbiamo i seguenti contributi: Assegni familiari: 30 per cento; Cassa richiamati 0,5 per cento; fondo pensioni 6,85 per cento; fondo disoccupazione 4,90 per cento; fondo tubercolosi 4 per cento; solidarietà sociale e pensioni 12 per cento (8 a carico del datore di lavoro e 4 a carico dei lavoratori); 1,5 per cento per invalidità e vecchiaia (lire 25 fisse per settimana).

Questo onere sulla quota del massimale fisso di lire 6.250 mensili, viene ad essere del 59,75 per cento e deducendo il 4 per cento a carico dei lavoratori è del 55,75 per cento.

Per gli impiegati vi è il 2 per cento in più per la Cassa richiamati. Poi si aggiungono, e sulla retribuzione completa, per la Cassa di integrazione il 3,5 per cento; Cassa malattia 5 per cento; Assicurazioni infortuni in media 5,5 per cento; in totale 14 per cento, che, aggiunto al rimanente, viene ad ammontare al 69,75 per cento. Però, precisiamo, il 55,75 per cento è solo sul massimale di 6.250 e non sul totale della corresponsione.

Ora esaminiamo l’altra parte, che grava sul salario, cioè quella delle disposizioni contrattuali che calcoliamo su una attività annua dell’operaio di 2000 ore. Nel 1920, quando si sono ottenute per la prima volta le ferie pagate, si esigevano dall’operaio 2400 ore di lavoro effettivamente compiute.

Ora calcoliamo, per puro conto teorico, una produzione annua di 3000 ore, che non sono affatto necessarie per acquisire i diritti contrattuali. Per questo è sufficiente essere in carico alla ditta e segnati sul libro paga.

Vediamo:

Gratifica natalizia ore 200 che rispetto alle 2000 ore danno una percentuale del 10 per cento.

Ferie annuali giorni 12 ore 96.

Festività fisse giorni 4, su 32 concesse dal fascismo e mantenute (potrei dire che nel ’44 la commissione interna è venuta da noi a reclamare il 28 ottobre. Vi risparmio la risposta che ho dato).

Festività infrasettimanali giorni 12 ore 96.

Indennità di licenziamento giorni 2 per anno ore 26.

Complessivamente ore 440 che sulle presunte 2000 ore danno una percentuale del 22 per cento.

Questo ammontare è gravato dalle assicurazioni che, come abbiamo visto, sono del 69.75 per cento.

Il che vuol dire che il 22 per cento va aumentato di più di due terzi, il che porta una maggiorazione del 15.35 per cento. Totale 37.35.

Riassumiamo: 69.75 per assicurazioni, più 37.35 per disposizioni contrattuali più assicurazioni, è un totale di 107.10.

La retribuzione salariale è raddoppiata. Devesi però notare che per il 55 per cento le assicurazioni sono sul massimale di lire 6250 mensili e non sul totale delle retribuzioni, il che viene a ridurre la percentuale totale.

Io credo che se potessimo attuare subito questo provvedimento: le paghe e le retribuzioni attuali sono quelle che sono, dando il doppio a ciascuno che provveda da sé per le assicurazioni ed il resto, io credo che tutti sarebbero disposti ad accettare. Infatti, quando pensiamo: siamo a 1000 lire al giorno di paga, ne possiamo prendere 2000 di colpo, faremmo tutti un ottimo affare. Però diciamo anche che questo non è possibile per tutto un complesso di ragioni che oggi non è il caso di esporre.

Desidero, onorevoli colleghi, farvi presente, perché è interessante, come si è arrivati a questa posizione attraverso le diverse variazioni. Dire tu devi dare 100 o 200 lire è una cosa da ridere. Finché ci sono, si paga, ma il bello è che si viene a dire: «Tu dal mese scorso devi dare questo»; «Io ho già registrato, e sui libri contabili!»; «Non importa, tu cancelli o correggi».

Vediamo. Su, in Alta Italia, abbiamo avuto fino al giugno del 1945 il sistema assicurativo preesistente, cioè quello della Repubblica di Salò che aveva applicato il contributo unificato. Poi, dal primo agosto 1945, è entrato in funzione il nuovo sistema. Per gli assegni familiari, 20 per cento; 1 per cento alla cassa per i richiamati ed il 5 per cento alla cassa di integrazione. E sull’intero salario.

Per gli impiegati, e qui comincia ad essere interessante, si stabilisce il 20 per cento sulle prime 3000 lire di stipendio, il 5 per cento per i richiamati sull’intero stipendio, ed il 0,75 per cento per la cassa di integrazione sulle prime 2000 lire dello stipendio.

Non si poteva stabilire il 25,75 per cento su una unica base di conteggio? No. Bisognava compiere tre operazioni diverse. Questo dura sino al 1° ottobre del 1945, data con la quale, per gli impiegati, si eleva il contributo per la cassa di integrazione dal 0,75 per cento nelle prime 2000 lire di stipendio, al 5 per cento sull’intero stipendio; si cambia nuovamente al 9 novembre 1945 e poi nuovamente al 1° gennaio 1946; e poi nuovamente al 29 maggio 1946. A questo punto, sempre aggiungendo oneri e sempre spostando le basi di conteggio (al gennaio si stabilisce il massimale di 3.600 lire mensili su 5 voci ed una sull’intero stipendio, ed al 23 maggio il massimale è elevato a 6.250 lire). Tutto questo, potremmo concederlo, vorrebbe dir poco, ma il fatto importante è che i cambiamenti sono notificati in ritardo anche di mesi, il che comporta una revisione si può dire permanente dei conteggi e delle dichiarazioni e talvolta dei libri paga. E col rischio di non venirne a capo, tanto che nel giugno 1946 l’Istituto nazionale della previdenza sociale ha dovuto mandare una circolare riassuntiva che a partire dal 1° agosto 1945 precisasse i vari periodi e le relative variazioni. Particolare interessante. In questa circolare vi era una avvertenza che precisava questo:

I lavoratori lasciati a casa per indesiderabilità non possono fruire della Cassa di integrazione.

Le ditte devono però corrispondere i contributi assicurativi al completo.

E questo, tanto per riferirmi a quanto già detto, è un regalo non indifferente che è venuto a gravare sulle industrie. Ma passiamo ad altro. Alla ricchezza mobile.

Vi leggo le disposizioni per i pagamenti a mese, ma tenete presente che le paghe si fanno in genere settimanalmente e quindi per ogni periodo di paga ci sono da compiere gli stessi conteggi. (Per gli operai):

sino ad 8.000 lire esente da imposta;

da lire 8.000 a 8.150,15, l’imposta è uguale alla differenza esistente tra la retribuzione percepita e lire 8.000;

da lire 8.150,15 a 9.000, l’imposta del 2,10 per cento si calcola sulla retribuzione percepita depurata di lire 1.000;

per lire 9.000 l’imposta è di lire 168;

da lire 9.000 a lire 9.086,75, l’imposta è di lire 168 più una quota pari alla differenza esistente tra la paga e le lire 9.000;

da lire 9.086,75 a 10.000, l’imposta del 3,15 si calcola sulla paga percepita depurata di lire 1.000;

per lire 10.000, l’imposta è di lire 283,50; da lire 10.000 a 10.098,55, l’imposta è di lire 283,50 più una quota pari alla differenza esistente.

PRESIDENTE. Onorevole Quarello, per favore, non ci legga tutti questi elenchi di aliquote e di quozienti! Sono interessanti, ma non per la discussione immediatamente. Li richiami per cenni.

Una voce al centro. È bene conoscerle queste cifre.

PRESIDENTE. È bene conoscerle, ma per questo abbiamo a nostra disposizione tutti gli stampati, i moduli, i questionari del Ministero delle finanze.

QUARELLO. L’imposta va al 4,20 per cento e poi si aggiunge la complementare che si moltiplica per 1,575 per cento. Con l’ottobre pare si debba cambiare.

Perché questo? Perché sembra fatto apposta per rendere difficili i mezzi di controllo e turbare notevolmente il sistema contabile. Guardate, signori, che oggi vi è una situazione per cui la parte industriale pensa alla speculazione. Pensiamo cosa ha voluto dire questo sistema quando ad esempio nel 1946, a fine novembre, si notifica che le paghe vengono modificate dal 1° ottobre, e poi a fine dicembre si modifica dal 1° novembre, e così in gennaio per dicembre. Pensate, signori, che la tenuta del libro paga diventa una cosa impossibile da controllare. Quando la ditta non può più controllare se il personale registra bene o se registra male, tutto il sistema amministrativo dell’azienda diventa un sogno. Io domando a voi se è possibile continuare di questo passo.

Ma anche questo vi faccio presente: oggi si verifica l’esodo di gente che va a lavorare in posti dove non c’è la tenuta amministrativa dei libri. Quando osserviamo che in certe fabbriche gli operai non vogliono fare lo straordinario, non è che non intendano lavorare ore in più, è perché vanno a lavorare in altri posti dove non si segna sul libro paga e danno 150 lire invece di 100. Tutti questi oneri portano come conseguenza alla evasione e la gente cerca di liberarsene. Questo è bene spiegare.

E se noi crediamo veramente che si vuole ottenere nel campo produttivo quella volontà che esisteva e che in parecchi ancora esiste, io ritengo che non soltanto negli accordi interni sindacali ma anche da parte degli organi legislativi sarebbe necessario agire in modo diverso.

Ora ho speranza che questo sistema venga modificato e pregherei il competente Ministero che, almeno per queste disposizioni di assicurazioni, si affidasse a funzionari che per lo meno abbiano fatto il capo ufficio mano d’opera in qualche stabilimento, in maniera che sappiano di che cosa si tratta.

Ho detto che mi preoccupavo delle conseguenze: perché oggi, anziché pensare al processo produttivo, si pensa al fatto speculativo. E questo è grave.

Posso dire che qualche tempo fa, ed il fatto mi ha colpito, io avevo delle preoccupazioni per una piccola azienda che ho, la quale mancava di attrezzature. Mi sono rivolto ad un grande industriale il quale mi sente parlare e poi guardandomi mi dice: «Senta, io non sapevo che lei fosse così stupido. Perché vuole preoccuparsi in questo senso? Faccia la cortesia, non stia a perdere tempo! Compri quel vagone di roba e lo tenga lì: fra sei mesi mette tutto a posto. Le pare che sia il momento di perdere tempo con le attrezzature?».

Questo mi diceva un industriale del quale avevo una infinita stima per la sua capacità di lavoro: questa è una inversione di volontà che spinge molti a non sforzarsi verso la produzione, per fare invece della speculazione, dalla quale bisogna assolutamente guarire.

Onorevoli colleghi, quella condizione di favore che due anni fa esisteva in Italia comincia ad essere modificata e negli altri Paesi, se pure per fortuna nostra questi hanno una economia controllata e quindi più restrittiva che espansiva, già oggi cominciamo a sentire il peso della concorrenza per certi prodotti.

Si comincia a fare sentire la possibilità di vendere in Italia e soprattutto l’impossibilità nostra di vendere altrove. Cioè comincia a saldarsi quel periodo di frattura della guerra. Badate bene che quello che in altri Paesi venne distrutto e che oggi si ricostruisce, non è nel sistema dell’attrezzatura antica ma di quanto di più perfetto esiste nel campo produttivo.

Quando pensiamo alla vecchia industria inglese che in gran parte è caduta, dobbiamo pur notare che fra dieci anni gli inglesi saranno contenti di averla perduta, in confronto a quella che stanno preparando oggi. È una perfezione, cioè è quanto di più progredito si sta compiendo nel campo industriale inglese ed anche in quello francese, perché chi ha avuto la casa distrutta, la vuole ricostruire nella maniera la più perfetta possibile. E quindi noi oggi, dopo avere avuto un vantaggio, dovremo sentire man mano l’avanzata di altre industrie in perfetta tecnica. La lotta economica sarà senza quartiere, sarà inesorabile. Questa è la posizione, signori. Occorre che si cambi la struttura, la mentalità e che si pensi effettivamente a quella che è la produzione, e non a tirare avanti alla men peggio.

Ora, se il mercato finanziario non avrà sbalzi troppo forti e l’economia potrà normalizzarsi un po’, io spero che una parte delle industrie speculatrici finiranno; ma la parte sana comincerà ad affrontare seriamente il lavoro, al quale guarderà come fonte di guadagno e come mezzo di soddisfazione, per l’interesse del Paese, oltre che per accrescimento dei redditi dello Stato.

Per questo, vorrei pregare il Governo: forse in questo campo potrà far poco, ma può dare l’esempio nell’organizzare i suoi uffici, nell’organizzare lo Stato. Perché c’è anche questa ragione morale, che quando si lavora e si paga (perché chi lavora onestamente ha tutti gli svantaggi e paga tutti i tributi in confronto a chi, invece, lavora disonestamente) si ha anche il diritto di dire: ma, insomma, voi fate una organizzazione statale che pesa e noi lavoriamo per mantenere della gente che non fa niente.

Io vorrei che ci fosse anche in questo un gesto da parte del Governo. Onorevole De Gasperi, ho sentito che quando è venuta da lei la Commissione confederale ed ha chiesto la scala mobile per i dipendenti statali – scala mobile di cui non si era mai parlato prima – si sono fatte delle promesse. Invece, si doveva dire: «Sissignori, stipendi, quanto volete? Tanto. Però, intendiamoci, si lavora otto ore e lavorano quanti mi sono necessari; gli altri fuori della porta». Questo avrei voluto che si fosse detto. Questo: perché bisogna pagare chi lavora, ma non c’è obbligo di tenere in servizio persone che non servono e non lavorano.

Se questo potesse verificarsi, cioè che lo Stato faccia sentire il suo polso, e paghi i suoi dipendenti quanto è giusto pagarli, però tenendo solo quelli di cui ha bisogno, e facendoli lavorare, questo sarebbe un esempio nel Paese. E sarebbe una cosa importante anche dal punto di vista morale, perché, creda pure, che questo andazzo generale è una cosa molto grave.

Si dice: «avremmo dovuto fare una politica di sussidi». Ma il sussidio costa nemmeno la metà di quello che costa oggi mantenere impiegati e lavoratori in soprannumero, soprattutto tenuto conto di quello che consumano e di quello che sprecano. Invece, si potrebbe dare un sussidio decoroso a chi ne avesse bisogno.

PAJETTA GIULIANO. Cosa vuol fare? Vuol pagarli, oppure licenziarli, gli statali?

QUARELLO. Lei non ha inteso.

PAJETTA GIULIANO. Ho inteso fin troppo bene: li vuol licenziare e non pagare!

QUARELLO. Sto dimostrando da tempo la necessità di provvedere in modo adeguato prima di procedere ai licenziamenti. Per questo ho elogiato l’onorevole Fanfani.

Vorrei parlare ora dell’indirizzo industriale; ma mi limito a fare ancora una raccomandazione al Ministro dei lavori pubblici.

PRESIDENTE. Onorevole Quarello, mi scusi: non è una discussione sulle comunicazioni del Governo quella che stiamo facendo.

QUARELLO. Sul caro-vita.

PRESIDENTE. Suppongo, onorevole Quarello, che ella avrà letto le mozioni in discussione. Comunque prosegua.

QUARELLO. Io sono convinto che ciò che significa risparmio sulle spese inutili sia un contributo saliente al risanamento del bilancio e dell’economia nazionale e quindi, del caro-vita. Del resto, tralasciando altre considerazioni che pure sarebbero importanti, mi limito solo a questa: esiste una situazione veramente tragica per quello che riguarda le case. È una questione, onorevoli colleghi, che oggi non esaminiamo con la dovuta attenzione, illudendoci di poter continuare ad andare avanti così.

Noi abbiamo avuto due milioni di vani distrutti ed abbiamo un incremento demografico di circa 400.000 abitanti all’anno. In questa situazione, le case non si ricostruiscono e gli abitanti si ammucchiano in angusti e insufficienti edifici, in condizioni igieniche e morali molto pericolose.

Ma, quello che è peggio, si è determinata per questo stato di cose una vera e propria situazione di impossibilità a risolvere questo problema; costruire una casa rappresenta oggi una spesa enorme. Il costo non è inferiore alle 400 mila lire al vano. C’è poi la politica del blocco degli affitti, la quale ha impedito ai padroni di casa di sentire quello stimolo, che sarebbe tanto necessario, verso la riparazione dei loro stabili. Avviene così che oggi vengano riparate soltanto quelle case i cui proprietari hanno avuto la ventura di accumulare cifre enormi di denaro.

È così che noi, fingendo di fare una politica a favore del popolo, facciamo invece sostanzialmente il gioco di questi grandi speculatori. Ma quello che sovra ogni altra cosa mi preoccupa è che, mentre il settore del lavoro edilizio potrebbe dare occupazione in Italia a centinaia di migliaia di operai, noi continuiamo, sì, a fare la voce grossa dicendo che ci sono tanti disoccupati, ma di fronte ai molti e molti industriali dell’edilizia che potrebbero dar loro lavoro e pane, noi li osteggiamo, paralizzando queste iniziative o non facendole addirittura nascere.

Ci sarà, s’intende, anche da esaminare la questione di rendere economicamente possibile il reddito ai proprietari di casa. Ora, sotto questo riguardo, io credo che il Governo potrebbe incominciare a fare, in materia di affitti, una politica chiara e precisa, nel senso di procedere ad una revisione graduale degli affitti stessi, per poter portare in dieci anni a quello che è il reale reddito economico per le riparazioni e la ricostruzione. È dunque assolutamente necessario un chiaro e fattivo orientamento in proposito da parte del Governo.

La costruzione delle case oggi non procede industrialmente; è un ramo questo che risente ancora di una struttura quasi artigianale. Bisogna arrivare al punto di creare, in questo settore, una vera industria, una industria della casa che vada dalle strutture murali alle parti accessorie.

L’industria edilizia occuperebbe circa il 50 per cento della mano d’opera, e la sua industrializzazione porterebbe una riduzione enorme sui costi; potrei documentarlo in qualunque momento. Bisogna fare una politica molto diversa dalla precedente: è il minimo; ma occorre per questo orientare anche la stessa politica fiscale.

Ho letto sui giornali che l’onorevole Tupini ha fatto delle dichiarazioni in questo senso, cioè, a coloro che intendono portare del capitale all’industria della costruzione edilizia, si concederanno esoneri dall’imposta patrimoniale; cioè la parte che si impiega nell’industria edilizia viene esonerata dall’imposta patrimoniale. Credo che si dovrebbe indirizzare tutto quello che si può verso il ramo della costruzione e ricostruzione di case. Non parlerò dei materiali che sono necessari, e che oggi in Italia sono insufficienti, perché inadeguati ai bisogni.

Io penso solo questo: che si voglia o non si voglia, fra un anno e mezzo o due la crisi industriale italiana sarà inevitabile, e sarà tanto peggiore in quanto non si sarà adeguata l’industria ai bisogni economici. Se noi per quel periodo avessimo predisposto l’orientamento della ricostruzione delle case in un senso industriale, noi potremmo col lavoro interno sopperire all’uso della nostra mano d’opera e alle nostre possibilità industriali. Occorre che noi guardiamo questo problema da un punto di vista sociale, per dare una casa a chi ne ha bisogno e del lavoro a chi deve lavorare. Ma soprattutto bisogna fare le case con comodità; e ciò si può ottenere soltanto con l’organizzazione industriale.

Onorevoli colleghi, ho finito e domando scusa se ho perso del tempo in cosettine che hanno poca importanza. (Approvazione al centro e a destra).

Avrei potuto soffermarmi ancora qualche ora a darvi elementi di un interesse tale che se li sapeste, tanti discorsi nei comizi non li fareste.

Ad ogni modo, per concludere, dico che bisogna potenziare l’industria italiana, perché l’Italia ha tutte le possibilità per avere un’industria: ha gli uomini, ha le capacità; ma deve crearsi una sua base di consumo nazionale. Nessuna industria può reggere oggi, se non trova nel mercato interno la possibilità di vendere. Occorre che noi abbiamo questa visione: poter dare col lavoro al produttore la capacità di acquisto al consumatore; soltanto in quanto noi creeremo la condizione al nostro lavoratore di effettivo consumatore di quello che produce, cioè allargando la sfera della possibilità produttiva e dando al lavoratore una condizione morale adeguata nell’interno dell’azienda, noi potremo creare le basi per lo sviluppo industriale italiano, permettendo così alla nostra industria di affrontare, anche sotto la forma complementare, i mercati esteri nel prossimo avvenire.

Ma soprattutto occorre prepararsi anche ad industrializzare l’agricoltura, perché l’agricoltura avrà a suo tempo una grave situazione di concorrenza rispetto a quella estera; e se non arriviamo a delle riforme sostanziali tecniche e sociali non avremo la possibilità di sostenerla.

Domando scusa agli onorevoli colleghi del tempo che ho fatto perdere loro, e li prego di valutare tutto quello che è necessario fare in questo campo per dare lavoro, ed a chi lavora creare condizioni di vita possibili: queste sono le basi fondamentali; molto più che non gridare contro il caro-vita, contro cui nessuno sa opporsi, e che soltanto la forza delle cose e il lavoro degli uomini riusciranno ad eliminare. (Applausi al centro e a destra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Lizzadri. Ne ha facoltà.

LIZZADRI. Onorevoli colleghi, credo opportuno fare una premessa: che io sarò il più possibilmente breve perché cercherò di stare nei termini di questa discussione, cioè nei limiti delle mozioni che sono state presentate.

Il 3 aprile 1947 la Presidenza del Consiglio diramò un comunicato nel quale, dopo un preambolo piuttosto ottimista sulle condizioni finanziarie del Paese, tali da consentire (sono le parole del comunicato) ragionevole fiducia nell’esito di un supremo sforzo per evitare ogni ulteriore slittamento della moneta, venivano resi pubblici alcuni provvedimenti deliberati dal Consiglio dei Ministri.

Non vi leggerò tutti i provvedimenti, ma mi è necessario accennarne qualcuno per le osservazioni che vi devo fare.

Il numero quarto di questi provvedimenti diceva: estendere il sistema di tesseramento differenziale, preferenziale, per il pane, ecc.

Il sesto: mettere gli enti comunali di consumo in condizioni di esercitare la loro funzione calmieratrice.

L’ottavo: rafforzare l’applicazione della disciplina valutaria.

Il nono: attuare misure efficaci per la disciplina bancaria.

Il decimo: colpire la rivalutazione delle rimanenze di magazzino.

Finalmente, il dodicesimo: accertamento rigoroso dell’impiego delle materie prime di assegnazione.

E il tredicesimo: comminare sanzioni rigorose, non esclusa la gestione commissariale, degli stabilimenti che contravvengano alla disciplina dei prezzi.

Voi ricorderete tutti che, dopo questo comunicato, il Paese tirò un sospiro di sollievo all’annuncio di questi provvedimenti. Perché? Perché credetti che finalmente in Italia si cominciasse a fare sul serio.

E tutti ricorderanno anche che la Confederazione generale italiana del lavoro immediatamente fece un comunicato dichiarando di mettersi a disposizione del Governo per collaborare affinché si desse pratica attuazione ai 14 punti.

Se facciamo il punto al 4 aprile, dopo la pubblicazione dei provvedimenti presi dal Governo, noi vediamo che forse mai – dopo la liberazione – in Italia avevamo raggiunto una certa unanimità: Governo, Confederazione del lavoro, la stampa in genere (perché tutta la stampa approvò i provvedimenti presi dal Consiglio dei Ministri) e il Paese.

Naturalmente questa unanimità durò molto poco, perché il giorno 9 la Confederazione generale dell’industria italiana, a mezzo del suo organo ufficiale L’Organizzazione Industriale, espresse nei seguenti termini il suo pensiero sul programma del Governo: «In occasione dell’esposizione del programma governativo – dice L’Organizzazione Industriale – di risanamento economico, è sgusciata fuori la facile comune accusa contro ogni industriale, contro i produttori che riempirono i magazzini di merce per aspettare che il prezzo aumentasse, e da questa accusa è venuto fuori quel progetto di colpire le giacenze di magazzino che, se attuato, costituirebbe un monumento di stramberia e di stortura fiscale».

Così giudica la Confindustria i provvedimenti del Governo democratico dell’Italia repubblicana.

Ed inoltre: «Occorre convincersi che almeno tredici dei quattordici punti indicati dal Governo devono essere lasciati nei programmi dei partiti».

Non dice qual è il quattordicesimo punto che la Confindustria vorrebbe invece fosse applicato.

«Ed occorre (dulcis in fundo) persuadersi che il servirsi dei consigli di gestione è il mezzo migliore per distruggere quel poco che si è fatto».

Il pubblico, il grosso pubblico, che non conosce i segreti ed i retroscena della vita politica e che non legge il giornale della Confindustria, era sempre in attesa che cominciasse l’applicazione del programma governativo condensato nei quattordici punti, ed. invece avvenne che improvvisamente (per lo meno così sembrò alla maggioranza del pubblico italiano) la sera del 28 aprile il Presidente del Consiglio pronunciò alla radio il suo noto discorso, che irriverentemente qualcuno ha voluto chiamare «il discorso alle dattilografe», e che aprì di fatto la crisi di Governo.

Però è onesto e giusto riconoscere che il 9 giugno lo stesso Presidente del Consiglio, e, me lo perdoni l’onorevole De Gasperi, a me sembra, in riflesso all’accusa fattagli dall’onorevole Nenni di scrivere poco e di parlare molto, affermò testualmente: «Alcuni di questi punti, quelli che ho testé citato, sono già trasfusi in decreti o disegni di legge, ed il Governo accetta quelli già codificati e si propone di attuarli».

Ed aggiunse: «ma intanto bisogna scegliere immediatamente i punti di attacco: il nemico più vigoroso è l’inflazione, ed il punto più dolente quello monetario». Il che farò in questa battaglia ed in questa lotta (questo non lo disse l’onorevole De Gasperi, ma è facile pensarlo), con maggior facilità oggi che ho messo fuori dal Governo socialisti e comunisti, ed ho introdotto nel Governo i tecnici e gli uomini di alta competenza, come voi sapete.

Facciamo il punto ancora a fine giugno e vediamo che quella unanimità che dopo la liberazione, per la prima volta, si era realizzata in Italia intorno al programma dei Governo il 4 aprile, il 9 giugno non c’era più. Già questa unanimità è rotta. C’è il Governo omogeneo, ma non c’è più nel Governo quel rapporto di forza regolare, né l’apporto dei lavoratori organizzati rappresentato dalla Confederazione del lavoro, e dopo un mese da questo discorso la situazione, naturalmente, non migliorò. Tutti si domandarono se il Governo voleva ancora realizzare il piano che aveva esposto in questa Assemblea o se invece nel colpire quel nemico n. 1, il più pericoloso dei nemici, cioè l’inflazione, l’onorevole De Gasperi non avesse ancora scelto i punti di attacco o se le armi che adoperava fossero spuntate.

Comunque le condizioni del Paese continuarono a peggiorare e la circolazione aumentò.

Ai primi di luglio la Confederazione italiana del lavoro, sotto la pressione delle masse e del malcontento che andava sempre più diffondendosi in conseguenza delle incertezze e della inefficienza delle misure governative, insieme con i sindaci dei capoluoghi di provincia e con gli enti della cooperazione, presentò proposta concreta per la lotta contro il continuo rialzo del costo della vita astenendosi dal presentare nuove rivendicazioni salariali, benché la base si agitasse anche in questo senso. Molto si è parlato di queste proposte, sia dal punto di vista della loro applicazione pratica sia dal punto di vista del principio.

Esse sono state esaltate naturalmente da chi ci vedeva del buono – dai lavoratori – e sono state svalutate, specialmente senza tener conto né del loro valore concreto né della loro tempestiva attuazione, dai portavoce padronali.

È utile ricordare che queste proposte furono discusse e approvate nel Comitato direttivo della Confederazione all’unanimità, col concorso cioè di tutte le correnti, comprese la corrente democristiana, la repubblicana e l’indipendente, tutte rappresentate nel massimo organismo della Confederazione generale italiana del lavoro. Alcuni giornali, che si dicono liberali e indipendenti e che approfittano oltre ogni limite decente di questa libertà che i combattenti ed i partigiani hanno conquistato all’Italia, per insultare tutti i giorni la Confederazione generale italiana del lavoro e i partiti di sinistra, scrissero naturalmente che non spettava alla grande organizzazione sindacale occuparsi di questi problemi. Ricordo che un giornale di Napoli, che per fortuna vende soltanto poche centinaia di copie, domandava: «Cosa c’entra la Confederazione generale italiana del lavoro col caro-vita? La Confederazione generale italiana del lavoro deve interessarsi degli aumenti salariali; e poiché in questo momento la Confederazione generale italiana del lavoro non può domandare l’aumento salariale, ma solo un miglioramento della situazione economica in Italia per migliorare le condizioni dei lavoratori, praticamente la Confederazione generale italiana del lavoro in questo momento non deve far niente, deve andare a riposo».

Del resto anche nei corridoi di questa Assemblea ho inteso la stessa accusa alla Confederazione generale italiana del lavoro, e credo che anche qui dentro ci siano dei colleghi che sarebbero ben contenti se i sindacati non ci fossero affatto. Ma ormai bisogna rendersi conto che questi organismi si sono così profondamente inseriti nella vita economica e politica delle nazioni democratiche che non è possibile ignorarli e tanto meno confinarli ad una funzione di secondo piano. Potrei quasi dire che la libertà e la democrazia di un Paese si giudicano oggi dalle funzioni che in esso esercitano i sindacati.

Tutti sanno che il Governo inglese è nella stragrande maggioranza l’emanazione delle «Trade Unions», e che circa 300 deputati laburisti provengono dalle Leghe operaie. Così in Australia, così nella Nuova Zelanda e così in molti Paesi dell’Europa orientale e occidentale. Voi sapete che la reazione negli Stati Uniti ha cercato di sferrare una forte azione contro i sindacati; ma noi sappiamo che i sindacati negli Stati Uniti resistono e che la reazione sta frantumando i suoi denti.

Il Presidente Truman stesso è dovuto intervenire a porre il suo veto contro la legge sui sindacati. Senza parlare naturalmente dell’Unione Sovietica dove i sindacati hanno delle attribuzioni oltremodo importanti non solo per la vita degli organizzati, ma per quella di tutto il popolo. Forte perciò dell’adesione dei suoi 7 milioni di organizzati d’ogni tendenza, d’ogni mestiere e d’ogni professione, ma forte soprattutto del consenso, che ad essa dà la grande maggioranza del popolo italiano, la Confederazione generale del lavoro è nel suo diritto, anzi direi nel suo dovere, di elaborare un piano; di chiederne la discussione prima e poi l’applicazione al Governo. Questo piano non ha niente di rivoluzionario. Esso tiene conto della situazione generale del nostro Paese; è in armonia con la ripresa necessaria della ricostruzione, mira ad alleviare le pene di coloro che più soffrono, dei lavoratori occupati o disoccupati, dei pensionati, degli impiegati di tutte le categorie. Nessuno potrebbe trovare da ridire sul fatto che la Confederazione si occupa specialmente di quelli che più soffrono, di quelli che lavorano, di quelli che sono disoccupati. Perché è un fatto – e credo che nessuno possa smentirlo – che chi ha dato fino a questo momento il più forte contributo alla ricostruzione in Italia sono stati i lavoratori, percependo da due anni a questa parte un salario sempre inadeguato alle esigenze della vita, malgrado le affermazioni fatte in merito dall’onorevole Quarello.

Tutti quelli che si sentono veramente legati alla rinascita del nostro Paese, dovrebbero essere più che contenti, soddisfatti del fatto che i lavoratori concorrono e sentono l’interesse supremo della Patria, partecipando alla ricostruzione del nostro Paese e non si astraggono dalla vita della Nazione.

Qual è, poi, in fondo il contenuto concreto di queste proposte? Non voglio leggerle tutte; però, non posso fare a meno di segnalare l’impostazione organica del piano della Confederazione del Lavoro. Nella sua parte essenziale, esso trattava gli approvvigionamenti, la distribuzione, i prezzi, gli organi esecutivi di applicazione ed anche la legislazione adeguata all’attuazione del piano stesso.

Per gli approvvigionamenti tutti si erano mostrati d’accordo sulla necessità di una revisione del regime vincolistico in vigore, nei riguardi specialmente di alcuni generi contingentati, come il latte ed i grassi, al fine di renderlo effettivamente operante.

Non credo ci sia tra noi qualcuno, responsabile della politica del nostro Paese, il quale non deplori che fortissimi quantitativi di latte, per esempio, vadano ai prodotti voluttuari o alle fabbricazioni di formaggi di lusso. L’Alto Commissario per l’alimentazione non riesce ad aumentare la razione del latte ai bambini, che pure sono la speranza e l’avvenire del nostro Paese.

Credo che tutti dovrebbero essere d’accordo nell’aumentare il vincolo sul numero dei prodotti, per esempio sulle carni, sui formaggi, sui legumi, sulle calzature.

Io so tutto quello che si dice; abbiamo discusso a lungo, anche con l’onorevole Aldisio, quando egli era Alto Commissario, ed anche con l’attuale Alto Commissario per l’alimentazione; so tutte le difficoltà che esistono per aumentare, per allargare il numero dei generi razionati. Ma vorrei domandare, come l’ho domandato al tavolo delle trattative qualche volta: chi potrà convincere il lavoratore, il quale, ritornando a casa, passa davanti ad un negozio del centro di Roma e lo vede pieno d’ogni grazia di Dio? Io ne ho visto uno di questi negozi: ho contato 25 qualità di formaggi e 18 di salumi. Chi convincerà il lavoratore che una più giusta distribuzione di questi prodotti non possa dare almeno una volta la settimana una minima quantità per i suoi figlioli? Chi lo convincerà che la burocrazia è così arretrata, che non riesce mai a distribuire almeno una parte di tutta questa massa di prodotti, che potete vedere nei negozi di Roma?

Sorge dunque la necessità di allargare il numero dei prodotti contingentati. Le proposte della Confederazione del lavoro si estendono anche al blocco di parte della produzione industriale destinata all’agricoltura, come ad esempio attrezzi, concimi, ecc. Anche qui bisognerebbe rendersi conto che si commette – oltre che una grave ingiustizia – un errore, in regime di vincolismo parziale, con d’imporre ad uno solo od a pochi prodotti prezzi d’imperio, tenendo conto dei loro costi di produzione. Non è sufficiente, per determinati prezzi di un solo prodotto, esaminare soltanto gli elementi che concorrono alla sua produzione. Questo sarebbe economicamente giusto se il vincolo si estendesse almeno a tutti i generi di prima necessità. Nel caso in oggetto bisogna tener conto che, ad esempio, un piccolo produttore di grano ha bisogno di vestiti, di scarpe, di medicinali e deve mandare a scuola i propri figli. Ebbene, quando stabiliamo il prezzo del grano – che qualche volta è l’unico prodotto di questo piccolo proprietario – tenendo conto delle giornate lavorative e dei concimi che concorrono a fissare il costo di produzione, non teniamo conto che questo produttore, specialmente se si tratta di un piccolo produttore, si trova nella necessità di andare ad acquistare fuori del suo campo altri generi, anche alimentari, che occorrono alla sua alimentazione ed a quella della propria famiglia, generi di abbigliamento, ecc. Di qui sorge la necessità di vincolare almeno i generi indispensabili per la vita quotidiana e di rafforzare nello stesso tempo il funzionamento degli enti comunali di consumo, affinché i benefici che si conseguono con la produzione non si disperdano per la strada.

C’è, poi, un’altra proposta della Confederazione generale italiana del lavoro, tendente a riorganizzare gli organi preposti alla fissazione di prezzi. Anche qui sappiamo che il maggior danno viene dal fatto che il contadino viene in città e vede i suoi prodotti esposti in vendita al doppio o al triplo del prezzo a cui li ha ceduti all’acquirente. E poiché egli non trova opposizioni da nessuna parte, ritorna in campagna ed aumenta il prodotto. Così siamo sempre daccapo. Ma come accolse il Governo le proposte della Confederazione generale italiana del lavoro? Il Ministro Togni fece in proposito un discorso alla radio il 3 luglio scorso, ma piuttosto che un discorso era un bollettino di guerra. «Scopo fondamentale è l’incremento del potere di acquisto delle retribuzioni delle masse lavoratrici – dice il Ministro Togni (mi dispiace che non sia presente per porgergli le felicitazioni per la sua guarigione) – attualmente travagliate in una rincorsa sempre più appesantita da condizioni di vita, non diciamo normali, ma almeno sopportabili. Situazione questa che ha trovato concreta eco nelle richieste della Confederazione generale italiana del lavoro che, nella quasi totalità, collimano con le preoccupazioni del Governo manifestatesi sia nelle ripetute sedute del C.I.R., che nelle deliberazioni del Consiglio dei Ministri».

Dunque, identità di vedute tra il Governo e la Confederazione del lavoro, secondo il Ministro Togni. Siccome il Ministro Togni è pieno di energia e non si ferma qui, aggiunge: «soprattutto, in considerazione di questo stato di cose, il Governo si è preoccupato di arrestare l’ascesa dei prezzi, per giungere poi ad una loro compressione ed infine sarà inesorabilmente stroncata con ogni mezzo l’esportazione clandestina e sarà condotta un’energica azione di reperimento delle merci imboscate, comunque ed ovunque, colpendo senza quartiere i colpevoli».

Ed in ultimo diceva: «Oltre alla serie di controlli governativi, si avrà una serie di controlli da parte dei consumatori».

Quanto sarebbe meglio se i Ministri parlassero qualche volta di meno e concludessero di più! Che cosa è stato realizzato di tutte queste promesse? Del programma esposto qui dall’onorevole De Gasperi il 9 giugno e dal Ministro Togni nel suo discorso? Fabbisogno garantito alla popolazione? Non è stato ancora garantito nulla alla popolazione. Basta avere ascoltato il discorso dell’Alto Commissario per l’alimentazione.

È stata colpita la rivalutazione delle rimanenze? È stato proceduto al l’accertamento degli impieghi delle materie assegnate? Sono state comminate sanzioni rigorose ai contravventori alla disciplina dei prezzi?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Come no! C’è un disegno di legge.

LIZZADRI. Tesseramento differenziato?

DE GASPERI. Presidente del Consiglio dei Ministri. Non si può fare, ve l’ho detto. Ma voi non ascoltate quando ve lo spiego.

LIZZADRI. Tesseramento differenziato? Arresto della ascesa dei prezzi? Sequestro degli stabilimenti? Avete frenato l’inflazione? Questo è il programma. Che cosa ha realizzato questo Governo? (Interruzione del deputato Pastore Giulio).

Io penso che si sia reso un cattivo servizio all’onorevole Aldisio pubblicando la risposta che egli avrebbe dato sulla possibilità di una crisi di Governo. «Crisi imminente?», ha risposto Aldisio alla domanda di un giornalista. «Ma, voi scherzate! Questo Governo è avviato ad una salutare opera ricostruttiva. Non esiste una ragione per una crisi. Sarebbe un danno spezzare l’opera del Governo». È come dire, aggiungo io, che sarebbe un danno spezzare il corso all’inflazione e all’aumento del costo della vita. (Interruzioni al centro).

La costituzione di questo Governo – questo è il nocciolo – di tecnici non fu giustificata dal Presidente del Consiglio in quest’Assemblea con la necessità di fermare l’inflazione? E l’onorevole Togni non ha detto nel suo discorso che il Governo si è preoccupato di arrestare l’ascesa dei prezzi per giungere poi ad una compressione di essi? In verità, onorevoli colleghi, non si è arrestata l’ascesa dei prezzi e tanto meno si è compressa. In verità, l’unico merito degli arresti spetta all’onorevole Scelba il quale ha fatto arrestare (Applausi a sinistra – Commenti al centro) i ragazzi che protestavano contro Gonella e quei lavoratori che, in virtù di un decreto che esiste e che gli agrari non applicano, stanno nelle campagne per dissodare, per lavorare, per seminare. (Applausi a sinistra). Questa è la verità. Essi stanno nelle campagne per aumentare quella produzione la cui deficienza tutti lamentiamo.

Altro che arrestare l’inflazione! Non voglio portarvi elementi che altri oratori vi hanno già portato, ma le cifre sono queste: la circolazione, che a marzo ascendeva a 531 miliardi, dopo agosto è salita a 642 miliardi. Il costo della vita, secondo l’Agenzia economica e finanziaria, dalla quale io traggo questi dati, che non sono stati smentiti, da punti 3829 nel marzo è salito a punti 4813 nel luglio. Né il rialzo è stato arrestato da Scelba!

La situazione è ancora più grave nel settore alimentare, dove l’indice, sempre secondo questa agenzia economica – e i dati non sono stati smentiti dal Governo – da 4832 nel marzo 1947 va a 6134 nel luglio 1947. E credo che nei mesi di agosto e settembre non sia certamente diminuito.

Qualche cosa ha fatto l’onorevole Einaudi. Io credo alle sue intenzioni. Però quali sono state le conseguenze del noto provvedimento sulle banche? Non voglio ripetere argomenti prospettati in questa Assemblea, ma la conseguenza più grave, secondo me, è che questo provvedimento ha colpito indifferentemente sia la produzione, sia la speculazione. Anzi, se andiamo in fondo alla cosa, ha colpito veramente la produzione.

Ha colpito la produzione perché c’è la naturale tendenza delle banche ad investire i propri capitali al più alto interesse e a breve scadenza. Ora è chiaro che i capitali vengono più facilmente investiti con un tasso maggiore nelle rimanenze di magazzino a beneficio della speculazione che non nella produzione che si estende per un periodo di tempo più lungo.

Tirando le somme di questi tre o quattro mesi di Governo omogeneo, possiamo sì constatare che la situazione si è schiarita. Oggi la situazione è molto chiara, nel senso che i risultati sono assolutamente negativi.

Questo Governo non è riuscito a risolvere nessuno dei problemi per cui si costituì il 9 giugno, quando spezzò la concentrazione che si era formata qui dentro dei quattro quinti di questa Assemblea. Unico risultato positivo, e non credo che questo fosse l’obbiettivo dell’onorevole De Gasperi e la volontà del popolo italiano, è la rottura della solidarietà fra i grandi partiti di massa che poteva assicurare un Governo all’Italia almeno fino alle elezioni.

Io personalmente – voi comprendete il mio personale rincrescimento – ho lavorato per tre anni nella Confederazione generale italiana del lavoro con la costante preoccupazione di non rompere l’unità fra questi grandi partiti sul terreno sindacale, anzi cercando di influenzare anche un accordo nel campo politico.

Sono convinto che l’unica possibilità per ottenere il concorso delle grandi masse lavoratrici alla ricostruzione dell’Italia, specialmente se noi dobbiamo chiedere loro dei nuovi sacrifizi, risiede principalmente sull’accordo, transitorio se volete, di questi partiti.

Non v’è dubbio che le diverse fasi della vita politica abbiano una grande ripercussione sulla compagine della Confederazione generale italiana del lavoro, ma sarebbe un grave errore anche per i signori industriali il pensare che una scissione nella Confederazione generale italiana del lavoro possa portare dei vantaggi agli industriali stessi. Se qualcuno pensa così si dovrebbe disilludere, perché le condizioni obiettive di lavoro nel nostro Paese diventerebbero molto più difficili se avvenisse la scissione sindacale e la lotta politica potrebbe assumere aspetti molto più difficili di quelli attuali.

E veniamo agli scioperi. Il Governo, e i giornali che sostengono il Governo, sono su tutte le furie per gli scioperi che avvengono in Italia e mostrano in questo modo di accorgersi soltanto oggi che per tre anni, malgrado la fame, malgrado i bassi salari, malgrado le malattie, malgrado la disoccupazione, il nostro Paese è stato forse il più tranquillo di Europa, certamente il meno agitato dei paesi che hanno perduto la guerra. Naturalmente oggi la colpa sarebbe della Confederazione del lavoro e dei partiti di sinistra, che nulla farebbero per evitare queste agitazioni e che anzi, sotto sotto, fomenterebbero le agitazioni stesse.

Sapete, per quelli che dicono ciò in malafede, la cosa è molto chiara, perché sappiamo cosa vogliono e perché dicono questo in malafede. Il brutto sarebbe che ci fosse qualcuno in buona fede che dicesse questo, il che vorrebbe dire che in Italia c’è qualcuno che non si è ancora reso conto delle vere condizioni della classe lavoratrice e della gente che soffre.

Comunque, cari colleghi, la verità è che i lavoratori e il popolo non ne possono più, sono al limite della sopportazione e sono, specialmente, esasperati dalle ingiustizie che ogni giorno essi vedono accumularsi a loro danno. E se sono oggi disposti a sopportare queste ingiustizie meno di ieri, è perché essi oggi non si sentono sufficientemente garantiti da questo Governo. Questa è la verità, anche se a qualcuno può essa dispiacere.

La presenza dei partiti popolari, dei partiti di sinistra, dei Partiti socialista e comunista al Governo, dava loro la garanzia che tutto quanto si potesse fare per essi veniva fatto. Ora, possiamo dar torto ai lavoratori che la pensano così? Io credo di no. D’altra parte, quale prova ha offerto ai lavoratori questo Governo, e in genere alle classi più disagiate, per pretenderne la fiducia?

Io veramente vorrei che qualcuno lo dicesse e dall’esposizione che faranno gli onorevoli Ministri si dirà cosa concretamente è stato fatto a favore dei lavoratori italiani; e vorrei che lo dicessero per prenderne atto lealmente, perché finora credo che la maggioranza del popolo italiano non se ne sia ancora accorta e aspetta ancora queste prove di interessamento da parte del Governo.

Chiedete nuovi sforzi, nuovi sacrifici, e i lavoratori sono disposti a farli nell’interesse del Paese; ma è necessario, per ottenere questi sacrifici, che chi deve sostenerli sappia che, in definitiva, questi sacrifici sono indispensabili e non andranno a favore di pochi privilegiati, ma andranno a favore di tutta la collettività.

Da quanto tempo, per esempio, in Italia si parla dei consigli di gestione? La Confederazione del lavoro ne ha chiesto da molto tempo l’istituzione, con funzioni modeste e possibili. Lo ha chiesto specialmente nell’intento di affrettare l’opera di ricostruzione e di convogliare in quest’opera la volontà e l’entusiasmo dei lavoratori italiani. Incidentalmente voglio ricordare che anche la risoluzione per i consigli di gestione fu approvata dal comitato direttivo della Confederazione del lavoro all’unanimità, cioè col concorso anche della corrente democristiana e particolarmente dell’onorevole Pastore, che in quel momento non era ancora segretario generale, ma membro autorevole del comitato direttivo.

Cosa abbiamo detto per i consigli di gestione? Abbiamo detto che è un errore credere che con i consigli di gestione vogliamo portare la rivoluzione nell’interno delle fabbriche.

Essi devono invece diventare i nuovi organi costruttori della vita economica e del progresso del nostro Paese. I consigli di gestione dovranno essere investiti di alcune attribuzioni, le quali, pur lasciando l’iniziativa all’imprenditore, coinvolgano la responsabilità del personale e tengano conto dei suggerimenti che la pratica renderà necessari.

I lavoratori sono i più interessati al buon andamento delle imprese, perché le crisi colpiscono essi per i primi. La conoscenza da parte loro delle condizioni finanziarie della propria azienda può indicare, in date circostanze, le direttive giuste del processo produttivo ed anche il raddrizzamento delle imprese sballate. In Italia, per molti anni, è la collettività che ha pagato le cattive amministrazioni. Che cosa è accaduto infatti? È accaduto che, quando l’azienda prosperava, i guadagni andavano al proprietario, mentre, quando andava male, le perdite venivano pagate dalla collettività.

Ma c’è l’opposizione della Confederazione dell’industria, il cui Presidente ha dichiarato a Bari nel mese di aprile – quante dichiarazioni in questo mese di aprile! – che la Confederazione dell’industria ha ostacolato l’istituzione dei consigli di gestione e sempre la ostacolerà. La Confindustria: sempre la Confindustria. È la Confindustria che non vuole che i quattordici punti vengano realizzati; è la Confindustria che non vuole che i consigli di gestione vengano istituiti.

Qual è dunque la situazione di fatto? Da una parte, la buona disposizione del Governo ad applicare il programma da esso formulato, come risulta dalle dichiarazioni del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’industria; dall’altra, l’opposizione costante e rigida della Confederazione dell’industria. È così che i quattordici punti non vengono realizzati e i consigli di gestione non vengono istituiti. È lecito quindi domandarsi: ma chi governa in Italia? Il Governo o la Confindustria? (Applausi a sinistra).

Ma i consigli di gestione, là dove sono stati istituiti, hanno dato poi tanto cattiva prova? Prendiamo l’esempio della Fiat, dove i consigli di gestione sono stati istituiti senza il consenso della Confederazione dell’industria, ma anzi contro il parere di questa. Ebbene, il consiglio di gestione della Fiat ha contribuito, per ammissione dei suoi stessi dirigenti, nel modo più efficace alla ripresa industriale della ditta: oggi la Fiat produce precisamente il doppio di quanto produceva nello stesso periodo del ’46.

Io credo di interpretare i sentimenti per lo meno dei settori di sinistra dell’Assemblea mandando un saluto al proletariato di questa grande città piemontese. (Applausi a sinistra).

È troppo facile accollare ad altri la responsabilità della situazione; oggi la colpa sarebbe dei partiti di sinistra e della Confederazione del lavoro; com’è infantile tutto ciò! E come, soprattutto, è facile fare il calcolo delle giornate di lavoro perdute e del denaro conseguentemente perduto per effetto dello sciopero.

La storia delle lotte sociali sta a dimostrare come i lavoratori, là dove sono riusciti a conquistare qualche cosa, abbiano raggiunto il loro intento soltanto con l’arma dello sciopero. Io non credo di errare affermando che i Paesi più progrediti sono quelli ove si sono avuti più scioperi.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. In Russia non se ne fa uno. (Commenti a sinistra).

DI VITTORIO. Non c’è la Confindustria.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Lasci stare, onorevole Di Vittorio.

LIZZADRI. Con quale senso di giustizia e con quali criteri si vuole gettare la colpa degli scioperi soltanto sull’organizzazione dei lavoratori e sui lavoratori stessi? Nella grande maggioranza dei casi è l’egoismo dei ceti padronali che genera le agitazioni (Commenti destra), e spesso è l’errata valutazione da parte di questi ceti dei loro stessi interessi. Quante volte datori di lavoro, al tavolo delle trattative, hanno rifiutato fino all’ultimo momento quello che poi essi sapevano che avrebbero concesso dopo due giorni di scioperi, malgrado il danno che essi dicevano avrebbero subito da questa astensione dal lavoro!

Del resto, ci sono esempi in Italia, molto recenti, che dimostrano da quale parte stia la comprensione e da quale parte l’incomprensione. Devo portare qui l’esempio dei tessili. Noi della Confederazione del lavoro, nelle lunghe discussioni per la perequazione salariale tra il Nord e il Sud, comprendemmo la grande importanza della ripresa di questo settore nell’economia italiana, e accettammo – e i lavoratori tessili accettarono – un salario sensibilmente inferiore a quello dei lavoratori di tutti gli altri settori. Ricordo che fummo costretti a creare una categoria apposita, la categoria T; una categoria, cioè, con un salario basso, il più basso possibile, appunto per aiutare l’industria tessile italiana a riprendere il suo posto nel mondo. Ebbene, quando gli industriali tessili, per effetto di questi salari bassi, e per effetto di quel famoso 50 per cento, poi portato a 75 per cento, di valuta, hanno guadagnato miliardi su miliardi, mettendosi alla testa dei profittatori di questo dopoguerra, credete che i signori industriali tessili abbiano riconosciuto ai loro dipendenti un trattamento adeguato, non dico agli utili che essi realizzavano, ma almeno alle migliorate condizioni delle loro aziende? Neanche per sogno!

Oggi avviene press’a poco lo stesso nelle industrie metalmeccaniche. La maggior parte di queste industrie – lo sanno tutti – oggi produce, con le stesse maestranze del 1946, dal 40 al 50 per cento in più. Qualche azienda, come la Fiat, ha raggiunto anche il doppio. Forse che nelle paghe si tiene conto di questo aumento di produttività da parte dei lavoratori?

Non so poi come definire l’affermazione di taluni giornali (e non solo giornali) secondo cui lo sciopero dei braccianti del Nord avrebbe causato miliardi di danni all’economia nazionale e ai braccianti stessi. Per quello che riguarda l’economia nazionale, risulta che neppure un chicco di riso è andato perduto; non so, però, se tutto questo riso i proprietari lo porteranno all’ammasso. (Commenti). Sta di fatto poi che i braccianti agricoli nel corso di un’annata riescono a lavorare sì e no per 150 giorni. Perciò, anche se hanno scioperato per due, tre, quattro, cinque giorni, nel computo di un anno essi non perdono neppure una sola giornata.

Che cosa è successo anche a Roma l’anno scorso? Fu emesso, su richiesta delle parti, la Confida e la Confederterra, un lodo del Ministro del lavoro. Questo lodo, accettato dalle parti, comprendeva fra l’altro l’obbligo di istituire, a decorrere dal 1° luglio 1947, un sistema di scala mobile, debitamente rettificato per le particolarità del lavoro, ma sulle stesse basi di quello in vigore per i lavoratori dell’industria. Ebbene, i signori agricoltori della provincia di Roma, finché non è stata imposta questa parte del lodo con lo sciopero, non l’hanno applicata, e questa parte del lodo è entrata in vigore solo il 20 settembre, in seguito alla minaccia dello sciopero dei lavoratori agricoli della provincia di Roma, e non il 1° luglio.

Tutto questo significa che oggi gli agrari e gli industriali credono di potere negare quello che ieri avrebbero concesso forse con più facilità, o addirittura di potere eludere i patti firmati.

Io non dico che questa sia una colpa dell’attuale Governo, ma questa intransigenza, rafforzatasi da pochi mesi a questa parte, non può essere giustificata se non col fatto che i ceti padronali si sentono oggi più a loro agio con questo Governo che non coi governi passati.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Gir agricoltori hanno ceduto in seguito al mio appello diretto di trattare (Applausi al centro).

LIZZADRI. No, hanno ceduto dopo la sconfitta.

È in quest’ordine di considerazione che – secondo me – assume un aspetto reazionario e poliziesco la richiesta fatta ai prefetti di comunicare i dati sugli scioperi nelle singole provincie.

Io vorrei domandare se il Governo si è mai preoccupato di domandare ai prefetti il nome, il cognome e tutte le indicazioni necessarie relative a quei padroni egoisti e testardi che spesso ostacolano ogni composizione amichevole delle vertenze sindacali. Perché non si chiede, per esempio, ai prefetti un elenco di quei nominativi che nelle città di provincia (ed anche a Roma) corrono sulle bocche di tutti; i nominativi di coloro che hanno accumulato i milioni speculando sulla fame del popolo? Perché non si domanda ai prefetti un censimento preciso dei bambini poveri, dei tubercolotici, dei disoccupati, e, d’altra parte, un elenco delle signore e dei signori che quest’estate hanno sperperato milioni e milioni sulle spiagge e nelle case da giuoco? (Applausi a sinistra).

Domandate, per esempio, al prefetto di Firenze con quale criterio ha decurtato la somma destinata dal Comune per le refezioni scolastiche! Il Comune di Firenze, che ha un bilancio di qualche miliardo, aveva stanziato per la refezione scolastica ai bambini poveri una somma di 25 milioni. Voi sapete in questo momento cosa significhi questa cifra. Ebbene, il prefetto di Firenze (di cui non conosco il nome, ma che vorrei additare all’ammirazione dell’onorevole Einaudi) ha ridotto questo stanziamento da 25 milioni a 2 milioni e mezzo. (Commenti).

Questo significa, per Firenze, dare la refezione a 25 mila bambini poveri per un giorno o due in tutto l’anno scolastico!

Io credo che queste siano direttive che vengono dall’alto, dal Governo.

Una voce a destra. E allora?

LIZZADRI. Ho chiesto, onorevole collega, se il Governo poteva domandare questo al Prefetto di Firenze! Ecco che cosa ho chiesto!

Una voce a destra. Ma ciò non rientra negli argomenti in discussione. Lei potrà presentare una interrogazione. (Commenti).

LIZZADRI. Onorevoli colleghi, non è – io credo – con una politica di parte (o che appaia come politica di parte) che si può riportare la fiducia e la pace nel nostro Paese. Che la situazione sia grave l’ho sentito ripetere da membri del Governo e dai colleghi che mi hanno preceduto. In una visita che ho fatto nell’Italia meridionale ho dovuto constatare che in città anche con più di diecimila abitanti la popolazione vive quasi esclusivamente di carità pubblica. Ho segnalato questo fatto all’onorevole Scelba e all’Alto Commissario dell’alimentazione, e ambedue si sono resi conto della verità di queste affermazioni e hanno promesso che sarebbero intervenuti.

La situazione è grave ed è impossibile, secondo me, riportarla in condizioni di relativa tranquillità, senza il concorso attivo operante e comprensivo delle masse lavoratrici. Il 4 aprile, come ho detto all’inizio del mio discorso, si era ottenuto un pieno accordo fra il Governo e la Confederazione del lavoro su un programma che si riteneva efficace e che faceva perno sui 14 punti elaborati dall’onorevole Morandi. Per il bene del Paese è necessario riprodurre la situazione di fiduciosa attesa determinatasi nel popolo con la pubblicazione di quel programma. Anche volendo ammettere la bontà delle intenzioni con le quali fu formato l’attuale Governo, oggi dobbiamo constatare che esso è venuto meno al compito che si era prefisso. Oggi l’Italia è divisa in due blocchi, in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea. Le prossime elezioni indicheranno la volontà del popolo italiano e ci diranno se dovrà governare uno dei due blocchi o se per l’avvenire si dovrà trovare una via di intesa fra i diversi partiti. Ma ciò che oggi appare chiaro, secondo me, è che un Paese come il nostro, nelle condizioni in cui si trova, che esce da una guerra e da una dittatura, ha bisogno di tutte le sue forze e in primo luogo del contributo delle masse lavoratrici.

Abbiamo dinanzi a noi, onorevoli colleghi, un inverno particolarmente duro, e la situazione internazionale non è proprio tale ha lasciarci completamente tranquilli. In queste condizioni chi è veramente preoccupato delle sorti dell’Italia non può non sentire che soltanto l’unione degli sforzi e un minimo di concordia potranno affrettare il ritorno della tranquillità e del benessere del nostro popolo. L’onorevole Nenni ha terminato il suo discorso dicendo, rivolto alla Democrazia cristiana: assumete le vostre responsabilità; noi abbiamo assunto le nostre.

Io termino con la stessa invocazione dell’onorevole Nenni. Solo aggiungo: attenzione, perché il popolo italiano ci giudicherà. (Vivi applausi all’estrema sinistra – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Le tre sedute che abbiamo dedicato a questa importante discussione ci hanno permesso di ascoltare, per ognuna, due oratori. Onorevoli colleghi, se questo deve essere il ritmo, mi permetto di osservare che dovremo riesaminare il calendario della discussione: io non posso e non voglio dimenticare che abbiamo il compito di redigere la Costituzione.

Questo compito non deve essere messo in seconda linea dall’altro, altrettanto importante, ma non preminente, di questo dibattito politico. E siccome gli oratori ancora iscritti sono 45 e pare che, oltre che a una gara di intelligente capacità, gli oratori si siano sfidati anche a quella di durata e di resistenza, è evidente che tutti i calcoli fatti non reggeranno alla prova.

Ho il dovere, e lo adempio, di ricordare all’Assemblea che essa deve completare il suo compito costituzionale.

Il seguito di questa discussione è rimandato alle ore 16.

La seduta termina alle 12.45.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Commemorazione:

Vernocchi

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Labriola

Merzagora, Ministro del commercio con l’estero

Cortese

Togliatti

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

La Rocca

Micheli

De Mercurio

Jervolino, Sottosegretario di Stato per i trasporti

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Commemorazione.

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. Onorevoli colleghi, la notizia è improvvisa, è di stamane. Adelchi Baratono non è più. Era ben lungi da me il pensiero che l’avversità degli eventi mi avrebbe serbato questo doloroso incarico di ricordare a voi lo scomparso che fu nostro, che sedette su questi banchi. Altri assai meglio di di me avrebbe potuto rievocare l’altezza del suo ingegno e delle sue opere, ma si è voluto che io, che ebbi con lui legami di fraterna amicizia, che ne condivisi sempre il pensiero teorico, levassi l’anima alla sua memoria, alla memoria dell’uomo buono, del filosofo illustre, del socialista che rivestì di genialità, di gentilezza e di povertà la sua incrollabile fede in un avvenire di emancipazione sociale. In quest’ora angosciosa, perdonatemi, signori, è il cuore che parla. Ogni parola è un palpito ed il palpito del mio cuore si riallaccia al palpito dei cuori dei socialisti, dei lavoratori di Genova, dei lavoratori italiani che lo conobbero. Dire di lui, degnamente, in quest’ora sarebbe inutile sforzo; ma bisogna pur dire qualche cosa. E allora le memorie risalgono lontano, ai tempi in cui nel partito socialista ferveva la lotta delle idee; in cui si discuteva senza faziosità e senza livore dei principî e dei metodi; in cui si dissertava sulla interpretazione della dottrina marxista. Erano i tempi eroici del socialismo. Il Partito socialista italiano, particolarmente, era una fucina di cervelli incandescenti in continua ebollizione, che muovevano le idee e le dottrine: discussioni produttive erano, perché elette, impersonali, sincere. Adelchi Baratono, filosofo illustre, fu uno di coloro che parteciparono, con altezza d’ingegno e di cultura, a queste discussioni. Riformisti e rivoluzionari, minimalisti e massimalisti, transigenti e infransi genti; concezione graduale o contingentista del socialismo che credendo nella capacità riformatrice della classe borghese entro l’ambito dello stato borghese si esauriva in questa funzione, concezione rivoluzionaria ispirata al metodo della lotta di classe come movente principale della storia e come strumento di offesa e di difesa della classe lavoratrice contro l’oppressione del capitale. Ecco i termini del dissidio. E Baratono, massimalista e teorico del massimalismo, partecipò a questa discussione e scrisse cose pregevoli fin negli ultimi momenti di sua vita, particolarmente sui due aspetti del marxismo. Noi sostenevamo e sosteniamo che il socialismo non è soltanto una questione proletaria ma una questione sociale, perché il proletariato, risolvendo il problema della sua classe, risolve un problema umano, traduce, cioè, nella realtà una idea di giustizia.

Ecco perché i motivi idealistici sono parte integrante del socialismo. E sostenevamo, quindi, la necessità di una organizzazione politica la quale, non dimenticando di rafforzare nella classe lavoratrice lo spirito di rivolta contro l’ingiustizia, non dimenticando di agitare la fiaccola dell’idealità lontana e di indicare la meta ultima, affrontasse nello stesso tempo tutti i problemi di carattere politico, morale, culturale, religioso e giuridico che trascendono nell’ora la semplice questione del pane. Allora fummo chiamati romantici (allora in buona fede, oggi, forse, con dileggio); e noi rispondevamo con Baratono affermando che «se romanticismo vuol dire spinta soggettiva, volontà del domani, movimento nell’azione, bisogno di trasformare la realtà invece che adattarvisi, ebbene noi siamo dei romantici».

Vi sembrerà strano che, in questa epoca di abituale compromesso, ancora oggi vi siano uomini che credono in questi principî; ed alcuni di noi vi credono, non hanno dimenticato il passato. Ma Baratono particolarmente aveva il culto della unità nella disciplina. Ed io ricordo quando al Congresso di Milano del 1921, nella famosa polemica con Claudio Treves, egli sostenne non il comodo concetto della libertà del pensiero e disciplina nell’azione, ma affermò che pensiero ed azione sono la stessa cosa; perché non era possibile concepire socialisticamente una azione contraria a quella che pensiamo. Ecco l’uomo, ecco il socialista che consacrò pensiero ed azione alla causa degli umili e degli oppressi.

Se io dovessi, in questo momento, ricordarvi il suo pensiero filosofico, la indagine mi condurrebbe troppo lontano; non è questo il momento né il luogo. Vi dirò soltanto che Baratono aveva una qualità che pochi filosofi hanno: la chiarezza nella esposizione del suo pensiero. Pei questo motivo articoli di dottrina venivano pubblicati sui nostri giornali quotidiani; perché egli metteva i lavoratori, che lo leggevano, in condizione di poterlo capire. Dalla cattedra, sui libri e sui giornali, sempre il suo pensiero apparve cristallino; e a tutti comprensibile anche quando esponeva i principî più astrusi della filosofia.

Ricordo – ed io lo seguii dalla tribuna della stampa – quando, nel 1922, deputato, intervenendo nella discussione sul bilancio della pubblica istruzione, relatore il collega e compagno Mancini, egli elevò un inno all’avvicinamento della scuola al lavoro. Fu un discorso di critica costruttiva, perché indicò quale avrebbe dovuto essere il nuovo ordinamento scolastico. Ancora oggi noi dovremmo riprendere quelle sue idee, perché servirebbero alle nostre discussioni.

Onorevoli colleghi; a più tardi ed altrove la commemorazione. Oggi eleviamo il pensiero riverente alla memoria di Adelchi Baratono. La morte, che lo tradì quando ancora non aveva compiuto la sua opera, lo spinge tra quella eletta schiera di uomini generosi, la cui vita fu una continua aspirazione ad un avvenire di giustizia in cui il lavoro umano sarà finalmente redento. (Applausi).

PRESIDENTE. Esprimo il cordoglio mio personale e mi faccio interprete di quello, ugualmente profondo, ne sono convinto, di tutta l’Assemblea per la morte del professor Adelchi Baratono, che ha seduto in questa Aula a rappresentarvi il socialismo italiano, al cui servizio ha profuso, come l’onorevole Vernocchi ha testé ricordato, tutte le energie del suo intelletto e la grande ricchezza dei suoi sentimenti umani.

Sono sicuro di obbedire al desiderio unanime di tutti i colleghi, se dico che farò pervenire ai familiari dello scomparso l’espressione del nostro dolore solidale. (Applausi).

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Labriola. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Onorevoli colleghi, il discorso pronunciato stamani dall’onorevole Valiani invita ad una esposizione sobria e riassuntiva del proprio pensiero. Quel discorso, ricco di informazioni e di notizie, potrà forse essere più utile alla lettura di quel che non sia stato alla semplice audizione. Tuttavia, nel confermarmi nella opinione che occorra esporre in guisa sintetica e abbreviativa il proprio pensiero, mi induce soprattutto un’osservazione che ho avuto occasione di fare allorché l’onorevole Valiani aveva terminata la sua esposizione.

In realtà molti dei suoi rilievi riguardavano i criteri personali con cui gli uomini del Governo hanno condotto la politica del nostro Paese. A me non pare che codesto modo di formare una critica raggiunga appieno l’intento che i presentatori delle mozioni si sono proposti. Criteri personali. Se al posto degli attuali governanti vi fossero stati degli uomini come il Valiani, evidentemente essi sarebbero stati diversi. Ma dei criteri personali noi non possiamo fare in nessun modo un conto assoluto; si tratta di apprezzamenti circa il modo personale come si è intesa una determinata funzione. L’essenziale è occuparsi degli indirizzi, degli orientamenti e dei sistemi tenuti dal Governo.

Continue ripetizioni delle stesse storie. È probabile che la presente discussione sia per rassomigliare alle otto o dieci che l’hanno preceduta. Tuttavia non capisco perché vi si accaniscano tanto intorno i due partiti che chiamano se stessi, con dubbio gusto, «estremisti».

Essi non possono pensare che i mali d’Italia siano nati da tre (o quattro) mesi di governo esclusivo democristiano, anziché da tre anni di collaborazione socialcomunista-democristiana. Forse il torto dei democristiani consiste nell’aver desiderato per tre anni la cooperazione e il sostegno dei socialcomunisti, e del non averli adesso conseguiti sono intimamente amareggiati. Ma, torto o no, il fatto è che di fronte a tre mesi di attività indipendente, tre anni di lavoro in comune contano molto di più.

Si può aggiungere che l’onorevole De Gasperi potrebbe sempre sostenere che il suo tentativo particolare non è riuscito – almeno così presto – perché appunto gravato dalla vecchia eredità dell’attività in comune con socialisti e comunisti. Se egli domandasse che gli lasciassero il tempo per cancellare gli effetti di quella collaborazione, non si potrebbe proprio dargli torto; e se in politica la buona fede fosse moneta corrente, si dovrebbe necessariamente dargli il tempo di attendere.

Penso che io sono dei pochissimi, o forse il solo, in questa Assemblea, a poter votare con tranquilla coscienza contro l’onorevole De Gasperi. Ho votato contro di lui allorché egli era alla testa dell’esarchia, poi quando era alla testa della triarchia; e perché mi rifiuterei di continuare a farlo ora che egli è alla testa della propria… monarchia democratico-cristiana?

Il mio punto di vista è che tutta la situazione politica costituitasi dopo il giugno del 1943 è falsata da una duplice volontà: dalla risoluzione dei tre partiti di mirare essenzialmente alla propria compattezza e resistenza, per essere, come partito, il solo strumento della vita nazionale; in secondo luogo di considerare la situazione italiana come puramente transitoria, e perciò da dominare con un proposito di volgerla ai propri schemi o al proprio programma.

Intendiamoci su quest’ultimo punto. Che la situazione italiana sia concepita come puramente transitoria, non è cosa da rimproverare a nessuno, anzi fa onore il ritenerla così; ma si capisce che tale transitorietà debba riferirsi alle circostanze non essenziali, ma, dirò così, qualitative dello stato di essa. Le cose vanno male, ed è desiderabile che volgano al meglio, al meglio per quello che esse effettivamente sono. Ma non è di questa transitorietà che evidentemente si disputa.

La transitorietà della quale intendo parlare non è di questa specie. In realtà essa si riferisce all’ordine giuridico raggiunto, al sistema – non più politico – ma sociale nel quale si è assestata; in un altro caso e per uno dei tre partiti, al nostro ordinamento nazionale.

Incedo per ignes. Naturalmente, che la inclinazione mostrata dalla democrazia cristiana per una soluzione repubblicana del nostro problema istituzionale sia stata influenzata dal suo naturale desiderio di lasciare in Italia unico potere coordinatore e disciplinatore il Vaticano, è cosa ovvia. Ho abbastanza studiato la storia per non comprendere l’entusiasmo repubblicano dei cattolici. E poi c’è il Sillabo, non ritrattato, né attenuato, il quale dichiara eretica la proposizione che l’origine dei diritti pubblici sia nel popolo e non nella Chiesa, e che la sovranità popolare sia il fondamento dell’ordine pubblico. E c’è la storia della Chiesa nei suoi rapporti con le rivoluzioni popolari, da quella che cacciò gli Stuart, alla Rivoluzione francese, e soprattutto alle rivoluzioni del 1818. Ma la Chiesa fa anch’essa una politica, e le conseguenze si comprendono.

Tuttavia da tutto questo io non voglio ricavare un argomento polemico di carattere ecclesiastico. Mi duole che all’Assemblea le correnti laicistiche che un dì furono la forza e l’orgoglio dell’estrema sinistra e della stessa sinistra (fu appunto Francesco Crispi a volere il monumento a Giordano Bruno) oggi difettino pressoché completamente, mentre esse prendono alle visceri più intime il senso nazionale degli italiani. Ma il mio argomento si riferisce esclusivamente alla tesi che i partiti emersi così rigogliosamente dal disastro nazionale, abbiano intesa la situazione italiana come un semplice mezzo per volgerla in via esclusiva ai loro fini di parte, cioè per dominare il Paese come parte.

E dico una parola a proposito dei socialcomunisti. In tutti i discorsi dell’onorevole Nenni, che a differenza dell’onorevole Togliatti si mostra meno prudente e più corrivo del suo non so bene se collega o concorrente, ritorna il tema che i socialisti debbano andare al potere per realizzare al più presto il socialismo. E vero che egli non ha detto mai che cosa fosse il socialismo, almeno per lui.

Io ho adoperato per primo la formula che noi siamo entrati nell’era socialista. Il mio socialismo è quello dell’attribuzione al lavoratore del pieno prodotto del suo lavoro, non di quello dell’imprenditore (non so perché chiamato con un inutile tedeschismo datore di lavoro), del contributo degl’impianti e dell’organizzazione industriale. Questo mio socialismo non suppone, né impone, sconvolgimenti e sconquassi, ed è perfettamente armonizzabile con l’ordine individuale dell’azienda. Teoricamente il problema è risoluto nella teoria delle produttività marginali e in quella più antica del von Wieser sul valore dei beni complementari. Praticamente si risolve mercé una buona politica sindacale indipendente, mestiere per mestiere, ed accordi negoziati con l’impresa, entro i limiti dell’obbietto da raggiungere.

Non credo che l’onorevole Nenni intenda così le cose. Il suo socialismo è spettacolare e cinematografico. Rassomiglia al gesto di Parsifal che capovolge il giardino incantato di Klingsor. È una irruzione e un capo volgimento. Ci si arriva attraverso uno sconquasso e un delirio, magari con un accompagnamento di clamori e sinfonie. È una catastrofe.

Salvo che l’onorevole Nenni non vuole accorgersi che la catastrofe è già avvenuta e che si sarebbe trattato di volgerla verso un fine. La mia impressione è che né egli, né i suoi amici abbiano saputo utilizzarla. Non faccio qui la questione di sapere perché non l’abbiano fatto. Essi sono stati al potere oltre tre anni, ed in tre anni si fanno tante cose. Forse l’onorevole Nenni vorrebbe dirmi che egli e i suoi amici non ci sono stati da soli e che l’ostacolo vero ad una radicale riforma degli ordinamenti sociali italiani sono stati i democratici cristiani. Estraneo alle loro combinazioni ministeriali, non so decidere questo difficile punto di teologia. Tuttavia osservo che se l’ostacolo alle riforme sono stati i democratici cristiani, allora perché ci sono stati sempre insieme? Se non ricordo male, l’ultima crisi ministeriale è stata considerata dai comunisti e dai socialisti come particolarmente biasimevole perché il suo risultato è stato – come essi hanno continuamente ripetuto – la loro estromissione dal governo. Di talché, se estromessi non fossero stati – (brutta è la parola «estromessi», ma l’adoperano proprio loro) – dal governo, essi avrebbero continuato a stare al governo insieme ai democratici cristiani, nonostante l’evidente decisione di costoro – secondo i loro avversari socialcomunisti – di fare una politica sostanzialmente antidemocratica.

Infine c’è una spiegazione alla politica dei socialcomunisti? L’opinione comune è che essa consista in una imitazione di vecchie vicende russe: disorganizzare l’ordine esistente e ridurre il ceto economicamente prevalente ad una condizione di totale proletarizzazione; così il socialismo verrebbe da sé. Le attenuazioni dell’onorevole Togliatti non sembrano sincere, ed a molti sembrano sospette.

Non siamo qui a risolvere compiti storici o da accademie; quindi non è il caso di porsi il quesito se il sistema abbia giovato veramente alla Russia. I dieci anni che vanno dal 1917 al 1927, e che comprendono il terrore rosso, la Nep, la grande carestia della Russia orientale, per ricordare soltanto i maggiori avvenimenti, avrebbero potuto essere risparmiati alla Russia e lo stesso ordine presente essere stato assicurato alla Russia senza tanti dolori e così spaventevole numero di vittime? Non debbo risolvere quesiti storici, e perciò non li affronto. Per conto mio, vorrei risparmiare al mio Paese un somigliante corso di avvenimenti. Ma la continua insistenza dell’onorevole Nenni, che egli intende impadronirsi del potere per realizzare il socialismo, mi preoccupa non poco; e poi di quale socialismo si tratta?

Ho detto che del socialismo, il quale consiste nella pura attribuzione al lavoratore del prodotto del proprio lavoro, non solo non mi preoccupo, perché riconnettibile allo stesso processo ordinario della produzione tale quale si svolge adesso, ma lo credo in gran parte realizzato. Esso non ha dato né il benessere, né la ricchezza alla società, in primo luogo perché i sistemi economici sì rassomigliano tutti, e quello che non può dar l’uno, non può dar l’altro. In secondo luogo perché il problema economico non è un problema di forma o di semplice ripartizione, ma un problema di forze e di mezzi, ed un assetto economico perfettamente socialistico, ma sprovvisto o debolmente provvisto di capitali, non è meno probabile di un sistema socialistico prospero e fortunato. L’uno e l’altro sono parimenti possibili. La differenza è data soltanto dal possesso dei mezzi impegnati e dalla capacità produttiva del lavoratore. Secondo me si commette un gravissimo errore prospettando agli operai un socialismo destinato a render felici e doviziosi gli uomini, di sé e per sé; mentre il problema della ricchezza è un altro.

Con questa riserva debbo pure rilevare che il socialismo dell’onorevole Nenni, e di tutti i suoi colleghi delle parti estremiste, non consiste nella semplice attribuzione al lavoratore dal totale frutto del proprio lavoro, ma in una radicale mutazione di forme: nella cosiddetta socializzazione, cioè nella trasformazione dell’impresa privata – od individuale – in impresa pubblica.

Poiché il fine delle nostre discussioni è politico, mi guarderò molto bene dall’esaminare la tesi dell’onorevole Nenni dal punto di vista teorico od astratto, e la riterrò solo per quel tanto che essa implica conseguenze politiche.

L’onorevole Nenni e i suoi amici desiderano di andare al potere – per dir meglio: di ritornarvi – per realizzare un ordine economico consistente nel passaggio della proprietà dell’azienda dal privato all’ente pubblico. Intanto l’onorevole Nenni non può ignorare che questo passaggio – specie se per ente pubblico s’intende lo Stato – è ben lungi dall’assicurare in via assoluta il benessere delle classi lavoratrici. In una pubblicazione, che egli non può ignorare, del Comitato interministeriale per la ricostruzione, che porta il curioso titolo di «Piano per le importazioni e le esportazioni industriali dell’anno finanziario 1947-48» a pagina 136, si trova un curioso elenco del reddito medio di ogni persona attiva in trenta paesi nel decennio 1925-35, e quindi prima della guerra, e la Russia sovietica occupa appena il 26° posto, venendo, naturalmente, dopo gli Stati Uniti, l’Inghilterra ed una serie d’altri Stati, ma persino dopo la Jugoslavia, l’Estonia e l’Italia, che, nonostante tutto, le precede. La statizzazione può certo uccidere, se non il vil borghese, che diventa funzionario dello Stato a redditi molto più alti e molto più sicuri di quelli che non gli lascia sperare l’attività privata, ma l’industria privata; non può però fondare il benessere e l’agiatezza dei cittadini.

Io non so se l’onorevole Nenni, e soprattutto i suoi amici di sinistra si metteranno veramente ad elaborare e confezionare tutte le socializzazioni che egli dice. Son cose delle quali è facile parlare; un po’ meno facile realizzarle, perché non si contentano di discorsi e di scritti, ma vogliono esperienza e disposizioni all’attività pratica. Per ora non vedo che ci siano molti socialisti atti a ciò. Ed il constatare che in tre anni di esarchica, triarchica o monarchica dittatura non si è fatto nulla in questo senso, dico meglio: nulla in quel senso si è tentato, mi ha persuaso che l’onorevole Nenni non possiede molti collaboratori seri, adatti a tentare l’attuazione di una cosa così seria. Per certe altre ragioni, che io desumo dalla mia conoscenza delle cose italiane, non credo che in Italia gente dalle robuste spalle, capace di lavorare alla elaborazione di un sistema di socializzazioni, ce ne sia veramente. Se ce ne fosse, ci sarebbe stato prima un intenso movimento industriale, si capisce: d’industria privata. Se questo è mancato, anche quello mi sembra poco verosimile.

Ma l’onorevole Nenni – mi scusi tanto se lo cito così spesso – credo che si contenterebbe di meno, e che l’esca delle sue brame non volga così doviziosa. Del resto i suoi colleghi secessionisti del gruppo Lavoratori Italiani si spiegano un po’ più chiaramente. Ad essi bastano pianificazioni e dirigismi, e mi pare che le loro mete non siano più ambiziose.

In Italia di dirigismo se ne è fatto anche troppo. In Russia si è statizzato, rimanendo ad uno degli ultimi posti – il quartultimo – di una classifica della ricchezza individuale; in Italia si pianifica a tutto spiano, e la miseria generale cresce. Pianificare è facilissimo: basta mettere degl’impiegati al posto dei privati imprenditori, e la cosa è fatta. Il loro costo è certamente superiore a quello dell’imprenditore, il quale, in verità non costa nulla, perché al margine profitti e perdite si equilibrano, almeno così insegna la scienza economica. Ma quanto al loro rendimento, esso è il risultato della loro buona volontà e della loro applicazione, che, in generale, nei funzionari non sono grandi, e che ad ogni modo, non sono qualità economiche. Capisco un socialismo integrale al posto di un capitalismo integrale, non il dirigismo al posto dell’industria privata. Esso è il romanzo al posto della storia, la favoletta al luogo della cronaca.

Infine è veramente curioso che in un periodo come quello che attraversiamo, tutto irto di questioni concrete e di ruvidi problemi, la disputa politica sia condotta, almeno nella stampa dei partiti, sul tema della pianificazioni e del dirigismo. I partiti che si qualificano da se stessi di sinistra, dicono che vorrebbero andare al potere per attuare queste belle cose. Ma ciò che veramente fa senso in Italia è che una così complicata materia non sia preceduta da studi ed esperienze conclusive. S’invocano a vanvera pianificazioni e controlli, ma non si è fatto nessuno studio minuto per dimostrare come si voglia questa pianificazione ed a quali settori della economia si penserebbe applicarla. Supponiamo un istante che i partiti di sinistra prendessero il sopravvento ed avessero a sé favorevole la maggioranza. Io credo, in buona coscienza, che essi, al potere, non farebbero nulla, e che naturalmente tutti i loro controlli ed il loro dirigismo rimarrebbero sulla carta. Credo che sarebbe il meglio per tutti, anche per questo povero Paese, che ha bisogno di vivere e non di fornire modelli ed esempi a nessuno, nemmeno per fare una bella figura nella storia del genere umano.

Tuttavia potrebbe darsi che così volessero fare sul serio, ed a quali jatture non saremmo noi esposti? Il dirigismo non appare che sul cadere di una civiltà; nell’Egitto dei Tolomei; nella Roma del morente impero; nella Bisanzio dell’XI secolo, paradiso dell’economia controllata e della produzione stratificata, nella Francia del dispotismo di Luigi XIV, e chi sa in quante altre parti del mondo nelle stesse condizioni. Un dirigismo italiano, nello stato in cui è ridotto il nostro Paese, sarebbe il coperchio inchiodato sulla nostra bara.

Prevedo un’obiezione: infine che cosa fate voi? Volete combattere il Ministero De Gasperi o invece gli avversari di lui? Non voglio fare come gli onorevole Nenni, Togliatti e Saragat.

Ecco qui: per combattere il Ministero De Gasperi, non si può fare a meno di combattere i suoi avversari, non dirò tanto perché la Democrazia cristiana è un estremismo con l’aspersorio, e nemmeno perché sino a ieri sono stati tutti insieme, e neppure perché in fondo queste anime gemelle non desiderano di meglio che tornare a fare comunella insieme; ma perché una critica che diviene evidente quando si tratta dei partiti estremi, si applica soltanto con un poco di buona volontà quando si tratta della Democrazia cristiana.

Il rapporto fra partito e Paese è – teoricamente – una cosa semplicissima. Il partito è un ideale che si prospetta al Paese, ed il Paese è la totalità a cui quell’ideale deve essere applicato. Ciò vuol dire che la sua applicazione implica temperamenti e mitigazioni, che il rispetto delle opposizioni dissidenti, o più semplicemente la resistenza di esse, rende consigliabili. L’idea del partito che senza riduzione si trae in mano il potere, o per dir meglio che trasforma in blocco sé medesimo in Governo, è nata per una imitazione del caso russo, che non tocca a me giudicare, ma che io considero non solo estranea ad una sana costituzione democratica – la quale deve soprattutto, per quanto strana possa sembrare la cosa, tendere a sodisfare i nostri avversari – sì bene all’utile medesimo dei partiti che lo tentano, costretti a trasformarsi in una dittatura o in una dispotia.

L’illusione ottimistica dei partiti quando soccombono ad una simile fantasia, è che il loro predominio costituirà il massimo bene del paese. L’illusione può forse non mancare di sincerità – sebbene ai tempi nostri non è sempre consigliabile di credere a cotesta sincerità; tuttavia il prevedibile risultato di essa è che il paese è fatalmente sottoposto alla tirannia di una parte sola. I comunisti non dissimulano che essi mirano a questo fine, e mi pare che i socialisti della parte nenniana non diano loro torto: il Governo come trasposizione del partito alla testa della pubblica amministrazione.

Ma è da tener conto che i comunisti al governo non fecero il comunismo, né i socialisti avviarono soluzione nel senso del socialismo. Vuol dire che a fare queste cose non basta la volontà unilaterale degli uni e degli altri. Vi sono ben altre difficoltà da superare. Vi fu soltanto il Governo del partito: ecco tutto. Vi fu per i comunisti e per i socialisti; e vi è stato anche per i democratici-cristiani. Ecco perché le critiche che si possono indirizzare agli uni, si possono indirizzare anche agli altri. E le censure che si potettero indirizzare tanto all’esarchia, quanto alla triarchia, si possono indirizzare altresì alla …monarchia democristiana dell’onorevole De Gasperi.

Ma il caso di quest’ultimo diviene più grave per un’altra considerazione. L’onorevole De Gasperi si volle separare dai suoi antichi collegati del Partito socialista e del Partito comunista. Per quanto ricordo, l’onorevole De Gasperi dette per unica spiegazione del suo atteggiamento, le ingiurie che gli prodigavano i giornali dei partiti ai quali appartenevano i suoi colleghi di Governo della parte estrema. Si potrebbe rispondere che in questa Italia contemporanea, anzi presente, son rose e fiori, e la libertà ci ha pure arrecato un fantastico pullulare del turpiloquio e della calunnia. Ma infine anche questo fatto merita di essere chiarito. Perché i collegati dell’onorevole De Gasperi si mostravano così poco riguardosi verso di lui? Si tratta di semplice psicologia personale o anche di psicologia politica?

Propendo per quest’ultima soluzione. Le ingiurie per l’onorevole De Gasperi e, naturalmente, per il Partito di lui, traevano origine dal desiderio contrapposto dei suoi collegati di Governo e dei loro organi, o di averli con loro nelle loro esperienze di dittatura unilaterale o di preparare a se stessi un Governo unilaterale. Ho detto «governo» e non altro. Esperimenti di socialismo o di comunismo nessuno ne ha fatti. Non credo se ne possano fare: l’economia italiana – nel momento attuale, almeno – non ne comporta. Oggi soltanto l’Inghilterra, più degli Stati Uniti, come paese pressoché interamente industrializzato, può permettersi esperimenti di socialismo, e forse appunto perciò non ne fa, se non con una così estrema parsimonia. Che cosa significa una presa unilaterale del potere da parte delle frazioni estremiste? La semplice imposizione al paese di un dispotismo di parte, allo scopo di piegare ad un’obbedienza personale tutto il resto del paese. Non dico di più. Ma suddito degli onorevoli Nenni e Togliatti non intendo punto diventare!

E qui si comincia a profilare la responsabilità del Governo dell’onorevole De Gasperi. Sebbene un comunismo ecclesiastico e un socialismo teologizzante non mi sembrano impossibili (e vi è il precedente delle «Riduzioni» dei gesuiti al Paraguay dal 1586 al 1768, che furono cosa onorevolissima e ricordano persino il nome di due padri gesuiti italiani, il Cataldi e il Mareta, che alla organizzazione di quella specie di comunismo agrario con viva intelligenza lavorarono), sebbene cotesto comunismo religioso non mi sembri impossibile; non penso punto che la Democrazia cristiana italiana intenda ad esso dedicarsi in Italia, o semplicemente lo possa. Già se comunisti e socialisti non vi si son punto dedicati; perché poi ne prenderebbero il luogo cattolici ed ecclesiastici?

Le responsabilità dell’esarchia e della triarchia consistono sostanzialmente nel non aver tentato nulla di organico nella ricostruzione italiana, anzi di aver ridotta questa ultima ad una semplice formula. Comunisti e socialisti potevano dire che essi non avrebbero compiuto le loro meraviglie se non quando avessero avuto nelle mani il potere in via esclusiva. Intanto lasciavano andare alla deriva l’economia italiana. E quali resistenze oppose la Democrazia cristiana alla condotta dei suoi collegati? Io non ne conosco nessuna, e del resto io ponevo appunto in rilievo che la rottura fra Democrazia cristiana e partiti estremisti fu ricondotta dall’onorevole De Gasperi ad una semplice questione di buona creanza, di urbanità e di buon contegno, ad una questione di Galateo, insomma. Se comunisti e socialisti non avessero scritto sui loro giornali le brutte cose che egli aveva dovuto leggervi, oggi sarebbero da capo insieme. La conseguenza è che coloro i quali hanno censurato l’esarchia e la triarchia per l’andamento delle loro amministrazione, soprattutto per il disordine in cui hanno lasciata cadere l’economia italiana, debbono necessariamente mettere al primo posto fra i loro censurati la Democrazia cristiana. L’inflazione non è nata oggi, lo sgretolamento dell’ordine interno dell’azienda statale rimonta almeno al giugno del 1944, il torrenziale ingrossamento dell’esercito impiegatizio, di una parassitaria burocrazia, è stato il cavallo di battaglia dei nuovi partiti giunti al potere dopo il crollo del fascismo. Oggi due dei tre partiti triarchici pronunziano i più fieri accenti contro il governo della Democrazia cristiana. In realtà de re tua agitur, e la vostra responsabilità è comune. Ma io che ho votato contro l’esarchia e contro la triarchia, continuo a votare contro la monarchia… parlamentare dell’onorevole De Gasperi.

Ammetto che il mio voto di tre o quattro mesi addietro contro il Governo dell’onorevole De Gasperi allora costituito, ebbe un poco del partito preso e della previsione pessimistica. Lodo me stesso per non avere sbagliato. C’era da fare un solo augurio all’onorevole De Gasperi, e la sua separazione dai comunisti e dai socialisti poteva giustificare l’augurio. Il nostro Paese era stato lasciato dagli anglo-americani nelle condizioni in cui si lascia un Paese sul quale non si desidera soltanto una vittoria militare, ma il suo totale annichilimento economico ed edilizio, il che essi raggiunsero prima con i bombardamenti a carattere puramente terroristico, poscia con le requisizioni industriali e di privata comodità, in ultimo con quella oscena emissione di carta moneta, della quale, nonché riuscire a liberarci, non giungiamo nemmeno a renderci adesso un conto aritmetico. Poteva l’onorevole De Gasperi tentare la sola politica che nelle condizioni del Paese fosse consigliabile, un po’ tardi, a dire la verità, perché erano passati almeno tre anni da quando si doveva – dico: si doveva – darle principio: la politica dell’incoraggiare e proteggere l’iniziativa privata, nella stretta tutela del capitale avanzato, del risparmio necessario alla produzione.

Questa politica poteva anche essere quella dei socialisti, condotti a ridurre, come appunto si dovrebbe, il socialismo alla totale restituzione al lavoratore del portato del proprio lavoro. Non fu così. Essi pensarono a cose più clamorose e sensazionali: la socializzazione, la statizzazione, l’accomunamento dei mezzi di produzione e della terra e così via. Ciò, evidentemente, non permetteva ad essi di collaborare ad una politica di favoreggiamento dell’iniziativa e dell’organizzazione industriale privata. Ma, cessata la collaborazione dei socialisti e dei comunisti, i democratici cristiani, potevano prendere in mano questa politica. Se lo avessero fatto, la loro popolarità si sarebbe enormemente accresciuta, e persino in mezzo alle classi operaie, le quali non sono punto interessate a sapere se un buon trattamento dipenda dal fatto che si produce in guisa puramente privata o per mezzo di un meccanismo socializzato, comunistico o statizzato, e mirano esclusivamente al buon trattamento.

L’onorevole De Gasperi e i suoi amici assumono di essersi soprattutto preoccupati della questione valutaria, cioè del mezzo di trattenere l’ulteriore caduta della nostra carta, che non so per quale ironia chiamano ancora moneta. È un vanto che non meritano, e me ne duole per i miei amici Einaudi e Del Vecchio. La caduta del valore del medio circolante si arresta in due modi: sia evitando di accrescere la circolazione, sia accrescendo la massa esistente dei beni. Credo che il Governo non abbia punto fatto la prima cosa, né si può mandargli buono l’avere diminuito i crediti per le industrie. Certo non ha pensato al secondo metodo, provvedendo a regolarizzare l’industria ed il traffico e rassicurando gli agricoltori. I problemi economici italiani – purtroppo – non sono semplici problemi di circolazione, sui quali è relativamente facile agire, per esempio: limitando le spese, frenando la fantastica ascesa della burocrazia, resistendo a richieste di aumenti delle rimunerazioni, e così via.

Il problema italiano è un problema di accrescimento della produzione, che s’inizia tranquillizzando l’imprenditore, ed assicurandolo che egli non sarà molestato nello svolgimento del suo lavoro. Ma questa è musica dell’avvenire.

L’Italia è l’ammalato che si gira nel letto, senza riuscire a trovar pace. I medici appaiono l’uno inferiore all’altro, l’uno meno dell’altro capace di trovare un rimedio. Io credo che sia faccenda di tutta una generazione che – fascista o antifascista, comunista o anticomunista – ha perduto il senso dell’equilibrio e manca di un’attitudine ragionevole. La sfiducia è in ogni luogo ed investe tutti i partiti. Vi sbagliate se credete che i risultati aritmetici delle elezioni abbiano un significato concreto. I cattolici possono sperare nell’assistenza divina. Ed in ultimo anche lo stellone d’Italia – nonostante le sue paurose eclissi – può ispirare un po’ di fiducia. Abbiatela se il cuore ve lo dice.

Fido, invece, nelle prossime elezioni, che potranno dare al Paese quel tanto di calma e di ordine – a causa dei loro risultati – che né il compromesso di tre partiti, né l’imposizione unilaterale di uno solo fra essi potranno mai dargli. (Applausi – Congratulazioni).

MERZAGORA, Ministro del commercia con l’estero. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io sono molto imbarazzato, ve lo confesso, nel prendere la parola in questa eletta Assemblea; e sono imbarazzato per due ordini di motivi: anzitutto avrei preferito trattare i problemi tecnici del mio Ministero non precisamente nell’atmosfera di una mozione di sfiducia – e questo per ragioni ovvie – d’altra parte, però, io sono molto grato a tutti gli oratori che mi hanno preceduto per il tono elevato dei loro dibattiti. La seconda ragione del mio imbarazzo è data dal fatto che io non ho mai parlato alla Costituente, non ho mai parlato neanche alla Consulta e, giacché sono in vena di confidenze, vi dirò che non ho mai parlato in pubblico. Ho parlato, sì, in piccoli ambienti chiusi: anche in quei consigli di gestione che i miei amici comunisti e socialisti hanno forse troppo presto dimenticato che io ho presieduto forse per il primo nel Nord. Ho sempre preso la parola in quegli ambienti dove esiste veramente un’atmosfera di attenzione tra chi parla e chi ascolta: non c’è andirivieni (Si ride) ed è più facile esprimersi; una attenzione quale, però, vedo – e vi ringrazio – voi mi riservate in questo momento.

Mentre, quindi, io sarei nello stato d’animo del debuttante, che a sipario alzato si rivolge al «colto pubblico e all’inclita guarnigione» per chiedere venia – stato d’animo che il collega Tieri conosce bene, perché prima di essere autore apprezzato, è stato un novellino anche lui – mi trovo ad essere come il primo carro armato – ahimè! molto leggerò nella corteccia – della compagine ministeriale, che esce, dopo il fuoco oratorio degli illustratori delle mozioni.

Io spero che voi terrete conto di questo.

Onorevoli deputati, è stato detto e ripetuto fino alla noia che l’Italia, Paese libero ed indipendente, non ha grano, carbone e petrolio. Non è stato, però, detto fino a qual misura l’Italia non sia in grado di pagare il grano, il carbone e il petrolio.

Questo, purtroppo, ve lo devo spiegare io.

Fra l’Italia e gli Stati Uniti d’America c’è come un rosario di navi, migliaia di navi, che continuamente affluiscono a questo Paese. Direi che più che un rosario di navi è un cordone ombelicale.

Onorevoli colleghi, se questo cordone ombelicale si taglia, noi abbiamo una sola libertà: quella di morire di fame.

Voci al centro. Benissimo! Questa è la verità.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vi voglio leggere alcune cifre, poche perché non voglio tediarvi: nel 1946 e negli otto mesi di quest’anno, noi abbiamo importato 2.900.000 tonnellate di grano e di granturco, di cui 1.600.000 regalate. Se noi suddividiamo questo grano per testa di abitante – sui 33 milioni circa di tesserati che, ci ha ricordato Ronchi, esistono nell’Italia abbiamo un dato che colpisce un po’ la fantasia e che è facile ricordare: e cioè, che ognuno di noi un giorno sì uno no, senza l’America, avrebbe dovuto digiunare, perché il grano che ci viene dall’America corrisponde esattamente alla razione dei giorni dispari o pari, come voi preferite.

Abbiamo importato ancora 12.200.000 tonnellate di carbone, di cui la metà completamente gratuite, e olii minerali per 2.300.000 tonnellate quasi completamente gratuite.

L’onorevole Nenni ha detto di non essere milionario (e noi gli crediamo perché questo risponde alle belle tradizioni del socialismo italiano, che egli rappresenta); mi consenta, però, che io gli dica che egli non avrebbe quella bella cera che ha e quel suo vigore caratteristico nel difendere le sue tesi e – ahimè! – nell’attaccare quelle degli altri, se non fosse milionario di calorie americane! (Applausi al centro e a destra – Si ride). Senza queste calorie egli sarebbe verde come i limoni che io non riesco ad esportare. (Commenti).

In queste condizioni, nella scala della priorità, io, checché ne dica il mio amico Valiani, metto al primo posto il credito.

Come è nato questo credito, che esiste per fortuna, e che il Paese ha?

È nato, in fondo, da un complesso di circostanze: dalla lotta di liberazione che ha reso meno cattivi gli Alleati nei nostri confronti, è nato dal desiderio di riprendere un attivo lavoro che ha animato i nostri operai (lo posso dire perché l’ho visto), è nato anche dalla collaborazione – diciamo la verità – che la Confederazione generale del lavoro ha dato nei primi tempi ai primi Governi (e che purtroppo da alcuni mesi non ci dà più), e da altri fattori.

Cosicché, si è creato uno slogan. Voi sapete che oggi si vive soprattutto di slogan non soltanto in Italia. Si dice all’estero: l’Italia lavora, aiutiamola.

Vediamo un po’ come e fino a quanto abbiamo bisogno di aiuti.

Vi farò un piccolo consuntivo di questi ultimi mesi ed un modesto preventivo dei mesi futuri. In questi ultimi mesi abbiamo dovuto spendere 19 milioni di dollari per il carbone, 9 milioni per prodotti petroliferi; 12 milioni di dollari e 2 milioni e mezzo di sterline per il grano. In totale 50 milioni di dollari.

Per contro, l’esportazione ci ha dato, per quella parte di valuta che riguarda lo Stato, circa 20 milioni di dollari mensili. È chiaro dunque il deficit che da queste cifre risulta ed è chiara anche la gravità della nostra situazione, la quale si è acutizzata maggiormente con la disgraziata inconvertibilità della sterlina che ricordava l’amico Valiani e sulla quale vorrei dare a tutti una risposta. Premetto che io non difendo la politica mia, ma difendo una politica nostra; vi sono alcuni elementi che devono essere tenuti presenti, elementi di fatto, precisi. Al momento della dichiarazione di inconvertibilità, noi avevamo 11 milioni di sterline che erano di pertinenza di privati. Quindi lo Stato in questa somma non entrava per niente. Se questi privati durante le cinque settimane che è durata la convertibilità non hanno convertito, nessun rimprovero può essere fatto allo Stato. Rimangono 20 milioni di sterline che lo Stato possedeva direttamente e in proprio. Di questi, considerate che 10 milioni di sterline, per patto stabilito con gli Inglesi al momento del trattato commerciale che abbiamo firmato con loro, dovevano rimanere bloccati e dovevano rimanere bloccati a garanzia della nostra buona intenzione di comperare nell’area della sterlina. Per contro, in seguito a questa nostra prova di buona volontà contrattuale, l’Inghilterra, malgrado la vita austera che conduceva e conduce, aveva ammesso l’importazione dei nostri prodotti ortofrutticoli. Dei 10 milioni che rimanevano, quattro, lo Stato li deteneva per tramite delle sue banche maggiori. Ora voi tutti sapete che le banche hanno bisogno di crediti e questi quattro milioni di sterline che le banche avevano presso gli Istituti inglesi erano veramente una garanzia per tutte quelle operazioni che gli istituti potevano chiedere in reciprocità. Dunque, sarebbe stata una cattiva politica domandare la conversione di questi quattro milioni. Rimangono sei milioni sui quali si possono fare delle critiche perché non li abbiamo convertiti. A questo punto vi dirò che se noi avessimo convertito queste sterline (e questa è l’opinione del Direttore generale della Banca d’Italia e di Istcambi) noi avremmo corso il rischio di vedere denunciato l’accordo italo-inglese. Vi spiego il perché; se noi esportando dei prodotti ortofrutticoli in Inghilterra avessimo chiesta la conversione in dollari del saldo delle nostre esportazioni, questo significava far pagare in dollari i nostri fichi secchi e la nostra frutta. Lo avrebbero fatto per una volta, ma poi avrebbero rotto l’accordo, evidentemente! L’accordo invece è ancora in piedi e speriamo ancora di esportare i nostri prodotti. Per questo non abbiamo voluto e potuto convertire ed è questa una ragione buona è valida. Del resto mi permetto ricordare che noi non abbiamo il monopolio di questo infortunio, perché la Francia, che è stata qui ricordata, è rimasta «dentro» per delle cifre molto maggiori delle nostre.

Guardando ora il nostro fabbisogno valutario per questo trimestre risulta che, contro un fabbisogno di 252 milioni di dollari, abbiamo un saldo passivo di 83 milioni di dollari che francamente io non so come poter coprire. Io ho in cassa delle speranze; è poco. Onorevole Nitti, lei, che è maestro di tutti noi in molte cose, passa per un pessimista, ma quando io e lei abbiamo parlato di questioni valutarie, lei si è sbagliato, però si è sbagliato non nel senso nel quale si sbagliano tanti pessimisti: lei ha visto la situazione meno grave di quella che oggi è.

Dovete pensare che molte esportazioni, purtroppo, non dànno valuta allo Stato. Infatti oggi i traffici non avvengono esclusivamente in valuta: avvengono attraverso il clearing, con affari di compensazione o con affari di reciprocità che non dànno valuta, ma merci utili al Paese. Le compensazioni private sono quelle operazioni nelle quali l’importazione e l’esportazione sono di pari valore e regolate direttamente fra le parti. Mi spiego: al medesimo momento un esportatore di limoni vende i suoi prodotti, diciamo, in Svizzera, e un importatore italiano importa pellami. Allora l’esportatore italiano è pagato in Italia dall’importatore di pellami; rispettivamente in Svizzera l’esportatore di pellami è pagato dall’importatore di agrumi.

Si fanno anche molti affari di reciprocità. Noi abbiamo affari di reciprocità con la Danimarca, la Svezia, la Norvegia, ecc.; abbiamo affari di reciprocità misti al clearing con la Francia, l’Olanda, il Belgio e la Spagna. Abbiamo, infine, compensazioni private con l’Austria, la Cecoslovacchia, la Svizzera.

Voi vedete che possibilità di affari in valuta ne rimangono molto pochi. A questo punto io ritengo opportuno, anche per rispondere ad un’altra domanda dei precedenti oratori, di fare una rapida corsa nel panorama economico dei diversi paesi. Noi stiamo trattando un accordo commerciale con la Bulgaria. Abbiamo in questi giorni ospite a Roma la Delegazione di questo paese amico, con il quale avevamo tempo addietro il secondo posto nella bilancia commerciale, quando la Germania deteneva il primo posto. Abbiamo tutto il desiderio di riprendere questa nostra posizione e tutte le altre nel vicino Oriente, che è il nostro più naturale mercato; io credo che molto presto firmeremo un accordo, anche se questo ci costerà il sacrificio di comprare un po’ di tabacco oltre il nostro fabbisogno.

Abbiamo mandato in Svizzera, in questi giorni, una delegazione che sta trattando un accordo. Sono molto curioso di vedere come vanno queste trattative con la Svizzera, perché finora la Svizzera, Paese amico che ci ha dato commoventi prove di solidarietà durante la nostra sciagura, in campo finanziario ha tenuto le mani in tasca; io vorrei che se le mettesse in qualche tasca che ci interessa di più.

Stiamo trattando l’accordo con la Jugoslavia. L’accordo con la Jugoslavia non è semplice perché, per la sua stessa grande mole, richiede una particolare attenzione. L’accordo è composto della parte normale di scambi commerciali e di un protocollo che non è un protocollo segreto. Qui non vedo l’onorevole Selvaggi, ma lo vorrei tranquillizzare. È passata l’epoca dei protocolli segreti. C’è un protocollo, che, però, non è segreto ma è molto importante, perché totalizza l’importo di 150 milioni di dollari in cinque anni. Noi forniremo del macchinario a questo Paese, dando così lavoro alla nostra industria meccanica. Soltanto, c’è un punto che vogliamo mettere in chiaro: cioè noi chiediamo che venga chiaramente stabilito il reintegro delle materie prime indispensabili per fare queste forniture. Ora, il ritardo nella firma di questo trattato è dovuto a queste pratiche che non sono ancora definite. Del resto vi sono altri trattati, che ci interessano anche di più, che ritardano. Per esempio, quello con l’Argentina che ci procura un credito di 700 milioni di pesos e la possibilità di importazione di 400 mila tonnellate di grano. Non siamo riusciti a firmarlo finora, ma spero ciò sia possibile in questi giorni. Questa è una riprova delle difficoltà che abbiamo in campo internazionale. E se poi questi accordi una volta firmati, funzionano poco, non è colpa del Governo, ma delle circostanze.

Passando ad altri Paesi, dirò che con la Russia da pochi mesi c’è una promettente ripresa di lavoro. Io mi sono fatto un punto d’onore di riprendere le nostre relazioni con la Russia. In questi mesi abbiamo potuto importare dalla Russia paraffina, cellulosa, benzina, gasolio, petrolio, per alcune decine di migliaia di tonnellate; ed abbiamo esportato rimorchiatori, escavatori, acidi e prodotti del suolo. Questo è un buon inizio e dimostra soprattutto la nostra buona volontà. Io ho chiesto all’Ambasciatore russo – che è persona molto simpatica, con cui si può parlare con aperta franchezza – che anche la Russia dimostri il suo desiderio di aiutarci. Ho chiesto qualche bastimento di grano; ci mandi il grano come fanno altri Paesi. Mi ha risposto: «Speriamo!». Non posso dare quindi, in argomento, nessun affidamento.

Con la Francia abbiamo firmato un accordo che funziona, purtroppo, stentatamente. Noi importiamo soprattutto fosfati, prodotti chimici ed esportiamo olii essenziali, seta, tessili. Con la Francia abbiamo anche ripreso un modesto scambio di prodotti di lusso; non è un danno perché si tratta di uno scambio reciproco.

Con la Francia si è aperta una porta nuova. Il Ministro Sforza, andando a Parigi, ha avuto una intuizione e ha lanciato l’idea dell’unione doganale; idea buona, difficile come attuazione, però è stata subito accolta come base di discussione. Una commissione è sorta in Italia e in Francia: queste commissioni hanno gemmato altre sei sottocommissioni miste. Il problema è allo studio: può darsi che dia buoni risultati. Con il Belgio abbiamo un vasto accordo di scambio, con impostazione piuttosto nuova. Si è cercato di sostituire reciprocamente il mercato tedesco che non esiste più, purtroppo, per noi, almeno in questo momento. L’Italia ritira dal Belgio rame, acciaio ed altri prodotti siderurgici, macchine e metalli rari. Noi esportiamo vini, agrumi e tipi di macchine che il Belgio non possiede.

Con l’America, con questo grande Paese, noi siamo agli inizi di una negoziazione, di cui non sarebbe corretto se io oggi v’intrattenessi.

Con la Germania, purtroppo, ci troviamo completamente a terra. Se pensate che prima di questa e di quell’altra guerra noi importavamo dalla Germania il carbone occorrente alle nostre industrie e lo pagavamo con i prodotti ortofrutticoli, capite come l’arresto e la scomparsa del mercato tedesco rappresenti per noi una causa di gravissime preoccupazioni. Noi questo l’abbiamo detto anche alle Autorità alleate; abbiamo cercato di fare degli accordi con le tre zone: francese, angloamericana e russa. Abbiamo lì lanciato lo slogan: mandiamo vitamine alla Germania. Le autorità rispondono: non abbiamo bisogno di vitamine, ma di calorie. Il popolo tedesco dice: non vogliamo calorie, vogliamo il pane. È difficile, data la situazione attuale della Germania riprendere le vecchie correnti di traffico. Però, è evidente che alla base del rifiorire della nostra esportazione ortofrutticola sta la possibilità di riapertura del mercato tedesco. Con la Cecoslovacchia abbiamo concluso a suo tempo il noto accordo sulla base di compensazioni private; funziona abbastanza bene. Importiamo legname, cellulosa, zucchero, coloranti, materie refrattarie, prodotti magnesiaci. Esportiamo vino, rajon, canapa, zolfi e prodotti della zootecnia.

Con la Spagna facciamo poco o nulla. Con il Portogallo stiamo trattando da un paio di mesi un accordo commerciale che non riusciamo a concludere. È ovvio dire che tutte queste nostre trattative sono fatte in perfetto accordo tra il Ministero del commercio con l’estero ed il Ministero degli esteri. Naturalmente al Ministero del commercio con l’estero è lasciata la conduzione tecnica delle negoziazioni.

TONELLO. Tranne che quello con la Cecoslovacchia, tutti gli altri accordi erano stati fatti prima che voi foste al Governo. (Commenti al centro).

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Bisogna dire ancora due parole sui rapporti con l’America del Sud. È ovvio che il mercato argentino è il più aperto alla nostra esportazione di qualsiasi genere, a cominciare da quella dei macchinari per finire alla nostra emigrazione: noi lo seguiamo con l’attenzione che merita.

Con il Brasile purtroppo facciamo poco o nulla. Esso sta digerendo i beni italiani incamerati durante la guerra. Questa digestione è lenta e pare che non si possa interrompere.

Io credo che sia difficile concludere qualcosa di veramente concreto con quel Paese, se il problema dei beni non venga in un modo o nell’altro regolato. È un problema che ha lati penosi.

Vi cito un solo esempio, che è veramente classico. A San Paulo del Brasile è stato per venticinque anni un nostro professore universitario che ha fatto talmente bene che, quando ha abbandonato il Brasile, la città di San Paulo gli ha dedicato una strada. Quest’uomo, vecchio, è rientrato in Italia ed è morto. La vedova e le figlie sono nella miseria perché il Brasile non libera i beni bloccati di questo benemerito italiano vissuto in Brasile. Io ho citato questo esempio limite, ma vi sono tanti altri problemi dal punto di vista sostanziale che devono essere risolti.,

Con l’Estremo Oriente stiamo pensando di riprendere i vecchi rapporti. Ma il problema è difficile e complesso e non posso dare per il momento nessuna precisazione.

Con i Paesi del Nord, Danimarca, Svezia e Norvegia, i traffici sono intensi. Noi importiamo i soliti prodotti di quei Paesi: baccalà, bovini, semi oleosi e cellulosa; esportiamo i nostri classici prodotti.

Veniamo ora agli argomenti che maggiormente appassionano l’opinione pubblica e che sono stati oggetto sia delle osservazioni dei precedenti oratori e separatamente dell’onorevole Nenni.

L’onorevole Nenni ha parlato di uno «scandalo dei conti valutari». Egli è stato – se me lo consente – impreciso. Non esiste, onorevole Nenni, si tranquillizzi, uno scandalo dei conti valutari. I conti valutari veri e proprî, sono tenuti da importanti istituti di credito, controllati a loro volta dall’Istituto dei cambi. Non è lecito fare nessuna riserva sul loro funzionamento. Però lo scandalo c’è, e lei, come tutti gli uomini politici della sua levatura, ha sentito che qualcosa non funzionava. Dirò fra poco cos’è questo qualcosa che non funziona. Lei, onorevole Nenni, non ha proprio sparato giusto, ma è andato vicino al segno. (Si ride – Commenti).

Il sistema del 50 per cento non l’ha inventato il quarto Governo De Gasperi. L’abbiamo trovato: è un sistema che ha dato i suoi risultati e ve lo chiarisco con pochissime parole. Nel marzo 1946 le esportazioni erano fatte sulla base di un cambio del dollaro a 225. Si è visto che con questo cambio non si potevano concludere né fare esportazioni e si è pensato di consentire agli esportatori di tenere la metà di queste valute per 90 giorni; entro 90 giorni, sulla base delle licenze del Ministero del commercio con l’estero, queste valute potevano essere assegnate agli esportatori stessi per acquisto di materie prime, oppure cedute ad un prezzo di mercato ad altri importatori. E così si è venuto a creare un mercato della valuta, non dico libero, perché è sempre un po’ legato alle licenze che diamo, ma un mercato che rappresentava una indicazione.

Questa decisione circa il 50 per cento, come diceva molto giustamente l’onorevole Nenni, non è stata presa in via definitiva, ma pensando che a un determinato momento si dovesse arrivare ad una stabilizzazione. Onorevole Nenni, evidentemente lei ha perfettamente ragione. Noi siamo sulla strada di arrivare ad una stabilizzazione, perché non possiamo continuare con dei cambi «ballerini»; ma soltanto bisogna andare adagio. Voi avete visto quali critiche ha portato il cambio del dollaro ufficiale elevato a 350! Cerchiamo di raccorciare le distanze fintanto che sarà possibile e di riprendere una linea media unica che da tempo abbiamo abbandonato e che del resto tutti gli altri paesi ci richiedono.

Il sistema del 50 per cento era buono in principio, ma ha rivelato poi grandi difetti. Riflettete un momento. Noi abbiamo esportazioni che non contengono materie prime, abbiamo esportazioni che contengono materie prime nazionali, ed infine esportazioni che contengono materie prime estere. Ora, gli inconvenienti si sono rivelati in quest’ultimo settore. Infatti, pensate che oggi i due cambi sono su queste cifre: 350 è il cambio ufficiale e 650 è il cambio di esportazione. Quando un importatore di cotone, ad esempio, compera le sue materie prime, paga a 650 il dollaro; quando esporta il prodotto che contiene magari la metà della materia prima importata, non riceve più lo stesso cambio di 650, ma il cambio medio fra 350 e 650, cioè 500, cioè perde su ogni dollaro il 30 per cento.

Nei primi tempi i difetti di questo sistema non emersero, perché il mondo era affamato di tessuti e merci che avrebbe comprato a qualsiasi condizione. Ma, a poco a poco, questa fame di merci si è placata: alcune fabbriche hanno ripreso a lavorare ed alcuni mercati sono tornati ad essere vivi. Ed allora che cosa si è verificato? Si è verificato che questa esportazione di tessili, così importante, si era quasi totalmente fermata. Le cifre di questa esportazione erano assai interessanti, perché il sistema del 50 per cento ha reso, dal marzo 1946 a pochi giorni fa, circa 600 milioni di dollari: importo cospicuo, che riguarda in massima parte cotone e lana.

Allora, come si poteva fare? Nel desiderio di mettere tutti sullo stesso livello, il Ministero del commercio con l’estero ha ammesso che gli esportatori che importano materie prime abbiano lo stesso cambio all’entrata e all’uscita delle materie prime, onde evitare questa perdita, come accade nell’importazione temporanea ove la materia prima non gioca. Naturalmente questo provvedimento, che è stato male pubblicato dalla stampa, ha avuto molte ripercussioni spiacevoli, ed è molto esatto quello che ha detto l’onorevole Nenni. Io ho avuto molte spiacevoli ripercussioni in America per questo provvedimento. Il mio amico Ivan Matteo Lombardo mi ha mandato indirettamente un telegramma per togliermi la pelle. Mi sono trovato in queste condizioni: o interrompere completamente le nostre esportazioni, con enorme danno per il Paese, oppure cercare una formula anche provvisoria, pur di non fermare la macchina. E vi dirò una cosa molto interessante: che gli stessi americani, quando io ho spiegato loro il meccanismo concettuale del reintegro delle materie prime, il perché e come si è verificato questo fatto nuovo di una maggiore percentuale lasciata di fatto ai tessili, hanno trovato talmente interessante e giusto il concetto, che mi hanno incoraggiato ad estenderlo a tutti i settori. Ed oggi sto studiando la possibilità di estendere questo provvedimento fino alla risoluzione definitiva del problema, di guisa che tutti coloro che importano materie prime possano non avere, esportando, quella perdita cui ho accennato poco prima.

L’onorevole Valiani, nel suo discorso oceanico, veramente molto interessante (egli dice sempre delle cose interessanti ed intelligenti) ha trattato tutto: industria, commercio, prezzi, borsa, credito, finanza, tesoro, commercio estero, Ministero degli esteri, Piano Marshall, Trattato di pace, rapporti con la Russia; ha insegnato all’onorevole De Gasperi come si fa il Presidente del Consiglio, all’onorevole Sforza come si fa il Ministro degli esteri, a me come si fa il Ministro del commercio con l’estero. A questo suo discorso è un po’ difficile rispondere esaurientemente. Consiglio all’opposizione, prima di parlare, di regolare un po’ il tiro, suddividendo il lavoro, perché se noi dovessimo ascoltare 30, 40 discorsi di questa mole non sapremmo come fare a fermare questa tremenda mareggiata di interessantissima eloquenza. (Ilarità al centro). Prima di criticare l’organizzazione del Governo, organizzatevi voi a fare l’opposizione. (Commenti a sinistra).

Per quanto concerne la Borsa non dovrei rispondere io, ma ribatto, se me lo consentite, proprio per amor di polemica.

L’onorevole Valiani ha parlato della Borsa in modo tale che se avesse parlato di fronte ad un pubblico di speculatori avrebbe avuto degli applausi irrefrenabili.

Vuole l’abolizione del 4 per cento, vuole la rivalutazione a 25! Sono problemi molto gravi. Se fossero presi, questi provvedimenti, farebbero arrivare le Borse alle stelle, e non dimentichiamo che la Borsa è già partita una volta e che a causa di questo volo si è iniziato il processo inflazionistico che d’altra parte si depreca.

Se aumentiamo di 25 volte il quoziente di rivalutazione significa che il capitale della Fiat salirebbe, non so, fino a 150 miliardi, forse quello della Montecatini a 200 miliardi. E così via!

Questo desiderio di rianimare le Borse in pratica è molto giusto, perché le industrie hanno bisogno di fondi. Vediamo che non possono fare le paghe. È un gravissimo inconveniente che in un modo o nell’altro, bisognerà risolvere. Le Borse non vanno però risanate con i provvedimenti, con le misure che Valiani ha suggerito. Questo è il mio modesto avviso. È una materia molto difficile. Io vedo che appena un uomo politico è all’opposizione ha tutte le iniziative, trova tutte le soluzioni, vede chiarissimo tutto. (Applausi al centro – Si ride). Quando viene al Governo comincia a diventare conservatore. Per forza, perché deve riflettere. Su un altro punto devo una risposta all’onorevole Nenni. Lei ha parlato della seta e ha detto: «la faccenda della seta è come una seppia che ha buttato fuori il suo oscuro e non ci si può vedere». Qui non c’è proprio niente di oscuro, mi creda.

Lei se si fosse dato la pena di leggere le risposte che ho dato in questo campo alle interrogazioni che mi sono state fatte, non avrebbe avuto alcun timore. Le interrogazioni riflettevano la grande preoccupazione dei produttori (decine di migliaia di famiglie) del baco da seta e delle industrie. Preoccupazione di veder compromessa una coltura tra le più tradizionali. Cosa è stato fatto? Abbiamo ammesso una compensazione in questi termini. Su 500 mila chili, «250 mila verranno esportati direttamente e normalmente, gli altri 250 mila contro merci che ci interessano».

Non c’è niente di nuovo. Non l’ho inventato io questo sistema: compensazioni seta sono state già fatte dal precedente Governo con la Cecoslovacchia. Perché l’onorevole Nenni non ha trovato niente in contrario quando allora si è fatta questa operazione? (Applausi al centro).

LOMBARDO IVAN MATTEO. Su quali mercati?

MERZAGORA. Ministro del commercio con l’estero. Su quelli a valuta libera.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Allora hanno sorpreso la sua buona fede, perché non c’è esportazione in quel campo.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Allora la compensazione non si farà. Vorrei vedere che cosa faremmo noi di tutti i milioni di chili di seta che abbiamo in casa.

Comunque, date qualche attenuante a questo Ministro del commercio con l’estero che, dopo tutto, per poter esportare tenta qualsiasi cosa. È troppo facile assidersi sugli immortali principî. È troppo facile fare delle critiche.

Io mi sono trovato in questa condizione: o subire quattro strilli degli americani o fermare le esportazioni: fra i due mali ho scelto il minore.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Non la venderà egualmente la seta.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vedremo.

LOMBARDO IVAN MATTEO. Me lo auguro.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Per quanto concerne la questione del cambio non posso esporre il programma del Governo. Valiani ha detto che avremmo dovuto fissare il cambio del dollaro al suo valore: ma non ha forse pensato che se portassimo il cambio di punto in bianco a 800…

VALIANI. Non ho detto di punto in bianco. È da tre anni che questa cosa si trascina e ho detto che facevate un errore a fissarlo a 225. (Commenti).

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. La mia idea personale, onorevole Valiani – e con questo non intendo affatto impegnare il Governo – è questa, e l’anticipo: onorevole De Gasperi, le chiedo scusa se anticipo un mio pensiero all’Assemblea che non ho ancora comunicato a lei; ne ho parlato soltanto con il Ministro Del Vecchio che è d’accordo. Bisogna portare gradatamente il dollaro a 500; quando sarà a 500 ci sarà la possibilità di portarlo a 650 facendo l’ultimo pezzo di strada e stabilizzando a quota unica il cambio. Questo è un piano, modestissimo del resto e di lenta esecuzione.

VALIANI. Siamo d’accordo!

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Sono contento di essere finalmente d’accordo con lei. (Commenti).

Vorrei ora parlare del mio Ministero, il cui lavoro è assai poco conosciuto. L’argomento è interessante, ve lo assicuro.

Il Ministero del commercio con l’estero ha un campo illimitato di arbitrarietà: è una cosa paurosa, ma è insita nel sistema.

L’onorevole La Malfa, di cui ammiro molto l’ingegno e lo spirito amaro, ha detto una cosa molto gustosa (egli è stato il primo Ministro di questo disgraziato Ministero, per poco tempo, per sua fortuna). Di fronte ad una marea di decisioni da prendere in tutti i campi, egli disse: «tanto vale fare testa o croce».

Onorevoli colleghi, io ho molto riflettuto su questa idea dell’onorevole La Malfa e vi assicuro che potrebbe dare risultati assolutamente interessanti. Intanto, facendo testa e croce il mio Ministero si ridurrebbe al Ministro, ad un portiere ed a un soldino. Io mi limiterei a scrivere sì o no. Secondo vantaggio: tutti quelli che scrivono al Ministero avrebbero una pronta risposta, ciò che non sempre succede. Terzo vantaggio: gli interessati avrebbero il 50 per cento di possibilità di vedere accolte le loro domande e vedete che la percentuale è molto buona. Se non accetto questo sistema è solo perché non sono in grado di adottare questa percentuale. (Si ride).

Per darvi una idea della mole di lavoro che ha il mio Ministero, e quindi conseguentemente della larga zona di arbitrarietà in cui siamo costretti a navigare, vi dirò che, dal 1° gennaio fino al 19 di questo mese, per la durata cioè di circa otto mesi, il mio Ministero ha ricevuto ben 112.791 domande, di cui 76.951 soltanto di importazione.

Immaginate voi quel povero direttore generale delle importazioni il quale deve esaminare, per il breve lasso di tempo di otto mesi, 76.951 domande? È qualche cosa di veramente fantastico: una media, onorevoli colleghi, di 10.000 domande al mese circa: veramente pazzesco!

Il Servizio esportazioni propriamente detto ha ricevuto 15.500 domande; il Servizio compensazioni ne ha ricevute 16.345; il Servizio importazione temporanea ne ha ricevute complessivamente 3.995. Il totale delle autorizzazioni date tocca le 54.000. Onorevoli colleghi, riflettete un momento a queste cifre che fanno veramente paura, come fa paura il pensare che per suddividere un contingente, per esempio del Belgio, il Ministero deve tenere in considerazione ben oltre 3.000 domande.

Sarebbe come se il nostro illustre Presidente, l’onorevole Terracini, volesse, al termine di una nostra lunga seduta darci qualche cosa da mangiare e facesse portar qui una pagnottella la quale dovesse poi venir suddivisa fra tutti noi. Con quale criterio si divide la pagnottella?

Un po’, naturalmente, si dà all’industria e un po’ al commercio; qualche volta salomonicamente: metà e metà. Ma, fatto questo, con quale priorità si effettua la distribuzione? ai grandi? ai piccoli? Cari signori, è molto difficile tutto questo; è molto difficile perché, nel mio Ministero, entrano le api, ma entrano anche le mosche, ed è difficile destreggiarsi e cacciare le mosche, tanto più quando le mosche sono assai più numerose ed insistenti delle api. (Approvazioni al centro). Oggi, se la lotta politica si conducesse con quel vecchio stile che noi leggiamo, con molta nostalgia, nelle vecchie cronache ingiallite dal tempo, ebbene sarebbe molto bon ton, come dicono i francesi, riconoscere queste difficoltà che sono nostre e di oggi, che sono quelle vostre di ieri e che saranno forse – ve lo auguro – le vostre di domani. (Applausi al centro).

In questa situazione però io debbo dire che sono grato alle opposizioni per avermi lasciato lavorare serenamente. Badate che qui non c’è nessuna ironia in quello che vi dico: quando si è al vertice di una piramide di questo genere, in cui ogni pezzo di carta, dato o non dato, rappresenta milioni, non si può lavorare se si ha il piombo nelle ali o se si ha la sensazione di poterlo ricevere nella schiena. Le opposizioni mi hanno rispettato. Purtroppo, non credo che tutti i colleghi che mi hanno preceduto possano dire la stessa cosa, ed io immagino quanto debbono aver penato.

Fra le difficoltà che vorrei prospettarvi vi è rimasta quella che si riferisce al problema delle Regioni, nei riguardi del mio Ministero. Ebbene, signori, io non voglio entrarvi. Dirò tuttavia semplicemente che mi metto le mani nei capelli e che non vorrei un giorno si dovesse dire che nel 1947 sono nate le Regioni, ma è incominciata a morire l’Italia. (Applausi a destra).

Voci al centro. Questo col commercio estero non c’entra.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Purtroppo ne ho le conseguenze!

In tutto il nostro lavoro, noi siamo costretti a camminare con forzato empirismo. La mia linea di condotta non è quella di quei bellissimi treni che il Ministro Corbellini ci promette per l’anno venturo; io esco con la barchetta, con il timone in mano, tra gli scogli. Ma che linea di condotta volete avere, quando mancano totalmente i mezzi, quando si tratta di un continuo adattamento alle circostanze, al momento?

Il problema valutario è il mio romanzo giallo – come sarebbe quello di qualsiasi Ministro al mio posto. Cosa volete pianificare in questo campo? Bisogna semplicemente essere lì con gli occhi fissi e le orecchie tese, per vedere dove c’è un inizio di scricchiolio e tamponare subito. È una situazione avvilente, e me ne rendo conto purtroppo; ma noi non facciamo quello che vogliamo fare, ma quello che siamo costretti a fare. Questa è la verità, e se Valiani non ne è convinto lo domandi al suo amico La Malfa – che gli è vicino – e che è passato anche lui attraverso queste difficoltà.

VALIANI. Ne sono convintissimo.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Vorrei avere un nemico fra di voi – non ce l’ho – per fargli la consegna immediata del mio Dicastero. (Ilarità).

Adesso veniamo a parlare della difficoltà maggiore, e qui mi riferisco a quello a cui accennava prima l’onorevole Nenni – dove lui ha fatto quasi centro –; la questione delle valute.

Onorevoli deputati, io ritengo che ci sia all’estero un ammontare molto cospicuo di valute, molto più forte delle diecine di milioni di dollari accennato stamane. Questo cospicuo ammontare di dollari si è costituito – scusate, devo dirvi la verità – durante l’esarchia, durante la triarchia; non certo oggi, quando non c’è margine per poterlo fare. (Commenti). Mi dispiace se non siete d’accordo.

Queste evasioni valutarie si fanno in due modi: con le esportazioni e con le importazioni. I conti valutari del 50 per cento non c’entrano per niente; anzi, siccome il cambio per le esportazioni nei conti valutari è favorevole e segue il mercato, se non ci fosse stato questo evidentemente le evasioni valutarie sarebbero state maggiori. Ora, l’esportatore che cosa fa? Si mette d’accordo col suo compratore e gli dice: «ti mando questa merce; una parte me la paghi, una parte me la accantoni». Se non si fida del suo compratore si serve di una casa intermediaria che gli rende questo sporco servizio. Lo stesso succede con le importazioni. L’importatore si mette d’accordo col suo fornitore, e se questi è amico gli paga qualche cosa di più, che gli viene accantonata.

Voi direte: «Perché non controllate?» Ma, cari signori, pensate un pochino ai prodotti ortofrutticoli; se il commercio estero dovesse pronunciarsi sui prezzi e sapere cioè, che se certe mandorle passano attraverso questo collo di bottiglia o attraverso un altro collo di bottiglia, il prezzo è differente: se il commercio estero dovesse valutare la categoria dei verdelli e della frutta fresca in attesa di spedizione, dove andremmo a finire? Se fossimo costretti col contafili a controllare il peso dei tessuti e valutare le migliaia di articoli di importazione e di esportazione, ecc.? Ma tutto questo è teoria! Esigere questo, vuol dire fare della demagogia spicciola, che costa poco, e non rendersi conto della gravità del problema.

È escluso che un Ministero come il mio – qualsiasi Ministero (io ho 245 impiegati di concetto che fanno tutto quel po’ po’ di lavoro) con questa attrezzatura o con qualsiasi attrezzatura possa fare simile controllo. Io nego che ci sia la possibilità di controllare intelligentemente i prezzi, tutti i prezzi, di questa enorme, di questa fantastica quantità di mercanzie che entrano ed escono, per stabilire se uno fa o non fa delle evasioni.

VALIANI. Proprio per questo dovete cambiare metodo!

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Ma come? Bisogna mettere un cambio alto, remunerativo. Quando lo mettessimo strillereste come avete strillato quando il cambio fu portato a 350! (Ilarità).

I denari all’estero sono un po’ come gli evasi di Portolongone: sono andati all’estero e non si possono richiamare di forza, ma soltanto con la persuasione. Noi cerchiamo di allettare questi capitali, e li allettiamo soprattutto con il «franco valuta», che applichiamo ormai in larga misura. A proposito di ciò, io le dico, onorevole Valiani, che il 35 per cento cui ha accennato, viene fissato a prezzi bassi perché possa venir distribuito alle categorie meno abbienti, ma naturalmente non a prezzi così bassi da rendere l’importazione antieconomica.

Stiamo ottenendo buoni risultati. Nelle carni abbiamo fatto dei notevoli «franco valuta», e sono informato che nel Nord il prezzo all’ingrosso della carne è sceso di 90 lire, e speriamo che questa discesa scenda per li rami e tocchi anche i prezzi al minuto.

Noi abbiamo cercato di punire gli evasori con il cambio.

Il cambio è sceso, e vediamo che oggi il mercato nero ha una funzione utile: quella di consentire o il ritorno di tutti o di una parte dei fondi che erano all’estero. Data questa situazione c’è veramente poco da fare e da protestare. Si potrebbe istituire qualche cosa veramente di nuovo, per i nuovi evasori, con delle sanzioni di nuovo genere. Se, per esempio noi dicessimo che togliamo il passaporto, togliamo il telefono, togliamo il permesso di circolazione a chi aumenta le fatture o le diminuisce secondo i casi, io credo che otterremmo maggiori risultati che non minacciando la prigione. Potremmo rendere ancora più gravi le sanzioni nominando dei commissari nelle aziende in dolo, ma tutto questo va fatto e va studiato con molta accortezza. Non dimenticate che questo Governo ha poco più di tre mesi di vita.

VALIANI. Ma io non propongo…

PRESIDENTE. Onorevole Valiani, la prego, stamane ha parlato in modo molto interessante, ma molto a lungo. Non parli più per oggi. (Ilarità).

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Certe discipline e certe pianificazioni possono esistere solamente con un puntello, quello della galera. Parliamo un po’ delle discipline. Io ne ho fatta una piccola esperienza di recente con l’attuale mio Ministero, ma ne ho anche una più lontana. Quando nel Nord presiedevo la Commissione centrale economica, ho instaurato la disciplina dei Comitati, che ha funzionato egregiamente. C’è stata anche una Commissione prezzi che ha resto buoni servizi. Ma non mi sono fatto illusioni: a quell’epoca gli italiani erano talmente stufi di disobbedire ai tedeschi che hanno avuto per un momento la voluttà di obbedire agli italiani.

Io non sono per il laisser faire, sono per certe discipline indispensabili. Però vi confesso che oggi ho una crisi di coscienza e sono piuttosto scosso, e vi dirò il perché. Voi avete notato che vengono qui da tutte le parti molti stranieri: passano in Francia e si spaventano di quello che trovano, vanno in Inghilterra pianificata e si spaventano ancor più; vengono da noi e ci dicono (non per farci un complimento, ma sentiamo tutti che sono sinceri): ma qui da voi le cose funzionano, vanno bene!

E allora mi sono domandato seriamente se la ricostruzione del Paese non sia dovuta per caso proprio alla disfunzione di tutti i Governi che hanno preceduto il nostro.

Ora, io vorrei esaminare in questo campo e con tutta obiettività i fatti passati. Nei settori in cui c’era da noi la massima libertà, indiscutibilmente noi abbiamo raggiunto i massimi risultati. Prendete il patrimonio zootecnico e guardate come era ridotto nell’immediato dopo guerra, con le stalle deserte e com’è oggi! Ce l’ha ricordato anche il prof. Ronchi. Dopo tre anni di libertà è ritornato sul livello dell’anteguerra. Questo è un miracolo. Se noi avessimo applicato la disciplina delle carni, che ancora ieri era reclamata da alcuni settori, evidentemente non saremmo mai arrivati a questo risultato. Prendete la marina mercantile, dove noi abbiamo lasciato libertà agli armatori, che ha passato i due milioni di tonnellaggio.

ALDISIO. Ora gliela avete levata però. Il provvedimento fondamentale che ha dato questi risultati lo avete abolito.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Non è vero. Quale provvedimento fondamentale?

Prendete ancora la produzione industriale che era caduta a quasi zero nell’immediato dopoguerra ed è ritornata all’80 per cento quasi, di quella che era prima della guerra.

Ora, onorevoli colleghi, l’Italia è forse il più bel Paese del mondo, ha il più bel sole, ha il più bel mare, le donne hanno il più bel sorriso, il che non guasta, è un Paese che non si lascia intristire con delle reti a maglie troppo fitte. Non è riuscito il fascismo in 20 anni a mettere le reti attorno al collo degli italiani. Non diamo agli italiani un abito che non possono portare. È come se voi voleste dare a Raicevich o a Proietti o ad altri atleti che oggi è di moda mettere nelle liste elettorali, la giacchettina strimenzita di Charlot. Questo non è possibile.

Del resto chi ha costruito l’Italia? I nostri bravi operai, i nostri valenti tecnici, i nostri geniali imprenditori, ai quali noi dovremmo veramente anche da questi banchi elevare un monumento di ammirazione. Non sono state le pianificazioni (che non abbiamo fatto) a ricostruire l’Italia, ma il loro lavoro e la loro iniziativa. (Applausi al centro e a destra).

Una voce al centro. Anche i contadini.

ALDISIO. Soprattutto i contadini. Non anche, ma soprattutto.

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. La disciplina è difficile nel nostro Paese. Avete visto che anche i tedeschi, quando sono venuti, hanno preso il colore locale. Gli americani stessi quando sono venuti (e nei primi tempi ci hanno regalata molta merce) hanno fatto dei traffici in libertà anche loro. Di fronte alla situazione che c’è oggi e che c’è stata ricordata piuttosto rudemente anche dall’onorevole Nenni (il quale quando deplora certi costumi di vita di alcune classi troppo ricche, troppo spenderecce, ha tutto il Paese – me compreso – dietro di sé), situazione che da molti punti di vista è veramente contristante, io mi domando: che cosa avete fatto voi per combattere questa situazione quando eravate al Governo? Le automobili di lusso non si sono forse mai vendute, in Italia? I generi di lusso, sono stati aboliti? I consumi ridotti? Le bancarelle non esistevano forse?

SCOCCIMARRO. Del passato potremo discutere un giorno qui, vedremo allora di chi sono le responsabilità, ma non è il caso di farlo adesso! (Commenti al centro e a destra).

MERZAGORA, Ministro del commercio con l’estero. Comunque noi – statene certi – cercheremo di instaurare anche quelle discipline utili e possibili che non sono state instaurate dai precedenti Governi e che crederemo necessarie onde migliorare l’andamento interno, ed il suo rendimento economico, ma che non mortifichino inutilmente il Paese.

Lasciatemi chiudere con una sola esortazione. Vi sono due cose che vanno salvaguardate a tutti i costi. Non appartengono ad un Governo, non appartengono ad una formazione politica e neanche ad un partito: appartengono al Paese. Esse sono la produzione ed il credito. Chi tocca la produzione e il credito, tocca gravemente, forse mortalmente, l’Italia. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.

CORTESE. Onorevoli colleghi, non può certo disconoscersi che la presentazione delle mozioni di sfiducia ha aperto un dibattito, sotto molti aspetti, utile. Il Governo si è più strettamente collegato con l’Assemblea; l’opinione pubblica, da questa tribuna, è stata e sarà ampiamente informata della reale situazione del Paese, dei provvedimenti finora adottati e della linea programmatica che il Governo intende seguire; i problemi più rilevanti sono affrontati nell’incrociarsi delle opposte tesi e la loro soluzione non può non avvantaggiarsi delle critiche, dei suggerimenti esposti da più parti in questo dibattito, che riconduce la vita politica nella naturale sede del Parlamento e restaura la libera discussione democratica.

Ma se noi, onorevoli colleghi, ci soffermiamo all’esame del problema sostanziale che quelle mozioni pongono a questa Assemblea, se noi cioè vogliamo rimanere sul terreno rigorosamente politico per dare una risposta agli interrogativi posti da quelle mozioni, e cioè: dovremo negare o concedere la fiducia al Governo? perché dovremmo rovesciare il Governo? quale Governo si dovrebbe eventualmente sostituire a questo? se rimaniamo su questo terreno squisitamente politico, noi non possiamo non convenire, senza mancare di riguardo a nessuno, che questo dibattito dà l’impressione di una musica riprodotta, di vecchi dischi che ci riportano motivi e temi ben noti, riproducendo, sugli stessi argomenti, sugli stessi oggetti, con lo stesso repertorio verbale, il dibattito recentemente conclusosi col voto di fiducia al Governo.

Ma se le motivazioni delle mozioni di fiducia, prospettate particolarmente dall’onorevole Nenni e dall’onorevole Togliatti, riconducevano al ricordo degli ascoltatori temi ben noti e l’eco di parole che gli oratori deliberatamente non pronunciavano – tripartito, coalizione, unione sacra; e come una risonanza marginale: inefficienza governativa del Governo di coalizione, mancanza di solidarietà, paralisi – sembrava invece che gli oratori autorevoli, in una portentosa amnesia, non avessero questi ricordi, come se le cose che dicevano apparissero loro nuove, rivestite di una fittizia verginità. Veniva voglia di ridestarli dai loro smemoramenti e di ricordare loro che questo Governo è nato dal fallimento del Governo tripartito, fallimento sul terreno economico, sul terreno politico, nella pubblica opinione.

Governo coi comunisti, coi socialisti e coi democristiani? Già fatto; formula già sperimentata e già fallita.

Governo tripartito con pendagli, su più ampia base? Già fatto.

Questo Governo, che è appena da quattro mesi in carica…

LACONI. È il peggiore di tutti.

CORTESE. …nasce da questo fallimento, è figlio di questa situazione. È nato attraverso un travaglio, durante il quale non si presentò la possibilità di alcun’altra soluzione del problema governativo.

CARPANO MAGLIOLI. Lo dice lei.

CORTESE. Questo Governo, in carica da appena quattro mesi, ha una situazione dura, come è stato riconosciuto anche dagli attaccanti, dagli oratori di opposizione. Viene dopo una guerra perduta, dopo il fascismo; viene – diciamo noi – dopo gli errori del tripartito.

Ora, io credo che il vero problema è porsi dinanzi queste mozioni ed esaminarle nella loro sostanza, nel loro spirito, negli obiettivi che si propongono di conseguire.

Cosa sono? Sono una critica al Governo, un mezzo di rottura del Governo o sono una nostalgia, un battere alle porte del Governo, perché le porte del Governo si riaprano, perché sia consentita di nuovo una collaborazione?

La seconda mozione, quella dell’onorevole Togliatti, in sostanza è una interpellanza trasformata in mozione, è un gesto di solidarietà, in una situazione tattica obbligata. Le critiche che essa contiene sono critiche episodiche, marginali.

Chi le muove sapeva che quelle critiche non potevano dare materia sufficiente per una mozione di sfiducia, tanto vero che le aveva collocate nel documento della interpellanza.

Lo svolgimento dell’altra mozione, quella dell’onorevole Nenni, si è anch’esso – a mio modo di vedere – limitato a critiche di dettaglio di taluni provvedimenti, per altro accettati in gran parte nel loro spirito e criticati nella pratica attuazione, in una dilatazione di censure alquanto generiche.

Due elementi valgono a collaudare quelle critiche e a svuotarle: le condizioni obiettive in cui il Governo è costretto ad agire, ed un elemento che sta nelle risposte a queste domande: cosa si è fatto prima, quando al Governo erano i comunisti ed i socialisti di Nenni? (Commenti a sinistra). Forse l’inflazione era stata arrestata? Forse i prezzi non erano gravosi? (Commenti a sinistra). Forse la situazione alimentare migliorava? Forse il Paese aveva fiducia?

Una voce a sinistra. Non andava a far la spesa, lei!

CORTESE. Si dice: dovremmo rovesciare questo Governo perché questo Governo difende particolari interessi. Ora, onorevoli colleghi (e l’abbiamo ascoltato questa mattina dall’onorevole Valiani) questo Governo ha contro la destra capitalista e la sinistra estremista.

Una voce a sinistra. Chi l’ha detto?

BELLAVISTA. L’ha detto stamattina l’onorevole Valiani.

MAFFI. Nella destra avete i vostri migliori amici.

CORTESE. Questo Governo con la sua politica fiscale e con la sua politica economica ha colpito taluni grandi interessi capitalistici e combatte la speculazione. Gli interventi ed i vari provvedimenti che questo Governo ha adottato sono tali, che i voti veramente fervidi per la sua caduta partono proprio dai portatori di grandi interessi capitalistici ancora una volta alleati con quelli dell’estrema sinistra. (Si ride a sinistra). Voi dell’opposizione avete creato un fantasma per poterlo combattere ed avete sollevato una disputa che è soltanto scolastica. Avete creato il fantasma d’un liberismo puro, esasperato, anacronistico, contro il quale opponete un astratto programma pianificatore. È una disputa scolastica perché il liberismo puro, il liberismo esasperato non è nella politica economica di questo Governo.

Questo Governo ha una sua politica economica discutibile, accettabile, censurabile o meno nella sua attuazione che mira a determinati fini: opera degli interventi che tendono ad indirizzare gli investimenti in un certo determinato modo, cerca di influire sull’andamento del mercato, fa una politica del credito e cerca di spingere il risparmio verso particolari investimenti e di porre lo Stato in condizioni di non stampare carta moneta.

La verità è che l’Italia, che la situazione economica italiana e quella internazionale determinano dei binari obbligati che consentono sul terreno pratico, quando si opera aderendo alle esigenze reali dell’attuale stato di congiuntura, incontri di dottrine diverse e rendono sterile ogni disputa scolastica.

Ma chi lo vuole il liberismo puro? Consentite che un modesto, ma convinto liberale vi dica che questo attribuirci ancora la rigida fedeltà al liberismo puro, può servire soltanto a scopi polemici, ma dimostra la ignoranza della revisione operata dal pensiero liberale moderno, che voi potete combattere, ma non potete disconoscere, come atteggiamento nuovo, operante, ricco dei risultati d’una profonda rielaborazione, sensibile alla realtà attuale.

Se noi tendiamo ad un graduale ritorno all’economia di mercato, noi non trascuriamo certe esigenze della economia italiana, dell’economia moderna, dell’economia internazionale, e voi dovreste sapere che nei nostri interventi in sede costituzionale, nella parte che riguarda i rapporti economici, il nostro atteggiamento non è stato quello d’un classico, anacronistico, inflessibile liberismo, ma è stato invece ispirato da orientamenti ben più attuali, aperti, aderenti alle esigenze nuove, da una volontà e da una dottrina dirette a superare le degenerazioni e i privilegi del capitalismo anche mediante interventi dello Stato. Se oggi vi è una posizione di antitesi, netta, schierata, di opposizione a quelle forme di degenerazione dell’economia di mercato, che sono rappresentate soprattutto dai monopoli, questo atteggiamento di avamposto è assunto dai rappresentanti del partito liberale. (Commenti a sinistra). Rileggete gli emendamenti che noi abbiamo presentato in sede di Costituzione, tenete presenti quelli svolti dall’onorevole Einaudi e anche dal modesto sottoscritto. Noi abbiamo sostenuto che non solo occorre rompere i monopolî attraverso la nazionalizzazione, se essa si presenta come mezzo necessario, ma abbiamo sostenuto che ciò non basta e che occorre adottare una legislazione e una politica economica antimonopolistiche, perché il monopolio vive all’ombra dei privilegi e dei protezionismi. Non solo bisogna sopprimerlo, ma bisogna impedire che nasca, che si formi, il più delle volte artificialmente. (Applausi al centro – Commenti a sinistra – Interruzione dell’onorevole Laconi).

Einaudi è stato meno «laconico» di quanto Laconi creda. Einaudi ha parlato chiaramente. Potrete rileggere i verbali della nostra discussione sul titolo «Rapporti economici» e il testo degli emendamenti presentati dall’onorevole Einaudi e proprio da voi comunisti non accettati.

LACONI. Rilegga gli emendamenti e vedrà che dicono un’altra cosa.

CORTESE. Dicevo che noi non disconosciamo le necessità, gli aspetti dell’economia moderna, perché un liberismo di questo momento non può non essere aderente alla nuova realtà economica, nazionale e internazionale. È nostro, liberale quel principio che si esprime con immagini di polizia stradale (l’immagine dei semafori e della direzione della circolazione), il principio per il quale il traffico economico deve essere regolato senza rendere però il viandante un automa con prescrizioni che lo meccanicizzano. Quando si parla di pianificazione, occorre intendersi, perché se per pianificazione intendete la tastiera a comando, l’economia centralizzata, la pianificazione integrale, marxista, vi diciamo che siamo di essa i più irriducibili oppositori. Ma se invece si intende con essa esprimere la necessità di un orientamento, di un programma, di un indirizzo, noi non respingiamo questa posizione, la voce di questa esigenza della vita economica moderna.

Si crea dunque il fantasma di un liberismo inesistente nella politica del Governo, non voluto nemmeno da noi liberali, per poterci opporre una pianificazione che non si precisa, non si concretizza, che è soltanto una formula dogmatica, scolastica. Una pianificazione integrale, a nostro avviso, non può tecnicamente attuarsi nell’economia italiana in collasso, né esiste lo strumento burocratico capace di attuarla; essa peraltro soffocherebbe l’iniziativa privata alla quale ancora noi riconosciamo il compito, la responsabilità della ricostruzione.

L’iniziativa privata va regolata, diretta, ma deve liberamente muoversi entro i confini dettati dalle superiori necessità di un indirizzo attuato con interventi conformi, diretti a ristabilire e a difendere l’economia di concorrenza. Noi, che forse non abbiamo l’acutezza di mente e la perfezione di giudizio dell’onorevole Giannini, non sappiamo distinguere un comunismo economico da un comunismo politico, e purtuttavia diciamo che se anche la distinzione fosse possibile, un comunismo economico inteso secondo quel modello astratto, quella tesi scolastica non potrebbe essere mai da noi accettato, come, del resto, non è accettato dalla maggioranza di questa Assemblea.

Se adunque l’opposizione non agita che una sterile disputa teorica, se le sue critiche correnti sono soltanto di dettaglio, noi possiamo pensare che nel loro fondo non c’è che la richiesta di qualche Ministero, non v’è che il tentativo di rovesciare il quarto Ministero De Gasperi per fare un quinto Ministero De Gasperi simile al terzo. (Interruzioni a sinistra).

Noi dovremmo votare a favore delle mozioni di sfiducia forse per attuare quel vincolismo cui accennava l’onorevole Nenni, quel vincolismo che del resto non applicava integralmente nemmeno l’onorevole Cerreti, quel vincolismo che deve essere gradualmente superato secondo il programma concreto che ci è stato esposto dal professore Ronchi, quel vincolismo che la recente esperienza condanna. Ed allora, perché dovremmo votare a favore delle mozioni di sfiducia? Forse, per salvare le libertà democratiche manomesse, l’opposizione imbavagliata, secondo le doglianze dettate all’onorevole Togliatti dalla persensibilità democratica di una vestale della democrazia?

Voi comunisti avevate presentato una semplice interpellanza; credete davvero che sulla base di quelle doglianze, di quelle censure di singoli provvedimenti, di fatti episodici, si possa negare la fiducia ad un Governo mentre la lotta politica in Italia ferve libera, democratica, nelle piazze, nei giornali, nel Parlamento, mentre i manifesti tappezzano tutte le mura della città? E allora perché? Forse perché vi è quel pericolo, escluso dall’onorevole Nenni e ammesso dall’onorevole Togliatti, d’una risorgente, tenebrosa organizzazione fascista?

Io non credo, onorevoli colleghi, ai fascisti. Io temo il fascismo, vorrei la lotta continua contro il fascismo, contro la sua mentalità e i suoi metodi. I fascisti è già difficile catalogarli, sbandati e divisi come sono: ve ne sono di varie categorie, di destra e di sinistra, di prima dell’8 settembre e di dopo l’8 settembre, repubblicani e monarchici, di prima del 25 luglio. Non credo che i fascisti rappresentino un pericolo; comunque non si può certo dire che questo Governo deve essere rovesciato perché non agisce di fronte ad una minacciosa attività fascista.

Si è detto che i fascisti hanno commesso delle violenze a Gorizia. Non vorrei ritoccare questo argomento, non vorrei risoffermarmi su quella battuta dell’onorevole Togliatti che profondamente ci ha rattristati. Vorrei dire che anche noi da questi banchi deploriamo con animo sincero gli eccessi e le violenze avvenute a Gorizia, anche se queste violenze e questi eccessi non possano costituire una colpa del Governo, per non avere ancora il Governo assunto in quel momento il controllo della città, anche se queste violenze sono esplose dal clima di dolore e di disperazione di una città la quale peraltro non ha visto, nella sua tragica e ansiosa ora, per colpa dei comunisti, tutti i suoi figli solidali nel nome d’Italia.

Comunque, se l’onorevole Togliatti ha voluto pronunziare una parola di deplorazione, io voglio dire che sarò molto lieto il giorno in cui dal suo banco ascolterò una parola di solidarietà con gli italiani, con i nostri morti e con i vivi, dell’Istria e della Venezia Giulia. E mi auguro che qualche deputato jugoslavo si alzi nel Parlamento di Belgrado per sollecitare dal suo Governo il rispetto umano e civile per le minoranze italiane dell’Istria e della Venezia Giulia. (Approvazioni). Si dice: ma bisogna rovesciare questo Governo, perché questo Governo non rappresenta le classi lavoratrici. V’è un po’, nel fondo, una visione corporativistica, e cioè il presupposto di una rappresentanza specifica monopolizzata da taluni movimenti, da talune organizzazioni. È questo il Parlamento e la maggioranza di questo Parlamento è la maggioranza del popolo italiano.

Si osserva ancora: le classi lavoratrici hanno espresso, in queste ultime settimane, il loro disappunto, la loro opposizione a questo Governo, attraverso movimenti, agitazioni, scioperi. Quegli scioperi erano determinati da rivendicazioni economiche. Noi dobbiamo ritenere che quei movimenti fossero tesi al conseguimento di giuste istanze, che voi, del resto, dite conseguite: il che sta a riprova della posizione di imparzialità e di obiettività del Governo.

Che se poi fosse vero, come forse è vero, che quelle agitazioni non erano dirette ad ottenere il giusto riconoscimento di diritti sul terreno sindacale, ma ad operare un attacco politico contro il Governo, allora noi dovremmo dire che questo è un vero attentato antidemocratico, perché non deve essere consentito, né alla piazza né alla camera del lavoro, il tentativo di rovesciare con scioperi ed agitazioni un Governo che ha la maggioranza nel Parlamento regolarmente eletto col suffragio universale.

Onorevoli colleghi, è inutile disconoscerlo: al fondo di questo dibattito v’è un solo problema, v’è il problema del Partito comunista. L’onorevole Togliatti si doleva che il Partito comunista fosse stato respinto dalla famiglia democratica. Non è esatto, me lo consenta l’onorevole Togliatti. Il Partito comunista ha, in questo momento, nella famiglia democratica, un ruolo importante, un posto, abolito il quale, non v’è più la famiglia democratica: l’opposizione, la quale peraltro in Italia (come invece accade altrove) non corre il rischio di imbattersi in un capestro.

L’onorevole Togliatti apprezza il ruolo dell’opposizione, ma vuole stare, nello stesso tempo, anche al Governo.

TOGLIATTI. Ma è un diritto dell’opposizione quello di aspirare a diventare Governo.

CORTESE. Sì, ma non è un diritto quello di stare, come voi desiderate, contemporaneamente al Governo e all’opposizione nel Paese, sulla piazza, nella stampa, nei comizi, nello stesso Governo, ché non è più allora l’organo efficiente teso nello sforzo comune di realizzare un condiviso programma, in cui siano stati messi da parte i fini particolaristici, ma è l’arena di scontro di forze opposte che si frenano e cercano di sopraffarsi a vicenda.

Si soggiunge: questo Governo non è democratico perché lascia fuori taluni partiti democratici. Ma dove è scritto che la democrazia si ha soltanto quando tutti i partiti sono al Governo?

Questa parola – democrazia – è una parola di colore oscuro. Forse è tutto un equivoco. Mentre le guerre precedenti si sono concluse con l’affermazione di principî che erano pacificamente intesi nel loro significato – la pace del 1814 ebbe per base il legittimismo e tutti sapevano che cosa fosse il legittimismo ed erano d’accordo sul significato da attribuire alla parola; la pace del 1919 doveva attuare il principio dell’autodecisione dei popoli, e tutti sapevano che cosa significava – questa guerra si dice che sia stata combattuta e vinta per attuare e garantire la democrazia, della quale, fra gli stessi vincitori, si hanno delle concezioni diverse, opposte, antitetiche.

Unità, si dice. È la formula con la quale il Partito comunista marcia in tutta Europa.

Ci è stato fatto un addebito: noi commetteremmo un errore grave, guardando troppo fuori dei nostri confini, emettendo giudizi su altri paesi, giudizi che comprometterebbero le nostre possibilità di collaborazione internazionale, le possibilità della nostra politica estera. Ma io vorrei dirvi che, se noi gettiamo lo sguardo oltre i confini d’Italia, e se noi guardiamo, per esempio, a quello che accade in Ungheria, in Romania, in Bulgaria…

Una voce a sinistra. Vi è la riforma agraria!

CORTESE. Vorrei sapere qual è il prezzo di quella riforma agraria; perché la riforma agraria la posso discutere e magari accettare, ma se il prezzo della riforma agraria è la libertà, questo prezzo non sono disposto a pagarlo. (Applausi al centro).

Una voce a sinistra. Fatela con la libertà! Perché non la fate con la libertà?

LOPARDI. Voi negate la libertà e non fate la riforma agraria.

CORTESE. Finora della riforma agraria abbiamo molto ascoltato, molto letto, ma perché non avete mai presentato una proposta di legge? Presentatela, la discuteremo, e vedremo chi è favorevole e chi è contrario, e per quali ragioni. (Interruzioni a sinistra).

Ma, dicevo, noi non vogliamo affatto emettere dei giudizi sugli altri paesi; noi non vogliamo affatto esprimere la nostra antipatia o la nostra simpatia; saremmo i primi a dolerci se un siffatto atteggiamento potesse compromettere le possibilità della nostra politica estera. Ma c’è un fatto: noi abbiamo in Italia un forte Partito comunista italiano. E ce n’è un altro: in altri paesi il Partito comunista ha realizzato i suoi obiettivi. Ed allora noi abbiamo il diritto di esaminare come li abbia realizzati, con quali metodi, che cosa fa il comunismo dove è una realtà, un regime e non soltanto un programma, un discorso alla Costituente, un comizio, una verbale promessa di democrazia, di collaborazione, di libertà.

Abbiamo questo diritto, ripeto, non per emettere dei giudizi su di altri paesi; e lo abbiamo soprattutto perché voi, onorevoli colleghi comunisti, non ci dite mai una parola di deplorazione in rapporto a quei metodi, a quei sistemi adottati altrove dal comunismo. Voi siete gli esaltatori, gli apologeti quotidiani di quei metodi e di quei sistemi, realizzati in quei paesi; onde ci fate credere, ci date motivo sufficiente per ritenere che voi importereste quei metodi, che voi realizzereste quei modelli, ove ne aveste la possibilità in Italia. Ecco perché noi abbiamo interesse di guardare a fondo che cosa succede nei paesi dove il comunismo ha vinto o sta per vincere.

TOGLIATTI. Certo non lasceremmo fare la marcia su Roma come hanno fatto i liberali nel 1922. (Commenti al centro).

CORTESE. Io credo che ormai la marcia su Roma dovrebbe servire non per lanciarci delle accuse e per esaminare delle responsabilità (perché potrei dirvi che la marcia su Roma nacque in un particolare clima di cui anche voi avevate la responsabilità), ma la marcia su Roma dobbiamo guardarla come insegnamento ed esperienza italiana, insegnamento di dolore, insegnamento di tirannia, per dire che un’altra marcia su Roma, da destra o da sinistra, la vogliamo assolutamente evitare! (Vivi applausi al centro –Commenti a sinistra).

Noi crediamo che le possibilità di realizzare in Italia quei modelli comunisti potrebbero aumentare col ritorno del Partito comunista al Governo. Possiamo sbagliarci, ma (vorremmo ricrederci, veramente) abbiamo dei motivi per ritenere che siamo nel giusto.

Diceva l’onorevole Togliatti: noi vogliamo andare lontano.

Bene, può darsi anche che il Governo sia il veicolo, per lo meno per il primo tratto, per poi andare più lontano, «dal Governo al potere». Ci sono degli slogan che delle volte martellano le orecchie. Veniamo – diceva l’onorevole Togliatti – dalla storia italiana.

Pur non disconoscendo le benemerenze (soprattutto nella recente guerra di liberazione) del Partito comunista, io osservo che in certi particolari aspetti della sua condotta, nel fondo della sua anima e della sua mentalità, io vorrei ricordare esso appare straniero o per lo meno estranazionale; la unanimità dei partiti comunisti in tutto il mondo, dalla Persia al Brasile, quella unanimità dei partiti comunisti che ha un legame ideologico e li unisce in una condotta comune…

TOGLIATTI. Perché dunque avete fondato una internazionale dei partiti liberali?

CORTESE. L’internazionale liberale difende i principî del liberalismo, ma non obbliga i partiti liberali a sostenere nei singoli paesi una unica politica, e tanto meno una unica politica estera, come accade per i partiti comunisti, fino al punto che fu necessario all’inizio della guerra sopprimere in Francia ed in Inghilterra i giornali comunisti perché appoggiavano la Germania allora alleata della Russia, fino al punto che a Trieste vi è stata e vi è una campagna assidua della stampa comunista per l’annessione di Trieste alla Jugoslavia!

Per questa unicità di condotta e per questa origine ideologica comune si può spiegare che, quando l’onorevole Togliatti, con bella frase, dice: «noi veniamo da lontano», possa sorgere qualche equivoco fra la storia e la geografia. (Commenti).

TOGLIATTI. Io sono uscito dall’Italia perché mi hanno cacciato. Non faccia delle insinuazioni. Abbia il coraggio di dire apertamente quello che vuole dire! L’essere stato tanti anni in esilio è il vanto della mia vita. (Vivissime approvazioni all’estrema sinistra).

CORTESE. Ma io ho detto «noi», ho detto un partito, non ho detto lei, la sua persona.

TOGLIATTI. Abbia il coraggio di dire apertamente quello che vuole dire!

CORTESE. Quel che ho detto ripeto e non ho alcuna ragione per ritirare una sola parola.

Voi ci addebitate di volere inserire l’Italia in uno dei blocchi contrapposti. Se c’è una concezione che guarda alla libera circolazione dei beni, degli uomini, delle idee, ad un superamento delle patrie, senza rinnegare la patria, in una superiore visione di coordinamento di tutte le patrie, è quella liberale.

Si è detto ancora: bisogna rovesciare questo Governo perché è il Governo della discordia. Sì, la discordia c’è. Noi traversiamo un momento di lotta politica intensa, acuta, fremente. Ma voi l’esasperate questa lotta, voi riscaldate l’ambiente politico, voi arroventate una disputa ideologica che non ha più possibilità di mediazione, una lotta di classe senza quartiere. Non siamo noi che abbiamo detto «politique d’abord». Che significa «politique d’abord»? Significa lotta politica intensa, insonne nel Paese per l’egemonia d’una concezione politica radicale. Non siamo noi che abbiamo detto: battere una classe sociale, come battere, per esempio la borghesia, così come ha detto l’onorevole Nenni che ha aggiunto l’altro slogan: «dal Governo al potere», conquistare cioè tutte le leve di comando del Paese. Non basta avere il Governo, si vuole avere il potere, che in senso marxistico significa dittatura. Ed allora consentite che noi vi diciamo che quando si pongono i temi politici con questa asprezza, soprattutto con questo radicalismo, l’unità non può essere che quella concorde discordia che dà il ritmo democratico alla vita politica, ma non vi può essere unità nell’unione di tutti i partiti al Governo poiché non tutti rinunciano ai loro programmi particolari.

Noi anche sollecitiamo dal Governo dei provvedimenti; noi anche possiamo fare delle critiche. Per esempio, potrebbe un deputato dell’Italia meridionale – e credo che in questo sarebbe d’accordo larga parte dell’Assemblea – segnalare al Governo le necessità del Mezzogiorno. Potremo dire, per esempio, che sarebbe opportuno che l’onorevole Fanfani si aggiornasse sui dati della disoccupazione dell’Italia meridionale, che il Governo prendesse in esame sul serio la situazione industriale dell’Italia meridionale. L’80 per cento delle industrie è stato distrutto; il Governo non paga i danni di guerra né le commesse precedenti all’8 settembre. L’industria meridionale ha lavorato nella sua quasi totalità, fino a quell’epoca, per lo Stato che non ha pagato e non paga.

L’onorevole Dugoni sottolineò giorni or sono i grandi guadagni conseguiti dall’industria settentrionale durante il periodo nazi-fascista. Le distruzioni belliche subite dalle industrie meridionali hanno colpito un apparato industriale che, se rappresenta una lieve percentuale dell’apparato industriale nazionale, rappresenta la quasi totalità di quello locale.

Io sono sicuro che al termine di questo dibattito ciascuno di noi sarà tratto a constatare che esso non è stato che il proseguimento, la ripetizione di quel dibattito recentemente chiusosi in quest’Aula con il voto di fiducia al Governo.

Ciascuno potrà decidersi per il suo voto sulla base di elementi che sono gli stessi che esaminammo allora; il problema è lo stesso: cercare una formula politica da porre a base della compagine ministeriale.

Abbiamo fatto degli esperimenti; il tripartito ha fatto il suo esperimento, il Governo a più ampia base ha fatto il suo esperimento. Oggi dovremmo dire che ci è stata una specie di quarantena governativa per taluni partiti, che la quarantena è terminata, e si può ritornare alla coalizione degli opposti. Dovremmo ristabilire un’altra volta il tripartito e presentare alla opinione pubblica italiana di nuovo quello stesso Governo che l’opinione pubblica italiana ha censurato, respinto, condannato fino a quattro mesi fa.

Ricostituendo il tripartito, io credo che la classe dirigente politica italiana darebbe veramente la misura di un fallimento, di una impossibilità di saper risolvere il problema fondamentale di un paese: quello di darsi un Governo.

L’onorevole Labriola diceva: «Per me non sono buoni né i Governi di compromesso né di coalizione, né tripartiti, né questo».

Ora io vorrei domandare all’onorevole Labriola: se la coalizione non può accettarla, se il Governo democristiano integrato da tecnici non può accettarlo, se per l’appello al Paese occorre attendere fino alle elezioni, quale Governo ora deve governarci?

Ricostituendo il tripartito non daremo nemmeno all’onorevole De Gasperi la soddisfazione di non vedere più manifesti denigratori sulla soglia della sua casa, perché quei manifesti c’erano anche prima. Credo che l’onorevole De Gasperi lo ricordi. Manifesti contro di lui c’erano anche prima, quando vi era il tripartito, quando comunisti e socialisti erano con lui al Governo.

Questo Governo rappresenta un collaudo democratico dell’opposizione, la quale deve svolgersi, che si svolge con il controllo, con la critica, con i suggerimenti, e non ha che un appello: l’appello alle urne. Ci auguriamo tutti che questo appello si faccia al più presto possibile. Se invece i partiti della opposizione non alle urne vorranno appellarsi, ma vorranno ricorrere a quell’appello al «popolo» di cui parlano in modo generico, equivoco, minaccioso, quando non parlano apertamente di «azione diretta», cioè rivoluzionaria, allora interverrà il dovere dello Stato democratico di difendere la democrazia e le sue istituzioni.

Per noi liberali la strada è scelta: senza reticenze, senza ambiguità, senza rinvii. Noi voteremo contro le mozioni di sfiducia; noi voteremo compatti per questo Governo che è l’unico possibile, a nostro avviso, dopo gli esperimenti fatti, per guidare il Paese: collaboreremo così col partito democratico più forte dell’Assemblea, dal quale siamo pur divisi da varie differenze ideologiche; e siamo disposti a collaborare con qualunque partito che nella difesa degli interessi nazionali ci dia sufficienti garanzie di voler procedere sulla strada democratica del progresso dove la giustizia sociale non può essere disgiunta dalla libertà; collaboreremo con qualunque partito, anche se abbia con noi delle notevoli differenze, purché non voglia imporci l’accettazione e l’attuazione radicale del suo schema programmatico caratteristico.

Noi riteniamo che, così facendo, obbediamo non a calcoli elettorali, ma all’interesse del Paese; e in questo modo potremo rendere possibile un’opera assidua difficile, di ricostruzione, in un momento in cui il Paese ha bisogno di ordine, di lavoro; in un momento in cui la libertà stessa appare minacciata dall’agitarsi di movimenti totalitari.

Anche noi, onorevole Togliatti, veniamo da lontano; proveniamo dalla storia liberale d’Europa e d’Italia, quella storia che è stata una lunga ricerca della libertà. Noi continuiamo questa ricerca. (Applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

TOGLIATTI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. L’oratore, che ha testé parlato, di cui ignoro il nome e non mi importa di saperlo… (Commenti).

BELLAVISTA. È Cortese; lei non lo è!

TOGLIATTI. …facendo allusione a una espressione del mio discorso di alcuni giorni or sono, dove dicevo che il nostro partito viene da lontano e va lontano, ha voluto interpretare tendenziosamente queste parole, alludendo al fatto che io sono stato parecchi anni assente dall’Italia. Se io sono stato assente dall’Italia, onorevole Cortese, e onorevoli colleghi, che avete voluto ieri o l’altro ieri colle vostre interruzioni poco intelligenti porvi su questa strada… (Proteste al centro).

MAZZA. Così si offende l’Assemblea.

TOGLIATTI. …vi sono stato per combattere per la democrazia e la libertà del mio Paese. Io facevo parte d’un partito democratico (Commenti– Rumori), il quale mi aveva significato quale era il mio posto di lavoro e di lotta. Qualora il mio partito mi avesse detto che era il carcere, sarei rimasto in carcere fino alla liberazione. Esso mi ha detto invece che questo posto era l’estero, per organizzarvi la lotta dei comunisti italiani per la libertà e per il socialismo. Questo ho fatto e credo che questo sia il più alto onore della mia vita. Coloro che credono di rinfacciarmi questo come una colpa sappiano che sono ritenuti da noi come non degni di appartenere a questa Assemblea; perché così facendo essi di fatto si rendono solidali con coloro che imposero alla parte migliore del popolo italiano di vivere nelle galere o in esilio, per continuare a combattere per le loro idee e per la libertà. (Applausi all’estrema sinistra – Commenti).

CORTESE. Chiedo di parlare, in quanto desidero chiarire questo fatto personale e far rilevare all’onorevole Togliatti che è incorso in un equivoco.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare.

CORTESE. Ritengo che l’onorevole Togliatti sia incorso, spero involontariamente, in un equivoco. La frase pronunciata dall’onorevole Togliatti era: «Noi veniamo da lontano e vogliamo andare lontano».

Io avevo detto che vi è un’affinità ideologica tra tutti i partiti comunisti e soprattutto vi è un legame fra essi e la patria del comunismo.

«Noi veniamo da lontano», noi, non lei onorevole Togliatti, non la sua persona, non ho detto lei, onorevole Togliatti (Approvazioni al centro e a destra), ripetevo la sua frase, che aveva un soggetto al plurale: noi partito, noi idea, e dicevo che si possono scambiare a questo proposito la storia e la geografia. Il comunismo non viene dalle scaturigini profonde, da quelle lontane o da quelle vicine, della storia italiana, dell’anima, della mentalità, del genio italiano. È una idea d’importazione. (Commenti a sinistra). Questo mio apprezzamento può essere regolarmente non condiviso e ribattuto, ma non può dar luogo a fatto personale perché fatto personale non c’è. (Interruzioni a sinistra). Veniamo da lontano, veniamo dalla storia d’Italia, diceva l’onorevole Togliatti: era la sua una battuta polemica, alla quale io ne ho contrapposto un’altra che, così come la sua, non si riferisce alla sua persona fisica, proveniente dal luogo che l’ha ospitato nell’esilio. Il fatto personale non esiste: io ripeto senza alcuna perplessità quel che ho detto: sulla provenienza «lontana» del comunismo possono sorgere equivoci fra la storia e la geografia. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. Prego gli onorevoli colleghi di porgermi pazientemente orecchio.

Desidero richiamare la loro attenzione sul fatto che, come in ogni altra discussione importante, anche in questa la cinquantina e più di colleghi che si sono zelantemente iscritti a parlare cercano ora, uno per uno, di rinviare il turno del loro intervento. Voglio dire espressamente che non mi è più possibile aderire a simili sollecitazioni. Non riesco a concepire che ognuno degli iscritti non avesse già molto pensato fin da prima dell’iscrizione alle cose che avrebbe detto.

D’ora innanzi, coloro che si iscrivono a parlare sappiano che si assumono con ciò l’impegno di parlare al loro turno.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate alcune interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

La prima è la seguente:

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere le ragioni per le quali Ariano Irpino (Avellino) non è stata compresa nel provvedimento legislativo in corso presso l’ufficio legislativo dei lavori pubblici relativo all’acquedotto consorziale dell’Alta Irpinia, mentre Ariano, comune di trentamila abitanti, difetta di acqua potabile, avendo una tubolatura inquinata da infiltrazioni e con scarsissimo rendimento, per cui nella città il tifo è quasi endemico.

«Per conoscere altresì se invece l’onorevole Ministro non ritenga opportuno e di giustizia disporre che Ariano derivi l’alimentazione idrica dall’acquedotto pugliese, non essendo valide e fondate le ragioni che l’Ente obietta in contrario.

«Vinciguerra».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Risponderò lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Tre interrogazioni al Ministro dell’interno concernono i fatti di Avellino:

«Al Ministro dell’interno, sui gravi incidenti verificatisi in Avellino il 28 settembre 1947 in occasione dei quali pacifici cittadini riportavano anche delle lesioni.

«Vinciguerra».

«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi avvenimenti di Avellino e per sapere se è più oltre possibile una politica di tolleranza verso forme manifeste di rinascente fascismo.

«La Rocca, Sereni, Amendola, Reale Eugenio».

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti abbia adottato o intenda adottare a carico di taluni ben noti provocatori di Avellino, che hanno tentato con insulti, con sassate, con minacce a mano armata, in occasione di un comizio del Partito nazionale monarchico, di dar luogo ad incidenti cui, solo per la pazienza, l’amore dell’ordine e il senso profondo di responsabilità dei partecipanti al comizio, si è evitato che seguissero conseguenze veramente gravi.

«Covelli».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Penso che il Ministro dell’interno potrà rispondere a queste interrogazioni nel corso del suo intervento nella discussione sulle mozioni.

LA ROCCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. Quanto alla mia interrogazione, preferisco seguire la procedura normale e sollecito il Governo a rispondere, possibilmente giovedì o venerdì.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Io comprendo l’esigenza dell’opposizione e l’opportunità pei membri di essa che le loro interrogazioni debbano avere la precedenza assoluta su tutte quelle che hanno presentato gli altri deputati. Mi inchino, giacché alla opposizione non appartengo; però vi sono anche altre interrogazioni che si riferiscono a fatti di notevole importanza, presentate da tempo e che non possono continuamente essere pretermesse e abbandonate per queste esigenze. Ora, io ascolterò volentieri lo svolgimento di quelle dei colleghi, ma chiedo al signor Presidente che, dal momento che il Ministro dei lavori pubblici ha dichiarato ieri sera che è pronto a rispondere alle interrogazioni a lui dirette ad incominciare da giovedì, si tenga presente che io da due mesi ne ho presentata una che si riferisce a contributi essenziali per la ricostruzione di fabbricati rurali e di case distrutte per rappresaglia dai nazi-fascisti, per i quali una Provincia italiana aveva avuto una assegnazione di 52 milioni di lire, attraverso una provvidenza del Ministro Gasparotto.

PRESIDENTE. Non svolga adesso la sua interrogazione.

MICHELI. Non la svolgo, vi accenno solo per fare capire la sua urgente importanza. Se il Governo è disposto a rispondere giovedì o venerdì ad altre interrogazioni, mi pare che potrà rispondere anche alla mia. Ora per una ragione, ora per l’altra, in due mesi non sono riuscito a farla mettere all’ordine del giorno.

PRESIDENTE. Assicuro l’onorevole Micheli che la sua interrogazione sarà posta all’ordine del giorno della prima seduta dedicata alle interrogazioni.

DE MERCURIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE MERCURIO. Sui fatti di Avellino ho presentato ieri sera una interrogazione urgente. Per quanto riguarda il Ministro dei trasporti, il suo Sottosegretario ha detto che avrebbe risposto domani. Ora la stessa urgenza potrebbe essere riconosciuta dal Ministro dell’interno. Anzi desidero sapere se il Ministro dei trasporti risponderà domani.

LA ROCCA. Tutto il Paese è interessato ad avvenimenti che mettono in pericolo la libertà. Il Governo avrebbe il dovere di dare una pronta risposta. (Commenti).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. I fatti di Avellino, di cui alle interrogazioni, sono in corso di accertamento. Abbiate pazienza due o tre giorni. Dal momento che non si vuole trattare dei fatti di Avellino nel corso della discussione sulle mozioni di sfiducia, il Governo risponderà lunedì, salvo che le informazioni arrivino prima.

DE MERCURIO. Si tratta di fatti ai quali sono interessati molti deputati.

PRESIDENTE. Vi sono cinque interrogazioni su questo argomento. Gli interroganti propongono il carattere di urgenza. Al Governo spetta la facoltà di riconoscerla indicando la data alla quale ritiene di rispondere. Il Presidente del Consiglio ha detto lunedì. Alcuni ritengono che si debba rispondere prima. Ma, onorevoli colleghi, delle interrogazioni non con carattere d’urgenza io posso fissare il turno; per quelle con carattere d’urgenza tale facoltà spetta al Governo. Il Governo ha detto che risponderà lunedì. Lunedì metterò dunque all’ordine del giorno queste interrogazioni a meno che, prima di quella data, il Governo non comunichi di essere già in grado di rispondere.

JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Ho detto all’onorevole De Mercurio che avrei desiderato rispondere quando si sarebbe risposto alle altre interrogazioni sullo stesso argomento. Comunque, siamo rimasti d’accordo che queste interrogazioni sarebbero state svolte con precedenza, «contestualmente. Quindi, se si rinvia lo svolgimento delle interrogazioni rivolte al Ministro dell’interno, mi pare che sia logico e giusto rinviare anche lo svolgimento di quella diretta al Ministro dei trasporti.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, sull’arbitrario intervento delle forze di polizia durante lo svolgersi dello sciopero proclamato il 28 settembre 1947 dai contadini di Villalba, Valledolmo, Marianopoli, Vallelunga, Mussomeli, Resuttano, in provincia di Caltanissetta; e per conoscere quali provvedimenti intenda adottare contro gli agenti di polizia responsabili di avere manganellato indiscriminatamente uomini e donne che avevano partecipato alla manifestazione.

«Musotto, Fiorentino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere i criteri coi quali vengono effettuati a Torino, e in genere in tutte le provincie piemontesi, gli accertamenti sulla tassa entrata in abbonamento. Criteri che urtano il senso di giustizia e di equità, il più comune, in modo da provocare la viva e giustificata reazione da parte delle categorie dei professionisti, degli artigiani e dei commercianti al dettaglio.

«Se, in considerazione del vivo malcontento provocato, non ritenga opportuno impartire più equilibrate disposizioni per l’applicazione di tale tassa, non continuando così ad inasprire maggiormente le già gravi difficoltà nelle quali si dibattono le categorie sopra indicate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chiaramello».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’interno e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere se e quali provvedimenti intendano proporre allo scopo di:

  1. a) assicurare ai ciechi la funzione di idonei istituti che loro consentano di essere avviati ad un proficuo lavoro, e di cui il Governo abbia la direzione e l’amministrazione, raccogliendo in un unico organismo sia l’Ente nazionale lavoro ciechi, sia tutte le altre iniziative che mirano alla rieducazione dei ciechi, consentendo a questa unica organizzazione l’ampiezza di funzione necessaria a raccogliere tutti i ciechi capaci di rieducazione;
  2. b) considerare i ciechi alla stregua degli altri inabili al lavoro, estendendo loro l’applicazione delle leggi in vigore, affidandoli così – in nome dei più elementari principî di solidarietà umana – alla tutela dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Santi, Binni, Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non intenda – per ragioni evidenti di giustizia – sospendere l’applicazione della legge 1° settembre 1947, n. 143, concernente l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul patrimonio, in quei Comuni, come, ad esempio, nella zona di Cassino, nei quali le distruzioni causate da eventi bellici abbiano superato la percentuale dell’80 per cento, stabilendosi che i contribuenti di tali Comuni dovranno corrispondere l’imposta appena ottenuto il risarcimento del danno di guerra, con le modalità che si riterranno opportune per tutelare gli interessi dello Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 30 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Verifica di poteri:

Presidente

Mozioni (Seguito della discussione):

Valiani

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella seduta odierna, ha verificato non essere contestabile l’elezione del deputato Giuseppe Sapienza per la circoscrizione di Catania (XXIX); e, concorrendo in esso i requisiti previsti dalla legge, ha dichiarato valida la elezione.

Do atto alla Giunta di questa comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti sino a questo momento, dichiaro convalidata questa elezione.

Seguito della discussione di mozioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione di mozioni.

È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi! Io desideravo occuparmi anzitutto della politica estera del Governo, ma vedo che il Ministro degli esteri è assente, perciò mi riservo di parlarne alla fine del mio intervento, anche se sarebbe invece logico cominciare con questa che, fra tutte le attività del Governo, mi sembra la più criticabile, quella che meno possiamo approvare.

E vengo senz’altro alla politica economica generale del Governo e non di questo Governo soltanto, ma anche dei precedenti Governi formati dall’attuale Presidente del Consiglio.

La politica economica di questi Governi era e rimane caratterizzata da un concetto molto semplice, elementare, starei per dire comodo, che però, a lungo andare, porta grave pregiudizio alla vita economica della Nazione stessa e alla ricostruzione dello Stato. Quale concetto è prevalso nella politica economica dei Governi succedutisi dopo la liberazione e in particolare dei Governi presieduti dall’onorevole De Gasperi? Il concetto di far debiti. È il metodo che consiste nel risolvere la situazione o meglio nel credere di risolvere la situazione mediante debiti, in particolare debiti all’estero, senza prendere in considerazione le condizioni talvolta assai onerose, talvolta meno, di questi debiti medesimi, senza considerare se questi debiti stessi vadano a buon fine, servano a qualche cosa, a risanare la situazione o servano semplicemente a prolungare la malattia. Se una azienda privata fosse retta come è retta da due anni a questa parte la politica economica del Governo, a mezzo di debiti, che vanno ad aggiungersi ad altri debiti, questa azienda sarebbe già insolvente.

Non vorrei escludere che inconsapevolmente, inconfessata, al fondo del pensiero dell’onorevole De Gasperi ci sia questa speranza, che risolveremo la situazione che sta diventando sempre più grave con la forza del debitore insolvente. Ma i Paesi assai raramente si sono salvati, le economie nazionali assai raramente si sono risanate con la forza del debitore insolvente. Qualche volta ciò può essere capitato, ma non mi pare che oggi questo possa essere un metodo utile, atto a rialzare il prestigio, la potenza e la forza dell’economia italiana nel mondo e a migliorare la situazione delle classi lavoratrici italiane.

Prendete gli aiuti che abbiamo ricevuto dall’U.N.R.R.A., aiuti che sommano a centinaia di miliardi in pochi anni. Se questi aiuti fossero stati impiegati secondo un criterio economicamente razionale, secondo l’ovvio criterio che il denaro impiegato in qualsiasi posto deve dare dei frutti, la nostra situazione potrebbe essere diversa da quella che è.

Invece, il profitto stesso che queste immense quantità di merci arrivate e ripartite per centinaia di miliardi hanno dato, è di poche decine di miliardi, su cui il Tesoro, se non erro, ha potuto mettere le mani (e del resto, anche questo, solo violando una qualche clausola dell’accordo intercorso tra la delegazione italiana dell’U.N.R R.A. e la delegazione americana).

Ha potuto mettere le mani su 30 o 33 miliardi, che poi sono stati utilizzati, come se fossimo già nella situazione del debitore che nell’insolvenza, fa cassa comune di tutto. Poi, si chiede la sanatoria, s’intende; ma non basta chiedere la sanatoria, non basta all’ultimo momento racimolare quelle poche decine di miliardi che possono essere rimaste come profitto dell’U.N.R..R.A. Se lo Stato italiano avesse amministrato con senso commerciale i beni dell’U.N.R.R.A., i profitti – anche ammettendo che dovessero essere destinati a scopi assistenziali – potrebbero assommare a centinaia di miliardi. Pensate soltanto a questo semplice elemento: che i beni dell’U.N R.R.A. venivano conteggiati al cambio di cento lire per un dollaro; solo verso la fine il dollaro era calcolato a 225, mentre il cambio reale del dollaro già inizialmente era di 250-300 lire, e salì successivamente fino a 5, 6, 800 lire.

Pensate a questa differenza per ogni dollaro di beni: dove è andata a finire questa differenza? Chi ne ha profittato? Un po’ tutti e soprattutto gli industriali che hanno ricevuto assegnazioni di materie prime che hanno pagato al cambio di cento vendendo, almeno in parte, i loro prodotti ad un cambio di 5 o 600 lire.

In sostanza, di tutti questi enormi aiuti che abbiamo avuto, nulla è stato utilizzato per il risanamento della economia nazionale, ossia per costituire una riserva per la stabilizzazione della lira. Sono stati utilissimi, certamente, questi aiuti, perché i beni che si consumano sono sempre utili, quando la popolazione ha fame. Comunque essi siano ripartiti, a qualunque cosa essi servano, vanno sempre a fin di bene dal punto di vista fisiologico e, se volete, dal punto di vista morale. Ma da quello di un’economia pubblica razionale, la cosa è diversa.

Io credo che, se l’onorevole Einaudi in questi anni, invece di essere il governatore della Banca d’Italia, fosse stato ancora scrittore di cose sociali ed economiche, avrebbe certamente scritto severi articoli contro questo andazzo governativo.

Che gli aiuti che noi riceveremo ancora dall’estero siano di nuovo sprecati è un pericolo contro il quale dobbiamo stare in guardia. Fino a quando infatti voi curate l’azienda dello Stato solo con prestiti, voi non fate che prolungarne la malattia. Io debbo, eccezionalmente, sotto questo aspetto, essere ancor più radicale di quanto non sia già stato l’onorevole Nenni, il quale ha voluto rendere responsabile della situazione disastrosa in cui ci troviamo non il Governo, ma il fascismo e la guerra da esso follemente condotta. Ebbene, io non sono di questo parere; io sono invece del parere di cui era lo stesso onorevole Einaudi dopo l’altra guerra, quando pure c’erano state distruzioni e l’Italia era stata pure invasa, anche se in misura di gran lunga minore che l’attuale. In quell’epoca l’onorevole Einaudi, sulla sua rivista, non rendeva responsabili solo gli uomini che avevano voluto la guerra e che, come egli ben dimostrava, l’avevano mal condotta economicamente, ma anche e soprattutto coloro che da qualche anno si andavano avvicendando al Governo dello Stato e non avviavano il Paese al risanamento, scaricando tutte le responsabilità sulle distruzioni prodotte dalla guerra, sulle brame imperialistiche dei nostri alleati e via dicendo.

Io credo che nel 1945 vi fossero numerosi elementi favorevoli ad un risanamento della situazione italiana. Questi elementi erano: la circolazione relativamente contenuta e che sarebbe stato più facile contenere ulteriormente se si fosse fatto allora, come voleva il Ministro Soleri, il cambio della moneta.

Il livello dei prezzi non era esagerato, specie nell’Alta Italia; noi ricordiamo ancora che, nei mesi seguenti alla liberazione, a Milano, nei ristoranti – Merzagora deve ricordarlo: era anche, in parte, merito suo – si mangiava spendendo per un pasto 100 lire, mentre oggi, per lo stesso pasto, si spendono nei ristoranti di Milano o di Roma mille lire: da uno a dieci, in due anni.

Vi era in quell’epoca una indubbia tendenza al ribasso delle materie prime sui mercati mondiali; eravamo in una situazione particolarmente felice per quanto riguardava le esportazioni. Non appena avevamo prodotto qualche cosa, eravamo in grado di venderlo su qualsiasi mercato. Abbiamo esportato prodotti industriali finiti su mercati americani e britannici, dove mai ci saremmo sognati di poter ancora esportare tali prodotti.

Bisogna dire che l’intuizione geniale dell’onorevole Corbino, che cioè si potesse in quella congiuntura operare un riassestamento con i metodi del liberismo o, se volete, del liberalismo, aveva le sue buone ragioni. In quella situazione un risanamento condotto con criteri liberali era effettivamente possibile. Purtroppo, l’azione dell’onorevole Corbino fu paralizzata da alcune debolezze sue e da altre che erano nella situazione del Governo. Errore suo fu di non aver attuato il cambio della moneta, che non aveva nulla di antiliberale, non aveva, in fondo, nulla di socialista, tanto è vero che l’onorevole Einaudi ha potuto qualche mese fa dimostrare in quest’Aula – la dimostrazione è corretta – che il cambio della moneta avrebbe colpito più i piccoli ed i medi produttori, che i grandissimi produttori. Però, proprio per quello si sarebbe dovuto attuarlo, perché l’esuberante capacità di acquisto che preme sui prezzi e determina in ultima analisi l’inflazione in Italia, è proprio quella dei piccoli e medi ceti. Io mi sento infinitamente più vicino a questi ceti che non al ceto dei grandi industriali; ma le nostre simpatie e preferenze politiche non devono entrare in conto nella determinazione della politica economica di uno Stato che deve ricostruire la vita della Nazione.

Col cambio della moneta si sarebbe tolta di mezzo una parte di quella esuberante e nervosa capacità di acquisto, concentrata nelle mani di ceti che, proprio per aver fatto rapidi guadagni, non avevano la stessa tendenza a contribuire alla formazione del risparmio che avevano avuta altri ceti in Italia, in altri tempi.

Proprio quando si legge il memoriale del Presidente della Confindustria all’onorevole De Gasperi, in cui si lamenta questo eccesso di capacità di acquisto accumulato in certi ceti, che non sono tradizionalmente risparmiatori e che premono sui prezzi – considerazione giusta – io vengo alla conclusione che solo il cambio della moneta avrebbe potuto ovviare a questo inconveniente dell’economia nazionale. E quindi la politica liberale dell’onorevole Corbino fu dall’inizio viziata, non già per ragioni estrinseche, non già perché il liberalismo sia impossibile nel mondo attuale – può anche esserlo in generale, ma nella congiuntura particolare dell’Italia era possibile – fu viziata, invece, da errori intrinsechi alla sua stessa concezione: i mezzi di cui si serviva per raggiungere il fine non erano congrui al fine stesso.

Altro errore suo fu quello di aver voluto fissare al principio del 1946 il cambio del dollaro a 225, quando la proporzione reale fra costi di produzione americani e italiani determinava già un cambio del dollaro di circa 400. Da ciò si dovette passare ad una politica del commercio estero che consisteva in palliativi, necessariamente, dato il punto di partenza falso. Quindi, assegnazione del 50 per cento di valuta agli esportatori; e gli esportatori che fanno di tutto per non dare allo Stato, per non dare alla Banca d’Italia gran parte del 50 per cento che dovrebbero dare; alterazione di fatture; valute imboscate all’estero; fenomeni che hanno assunto un’importanza grandissima, terrificante nei mesi della crisi avutasi un anno fa, e che sono state fra le cause delle dimissioni dell’onorevole Corbino stesso.

Poi, errori non imputabili a Corbino, contro i quali anzi egli come Ministro del tesoro combatté e protestò; errori imputabili all’eccesso di vincolismo (caro allora agli amici democristiani) nella produzione interna, nella distribuzione interna dei prodotti; errori della sinistra che volle mantenere rigidamente il blocco dei licenziamenti, contro il quale io mi ero permesso di protestare ancora nel Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia nell’estate 1945; poi ancora l’erronea campagna per l’aumento dei salari nell’estate del 1946.

Tutti questi fatti, evidentemente, si chiamano errori soltanto tenuto conto del punto di partenza, cioè che Corbino, e quindi il Governo con Corbino, voleva attuare una politica liberale; perché se si fosse voluta attuare una politica corporativa, tutti questi elementi e tutti questi fatti potevano anche non essere errori e potevano trovare giustificazione.

Ecco dunque la contradizione fra il fine che Corbino voleva raggiungere (giustificato dalla situazione), ed i mezzi di cui si servì, o di cui era obbligato a servirsi. Questa contradizione fece sì che non abbiamo profittato della congiuntura favorevole del 1945-46 per dare mano al risanamento dell’economia, e ha fatto sì che ci troviamo oggi in una situazione che sarebbe logica se l’8 settembre fosse di ieri. Ma sono passati quattro anni e non possiamo più dare la responsabilità di tutto agli avvenimenti svoltisi fino all’8 settembre del 1943 oppure fino all’aprile del 1945.

Al punto a cui siamo è in giuoco la precisa responsabilità dei Governi che si sono succeduti. E se io cito queste responsabilità non è per fare di questo o di quel capo di Governo il capro espiatorio; la responsabilità risale a tutta la classe politica italiana, la quale si è trovata impreparata dinanzi ai problemi della ricostruzione economica. Fino a quando non ci renderemo conto esatto delle nostre responsabilità e tenteremo ancora di scaricarle sul fascismo, che ha le sue gravi e tragiche responsabilità ma che ha pagato, che noi abbiamo fatto pagare (e abbiamo fatto bene), finché – dicevo – non ci renderemo conto delle nostre responsabilità, noi non romperemo neppure con la politica di faciloneria, cioè con la politica di sempre contrarre debiti. Debiti all’estero, dico, e non tanto debiti all’interno, perché la politica del Governo è stata già giudicata dal pubblico in Italia, sicché gli sono ormai preclusi i prestiti interni. Fino a quando persisteremo in questa politica di debiti, noi dovremo sempre palleggiare le responsabilità e non saremo mai in grado di rimediare ai nostri errori, ed il Governo non vi rimedierà mai, ed ogni tre o sei mesi rifaremo una discussione del genere di quella di oggi, coi risultati che rischia di dare questa discussione stessa, cioè con risultati poco brillanti.

L’onorevole De Gasperi ha vivissimo il senso dello Stato. Penso sia questa la ragione per cui egli è ancora e sarà per un pezzo – a quanto sembra – Presidente del Consiglio. Evidentemente, senza il senso dello Stato, nulla si può creare; però bisogna che questo senso dello Stato sia accompagnato da volontà riformatrice tempestiva.

Se accanto al senso dello Stato c’è soltanto la politica dei rinvii, la politica che consiste nel rimandare tutto alle elezioni dell’anno successivo, la politica degli espedienti e dei debiti, lo Stato fallirà. Devo dare atto all’onorevole De Gasperi che il prestigio dello Stato è aumentato. Questo è uno dei pochi fatti positivi; ma, insomma, se accanto al senso dello Stato non c’è il senso delle riforme, ci si ritrova nella situazione che all’onorevole De Gasperi ed a me, che siamo nati nelle Venezie irredente, è familiare; la situazione dell’Austria che faceva sempre debiti ed era convinta che un felice matrimonio l’avrebbe salvata alla fin fine.

Onorevole De Gasperi, io non voglio negare che la vecchia Austria abbia resistito per sette secoli; però poi crollò e andò in frantumi. La nuova Austria, la piccola repubblica austriaca, nell’altro dopoguerra, non volle più seguire quella via e preferì una stabilizzazione difficilissima della corona cambiata in scellino. Noi parliamo della distruzione e delle mutilazioni del nostro Paese, ma pensate a quello che fu ridotto quel Paese dopo il 1918, quando perse tutti i mercati, tutte le sue fonti di materie prime ed aveva debiti ben diversi dai nostri, e pure attuò la stabilizzazione della moneta. Non lasciò andare la moneta alla inflazione completa…

CHIARAMELLO. Ma se hanno fatto la stessa fine il marco e la corona!…

VALIANI. No, la corona austriaca è scesa a circa 2500 rispetto alla corona dell’anteguerra. A noi che abbiamo la lira, rispetto al 1914, come capacità di acquisto, forse da uno a 400, ciò può sembrare ancora una cosa paurosa; ma se continuiamo su questa strada e se lasciate galoppare l’inflazione, avremo non il rapporto da uno a 2500, ma da uno ad un miliardo. Non è ancora la catastrofe un’inflazione che si arresta e che dà luogo alla stabilizzazione, quando la moneta ha ancora un minimo di capacità di acquisto. Minimo, ma la nostra moneta l’ha ancora. Uno che riceve uno stipendio al primo del mese, con quello stipendio può ancora vivere fino al 15 o al 20 del mese. In una inflazione, invece, come quella tedesca e come più recentemente in Ungheria, la mattina alle otto i funzionari prendono gli stipendi ai Ministeri, vanno al mercato, tornano alle nove con la spesa per la colazione, e per la cena devono prendere un nuovo stipendio, perché intanto i prezzi sono triplicati.

Questa digressione serve soltanto a spiegare come le questioni vanno risolte e che le prime questioni strutturali da affrontare sono quella monetaria e quella fiscale. Da 3-4 anni noi parliamo di riforme di struttura, ma, disgraziatamente, il nostro Paese non si è data alcuna riforma strutturale. Questa è responsabilità precipua dell’onorevole De Gasperi. L’onorevole De Gasperi ha rappresentato la precisa volontà di rimandare ogni questione di uno, due, tre anni. Io ricordo ancora il primo discorso dell’onorevole De Gasperi, al quale ho avuto il piacere di assistere in occasione dell’incontro dei Comitati di liberazione nazionale centrali di Roma e di Milano nel maggio del 1945, discorso forte, tanto è vero che – dopo averlo ascoltato – dissi all’onorevole Foa che quell’uomo ci avrebbe governato per cinque anni, perché era il più forte in quel consesso. Però il discorso era la teorizzazione, mascherata bensì secondo lo spirito del momento che richiedeva promesse di epurazione e via dicendo, ma pure la teorizzazione della politica del rinvio delle riforme strutturali. Ora, non credo che tutte le riforme strutturali siano subito possibili: quelle di carattere intrinsecamente sociale, come le riforme agricole e industriali, evidentemente richiedono parecchio tempo; ma una riforma strutturale urgentissima è quella monetaria, come pure quella fiscale e quella amministrativa.

Tali questioni non sono state affrontate; il Governo le rimanda ancora, ed ecco perché si trova in crisi; e questa crisi vuole scaricare sul passato fascista. L’unica questione recentemente affrontata – e affrontata grazie ad una collaborazione fra Governo e opposizione, che dimostra come questa collaborazione sia più importante dei Governi tripartiti o quadripartiti, di colore, di centro e via dicendo – è quella dell’imposta straordinaria sul patrimonio. Se lo Stato vive oggi, se il Ministro Pella ci potrà dare oggi delle cifre di bilancio meno paurose di quelle di qualche mese fa, è grazie all’introduzione di questa imposta che sta dando i suoi primi frutti. Io credo che il Ministro Pella, al pari dell’onorevole La Malfa, oppositore, col quale ha collaborato, ha diritto alla riconoscenza della Costituente e dei cittadini per aver accettato i gravi inasprimenti da noi proposti con questa imposta; per averli accettati ed averli saputi tradurre in disposizioni pratiche e per aver saputo resistere all’ondata che contro di lui in questo momento si scatena, da parte dei grossi miliardari da un lato e dei piccoli milionari dall’altro.

Io chiedo al ministro Pella di resistere agli uni ed agli altri. Se però l’imposta patrimoniale è avviamento alla soluzione di un problema strutturale e fiscale, in altri campi siamo in alto mare; e l’onorevole De Gasperi ci ha promesso soltanto che avrebbe fatto sfilare i Ministri tecnici con statistiche e documentazioni. Il professor Ronchi ha già aperto la controffensiva.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non c’era nessuno che ascoltava.

VALIANI. C’ero io, e risponderò dettagliatamente. Onorevole De Gasperi, mi permetto di dire che non approvo il suo metodo. Non credo che si tratti di portare qui statistiche e documentazioni: questo va bene nelle Università e negli uffici studi. Voi siete degli amministratori e dovete portare nell’Assemblea dei provvedimenti e non delle statistiche. Il guaio è che i provvedimenti li prendete indipendentemente dalla Costituente e dalla Commissione di finanza e tesoro alla quale presentate soltanto quei provvedimenti in cui si tratta di erogare di straforo qualche milione. 1 grossi provvedimenti li prendete in ritardo o mai; e li prendete all’infuori della Costituente e della sua Commissione finanziaria.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non c’entra con l’alimentazione. Tutta la campagna è stata fatta sui prezzi dell’alimentazione, ed era giusto che si riferisse la situazione prima di dire quali provvedimenti si sono presi. Questo è interessante per l’Assemblea.

VALIANI. Io ho ascoltato con piacere il discorso del professor Ronchi. Quello che io lamento non è già che lui esponga la situazione, ma che non parli di provvedimenti in atto. Le statistiche possono servire quando vi sono dei provvedimenti per illustrarli. Ma ci si è limitati a fare apologia del Governo.

La differenza fra amministrazione e apologia è questa: che nel primo caso qui si portano dei provvedimenti e nel secondo si fa la requisitoria contro le richieste dell’opposizione. L’opposizione ha il diritto di chiedere delle cose gradite al popolo; questo è il diritto di tutte le opposizioni. Il dovere del Governo, che discende dal privilegio di avere in mano le leve di comando dello Stato, è di portare qui dei provvedimenti.

Onorevole De Gasperi, Churchill, quando è Presidente del Consiglio, parla diversamente di quando è capo dell’opposizione. (Commenti al centro).

Problema non risolto, grave, e da risolvere invece di urgenza, è quello dei rapporti tra Banca d’Italia, Tesoro, e politica economica generale. Si impone una chiarificazione tra Banca d’Italia, Tesoro e politica economica generale dello Stato.

L’onorevole Einaudi ha la tendenza, naturale del resto, essendo governatore della Banca d’Italia (anche se attualmente non in carica), a vedere le cose troppo dal punto di vista della Banca d’Italia. E questo va bene. Ma io domando: chi vede le cose dal punto di vista del Tesoro, dal punto di vista della politica economica generale dello Stato? Chi rappresenta l’altra parte, che deve contribuire a creare la situazione di equilibrio, che ci deve essere. Non deve prevalere la Banca d’Italia sul resto.

Si tratta della deflazione che si è voluto provocare recentemente. Ne parlerò più in dettaglio. Queste cose, che tanto da fare danno al Governo e tanti argomenti all’opposizione, sono dovute, fondamentalmente, ad un prevalere del punto di vista della Banca d’Italia, la quale ha voluto premunirsi ed ha spinto tutte le banche a premunirsi.

La liquidità delle banche è cosa fondamentale; tanto più che le grandi banche oggi in Italia sono più o meno di proprietà pubblica.

Questa è una cosa; altra cosa è l’esigenza generale della politica economica del Paese, ammesso che lo Stato abbia – cosa che non sono sicuro di poter credere – una sua politica economica oggi in Italia.

L’onorevole De Gasperi dovrebbe essere il supremo moderatore di queste posizioni, oppure avere accanto all’onorevole Einaudi, Vicepresidente del Consiglio in funzione della Banca d’Italia, un altro Vicepresidente del Consiglio che rappresenti i prevalenti interessi dell’economia nazionale. L’onorevole De Gasperi, che dovrebbe essere il supremo moderatore di questa situazione, interviene invece nella polemica – scusi se glielo dico – con paurosi sbandamenti.

Nell’aprile egli grida all’inflazione galoppante dovuta alle dattilografe che giocano in Borsa (io dovrò più tardi difendere le Borse pur non amandole). In agosto l’onorevole De Gasperi scrive un articolo sulla crisi deflazionistica che si avvicinerebbe. Se io fossi un piccolo banchiere, leggendo l’articolo del Presidente del Consiglio che annunzia la crisi deflazionistica, comincerei col restringere i fidi per non espormi al fallimento dei miei clienti. Anche le grandi e le grandissime banche hanno agito in questo modo.

Non voglio dare troppa importanza ad un articolo, anche se scritto dal Presidente del Consiglio. È un articolo pubblicato sul giornale popolare di Trento e riportato da tutti i grandi giornali d’Italia.

Onorevole De Gasperi, bisogna stare attenti quando si scrivono queste cose, perché, in una situazione critica come la nostra, occorre agire con prudenza.

A prescindere dall’articolo, onorevole De Gasperi, si ha la sensazione generale che si voglia attuare una politica deflazionistica. Disgraziatamente però la politica deflazionistica non si può attuare perché siamo ancora in piena inflazione e perché, come notò l’inglese Keynes in polemica con Mussolini all’epoca dei provvedimenti De Stefani: «fortunatamente neppure un dittatore può comandare all’andamento della economia». L’onorevole De Gasperi non è neppure un dittatore, e nemmeno l’onorevole Einaudi è un dittatore…

Una voce al centro. Per fortuna!

VALIANI. Per fortuna. Tanto meno possono comandare all’andamento della moneta, del mercato e della congiuntura. Perciò questa politica deflazionistica è spiegabile solo in rapporto alla situazione delle banche e, a questo riguardo, tutte le considerazioni dell’onorevole Einaudi reggono. Le banche erano arrivate ad un limite non dico pericoloso, ma che in qualche caso poteva essere preoccupante. Esse si premunivano. Ma lo Stato? Non c’è mica soltanto la Banca d’Italia o soltanto le banche nell’economia italiana: c’è lo Stato, che è proprietario di gran parte dell’economia italiana, attraverso l’I.R.I. e in altre forme, e comunque è responsabile esso, e non la Banca d’Italia, della moneta.

Consultiamo tutti gli indici e tutte le previsioni di coloro che studiano codeste questioni, e mi riferisco ad alcune interessantissime analisi pubblicate, per esempio, dalla Rivista di politica economica edita da uomini che hanno parte nella produzione, da uomini che l’onorevole De Gasperi ascolta, dai capi della Confindustria. Questa rivista, nei mesi di maggio, giugno e luglio dava gli elementi da cui si poteva desumere che non andavamo verso una deflazione e che la tendenza dei prezzi sul mercato sarebbe stata orientata verso l’ascesa.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Si vede che non li ho ascoltati.

VALIANI. Non basta dir questo. Si vede che lei non è intervenuto come autorità dello Stato ad equilibrare la politica deflazionistica che le banche, per certi loro fini, dovevano fare, ma che doveva pur trovare la contropartita. Questa è la situazione. Il fatto che lei scriva un articolo e che si documenti o meno non ha importanza. Se il Presidente del Consiglio non legge e non scrive sui giornali non importa: Mussolini introdusse questa abitudine di leggere sempre tutti i giornali e di scrivere spesso su tutti i giornali. Questo era naturale: egli era un grande giornalista.

Ma la deflazione così attuata, senza volerla in fondo attuare, perché le banche non la volevano, ma volevano soltanto salvare la loro liquidità, facendo gli interessi dei depositanti, e senza la contropartita di una politica economica dello Stato che correggesse questa tendenza e che intervenisse, ha provocato gli ovvii risultati che ha provocato.

Si è voluto fare una politica deflazionistica o per lo meno di contenimento dei prezzi; una politica di resistenza all’inflazione. Risultato: il credito al mercato nero costa l’8 per cento al mese. 10 miliardi saranno regalati alle aziende che ci ricattano perché dicono che altrimenti non possono pagare i salari. L’onorevole Einaudi nel discorso del 18 giugno ha detto che non crede sia conveniente seguitare su questa linea, cioè sulla linea dell’erogazione di miliardi alle industrie senza una contropartita. Se i crediti devono esser dati bisogna che siano dati dalle banche che devono avere la responsabilità di concederli a coloro che si ritengono meritevoli. Lo Stato potrà esercitare un controllo impedendo che i crediti siano dati in modo da provocare un’inflazione creditizia. Questo è il discorso del 18 giugno del Vicepresidente del Consiglio e Ministro del bilancio.

Ieri non so cosa sia stato deciso al Consiglio dei Ministri. Spero che ci direte, almeno questa volta, i provvedimenti che volete adottare e non farete i soliti discorsi apologetici in difesa del Governo. Certo, dei provvedimenti urgenti sono indispensabili. Quando ci si trova nella necessità, quando si è con l’acqua alla gola, si fa quel che si può.

Ma è tutta una politica di alcuni mesi e di qualche anno di cui paghiamo il fio.

Insomma, con le premesse dell’onorevole Einaudi solo le banche dovrebbero dare i soldi all’industria e lo Stato controllare e contenere l’espansione creditizia. Avviene il contrario: lo Stato dà i soldi a chi li esige, le banche controllano e contengono l’espansione creditizia e non dànno soldi all’industria.

UBERTI. Non ne hanno, questa è la realtà. Il risparmio è insufficiente agli investimenti.

VALIANI. Se i risparmi sono insufficienti, questo dimostra che qualcosa non va nella politica economica dello Stato.

D’accordo con lei che i risparmi non sono sufficienti, ma questo significa che noi facciamo una politica deflazionistica in un momento di inflazione vera e propria, perché l’inflazione consiste proprio in questo: che non si forma in misura sufficiente il risparmio, e su queste basi è inutile fare discorsi per l’aumento della produzione. Governo e capi dell’opposizione parlano di aumentare la produzione, come del solo rimedio. Ma se aumentando la produzione non si forma parallelamente il risparmio, abbiamo l’inflazione.

Perché c’è l’inflazione anche in Inghilterra e in America? Perché c’è un’espansione di produzione non accompagnata da corrispondente formazione di nuovo risparmio.

Questo è l’a, b, c dell’economia, che abbiamo imparato dall’onorevole Einaudi e a queste idee resteremo fedeli.

Ora è evidente che una manovra di contenimento dell’inflazione (non parliamo neppure di manovra deflazionistica), in una situazione come l’attuale, può essere fatta soltanto se accompagnata da cautele ed altri provvedimenti, non più da parte della Banca d’Italia, non più dal Ministro del bilancio, ma dal Gabinetto nel suo insieme. Per esempio, le banche non hanno più soldi per finanziare le industrie; bisognerebbe rianimare le Borse. Metodo normale, classico. Ecco perché dico che le voglio difendere. È il metodo classico di afflusso del risparmio che è sparso un po’ dovunque in tutto il Paese. Non è finito il risparmio in Italia, altrimenti saremmo già morti e dovremmo chiudere il dibattito. Bisogna fare qualche cosa per rianimare le Borse; invece contemporaneamente alla deflazione del credito, si battaglia contro le Borse. Quando le banche stringono i freni perché non hanno più soldi, perché ogni conto corrente che aprono è inflazione creditizia, dovete rianimare le Borse o trovare altri mezzi. Ma non agite da una sola parte, non trascurate completamente l’altra!

Io non concordo con tutte le critiche che l’onorevole Nenni e l’onorevole Saragat hanno fatto all’onorevole Einaudi rimproverandogli di avere svolto una manovra quantitativa del credito, invece di una manovra qualitativa di esso.

Onorevoli colleghi, giova ridurre queste cose alle loro significazioni tecniche effettive. Non è che la manovra qualitativa sia qualcosa di necessariamente superiore alla manovra quantitativa. La manovra quantitativa del credito significa semplicemente che giudice in ultima analisi è il mercato; la manovra qualitativa significa che in ultima analisi il giudice è il Governo. Ora dunque, nella situazione in cui si è trovato l’onorevole Einaudi, cioè di non avere avuto strutture di Governo efficienti e di non aver avuto strumenti efficienti e di avere quindi solo il mercato relativamente efficiente giudice, evidentemente la manovra quantitativa andava fatta. Io credo che nessuno in pratica può rimproverargli di avere fatto una manovra quantitativa prima di una manovra qualitativa. La manovra qualitativa presuppone, se è una manovra restrittiva, il blocco dei salari, il blocco dei prezzi, lo sblocco dei licenziamenti, presuppone delle strutture pianificatrici preesistenti.

Del resto le condizioni di erogazione alle industrie meccaniche di 55 miliardi, il cui annunzio ha provocato tutta questa crisi psicologica e l’assalto contro l’onorevole Einaudi, sono una manovra qualitativa. Quindi io scarico completamente l’onorevole Einaudi da questa accusa, di aver fatto solo una manovra quantitativa. Evidentemente è basilare per noi la manovra quantitativa, in quanto il mercato esiste, mentre la pianificazione è ancora da venire. E le aspre accuse che si fanno all’onorevole Einaudi su molti giornali di destra mi ricordano veramente la situazione delineata in un articolo de La riforma sociale del 1925, articolo che riguardava «i disfattisti della lira». Mi ricordavo solo del titolo, ma mi pareva che calzasse. Avendolo riletto, posso dire che quello scritto calza al cento per cento: come oggi, vi era allora una parte del grande capitalismo che sferrava l’offensiva contro la politica di resistenza all’inflazione che si ebbe nel 1922-24. Fortunatamente l’Italia allora aveva ben altre risorse. Comunque, in quell’epoca il professor Prato, l’onorevole Einaudi ed altri economisti italiani degni del loro nome, difesero con le unghie e con i denti quell’ultima possibilità che si era delineata di resistere all’inflazione, e si era delineata anche in seno ad un Governo che essi combattevano: il Governo fascista. Purtroppo nel 1925 furono vinti insieme a quelli che questa politica rappresentavano e quando poi si stabilizzò la lira, la si stabilizzò male, a quota 90.

Questa situazione oggi si ripresenta e quando si leggono certi attacchi della destra economica, nei grandi giornali, contro l’onorevole Einaudi, viene fatto di rimpiangere che non sia vivo il professor Prato, il quale potrebbe rispondere ancora per smascherare questa congiura in atto contro la salute economica del Paese e contro le sorti della lira.

Però, diciamo francamente che le congiure non nascono solo per malvagità; le congiure economiche e politiche nascono quando c’è una situazione malata cui il chirurgo non ha posto rimedio. Anche contro l’onorevole De Stefani si potevano muovere critiche giustificate perché faceva una politica esageratamente deflazionistica, bruciando biglietti di banca in forni crematori.

Anche oggi, se la destra economica può sferrare un’offensiva così efficace contro l’onorevole Einaudi, è segno che vi sono errori nella politica dell’onorevole Einaudi che rendono possibile ciò; perché, se la politica economica fosse giusta non si potrebbe sferrare un’offensiva aperta contro provvedimenti che si ripercuotono beneficamente sulla economia nazionale.

L’onorevole Einaudi ha avuto ragione di fare una manovra quantitativa del credito, ma l’ha fatta troppo ristretta, troppo brusca e, soprattutto, questa manovra non è stata accompagnata da una politica economica del Governo che la completasse.

Se il mercato è giudice, come in una manovra quantitativa, dovrebbe avere la potestà di far fallire chi deve fallire. Ma chi può fallire in Italia oggi? Per fallire, oggi, che non siamo più ai tempi della stabilità, bisogna aver messo in giro dei titoli esecutivi. Oggi anche una azienda dissestata, se non ha in giro assegni post-datati o cambiali protestate, non fallisce. Ora, chi ha in giro assegni post-datati e cambiali protestate? Forse che l’Ansaldo o la Breda, certamente industrie dissestate, ne hanno in giro? No. Solo le piccole industrie, le aziende il più delle volte sane, ma che hanno logicamente delle cambiali in giro perché, senza cambiali, naturalmente non lavorano, e i cui clienti, per effetto di una manovra del credito troppo brusca, si trovano in difficoltà.

Quindi, in questa situazione, per quanto si facciano manovre quantitative, il mercato non riesce a giudicare e ad operare come dovrebbe. Accade allora che le grandi aziende dissestate possono correre all’arrembaggio e prendere il denaro dello Stato, mentre le aziende minori rischiano di fallire e se non falliranno gli è che, in fondo, l’inflazione purtroppo esistente le salva.

Ecco dunque, che, se c’è la congiura contro la politica dell’onorevole Einaudi, essa è dovuta al fatto che tale politica ha un carattere unilaterale, anche se è giusta in sé. Prendete soltanto un caso, quello dei cantieri dell’I.R.I. Si è tanto parlato del Piano Marshall – io mi sono ripromesso di parlarne alla fine del mio discorso, sperando che nel frattempo giunga l’onorevole Ministro degli esteri – parliamo dunque, un poco, del Piano Marshall. Uno degli elementi del Piano Marshall riguarda i trasporti marittimi e ci si domanda, a proposito di questo settore, come l’America potrà far fronte alle richieste di trasporti marittimi. Domanda alla quale rispondono gli economisti americani constatando che l’America non è in grado di far fronte completamente a tale richiesta e che l’industria europea dei cantieri dovrà intervenire lavorando in pieno.

Ecco dunque che vi sarebbero tutte le prospettive di risanare, per esempio, l’industria dei cantieri che appartengono allo Stato italiano; questa industria rimane invece dissestata perché le erogazioni di denaro dello Stato sono impiegate, come quelle precedenti, per salari insufficientemente produttivi: il solito circolo vizioso, per cui questa industria non vede alcun principio di reale risanamento.

Il Piano Marshall, su cui noi basiamo tutta la nostra politica non solo economica, ma anche estera, richiede che i cantieri lavorino, ma, onorevoli colleghi, non dimentichiamo che la manovra del credito – prescindendo adesso, per un momento, se debba essere prima quantitativa, come sulle orme dell’onorevole Einaudi io penso, e poi qualitativa – la manovra del credito, dunque, coincide con la patrimoniale.

Io credo che l’onorevole Einaudi abbia dato prova di altissima devozione al Parlamento, accettando un’imposta che egli riteneva troppo drastica. Ma, dopo un lungo periodo di tempo trascorso senza che alcun provvedimento strutturale fosse stato preso, bisognava pure prenderne uno duro, intransigente: e di fatto lo abbiamo preso. Voi però non potete, mentre viene preso un provvedimento così violento, prenderne insieme un altro altrettanto violento, senza, almeno, mitigarlo.

La manovra restrittiva del credito coincide con la patrimoniale, e coincide ancora con lo stato in cui sono tenute le Borse, perché alla patrimoniale non ha fatto seguito – come era pensabile avrebbe fatto seguito – un provvedimento sulle rivalutazioni. In mancanza di questo provvedimento, le Borse sono paralizzate, mentre qualsiasi provvedimento fosse preso la Borsa lo sconterebbe e poi ci passerebbe sopra, e riprenderebbe la sua tendenza naturale. Oggi è in attesa di qualche cosa. Ma nessuno prende questo provvedimento. Io mi domando se non lo si prende, perché si ha paura di essere criticati; evidentemente, in relazione alle Borse, dei Ministri sono stati ingiustamente criticati e non sono stati sufficientemente difesi. Ma questa non è una ragione perché ai provvedimenti si rinunci.

Se voi non prendete dei provvedimenti lenitivi, se voi prendete solo quelli restrittivi – o se, per lenitivo, intendete quello di erogare miliardi a fondo perduto – allora, non illudetevi che la distensione possa venire. Non illudetevi – in questo ha ragione l’onorevole Saragat – sulla liquidazione delle giacenze. Perché, dove si dovrebbero liquidare le giacenze a prezzi che fossero di sollievo, per il loro ribasso, per l’economia nazionale? Al dettaglio, evidentemente. Che importa se qualche prezzo all’ingrosso diminuisce, che importa se il professore Ronchi è in grado di dimostrarci che le punte massime dei prezzi all’ingrosso si sono raggiunte in maggio? Ma le punte massime dei prezzi al dettaglio si raggiungono quotidianamente. Andate in un qualsiasi ristorante a Roma e altrove, in un negozio di scarpe, ecc. e lo vedrete.

C’è una vischiosità dei prezzi evidente, per cui l’arresto dell’ascesa degli stessi all’ingrosso, non si riesce a tradurre in diminuzione dei prezzi al dettaglio. Questa vischiosità è data in parte dalla situazione internazionale, dal Piano Marshall stesso, che solo col suo annuncio ha già determinato un aumento dei prezzi su scala mondiale, in particolare di quei prodotti, di quelle materie prime che devono essere fornite dall’America all’Europa. Ci sono qui delle statistiche americane molto ben fatte sugli aumenti dei prezzi già determinati dal solo annuncio del Piano Marshall.

Però di questo parleremo dopo: qui voglio dire che esiste una situazione internazionale che rende vischiosi i prezzi. E poi, anche quando qualche materia prima sul mercato internazionale cede di prezzo, il rame, per esempio, o la gomma, forse che interviene un conseguente cedimento nel prezzo dei prodotti finiti di questi articoli: scarpe di gomma, per esempio, o rubinetti di rame nei negozi in Italia? Non c’è, evidentemente. E non c’è, perché c’è tutto un sistema di imboscamenti e viceversa di assegnazioni che interviene, di priorità; tutto questo falsa l’offerta e la domanda, le quali sole col loro gioco possono far diminuire i prezzi. Neanche una dittatura politica fa diminuire i prezzi, se non è aiutata dall’offerta e dalla domanda.

Dovrò parlare di questo più dettagliatamente, analizzando il discorso del professore Ronchi. Non dimenticate neppure il continuo aumento del costo della mano d’opera e dei contributi assistenziali, da cui poi, non trae nessun beneficio la classe operaia. Si dice in certe statistiche, che forse qualche Ministro farà osservare – quindi io lo prevengo – che, per esempio, il costo di un operaio chimico nel 1946 fu di 178 e nel 1947 di 500; si tratta di migliaia di lire annue. E quell’operaio vive tuttavia in condizioni di miseria e di fame; se non di fame, certamente di miseria.

Si dice che la gente fallirà in seguito ad una manovra qualitativa del credito troppo ristretta, troppo brusca, troppo violenta. Ma anche quando fallirà, non svenderà sotto costo al dettaglio; ci sarà qualche incettatore che comprerà i prodotti dal grossista fallito; qualcuno che – beato lui! – ha tesoreggiato, e poi al minuto rivenderà secondo quanto l’offerta e la domanda gli consiglieranno di fare: cioè in ascesa di prezzi, mai in discesa. Quindi i fallimenti di quelle piccole e medie aziende commerciali e industriali saranno stati inutili. In una situazione in cui tutti guadagnano del danaro, ma perdono in scorte, come volete che i prezzi possano diminuire, anche se provocate restrizioni del credito, fallimenti, ecc.; anche se ci mettiamo tutti a predicare che i prezzi devono diminuire?

Onorevole De Gasperi, questo prova che il Governo può non essere reso responsabile della mancata diminuzione dei prezzi; ma prova anche che il Governo non può dire: io faccio un Governo di colore senza i socialcomunisti perché questo mi fa diminuire i prezzi. Ha torto l’opposizione di estrema quando vi rimprovera l’aumento dei prezzi, ma avete torto voi quando volete rimediare all’aumento dei prezzi con manovre esclusivamente politiche, come quella di un Governo che ha voluto salvare la lira (così dice) facendosi di parte e poggiandosi sulla destra.

È con una politica economica, che si deve risanare la situazione.

Prendiamo il provvedimento dei 55 miliardi. Va bene, non è venuto davanti alla nostra Commissione delle finanze e tesoro, non abbiamo potuto decidere se mandarlo alla Costituente o no. Nulla d’importante viene alle Commissioni. Quali sono i provvedimenti che vengono alle Commissioni? Quelli con cui si tratta di rivedere i prezzi dei lavori pubblici per erogare qualche decina di milioni di più perché gli appaltatori dicono che se non ricevono aumenti, non possono effettuare i lavori presi in appalto. Quelli sono i provvedimenti che ci mandate; o quando, come l’altro giorno, date alla spicciolata un miliardo di lire all’I.R.I. o quando sanate la storia contabile (non quella economica) dei 38 miliardi dati alle industrie nel 1944-46. Certo vi deve essere una sanatoria contabile, ma la storia contabile conta meno del provvedimento che prendete dei 55 miliardi.

Noi dovremmo discutere questo provvedimento, e non le buone o cattive intenzioni del Governo di fare diminuire i prezzi.

Questo provvedimento certamente è una manovra qualitativa, una manovra qualitativa che è fondata. Sono ben prese anche le cautele contro coloro che già si lanciano all’arrembaggio e prendono questo provvedimento per una vacca da mungere. A questo proposito l’onorevole Einaudi ha difeso benissimo gli interessi dello Stato. Vorrei anzi dire che li ha difesi troppo bene: infatti l’articolo 5 di quel provvedimento che prende le misure restrittive (ed è bene che le prenda) è troppo restrittivo. Quando voi domandate agli industriali che vi cedano la valuta che ricavano dall’esportazione, voi comprate a termine delle valute. Ma a quale corso? Qui la legge non è chiara, perché di corsi ce ne potrebbero essere tre. Il decreto è a questo proposito sibillino. Ci potrebbe essere il corso medio ufficiale (ma speriamo di no); c’è il cambio di esportazione di oggi (ed è probabile che pensiate a questo) o il cambio d’esportazione della giornata in cui gli esportatori incasseranno (ed è probabile che pensiate anche a questo). Ma ci potrebbe essere un terzo corso, e gli industriali non sono del tutto privi di senso pratico e, quindi, di giustificazione, quando vi dicono che il terzo corso è il vero, è cioè quello che risulta dal rapporto dei costi di produzione dei Paesi a cui dobbiamo esportare o con cui ci troviamo in concorrenza; mentre il cambio del dollaro a 650 è artificiale, risulta dal fatto che il Ministro del commercio estero concede o meno delle licenze.

Perché gli industriali dovrebbero cedere la valuta, al corso fittizio che il Ministro Merzagora e i suoi successori determineranno in base ad un rilascio di licenze di esportazione? Quindi mentre avevate la giusta esigenza di difendervi contro i rapaci sfruttatori dello Stato, anche qui siete stati troppo ristretti. In questo modo non smonterete la campagna dei grandi industriali, campagna che non cesserà perché, per la nostra debolezza, questi signori sono in posizioni di potenza.

L’altra debolezza del provvedimento, che bisogna vedere nei dettagli, l’altro freno eccessivo riguarda la cessione di azioni, partecipazioni e via dicendo. Voi non potete rivolgervi all’industria finché non avrete risolta la questione della rivalutazione. Perché oggi il conguaglio monetario è di 5 e non di 25 supponendo che la circolazione monetaria sia aumentata di 25? Finché voi non adottate un provvedimento definitivo che abbia le sue ripercussioni sull’aumento di capitali e sull’andamento delle borse, la gente logicamente diffida, e più è ricca, più diffida.

Voi dovete quindi risolvere la questione delle rivalutazioni da un lato e la questione del 4 per cento dell’imposta di negoziazione. Allora potrete esigere azioni, partecipazioni, in cambio dei 55 miliardi. Prima di fare ciò, non fronteggerete la speculazione politica condotta contro di voi da quella destra economica sulla quale avete voluto poggiare il vostro governo. Questa è la situazione reale. Ed allora ecco i voti che bisogna fare:

1°) Non si faccia come fa il Primo Ministro britannico Attlee, il quale, in una situazione di crisi diversa dalla nostra, ma forse non meno grave, accusa soprattutto la mala sorte. Tenete in conto quello che gli rimprovera, quando egli fa discorsi paragonabili a quelli di De Gasperi, l’Economist, il quale dice che c’è stato l’inverno duro, che c’è stato l’aumento dei prezzi americani, ci sono state tutte le cose che sappiamo: conflitti diplomatici, urto fra Russia e America, ma ci sono stati anche gli errori del Governo. E come l’Economist, che rappresenta un po’ l’opinione media in Inghilterra – favorevole anche alle socializzazioni – rimprovera ad Attlee di dilungarsi solo sui mali e sui guai e di non parlare delle misure da prendere contro i propri errori, di parlare dei mali della natura e della politica di potenza dell’America e della Russia, ma di non parlare dei rimedi da prendere contro le proprie deficienze e le lacune del suo Governo, così dobbiamo parlare noi al Governo italiano.

Il Paese chiede a voi, onorevole De Gasperi, di parlarci o di far parlare i Ministri sui provvedimenti da prendere per rimediare ai vostri errori o a quelli dei Governi che vi hanno preceduto. Questa è la prima condizione del risanamento. Finché non si rompe il circolo vizioso psicologico per cui la colpa è sempre dell’inondazione, della mancanza di elettricità, degli scioperi di minatori americani, e non è mai nostra, non si concluderà nulla di durevole. Si deve parlare delle deficienze nostre; e se a queste non poniamo rimedio, non c’è salvezza.

2°) Fino a quando non si riesce a stimolare l’accumulazione del risparmio – credo di aver sodisfatto l’onorevole Uberti – non bisogna forzare produzioni indiscriminate. Non basta produrre di più: questo occorre, ma non basta. Perché produrre di più in condizioni fallimentari ed antieconomiche, aggrava la crisi invece di risanarla. Sì, la produzione è elemento fondamentale, ma al fianco di essa bisogna vedere la formazione e l’afflusso produttivo del risparmio. Non basta naturalmente che il risparmio si formi: bisogna che questo risparmio affluisca effettivamente all’attività produttiva: e c’è un «iatus» che l’onorevole Einaudi mi sembra non sempre abbia colmato, anche dal punto di vista tecnico. Altri, come gli inglesi, gli svedesi e i norvegesi si sono sforzati di colmarlo.

Bisogna pensare che l’aumento di produzione può essere una parola d’ordine soltanto nella misura in cui ci sono provvedimenti atti a stimolare l’accumulazione di risparmio.

3°) Controllo dei cambi. La questione mi pare arcimatura. Spero che il Ministro Merzagora ci dirà cose definitive, perché mettere il dollaro a 350 e dare ai lanieri il 70 per cento sono tutti palliativi, che non sanano la malattia. Come sono fuggiti decine di milioni di franchi svizzeri e di dollari, ne fuggiranno ancora degli altri.

MERZAGORA, Ministro del commercio estero. Sono centinaia di milioni di dollari.

VALIANI. Io pensavo che fossero da 80 a 90 milioni di dollari, oltre ai franchi svizzeri, Però ammetto senz’altro che abbiano ragione gli onorevoli Dugoni e Merzagora, cioè che siano fuggiti centinaia di milioni di dollari. Tanto peggio! Si tratta adesso di farli rientrare: finché non li fate rientrare, l’emorragia non cesserà. La fuga non cesserà, qualsiasi provvedimento voi prendiate, se voi non determinate un cambiamento di rotta tecnico e psicologico per cui i dollari ed i franchi oro già fuggiti comincino a rientrare. Bisogna che il congegno tecnico e l’atmosfera psicologica sia tale che qualcuno cominci a far rientrare i suoi dollari, indipendentemente dalla minaccia dei carabinieri. Allora, forse, arresterete le ulteriori fughe. Ora, come si fanno rientrare i dollari? Del franco valuta, per esempio, se ne parla molto. Non si allarmi il Ministro Merzagora. Ho letto articoli su giornali che dicono di difendere la sua politica: sul Popolo e sull’Italia Nuova. Io non vorrei dire che siano cose non sensate; non sempre mi paiono però tecnicamente efficienti; e chiedo delucidazioni al Ministro.

Vogliamo esaminare la questione del franco valuta, così tipica del modo di governare in Italia, dopo la liberazione. Per un anno e mezzo è stata condotta un’eroica quanto vana lotta contro i mulini a vento del franco-valuta. Si era detto: è un pericolo, perché gli speculatori fanno rientrare in Italia i dollari e i franchi svizzeri, accumulati illecitamente. Quindi, eroica lotta contro questo terribile nemico.

Risultato: il franco-valuta è ufficialmente ammesso soltanto se è di fondi costituiti prima del marzo 1946; ma basta andare in galleria, aspettare qualcuno, il quale domanderà se vogliamo dollari. Gli si dirà: voglio del franco-valuta. Quello ci conduce presso una banca privata o un istituto religioso, si conclude del franco-valuta con tutti i crismi legali.

Dunque, eroica e inutile lotta. Ma il franco-valuta, con le sue evasioni, rappresenta ancora il pericolo minore; perché con esso i dollari, che escono da qui, tornano in forma di merci, il che è sempre un vantaggio, rispetto ai dollari che restano nascosti in Italia e non contribuiscono alla riserva della circolazione cartacea, o che restano in Italia. Quindi, questa lotta è una lotta contro i mulini a vento.

Si combatta pure contro una depravazione del costume e contro un modo di frodare il fisco. Ma si tratta di una depravazione che, paragonata ad altri modi, porta dei benefici, perché almeno tornano i dollari in forma di merci quando il Ministero autorizza delle importazioni in franco-valuta.

Se il Ministro Merzagora dirà che attenua le restrizioni poste al franco-valuta, io dirò che è uomo di buon senso; però questo è ancora insufficiente. Non si illuda di poter sanare la situazione soltanto con l’abolire la inutile lotta finora condotta contro i mulini a vento. È insufficiente tutto ciò, anche se mette la clausola che il 35 per cento dei viveri importati col franco-valuta deve passare allo Stato. Perché, o c’è statalismo completo, e quindi monopolio del commercio estero, oppure bisogna tener conto degli interessi dell’esportatore e dell’importatore. I prezzi dei viveri sono in aumento sui mercati mondiali, dappertutto; volete che l’importatore di viveri ceda allo Stato il 35 per cento della sua importazione? Può farlo. Ma a quale prezzo?

Se fissate un prezzo che non dà sufficiente guadagno all’importatore, questi presenterà le sue importazioni in modo tale, che il guadagno ci sia.

Quando lasciate la libertà all’individuo, dovete lasciargli una libertà che si confaccia alla natura psicologica dell’individuo; il quale non fa delle operazioni per aiutare il Governo o il Paese, ma per dare un guadagno alla sua azienda; e non può fare diversamente.

Se perciò voi volete col commercio estero aiutare a risolvere la situazione dei prezzi in Italia, dovete prendere altri provvedimenti oltre a quello di autorizzare il franco-valuta. Questa autorizzazione va bene in quanto liquida una situazione ridicola, ma non è un vero rimedio. Quali sono i veri rimedi? Sono due: l’uno abbinato all’altro.

Il primo è di mettere il cambio ufficiale del dollaro e delle altre valute al livello del loro corso sul mercato libero. (Io non parlo del cambio di esportazione che create voi con le licenze). Ebbene quando avrete adottato questo provvedimento e lo avrete fatto in forma tecnicamente adeguata, voi vi sarete messi in grado, in diritto, direi, di esigere le valute stesse. Non avrete più bisogno di dare il 30, 50, 70 per cento di valuta agli esportatori, ma potrete chiedere loro il 100 per cento della valuta, se la pagate al suo prezzo effettivo sul mercato corrente e tenuto conto del confronto dei costi e dei prezzi delle esportazioni dei vari Paesi.

Naturalmente sarà un’operazione difficile, perché c’è gente che tiene all’estero della valuta, non soltanto perché ci guadagna ma anche per una paura politica, per la paura di una guerra. Dovete trovare il sistema di fare in modo che le valute che comperate possano non rientrare totalmente in Italia. Lasciate all’estero un fondo che garantisca quelli che vi vendono delle valute all’estero. Vi sono esempi di banche private che fanno questo, banche dell’Europa centrale che in una situazione di instabilità monetaria e di instabilità politica acquistano all’estero valuta e solo in parte la fanno rientrare, perché se la facessero rientrare tutta, nessuno gliela venderebbe. È un problema che bisogna vedere con puri criteri tecnici, indipendentemente dalle speculazioni dei giornali di estrema sul corso del dollaro e via dicendo. Poi, destinate la parte delle valute così acquistate all’importazione di generi alimentari, è lo Stato che deve importarli se vuole ridurre i prezzi. Deve importare e deve fare quello che Schacht e Darré chiamavano «aufkaufen und manoevrieren». Non c’è una parola italiana equivalente che possa tradurre bene la frase tedesca: comperare in blocco e manovrare con quello che si è comperato. Lo Stato deve manovrare con le sue forze economiche. Questa è l’unica azione efficace sebbene adottata dai nostri nemici, per deprimere i prezzi. Carabinieri, guardie del popolo od altro in materia servono a nulla. È lo Stato che deve manovrare economicamente. Lo Stato vende le merci quando vuole deprimere i prezzi, perché se volete portare – come penso che il Ministro Merzagora voglia fare, anche se non oserà, perché si governa ancora così, farlo adesso – il cambio di esportazione e di importazione al suo livello reale, a 700, 800 o 900 per dollaro, dovete accompagnare questa operazione con manovre statali di tale natura. Studiatele! Ma una cosa se si inizia va accompagnata e seguita fino in fondo. Il Governatore della Banca d’Italia la inizi e la porti fino in fondo, arrivando fino al procuratore di un’agenzia qualsiasi di una banca in una via periferica di Milano, di Torino e di Genova, che ha da fare con coloro che producono e commerciano. Voi dovete vedere le cose dal punto di vista del Governatore della Banca d’Italia, ma anche dal punto di vista del procuratore di quella piccola agenzia di Banca di una via periferica milanese, torinese o genovese.

Evidentemente questo crea grossi problemi: tra cui una stanza di compensazione nazionale. Cosa faranno gli importatori che dovranno comperare dallo Stato le divise ad un cambio superiore di parecchio, del doppio forse, di quello che oggi pagano allo Stato. È la stanza di compensazione nazionale che dovete creare. Anche per questo vi occorre avere un minimo di riserve all’estero.

Quarto rimedio che dovete prendere in considerazione: la direzione del credito, quantitativa o qualitativa, sia bensì connessa con l’importazione e l’esportazione, come dicevo un momento fa, ma sia connessa, anche, come si fa oggi in Norvegia, con ordinazioni statali a certe industrie che sono obbligate a dar loro esecuzione. Non è il piccolo contadino, ma la grande industria che si può controllare. Queste ordinazioni statali si vigili che siano eseguite rapidamente, e naturalmente, lo Stato deve pagare dei prezzi remunerativi.

Tutto questo va visto indipendentemente dalle questioni elettorali. Se gli autisti di Roma vi chiedono della benzina perché si avvicina il 12 ottobre, e voi date un po’ di benzina in più perché questo fa bene alle elezioni, il vostro operato non è invece scevro da con siderazioni elettorali, e così non affrontate la situazione reale.

Si dirà che tutto ciò significa che il torchio non smetterà di lavorare. Onorevoli colleghi, forse che il torchio ha smesso di lavorare? No, non ha smesso di lavorare. La questione è soltanto questa: 1°) entro quali limiti può lavorare il torchio, e su questo punto l’onorevole Einaudi ci dà tutte le garanzie, e nessuno più di lui potrebbe dare garanzie più sicure; 2°) in cambio di che cosa lavora il torchio? Se lavora per sussidi che vanno subito in salari, in una situazione in cui la domanda ha ancora tendenza a sempre superare l’offerta, ogni emissione genera un aumento corrispondente dei prezzi. Fate invece lavorare il torchio soltanto contro qualche cosa la cui ripercussione sui prezzi sia molto più lunga. Questo è possibile. Se non fosse possibile, la teoria quantitativa della moneta sarebbe vera e sarebbe falsa quella della domanda e dell’offerta. C’è la possibilità: comperate valuta dagli esportatori ad un prezzo che ve la possono vendere e non li obbligate ad imbrogliarvi; comperate merci facendo ordinazioni statali alle industrie; insomma, dirigete l’inflazione. Nessuno può chiedervi, e vi illudete, se lo credete, di poter fare la deflazione, o anche semplicemente fermare sic et simpliciter l’inflazione, ma dovete dirigerla, per contenerla. Da tre anni non ci si vuol risolvere a dirigerla, perché non si vuole affrontare nessun provvedimento strutturale, e si adottano sempre i soliti espedienti.

Poi, verrà la questione del prestito di stabilizzazione estero, ma più in là. Più in là verrà pure la questione che pone il Presidente della Confindustria (lui la pone con uno scopo politico che mi trova suo oppositore): cioè trasferire la capacità di acquisto da un settore ad un altro che possa risparmiare. Verrà la questione del cambio della moneta; si rimporrà, onorevole Einaudi. Si tratta soltanto di vedere se darete la nuova moneta contro la vecchia moneta, sia pure in parte svalutata, oppure darete dei pezzi di carta.

Chiarite i rapporti tra il Tesoro e la Banca d’Italia. Chiariteli in modo che, se non nel 1948, almeno nel 1949 possiate chiedere un nuovo prestito all’interno, che oggi non potete lanciare.

Che cosa importa la votazione qui? Ve la dà il Paese, al quale non potete chiedere, in una situazione del genere, un prestito interno. Ecco la votazione.

Conclusione su questo punto: ci vuole l’onorevole Einaudi; non dico che ci voglia sempre nel Governo perché tanto, nel Governo, porta gli stessi criteri della Banca d’Italia, ma ci vuole l’onorevole Einaudi alla Banca d’Italia. Che poi sia anche Ministro del bilancio e Vicepresidente, questo, in fondo, è una questione di divisione del lavoro. Io voterò a suo favore se rimane, pur votando contro il Governo.

Una voce al centro. Ma come fa?

VALIANI. Però l’onorevole Einaudi non basta da solo: accanto a lui ci vogliono uomini che non si limitino ad assecondarlo e magari a tenere per sé le loro violente obiezioni, ma che facciano essi quella manovra più larga monetaria e di commercio estero. Che abbiano il coraggio di farla, perché il Ministro Merzagora ne ha la capacità, ma non basta la capacità…

Qualche volta si sono presi questi uomini dal mondo della industria o della finanza. Niente di male. Mussolini ha trovato Beneduce ed altri, che evidentemente sapevano il fatto loro. Trovateli dove volete, nel mondo della politica o fuori d’esso, non importa, però fate in modo che abbiano diritto di agire, essi, senza aspettare che il Presidente del Consiglio abbia terminato di riflettere sulla utilità delle dilazioni. Perché se il Presidente del Consiglio non viene scosso, continua a dilazionare. Crea una partecipazione di sinistra, poi una di destra: ha il genio delle combinazioni.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non sono combinazioni geniali, sono necessità. Se potessi farne a meno, ne farei.

VALIANI. Ho già detto che riconosco in lei un vivissimo senso dello Stato che è superiore agli interessi particolari, ma quando scende da questa sua forza morale e scende sul terreno dei provvedimenti effettivi, allora si ritrova nelle combinazioni.

C’è da mettere in crisi tutta la politica finora seguita dei debiti, dei rimedi, degli espedienti e farne un’altra. Non dire che l’abbiamo messa in crisi in giugno; in giugno avete continuato la politica precedente; siete andati avanti come prima, aggravandola con qualche intemperanza dell’onorevole Scelba e dell’onorevole Gonella. Contro di voi sono all’opposizione dal 1945.

Vengo al professore Ronchi. Il professore Ronchi ha detto molte cose giuste. Ci ha detto che nel campo del grano manovriamo. Professore Ronchi, finora avrete manovrato, ma finora i risultati sono negativi. I risultati finora si vedono dalle bancherelle di pane bianco che sono in via della Croce, in via del Babuino, di fronte al vostro Ministero, da per tutto. E i prezzi aumentano sempre.

Voi dite che questo prova che la politica che voi seguite è dura, e quindi costringe i prezzi del mercato nero all’aumento per l’accresciuto rischio.

Onorevoli colleghi, è diventato più pericoloso vendere il pane bianco a Roma? Lo si vende con la stessa facilità. Se, uscendo, vogliamo andare a colazione insieme, io vi posso portare dove si vende il pane bianco; non parliamo poi dei ristoranti.

Non è vero, quindi, quello che dite, che l’ascesa dei prezzi sul mercato nero prova soltanto che voi fate delle restrizioni…

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ha detto perché il raccolto è stato scarso: questa è la ragione fondamentale! (Commenti).

VALIANI. Io ho preso appunti del suo discorso, anche perché ho altissima stima del professore Ronchi, un tecnico che ha collaborato con noi durante la guerra partigiana e che ci ha dato il massimo ausilio alla vigilia della liberazione e dopo. Però questo fatto non toglie nulla alla critica. Si è anche parlato dello scarso raccolto e ne parlerò anche io, nei riguardi della politica estera. Ma il professore Ronchi ha anche affermato che i prezzi vanno su anche dove e nei settori nei quali non c’è stato uno scarso raccolto.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Precisamente perché la deficienza del grano porta come conseguenza un aggravio sugli altri prodotti.

VALIANI. I prezzi delle uova, per esempio, dei prodotti ortofrutticoli, delle galline, della carne, ecc. Perciò avete anche detto che i prezzi vanno su perché è più rischioso venderli al mercato nero. Sullo scarso raccolto del grano avete ragione, ma sulla questione del rischio, no. Né io vi proporrò di mandare in giro poliziotti. Mandateli pure in giro, se li avete, e, se non li avete, forse la colpa è dell’onorevole Scelba che li adopera per lacerare manifestini.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Ci sono state 200 contravvenzioni, a Roma soltanto!

VALIANI. Del resto, noi abbiamo aumentato l’organico della Guardia di finanza: speriamo che avrà risultati benefici!

Fate pure; però la situazione non si risolve con questi mezzi.

Questione del contingente. Anche qui, quali sono i prezzi? se volete che si produca più grano, occorre stabilire un prezzo equo per gli agricoltori.

Il piano francese fatto da Fanguy Prigeant, un socialista, batte in sostanza la stessa strada della battaglia del grano. In Francia quest’anno sono stati seminati a grano 3,3 milioni di ettari; l’anno prossimo si vuole che siano seminati 5,3 milioni di ettari. È un’impresa molto ambiziosa, una vera e propria battaglia del grano, speriamo senza il bluff che l’accompagnava da noi. Comunque, anche da noi c’era qualche cosa da imparare in proposito. Ma a ciò si richiedono sementi, concimi, trattori. Di queste cose, della manovra del Governo per assicurare queste cose, parlateci e mettetele maggiormente in rilievo in confronto ai guai dei mercati mondiali, che tutti conosciamo.

Non sappiamo cosa faccia il Governo, sappiamo solo cosa dice: seminate più grano. Noi supponiamo che faccia moltissime cose. Certo le farà. Ma chiediamo che ci spieghi quali sono i provvedimenti che intende adottare. Il Governo francese dà atto di questo; io penso tuttavia che la politica alimentare generale di Ramadier sia stata finora sbagliata come la nostra, anche se è vincolista in confronto alla nostra, definita liberista. È sbagliata perché fa conto sulla polizia, e il contadino sconfigge tutte le polizie. La polizia fa del bene in determinati settori, ma non contro i piccoli produttori indipendenti, per le ragioni ovvie che potete trovare in tutti i testi, da Adamo Smith a Carlo Marx. Questa è la realtà di tutti i Paesi, in tutti i regimi politici: in Inghilterra, in Francia, in Russia, dappertutto. La polizia, per queste cose, non va bene. All’agricoltore non si deve mai imporre, come fu imposto all’inizio dei Governi di guerra, i prezzi con la polizia; questa impostazione di agire con la polizia sui prezzi agricoli ha viziato la situazione sotto ogni aspetto e in ogni suo settore, portandoci sull’orlo del fallimento.

Calcolate, domandate che cosa ci vuole perché il contadino produca più grano o più bestiame: questa è la questione. La questione dei contingenti è giusta solo se la vedete sotto tal punto di vista; in caso contrario, invece, si può star certi che i contingenti falliranno come è fallito il tesseramento, come fallirebbe quello differenziato.

Il professore Ronchi, che è un maestro in questa materia, dovrebbe pungolare il Presidente del Consiglio continuamente su queste questioni.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Le manderò il testo del discorso che ho tenuto ai tecnici agricoli.

VALIANI. Bene. Io purtroppo ho letto solo quello del Presidente del Consiglio, del quale sono dolente di dover dichiarare che non son rimasto soddisfatto, perché vi ho trovato una mentalità che non mi ha per nulla convinto. Si parla in esso di vincolismo e di liberismo e di strada di mezzo fra i due sistemi; ma quel discorso, a mio giudizio, ripete ancora quello che è stato l’errore fondamentale di tutti gli uomini di Governo che si sono succeduti da Mussolini in poi: l’errore di voler difendere a tutti i costi il proprio Governo. Ma lasciate da parte simili preoccupazioni: cosa vi importa se vi criticano? Voi non fate che interessarvi di quello che scrivono i giornali dell’opposizione: cosa scrive l’Unità? Cosa scrivono i giornali di destra? L’onorevole De Gasperi ha fatto dei progressi: si occupa solo dei giornali di Roma, mentre Mussolini si occupava di quelli di Parigi. Ma non vi occupate di queste cose.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio del Ministri. Io non ho fatto nessuna polemica con l’opposizione: che testo ha in mano lei?

VALIANI. Ma lei ha parlato di vincolismo e liberismo e di altre cose del genere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Non è vero nemmeno questo.

VALIANI. Queste cose io non le dico perché voglia determinare qualche voto di più contro di lei: non ne ho la forza, e comunque userei allora altri argomenti. Voglio soltanto richiamare la sua attenzione sul fatto che, nonostante vi sia un autentico tecnico al Commissariato per l’alimentazione, noi non siamo ancora sulla via del risanamento in questo settore. Come affrontate voi la situazione? Qui si dovrebbe parlare di sovvenzioni: ecco dunque perché io vi parlo di politica economica generale.

È stato chiesto al Ministro dell’agricoltura nella Commissione delle finanze e del tesoro: questi sei miliardi che oggi vi concediamo, come li spenderete? È stato risposto: noi manderemo in giro degli ispettori, che ripartiranno questa somma ad occhio e croce. Noi stiamo facendo tutto ad occhio e croce da parecchi anni; e lo faceva Mussolini prima di noi, anche se nella sua battaglia del grano qualche elemento non approssimativo c’era; bisogna riconoscerlo.

La mia conclusione è semplice: fate una politica alimentare economica; lasciate da parte le polemiche sul vincolismo e il liberismo; occupatevi di come vengono spesi i sei miliardi e di come saranno spesi i miliardi successivi, e venite a dircelo. Questa è la questione; il resto è accademia.

E veniamo alla politica estera.

La nostra politica estera è talmente illusoria, onorevoli colleghi, che abbiamo potuto persino vedere dei rallegramenti tra gli uomini responsabili di essa, per il fatto che la Russia ha ratificato il trattato di pace. È vero che poi ci si accorse e si disse che questo rappresenta una mutilazione dolorosissima per tutti noi; ma rimase la convinzione che questa ratifica significasse una distensione e un contributo alla pace. Non è stata né una distensione né un contributo alla pace, né da una parte né dall’altra.

Se la Russia non aveva ratificato in un determinato momento, non era già perché volesse nuocere alla pace, e se ha ratificato in un momento successivo, non è perché voglia giovare alla pace. Guardate, essa ha una sua politica estera; magari l’avessimo anche noi; non quella, s’intende, della Russia, ma una altrettanto efficace e coerente: anche i piccoli Paesi, e noi non siamo un piccolo Paese, devono avere una loro politica estera coerente. In ogni modo, la ratifica da parte della Russia è venuta in ritardo per permettere a questa di giocare sulla questione dell’O.N.U. Io lo avevo predetto al conte Sforza. Il ritardo dei Russi è dovuto a questo: che essi non potevano affrontare la questione dell’ammissione dei paesi ex nemici all’O.N.U. se non con l’arma del ritardo della ratifica, della loro ratifica, perché la nostra non contava, come non doveva contare. In agosto i russi non potevano, data l’imminenza delle elezioni ungheresi, sostenere, come avevano interesse a sostenere, l’ammissione dell’Ungheria nell’O.N.U. Si tratta di voti: un Paese nell’O.N.U. vota in un senso, un altro in un altro. Disgraziatamente è così, e l’unico rimedio sarebbe se un Paese prendesse l’iniziativa di dire: io voto secondo i miei interessi, e non per questo o quel blocco.

Cosa ci dice a proposito di questa lotta in corso, all’O.N.U., l’intransigenza russa? Domani nel pomeriggio ci sarà la decisione; è stata respinta una proposta di deferire la questione ai cinque «Grandi». Questo forse ci giova. Forse domani nel pomeriggio ci potrebbe anche essere la nostra ammissione, forse barattata con quella della Finlandia, forse con quella dell’Ungheria. Forse saremo respinti.

Quale è l’atteggiamento del Ministro degli esteri? Ecco quanto scrive il Momento Sera, giornale diffuso a Roma (se qualcuno ha letto questa mattina la smentita di Palazzo Chigi, mi interrompa):

«Il portavoce di Palazzo Chigi, interrogato a proposito del dibattito che si svolge oggi al Consiglio di sicurezza circa l’ammissione dell’Italia all’O.N.U, ha dichiarato che l’Italia ha seguito con molta attenzione le varie fasi, ecc.»: e questo si intende; ed ecco le parole testuali:

«Le parole del Ministro Bidault circa l’apporto essenziale e necessario dell’Italia alla organizzazione della pace nel mondo sono state giustamente apprezzate dal Governo italiano. L’Italia ha ora tutti i requisiti per essere ammessa: secondo quanto contempla lo statuto delle Nazioni unite, l’Italia ha ben dimostrato di avere un Governo democratico e amante della pace per aspirare alla ammissione. Ma si sono visti – udite! – in questi ultimi giorni, mercanteggiamenti poco simpatici e soprattutto contrari alle finalità ed ai principi stessi dell’O.N.U; la nostra ammissione verrebbe compromessa se insieme con noi non entrassero all’O.N.U. Paesi che, a torto o a ragione, sono considerati dalla maggioranza dell’Assemblea come diretti da Governi non sufficientemente democratici».

Il portavoce autorizzato del Ministero degli esteri in una situazione in cui, domani nel pomeriggio, occorre che la Russia receda dal suo veto, perché, altrimenti, noi non saremo ammessi, prende posizione per la tesi americana propagandistica in una questione che maschera il conflitto sostanziale fra Russia e America. Cosa credete che quelli prendano per buone le parole che dicono, cioè, le parole che l’America dice sui Paesi non democratici? Ma che credete che l’America non sappia che in Turchia non c’è democrazia? Credete che il Generale Marshall, il quale ha fatto un rapporto terribile sulla politica cinese (ed un altro rapporto ha fatto ora il generale Weydemasser) credete che non sappia quanto sia manchevole lì la democrazia, anche se il cinese è un popolo eroico che ha lottato contro gli oppressori giapponesi e nazisti? Volete che la Russia non sappia che non c’è democrazia in Albania? Certo che lo sa.

Ma gli americani questo lo fan credere, perché così giova alla propaganda americana. Se voi sposate le tesi della propaganda americana, è logico che la Russia vi consideri acquisiti all’altro blocco.

È questo il punto fondamentale. La questione dell’indipendenza. Questo è fondamentale! Non la democrazia! Scusate, lasciatelo dire a me che sono militante democratico.

La questione fondamentale è: chi evacuerà per primo i Paesi occupati, chi evacuerà per primo la Germania, e in quali condizioni? Questo è il sostrato delle liti all’O.N.U.; e allora, perché noi facciamo finta di credere (se poi non facessimo finta, allora saremmo veramente degli sciocchi!) alla propaganda anglo-americana che per sue ragioni polemizza contro i mercanteggiamenti dei russi? Senza mercanteggiamenti non si fa politica! Diversamente, è meglio che andiamo ad insegnare in un collegio di educande! È logico che un Paese faccia i mercanteggiamenti che gli convengono. L’America dice che non c’è democrazia in Ungheria. In sostanza con questo vuol dire solo che in Ungheria ci sono ancora truppe sovietiche. L’Ungheria ha sette secoli di storia parlamentare, l’Ungheria è un nobile Paese di tradizioni parlamentari; ma tuttavia mai, fuorché nel 1905, un’opposizione riuscì a vincere le elezioni in quel Paese. Ma dobbiamo perciò concludere che l’Ungheria non è degna di sedere nel consesso dei Paesi civili? Ogni Paese ha una situazione particolare.

Delle elezioni attuali in Ungheria l’onorevole De Gasperi non dovrebbe lamentarsi perché i due partiti della democrazia cristiana magiara (quello più grosso capeggiato dal Gonella ungherese e quello più sottile capeggiato dal Gronchi ungherese) hanno riportato insieme il 25 per cento dei voti mentre il partito comunista ne ha riportato il 22 percento. Ci saranno stati anche soprusi e trucchi elettorali, come descrive in dettaglio un giornalista liberale, il quale del resto dichiara di non essere mai stato in Ungheria. Può darsi benissimo. Ma non crediate che l’America, la quale non ha mai protestato contro l’ammissione dell’Ungheria alla Società delle Nazioni, quando in Ungheria c’era il voto ristretto e palese, non crediate che protesti per ragioni di democrazia: protesta solo perché non vede ancora evacuato il paese dalle truppe russe, protesta solo perché vi sono contingenti russi anche in Ungheria. Si tratta dunque di un conflitto strategico. Perché dite dunque che noi respingiamo i mercanteggiamenti e ci facciamo giudici degli altri?

Onorevole Sforza, lei stamane doveva fare smentire queste insinuazioni così delicate!

Io spero che domani ci sarà l’ammissione dell’Italia all’O.N.U. Può darsi che la Russia all’ultimo momento valuti giustamente il peso di 46 milioni di italiani; ma se saremo ammessi, sarà solo per questo, e non perché il principio democratico valga all’O.N.U.

Vi credeva Wilson, ma quando si è mai visto nella realtà che i rapporti fra le grandi Potenze sono regolati dal principio democratico?

Quando l’ideale degli onorevoli Einaudi e Sforza ed anche il mio, degli Stati Uniti d’Europa e del mondo intero, sarà realizzato, allora sì, avremo democrazia internazionale.

Per il momento parliamo delle cose che esistono, dei conflitti strategici fra le grandi potenze davanti alle quali dobbiamo dare l’impressione di essere assolutamente indipendenti. Se domani la Russia votasse la nostra ammissione all’O.N.U. sarebbe in parte per una certa pressione del blocco americano, in parte perché potrebbe aver valutato che la situazione in Europa è tale che non le convenga avere un altro paese ostile. Su questo gioca il voto. Non potevate credere che ci si ammetteva all’O.N.U. semplicemente perché avevamo firmato il Trattato di pace. Forse domani saremo ancora respinti all’O.N.U.

Vediamo un po’, chi dei nostri Ministri è andato a Mosca? Un ottimo ambasciatore. Io lo difenderò, non come ambasciatore, perché io non lo conosco come tale, ma come uomo politico.

NITTI. Come fautore dell’autonomia della Val d’Aosta ha aperto la via al disastro dell’Italia.

VALIANI. Quando c’è la questione dell’O.N.U. si mandino in giro due, tre uomini politici per persuadere Vishinsky e dimostrargli che noi non voteremo sempre con gli americani, se fossimo ammessi. La questione è tutta qui. Spieghiamoglielo perché alla Russia non importa sapere ciò che noi pensiamo della democrazia in Ungheria, però le preme moltissimo di sapere come voteremo, una volta ammessi nell’O.N.U., perché questo sarebbe un indice del grado di adesione del nostro Paese ad un blocco strategico contro un altro blocco strategico.

Molte cose io dovrei ricordare al Ministro degli esteri. Per esempio, abbiamo firmato il Trattato di Pace, ma come ci presentiamo alla Conferenza delle colonie? Per esempio, l’Inghilterra, che ha voluto la ratifica del nostro Trattalo di pace, sulla questione delle colonie si potrebbe mettere d’accordo con la Russia.

Si delinea forse un certo distacco dell’Inghilterra, su certe limitate questioni, dall’alleanza americana e si delinea qualche flirt con la Russia. Potrebbero forse mettersi d’accordo per le nostre colonie, mentre invece è interesse dell’Italia che la Russia ci sostenga nei confronti dell’Inghilterra per le colonie così come era evidente l’interesse nostro che l’America ci sostenesse nella questione di Trieste nei confronti della Russia.

Trattati di commercio. È vera l’informazione che ho, che tutti i nostri trattati di commercio sono andati a male, o se non sono andati a male, non rendono? Ci sono trattati di commercio che danno buoni risultati? Questo desidererei sapere. O è vero invece che tutti i trattati di commercio, nessuno eccettuato, non hanno dato buoni risultati? C’è un trattato violentemente attaccato dalla stampa, quello con la Jugoslavia. Vi è anche un altro trattato, pure attaccato dalla stampa, quello, ancora in elaborazione, con l’America. La stampa ha il diritto di attaccare. Ma bisogna rispondere, signor Ministro degli esteri.

Piano Marshall. Io approvo completamente il Ministro degli esteri quando aderisce al piano Marshall, però tenete conto di alcuni elementi. Primo, della natura stessa del piano Marshall che è tale per cui, appena si annuncia, fa aumentare i prezzi delle merci che ci saranno fornite. Esistono ormai le statistiche americane che fanno temere una situazione come quella per cui il prestito all’Inghilterra è diminuito di valore perché i prezzi sono andati su.

Non dimenticate che anche in America c’è una situazione di inflazione, anche se diversa dalla nostra.

Secondo: la tendenza determinata nella economia mondiale dal piano Marshall è tale che i prezzi delle nostre esportazioni hanno tendenza a diminuire. Questo abisso che c’è fra esportazioni americane ed europee non è facile a colmare. Questa non è una ragione per non aderire al piano Marshall, ma per aderirvi realisticamente e per seguire la situazione passo per passo. So che i nostri delegati hanno fatto a Parigi tutto il necessario, e spero che sentiremo anche la loro voce. Ma non basta; non tutto è loro compito: non è una delegazione riunita a Parigi o a New York che può decidere, ma sono i Governi direttamente.

Questi sono problemi fra Governo e Governo, malgrado il piano Marshall rappresenti l’unificazione tendenziale dell’economia europea. Sono i Governi sovrani e non le delegazioni che possono risolvere le grandi questioni.

Quindi, aderiamo al piano Marshall, seguiamolo fino in fondo; ma non creiamo illusioni e soprattutto seguiamo passo passo (questa è la questione fondamentale) il banco di prova del piano Marshall, fondamento dei prezzi. Da questo dipende la sorte del nostro Paese e di tutti i Governi che hanno aderito al piano Marshall. Di queste cose bisogna parlare, questa è la questione da porre; e se un Ministro degli esteri va a Parigi in occasione del piano Marshall, dica questo agli americani. Gli americani già lo sanno, lo apprendiamo dai loro giornali. Il Governo italiano non è in grado di illuminarci o non lo vuol fare. Ma una cosa è che lo sappiano gli economisti americani, e altra cosa è che il Governo americano ne tragga conclusioni politiche.

Non basta sapere che esiste la miseria; altra cosa è agire, avere la volontà e la capacità di agire. Si deve scuotere il Governo americano e dirgli che agisca su questa situazione, altrimenti con questo piano creiamo illusioni e deviamo il corso dell’economia europea. Questo devo dire al Ministro degli esteri. Invece, quando va a Parigi, egli parla di altre cose. Prendo atto della smentita dell’onorevole Sforza. Lo conosco: è un democratico sincero, un combattente della democrazia. È evidente che a Parigi non ha detto – sarebbe antidemocratico – quelle cose che la stampa gli ha attribuito.

Ad ogni modo ha fatto male a scivolare su questo terreno: è un terreno che si presta sempre ad equivoci. Questi sono temi che vanno bene nella nostra propaganda elettorale quando andiamo nel collegio elettorale, non a Parigi. Tanto è vero che, mentre il Ministro degli esteri ha smentito (io credo alla sua smentita), tutta la stampa internazionale ha pubblicato le sue pretese dichiarazioni e nessun giornale ha pubblicato la smentita. Sia il New York Times che il Figaro hanno pubblicato la sua dichiarazione ma non la smentita. Ieri uno dei grandissimi giornali di New York ha pubblicato tutto un articolo di fondo sul dibattito che si svolge in quest’Aula. Quel giornale sostiene l’onorevole De Gasperi. È un giornale che considera i comunisti pericolosi; vede con piacere un Governo senza i comunisti.

Ma ecco, l’analisi del giornale comincia così: «come il conte Sforza ha detto efficacemente a Parigi, quest’inverno, se non ci saranno gli aiuti di grano, ci sarà il comunismo in Italia». Questo, come è rappresentato dalla stampa americana, ha la sua importanza. Bisogna essere più cauti.

L’onorevole Nenni ha sollevato una polemica col conte Sforza, circa l’influenza americana sulla nostra politica interna.

Influenza diretta non c’è stata. Però, io devo leggervi quello che scrive su un grande giornale americano lo Shirer, che fu a Berlino capo della più grande agenzia di stampa americana e che ha scritto un libro di successo fantastico sulla politica tedesca tra il 1939 e il 1941. Egli previde l’aggressione tedesca in Russia.

Ecco cosa scrive lo Shirer: «Il dipartimento del Segretario di Stato Marshall potrebbe essere più franco nello spiegare e chiarire queste cose: perché il nostro popolo non deve sapere, perché non gli deve essere detto francamente che i responsabili della nostra politica hanno deciso che è nell’interesse degli Stati Uniti di contenere l’espansione russa (si riferisce ad uno dei capi del dipartimento di Stato) e la diffusione del comunismo nell’Europa occidentale e nel Mediterraneo; e che, per accompagnare coi fatti questa decisione, noi siamo obbligati a fornire armi alla Grecia e alla Turchia, e non già perché crediamo di salvare la democrazia in questi paesi antidemocratici? Che noi per lungo tempo siamo intervenuti negli affari interni dell’Italia e che, in primo luogo, il nostro intervento nel giugno scorso ha indotto De Gasperi a gettare i comunisti fuori del Governo ed a sostituirvi un Governo con democristiani e indipendenti di destra, la cui maggioranza nel Parlamento eletto democraticamente è esigua?»

Non so e non credo che lo Shirer sia bene informato sulle reali intenzioni del Governo. Ma è stato il primo a mettere in guardia contro la tendenza, che in America esiste, dell’intervento politico anticomunista in Europa. Nel febbraio predissi qui alla Costituente che proprio l’ascesa del generale Marshall, avvenuta nei giorni in cui l’onorevole De Gasperi era in America, avrebbe significato, se non cambiamento totale di rotta, tuttavia affiancamento alla politica di intervento anticomunista di una nuova politica costruttiva.

Penso che Marshall ripudierebbe le affermazioni spesso attribuitegli, ma non penso che queste affermazioni siano al cento per cento campate in aria; penso che bisogna far rispondere da altri giornali. Un uomo di Stato italiano può scrivere una lettera ad un grande giornale americano e dire: «Guardate, noi non facciamo dell’anticomunismo per far piacere all’Occidente».

Shirer è uomo democratico, che rappresenta il liberalismo americano; egli ha scritto molti articoli, di grande ripercussione, contro il governo Tsaldaris in Grecia, per un Governo di unione nazionale democratica, che oggi si è formato.

Perché un nostro uomo di Stato non scrive una lettera pubblica? Questa è la cosa da fare, se si vuole dimostrare alla Russia che non facciamo una politica unilaterale. Non bisogna lasciar correre che i giornali pubblichino una smentita in Italia ma non all’estero, mettendo in giro versioni del tutto diverse. Dico questo indipendentemente dalla partecipazione dei comunisti al Governo, sulla quale le mie opinioni non coincidono necessariamente con quelle di Togliatti.

È nostro interesse, è interesse nazionale, tutelare la nostra indipendenza e non crearci un nemico nella Russia. Un altro giornalista americano, anche egli molto noto, Alsop, più a destra di Shirer che è più a sinistra, che si trova ora in Europa, sta scrivendo degli articoli molto interessanti in cui si dicono molte cose esatte. Egli ha parlato con molti uomini politici italiani e conosce la nostra situazione. (A parte certe inesattezze: per esempio credeva che Secchia e Moscatelli avessero organizzato le Brigate internazionali in Ispagna, ignorando che Secchia e Moscatelli, al tempo della guerra di Spagna, erano in carcere e parteciparono invece poi alla nostra guerra partigiana). Alsop fa una buona analisi della situazione economica italiana, ma lega in ogni articolo codesta questione del grano e degli aiuti con la questione di avere il Governo senza i comunisti.

È una questione preoccupante perché questi grandi giornali formano l’opinione pubblica americana. Nel 1948 il Congresso dovrà decidere sul «piano Marshall» e ci saranno le nuove elezioni presidenziali in America. Se noi diamo in America, o lasciamo che si dia, l’impressione che ci possano essere interferenze da parte loro nella nostra politica interna, irrimediabilmente noi avremo delle reazioni russe. Noi sappiamo che come l’America, anche la Russia interviene nella sua zona d’influenza. È per questo che siamo contrari alle zone d’influenza. Però, il fatto che la Russia intervenga non è una buona ragione perché ci lasciamo mettere allo stesso livello della Rumenia. La Rumenia, badate, è un degno grande Paese nobile e civile: ma ha solo 17 milioni di abitanti; mentre noi ne abbiamo 46 milioni e possiamo fare una politica più autonoma di quella della Rumenia. Dico la Rumenia perché è un paese al quale vanno tutte le nostre simpatie in quanto rappresenta la nostra stessa cultura in quella parte d’Europa. È anche un Paese democratico, che ha realizzato una grande rivoluzione agraria ed ha eliminato le più gravi e stridenti ingiustizie sociali e la malfamata corruzione della vecchia classe dirigente.

TOGLIATTI. Se fosse stata in zona americana non l’avrebbe fatto!

Una voce al centro. Muoiono di fame, in Rumenia!

VALIANI. Questi giudizi non ci interessano. Ci interessa il fatto che noi non dobbiamo essere fieri del fatto che si esclude la Rumenia quando l’Italia è esclusa.

Dobbiamo essere indipendenti proprio perché esiste il pericolo di una guerra. Oggi siamo nella zona americana, onorevole De Gasperi, ma non possiamo sapere in quale zona saremmo se disgraziatamente ci fosse un conflitto armato. È interesse che in Italia ci sia un Governo deciso a tutelare solo gli interessi nazionali e l’indipendenza e che dica che noi non siamo nemici di nessuno, se non di chi ci invade. Questa è una questione che non è stata con abbastanza forza riaffermata all’estero dal nostro Governo. Il nostro Governo deve avere questo coraggio, e deve buttar via il complesso di inferiorità che abbiamo verso chi ci aiuta. Per chi ci aiuta dobbiamo avere gratitudine e riconoscenza, ma non complesso d’inferiorità. Essi sono in 130 milioni ma anche noi non siamo pochi: 46 milioni. C’è la bomba atomica, che vince le guerre, d’accordo, ma ci sono anche i «grossi battaglioni», come diceva Napoleone. La Russia ha 200 milioni di abitanti!

Non lasciate che la stampa del mondo intero e gli uomini politici di molti Paesi, se non di tutto il mondo, ci considerino come irrimediabilmente legati ad una determinata costellazione strategica.

Può darsi benissimo che dal punto di vista sentimentale e spirituale noi siamo più vicino agli occidentali che agli orientali. È una questione di preferenza individuale; è possibile che spontaneamente, se si potesse interrogare il popolo italiano su questo, esso andrebbe verso gli americani; forse anch’io farei lo stesso: forse li conosco di più, non conosco i russi. L’onorevole Sforza dice che i russi sono sospettosi, ma io non ne so niente. Può darsi che sia vero il contrario, e può darsi che abbia ragione Togliatti per cui in Romania c’è la riforma agraria grazie ai russi, e che ci sarebbe stata anche qui se fossimo stati occupati dai russi. Sono questioni che ci possono dividere o non, però la politica estera deve apparire univoca e chiara.

Tutto quello che è stato scritto sul conte Sforza a Parigi, sul nostro cambiamento di Governo, sulla nostra domanda di ammissione all’O.N.U., sui mercanteggiamenti che un portavoce autorizzato di Palazzo Chigi disprezza perché crede alla politica estera senza mercanteggiamenti, tutto quanto si scrive sui giornali americani e francesi su questo dibattito, prova che tutti pensano all’estero che invece ci sia l’intervento su di noi, che noi lo subiamo e che ci conformiamo ad esso. Fatelo smentire. Per i fatti non voglio fare critica all’onorevole De Gasperi e al conte Sforza, però ai fatti devono anche seguire le manifestazioni diplomatiche. I nostri rappresentanti all’estero e più ancora il Ministro degli affari esteri, devono tener questo linguaggio coraggioso e dire: «Signori, non è questione di comunismo; questa rientra fra le questioni interne. Il fatto che voi ci aiutiate, che noi aderiamo al vostro piano avviene perché economicamente è necessario che ciò si faccia».

Dobbiamo affermare un minimo di indipendenza, se no avviene quello che è avvenuto con gli accordi economici con l’Inghilterra, che il conte Sforza ci ha citato come una prova dell’urgenza di ratificare il Trattato di pace; se no, egli diceva, quegli accordi non entravano in vigore. Io gli ho risposto che, quando si discusse alla Camera dei comuni di quegli accordi, ci furono delle risate e il Ministro Bevin disse che a Roma si erano valutati quegli accordi ben diversamente da come li valutavano a Londra. Questo lo ricordo perfettamente ed i verbali ne dànno prova.

Quale la sorte di quegli accordi? Uno di essi, quello concernente i pagamenti fra i Paesi compresi nell’area della sterlina, ha lo scopo dichiarato di rendere la sterlina convertibile.

È la triste realtà. Ce la racconterà l’onorevole Einaudi: venti milioni di sterline congelate. L’accordo contiene una clausola in cui si dice che: se l’uno o l’altro dei Governi muterà la sua politica monetaria in modo da interferire con le disposizioni del presente accordo, i due Governi riesamineranno gli accordi stessi, al fine di introdurre gli emendamenti che si rendano necessari». Spero che ci sia anche il nostro riesame in corso; però il Belgio ed altri Paesi che avevano sterline, nelle sei settimane di libera convertibilità della sterlina, hanno fatto quello che ha fatto ogni uomo di affari privati, cioè non hanno lasciato che le sterline si congelassero tutte e ne hanno portato via una parte. Noi le abbiamo avute tutte congelate. Lo spirito col quale fu negoziato l’accordo ci ha svantaggiato nella questione delle sterline. Noi abbiamo combattuto a fianco degli inglesi. Se ci trovassimo in un’altra guerra, forse saremmo ancora alleati degli inglesi, non si sa. Abbiamo una massima ammirazione per la civiltà inglese, ma in questioni di affari cessa l’amicizia. Si tratta di vedere gli affari nei loro termini reali confacenti agli interessi di un determinato Paese.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Se gli inglesi hanno disdetto il loro accordo vuol dire che quando lo facemmo era favorevole a noi.

VALIANI. Non è esatto. Non è stato disdetto dagli inglesi. Gli inglesi hanno sospeso, non già per noi, ma per il mondo intero, che conta cento volte più sterline di noi, la convertibilità della sterlina; l’hanno sospesa perché ci sono stati troppi ritiri di sterline, perché qualche Paese è stato più accorto del nostro. Non dico che l’accordo fosse sbagliato, ma bisognava oltre a concluderlo seguirne l’effettiva esecuzione con una vigilanza continua e costante e non lasciarsi sorprendere dagli avvenimenti. Non crediamo di essere sempre alleati. Siamo stati alleati, anche se l’onorevole Nitti lo nega, durante i diciotto mesi di cobelligeranza; eravamo spiritualmente alleati anche prima. Io mi sono sentito alleato dal 1940. Questione discutibile fra di noi. Siamo stati alleati fino all’aprile 1945, fino all’insurrezione, anche nei mesi successivi se volete, quando ci venivano rifornimenti esclusivamente di carattere umanitario e quando gli Alleati avevano la responsabilità di governarci. Adesso l’abbiamo noi questa responsabilità. Io vorrei che fossimo loro alleati, perché l’alleanza significherebbe che abbiamo un peso tale da poter trattare da pari a pari, se no non è alleanza. Avere un peso da poterci alleare con l’Inghilterra, con l’America, con la Russia, come fa la Francia che gioca su questa situazione: queste sono le cose da imparare dal Ministro Bidault e non i suoi discorsi sulla democrazia!

Ecco la questione fondamentale della nostra politica estera. C’è una nostra dipendenza acutissima dall’America. Tutte le statistiche provano che questa dipendenza non potrebbe essere ovviata totalmente commerciando di più con l’Europa orientale. Questo è vero, ed evidentemente pesa. Gli scambi con l’America sono oggi più forti di quelli con l’Occidente europeo e di quelli che potrebbero essere con l’Oriente europeo anche se facessimo una politica estera più aperta verso quei Paesi. Però, veda, onorevole Sforza, di cambiamenti negli scambi ve ne sono, se non di anno in anno, ogni qualche anno. Ci sono stati periodi in cui la Russia esportava più grano dell’America. Possono tornare quei periodi. Dovete lasciare le porte aperte. Nell’altro dopoguerra l’Ungheria e la Romania avevano la crisi per esuberanza di grano che non sapevano come esportare. Questi periodi possono tornare fra quattro o cinque anni. Dipendiamo oggi dall’America. Teniamo realisticamente conto che è fenomeno transitorio, come sono transitori le varie potenze degli eserciti e i vari andamenti dello spirito dei popoli. Quello che deve essere tenuto fermo, in questi mutamenti che noi non possiamo indovinare, è l’esistenza di una politica estera nostra, che mira sì alla federazione europea, agli Stati uniti del mondo intero, ma mira soprattutto a mantenere in questa terribile tempesta l’autonomia totale della politica italiana, che sia tale non solo nei nostri cervelli e nella nostra volontà, ma anche nel giudizio che danno di noi all’estero dall’una o dall’altra parte. In questo senso e con questi presupposti potremo effettivamente cooperare con tutti i Paesi che aderiscono al Piano Marshall; fare la politica con l’America, ma senza mai rompere i ponti con l’altra parte e coltivando sempre la possibilità di avere rapporti, se non analoghi, di importanza considerevole con l’altra parte. Questo finora l’ho trovato nelle intenzioni del conte Sforza, ma non nella effettiva, quotidiana esecuzione della sua politica estera.

Poche parole sulla politica generale, cioè sull’argomento di questa crisi, sulla questione della sfiducia al Governo.

Io credo che non sia fondamentale la composizione del Governo, la partecipazione dei partiti di massa, dei partiti di destra, del Governo di colore, dei partiti di centro sinistra, dell’unione nazionale: queste sono, in fin dei conti, questioni secondarie, importanti soprattutto ai fini elettorali. Quello che è urgente, indispensabile, è un cambiamento completo del metodo di governare. Bisogna governare in modo da affrontare i problemi strutturali.

Non penso che il metodo di governo debba astrarsi dalle forze vive che operano nel Paese: non si può governare se non esiste un modus vivendi amichevole fra il Governo e la Confederazione generale italiana del lavoro.

L’errore di Ramadier, oltre ai meriti suoi in altri campi, fu quello di avere sottovalutato la resistenza alla sua politica economica pianificatrice da parte della Confederazione del lavoro.

Ora, più andiamo avanti verso la pianificazione – e noi in certo senso ci andiamo – più la pianificazione suppone forze controllate dallo Stato, perché non si pianifica con le forze degli altri. Ci sono lunghi studi teorici sull’argomento, e tutti gli studiosi sono giunti alla conclusione che si pianifica solo nella misura in cui si controlla, in qualsiasi modo, ma effettivamente, un determinato settore.

Il Piano Marshall ci spinge in questa direzione: c’è stato un interessante dibattito sui giornali americani sulla questione se il Piano Marshall significhi pianificazione dell’economia europea, oppure un piano, un programma qualunque. La conclusione cui sono giunti questi giornali, è che il Piano Marshall significa precisamente pianificazione dell’Europa. Anzi, un giornale ha riassunto il dibattito dicendo che il Piano Marshall obbligherà, se sarà attuato, l’economia europea ad una pianificazione del genere di quelle attuate dalla Germania e dalla Russia. Si prescinde dal colore politico; bisogna vedere i fini obiettivi.

Quindi, noi andiamo verso la pianificazione, o almeno vogliamo andare verso la pianificazione, se abbiamo aderito al Piano Marshall. Non possiamo farlo senza la collaborazione effettiva e fiduciosa della Confederazione del lavoro. Non c’è nulla da fare: le principali forze produttive sono rappresentate dalla classe lavoratrice.

Voi potete desiderare, l’onorevole Pastore può desiderare, che la Confederazione del lavoro sia diversa da quella che è; ma, come Governo, dovete fare i conti con essa quale ora esiste, altrimenti tutta la vostra politica economica di pianificazione alla quale dite di volervi avviare, nel rispetto del Piano Marshall, poggerà sul vuoto, sulla sabbia.

Codesta è questione che si pone in tutti i Paesi, sotto tutte le latitudini, in Polonia come in Inghilterra. E così anche in America, nella capitalistica e liberale America, dove il controllo dei prezzi fu fatto saltare e le speculazioni hanno avuto corso libero, in seguito ad un convegno del dicembre 1945 fra i rappresentanti dell’organizzazione operaia, quelli delle organizzazioni padronali e il Governo. Ivi il Governo ha continuato a sostenere il controllo dei prezzi. Un capo di una organizzazione operaia, John Lewis, che dirigeva il Sindacato dei minatori, ma poi conquistò tutta la federazione americana del lavoro, sostenne che bisognava abolire il controllo dei prezzi. Il resto del movimento operaio allora si ribellò; egli condusse la battaglia poiché aveva evidentemente scopi sindacali da perseguire: sperava in forti aumenti di salario e in altre provvidenze cui contava si potesse pervenire.

La sua politica ha rotto la solidarietà che era sempre esistita durante la presidenza di Roosevelt, che aveva anzi formato la base della vita sociale. Lewis sostenne dunque la sua tesi; una parte degli operai, una parte degli imprenditori stessi vennero gradualmente sul suo terreno. La politica del controllo dei prezzi saltò; la rottura si fece fra il Governo e gli imprenditori.

Voi vedete dunque che persino in America, persino nella capitalistica e liberale America, dove non c’è un partito operaio, ove forse non c’è neppure un deputato socialista, o ve ne sono appena due o tre, è accaduto questo. La forza dell’organizzazione operaia è dunque indispensabile; adesso vi sono parecchie correnti in America le quali consigliano a Truman di operare un certo controllo sui prezzi: ma subito soggiungono che vi debba assolutamente essere l’accordo con le organizzazioni operaie.

Se dunque il Governo non risolverà questo problema, sarà vano sperare che le cose possano risolversi spontaneamente. Io non so come il Governo potrà risolverlo; non spetta a me di dargli un consiglio: questa è l’arte del governare, e sta perciò al Governo stesso di trovare la via che dovrà seguire.

Onorevoli colleghi, questa è un’epoca di democrazia, di libertà sociale; ma è anche un’epoca di sviluppo nella vita economica delle forze organizzate e di influenza dei loro capi. Il principio democratico e il principio gerarchico oggi avanzano contemporaneamente, soprattutto nel campo economico. Bisogna trovare un equilibrio, un temperamento. Governare, costruire lo Stato, significa appunto ricercare costantemente questo equilibrio. Inutile, quindi, e pericoloso sarebbe fidare nei dieci, nei dodici, od anche nei settanta, negli ottanta, o, sia pure, nei trecento voti di maggioranza che aveva prima il tripartito. Questi voti sono stati tutti insufficienti, come lo sarebbero tutti quelli che potrebbe avere il Governo in seguito ad un qualsiasi rimpasto.

Non il rimpasto è alla base della questione; occorre una politica ferrea che venga dal centro e non rimandi l’esame e la soluzione delle questioni strutturali più spinose.

Onorevoli colleghi, io concludo come ho incominciato. L’onorevole De Gasperi ha vivissimo il senso dello Stato ed ha vivissima la devozione verso lo Stato: ma è ormai tempo che dal sentimento si passi all’azione efficace e coraggiosa. (Applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle ore 16.

La seduta termina alle 12.40.

LUNEDÌ 29 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXXVI.

SEDUTA DI LUNEDÌ 29 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

indi

DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Interrogazione (Svolgimento):

Presidente

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Marchesi

Ronchi, Alto Commissario per l’alimentazione

Mancini

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

Russo Perez

Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Pratolongo

Bettiol

Pecorari

De Michelis

Colitto

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Jervolino, Sottosegretario di Stato per i trasporti

Mazza

Sui lavori dell’Assemblea:

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Presidente

Vernocchi

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Pertini e Perassi.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Cominciamo dall’interrogazione dell’onorevole Marchesi al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere i motivi che hanno provocato lo scioglimento della prima Commissione di maturità classica del liceo governativo di Acireale».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Come è noto, quest’anno, per la prima volta, è stato introdotto il sistema di esami di Stato con Commissioni in maggioranza estranee alla scuola alla quale appartiene il candidato. Era evidente che da ciò derivasse una maggiore severità di giudizio, da molti educatori auspicata, ma era pure evidente che questa severità doveva restare nei limiti fissati dalle circolari ministeriali, a garanzia dell’uniformità dei giudizi stessi. Comunque l’introduzione del nuovo esame di Stato spiega le preoccupazioni che si sono in alcuni luoghi riscontrate da parte di famiglie e di studenti.

Ad esempio, ad Acireale, si è avuta una deplorevole manifestazione studentesca contro la Commissione ministeriale, sicché la Commissione stessa ritenne opportuno chiedere, attraverso il provveditore, l’intervento di un ispettore ministeriale, come risulta da esplicite dichiarazioni dei membri della Commissione.

Quindi, contrariamente a ciò che scrisse qualche giornale, nessuna misteriosa influenza di latifondisti o feudatari siciliani ha determinato il Ministero all’invio ad Acireale dell’ispettore di zona, invio normale, il quale era stato chiesto dalla Commissione: né erano in questione figli di feudatari, poiché il candidato in questione, il Condorelli, risulta figlio di un ciabattino.

L’ispettore ebbe occasione di esaminare la posizione del candidato Condorelli Sebastiano, uno dei migliori allievi del locale liceo governativo, che in tutte le prove dell’esame di Stato era riuscito con esito favorevole, ad eccezione del greco, in cui era stato escluso dalla prova orale. Poiché l’elaborato, secondo il parere dell’ispettore, sembrava tale da non giustificare l’esclusione, egli invitò la Commissione a riesaminare il proprio giudizio. Nella Commissione, dapprima incerta, prevalse il parere di respingere l’invito dell’ispettore, il quale, tornato a Roma, riferì alla Direzione competente.

A proposito del giudizio di esclusione dalla prova orale va osservato che l’esaminatore di greco, cioè quello della materia, espresse parere discordante da quello degli altri commissari, in quanto egli era favorevole all’ammissione del Condorelli: però non insistette perché la sua opposizione venisse messa a verbale.

A questo riguardo si deve ricordare che il Ministero aveva diramato in data 14 giugno 1947 la circolare n. 4778 nella quale era chiarito che l’ammissione alla prova orale nelle materie con prove scritte doveva essere negata solo nel caso in cui la prova scritta dimostrasse impreparazione e deficienze tali da rendere inutile, per la rispettiva materia, il proseguimento dell’esame.

L’elaborato del Condorelli fu ritenuto dall’ispettore Moricca – la cui competenza è ben nota all’onorevole interrogante – tale da non giustificare l’esclusione dall’esame orale, e perciò il Ministero inviò una nota, nella quale si richiamò alla predetta circolare, non solo per risolvere in senso favorevole il caso Condorelli, ma anche per invitare il provveditore di Catania «a far considerare al presidente della Commissione l’opportunità di trovare un equo correttivo» pure in eventuali casi analoghi. Quindi non si trattava specificatamente del caso Condorelli, ma, in linea generale, dell’applicazione di criteri della circolare; né si trattava di giudizi definitivi, ma di semplice ammissione agli orali, ammissione la cui pubblicità non è prescritta da alcuna norma, mentre è diffusa la consuetudine di comunicare direttamente al candidato la non ammissione al momento degli esami orali.

La disparità di valutazione fra la Commissione di Acireale e l’ispettore Moricca si spiega per un fatto di capitale importanza. La Commissione, come è successivamente risultato, non aveva avuto conoscenza della circolare n. 4778, e nel suo verbale n. 9 testualmente dichiarò «di riconoscere che, se la Commissione avesse avuto notizia delle norme interpretative contenute nella circolare del 14 giugno ultimo scorso, n. 4778, la quale non fu comunicata dal preside a nessuna delle tre Commissioni di maturità che erano nell’Istituto, probabilmente il candidato Condorelli sarebbe stato ammesso agli esami orali».

Tuttavia la Commissione ritenne giusto di insistere nel suo punto di vista e consegnò al provveditore i verbali.

Il provveditore, preoccupato della necessità di concludere le operazioni di esame, giudicò di dover sostituire la prima Commissione, ritenendola implicitamente dimissionaria. Su tale punto vi fu divergenza di opinioni, in quanto la Commissione ritenne di essere stata sciolta dal provveditore, mentre il provveditore dichiarò che non era nelle sue intenzioni di far ciò ma solo di sanzionare lo stato di fatto della consegna di verbali.

In seguito alla presentazione di un rimorso inoltrato al Ministero contro il provveditore agli studi di Catania, il Ministero provvide subito ad un diretto e completo esame della delicata questione, inviando in Sicilia un altro suo ispettore per raccogliere tutti gli elementi necessari per un giudizio definitivo sulla questione.

Gli ulteriori provvedimenti del Ministero sono riassunti nella lettera trasmessa alla Segreteria generale del Sindacato nazionale della scuola media: lettera di cui si reputa opportuno dar lettura:

Questo Ministero, comunica che ha inviato in Sicilia un altro ispettore centrale per accertamenti ulteriori sulle questioni relative alla prima Commissione di esami di maturità classica in Acireale.

«L’ispettore ha svolto la sua azione prendendo contatto col provveditore agli studi, con membri della Commissione, con docenti della Università e delle scuole medie, in un’atmosfera di viva cordialità, quale era naturale si stabilisse in conversazioni tra uomini di scuola, nella trattazione di problemi che la scuola direttamente riguardavano.

«In un tale spirito di sincera collaborazione è stato facile dissipare alcuni malintesi, cosicché l’ispettore ha potuto recare a Roma nuovi dati di fatto ed elementi nuovi di giudizio, che sono stati dal Ministero accuratamente valutati.

«È anzitutto risultato chiaro che la Commissione, al momento del giudizio di ammissione alle prove orali, non era a conoscenza della circolare ministeriale n. 4778 che precisava i criteri per le ammissioni suddette, in modo da garantire uniformità di giudizio da parte di tutte le Commissioni esaminatrici. Nessuna intenzione, dunque, da parte della Commissione, di non seguire le norme ministeriali. Era invece opportuno stabilire a chi spettasse la responsabilità della mancata tempestiva trasmissione della circolare citata; e di ciò il Ministero ha dato incarico al provveditore agli studi di Catania, affinché possano essere presi eventuali provvedimenti disciplinari.

«D’altra parte, il Ministero ha potuto, esaminando i nuovi elementi giunti a sua conoscenza, rilevare che la dimostrazione svoltasi nel luglio ultimo scorso ad Acireale contro le deliberazioni della Commissione, è risultata tale da esser considerata lesiva della dignità e del decoro della Commissione esaminatrice, e, quindi, della scuola tutta; dignità e decoro di cui il Ministero è naturale tutore.

«È stato pertanto comunicato al provveditore agli studi di Catania che il suo decreto col quale egli sostituì la Commissione non può essere approvato dal Ministero, che ha conseguentemente invitato il provveditore stesso a ristabilire la Commissione nelle sue piene funzioni a decorrere dal 13 agosto, in modo che non vi sia soluzione di continuità e in modo che alla Commissione medesima sia offerta la possibilità di rivedere i propri giudizi sull’ammissione alle prove orali, tenendo conto dei criteri additati nella circolare citata.

«Contemporaneamente sono state impartite al provveditore disposizioni opportune per garantire, contro ogni possibile evenienza, la dignità e il decoro della Commissione esaminatrice nell’espletamento delle sue funzioni».

Tutto ciò, in linea di fatto.

Passando alla questione di diritto, si rileva che è stata affermata l’inapplicabilità al caso in questione dell’articolo 133 del regolamento 4 maggio 1925, n. 653, il quale dà facoltà al Ministero di annullare i provvedimenti delle autorità scolastiche locali quando vi sia violazione di legge. E l’inapplicabilità viene avvalorata attraverso l’affermazione che vi è inesistenza di qualunque rapporto gerarchico fra il Ministero e le Commissioni, non ritenute autorità scolastiche locali.

Ma, una volta ammesso che ciò sia vero, si cade in una palese contraddizione quando si afferma che il disposto dell’articolo 92 dello stesso regolamento (secondo cui negli esami, che non siano di maturità e abilitazione, i giudizi sono definitivi e inappellabili, ma sindacabili dal Ministero agli effetti disciplinari) debba intendersi esteso senz’altro anche all’articolo 93, che tratta specificamente degli esami di maturità e abilitazione, e che tace in proposito.

Se tale estensione viene senz’altro ammessa, si ha la sindacabilità dei giudizi agli effetti disciplinari, e la Commissione viene pertanto a trovarsi in posizione di dipendenza gerarchica dal Ministero, contro quanto s’era precedentemente affermato.

Se volessimo esprimerci in termine di logica, dovremmo dire che l’insieme dei tre articoli: 92, 93, 133, secondo l’interpretazione che ad essi si vorrebbe dare, costituisce un sistema incompatibile.

D’altra parte l’esperienza dimostra che, in casi fortunatamente eccezionali, ma che pure dolorosamente talvolta si verificano, l’inappellabilità assoluta dà luogo a gravi inconvenienti.

Prova ne sia che un giurista del valore di Vincenzo Arangio Ruiz, che non è certo inferiore ai giuristi della Università di Catania, dovette, in qualità di Ministro della pubblica istruzione, in data 22 giugno 1945, per il caso di una candidata di Matera, ordinare la riforma di un giudizio di esclusione dalla prova orale di italiano: ordine che fu eseguito senza provocare alcun dissenso o protesta. Ecco le testuali parole del Ministro Arangio Ruiz: «Il Ministero dichiara nulla la deliberazione con cui la Commissione ha escluso dalla prova orale di italiano la candidata in parola, e dispone che questa sia ammessa, in occasione della imminente sessione estiva, a sostenere la prova stessa».

Date le incertezze e le imperfezioni della legislazione vigente, mentre ho disposto che gli ispettori si limitino ad una funzione consultiva, mi propongo di nominare subito una Commissione composta da giuristi del Ministero e del Sindacato, la quale (anche in sede de jure condendo) studi le possibilità di interpretazione e di chiarificazione delle norme in materia.

PRESIDENTE. L’onorevole Marchesi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARCHESI. Potrei dichiararmi sodisfatto di questa pace intervenuta tra il Ministero dell’istruzione e le Commissioni esaminatrici. Potrei dichiararmi sodisfatto, se il caso di Acireale non rivelasse un pericoloso disordine – adopero termini piuttosto moderati – nell’Amministrazione scolastica centrale. Dico Amministrazione centrale perché ritengo non giusto e non ragionevole attribuire unicamente al Ministro della pubblica istruzione la responsabilità di tutte le ordinanze e di tutte le note che provengono dalla burocrazia della vecchia è della nuova Minerva.

Osservo soltanto che sarebbe desiderabile, trattandosi di un’Amministrazione centrale, che le disposizioni prese fossero tali da non recare turbamento ed offesa ad un organismo così delicato e, oggi, così malato come è la scuola italiana.

Revocare, con la soddisfazione di tutti, delle disposizioni già prese, significa riparare un danno, ma non significa cancellare una offesa. Quei provvedimenti dell’Amministrazione centrale della pubblica istruzione non dovevano essere adottati ed evitare si potevano facilmente. A farli evitare concorreva tutta la disciplina dei regolamenti scolastici e la buona consuetudine.

Il fascismo – ricorre spesso questo amaro ricordo sulle nostre labbra – che corruppe tutto quello che toccò, volle anche pesantemente gravare sui giudizi delle Commissioni esaminatrici, le quali spesso non resistettero alla triviale ingerenza e, quando resistettero, i giudizi restarono.

Adesso l’onorevole Ministro ha ricordato un precedente del Governo post-fascista, del Ministro Arangio Ruiz. Se il Ministro Arangio Ruiz intervenne contro il voto della Commissione di esami nelle stesse condizioni in cui è intervenuta ora l’Amministrazione scolastica, ha fatto male, e l’onorevole Ministro ha citato l’esempio di un complice. D’altra parte, bisognerebbe vedere se l’ordinanza del Ministro Arangio Ruiz corrispondesse in pieno a quella per cui fu emessa la nota ministeriale del 6 agosto.

Ad ogni modo, il Ministro ha dimenticato di citare – e qui la dignità della scuola ha ricevuto offesa – il documento essenziale, quello del 6 agosto, con cui il Ministero annullava la decisione presa dalla prima Commissione di esami. Io richiamo in modo particolare l’attenzione degli onorevoli colleghi su questo punto, il quale costituisce una novità sconcertante che, se dovesse essere accolta, sovvertirebbe tutto il procedimento degli esami.

Il Ministro dunque, richiamandosi al disposto dell’articolo 133, annullava la decisione della prima commissione di esami ed ordinava l’ammissione alle prove orali del candidato in questione. Per la prima volta, quindi, l’onorevole Arangio Ruiz, per la seconda lei: e speriamo non capiti anche una terza volta.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Me lo auguro anch’io.

MARCHESI. Ad ogni modo, mi rincresce che di simili episodi non vi siano esempi neppure nel precedente regime che pure, in tutti gli organi dell’amministrazione statale, di irregolarità e di abusi abbondava.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ci sono, sa.

MARCHESI. Potremmo redigere allora una trista storia su questo argomento. Il Ministro frattanto, anzi il Ministero, si sostituiva senz’altro alla Commissione d’esame, ed ordinava l’ammissione alle prove orali del candidato che ne era stato escluso con un voto concorde della Commissione – poiché non risulta dai verbali che ci sia stata discordanza – ratificato e pubblicato.

Dunque il Ministero approva, dunque il Ministero promuove, dunque il Ministero ha questa facoltà che finora pareva fosse riserbata esclusivamente alle Commissioni giudicatrici d’esame, il cui giudizio è inappellabile e definitivo. E l’articolo 133, onorevole Ministro, non è proprio applicabile a questi casi.

L’infelice mano di quel funzionario che tracciò la nota mandata al provveditore di Catania, incorse in un grave errore. L’articolo 133 dice che il Ministero può annullare o riformare i provvedimenti delle autorità scolastiche locali, quando questi siano «in aperta violazione di legge». Che una Commissione giudicatrice giudichi insufficiente un tema che un signor ispettore della pubblica istruzione giudica invece sufficiente, non è un’aperta violazione di legge, perché non è legge insindacabile il giudizio di un ispettore, il quale non dovrebbe mai entrare…

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Non conosceva la legge.

MARCHESI. …in un giudizio di merito di fronte a una Commissione legalmente costituita.

Le autorità scolastiche locali che possono incorrere in violazione di legge sono il Preside, i provveditori, sono i presidenti stessi delle Commissioni esaminatrici, in quanto possono prendere disposizioni che riguardano la disciplina degli esami; ma la Commissione esaminatrice è organo giudicante, non è gerarchicamente sottoposta ad alcuna autorità superiore: può giudicare bene, può giudicare male. Questo capita dovunque: come ci insegnano gli atti e i fasti della Magistratura. Può capitare a chiunque, e dovunque nella pubblica amministrazione. Ma, in ogni modo, il voto della Commissione d’esame è definitivo, è inappellabile. Se questo non fosse, tutto il procedimento di esami sarebbe sovvertito.

PRESIDENTE. Onorevole Marchesi, la prego di concludere.

MARCHESI. Io ritengo che questa disposizione, con cui il Ministero ha intimato l’ammissione alle prove orali di un candidato respinto, sia di enorme gravità.

Una voce a sinistra. Ha ragione!

MARCHESI. E vorrei dire un’altra cosa: l’incidente è capitato in un momento assai brutto, per la sempre più rovinosa eccedenza della popolazione scolastica, a cui bisogna porre un freno, onorevole Ministro, e immediato ed urgente; un freno non soltanto col rigore fiscale, che va applicato con giusta discriminazione, ma soprattutto con il rigore nel giudizio di esame. Il più insidioso favore che si possa accordare alla gioventù delle scuole ora è l’indulgenza: indulgenza vuol dire reclutamento di spostati, intriganti e disoccupati. Non altrimenti si può salvare la scuola. (Approvazioni a sinistra).

E per ciò che riguarda l’ispettorato, l’ispettore esercita un ufficio delicato e necessario. Nel corpo degli ispettori conosco uomini provvisti di ogni ottima qualità; di altri non potrei dire altrettanto.

Onorevole Ministro, con un corpo di ispettori bene scelto, che abbiano solidità di cultura, esperienza sicura della scuola, serenità e perspicacia di giudizio, voi potrete salvare la scuola. Altrimenti non potrete che accrescerne la rovina.

Non ho altro da dire. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Mancini all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per conoscere se sia giusto che una regione come la Calabria continui ad essere trascurata come ai tempi del suo predecessore. Infatti risulta che per solo pane la provincia di Cosenza ha un arretrato di oltre 17 mila quintali di farina; mentre le altre due provincie, pur avendo un fabbisogno giornaliero superiore, hanno ciascuna un arretrato di 11 mila quintali di farina. Si fa osservare che il grano proveniente dal piroscafo Nazzimi di cui nella risposta a una precedente interrogazione, non è stato sufficiente a coprirli, perché si sarebbe dovuto sospendere la corresponsione delle razioni correnti. Per saldare gli arretrati bisogna corrisponderli in aggiunta alla razione giornaliera».

L’onorevole Alto Commissario per l’alimentazione ha facoltà di rispondere.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Premesso che la richiesta dell’onorevole interrogante si riferisce al periodo primaverile, che, come è noto, è stato particolarmente difficile per la congiuntura col nuovo raccolto, devo far rilevare che le ben note difficoltà determinatesi già fin dagli ultimi mesi della scorsa campagna per l’approvvigionamento cerealicolo del Paese, hanno causato arretrati che sono rimasti insoddisfatti non solo nelle Calabrie, ma in molte altre Regioni che dovevano essere rifornite totalmente dalle provincie esportatrici o dall’estero.

A ciò debbo aggiungere che la assoluta impossibilità di costituire adeguate scorte di cereali ha notevolmente influito sull’approvvigionamento delle provincie calabre, anche per le locali difficoltà di ordine tecnico.

Ad ogni modo, con la nuova campagna, sono stati fatti sforzi considerevoli per superare dette difficoltà.

Dal 1° luglio sono state effettuate tutte le assegnazioni necessarie per coprire il fabbisogno di pane e di generi da minestra fino al 31 ottobre per l’intera Regione.

Attualmente la distribuzione del pane è regolare e sono state pure distribuite le razioni di pasta per luglio e agosto, ed è in corso di distribuzione la razione di settembre.

Particolarmente difficile si presenta in Calabria, come altrove, il problema degli arretrati per deficienza di disponibilità. Pur tuttavia, in relazione al fatto, segnalatomi in una recente riunione che ho tenuto per il problema del Mezzogiorno, che tali arretrati sarebbero stati anticipati sulla loro quota da agricoltori locali, sarà disposto perché i Comuni vengano reintegrati del necessario per coprire tali anticipazioni. Inoltre dei sacrifici sopportati in passato dalle popolazioni sarà tenuto conto con qualche distribuzione straordinaria, non appena avrò le sufficienti disponibilità.

Comunque ho disposto perché, anche in previsione delle difficoltà del prossimo inverno, siano subito anticipate le assegnazioni per coprire il fabbisogno fino a tutto dicembre.

Posso, in proposito, assicurare che alla data odierna è stata disposta l’anticipazione del fabbisogno di pane per tutto il mese di novembre prossimo venturo.

Seguo con attenzione la situazione calabra e assicuro che farò ogni sforzo perché la sua posizione venga mantenuta in avvenire allineata con quella delle altre provincia.

PRESIDENTE. L’onorevole Mancini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Io speravo in verità una risposta ben diversa da quella che l’onorevole professor Ronchi mi ha dato in questo momento. Speravo diversamente, per un doppio ordine di ragioni: primo, perché mi dava affidamento il discorso tenuto sabato scorso, e, poi, per la speciale situazione della provincia di Cosenza.

Noi tutti ricordiamo l’interessante discorso di sabato (che io mi son permesso ben tre volte di interrompere), nel quale egli ha parlato dei calmieri (perché il calmiere ha molta efficacia se acquista carattere nazionale), e si è intrattenuto sulla produzione dell’olio, per la quale speriamo che non si avveri quanto si è avverato da noi, centro di produzione, ove questa estate i prezzi dell’olio sono saliti ad altezze proibitive, cioè a mille lire al litro, perché sono scesi dal Nord gli auto-treni a rastrellare tutta quella disponibilità sottratta agli oleari del popolo da parte dei grossi produttori. Infine egli ha denunciato al Paese, in cifre, la terribile situazione, cioè la fame del popolo italiano. Il professor Ronchi ha affermato che la media delle calorie per ogni abitante di questo nostro bel Paese arriva appena a 2000. Parlando di media vuol dire che vi sono larghi strati della nostra popolazione che hanno delle calorie inferiori alle 1500 ed alle 1000, quando tutti sappiamo che per poter mediocremente vivere le calorie devono arrivare a 3000 e 3500.

Questi strati di popolazione poveri di calorie sono rappresentati dalle categorie di cittadini meno abbienti e dalle provincie meno abbienti. Ora, una delle provincie meno abbienti è la provincia di Cosenza, che è stata così ostinatamente trascurata che è in arretrato di 17 mila quintali di grano in rapporto alla provincia di Reggio, a quella di Catanzaro e ad altre provincie italiane.

Ora, io non so perché questa provincia meno abbiente, che dovrebbe essere tenuta in maggior considerazione dall’Alto Commissario, è invece trascurata. Io al suo predecessore rivolsi altra volta una interrogazione (uggioso ritornello è il mio); mi rispose che avrebbe provveduto e non ha provveduto. Dissi pure qualche altra cosa di evidente importanza; dissi che vi erano dei paesi che oscillavano dalla deficienza di un minimo di 10 razioni ad un massimo di 50, per cui erano avvenuti dei fatti gravissimi nei paesi di Diamante e Bonvicino, i cui abitanti si erano riversati nella stazione ferroviaria ed avevano staccato un vagone ferroviario di derrate alimentari diretto in Sicilia. Andò un ispettore, indagò e accertò che il fatto da me denunciato all’Assemblea Costituente era rispondente a verità. Mi si promise che gli arretrati sarebbero stati immediatamente saldati con grano sbarcato dal piroscafo Nazzimi che doveva attraccare a Crotone; non si fece nulla. Lei oggi mi dà notizia che gli arretrati non possono essere saldati. Ciò costituisce una truffa a danno di quelle popolazioni. Capisco che le razioni giornaliere devono essere corrisposte, ma insieme con le razioni giornaliere devono essere corrisposti anche gli arretrati, altrimenti ci troviamo di fronte a popolazioni in continua deficienza, in rapporto ad altre regioni privilegiate.

Io chiedo al Governo soltanto una cosa: un po’ di giustizia distributiva; chiedo che cessi quella parzialità regionale, per cui alcune regioni sono favorite mentre altre, come la Calabria, sono abbandonate e trascurate.

Il mio non è un grido di allarme, forse è una protesta, certamente un ammonimento. Fatene tesoro.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RONCHI, Alto Commissario per l’alimentazione. Voglio semplicemente dire che io ho normalizzato una situazione che era straordinariamente anormale, regolando le distribuzioni. Non solo; ma non c’è nessuna Regione in Italia che abbia avuto, come attualmente è avvenuto per la Calabria, disposizioni per anticipare le assegnazioni fino a dicembre: proprio per evitare che si verifichino gli sfasamenti che sono avvenuti l’anno passato. Per quel che si riferisce agli arretrati, non escludo e non ho escluso di poterli dare. Ho disposto di darli intanto immediatamente a quei Comuni che si trovano in posizione di particolare scopertura.

Mi riserbo in futuro di venire incontro non appena potrò avere disponibilità.

MANCINI. Sono 17 mila quintali di grano in arretrato nella provincia di Cosenza. Bisogna provvedere subito. I discorsi e le cifre non dicono nulla.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Vigorelli, Bastianetto, Facchinetti, Fantuzzi, Carignani, Cavallari, Russo Perez, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del tesoro, «per sapere se ritengano tollerabile la situazione creata all’Opera nazionale invalidi di guerra, cui sono stati assegnati mezzi assolutamente inadeguati ad assolvere i compiti che le sono attribuiti dalla legge e che sono sempre più onerosi, sia per il crescente numero degli assistiti, sia per l’aumento dei costi, particolarmente degli apparecchi ortopedici e dei ricoveri ospedalieri e sanatoriali».

L’onorevole Sottosegretario per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Si fa presente che per l’esercizio finanziario 1946-47 furono stanziate in favore dell’Opera nazionale invalidi di guerra lire 410 milioni; che, essendosi tale stanziamento rivelato insufficiente, furono portate a 472 milioni. In seguito a nuove richieste dell’Opera il Ministero del tesoro ha assicurato quest’ultima che avrebbe provveduto ad erogare l’ulteriore somma di lire 126 milioni, dall’opera stessa ritenuta necessaria pel saldo del fabbisogno di detto esercizio. È in corso, infatti, la variazione di bilancio in tale senso.

Quanto all’esercizio finanziario 1947-48, lo stanziamento previsto in lire 400 milioni, a seguito del rilievo dell’opera, viene portato, con variazione di bilancio in corso, a 530 milioni.

Ove tale maggiore assegnazione si dimostrasse insufficiente, il Ministero non si rifiuterebbe di esaminare, nel quadro delle possibilità del bilancio, la richiesta di nuovi stanziamenti.

PRESIDENTE. L’onorevole Russo Perez, che è uno dei firmatari della interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RUSSO PEREZ. Non posso dichiararmi sodisfatto, perché se si pensa che gli apparecchi ortopedici costano tredici volte più di quanto costavano due anni fa, è chiaro a tutti che le provvidenze adottate dal Governo non sono adeguate ai bisogni di questa benemerita categoria di cittadini.

Pertanto, chiedo che il Governo studi i mezzi per venire incontro ai bisogni di questa disagiata e benemerita categoria.

PRESIDENTE. Le seguenti due interrogazioni riguardano lo stesso argomento, e possono essere svolte congiuntamente:

Cavallari, Russo Perez, Bastianetto, Fantuzzi, Giacchero, Carignani, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del tesoro, «per sapere se, visto lo stato di arretratezza delle pratiche di pensione di guerra, le quali vanno accumulandosi in modo deplorevole, non ritengano di prendere radicali provvedimenti al fine: 1°) di mettere immediatamente la Direzione generale delle pensioni di guerra in grado di disporre di locali adatti e di personale adeguato, assegnandole gli uni e gli altri in numero sufficiente alle sue improrogabili necessità; 2°) di fare funzionare soddisfacentemente tutte le Commissioni mediche per le pensioni di guerra, dotandole della necessaria attrezzatura e del personale relativo»;

Morini, al Ministro del tesoro, «per conoscere se non ritiene urgente procedere alla riorganizzazione del Servizio pensioni di guerra e infortuni civili, riunendo le varie sezioni – oggi disseminate in quattro edifici, lontani l’uno dall’altro – in un unico edificio, in modo da poter coordinare le varie branche ed attività ed iniziare un sollecito lavoro di espletamento delle 600.000 e più pratiche che attendono la definizione, ponendo così fine alla paralisi del delicatissimo settore».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Le richieste di informazioni, rivolte dagli onorevoli interroganti, in merito alla liquidazione delle pensioni di guerra, riguardano un’attività, che trascende il campo puramente amministrativo, perché, pur svolgendosi in base ad un complesso procedimento tecnico, è diretta ad un fine altamente sociale.

Ringrazio gli onorevoli interroganti della possibilità che mi offrono di fare ampie comunicazioni all’Assemblea Costituente, e da quest’Aula a tutti coloro che sono interessati alla liquidazione delle pensioni di guerra.

Consapevole delle severe responsabilità connesse con l’esame ed il sollecito disbrigo dei vasti compiti affidati al Ministero del tesoro per detta liquidazione, compiti per i quali, nel Paese lacerato dal crudele conflitto si manifesta così diffusa e vigile ansia di assidui controlli e di insofferenti attese, ritengo doveroso sottoporre alla benevola attenzione degli onorevoli colleghi – attraverso l’esposizione di fatti corredati da dati statistici di recente rilevazione – il poderoso sforzo di lavoro quotidianamente affrontato dai competenti uffici nell’interesse della martoriata categoria degli invalidi e mutilati di guerra, militari e civili, ed a favore di congiunti di coloro che per la guerra hanno perduto la vita, nonché quanto è in corso di attuazione per rendere più agile e spedito l’accennato servizio.

La Direzione generale per le pensioni di guerra, all’atto della sua costituzione nell’agosto del 1923, in sostituzione dell’allora soppresso Sottosegretariato di Stato per le pensioni di guerra, disponeva di 1200 impiegati, tutti ben esperti della materia, pur essendo allora i compiti circoscritti e limitati, trattandosi di un organismo che aveva già compiuto per un quinquennio la parte più gravosa del suo lavoro. Nuovi conflitti armati, ai quali successivamente l’Italia veniva a partecipare, portarono quella Direzione generale su un piano di lavoro più intenso ed accelerato, necessario a far fronte alla richiesta che avanzavano nuovi minorati e nuovi congiunti di caduti.

Apertasi infine, col giugno 1940, la via a quella immane conflagrazione, che fra tante rovine ha lasciato i segni terribili della guerra sui corpi di interminabili schiere di militari e di civili, come ha gettato nel lutto tanti congiunti di caduti, progressivamente sempre più vasta importanza ha assunto l’opera della ridetta Direzione generale, di fronte a compiti ognora più gravosi ed assillanti e, malgrado questa nuova pressante mole di lavoro, il personale, dal complesso delle 1200 unità del 1923, alla data dell’8 settembre 1943 era sceso a 543 elementi, numero che si ridusse ancora di molto al 31 dicembre dello stesso anno per il licenziamento di tutti gli avventizi da parte dello pseudo governo repubblicano.

Ripresa la sua funzione nel 1944, dopo la liberazione del territorio di Roma, la Direzione generale ha potuto gradatamente riassumere il personale precedentemente licenziato ed ha immesso nuovi elementi avventizi e diurnisti; ha potuto, nei primi mesi del corrente anno, avere alcuni sottufficiali dell’esercito in qualità di comandati; infine, a seguito dello scioglimento del Ministero della Costituente, ha avuto in assegnazione un’aliquota di avventizi e diurnisti. La Direzione generale disponeva così, pochi mesi or sono, di 806 impiegati dei quali 198 di ruolo dei diversi gradi, 35 subalterni di ruolo e 115 sottufficiali comandati; infine 450 fra avventizi e diurnisti. Si era però ancora ben lontani, in raffronto con la situazione del 1923, dall’avere quel complesso di impiegati che riuscissero a far fronte all’immane mole di lavoro sempre in continuo sviluppo. La questione del personale, di vitale importanza per raggiungere il più rapido ritmo di lavoro, era peraltro strettamente collegata con un altro grave problema: quello dei locali, la cui deficienza ha posto la Direzione generale per lungo tempo, cioè per tutto il tempo in cui sono durate le requisizioni alleate in Roma, in condizioni di estrema difficoltà.

I vari servizi, com’è noto, sono stati allogati finora nell’edificio di Via della Stamperia, in quello di Via Flaminia, mentre gli archivi erano posti nel Palazzo degli esami, a Via Girolamo Induno in Trastevere. I servizi che hanno sede nel fabbricato principale di Via della Stamperia erano oltremodo congestionati, sicché gli impiegati, costretti a lavorare in quattro o cinque per ciascun ambiente, venivano a mancare della necessaria tranquillità e comodità. Ed il loro lavoro, già di per sé affannoso ed estenuante, si rendeva sempre più gravoso con una ovvia riduzione di rendimento in tutta la Direzione. Questa assolve il suo compito a mezzo di servizi o di uffici nei quali è suddivisa e le cui attribuzioni sono qui appresso succintamente indicate: Ufficio affari generali, Ufficio del personale, Servizio pensioni dirette nuova guerra, Servizio pensioni indirette nuova guerra, Servizio infortunati civili di guerra, Servizio pensioni dirette vecchia guerra, Servizio pensioni indirette vecchia guerra, Servizio pagamenti, Segreteria del Comitato di liquidazione delle pensioni di guerra, Commissione medica superiore, Ragioneria.

Per risolvere l’affannoso problema dei locali, il Ministro del tesoro, d’accordo con la Presidenza del Consiglio, ha compiuto frequenti tentativi presso altri Ministeri e pubbliche amministrazioni, ma purtroppo infruttuosamente, fin quando, con la derequisizione dell’edificio di Via Sicilia 59, da parte delle autorità alleate, è stato possibile assicurarsi la disponibilità di un cospicuo numero di locali, circa 180, per dare una migliore organizzazione ai servizi e per destinare al disimpegno di essi un’altra cospicua massa di impiegati.

La risoluzione integrale del problema dei locali esigerebbe, come è stato avvisato dall’onorevole interrogante, la destinazione di un solo edificio, con almeno 400-500 vani ai servizi in parola. Ma al momento attuale un edificio siffatto non è disponibile ed occorrerà utilizzare quelli già esistenti, nonché l’altro di recente destinazione, nell’attesa, che mi auguro non troppo lunga, di poter disporre dell’accennato edificio unico.

Debbo frattanto comunicare che l’avvenuto ampliamento dei locali ha già reso possibile di accrescere il numero del personale addetto alla liquidazione delle pensioni di guerra, portandolo da 806 a circa 950 unità, con la previsione di un prossimo, molto prossimo, aumento in guisa da superare notevolmente il migliaio di impiegati. E ciò senza assunzione di nuovo personale in quanto, conformemente alle raccomandazioni fatte dalla Commissione finanze e tesoro di questa Assemblea per il contenimento delle spese statali e in esecuzione del decreto legislativo 4 aprile 1947, n. 207, è stato, come sarà ancora, utilizzato il personale in eccedenza presso altre amministrazioni.

L’esperienza amministrativa mi ha persuaso peraltro che l’acceleramento nel disbrigo delle pratiche di liquidazione delle pensioni aveva bisogno di un mezzo che non si concretasse soltanto nell’aumento numerico del personale, ma anche in una sua maggiore efficienza; e a tal riguardo soggiungo di aver disposto che in aggiunta al lavoro ordinario sulla base di orario di ufficio, fosse instaurato anche quello a cottimo, di sicuro e cospicuo rendimento. Questa ulteriore forma di lavoro è stata iniziata lunedì scorso 22 corrente; vi sono addette circa 600 persone, e le primissime informazioni fornitemi dal direttore generale delle pensioni di guerra sono molto confortanti.

Il mio Ministero ha la certezza che, con questo eccezionale incremento di attività, si possano ottenere risultati di larghissima portata.

Altro settore al quale è stata rivolta la massima attenzione è quello del funzionamento delle Commissioni mediche, alle quali sono demandati, come è noto, gli accertamenti tecnici sulla esistenza e sulla entità di malattie o lesioni. Tali Commissioni, nel luglio dello scorso anno, erano soltanto 19; sono state portate, in poco più di un anno, a 30, ed è prossima la costituzione di altre due Commissioni. Esse sono distribuite nelle varie regioni d’Italia, in località fornite di ospedali militari, della cui attrezzatura hanno bisogno per eventuali indagini di natura complessa. È stato anche provveduto perché esse funzionino in più turni, in modo da dare i risultati che potrebbero ottenersi con un numero doppio o triplo di tali organi. E perché questi turni diventino più frequenti, si è disposto, con decreto legislativo di imminente pubblicazione, la destinazione alle Commissioni anche di medici civili dipendenti dallo Stato, utilizzandosi, così, circa un centinaio di medici appartenenti ai ruoli del Ministero dell’Africa.

Naturalmente, non è dato pensare che gli accennati provvedimenti resisi possibili soltanto in questi ultimi tempi trasformino nel giro di poche settimane la situazione che obiettive circostanze avevano determinata. Ma è pur lecito prevedere che così daranno sensibili risultati in questo scorcio di anno, in modo da avviare a sicura normalizzazione un problema di tanta importanza.

Ed è a questo fine che il Ministero del tesoro si propone pure di sottoporre con la maggiore urgenza all’approvazione del Consiglio dei Ministri misure di carattere legislativo, che rendano più spedita la procedura di liquidazione delle pensioni di guerra.

Il sistema vigente, ereditato dalla elaborazione legislativa formatasi in occasione della precedente guerra mondiale, è sostanzialmente imperniato sui seguenti criteri:

1°) per quanto attiene alle pensioni dirette dei militari: sull’accertamento della qualità di militare o ex militare e del relativo grado; sulla constatazione tecnica della minorazione fisica e sulla relativa entità; sul nesso di causalità fra il servizio prestato e detta minorazione;

2°) per le pensioni dirette a favore di civili: sull’evento bellico, sulla minorazione fisica e sul nesso di causalità fra il primo e il secondo elemento;

3°) per le pensioni indirette, su tutto ciò che forma oggetto, rispettivamente, del primo o del secondo ordine di accertamenti, e in aggiunta, sul rapporto familiare, richiesto dalla legge, col deceduto.

Da questi criteri, di evidente valore logico, non sembra potersi decampare, ove non si voglia pervenire alla conclusione di attribuire la pensione di guerra anche a coloro cui non spetti.

Ma è sulla procedura imposta dal vigente sistema legislativo che sembra necessario apportare congrue modifiche.

Se da una parte per la liquidazione di pensioni a militari ancora trattenuti alle armi non occorrono particolari agevolazioni, in quanto le stesse autorità militari che accertino, allo scadere del periodo di degenza ospedaliera, la esistenza e la entità di una malattia o lesione per fatti di guerra, sono tenute ad informarne la Direzione generale delle pensioni proponendo l’assegnazione del militare a una determinata categoria della tabella di legge, e la Direzione generale vi provvede, liquidando, senza ulteriori incombenti, la pensione provvisoria, in attesa di quella definitiva, che, per importo, si discosta dall’altra soltanto per qualche centinaio di lire al mese, maggiore speditezza occorre d’altro canto per la liquidazione delle pensioni degli ex militari.

Costoro, come è noto, sono tenuti a presentare domanda per gli accertamenti istruttorii entro due anni dal congedo. Quando tali domande siano pervenute, la direzione generale dispone due ordini di accertamenti: quelli amministrativi, con la richiesta ai distretti militari dei fogli matricolari, nei quali sono consacrati i precedenti di servizio dell’interessato, e quelli tecnici diretti a constatare la entità delle malattie o lesioni. Ora, questa procedura, che fa carico per intero alla direzione generale, determina necessariamente l’impiego di molto tempo, perché i distretti non rispondono con la desiderata sollecitudine, e spesso, senza loro colpa, perché le tragiche vicende della guerra hanno determinato distruzione e dispersione di documenti.

Altrettanto è a dirsi per quanto concerne la istruttoria delle pensioni di riversibilità, riguardo alle quali occorre acquisire presso gli uffici di stato civile dei comuni gli stati di famiglia degli interessati. L’enorme carteggio che intercorre fra la Direzione generale e gli organi amministrativi può spiegare i motivi del ritardo nel compimento delle istruttorie, e il mio Ministero si è già preoccupato di attenuare tale inconveniente, provvedendo, col decreto legislativo del 10 aprile 1947, n. 420, a disporre che, in caso di distruzione dei documenti necessari, si ricorra a documenti equipollenti. Ma sembra che di molto verrebbe agevolata la istruttoria se, come si è in animo di fare, si autorizzassero anche gli interessati a rendersi parte diligente per l’apprestamento della documentazione, richiedendola senza spese ai distretti militari e agli uffici comunali, e facendo obbligo a tali enti di rilasciarli entro un congruo termine, sotto pena di determinate sanzioni per coloro che vi sono preposti.

Altra parte nella quale il mio Ministero si propone di snellire la procedura di liquidazione è quella conclusiva. Una volta acquisita la documentazione e accertata la sua regolarità e sufficienza, si potrebbe dar luogo alla emanazione del decreto concessivo e del libretto di pensione, salvo conferma da parte del comitato liquidatore. Con ciò si verrebbe ad eliminare l’attuale formalità del previo esame, da parte di detto comitato, di tutti i progetti di liquidazione, anche di quelli cioè che siano proposti dagli uffici della Direzione generale con formula concessiva.

Di questi e di altri minori provvedimenti, che agevolano la procedura di liquidazione, il Ministero del tesoro ha già curato lo studio ed approntato la formulazione.

Ho l’obbligo peraltro di informare inoltre l’Assemblea che, anche tra le difficoltà dell’attuale legislazione e le circostanze che il dopoguerra ha determinato, la Direzione generale e gli uffici da essa dipendenti non hanno trascurato per quanto era possibile di compiere il loro dovere.

Perché si abbia un’adeguata comprensione della mole dei servizi disimpegnati, basta considerare che l’arrivo delle domande di prima liquidazione si aggira sulla cifra di oltre 20 mila al mese, mentre il numero delle domande di revisione è, in media, di oltre 30 mila; cioè quotidianamente affluiscono agli uffici oltre seimila lettere. I risultati conseguiti nel semestre 1° gennaio-30 giugno 1947, nel raffronto con quelli già cospicui raggiunti nel semestre precedente, segnano un deciso incremento nella produzione.

Sono stati compilati dal 1° gennaio al 30 giugno 1947 n. 65.138 progetti di pensione, raggiungendosi così la media mensile di oltre 10.500 pratiche; sono state esaminate 422.734 pratiche e spedite 409.219 corrispondenze per istruttorie; sono stati rilasciati 39.066 certificati di pensione: inoltre i servizi hanno dato risposta scritta a n. 80.190 richieste di municipi, di associazioni ed enti diversi.

Il servizio pagamenti ha compiuto n. 41.635 complesse operazioni esecutive.

Sono state concesse n. 12.880 anticipazioni.

Il Comitato di liquidazione ha esaminati n. 56.328 progetti e la Commissione medica superiore ha espresso n. 11.481 pareri medico-legali.

Sono stati spediti inoltre 47.816 decreti.

Nel decorso mese di agosto sono state esaminate più di 50.000 pratiche di pensione e spedite 43.000 corrispondenze; compilati 6.140 progetti; rilasciati 3.030 certificati e 909 libretti ferroviari a grandi invalidi. Dalle commissioni medico-ospedaliere sono pervenute a tutto il 31 agosto ultimo scorso n. 88.178 pratiche per anticipazioni di pensione, delle quali sono state definite 80.040, restando ancora in sospeso la definizione delle altre 8.138.

Il Comitato liquidatore ha esaminato entro lo scorso mese 9.082 progetti di pensioni; l’ufficio decreti ha spediti 5.540 decreti concessivi.

A questo punto debbo accennare alla questione esaminata dal mio Ministero di un possibile decentramento dei servizi delle pensioni di guerra.

Il decentramento degli uffici agevolerebbe indubbiamente la liquidazione delle pensioni, se fosse possibile creare ed attrezzare quelli periferici con una effluente organizzazione per numero e qualità di personale e per disponibilità di mezzi adeguati.

Ma tale organizzazione per uffici periferici che, per essere utili, dovrebbero essere numerosi, non sembra attuabile.

Occorrerebbe disporre di funzionari esperti per la direzione dei singoli uffici, istituire al centro organi di collegamento e di ispezione per seguirne, controllarne e riassumerne l’opera, creare nuovi organismi di consulenza per affidare agli uffici decentrati la facoltà di liquidare direttamente. Né può trascurarsi di accennare alla necessità di una prassi unica, di una uniforme interpretazione ed applicazione della legge verso tutti i pensionati.

Tali ragioni hanno finora consigliato di mantenere l’unicità dell’organo liquidatore.

Anche l’esperienza del passato soccorre ad avvalorare la convinzione che non sia possibile una adeguata organizzazione degli uffici periferici. Infatti, quasi al termine della prima guerra mondiale furono istituiti uffici provinciali alle dipendenze del Sottosegretario di Stato per l’assistenza, con sede presso ogni Prefettura. I risultati furono assai scarsi e molte deficienze emersero anche per l’impreparazione del personale.

Fervida è stata l’attività legislativa che dopo il 2 giugno 1946 si è svolta, anche su iniziativa del Ministero del tesoro, in ordine ai servizi di liquidazione delle pensioni di guerra o direttamente e indirettamente a favore dei pensionati di guerra, come è dimostrato da circa 15 provvedimenti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e dei quali ricorderò semplicemente:

1°) il decreto-legge 23 agosto 1946, n. 158, concessivo del premio straordinario della Repubblica ai mutilati e invalidi della guerra 1940-45, con diritto alla pensione o all’assegno di guerra di una delle prime cinque categorie;

2°) i decreti legislativi 6 settembre 1946, numeri 93 e 94, sull’equiparazione dei partigiani combattenti ai militari volontari che hanno operato con le unità regolari delle forze armate nella guerra di liberazione, nonché sulle promozioni e gli avanzamenti per merito di guerra dei partigiani combattenti e il loro trasferimento nelle categorie degli ufficiali in servizio permanente effettivo e dei sottufficiali in carriera continuativa;

3°) il decreto legislativo 29 dicembre 1946, n. 576, che ha accordato ai pensionati di guerra un aumento speciale temporaneo, aumento che, come è noto, importò da solo all’erario un onere di circa 8 miliardi;

4°) il decreto legislativo 4 dicembre 1946, n. 632, che sospendeva i termini di prescrizione e decadenza di diritti a favore dei prigionieri di guerra e internati civili.

Concludendo, il Ministero ritiene che, con l’avvenuto ampliamento dei locali destinati ai servizi di liquidazione delle pensioni di guerra; con l’aumento già verificatosi, e quello in corso, del personale addetto a tali servizi; con la istituzione del cottimo, attualmente disimpegnato da circa 600 impiegati; con l’aumento delle commissioni sanitarie da 19 a 30 e prossimamente a 32 e il loro funzionamento in più turni; con la destinazione di medici civili impiegati dello Stato alle commissioni medesime; con la possibilità di sostituire la documentazione di rito con quella per equipollenti; col progettato snellimento della procedura dell’istruttoria di liquidazione, si possa prevedere un notevolissimo acceleramento nella evasione delle pratiche, con soddisfazione delle giuste aspettative degli interessati, ai quali va perenne e vivo il riconoscimento della Patria.

PRESIDENTE. L’onorevole Russo Perez, che è uno dei firmatari del l’interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RUSSO PEREZ. Dopo questa immane fatica dell’onorevole Petrilli è proprio una cattiva azione dire che non si è sodisfatti, ma non posso dichiararmi sodisfatto (Commenti), perché in effetti il Governo con questa relazione non fa che spiegare perché le cose sono andate male, ma non annuncia che vanno bene e non ci fa sperare che andranno meglio. Infatti lo stesso finale della lunga relazione dice:

«Concludendo, il Ministero ritiene che vi potrà essere un miglioramento dei servizi con l’ampliamento dei locali destinati ai servizi di liquidazione delle pensioni di guerra; con l’aumento del personale addetto, con l’istituzione del cottimo, attualmente disimpegnato da circa 600 impiegati che non è ancora istituito…

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. No, è istituito.

RUSSO PEREZ. …con l’aumento delle Commissioni sanitarie, con la destinazione di medici civili…».

Una voce al centro. Lo abbiamo già sentito.

RUSSO PEREZ. Mi dichiaro insoddisfatto e premo sul Governo affinché faccia ulteriori passi perché le cose vadano un po’ meglio.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Dal momento che l’onorevole Russo Perez ha una copia della risposta, avrà visto che il servizio di cottimo si è iniziato il 22 settembre, e quindi non poteva dare, dopo una settimana, risultati tangibili.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Carignani, Bastianetto, Giacchèro, Facchinetti, Cavallari, Fantuzzi, Russo Perez, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro del tesoro, «per sapere se – mentre appare doveroso sollecitare i lavori della Commissione interministeriale per la riforma della legislazione delle pensioni di guerra – non ritengano frattanto assolutamente equo ed urgente accogliere le richieste dell’Associazione nazionale mutilati ed invalidi di guerra in ordine: 1°) all’adeguamento delle pensioni di guerra e relative indennità accessorie, in misura non inferiore a quanto accordato ai dipendenti statali; 2°) alla concessione di razioni viveri – come vigenti per i militari – a favore dei grandi invalidi, dei tubercolotici delle prime quattro categorie e dei mutilali incollocabili per legge».

Mi pare che si tratti dello stesso argomento della precedente interrogazione, onorevole Sottosegretario.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. No, è diverso.

PRESIDENTE. Allora ha facoltà di rispondere alla interrogazione.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Con provvedimento legislativo in corso di pubblicazione si è proceduto all’adeguamento delle pensioni di guerra e relative indennità accessorie, apportando i seguenti miglioramenti:

aumento del 30 per cento delle pensioni in godimento e successiva riliquidazione dell’integrazione temporanea calcolata sulla pensione così aumentata, conglobando l’integrazione medesima con la pensione;

aumento del 30 per cento dell’assegno speciale temporaneo concesso, come ho detto poc’anzi, il 29 dicembre 1946, con decreto n. 576;

aumento del 30 per cento sull’assegno di previdenza e dell’assegno di cura per tubercolotici dalla seconda alla quinta categoria compresa. La prima, come è noto, è annoverata fra quelle dei grandi invalidi;

aumento del 50 per cento dell’aumento integratore indennità orfani, che viene così elevato a tremila lire annue per ogni orfano.

Appena deliberato dal Consiglio dei Ministri questo complesso di provvedimenti, il Ministero del tesoro, Direzione pensioni di guerra, ha dato istruzioni – con circolare 23 agosto 1947, n. 12191 – agli Uffici provinciali del Tesoro per la concessione degli anticipi nella misura corrispondente agli aumenti deliberati e, ad evitare perdite di tempo, sono state con detta circolare indicate le cifre concrete degli aumenti per ciascuna categoria di invalidi.

Circa la richiesta della razione viveri a favore dei grandi invalidi, dei tubercolotici delle prime quattro categorie e dei mutilati ad esse incorporabili per legge, si fa presente che l’onere derivante allo Stato ammonterebbe, da solo, a molti miliardi che le condizioni del bilancio assolutamente non consentono di sostenere.

Il Ministero del Tesoro, invece, rendendosi conto della necessità di venire incontro alle esigenze di una più intensa alimentazione delle citate categorie di invalidi, ha già svolto pratiche presso il Commissariato per l’alimentazione perché ad esse sia fatto il trattamento in vigore per i lavoratori addetti a servizi pesanti o pesantissimi.

Soggiungo che le concessioni relative agli aumenti di pensione ed altri assegni, testé indicate, sono state concordate con la rappresentanza dell’Opera nazionale invalidi e mutilati di guerra, e che pertanto, riguardo a questa intensificazione dell’alimentazione, già i rappresentanti dell’Opera stessa sono stati avvertiti, nei colloqui che essi hanno avuto col Ministro e con me al Ministero del Tesoro, perché si venisse incontro alle esigenze dei mutilati e invalidi di guerra.

PRESIDENTE. L’onorevole Russo Perez, che è uno dei firmatari dell’interrogazione, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RUSSO PEREZ. Non mi dichiaro semplicemente sodisfatto ma addirittura entusiasta della cortesia del Sottosegretario Petrilli. Per la sostanza, evidentemente, no, non sono sodisfatto; perché, quando l’Assemblea ha sentito che ci sono stati aumenti del 30 per cento, l’Assemblea stessa può giudicare se io non sia nel vero dichiarando inadeguato tale aumento.

PRESIDENTE. Passiamo all’interrogazione dell’onorevole Mancini, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, «per conoscere la ragione per la quale il preventorio di Cosenza rimane ermeticamente chiuso».

L’onorevole Ministro del lavoro e della previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Il preventorio di Cosenza, costruito nel 1941, passò al servizio dell’Ordine di Malta per ragioni di guerra. Nel gennaio 1947 fu derequisito. Sono occorsi i primi mesi dell’anno per passarlo dall’amministrazione dell’Ordine di Malta all’amministrazione del Genio militare.

In data 23 luglio fu sollecitato il Ministero della difesa per sapere se intendeva provvedere alla restituzione e al ripristino di tutte le opere direttamente o tramite l’Istituto della previdenza sociale. Il Ministero della guerra aveva tempo fino al 15 settembre per dare la risposta. In data 16 settembre, per via orale, si apprese che il Ministero della difesa non intendeva provvedere a questi lavori e, quindi, l’Istituto di previdenza ha predisposto il necessario per indire le varie gare di appalto per la esecuzione di tutti i lavori necessari per riaprire il preventorio.

Precisamente, dal 1° al 27 ottobre saranno indette gare di appalto per i seguenti lavori: impianti di cucina e stoviglie, per 400 mila lire; riparazione acquedotto per 1 milione; impianti idro-termo-sanitari per 7 milioni; infissi in legno per 3.500.000 lire; avvolgibili per 1.800.000 lire; impianti elettrici per 4 milioni; impianti lavanderie per 200 mila lire.

Ad economia sono in corso altri lavori nell’interno del preventorio per la somma presunta di spese fra i 4 e i 5 milioni.

Una volta che tutti questi lavori saranno eseguiti, si spera nel prossimo mese che il preventorio stesso, sul quale contiamo per ricoverare oltre 300 tubercolotici, possa riaprirsi secondo i voti dell’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Questa volta non solo mi dichiaro sodisfatto pienamente, ma sento il dovere di ringraziare l’onorevole Ministro della risposta datami, che invano fino adesso avevo invocato direttamente e personalmente dal Ministro dell’interno, dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e dall’Alto Commissariato della sanità. In una provincia come quella di Cosenza, nella quale l’endemia tubercolare e l’endemia malarica sono arrivate a certe curve assai pericolose, dove non esiste alcun sanatorio, dove non è istituita alcuna di quelle colonie marine, montane o fluviali, così utili e necessarie e così abbondanti altrove, tener chiuso questo preventorio significa irridere ai più elementari criteri di profilassi sociale.

Voglio dire ancora di più: voglio usare una frase che non deve sembrare esagerata: voglio dire che è un «delitto di lesa sanità verso il lavoro»; e voglio usare questa espressione perché io rivolgo la mia parola all’onorevole Fanfani di cui non da oggi avverto le chiare e sicure manifestazioni a favore delle classi lavoratrici.

PRESIDENTE. Seguono tre interrogazioni relative allo stesso argomento e che possono, pertanto, essere svolte congiuntamente:

Pratolongo e Scoccimarro, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti siano stati presi o si intenda prendere per garantire le istituzioni democratiche e le libertà dei cittadini nella provincia di Gorizia contro le aggressioni e violenze scatenate da provocatori nazionalisti e fascisti a danno di italiani e sloveni e delle organizzazioni democratiche; e per l’arresto e la punizione dei responsabili dei gravi fatti accaduti nei giorni scorsi»;

Bettiol, al Ministro dell’interno, «per sapere quanto di vero ci sia nelle informazioni di certa stampa circa aggressioni avvenute in questi giorni nella zona ritornata alla Madre Patria»;

Pecorari, al Ministro dell’interno, «per conoscere il numero esatto dei feriti accolti o medicati all’ospedale di Gorizia attorno il 16 corrente e in seguito ai noti incidenti». L’onorevole Sottosegretario per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Veramente l’intervento del Presidente del Consiglio nella seduta di venerdì scorso ha svuotato queste interrogazioni di gran parte del loro interesse. Gioverà comunque riaffermare che, da quando l’Italia ha ripreso il possesso della provincia di Gorizia inviandovi le proprie truppe e le proprie forze di polizia, nessun episodio di grave violenza ebbe a ripetersi.

Quindi – e in ciò rispondo partitamente all’interrogazione dell’onorevole Bettiol – le informazioni di stampa alle quali egli allude sono perfettamente non vere. Quanto all’importanza degli incidenti che si sono verificati alla vigilia dell’occupazione italiana, mi pare che possa essere veramente posta nella sua giusta evidenza dai dati che, rispondendo particolarmente all’interrogazione dell’onorevole Pecorari, io posso dare.

All’ospedale di Gorizia, infatti, i ricoverati sono stati tre; due di essi sono stati subito dimessi; il terzo è tuttora degente: si tratta di uno slavo, che risulta ferito in conflitto tra connazionali. In Gorizia furono medicati altri 11, dei quali tre – due italiani ed uno sloveno – feriti da arma da fuoco e dichiarati guaribili entro 20 giorni; gli altri otto contusi e dichiarati guaribili entro 10 giorni.

Rispondendo alla interrogazione dell’onorevole Pratolongo, sono poi lieto di poter dichiarare che da parte del Ministero dell’interno – ed io stesso ho avuto l’onore di rendermene interprete – sono state date le più rigorose disposizioni, perché la libertà di tutti i cittadini, di qualunque origine e di qualunque lingua, venga tutelata nel modo più rigoroso e più assoluto.

Posso dire – ed è bene lo si sappia – che la situazione in Gorizia è indubbiamente ancora tesa.

Tutti ricordano come in un periodo di 45 giorni, durante il quale si ebbe in Gorizia la concorrente occupazione delle truppe alleate e delle truppe iugoslave, parecchi fatti turbarono la vita cittadina. Moltissimi goriziani – intorno ai 1400 – furono arrestati nelle loro case e quindi internati; di essi non si ebbe più notizia.

Le famiglie – ripeto, sono 1400 – naturalmente non si danno pace; e, facendo risalire la responsabilità di questi fatti a parecchi concittadini italiani e sloveni, invocano giustizia.

Anche nei confronti di queste famiglie, che hanno cercato in tutti i modi di esprimere il loro sentimento, ho agito, a nome del Governo, nel senso pacificatore più vivo e più completo. Ho la speranza di essere riuscito anche in questo settore ad ottenere una certa distensione; ho la speranza che una distensione completa verrà ottenuta in seguito, soprattutto se gli elementi sloveni ed italiani, che costituiscono, in certo senso, quella zona grigia, verso la quale si appuntano i risentimenti, sapranno agire con la dovuta prudenza, che naturalmente anch’io non ho mancato di raccomandare direttamente anche a loro. Basti dire che in Gorizia ancora oggi circolano liberamente per le strade e sono conseguentemente incontrati da coloro che se ne considerano le vittime dirette, circolano in notevole numero coloro che vengono dalla generalità della popolazione italiana indicati come i responsabili degli arresti e degli internamenti, ai quali ho prima accennato. Evidentemente, questo fatto non è tale, da portare a quella distensione che tutti invochiamo.

Io voglio pure che coloro i quali ne hanno la responsabilità e che ne sono stati su questo punto espressamente richiamati, sappiano provvedere per dare un’ulteriore dimostrazione di quella che vuol essere l’azione del Governo in questo settore. Io dirò che come prima forma, e vorrei dire forse come pacata forma di reazione, da parte degli elementi italiani di Gorizia si è tentato di introdurre nelle aziende e nelle fabbriche un sistema che purtroppo abbiamo dovuto e dobbiamo tuttora lamentare in aziende e fabbriche nazionali: quello cioè di impedire, a determinati elementi, invisi perché appunto accusati delle colpe alle quali ho prima accennato, l’ingresso nelle fabbriche e negli uffici e di reclamarne il licenziamento. Ebbene, da parte del Governo, per mio tramite si è energicamente agito su tutti i partiti politici e sulle organizzazioni sindacali perché anche questo assolutamente non si faccia.

Si è chiesto, si è preteso e si pretenderà nel modo più rigoroso che se ci saranno dei colpevoli di reati comuni costoro vengano denunciati e che, se giustizia deve esser fatta, questa giustizia venga fatta esclusivamente per le vie legali. Però, ripeto ancora, mi auguro che in questa opera coraggiosamente intrapresa dal Governo si abbia la collaborazione completa e sincera di chi sa di poterla e di doverla quindi dare. Io non posso non accennare ad un’altra ragione di questa tensione che indubbiamente ancora esiste in Gorizia e ad eliminare la quale io ho portato tutto il contributo della mia buona volontà e ad eliminare la quale indubbiamente il Governo porterà il contributo di tutte le sue possibilità. Alludo alla tensione che esiste fra gruppi di lingua slovena. Vi sono notevoli gruppi di sloveni considerati amici e favorevoli all’attuale governo iugoslavo; vi sono considerevoli gruppi di sloveni avversi a questo governo: tra gli uni e gli altri non corre evidentemente buon sangue, tra gli uni e gli altri è sempre possibile un incidente. Ad evitare questi incidenti il Governo ha preso tutte le misure che erano in suo possesso sia facendo tutte le diffide che poteva fare, sia preparando tutti i piani che esso può preparare perché i contrasti ideologici e sociali che dividono cittadini di una nazione vicina non vengano trasportati sul terreno della nostra Patria. Tanto più che, ormai, se noi vogliamo dichiarare a costoro che li vogliamo trattare e difendere come cittadini italiani in tutto pari agli altri, costoro debbono da parte loro corrispondere a questo proposito del Governo con la massima lealtà ed eliminare, in seno a quella che è la provincia oggi più vicina senza dubbio al nostro cuore, ogni occasione di turbamento ed ogni occasione di nuovi lutti.

PRESIDENTE. L’onorevole Pratolongo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PRATOLONGO. Onorevole Sottosegretario di Stato, io non voglio mettere in dubbio la sua personale buona volontà per cercare di distendere la situazione molto tesa nel goriziano, ma non posso assolutamente dichiararmi sodisfatto di quanto ella ha detto. Non posso dichiararmi sodisfatto perché, pur avendo ella dichiarato che il Governo ha preso tutte le misure per impedire che altri fatti, come quelli successi, possano inevitabilmente verificarsi, all’interrogazione precisa da me presentata per sapere quali provvedimenti si intendano prendere contro i responsabili di tali incidenti e violenze avvenute nei giorni scorsi, responsabili individuati e individuabili, ella, onorevole Sottosegretario, non ha risposto.

Ma c’è di più. Nel cercare di porre nei giusti termini l’importanza degli avvenimenti, si è cercato di minimizzarli, dando qualche dato sui feriti, ricoverati o medicati all’ospedale. Non è questo che può dare la misura della gravità degli avvenimenti successi, delle violenze commesse e di cui già al Presidente del Consiglio è stata data conoscenza attraverso una elencazione precisa dei fatti, fatti che nella loro essenza (e qui è il fondo politico della cosa) non sono una esasperata manifestazione di nazionalismo contro un altro nazionalismo, ma sono frutto di un’azione preordinata di elementi fascisti e neo-fascisti contro le organizzazioni democratiche.

E tanto è vero ciò che proprio ora ho ricevuto una mozione del Partito d’azione di Gorizia (e mi rivolgo ai signori dell’«Ora d’Italia» che questa mattina ci hanno tacciato di venduti allo straniero, nel qual caso sarebbero venduti allo straniero anche questi della mozione) che dice così:

«Il Comitato direttivo del Partito d’azione di Gorizia, constatati gli atti di inconsulta violenza susseguitisi in questi ultimi giorni in città e in provincia, quali l’assalto e la devastazione di sedi di partiti democratici, minacce e aggressioni a cittadini italiani e sloveni, lancio di bombe, devastazione e saccheggio di negozi, trattorie, librerie, incendio di libri e giornali sulla pubblica piazza, affissione di liste anonime di presunti criminali politici spingenti all’odio e alla violenza, dichiara che tali fatti non rappresentano l’espressione di genuini elementi della nostra provincia, ma sono da considerarsi opera di elementi provocatori tra i quali si annoverano molti ex squadristi, repubblichini e collaboratori del tedesco invasore, giunti in parte anche da altre zone, i quali hanno approfittato della esultanza dei cittadini per il ricongiungimento alla madre Patria per tornare alla luce e fare leva sull’esultanza patriottica del momento ai loro loschi fini».

Ecco il fondo politico dell’azione svolta da questi gruppi armati che hanno devastato, assaltato abitazioni, negozi, sedi di partiti democratici a Gorizia, Gradisca, Monfalcone, ecc., cioè in tutta la Provincia.

MARAZZA, Sottosegretario per l’interno. La Provincia non è quella.

PRATOLONGO. Lo so, deve essere ancora definita.

L’onorevole Sottosegretario pur deplorando questi fatti si è soffermato anzitutto non a porre in luce questo fondo politico fascista, reazionario dell’azione, ma ha richiamato al buon senso l’altra parte, quella colpita.

Ora, noi crediamo che se veramente il Governo vuole riportare in queste zone la tranquillità e la pace, vuole veramente difendere le libertà democratiche, difendere le libertà personali dei cittadini italiani e sloveni, e anzitutto dei cittadini sloveni, perché dobbiamo dimostrare proprio noi che vogliamo tutelare i diritti di questa minoranza, deve decisamente colpire i responsabili di questa azione, responsabili individuabili, dicevo prima, e potrei fornire una lista di coloro che hanno guidato le squadre all’assalto delle case, dei negozi e delle sedi democratiche.

Una voce. E le foibe?

PRATOLONGO. Ne citerò alcuni con le loro qualifiche politiche: Tomini, ufficiale delle brigate nere, comandante della G.I.L.; Bellini, qualunquista, ex fascista; Bresciano, ex milite forestale e della organizzazione Todt; Gigliotti, presidente del fronte anticomunista e comandante di una brigata della cosiddetta divisione «Gorizia»; Osbach, repubblichino; Stanta Mario, repubblichino; Corsini, colonnello di questa famosa divisione «Gorizia»; un certo Campanelli, colonnello della divisione «Gorizia»; De Nicolò, ex comandante del battaglione della morte della brigata nera; i fratelli Tarantino, ex repubblichini; i fratelli Monti; un certo Fantini, colui che ha assaltato la sede del Partito comunista a Gorizia con pistola in mano.

Questi sono coloro che in quei giorni hanno commesso i reati contro cittadini italiani e sloveni e contro costoro fino ad oggi non sono stati presi dei provvedimenti seri, cioè i provvedimenti che noi richiedevamo e che sono i provvedimenti attesi dai democratici di quelle zone: l’arresto e la punizione. Perché soltanto così il Governo darà fiducia alle popolazioni del goriziano, italiane e slovene, che veramente vuol fare rispettare anche in questa zona le libertà democratiche e repubblicane; solo così queste popolazioni avranno fiducia e saranno decisamente disposte a collaborare col Governo, con le autorità per riportare in queste zone la pace e la tranquillità. Ma, badate che se fatti del genere dovessero succedere ancora, per incuria delle autorità o del Governo, queste popolazioni sono decise a difendere le loro libertà democratiche, le loro organizzazioni democratiche e le loro persone. E allora questo non potrà che mantenere viva una situazione di guerra civile, di fatto, che non potrà essere utile né a quelle zone né al nostro Paese e tanto meno potrà rafforzare all’estero la considerazione verso la Repubblica italiana.

Io mi domando se costoro, facendo ciò che hanno fatto, non l’hanno fatto premeditatamente, o premeditato l’abbia chi all’ombra manovra queste forze reazionarie.

CONDORELLI. Dei 1400 internati sa qualche cosa lei? (Commenti).

PRATOLONGO. Si perpetua così uno stato di provocata tensione coi nostri vicini di frontiera, proprio mentre da parte del nostro Governo e da parte del Governo jugoslavo si cercano le vie migliori per l’amicizia e la collaborazione tra i due Paesi.

BENEDETTINI. Si preoccupano degli slavi, e degli italiani no!

PRATOLONGO. Onorevole Sottosegretario, lei ha iniziato dicendo che la risposta dell’onorevole De Gasperi ha svuotato di interesse la nostra interrogazione, perché, dal momento nel quale le autorità italiane sono entrate in possesso di quelle zone nessun grave avvenimento, nessun incidente si è più verificato. Credo di poter anche qui dimostrare che non è così, ed ho qui sotto gli occhi una serie di incidenti successi proprio il giorno 16 del mese corrente, iniziatisi al mattino alle otto e finiti alla sera verso le 18 o le 19. Anche qui assalti a case private…

RUSSO PEREZ. Italiane?

PRATOLONGO. …anche italiane. E per rispondere ai difensori dei fascisti…

BENEDETTINI. Non dei fascisti, ma degli italiani! (Commenti).

PRATOLONGO. …ho qui una lettera di un italiano che ha dovuto fuggire da lì solo perché comunista, al quale è stato imposto di abbandonare entro la notte la zona di Stracis…

PRESIDENTE. Passi al Governo codesti documenti, onorevole Pratolongo.

PRATOLONGO. Dice proprio così, questo italiano democratico, che ha combattuto contro i fascisti e i nazisti:

«Cara Aurora, ho potuto salvare quasi tutti i mobili, ma non ho più casa. Non ho pianto finora, ma mentre ti scrivo questo mi stringe il cuore e le lacrime mi scendono giù. Avrete letto pure che le autorità italiane sono entrate a Gorizia, prendendo possesso del nuovo confine; quello che non avete letto, però, è che i fascisti hanno dato battaglia contro i comunisti (è un italiano che scrive questo). Noi eravamo iscritti al partito comunista italiano; ma per i fascisti di Gorizia noi siamo tutti dei titini; è un facile e comodo gioco per giustificare tutti i loro atti e così hanno dato assalto alle case. A me avevano dato tre giorni di tempo per sgomberare».

Questi sono proprio i metodi usati dai fascisti! (Interruzioni degli onorevoli Condorelli e Russo Perez – Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Pratolongo, la prego di concludere. (Commenti).

PRATOLONGO. «Erano venuti lunedì sera questi provocatori fascisti e nazionalisti; erano venuti ad avvisarmi il signor Rossi e compagnia bella di Stracis. L’indomani una seconda squadra è venuta per rompermi tutto. Ho dovuto sgomberare entro le ore 8».

PRESIDENTE. Onorevole Protolongo, io le dico che deve osservare il Regolamento: non può leggere. I documenti li passi al Governo. Qui bisogna essere in regola con le norme.

PRATOLONGO. «Più che una partenza, è stata una fuga. Al Furlan hanno rotto quasi tutto, al Bregant pure, così pure il botteghino della Bentivoglio».

PRESIDENTE. Senta, onorevole Pratolongo: l’avverto ancora di non leggere. La prego di concludere.

PRATOLONGO. Concludo dichiarando che non posso assolutamente dirmi sodisfatto. Invito pertanto il Governo ad intervenire decisamente per stroncare l’attività di quelle squadre fasciste. (Applausi all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Bettiol ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BETTIOL. Onorevoli colleghi, io sono naturalmente sodisfatto della risposta del Governo in merito ai fatti che si sono verificati nei giorni del passaggio da un’amministrazione all’altra nella zona di Gorizia. Invito ad ogni modo il Governo a procedere con tutta energia nei confronti di quegli elementi fascisti repubblichini i quali, secondo alcuni, si troverebbero ancora sul posto per rendere poco sicura e instabile la situazione.

Debbo però protestare e protesto energicamente contro la confusione che si fa tra fascisti e italiani della zona (Approvazioni al centro e a destra), perché, badate bene, bisogna andare molto cauti prima di parlare di fascisti o di rinascita di fascismo nella zona testé ritornata sotto la nostra amministrazione. Badate bene che, fra tutti gli italiani, sono proprio i giuliani quelli che hanno sofferto di più le conseguenze della politica del fascismo. (Interruzioni a sinistra).

Vi sono molti, onorevoli colleghi, in quella zona che portano sulle loro carni i segni del dolore e della sofferenza. È perciò che bisogna procedere con grande cautela e bisogna soprattutto saper distinguere. Secondo quanto diceva già il vecchio Aristotile (Commenti) non bisogna seguire soltanto la logica degli opposti ma conoscere anche la logica dei distinti. (Interruzioni a sinistra).

Qualche giorno fa l’onorevole Nenni ha detto giustamente che il problema fascismo e antifascismo oggi, in Italia, è superato. (Interruzione dell’onorevole Silipo).

Bisogna tener presente che da che mondo è mondo, nelle zone di confine, il sentimento della propria nazionalità è più forte che mai, per cui di fronte ad un ipernazionalismo dei nostri vicini, è delittuoso qualificare come fascisti coloro che ancora credono al valore morale e politico della parola Italia. (Applausi al centro).

Rendo grazie al Sottosegretario di Stato per l’interno per aver precisato e circoscritto i fatti, e aver così sgonfiato tutta quella montatura che in questi ultimi giorni si è venuta artificiosamente creando su alcuni sporadici e modesti avvenimenti accaduti nel goriziano.

Noi oggi ci troviamo di fronte ad un pericoloso tentativo di speculazione, che può giovare soltanto allo straniero, contro i nostri fondamentali interessi di italiani. (Applausi a destra).

È da notare che in concreto coloro che hanno subito da parte degli italiani delle violenze sono stati purtroppo nella loro stragrande maggioranza degli italiani che avevano rinnegato la Patria. Perché soltanto pochissimi, uno o due sloveni, hanno subito delle violenze leggerissime: qualche ceffone, in quanto si trattava di elementi sul cui conto pesava qualche cosa di più del solo sospetto della delazione durante i tremendi quaranta giorni.

Io ho qui moltissimi documenti che potrei leggere, ma che trasmetterò al Governo, dai quali risulta come numerosi siano gli italiani che sono stati fatti oggetto di persecuzioni e di violenze in questi ultimi giorni, i quali sono ben più numerosi di quelli accennati dall’onorevole Sottosegretario. Posso anche accennare ai fatti di Staranzano, Monfalcone, Ronchi, e, per esempio a Ronchi, la reazione si spiega col fatto che qualche giorno prima era stata assalita la casa dove abitano 250 profughi istriani.

Posso accennare al fatto che a Terzo, a Belvedere, sono stati assaliti dei nostri partigiani, italiani, da elementi filo-jugoslavi; posso anche dire che a Ronchi è stata oltraggiata la nostra bandiera. Tutte documentazioni che possono mettere al corrente il Governo, se già il Governo non lo è per suo conto.

Quindi la realtà è che la situazione va guardata freddamente, senza assolutamente prestare il destro a pericolose speculazioni in un senso o in un altro.

Io so, e depreco altamente, che elementi facinorosi che il Governo dovrebbe colpire, hanno qualche settimana fa aggredito il nostro collega Pratolongo a Monfalcone. So che per l’occasione – e giustamente – la stampa nostra ha protestato indignata; però mi domando cosa mai abbiamo fatto noi, quale eco hanno avuto, nel Paese e in questa Assemblea, i fatti, per esempio, di Capodistria, dove il Vescovo di Trieste (Applausi a destra) è stato selvaggiamente aggredito da aspiranti fascisti, i fatti di Lanische, dove dei prelati sono stati aggrediti e massacrati, i fatti di Buie e i recenti fatti di Trieste dove italiani sono stati fatti oggetto di persecuzioni e violenze.

Ora, se noi protestiamo per le violenze che vengono commesse da una parte, dobbiamo protestare di fronte alle violenze che provengono dall’altra parte.

Per quanto riguarda la situazione di Gorizia, non bisogna dimenticare che su Gorizia grava oggi una pesante nube di dolore e di sofferenza. Come diceva l’onorevole Sottosegretario sono 1400 i deportati; vale a dire che non c’è famiglia goriziana che non abbia il suo deportato, sulla cui sorte noi poco sappiamo; o meglio, non so se corrisponde a verità quanto pochi giorni or sono il Giornale d’Italia ha riportato di una conferenza stampa tenuta a Roma in una Legazione straniera, dove si è detto che questi 1400 deportati devono considerarsi regolarmente soppressi in base a sentenze del Tribunale popolare. Io mi auguro, per l’onore della civiltà umana, che questo non sia vero, e mi permetto di indirizzarmi sinceramente all’onnipotente onorevole Togliatti, e lo invito, se vuole realmente che il suo nome possa essere cambiato in nome benedetto dai goriziani, ad interessarsi – come si è interessato per altri prigionieri – della sorte di questi deportati, visto che per le normali vie diplomatiche purtroppo noi nulla possiamo ottenere.

Amici cari, per essere obiettivi bisogna che io richiami l’attenzione anche sui diecimila slavi che sono rimasti entro le nostre frontiere.

Anche nei confronti di questa minoranza sarebbe follia seguire la politica fascista. Bisogna riconoscere i fondamentali diritti dell’uomo e del cittadino su piede di parità con l’elemento italiano, non già su piede di superiorità loro nei nostri confronti, come purtroppo si mostra di volere.

Bisogna però difendere i diritti delle minoranze nel quadro di leggi nazionali, non già demandando questi problemi a statuti locali, poiché sul posto le passioni sono arroventate e possono determinare momenti di crisi. Soprattutto non deve verificarsi più quello che si è verificato nei passati giorni a Roma quando una delegazione di sloveni goriziani è venuta a Roma (cittadini italiani, di nazionalità slovena) ed ha chiesto protezione ad una Legazione straniera. Questo significa intromissione di una Potenza straniera nei nostri affari interni, ciò che è inconcepibile in un momento in cui la pace è stata ratificata e l’Italia siede con parità di diritti assieme alle altre Nazioni.

Questo, in brevi parole, quello che volevo dire a proposito di questa interrogazione. Sia veramente il Governo più energico nello stroncare qualsiasi atto di violenza da qualsiasi parte esso provenga. Ma badate bene (questa è la realtà), purtroppo mai è stata tanto vera la vecchia favola di Fedro: «superior stabat lupus, inferior agnus»! (Commenti a sinistra).

E per quei colleghi che non sapessero il latino prego il mio illustre collega il professor Concetto Marchesi, che è il più illustre latinista vivente, di voler tradurre ciò che si asconde sotto il velame di questo verso affatto strano. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Pecorari ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PECORARI. La mia interrogazione ha ottenuto un effetto; e l’Aula ha inteso il numero dei feriti accolti nell’ospedale di Gorizia. Io miravo a precisare l’entità degli incidenti che sono avvenuti in quella zona, ma miravo anche – come indirettamente è apparso dalla risposta dell’onorevole Sottosegretario – a dimostrare che gli eccessi di violenza non sono venuti da una sola parte, ma dalle due diverse parti. E in questo mi posso associare all’onorevole Pratolongo, biasimando tutti i provocatori nazionalisti.

Tenevo a sottolineare che gli incidenti, non sono sorti nel Goriziano, ma sono stati precorsi dagli incidenti avvenuti in Istria, dove ci sono stati due morti e una numerosa serie di feriti; e gli incidenti prima avvenuti a Ronchi, come ha accennato l’amico onorevole Bettiol, sono intervenuti dopo che degli squadristi veri e propri venuti da Terzo hanno assalito la Casa degli esuli giuliani e hanno insultato nella maniera più oscena il tricolore italiano. L’onorevole Togliatti aveva accennato agli incidenti di Vilesse.

Anche lì questi incidenti sono sorti dopo una comune rissa in una osteria, rissa che ha causato qualche rottura di vetri. Il segretario del Partito comunista del luogo si è presentato spontaneamente e, con meraviglia, ha pagato all’oste i danni dei vetri rotti. Mi sembra che questo dimostri nel modo più evidente e convincente di chi sia la responsabilità degli incidenti; e così si possono spiegare, se anche non giustificare, le reazioni che sono intervenute in seguito.

PRATOLONGO. Chi ha lanciato la bomba?

PECORARI. Non posso indicare da chi sia stata lanciata la bomba. Del resto lei lo sa con certezza? (Commenti).

Mi premeva ancora di sottolineare che i 1400 deportati non sono tutti deportati da Gorizia, ma ve ne sono 400 da Trieste ed altri da Pola; e di tutti continuiamo a ignorare la sorte. Ed è commovente – come è successo a me ieri e domenica scorsa – sentire le donne, le madri, le mogli e le figlie che domandano semplicemente di conoscere cos’è avvenuto di questi loro cari. Non domandano la restituzione, ma vogliono sapere se sono vivi o morti; sapere dove si trovano: lo desidererebbero per dar loro qualche aiuto; e nulla hanno potuto ottenere.

Hanno anche spedito pacchi che non sono arrivati a destinazione. Ora questa è domanda ben naturale ed umana. Difatti nelle dimostrazioni di Gorizia, la folla tumultuante era in gran parte composta di donne; ed è per questo che gli incidenti non sono diventati molto cruenti; e quei pochi incidenti cruenti con armi da fuoco – badi, onorevole Pratolongo – sono derivati sia da italiani che da slavi. Quindi le armi erano da ambe le parti.

Questi incidenti erano isolati ed erano avvenuti alla periferia, fuori delle dimostrazioni di piazza. Ora questo dimostra, sì, che la tensione esiste sul posto, ma che vi è anche una provocazione dall’altra parte e che occorre andare incontro a questa situazione cercando di calmare gli animi. Il Partito comunista non si presta a questo scopo, perché proprio in questa zona si è sostituito in tutte le sedi dell’U.A.I.S. che sono diventate sedi del Partito comunista.

TOGLIATTI. Che c’è di male?

PECORARI. Se la gente ha invaso queste sedi, è perché sapevano – e ne hanno avuto conferma – che in esse erano esposti ritratti di Tito col tricolore jugoslavo stellato. Queste bandiere sono state portate in piazza ed incendiate.

TOGLIATTI. Questo non giustifica la violenza.

PECORARI. Io non giustifico, ma biasimo la reazione. Voglio solo giustificare, con l’intento leale di portare la distensione degli animi, che la colpa non è tutta da una parte; ci sono ragioni molto forti e sentite, che non possiamo disconoscere, anche dall’altra parte.

Termino invitando il Governo ad intervenire in questi eccessi commessi da una parte e dall’altra.

Nessuno ha citato gli incidenti di Cormons – città dal nome latino – dove dominano squadre col fazzoletto rosso; non voglio dire di che tendenza siano; all’ingresso delle truppe italiane alcuni cittadini, che gridavano «Viva l’Italia», sono stati bastonati e minacciati, sicché non hanno avuto neppure il coraggio di fare la denunzia; io i nomi li ho potuti raccogliere lo stesso.

TOGLIATTI. Credo che cantassero «Giovinezza».

PECORARI. Quindi, è necessario l’intervento sia in un campo che nell’altro; bisogna perseguire coloro che hanno commesso delle colpe e ricercare le cause che hanno portato a questi eccessi, e colpire inesorabilmente, ma con serena giustizia. È l’unico mezzo per portare in questa tormentata regione d’Italia la pace e la tranquillità, auspicata dall’onorevole Pratolongo. (Applausi al centro – Commenti).

MARAZZA, Sotto segretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. All’onorevole Pratolongo desidero dare assicurazione che il Governo non si accontenta di parole, ma cerca di porre in atto tutti i mezzi necessari a raggiungere il fine che si propone; ed il fine che si propone credo di averlo enunciato a chiare note poco fa.

Il Governo ha potenziato notevolmente le forze di polizia e l’autorità giudiziaria; alle une ed all’altra ha imposto l’esercizio accurato e più diligente dei propri doveri.

L’onorevole Pratolongo ha letto un lungo elenco di nomi. Se qualcuno avesse presentato questo stesso elenco alla polizia o all’autorità giudiziaria (Commenti a sinistra) di Gorizia, io avrei il piacere di annunziare che contro tutti costoro è stato aperto procedimento.

PRATOLONGO. L’onorevole Pellegrini ha letto questo elenco proprio al viceprefetto.

MARAZZA. Sottosegretario di Stato per l’interno. Io non lo so; posso dire soltanto che se questo elenco è stato comunicato all’autorità di pubblica sicurezza o a quella giudiziaria, contro tutti costoro, secondo le precise istruzioni del Governo, è certamente stata iniziata istruttoria.

Comunque, quello che non è stato fatto, sarà fatto.

L’onorevole Pratolongo passi al Governo l’elenco che ha letto, ed il Governo vedrà di sostituirsi, nella sua diligenza, a quella della cosiddetta parte lesa.

Quello che deve essere però ben chiaro e ben preciso nella mente di tutti è che giustizia deve asser fatta, ma per le vie legali; contro ogni tentativo che fosse fatto per evadere da queste vie, si troverà il Governo preparato ad opporsi nel modo più assoluto e rigoroso. Questo per i cittadini e di lingua italiana e di lingua slovena, a qualsiasi partito appartengano.

A conforto poi dello stesso onorevole Pratolongo, io desidero leggere un periodo di un documento della federazione Partito comunista di Gorizia: «Va rilevato che con la consegna di queste terre alle autorità italiane la situazione è migliorata sensibilmente, sebbene le condizioni anormali non siano del tutto cessate con la desiderata rapidità». Poi il documento continua dicendo che ciò va ascritto al fatto che le forze di polizia inviate si sono rivelate in un primo tempo insufficienti e dovranno essere potenziate. È un documento che mi è stato consegnato a Gorizia, dove ho avuto contatti con i membri di ogni partito. (Commenti al centro e a destra). Gli amici di tutti gli altri partiti, riuniti nel Comitato di liberazione (non so perché il Partito comunista non vi faccia parte, a Gorizia), mi hanno dato un altro memoriale nel quale – posso assicurare l’onorevole Pratolongo – i fatti sono esattamente narrati come li ho narrati io.

Non ho altro da dire all’onorevole Pratolongo. Desidero però dire una parola ancora all’onorevole Pecorari. Debbo dirgli precisamente questo: che le famiglie di questi 1400 internati non sono sodisfatte di semplici notizie.

PECORARI. Per il momento, sì!

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Né per il momento, né per poi. Vorrei anzi dire che una voce sola si è levata da tutta questa folla che mi ha circondato, in una riunione che ha avuto del drammatico, quanto non avrei potuto pensare. Una voce sola che ha detto: restituiteci i nostri cari! Io ho parlato di questo con i rappresentanti degli sloveni venuti a trovarmi. Ho detto a costoro le parole stesse che l’onorevole Pecorari rivolgeva poco fa all’onorevole Togliatti. Ho detto: rendetevi benemeriti di questa pacificazione degli italiani delle due lingue, facendovi difensori della restituzione di questi internati. (Commenti). Mi è stato anche promesso che questo sarebbe stato fatto. Voglio pensare che questa promessa, fatta in modo che mi ha perfettamente convinto della sua lealtà, non sia un’ultima illusione ed un ultimo inganno. Voglio sperarlo e voglio crederlo, quantunque, l’accenno fatto dall’onorevole Bettiol a quella cronaca di una conferenza stampa che sarebbe stata tenuta qui a Roma, mi induce oggi ad un maggior pessimismo. Lo stesso invito ho rivolto ai colleghi del Partito comunista. Anche da parte loro ho avuto questa promessa. Però io ho dato soprattutto l’assicurazione che il Governo avrebbe fatto di tutto perché si potessero avere notizie di costoro, perché si potesse ottenerne la riconsegna. Non so se si sappia qui chi sono questi internati; essi appartengono a tutte le categorie sociali. È stato internato, ad esempio, tutto il personale dell’ufficio anagrafe del Comune. Io non voglio immaginarne le ragioni, ma a Gorizia, evidentemente, tutti ne parlano. Sono stati internati indubbiamente dei fascisti; ma non so se altri, fuorché gli italiani, abbiano il diritto di punire i fascisti. Sono stati internati accanto a costoro professionisti di ogni parte politica, commercianti, ecc.; sono internati perfino due membri del Comitato di liberazione. Pensate come questa piaga sia dolorosa per quelle popolazioni.

CONDORELLI. È sanguinante per tutti gli italiani.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Pensate se il cuore italiano possa rimanere insensibile allo strazio di quella gente. Per questo non è un appello di parte che viene in questo momento dal mio cuore; è una voce umana che si rivolge agli uomini e che chiede agli uomini la solidarietà nel dolore. (ApplausiCommenti).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sansone, al Ministro dell’interno, «per conoscere l’esito dell’inchiesta ed i provvedimenti relativi – se emessi – a seguito dell’azione svolta il 28 maggio scorso dai carabinieri di Quarto di Marano (Napoli) e per la quale numerose case di inscritti al Partito socialista italiano furono perquisite senza ordine o mandato delle autorità competenti con lo specioso pretesto che vi erano depositate armi, determinando così un legittimo risentimento nelle popolazioni».

Non essendo presente l’interrogante, si intende decaduta.

Segue l’interrogazione degli onorevoli De Michelis e Giua, ai Ministri dell’interno, dell’agricoltura e foreste e delle finanze, «per sapere se e quali provvedimenti intendano adottare a favore delle popolazioni agricole piemontesi per i danni da queste subiti a causa delle recenti grandinate che in talune zone, particolarmente colpite, hanno distrutto sino all’80 per cento del raccolto, come in alcuni comuni dell’Agro alessandrino e in quello di Leinì (provincia di Torino)».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Per incarico del Ministro delle finanze, rispondo alla interrogazione degli onorevoli De Michelis e Giua.

In relazione alla richiesta di agevolazioni tributarie fatta dagli onorevoli interroganti a favore delle popolazioni agricole di alcuni comuni dell’Agro alessandrino e di quello di Leinì in provincia di Torino, danneggiati da una recente grandinata, osservo, per quanto rientra nella competenza del Ministero delle finanze, che in base all’articolo 47 del regio decreto 8 ottobre 1931, n. 1572, che approva il testo unico delle leggi sul nuovo catasto dei terreni, nei casi in cui per parziali infortuni non contemplati nella formazione dell’estimo venissero a mancare i due terzi almeno del prodotto ordinario del fondo, l’amministrazione può concedere una moderazione dell’imposta erariale sui terreni nonché dell’imposta sui redditi agrari dietro presentazione, da parte dei possessori danneggiati, alla competente Intendenza di finanza, entro trenta giorni dall’accaduto infortunio, di appropriata documentazione, con l’indicazione per ciascuna particella catastale della quantità e qualità dei frutti perduti e dell’ammontare del loro valore.

I danni provenienti da infortuni atmosferici, come la grandine, la siccità, le gelate e simili vengono tenuti presenti nella formazione delle tariffe d’estimo e perciò di regola non possono dar luogo alla moderazione di imposta di cui al citato articolo 47 del testo unico 1572. Comunque, sono state interessate le Intendenze di finanza di Torino e di Alessandria affinché riferiscano circa l’entità dei danni arrecati dalle recenti grandinate nel territorio di quelle province.

L’Intendenza di finanza di Torino, con nota del 18 corrente, ha riferito che i comuni maggiormente colpiti in quella provincia dalle recenti grandinate sono quelli di Borgaro, Caluso, Caselle, Laino, Mazzé, San Benigno e Volpiano. I danni arrecati, secondo il competente Ufficio tecnico erariale, possono considerarsi per la loro gravità come non previsti nella formazione delle tariffe d’estimo e pertanto ai contribuenti dei comuni in parola potrà essere accordata singolarmente, previa presentazione di apposita domanda alla competente Intendenza di finanza, per il corrente anno, una moderazione dell’imposta fondiaria in proporzione del prodotto perduto e sempre che i danni stessi raggiungano il minimo dei due terzi del prodotto ordinario del fondo, ai sensi dell’articolo 47 del predetto testo unico delle leggi sul nuovo catasto, Nella stessa misura proporzionale dell’imposta sui terreni potrà essere concessa una moderazione dell’imposta sui redditi agrari. Per quanto riguarda le sovrimposte comunali e provinciali è in facoltà degli enti interessati concedere un corrispondente abbuono delle sovrimposte stesse, ai sensi del l’articolo 260 del testo unico 14 settembre 1931, n. 1175, per la finanza locale.

Sono già state impartite disposizioni all’Intendenza di finanza di Torino perché provveda sollecitamente in conformità.

Nei comuni, invece, di Brandizzo, Foglizzo, Lombardore e Settimo, secondo quando hanno riferito le predette Intendenze, poiché i danni sono risultati limitati, è da ritenersi che i medesimi rientrino tra quelli già previsti dalla formazione delle tariffe d’estimo e perciò manca la possibilità di accordare una moderazione dell’imposta fondiaria, ai sensi dell’articolo 47 del testo unico più volte citato.

In favore dei comuni di Frassinelle-Olivola, come per diversi comuni della provincia di Alessandria, dove si sono manifestate le grandinate del 6 e del 22 giugno, non è stato possibile adottare alcuna moderazione dell’imposta fondiaria e dell’imposta sui redditi agrari, in considerazione del fatto che tali danni rientrano tra quelli dei quali venne già tenuto conto a suo tempo per la formazione delle tariffe d’estimo, mediante apposita detrazione, giusta quanto ha riferito l’Ufficio tecnico erariale di Alessandria nella sua relazione n. 6518 del 17 luglio 1947.

Ove, però, in dipendenza di detti infortuni si sia verificato un cambiamento di culture che importi un minor reddito imponibile, i contribuenti danneggiati possono produrre, nei modi e termini di legge, domanda di revisione, come è stato comunicato all’Intendenza di finanza di Alessandria con nota del 18 agosto 1947, n. 62061, perché ne informi i sindaci dei comuni interessati.

PRESIDENTE. L’onorevole De Michelis ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MICHELIS. Più che dirmi sodisfatto, io prendo atto delle disposizioni emanate dal Ministro delle finanze nonché di quelle norme che sono state citate e che i contadini di quelle zone potranno invocare, perché il Governo abbia, comunque, a cuore questa benemerita classe di agricoltori.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Noce Teresa, Bitossi, Roveda e Pajetta Giuliano, ai Ministri dell’interno e del lavoro e previdenza sociale, «per sapere se sono al corrente degli interventi sempre più frequenti da parte delle forze di polizia nei conflitti del lavoro con minacce di arresto alle commissioni interne, come ad esempio nelle lanerie di San Martino, e del caso del prefetto di Como, il quale ha fatto intervenire la forza pubblica in un pacifico e legale conflitto di lavoro fra gli operai dello stabilimento Vergari di Contri e il signor proprietario Cattaneo, facendo piantonare dalle forze di polizia l’accesso allo stabilimento illegalmente serrato dal proprietario in risposta ad una legale sospensione del lavoro.

E per sapere se tali interventi avvengono per spontanea iniziativa o dietro disposizioni del Ministero dell’interno».

Questa interrogazione è superata dai provvedimenti che il Governo ha emanato; gli onorevoli interroganti vi hanno pertanto rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Riccio Stefano, ai Ministri dell’interno e della marina mercantile, «per conoscere quali provvedimenti sono stati presi in rapporto all’arbitrario atto del sindaco di Pozzuoli, il quale emetteva una illegittima ordinanza di sospensione dei lavori di allargamento di una Chiesa, prendendo a pretesto l’occupazione di pochi metri di banchina, e si ribellava apertamente ad una decisione del prefetto di Napoli».

Questa interrogazione è rinviata per l’assenza del Ministro della marina mercantile, il quale ha fatto sapere che risponderà in altra seduta.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Colitto e Caso, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere le ragioni per le quali non si dà ancora pratica esecuzione agli impegni solenni assunti dal Governo, anche davanti all’Assemblea Costituente, relativamente alla ricostruzione ed al potenziamento dell’organo politico (Sottosegretariato od Alto Commissariato), che dovrà occuparsi – eliminando una situazione di penosa incertezza – del riordinamento dei servizi riguardanti i danni di guerra e della emanazione della legge organica, che da due anni i sinistrati ed i danneggiati reclamano ed attendono».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. La questione dell’istituzione di un Sottosegretariato o di un Alto Commissariato per i danni di guerra non può essere considerata come un provvedimento a sé stante, di carattere formale, prescindendosi da quelli sostanziali che involge il problema del risarcimento.

Come è noto, il Governo ha disposto uno studio organico di tutta la materia per la preparazione di un testo legislativo che fissi i criteri di massima per i risarcimenti, che stabilisca una congrua procedura per l’accertamento e la liquidazione ed elimini o riduca, o comunque coordini, l’intervento delle varie amministrazioni dello Stato: Tesoro, Interni, Lavori pubblici, Agricoltura, ecc., nell’adozione di provvedimenti diretti a fini comuni; riordini e snellisca gli uffici destinati al cennato servizio.

Con questi aspetti giuridico-amministrativi del problema, la cui disciplina conclusiva non è da prevedersi lontana, dovrà collegarsi quello finanziario che esige ovviamente, nel quadro attuale e futuro delle possibilità di bilancio, un esame per le ripercussioni che indubbiamente si verificano nell’importo delle pubbliche spese.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COLITTO. Prendo atto della dichiarazione dell’onorevole Sottosegretario e, interpretando il pensiero di milioni di italiani, i quali da anni attendono l’emanazione della legge e la costituzione dell’organo che la deve applicare, formulo l’augurio che presto la legge sia emanata e sia, insieme con essa, costituito l’organo, che dovrà disciplinarne l’applicazione.

PRESIDENTE. Sono state ritirate le seguenti interrogazioni degli onorevoli:

Corbi, al Ministro dell’interno, «per sapere se risponde a verità che la Direzione generale dell’A.P.B. abbia destinato la somma di lire 25 milioni alla città di Pescara per la costituzione di colonie estive assistenziali; e se sia vero che l’amministrazione di detta somma, per disposizione ministeriale, sia stata affidata al Centro italiano femminile con esclusione di ogni altra organizzazione assistenziale esistente nella provincia di Pescara»;

Merlin Angelina, al Ministro dell’interno, «sugli incidenti di Palermo del giorno 11 luglio, nel corso dei quali la polizia ha aggredito donne inermi che protestavano contro il vertiginoso rincaro dei prezzi e contro il mancato intervento delle autorità regionali»;

Priolo, al Ministro dell’interno, «per conoscere perché non si è ancora provveduto ad indire, a norma dell’articolo 280 del testo unico 4 febbraio 1945, n. 148, della legge comunale, le elezioni suppletive nel comune di Cariati (provincia di Cosenza), dove il Consiglio comunale ha perduto da circa un anno più di un terzo dei suoi membri»;

Gallico Spano Nadia, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per conoscere le circostanze ed i motivi che hanno determinato l’indegno atteggiamento delle forze di polizia di Palermo, che non hanno esitato a caricare un pacifico corteo di donne e di fanciulli, che ordinatamente chiedeva il tesseramento differenziato e la distribuzione di viveri. L’interrogante chiede quali provvedimenti si intendano adottare sia a carico dei responsabili dell’inumana azione di polizia di Palermo sia per tutelare le manifestazioni democratiche, oggi nemmeno più difese dalla presenza di innocenti fanciulli e dall’elementare rispetto dovuto alle donne».

Segue l’interrogazione dell’onorevole Caso, ai Ministri dell’interno e del tesoro, «per conoscere se, in considerazione della particolare crisi economica che attraversa il nostro Paese e per premiare le benemerenze di guerra e di pace contratte dai vigili del fuoco, non ritengano di rimandare il licenziamento di mille unità, per lo meno fino al 31 dicembre 1947, onde dare tempo di altrimenti occupare i licenziandi. L’interrogante, che si occupa del problema da circa otto mesi, auspica il proposto decentramento del servizio antincendio, specie nei capoluoghi di zone boschive, che ogni anno, per incendi spontanei, colposi o dolosi, sono sottoposte ad ingenti perdite proprio perché non vi è la tempestività dell’intervento del servizio contro gli incendi. L’interrogante, pur preoccupato dell’ingente onere finanziario per lo Stato, pensa che vi si possa far fronte con l’aumentare il contributo capitario dei comuni e delle società di assicurazione, per potenziare così un servizio civile e sociale che, in nome del progresso, si rende ogni giorno di più indilazionabile».

Non essendo presente l’onorevole Caso, si intende che vi abbia rinunciato.

È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni all’ordine del giorno.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza alcune interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

La prima è quella dell’onorevole Dugoni:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritenga opportuno – dopo la cessazione degli aiuti U.N.R.R.A. – di sopprimere la Delegazione italiana presso l’U.N.R.R.A., il cui funzionamento comporta una spesa di oltre cinquecentomila lire giornaliere, affidandone le residue mansioni a un modesto ufficio di liquidazione».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si riserva di far conoscere quando intenda rispondere.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti altre interrogazioni:

«Al Ministro dei trasporti, per conoscere in base a quali disposizioni siano stati concessi dei carri ferroviari da parte del Compartimento di Napoli agli organizzatori di un comizio monarchico in Avellino nella giornata del 28 settembre.

«Tali carri sono stati messi a disposizione dell’onorevole Covelli, Segretario generale del Partito nazionale monarchico, per far affluire, anche con detti mezzi, elementi affiliati a quella organizzazione, prelevandoli dai comuni afferenti alle linee ferroviarie Taurasi-Avellino e Rocchetta Sant’Antonio-Avellino.

«Si compiaccia il Ministro comunicare quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili.

«De Mercurio, Sullo».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili dei gravi fatti verificatisi in Avellino il 28 settembre in occasione di un comizio monarchico tenuto dall’onorevole Covelli, con l’autorizzazione del Ministro dell’interno.

«Va rilevata la insufficienza del servizio di ordine pubblico in quanto i preposti hanno minacciato inermi cittadini ed elementi antimonarchici, i quali sono stati fatti segno alle provocazioni di teppisti prezzolati nella malavita di provincie limitrofe ed affluiti nel capoluogo.

«Tale insufficienza ha portato come conseguenza gravi lesioni, anche da arma da taglio, ed altre lesioni meno gravi, nei confronti di cittadini non partecipanti al comizio.

«Non risulta che le autorità locali, benché invitate ad una più energica azione contro i responsabili diretti e indiretti degli incidenti, abbiano svolto una positiva attività, non avendo proceduto neppure all’arresto dei colpevoli e alla diffida degli organizzatori del raduno.

«De Mercurio».

«Al Ministro dell’interno, sui disordini che si sono verificati in Avellino domenica scorsa.

«Rubilli».

«Al Ministro dell’interno, sugli incidenti di Avellino del 28 settembre 1947.

«Sullo».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Chiedo quarantotto ore di tempo per fare una comunicazione all’Assemblea per ciò che concerne l’interrogazione diretta al Ministro dei trasporti.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Cevolotto, Cianca e Lussu, hanno presentato la seguente altra interrogazione:

«Al Ministro dei trasporti, per conoscere in base a quali ragioni è stata concessa la carta gratuita di libera circolazione di prima classe sulla intera rete ferroviaria dello Stato al signor Giovanni Host Venturi, ex Ministro del regime fascista».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

JERVOLINO, Sottosegretario di Stato per i trasporti. Anche per questa interrogazione, io chiedo quarantotto ore di tempo.

PRESIDENTE. Comunico, infine, la seguente interrogazione dell’onorevole Riccio:

«Al Ministro del tesoro, per conoscere se intenda concedere l’adeguamento carovita, a norma dell’articolo 14 del decreto legislativo presidenziale, a Gragnano, ai comuni della penisola sorrentina, delle isole di Capri e di Ischia, trattandosi dei paesi della provincia di Napoli in cui più costa la vita e che più son legati economicamente al capoluogo, superando una interpretazione restrittiva della espressione: «via ordinaria»; o se comunque intenda procedere ad una modifica della disposizione».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Governo risponderà nella prima seduta dedicata alle interrogazioni.

MAZZA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZA. Ho presentato, giorni addietro, una interrogazione sullo stesso argomento di quella testé letta. Chiedo che le due interrogazioni siano poste all’ordine del giorno della stessa seduta.

PRESIDENTE. Le assicuro che così sarà fatto.

Presidenza del Presidente TERRACINI

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro della giustizia mi ha manifestato il desiderio di fare qualche proposta in ordine ai lavori dell’Assemblea. Ha facoltà di parlare.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo all’Assemblea di volere tener conto, per i lavori della prossima settimana, del desiderio del Governo, che penso sia anche vostro, di completare la discussione sulle mozioni di sfiducia. Dedicandosi parte dei lavori alla discussione sul progetto di Costituzione e parte a quella sulle mozioni, si finirebbe per perdere di vista il compito principale che ha in questo momento l’Assemblea, che è quello di pronunziarsi sulle mozioni presentate.

D’altra parte io penso che, proseguendosi in entrambe le discussioni, si perda quella serenità d’animo che occorre avere per risolvere problemi importanti e gravi quali sono quelli inerenti alla formazione degli organi sovrani dello Stato, oggetto del presente esame. Per queste considerazioni il Governo sarebbe del parere di proseguire fino ad esaurimento la discussione sulle mozioni, tanto nelle sedute antimeridiane che in quelle pomeridiane.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, rammento che l’orientamento generale di dedicare una seduta alla continuazione della discussione sulle mozioni e l’altra al proseguimento di quella sulla Costituzione era stato correlativo ad una analoga opinione espressa dal Presidente del Consiglio; soprattutto per aderire a questa preferenza espressa, l’Assemblea si era orientata in quel senso.

Se in questo momento, esaminato il problema nei suoi termini generali, il Governo ritiene opportuno che sia dato carattere di continuità alla discussione sulle mozioni, la Presidenza, salvo ai colleghi di esporre le proprie eventuali obiezioni, non ha nulla da opporre ed è pronta ad aderire al desiderio del Governo stesso. (Segni di consenso).

Ritengo, quindi, che le sedute di domani possano essere ambedue dedicate alla discussione sulle mozioni. Il criterio così adottato ci permette di sperare che la discussione abbia un ritmo più veloce, tale da farci giungere nella settimana stessa a quel voto che il Governo e l’Assemblea insieme desiderano.

(Così rimane stabilito).

VERNOCCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI. Credo che questa sera si possa stabilire solo l’ordine del giorno delle sedute di domani. Io ritengo che, essendo in questo momento l’Aula quasi vuota, non si possa prendere un impegno che vada oltre le sedute di domani, salvo riproporre la questione domani stesso.

PRESIDENTE. È ovvio ciò che lei chiede. Tenga presente che l’Assemblea può deliberare ogni giorno sull’ordine del giorno della seduta successiva. La deliberazione odierna s’intende dunque valida per domani. Domani si potranno fare altre proposte.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intende adottare per riparare e reprimere l’arbitrio del prefetto di Potenza, il quale, in manifesto e cosciente contrasto coi principî della volontà popolare, sospendeva, sotto lo specioso pretesto di turbamento o minaccia all’ordine pubblico, il signor Elio Altamura dalla carica di sindaco del comune di Rapolla; e se non intenda accertare che il provvedimento sia connesso a favori sollecitati dallo stesso prefetto a benefizio di un grosso agrario del Comune, la qual circostanza, denunciata mediante la stampa, non è stata né smentita, né giudiziariamente contestata.

«De Filpo, Gullo Fausto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per conoscere come sia stato possibile iniziare istruttoria penale contro il sindaco di Tagliacozzo e rinviarlo a giudizio per fatti compiuti nella sua qualità di sindaco, senza che venisse chiesta la necessaria autorizzazione a procedere contro di lui; e come sia stato possibile che il prefetto dell’Aquila abbia ritenuto, in queste condizioni, di dover sospendere il sindaco dalle sue funzioni.

«Lami Starnuti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quale fondamento di verità abbiano le voci che circolano intorno alla gestione del Casinò di San Remo, e specificatamente se sia vero che quel Comune, con tre successive deliberazioni, opportunamente preordinate, abbia concesso la gestione del detto Casinò a tre diversi gruppi finanziari, attualmente in causa fra di loro e con lo stesso Comune, il quale, pertanto, sarebbe esposto a notevoli danni, conseguenza ineluttabile della complessa situazione giudiziaria che si è venuta a creare. Nel caso affermativo, se non ritenga opportuno soprassedere, anche per evidenti ragioni di sana amministrazione, dal ratificare l’ultimo contratto di concessione stipulato dal Comune, disponendo senz’altro la chiusura del Casinò, o quanto meno, se non creda di disporre una rigorosa inchiesta su tutta la situazione e sui fatti ed atti che l’hanno determinata, adottando nel frattempo i provvedimenti cautelativi del caso, allo scopo principalmente di evitare che la deplorata attuale situazione sfoci, come sarebbe assai probabile, in uno scandalo di vasta proporzione.

«Marinaro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda opportuno revocare l’articolo 3 del decreto legislativo 28 giugno 1947, n. 757, nel quale è disposto l’aumento del 100 per cento di tutte le tasse, sopratasse e contributi scolastici stabiliti per le Università e gli Istituti di istruzione superiore: aumento che danneggia gravemente gli studenti poveri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Abozzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non creda opportuno e giusto provvedere ad un equo aumento della indennità speciale, di cui all’articolo 48 della legge sullo stato degli ufficiali, concessa agli ufficiali della riserva (1940).

«Tale indennità valeva a limitare il disagio economico che colpiva gli ufficiali costretti – in applicazione della legge di avanzamento – a lasciare il servizio in età ancor giovine; oggi è del tutto inadeguata alla situazione economica nazionale, specialmente nei riguardi degli ufficiali dell’esercito in trattamento di quiescenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Abozzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se non creda opportuno, nell’applicazione dell’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio, stabilire che, per le piccole proprietà edilizie, possedute non per scopi speculativi, ma prevalentemente per abitazione del proprietario, quando si tratta di fabbricati che non furono mai trasmessi dal 1927 per titolo oneroso e nel triennio 1937-39 non ebbero mai per quota di spettanza a ogni singolo contribuente un valore di mercato superiore a lire 750 mila, l’accertamento venga fatto esclusivamente per detto valore, senza aumento per coefficiente di rivalutazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga opportuno provvedere affinché i funzionari trasferiti vengano rimborsati al più presto delle spese sostenute per il trasferimento e della indennità di prima sistemazione. Si fa rilevare al riguardo che in alcuni casi tale rimborso è dovuto per spese sostenute oltre due anni or sono. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga utile venire incontro ai medi e piccoli proprietari, tuttora creditori dello Stato per i danni di guerra subiti e non pagati, che dello Stato siano contemporaneamente debitori per l’imposta sul patrimonio.

«Si rileva che molti di questi proprietari sono nella tragica situazione di dover vendere il poco rimasto della un giorno fruttifera proprietà per pagare l’imposta, quando sono creditori nei confronti dello Stato di somme ingenti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se non ritenga opportuno intervenire in favore dei pescatori siciliani di Marettino, Mazara del Vallo, Marsala, Gela, e delle altre cittadine marinare dell’Isola, che si recano in prossimità delle acque territoriali francesi tunisine per esercitarvi la pesca e che sono oggetto di soprusi continuati da parte dei mezzi della marina francese, che in molti casi sequestrano le barche ed i motopescherecci, catturandone gli equipaggi.

«Sarebbe augurabile un accordo con la Potenza protettrice diretto a consentire ai nostri pescatori l’esercizio della pesca nelle acque territoriali tunisine, soprattutto perché nelle coste del beylicato non esiste attrezzatura peschereccia cui potremmo recare concorrenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere se intenda adottare provvedimenti concreti riflettenti l’assistenza continuativa ai ciechi, assistenza richiesta e illustrata dall’Unione italiana ciechi e rispondente ad un alto dovere di solidarietà umana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Salerno».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 18.55.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito dello svolgimento delle mozioni degli onorevoli Nenni, Togliatti e Canevari.